Lyceum
n. 44 – Dicembre 2012
Editoriale
Costruiamo il futuro,
occupandoci del presente
È necessario lavorare nella Scuola con passione e professionalità,
anche quando la fatica supera di molto la gratificazione e tutto il
contesto sembra remare contro.
U
n altro anno è cominciato, un anno apparentemente uguale agli altri, ma tanto
diverso rispetto ai precedenti. È la prima
volta, dopo ventotto anni, che il primo settembre
nel Collegio del “Tito Lucrezio Caro” non c’è ai
nastri di partenza la Prof.ssa Patrizia Trapanese.
Con questo riferimento non intendo fare alcun
torto ai tanti cari e validi colleghi che quest’anno
e negli anni precedenti sono andati in pensione,
ma attraverso Lei intendo rivolgere un grazie
proprio a tutti, per gli anni trascorsi in questa
nostra scuola, per il contributo professionale
ed umano messo al servizio dei nostri giovani.
Spesso, in questi anni, mi è capitato di incontrare ex alunni che sono
venuti a scuola semplicemente a salutarla. Una professoressa,
una donna, una figura
che ha formato diverse
generazioni di giovani,
con l’impegno, la passione ed una visione
alta di Scuola.
Tra i valori che Lei,
come tanti altri, hanno
cercato di promuovere
con costanza ed impegno c’è soprattutto
quello della legalità.
Purtroppo, anche di
Lyceum Dicembre 2012
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recente, la cronaca ci ha rivelato diffusi fenomeni
di malversazione e di corruzione. La legalità non
la si combatte con grandi manifestazioni, ma con
la pratica quotidiana, che nella vita scolastica
vuol dire rispetto delle regole da parte di tutti!
Un saluto ed un ringraziamento anche agli
altri pensionati di quest’ultimo anno: i proff.
Giuseppe Crescenzo, Domenico Cioffi, Celeste
Miranda ed i Sigg. Maria Longobardi e Aniello
Sirica.
Come è ormai abitudine consolidata, in
questa occasione, mi rivolgo a coloro che hanno
terminato il corso di studi con il massimo dei voti:
Sez. Classico: Maria Alvino (con lode), Maria
Concetta Caldieri, Annagioia Carbone, Annalisa
Rosa Carbone (con lode), Anna Casalino, Raffaella
Celentano, Autilia D’Avino, Maria Del Sorbo (con
lode), Oriana Mancusi, Elisa Miranda, Miriam
Pappacena, Immacolata Ruggiero (con lode),
Debora Tommaseo e Ersilia Zuottolo.
Sez. Brocca: Giusy Ambrosio, Severino Ambrosio, Veronica Ambrosio, Antonella Boccia,
Alessio Franzese, Anna Giugliano, Serena Rosa
Laudisio, Luisa Palmisciano e Giulia Scarpati.
Sez. Scientifico: Benedetta Francesca Allocca,
Christhian Basile (con lode), Christhian Crescenzo, Serena De Filippo, Margherita Esposito, Yuri
Gaito, Giovanni La Guardia, Federica Robustelli,
Gaetano Russo, Carmen Scollante, Lucia Sirica e
Ernesto Vellone (con lode).
Come si può notare sono tanti, più del passato anno scolastico. A loro, a nome dei docenti
e del personale tutto, dico: - GRAZIE! - Per la
soddisfazione che ci hanno dato, ma soprattutto
per quelle future e fin da ora li invito a non allontanarsi da questo Liceo, ma a starci sempre vicino!
A tutti costoro, a Kostyantyn Lasiy, che ha
superato l’Esame di Stato con l’abbreviazione per
merito e che oggi studia negli Usa, avendo vinto
una borsa di studio, ed a tutti gli altri che hanno
terminato di frequentare il nostro Liceo, auguro,
di cuore, di realizzare i loro desideri scolastici e
professionali.
Alla luce di questi risultati, si può serenamente affermare che il futuro non è a tinte fosche e
non ci fa strappare i capelli, perché siamo convinti
che il futuro ci restituirà ciò che abbiamo dato
ed il futuro siamo abituati a costruirlo occupandoci del presente e
trovando da subito, con
l’impegno e lo studio, la
soluzione alla crisi.
La crisi sta diventando una costante di
queste brevi conversazioni; ma essa, presente e reale nella nostra
società, è drammatica
nel mondo della formazione, dove colpisce in
particolare gli studenti
e le loro famiglie, perché devono sottrarre
risorse al presente, per
investirle sul futuro. Ed
è proprio per questo
motivo che noi, che
viviamo di Scuola, dobbiamo impegnarci di
più e stare accanto a chi
ha maggiori difficoltà!
Noi, uomini di
Scuola, con gli studenti
e le famiglie dobbiamo
stringere un Patto per
costruire “il futuro”, un
bene immateriale, non
tangibile ed assente
nel dizionario dei potenti di turno, con un
impegno che ci porti
a lavorare meglio e di
più, a lavorare con passione, anche quando la
fatica supera di molto la
gratificazione e tutto il
contesto sembra remare contro.
Al centro di questo
Patto ci deve essere
la qualità ed il merito.
Tutti dobbiamo lavorare per modernizzare il
Tre Opere-canone della poesia classica, della letteratura scientifica e della
cultura straniera
lavoro d’aula, rendendolo più attraente e coinvolgente per gli studenti.
L’impegno principale, che come Scuola ci
siamo dati per quest’anno scolastico, è quello
di aggiornare il POF e tutti i regolamenti in esso
presenti. Per tale ragione l’utenza tutta, insieme
alle istituzioni e alle associazioni, è invitata a
farci sentire le proprie proposte ed esigenze, in
modo da poter concordare interventi sempre più
mirati e sentiti: lavoro indispensabile alla luce
degli inarrestabili tagli di risorse a cui la scuola
continua ad essere sottoposta!
Tra i progetti storici presenti nel nostro POF,
ricordo la certificazione delle competenze in
lingua straniera, l’opportunità di conseguire
l’ECDL, il teatro, la partecipazione alle maggiori iniziative culturali patrocinate, nell’ambito
dell’eccellenza, dal Ministero dell’Istruzione,
che tante soddisfazioni continuano a darci e
come ultima, in ordine di tempo, la possibilità di
svolgere la pratica sportiva curriculare in piscina.
Per il prossimo anno stiamo pensando di impartire l’insegnamento di una lingua non europea.
Nel discutere con i diversi collaboratori sulle
iniziative più idonee per fare una buona scuola,
al passo con i tempi, inevitabilmente si ritorna
sul tema della crisi e sulle strategie per il suo
superamento. I dati Istat parlano di un grave
clima di sfiducia presente nel Paese, di un grave
malessere sociale e di uno smarrimento etico;
ciò si può superare solo con più tempo-scuola.
Per realizzare più concretamente questo progetto, è necessario che la Scuola tutta si faccia carico delle crescenti difficoltà delle famiglie a far qua-
drare i propri bilanci: la Scuola non vuole diventare
un costo insostenibile. Ciò ci vede impegnati su
due fronti: da una parte a richiedere alle Istituzioni
più attenzione e, dall’altra, a lavorare con prudenza
ed attenzione alla programmazione ed alla gestione delle attività annuali, tenendo un occhio
particolare alla sopportabilità dei costi, cui non
poche famiglie potrebbero far fronte con fatica.
Troppa gente urla e protesta, minaccia e
denuncia; oggi, invece, c’è bisogno di serenità
ed impegno quotidiano, con la consapevolezza
che è l’unica strada capace di portarci con dignità
fuori dalla recessione.
In considerazione di ciò, voglio terminare
questa riflessione con un apprezzamento nei
confronti dei nostri studenti che, in un momento
così confuso, per i noti disagi dei trasporti, le
sirene delle proteste studentesche e del disimpegno dei politici, hanno saputo, con un impegno
costante ed attento, continuare il loro lavoro
quotidiano con l’approfondimento di tematiche
sociali e culturali; in tutto ciò sostenuti dalla quasi
totalità dei docenti, consapevoli che imparare
una lingua in più, approfondire la storia antica
e contemporanea, la filosofia, la cultura classica,
dedicare più tempo agli studi scientifici sono
fattori indispensabili, per costruire un futuro più
solido, dinamico e competitivo.
Giuseppe Vastola
Dirigente Scolastico
Liceo Classico “T. L. Caro”
con sezioni annesse di
Liceo Scientifico - Scienze applicate
e Liceo Linguistico - Sarno
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Strumenti
La sezione si apre con un saggio di John C. McLucas di alta scientificità che si configura come
un dialogo diacronico fra due grandi geni della Letteratura italiana e mondiale e si snoda tra
la possibilità di congiungere passato e futuro nella mente di un narratore suddito dell’Impero
austro-ungarico e la condizione della filosofia che, quale sapere liminare, non potendo accedere
a nessuna ulteriorità, si ribalta nell’al di qua.
Acuta, poi, la riflessione sulla Civiltà di colpa, in cui centrale è il rapporto tra individuo e religione, e la Civiltà di vergogna in cui viene analizzato il rapporto tra individuo e società e che la Fisica
coglie come passaggio dal mondo macroscopico a quello microscopico.
Ma la riflessione sulla società ci immette anche nel rapporto tra l’umanità delle bestie e la
bestialità degli uomini, da cui ci si libera, anche se momentaneamente, attraverso un’originale
interpretazione del Poema dantesco intriso di linguaggio cinematografico fatto di immagini
significative, eccellente raccordo per aprire l’animo ad interrogativi intono alla morte, quella che
spegne l’esistenza nel sole del tramonto.
Strumenti/Liminarismo
Manifesto del Liminarismo
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Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello
metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno,
ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a
reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia”
(limen) e di “confine” (limes).
In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i passaggi
da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed analizzare:
• il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe
dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che,
pur se cangiante, non è relativistica;
• il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle
azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di
senso da dare alle cose;
• i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e
cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base
dell’identità di una nazione o di una comunità;
• il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro;
• la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura;
• il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti
i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione;
• il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari;
• il ruolo della contaminatio fra culture diverse;
• la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”;
• il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come
rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico;
• il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia;
• il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare
e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo;
• il superamento del limite come propensione verso la conoscenza;
• il concetto matematico di limite come valore al quale tendere;
• il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”.
La Direzione e la Redazione di Lyceum
Manifesto of Liminarism
In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time is
right to pay attention – at a methodological level – not only to the general concrete structure
of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always
subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a
network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes).
According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study
the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following:
- the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the
stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision
which, while certainly subject to change, is not merely relativist;
- the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning
in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any
meaning to give to things;
- the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion
and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past
and present) on which national or community identity is frequently based;
- the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other;
- the function of law within both democratic and dictatorial regimes;
- the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which
appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas;
- the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as
repositories of traditional knowledge;
- the role of contaminatio among differing cultures;
- the line between normality and “ab-normality”;
- the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield
richer insights into a work of art than its macroscopic aspects;
- the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness;
- the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as
“translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] – in a
word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply
original and unrepeatable form;
- the crossing of boundaries as a movement towards knowledge;
- the mathematical concept of limits as a value to be striven for;
- the process of “trial and error” in scientific research.
The Directors and Editors of Lyceum
La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof.
John C. McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora.
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Strumenti/Liminarismo
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Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla
Prof.ssa Maria Luisa Albano dell’Università di Enna
Manifest Liminaryzmu
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Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora,
alto funzionario dell'Istituto Italiano di Cultura a Varsavia.
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Strumenti/Liminarismo
IL saggio di approfondimento
Come i
leggono i
Grandi
IlIl dialogo
dialogo diacronico
diacronico tra
tra
Ludovico
Ludovico Ariosto
Ariosto ee Italo
Italo Calvino
Calvino
12
I
l rapporto tra un grande scrittore e le sue fonti
letterarie è sempre complicato: se non venato
d’invidia, di pressioni edipali, e di omissioni
isteriche, sarà almeno denso e privato. Il grande
studioso americano Harold Bloom, nel suo importantissimo The Anxiety of Influence: a Theory
of Poetry1, dimostra come il clinamen (per cui adopera la versione inglese misprision, “presa
sbagliata”) porta il poeta “minore” a fraintendere o a imitare male – volutamente,
anche al livello subconscio – il significato
o le intenzioni di un grande poeta del passato. Il più giovane scrittore subisce, soffre,
nega, e rifiuta l’influenza del “più grande.”
Basta pensare alle asserzioni sprezzanti
di Petrarca sulla Commedia di Dante – la
soverchia precisione teologica, l’impiego
del volgare per materia troppo ambiziosa etc.2 –
che riflettono il risentimento, naturalissimo, che
può provare un intelletto potente e originale di
fronte alle gloriose conquiste e l’oppressiva fama
di uno scrittore precedente. Rarissimo lo scrittore
che confessa apertamente la propria ammirazione per un grande precursore.
Italo Calvino appartiene a questa categoria eletta. Già dagli esordi della sua carriera dimostrò un
affettuoso rispetto per il magnifico
Ludovico Ariosto. Cesare Pavese,
acuto critico non meno che scrittore, accenna un “sapore ariostesco”
già nel Sentiero dei nidi di ragno di
Calvino (1947)3. In più, lo slancio
umoristico, fantasioso, e mitico-
poetico che permea i racconti
in Marcovaldo, ovvero Le stagioni
in città (1963), riflette l’influenza
del glorioso maestro ferrarese.
Più clamorosamente, senza
Ariosto sarebbe impensabile
la grande “trilogia araldica”
calviniana de I Nostri Antenati
(Il visconte dimezzato, 1952; Il
barone rampante, 1957; e sopratutto Il cavaliere inesistente,
1959, ambientato all’assedio di
Parigi all’epoca di Carlo Magno
e in cui appare Bradamante tra i
personaggi principali)4. Va bene;
che un grandissimo romanziere
del ’900 imiti fervidamente un sommo scrittore
del passato e che ne tragga ispirazione letteraria
non ha niente di strano. Ma Calvino, generoso di
spirito come di penna, non solo ammette l’importanza dello scrittore-modello; la dichiara, la
esalta, la analizza, la commenta in alcune delle
sue pagine più brillanti. In almeno due importanti
passi del suo Perché leggere i classici?5 si dilunga
sulle risonanze che ha per lui la lettura di Ariosto. E ancora in fin di vita, nelle profondamente
meditate Lezioni americane: Sei proposte per il
prossimo millennio, fa riferimento a Ariosto en
passant, nel contesto del viaggio alla luna, come
esemplare della “Leggerezza” su cui concentra la
prima conferenza.
