Lyceum n. 44 – Dicembre 2012 Editoriale Costruiamo il futuro, occupandoci del presente È necessario lavorare nella Scuola con passione e professionalità, anche quando la fatica supera di molto la gratificazione e tutto il contesto sembra remare contro. U n altro anno è cominciato, un anno apparentemente uguale agli altri, ma tanto diverso rispetto ai precedenti. È la prima volta, dopo ventotto anni, che il primo settembre nel Collegio del “Tito Lucrezio Caro” non c’è ai nastri di partenza la Prof.ssa Patrizia Trapanese. Con questo riferimento non intendo fare alcun torto ai tanti cari e validi colleghi che quest’anno e negli anni precedenti sono andati in pensione, ma attraverso Lei intendo rivolgere un grazie proprio a tutti, per gli anni trascorsi in questa nostra scuola, per il contributo professionale ed umano messo al servizio dei nostri giovani. Spesso, in questi anni, mi è capitato di incontrare ex alunni che sono venuti a scuola semplicemente a salutarla. Una professoressa, una donna, una figura che ha formato diverse generazioni di giovani, con l’impegno, la passione ed una visione alta di Scuola. Tra i valori che Lei, come tanti altri, hanno cercato di promuovere con costanza ed impegno c’è soprattutto quello della legalità. Purtroppo, anche di Lyceum Dicembre 2012 3 4 recente, la cronaca ci ha rivelato diffusi fenomeni di malversazione e di corruzione. La legalità non la si combatte con grandi manifestazioni, ma con la pratica quotidiana, che nella vita scolastica vuol dire rispetto delle regole da parte di tutti! Un saluto ed un ringraziamento anche agli altri pensionati di quest’ultimo anno: i proff. Giuseppe Crescenzo, Domenico Cioffi, Celeste Miranda ed i Sigg. Maria Longobardi e Aniello Sirica. Come è ormai abitudine consolidata, in questa occasione, mi rivolgo a coloro che hanno terminato il corso di studi con il massimo dei voti: Sez. Classico: Maria Alvino (con lode), Maria Concetta Caldieri, Annagioia Carbone, Annalisa Rosa Carbone (con lode), Anna Casalino, Raffaella Celentano, Autilia D’Avino, Maria Del Sorbo (con lode), Oriana Mancusi, Elisa Miranda, Miriam Pappacena, Immacolata Ruggiero (con lode), Debora Tommaseo e Ersilia Zuottolo. Sez. Brocca: Giusy Ambrosio, Severino Ambrosio, Veronica Ambrosio, Antonella Boccia, Alessio Franzese, Anna Giugliano, Serena Rosa Laudisio, Luisa Palmisciano e Giulia Scarpati. Sez. Scientifico: Benedetta Francesca Allocca, Christhian Basile (con lode), Christhian Crescenzo, Serena De Filippo, Margherita Esposito, Yuri Gaito, Giovanni La Guardia, Federica Robustelli, Gaetano Russo, Carmen Scollante, Lucia Sirica e Ernesto Vellone (con lode). Come si può notare sono tanti, più del passato anno scolastico. A loro, a nome dei docenti e del personale tutto, dico: - GRAZIE! - Per la soddisfazione che ci hanno dato, ma soprattutto per quelle future e fin da ora li invito a non allontanarsi da questo Liceo, ma a starci sempre vicino! A tutti costoro, a Kostyantyn Lasiy, che ha superato l’Esame di Stato con l’abbreviazione per merito e che oggi studia negli Usa, avendo vinto una borsa di studio, ed a tutti gli altri che hanno terminato di frequentare il nostro Liceo, auguro, di cuore, di realizzare i loro desideri scolastici e professionali. Alla luce di questi risultati, si può serenamente affermare che il futuro non è a tinte fosche e non ci fa strappare i capelli, perché siamo convinti che il futuro ci restituirà ciò che abbiamo dato ed il futuro siamo abituati a costruirlo occupandoci del presente e trovando da subito, con l’impegno e lo studio, la soluzione alla crisi. La crisi sta diventando una costante di queste brevi conversazioni; ma essa, presente e reale nella nostra società, è drammatica nel mondo della formazione, dove colpisce in particolare gli studenti e le loro famiglie, perché devono sottrarre risorse al presente, per investirle sul futuro. Ed è proprio per questo motivo che noi, che viviamo di Scuola, dobbiamo impegnarci di più e stare accanto a chi ha maggiori difficoltà! Noi, uomini di Scuola, con gli studenti e le famiglie dobbiamo stringere un Patto per costruire “il futuro”, un bene immateriale, non tangibile ed assente nel dizionario dei potenti di turno, con un impegno che ci porti a lavorare meglio e di più, a lavorare con passione, anche quando la fatica supera di molto la gratificazione e tutto il contesto sembra remare contro. Al centro di questo Patto ci deve essere la qualità ed il merito. Tutti dobbiamo lavorare per modernizzare il Tre Opere-canone della poesia classica, della letteratura scientifica e della cultura straniera lavoro d’aula, rendendolo più attraente e coinvolgente per gli studenti. L’impegno principale, che come Scuola ci siamo dati per quest’anno scolastico, è quello di aggiornare il POF e tutti i regolamenti in esso presenti. Per tale ragione l’utenza tutta, insieme alle istituzioni e alle associazioni, è invitata a farci sentire le proprie proposte ed esigenze, in modo da poter concordare interventi sempre più mirati e sentiti: lavoro indispensabile alla luce degli inarrestabili tagli di risorse a cui la scuola continua ad essere sottoposta! Tra i progetti storici presenti nel nostro POF, ricordo la certificazione delle competenze in lingua straniera, l’opportunità di conseguire l’ECDL, il teatro, la partecipazione alle maggiori iniziative culturali patrocinate, nell’ambito dell’eccellenza, dal Ministero dell’Istruzione, che tante soddisfazioni continuano a darci e come ultima, in ordine di tempo, la possibilità di svolgere la pratica sportiva curriculare in piscina. Per il prossimo anno stiamo pensando di impartire l’insegnamento di una lingua non europea. Nel discutere con i diversi collaboratori sulle iniziative più idonee per fare una buona scuola, al passo con i tempi, inevitabilmente si ritorna sul tema della crisi e sulle strategie per il suo superamento. I dati Istat parlano di un grave clima di sfiducia presente nel Paese, di un grave malessere sociale e di uno smarrimento etico; ciò si può superare solo con più tempo-scuola. Per realizzare più concretamente questo progetto, è necessario che la Scuola tutta si faccia carico delle crescenti difficoltà delle famiglie a far qua- drare i propri bilanci: la Scuola non vuole diventare un costo insostenibile. Ciò ci vede impegnati su due fronti: da una parte a richiedere alle Istituzioni più attenzione e, dall’altra, a lavorare con prudenza ed attenzione alla programmazione ed alla gestione delle attività annuali, tenendo un occhio particolare alla sopportabilità dei costi, cui non poche famiglie potrebbero far fronte con fatica. Troppa gente urla e protesta, minaccia e denuncia; oggi, invece, c’è bisogno di serenità ed impegno quotidiano, con la consapevolezza che è l’unica strada capace di portarci con dignità fuori dalla recessione. In considerazione di ciò, voglio terminare questa riflessione con un apprezzamento nei confronti dei nostri studenti che, in un momento così confuso, per i noti disagi dei trasporti, le sirene delle proteste studentesche e del disimpegno dei politici, hanno saputo, con un impegno costante ed attento, continuare il loro lavoro quotidiano con l’approfondimento di tematiche sociali e culturali; in tutto ciò sostenuti dalla quasi totalità dei docenti, consapevoli che imparare una lingua in più, approfondire la storia antica e contemporanea, la filosofia, la cultura classica, dedicare più tempo agli studi scientifici sono fattori indispensabili, per costruire un futuro più solido, dinamico e competitivo. Giuseppe Vastola Dirigente Scolastico Liceo Classico “T. L. Caro” con sezioni annesse di Liceo Scientifico - Scienze applicate e Liceo Linguistico - Sarno Lyceum Dicembre 2012 5 Strumenti La sezione si apre con un saggio di John C. McLucas di alta scientificità che si configura come un dialogo diacronico fra due grandi geni della Letteratura italiana e mondiale e si snoda tra la possibilità di congiungere passato e futuro nella mente di un narratore suddito dell’Impero austro-ungarico e la condizione della filosofia che, quale sapere liminare, non potendo accedere a nessuna ulteriorità, si ribalta nell’al di qua. Acuta, poi, la riflessione sulla Civiltà di colpa, in cui centrale è il rapporto tra individuo e religione, e la Civiltà di vergogna in cui viene analizzato il rapporto tra individuo e società e che la Fisica coglie come passaggio dal mondo macroscopico a quello microscopico. Ma la riflessione sulla società ci immette anche nel rapporto tra l’umanità delle bestie e la bestialità degli uomini, da cui ci si libera, anche se momentaneamente, attraverso un’originale interpretazione del Poema dantesco intriso di linguaggio cinematografico fatto di immagini significative, eccellente raccordo per aprire l’animo ad interrogativi intono alla morte, quella che spegne l’esistenza nel sole del tramonto. Strumenti/Liminarismo Manifesto del Liminarismo 8 Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno, ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia” (limen) e di “confine” (limes). In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed analizzare: • il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che, pur se cangiante, non è relativistica; • il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di senso da dare alle cose; • i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base dell’identità di una nazione o di una comunità; • il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro; • la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura; • il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione; • il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari; • il ruolo della contaminatio fra culture diverse; • la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”; • il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico; • il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia; • il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo; • il superamento del limite come propensione verso la conoscenza; • il concetto matematico di limite come valore al quale tendere; • il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”. La Direzione e la Redazione di Lyceum Manifesto of Liminarism In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time is right to pay attention – at a methodological level – not only to the general concrete structure of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes). According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following: - the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision which, while certainly subject to change, is not merely relativist; - the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any meaning to give to things; - the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past and present) on which national or community identity is frequently based; - the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other; - the function of law within both democratic and dictatorial regimes; - the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas; - the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as repositories of traditional knowledge; - the role of contaminatio among differing cultures; - the line between normality and “ab-normality”; - the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield richer insights into a work of art than its macroscopic aspects; - the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness; - the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as “translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] – in a word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply original and unrepeatable form; - the crossing of boundaries as a movement towards knowledge; - the mathematical concept of limits as a value to be striven for; - the process of “trial and error” in scientific research. The Directors and Editors of Lyceum La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof. John C. McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora. Lyceum Dicembre 2012 9 Strumenti/Liminarismo 10 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla Prof.ssa Maria Luisa Albano dell’Università di Enna Manifest Liminaryzmu 11 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora, alto funzionario dell'Istituto Italiano di Cultura a Varsavia. Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo IL saggio di approfondimento Come i leggono i Grandi IlIl dialogo dialogo diacronico diacronico tra tra Ludovico Ludovico Ariosto Ariosto ee Italo Italo Calvino Calvino 12 I l rapporto tra un grande scrittore e le sue fonti letterarie è sempre complicato: se non venato d’invidia, di pressioni edipali, e di omissioni isteriche, sarà almeno denso e privato. Il grande studioso americano Harold Bloom, nel suo importantissimo The Anxiety of Influence: a Theory of Poetry1, dimostra come il clinamen (per cui adopera la versione inglese misprision, “presa sbagliata”) porta il poeta “minore” a fraintendere o a imitare male – volutamente, anche al livello subconscio – il significato o le intenzioni di un grande poeta del passato. Il più giovane scrittore subisce, soffre, nega, e rifiuta l’influenza del “più grande.” Basta pensare alle asserzioni sprezzanti di Petrarca sulla Commedia di Dante – la soverchia precisione teologica, l’impiego del volgare per materia troppo ambiziosa etc.2 – che riflettono il risentimento, naturalissimo, che può provare un intelletto potente e originale di fronte alle gloriose conquiste e l’oppressiva fama di uno scrittore precedente. Rarissimo lo scrittore che confessa apertamente la propria ammirazione per un grande precursore. Italo Calvino appartiene a questa categoria eletta. Già dagli esordi della sua carriera dimostrò un affettuoso rispetto per il magnifico Ludovico Ariosto. Cesare Pavese, acuto critico non meno che scrittore, accenna un “sapore ariostesco” già nel Sentiero dei nidi di ragno di Calvino (1947)3. In più, lo slancio umoristico, fantasioso, e mitico- poetico che permea i racconti in Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città (1963), riflette l’influenza del glorioso maestro ferrarese. Più clamorosamente, senza Ariosto sarebbe impensabile la grande “trilogia araldica” calviniana de I Nostri Antenati (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante, 1957; e sopratutto Il cavaliere inesistente, 1959, ambientato all’assedio di Parigi all’epoca di Carlo Magno e in cui appare Bradamante tra i personaggi principali)4. Va bene; che un grandissimo romanziere del ’900 imiti fervidamente un sommo scrittore del passato e che ne tragga ispirazione letteraria non ha niente di strano. Ma Calvino, generoso di spirito come di penna, non solo ammette l’importanza dello scrittore-modello; la dichiara, la esalta, la analizza, la commenta in alcune delle sue pagine più brillanti. In almeno due importanti passi del suo Perché leggere i classici?5 si dilunga sulle risonanze che ha per lui la lettura di Ariosto. E ancora in fin di vita, nelle profondamente meditate Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, fa riferimento a Ariosto en passant, nel contesto del viaggio alla luna, come esemplare della “Leggerezza” su cui concentra la prima conferenza. Il modo più diretto ed esplicito in cui Calvino affronta il suo idolo letterario si trova nel geniale volume L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, con una scelta del poema6. È difficile classificare questo libro: riassunto/ parafrasi/ antologia/ crestomazia/ commento… ma il fine intellettuale e direi quasi spirituale è di presentare il capolavoro di Ariosto a un pubblico che senza l’aiuto di Calvino forse lo troverebbe inabbordabile per grandezza, lunghezza, o complicatezza. La vasta cultura di Calvino informa la “Presentazione” in cui spiega in termini concisi e spiritosi il contesto letterario e storico-politico in cui venne scritto il Furioso: fonti, patroni, ambiente culturale, ecc. Poi si lancia in un vivace riassunto in prosa del grandioso poema, creando così una cornice per la sua scelta delle “più belle pagine” ariostee. Calvino è forse l’autore classico del ’900 italiano più letto e più studiato negli Stati Uniti, sia nei corsi di lingua e letteratura italiane che in traduzioni in inglese per corsi di letteratura comparata. Negli scorsi mesi, in collaborazione con la mia collega Leslie Z. Morgan della Loyola University Maryland, ho iniziato la traduzione in inglese di questo libro di Calvino su Ariosto. (La prof.ssa Morgan ha tradotto la “Presentazione” e le note; io ho tradotto il testo principale. Per i passi di Ariosto che Calvino cita verbatim, speravamo di incorporare le pagine corrispondenti di una traduzione dell’Orlando furioso già esistente.) Non sappiamo ancora se sarà possibile pubblicare la traduzione inglese del libro, una delle poche grandi opere di Calvino finora non disponibili in inglese. Comunque vada, il lavoro di traduzione, 13 che comporta un contatto così intimo e concreto con il testo, mi ha consentito l’opportunità di fare alcune osservazioni interessanti che vorrei presentare in quanto segue. Per strada, darò alcuni brevi esempi della mia traduzione, ancora inedita. Credo non solo che questo libro abbia grande importanza per la comprensione della vocazione letteraria di Calvino stesso, ma anche che possa contribuire al giusto apprezzamento del grandissimo Ludovico. Spero che traspiri da queste poche osservazioni una specie di doppia liminarità: ciò che chiamo il “dialogo diacronico” tra due grandi geni della letteratura italiana e mondiale; e la tensione implicita nel confine tra due lingue che si constata in qualsiasi tentativo di traduzione letteraria. Prima cosa: senza la minima pretesa di scrivere “meglio” di Ariosto, Calvino scrive con una vivacità più accentuata e più esibizionista. Il suo stile occupa il primo piano, pur avendo tutta la graziosa disinvoltura di quello del suo grande modello Ariosto. Su questo punto sarà importante che io mi spieghi: Ariosto scrive con un’accuratezza e una limpidità assolute, e meglio Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 14 di così non è possibile scrivere. Oso pronunciare una parola assurda: la scrittura di Ariosto è perfetta. È leggibile al massimo, per merito di un’impareggiabile professionalità da scrittore. Per esempio, chi legge il Furioso ad alta voce non esita mai a capire dove cadono le cesure e come scandire le undici sillabe di ogni verso. Il poeta evita la confusione eliminando la minima ombra di una dieresi e insistendo sempre sull’elisione di ogni possibile vocale (cose che non si direbbero neanche del Padre Dante). Questa perfezione tecnica per me rispecchia l’enorme sforzo che fece il poeta nel riscrivere il suo magnum opus in un toscano inappuntabile dopo le due prime edizioni, fortemente emiliani di linguagggio e di tono – sforzo che rappresenta l’umiltà e la voglia di essere capito, di cui solo un genio creatore è capace. Ariosto ogni tanto trova il momento di vergare versi di una bellezza soave e nobile, o di una comicità quasi frivola. Per dolcezza riverente, basta pensare al pio “vattene in pace, alma beata e bella” (la morte di Isabella – XXIX, 27, 1), per sfacciato umorismo al “…o d’altro stran linguaggio” (cioè, del tedesco! – XXXVIII, 58, 5) o alla lunga lista di virtù introvabili nel chiostro (Silenzio, Pietà, Quïete, Umiltade, Amor, e Pace – XIV, 80-81)7. Ma la cosa forse più sorprendente per me è la relativa piattezza del verso ariosteo. Ciò che lascia l’impronta sono le situazioni, gli episodi, l’energia irresistibile della narrazione, la vasta diversità dei personaggi, il groviglio ingegnoso degli eventi. La bellezza – chiamiamola così – della poesia di Ariosto consiste nella sua estrema chiarezza, regolarità, fluidità, naturalezza, e quel che chiamerei il suo carattere inevitabile, come se ogni parola fosse l’unica possibile e, proprio per quello, poco sorprendente. Il fatto sta che pochi singoli versi del Furioso rimangono impressi sulla memoria per bellezza o per particolare brillantezza: tutti ricordano “Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!” (I, 22, 1) o “ecco il giudicio uman come spesso erra” (I, 7, 2), ma quasi quasi finisce lì8. Se si paragona questa scarsezza alle decine di versi danteschi che ogni italiano di media cultura è in grado di invocare al minimo pretesto – e dato che con Ariosto si ha a che fare con un Grandissimo – c’è da domandarsene il perché. La mia prima ipotesi: che Ariosto è intento sopra tutto a concentrare l’attenzione del lettore sulla straordinaria ricchezza, suggestiva e a volte sovversiva, del suo contenuto, e che così non si permette di distrarla con versi cospicuamente belli. Per assaporare pienamente una riga squisita, noi lettori ci fermiamo un attimo, ammaliati dalla superficie poetica dell’opera. Ariosto invece si affatica a eliminare ogni consapevolezza che possiamo avere di questa superficie, rendendola completamente trasparente e quasi innocua, perché ci concentriamo su quello che sta sotto: gli equilibri sorprendenti tra cristiani e saraceni o tra uomo e donna, lo sguardo spietato ma mai amareggiato sulle debolezze dell’umanità, la rassegnazione – non totale – alle tragedie della guerra, e innanzi tutto il rigetto delle frasi fatte e dei valori non indagati o non ripensati. Insegnandoci a riflettere e ad interrogare, non ci consente la pausa estetico-mentale richiesta da un verso troppo vistoso, troppo “bello.” Calvino invece ci abbaglia con lo splendore del suo stile. Sfoggia, preciso e divertito, un lessico scintillante, una variatio e un’accumulatio invidiabili. Un esempio tra tanti (p. 109, nell’introduzione a “Mandricardo rapisce Doralice” – e qui come nelle altre citazioni metterò in neretto le parole per me più indicative): “Valore e grandezza d’animo sono nell’Orlando furioso equamente distribuiti tra Cristiani e Maomettani; e lo stesso si dica per le debolezze umane. Ma come abbondanza d’ammazzasette, di soldatacci giganteschi, brutali, e millantatori, non c’è dubbio che la bilancia pende tutta dalla parte del campo saraceno.” [La mia versione propone: Valor and greatness of spirit are equally distributed between Christians and Muslims in the Orlando furioso, as are, be it said, human weaknesses. Nevertheless, when it comes to braggarts, brutes, swaggerers, and boastful berserkers, there is no doubt that the balance tips decidedly towards the Saracen camp.] Calvino in generale risponde ad Ariosto come scrittore-collega, ammirandone l’arte e la tecnica scrittrice. I due scrittori hanno in comune un caratteristico godimento delle svariate potenzialità giocose e flessibili delle parole; tutti e due nella loro allegra jouissance verbale sono ciò che in inglese chiamiamo wordsmiths, “fabbri di parole.” Dell’audacia filosofica del grande ferrarese Calvino dice abbastanza poco, e forse solo in questa inaspettata reticenza si può ipotizzare una misprision bloomiana. Ho già indicato alcune tematiche ariostee che Calvino sceglie di evitare; per la maggior parte sono precisamente quelle che, per un lettore del Duemila, hanno le risonanze più moderne e coraggiose. Calvino invece dedica gran parte dei suoi commenti all’abilità tecnica e alla vivacità divertente del suo auctor. Per suscitare la reazione giusta nel lettore moderno, per aiutarlo a comprendere la grandezza del Furioso, commenta (e poi imita) aspetti molto precisi della pratica ariostea, tutti i segni della grande maestria di uno scrittore che sa il mestiere. Per esempio – e questo secondo me è da prendersi come omaggio esplicito a Ariosto – alterna tra arcaismi eleganti e cali spontanei nel plateale e nel quotidiano. Sentiamo per esempio la voce più aulica di Ariosto, quella che già parla nel proemio del Furioso: “Piacciavi, generosa Erculea prole,/ ornamento e splendor del secol nostro,/ Ippolito, aggradir questo che vuole/ e darvi sol può l’umil servo vostro…” (I, 3, 1-4); il contrasto con i tanti versi francamente comici è evidente. E adesso un solo passo per illustrare la “prosa d’arte” calviniana che richiama un po’ questa dignità stilistica di Ariosto. Nell’introduzione al suo capitolo “Rodomonte alla battaglia di Parigi” (p. 119), Calvino scrive, “Sparsi per il mondo dietro ad amori ed avventure i suoi più valorosi paladini, Carlo Magno attende impaziente il ritorno di Rinaldo, con i rinforzi dall’Inghilterra.” [In inglese, ho suggerito, With his most valiant paladins scattered across the map chasing love and adventure, Charlemagne impatiently awaits the return of Rinaldo with reinforcements from England.] Da notare subito la grande eleganza della costruzione assoluta 15 con cui inizia la frase (e che risulterebbe quasi incomprensibile – quasi sgrammaticata – in inglese senza l’aggiunta di un prosaico with); similmente l’impiego avverbiale dell’aggettivo “impaziente” presta un tono colto alla frase di Calvino dove in inglese sarebbe maldestro, o – peggio – pretenzioso; così il mio impatientLY. Ma, come già detto, Calvino si permette anche forti sterzate verso il parlato. Questi effetti lo rendono particolarmente traducibile in inglese americano per la spontaneità quasi democratica della sua voce autoriale. Prendiamo come esempio un passo sublime di Ariosto, e vediamo come Calvino l’ha riallestito e come cerco di esprimerlo in inglese. Qui dialogano il gigantesco re saraceno Mandricardo e Marfisa, una splendente guerriera che per una bella volta si è fatta vedere vestita da donna. Così adorna, Marfisa pare al poco sensibile Mandricardo la sostituta giusta da consegnare a Rodomonte in cambio per Doralice, e pretende che la fiera bella si debba arrendere perché lui è riuscito a disarcionare quattro cavalieri che l’accompagnano e che lui prende per i di lei protettori (XXVI, 78, 5 – 79, 8): Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo …“Damigella, sète nostra, s’altri non è per voi ch’in sella monte. Nol potete negar, né farne iscusa; che di ragion di guerra così s’usa.” Marfisa, alzando con un viso altiero la faccia, disse: “Il tuo parer molto erra. Io ti concedo che diresti il vero, ch’io sarei tua per la ragion di guerra, quando mio signor fosse o cavalliero alcun di questi ch’hai gittato in terra. Io sua non son, né d’altri son che mia: dunque me tolga a me chi mi desia.” 16 Stupisce l’eleganza spiritosa con cui Ariosto presenta questo scambio di prepotenza e di orgogliosa auto-difesa proto-femminista. E ora sentiamo Calvino ad loc. (p. 202, ne “La discordia nel campo d’Agramante”): “‘Adesso sei in mia mano,’ fa [Mandricardo] alla donna. ‘In tua mano un corno,’ risponde lei.” [In inglese: “‘Now you are in my power,’ he says to the woman. ‘Like hell I am,’ she replies.”]9 La risposta brusca, maschia, e quasi volgare di Marfisa alle cortesi minacce di Mandricardo rispecchia un’incomprensione forse culturalmente determinata di Calvino di fronte all’immagine estetica che ci offre Ariosto delle guerriere in generale (nella loro sfolgorante bellezza, Bradamante e Marfisa seguono le orme delle Pentesilee e Ippolite e Camille classiche). Per Calvino, queste donne – inclusa Bradamante, la protagonista romantica dell’epopea – saranno sempre personaggi incrongui, alquanto goffi, e altamente comici. Ma per quanto ci possa dispiacere il suo rifiuto dei suggerimenti filogini del poeta cinquecentesco, niente di più abilmente sorprendente, di più divertente, di più americano per l’assoluta mancanza di pretese, di quel divino “‘In tua mano un corno!’” Calvino apprezza molto, come saprebbe apprezzarla solo un grande scrittore, la concretezza della metafora ariostea, e ne cita una bella serie – per esempio, in “Orlando, Olimpia, l’archibugio”(p. 79): “Insomma, tanto per dare un’idea: Cimosco cerca di prendere Orlando alle spalle, come nel delta del Po i pescatori circondano le anguille con le reti, e vuole prenderlo vivo, come gli uccellatori che catturano gli uccelli da richiamo; Orlando si mette a infilzare nemici sulla lancia come tortellini sul forchettone del cuoco o come i pescatori ferraresi infilzano sullo spiedo quante rane ci stanno; Cimosco s’è andato ad appostare con l’archibugio puntato come un cacciatore dell’Appennino che attende un cinghiale; l’archibugiata uccide il cavallo ma fa saltar su Orlando, che pare quella volta che a Brescia è scoppiata una polveriera.” [In inglese: A few examples, just to give a sense: Cimosco tries to sneak up on Orlando from behind, just as fishermen in the Po delta toss their nets around eels, and hopes to take him alive, as hunters capture birds for use as decoys; Orlando sets about skewering enemy soldiers on his lance like tortellini on a cook’s fork or as Ferrarese fishermen crowd as many frogs onto the spit as will fit; Cimosco takes his position to aim the harquebus just like a hunter in the Apennines lying in wait for a wild boar. The harquebus shoots the horse out from under Orlando, but he leaps upward, like the time when a gunpowder magazine in Brescia exploded.] Il libro contiene un numero notevole di explications de texte di questo genere nelle quali Calvino concentra l’attenzione dei suoi lettori sulle metafore vivide e originali di Ariosto. In un bellissimo passo eccentrico ed energico, Calvino si presenta ancora come collega diacronico dell’Ariosto, condividendone il gusto nell’adattare alla fonetica italiana i nomi “esotici” di numerosi personaggi britannici. Queste righe consentono al lettore anglofono una prospettiva da fuori sulla propria lingua, e ricordano l’audacia fantascientifica che Calvino stesso dimostra nell’inventare nomi per i personaggi delle Cosmicomiche (1965), tra cui possiamo nominare il vecchio protagonista “Qfwfq.”Troviamo in Olimpia abbandonata (p. 95): “Come far entrare in un poema italiano i nomi di Lancaster, di Warwick, di Gloucester? Li trasformeremo in Lincastro, Varvecia, Glocestra. E Clarence? e Norfolk? e Kent? Basterà dire Chiarenza, Nortfozia, Cancia. È un gioco che può continuare quanto si vuole: Pembroke diventa Pembrozia, Suffolk Sufolcia, Essex Essenia. E Northurberland [sic]? La faccenda comincia a complicarsi. Berkley? Richmond? Dorchester? Hampton? L’impresa fonetica di Ariosto diventa una nuova imprevista avventura del poema.” [In inglese: How was he to fit into Italian verse such names as Lancaster, Warwick, and Gloucester? “We will make them into ‘Lincastro,’ ‘Varvecia,’ ‘Glocestra,’” he decides. Clarence? Norfolk? Kent? “Let’s say ‘Chiarenza,’ ‘Nortfozia,’ and ‘Cancia.’” This game can go on as long as one chooses: Pembroke becomes “Pembrozia,” Suffolk “Sufolcia,” and Essex “Essenia.” How about Northumberland10? Things are getting complicated. Berkley? Richmond? Dorchester? Hampton? This bold phonetic project of Ariosto’s becomes yet another, unexpected adventure within the poem.] E qui mi si permetta di sottolineare la mia aggiunta delle parole, he decides, “egli (Ariosto) decide,” che ho ritenuto opportune perché il lettore anglofono della mia traduzaione cogliesse il senso letterale che intendeva Calvino; ma come non pensare che il generoso “noi” implicito in “trasformeremo” valga a dire, “Ariosto ed io (Calvino)”? In pochissimi passi, a parte la libertà che mi sono concesso nell’aggiungere parole come ho appena segnalato, penso di dover ricorrere a note per spiegare effetti o vocaboli intraducibili. Per esempio, in uno sfavillante commento sul palazzo di illusioni di Atlante, Calvino scrive, “La giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo” (p. 176, conclusione del capitolo, “Il palazzo incantato”). [In inglese: The merry-goround of illusions is the enchanted palace, yes… but it is also the poem, and it is the whole world.] Questa “giostra” in italiano rappresenta il meglio del lessico calviniano. Riallaccia il senso di “carosello” con quello di “torneo,” dimostrandoci lo sguardo ironico che getta Ariosto sulle assurdità immature nei comportamenti dei suoi personaggi guerrieri. Non esiste nessuna parola inglese che possa coprire questa suggestiva ambiguità, e così ho dovuto accontentarmi del merry-go-round (“carosello”) inglese, con apposita nota di traduttore per informare il lettore anglofono del senso che ritengo in contesto quello secondario, “torneo.” Calvino articola un’astuta sensibilità critica per la gamma di generi letterari (per esempio, epopea e allegoria) che Ariosto sa mischiare, come qui dove inventa un dialogo psicologico interno per il suo giovane protagonista Ruggiero (pp. 69-70, ne L’isola di Alcina): “Ed ecco che [Ruggiero] vede elevarsi le mura della splendida città d’Alcina. Questa dev’essere un’allegoria del piacere, pensa Ruggiero, e lo spirito bellicoso cede il campo a una più benigna inclinazione.” [In inglese: Then he suddenly sees the walls of Alcina’s splendid city rising before him. ‘This must be an allegory of Pleasure,’ thinks Ruggiero, and his warlike spirit surrenders the field to a kindlier impulse.] Ancora, poco dopo, mentre Ruggiero attende l’arrivo della maga Alcina all’appuntamento erotico (p. 70): “Ruggiero ha dimenticato che si trova in mezzo a figure allegoriche: le ore notturne passate a tendere l’orecchio, a contare 17 con l’immaginazione i passi della maliarda, ad aspettare lo schiudersi della porta, bastano a convincerlo che il poema che egli vive è fatto non di fredda pedagogia ma di trepidante appetito vitale.” [In inglese: Ruggiero has forgotten that he is among the figures in an allegory. As he spends the hours of night listening for her, counting in his imagination the enchantress’ steps, waiting for her to open his door, he is able to convince himself that the epic he is living is made up, not of chilly moral lessons, but of anxious, exciting vital appetite.] Questa mossa da parte di Calvino è ardita: ripropone un personaggio del poema nelle vesti di critico auto-analittico, e illumina – rende esplicita – una procedura letteraria che Ariosto, notorio mescolatore di registri e di genres, avrebbe forse preferito celare. Una differenza molto evidente tra Calvino e Ariosto si nota nella voce dell’autore/ narratore. Nel Furioso, l’“io” che racconta la storia è uno dei personaggi più originali e perversi del libro. Un po’ idolatra le donne, un po’ le odia; prima pretende di aver perso il filo della narrazione, poi riesce a ordire un vasto tessuto di una sofistica- Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 18 tezza fenomenale; spesso le circostanze della sua vita sono identiche a quelle di un certo Ludovico Ariosto di Ferrara (si veda per esempio il proemio al Canto XLVI, dove appaiono molti degli amici e colleghi del poeta), ma a volte è solo un anonimo gran matto come Orlando. Chi legge il poema per la prima volta si trova spesso frustrato e confuso da questo “io” narratore volubile, sardonico, brillante, psicolabile, e poco attendibile, In questo identificherei la più coraggiosa dichiarazione da parte di Ariosto della libertà e dell’autonomia dello scrittore, della letteratura stessa. E qui invece Calvino non si dimostra disposto a seguire il modello. La voce narratrice del suo libro è di una professionalità e di un distacco impersonali e assoluti. Manca quasi del tutto il lemma “io,” come manca addirittura il minimo riferimento a circostanze, rapporti, ambienti, o eventi dell’esistenza di Italo Calvino. Pur mettendo in primo piano la propria virtuosità stilistica, come personaggio dentro il suo libro Calvino rimane invisibile e quasi freddo. In ogni antologia letteraria, le cose che si escludono hanno un interesse quasi uguale a quello dei passi scelti. Gran parte della mia ricerca critica attraverso trenta anni si è concentrata su un aspetto molto accentuato dell’epopea ariostea: il discorso ambiguo ma profondamente originale sui rapporti tra uomo e donna – non solo nelle loro dimensioni erotiche e romantiche, ma anche in quelle politiche, etico-morali, e filosofiche. Certi passi, e in modo particolare quelli scritti nuovi per l’ultima edizione del poema (Olimpia; le Donne Omicide; la prodezza guerriera e rettorica di Bradamante alla Rocca di Tristano; la truce vicenda misogina di Marganorre; e l’amicizia complicata tra Ruggiero e Leone)11, hanno grande importanza per questo discorso; aggiungerei anche la maliziosa avventura erotica di Bradamante, Fiordispina, e Ricciardetto. Nella sua geniale parafrasi del Furioso, Calvino sceglie ventidue episodi da commentare, dedicando un breve capitolo a ciascuno. Ora se si guardano i passi che Calvino non cita e non spiega nel suo magistrale commento, mi è impossibile non notare l’assenza quasi totale degli episodi appena elencati. Ecco una lista dei principali episodi ariostei che Calvino non include nella sua “scelta del poema” – da notare subito, l’alta corrispondenza tra le due liste: l’eremo e Angelica (II), Bradamante spinta nella grotto da Pinabello (II), Melissa con Bradamante nella tomba di Merlino (III), Rinaldo in Scozia, con tutta la polemica sui diritti sessuali della donna e la vicenda di Ginevra, Ariodante, e compagnia (IVVI), Grifone e Orrigille (XV, XVII-XVIII), Norandino, Lucina, e l’Orco (XVIII), le Donne Omicide (XX), quasi tutta la storia di Gabrina (XXI), Bradamante, Ricciardetto, e Fiordispina (XXV), la Rocca di Tristano (XXXII), Marganorre (XXXVII), l’incontro di Rinaldo con la Gelosia e con il marito tradito (XLII), e l’episodio imbarazzante di Anselmo, Argia, e l’Etiope (XLIII). Il lettore di Calvino può anche interrogare la sua scelta di citare e di commentare a lungo i due duelli tra cognate o cognati: Marfisa e Bradamante (XXXVI) e Ruggiero e Rinaldo (XXXVIII-XXXIX) – passi interessanti senz’altro, ma per me difficilmente identificabili come due delle ventidue vicende più cruciali del poema. La formazione intellettuale e immaginativa di Calvino nella generazione precedente al movimento femminista non basta per spiegare quest’anomala indifferenza al discorso dei rapporti tra i sessi. La vastità di prospettive che Calvino quasi sempre dimostra, la spregiudicata larghezza di visione mentale, lo porterebbero normalmente ad apprezzare l’indipendenza di Ariosto di fronte a discorsi antiquati sul ruolo dell’uomo e della donna. A parte tutte le allusive implicazioni teoriche dei passi in gioco, Ariosto ci dipinge anche un universo in cui l’emblema supremo della mascolinità, lo stolido Orlando stupendo per forza lealtà e valore, soffre un crollo psicologico catastrofico davanti alle emozioni liriche. Ma anzi che attribuire la reticenza di Calvino, sensibilissimo com’è alla creatività di Ariosto, a un presunto riflesso maschilista, suggerirei invece la sua attrazione istintiva al mondo della fiaba – dell’eterno femminile che traspare nelle fate ai capelli d’oro, nelle damigelle rapite, e nelle norme convenzionali dell’amore romantico in chiave pre-femminista. Questo colloquio letterario tra Calvino e Ariosto ci fornisce un esempio esilarante di cordialità, calore e rispetto al più alto strato di produzione artistica. Calvino si rivela un lettore attento e perspicace, con un interesse particolare per la dinamica della rappresentazione letteraria dell’incantesimo, e un forte gusto per il naturalismo che lampeggia sporadicamente sulle pagine terse e raffinate di Ariosto. Come provetto statega stilistico, si diletta come nessun altro della tecnica – direi quasi, della meccanica – del componimento letterario, perfezionata dal grande Ferrarese. Come scrittore, come lettore, Calvino dimostra una simpatia sensibile e affettuosa verso Ariosto e, traendo materia e ispirazione dal suo grande modello, riesce a creare un tessuto intellettuale e artistico che tramanda al nostro Duemila le meraviglie dell’immortale Ludovico. John C. McLucas Capo del Dipartimento di Lingue Straniere Università “Towson” di Baltimora U.S.A. Il presente saggio fa parte di una ricerca ancora in corso. L’autore ha accettato di anticiparne i risultati in maniera esclusiva ai lettori di Lyceum. 19 New York: Oxford University Press, 1973. Questo aspro giudizio viene più freddamente espresso in una lettera di Petrarca a Boccaccio: vedi The Dante Encyclopedia, a cura di Richard Lansing, New York e London: Garland, 2000; voce “Boccaccio” (p. 112), Todd Boli; voce “Petrarca” (pp. 685-7), Sara Sturm-Maddox. 3 La citazione di Pavese appare in Lene Waage Petersen, “Calvino lettore dell’Ariosto,” Revue Romane, Bind 26 (1991) 2). 4 Calvino descrive la genesi di questa trilogia nella quarta conferenza, “Visibilità,” delle Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio (Mondadori, 1993), illustrando l’importanza essenziale dell’immaginazione visiva per tutta la sua pratica creativa. 5 Mondadori, 1995; prima edizione Einaudi, 1991; si tratta di una collana postuma di vari scritti degli anni ’50 a ’80, di cui due sono dedicati completamente all’Orlando furioso: “La struttura dell‘Orlando” e “Piccola antologia di ottave.” 6 L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, con una scelta del poema (Mondadori, 1995; prima edizione Einaudi, 1970), p. 109, dall’introduzione al capitolo “Mandricardo rapisce Doralice.” Le citazioni che seguono saranno indicate nel testo, tra parentesi con il numero della pagina. 7 Ogni citazione di Ariosto è da: Ariosto, Ludovico. Orlando Furioso, a cura di Cesare Segre. Mondadori, 1976. 8 Calvino stesso fa riferimento a questi due versi nella sua “Presentazione,” nel passo dedicato all’ottava (p. 31), con l’osservazione, “Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti suoi versi sono diventati proverbiali.” 9 Si noti che, perché nessuna formula del gergo inglese corrisponde alla pseudo-fallicità del “corno,” ho sostituito la bestemmia hell, “inferno,” molto diffuso in un senso simile. 10 Il “Northurberland” che appare nel testo italiano deve essere un semplice errore tipografico, da parte o di Calvino stesso o dei primi redattori. 11 Vedi l’“Introduzione” di Segre all’edizione del Furioso già citata (sopra, nota 7), p. xxviii. 1 2 Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo letteratura italiana Ippolito Nievo/Oltre i confini, altri orizzonti Spazio e ideologia nelle Confessioni d’un Italiano 20 P er Nievo la finalità del narrare consiste nel «vivificar dal passato le passioni e le idee che possono giovare al presente, poiché non è ignoto che la nazione di oggi è sopraposta alla nazione di ieri e che gli effetti futuri sono sviluppi incrementi trasformazioni dei germi lontani».1 La forza della parola, canale di testimonianza concreta, viene sottolineata con un’esplicita, ancorché non letterale, citazione di uno snodo fondamentale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis: «“Scrivete, o Italiani,” diceva Foscolo. […]. Dunque crepiamo ma scriviamo; giacché non si può fare di meglio. La letteratura che non isfama un letterato, può nutrire una generazione e ingigantirne un’altra».2 In questa prospettiva nelle Confessioni d’un Italiano, portate e termine nell’estate 1858 quando, benché molto si fosse realizzato, il compimento del Risorgimento continuava ad apparire lontano, l’interazione del racconto con lo spazio e il conseguente amalgama con la storia servono da principio aggregante, perché «l’assenza di un chiaro centro nazionale provoca una sorta di irresoluto vagabondare (che è però anche un modo di «unificare» una nazione che ancora non esiste)».3 Nel microcosmo di Fratta,4 descritto in apertura di romanzo, gli anni scorrono «l’uno uguale all’altro» (vi, p. 371), appena increspati dal brusio lontano dei grandi avvenimenti storici.5 Sull’immobilismo di un ordine politico mummificato e fatiscente, aggravato dall’impervio territorio friulano, solcato «ad ogni passo da torrenti e da fiumane sulle quali scarseggiavano nonché i ponti, le barche», e reso «dieci volte più vasto che ora non sia da strade distorte, profonde, in famissime, atte più a precipitare che ad ajutare i passeggieri» (i, p. 53), rumoreggia minacciosa l’ondata rivoluzionaria proveniente dalla Francia, che imprime una brusca accelerazione al tra monto del «mondo vecchio» (v, p. 304).6 La sua fine, giusto al centro del libro (capp. xii-xiv), è simbolicamente segnata dall’accorata agonia di Venezia, avvio del processo di matu razione civile (xix, p. 1236). La mancata apertura della Serenissima alle province italiane reputate «non […] membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante», ragione profonda dell’angusto arroccamento e dello sfacelo (xxi, pp. 1342-1343), si trasforma con critica amarezza in un duro giudizio storico: «Venezia non era più che una città e voleva essere un popolo» (xi, p. 755) e, in quanto «non aveva vo luto o potuto diventar nazione, le convenne per forza scadere alla condizione di semplice città» (xxi, p. 1344). Anzi, il suo sacrificio è un’occasione di crescita per avvicinare il traguardo più nobile dell’Unità nazionale,7 all’interno della quale si può aprire per la città lagunare la prospettiva vivificante di una rigenerazione, la metamorfosi della Repubblica di Venezia nella Venezia italiana: «Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni» (xviii, pp. 1148-1149). Pertanto, a differenza del padre Todero, che, ancorato al glorioso passato, si aspetta la risurre zione del Leone da Oriente (xiii, pp. 837 e 852857), il ripensamento del profilo politico marciano spinge Carlo Altoviti, pur nel rispetto dell’ideale consegna paterna («pensa sempre a Venezia»: xiii, pp. 835-836, 857; «Ricordati di Venezia»: xvii, p. 1067), verso le più promettenti aspirazioni nazio nali, perché soltanto nella nuova patria il suo patrimonio spirituale è traghettabile nel futuro.8 La faticosa interpretazione del passato si impone con un’espiazione lontano dalla terra d’origine in una «corsa per il mondo», «in varii paesi, in varie stanze, in diverse dimore», tappe di un «cammino della vita», che trascende la ri cerca personale di una nuova identità, «perché altro non è la vita del popolo se non la somma delle vite individuali» (xix, p. 1227). Il protagoni sta attraversa quasi tutta l’Italia settentrionale e gran parte di quella centro-meridionale, si sposta in esilio in una Londra priva di esterni, rientra a Fratta inabissandosi nella profonda e «lunga sonnolenza d’Italia» (xxi, p. 1348 e xxii, p. 1414) e sconfina nell’ultimo capitolo con l’intermediazione del figlio Giulio nelle Americhe.9 Testimoni della grandezza trascorsa e dei sacrifici presenti, le città italiane, per quanto raccontate in modalità astratte o letterarie, spianano di slancio i confini regionali in forza dei costumi e del destino comune, della consanguineità. Carlo coglie il sostrato unitario del popolo disperso per lo Stivale durante la festa da ballo organizzata al castello d’Andria, quando, sotto l’incalzare del ritmo sfrenato, livella le barriere locali nell’ansia di un abbraccio sovraregionale e disegna la fisionomia tipica dell’italiano (xvii, pp. 1057-1058). Proprio il disastro di Campoformio elargisce ai personaggi l’opportunità di pensare in grande, a una patria dai contorni più estesi. Nella sera dello scioglimento della Municipalità veneziana, accommiatandosi dai compagni d’avventura prima di prendere la strada dell’esilio, il dottor Lucilio Vianello intravede nuovi orizzonti, che «si allargano sempre più; dall’Alpi alla Sicilia, è tutta una casa» (xii, p. 820). Altoviti fin dal ricovero nella Repubblica Cisalpina, scelta che «rendeva onorevole e attivo l’esiglio menandolo in paese fraterno e già quasi italiano» (xii, p. 816), percepisce un’avvisaglia di benevola solidarietà e respira la sensazione di «esser sulla buona via per trovare una patria» (xvi, p. 998), perché «quella subita concordia di 21 molte provincie divelte da varia soggezione stra niera per comporre una sola indipendenza una sola libertà, era incentivo alle immaginazioni di maggiori speranze» (xv, p. 935). E a Milano, con un anacronismo pregnante, durante i festeggiamenti per la nuova realtà politica si assapora il risveglio di una collettività, «il primo risorgimento della vita e del pensier nazionale». Quest’attesa naturalmente include Roma, monumentale insegna dell’identità patria, perché per lei «stanno le tradizioni le memorie le glorie la maestà che la fanno capo nonché d’Italia, del mondo» (xx, p. 1259): «Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d’improvviso tutte le storte e confuse immaginazioni degli italiani» (xvi, pp. 1006-1007). Di riflesso, i transiti geografici fissano le svolte di un viaggio mentale, oltre che fisico, marcando i convincimenti del protagonista: l’addio alla società rurale di Fratta si colora della presa di coscienza di una svolta epocale, a cui occorre rispondere con Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 22 lavoro, attività, «verità e battaglia» (xii, pp. 756757); il valico dell’Appennino, sull’onda emozionale dell’incantevole scenario, riscopre nelle vibrazioni sentimentali un più consapevole sentimento della patria («Quanto sei bella quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le creste azzurine degli Appennini e le candidissime dell’Alpi sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!...»: xvi, p. 1001). A Londra, ripensando, nelle ombre della cecità, alla propria militanza, Carlo focalizza con bruciante lucidità l’urgenza di un progetto strategico-politico alternativo alle insurrezioni, discontinuità pragmatica che postula l’emarginazione delle frange estremistiche: «Pur troppo biso gnerà cambiar strada; e il rinnovamento nazionale appoggiarlo necessariamente ad un concorso tale di interessi che lo dimostrino un ottimo capitale con grassi e sicuri dividendi. Questo pure non è impossibile; ma qual differenza coi sublimi e generosi slanci d’una volta!...» (xx, p. 1278). L’invito alle giovani leve a «sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe» e a perseguire «non mutabili credenze» e un’«opera lentamente ma durevol mente avviata» ridimensiona il suggestivo, eppure velleitario e intempestivo, entusiasmo delle élites intellettuali a favore di un cauto riformismo: «Giu stizia, verità, virtù! Tre ottime cose; tre parole tre idee da innamorare un’anima fino alla pazzia e alla morte; ma chi le avrebbe recate di cielo in terra, per usar l’espressione di Socrate?» (ix, pp. 573-574). Tramontata l’età della «grande intelligenza» di un uomo solo, che «può precedere il progresso nazionale non rimurchiarlo» (xviii, pp. 1146-1147 e xxi, pp. 1347-1348), la ricerca di un complicato equilibrio richiede la formazione delle generazioni future, perché «con una carta stampata, e una festa nel Campo della Federazione si può bensì avviare ma non compiere il rinnovamento dei costumi» (xv, p. 954): «la vita dei popoli non si misura da quella degli individui: se noi figliuoli s’avea scontato la viltà dei padri, i figliuoli nostri forse avrebbero raccolto la messe fecondata dal nostro sangue e dalle lagrime. Padri e figliuoli sono un’anima sola, sono la nazione che non perisce mai» (xix, p. 1236). Pertanto, l’iniziativa efficace che Carlo sug gerisce è la «gran via maestra del miglioramento morale, della concordia, e dell’educazione alla quale si doveva piegare ogniqualvolta le scorciatoie ci avessero fuorviato» (xviii, p. 1127), una traiettoria lastri cata del coraggio della pazienza e di una lenta crescita generale della so cietà, basata su un bilanciamento di energie e di obiettivi: «Vedeva allora le cose tanto chiare che precedetti si può dire una generazione; e lo dico senza superbia, le idee di Azeglio e di Balbo covavano in germe ne’ miei di scorsi d’allora» (xix, pp. 1192-1193). Un passaggio dell’opuscolo Venezia e la libertà d’Italia, liberatoria esposizione del progetto civile e politico alla base del romanzo, documenta la dinamica del cambiamento: «Un luccicare di speranze sorrise alfine verso occi dente, e come il senno di Socrate richiamò la nostra fede dal cielo alla terra. [...] e cominciammo ad intendere che la strada per la libertà era quella dell’indipendenza, che a questa dovevano più presto menare la concordia pratica e viva e il savio atteggiarsi delle forze già esistenti che non l’unità sognata completa d’un colpo».10 In ottemperanza all’intendimento pedagogico consegnato al messaggio della «breve introduzione» (i, p. 3), stesa a lavoro ultimato, il cambiamento anagrafico dalla nascita ve neziana alla morte italiana iconizza il transito dal «mondo vecchio» al «mondo nuovo affatto» (xxiii, p. 1515), decreta l’esistenza di una nazione prima delle istituzioni, congiunge passato e fu turo nella mente di un narratore ancora suddito dell’Impero asburgico nel momento in cui raduna i suoi ricordi. Come l’autoidentificazione di un individuo si nutre dei fatti privati decisivi per la personalità, così il riconoscimento di un popolo riposa nell’archivio della memoria per ricostruire il percorso comune dalla solida condivisione di mete e di ideali. Il retaggio delle proprie radici, caparra di libertà, perché impedisce la dispersione identitaria, è «un tesoro che si accumula» (iii, p. 214) e incide a fondo nei meccanismi formativi, perché solamente nella conservazione della tradizione collettiva e nella feconda continuità delle gene razioni è raggiungibile un’indipendenza duratura in quanto germogliata nel maggior numero pos sibile di persone: «Siate uomini se volete esser cittadini; credete alla virtù vostra se ne avete; non all’altrui che vi può mancare, non all’indulgenza o alla giustizia d’un vincitore, che non ha più freno di paure e di leggi» (xi, p. 714). I «popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere» (xi, p. 755), ancoraggio di stabilità e di certezza avvalorato dalla gloriosa rigenerazione della Grecia, sollevatasi unanime nelle guerre d’indipendenza a far rivivere le im prese degli eroi antichi (iii, p. 214 e xxi, p. 1300), come insegna a Carlo la sorella Aglaura: «Così, o Carlo, le nazioni risorgono» (xx, p. 1297). Sulla stessa falsariga del romanzo, nel saggio Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, databile all’autunno 1859, un largo coinvolgimento del popolo, soprattutto rurale, realizza la meta di un mutamento non effimero e realmente nazio nale: «le nazioni sono composizioni d’uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono. La parte intelligente non può redimere col san gue la parte ignorante; deve anzitutto redimerla colla giustizia e coll’educazione. Ecco il sacrificio incruento ma più lungo e paziente che si richiede ora all’intelligenza italiana».11 Valerio Vianello Università di Venezia I. Nievo, Scritti giornalistici, a cura di U. M. Olivieri, Palermo, Sellerio, 1996, p. 285. Id., Scritti vari, in Le Confessioni d’un Italiano. Scritti vari, a cura di F. Portinari, Milano, Mursia, 1968, p. 858 (Attualità, in «L’Uomo di Pietra», 27 marzo 1858). 3 F. Moretti, Atlante del romanzo europeo (1800-1900), Torino, Einaudi, 1997, pp. 19 e 70. Una riflessione simile sviluppa Ippolito Nievo nel 1855, quando in un articolo pubblicato nel «Caffé» afferma di non sentirsi «a rigor di termine né di Mantova, né di Padova, né del Friuli», ma di aver concepito con il «vagabondaggio» un’idea di patria alla sua «maniera» (Scritti giornalistici, cit. p. 101). 4 I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Guanda, 1999, i, p. 64 (da cui si cita sempre con l’indicazione in numero romano del capitolo e in numero arabo della pagina). 5 Nei capitoli iniziali, oltre alla data di nascita, si ritrovano soltanto due segnalazioni temporali: la prima, del tutto indefinita, è immessa nella rubrica del capitolo i («verso il 1780»: p. 3), la seconda in quella del v («L’ultimo assedio del castello di Fratta nel 1786»: p. 301). 6 Che per Nievo gli anni dal 1789 al 1804 siano stati cruciali nel formare una coscienza unitaria è attestato dall’ampia porzione concessa al biennio giacobino e a quel periodo napoleonico all’interno del piano narrativo (capp. v-xviii). 7 xv, pp. 942-943: «Napoleone colla sua superbia coi suoi errori colla sua tirannia fu fatale alla vecchia Repubblica di Venezia, ma utile all’Italia»; xix, p. 1152: «Io perdono alcuno de’ suoi torti a Napoleone, quand’egli unisce Venezia al Regno d’Italia». 8 «La Venezia è la chiave di tutta Italia dalle parti di Germania: essa padroneggia il mare Adriatico e la valle del Basso Po»: Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale. Venezia e la libertà d’Italia, a cura di M. Gorra, Udine, Istituto Editoriale Veneto Friulano, 1994, p. 147. 9 M. Beer, L’Italia degli italiani nell’opera di Ippolito Nievo, in M. Tatti (ed.), Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 67-89; C. De Michelis, La geografia di Nievo e B. Falcetto, Mondo, città, paesi. Geografia e letteratura nella narrativa nieviana, in G. Grimaldi (ed.), Ippolito Nievo e il Mantovano, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 27-38 e 55-76; G. Ferroni, Italia e italiani nelle «Confessioni» di Nievo, in B. Alfonzetti, F. Cantù, M. Formica, S. Tatti (edd.), L’Italia verso l’Unità. Letterati, eroi, patrioti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 205-215. 10 I. Nievo, Rivoluzione politica, cit., pp. 142-143. La citazione riappare nel Dialogo della Filosofia con un nuovo stampo d’Avaro: «il mio ragionamento non sale tant’alto, dacché il dabbenuomo Socrate mi trasse in terra e il dabbenuomo Locke mi vi relegò» (Scritti giornalistici, cit., p. 223). 11 I. Nievo, Rivoluzione politica, cit., pp. 101 e 116. Si veda l’opuscolo Venezia e la libertà d’Italia: «se non fosse già antico assioma storico che le nazioni non muojono mai; e spinte una volta alla loro rigenerazione sanno trovare in tutto, anche negli espedienti della tirannia, opportunità d’incremento, scuola di virtù e di concordia» (p. 139). 1 2 Lyceum Dicembre 2012 23 Strumenti/Liminarismo storia delle idee 24 D La filosofia come sapere liminare all’osservazione della condizione esistenziale, che lo porta a constatare nella coscienza una dolorosa lacerazione che irrompe nella continuità del tempo, Vladimir Jankélévitch giunge ad una concezione positiva della vita, in quanto non siamo destinati a cadere nel nulla, ma a fare del tempo una durata con il suo profumo ineffabile di “tutto il giorno di tutti i giorni” Un tuffo nel passato È davvero sorprendente ed emozionante come, nell’atto di entrare al punto vendita della Feltrinelli nella Galleria Bardelli di Udine, per acquistare il saggio Da qualche parte nell’incompiuto, sia tornata indietro nel tempo, quando, giovane studentessa all’ultimo anno del Liceo Classico, il “T. L. Caro”, rimasi affascinata da una lezione su Vladimir Jankélévitch, filosofo ebreo-francese di origine russa. La famiglia era stata costretta ad emigrare in Francia dopo il pogrom del 1880, dove il padre Samuel, valente medico ed uomo coltissimo, tradusse per primo opere di vari autori, fra i quali Schelling, Hegel e Freud, e lui, nato a Bruges nel 1903 e morto a Parigi nel 1985, fu professore all’Università di Tolosa, di Lilla e della Sorbona, ma anche musicologo e pianista. Ciò che mi colpì allora e mi affascina ancora oggi é la concezione della filosofia come sapere che oscilla tra ciò che sembra ormai acquisito come certo e ciò che accentua la condizione nel segno dell’incertezza di ogni uomo che, pertanto, tende a scrutare più a fondo il senso della realtà in ogni sua manifestazione, per disvelarne il mistero, o almeno tentare, onde meglio orientare la propria azione. Carattere maggiormente evidente in particolari periodi critici che alimentano disorientamento ed incertezze sia a livello individuale che collettivo. Era l’anno dell’ultima rivoluzione del ‘900, quando sull’eco della rivolta studentesca negli Stati Uniti d’America contro la guerra in Vietnam, l’universo giovanile s’infiammò e propagò l’incendio in ogni parte del mondo. Era scoppiato il ’68, la cui identità era racchiusa in due slogan, variamente interpretati ma pur sempre carichi di significato: l’utopia dell’assalto al cielo e l’immaginazione al potere. L’opera oggetto della lezione era Le je ne sais quoi e le presque rien (Il non so che e il quasi niente) del 1957, con una duplice motivazione. Innanzitutto il richiamo alla militanza di Jankélévitch nel Sessantotto, in una sorta di continuità con le sue passate esperienze nel Fronte Popolare francese e, da clandestino, nella Resistenza (tre momenti particolari della sua vita politica, tre occasioni non lasciate sfuggire, ma colte e vissute come possibilità in quel vortice temporale in cui si producono eventi nuovi per una nuova figura del mondo). E, poi, soprattutto, l’originalità di un pensatore eclettico che, ponendosi oltre la filosofia classica per registri tematici e codici linguistici, ha la capacità di dar voce al ritmo dell’esistenza, con i suoi slanci e i suoi fervori che danno il brivido dell’avventura. Così come in occasione della sua chiamata alle armi che, essendosi egli schierato dalla parte della Francia occupata, venne subito revocata. E gli venne tolto anche l’incarico all’Università di Tolosa. La sua colpa? Essere ebreo! La sua reazione? Entra a far parte dei movimenti clandestini della Resistenza, avviando nel contempo un’implacabile lavoro di riflessione etico-politica sugli eventi che si stavano determinando in Europa, il cui esito drammatico era rappresentato dalla persecuzione e dallo sterminio degli ebrei. Un lavoro che prosegue ininterrottamente fino alla morte. Dimostrazione, questa, di come il filosofo, attento a cogliere sfuggenti ed ineffabili aspetti del reale, fosse dotato di una tempra morale intransigente e decisa. Quella che lo induce, in quegli anni brucianti, a “fustigare, senza giri di parole e con i termini più duri, diretti e veementi, il pericoloso impasto di cialtroneria mitologizzante e sanguinaria volontà di potenza insita nel nazismo”. Ma anche nel seguire con rara attenzione le vicende della città, ossia gli avvenimenti della concreta realtà storico-politica. In particolare quando, dopo la guerra, in un clima ambiguamente conciliante, incline ad un troppo facile oblio e ad un troppo comodo perdono, assunse un’inflessibile posizione nei confronti dei crimini nazisti contro l’umanità, lucidamente espressi nel libro L’Imprescriptible, uscito postumo nel 1986, contenente due testi pubblicati in precedenza, Pardonner? del 1971 e Dans l’honneur et la dignité, edito nel 1948. Tesi centrale di questi scritti è un’indelebile fedeltà alla memoria verso le vittime di tanto orrore, altrimenti annientate 25 una seconda volta. Tanto comporta il chiaro convincimento che, di fronte a determinati accadimenti, non ha senso, né la minima incidenza, lo scorrere del tempo ma anche una forza di insegnamento tale da aiutare a mantenere vigile l’attenzione verso pratiche, scenari e comportamenti sempre insidiosamente ricorrenti. Monito di cui il filosofo si fa interprete con una battuta non priva del suo proverbiale umorismo: “Io scrivo per il XXI secolo”. Struttura e contenuto del non so che Divisa in tre parti, La maniera e l’occasione – La disconoscenza e il malinteso – La volontà di volere, l’opera espone la concezione della filosofia del non so che, un sapere che poggia sulla tradizione mistica neoplatonica, ebraica, spagnola e russa e che dà ampio spazio al rapporto tra ontologia, etica, estetica e musicologia. Rapporto arricchito dal richiamo a Schelling, sul quale aveva scritto la tesi di dottorato, L’odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, e a Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 26 Bergson, di cui conservava l’analisi psicologica delle più diverse e recondite situazioni spirituali e dei momenti tipici dell’umano, potenziando, però, fino a radicalizzare nelle opere successive, la temporalità nel suo versante quotidiano e accentuando la condizione della filosofia che, non potendo accedere a nessuna ulteriorità, si ribalta nell’al di qua. Centrale in tutta l’opera è la consapevolezza che l’essere è inafferrabile e non riconducibile a concetto. Il quid sfugge ad ogni tentativo di conoscenza, tuttavia non è un niente, quello per cui si vivrebbe sospesi nel vuoto, ma un quasi niente che produce il disagio della coscienza dinanzi ad una verità incompleta perché non evidente e non dimostrabile, un innominato innominabile, “qualche cosa che non esiste, e che tuttavia è la più importante tra le cose importanti, la sola che valga la pena di essere detta e proprio la sola che non si possa dire”. Dal rapporto ricorrente tra il sapere e il quasi niente nasce l’idea di una conoscenza di natura intuitiva. L’intuizione rivela, sulla scia di Bergson, l’essenza della totalità, ovvero il suo mistero, per cui il non so che non è la cosa che al momento manca, ma lo charme che riveste la totalità e ne fa un tutto, ovvero il messaggio che ancora ci sfugge. Ciò di cui sono capaci gli artisti, in modo particolare musicisti e poeti, ovvero di percepire al presente lo charme nostalgico del passato, nella persona comune, purchè sensibile al fascino della vita che, senza appartenerci in modo totale, ci costituisce, si manifesta come la capacità di intuire l’opportunità, di cogliere l’occasione e l’istante favorevole, di colmare la dissimmetria tra azione e charme. Donde “la natura ambigua della libertà umana, che corrisponde meno all’evidenza univoca di Descartes” (quella che non può essere oggetto di dimostrazione perché è il punto di partenza di ogni discorso possibile) “che all’evidenza equivoca di Pascal” (la totalità della realtà che, per natura, eccede la ragione) “e si configura come altalena nell’evidenza simultanea dei contrari”. Dal non so che alla teoria dell’incompiuto Molte delle categorie interpretative di questa opera, come charme, occasione, volotnà, libertà, vengono riprese nel saggio Da qualche parte nell’incompiuto, (titolo che riproduce una frase di Reiner Maria Rilke, per meglio rendere il senso di un’interrogazione intensa e radicale della pratica quotidiana) di cui l’Einaudi, come per la prima, ha curato l’edizione, giustificata in tal modo da Roberto Esposito: “In una stagione come questa, caratterizzata dall’assoluta incertezza delle prospettive e quasi da un’inafferrabilità di ciò che sta al fondo dell’esperienza quotidiana, il pensiero di Jankélévitch … torna ad interpellarci”. Ancora più sorprendente cogliere in questo giudizio il medesimo senso della motivazione data, tanti anni fa, da un ottimo insegnante ai suoi alunni in un intreccio mirabile tra filosofia e storia, operazione metodologico-didattica non sempre possibile. Anche in quest’ultimo saggio, dunque, motivo caro all’autore è il tema della coscienza come inquietudine interiore, come segno di contraddizione tra me e me stesso, che, in quanto tale, mi costituisce nella mia esistenza spirituale. La coscienza, difficile punto di incrocio fra irreversibilità indelebile del passato e contingenza indeterminata dell’avvenire, è misura della condizione inadeguata, che precede e segue ogni atto, tra il bisogno di un’integrazione e l’insufficienza della meta raggiunta. E, per riprendere la prima motivazione alla base della lezione di cui sopra, è un riproporre, nel bene e nel male, la genesi e l’epilogo di quel ’68 assunto come snodo, pur nella concomitanza non certo casuale tra l’anno in corso e la volontà dell’autore di dare la propria adesione ad un fenomeno al limite tra accettazione e rigetto. In questo dialogo senza fine, l’esistenza si rivela a se stessa molto più che nella contemplazione puramente intellettuale, quella per cui il rapporto soggetto-oggetto si raggela in una sterile e nitida fissità. Prezzo di questo tragico privilegio è la sofferenza con cui la coscienza cattiva pretende di riscattare e purificare se stessa dal fardello del rimorso come presenza del passato, che è inesorabilmente presente, e che non può essere modificato. Motivo riproposto nella dialettica dell’alternativa: vivere significa scegliere, e quindi sacrificare infinite possibilità ad ogni particolare realizzazione. Eppure nella scelta, oltre all’aspetto negativo, esiste anche l’aspetto positivo, che costruisce il tempo come durata e la vita come volontà feconda di azione, a partire dall’occasione portatrice di novità irripetibili perché gravida di potenzialità