Il modo più diretto ed esplicito in cui Calvino
affronta il suo idolo letterario si trova nel geniale
volume L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, con una scelta del poema6.
È difficile classificare questo libro: riassunto/
parafrasi/ antologia/ crestomazia/ commento…
ma il fine intellettuale e direi quasi spirituale è di
presentare il capolavoro di Ariosto a un pubblico
che senza l’aiuto di Calvino forse lo troverebbe
inabbordabile per grandezza, lunghezza, o complicatezza. La vasta cultura di Calvino informa la
“Presentazione” in cui spiega in termini concisi e
spiritosi il contesto letterario e storico-politico
in cui venne scritto il Furioso: fonti, patroni, ambiente culturale, ecc. Poi si lancia in un vivace
riassunto in prosa del grandioso poema, creando
così una cornice per la sua scelta
delle “più belle pagine” ariostee.
Calvino è forse l’autore classico del ’900 italiano più letto e più
studiato negli Stati Uniti, sia nei
corsi di lingua e letteratura italiane che in traduzioni in inglese per
corsi di letteratura comparata. Negli scorsi mesi, in collaborazione
con la mia collega Leslie Z. Morgan
della Loyola University Maryland,
ho iniziato la traduzione in inglese
di questo libro di Calvino su Ariosto. (La prof.ssa Morgan ha tradotto la “Presentazione” e le note; io
ho tradotto il testo principale. Per
i passi di Ariosto che Calvino cita verbatim, speravamo di incorporare le pagine corrispondenti di
una traduzione dell’Orlando furioso già esistente.)
Non sappiamo ancora se sarà possibile pubblicare la traduzione inglese del libro, una delle poche
grandi opere di Calvino finora non disponibili in
inglese. Comunque vada, il lavoro di traduzione,
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che comporta un contatto così intimo e concreto con il testo, mi ha consentito l’opportunità di
fare alcune osservazioni interessanti che vorrei
presentare in quanto segue. Per strada, darò alcuni brevi esempi della mia traduzione, ancora
inedita. Credo non solo che questo libro abbia
grande importanza per la comprensione della
vocazione letteraria di Calvino stesso, ma anche
che possa contribuire al giusto apprezzamento
del grandissimo Ludovico. Spero che traspiri da
queste poche osservazioni una specie di doppia
liminarità: ciò che chiamo il “dialogo diacronico”
tra due grandi geni della letteratura italiana e
mondiale; e la tensione implicita nel confine tra
due lingue che si constata in qualsiasi tentativo
di traduzione letteraria.
Prima cosa: senza la minima pretesa di
scrivere “meglio” di Ariosto, Calvino scrive con
una vivacità più accentuata e più esibizionista.
Il suo stile occupa il primo piano, pur avendo
tutta la graziosa disinvoltura di quello del suo
grande modello Ariosto. Su questo punto sarà
importante che io mi spieghi: Ariosto scrive con
un’accuratezza e una limpidità assolute, e meglio
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Strumenti/Liminarismo
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di così non è possibile scrivere. Oso pronunciare una parola assurda: la scrittura di Ariosto è
perfetta. È leggibile al massimo, per merito di
un’impareggiabile professionalità da scrittore.
Per esempio, chi legge il Furioso ad alta voce non
esita mai a capire dove cadono le cesure e come
scandire le undici sillabe di ogni verso. Il poeta
evita la confusione eliminando la minima ombra
di una dieresi e insistendo sempre sull’elisione di
ogni possibile vocale (cose che non si direbbero
neanche del Padre Dante). Questa perfezione
tecnica per me rispecchia l’enorme sforzo che
fece il poeta nel riscrivere il suo magnum opus
in un toscano inappuntabile dopo le due prime
edizioni, fortemente emiliani di linguagggio e di
tono – sforzo che rappresenta l’umiltà e la voglia
di essere capito, di cui solo un genio creatore è
capace. Ariosto ogni tanto trova il momento di
vergare versi di una bellezza soave e nobile, o di
una comicità quasi frivola. Per dolcezza riverente,
basta pensare al pio “vattene in pace, alma beata
e bella” (la morte di Isabella – XXIX, 27, 1), per sfacciato umorismo al “…o d’altro stran linguaggio”
(cioè, del tedesco! – XXXVIII, 58, 5) o alla lunga lista
di virtù introvabili nel chiostro (Silenzio, Pietà,
Quïete, Umiltade, Amor, e Pace – XIV, 80-81)7.
Ma la cosa forse più
sorprendente per me
è la relativa piattezza
del verso ariosteo. Ciò
che lascia l’impronta
sono le situazioni, gli
episodi, l’energia irresistibile della narrazione,
la vasta diversità dei
personaggi, il groviglio
ingegnoso degli eventi.
La bellezza – chiamiamola così – della poesia
di Ariosto consiste nella
sua estrema chiarezza,
regolarità, fluidità, naturalezza, e quel che
chiamerei il suo carattere inevitabile, come se
ogni parola fosse l’unica
possibile e, proprio per
quello, poco sorprendente. Il fatto sta che pochi
singoli versi del Furioso rimangono impressi sulla
memoria per bellezza o per particolare brillantezza: tutti ricordano “Oh gran bontà de’ cavallieri
antiqui!” (I, 22, 1) o “ecco il giudicio uman come
spesso erra” (I, 7, 2), ma quasi quasi finisce lì8. Se
si paragona questa scarsezza alle decine di versi
danteschi che ogni italiano di media cultura è in
grado di invocare al minimo pretesto – e dato che
con Ariosto si ha a che fare con un Grandissimo
– c’è da domandarsene il perché.
La mia prima ipotesi: che Ariosto è intento
sopra tutto a concentrare l’attenzione del lettore
sulla straordinaria ricchezza, suggestiva e a volte
sovversiva, del suo contenuto, e che così non si
permette di distrarla con versi cospicuamente
belli. Per assaporare pienamente una riga squisita, noi lettori ci fermiamo un attimo, ammaliati
dalla superficie poetica dell’opera. Ariosto invece
si affatica a eliminare ogni consapevolezza che
possiamo avere di questa superficie, rendendola completamente trasparente e quasi innocua,
perché ci concentriamo su quello che sta sotto:
gli equilibri sorprendenti tra cristiani e saraceni
o tra uomo e donna, lo sguardo spietato ma mai
amareggiato sulle debolezze dell’umanità, la
rassegnazione – non
totale – alle tragedie
della guerra, e innanzi tutto il rigetto
delle frasi fatte e dei
valori non indagati o
non ripensati. Insegnandoci a riflettere
e ad interrogare, non
ci consente la pausa
estetico-mentale richiesta da un verso
troppo vistoso, troppo “bello.” Calvino invece ci abbaglia con
lo splendore del suo
stile. Sfoggia, preciso e divertito, un
lessico scintillante,
una variatio e un’accumulatio invidiabili.
Un esempio tra tanti (p. 109, nell’introduzione a “Mandricardo rapisce
Doralice” – e qui come nelle altre
citazioni metterò in neretto le parole per me più indicative): “Valore e
grandezza d’animo sono nell’Orlando furioso equamente distribuiti tra
Cristiani e Maomettani; e lo stesso
si dica per le debolezze umane. Ma
come abbondanza d’ammazzasette, di soldatacci giganteschi, brutali, e millantatori, non c’è dubbio
che la bilancia pende tutta dalla
parte del campo saraceno.” [La mia
versione propone: Valor and greatness of spirit
are equally distributed between Christians and
Muslims in the Orlando furioso, as are, be it said,
human weaknesses. Nevertheless, when it comes
to braggarts, brutes, swaggerers, and boastful
berserkers, there is no doubt that the balance tips
decidedly towards the Saracen camp.]
Calvino in generale risponde ad Ariosto come
scrittore-collega, ammirandone l’arte e la tecnica
scrittrice. I due scrittori hanno in comune un caratteristico godimento delle svariate potenzialità
giocose e flessibili delle parole; tutti e due nella
loro allegra jouissance verbale sono ciò che in
inglese chiamiamo wordsmiths, “fabbri di parole.”
Dell’audacia filosofica del grande ferrarese Calvino dice abbastanza poco, e forse solo in questa
inaspettata reticenza si può ipotizzare una misprision bloomiana. Ho già indicato alcune tematiche ariostee che Calvino sceglie di evitare; per
la maggior parte sono precisamente quelle che,
per un lettore del Duemila, hanno le risonanze
più moderne e coraggiose. Calvino invece dedica
gran parte dei suoi commenti all’abilità tecnica e
alla vivacità divertente del suo auctor. Per suscitare la reazione giusta nel lettore moderno, per
aiutarlo a comprendere la grandezza del Furioso, commenta (e poi imita) aspetti molto precisi
della pratica ariostea, tutti i segni della grande
maestria di uno scrittore che sa il mestiere. Per
esempio – e questo secondo me è da prendersi
come omaggio esplicito a Ariosto – alterna tra
arcaismi eleganti e cali spontanei nel plateale e
nel quotidiano. Sentiamo per esempio la voce
più aulica di Ariosto, quella che
già parla nel proemio del Furioso:
“Piacciavi, generosa Erculea prole,/
ornamento e splendor del secol nostro,/ Ippolito, aggradir questo che
vuole/ e darvi sol può l’umil servo
vostro…” (I, 3, 1-4); il contrasto con i
tanti versi francamente comici è evidente. E adesso un solo passo per
illustrare la “prosa d’arte” calviniana
che richiama un po’ questa dignità
stilistica di Ariosto. Nell’introduzione al suo capitolo “Rodomonte alla
battaglia di Parigi” (p. 119), Calvino
scrive, “Sparsi per il mondo dietro ad amori ed
avventure i suoi più valorosi paladini, Carlo Magno attende impaziente il ritorno di Rinaldo, con
i rinforzi dall’Inghilterra.” [In inglese, ho suggerito,
With his most valiant paladins scattered across
the map chasing love and adventure, Charlemagne impatiently awaits the return of Rinaldo with
reinforcements from England.] Da notare subito
la grande eleganza della costruzione assoluta
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con cui inizia la frase (e che risulterebbe quasi incomprensibile – quasi sgrammaticata – in inglese
senza l’aggiunta di un prosaico with); similmente
l’impiego avverbiale dell’aggettivo “impaziente”
presta un tono colto alla frase di Calvino dove in
inglese sarebbe maldestro, o – peggio – pretenzioso; così il mio impatientLY.
Ma, come già detto, Calvino si permette anche forti sterzate verso il parlato. Questi effetti lo
rendono particolarmente traducibile in inglese
americano per la spontaneità quasi democratica della sua voce autoriale. Prendiamo come
esempio un passo sublime di Ariosto, e vediamo
come Calvino l’ha riallestito e come cerco di esprimerlo in inglese. Qui dialogano il gigantesco re
saraceno Mandricardo e Marfisa, una splendente
guerriera che per una bella volta si è fatta vedere
vestita da donna. Così adorna, Marfisa pare al
poco sensibile Mandricardo la sostituta giusta da
consegnare a Rodomonte in cambio per Doralice,
e pretende che la fiera bella si debba arrendere
perché lui è riuscito a disarcionare quattro cavalieri che l’accompagnano e che lui prende per i
di lei protettori (XXVI, 78, 5 – 79, 8):
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Strumenti/Liminarismo
…“Damigella, sète nostra,
s’altri non è per voi ch’in sella monte.
Nol potete negar, né farne iscusa;
che di ragion di guerra così s’usa.”
Marfisa, alzando con un viso altiero
la faccia, disse: “Il tuo parer molto erra.
Io ti concedo che diresti il vero,
ch’io sarei tua per la ragion di guerra,
quando mio signor fosse o cavalliero
alcun di questi ch’hai gittato in terra.
Io sua non son, né d’altri son che mia:
dunque me tolga a me chi mi desia.”
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Stupisce l’eleganza spiritosa con cui Ariosto
presenta questo scambio di prepotenza e di
orgogliosa auto-difesa proto-femminista. E ora
sentiamo Calvino ad loc. (p. 202, ne “La discordia
nel campo d’Agramante”): “‘Adesso sei in mia
mano,’ fa [Mandricardo] alla donna. ‘In tua mano
un corno,’ risponde lei.” [In inglese: “‘Now you
are in my power,’ he says to the woman. ‘Like hell
I am,’ she replies.”]9 La risposta brusca, maschia,
e quasi volgare di Marfisa alle cortesi minacce
di Mandricardo rispecchia un’incomprensione
forse culturalmente determinata di Calvino di
fronte all’immagine estetica che ci offre Ariosto
delle guerriere in generale (nella loro sfolgorante
bellezza, Bradamante e Marfisa seguono le orme
delle Pentesilee e Ippolite e Camille classiche).
Per Calvino, queste donne – inclusa Bradamante,
la protagonista romantica dell’epopea – saranno sempre personaggi incrongui,
alquanto goffi, e altamente comici.
Ma per quanto ci possa dispiacere il
suo rifiuto dei suggerimenti filogini
del poeta cinquecentesco, niente
di più abilmente sorprendente, di
più divertente, di più americano per
l’assoluta mancanza di pretese, di
quel divino “‘In tua mano un corno!’”
Calvino apprezza molto, come
saprebbe apprezzarla solo un grande
scrittore, la concretezza della metafora ariostea, e ne cita una bella serie
– per esempio, in “Orlando, Olimpia,
l’archibugio”(p. 79): “Insomma, tanto
per dare un’idea: Cimosco cerca di prendere Orlando alle spalle, come nel delta del Po i pescatori
circondano le anguille con le reti, e vuole prenderlo vivo, come gli uccellatori che catturano gli
uccelli da richiamo; Orlando si mette a infilzare
nemici sulla lancia come tortellini sul forchettone
del cuoco o come i pescatori ferraresi infilzano
sullo spiedo quante rane ci stanno; Cimosco s’è
andato ad appostare con l’archibugio puntato
come un cacciatore dell’Appennino che attende
un cinghiale; l’archibugiata uccide il cavallo ma
fa saltar su Orlando, che pare quella volta che a
Brescia è scoppiata una polveriera.” [In inglese: A
few examples, just to give a sense: Cimosco tries to
sneak up on Orlando from behind, just as fishermen
in the Po delta toss their nets around eels, and hopes
to take him alive, as hunters capture birds for use
as decoys; Orlando sets about skewering enemy
soldiers on his lance like tortellini on a cook’s fork
or as Ferrarese fishermen crowd as many frogs onto
the spit as will fit; Cimosco takes his position to aim
the harquebus just like a hunter in the Apennines
lying in wait for a wild boar. The harquebus shoots
the horse out from under Orlando, but he leaps
upward, like the time when a gunpowder magazine
in Brescia exploded.] Il libro contiene un numero
notevole di explications de texte di questo genere
nelle quali Calvino concentra l’attenzione dei suoi
lettori sulle metafore vivide e originali di Ariosto.