che tocca all’uomo rendere attuali. Occasione che è fuggitiva, arriva, passa e va e guai a non afferrarla. Ma per fare tanto è necessario combinare vigilanza, duttilità, decisione, abbandono e, soprattutto, prontezza di spirito, quella che consente al cacciatore di catturare un’agile preda. Già Machiavelli, nelle poesie allegoriche, chiede a Occasione perché non si riposi mai, perché abbia le ali ai piedi, perché sia sempre in movimento ed essa gli risponde che mentre lui perde del tempo prezioso a farle domande lei è già sfuggita dalle sue mani. Tuttavia, Occasione tende una corda alla coscienza inquieta, capace di alimentare il caso grazie alla sua volontà di volere. La realtà è un divenire continuo, perciò, nell’arco di tempo che ci è dato di vivere, in piena libertà dobbiamo assumere la responsabilità delle nostre azioni. È per questo che il nostro agire non può e non deve essere regolato da schemi fissi ma deve essere finalizzato a vivere appieno le multiformi sfaccettature dell’essere nel mondo. L’evoluzione simultanea dei contrari Ci si trova di fronte ad una vera e propria mistica della vita quotidiana con la serie di con- trari che, spesso, finiscono per convergere fino a costituire l’uno il cuore dell’altro. È ciò che accade nella sfera etica, così come evidenziato a proposito della coscienza cattiva, che può pure pentirsi del male commesso ma sicuramente non può cancellarlo. Anche se, paradossalmente, ciò che è imperdonabile sfida il perdono a toccare il suo margine più estremo, allo stesso modo dell’amore non ricambiato che, nonostante tutto, si identifica con un vero atto di dedizione assoluta. Ma anche dell’amore in genere, che non seleziona dei caratteri, ma accoglie la persona per intero… L’amore non vuole sapere nulla su ciò che ama; quel che ama è il centro della persona vivente, perché questa persona è per lui fine in sé, ipseità incomparabile, mistero unico al mondo. Immagino un amante che abbia vissuto per tutta la vita accanto a una donna, che l’abbia amata appassionatamente, senza mai chiederle niente e 27 che muoia senza sapere niente di lei. Forse perché sapeva sin dall’inizio tutto quello che c’è da sapere. (Da qualche parte nell’incompiuto, pag. 8). È ciò che, per una magica contraddizione, unisce la musica al silenzio, laddove la prima è circondata, scandita, inaugurata dal secondo che, in tal modo, diviene origine, materia e fine della prima. La musica, infatti, vive di silenzi che, insieme a pause e sospiri, la scandiscono e la fanno respirare e senza i quali sarebbe solo un rumore soffocante. Così come, magicamente, rappresentata dalle transizioni di Debussy, ovvero dal passaggio dalla cangiante varietà del colore tonale al graduale svanire del profumo stesso della tonalità. Che, poi, altro non è che il mistero stesso della vita, quale summa dei contrari: essere e non-essere, innovazione dinamica e ripetizione noiosa, acquisizione continua e perdita inevitabile… Angelina Rainone Novembre 2012 Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo antropologia del mondo antico “Civiltà di colpa” e “Civiltà di vergogna” 28 R uth Benedict, studiando i comportamenti etnici tra la popolazione del Giappone, distingue le civiltà di colpa (guilt culture) dalle civiltà di vergogna (“shame culture). Nelle civiltà di colpa, che sono regolate da divieti divini, il deviante sente il bisogno della purificazione essendo consapevole della responsabilità di avere violato i dettami della religione. Le civiltà di vergogna hanno il più forte deterrente nella vergogna sociale, perciò i componenti del gruppo agiscono nella rigorosa osservanza dei valori collettivi per conquistarsi la stima; i modelli del comportamento sono trasmessi come consuetudini comunitarie, la cui trasgressione comporta la riprovazione del gruppo e l’emarginazione. Mentre, quindi, la cultura della colpa fa scaturire la devianza dal rapporto tra la religione e l’individuo su cui ricade la pena, nella cultura di vergogna la colpa proviene dai rapporti sociali, ed è molto temibile perché contaminante per la famiglia, i parenti, gli amici. Eric R. Dodds, basandosi sui modelli culturali illustrati dall’antropologa americana, ascrive la civiltà omerica alla civiltà di vergogna. Gli eroi greci, che costituiscono un gruppo di pari (di cui l’Atride Agamennone detiene la leadership pro tempore per quanto durerà la guerra contro la città di Troia) hanno come criterio guida la considerazione che le loro azioni possano suscitare sugli altri e badano a non incorrere nella vergogna (aidòs) che genera biasimo. Certamente, tra le tende degli eroi omerici non manca la tensione tra l’impulso individuale e la necessità del conformismo sociale, ma è quest’ultimo che deve prevalere. E qualora un eroe ceda a un comportamento indegno del suo rango, attribuirà la colpa ad una forza esterna (ate) che ha accecato momentaneamente la sua mente. Trattandosi di una forza demoniaca, l’uomo si scagiona della responsabilità dell’azione in quanto un essere umano, anche se eroe, non può contrapporsi all’impulso provocato da un’entità superiore. Capita ad Agamennone di chiamare in causa ate per il fatto che, essendo stato costretto a restituire la sua schiava al padre Crise dal volere del dio Apollo, si era preso con la forza la schiava di Achille, scatenando l’ira dell’eroe più valoroso e producendo di conseguenza numerose stragi tra i suoi combattenti. In questo tipo di società il sentimento di giustizia non è proiettato al divino, e pur vigendo la funzione pubblica del collegio degli anziani (come figura sui bassorilievi dello scudo di Achille), la giustizia interessa l’onorabilità dell’individuo a cui spetta la vendetta. Che nelle civiltà di vergogna la forza morale più efficace derivi dall’opinione pubblica lo dice chiaramente Ettore che decide di affrontare il Pelide nonostante sia sicuro di andare incontro alla morte: egli può accettare la morte (che lo consacrerà come eroe); quello che è inaccettabile è il giudizio sprezzante dei troiani e delle troiane “dal lungo peplo” (è l’unico caso in cui le donne siano citate come fonte temibile di giudizio al pari degli uomini). Le gesta celebrate nell’epica sono paradigmatiche e gli eroi che le compiono figure da conservare integre, miti basilari nella paideia dell’antica Grecia con cui i giovani devono identificarsi oltre a sentirvi il legame con i coetanei e l’intero gruppo sociale. Il biasimo che deriverebbe da comportamenti inadeguati da parte dei personaggi-modello è tanto grave da non potersi ammettere, perciò per giustificarli si elabora un’ideologia che li esenti dalla responsabilità delle azioni giudicate turpi nel sistema dei valori del loro rango. L’obiettivo pedagogico è talmente importante che, pur di scagionare l’eroe, non si esita ad imputarne gli errori alla volontà degli dei o comunque alla forza di un daimon. Nella società omerica manca la soglia dell’in- teriorizzazione della colpa, nel cui territorio s’innesta un’inquietudine che priva l’essere della serenità facendolo vivere in una situazione di stress; questo non è il caso degli eroi omerici che non mirano al godimento della serenità della loro coscienza (come succede nelle cosiddette civiltà di colpa), bensì al possesso della stima (timé) dei propri pari. Ci si aspetterebbe che gli onori siano commisurati alle azioni, ed infatti Achille, che ha preferito una vita breve e gloriosa ad un’esistenza lunga ma grigia, è celebrato come il più grande degli eroi. Nelle culture di vergogna, però, non è necessario compiere grandi imprese per ottenere la stima: basta non deviare dalle norme collettive, tanto è vero che Achille lamenta il fatto che anche chi non combatte valorosamente è tenuto nella stessa considerazione di chi impegna il suo valore (areté) in gesta ardimentose. Il timore della vergogna, che facendo “perdere la faccia” espone l’uomo al ridicolo e al disprezzo della 29 comunità, come attesta la letteratura greca, si protrae nell’epoca arcaica. Si tramanda che i giambi del poeta Archiloco furono tanto ingiuriosi contro Licambe e le sue figlie da indurli al suicidio non potendo tollerare l’onta della vergogna. Anche gli scultori Bùpalo e Atènide preferirono morire piuttosto che perdere la reputazione a causa dei giambi che contro di loro scrisse Ipponatte. Sebbene, con il passare del tempo, il modello della società precedente sia superato da comportamenti e da idee diverse, specialmente con la civiltà delle poleis, l’evoluzione, dice M. Arnold, ha “un’estrema lentezza”, e numerosi aspetti del passato restano tra le pieghe della storia, cosicché pur essendo subentrata, nelle coscienze individuali, la paura del giudizio degli dei, permangono il timore della riprovazione sociale e la conformazione ai valori eroici, che alimentano il senso di appartenenza alla società inibendo la devianza dal conformismo sociale. Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 30 La soglia della nuova cultura, cioè, s’incontra con quella tradizionale, né si esaurisce nel mondo antico. Il conglomerato culturale della civiltà di vergogna, attraversando le soglie delle varie epoche, si è prolungato fino al nostro passato recente. Per tutta la durata delle società preindustriali, la formazione dei giovani è stata improntata alla paura della vergogna, una vergogna ancora contaminante come l’antica ybris che coinvolgeva nella riprovazione sia il responsabile che il gruppo parentale, e trasformava i componenti della collettività in vigili custodi della morale comune. Non esisteva, in queste aggregazioni, nessuna idea della privacy; ognuno viveva scrutato dai cento occhi di Argo del vicinato intento a rilevare le deroghe e a segregare i devianti ai margini della società. Ogni famiglia si adoperava a non incorrere nel vituperio, per fare “bella figura” agli occhi degli altri e conquistarsi la stima mantenendosi nel solco delle norme sancite dalla consuetudine. Più che i comportamenti positivi, il sistema pedagogico familiare trasmetteva le proibizioni, fonte di vergogna. “È vrigogna de la gente”, ammoniva la madre calabrese, nel trasmettere il lungo elenco dei divieti alle figlie, badando all’evitazione del biasimo sociale e senza curarsi minimamente della salvaguardia dell’interiorità né dei riflessi psicologici delle azioni. Anche i criteri morali, nonostante si trattasse di comunità cattoliche, permanevano oltre i confini del cristianesimo. Lo attestano i delitti compiuti per il riscatto dell’onore che hanno prolungato la catena della vendetta. Dal repertorio canoro calabrese ci giunge il canto di un uomo che, raggirato nella scelta matrimoniale, sposa la donna indesiderata per evitare d’incorrere nella “vrigogna de la gente”, ma subito dopo l’uccide ritenendo l’omicidio la giusta vendetta e quindi il riscatto del suo onore a prezzo del sangue. Nonostante l’insegnamento cattolico inserisse negli animi la cultura del rimorso per il male commesso, rimaneva più forte il timore di derogare dalle norme collettive e di “perdere la faccia”. In alcuni punti, comunque, i confini delle due concezioni stranamente s’incrociano. S’intersecano le soglie della contaminazione della colpa del conglomerato culturale della “vergogna” con la contaminazione del peccato originale, che si trasmette senza interruzione sui discendenti di Adamo; s’incontrano persino le soglie arcaiche di ate e quelle dell’intervento divino nei peccati del cattolico, così come si deduce da una delle preghiere più diffuse il “Pater Noster”, nel punto in cui si chiede a Dio di “non indurci in tentazione”. In quest’ultimo caso si tratta di una frase ripetuta meccanicamente, che comunque dimostra come residui di vecchi conglomerati culturali resistano, anche se privi dei significati remoti, ai bordi della nostra attualità che ha ormai varcato definitivamente la soglia della civiltà di vergogna. Vittoria Butera Saggista e scrittrice Falerna Marina (Cz) Bibliografia R. Benedict, Il cristianesimo e la spada. Modelli di cultura giapponese, trad. it. Dedalo, Bari 1993. E. R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, tr. it. BUR, Bergamo 2011. letteratura italiana Una condizione liminare: l’umanità delle bestie e la bestialità T degli uomini in Federigo Tozzi oppa era morto di vecchiaia. Lo trovarono una mattina di febbraio, sotto il carro; nell’aia. Il gelo lo aveva attaccato in mezzo ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo a un olivo, suonò come un tamburo; e fece, perciò, ridere. È una delle sequenze più dure del romanzo “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, ma anche più rivelatrici della sua visione del mondo e della sua psicologia. Sicuramente la letteratura è ricca di animali più o meno umanizzati e di cani con cui l’autore e il lettore “simpatizzano”: ci si sovviene subito di Bendicò nel “Gattopardo”, verso il quale l’affetto di don Fabrizio è superiore a quello che prova per i suoi familiari. Si pensi alla seguente scena: La giornata era stata cattiva…. Bendicò nell’ombra gli strisciava il testone contro il ginocchio. “Vedi: tu Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia.” Sollevò la testa del cane, quasi invisibile nella notte. “E poi con quei tuoi occhi al medesimo livello del naso, con la tua assenza di mento, è impossibile che la tua testa evochi nel cielo spettri maligni. Non è certo un caso unico, quindi, l’interesse di Tozzi per gli animali e la loro umanizzazione, ma nel “Gattopardo” Bendicò rimane un cane; semmai in Tomasi di Lampedusa sono fondamentali le simbologie legate alle bestie (i gattopardi, gli sciacalli, i cani). Con il Naturalismo-Verismo si è assistito prevalentemente all’imbestiamento degli uomini, come nella “Bête humaine” di Zola, dove il macchinista Jacques Lantier manifesta tutta la sua malvagità derivatagli da tare ereditarie cui non può sottrarsi. In Verga si assiste a uno zoomorfismo che investe molti personaggi, in particolare nelle similitudini (la Lyceum Dicembre 2012 31 Strumenti/Liminarismo 32 Longa quando il figlio parte militare è come una gatta cui abbiano sottratto i micini; spesso compare Alfio e ‘Ntoni sono apparentati agli asini), e questo è un procedimento tipico del cosiddetto “artificio della regressione”. Tuttavia è con l’autore senese che si assiste a una sorta di ribaltamento dei ruoli: gli uomini sono spietati e violenti come belve e le bestie sembrano dotate di una sensibilità umana. L’interesse per il mondo animale è precoce in Tozzi e sicuramente ispirato dalla vita in campagna, ma anche dalla lettura dei poeti medievali e dei bestiari, la cui valenza allegorica emerge chiara nella prima produzione, dove alcuni animali hanno non solo funzione narrativa o esornativa, ma anche allegorica, come in “Bestie”. Il punto più alto, però, è sicuramente raggiunto con la fine del cane Toppa: Toppa era morto di vecchiaia equipara la scomparsa del cane a quella di un uomo (Borio era morto d’una polmonite). Dopo questo “incipit” degno della fine di un protagonista, il registro stilistico diventa più connotativo quando assistiamo alla dissacrante descrizione del suo ritrovamento che non risparmia i particolari ripugnanti: Lo trovarono una mattina di febbraio, sotto il carro; nell’aia. Il gelo lo aveva attaccato mezzo ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo a un olivo, suonò come un tamburo; e fece, perciò, ridere. La nota comico-realistica della carogna che suona come un tamburo, suscitando le risa dei braccianti, produce un effetto di straniamento (neppure di fronte alla morte gli uomini-bestia si commuovono). Subito dopo il narratore ci propone un flashback sulla vita del cane e sulle sue traversie che inizia con l’osservazione era stato dopo la castratura piuttosto cattivo che ispira nel lettore un accostamento con l’incipit di “Rosso Malpelo”: Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. La presunta cattiveria dei due, del ragazzo e del cane, è stata determinata dall’ambiente, ma soprattutto dagli uomini. Toppa non è semplicemente malvagio, ma ha anche un temperamento triste, “asociale” a causa della sua vita infelice (non ebbe voglia di ruzzare nemmeno da piccolo) perché è stato segnato fin dall’infanzia dai maltrattamenti (Da piccolo, a pena slattato, Domenico lo legò al ferro del pozzo; e, quando guaiva, gli assalariati avevano l’ordine di pigliarlo a calci.) È, quindi, “cattivo” per la “formazione” che ha ricevuto. Il Rosi, suo proprietario e padre di Pietro, protagonista del romanzo “Con gli occhi chiusi”, aguzzino nei confronti del figlio e della bestia, quando riceve la notizia della sua morte pensa solo che l’aveva pagato poco e ordina di conservare il collare. Anche qui il maestro è Verga: la reazione di Domenico non è diversa da quella degli abitanti di Aci-Trezza alla notizia del naufragio della “Provvidenza”: Che disgrazia! dicevano sulla via. E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini! La reazione di Domenico per la morte di Toppa è simile a quella che aveva avuto per la morte della moglie. Anche qui domina lo straniamento: La morte di Anna era stato un vero danno per Domenico. I sottoposti non lavoravano più quanto prima… D’altra parte il Rosi ha lo stesso carattere iroso del suo cane: se Toppa reagisce azzannando e uccidendo gli altri cani, il padrone era preso da uno sconforto che lo rendeva furioso e non era infrequente che se la pigliasse con qualcuno senza ragione. Il cane, quindi, è un alter-ego di Domenico che, a sua volta, è un alter-ego di Toppa, come lo è per molti versi di mastro-don Gesualdo (si vedano gli scoppi d’ira dell’eroe verghiano). La sola risposta che conoscano è la violenza. Toppa obbedisce solo a lui e a Giacco, il vecchio che è l’unico a manifestare pietà verso il povero cane. Giacco si commuove (Giacco pianse) non tanto perché sia più sensibile degli altri, ma perché accomuna il suo destino a quello del cane (Noi faremo la stessa fine). I braccianti scherniscono anche lui (Che ci fanno i vecchi al mondo?). Negli scritti tozziani gli uomini sono spinti da impulsi primari e probabilmente la parte più importante del corpo è il ventre; nel romanzo “Le tre croci” domina il tema gastronomico e i tre fratelli senesi, protagonisti del romanzo, sono ossessionati dal cibo. Masa, la moglie di Giacco, che continua a mangiare anche al cospetto della carogna di Toppa, picchia il ventre con un pugno, esclamando: Se mangio dell’altro, le budella mi fanno gomìcciolo in corpo. Giacco si sfoga sulla moglie ignara di cosa i braccianti gli avessero detto. In questa scena s’inizia con il macabro suono della carogna del cane e si finisce col suono animalesco del ventre della vecchia che si ingozza. Un cerchio si chiude: la morte si esorcizza mangiando. Carlo Pica Docente di Lettere Liceo Scientifico “Ugo Morin” Mestre-Venezia 33 Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo LETTERATURA & CINEMA Dante, il cinema della mente 34 Un’interpretazione del Poema dantesco attraverso il linguaggio cinematografico. Regia onnisciente e dettagli rivelatori, allusive dissolvenze e colonne sonore: questi e molti altri universi squaderna il Viaggio per eccellenza, di tra orizzonti divini eppur profondamente umani. Un linguaggio cinematografico ante litteram “Le visioni della Commedia si presentano a Dante come proiezioni cinematografiche”. È questa una delle più grandi intuizioni di Italo Calvino (Lezioni americane, 1988) riguardo all’approccio del Sommo Poeta alla realtà fisica e metafisica e alle sue tecniche di comunicazione nei confronti del lettore. Volendo applicare a tutta la Commedia questa prospettiva audace e moderna, potremmo parlare di “cinema della mente” nel Sacro Poema. Questo equivale a pensare che il piano dell’Opera di Dante sia tutto già nella sua mente e che egli ce lo fa vedere e auscultare (non semplicemente “ascoltare”: l’auscultazione, tipica del medico, comporta la percezione diretta sul corpo della realtà). Perciò noi proporremo qui di seguito un’interpretazione di alcuni passi del Poema alla luce delle tecniche del cinema e delle varie tipologie di musica. L’Inferno: un film noir Non possiamo non rintracciare i primi fotogrammi del “cinema della mente” dantesco in una scena da film, tra il rosa e il noir, nell’immortale V canto dell’Inferno: il film della passione amorosa di Paolo e Francesca: Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante”. Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade. Inf., V, vv. 127-142 A livello filmico, la scena della caduta nel peccato (vv. 127-138) è descritta in modo poeticamente ambiguo. Dal punto di vista spaziale è fortemente condensata: i due amanti si trovano in uno spazio ristretto e concentrato, molto vicini fra loro. Invece, dal punto di vista temporale essa è fortemente dilatata: imprecisa, infatti, è la notazione un giorno (v. 127), prolungata è l’azione dell’imperfetto durativo leggiavamo (v. 127) e, infine, ripetuto è l’atto sottilmente erotico del guardarsi più fiate (v. 130). A questo effetto di dilatazione segue l’applicazione di un’altra tecnica formale del linguaggio filmico: la cura del dettaglio. In questo caso è la bocca, che qui è duplicata in due sinonimi: riso e bocca. La prima parola, ripresa dal codice cortese e letterario, sottolinea il ruolo di colpevole Galeotto (v. 137), svolto dal libro che narra gli amori di Lancillotto e Ginevra. La seconda parola rientra, invece, nel codice quotidiano, per cui richiama il lettore alla realtà e alla carnalità dell’accaduto. Ma fra le due dimensioni della letterarietà (riso) e del realismo (bocca) dell’episodio si incunea adesso una terza dimensione, che trascende le altre due: quella dell’Eternità espressa dall’avverbio mai (mai da me non fia diviso, v. 135), che esprime la punizione eterna di Dio. E rispetto al male della Storia è necessario che Dante-personaggio “muoia”: nel senso paolino del termine. Vale a dire il poeta e, con lui, i suoi lettori, devono “morire rispetto” al peccato (inteso come filmica caduta: caddi come corpo morto cade), dunque superarlo e vincerlo. Il film giallo di Ugolino. Da Paolo e Francesca al Conte Ugolino della Gherardesca: dal rosa-noir al giallo. Truce e bestiale. Nella macabra ouverture del canto XXXIII il famigerato conte rode il cranio dell’Arcivescovo Ruggieri, il quale lo fece incarcerare con due figli e due nipoti. Con un linguaggio “cinematografico”, tutto il racconto del Conte si 35 inscrive nell’ambito di un flash-back, con il quale egli sintetizza in circa 60 versi (vv. 16-75) il lungo arco temporale (dal luglio 1288 al marzo 1289) della vicenda. Il ricordo si apre con la messa a fuoco di un dettaglio spaziale: la nostra attenzione si concentra, infatti, sulla finestrella della torre della Muda, che rinvia all’altrettanto angusta stanza dei prigionieri: da qui e attraverso il breve pertugio il lettore insieme ad Ugolino (focalizzazione interna) guarda la luna, azione compiuta per molte notti. Dopo il dettaglio spaziale l’autore della Commedia passa ad un dettaglio temporale. All’interno, infatti, del lungo periodo di detenzione durato circa 9 mesi, Ugolino (grazie al Dante-regista) predilige un brevissimo momento, che dura quanto un sogno. Nel corso di esso, egli e i suoi figli e nipoti immaginano di vedere l’arcivescovo Ruggieri a capo di una battuta di caccia sul monte di Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo San Giuliano con cagne magre, ammaestrate e fameliche contro un lupo e i suoi lupicini, cioè contro Ugolino e i suoi congiunti. L’inseguimento è tipicamente cinematografico, perché ci “fa vedere” gli inseguitori che guadagnano terreno e gli inseguìti, che, stanchi, rallentano la corsa (il sogno suggerisce una tecnica da ralenti) e soccombono nei loro confronti. Questo raccapricciante film giallo si chiude con un tremendo interrogativo: Ugolino si è macchiato o non si è macchiato del reato-peccato di cannibalismo nei confronti dei suoi figli e nipoti? “Poscia che fummo al quarto dì venuti Gaddo mi si gettò disteso a› piedi, e disse: «Padre mio, ché non m›aiuti?». 36 Quivi morì; e come tu mi vedi, vid›io cascar li tre ad uno ad uno tra il quinto dì e ‹l sesto; ond›io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti Poscia, più che il dolor, poté il digiuno.» Inf., XXXIII, 67-75 Accusa e difesa hanno sfoderato le prove più assurde e raccapriccianti. A noi piace aderire alla tesi di Jorge Luis Borges, il quale disse che Ugolino ha mangiato e contemporaneamente non ha mangiato i figli. Li ha mangiati perché si è avventato su di loro in quanto accecato dalla fame, ma, proprio perché accecato, ha pensato che quelli che stava divorando non erano i suoi amati figli, bensì i suoi odiati nemici. Un grande giallo, come questo, proiettato nella e dalla mente di Dante, non poteva avere epilogo più solenne e più conturbante. Il Purgatorio: l’epifania delle immagini tra le note di una colonna sonora Da una epifania del male nell’Inferno ad una epifania del Bene nel Purgatorio: un Angelo appa- re per la prima volta nel Poema. Siamo nel II Canto del Purgatorio. Egli, apparendo nella sua diafana figura, traghetta (da anti-Caronte) le anime verso la spiaggia del Purgatorio. Dante qui sfodera la sua sapiente tecnica di regista ante litteram con un uso sorprendente di panoramiche e zoom, di primi piani e dettagli: Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ’l suol marino, cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sì ratto, che ’l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com’io un poco ebbi ritratto l’occhio per domandar lo duca mio, rividil più lucente e maggior fatto. Poi d’ogne lato ad esso m’appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscio. Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue, tra liti sì lontani. Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo, trattando l’aere con l’etterne penne, che non si mutan come mortal pelo». Purgatorio, II, 13-24 e 31-36 Dante, dunque, inizia con un campo lungo, in cui si vede un bianco indistinto, su cui la macchina da presa opera un coinvolgente zoom, che man mano delinea l’arrivo del nocchiero. Poi Dante-scrittore si concentra su alcuni primi piani: quello di Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi e quello dell’Angelo che avanza ad ali spiegate e fa il segno di croce rivolto alle anime. Anche le sue ali sono a forma di Croce; allo stesso modo, una prefigurazione della Croce fu considerata la cetra di David. Croce e cetra: due parole-chiave. La prima ritornerà come simbolo assiale nel Para- diso, la seconda richiama la musica, protagonista assoluta del II canto del Purgatorio. E tutti gli spiriti, tra gioia e luce, in una filmica scena di massa, intonano il Salmo 113 In exitu Isräel de Aegypto, incentrato sulla liberazione degli Ebrei. La scelta di Dante di questa colonna sonora è chiara: essa si giustifica con l’ottica figurale (e con una lettura in filigrana: un dato in primo piano sfuocato e un altro dato in secondo piano ben focalizzato). In questo caso la liberazione degli Ebrei prefigura la liberazione dal peccato di tutti i battezzati. Dante, nella sua concezione della musica, fu molto influenzato dal trattato di Severino Boezio, De institutione musica (scritto intorno al 500 d.C.). In quest’opera la musica è suddivisa in tre categorie principali: la musica instrumentalis (realizzata con gli strumenti musicali), la musica humana (che esprime l’armonia dell’anima umana) e la musica mundana (che si identifica con l’armonia dell’universo). Nel Purgatorio, proprio a partire dal II canto -con il Salmo In exitu e con Casella- cominciano ad affermarsi la musica instrumentalis e, soprattutto, la musica humana che fa da colonna sonora al cammino dell’anima verso l’eterna salvezza. Il Paradiso: la scrittura filmica che “fa vedere” La salvezza e la gioia celebrano il loro trionfo nella cantica del Paradiso. Qui Dante inventa una nuova sceneggiatura cinematografica, incardinata sulla scrittura iconica, in virtù della quale al lettore basta “guardare” la parola e riesce a “vedere” un concetto, anzi un simbolo. Un esempio folgorante del cinema della mente del Paradiso lo troviamo all’inizio del I Canto con l’immagine della Croce che si squaderna nel Cosmo infinito. I vv. 37-42 descrivono la posizione della lucerna del mondo, cioè del Sole, nel punto dell’equinozio primaverile, il quale -dice Danteè l’incontro dei 4 cerchi formanti 3 croci. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera più a suo modo tempera e suggella. Paradiso, I, 37-42 E allora, che cosa significano i quattro cerchi e le tre croci? Questo enigma potrebbe ben figurare in una tipologia di film dell’arcano. Noi abbiamo provato a proporre una risposta. Mettendo in fila i nomi dei 4 cerchi e il termine “Croci” formate da essi (Equatore, Croci, Coluro equinoziale, Eclittica e Orizzonte) e tenendo conto del fatto che il nome latino (e grecizzante) di Orizzonte è Horizon, ci troviamo di fronte a un messaggio di senso compiuto e di alta pregnanza: ECCE HO., sigla che rimanda a ECCE HOMO, cioè Cristo crocifisso, espressione che risulterebbe “scritta” sullo schermo del cielo. L’intera struttura del Cosmo, dunque, esiste per “significare” la morte e la resurrezione di Cristo. Insomma, una sigla 37 emblematica è proiettata sullo schermo del cielo, quasi in 3 D. E un film in 3D può essere considerato l’intero XXX canto del Paradiso. Come si legge in questo canto, la luce si distende, dinanzi agli occhi del Poeta, in forma di cerchio, che esprime il con- Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se› colei che l›umana natura nobilitasti sì, che ‹l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l›etterna pace così è germinato questo fiore. Par., XXXIII, 1-9 38 cetto della perfezione. La circolarità della luce si traduce, infine, nella metafora dell’anfiteatro (vv. 109-114). I beati splendenti si dispongono in alto per godere lo spettacolo della luce, simili ad una circolare rosa sempiterna. Anche qui potremmo immaginare una stupenda colonna sonora, che forse Dante stesso conosceva: la cantiga Rosas das rosas, la più famosa delle “Cantigas de Santa Maria”, scritte o raccolte da S. Alfonso el Sabio, re di Castiglia e Leon, nella seconda metà del sec. XIII. Il pendant di questo spettacolo corale si configura nel XXXIII del Paradiso, il cui preludio è bellamente rappresentato dalla preclara preghiera alla Vergine. È una sceneggiatura perfetta: tutti gli attori sono disposti nella posizione che il regista (San Bernardo) esige. Lo spettacolo sembra svolgersi per il fatto che debba esser narrato dall’Auctor, assurto a “scrivano di Dio”. È il trionfo dell’ipotiposi, del far vedere l’invisibile, dire l’ineffabile: la lingua è smaterializzata, ma la trascendenza prende corpo. Il Dante-personaggio è divenuto, alla fine di tutte le sequenze, davvero umano, dopo avere visto il divino. Il film dell’Amor che move il sole e l’altre stelle entrerà nella mente e nella carne del cuore dei suoi figli, affinché essi intendano il senso del loro vivere sul volto del mondo e imparino a guardare, contemporaneamente, al territorio dell’Altrove. Franco Salerno Questo intervento riproduce il testo di una Lezione-spettacolo, tenuta il 22 ottobre da Franco Salerno, autore de Il labirinto e l’ordine (Commento integrale alla “Divina Commedia”), pubblicato dalla Casa Editrice Simone. La Manifestazione, svoltasi al Teatro d’Ateneo dell’Università di Salerno, è stata organizzata dalla “Società Dante Alighieri–Comitato di Salerno (Presidentessa: Prof.ssa Pina Basile), in collaborazione con l’Università di Salerno. Hanno fornito il loro prezioso contributo il Maestro Ugo Maiorano e la danzatrice Tania Maiorano, le collaboratrici de Il labirinto e l’ordine (Giusy Caldarelli, Carmen D’Avino, Susanna Cotena, Paola De Vivo, Melissa Chantal Salerno e Viridiana Myriam Salerno), la regista delle performances Dott.ssa Magda De Notariis (della Casa Editrice Simone), il tecnico dell’Unisa Enrico Landi, l’attore Salvatore Mazza (nelle vesti di Dante), il gruppo teatrale, musicale e coreutico de “La Nave dei Folli” del Liceo “T. L. Caro” (Antonio Annunziata, Ersilia Fiore, Francesca Manzo, Antonio Roccia, Chiara Menna, Gaia Di Donato, Oriana Mancusi, Serena Gaito, Benedetta Gaudino e Cecilia Santaniello) e l’Associazione di danza medievale e rinascimentale “Il Contrapasso” (Francesco De Simone, Marika Morfariello, Giuseppe Iannone, Brunella Di Martino, Rita Ventre e Giovanni Baggetta; coreografia: Prof.ssa Raffaela Lembo). Il dubbio sulla realtà della morte Il problema esistenziale nei Quattro ultimi Lieder di Richard Strauss: L a tematica vita-morte è presente innumerevoli volte nella letteratura musicale di tutti i tempi. A prescindere dall’approccio religioso (i vari Requiem da Mozart a Brahms, da Dvorak a Verdi), danno testimonianza dell’argomento nei suoi molteplici aspetti moltissimi capolavori: dall’Orfeo di Monteverdi e Gluck al Don Giovanni di Mozart, dalla Marcia funebre dell’Eroica di Beethoven al Lied (e al quartetto) La morte e la fanciulla di Schubert, dai Canti e danze della morte di Mussorgski al Sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg, dal poema sinfonico Dalla culla alla tomba di Liszt all’Otello di Verdi, dal Tristano e Isotta di Wagner al poema Morte e trasfigurazione di Richard Strauss. Nel Tristano il binomio Eros-Thanatos sfocia nell’annullamento della morte d’amore di Isotta, interpretata, alla luce di Schopenhauer, nel dissolvimento nullificante del “principium individuationis”. È con Richard Strauss “È forse questa la morte?” (1864-1949) che il tema si arricchisce di una dimensione heideggeriana del nostro “essere per la morte”, in una problematica prettamente 39 esistenziale che trova nei Quattro ultimi Lieder (1948) la sua più autorevole definizione. In gioventù egli aveva composto il poema sinfonico Morte e trasfigurazione (1889). La composizione (della durata di 25 minuti per grande organico esclusivamente strumentale) è quella in cui, come sottolinea Quirino Principe, più immediato e percepibile è il rapporto tra il programma poetico e il pensiero musicale. L’interpretazione più fedele è offerta da due testi successivi: il primo è la poesia del 1890-91 di Alexander Richter e il secondo è la lettera scritta nel 1894 da Strauss a Friedrich von Hausegger. Sulla base di questi scritti apprendiamo che il poema sinfonico descrive un artista ammalato che giace sul letto e lotta disperatamente con la morte. In un breve intervallo di questa lotta egli vede scorrere davanti ai suoi occhi la vita passata, la fanciullezza, l’adolescenza, la maturità con le loro lotte, le loro gioie e i loro dolori. Egli per tutta la vita ha cercato di realizzare i suoi ideali ma ciò non gli è riuscito compiutamente. L’istante della morte si avvicina e l’anima abbandona il corpo per ritrovare in cielo quello che ha cercato: liberazione dal mondo e Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 40 trasfigurazione. Il brano si compone delle seguenti sezioni: Largo, con il motivo della morte subito all’inizio, Allegro molto agitato, con i primi sussulti dell’agonia, Meno mosso, con le visioni del passato e morte dell’agonizzante e Moderato con la trasfigurazione finale. La composizione è strutturalmente vicina alla forma sonata. Nell’uso strumentale vi sono talvolta evidenti onomatopee, come i colpi di timpano che ricordano i battiti cardiaci. Nel possente “tutti” della ricapitolazione finale, il tema della trasfigurazione, cui fa seguito nella breve coda un ritmo lento, suggella il destino del protagonista. Al termine della sua vita, nel 1948, Strauss ritorna al tema della morte nei Quattro ultimi Lieder. Qui il testo poetico non ispira, ma fa parte integrante delle composizioni musicali. Si tratta di quattro canzoni (Lieder) per soprano e orchestra che, riprendendo metaforicamente le “età” della vita, giungono a definire una trasfigurazione non dal mondo ma nella natura. Anche nell’esame di questi lavori intendo seguire l’interpretazione di Quirino Principe che giudico illuminante. Il primo Lied Primavera (su testo di Hermann Hesse) descrive questa stagione che si schiude in tutto il suo fulgore manifestandosi con la sua luce splendida: Sprofondato nella penombra / sognavo a lungo / dei tuoi alberi e brezze azzurre,/ della tua fragranza e del canto degli uccelli./ Ora ti schiudi / splendida e adorna,/ inondata di luce,/ come un miracolo davanti a me./ Tu mi riconosci,/ tu mi incanti delicatamente./ La tua presenza radiosa / fa tremare tutte le mie membra!/ Il motivo iniziale, proposto dai clarinetti e dagli archi con un gioco imitativo, si regge su una breve figura ritmica che rende l’immagine instabile; la voce del soprano contrappone una linea melodica luminosa. In Settembre (sempre su testo di Hesse) i tenui richiami dei flauti accompagnati dal fagotto e dai violoncelli, inaugurano un clima dominato dall’idea del fluire; ciò si compone in un’immagine panica, quella dell’estate morente: Il giardino è intristito,/ fredda cala la pioggia sui fiori./ L’estate rabbrividisce silenziosa / ormai prossima alla fine./ Foglie dorate gocciolano giù / l’una dopo l’altra dall’alto albero di acacia./ L’estate sorride stupita e stanca / nel morente sogno del giardino./ Si sofferma a lungo tra le rose,/ desidera ardentemente la pace./ Lentamente chiude i suoi grandi / occhi affaticati. Il terzo Lied Andando a dormire (anche qui la poesia è di Hesse) comincia con le sonorità oscure dei contrabbassi cui è affidata una figura melodica ascendente. Nel momento in cui il soprano interviene con una melodia simile al declamato di una voce recitante, l’orchestra simboleggia le pause dello spirito in cui è “ora di dormire”: Ora il giorno mi ha affaticato,/ il mio fervido desiderio / dovrà accogliere serenamente / la notte stellata, come un bambino stanco./ Mani, lasciate ogni attività,/ fronte, dimentica ogni pensiero,/ tutti i miei sensi ora / vogliono sprofondare nel sonno./ E l’anima, non vigilata, vuole librarsi liberamente in volo,/ per vivere intensamente mille volte / nell’incantesimo della notte. Nella sezione centrale il canto tace, come inadeguato alle emozioni da esprimere ed è sostituito da una sublime meditazione del primo violino. Solo nelle ultime due battute del discorso solistico affidato al violino la voce si ripresenta. L’ultimo Lied Nel crepuscolo (su testo di Joseph von Eichendorff ) è la metafora di un itinerario verso il sole che tramonta: un uomo e una donna, che hanno camminato a lungo tenendosi per mano in silenzio, si fermano nel momento in cui stridono le allodole e l’astro sta per scomparire tra purpurei riflessi. Il grande accordo iniziale ricorda il tema del sole della Sinfonia delle Alpi (1915). Nel finale, prima che i flauti disegnino con i loro trilli un mahleriano Naturlaut che allude allo stridio delle allodole, le viole citano il tema conclusivo (la trasfigurazione) dal poema Morte e trasfigurazione: Attraverso affanni e gioie / siamo passati tenendoci per mano;/ ci riposiamo ora dal peregrinare / in una terra silenziosa./ Tutt’intorno declinano le valli,/ già l’aura s’imbrunisce,/ solo due allodole si levano / sognando nella brezza profumata./ Accostati e lasciale aleggiare,/ presto sarà tempo di dormire,/ non smarriamoci / in questa solitudine./ O pace immensa, silenziosa,/ così profonda nella luce purpurea del crepuscolo!/ Come siamo stanchi di peregrinare-/ è questa forse la morte? Sono proprio le ultime parole de Nel crepuscolo che danno il senso all’intero gruppo di Lieder: l’esistenza si spegne nel sole del tramonto. Non è disperazione né rassegnazione, ma l’intenso e commovente riposo nella pace della natura. Il dubbio esistenziale viene risolto dalla consolazione di perdersi con la persona amata nell’eternità del Tutto. Con un linguaggio musicale tardoromantico, scevro da qualsiasi adeguamento sperimentale e modernistico, Strauss reinterpreta, con il suo testamento spirituale, l’eterno mito del finis vitae nella caduca esperienza di noi mortali. Ruggero Prospero Stipendium Bayreuth 1992 Docente di Filosofia e Storia Liceo scientifico “Giordano Bruno” Mestre-Venezia 41 Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo FISICA Dal mondo macroscopico al microscopico: N 42 la soglia tra due mondi el 1966 Asimov pubblica il “Viaggio allucinante”. Soggetto della narrazione è un sommergibile miniaturizzato che viene iniettato, con tutto con il suo equipaggio, nella vena di un uomo allo scopo di curargli un embolo. Durante il viaggio fino al cervello il sommergibile incontra un mondo fantastico, pieno di pericoli, dove globuli, batteri e quant’altro minacciano il suo cammino verso la destinazione. Ben più strano e misterioso sarebbe il viaggio nel mondo microscopico degli atomi, se potessimo effettuarlo, miniaturizzati con un procedimento simile a quello di Asimov. Proviamo, ad esempio, a filmare con una cinepresa le volute di fumo di una sigaretta. Man mano che prosegue la nostra miniaturizzazione, osserviamo quanto segue: all’inizio, ci accorgiamo della sequenza temporale delle immagini, quelle che vengono prima e quelle che vengono dopo. Da un certo punto in poi, man mano che si accentua la miniaturizzazione, questo non è più possibile: osserviamo semplicemente un susseguirsi casuale e disordinato di urti tra le molecole senza distinguere la sequenza temporale delle immagini: è scomparso il fluire del tempo, non possiamo più misurare la temperatura del fumo poiché questa è una variabile macroscopica derivante dalle medie quadratiche delle velocità delle singole molecole, il cui nu- mero in un centimetro cubo è maggiore di un milione di miliardi di miliardi. Se ora proviamo a miniaturizzarci per entrare nel mondo degli atomi, osserviamo fenomeni ancora più strani: ci troviamo nel mondo dei quanti e delle loro stranezze dove la logica del mondo macroscopico viene meno facendoci rimanere disorientati. All’interno di un atomo troviamo alcune particelle note a tutti: l’elettrone, il protone, il neutrone, e una miriade di altre particelle meno note che, a differenza delle prime, sono instabili poiché si formano e si distruggono continuamente con una vita media di miliardesimi di secondi. Anche il neutrone è instabile, ma la sua vita media è di circa 8 minuti quindi abbastanza facile da osservare prima che decada in un protone, un elettrone e un neutrino. Il protone, a sua volta, al suo interno contiene altre particelle chiamate quark. Non ci dilunghiamo sulle caratteristiche di queste particelle, vediamo piuttosto cosa hanno di strano descrivendo un esperimento visualizzato nella figura seguente: c’è una parete con due fenditure e una mitragliatrice che spara delle pallottole: chiudiamo la prima, poi la seconda, quindi apriamole tutte due; mentre su uno schermo vengono visualizzati i punti colpiti dalle pallottole nei tre casi suddetti. Osserviamo ciò che ci saremmo aspettati essendo le pallottole oggetti macroscopici. Ripetiamo l'esperimento ponendo davanti alle fenditure un apparato che produce delle onde che le attraversano. In questo caso, quando apriamo contemporaneamente le fenditure si forma una figura di interferenza; anche questo risultato era da aspettarsi poiché le onde interferiscono tra di loro. Adesso, se ripetiamo l'esperimento con un fascio di elettroni, osservando lo schermo dove vanno a finire,ci rendiamo conto che questi si comportano come un’onda. Se però osserviamo l'elettrone nel momento in cui attraversa la fenditura, siamo in grado di fare delle misure che ci dicono che è una particella materiale. Viene spontanea la domanda: l'elettrone è una particella o un'onda? La logica classica ci dice che è una delle due cose e che l'una esclude l'altra: tertium non datur. Ma nel mondo microscopico le cose stanno diversamente: la risposta a questo quesito, che ha fatto sudare le migliori menti degli scienziati per una ventina di anni sin dai primi del novecento, è che la realtà non esiste in sé ma è creata dall’osservatore nel momento in cui decide di effettuare l’esperimento. Nel nostro esperimento, quindi, se si osserva lo schermo è un’onda, se si osserva da dietro la fenditura è una particella. Questo risultato fa a pugni con la nostra logica che deriva dal fatto che normalmente osserviamo oggetti macroscopici. D’altra parte, l’esperimento della doppia fenditura ha avuto una formalizzazione matematica che ha permesso lo sviluppo tecnologico dei nostri tempi, dal computer alla televisione, ai telefonini, ai trasporti. Le stranezze nel mondo microscopico non finiscono qua. Siamo abituati a pensare che di un qualsiasi oggetto, facendo le misure opportune, possiamo determinare la posizione e la velocità con qualsiasi grado di precisione; per le particelle microscopiche non è così, poiché per queste vale la relazione matematica dovuta ad Werner Karl Heisemberg (Principio di indeterminazione di Heisenberg) Δx è la media quadratica degli errori che si commettono su un numero rilevante di misure atte a stabilire la posizione di una particella; allo stesso modo, poiché p (quantità di moto) = m • v (massa per velocità), per determinare p occorre fare molte misure di v, e fare la media quadratica degli errori di misura. Ovviamente, la certezza sulla posizione implica che Δx = 0 e quindi il prodotto Δx moltiplicato per Δp dovrebbe essere uguale a 0; allo stesso modo, se misuriamo con la massima precisione, la velocità. La relazione: ci dice che questo non è vero, cioè avremo comunque una incertezza per quanto riguarda la posizione e la velocità di una particella indipendentemente dallo strumento adoperato per quanto sofisticato questo possa essere. Quali conseguenze può avere questa relazione? Una conseguenza è che un elettrone, allo stesso modo delle altre particelle quantistiche, esiste in una zona di spazio dove a ogni punto può essere assegnato un numero che indica la probabilità che ha l'elettrone di trovarsi in quel punto. Se immaginiamo l'elettrone chiuso dentro un recipiente dalle pareti più sottili della sua zona di probabilità, può come un fantasma attraversarne le pareti. Un’ap- Lyceum Dicembre 2012 43 Strumenti/Liminarismo 44 Nanotecnologie Microscopio a effetto tunnel plicazione di questa caratteristica è il microscopio a effetto tunnel che è usato in moltissimi campi della ricerca scientifica: nello studio delle superfici dei materiali, dove la sua alta risoluzione permette praticamente di visualizzare i singoli atomi presenti sulla superficie del solido; nel controllo della produzione di materiali, dove un microscopio, accoppiato con un elaboratore elettronico, permette di controllare se le superfici dei materiali prodotti corrispondono a un modello dato. Nei principali laboratori di ricerca, si sperimenta la possibilità di utilizzare i microscopi a effetto tunnel non come microscopi veri e propri, ma come pinze atomiche. In opportune condizioni, infatti, la punta del microscopio a effetto tunnel può trasformarsi in una calamita per uno o più atomi presenti sulla superficie del campione. È così possibile usare la punta per spostare gli atomi sulla superficie di un solido. Questa tecnica permette quindi di costruire materiali contenenti impurezze ben localizzate Feynman, premio nobel per la fisica nel 1965, diceva delle particelle quantistiche che “sono tutte ugualmente folli”; il suo genio aveva già intuito che dalla follia di queste particelle un giorno si sarebbe arrivati alle nanotecnologie e ai computer quantistici, settori della tecnica in fase di avanzato sviluppo che ha già permesso notevoli realizzazioni pratiche, sopratutto nel campo delle nanotecnologie, cioè nel mondo microscopico, regno della incertezza e della probabilità. Quello che Asimov solo 50 anni fa aveva scritto nel suo libro “Viaggio allucinante” è in parte già divenuto realtà in quanto le nanotecnologie oggi permettono di fabbricare motori molecolari in grado di trasportare farmaci esattamente nel punto del corpo dove è necessario senza coinvolgere e fare danni ad altre parti del corpo. Giovanni Cimino Docente di Matematica e Fisica Lamezia Terme (Cz) Analisi testuale L’allusivo e pregnante testo de La Spiaggia di Vittorio Sereni rivela che in una liminare “terra di mezzo” esistono persone escluse, emarginate, ridotte a pure toppe di inesistenza. Macchie evidenti nella società, che ognuno si rifiuta di vedere. Ma che sono pronte a farsi movimento e luce. L ’incipit della lirica La spiaggia (1965) di Vittorio Sereni ha come protagonista una voce beffarda, che, fuoriuscendo dalla cornetta, annuncia senza alcuna emozione: “Se ne sono andati e non torneranno più”. Questa sembra una notizia di cronaca quotidiana, mediocre e ordinaria, a cui, tuttavia il poeta non si rassegna. Anzi va avanti in una disperata ricerca, alla riscoperta dei suoi amici, dei “morti di ogni tempo” celati oltre l’apparenza di un sottile raggio di sole, che si infrange su una spiaggia inesplorata. Incatenati in regioni limitrofe della nostra realtà, torneranno. Sì torneranno -e Sereni ci invita a non dubitarne- e, manifestandosi sotto forma di vita e riscatto, finalmente, parleranno. Siam pronti a varcare la soglia Nel realizzare la poesia, l’attenzione dell’autore si è intensamente focalizzata sull’intento di svelare il volto della morte. Essa è un baratro. Risucchia persone, speranze, ricordi. Li seppellisce sotto montagne di sabbia, pur non eliminandoli del tutto. Li incatena sul confine tra oblio ed evidenza. Sereni non è fatalista: non si arrende alla cruda realtà. Ci chiede di non cedere alla dimenticanza e di riportare alla luce i morti latenti dentro di noi. Ma i morti rimangono silenti, non reagiscono allo sguardo del poeta, sfuggono alla sua indagine svanendo alla stregua di sostanze eteree che si disperdono nell’atmosfera. Ignorano 45 il poeta, come se egli non esistesse, come se tutto fosse continuamente rimosso e soppresso dal masso impetuoso della realtà. “I morti non sono quel che di giorno in giorno va sprecato” sostiene Sereni, “ma quelle toppe di inesistenza, calce o cenere, pronte a farsi movimento e luce” (vv. 11-12). Come funamboli, i morti stanno in equilibrio sui fili sottili dei loro destini, che l’autore intreccia in un’unica entità: Sereni accosta (nel v. 9) ad un soggetto plurale (“I morti”) un predicato al singolare (“è”). Riportano alla mente quei pensieri minuti e insignificanti, che ogni giorno rimuoviamo dalla nostra memoria per fare spazio ad altri. E corrispondono ad essi. Si incarnano nei popoli devastati dalla storia e poi dimenticati, negli usati gesti quotidiani, considerati scontati, dai quali si desidera evadere. L’intreccio, però, si scioglie Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo 46 presto (Sereni nei vv. 11-12 ritorna a parlare al plurale) e ogni filo si trasforma in una toppa, una “toppa di inesistenza”. Una toppa è una realtà evidente: si pone sul tessuto smagliato della realtà, ne ricopre e nasconde i buchi e le falle, lo tiene unito. Ma l’occhio umano non vi attribuisce alcuna rilevanza. Le toppe sono chiari simboli di invisibilità, paragonate a quei timidi raggi di luce che infrangono le nuvole per illuminare dei punti casuali sulla spiaggia. Dunque, al tempo stesso sono mobili e paralizzate, oscure e abbaglianti. Sereni esprime questo concetto attraverso il parallelismo tra “calce o cenere” (v. 11) e “movimento e luce” (v.12). La dinamicità del movimento si staglia contro la fredda immobilità della calce. Il fuoco ardente, ormai ridotto in cenere, ritorna vivo e luminoso. Dunque la scelta di questi termini, apparentemente di uso quotidiano, nasconde un intenso simbolismo. Le situazioni comuni che danno spinta all’intero sviluppo della vicenda, rendono semplice al lettore introdursi sulla “spiaggia” di Sereni, ma difficile venirne fuori: non si può più tralasciare l’inesistenza delle toppe, la vita dei morti. La chiave per raggiungere quest’obiettivo, Sereni la evidenzia attraverso un enjambement e una forte funzione conativa (“Non dubitare”, vv. 13-14). Il mare, allegoria della vita, attività continua dalla forza travolgente, è la rappresentazione perfetta dei morti e dell’azione che stanno per compiere: parlare. E proprio nel momento in cui Sereni si trova investito dal mare e ottiene la consapevolezza che i morti non rimarranno tali per molto, egli entra a far parte del loro moto di luce turbinosa e comprende che la speranza si è trasformata in profonda consapevolezza. Dunque Sereni ha voluto esprimere la sua idea di morte attraverso il concetto liminare di “spiaggia”, luogo che simboleggia la “terra di mezzo”, dove i morti sono stati abbandonati e dalla quale evaderanno, trascinati dalla furia imponente del mare. Terra che, invece, Ariosto immaginava corrispondesse alla Luna. Nell’Orlando furioso, infatti, è proprio lì che dimorano le cose smarrite, le persone dimenticate. Astolfo si reca sulla Luna per recuperare il senno perduto di Orlando e permettere all’eroe di vincere la sua battaglia. Ma per Sereni non è così semplice: i morti torneranno alla luce solo per coloro che sapranno uscire dal labirinto della società, che continuamente lascia indietro ciò che non le è più utile, per guardare al mondo da un’ottica nuova, intrisa di curiosità e ottimismo. Un secolo prima di Sereni, anche il pessimista Schopenhauer, nella sua celebre opera, Il mondo come volontà e rappresentazione, sintesi della sua filosofia della voluntas, ha manifestato la speranza che un sentimento spesso trascurato, la pietà, possa contrastare quell’entità, tiranna e manipolatrice, che trasforma tutti gli uomini in morti, privandoli della libertà di agire, di decidere della propria vita. Gli stessi morti che sfilano tra le pagine di Dubliners, raccolta di racconti scritta da James Joyce. I Dublinesi di Joyce attraversano una fase di epiphany (“manifestazione”). Vorrebbero fuggire dalla città opprimente, ma sono incapaci di recidere il cordone ombelicale che li lega a Dublino. Eveline, uno dei personaggi più enigmatici della raccolta, pronuncia la parola “escape” mentre, persa nei suoi pensieri, si rende conto che l’unico modo per salvarsi dalla pazzia è lasciare casa sua e la sua città. Ma la ragazza non sa osare, abbandonare il suo stato di morte e varcare la soglia dell’esistenza vera. Allo stesso modo, la donzelletta, la vec- chierella e “il” zappatore che Leopardi dipinge nel suo Il sabato del villaggio, sono ignorati dal mondo, abbandonati da coloro che li illudono, spingendoli a credere in una felicità apparente e fallace. Sono morti, ma non sanno di esserlo. Sono toppe, macchie evidenti nella società, che ognuno si rifiuta di vedere. Giovanna Tramontano V B Liceo Classico Questa analisi testuale è la riproduzione fedele del testo di un compito in classe svolto secondo le modalità della Prima Prova Scritta (tipologia A), prevista dall’Esaame di Stato. La spiaggia 47 Sono andati via tutti Blaterava la voce dentro il ricevitore. E poi, saputa: - Non torneranno più Ma oggi Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato 5 Quelle toppe solari... Segnali Di loro che partiti non erano affatto? E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse. I morti non è quel che di giorno In giorno va sprecato, ma quelle Toppe di inesistenza, calce o cenere Pronte a farsi movimento e luce. Non Dubitare, - m’investe della sua forza il mare Parleranno. 10 Vittorio Sereni Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo Excursus liminare Tra genio e sregolatezza aleggia il modernismo O 48 ltre le Colonne dell’apparenza. Da sempre il Liminarismo fa da giuntura nel il mondo degli opposti: Ragione e Passione si prendono per mano, generando impulsi di sentimento pervasi da una fortissima vena razionale che spingono l’intelletto umano ad un livello superiore. Le porte della convenzione vengono varcate senza mai spezzarne i cardini. Tutti potrebbero essere definiti dei liminaristi, se solo avessero il θυμός, l’anima emozionale, che col tempo si è persa. Tutti potrebbero aprire quella porta, fare quel viaggio, dire quella frase, mandare quel messaggio, se solo varcassero la soglia della paura che li frena e li trattiene, nelle sue strette redini come uno schiavo in catene. Non bisogna farsi schiavizzare dalla paura, mai. Il Liminarismo è quindi presente nella quotidianità in una forma così labile che è vagamente percepibile solo dalle menti più argute. Una lettura comparata di due capolavori incardinati sul tema del Doppio: Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e Heart of Darkness di Joseph Conrad Questione di stile, sottigliezza psicologica, capacità di carpire ciò che sta sotto: questa la vera substantia delle cose. È necessario andare oltre le Colonne d’Ercole dell’apparenza, come lo stesso Dante pensava. Non è mai troppo tardi per andare oltre: fermarsi alle apparenze in un’epoca mediatica, in cui tutto è dettato da futili clichés vuol dire massificarsi nella anonimità, mentre bisognerebbe fare la differenza sempre, in tutto. Bisogna essere così avanti da andare oltre il tempo stesso. Oltre le convenzioni culturali. Le convenzioni, ad esempio, della letteratura antica, ispirate principalmente a quella vittoriana del ‘700 inglese, viene scavalcata dal Modernismo, vero mot clé della cultura dal 1800 fino ad oggi. Nell’arte figurativa, nel teatro, nella mu- sica, nella letteratura, dal 1800 in poi è stato possibile assistere ad un boom mediatico di novità infinite. Un vento di freschezza ha spazzato via la polvere accumulata, portando innovazioni fondamentali e spingendo alcuni scrittori di fama mondiale sul versante della creatività. Può essere definita Art noveau della letteratura, il tema del Doppio. Due sono state, in relazione a tale tema, le opere di maggior rilievo: Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde e Heart of Darkness (1902) di Joseph Conrad. Il tema del Doppio in questi due romanzi è elaborato in modo diverso. Nel testo di Wilde esso consiste nel mettere due identità nel singolo personaggio, mentre in Conrad le due personalità vengono affiancate per evidenziarne i lati discordanti. Nel Ritratto di Dorian Gray fa da protagonista un villain, disposto a tutto per assaporare il gusto dell’eterna giovinezza al punto di vendersi al Diavolo, facendo sì che il dipinto di Hallward invecchiasse, mentre Dorian sarebbe rimasto per sempre giovane e bello. Ciò succede dopo la conoscenza con Lord Wotton, il quale cinicamente affronta la vita come una vera e propria missione volta all’estetismo più oltranzista. Egli vive così una vita dissoluta, ricca di piaceri, all’insegna dell’edonismo e dell’amoralità più totale. Dopo la morte di Sybil il quadro viene celato in soffitta per nasconderlo al pubblico che era solito affollare la sua dimora, eccetto Hallward, che verrà ucciso dallo stesso Dorian in preda alla follia, in quanto considerato responsabile della sua sventura. Ogni tanto egli si reca in soffitta per deridere la bruttezza del quadro, fino a che un giorno stanco decide di liberarsi dal peso opprimente del peccato pugnalandolo. I servi ritrovano ai piedi del quadro un Dorian irriconoscibile, vecchio, avvizzito e con un coltello al lato del cuore. Il Doppio e l’Orrore. In Conrad è tangibile sin d a l l ’i n i z i o c h e Kurtz si oppone alla figura di Marlow. Marlow, protagonista principale della storia, è una persona di buon cuore; Kurtz, invece, co-narratore spregiudicato, è disposto a tutto per fini di potere. Egli si ritrova presto a fare i conti con la realtà della schiavitù: la sua unica preoccupazione è rintracciare nella Colonia congolese Kurtz, il tipico borghese inglese che spadroneggia nel Congo Belga. L’incontro con questa spietata figura rappresenta la Spannung della narrazione: Kurtz affronta due momenti, scanditi dalla numerica successione temporale 3-1-3. Tre anni 49 in Africa, uno in patria, altri 3 nel medesimo continente africano. Prima era un “buono”, desiderava venire a contatto con una realtà sconosciuta per civilizzarla e migliorarla, pian piano gli obiettivi si son poi focalizzati sulle forti ricchezze proprie del territorio; diamanti, oro, fanno gola ad una mente labile e convinta di fare successo con poco, con gli sforzi altrui, soprattutto. Dopo ciò viene colto da una forte febbre che lo tiene inchiodato al letto e gli permette di riflettere sulle sue scelleratezze: “Aveva tirato le somme e aveva giudicato. “L’orrore!”. Orrore: questa parola pervade l’inizio e la fine di questa storia che contrappone il Bianco e il Nero, il Bene e il Male dell’uomo, come il Diavolo e l’acquasanta. Elisabetta Manfredonia V B Liceo Classico Lyceum Dicembre 2012 Strumenti/Liminarismo saggio breve Lontano dagli occhi, lontano dal portafoglio? Historia docet: se gli immigrati sono cristallizzati al limen della società, ‘’gli altri’’ restano impalati, quasi inebetiti, a quello della civiltà. Utilizzate gli occhi. Che sono lo specchio dell’anima. I 50 l must dell’uomo: vincere se stessi. Il mito dell’American Dream non tramonterà mai; ma, col susseguirsi dei decenni, esso, trasformata la species e alterata la vox, da satiro perverso vellica l’ambizioso animo tipico della natura umana, rito simile a quello che avviene nella zona amorfa delle membrane biologiche, che separano due fasi eterogenee: in esso, per permettere il passaggio di molte sostanze contro un gradiente di concentrazione sfavorevole, la natura ricorre al supporto di un enzima-carrier. E come codesto supporto esterno fa in modo che le sostanze organiche riescano a superare le proprie barriere nonostante le difficoltà, così l’ambizione spinge l’uomo a cercare di superare le frontiere, specialmente quelle che sembrano inaccessibili. Solo qualche secolo fa è stato il turno degli Italiani nello sbarcare il lunario sulle coste del mondo, per cui molti hanno posto efficientemente e definitivamente le radici somewhere else; ora che profluvi di persone vengono vomitati fuori da società non solo in crisi, ma del tutto dissipate, li lasceremo davvero soli (letteralmente) come barche in mezzo all’ oceano? Gli Italiani non vincono, si nascondono per inezia. Stando al 2012, le registrazioni all’anagrafe sembrano propizie: “adesso sono oltre due milioni e 400 mila gli stranieri che vivono nel nostro Paese con regolare permesso di sog- giorno.” (Corriere della sera, giugno 2012) E gli immigrati, instancabilmente, continuano la loro scalata verso, almeno, un Purgatorio terrestre a spogliarsi lo scoglio. Infatti, nonostante quasi il 60% delle coppie residenti in Italia, conviventi o coniugate, siano miste tra italiani e stranieri, gli abitanti della nostra civilissima nazione hanno dichiarato in maggioranza di non nutrire “nulla di particolare” nei loro confronti, espressione dell’ignavia inerziale che caratterizza l’italiano medio; infatti “parlare è da stupidi, tacere è da codardi”, come una volta scrisse Carlos Ruiz Zafon. Ma ciò che spaventa i già timorati italiani è “soprattutto l’aumento dei clandestini”. Appena un anno fa le acque del Mediterraneo furono squassate da un terremoto sociale: il nemico lontano, e ai più quasi sconosciuto, del clandestino. Episodi considerati epocali si imprimono nelle menti dei tragicomici abitanti delle isole italiane, che hanno rivelato un alter ego: infatti, dinanzi alle telecamere, essi si mostrano disponibili e solidali, come hanno anche dichiarato nella stessa statistica sopracitata, mentre dietro le porte delle proprie case restano, col fucile in spalla, come Roma ai tempi del facondo Catone, in attesa del nemico cartaginese proveniente dal mare. I risultati non sono per niente buoni. Con un’ età media di 30,4, gli immigrati in Italia sono solo il 5%, mentre nell’Europa centrale l’ago della bilancia oscilla tra il 20,2% svizzero e l’8,8%, raggiunto parimenti da Germania e Belgio. Germania e Svizzera sono tra i Paesi più ricchi d’Europa. Ma si può davvero biasimare solo il nostro governo politico? Anche in Grecia, il cui spread è di gran lunga superiore a quello italiano, si supera l’8% di stranieri. Di che cosa ha paura l’Italia? Che gli stranieri possano superare in ambizione gli Italiani e per questo “rubare” loro il posto di lavoro in questi tempi di crisi? Ma non riuscite a leggere nei loro occhi la loro anima, il loro passato, la loro paura? Ritroviamo noi stessi per ritrovare l’Italia. Forse si dovrebbe sostenere di più chi decide di restare, risoluzione che arresterebbe anche la cosiddetta “fuga di cervelli”, la quale al momento è in rapidissima crescita, dal Bel Paese e tentare di ricostruirlo, senza badare al colore della pelle della mano che offre aiuto, ma guardando, con riconoscenza, negli occhi di queste lost souls, che hanno perso tutto, tranne l’intramontabile speranza. Stendhal ne Il Rosso e il Nero ha scritto: “Siate timidi, se volete, ma non stupidi; aprite gli occhi.” Ilaria Gigi IV B Liceo Classico Il testo è la trascrizione fedele di una Prova scritta di italiano, svolta in classe nell’anno scolastico 2012/2013, tipologia B (saggio breve). Le citazioni e le percentuali, a cui il saggio si riferisce, fanno parte di documenti usati come “consegne” nella traccia. Lyceum Dicembre 2012 51 Percorso Il dubbio Molteplici e variamente sfaccettati i volti del dubbio: quello dal sapore metallico che si vive in un giorno qualunque in un campo di sterminio nazista e che si traduce in certezza dell’ultimo rintocco; quello di Oreste, tormentato perché non sa se uccidere la madre oppure offendere la memoria del padre; ma anche il dubbio come sospetto così sottile ed impalpabile da renderne impossibile la definizione; e, poi, quello misto ad intuizione nel giallo in genere, ma anche nel giallo contemporaneo al femminile. E se, dal livello esistenziale, sia reale che immaginario, passiamo ad ambiti più specifici, ecco che il dubbio finisce con identificarsi con la certezza innegabile da cui trarre lo spunto per avviare un’analisi sulle geometrie euclidee e su quelle non euclidee con risultanze inaspettate e, pertanto, lo slancio verso conoscenze che si spingono sempre oltre e inducono ad azioni non sorrette solo dall’abitudine. Il dubbio, insomma, come strumento di salvezza per l’umanità. L’argomento del prossimo Percorso è: Conoscere, trasformare, creare Un giorno qualunque in un campo di sterminio nazista L’orizzonte in lontananza mostrava profili irregolari Mutevoli come le funeste nubi dell’incertezza. Le facce scavate facevano fatica a reggere gli occhi Vuoti di sguardi ed assuefatti al comando. Fango limaccioso si aggrappava alle caviglie Trascinate a stento dagli esausti piedi: Incolonnati, come il più misero dei bestiami, arrancavano sicuri sul manto oscuro del destino. Quanto avrebbero desiderato possedere l’inconsapevolezza delle bestie al macello Pur di non assaporare ancora una volta il sapore metallico del dubbio! Senza alcuna razionalità, con una “precisione casuale” Si poteva oscurare la luce del sole repentinamente. Le insegne lacrimavano ululanti scritte tedesche Ricche di subdolo significato “sconosciuto” Le lacrime si erano nascoste al riparo dai soprusi quotidiani, le speranze giacevano incoscienti nel labirinto senza uscita. Accatastati in uno spazio angusto e spogliati degli stracci, Teste rasate e ciondolanti davano inzio alla processione… …disperazione di dubbia consapevolezza cresceva nello “stanzone” sovrastato da tubi metallici colorati di piccoli buchi. Come una bestia dormiente e ferita si ridesta al cospetto della morte, così l’ammasso senza forma si armonizzò nel rumore disperato di pianti e urla di “fragile” attaccamento alla vita nella certezza dell’ultimo rintocco… Nello Agovino Lyceum Dicembre 2012 55 Percorso/Il dubbio primo piano Il dubbio fecondo degli artisti I 56 l compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Così scriveva nel 1955 Norberto Bobbio, in Politica e cultura, suggerendo, con l’espressione più che mai oggi, che il compito, sempre prezioso, di seminare dubbi, in alcune epoche diventa ancora più importante. Ma quali sono queste epoche? E, volendo essere più precisi rispetto alla generica espressione uomini di cultura, a chi potrebbe spettare il compito di fare l’avvocato del