In un bellissimo passo eccentrico ed energico, Calvino si presenta ancora come collega
diacronico dell’Ariosto, condividendone il gusto nell’adattare alla fonetica
italiana i nomi “esotici” di numerosi personaggi britannici.
Queste righe consentono al
lettore anglofono una prospettiva da fuori sulla propria
lingua, e ricordano l’audacia
fantascientifica che Calvino
stesso dimostra nell’inventare
nomi per i personaggi delle
Cosmicomiche (1965), tra cui
possiamo nominare il vecchio
protagonista “Qfwfq.”Troviamo
in Olimpia abbandonata (p. 95):
“Come far entrare in un poema
italiano i nomi di Lancaster, di Warwick, di Gloucester? Li trasformeremo in Lincastro, Varvecia,
Glocestra. E Clarence? e Norfolk? e Kent? Basterà dire Chiarenza, Nortfozia, Cancia. È un gioco
che può continuare quanto si vuole: Pembroke
diventa Pembrozia, Suffolk Sufolcia, Essex Essenia. E Northurberland [sic]? La faccenda comincia
a complicarsi. Berkley? Richmond? Dorchester?
Hampton? L’impresa fonetica di Ariosto diventa
una nuova imprevista avventura del poema.” [In
inglese: How was he to fit into Italian verse such
names as Lancaster, Warwick, and Gloucester?
“We will make them into ‘Lincastro,’ ‘Varvecia,’
‘Glocestra,’” he decides. Clarence? Norfolk? Kent?
“Let’s say ‘Chiarenza,’ ‘Nortfozia,’ and ‘Cancia.’” This
game can go on as long as one chooses: Pembroke
becomes “Pembrozia,” Suffolk “Sufolcia,” and Essex
“Essenia.” How about Northumberland10? Things
are getting complicated. Berkley? Richmond?
Dorchester? Hampton? This bold phonetic project
of Ariosto’s becomes yet another, unexpected adventure within the poem.] E qui mi si permetta
di sottolineare la mia aggiunta delle parole, he
decides, “egli (Ariosto) decide,” che ho ritenuto
opportune perché il lettore anglofono della
mia traduzaione cogliesse il senso letterale che
intendeva Calvino; ma come non pensare che il
generoso “noi” implicito in “trasformeremo” valga
a dire, “Ariosto ed io (Calvino)”?
In pochissimi passi, a parte la libertà che mi
sono concesso nell’aggiungere parole come ho
appena segnalato, penso di dover ricorrere a
note per spiegare effetti o vocaboli intraducibili.
Per esempio, in uno sfavillante commento sul
palazzo di illusioni di Atlante, Calvino scrive, “La
giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è
tutto il mondo” (p. 176, conclusione del capitolo,
“Il palazzo incantato”). [In inglese: The merry-goround of illusions is the enchanted palace, yes… but
it is also the poem, and it is the whole world.] Questa “giostra” in italiano rappresenta il meglio del
lessico calviniano. Riallaccia il senso di “carosello”
con quello di “torneo,” dimostrandoci lo sguardo
ironico che getta Ariosto sulle assurdità immature
nei comportamenti dei suoi personaggi guerrieri. Non esiste nessuna parola inglese che possa
coprire questa suggestiva ambiguità, e così ho
dovuto accontentarmi del merry-go-round (“carosello”) inglese, con apposita nota di traduttore
per informare il lettore anglofono del senso che
ritengo in contesto quello secondario, “torneo.”
Calvino articola un’astuta sensibilità critica
per la gamma di generi letterari (per esempio,
epopea e allegoria) che Ariosto sa mischiare,
come qui dove inventa un dialogo psicologico
interno per il suo giovane protagonista Ruggiero
(pp. 69-70, ne L’isola di Alcina): “Ed ecco che [Ruggiero] vede elevarsi le mura della splendida città
d’Alcina. Questa dev’essere un’allegoria del
piacere, pensa Ruggiero, e lo spirito bellicoso
cede il campo a una più benigna inclinazione.” [In
inglese: Then he suddenly sees the walls of Alcina’s
splendid city rising before him. ‘This must be an
allegory of Pleasure,’ thinks Ruggiero, and his
warlike spirit surrenders the field to a kindlier impulse.] Ancora, poco dopo, mentre Ruggiero attende l’arrivo della maga Alcina all’appuntamento
erotico (p. 70): “Ruggiero ha dimenticato che
si trova in mezzo a figure allegoriche: le ore
notturne passate a tendere l’orecchio, a contare
17
con l’immaginazione i passi della maliarda, ad
aspettare lo schiudersi della porta, bastano a
convincerlo che il poema che egli vive è fatto
non di fredda pedagogia ma di trepidante
appetito vitale.” [In inglese: Ruggiero has forgotten that he is among the figures in an allegory. As he spends the hours of night listening for
her, counting in his imagination the enchantress’
steps, waiting for her to open his door, he is able to
convince himself that the epic he is living is made
up, not of chilly moral lessons, but of anxious,
exciting vital appetite.] Questa mossa da parte
di Calvino è ardita: ripropone un personaggio del
poema nelle vesti di critico auto-analittico, e illumina – rende esplicita – una procedura letteraria
che Ariosto, notorio mescolatore di registri e di
genres, avrebbe forse preferito celare.
Una differenza molto evidente tra Calvino e
Ariosto si nota nella voce dell’autore/ narratore.
Nel Furioso, l’“io” che racconta la storia è uno dei
personaggi più originali e perversi del libro. Un
po’ idolatra le donne, un po’ le odia; prima pretende di aver perso il filo della narrazione, poi
riesce a ordire un vasto tessuto di una sofistica-
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
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tezza fenomenale; spesso le circostanze della sua
vita sono identiche a quelle di un certo Ludovico
Ariosto di Ferrara (si veda per esempio il proemio
al Canto XLVI, dove appaiono molti degli amici e
colleghi del poeta), ma a volte è solo un anonimo
gran matto come Orlando. Chi legge il poema
per la prima volta si trova spesso frustrato e
confuso da questo “io” narratore volubile, sardonico, brillante, psicolabile, e poco attendibile, In
questo identificherei la più coraggiosa
dichiarazione da parte di Ariosto della
libertà e dell’autonomia dello scrittore, della letteratura stessa. E qui invece
Calvino non si dimostra disposto a
seguire il modello. La voce narratrice
del suo libro è di una professionalità e
di un distacco impersonali e assoluti.
Manca quasi del tutto il lemma “io,”
come manca addirittura il minimo
riferimento a circostanze, rapporti,
ambienti, o eventi dell’esistenza di Italo Calvino.
Pur mettendo in primo piano la propria virtuosità
stilistica, come personaggio dentro il suo libro
Calvino rimane invisibile e quasi freddo.
In ogni antologia letteraria, le cose che si
escludono hanno un interesse quasi uguale a
quello dei passi scelti. Gran parte della mia ricerca
critica attraverso trenta anni si è concentrata su
un aspetto molto accentuato dell’epopea ariostea: il discorso ambiguo ma profondamente
originale sui rapporti tra uomo e donna – non
solo nelle loro dimensioni erotiche e romantiche, ma anche in quelle politiche, etico-morali,
e filosofiche. Certi passi, e in modo particolare
quelli scritti nuovi per l’ultima edizione del poema (Olimpia; le Donne Omicide; la prodezza
guerriera e rettorica di Bradamante alla Rocca
di Tristano; la truce vicenda misogina di Marganorre; e l’amicizia complicata tra Ruggiero e
Leone)11, hanno grande importanza per questo
discorso; aggiungerei anche la maliziosa avventura erotica di Bradamante, Fiordispina, e Ricciardetto. Nella sua geniale parafrasi del Furioso,
Calvino sceglie ventidue episodi da commentare,
dedicando un breve capitolo a ciascuno. Ora se si
guardano i passi che Calvino non cita e non spiega
nel suo magistrale commento, mi è impossibile
non notare l’assenza quasi totale degli episodi
appena elencati. Ecco una lista dei principali
episodi ariostei che Calvino non include nella
sua “scelta del poema” – da notare subito, l’alta
corrispondenza tra le due liste: l’eremo e Angelica
(II), Bradamante spinta nella grotto da Pinabello
(II), Melissa con Bradamante nella tomba di Merlino (III), Rinaldo in Scozia, con tutta la polemica
sui diritti sessuali della donna e la vicenda di
Ginevra, Ariodante, e compagnia (IVVI), Grifone e Orrigille (XV, XVII-XVIII),
Norandino, Lucina, e l’Orco (XVIII), le
Donne Omicide (XX), quasi tutta la
storia di Gabrina (XXI), Bradamante,
Ricciardetto, e Fiordispina (XXV), la
Rocca di Tristano (XXXII), Marganorre (XXXVII), l’incontro di Rinaldo con la
Gelosia e con il marito tradito (XLII), e
l’episodio imbarazzante di Anselmo,
Argia, e l’Etiope (XLIII). Il lettore di Calvino può anche interrogare la sua scelta di citare e
di commentare a lungo i due duelli tra cognate o
cognati: Marfisa e Bradamante (XXXVI) e Ruggiero e Rinaldo (XXXVIII-XXXIX) – passi interessanti
senz’altro, ma per me difficilmente identificabili
come due delle ventidue vicende più cruciali del
poema. La formazione intellettuale e immaginativa di Calvino nella generazione precedente al
movimento femminista non basta per spiegare quest’anomala indifferenza al discorso dei
rapporti tra i sessi. La vastità di prospettive che
Calvino quasi sempre dimostra, la spregiudicata
larghezza di visione mentale, lo porterebbero
normalmente ad apprezzare l’indipendenza di
Ariosto di fronte a discorsi antiquati sul ruolo
dell’uomo e della donna. A parte tutte le allusive
implicazioni teoriche dei passi in gioco, Ariosto
ci dipinge anche un universo in cui l’emblema
supremo della mascolinità, lo stolido Orlando
stupendo per forza lealtà e valore, soffre un
crollo psicologico catastrofico davanti alle emozioni liriche. Ma anzi che attribuire la reticenza
di Calvino, sensibilissimo com’è alla creatività di
Ariosto, a un presunto riflesso maschilista, suggerirei invece la sua attrazione istintiva al mondo
della fiaba – dell’eterno femminile che traspare
nelle fate ai capelli d’oro, nelle damigelle rapite, e
nelle norme convenzionali dell’amore romantico
in chiave pre-femminista.
Questo colloquio letterario tra Calvino e
Ariosto ci fornisce un esempio esilarante di cordialità, calore e rispetto al più alto strato di produzione artistica. Calvino si rivela un lettore attento e perspicace, con un interesse particolare
per la dinamica della rappresentazione letteraria
dell’incantesimo, e un forte gusto per il naturalismo che lampeggia sporadicamente sulle pagine terse e raffinate di Ariosto. Come provetto
statega stilistico, si diletta come nessun altro
della tecnica – direi quasi, della meccanica –
del componimento letterario, perfezionata dal
grande Ferrarese. Come scrittore, come lettore,
Calvino dimostra una simpatia sensibile e affettuosa verso Ariosto e, traendo materia e ispirazione dal suo grande modello, riesce a creare
un tessuto intellettuale e artistico che tramanda
al nostro Duemila le meraviglie dell’immortale
Ludovico.
John C. McLucas
Capo del Dipartimento di
Lingue Straniere
Università “Towson” di Baltimora
U.S.A.
Il presente saggio fa parte di una ricerca ancora in corso. L’autore ha accettato di anticiparne i
risultati in maniera esclusiva ai lettori di Lyceum.
19
New York: Oxford University Press, 1973.
Questo aspro giudizio viene più freddamente espresso in una lettera di Petrarca a Boccaccio: vedi The Dante
Encyclopedia, a cura di Richard Lansing, New York e London: Garland, 2000; voce “Boccaccio” (p. 112), Todd Boli;
voce “Petrarca” (pp. 685-7), Sara Sturm-Maddox.
3
La citazione di Pavese appare in Lene Waage Petersen, “Calvino lettore dell’Ariosto,” Revue Romane, Bind 26
(1991) 2).
4
Calvino descrive la genesi di questa trilogia nella quarta conferenza, “Visibilità,” delle Lezioni americane: Sei
proposte per il prossimo millennio (Mondadori, 1993), illustrando l’importanza essenziale dell’immaginazione visiva
per tutta la sua pratica creativa.
5
Mondadori, 1995; prima edizione Einaudi, 1991; si tratta di una collana postuma di vari scritti degli anni ’50
a ’80, di cui due sono dedicati completamente all’Orlando furioso: “La struttura dell‘Orlando” e “Piccola antologia
di ottave.”
6
L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, con una scelta del poema (Mondadori, 1995;
prima edizione Einaudi, 1970), p. 109, dall’introduzione al capitolo “Mandricardo rapisce Doralice.” Le citazioni che
seguono saranno indicate nel testo, tra parentesi con il numero della pagina.
7
Ogni citazione di Ariosto è da: Ariosto, Ludovico. Orlando Furioso, a cura di Cesare Segre. Mondadori, 1976.
8
Calvino stesso fa riferimento a questi due versi nella sua “Presentazione,” nel passo dedicato all’ottava (p. 31),
con l’osservazione, “Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti suoi versi sono diventati proverbiali.”
9
Si noti che, perché nessuna formula del gergo inglese corrisponde alla pseudo-fallicità del “corno,” ho sostituito la bestemmia hell, “inferno,” molto diffuso in un senso simile.
10
Il “Northurberland” che appare nel testo italiano deve essere un semplice errore tipografico, da parte o di
Calvino stesso o dei primi redattori.
11
Vedi l’“Introduzione” di Segre all’edizione del Furioso già citata (sopra, nota 7), p. xxviii.