diavolo? Istintivamente ci verrebbe da dire che in un’epoca di grande incertezza come quella che stiamo vivendo non avremmo bisogno di ulteriori dubbi. Eppure una riflessione appena un po’ più attenta ci fa capire che invece anche nei momenti di crisi è opportuno porsi nuove domande, per rivedere idee o modelli di sviluppo che fino a qualche anno prima promettevano magnifiche sorti e progressive. Ma forse l’opera di chi pone spunti di riflessione è ancora più preziosa nelle epoche in cui E se il mondo, come dicono poeti registi o scrittori, lo affidassimo davvero ai folli, alle donne e ai ragazzini piuttosto che agli uomini in giacca e cravatta che lo hanno rovinato? sembra che tutto vada per il meglio e invece i germi della crisi covano come fuoco sotto la cenere. Nell’età in cui prevale una visione ottimistica della vita sono, infatti, particolarmente utili l’acume e la lungimiranza degli intellettuali che riescono a cogliere ciò che ad altri sfugge. Certamente, andando controcorrente, essi rischiano di apparire delle cassandre ma, come scrive Leopardi nella Ginestra, la dignità di un uomo di cultura non può essere svenduta per il conseguimento di un facile consenso. Ma allora, tra gli uomini di cultura, chi potrebbe svolgere in particolare questa funzione così importante di vedetta e avvertire della possibilità che le cose non siano come appaiono, un po’ prima che tutti gli altri ne abbiano piena consapevolezza? Non è azzardato dire che questo compito, insieme ad altri, possono svolgerlo scrittori e poeti anche perché ad essi non è richiesto di dimostrare con grafici e tabelle ciò che è suggerito dal loro sesto senso. La nostra storia letteraria ci può aiutare nel sostenere questa tesi. Nel Cinquecento, in piena epoca rinascimentale, quando cioè arrivano a compimento gli ideali di bellezza, armonia e compostezza dell’Umanesimo, un poeta, Ludovico Ariosto, esprime controcorrente un senso di precarietà dell’esistenza con l’Orlando furioso. Infatti, nel suo poema cavalleresco presenta ossimoricamente come folle non solo Orlando, che, nelle Chansons de geste, è il paladino simbolo dell’equilibrio ma, con un’evidente incrinatura della concezione fiduciosa dell’uomo ereditata dall’Umanesimo, anche se stesso e l’umanità nel suo complesso. Nel proemio dell’opera, infatti, in un’originale invocazione alla sua donna piuttosto che alla Musa, Ariosto promette di completare l’opera a patto che non diventi folle per amore come Orlando. Inoltre nel corso della narrazione, nel raccontare di Astolfo che va sulla Luna in groppa all’ippogrifo a recuperare il senno di Orlando, mostra come tanta gente che sulla terra appare saggia non lo sia affatto, perché in quel luogo c’è una gran quantità del loro senno. Scritto in un’epoca in cui l’Italia era teatro della guerra tra Francia e Impero, l’Orlando furioso esprime comprensibilmente, con il tema della follia, la crisi della fiducia nell’uomo visto come libero artefice del proprio destino e segna l’affermazione della concezione della vita umana dominata da forze incontrollabili. Certamente si potrà obiettare che il dubbio circa la visione ottimistica o pessimistica della realtà nulla porta alla soluzione dei problemi. Tuttavia se, quando gli artisti colgono i germi della crisi, chi ha responsabilità politiche prendesse un po’ più sul serio queste intuizioni, probabilmente si potrebbe intervenire in anticipo rispetto all’esplosione di determinati fenomeni. Parafrasando ancora Ariosto che, nel dedicare il suo poema ad Ippolito D’Este, chiedeva al principe, notoriamente poco attratto dalla poesia, di trovare un po’ di tempo tra i suoi alti pensieri per i suoi versi, potremmo invitare anche noi gli uomini di governo o tutti coloro che hanno delle responsabilità nella gestione della cosa pubblica, a non considerare gli artisti degli acchiappa nuvole e di tenere più in conto le loro intuizioni. Nel Settecento, per esempio, un poeta satiri- co, Giuseppe Parini, ed un commediografo, Carlo Goldoni, denunciano la futilità di un’aristocrazia che di lì a poco sarebbe stata spazzata dalla Rivoluzione francese. Bene avrebbero fatto i nobili dell’epoca ad ascoltare due intellettuali che non erano certamente dei sovversivi e che avrebbero voluto semplicemente una classe dirigente all’altezza del suo ruolo. Ma forse il riferimento a qualche scrittore più recente ci può aiutare a comprendere meglio il ragionamento che stiamo portando avanti. Eugenio Montale nel bellissimo mottetto Ti libero la fronte dai ghiaccioli, entrato a far parte delle Occasioni nel 1940 con la seconda edizione della raccolta, presenta la donna amata, Irma Brandeis, studiosa americana di religione ebraica riparata in America in seguito alle leggi razziali del 1938, come angelo che torna in volo per portare la salvezza. La donna, cantata col 57 nome di Clizia, amante di Apollo, dio del sole e delle arti, giunge in una giornata fredda e scura, in mezzo ad uomini inconsapevoli, a differenza del poeta, del suo messaggio salvifico. Ma, perché il poeta ha voluto che una donna incarnasse i valori della cultura e della poesia contro la barbarie del nazifascismo e non ha attribuito questo compito fondamentale a se stesso e alla sua poesia? In contrasto con una tradizione che vedeva nel poeta un vate o un portatore di valori fondamentali per la società, Montale dichiara di non avere formule che possano rivelare certezze o verità e di poter dire solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Quanto agli altri uomini, presentati nel mottetto come inconsapevoli, sono altrove, con invidia mista ad ironia, definiti sicuri, amici a se stessi e agli altri, incuranti degli aspetti più oscuri della loro personalità, dove si accumulano ansie e incertezze. La donna, dun- Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio que, nelle vesti di visiting angel, può essere per Montale qualcosa di più e di nuovo rispetto agli uomini, nelle cui mani è stato per lungo tempo saldamente il potere. E questa fiducia nel potere della donna accompagna Montale in tutta la sua produzione se, nella lirica L’anguilla del 1948, Clizia è assimilata all’anguilla, l’animale che è capace di riprodursi nel fango e se, nel cantare la propria moglie, col nomignolo di Mosca, il poeta ne riconosce il buon senso e la capacità di adattarsi alla realtà. Sembra che Montale, scegliendo la donna, voglia affidare la funzione di salvezza a chi è fuori dalla Storia con la esse maiuscola. Qualche anno dopo, Elsa Morante farà altrettanto, quando nel 1968 pubblicherà la raccolta poetica Il mondo salvato dai ragazzini. E, con il riferimento ai ragazzini, passiamo ai nostri giorni, con un breve cenno al recentissi- 58 mo film che Bernardo Bertolucci ha realizzato, partendo dal romanzo di Niccolò Ammaniti, Io e te. È questa l’ultima fatica del famoso regista costretto sulla sedia a rotelle che, con una delicata attenzione al mondo degli adolescenti, esprime la convinzione che due fragilità possano generare una forza. Le due fragilità sono quelle di Lorenzo, un ragazzo problematico alle soglie dell’adolescenza e della sorella Olivia, eroinomane. Una settimana trascorsa lontano dal mondo degli adulti fa in modo che entrambi trovino la forza per andare avanti, in uno scambio di amore che li rafforzerà. Ma allora ci sorge un dubbio: e se avessimo sbagliato tutto? e se il mondo, come dicono poeti registi o scrittori, lo affidassimo davvero ai folli, alle donne e ai ragazzini piuttosto che agli uomini in giacca e cravatta che lo hanno rovinato? Elsa Franco LETTERATURA greca I dubbi amletici di Oreste L’eroe greco, noto per il matricidio perpetrato per vendicare il padre, è – secondo un’interpretazione generalmente diffusa – prototipo di uomo che di fronte a un atto di tale gravità sceglie l’azione senza dissidi interiori. In realtà, nella tragedia Coefore di Eschilo, Oreste è antesignano di Amleto. 1. Oreste, l’eroe “burattino” La figura dell’eroe, Oreste è stata nel corso della storia soggetta a vari adattamenti e il suo gesto disumano ha dato luogo a diverse e sottili interpretazioni. Anche Pirandello nel cap. XII de Il fu Mattia Pascal diede una personale “rilettura” in chiave moderna del personaggio: La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. - La tragedia d’Oreste? - Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. - Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle. - Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarreb- be terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. - E perché? - Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. Nel voler rimarcare la netta differenza rispetto ai personaggi moderni (“amletici” e lacerati dal vuoto di certezze, dalla caduta di valori personificati dal “buco” nel cielo di carta, come il protagonista Mattia/Adriano), Pirandello definisce Oreste prototipo di “burattino”, ovvero personaggio tipico del mondo tragico antico, che ritrova un saldo sistema di valori a guidare le sue azioni, inserito in un orizzonte assoluto in cui l’uomo assume un’identità precisa. In realtà, se consideriamo bene, nella tragedia greca gli eroi – e anche Oreste – non sono Lyceum Dicembre 2012 59 Percorso/Il dubbio affatto “marionette” sicure della scelta che si apprestano a operare: i protagonisti tragici sono spesso dilaniati da dubbi che nascono dal profondo della loro coscienza e, anche se non implicano come in Pirandello la solitudine dell’uomo moderno di fronte alla realtà vuota e illusoria, evidenziano la difficoltà di operare dell’uomo in generale fra volontà e necessità. In verità, Oreste è combattuto fra l’uccidere sua madre Clitemnestra vendicando così suo padre Agamennone e il non uccidere, lasciando invendicato suo padre e disubbidendo a un ordine religioso impartito dal dio Apollo. L’azione presuppone una colpa; i suoi dubbi divengono emblematicamente “tragici”: nel momento in cui Oreste alza la mano, vendica suo padre, ma quando l’abbassa per colpire, cade nella colpa, uccidendo sua madre. 60 2. L’Oreste di Eschilo di fronte a una scelta “disumana” A costruire il vero personaggio tragico di Oreste fu Eschilo nelle Coefore, secondo dramma della trilogia Orestea, composta e rappresentata nel 458 a.C. Nella tragedia Oreste ha ricevuto il vaticinio da Apollo, che gli ha ordinato di uccidere gli assassini, minacciandolo in caso contrario della vendetta delle Erinni e di terribili sofferenze (vv. 269‑296); tuttavia anche altre motivazioni inducono il giovane alla vendetta: il dolore per il padre morto, la povertà opprimente, la tirannide imposta ai suoi concittadini; il figlio di Agamennone rivendica inoltre il ruolo che gli spetta, quello di legittimo successore ed alter ego del padre, che deve riprendere il posto che gli compete. Ai vv. 306-478 troviamo il centro materiale ed ideologico non solo delle Coefore, ma dell’intera trilogia: un lunghissimo commo serve a invocare lo spirito del re a soccorso del suo vendicatore; questo è il “nodo problematico delle Coefore” perché, se prima del commo Oreste era già deciso a uccidere la madre, perché minacciato dall’oracolo di Apollo, ora è ancora più deciso: rivivendo l’uccisione del padre, egli ha interiorizzato la spinta ad agire. La pressione esterna, pertanto, si trasforma in un impulso interno, in autonoma decisione. Il coro avalla subito le parole di Oreste (vv. 386‑390) e più avanti il giovane, rivolto idealmente alla ma- dre, ne preannuncia apertamente l’uccisione, pur mostrando un evidente turbamento interiore: “pagherai l’oltraggio inflitto a nostro padre, gli dèi mi aiuteranno, queste mie mani mi aiuteranno. A patto di ucciderti, sono pronto a morire” (vv. 435‑438). Da questi versi sembrerebbe non esserci in Oreste un vero e proprio dramma psicologico: “il suo conflitto non è infatti interiore, tra due scelte ugualmente sofferte, ma si sviluppa su un piano eminentemente sociale e culturale. Egli non ha scelta (v. 298), deve portare a termine il castigo perché a questo lo spingono i condizionamenti sociali della vendetta e i doveri rituali verso lo spirito offeso del padre, oltre che le ragioni politiche della riconquista del potere da parte della legittima dinastia regnante” (G. Guidorizzi, Il mondo letterario greco, vol. 2, t. I, p. 102). Nella parte conclusiva del primo episodio, Oreste apprende dal coro quale sia stato l’incubo notturno di Clitemnestra: la regina aveva sognato di partorire un serpente, di avvolgerlo in fasce come un bimbo e di allattarlo; ma il serpente le aveva morso il seno, provocando l’urlo di terrore nella notte. Oreste interpreta immediatamente il sogno: “sarò io, io, il serpente, a ucciderla” (vv. 549‑550); il figlio rivela ora la natura viperina che ha ereditato dalla madre. Per combattere la madre, Oreste è costretto a divenire uguale a lei, ad usare le stesse sue armi, a macchiarsi della sua stessa colpa. Oreste, sempre sicuro e deciso, svela poi il suo piano: lui e Pilade si fingeranno stranieri, parleranno l’accento della Focide, chiederanno ospitalità: appena ammessi nella reggia, uccideranno Egisto e Clitemnestra; l’inganno con cui Agamennone era stato attirato in trappola da Clitemnestra verrà dunque ripagato da un nuovo δλς”. Nel terzo episodio, avviene l’acmé tragica: muore prima Egisto: Oreste, lo invita a entrare nella reggia. Egisto ubbidisce, pochi istanti dopo giunge dall’interno il suo urlo di dolore. Un servo bussa freneticamente alla porta del gineceo; è Clitemnestra ad aprire, mostrando di avere perso il controllo del palazzo; chiede notizie, il servo risponde con una frase lapidaria: “io dico che i morti uccidono i vivi” (v. 886); Clitemnestra capisce il senso della battuta (che allude anzitutto ad Oreste, ma anche ad Agamennone) e chiede una scure per difendersi; ma non c’è più tempo: Oreste è già davanti a lei pronto per ucciderla. Il dialogo tra madre e figlio è intensissimo, carico di tensione: quando Oreste conferma la morte di Egisto, sfugge alla regina un’espressione d’amore per il suo amante: “Dio mio, sei morto, amatissimo Egisto!” (v. 893). La battuta accentua il furore di Oreste: la clemenza latente di Oreste si sgretola dinanzi alla donna di Egisto (U. Albini, Compattezza nelle Coefore, in Dioniso Istituto Nazionale del Dramma Antico, Siracusa- volume XLVIII, 1977, p. 18). Ma Clitemnestra gioca disperatamente la sua ultima carta, scoprendo il seno e chiedendo pietà al figlio (vv. 896‑8); il giovane vacilla, esita, abbassa la spada: “si può ben comprendere che Oreste esiti; egli è scisso tra due opposte pulsioni che provengono non dal suo animo, bensì da condizionamenti sociali e culturali: il diritto materno fondato su profondi legami di sangue, e quello paterno che appare piuttosto di natura sociale” (G. Guidorizzi, p.113). Incerto e tormentato, Oreste chiede consiglio a Pilade: “Pilade, cosa devo fare? Risparmiare mia madre?” (v. 899). Le parole dell’amico, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, ribadiscono inesorabilmente la volontà di Apollo: “E allora gli oracoli del Lossia, i vaticini della Pizia, la fede ai giuramenti? È meglio avere come nemici gli uomini tutti piuttosto che gli dèi” (vv. 900‑902). L’ultimo drammatico dialogo tra madre e figlio avviene nella forma incalzante della sticomitia: ai diritti familiari avanzati da Clitemnestra Oreste oppone la sua colpa, alla deresponsabilizzazione (“è colpevole il destino”) un’analoga deresponsabilizzazione per il matricidio che sta per essere compiuto, alla minaccia delle Erinni materne oppone la minaccia delle Erinni paterne. Al termine della sticomitia, Oreste esprime con un’ultima, icastica battuta l’estrema drammaticità della situazione: “Hai ucciso chi non dovevi e ora soffri ciò che non ti toccherebbe” (v. 930). Il giovane trascina dunque la madre all’interno della reggia; subito dopo, significativamente, non si udrà alcun urlo di Clitemnestra. Nell’esodo appare Oreste sull’ekkyklema, che stringe in mano la spada insanguinata; accanto a lui, sono i cadaveri di Clitemnestra ed Egisto: l’eroe pronuncia un discorso di difesa del suo operato, ma il tono trionfalistico si smorza in una pesante angoscia. Dopo aver ricordato brevemente la morte di Egisto, che ha avuto la pena di morte prevista per gli adulteri, Oreste indica il cadavere della madre, con un brivido di orrore; il giovane, tenendo tra le mani il drappo in cui fu avvolto il cadavere di suo padre, dà pro61 va di un crescente disordine mentale (cfr. vv. 997‑ 1000). Il giovane è ormai solo. Il trionfo di Oreste è ora svuotato di ogni significato: “il Coro ed Oreste, fino a questo momento partecipi nella stessa volontà, appartengono ora a due mondi diversi; quello di Oreste è popolato dalla presenza delle Erinni, una realtà implacabile che inutilmente ed erroneamente il Coro interpreta come allucinazione. Estranee alla personalità di Oreste e forme di una realtà ineludibile, le Erinni entrano a costituire d’ora in poi l’esperienza fondamentale del giovane” (G. Paduano). Alcuni critici vedono in questi versi la negazione del libero arbitrio dell’uomo: su Oreste grava un destino inesorabile, che non gli concede scampo e il concetto dell’ereditarietà della colpa diventa il simbolo dell’irrazionalità delle umane sorti, di fronte a cui l’unica via di redenzione per l’uomo è contrassegnata dal dolore che conduce alla conoscenza, e all’accettazione del male di vivere; altri invece attribuiscono al personaggio eschileo piena responsabilità delle azioni: Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio 62 “ritroviamo qui quella duplicità di motivazioni (ammonimento divino e volontà umana) che ci sembrava una delle caratteristiche principali della psicologia omerica; ma quella che là era una unità non problematica genera qui un profondo conflitto tragico” (A. Lesky, Storia della letteratura greca, 1, p 345). A nostro avviso, egli sembra libero di autodeterminarsi; il testo tragico insiste su questa prerogativa della sua volontà, presentando anche l’alternativa opposta. Oreste decide di uccidere sua madre, ma lo decide ad un certo punto delle Coefore, da quel momento in poi. Prima esisteva nella sua mente la possibilità di non uccidere e lasciare invendicato il padre. Ciò che si presenta davanti a lui è un campo aperto in cui egli sceglie una possibilità ed esclude implicitamente l’altra. “Oreste è un personaggio complesso: agisce, ma è dominato dal dubbio: è un essere scisso, quasi amletico in questa sua incertezza fra l’uccidere la madre, violando il più viscerale legame che lega un uomo alla vita, oppure offendere la memoria del padre. Oreste rivela un aspetto originale per la psicologia del teatro eschileo, fatto di personaggi granitici e inflessibili: il dubbio, il dolore del folle, il rimorso, la sofferenza.” (G. Guidorizzi, p. 55). Dunque i protagonisti delle tragedie di Eschilo, anche dietro lo schermo della “necessità” e di questo o quel responso, risultano pienamente responsabili dei crimini che compiono, i quali non avvengono in un momento di irrazionale predominio delle passioni, e poiché tali crimini commessi nell’ambito di un’unica famiglia sono tutti cosí aberranti da non sembrare il frutto di una mente sana, appare legittima l’ipotesi che gli Atrei abbiano una predisposizione al delitto, potenziata dall’ambiente esterno. Oreste è un antesignano di Amleto: contrariamente ai personaggi e agli eroi dell’epica omerica, egli è un personaggio indeciso, caratterizzato dal dubbio “τ δρσω". Perfino quando è Apollo, ovvero la divinità, a ordinargli di agire, resta titubante e insicuro sul da farsi. Oreste è il primo personaggio “moderno”: non è più veicolato dal volere degli dei, ma in lui si è aperto il baratro della decisione, e perciò stesso della volontà. Non è un caso che, in una delle più celebri interpretazioni dell’Orestea, che è quella di E. Severino ne Il Giogo, (Emanuele Severino, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo”, Adelphi, Milano 1989) il finale viene interpretato come l’inaugurazione della ragione umana e della filosofia. Oreste, l’uomo libero dal fardello divino, si assume così la responsabilità delle proprie azioni, e la libertà implica anche il dubbio e l’incertezza. 3. L’Oreste “minore” di Sofocle Sofocle e Eschilo ebbero diversi modi di rapportarsi al problema della scelta: infatti se Eschilo ha grande fiducia nella scelta dell’uomo e nella giustizia divina che di conseguenza giudica le azioni umane, Sofocle ha una visione più pessimistica del rapporto tra volontà e necessità: le azioni dell’uomo sono guidate da una serie di forze sconosciute e i personaggi sofoclei sono come dei burattini in balia del destino che li manovra. L’armonica simbiosi fra destino individuale e volontà degli dei (tipica di Eschilo) si trasforma in rapporto enigmatico: in Sofocle la colpa non è connaturata all’azione dell’uomo, ma a qualcosa che lo trascende, la scelta è una conseguenza necessaria e i personaggi non hanno una possibilità di scelta: il loro dilemma non è più quale strada scegliere, ma come comportarsi di fronte all’evidenza di un percorso “tragico” già segnato. Fu proprio il personaggio Oreste di Sofocle a generare in Pirandello l’immagine di marionetta, perché nell’Elettra di Sofocle Oreste, rispetto alle Coefore, si mostra fina dal prologo ideatore astuto e subdolo più che eroe valoroso e leale (i termini δλς e κλπτειν si oppongono a una natura nobile e leale dell’eroe). Oreste, in genere freddo e calcolatore, si commuove di fronte al lamento di Elettra nell’anagnorisis (vv. 1199 ss.) ma dopo una prima commozione Oreste torna al consueto atteggiamento pragmatico freddamente rivolto all’esecuzione del matricidio. Il vero “eroe” della tragedia è Elettra, con il suo odio e il desiderio di riscatto della propria dignità: ella si comporta secondo i codici aristocratici sofoclei che si oppongono all’opportunismo (δλς) di Oreste. Infatti anche nella scena del matricidio in Sofocle non c’è alcuna perplessità in Oreste, né occorre alcuna battuta di Pilade; è invece preponderante la figura di Elettra, che giunge ad espressioni di disumana crudeltà (“Vibra, se hai la forza, un altro colpo!”, v. 1415), è lei la personificazione di una Erinni che chiede vendetta e giustifica il matricidio quando definisce Clitemnestra “madre non madre” (1154). Sofocle non dà alcuno spazio a un senso di rimorso o di pentimento negli autori del matricidio e ha voluto che nello stesso tempo non si assista nemmeno a slanci di esultanza da parte dei due fratelli per il compimento della punizione degli assassini del loro padre... Sofocle ha voluto consapevolmente concludere la tragedia in modo assolutamente ‘deidealizzato’. Non c’è una ‘moralÈ da ricavare dalla fine dell’Elettra … Sofocle ha voluto più semplicemente delineare il quadro di una situazione caratterizzata da un desolato, cupo grigiore” (V. Di Benedetto, Sofocle, Firenze 1983, p.178). Rispetto ad Eschilo, Sofocle, almeno apparentemente, non presenta alcuna antinomia: Oreste non ha esitazioni nel compiere la vendetta, né sorgono dubbi in proposito in Elettra o nel coro; il ruolo delle Erinni è annullato; quanto ad Apollo, Oreste conferma di agire per suo ordine (vv. 32 ss.), ma si ha l’impressione che anche senza l’input divino egli agirebbe ugualmente, in modo freddo e determinato. Ponendo in secondo piano l’aspetto religioso e le implicazioni etiche del matricidio, Sofocle procede ad una rivisitazione del personaggio di Oreste, che risulta marginale rispetto alle Coefore, abulico e tormentato, passivo e acritico esecutore degli ordini del dio, subdolo e cinicamente opportunista. 4. Oreste antieroe in Euripide Nell’Elettra di Euripide Oreste, già dal prologo, appare prudente e circospetto, dichiarandosi addirittura pronto a ripiegare in un altro paese (v. 97) in caso di pericolo: all’eroe atteso da Elettra, si contrappone sulla scena un Oreste francamente deludente, assolutamente non eroico, privo di vere motivazioni. Manca da parte di Oreste un’esplicita dichiarazione dei motivi che lo spingono alla vendetta, mentre “è Elettra il personaggio che rappresenta, nella sua prospettiva, la necessità della vendetta, sin dal suo primo apparire sulla scena” (G. Basta Donzelli, Studio sull’Elettra di Euripide, Catania 1978, p. 90). Oreste è l’eroe che compie il dovere controvoglia (v. 1205), è il primo a rendersi conto del ταραγµς ["scompiglio, confusione"] che regna tra gli uomini. Se da una parte Elettra esalta la Giustizia, proprio il concetto di giustizia viene subito dopo messo in discussione (vv 959‑987) da Oreste, che infatti, appare sempre più perplesso di fronte all'imminente matricidio: il giovane contesta apertamente Apollo, accusandolo di "insensatezza" (v. 971) e ipotizzando poi addirittura che un demone (v. 979) si sia sostituito al dio, pronunciando un oracolo "non ragionevole". Il matricidio diventa in Euripide un 'sacrificio empio', un puro e brutale atto di vendetta, un gesto dettato dal risentimento di Elettra contro la madre. .. un delitto inespiabile e inescusabile" (S. Fabbri, Elettra di Euripide,Milano 1995 p. XXV). Ai vv. 1168‑1171, viene qui espresso il lei63 tmotiv della tragedia: la punizione è giusta, ma la morte per mano dei figli è atroce ed ingiustificabile; si manifesta pietà per la sciagurata regina, ma subito dopo il coro conferma la sua convinzione che la pena sia meritata. Oreste ed Elettra dopo il matricidio ritornano in scena grondanti del sangue materno; i due giovani sono stanchi, sconvolti: su di essi cade un’ombra sinistra, che è rimorso e consapevolezza. Ora che l’odio è caduto, l’odio che velava il loro sguardo, le cose assumono i loro nudi, desolati contorni. Nella parte più “patetica” del commo, Oreste “rivive” la scena del matricidio, ricordando il seno che la madre gli ha mostrato per impietosirlo, le parole supplichevoli di lei, che l’avevano “paralizzato”, facendogli cadere di mano la spada; il delitto era stato così compiuto in modo anomalo: “Mi sono gettato il mantello sul volto / e ho compiuto il sacri ficio con la spada,/immergendola nel collo di mia madre” (vv. 1221‑1223). Ma subito dopo è Elettra ad assumersi, ancora una volta, la responsabilità dell’accaduto: “Io ti ho incoraggiato / e insieme a te ho impugnato l’arma. Ho compiuto il più orribile dei delitti” (vv. 1224‑1226). Al termine dell’amebeo, Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio 64 i due fratelli ricompongono la salma della madre; nel compiere questo pietoso ufficio, Elettra definisce la madre, con uno stridente ossimoro, “adorata e odiata” (v. 1230). Euripide pone un quesito critico di come si possa ancora credere al matricidio. Il tema fondamentale è la vendetta che è voluta da Elettra, ma subìta da Oreste: “abbassando” il livello dei personaggi, caratterizzati spesso da debolezze e contraddizioni, Euripide costruisce un Oreste tormentato, dilaniato dai dubbi, che deve apprendere dalla sorella le motivazioni del proprio agire e riveste, di fatto, un ruolo subalterno di mero “esecutore materiale”. Mentre il carattere principale nel dramma è ovviamente quello di Elettra, che, “pienamente responsabile delle sue scelte, agisce sotto la pulsione della passionalità e sotto la pressione degli eventi: impugna personalmente la spada, insieme col fratello, per uccidere la madre (cfr. v. 1225). I due personaggi nella versione euripidea sono molto diversi da quelli dei precedenti e di questa nuova umanità non-eroica Oreste è il campione: in conflitto con il proprio passato, impegnato a salvarsi la vita, egli è una figura moralmente mediocre di cui il poeta non si cura di sottolineare né la cupa volontà di vendetta né il tormento psicologico né il dubbio tragico di cui era preda l’eroe eschileo. Euripide ha scarnificato il mito, spogliandolo di tutti i connotati religiosi. L’uccisione di Egisto e Clitemnestra è rappresentata come un semplice fatto di cronaca nera: il mito è desacralizzato non c’è il senso della colpa, il conflitto tra comando divino e divieto morale. La sua opera termina senza vincitori né vinti. 5. Un’interpretazione “esistenzialista” della figura di Oreste: Sartre Molti e prestigiosi autori moderni si sono “confrontati” con il mito dei due fratelli matricidi: pur meritando una citazione i capolavori di Hoffmansthal, O’ Neil e Pasolini, ci pare degno ricordare la rilettura “esistenzialista” che il filosofo J.P. Sarte fece del mito di Oreste con l’opera Le Mosche (Les Mouches) nel 1943. Le mosche – che “traspongono” le Erinni greche – sono il rimorso che attanaglia sia Elettra che Oreste: il matricidio in chiave moderna vine completamente rovesciato, l’atto sanguinoso resta, ma al prezzo di un completo svuotamento di ogni connotazione sacrale e di un conseguente annichilimento di valori. Oreste, inoltre, uccidendo i re illegittimi, invece che essere accolto come liberatore dai suoi cittadini di Argo, rischia il linciaggio perché ha attentato alla pace civile, e perciò costretto all’esilio. “Ne Les Mouches, Oreste appare sulla scena accompagnato da connotati profondamente distanti da quelli del modello greco: l’eroe sartriano non sa cosa lo attende: la non-conoscenza del suo destino di assassino e, ancor peggio, di matricida deve, dunque, essere considerata alla luce di una rinnovata interiorizzazione del personaggio che gli permette di muoversi, di oscillare, di prendere una decisione.… Costantemente soggetti a dubbi ed incertezze, combattuti tra una dualità interiore … i personaggi mostrano quelle stesse complessità di individuo e relatività di storia che saranno all’origine del romanzo moderno, segnando un distacco a posteriori irreversibile dalla tradizione classica. L’Oreste di Sartre si inserisce, a pieno titolo, in questo filone; nella categoria di eroi, quindi, cui viene conferita una libertà di azione e scelta che, in modo profondo, rivoluziona la stabilità del daimon.” (F. Battista, La vie humaine commence de l’autre côté du désespoir. La lezione di Macbeth ne Les Mouches, in Laboratorio critico 2012, 1 (2), p. 2) In realtà nella sua riscrittura Sartre vuole evidenziare la condanna alla libertà degli uomini di oggi, che non hanno scelto di esistere né di essere liberi e questo peso li ossessiona per tutta la loro vita. Scrive Sarte: “Egli dovrà infine uccidere, caricarsi il proprio delitto sulle spalle e passare sull’altra riva. La libertà, infatti, non è un potere astratto di sorvolare la condizione umana: è il più assurdo ed inesorabile degli impegni. Oreste andrà avanti per la sua strada, senza giustificazioni, senza scuse, senza ritorni, solo. Come un eroe, come non importa chi”. Guglielmo Caiazza cinema A Patrizia Il bicchiere (di latte) del sospetto L ’opera di Alfred Hitchcock si offre, a chi la prenda in esame, in una sorta di classica angosciosa compostezza. Il suo lavoro di regista abbraccia oltre un cinquantennio di storia del cinema e si presenta come uno dei corpus cinematografici più unitari e compatti che esistano, caratterizzato da motivi tematici e stilistici di continuo riproposti e approfonditi e di continuo rigeneranti le sfaccettature infinite di un’unica realtà, mai interamente scomposta e decifrata fino al significato ultimo (Gian Piero Brunetta, Il cinema secondo Hitchcock, Marsilio). La scena più celebre del film oggetto del nostro breve saggio è proprio quella in cui si vede il protagonista, Cary Grant, sospettato dalla moglie di volerla avvelenare per ereditarne i beni, salire le scale interne della loro lussuosa casa, portando un bicchiere di latte alla sua coprotagonista, Joan Fontaine. Vediamo come lo stesso Hitchcock rispondeva a Francois Truffaut, grande regista francese e suo grande ammiratore, nel celebre dialogo a due “Il cinema secondo Hitchcock”: Truffaut. Eccoci arrivati a Suspicion. Quando abbiamo parlato di Joan Fontaine in “Rebecca”, mi sono dimenticato di chiederle maggiori dettagli. Ho, infatti, l’impressione che per lei sia stata un’attrice importante. “Il sospetto è una cosa sottile, così impalpabile che nel momento stesso in cui nasce non si sa definire...”. Hitchcock. All’inizio di “Rebecca” trovavo che era poco cosciente di se stessa come attrice, ma vedevo in lei la possibilità di una recitazione controllata e la ritenevo capace di rendere il personaggio in un modo calmo e timido. Subito faceva un po’ troppo la timida, ma sentivo che ce l’avremmo fatta, e ce l’abbiamo fatta. Tr. Ha una certa fragilità fisica che non avevano né Ingrid Bergman né Grace Kelly... H. Penso anch’io. Per “Suspicion”, noti che si tratta del mio secondo film inglese girato a Hollywood: attori inglesi, atmosfera inglese, romanzo inglese. Ho lavorato con un anziano autore teatrale, Samson Raphaelson, che aveva collaborato a quasi tutti i film sonori di Lubitsch. T. Alcuni critici, che conoscono il romanzo “Before the Fact”, l’hanno rimproverata di aver completamente trasformato il soggetto. Il romanzo è la storia di una donna che si accorge a poco a poco di aver sposato un assassino e infine si lascia uccidere da lui per amore. Il suo film invece è la storia di una donna che, scoprendo il marito disinvolto, spendaccione e bugiardo, arriva a pensare che sia un assassino e a immaginarsi, a torto, che la voglia uccidere. La Lyceum Dicembre 2012 65 Percorso/Il dubbio conclusione del film tuttavia è rosea e vede i due protagonisti di nuovo felici. H. Avevo progettato una fine diversa: Grant porta il bicchiere di latte avvelenato, la Fontaine è intenta a scrivere una lettera a sua madre: “Cara mamma, sono irrimediabilmente innamorata di lui, ma non voglio vivere. Sta per uccidermi e preferisco morire. Ma penso che la società dovrebbe essere protetta contro di lui”. Poi dice a Grant che le ha appena dato il bicchiere di latte: “Caro, per favore, vuoi spedire questa lettera alla mamma per me ?”. Egli risponde: “Sì”. Lei beve il bicchiere di latte e muore. Dissolvenza, apertura, breve scena: Cary Grant arriva fischiettando, apre una buca delle lettere e butta dentro la lettera. 66 T. Era una soluzione molto astuta. Ho letto il romanzo, che è bellissimo, ma trovo che anche la sceneggiatura sia ottima. Mi sembra che il film abbia un valore psicologico più grande del romanzo, perché i caratteri sono più sfumati. Sono sicuro che un romanzo costruito sulla stessa vicenda della sceneggiatura sarebbe stato superiore a “Before the Fact”. H. Non sono in grado di esprimere un giudizio a questo proposito, perché ho avuto molte difficoltà con questo film. T. A par te le difficoltà è soddisfatto di”Suspicion”? H. Non del tutto. Per questa storia, mi sarebbe piaciuto disporre di un ambiente autentico, non di uno ricostruito in America. Un altro elemento debole era la fotografia, troppo luminosa. Ma le è piaciuta la scena del bicchiere di latte ? T. Quando Grant sale le scale, è molto bella. H. Avevo fatto mettere una luce nel bicchiere di latte. T. Un proiettore puntato sul latte ? H. No, nel latte, nel bicchiere. Perché doveva essere estremamente luminoso. Cary Grant sta salendo le scale e bisognava che si guardasse solo questo bicchiere. T. Era molto bella, veramente... Ecco spiegato il mistero del nostro curioso titolo. Ma ora torniamo alla genesi del film. Lo scrittore inglese Anthony Berkeley Cox, che nel 1932 aveva scritto (sotto lo pseudonimo di Francis Iles) “Before the Fact”, tre anni dopo aveva venduto i diritti del libro alla RKO. Nel giugno 1940 Hitchcock lo scelse perché non solo gli piacque lo strano taglio psicologico correlato con l’ossessione della morte, ma sentiva anche che l’ambientazione inglese avrebbe giustificato un cast inglese, in altre parole, star inglesi a Hollywood. Nel dicembre 1940 la sceneggiatura era pronta, ma ingarbugliata, un misto di umori, stili e pulsioni che non avrebbe mai potuto organizzarsi in film. Le riprese ebbero inizio il 10 febbraio 1941 e continuarono fino al 24 luglio. Ma ciò che era cominciato con grande ottimismo presto si rivelò una delusione. Prima ci fu il problema del titolo. All’epoca era abitudine degli studios ingaggiare George Gallup per sondare il parere dei cinefili del paese sui titoli proposti. Risultò che il titolo “Before the Fact” aveva avuto tiepide reazioni. Solo nel novembre 1941, pochi giorni prima che il film fosse distribuito, i dirigenti della RKO finalmente si misero d’accordo per un titolo sul quale il regista aveva insistito fin dall’estate: “Suspicion”, parola che aveva attinto dal secondo paragrafo del romanzo (“Il sospetto è una cosa sottile, così impalpabile che nel momento stesso in cui nasce non si sa definire...”). Poi Joan Fontaine cominciò a lamentarsi del disinteresse che il regista mostrava per lei ed ebbe diversi piccoli malanni. Il film, nonostante Hitchcock fosse pronto a disconoscerlo, al pubblico piacque moltissimo, anche se i critici erano divisi a causa della rivelazione che era tutta una fantasia della moglie (la Fontaine) e che il marito (Grant) era poco più che uno spendaccione. L’idillio tra la Fontaine e il pubblico continuò senza perdere vigore e per questa interpretazione lei poi ricevette l’Oscar come migliore attrice protagonista. “Suspicion” può essere considerato una summa della poetica del regista inglese. Il personaggio interpretato dalla Fontaine (Lina) appartiene a una categoria di donne insicure, profondamente romantiche, dominate da complessi di inferiorità, introverse ed esposte ad ogni possibile violenza da parte degli altri. Ma si tratta di donne egualmente disposte a sacrificare la propria vita per amore, anche se nel film il sospettato avvelenamento da parte del marito John, interpretato da Cary Grant, si riduce alla fine a una casuale serie di equivoci e di coincidenze architettate dal regista per confondere lo spettatore. Per il personaggio di Lina il regista cerca una motivazione pertinente e ben individuata al suo comportamento nevrotico e indeciso, e la trova nell’autorità della famiglia, soprattutto la figura carismatica del padre e il senso di sfiducia che le hanno comunicato i genitori (vedi i discorsi che sente dalla finestra sul fatto che ormai il suo destino è segnato: “Lina sarà destinata a rimanere zitella...è intelligente, ha un carattere nobile, ma...”). Sono queste parole a segnare la svolta del film: la protagonista sarà travolta dall’amore per John, un amore nato in fretta che porterà ad un altrettanto frettoloso matrimonio. Questo amore intenso, tipico di molti film del regista, si fonderà ben presto con la paura di aver sposato un uomo senza conoscerlo. È proprio a questo punto che il sospetto, il vero protagonista del film (o meglio il vero antagonista), comincerà ad agire sulla debole psicologia di Lina; ogni comportamento di John sarà fonte di dubbi per la donna che finirà col temere di essere da lui uccisa. In “Suspicion”, infatti, l’istituto matrimoniale è insediato da ombre non bene delineate, da uno stravolgimento degli indizi da parte della protagonista, affettivamente sempre più insicura e sospettosa. Il conflitto tra il personaggio introverso di Lina e quello fin troppo estroverso di John è delineato fin dalla prima scena sul treno. I loro comportamenti sono opposti. John rifiuta l’ordine costituito (non ha i soldi per pagare il biglietto e li chiede all’occasionale compagna di viaggio, dopo essere entrato in uno scompar67 timento di prima classe); Lina sembra accettarlo, è composta, legge un libro, si protegge dietro gli occhiali. La prima occhiata che John le rivolge, espressa da un movimento in soggettiva della macchina da presa, passa da una considerazione delle sue gambe per poi salire al libro che ha in mano (un trattato di psicoanalisi freudiana) e giungere infine a considerare il volto. In questo solo sguardo è già definita la fondamentale antinomia di comportamento dei due personaggi ed il rapporto di vittima che la donna è destinata ad avere nei confronti dell’uomo. Lo spostamento, dopo il matrimonio, del punto di vista dalla parte della protagonista femminile non può che mantenersi in uno stato di continua incertezza nei confronti delle sue diagnosi sullo strano comportamento del marito, troppo spesso smentite dai fatti (vedi il suo primo sospetto: Bicki, amico di famiglia, sarebbe stato ucciso da John per denaro, ma in realtà è Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio in vacanza). Nel caso di “Suspicion” il sospetto/ dubbio della protagonista la porta a deformare la realtà. Tale deformazione della realtà circostante avviene non secondo la sua diretta esperienza dei fatti, ma secondo arbitrarie dilatazioni nevrotiche di determinati elementi innestati in una catena di casualità. L’esempio più adatto è quello del bicchiere di latte, che diventa determinante, per gli effetti sul clima emotivo, a causa della produttività dello spazio fuori campo. Il bicchiere è sentito più che visto materialmente dalla protagonista con tutto il suo essere. Di qui la funzione del primo piano che si avvicina fino al dettaglio della luminosità del latte. Il comportamento di Lina è motivato come complesso edipico non risolto (il peso autoritario del padre, presente anche in effige militaresca dopo la sua morte, quasi a ricordare e sottolineare la continuità della nevrosi). La celebre salita lungo la scala di John con il bicchiere di latte è sentita da Lina, distesa a letto e convinta di venire progressiva- mente avvelenata dal marito, come se fossero i passi del suo boia. L’immagine della scala quindi rende produttivo e drammatico un altro spazio, quello della camera da letto. Il regista non a caso avrebbe voluto concludere il film con una lenta dissolvenza, lasciando immaginare l’omicidio avvenuto, ma la RKO non volle sentire ragioni e lo obbligò a un finale piuttosto inverosimile. Ecco dunque che si ripropongono in “Suspicion” due capisaldi della poetica hitchcockiana, le due forze perennemente in contrasto nel cinema del maestro: l’amore e il sospetto. Il finale riserverà allo spettatore una sorpresa (non certo la prima del film): non sarà il protagonista, l’amore, a trionfare bensì l’antagonista, il sospetto. Un finale così non potrà che risultare discrepante, non solo con l’armonia e la coerenza della sceneggiatura, ma soprattutto con la natura di Lina, che, per tutto il film, si era dimostrata così innamorata da esser pronta persino al sacrificio. Francesco Sarno 68 Scheda tecnica del film Anno: 1941. Titolo: Suspicion (Il sospetto). Casa di produzione: RKO. Regia: Alfred Hitchcock. Soggetto: dal romanzo di Francis Illes. Sceneggiatori: Samson Raphaelson, Joan Harrison, Alma Reville. Fotografia: Harry Stradling. Interpreti: Cary Grant (Johnnie Aysgarth), Joan Fontaine (Lina Mac Kinlaw), Sir Cedric Hardwike (generale Mac Kinlaw), Nigel Bruce (Beaky). Letterature straniere Il dubbio e l’intuizione nel giallo contemporaneo al femminile Breve introduzione alla lettura delle opere di A. Holt, A. Gimenez-Bartlett e E. Aykol C os’hanno in comune Hanne Wilhelmsen, Petra Delicado e Kati Hirschel? Sono tre investigatrici nate dalla penna delle scrittrici contemporanee Anne Holt, norvegese, Alicia Gimenez-Bartlett, spagnola, ed Esmahan Aykol, turca. Tre personaggi femminili per tre europee di nascita o di cultura, ma senza dubbio di grande esperienza di vita, certo capaci di apportare elementi di novità in una tradizione consolidata: la straordinaria intuizione delle loro eroine, che segue il dubbio sugli elementi raccolti e sulle ipotesi investigative formulate; lo scenario (tre città, Oslo, Barcellona, Istanbul, non tanto descritte quanto “vissute”); infine, la condizione di chi svolge una professione (nel caso di Kati Hirschel, una specie di hobby) che ancora sfugge al consueto. Hanne, Petra e Kati lottano per affermarsi, e lo fanno in una società, nonostante tutto, piena di pregiudizi sulle donne e le loro scelte. Anne Holt, prima ancora di dedicarsi alla scrittura di romanzi gialli è stata giornalista, poliziotta, avvocato e per due anni ministro della Giustizia norvegese. La sua vasta esperienza di vita e di lavoro le consente di creare un giallo realistico che, se da una parte si inserisce nella tradizione scandinava del giallo dagli anni Settanta del Nove69 cento, dall’altro strizza l’occhio all’hard boiled statunitense. Nello stesso tempo, fornisce un continuo spaccato della vita privata dei suoi personaggi, alternandolo alle loro indagini e mostrando la corruzione di una società generalmente ritenuta civilissima, quella norvegese, anticipando, dal punto di vista fantapolitico, solo di qualche decennio orrori inusitati (simili alla strage di Oslo ad opera di Anders Breivik). Hanne Wilhelmsen è una trentacinquenne ispettrice di polizia, molto bella e di provate capacità investigative, che percorre la carriera con determinazione, ma anche con correttezza e femminilità. Ha frequentato l’Accademia di polizia con molti colleghi maschi di cui uno in particolare, un gigante dalla vita strampalata, Billy T., le diventerà amico e sottoposto e l’aiuterà validamente nelle indagini a lei assegnate. Ha una grande passione per gli Stati Uniti e spesso si esprime con proverbi e modi di dire anglosassoni. Ma ha un segreto che nasconde gelosamente al suo ambiente lavorativo: ama una donna, un Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio 70 medico con cui convive dalla fine del Liceo. Poco alla volta imparerà a non temere questa sua situazione e anzi, pur senza volerla esternare ne farà, anziché un suo problema di presunta disistima da parte dei colleghi, un punto di forza e di serenità interiore. Nelle sue indagini usa tutta la professionalità acquisita ed un metodo rigoroso, gestendo gli interrogatori dei sospettati con oggettività ed anche con psicologia, ma arriva alle conclusioni spesso per intuizione. In “Nella tana dei lupi”, il presunto omicidio del Primo Ministro norvegese (sempre una donna!) è risolto da lei, che stavolta collabora da esterna alle indagini, essendo ufficialmente negli Stati Uniti per un anno sabbatico, con la constatazione di aver eliminato ormai tutti i possibili moventi e i possibili responsabili pubblici e privati. Quindi, intuisce non senza orrore che si è trattato di un suicidio innescato dal riaffiorare di un segreto personale del Primo Ministro. Nello stesso tempo è stato un suicidio inutile: la bimba, figlia primogenita morta tanti anni prima per incuria e tradimento della madre (come la donna crede) è in realtà morta per un vaccino letale venduto da una multinazionale tedesca al Ministero della Sanità norvegese. La scrittura della Holt è scarna, paratattica e con una narrazione sempre in terza persona, con una pluralità di punti di vista che rende i suoi romanzi intriganti ma nello stesso tempo umanissimi, nonostante il crudo realismo dei delitti su cui si indaga e le piccole e grandi difficoltà e miserie della vita quotidiana. Vengono de scritte in parte la vita privata e le amicizie della protagonista, immergendo il privato nelle indagini ed intrecciando le indagini ai sentimenti, alle sensazioni del privato, spesso spunti di riflessione e di analisi su quella che possa essere la psicologia del colpevole di un delitto. Ma Hanne Wilhelmsen rimane nonostante tutto una outsider, non integrata completamente nella società norvegese, come invece sono i coniugi Johanne Vik, criminologa, ed Ingvar Stubø, ispettore di polizia, protagonisti dei gialli più recenti della Holt. Non integrata: quasi altrettanto così si può descrivere Pedra Delicado, la singolare protagonista dei gialli di Alicia Gimenez-Bartlett, scrittrice spagnola. Pedra Delicado: un nome, un ossimoro: dura e testarda come una pietra nella sua esteriorità, ma femminile e sensibile nella sua interiorità, partecipe sempre e comunque delle vicende altrui, positive o negative che siano. Per questo, infatti, la quarantenne ispettrice di polizia sembra voler indagare, riuscendo a trovare le motivazioni nella sua vita privata. Insofferente di tutto ciò che è ripetitivo e consueto, amante della libertà e fermamente decisa a realizzarsi pur rivendicando il diritto di sbagliare in prima persona e di imparare dai propri errori a gestirsi la vita, Pedra è inizialmente un avvocato barcellonese di successo, con uno studio bene avviato insieme al marito. Ma poi, desiderando liberarsi dalla gabbia di una promettente carriera e di un matrimonio soffocante, compie la sua scelta, scandalosa e di rottura per chi appartiene alla sua classe sociale: decide di entrare in polizia. Si occupa per molti anni del lavoro di archivio, finché la circostanza fortuita dei troppi impegni di lavoro dei colleghi la catapulta nel mondo delle indagini su casi piuttosto difficili da risolvere. Le viene affiancato Fermìn Garzòn, un anziano, burbero viceispettore di origini galiziane, inizialmente piuttosto diffidente sulle reali capacità investigative di un ispettore di polizia donna, pur essendo ligio al dovere e rispettoso degli ordini dei superiori. Ebbene, grazie alle capacità intuitive, al rigore logico, ai modi da dura dal cuore tenero e alle battute ironiche ma sincere di Pedra, Fermìn dovrà ricredersi e ne diventerà il fido collaboratore, comprendendone l’umanità e instaurando con lei un rapporto prima cameratesco, condito da scambi di battute, poi di vera amicizia; un rapporto che, con le necessarie distinzioni spazio-temporali, assomiglia moltissimo a quello simbiotico tra Don Chisciotte e Sancio Panza. Alicia Gimenez-Bartlett, infatti, dota il suo personaggio di una eccellente cultura, soprattutto letteraria, la sua, in quanto per molti anni ha insegnato letteratura inglese e spagnola; e della necessaria ironia che salva la vita di chi per mestiere si trova a contatto ogni giorno con scene del crimine e delitti da risolvere che hanno sullo sfondo ogni tipo di ambiente e classe sociale, più spesso i bassifondi di Barcellona. Pedra parla di sé in prima persona e ci racconta delle sue indagini, dei suoi successi e dei suoi fallimenti sia nel lavoro che nella sua vita privata, specie sentimentali; della necessità di rilassarsi ascoltando musica classica la sera o prendendosi cura del suo aspetto; della sua pietà e comprensione per i colpevoli di delitti, spesso omicidi, quasi sempre donne, e persino bambine reiette della società, piccole extracomunitarie affidate ai servizi sociali. In “Nido vuoto”, uno dei gialli più recenti della Bartlett, Pedra, scoraggiata dai deludenti risultati delle indagini sul furto della sua pistola d’ordinanza, che si sono in un secondo momento intrecciate con quelle su una serie di omicidi commessi proprio con la sua arma, si concede un momento di distrazione nei giardini ben curati di una casa di accoglienza per bambini disagiati. Qui, mentre chiacchiera con una simpatica e sveglia vecchietta, si accorge che i fiori nell’aiuola vicina sono gli stessi che aveva notato interrogando a casa di lei la vicina di un giardiniere rumeno, una delle vittime, coinvolto in traffici di droga. Arriva così ad intuire chi è stato il mandante dei delitti, commessi proprio dalla bambina che le aveva rubato la pistola: la direttrice dell’istituto, notata già all’inizio delle indagini per il suo carattere arcigno e scontroso, dalla rigida moralità, che aveva avuto una relazione di lavoro, poi sentimentale col rumeno. E proprio alla fine di questo romanzo anche Pedra e Fermìn troveranno la stabilità sentimentale: Pedra sposerà in terze nozze (dopo un lungo periodo da single interrotto da qualche occasionale avventura) un architetto conosciuto durante le indagini; Fermìn, vedovo, con un figlio che lavora negli Stati Uniti, sposerà la sua fidanzata che appartiene alla Barcellona “bene”. Ma i due lavoreranno ancora insieme ad altre indagini…La simpatia che l’eroina suscita, gli intrecci curati, l’ironia e qualche spunto comico con cui l’autrice condisce la narrazione, la sua grande attenzione a temi sociali di attualità, inseriti nelle vicende che racconta, hanno reso estremamente popolari i gialli della Bartlett, tanto che la Televisione spagnola ne ha ricavato una fortunata serie di telefilm. Ciò accomuna Alicia Gimenez-Bartlett ad Andrea Camilleri, e i due hanno in comune 71 anche un’altra situazione: entrambi non sono semplici scrittori di gialli e vorrebbero essere ricordati per gli altri romanzi che hanno ideato e composto. Alicia Gimenez-Bartlett, infatti, ha ottenuto diversi premi letterari anche in Italia per le tematiche riguardanti le donne. Ironia e commedia di costume sono anche gli ingredienti dei gialli di Esmahan Aykol, simpatica scrittrice turca quarantenne (di alcune generazioni dunque più giovane della Holt e della Gimenez-Bartlett) di formazione europea, tedesca nella fattispecie. Laureata in giurisprudenza, ha lavorato come giornalista e barista prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. La sua Kati Hirschel è una detective sui generis. Tedesca, figlia di un giurista ebreo emigrato in Turchia con la famiglia per sfuggire alle persecuzioni del regime nazista, è nata ad Istanbul e ci ha vissuto per i primi sette anni della sua Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio 72 esistenza. Tornata in Germania con la famiglia, dopo l’università ha deciso di ritornare in Turchia e si è stabilita di nuovo ad Istanbul, dove gestisce una libreria specializzata in libri gialli, sua grande passione, in uno dei quartieri più centrali, popolari e pittoreschi della parte europea. Bella donna quarantenne, è molto corteggiata e ha una mentalità aperta e libera, ma è pur sempre definita “la tedesca” da chi la conosce poco. Ha una solida e viva cultura europea ma si sente stambuliota. Ama infatti profondamente Istanbul, nel cui caos e traffico si sente a proprio agio, pur criticandolo; altrettanto si sente parte di un ambiente dove il pettegolezzo, la pigrizia e il farsi costantemente gli affari altrui sono forma mentis imprescindibile della società, sono anzi una forma orientale di cortesia. Ha diversi amici giornalisti, pubblicitari e appartenenti alla città “che conta”, che frequenta nel tempo libero. Vive inizialmente in affitto, insieme ad un amico gay; successivamente decide di acquistare un appartamento, avvalendosi dei consigli fraudolenti di un’amica. Kati indaga per passatempo, mossa da una enorme curiosità che la porta anche a cacciarsi in situazioni ambigue o pericolose, e si ispira ai metodi adoperati dagli investigatori dei suoi amati gialli, sottraendo allegramente tempo alle sue frenetiche occupazioni quotidiane e volte anche agli incontri con amiche ed amici. Fortemente diffidente nei confronti della polizia, secondo un principio inculcatole da sua madre, si trova paradossalmente a collaborare con la stessa polizia turca grazie all’incontro con l’ispettore (più tardi commissario) Batuhan, assai attratto da lei. Ma la sua vita sentimentale movimentata trova un punto di (temporaneo?) arrivo nella relazione con l’avvocato Selim, comunque litigiosa perché Kati non condivide idee ed atteggiamenti snob degli amici del compagno, preferendo amicizie magari più modeste, ma spontanee e piene di voglia di vivere come lei. In “Hotel Bosforo”, il primo giallo della Aykol e forse anche il più riuscito dei tre finora pubblicati, Kati indaga sulla morte di un regista tedesco poco noto, ma ingaggiato da una casa di produzione turca di recente formazione, i cui manager sono dei noti boss mafiosi. È coinvolta una sua amica tedesca, attrice, che non incontra da anni; l’amica è sospettata di aver ucciso il regista per motivi sentimentali, ma solo per caso Kati scoprirà che il movente dell’omicidio è ben altro: egli aveva fatto parte di una rete di pedofili per i quali realizzava filmini pedopornografici violenti; tra le piccole vittime dei pedofili c’era stato anche il piccolo figlio dell’amica, adottato dalla sorella e dal cognato. E solo Kati intuirà che il regista è stato sì ucciso dall’amica, ma che ella è stata il braccio della produttrice del film, sorella del boss mafioso, desiderosa di vendicare il rapimento, la violenza e l’omicidio del bambino della fidata cameriera bulgara. Qui come negli altri romanzi, Kati verifica le sue intuizioni parlando direttamente ed amichevolmente con le responsabili dei delitti, sempre donne, dichiarando loro che non rivelerà poi niente alla polizia: e mantiene la sua promessa perché si accontenta di soddisfare solo la sua curiosità e realizzare di aver centrato l’obiettivo, intellettivamente e umanamente. Una conclusione che solo lo scintillante surrealismo alla Almodovar di fatti, ambienti e situazioni narrati dalla Aykol può raggiungere. Si è parlato di giallo mediterraneo per Alicia Gimenez-Bartlett; la Aykol ha molto in comune con lei ma, al di là della ironica e scanzonata descrizione della passionalità del popolo spagnolo e turco, e di quella della apparente freddezza e razionalità di quello norvegese, si può senz’altro concludere che le tre scrittrici donano alle loro eroine la sensibilità squisitamente femminile di sapersi immedesimare nelle ragioni delle vittime e a volte anche in quelle dei (o delle) loro carnefici. Se è vero che “il sonno della ragione genera mostri”, è anche vero che il debole essere umano non vive di sola ragione, in tutti i tempi e a tutte le latitudini. Anna Loreto matematica Da Euclide a Bolyai, Lobacevskij e Riemann Un dubbio lungo oltre 2000 anni Ma le strida dei “beoti” kantiani riuscirono a fermare Gauss, “il re dei matematici”, non la nascita delle geometrie non euclidee e della teoria della relatività di Einstein Sembra un paradosso, ma dal dubbio sul postulato delle parallele di Euclide questi grandi della matematica e della fisica hanno fatto la vera rivoluzione della scienza, la più grande della storia Euclide Dubium, il dubbio, per i latini significava “stato di incertezza, esitazione ad affermare, decidere, risolvere”.Trasferirlo alla matematica, vuol dire soffermarsi sulle congetture, sui grandi enigmi della sua storia. Il dubbio, possiamo dire, non è ancora, può essere o non sarà mai la verità. Ecco: sciogliere un dubbio, in matematica, in particolare in geometria, significa ricerca della verità. E, proprio per discutere sui grandi dubbi ancora aperti, dal 1897 si tengono i Congressi Internazionali della Matematica: come per le Olimpiadi, vengono invitati a presentarvi il proprio lavoro coloro che la comunità dei matematici ritiene siano i suoi migliori esponenti. Bertolt Brecht, durante la sua esistenza, si era convinto che “di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio”. Non a caso, ancora oggi, restano aperti, come grandi dubbi del secolo trascorso, a distanza di oltre cento anni dal secondo Congresso tenutosi a Parigi nel 1900, alcuni dei 23 problemi nel campo della matematica, allora esplicitati nella sua prolusione da David Hilbert, il primo matematico 73 Gauss Bolyai Lobacevskij Gauss Riemann Einstein ad aver dato un assetto puramente formale e assiomatico alla geometria. Ma, in quell’occasione, Hilbert tenne a sottolineare che una soluzione accettabile di un problema matematico potrebbe essere anche una dimostrazione della sua insolubilità. In altre parole, interpretando il pensiero del grande matematico tedesco, si può ritenere che il dubbio non cessi solo con il raggiungimento della risoluzione del problema, cioè della verità esplicita o assoluta. La prova, nascosta, della sua non risoluzione ben può essere considerata verità implicita o apparente. Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio 74 Eppure, la storia secolare della matematica, permeata di stati di incertezza ma anche di verità conseguite, ci ha tramandato per anni grandi dubbi come dogmi di fede, verità assolute. Se andiamo per un attimo alle sue origini, il primo dubbio lo troviamo in uno dei pilastri portanti della geometria euclidea, quella che oggi si studia nei licei, il quinto postulato, passato alla storia come il postulato delle parallele che, nel 1759, D’Alembert definì addirittura “lo scandalo degli Elementi di geometria”. Per i matematici fu un vero campanello d’allarme: quel dubbio era durato troppo a lungo. La bellezza di oltre duemila anni da quando, verso il 300 a.C., Euclide lo aveva inserito nei suoi “Elementi”. Una macchia non più da nascondere ma da approfondire. Per tanto tempo c’era stata una sola geometria ed Euclide l’aveva catturata nel suo “libro sacro”. Gli “Elementi”, racchiusi in 13 libri, erano come la Bibbia per chi, allora, studiava geometria ed erano diventati un modello di come si dovesse fare matematica. Tutto era organizzato secondo una logica rigorosa, anche se Euclide era stato abile, usando il lavoro di altri matematici. Si definivano termini ed ogni proposizione veniva dimostrata a partire da cinque postulati, oggi detti anche assiomi. I primi quattro erano: 1. Si può tracciare una retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto. 2. Un segmento finito di retta si può estendere indefinitamente in linea retta. 3. Dati comunque un centro e un raggio, si può costruire una circonferenza. 4. Tutti gli angoli retti sono uguali tra di loro. Questi assiomi erano talmente ovvi che nessuna persona sana di mente avrebbe potuto metterli in discussione. Il quinto postulato, invece, quello che riguardava proprio le rette parallele, aveva un carattere leggermente diverso: era complicato e molto meno ovvio. Euclide lo enunciava in questo modo: “Se una retta taglia altre due rette, determinando dallo stesso lato angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, allora le due rette, se prolungate all’infinito, si incontreranno dalla parte in cui la somma dei due angoli è minore di due angoli retti”. Altro che ovvio! Sembra più un teorema che un assioma. Il dubbio persistente era proprio questo: è un teorema o un assioma? E, se è un teorema, potrebbe esistere il modo di dimostrarlo partendo dai primi quattro assiomi o, magari, da qualcosa di più semplice e intuitivo? Se si riuscisse a dimostrare che il quinto postulato è un teorema partendo dagli altri quattro, allora si potrebbe toglierlo addirittura dalla lista dei cinque, perché sarebbe un loro doppione. D’altra parte, potremmo chiederci perché Euclide abbia incluso nei suoi “Elementi” un postulato così poco elegante. Forse ad avere quel dubbio fu proprio lui, il suo inventore. Ma, l’averlo fatto è un indizio della sua genialità. Di certo, non riuscì a scioglierlo nella sua mente e ce lo ha tramandato come postulato indipendente dagli altri, cioè come verità da accettare senza dimostrazione. La prova del pizzico di genio: intuì che sarebbe stato necessario per i suoi ragionamenti geometrici, per le sue dimostrazioni, perciò non lo scartò, ma lo introdusse solo quando si venne a trovare in un vicolo cieco e fu costretto ad utilizzarlo. Così Euclide dimostrò, senza fare uso di quel postulato, tutto ciò che poteva, fino alla dimostrazione della Proposizione 28 del Libro I, poi lo ha tirato fuori, piazzandolo subito dopo gli altri quattro e consegnandolo alla storia come quinto postulato, battezzato, poi, col nome di “postulato delle parallele”. Quel dubbio non era la verità, né la negazione della verità, ma Euclide lo aveva trasformato in una sua verità, riuscendo a costruire “la sua geometria”, che nessuno, forse, avrebbe mai potuto mettere in discussione, perché si sarebbe fondata comunque su quel postulato, anche in caso di sua negazione. Ma il dubbio rimase ed è passato come verità intoccabile per oltre due millenni. La versione equivalente di quel postulato, oggi più citata nello studio della geometria euclidea, fece la sua comparsa per la prima volta nel V secolo, nei commentari del matematico greco Proclo, ma è nota generalmente con il nome di “assioma di Playfair”, in onore del matematico scozzese John Playfair(1748-1819), dal momento che lo stesso lo prese come variante del quinto postulato nella sua edizione degli Elementi di Euclide. Nella formulazione di Proclo-Playfair, riportata negli attuali libri di testo, l’assioma si può enunciare così: “Dati una retta r e un punto P non appartenente ad essa, è possibile tracciare una e una sola retta parallela a r passante per P”. Non bastava, però, questo nuovo approccio. Aveva retto per secoli, ma il quinto postulato, quella macchia ormai troppo scura sulla perfezione euclidea, era diventato un chiodo fisso per molti, nel tentativo di cancellarlo una volta per sempre. Si cercò in ogni modo di ricavarlo dagli altri quattro postulati o di sostituirlo con un altro più semplice, più evidente. Il gesuita Saccheri (1667-1733) e, più tardi, il matematico svizzero Lambert (1728-1777) tentarono di dimostrare il postulato delle parallele indirettamente, ammettendo il contrario e deducendone conseguenze assurde. Ben lungi dall’essere assurde, le loro conclusioni equivalevano in realtà ai teoremi della geometria non euclidea che doveva svilupparsi più tardi. Se essi, anziché considerarle delle assurdi- tà, le avessero ritenute delle verità in se stesse compatibili, sarebbero stati gli scopritori della geometria non euclidea. Purtroppo ogni sistema geometrico alternativo a quello di Euclide non veniva preso in considerazione, in quanto, a quel tempo, sarebbe stato considerato una vera eresia. Anche perché Kant, il più influente filosofo dell’epoca, con l’affermazione che i postulati di Euclide sono inerenti alla mente umana ed hanno, perciò, una validità oggettiva per lo “spazio reale”, riuscì a far passare “questa fede” negli assiomi della geometria euclidea come verità intoccabile. Fino a quando, nell’Ottocento, i matematici si resero finalmente conto che Euclide aveva fatto bene i suoi conti. Così, i continui fallimenti nella ricerca di una dimostrazione del postulato delle parallele incominciarono a indirizzarli verso un percorso alternativo, considerando quel postulato come indipendente e non come conseguenza degli altri. Questa fu la grande intuizione dell’ungherese Janos Bolyai (1802-1860) e del russo Nikolaj Iva75 novic Lobacevskij (1793-1856), i quali risolsero quel lungo dubbio costruendo una geometria in cui non vale il postulato delle parallele. Quando, però, il trattato di Bolyai sulla “sua riforma scritta” della geometria euclidea finì nelle mani del maestro Gauss, soprannominato il “re dei matematici”, il giovane studioso apprese, a malincuore, di essere stato preceduto in quel lavoro da Gauss stesso. Ma questi, a suo dire, pur essendo sua intenzione pubblicare i risultati della sua trentennale ricerca, perché non scomparissero con lui, fino a quel momento non li aveva ancora dati alle stampe. E mai li darà più. Gauss, forse, aveva temuto che una geometria alternativa a quella di Euclide, considerata un’ eresia filosofica, avrebbe provocato le strida dei “beoti”, cioè dei filosofi Kantiani, così da lui definiti. Da allora Bolyai provò un odio profondo nei confronti di Gauss, al quale il suo lavoro era pervenuto quale appendice ad un trattato del padre Farkas Bolyai, bravo matematico dell’epoca, che gettava le basi per una nuova frontiera della geometria. Così quello di Lobacevskij costituisce il primo Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio Figura 1 76 Figura 2 vero trattato di una geometria che poteva essere costruita addirittura su una superficie a forma di sella incurvata. Pubblicato sull’oscuro “Messaggero di Kazan”, passò inosservato, finché, verso il 1830, non apparvero le prime traduzioni francesi e tedesche. Ma cosa significa che il postulato delle parallele è indipendente? Che è possibile costruire una geometria alternativa coerente di proposizioni geometriche relative a punti e rette di un piano, deducendola da un gruppo di assiomi il cui postulato delle parallele sia sostituito da un postulato contrario. Solo il coraggio intellettuale di Gauss, Bolyai e Lobacevskij permise di arrivare a riconoscere che una geometria alternativa di questo genere, basata su un sistema di assiomi non euclideo, potesse essere perfettamente coerente. Per dimostrarne la coerenza, occorreva, però, costruire dei “modelli” di geometria tali da soddisfare gli assiomi di Euclide, eccetto il postulato delle parallele. Ma, questi non si fecero attendere. Figura 3 Nacquero tre modelli, che hanno preso il nome dai loro inventori: Klein, Poincaré, Beltrami. Nel più semplice di essi, dovuto a Felix Klein, per un punto non appartenente a una retta data si possono tracciare infinite rette parallele ad essa (per Euclide una e una sola). Fu il primo vero attacco alla “verità evangelica”, al verbo, del sommo Euclide. Questa geometria non euclidea prese il nome di geometria di Bolyai-Lobacevskij o “iperbolica”. Il modello di Klein si può evidenziare, in generale, nel piano non euclideo di Klein formato dai punti interni ad una conica (per esempio un’ ellisse, più in particolare una circonferenza). Data, pertanto, una circonferenza T (figura 1), si chiama: - punto di Klein un qualunque punto P interno a T; - retta di Klein una qualunque corda AB di T, esclusi gli estremi; - piano di Klein l’insieme dei punti interni aT. Modello di Riemann Figura 4 Figura 5 Figura 6 Inoltre: - due rette di Klein si dicono incidenti se si intersecano un punto di Klein (cioè se hanno in comune un punto interno alla circonferenza T). Per esempio, nella figura 2, le rette di Klein AB e CD sono incidenti nel punto P di Klein. Invece: - due rette di Klein si dicono parallele se non si intersecano in alcun punto di Klein (cioè se non si intersecano in alcun punto interno alla circonferenza T oppure se hanno in comune un punto di T). Per esempio le rette AB e AC, come si vede nella figura 3, sono parallele, in quanto si incontrano nel punto A della circonferenza T. Si può dimostrare che questi enti (punti, rette, piano di Klein) verificano gli assiomi della geometria euclidea, escluso l’assioma delle parallele. Vale invece la seguente proprietà: In un piano, dati una retta e un punto non appartenente ad essa, esistono almeno due rette passanti per quel punto e parallele alla retta data. Per esempio (figura 4) le rette distinte AC e BD passano per P e sono entrambe parallele alla retta AB, in quanto sia AC che BD intersecano la retta AB rispettivamente nei punti A e B della circonferenza T, che non sono punti di Klein. Se osserviamo, ora, la figura 5, possiamo renderci conto che: In un piano, dati una retta r e un punto P non appartenente ad essa, esistono infinite rette passanti per P e parallele alla retta r (infatti, oltre alle due rette m ed n parallele ad r, del tipo di quelle evidenziate in figura 4, ci sono anche tutte le altre parallele ad r, come ad esempio s, t, costituite dalle corde della circonferenza passanti per P e non intersecanti la retta data). Il modello di Klein prova, quindi, che l’assioma delle parallele è indipendente dai precedenti assiomi della geometria euclidea. È il primo colpo per la fine di quel lungo dubbio iniziato nel terzo secolo avanti Cristo. Bolyai e Lobacevskij avevano capito tutto. Per costruire una geometria alternativa, si trattava solo di adottare un nuovo postulato, con la sola variante che, stavolta, le rette passanti per un punto e parallele ad una retta data sono almeno due o, se volete, infinite, e non già una e una sola, come aveva statuito Euclide. Si evidenzia che la geometria euclidea e la geometria non euclidea iperbolica differiscono in quei teoremi che scaturiscono dal quinto postulato. Perché, se cambia il postulato, si modificheranno anche i teoremi connessi. Ad esempio, nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni di un triangolo vale un angolo piatto, mentre nella geometria non euclidea iperbolica di Bolyai-Lobacevskij è minore di un angolo piatto. Ma non finisce qui, perché di lì a poco lo status privilegiato della geometria euclidea subiva il colpo finale. A sferrarlo fu proprio uno degli studenti di Gauss, il più bravo, perché andò oltre Bolyai e Lobacevskij. Bernhard Riemann (1826-1866) riusciva non solo a dimostrare che la geometria iperbolica non 77 era l’unica geometria non euclidea possibile, ma anche a costruirne un’altra, facendo addirittura scomparire le rette parallele. Euclide si starà ancora rivoltando nella tomba! Così nel nuovo modello, per un punto non appartenente a una retta data non passa alcuna retta parallela ad essa. Questa nuova geometria non euclidea si dice geometria di Riemann o “ellittica” e si costruisce a partire da una superficie sferica o, più in generale, da una superficie curva dello spazio. Il modello di “geometria ellittica” di Riemann, in modo alquanto semplificato, funziona così: Data una superficie Sferica S(figura 6), si definisce: -punto di Riemann ogni coppia di punti estremi diametralmente opposti della superficie Sferica S. Per esempio, le coppie (A,B) e (C,D) sono punti di Riemann; -retta di Riemann ogni circonferenza massima della superficie Sferica S. Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio Per esempio le circonferenze massime T1 e T2 della superficie Sferica S sono rette di Riemann. - piano di Riemann la superficie Sferica S. Anche in questo caso, si può dimostrare che questi enti verificano gli assiomi della geometria euclidea, escluso l’assioma delle parallele. Vale invece il seguente assioma: In un piano, qualunque retta passante per un punto dato incontra una retta data. Infatti, due qualsiasi circonferenze massime di S si incontrano sempre in due punti (E ed F) diametralmente opposti(figura 6). 78 Nel piano di Riemann, si verifica che i predetti enti geometrici soddisfano i primi quattro postulati di Euclide, tranne il quinto, che è sostituito dal seguente: Fissati un punto (A, B) di Riemann ed una retta T2 di Riemann, allora ogni altra retta T1 di Riemann passante per (A, B) interseca la retta T2 in un altro punto (E,F) di Riemann. In altre parole, fissati un punto (A, B) ed una retta T2, non esiste alcuna retta passante per (A,B) e parallela alla retta data T2. Si verifica che anche la geometria euclidea e la geometria non euclidea ellittica di Riemann differiscono in quei teoremi che derivano dal quinto postulato. Così, nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni di un triangolo vale un angolo piatto, mentre nella geometria non euclidea ellittica di Riemann è maggiore di un angolo piatto, diversamente dalla geometria non euclidea iperbolica di Bolyai-Lobacevskij, in cui è minore di un angolo piatto. Ma quale fu l’intuizione che introdusse Riemann in tutto questo ben di Dio? Fu Riemann stesso a sviscerarla nella sua famosa lezione inaugurale sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, tenuta nel 1854 a Gottinga. Di fronte al suo maestro, un compiaciuto ed ormai vecchio professor Gauss, si rivelava “un grande”, quando effettuò la distinzione fondamentale tra l’illimitato e l’infinito. Facendo notare che il secondo postulato di Euclide si poteva interpretare in due modi diversi: “ogni retta è infinita”, “ogni retta è illimitata”. Fu lui il primo ad accorgersi che andava revisionato non soltanto il quinto postulato, quello delle parallele, ma anche il secondo. Fino a quel momento esistevano solo due possibili geometrie, perché “ogni retta era stata considerata solo infinita”: quella di Euclide e la iperbolica di Bolyai-Lobacevskij. Da allora nacque la terza via alla geometria, quella sferica o ellittica di Riemann, in cui “ogni retta è illimitata”, ma non infinita. Più tardi Felix Klein riordinò tutte le geometrie, stabilendo che ogni geometria è lo studio di quelle proprietà che non variano, i cosiddetti invarianti, rispetto a un gruppo di trasformazioni. In questo studio si accorse addirittura che esistevano due tipi di geometrie sferiche, entrambe dette ellittiche, quella sferica vera e propria (non esistono parallele e le rette si incontrano in più di un punto), e quella proiettiva (non esistono parallele e le rette si incontrano solo in un punto). “Una vera rivoluzione – direbbe oggi Euclide – ma il mio postulato è ancora valido e fa buona compagnia ai postulati delle geometrie non euclidee”. E Albert Einstein così esultò, senza alcun dubbio: ”A questa interpretazione della geometria io attribuisco una grande importanza, perché se non l’avessi tenuta presente, non avrei mai potuto sviluppare la teoria della relatività”. In effetti, tale teoria rappresenta lo spaziotempo come in una geometria non euclidea di Riemann, che di fatto si deforma, o si curva, vicino ai corpi gravitazionali come il sole e i pianeti. In uno dei suoi tanti libri, “Il caffè sospeso”, Luciano De Crescenzo, con la sua saggezza quotidiana in piccoli sorsi, a pag. 33, ci descrive cosa sia il dubbio. È Socrate che sta parlando in un dialogo con un suo amico, Strepsiade. Dice Socrate: “Il dubbio, mio buon amico, è una divinità che bussa con gentilezza alla tua porta e chiede di essere ascoltata. Il dubbio espone le sue idee, ma è anche pronto a cambiarle non appena qualcuno gli mostra che sono sbagliate. Il dubbio è il padre delle massime virtù dell’uomo: la Curiosità e la Tolleranza”. Così è stato anche per il dubbio sul quinto postulato delle parallele. Quel dubbio lo ebbe Euclide, lo hanno riavuto in tanti dopo di lui, è durato oltre duemila anni, ha bussato alla porta, si è fatto ascoltare, ha cambiato continuamente la propria idea, ma oggi sappiamo qual è la verità. Cioè che geometria euclidea e geometrie alternative non euclidee sono tutte vere, convivono, ciascuna con la coerenza del proprio postulato, e insieme stanno cambiando il mondo. Che bella, la matematica! Vincenzo Sirica Studioso di questioni matematiche 79 Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio letteratura italiana “Forse un mattino andando in un’aria di vetro” Analisi testuale di una lirica di Eugenio Montale alla luce del tema del Dubbio L 80 ’incipit della lirica di Eugenio Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro è imperniato sull’avverbio “forse”, dal quale emerge il dubbio e da cui prendono forma i versi. Egli, infatti, prefigura il mattino in cui, addentrandosi in un’atmosfera pungente ed arida e voltandosi di scatto, vedrà realizzarsi il “miracolo”. Quello di Montale, però, non è il classico e positivo miracolo, bensì, attraverso una transcodificazione del termine (dal latino miror, “mi meraviglio di. ..”), si registra l’epifania dell’anti-miracolo, con un’accezione negativa che fa riferimento alla deludente scoperta del nulla e del vuoto alle spalle del poeta stesso e che gli provoca un terrore assimilabile a quello di un uomo ubriaco. D’improvviso, sulla scena compaiono la vegetazione, le abitazioni e dei colli, reincarnazione di quella realtà che inganna abitudinariamente l’uomo. Il poeta, però, capisce di essersi accorto troppo tardi della realtà illusoria ed è quindi costretto a tacere e a proseguire al fianco degli altri uomini che, a differenza di Montale, non si voltano, poiché non si interrogano sui problemi esistenziali e non desiderano conoscere la verità. Dunque, la costante del cammino del poeta sarà il segreto di aver conosciuto una realtà del nulla e del vuoto, su cui si impernia la lirica stessa. La funzione referenziale (“un mattino”, v.1 e “alle spalle”, v. 3) catapulta il lettore in un contesto reale prima e figurato dopo; dalla funzione emotiva (“vedrò”, v. 2; “mie”, v. 3 e “io me ne andrò”, v. 7) emerge, invece, una diretta partecipazione del poeta, fautore dell’anti-miracolo; infine, la funzione metalinguistica (“s’accamperanno”, “di gitto”, e “schermo”, v.5) chiarisce concetti che appartengono prettamente alla lirica e vanno letti in chiave connotativa. Le metafore analogiche sono due: la prima (“aria di vetro”, v.1) è inerente alla sofferenza, al dubbio, è un’aria pungente, avversa all’uomo stesso, che vi trascorre le sue giornate, ma avverte l’incompatibilità; la seconda (“terrore di un ubriaco”, v. 4) esplicita e paragona il terrore dell’uomo alla vista dell’abisso a quello di un ubriaco e quindi dà l’idea del’animo sconvolto del poeta. Altri tropi sono l’iperbato (vv. 5-6), che pone al capoverso il soggetto della frase, di notevole importanza per il poeta; il click narrativo (“ma”, v.7), che contrappone la scoperta all’impossibilità di esprimerla, poiché è ormai troppo tardi; gli enjambements (vv. 3-4, 5-6, 7-8), attraverso i quali il poeta mette in risalto i termini “dietro”, “gitto” e “ritto”; l’allitterazione della liquida “l” (“nulla”, “alle” e “spalle”, v. 3), che lascia intendere il fluire del verso, e delle vocali “i” (“il” e “mie”, v. 3), “e” (“alle”, “spalle” e “dietro”, v.3) e “o” (“con”, v. 4 e “vuoto”, v.3) che rispettivamente sottolineano il silenzio in cui si svolge la scena, la meraviglia del poeta e la perfezione, indice dell’irripetibile evento. A ciò si aggiunge anche la ripetizione del gruppo consonantico “tr” (“dietro”, v.3) e “r” (“terrore”, v.4), che indicano il dubbio del poeta. È presente una rima alternata che associa vari termini: ad esempio “vetro” – “dietro”, legati dal rapporto tra sofferenza e abisso alle spalle del poeta, e “consueto” – “segreto”, legati dall’idea che la realtà illusoria, scoperta da Montale, sia un perpetuo inganno. Infatti, gli alberi, le case e i colli, che nella lirica appartengono ad un’enumerazione per asindeto, sono una proiezione, come nei film, sullo schermo che appare agli occhi del poeta: dunque, in tal modo, il poeta ha voluto dare l’idea di scorrimento nella dubbiosa apparizione degli elementi. Sara De Rosa III B Liceo Classico Forse un mattino andando in un’aria di vetro Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto 5 alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. Eugenio Montale [da Ossi di seppia, 1925] Questa analisi è la trascrizione fedele del testo di un compito in classe assegnato secondo le modalità prescritte dalla Prima Prova scritta (tipologia A) dell’Esame di Stato. Lyceum Dicembre 2012 81 Percorso/Il dubbio idee/1 Sofferenza e grandezza U 82 dell’essere umano n paradosso vive in noi, consuma la nostra vita, ferisce la nostra personalità oppure rende forte il nostro essere rafforzando la nostra mente. “Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio” affermava Bertold Brecht, uno dei massimi pensatori del secolo scorso. Ebbene, questa certezza innegabile pervade l’uomo dalla nascita, intesa sia a livello biologico che storico. I due livelli sono anzi assimilabili, in quanto sia il bambino sia l’uomo, passano col tempo dal dubbio prettamente pratico, concreto e materiale al più complesso pensiero astratto e teorico, ossia alla filosofia. Parliamo di una filosofia che non per forza si riferisce al ragionamento sulle grandi questioni insolubili che ci accompagnano da sempre, ma ad un’arte del pensiero teorico che ognuno di noi sperimenta quotidianamente nella propria vita. Infatti è profondamente errato pensare che la risoluzione di un problema di natura materiale possa prescindere dal momento teorico; quello che comunemente chiamiamo ragionamento. È questo stesso atto del pensare, del connettere idee ed eventi, a contenere il grande segreto del dubbio, che ogni giorno viene svelato inconsapevolmente anche dal più semplice degli uomini, a patto che nella sua vita scelga, affermi o neghi per sua volontà e non per costrizione o passività di sorta. Ogni ragionamento, a prescindere dalla sua complessità, ha una dialettica interna che può essere riassunta in termini diversi in relazione all’ambito in cui si agisce. In campo morale essa si estrinseca nel dualismo bene-male, in politica si mostra sotto forma di opposizione tra conservatorismo e progressismo, il quale a sua volta può essere moderato o rivoluzionario e in tal modo si può operare in tutti gli ambiti. Dunque si può ben comprendere come l’opposizione tra due atteggiamenti dia vita al dubbio, il quale però non per forza porta ad una risoluzione del problema. In verità il dubbio è solo la prima parte dell’atto del pensare, che può essere seguito da una scelta, dopo di che arriva il momento pratico in cui ognuno è chiamato a mettere in atto la propria idea, la propria filosofia. Ma c’è chi demanda le proprie scelte ad altri, chi non segue la lezione illuminista ed, in particolar modo, kantiana del libero pensiero sviluppato in prima persona, con l’Io protagonista. Uno slancio carico di conoscenza Ed è in questa incertezza perenne, che persiste, in quanto non si vuole o non si può compiere una scelta, che si radica l’infelicità dell’uomo che lascia risolvere ad altri i propri dubbi. Ma noi non siamo fatti per vivere in questa penosa condizione, o almeno non lo siamo tutti. L’uomo vero, intelligente e libero – questi sono i nostri attributi naturali – è colui il quale trae dalla sua incertezza, dal suo tentennare iniziale, lo slancio verso la conoscenza del mondo che lo circonda. È il dubbio abbinato alla curiosità, secondo Aristotele, “Metafisica, I”, che conduce l’uomo a migliorarsi ed è lo spirito di chi, come Ulisse, sceglie la via più aspra e più lunga a rendere onore al nostro essere. A tal proposito uno dei fari del pensiero del ‘700, Voltaire, afferma che “il dubbio è scomodo” e possiamo tranquillamente aggiungere, che talvolta è molesto, ma quasi mai inopportuno. La scomodità del dubbio è egregiamente e realisticamente colta dallo scultore francese Auguste Rodin, il quale, nella sua opera ”Il pensatore” (Parigi, Musée Rodin) esprime l’impegno mentale e psichico di un uomo la cui mente è attanagliata da un dilemma imperscrutabile. La muscolatura pronunciata proietta all’ester- no lo sforzo interiore che diventa universale ed invita tutti a condividere quell’atto così profondo ed utile. L’utilità coincide con la natura costruttiva dell’atto del pensiero, che Karl Raimond Popper, padre dell’epistemologia contemporanea, porta all’apice, applicando il dubbio filosofico al metodo scientifico. Tanto è possibile grazie all’innovativa e sconvolgente teoria della falsificabilità, che, al contrario di quanto pensarono alcuni scienziati (neopositivisti in primis), non conduce ad un relativismo e ad un’incertezza sterili e permanenti, ma ad un progresso basato sulla libertà di mettere in discussione idee affermate e non sull’incondizionata accettazione di esse. La “falsificazione” di una teoria scientifica sancisce definitivamente l’imprescindibilità del dubbio, che può essere applicato ad ogni ambito, a patto che si abbia la forza d’animo e l’umiltà di mettersi in discussione. Antonio Annarumma 83 V C Liceo Classico Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio idee/2 84 È Una meravigliosa schiavitù facile, soprattutto quando ci troviamo nel fiore degli anni, pensare di essere liberi di poter fare tutto ciò che vogliamo, quando e dove vogliamo. Ma quando arriva l’amore, tutto cambia, tutto il mondo, tutto l’universo si concentrano in un’unica persona e pare quasi che non esista nulla al di fuori di essa. Certo, l’amore può essere inteso in tanti modi; anche quello che proviamo nei confronti della nostra famiglia o dei nostri amici è amore, ma un amore “libero”. Invece quello che sentiamo verso la persona con la quale scegliamo di trascorrere la nostra esistenza ci rende prigionieri. Quante volte sentiamo pronunciare o vediamo scritte sui muri frasi come «Sei come l’aria che respiro», «Sei come l’ossigeno», «Vivo di te» o addirittura «Sei la mia droga»? Se ne potrebbero citare a centinaia. Tutto ciò fa ben comprendere che l’amore crea una sorta di dipendenza, qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Ariosto nel canto XXX dell’”Orlando furioso” afferma di sentirsi «infermo», ovvero “malato”, e sia la causa che la cura di questo “male” sono la stessa persona, Alessandra Benucci. La sua invettiva contro le donne, fatta alla fine del canto precedente e della quale si scusa, deve essere interpretata come un tentativo di liberarsi del legame che l’amore aveva creato tra lui e l’amata, tentativo sfociato nel pentimento e nella rassegnazione: capisce, infatti, di essere impotente di fronte a una cosa più forte di lui. Non a caso con le sue ultime parole si affida a Dio e alla sua donna: ormai non può fare più affidamento sulla propria ragione. Allo stesso modo noi, una volta caduti nella “trappola” amorosa, offriamo e perdiamo noi stessi, arrivando quasi alla follia, per quella che non a caso chiamiamo “anima gemella” o “dolce metà”. Questo concetto è ripreso, con successo, in una bellissima poesia di Erri De Luca,”Quando saremo due”, in cui il poeta afferma che in amore l’unità non equivale più a “uno” ma a “due”, come sono i «piedi, gli occhi, i reni». Infatti, se riflettiamo meglio, anche il cuore, sede dei sentimenti e simbolo per eccellenza dell’amore, nella coppia si unisce definitivamente e irreversibilmente a un altro cuore, come per mezzo di una potente calamita, un filo indissolubile: «salti tu, salto io» erano le parole costantemente ripetute da Jack a Rose, i due giovani protagonisti del kolossal “Titanic”del 1997. Anche Kahlil Gibran circoscrive l’amore come l’unico ambito in cui siamo davvero «schiavi» emotivamente, mentre siamo completamente autonomi per quanto riguarda tutto il resto. È assolutamente vero. Ce lo conferma anche il filosofo greco Platone che, nel “Simposio”, descrive l’innamorato come colui che va all’incessante ricerca di ciò che gli manca, perché sa di aver bisogno di qualcosa e, quindi, è dipendente. Tuttavia, quest’idea non deve indurci a guardare l’amore come un’esperienza dannosa, perché la schiavitù che esso genera è ossimorica- mente positiva e piacevole. Chi, al contrario, crede di poter dominare e controllare l’amore cade in errore: se ci sentiamo liberi di decidere a nostro piacimento quando abbandonare una persona o ritornare da lei, se crediamo di poter portare avanti una relazione basata su bugie e ipocrisia e non sulla fiducia, allora vuol dire che non stiamo vivendo un amore vero e sincero, che la persona che amiamo o che ci ama non è quella giusta, e le consequenze di un amore vissuto in questo modo sarebbero praticamente disastrose perché comporterebbero solo sofferenza. A questo punto non sarebbe meglio vivere una meravigliosa schiavitù piuttosto che una dolorosa libertà? Livia Semioli IV C Liceo Classico 85 Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio opinioni/1 Una vita costellata di dubbi O 86 gni età dell’esistenza umana è costellata da dubbi talvolta positivi, altre laceranti perché generati da condizioni contingenti per cui il soggetto non sa quale sia la scelta più vantaggiosa. Descrivere la condizione nel segno del dubbio è impresa difficile, perché i motivi per cui si vive nell’incertezza sono molteplici e strettamente connessi a specifici contesti. Il dubbio sollecita tutti i bambini che, per ogni nuova esperienza, hanno pronto un “perché” e poi ancora un altro, e un altro ancora. Vive nel dubbio l’adolescente quando deve decidere sul suo futuro compilando il modulo di iscrizione alle scuole superiori; quando non sa dire alla ragazza per la quale nutre un particolare interesse, che a mandare i messaggini sdolcinati che a lei tanto piacciono…..è lui. Il dubbio, oggi, accompagna i neo diplomati quando, per il tasso di disoccupazione crescente, credono che l’unica strada sia “fare le valigie”; ma quelli che rimangono e si laureano sono costretti ad affrontarne uno maggiore:”Dopo cinque anni di studio chi siamo? Cosa faremo? Quali prospettive abbiamo? Le nostre aspettative troveranno riscontro in un periodo critico in cui manca una adeguata politica del lavoro?” Non sa cosa fare una giovane coppia dal lavoro precario quando scopre che è in arrivo un bambino….. Un’altra giovane coppia dalle condizioni economiche stabili, di fronte allo stesso evento, è al settimo cielo per la felicità e l’unico dubbio è racchiuso nella ormai classica domanda: Sarà maschio o femmina?”. Il dubbio assale il padre che non sa se comprare il motorino al figlio e se acconsentire che la figlia vada ad una festa che si protrarrà oltre la mezzanotte. Troppi fatti di cronaca nera lo condizionano…! Il dubbio tormenta il lavoratore, oggi, perché non sa se domani porterà il pane a casa. Vive nel dubbio perfino il nonno che si domanda se si è spaccato la schiena per una giusta causa, se il sacrificio di una vita servirà qualcosa. Il dubbio lo ha colui che prima di morire si chiede: “E ora?” Il dubbio accomuna tutti ma, fortunatamente, il modo di risolverlo ci differenzia l’uno dall’altro… Mio nonno non comprò mai il motorino a mio padre, mio padre, invece, lo ha fatto. Non c’è una scelta giusta al 100%, una verità assoluta. Ognuno vive secondo la propria “filosofia di vita”. Se questa sia giusta o sbagliata, ebbene sta proprio qui il più grande dubbio! E solo il tempo, a medio o a lungo termine, ci darà ragione o torto. Salvatore Prisco III C Liceo Classico opinioni/2 - Solo gli stolti non hanno dubbi. - Ne sei sicuro? - Non ne ho alcun dubbio! Nonostante questa ironica citazione, quanti di noi nel corso della propria esistenza si sono trovati di fronte all’indecisione? Quanti, anche dopo aver preferito una scelta piuttosto che un’altra, si chiedono se fosse davvero quella giusta? A quanto pare, l’insicurezza gioca davvero brutti scherzi! Ma comunque, sembra che essa sia paradossalmente un buon segno: infatti, è spesso caratteristica di una mentalità aperta, di ampi orizzonti, i quali ovviamente implicano la considerazione di più opzioni, una serie illimitata di alternative che, anche se fastidiose al momento di scegliere, portano a produrre risultati più efficienti. Inoltre, il dubbio, sin dal suo etimo (duo habeo), rivela soprattutto una certa serenità interiore, più che intelligenza: una sorta di auto-concessione di spaziare in più vedute e quindi nel confronto, il quale, da che mondo è mondo, è sempre stato un giovamento. Solo a chi abbia realizzato una certa pacificazione con se stesso, quindi, sarebbe consentito di sospendere il giudizio, scetticamente, su aspetti anche importanti del proprio orientarsi nel mondo. Potremmo quasi dire, ponendo fede in questa visione, che sia legittimo dubitare. Ad ogni modo, sul fronte opposto, ci sarebbero alcune eventuali conseguenze di questo “dubbio legittimo”, ossia sensazione di vulnerabilità, debolezza, timore di esporsi. Ciò si verifica soprattutto fra gli adolescenti: capita, infatti, di avere paura di esprimersi con gli amici, di non es- ser capaci di persistere nelle proprie convinzioni, di ritrattare argomenti più e più volte, sfociando poi nel disprezzo di sé; quel che non capiamo, però, cari coetanei, è che l’indugiare continuo che “personalizza” questo periodo di vita è sintomo di volontà di migliorarsi: questo non essere mai contenti e convinti del modo in cui si pensa, si vive, si ci muove, porta ad una formazione più 87 profonda della persona, indica che si è disposti a mettersi in discussione, a crescere. Ebbene, compreso questo, si dovrebbe essere più spaventati dalla troppa certezza: per questo “solo gli stolti non hanno dubbi.” In effetti, il non voler ascoltare altre ragioni, l’avere pensieri univoci e incontestabili non è affatto una gran cosa, sebbene possa dimostrare determinazione e fede in sé stessi. Prendiamo d’esempio i filosofi: senza il beneficio del dubbio, senza studiare il perché esistevano, senza ritrattare continuamente le loro argomentazioni, senza ipotizzare diverse teorie delle proprie origini... Sarebbero mai arrivati a credere fermamente in qualcosa tanto da difenderla fino alla morte? Sarebbero mai stati ricordati? In conclusione, quindi, per ottenere migliori risultati nella vita, bisogna accertarsi che gli altri, potenzialmente conseguibili allo stesso modo, siano peggiori; e per farlo, il miglior modo è quello di dubitare, INDUBBIAMENTE! Giusy Adiletta IV C Liceo Scientifico Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio letteratura tedesca (testo a fronte) C 88 Il dubbio, una salvezza per l'umanità h e c o s’è i l dubbio? Anche ora, mentre scriviamo l’articolo, i dubbi non fanno altro che renderci la vita difficile. Qual è la parola più giusta? Quali frasi sono le migliori? Una persona che non dubita nella propria vita non è mai esistita: ci sono persone che dubitano di un uomo o di una donna o dubitano di un credo politico o religioso o addirittura sul senso della vita. Bertolt Brecht affermava che il dubbio è, di tutte le cose certe, la più certa. Non c’è nulla di più vero: la vita e la morte sono sottoposte al dubbio; persino l’origine del mondo e della vita lo sono. Goethe sosteneva invece che il dubbio aumenta con la conoscenza; infatti il sapere aumenta il desiderio di sapere ed alimenta altri dubbi, come in “Faust”, che stringe un patto col diavolo per combattere il dubbio ed ottenere la conoscenza assoluta. Secondo Nietzsche, la fede nella verità inizia dal dubbio su tutte le cose ritenute vere fino ad allora. E poi c’era Lessing, che dubitava sulle tre religioni principali, cioè Cristianesimo, Ebraismo e Islam. Infatti il più famoso esponente del l’Illuminismo affronta la sempre attuale questione dell’intolle- ranza religiosa nel dramma”Nathan il saggio”, basato su una novella del Decameron di Boccaccio, tratta a sua volta da una parabola, quella dell’anello o dei tre anelli. Questa parabola viene raccontata nell’opera dal protagonista Nathan che, essendo un ebreo, rappresenta la religione ebraica. La parabola dell’anello viene da lui raccontata al sultano Saladino, che invece rappresenta l’Islam e che chiede a Nathan quale fra le tre religioni sia quella vera, per dimostrargli che non è importante la religione in cui si crede bensì la fede in essa e la tolleranza verso altri credo religiosi. Infatti sceglie questa parabola perché essa parla di un anello d’inestimabile valore, che da se coli passava di padre in figlio, fin quando esso non arrivò a un padre di tre figli. L’anello in questione era un opale che aveva “il potere nascosto” di rendere chi lo possedeva gradito a Dio e agli uomini ed anche padrone della casa paterna. L’anello veniva da secoli donato dai padri al figlio più amato, ma in questa parabola il padre non sa scegliere fra i tre figli perché gli erano cari tutti e tre. Così decide di rivolgersi a un artigiano per commissionare due copie dell’anello originale, che però dovevano essere assolutamente uguali all’originale. Le copie dell’anello erano talmente simili all’originale che nessuno era capace di distinguerli. Ciò fece morire in p ace i l p adre dopo aver dato l’anello a ciascun figlio. Purtroppo i figli, dopo la morte del padre arrivarono a una lite furiosa, che li portò davanti Der Zweifel, eine Rettung für die Menschheit W as ist der Zweifel? Auch jetzt, während wir den Artikel schreiben, machen uns die Zweifel unser Leben schwer. Welches Wort ist das richtigste? Welche Sätze sind die besten? Keiner Mensch hat in seinem Leben nie gezweifelt: es gibt Menschen die einem Mann oder einer Frau misstrauen oder an einem politischen und religiösen Glauben oder sogar über die Lebensbedeutung zweifeln.Bertolt Brecht behauptete,dass der Zweifel unter allen si chersten Sachen die sicherste sei. Es gibt nichts Wahreres: Leben und Tod sind dem Zweifel unter worfen; sogar der Ursprung der Welt und des Le bens ist Zweifel.Goethe behauptete, dass je grös ser das Wissen desto mehr der Wissensdurst sei; in der Tat vergrösst das Wissen den Wissensdurst und nährt das Zweifeln,wie in“ Faust”,der den Pa kt mit dem Teufel schliesst, um das Zweifeln zu bekämpfen und das absolute Wissen zu erhalten. Nietzsches Meinung nach beginnt der Glaube an die Wahrheit aus dem Zweifel über alle sicheren Sachen bis damals. Und dann gab es Lessing, der an den drei Hauptreligionen zweifelte, d.h. an Ch ristentum, Judentum und Islam.Nämlich setzt sich der bekannteste Vertreter der deutschen Aufklär ung die immer aktuelle Frage der religiösen Unto leranz im Drama”Nathan der Weise” auseinander dessen Hauptthema aus einer Novelle von Boccac cio entnommen wird, die ihrerseits au seiner Para bel, der Ringparabel oder der drei Ringe stammt. Diese Parabel wird im Werk von der Hauptfigur Nathan erzählt, der das Judentum darstellt. Die Ringparabel wird von ihm dem Sultan Saladin er zählt, der den Islam darstellt und Nathan danach fragt, welche unter den drei Religionen die wahre sei, um ihm zu beweisen, dass es nicht wichtig sei an welche 89 Religion man glaube sondern der Glau be an unseren Gott und das Gefühl der Toleranz anderen religiösen Glauben gegenüber. Nämlich wählt er diese Parabel, weil sie über einen hoch schätzten Ring spricht,der seit Jahrhunderten von Vater bis Sohn geerbt wurde, bis wann er bis zu ei nem Vater mit drei Söhnen ankam.Der Ring in Fra ge war ein Opal, der “ die geheime Kraft “ hatte, vor Gott und den Menschen angenehm und auch Besitzer des Vaterhauses zu machen. Der Ring wurde von den Vätern dem geliebtesten Sohn geschenkt aber in dieser Parabel kann der Vater keinen der drei Söhnen auswählen, weil ihm alle drei Söhne lieb waren. So entscheidet er, sich an einen Künstler zu wenden, um zwei Kopien des e chten Rings zu bestellen,die aber ganz gleich dem Muster sein mussten. Die Kopien des Rings waren so gleich dem Muster, dass sie niemand untersch eiden konnte. Das liess den Vater im Frieden ster ben, nachdem er den Ring jedem von seinen Söh nen gegeben hatte. Leider kamen die drei Söhne zu einem wütenden Streit, der sie vor einem Rich ter brachte, um zu bestimmen, wer der Besitzer des echten Rings wäre und so auch Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio a un giudice per stabilire chi fosse il possessore del vero anello e quindi anche chi dovesse diventare il padrone della casa paterna. Il giudice, dopo un lungo discorso, li convinse dell’impossibilità di stabilire la verità e consigliò loro di comportarsi come se ognuno di essi fosse il possessore dell’anello originale, cioè vivere in modo retto ed essere devoti al proprio Dio. Questo è il vero insegnamento che intende darci Lessing attraverso la sentenza finale del giudice, cioè che non conta la verità assoluta in caso di dubbio ma la fede e la convinzione di credere nel 90 nostro Dio e nella nostra religione accettando però anche le diversità culturali e religiose attraverso la tolleranza. Perciò quest’opera viene vista come un’opera altamente pedagogica nonché di grandissima attualità alla luce di tutti i conflitti religiosi che da secoli insanguinano il mondo. Il confronto dei tre anelli con le tre religioni più importanti al mondo è di grande effetto ed anche il dubbio che da esso affiora può essere visto positivamente per l’uomo in quanto esso può frenare l’uomo dalla sua presunzione di certezza e liberarlo dalla sua”hybris”. In tal senso, il dubbio lessinghiano potrebbe diventare addirittura una specie di salvezza per l’umanità. Veronica Nappo Nunzia Esposito V MLA wer der Besit zer des Vaterhauses werden sollte. Der Richter,n ach einer langen Rede, überzeugte sie von der Un möglichkeit,die Wahrheit zu bestimmen und riet ihnen, sich zu verhalten, als ob jeder von ihnen der Besitzer des echten Rings wäre, d.h. beim Le ben mit Anständigkeit und Ergebenheit in seinem Gott. Das ist die richtige Lehre des Werks von Les sing,der durch das endliche Urteil des Richters be lehren will: es gilt nicht die absolute Wahrheit im Fall von Zweifel sondern der Glaube an unseren Gott und unsere Religion beim Annehmen aber auch von den kulturellen und religiösen Verschie denheiten durch die Toleranz. Deshalb wird dies es Werk wie ein Lehrdrama mit grosser Aktualität wenn wir an alle alten und neuen Religionskriege denken, die leider seit Jahrhunderten die Welt blutig macht. Der Vergleich der drei Ringe mit den drei wichtigsten Religionen ist sehr wirksam und auch der Zweifel, der aus ihm hervorkommt, kann für den Menschen positive betrachtet werd en denn er kann den Menschen von seiner Sicher heitsvermutung zügeln und von seinem “Hybris” (Hochmut) befreien.In diesem Sinn könnte Lessin gs Zweifel sogar eine Art Rettung für die Mensch heit, Veronica Nappo Nunzia Esposito V MLA 91 Lyceum Dicembre 2012 Percorso/Il dubbio nuovi orizzonti Verso il neutrino … e oltre! I neutrini, con una massa quasi 1 milione di volte più piccola di quella dell’elettrone, rappresentano la sfida più esclusiva della fisica delle particelle. Che cosa sono? Perché la I loro scoperta è così importante? 