1
2
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
letteratura italiana
Ippolito Nievo/Oltre i confini, altri orizzonti
Spazio e ideologia
nelle Confessioni d’un Italiano
20
P
er Nievo la finalità del nar­rare consiste
nel «vivifi­car dal passato le passioni e le
idee che possono giovare al presente,
poi­ché non è ignoto che la nazione di oggi è
sopraposta alla nazione di ieri e che gli ef­fetti
futuri sono sviluppi incrementi trasforma­zioni
dei germi lontani».1 La forza della parola, canale
di testi­monianza concreta, viene sottolineata con
un’esplicita, ancorché non letterale, cita­zione di
uno snodo fondamentale delle Ultime lettere di
Jacopo Ortis: «“Scrivete, o Italiani,” diceva Foscolo.
[…]. Dunque crepiamo ma scri­viamo; giacché
non si può fare di meglio. La let­teratura che non
isfama un letterato, può nutrire una generazione
e ingi­gantirne un’altra».2
In questa prospettiva nelle Confessioni d’un
Italiano, portate e termine nell’estate 1858
quando, benché molto si fosse realizzato, il
compimento del Ri­sorgimento continuava ad
apparire lontano, l’interazione del rac­conto con
lo spazio e il conse­guente amal­gama con la
storia servono da prin­ci­pio aggregante, per­ché
«l’assenza di un chiaro centro nazio­nale provoca
una sorta di irre­so­luto va­gabondare (che è però
anche un modo di «unifi­care» una na­zione che
an­cora non esi­ste)».3
Nel microcosmo di Fratta,4 descritto in apertura di romanzo, gli anni scor­rono «l’uno uguale
all’altro» (vi, p. 371), appena increspati dal brusio
lon­tano dei grandi avvenimenti storici.5 Sull’immobilismo di un ordine poli­tico mummificato
e fatiscente, aggravato dall’impervio territorio
friu­lano, sol­cato «ad ogni passo da tor­renti e
da fiumane sulle quali scarseg­giavano non­ché
i ponti, le bar­che», e reso «dieci volte più vasto
che ora non sia da strade distorte, pro­fonde, in­
famissime, atte più a precipitare che ad ajutare
i pas­seggieri» (i, p. 53), rumoreggia mi­nacciosa
l’ondata rivolu­zionaria prove­niente dalla Fran­cia,
che imprime una brusca accelerazione al tra­
monto del «mondo vec­chio» (v, p. 304).6
La sua fine, giusto al centro del libro (capp.
xii-xiv), è simbo­lica­mente segnata dall’accorata
ago­nia di Venezia, avvio del processo di matu­
razione civile (xix, p. 1236). La man­cata aper­tura
della Serenissima alle province italiane reputate
«non […] membra integranti del suo corpo, ma
colonie destinate a nutrire il patriziato regnante»,
ra­gione pro­fonda dell’angusto arrocca­mento e
dello sfacelo (xxi, pp. 1342-1343), si tra­sforma
con cri­tica ama­rezza in un duro giudi­zio sto­rico:
«Vene­zia non era più che una città e vo­leva essere
un po­polo» (xi, p. 755) e, in quanto «non aveva vo­
luto o potuto di­ventar na­zione, le con­venne per
forza scadere alla con­di­zione di semplice città»
(xxi, p. 1344). Anzi, il
suo sa­crificio è un’occasione di cre­scita per
avvi­cinare il traguardo
più nobile dell’Unità
nazio­nale,7 all’interno
della quale si può aprire
per la città lagunare la
prospettiva vivificante
di una rigenerazione,
la metamorfosi della Repubblica di Venezia nella
Vene­zia italiana: «Vedere quandocche­sia la mia
Vene­zia armata di forza propria, e assennata dalla nuova espe­rienza ripren­dere il suo posto fra le
genti itali­che al gran con­sesso dei po­poli, era il mio
voto la fede di tutti i giorni» (xviii, pp. 1148-1149).
Pertanto, a differenza del padre To­dero, che,
ancorato al glorioso pas­sato, si aspetta la risurre­
zione del Leone da Oriente (xiii, pp. 837 e 852857), il ripensamento del profilo po­litico marciano
spinge Carlo Altoviti, pur nel ri­spetto dell’ideale
consegna paterna («pensa sempre a Vene­zia»: xiii,
pp. 835-836, 857; «Ri­cordati di Venezia»: xvii, p.
1067), verso le più pro­met­tenti aspi­razioni nazio­
nali, perché sol­tanto nella nuova pa­tria il suo
patri­monio spirituale è traghettabile nel futuro.8
La faticosa interpretazione del passato si
impone con un’espiazione lontano dalla terra
d’origine in una «corsa per il mondo», «in varii
paesi, in varie stanze, in diverse di­more», tappe
di un «cammino della vita», che tra­scende la ri­
cerca personale di una nuova identità, «perché
altro non è la vita del po­polo se non la somma
delle vite individuali» (xix, p. 1227). Il protagoni­
sta attra­versa quasi tutta l’Italia settentrionale e
gran parte di quella centro-meri­dionale, si sposta
in esilio in una Londra priva di esterni, rientra
a Fratta inabissandosi nella profonda e «lunga
sonnolenza d’Italia» (xxi, p. 1348 e xxii, p. 1414)
e sconfina nell’ultimo ca­pitolo con l’intermediazione del figlio Giulio nelle Americhe.9
Testi­moni della grandezza trascorsa e dei
sacrifici pre­senti, le città ita­liane, per quanto raccontate in modalità astratte o let­tera­rie, spia­nano
di slancio i confini regionali in forza dei costumi e
del de­stino co­mune, della consan­guineità. Carlo
coglie il sostrato unitario del popolo disperso
per lo Stivale durante la festa da ballo
or­ganizzata al ca­stello d’Andria, quando, sotto l’incalzare del ritmo sfrenato,
li­vella le bar­riere locali nell’ansia di un
abbraccio sovra­regio­nale e disegna la
fisionomia tipica dell’italiano (xvii, pp.
1057-1058).
Proprio il disastro di Campoformio
elargisce ai personaggi l’opportunità
di pensare in grande, a una patria dai
contorni più estesi. Nella sera dello scioglimento
della Municipalità veneziana, accommiatan­dosi
dai compagni d’avventura prima di prendere la
strada dell’esilio, il dottor Lu­ci­lio Vianello intravede nuovi orizzonti, che «si al­largano sem­pre
più; dall’Alpi alla Sicilia, è tutta una casa» (xii, p.
820). Altoviti fin dal rico­vero nella Re­pub­blica
Cisal­pina, scelta che «ren­deva onorevole e attivo
l’esiglio menandolo in pa­ese fra­terno e già quasi
ita­liano» (xii, p. 816), per­cepisce un’avvisaglia di
benevola solida­rietà e respira la sen­sa­zione di
«es­ser sulla buona via per tro­vare una pa­tria»
(xvi, p. 998), perché «quella su­bita concordia di
21
molte provincie di­velte da varia sogge­zione stra­
niera per com­porre una sola indipendenza una
sola libertà, era in­cen­tivo alle imma­gina­zioni di
maggiori speranze» (xv, p. 935). E a Mi­lano, con
un anacroni­smo pre­gnante, durante i festeggiamenti per la nuova realtà politica si as­sapora il
risveglio di una collettività, «il primo risor­gimento
della vita e del pensier nazionale».
Quest’attesa naturalmente include Roma,
monu­mentale insegna dell’identità patria, perché per lei «stanno le tradi­zioni le memorie le
glorie la maestà che la fanno capo non­ché d’Italia, del mondo» (xx, p. 1259): «Roma è il nodo
gor­diano dei no­stri destini, Roma è il simbolo
grandioso e multi­forme della no­stra schiatta,
Roma è la no­stra arca di sal­vazione, che colla
sua luce sneb­bia d’improvviso tutte le storte e
confuse immagina­zioni de­gli ita­liani» (xvi, pp.
1006-1007).
Di riflesso, i transiti geografici fissano le svolte
di un viaggio mentale, oltre che fisico, marcando i
convinci­menti del protagonista: l’addio alla so­cietà
rurale di Fratta si colora della presa di co­scienza di
una svolta epo­cale, a cui occorre rispondere con
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
22
la­voro, attività, «verità e battaglia» (xii, pp. 756757); il valico dell’Appennino, sull’onda emozionale
dell’incantevole scenario, riscopre nelle vibrazioni sentimentali un più con­sape­vole sen­timento
della patria («Quanto sei bella quanto sei grande,
o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli
oc­chi, materia inanimata, sulle spiagge por­tuose
dei mari, nel verde inter­mina­bile delle
pianure, nell’ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le cre­ste azzu­rine degli
Ap­pen­nini e le candi­dissime dell’Alpi
sei dappertutto un sorriso, una fatalità,
un incanto!...»: xvi, p. 1001). A Lon­dra,
ripensando, nelle ombre della ce­cità,
alla propria militanza, Car­lo foca­lizza
con bruciante lu­cidità l’urgenza di un
progetto strategico-politico alternativo
alle in­surre­zioni, di­sconti­nuità pragmatica che postula l’emarginazione delle
frange estremistiche: «Pur troppo bi­so­
gnerà cam­biar strada; e il rinnovamento nazionale
appog­giarlo necessa­ria­mente ad un concorso tale
di interessi che lo dimostrino un ot­timo ca­pi­tale
con grassi e si­curi divi­dendi. Questo pure non è
impos­sibile; ma qual diffe­renza coi su­blimi e generosi slanci d’una volta!...» (xx, p. 1278).
L’invito alle giovani leve a «sbaldanzirsi dalle
pericolose lusinghe» e a perse­guire «non mutabili
credenze» e un’«opera lentamente ma dure­vol­
mente avviata» ridimensiona il sugge­stivo, eppure
velleita­rio e intempe­stivo, en­tusiasmo delle élites
intel­lettuali a favore di un cauto riformismo: «Giu­
stizia, ve­rità, virtù! Tre ottime cose; tre pa­role tre
idee da in­namorare un’anima fino alla pazzia e alla
morte; ma chi le avrebbe recate di cielo in terra, per
usar l’espressione di So­crate?» (ix, pp. 573-574).
Tramontata l’età della «grande in­telligenza»
di un uomo solo, che «può precedere il progresso
na­zionale non rimur­chiarlo» (xviii, pp. 1146-1147
e xxi, pp. 1347-1348), la ricerca di un complicato
equi­librio richiede la for­mazione delle generazioni future, perché «con una carta stam­pata, e una
fe­sta nel Campo della Federa­zione si può bensì
av­viare ma non compiere il rinnovamento dei
costumi» (xv, p. 954): «la vita dei popoli non si
misura da quella degli individui: se noi figliuoli
s’avea scon­tato la viltà dei padri, i fi­gliuoli no­stri
forse avrebbero raccolto la messe fe­con­data dal
no­stro san­gue e dalle la­grime. Padri e figliuoli
sono un’anima sola, sono la na­zione che non
peri­sce mai» (xix, p. 1236).
Per­tanto, l’iniziativa efficace che Car­lo sug­
gerisce è la «gran via mae­stra del mi­glio­ramento
morale, della con­cor­dia, e dell’educazione alla
quale si doveva piegare ogniqualvolta le scor­cia­toie ci avessero fuor­viato»
(xviii, p. 1127), una traiettoria lastri­
cata del coraggio della pazienza e di
una lenta cre­scita generale della so­
cietà, ba­sata su un bilan­ciamento di
energie e di obiettivi: «Ve­deva al­lora
le cose tanto chiare che prece­detti si
può dire una ge­nera­zione; e lo dico
senza su­per­bia, le idee di Aze­glio e di
Balbo cova­vano in germe ne’ miei di­
scorsi d’allora» (xix, pp. 1192-1193).
Un passag­gio dell’opuscolo Venezia
e la li­bertà d’Italia, liberato­ria esposizione del
pro­getto ci­vile e politico alla base del romanzo,
documenta la dinamica del cam­biamento: «Un
lucci­care di speranze sorrise alfine verso occi­
dente, e come il senno di So­crate ri­chiamò la
nostra fede dal cielo alla terra. [...] e comin­ciammo
ad in­ten­dere che la strada per la libertà era quella
dell’indipendenza, che a que­sta dove­vano più
presto me­nare la con­cordia pratica e viva e il savio
atteg­giarsi delle forze già esistenti che non l’unità
sognata completa d’un colpo».10
In ottemperanza all’intendimento pedagogico consegnato al messaggio della «breve
introduzione» (i, p. 3), stesa a lavoro ultimato,
il cam­biamento anagrafico dalla na­scita ve­
neziana alla morte italiana iconizza il transito
dal «mondo vecchio» al «mondo nuovo affatto»
(xxiii, p. 1515), decreta l’esistenza di una na­zione
prima delle istituzioni, congiunge passato e fu­
turo nella mente di un nar­ratore ancora suddito
dell’Impero asburgico nel momento in cui raduna
i suoi ricordi.
Come l’autoidentificazione di un individuo si
nutre dei fatti privati deci­sivi per la personalità,
così il riconoscimento di un popolo riposa nell’archivio della memoria per rico­struire il percorso
comune dalla solida con­divisione di mete e di
ideali. Il retag­gio delle proprie radici, caparra di
li­bertà, perché impedisce la dispersione identitaria, è «un tesoro che si accu­mula» (iii, p. 214) e
incide a fondo nei meccanismi forma­tivi, perché
sola­mente nella conservazione della tradizione
collettiva e nella feconda conti­nuità delle gene­
ra­zioni è raggiungi­bile un’indipendenza dura­tura
in quanto ger­mo­gliata nel maggior numero pos­
sibile di persone: «Siate uo­mini se vo­lete es­ser
citta­dini; credete alla virtù vostra se ne avete; non
all’altrui che vi può mancare, non all’indulgenza o
alla giustizia d’un vinci­tore, che non ha più freno
di paure e di leggi» (xi, p. 714).
I «po­poli soli nella storia moderna vivono,
com­battono, e se ca­dono, ca­dono forti e ono­rati,
per­ché certi di risorgere» (xi, p. 755), ancoraggio
di sta­bilità e di cer­tezza av­valorato dalla gloriosa
rigenerazione della Grecia, sollevatasi una­nime
nelle guerre d’indipendenza a far rivivere le im­
prese degli eroi anti­chi (iii, p. 214 e xxi, p. 1300),
come insegna a Carlo la so­rella Aglaura: «Così, o
Carlo, le na­zioni ri­sor­gono» (xx, p. 1297). Sulla
stessa falsa­riga del romanzo, nel saggio Rivoluzione po­li­tica e rivolu­zione na­zio­nale, da­tabile
all’autunno 1859, un largo coinvol­gimento del
popolo, so­prattutto rurale, rea­lizza la meta di
un mu­ta­mento non effi­mero e real­mente nazio­
nale: «le na­zioni sono com­posi­zioni d’uomini;
ri­sor­gono le na­zioni quando risorge uno per
uno a virtù ed a ci­viltà, a concordia di voleri la
mag­gio­ranza degli uo­mini che le com­pon­gono.
La parte intelli­gente non può re­di­mere col san­
gue la parte igno­rante; deve an­zitutto redi­merla
colla giustizia e coll’educazione. Ecco il sa­cri­ficio
in­cruento ma più lungo e pa­ziente che si richiede
ora all’intelligenza ita­liana».11
Valerio Vianello
Università di Venezia
I. Nievo, Scritti giornalistici, a cura di U. M. Oli­vieri, Pa­lermo, Sellerio, 1996, p. 285.
Id., Scritti vari, in Le Confessioni d’un Italiano. Scritti vari, a cura di F. Portinari, Mi­lano, Mursia, 1968, p. 858
(Attualità, in «L’Uomo di Pietra», 27 marzo 1858).
3
F. Moretti, At­lante del romanzo europeo (1800-1900), Torino, Einaudi, 1997, pp. 19 e 70. Una riflessione simile
sviluppa Ippolito Nievo nel 1855, quando in un arti­colo pubblicato nel «Caffé» afferma di non sentirsi «a ri­gor di
termine né di Mantova, né di Padova, né del Friuli», ma di aver concepito con il «vagabondag­gio» un’idea di patria
alla sua «maniera» (Scritti giornalistici, cit. p. 101).
4
I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Guanda, 1999, i, p. 64 (da cui si cita sempre con
l’indicazione in numero romano del capitolo e in numero arabo della pagina).
5
Nei capitoli iniziali, oltre alla data di nascita, si ritrovano soltanto due segnala­zioni temporali: la prima, del
tutto indefinita, è immessa nella rubrica del capitolo i («verso il 1780»: p. 3), la seconda in quella del v («L’ultimo
assedio del castello di Fratta nel 1786»: p. 301).
6
Che per Nievo gli anni dal 1789 al 1804 siano stati cruciali nel formare una co­scienza unita­ria è atte­stato
dall’ampia porzione concessa al biennio giacobino e a quel pe­riodo na­po­leonico all’interno del piano narrativo
(capp. v-xviii).
7
xv, pp. 942-943: «Napoleone colla sua superbia coi suoi errori colla sua tirannia fu fa­tale alla vecchia Repubblica di Venezia, ma utile all’Italia»; xix, p. 1152: «Io per­dono alcuno de’ suoi torti a Napoleone, quand’egli uni­sce
Ve­nezia al Re­gno d’Italia».
8
«La Venezia è la chiave di tutta Italia dalle parti di Germania: essa padroneggia il mare Adriatico e la valle del
Basso Po»: Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale. Venezia e la libertà d’Italia, a cura di M. Gorra, Udine, Istituto
Editoriale Veneto Friulano, 1994, p. 147.
9
M. Beer, L’Italia degli italiani nell’opera di Ip­polito Nievo, in M. Tatti (ed.), Italia e Ita­lie. Imma­gini tra Rivoluzione e
Restaurazione, Roma, Bul­zoni, 1999, pp. 67-89; C. De Michelis, La geografia di Nievo e B. Falcetto, Mondo, città, paesi.
Geo­grafia e let­tera­tura nella narrativa nieviana, in G. Grimaldi (ed.), Ip­polito Nievo e il Manto­vano, Vene­zia, Marsilio,
2001, pp. 27-38 e 55-76; G. Ferroni, Italia e italiani nelle «Confessioni» di Nievo, in B. Al­fonzetti, F. Cantù, M. Formica,
S. Tatti (edd.), L’Italia verso l’Unità. Letterati, eroi, patrioti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 205-215.
10
I. Nievo, Rivoluzione politica, cit., pp. 142-143. La cita­zione riappare nel Dialogo della Filosofia con un nuovo
stampo d’Avaro: «il mio ra­giona­mento non sale tant’alto, dacché il dabbenuomo Socrate mi trasse in terra e il
dabbe­nuomo Locke mi vi relegò» (Scritti giornalistici, cit., p. 223).
11
I. Nievo, Rivoluzione politica, cit., pp. 101 e 116. Si veda l’opuscolo Vene­zia e la libertà d’Italia: «se non fosse già
antico assioma storico che le na­zioni non muo­jono mai; e spinte una volta alla loro rigenerazione sanno trovare
in tutto, anche negli espedienti della tirannia, opportunità d’incremento, scuola di virtù e di con­cordia» (p. 139).
1
2
Lyceum Dicembre 2012
23
Strumenti/Liminarismo
storia delle idee
24
D
La filosofia come
sapere liminare
all’osservazione della condizione esistenziale, che lo porta a constatare nella
coscienza una dolorosa lacerazione che
irrompe nella continuità del tempo, Vladimir
Jankélévitch giunge ad una concezione positiva
della vita, in quanto non siamo destinati a cadere
nel nulla, ma a fare del tempo una durata con il
suo profumo ineffabile di “tutto il giorno di tutti
i giorni”
Un tuffo nel passato
È davvero sorprendente ed emozionante
come, nell’atto di entrare al punto vendita della
Feltrinelli nella Galleria Bardelli di Udine,
per acquistare
il saggio Da
qualche parte
nell’incompiuto, sia tornata
indietro nel
tempo, quando, giovane
studentessa all’ultimo anno del Liceo Classico,
il “T. L. Caro”, rimasi affascinata da una lezione su
Vladimir Jankélévitch, filosofo ebreo-francese di
origine russa.
La famiglia era stata costretta ad emigrare in
Francia dopo il pogrom del 1880, dove il padre
Samuel, valente medico ed uomo coltissimo,
tradusse per primo opere di vari autori, fra i quali
Schelling, Hegel e Freud, e lui, nato a Bruges nel
1903 e morto a Parigi nel 1985, fu professore
all’Università di Tolosa, di Lilla e della Sorbona,
ma anche musicologo e pianista.
Ciò che mi colpì allora e mi affascina ancora
oggi é la concezione della filosofia come sapere
che oscilla tra ciò che sembra ormai acquisito
come certo e ciò che accentua la condizione nel
segno dell’incertezza di ogni uomo che, pertanto,
tende a scrutare più a fondo il senso della realtà
in ogni sua manifestazione, per disvelarne il
mistero, o almeno tentare, onde meglio orientare la propria azione. Carattere maggiormente
evidente in particolari periodi critici che alimentano disorientamento ed incertezze sia a livello
individuale che collettivo.
Era l’anno dell’ultima rivoluzione del ‘900,
quando sull’eco della rivolta studentesca negli
Stati Uniti d’America contro la guerra in Vietnam,
l’universo giovanile s’infiammò e propagò l’incendio in ogni parte del mondo.
Era scoppiato il ’68, la cui identità era racchiusa in due slogan, variamente interpretati ma pur
sempre carichi di significato: l’utopia dell’assalto
al cielo e l’immaginazione al potere.
L’opera oggetto della lezione era Le je ne sais
quoi e le presque rien (Il non so che e il quasi niente)
del 1957, con una duplice motivazione. Innanzitutto il richiamo alla militanza di Jankélévitch nel
Sessantotto, in una sorta di continuità con le sue
passate esperienze nel Fronte Popolare francese
e, da clandestino, nella Resistenza (tre momenti
particolari della sua vita
politica, tre occasioni
non lasciate sfuggire,
ma colte e vissute come
possibilità in quel vortice temporale in cui si
producono eventi nuovi
per una nuova figura del
mondo). E, poi, soprattutto, l’originalità di un
pensatore eclettico che,
ponendosi oltre la filosofia classica per registri tematici e codici linguistici,
ha la capacità di dar voce al ritmo dell’esistenza,
con i suoi slanci e i suoi fervori che danno il brivido dell’avventura.
Così come in occasione della sua chiamata
alle armi che, essendosi egli schierato dalla parte
della Francia occupata, venne subito revocata. E gli
venne tolto anche l’incarico all’Università di Tolosa.
La sua colpa? Essere ebreo!
La sua reazione? Entra a far parte dei movimenti clandestini della Resistenza, avviando nel
contempo un’implacabile lavoro di riflessione
etico-politica sugli eventi che si stavano determinando in Europa, il cui esito drammatico
era rappresentato dalla persecuzione e dallo
sterminio degli ebrei. Un lavoro che prosegue
ininterrottamente fino alla morte.
Dimostrazione, questa, di come il filosofo,
attento a cogliere sfuggenti ed ineffabili aspetti
del reale, fosse dotato di una tempra morale
intransigente e decisa. Quella che lo induce, in
quegli anni brucianti, a “fustigare, senza giri di parole e con i termini più duri, diretti e veementi, il
pericoloso impasto di cialtroneria mitologizzante
e sanguinaria volontà di potenza insita nel nazismo”. Ma anche nel seguire con rara attenzione
le vicende della città, ossia gli avvenimenti della
concreta realtà storico-politica.
In particolare quando, dopo la guerra, in
un clima ambiguamente conciliante, incline ad
un troppo facile oblio e ad un troppo comodo
perdono, assunse un’inflessibile posizione nei
confronti dei crimini nazisti contro l’umanità, lucidamente espressi nel libro L’Imprescriptible, uscito
postumo nel 1986, contenente due testi pubblicati in precedenza, Pardonner?
del 1971 e Dans l’honneur et la
dignité, edito nel 1948.
Tesi centrale di questi scritti
è un’indelebile fedeltà alla memoria verso le vittime di tanto
orrore, altrimenti annientate
25
una seconda volta. Tanto comporta il chiaro convincimento
che, di fronte a determinati
accadimenti, non ha senso, né
la minima incidenza, lo scorrere
del tempo ma anche una forza di insegnamento
tale da aiutare a mantenere vigile l’attenzione
verso pratiche, scenari e comportamenti sempre
insidiosamente ricorrenti.
Monito di cui il filosofo si fa interprete con
una battuta non priva del suo proverbiale umorismo: “Io scrivo per il XXI secolo”.
Struttura e contenuto del non so che
Divisa in tre parti, La maniera e l’occasione – La
disconoscenza e il malinteso – La volontà di volere,
l’opera espone la concezione della filosofia del
non so che, un sapere che poggia sulla tradizione
mistica neoplatonica, ebraica, spagnola e russa
e che dà ampio spazio al rapporto tra ontologia,
etica, estetica e musicologia. Rapporto arricchito
dal richiamo a Schelling, sul quale aveva scritto
la tesi di dottorato, L’odyssée de la conscience
dans la dernière philosophie de Schelling, e a
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
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Bergson, di cui conservava l’analisi psicologica
delle più diverse e recondite situazioni spirituali
e dei momenti tipici dell’umano, potenziando,
però, fino a radicalizzare nelle opere successive,
la temporalità nel suo versante quotidiano e
accentuando la condizione della filosofia che,
non potendo accedere a nessuna ulteriorità, si
ribalta nell’al di qua.
Centrale in tutta l’opera è la consapevolezza
che l’essere è inafferrabile e non riconducibile a
concetto.
Il quid sfugge ad ogni tentativo di conoscenza, tuttavia non è un niente, quello per cui
si vivrebbe sospesi nel vuoto, ma un quasi niente
che produce il disagio della coscienza dinanzi ad
una verità incompleta perché non evidente e
non dimostrabile, un innominato innominabile,
“qualche cosa che non esiste, e che tuttavia è
la più importante tra le cose importanti, la sola
che valga la pena di essere detta e proprio la sola
che non si possa dire”. Dal rapporto ricorrente
tra il sapere e il quasi niente nasce l’idea di una
conoscenza di natura intuitiva.
L’intuizione rivela, sulla scia di Bergson,
l’essenza della totalità, ovvero il suo mistero, per
cui il non so che non è la cosa che al momento
manca, ma lo charme che riveste la totalità e ne
fa un tutto, ovvero il messaggio che ancora ci
sfugge. Ciò di cui sono capaci gli artisti, in modo
particolare musicisti e poeti, ovvero di percepire
al presente lo charme nostalgico del passato,
nella persona comune, purchè sensibile al fascino
della vita che, senza appartenerci in modo totale,
ci costituisce, si manifesta come la capacità di
intuire l’opportunità, di cogliere l’occasione e
l’istante favorevole, di colmare la
dissimmetria tra azione e charme.
Donde “la natura ambigua della
libertà umana, che corrisponde
meno all’evidenza univoca di
Descartes” (quella che non può
essere oggetto di dimostrazione
perché è il punto di partenza
di ogni discorso possibile) “che
all’evidenza equivoca di Pascal”
(la totalità della realtà che, per
natura, eccede la ragione) “e si
configura come altalena nell’evidenza simultanea
dei contrari”.
Dal non so che alla teoria dell’incompiuto
Molte delle categorie interpretative di questa
opera, come charme, occasione, volotnà, libertà,
vengono riprese nel saggio Da qualche parte
nell’incompiuto, (titolo che riproduce una frase di
Reiner Maria Rilke, per meglio rendere il senso di
un’interrogazione intensa e radicale della pratica
quotidiana) di cui l’Einaudi, come per la prima,
ha curato l’edizione, giustificata in tal modo da
Roberto Esposito: “In una stagione come questa,
caratterizzata dall’assoluta incertezza delle prospettive e quasi da un’inafferrabilità di ciò che sta
al fondo dell’esperienza quotidiana, il pensiero di
Jankélévitch … torna ad interpellarci”. Ancora più
sorprendente cogliere in questo giudizio il medesimo senso della motivazione data, tanti anni
fa, da un ottimo insegnante ai suoi alunni in un
intreccio mirabile tra filosofia e storia, operazione
metodologico-didattica non sempre possibile.