92 neutrini sono particelle elementari postulate da Pauli negli anni ’30, come un “tentativo estremo” per poter salvare il principio di conservazione dell’energia relativamente ai decadimenti radioattivi, ovvero ai nuclei atomici instabili le cui forze interne, non essendo bilanciate, tendono a raggiungere la stabilità attraverso l’emissione di una o più particelle. Il neutrino è una particella con carica neutra soggetta alle sole forze nucleare debole e gravitazionale; la sua particolare caratteristica è la bassa interazione con la materia che gli permette di attraversare quest’ultima indisturbato, rendendo la sua individuazione molto complessa. In natura esistono tre tipi di neutrino: Tauonico, Muonico ed Elettronico. Ognuno di questi neutrini può essere soggetto al fenomeno dell’oscillazione, ovvero al mutamento della propria natura. Ad esempio da muonico può trasformarsi in tauonico o elettronico. Il progetto “OPERA” (Oscillation project with Emulsion-tRacking Apparatus), nato nel Laboratorio di fisica nucleare del Gran Sasso, si occupa di isolare, grazie ad un rilevatore, delle particelle da un fascio di neutrini provenienti dal CERN di Ginevra, che da muonici mutano la propria natura in tauonica. Il percorso che compiono è di circa 730 km ma il tempo di percorrenza è ridottissimo vista la scarsa interazione con la materia. I fisici concentrano i propri sforzi nel cercare di capire i motivi che determinano la trasformazione: In OPERA, leptoni tau1, derivanti dalla interazione di tau-neutrini, vengono rivelati e osservati in “mattoni” attraverso emulsioni fotografiche alternate a lastre di piombo. L’apparecchio contiene circa 150.000 mattoni per una massa totale di 1300 tonnellate ed è completato da rivelatori elettronici (inseguitori e spettrometri) e dalle infrastrutture ausiliarie. Ogni mattone ha un peso approssimativo di 8,3 kg e ogni bersaglio è seguito da uno spettrometro magnetico per l’ impulso e l’identificazione di carica delle particelle penetranti. Durante la raccolta dei dati viene captata in tempo reale un’interazione del neutrino attraverso scintillatori e spettrometri ed un robot estrae solo il mattone interessato, per poter studiare le emulsioni fotografiche. Tramite lo studio delle lastre fotografiche si può identificare la natura del neutrino e verificare se è avvenuto il passaggio dal tipo muonico a tauonico. Conoscere questa particella e i fenomeni che la interessano sarà di fondamentale importanza non solo per comprendere appieno le cause che la determinano, ma anche per ampliare gli orizzonti dell’astrofisica. Grazie allo studio dei neutrini sarà infatti possibile delineare una situazione precisa e aggiornata dello stato del nostro Sole più di quanto non possa avvenire oggi con lo studio dei fotoni. Questi ultimi, per raggiungere la Terra dopo le reazioni avute nel nucleo della sella, impiegano miliardi di anni. Di contro i neutrini hanno un passaggio dal nucleo solare alla nostra atmosfera molto veloce, stimato nell’ordine di pochi minuti. Questo significa avere notizie aggiornate e ancora più precise sull’attività e sullo stato di salute del Sole. La strada da percorrere è ancora lunga. L’apprensione dei fisici è notevole così come la voglia di conoscere, di sapere di più sulla loro natura, sulla loro velocità e di dare una risposta alla domanda più ovvia: Che ripercussioni avrà la scoperta del neutrino nel mondo scientifico? Donatella Peluso Francesco Volpe V B Liceo Scientifico Docenti referenti: Rosa Aliberti Francesco Siepe 93 1 Leptoni-tau: Un leptone è una particella subatomica che ad oggi si ritiene sia puntiforme, quindi fondamentale, cioè non composta da altre particelle. Per tau s’intende la famiglia a cui appartiene. Lyceum Dicembre 2012 Orientamento Una Scuola di qualità, che garantisce ai suoi studenti una proficua attività curriculare e una serie di esperienze extracurriculari, non può non aprirsi alle molteplici sollecitazioni che provengono dal mondo della cultura e della sperimentazione. Ne sono una prova eloquente l’originale e creativa Mostra fotografica allestita con prodotti realizzati dagli studenti del Liceo Linguistico e l’interessante visita al “Laboratorio nazionale del Gran Sasso”, effettuata dagli studenti del Liceo Scientifico. Fa da introduzione ai problemi dell’Orientamento un bel “dialogo etico” fra un docente e un discente. discussioni Il Liceo, una scelta di vita Dialogo etico (tra un professore e un alunno) “Scusate, ma cosa s’intende per ragazzo o ragazza di liceo? Usate sempre questo modo di dire per indicare noialtri che frequentiamo questa scuola, ma sembra che vogliate imprimerci un marchio.” “Ma vi offendo se vi chiamo in questo modo?” “No, però siamo alunni normali.” “Ma siete alunni normali, certamente!” “Allora perché non ci chiamate semplicemente alunni, invece di ribadire, dopo ogni discorso che fate, che siamo ragazzi/e di liceo?” “Cominciamo col dire che tutti i ragazzi che frequentano una scuola sono alunni degni di ogni rispetto, però chi ha deciso di frequentare un liceo ha operato una scelta di vita particolare. I ragazzi di liceo leggono un libro per puro piacere; se ascoltano una canzone, ritengono importante soprattutto il testo; se studiano, lo fanno per se stessi; se seguono una lezione, si aspettano di migliorare le loro conoscenze; se l’insegnante è mediocre, essi soffrono, non godono, perché sono consapevoli che stanno perdendo tempo e non migliorano; se hanno un buon insegnante, sanno valorizzarlo: gli chiedono il massimo, dando il massimo. Gli alunni del liceo sono solidali, hanno degli ideali, conoscono il mos maiorum (fede, patria, onore, famiglia…), vivono per la conoscenza non fine a se stessa, credono che il mondo sia da migliorare e non da peggiorare; se un giorno si piange, l’altro si ride, perché sono consapevoli che la vita è costituita da attimi di infelicità e felicità, e si fanno coraggio, ricordandosi il panta rei di Eraclito; se a qualcuno di loro chiedi un favore personale, di solito, te lo fa; sanno cosa s’intende, quando si parla d’amore: essi conoscono Orazio e Saffo; se in classe parli di legalità, essi sono a conoscenza del fatto che in una società civile non si ruba, non s’imbroglia, non si mente, non si denigra, si rispettano le leggi, si pagano le tasse per senso civico, si offre senza speranza di riconoscenza; se a loro parli di carpe diem, essi non si limitano a dire che significa ‘cogli l’attimo’, ma sanno benissimo che quella piccola frase ha mille significati, e che uno su tutti equivale a godersi la vita nel rispetto degli altri..” “Secondo voi, gli insegnanti, oggi, sanno comunicare tutto ciò a noi alunni? Ma vi siete resi conto che la vostra categoria è considerata quasi una nullità?” “Hai ragione, in questo momento storico l’insegnante non ha molti estimatori, ma ciò che importa è la vostra preparazione personale. Ti posso assicurare che la scelta del liceo è una sorta di bonifico postale: se entri in quella scuola-tempio e percorri quei corridoi, difficilmente incontrerai un pessimo insegnante, ma sarà molto più semplice imbattersi in un docente-sacerdote, che attende il suo fedele discepolo. Quando terminerai i tuoi studi liceali, credimi, ti renderai conto che la cultura è l’unica cosa a cui bisogna affidarsi per sopravvivere alla mediocrità.” Lyceum Dicembre 2012 97 Orientamento 98 “Un’ultima curiosità, visto che frequento il primo anno: un ragazzo di liceo ha una sua vita sociale? Può coltivare i suoi hobby?” “Ti cito solo chi ha frequentato questo tipo di scuola e capirai che non sei in un carcere: Gabriele D’Annunzio, Mario Monicelli, Alessandro Baricco, Piero Angela, Primo Levi, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Gianni Agnelli, Giovanni Giolitti, Piero Gobetti, Giulio Carlo Argan, Giacomo De Benedetti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Parini, Gabriele Salvatores, Giulio Andreotti, Alberto Moravia, Vittorio Gassman, Carlo Verdone, Pier Paolo Pasolini, Marco Biagi, Giovanni Pascoli, Marco Pannella, Federico Moccia, Maurizio Costanzo, Maria De Filippi, Salvator Luria (premio Nobel per la medicina), Oriana Fallaci, Paolo Bonolis, Dario Argento, Daniele Luttazzi, Valentina Stella, Antonello Venditti, Stramaccioni (tecnico dell’Inter), Morgan (X Factor), Rossella Brescia, Claudia Koll, Sabrina Ferilli, Tony Servillo (attore), Elisabetta Canalis, i Finley (band musicale), Valerio Scanu, Emma Marrone, Francesca (“Amici” di De Filippi), Adriano Celentano, Federico Fellini, Noemi (cantante), Giuseppe Giofrè (ballerino di “Amici”), Alessia Fabiani, Annalisa Scarrone…” “Nooo!” “Credo che questi signori abbiano svolto o ancora svolgono qualche ruolo nella società e, di sicuro, hanno avuto (moltissimi, ormai, sono passati a miglior vita), hanno e avranno mille hobby da coltivare…” Giuseppe Robustelli A fianco la foto più votata nell’ambito della Mostra fotografica (autrice: Carolina Grasso) MOSTRA FOTOGRAFICA “La bellezza è negli occhi di chi guarda!” I L’espressione è un nostro diritto! l poeta e scrittore tedesco J. W. Goethe affermava: “La bellezza è negli occhi di chi guarda!” Cosa accadrebbe se decidessimo di problematizzare il concetto aggiungendo, al famoso aforisma, un punto interrogativo? È quello che si sono chiesti i ragazzi del Liceo MaxiLinguistico “T. L. Caro” di Sarno dove, dal 9 al 17 novembre, si è tenuta la prima mostra fotografica che ha avuto per titolo proprio la domanda sopra riportata. Con il coordinamento del docente di Filosofia, prof. Alfredo Carrella, nove studenti, meglio, nove fotografi in erba hanno strappato all’oblio dei cassetti, ai meandri di memory card, pc e quant’altro, immagini davvero straordinarie, poetiche, problematiche...: Antonella Ambrosio, Anastasia Babyak, Amina Dahbi, Giulia de Filippo, Assia de Lorenzo, Antonella Ferrara, Carolina Grasso, Giusy Iazzetta, Roberto Ruggiero. Si sono viste ben trentasei foto bellamente allestite al piano terra del Linguistico ora sul sito internet del nostro Liceo. Sono state formate ben otto guide –preparatissime– che hanno accompagnato le classi a “leggere” il percorso fotografico: Sara Puzone Bifulco, Paola Vastola, Cinque Maria Diletta, Roberta Palmerio, Roberto Ruggiero, Rosa Pastore e Giulia De Filippo. La mostra è stata visitata, non solo da tutte le classi del Liceo linguistico e dal Maxi-scientifico, ma anche dalle classi terze della scuola media “G. Amendola” di Sarno. Ogni visitatore poteva liberamente scrivere su un registro un giudizio, un commento, una emozione etc. In generale il feedback è stato molto lusinghiero: “Foto interessanti ed a tratti suggestive, complimenti!”, “Grazie per averci regalato un’infinità di emozioni”, “Complimenti! Siete proprio bravi, qui c’è arte!!”. Non sono mancati, poi, coloro che hanno espresso delle ‘perplessità’: “Foto banali” oppure “Non capisco cos’abbia di artistico una ragazza con una sciarpa in faccia”, “Bella, ma niente di interessante”, “Belle ma troppo banali”. Se la bellezza è davvero negli occhi di chi guarda, non possiamo certo pretendere da tutti la stessa reazione. Abbiamo, ancora, giudizi sibillini del tipo: Lyceum Dicembre 2012 99 Orientamento “Senza parole...”, “Un occhio scatta, tanti occhi guardano. Gli occhi guardano l’occhio che scatta”. Nel registro sono finiti pure messaggi che avrebbero avuto bisogno di un ‘muro’: “Michele ti amo!” Infine, ogni spettatore poteva votare la foto più ‘bella’. La foto vincitrice della Mostra, con ben cinquanta voti, è stata quella di Carolina Grasso: un’istantanea – perfetta - che riprende un episodio dell’ultima manifestazione studentesca tenutasi a Salerno. Se c’è un’opinione da tutti condivisa è, sicuramente, l’idea che questa mostra non si sia rivelata solo un’ottima iniziativa, ma anche e soprattutto, un modo diverso di fare scuola, slegato dai vincoli stretti della lezione frontale, un modo per far sì che i giovani si avvicinino all’arte e alla cultura. Bellissimo un commento lasciato sul registro: “L’espressione è un nostro diritto!” È proprio il caso di dirlo: C’è assolutamente bisogno di una seconda edizione! Corrado Cascone IV M LA 100 Premio “Salvatore Valitutti” Il prestigioso Premio “Salvatore Valitutti” è stato assegnato a Salerno il 28 maggio 2012 agli alunni Annarumma Antonio, Carillo Anna Maria, Cimmelli Federica, Esposito Roberta della IV C Liceo Classico (attuale V C) per il saggio “La linea d’ombra tra ordine e disordine”. La scienza di oggi è la tecnologia di domani esperienze S abato 10 novembre, i ragazzi della VA e della VB del “Liceo Scientifico Galileo Galilei”, accompagnati dalla professoressa di scienze naturali R. M. Aliberti e dai professori di fisica S. S. Albano e F. Siepe, hanno visitato i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con una puntata alla città dell’Aquila. Desolazione, silenzio, angoscia: questo è ciò che regna nel centro storico della città abruzzese. Ad un primo sguardo sembra quasi che siano state tolte le macerie ma, insieme ad esse, sembra che abbiano portato via anche l’anima della città. Dopo il boato del terremoto, l’Aquila è muta: è un silenzio assordante di chi si dà da fare per poter ricominciare a vivere e ritrovare finalmente un sorriso. Abbiamo visitato la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, l’unica Porta Santa sita in una città diversa da Roma e la Fontana delle 99 Cannelle, monumento storico dell’Aquila. Nel pomeriggio ci siamo recati ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, il centro di ricerca sotterraneo più grande e importante del mondo, finanziato dall’ INFN, Istituto Nazionale Fisica Nucleare. L’idea di dotare l’INFN di un grande laboratorio sotterraneo dedicato alla fisica fondamentale nasce nel 1979 grazie ad Antonino Zichichi, luminare della fisica delle particelle elementari. I Laboratori sotterranei sono costituiti da tre grandi sale sperimentali, ognuna delle quali misura circa 100 m di lunghezza, 20 m di larghezza e 18 m di altezza e un tunnel di servizio. Arrivati ai LNGS siamo stati accolti da Alessia, una giovane ricercatrice laureata in fisica, che ci ha accompagnati nella visita dei laboratori, fornendoci prima alcune importanti informazioni per la successiva comprensione degli esperimenti. 101 La Terra è continuamente bombardata dai raggi cosmici. Nuclei di idrogeno (H), elio (He) e di elementi più pesanti colpiscono l’atmosfera causando una pioggia di particelle secondarie. Gli studenti della classe VA del Liceo Scientifico durante una visita al “Laboratorio Nazionale del Gran Sasso” per l’esperimento ICARUS, accompagnati dalla prof.ssa Rosa Aliberti, dal prof. Sarno Albano e dal Preside prof. Giuseppa Vastola. Lyceum Dicembre 2012 Orientamento In superficie queste particelle (circa 100 per m2/s) costituiscono quello che nel gergo scientifico viene detto ”rumore di fondo” che oscura i rivelatori. Tuttavia, vi sono particolari particelle, come ad esempio i neutrini 1 che, non interagendo con la materia, ci permettono di ottenere preziosissime ed invariate informazioni su fenomeni che avvengono a migliaia se non a milioni di anni luce dal nostro pianeta. Quindi i 1400 metri di roccia che sovrastano i Laboratori hanno il compito di ridurre il flusso dei raggi cosmici che interferirebbero con la cattura dei neutrini. Attualmente i Laboratori si stanno occupando di esperimenti relativi alla nascita dell’universo, al funzionamento delle stelle, alla natura del neutrino e alla scoperta di ciò che costituisce la materia oscura. Gli esperimenti da noi visionati sono i seguenti: Opera, Icarus, Borexino, LVD, Gerda, Cuore, Dama e Cresst. OPERA e ICARUS indagano sui neutrini che vengono prodotti artificialmente dal CERN di Ginevra e che vengono inviati ai LNGS per studiare 102 il fenomeno dell’oscillazione2. BOREXINO indaga sui neutrini solari emessi in una particolare reazione che avviene all’interno del Sole, quella del berilio 7 che produce neutrini elettronici e monoenergetici. LVD indaga sui neutrini emessi, in un arco di tempo brevissimo (circa 10-20 secondi), dall’esplosione di supernovae che si trovano nelle vicinanze della nostra galassia o nella nostra galassia. Un’esplosione di una supernova avviene circa ogni 30 anni (limitatamente ad una zona) e l’ultima supernova risale al 1987, cinque anni La sala in cui si tiene l’esperimento ICARUS. prima che questo esperimento venisse messo in funzione (1992). Quindi possiamo dire che si sta aspettando l’esplosione di un’altra supernova per catturare i neutrini e studiare così la natura della stella esplosa. GERDA indaga sul decadimento doppio beta senza l’emissione di neutrini3 dell’isotopo4 germanio76 e lo fa utilizzando cristalli di germanio. In GERDA, quindi, il cristallo di germanio ha una doppia funzionalità: è allo stesso tempo rivelatore e sorgente del decadimento. CUORE è ancora in costruzione e per ora vi è soltanto il prototipo, “Cuoricino”. Anche Cuore sarà costruito per studiare il decadimento doppio beta senza emissione di neutrini, ma in questo caso si vuole vedere il decadimento dell’isotopo tellurio 103. La particolarità di questo esperimento è che il tutto verrà schermato con il “piombo romano” rinvenuto in una nave romana affondata in prossimità della Sardegna circa 2000 anni fa. Il piombo è un ottimo schermo per le radiazioni esterne, tuttavia ha una difetto intrinseco: l’isotopo piombo 210, che ha un tempo di dimezzamento dell’ordine di 22 anni. L’interazione dei raggi cosmici secondari con il piombo riproducono questo isotopo che, decadendo, emette radiazioni che interferirebbero con il progetto in questione. Il “piombo romano”, essendo stato sommerso per 2000 anni, è stato schermato dai raggi cosmici per cui l’isotopo piombo 210 è completamente assente. Nel momento in cui l’hanno portato in superficie, sono state utilizzate le opportune protezioni per evitare che questo venisse riattivato. DAMA vuole dimostrare l’esistenza della materia oscura tramite la modulazione annuale. Il flusso delle particelle costituenti l’aria aumenta con l’aumentare della velocità. In altre parole a seconda che la terra si trovi in afelio o perielio, il flusso delle particelle che costituiscono la materia oscura rispettivamente aumenta e diminuisce. CRESST indaga sulla materia oscura con l’obiettivo di conoscere gli elementi che costituiscono la materia oscura. A chi non è capitato di guardare film come 007, Star Wars e, alla vista di quegli immensi laboratori con macchinari sofisticati, il cui utilizzo è quasi impossibile da immaginare, chiedersi: “ma a cosa serve, in realtà, tutto ciò?” E questa è la stessa domanda che noi studenti ci siamo posti dopo aver visto i grandi impianti e le raffinate apparecchiature che dominano i LNGS. In realtà pochi sanno che proprio dall’esigenza degli scienziati a comunicare in tempi molto brevi un gran numero di notizie è nato il protocollo internet WWW o dal risultato di questi esperimenti si è giunti alla risonanza magnetica, o che i neutrini vengono utilizzati nel campo finanziario come strumento di comunicazione. “La scienza di oggi è la tecnologia di domani.” [cit. Edward Teller] Stefania Balestra, Antonio Roccia, Luca Ambrosio V A Liceo Scientifico Docenti referenti: Rosa Aliberti Salvatore Sarno Albano 103 Premio di Poesia “Il Pensiero Libero” Christian Fiore, studente della IV B del Liceo Classico, è stato insignito del prestigioso Premio “Il Pensiero Libero” (sez. Poesia, secondo posto) con la lirica “Il nodo sciolto”. La manifestazione di Premiazione si è svolta a Pagani il 14 novembre 2012 davanti a un folto e qualificato pubblico di scrittori, docenti e giornalisti. Neutrino: particella con una carica elettrica nulla, con una massa vicina allo zero. Oscillazione del neutrino: fenomeno che vede la trasformazione di un neutrino da un tipo all’altro. 3 Nel doppio decadimento beta senza neutrini l’ antineutrino emesso, si trasforma in un neutrino ed è assorbito immediatamente da un altro nucleone del nucleo, quindi la somma delle energie totali dei due elettroni è esattamente la differenza dell’energia di legame tra il nucleo iniziale e quello finale. 4 Isotopo: atomo di uno stesso elemento chimico, con ugual numero atomico Z, ma con differente numero di massa A, e quindi con un differente numero di neutroni. 1 2 Lyceum Dicembre 2012 Itinerari La sezione Itinerari di questo numero di Lyceum squaderna le attività extra-curriculari del “T. L. Caro”. Essa si apre con il Progetto di Arte e prosegue con la presentazione dei due Spettacoli, messi in scena dalle due Compagnie Teatrali del Liceo: La Nave dei Folli e L’allegra Brigata. Seguono due itinerari di scrittura, imperniati sul registro saggistico, due proposte diverse, ma accomunate dalla presenza di pregevoli elementi stilistici. teatro/l’Allegra brigata Specchio delle mie trame “La satira è una sorta di specchio, dove gli osservatori in genere vedono le facce di tutti tranne la loro” Johnatan Swift I l topos del teatro come specchio delle trame letterarie di alcuni tra gli scrittori della tradizione teatrale del Novecento sarà il tema del laboratorio teatrale dell’Allegra Brigata del Liceo Classico “T. L. Caro” con sezioni di Liceo Scientifico, Scienze Applicate, Linguistico per l’anno scolastico 2012/2013. Lo spunto che ha avviato la scelta del percorso è stata la riflessione di Italo Calvino sulla fiaba, vista come genere, che, se pur nella sua sì ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, costituisce una spiegazione generale della vita. Allo stesso modo la condizione di a-temporalità della narrazione fiabesca ben rappresenta il calo delle luci prima dell’apertura del sipario che pone lo spettatore in una condizione di trascendenza del sé che vede proiettate sulla scena le proprie aspirazioni, ansie, sofferenze e gioie. Il teatro, dunque, come luogo del pieno trascendimento di quella negatività che troviamo nell’esistenza e nel mondo storico. L’ a r t i f i c i o dell’opera letteraria come soluzione palliativa della disgregazione della realtà, nella quale sembra sempre di essere messi davanti ad una scelta, cioè se continuare sulla via della nostra 107 realtà o imboccare un sentiero completamente diverso, fatto di continue metamorfosi; in cui nulla è stabile tutto è sottoposto ad un incessante e vorticoso movimento; il teatro di parola, di indagine e desiderio diviene quindi il luogo della giustizia; dove veder ed ascoltare, come affermava il Basile, “le vicende degli uomini”, “si dà sfratto ai pensieri fastidiosi e si prolunga la vita; svaporano gli affanni”. Chiarelli della “Maschera e il volto” (1914), Pirandello del “Giuoco delle parti” (1918), Pier Maria Rosso di San Secondo di “Marionette che passione!”, Luigi Antonelli della “Bottega dei sogni” (1927), Achille Campanile, Dario Fo, gli autori che stimoleranno la creatività delle guide: il maestro Antonio Avigliano e la professoressa Grazia Celentano che in un progetto attento e condiviso con i discenti si impegneranno in una vorticosa e versatile rappresentazione finale che sicuramente strapperà applausi a piene mani al suo caro pubblico. Grazia Celentano Lyceum Dicembre 2012 Itinerari LA NAVE DEI FOLLI/ Il nuovo Spettacolo teatrale Uomini contro Contro le ombre dei disvalori. Con la speranza nel cuore. Che nasce quando tutto sembra morire L a scena del teatro è la stessa della vita. Magnifica e atroce. Terribile e dolce. In essa si agitano, sotto l’aerea volta del cielo, speranze e delusioni. E sulla scena si consuma il dramma universale dell’uomo. A cui fu detto: “Tu camminerai in eterno, compirai viaggi infiniti e ti porterai dentro il peso delle ombre che gravano su di te.” E le ombre che vagano, sul palcoscenico, di tra i fondali, le quinte e le lignee assi calpestate sono tante. E spesso innominabili. Si chiamano potere e sopraffazione, egoismo ed arroganza. Contro di loro donne e uomini corag108 giosi hanno ingaggiato una battaglia titanica ed epocale. Finché un raggio di luce, misterioso e inspiegabile, ma pur sempre capace di diradare le ombre, attraversa il cielo nero e minaccioso. E così davanti ai loro occhi increduli e straniati si accampa l’epifania dell’antimiracolo. Questi ed altri sentimenti popolano e agitano lo Spettacolo, che la Compagnia teatrale “La Nave dei Folli” del Liceo Classico, Scientifico e Linguistico “T. L. Caro” sta preparando per festeggiare il ventesimo compleanno della sua attività. Operazione iniziale: stesura del testo, ripreso e transcodificato dalla tradizione classica. Perché riteniamo che i grandi Classici latini e greci hanno fondato la cultura dell’Occidente, la democrazia e la possibilità di confrontarsi con l’altro. Anche con l’altro che abita dentro di noi. Poi sarà la volta degli attori, che dovranno imparare a vedere il mondo con gli occhi dei personaggi a cui daranno voce e vita. E a raccordarsi con le musiche, i canti e le danze. Una vera e propria Orchestra live accompagna le scene apicali del lavoro teatrale, fondendo, come “La Nave dei Folli” fa da sempre, folk e pop, jazz e rock, in una concezione che abbiamo da tempo definito “saturesca”. Fondata, cioè, sulla contaminazione, sul mélange, sull’ottica liminare applicata al teatro. Quello della “Nave dei Folli” è un teatro che si costruisce durante la messa in scena, che si adegua alle peculiarità dei discenti, che cerca di far venire alla luce la creatività dei giovani. Il “Tito Lucrezio Caro” prova a far questo lavorando con rigore e con passione nella pratica curriculare di ogni giorno e proponendo attività extra-curriculari profondamente formative come il teatro, che non è un mettersi in mostra, ma un mettere in discussione se stessi. Andando oltre i confini delle proprie esperienze, ma sapendo anche essere sentinelle delle proprie frontiere. Franco Salerno Il testo dello Spettacolo della “Nave dei Folli” è di Franco Salerno (con la collaborazione della Sezione “Scrittura creativa” della Compagnia). La regia è curata da Angelo Pastore e da Franco Salerno; l’arrangiamento e la direzione delle musiche sono realizzati da Ciro Ruggiero e le coreografie sono ideate e dirette da Carmela Fiore. itinerari di scrittura/1 Amarsi per amare la vita e salvarsi Il vero testamento leopardiano: L eopardi, l’uomo, il pensatore, un binomio inscindibile che non è svanito nell’ oblio del tempo contaminato da nuove e contrastanti ideologie, da indefiniti orizzonti. Il cantore instancabile, insofferente al conformismo della sua epoca, ha illuminato la mente dell’uomo, districato con ardore i suoi sensi, annientando con sconvolgente lucidità speranze e false credenze, annunciando un ‘esistenza desolata e infelice, il cui unico senso, l’ unico fine è la morte, disgregazione di materia. “Non gli uomini solamente ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli altri esseri a loro modo. Non gli individui, ma la specie, i generi, i regni, i sistemi, i mondi”. La sua filosofia, vera e dolorosa, è una fonte di consolazione anche per l’animo più tormentato e sofferente, riaccedendo un barlume di entusiasmo, un attaccamento seppur momentaneo alla vita. L’atroce verità infonde nell’uomo un sentimento inesplorato, un amore vero e proprio per la vita, frammento cosmico fatto di fiato e carne. Ma negare il vero è arroganza, se l’uomo nega il vero la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non ha fatto e avrebbe potuto fare. I suoi sentimenti non nascono da una condizione personale come la malattia oppure da un odio insensato e profondo verso gli uomini. In realtà le sue opere sono destinate ad alleviare i mali dell’ uomo, a sanare i conflitti e i dissensi tra creature simili accomunate da un unico destino. È fondamentale che gli uomini si sostengano e si incoraggino reciprocamente per affrontare la fatica del vivere. Sì, vivere, occorre vivere: sforzo titanico, virile e disilluso. Stolto è colui che si piega vigliaccamente dinanzi all’ oppressore, piangendo e supplicando la rea natura. Vivere plasmando una social catena nella quale tutti i componenti conoscano democraticamente il loro stato e condividano sofferenze 109 comuni e, perché no, ridano di esse. “L’umana compagnia Tutti fra sé confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune.” Leopardi affronta nuovamente un concetto universale come l’ amore, ma se nelle liriche del Ciclo di Aspasia “Pensiero dominante” e “Amore e morte” riflette su di esso come forza che consola ma al tempo stesso conduce al dolore, nel suo testamento spirituale tale sentimento tende a naufragare nella visione evangelica della fratellanza. Unico atteggiamento possibile per un miglioramento probabile della condizione umana. Anna Clelia Adiletta V B Liceo Scientifico Lyceum Dicembre 2012 Itinerari itinerari di scrittura/2 La crisi economica L a crisi economica che incombe sul nostro Paese e che si sta ripercuotendo, anche in altre nazioni, a livello mondiale, sta generando naturali problemi anche nell’ambito occupazionale, soprattutto tra i giovani. In linea con quello che ha sempre caratterizzato l’Italia, Paese in cui i lavoratori tendono a tenere ben saldo il proprio posto di lavoro e sono poco propensi a nuove opportunità, i più penalizzati sono i giovani, che al termine del corso di studi si trovano a sperare di accedere ad esso che in questo momento appare come un mondo cristallizzato e impenetrabile. La contrazione dei consumi, insieme alla 110 pressione fiscale, non solo rendono difficili nuove assunzioni, ma portano le aziende a ridurre il personale, considerato spesso solo una voce di costo, prediligendo l’impiego di giovani esodati o extracomunitari che per anzianità lavorativa, per competenze, naturalmente limitate, e inoltre per la scarsa durata del rapporto di lavoro gravano di meno sul sistema economico nazionale. L’elevato numero di attività analoghe, inoltre, e la crisi dei vari settori, anche di quelli tipicamente più forti, ossia quelli su cui la politica ha puntato, come il settore edile, industriale, tralasciando quello turistico, demotivano la scelta dei giovani lavoratori disoccupati a iniziare un’attività imprenditoriale autonoma, preoccupati sia degli investimenti iniziali che potrebbero divenire un fallimentare tentativo, sia dall’eccessiva presenza di attività simili già in essere sul mercato e che lamentano in continuazione la contrazione dell’attività a causa, appunto, della pressione fiscale. Esistono però casi di giovani che tendono a mascherarsi dietro la crisi occupazionale di cui si sente continuamente parlare in Tv, in radio, sul web disinteressati alla ricerca di un posto di lavoro; o che sia tralasciata la ricerca di un’occupazione non in linea con le aspettative retributive o di mansione, preferendo non lavorare piuttosto che svolgere un’attività di impiego non appagante, che non è tra le proprie aspettative, i propri desideri. Tutto questo porta a numeri sconcertanti, evidenziando da un lato l’aumento dei giovani disoccupati inteso come numero di nuove risorse pronte al mondo del lavoro, ma che non trovano opportunità, e dall’altro la diminuzione dei giovani occupati, vittime di riduzioni. L’aumento dei laureati ha creato una situazione tale che spesso, dopo gli studi, è complicato trovare un’occupazione nell’ambito del titolo conseguito. Tale dato è evidente sintesi di quanto esposto in precedenza: oltre alla crisi dell’occupazione, subentrano motivazioni soggettive quali la mancanza di volontà di trasferirsi altrove. In un momento così particolare, la progettazione di una vita scolastica dei giovani dovrebbe essere rivalutata e indirizzata nel pieno rispetto delle proprie passioni, ambizioni o aspettative. Si legge di giovani che, avendo fatto scelte apparentemente discutibili, siano giunti alla realizzazione personale e professionale. Pertanto, se da una parte la crisi economica viene additata come unica causa della disoccupazione giovanile, non ci si può limitare ad accettare che essa sia assoluta responsabile, bensì è importante valutare la situazione sotto le molteplici sfaccettature, valutando attentamente tutte le motivazioni che hanno portato all’attuale situazione e cercando di reagire, con i propri mezzi e impegno, a un momento così delicato. Raffaele Massa II B Liceo Scientifico