Anche in quest’ultimo saggio, dunque, motivo caro all’autore è il tema della coscienza come
inquietudine interiore, come segno di contraddizione tra me e me stesso, che, in quanto tale,
mi costituisce nella mia esistenza spirituale. La
coscienza, difficile punto di incrocio fra irreversibilità indelebile del passato e contingenza indeterminata dell’avvenire, è misura della condizione
inadeguata, che precede e segue ogni atto, tra il
bisogno di un’integrazione e l’insufficienza della
meta raggiunta. E, per riprendere la prima motivazione alla base della lezione di cui sopra, è un
riproporre, nel bene e nel male, la genesi e l’epilogo di quel ’68 assunto come
snodo, pur nella concomitanza
non certo casuale tra l’anno in
corso e la volontà dell’autore
di dare la propria adesione
ad un fenomeno al limite tra
accettazione e rigetto.
In questo dialogo senza
fine, l’esistenza si rivela a se
stessa molto più che nella
contemplazione puramente
intellettuale, quella per cui
il rapporto soggetto-oggetto si raggela in una
sterile e nitida fissità.
Prezzo di questo tragico privilegio è la sofferenza con cui la coscienza cattiva pretende di riscattare e purificare se stessa dal fardello del rimorso
come presenza del passato, che è inesorabilmente
presente, e che non può essere modificato.
Motivo riproposto nella dialettica dell’alternativa: vivere significa scegliere, e quindi
sacrificare infinite possibilità ad ogni particolare
realizzazione.
Eppure nella scelta, oltre all’aspetto
negativo, esiste anche l’aspetto positivo,
che costruisce il tempo come durata e
la vita come volontà feconda di azione, a
partire dall’occasione portatrice di novità
irripetibili perché gravida di potenzialità
che tocca all’uomo rendere attuali. Occasione che è fuggitiva, arriva, passa e va e
guai a non afferrarla. Ma per fare tanto è
necessario combinare vigilanza, duttilità,
decisione, abbandono e, soprattutto,
prontezza di spirito, quella che consente al cacciatore di catturare un’agile preda.
Già Machiavelli, nelle poesie allegoriche,
chiede a Occasione perché non si riposi mai,
perché abbia le ali ai piedi, perché sia sempre in
movimento ed essa gli risponde che mentre lui
perde del tempo prezioso a farle domande lei è
già sfuggita dalle sue mani.
Tuttavia, Occasione tende una corda alla
coscienza inquieta, capace di alimentare il caso
grazie alla sua volontà di volere.
La realtà è un divenire continuo, perciò,
nell’arco di tempo che ci è dato di vivere, in piena
libertà dobbiamo assumere la responsabilità delle nostre azioni. È per questo che il nostro agire
non può e non deve essere regolato da schemi
fissi ma deve essere finalizzato a vivere appieno
le multiformi sfaccettature dell’essere nel mondo.
L’evoluzione simultanea dei contrari
Ci si trova di fronte ad una vera e propria
mistica della vita quotidiana con la serie di con-
trari che, spesso, finiscono per convergere fino a
costituire l’uno il cuore dell’altro.
È ciò che accade nella sfera etica, così come
evidenziato a proposito della coscienza cattiva,
che può pure pentirsi del male commesso ma
sicuramente non può cancellarlo. Anche se,
paradossalmente, ciò che è imperdonabile sfida
il perdono a toccare il suo margine più estremo,
allo stesso modo dell’amore non ricambiato che,
nonostante tutto, si identifica con un vero atto di
dedizione assoluta.
Ma anche dell’amore in genere, che non seleziona dei caratteri,
ma accoglie la persona per intero…
L’amore non vuole sapere nulla su
ciò che ama; quel che ama è il centro
della persona vivente, perché questa
persona è per lui fine in sé, ipseità
incomparabile, mistero unico al
mondo. Immagino un amante che
abbia vissuto per tutta la vita accanto a una donna, che l’abbia amata
appassionatamente, senza mai chiederle niente e
27
che muoia senza sapere niente di lei. Forse perché
sapeva sin dall’inizio tutto quello che c’è da sapere.
(Da qualche parte nell’incompiuto, pag. 8).
È ciò che, per una magica contraddizione, unisce la musica al silenzio, laddove la prima è circondata, scandita, inaugurata dal secondo che, in tal
modo, diviene origine, materia e fine della prima.
La musica, infatti, vive di silenzi che, insieme a pause e sospiri, la scandiscono e la fanno
respirare e senza i quali sarebbe solo un rumore
soffocante.
Così come, magicamente, rappresentata
dalle transizioni di Debussy, ovvero dal passaggio
dalla cangiante varietà del colore tonale al graduale svanire del profumo stesso della tonalità.
Che, poi, altro non è che il mistero stesso della
vita, quale summa dei contrari: essere e non-essere, innovazione dinamica e ripetizione noiosa,
acquisizione continua e perdita inevitabile…
Angelina Rainone
Novembre 2012
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
antropologia del mondo antico
“Civiltà di colpa” e
“Civiltà di vergogna”
28
R
uth Benedict, studiando i comportamenti
etnici tra la popolazione del Giappone,
distingue le civiltà di colpa (guilt culture)
dalle civiltà di vergogna (“shame culture). Nelle civiltà di colpa, che sono regolate da divieti
divini, il deviante sente il bisogno della purificazione essendo consapevole della responsabilità di avere violato i dettami della religione. Le
civiltà di vergogna hanno il più forte deterrente
nella vergogna
sociale, perciò i
componenti del
gruppo agiscono
nella rigorosa osservanza dei valori collettivi per
conquistarsi la stima; i modelli del
comportamento
sono trasmessi
come consuetudini comunitarie,
la cui trasgressione comporta la
riprovazione del gruppo e l’emarginazione. Mentre, quindi, la cultura della colpa fa scaturire la
devianza dal rapporto tra la religione e l’individuo
su cui ricade la pena, nella cultura di vergogna
la colpa proviene dai rapporti sociali, ed è molto
temibile perché contaminante per la famiglia, i
parenti, gli amici.
Eric R. Dodds, basandosi sui modelli culturali
illustrati dall’antropologa americana, ascrive la
civiltà omerica alla civiltà di vergogna. Gli eroi
greci, che costituiscono un gruppo di pari (di
cui l’Atride Agamennone detiene la leadership
pro tempore per quanto durerà la guerra contro
la città di Troia) hanno come criterio guida la
considerazione che le loro azioni possano suscitare sugli altri e badano a non incorrere nella
vergogna (aidòs) che genera biasimo. Certamente, tra le tende degli eroi omerici non manca la
tensione tra l’impulso individuale e la necessità
del conformismo sociale, ma è quest’ultimo che
deve prevalere. E qualora un eroe ceda a un comportamento indegno del suo rango, attribuirà la
colpa ad una forza esterna (ate) che ha accecato
momentaneamente la sua mente. Trattandosi di
una forza demoniaca, l’uomo si scagiona della
responsabilità dell’azione in quanto un essere
umano, anche se eroe, non può contrapporsi
all’impulso provocato da un’entità superiore.
Capita ad Agamennone di chiamare in causa
ate per il fatto che, essendo stato costretto a
restituire la sua schiava al padre Crise dal volere
del dio Apollo, si era preso con la forza la schiava
di Achille, scatenando l’ira dell’eroe più valoroso
e producendo di conseguenza numerose stragi
tra i suoi combattenti.
In questo tipo di società il sentimento di giustizia non è proiettato al divino, e pur vigendo
la funzione pubblica del collegio degli anziani
(come figura sui bassorilievi dello scudo di Achille), la giustizia interessa l’onorabilità dell’individuo a cui spetta la vendetta.
Che nelle civiltà di vergogna
la forza morale più efficace derivi
dall’opinione pubblica lo dice
chiaramente Ettore che decide
di affrontare il Pelide nonostante
sia sicuro di andare incontro alla
morte: egli può accettare la morte (che lo consacrerà come eroe);
quello che è inaccettabile è il
giudizio sprezzante dei troiani
e delle troiane “dal lungo peplo”
(è l’unico caso in cui le donne
siano citate come fonte temibile
di giudizio al pari degli uomini).
Le gesta celebrate nell’epica
sono paradigmatiche e gli eroi che le compiono
figure da conservare integre, miti basilari nella
paideia dell’antica Grecia con cui i giovani devono identificarsi oltre a sentirvi il legame con i
coetanei e l’intero gruppo sociale. Il biasimo che
deriverebbe da comportamenti inadeguati da
parte dei personaggi-modello è tanto grave da
non potersi ammettere, perciò per giustificarli si
elabora un’ideologia che li esenti dalla responsabilità delle azioni giudicate turpi nel sistema dei
valori del loro rango. L’obiettivo pedagogico è talmente importante che, pur di scagionare l’eroe,
non si esita ad imputarne gli errori alla volontà
degli dei o comunque alla forza di un daimon.
Nella società omerica manca la soglia dell’in-
teriorizzazione della colpa, nel cui territorio
s’innesta un’inquietudine che priva l’essere della
serenità facendolo vivere in una situazione di
stress; questo non è il caso degli eroi omerici che
non mirano al godimento della serenità della loro
coscienza (come succede nelle cosiddette civiltà
di colpa), bensì al possesso della stima (timé) dei
propri pari. Ci si aspetterebbe che gli onori siano
commisurati alle azioni, ed infatti Achille, che ha
preferito una vita breve e gloriosa ad un’esistenza
lunga ma grigia, è celebrato come il più grande
degli eroi. Nelle culture di vergogna, però, non è
necessario compiere grandi imprese per ottenere
la stima: basta non deviare dalle norme collettive,
tanto è vero che Achille lamenta il fatto che anche
chi non combatte valorosamente è tenuto nella
stessa considerazione di chi
impegna il suo valore (areté)
in gesta ardimentose.
Il timore della vergogna, che facendo “perdere
la faccia” espone l’uomo al
ridicolo e al disprezzo della
29
comunità, come attesta la
letteratura greca, si protrae nell’epoca arcaica. Si
tramanda che i giambi del
poeta Archiloco furono tanto ingiuriosi contro Licambe
e le sue figlie da indurli al
suicidio non potendo tollerare l’onta della vergogna.
Anche gli scultori Bùpalo e Atènide preferirono
morire piuttosto che perdere la reputazione a
causa dei giambi che contro di loro scrisse Ipponatte. Sebbene, con il passare del tempo, il
modello della società precedente sia superato da
comportamenti e da idee diverse, specialmente
con la civiltà delle poleis, l’evoluzione, dice M.
Arnold, ha “un’estrema lentezza”, e numerosi
aspetti del passato restano tra le pieghe della
storia, cosicché pur essendo subentrata, nelle
coscienze individuali, la paura del giudizio degli
dei, permangono il timore della riprovazione
sociale e la conformazione ai valori eroici, che
alimentano il senso di appartenenza alla società
inibendo la devianza dal conformismo sociale.
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
30
La soglia della nuova cultura,
cioè, s’incontra con quella
tradizionale, né si esaurisce
nel mondo antico.
Il conglomerato culturale della civiltà di vergogna,
attraversando le soglie delle
varie epoche, si è prolungato
fino al nostro passato recente. Per tutta la durata delle
società preindustriali, la formazione dei giovani è stata
improntata alla paura della
vergogna, una vergogna ancora contaminante
come l’antica ybris che coinvolgeva nella riprovazione sia il responsabile che il gruppo parentale,
e trasformava i componenti della collettività in
vigili custodi della morale comune. Non esisteva, in queste aggregazioni, nessuna idea della
privacy; ognuno viveva scrutato dai cento occhi
di Argo del vicinato intento a rilevare le deroghe
e a segregare i devianti ai margini della società.
Ogni famiglia si adoperava a non incorrere nel
vituperio, per fare “bella figura” agli occhi degli
altri e conquistarsi la stima mantenendosi nel
solco delle norme sancite dalla consuetudine. Più
che i comportamenti positivi, il sistema pedagogico familiare trasmetteva le proibizioni, fonte di
vergogna. “È vrigogna de la gente”, ammoniva la
madre calabrese, nel trasmettere il lungo elenco
dei divieti alle figlie, badando all’evitazione del
biasimo sociale e senza curarsi minimamente
della salvaguardia dell’interiorità né dei riflessi
psicologici delle azioni. Anche i criteri morali,
nonostante si trattasse di comunità cattoliche,
permanevano oltre i confini del cristianesimo. Lo
attestano i delitti compiuti per il riscatto dell’onore che hanno prolungato la
catena della vendetta. Dal repertorio
canoro calabrese ci giunge il canto di
un uomo che, raggirato nella scelta
matrimoniale, sposa la donna indesiderata per evitare d’incorrere nella
“vrigogna de la gente”, ma subito dopo
l’uccide ritenendo l’omicidio la giusta
vendetta e quindi il riscatto del suo
onore a prezzo del sangue.
Nonostante l’insegnamento cattolico inserisse negli animi la cultura del
rimorso per il male commesso, rimaneva più forte
il timore di derogare dalle norme collettive e di
“perdere la faccia”. In alcuni punti, comunque, i
confini delle due concezioni stranamente s’incrociano. S’intersecano le soglie della contaminazione della colpa del conglomerato culturale della
“vergogna” con la contaminazione del peccato
originale, che si trasmette senza interruzione sui
discendenti di Adamo; s’incontrano persino le soglie arcaiche di ate e quelle dell’intervento divino
nei peccati del cattolico, così come si deduce da
una delle preghiere più diffuse il “Pater Noster”,
nel punto in cui si chiede a Dio di “non indurci in
tentazione”. In quest’ultimo caso si tratta di una
frase ripetuta meccanicamente, che comunque
dimostra come residui di vecchi conglomerati
culturali resistano, anche se privi dei significati
remoti, ai bordi della nostra attualità che ha ormai varcato definitivamente la soglia della civiltà
di vergogna.
Vittoria Butera
Saggista e scrittrice
Falerna Marina (Cz)
Bibliografia
R. Benedict, Il cristianesimo e la spada. Modelli di cultura giapponese, trad. it. Dedalo, Bari 1993.
E. R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, tr. it. BUR, Bergamo 2011.
letteratura italiana
Una condizione liminare:
l’umanità delle bestie e la bestialità
T
degli uomini in Federigo Tozzi
oppa era morto di vecchiaia. Lo trovarono una mattina di
febbraio, sotto il carro; nell’aia. Il gelo lo aveva attaccato in mezzo ai
mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo
a un olivo, suonò come un tamburo; e fece, perciò, ridere.
È una delle sequenze più dure del romanzo
“Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, ma anche
più rivelatrici della sua visione del mondo e della
sua psicologia.
Sicuramente la letteratura è ricca di animali
più o meno umanizzati e di cani con cui l’autore e il lettore “simpatizzano”: ci si sovviene
subito di Bendicò nel “Gattopardo”, verso il
quale l’affetto di don Fabrizio è superiore a
quello che prova per i suoi familiari. Si pensi
alla seguente scena:
La giornata era stata cattiva…. Bendicò nell’ombra
gli strisciava il testone contro il ginocchio. “Vedi: tu
Bendicò, sei un po’ come loro, come le stelle: felicemente incomprensibile, incapace di produrre
angoscia.” Sollevò
la testa del cane,
quasi invisibile
nella notte. “E poi
con quei tuoi occhi al medesimo
livello del naso,
con la tua assenza
di mento, è impossibile che la tua testa evochi nel cielo
spettri maligni.
Non è certo un caso unico, quindi, l’interesse
di Tozzi per gli animali e la loro umanizzazione,
ma nel “Gattopardo” Bendicò rimane un cane;
semmai in Tomasi di Lampedusa sono fondamentali le simbologie legate alle bestie (i gattopardi,
gli sciacalli, i cani).
Con il Naturalismo-Verismo si è assistito
prevalentemente all’imbestiamento degli uomini, come nella “Bête humaine” di Zola, dove il
macchinista Jacques Lantier manifesta tutta la
sua malvagità derivatagli da tare ereditarie
cui non può sottrarsi.
In Verga si assiste a uno zoomorfismo che investe molti personaggi,
in particolare nelle similitudini (la
Lyceum Dicembre 2012
31
Strumenti/Liminarismo
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Longa quando il figlio parte militare è come una gatta cui abbiano
sottratto i micini; spesso compare
Alfio e ‘Ntoni sono apparentati agli
asini), e questo è un procedimento
tipico del cosiddetto “artificio della
regressione”.
Tuttavia è con l’autore senese
che si assiste a una sorta di ribaltamento dei ruoli: gli uomini sono
spietati e violenti come belve e le
bestie sembrano dotate di una sensibilità umana.
L’interesse per il mondo animale
è precoce in Tozzi e sicuramente ispirato dalla vita
in campagna, ma anche dalla lettura dei poeti
medievali e dei bestiari, la cui valenza allegorica
emerge chiara nella prima produzione, dove alcuni animali hanno non solo funzione narrativa o
esornativa, ma anche allegorica, come in “Bestie”.
Il punto più alto, però, è sicuramente raggiunto con la fine del cane Toppa: Toppa era morto di
vecchiaia equipara la scomparsa del cane a quella
di un uomo (Borio era morto d’una polmonite).
Dopo questo “incipit” degno della fine di
un protagonista, il registro stilistico diventa più
connotativo quando assistiamo alla dissacrante
descrizione del suo ritrovamento che non risparmia i particolari ripugnanti:
Lo trovarono una mattina di febbraio, sotto il
carro; nell’aia. Il gelo lo aveva attaccato mezzo
ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo
a un olivo, suonò come un tamburo; e fece,
perciò, ridere.
La nota comico-realistica della carogna che
suona come un tamburo, suscitando le risa dei
braccianti, produce un effetto di straniamento
(neppure di fronte alla morte gli uomini-bestia
si commuovono).
Subito dopo il narratore ci propone un flashback sulla vita del cane e sulle sue traversie che
inizia con l’osservazione era stato dopo la castratura piuttosto cattivo che ispira nel lettore un
accostamento con l’incipit di “Rosso Malpelo”:
Malpelo si chiamava così perché
aveva i capelli rossi; e aveva i capelli
rossi perché era un ragazzo malizioso
e cattivo, che prometteva di riescire un
fior di birbone.
La presunta cattiveria dei due,
del ragazzo e del cane, è stata determinata dall’ambiente, ma soprattutto dagli uomini.
Toppa non è semplicemente
malvagio, ma ha anche un temperamento triste, “asociale” a causa della
sua vita infelice (non ebbe voglia
di ruzzare nemmeno da piccolo) perché è stato
segnato fin dall’infanzia dai maltrattamenti (Da
piccolo, a pena slattato, Domenico lo legò al ferro
del pozzo; e, quando guaiva, gli assalariati avevano
l’ordine di pigliarlo a calci.)
È, quindi, “cattivo” per la “formazione” che
ha ricevuto.
Il Rosi, suo proprietario e padre di Pietro,
protagonista del romanzo “Con gli occhi chiusi”,
aguzzino nei confronti del figlio e della bestia,
quando riceve la notizia della sua morte pensa
solo che l’aveva pagato poco e ordina di conservare il collare.
Anche qui il maestro è Verga: la reazione di
Domenico non è diversa da quella degli abitanti di Aci-Trezza alla notizia del naufragio della
“Provvidenza”:
Che disgrazia! dicevano sulla via. E la barca era
carica! Più di quarant’onze di lupini!
La reazione di Domenico per la morte di Toppa è simile a quella che aveva avuto per la morte
della moglie. Anche qui domina lo straniamento:
La morte di Anna era stato un vero danno per
Domenico. I sottoposti non lavoravano più
quanto prima…
D’altra parte il Rosi ha lo stesso carattere iroso del suo cane: se Toppa reagisce azzannando
e uccidendo gli altri cani, il padrone era preso
da uno sconforto che lo rendeva furioso e non
era infrequente che se la pigliasse con qualcuno
senza ragione. Il cane, quindi, è un alter-ego di
Domenico che, a sua volta, è un alter-ego di
Toppa, come lo è per molti versi di mastro-don
Gesualdo (si vedano gli scoppi d’ira dell’eroe
verghiano). La sola risposta che conoscano è la
violenza. Toppa obbedisce solo a lui e a Giacco,
il vecchio che è l’unico a manifestare pietà verso
il povero cane.
Giacco si commuove (Giacco pianse) non tanto perché sia più sensibile degli altri, ma perché
accomuna il suo destino a quello del cane (Noi
faremo la stessa fine). I braccianti scherniscono
anche lui (Che ci fanno i vecchi al mondo?).
Negli scritti tozziani gli uomini sono spinti
da impulsi primari e probabilmente la parte più
importante del corpo è il ventre; nel romanzo
“Le tre croci” domina il tema gastronomico e i
tre fratelli senesi, protagonisti del romanzo, sono
ossessionati dal cibo.
Masa, la moglie di Giacco, che continua a
mangiare anche al cospetto della carogna di
Toppa, picchia il ventre con un pugno, esclamando: Se mangio dell’altro, le budella mi fanno
gomìcciolo in corpo.
Giacco si sfoga sulla moglie ignara di cosa i
braccianti gli avessero detto.
In questa scena s’inizia con il macabro suono
della carogna del cane e si finisce col suono animalesco del ventre della vecchia che si ingozza.
Un cerchio si chiude: la morte si esorcizza
mangiando.
Carlo Pica
Docente di Lettere
Liceo Scientifico “Ugo Morin”
Mestre-Venezia
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Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
LETTERATURA & CINEMA
Dante,
il cinema della mente
34
Un’interpretazione del Poema dantesco attraverso il linguaggio cinematografico. Regia onnisciente e dettagli
rivelatori, allusive dissolvenze e
colonne sonore: questi e molti altri
universi squaderna il Viaggio per eccellenza, di tra orizzonti divini eppur
profondamente umani.
Un linguaggio cinematografico ante litteram
“Le visioni della Commedia si presentano
a Dante come proiezioni cinematografiche”. È
questa una delle più grandi intuizioni di Italo Calvino (Lezioni americane, 1988) riguardo
all’approccio del Sommo Poeta alla realtà fisica
e metafisica e alle sue tecniche di comunicazione
nei confronti del lettore. Volendo applicare
a tutta la Commedia
questa prospettiva
audace e moderna,
potremmo parlare di
“cinema della mente”
nel Sacro Poema. Questo equivale a pensare
che il piano dell’Opera
di Dante sia tutto già
nella sua mente e che
egli ce lo fa vedere e auscultare (non semplicemente “ascoltare”: l’auscultazione, tipica del
medico, comporta la percezione diretta sul corpo
della realtà). Perciò noi proporremo qui di seguito un’interpretazione di alcuni passi del Poema
alla luce delle tecniche del cinema e delle varie
tipologie di musica.
L’Inferno: un film noir
Non possiamo non rintracciare i primi fotogrammi del “cinema della mente” dantesco in una
scena da film, tra il rosa e il noir, nell’immortale V
canto dell’Inferno: il film della passione amorosa
di Paolo e Francesca:
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Inf., V, vv. 127-142
A livello filmico, la
scena della caduta nel
peccato (vv. 127-138)
è descritta in modo
poeticamente ambiguo. Dal punto di vista
spaziale è fortemente condensata: i due
amanti si trovano in
uno spazio ristretto e
concentrato, molto vicini fra loro. Invece, dal
punto di vista temporale essa è fortemente
dilatata: imprecisa, infatti, è la notazione un giorno (v. 127), prolungata
è l’azione dell’imperfetto durativo leggiavamo (v.
127) e, infine, ripetuto è l’atto sottilmente erotico
del guardarsi più fiate (v. 130). A questo effetto
di dilatazione segue l’applicazione di un’altra
tecnica formale del linguaggio filmico: la cura
del dettaglio. In questo caso è la bocca, che qui
è duplicata in due sinonimi: riso e bocca. La prima parola, ripresa dal codice cortese e letterario,
sottolinea il ruolo di colpevole Galeotto (v. 137),
svolto dal libro che narra gli amori di Lancillotto
e Ginevra. La seconda parola rientra, invece, nel
codice quotidiano, per cui richiama il lettore alla
realtà e alla carnalità dell’accaduto.
Ma fra le due dimensioni della letterarietà
(riso) e del realismo (bocca) dell’episodio si incunea adesso una terza dimensione, che trascende
le altre due: quella dell’Eternità espressa dall’avverbio mai (mai da me non fia diviso, v. 135), che
esprime la punizione eterna di Dio. E rispetto al
male della Storia è necessario che Dante-personaggio “muoia”: nel senso paolino del termine.
Vale a dire il poeta e, con lui, i suoi lettori, devono
“morire rispetto” al peccato (inteso come filmica
caduta: caddi come corpo morto cade), dunque
superarlo e vincerlo.
Il film giallo di Ugolino. Da Paolo e Francesca al Conte Ugolino della Gherardesca: dal
rosa-noir al giallo. Truce e bestiale. Nella macabra
ouverture del canto XXXIII il famigerato conte
rode il cranio dell’Arcivescovo Ruggieri, il quale
lo fece incarcerare con due figli e due nipoti.
Con un linguaggio
“cinematografico”, tutto
il racconto del Conte si
35
inscrive nell’ambito di un
flash-back, con il quale
egli sintetizza in circa 60
versi (vv. 16-75) il lungo
arco temporale (dal luglio
1288 al marzo 1289) della
vicenda. Il ricordo si apre
con la messa a fuoco di un
dettaglio spaziale: la nostra attenzione si concentra, infatti, sulla finestrella
della torre della Muda, che
rinvia all’altrettanto angusta stanza dei prigionieri: da qui e attraverso il breve pertugio il lettore
insieme ad Ugolino (focalizzazione interna)
guarda la luna, azione compiuta per molte notti.
Dopo il dettaglio spaziale l’autore della Commedia passa ad un dettaglio temporale. All’interno, infatti, del lungo periodo di detenzione durato
circa 9 mesi, Ugolino (grazie al Dante-regista) predilige un brevissimo momento, che dura quanto
un sogno. Nel corso di esso, egli e i suoi figli e
nipoti immaginano di vedere l’arcivescovo Ruggieri a capo di una battuta di caccia sul monte di
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Strumenti/Liminarismo
San Giuliano con cagne
magre, ammaestrate e
fameliche contro un lupo
e i suoi lupicini, cioè contro Ugolino e i suoi congiunti. L’inseguimento è
tipicamente cinematografico, perché ci “fa vedere” gli inseguitori che
guadagnano terreno e
gli inseguìti, che, stanchi,
rallentano la corsa (il sogno suggerisce una tecnica da ralenti) e soccombono nei loro confronti.
Questo raccapricciante film giallo si chiude
con un tremendo interrogativo: Ugolino si è macchiato o non si è macchiato del reato-peccato di
cannibalismo nei confronti dei suoi figli e nipoti?
“Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gettò disteso a› piedi,
e disse: «Padre mio, ché non m›aiuti?».
36
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid›io cascar li tre ad uno ad uno
tra il quinto dì e ‹l sesto; ond›io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti
Poscia, più che il dolor, poté il digiuno.»
Inf., XXXIII, 67-75
Accusa e difesa hanno sfoderato le prove
più assurde e raccapriccianti. A noi piace aderire
alla tesi di Jorge Luis Borges, il quale disse che
Ugolino ha mangiato e contemporaneamente
non ha mangiato i figli. Li ha mangiati perché si
è avventato su di loro in quanto accecato dalla
fame, ma, proprio perché accecato, ha pensato
che quelli che stava divorando non erano i suoi
amati figli, bensì i suoi odiati nemici. Un grande giallo, come questo, proiettato nella e dalla
mente di Dante, non poteva avere epilogo più
solenne e più conturbante.
Il Purgatorio: l’epifania delle immagini tra le
note di una colonna sonora
Da una epifania del male nell’Inferno ad una
epifania del Bene nel Purgatorio: un Angelo appa-
re per la prima volta nel Poema.
Siamo nel II Canto del Purgatorio. Egli, apparendo nella sua
diafana figura, traghetta (da
anti-Caronte) le anime verso la
spiaggia del Purgatorio. Dante
qui sfodera la sua sapiente tecnica di regista ante litteram con
un uso sorprendente di panoramiche e zoom, di primi piani
e dettagli:
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscio.
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,
trattando l’aere con l’etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Purgatorio, II, 13-24 e 31-36
Dante, dunque, inizia con un campo lungo,
in cui si vede un bianco indistinto, su cui la macchina da presa opera un coinvolgente zoom, che
man mano delinea l’arrivo del nocchiero. Poi Dante-scrittore si concentra su alcuni primi piani:
quello di Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi
e quello dell’Angelo che avanza ad ali spiegate
e fa il segno di croce rivolto alle anime. Anche le
sue ali sono a forma di Croce; allo stesso modo,
una prefigurazione della Croce fu considerata la
cetra di David. Croce e cetra: due parole-chiave.
La prima ritornerà come simbolo assiale nel Para-
diso, la seconda richiama la musica, protagonista
assoluta del II canto del Purgatorio.
E tutti gli spiriti, tra gioia e luce, in una filmica
scena di massa, intonano il Salmo 113 In exitu
Isräel de Aegypto, incentrato sulla liberazione
degli Ebrei. La scelta di Dante di questa colonna sonora è chiara: essa si giustifica con l’ottica
figurale (e con una lettura in filigrana: un dato
in primo piano sfuocato e un altro dato in secondo piano ben focalizzato). In questo caso
la liberazione degli Ebrei prefigura la liberazione
dal peccato di tutti i battezzati.
Dante, nella sua concezione della musica, fu
molto influenzato dal trattato di Severino Boezio,
De institutione musica (scritto intorno al 500 d.C.).
In quest’opera la musica è suddivisa in tre categorie principali: la musica instrumentalis (realizzata
con gli strumenti musicali), la musica humana
(che esprime l’armonia dell’anima umana) e la
musica mundana (che si identifica con l’armonia
dell’universo).
Nel Purgatorio, proprio a partire dal II canto
-con il Salmo In exitu e con Casella- cominciano
ad affermarsi la musica instrumentalis e, soprattutto, la musica humana che fa da colonna sonora
al cammino dell’anima verso l’eterna salvezza.
Il Paradiso: la scrittura filmica che “fa vedere”
La salvezza e la gioia celebrano il loro trionfo nella cantica del Paradiso. Qui
Dante inventa una nuova sceneggiatura cinematografica,
incardinata sulla scrittura iconica,
in virtù della quale al lettore basta “guardare” la parola e riesce a
“vedere” un concetto, anzi un simbolo. Un esempio folgorante del
cinema della mente del Paradiso
lo troviamo all’inizio del I Canto
con l’immagine della Croce che
si squaderna nel Cosmo infinito. I
vv. 37-42 descrivono la posizione
della lucerna del mondo, cioè del
Sole, nel punto dell’equinozio
primaverile, il quale -dice Danteè l’incontro dei 4 cerchi formanti
3 croci.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Paradiso, I, 37-42
E allora, che cosa significano i quattro cerchi e
le tre croci? Questo enigma potrebbe ben figurare
in una tipologia di film dell’arcano. Noi abbiamo
provato a proporre una risposta. Mettendo in fila
i nomi dei 4 cerchi e il termine “Croci” formate
da essi (Equatore, Croci, Coluro equinoziale,
Eclittica e Orizzonte) e tenendo conto del fatto
che il nome latino (e grecizzante) di Orizzonte è
Horizon, ci troviamo di fronte a un messaggio di
senso compiuto e di alta pregnanza: ECCE HO.,
sigla che rimanda a ECCE HOMO, cioè Cristo
crocifisso, espressione che risulterebbe “scritta”
sullo schermo del cielo. L’intera struttura del
Cosmo, dunque, esiste per “significare” la morte
e la resurrezione di Cristo. Insomma, una sigla
37
emblematica è proiettata sullo schermo del cielo,
quasi in 3 D.
E un film in 3D può essere considerato l’intero XXX canto del Paradiso. Come si legge in questo canto, la luce si distende, dinanzi agli occhi
del Poeta, in forma di cerchio, che esprime il con-
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Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se› colei che l›umana natura
nobilitasti sì, che ‹l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l›etterna pace
così è germinato questo fiore.
Par., XXXIII, 1-9
38
cetto della perfezione. La circolarità della luce si
traduce, infine, nella metafora dell’anfiteatro (vv.
109-114). I beati splendenti si dispongono in alto
per godere lo spettacolo della luce, simili ad una
circolare rosa sempiterna. Anche qui potremmo
immaginare una stupenda colonna sonora, che
forse Dante stesso conosceva: la cantiga Rosas
das rosas, la più famosa delle “Cantigas de Santa
Maria”, scritte o raccolte da S. Alfonso el Sabio,
re di Castiglia e Leon, nella seconda metà del
sec. XIII. Il pendant di questo spettacolo corale si
configura nel XXXIII del Paradiso, il cui preludio
è bellamente rappresentato dalla preclara preghiera alla Vergine. È una sceneggiatura perfetta:
tutti gli attori sono disposti nella posizione che il
regista (San Bernardo) esige. Lo spettacolo sembra svolgersi per il fatto che debba esser narrato
dall’Auctor, assurto a “scrivano di Dio”.
È il trionfo dell’ipotiposi, del far vedere l’invisibile, dire l’ineffabile: la lingua è smaterializzata,
ma la trascendenza prende corpo. Il Dante-personaggio è divenuto,
alla fine di tutte le
sequenze, davvero
umano, dopo avere visto il divino. Il
film dell’Amor che
move il sole e l’altre
stelle entrerà nella
mente e nella carne del cuore dei
suoi figli, affinché
essi intendano il
senso del loro vivere sul volto del
mondo e imparino
a guardare, contemporaneamente, al territorio
dell’Altrove.
Franco Salerno
Questo intervento riproduce il testo di una Lezione-spettacolo, tenuta il 22 ottobre da Franco Salerno,
autore de Il labirinto e l’ordine (Commento integrale alla “Divina Commedia”), pubblicato dalla Casa Editrice
Simone. La Manifestazione, svoltasi al Teatro d’Ateneo dell’Università di Salerno, è stata organizzata dalla
“Società Dante Alighieri–Comitato di Salerno (Presidentessa: Prof.ssa Pina Basile), in collaborazione con
l’Università di Salerno. Hanno fornito il loro prezioso contributo il Maestro Ugo Maiorano e la danzatrice Tania
Maiorano, le collaboratrici de Il labirinto e l’ordine (Giusy Caldarelli, Carmen D’Avino, Susanna Cotena, Paola
De Vivo, Melissa Chantal Salerno e Viridiana Myriam Salerno), la regista delle performances Dott.ssa Magda
De Notariis (della Casa Editrice Simone), il tecnico dell’Unisa Enrico Landi, l’attore Salvatore Mazza (nelle
vesti di Dante), il gruppo teatrale, musicale e coreutico de “La Nave dei Folli” del Liceo “T. L. Caro” (Antonio
Annunziata, Ersilia Fiore, Francesca Manzo, Antonio Roccia, Chiara Menna, Gaia Di Donato, Oriana Mancusi,
Serena Gaito, Benedetta Gaudino e Cecilia Santaniello) e l’Associazione di danza medievale e rinascimentale
“Il Contrapasso” (Francesco De Simone, Marika Morfariello, Giuseppe Iannone, Brunella Di Martino, Rita Ventre
e Giovanni Baggetta; coreografia: Prof.ssa Raffaela Lembo).
Il dubbio sulla
realtà della morte
Il problema esistenziale nei
Quattro ultimi Lieder
di Richard Strauss:
L
a tematica vita-morte è presente innumerevoli volte nella letteratura musicale
di tutti i tempi. A prescindere dall’approccio religioso (i
vari Requiem da Mozart a Brahms, da Dvorak a
Verdi), danno testimonianza dell’argomento nei
suoi molteplici aspetti moltissimi capolavori:
dall’Orfeo di Monteverdi e Gluck al Don Giovanni di Mozart, dalla Marcia funebre dell’Eroica di
Beethoven al Lied (e al quartetto) La morte e
la fanciulla di Schubert, dai Canti e danze della
morte di Mussorgski al Sopravvissuto di Varsavia
di Schoenberg, dal poema sinfonico Dalla culla
alla tomba di Liszt all’Otello di Verdi, dal Tristano e
Isotta di Wagner al poema Morte e trasfigurazione
di Richard Strauss.
Nel Tristano il binomio Eros-Thanatos
sfocia nell’annullamento della morte
d’amore di Isotta, interpretata, alla luce
di Schopenhauer, nel
dissolvimento nullificante del “principium
individuationis”. È
con Richard Strauss
“È forse
questa la
morte?”
(1864-1949) che il tema si arricchisce di una
dimensione heideggeriana del nostro “essere
per la morte”, in una problematica prettamente
39
esistenziale che trova nei Quattro ultimi Lieder
(1948) la sua più autorevole definizione. In gioventù egli aveva composto il poema sinfonico
Morte e trasfigurazione (1889). La composizione
(della durata di 25 minuti per grande organico
esclusivamente strumentale) è quella in cui,
come sottolinea Quirino Principe, più immediato
e percepibile è il rapporto tra il programma poetico e il pensiero musicale. L’interpretazione più
fedele è offerta da due testi successivi: il primo
è la poesia del 1890-91 di Alexander Richter e il
secondo è la lettera scritta nel 1894 da Strauss
a Friedrich von Hausegger. Sulla base di questi
scritti apprendiamo che il poema sinfonico descrive un artista ammalato che giace sul letto e
lotta disperatamente con la morte. In un breve
intervallo di questa lotta egli vede scorrere davanti ai suoi occhi la vita passata, la fanciullezza,
l’adolescenza, la maturità con le loro lotte, le loro
gioie e i loro dolori. Egli per tutta la vita ha cercato
di realizzare i suoi ideali ma ciò non gli è riuscito
compiutamente. L’istante della morte si avvicina
e l’anima abbandona il corpo per ritrovare in cielo
quello che ha cercato: liberazione dal mondo e
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
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trasfigurazione. Il brano si compone delle seguenti sezioni: Largo, con il motivo della morte
subito all’inizio, Allegro molto agitato, con i primi
sussulti dell’agonia, Meno mosso, con le visioni
del passato e morte dell’agonizzante e Moderato
con la trasfigurazione finale. La composizione è
strutturalmente vicina alla forma sonata. Nell’uso
strumentale vi sono talvolta evidenti onomatopee, come i colpi di timpano che ricordano i
battiti cardiaci. Nel possente “tutti” della ricapitolazione finale, il tema della trasfigurazione, cui fa
seguito nella breve coda un ritmo lento, suggella
il destino del protagonista.
Al termine della sua vita, nel 1948, Strauss
ritorna al tema della morte nei Quattro ultimi
Lieder. Qui il testo poetico non ispira, ma fa parte
integrante delle composizioni
musicali. Si tratta di quattro
canzoni (Lieder) per soprano
e orchestra che, riprendendo
metaforicamente le “età” della
vita, giungono a definire una
trasfigurazione non dal mondo
ma nella natura.
Anche nell’esame di questi
lavori intendo seguire l’interpretazione di Quirino Principe che giudico illuminante. Il
primo Lied Primavera (su testo
di Hermann Hesse) descrive
questa stagione che si schiude
in tutto il suo fulgore manifestandosi con la sua luce splendida: Sprofondato
nella penombra / sognavo a lungo / dei tuoi alberi
e brezze azzurre,/ della tua fragranza e del canto
degli uccelli./ Ora ti schiudi / splendida e adorna,/
inondata di luce,/ come un miracolo davanti a me./
Tu mi riconosci,/ tu mi incanti delicatamente./ La
tua presenza radiosa / fa tremare tutte le mie membra!/ Il motivo iniziale, proposto dai clarinetti e
dagli archi con un gioco imitativo, si regge su una
breve figura ritmica che rende l’immagine instabile; la voce del soprano contrappone una linea
melodica luminosa. In Settembre (sempre su testo
di Hesse) i tenui richiami dei flauti accompagnati
dal fagotto e dai violoncelli, inaugurano un clima
dominato dall’idea del fluire; ciò si compone in
un’immagine panica, quella dell’estate morente: Il giardino è intristito,/ fredda cala la pioggia
sui fiori./ L’estate rabbrividisce silenziosa / ormai
prossima alla fine./ Foglie dorate gocciolano giù /
l’una dopo l’altra dall’alto albero di acacia./ L’estate sorride stupita e stanca / nel morente sogno del
giardino./ Si sofferma a lungo tra le rose,/ desidera
ardentemente la pace./ Lentamente chiude i suoi
grandi / occhi affaticati.
Il terzo Lied Andando a dormire (anche qui
la poesia è di Hesse) comincia con le sonorità
oscure dei contrabbassi cui è affidata una figura melodica ascendente. Nel momento in cui
il soprano interviene con una melodia simile
al declamato di una voce recitante, l’orchestra
simboleggia le pause dello spirito in cui è “ora di
dormire”: Ora il giorno mi ha affaticato,/ il mio fervido desiderio
/ dovrà accogliere serenamente
/ la notte stellata, come un bambino stanco./ Mani, lasciate ogni
attività,/ fronte, dimentica ogni
pensiero,/ tutti i miei sensi ora /
vogliono sprofondare nel sonno./
E l’anima, non vigilata, vuole
librarsi liberamente in volo,/ per
vivere intensamente mille volte /
nell’incantesimo della notte. Nella sezione centrale il canto tace,
come inadeguato alle emozioni
da esprimere ed è sostituito da
una sublime meditazione del
primo violino. Solo nelle ultime due battute del
discorso solistico affidato al violino la voce si
ripresenta.
L’ultimo Lied Nel crepuscolo (su testo di Joseph von Eichendorff ) è la metafora di un itinerario verso il sole che tramonta: un uomo e una
donna, che hanno camminato a lungo tenendosi
per mano in silenzio, si fermano nel momento in
cui stridono le allodole e l’astro sta per scomparire tra purpurei riflessi. Il grande accordo iniziale
ricorda il tema del sole della Sinfonia delle Alpi
(1915). Nel finale, prima che i flauti disegnino
con i loro trilli un mahleriano Naturlaut che allude
allo stridio delle allodole, le viole citano il tema
conclusivo (la trasfigurazione) dal poema Morte
e trasfigurazione: Attraverso affanni e gioie / siamo
passati tenendoci per mano;/ ci riposiamo ora dal
peregrinare / in una terra silenziosa./ Tutt’intorno
declinano le valli,/ già l’aura s’imbrunisce,/ solo
due allodole si levano / sognando nella brezza
profumata./ Accostati e lasciale aleggiare,/ presto sarà tempo di dormire,/ non smarriamoci / in
questa solitudine./ O pace immensa, silenziosa,/
così profonda nella luce purpurea del crepuscolo!/
Come siamo stanchi di peregrinare-/ è questa forse
la morte? Sono proprio le ultime parole de Nel
crepuscolo che danno il senso all’intero gruppo
di Lieder: l’esistenza si spegne nel sole del tramonto. Non è disperazione né rassegnazione, ma
l’intenso e commovente riposo nella pace della
natura. Il dubbio esistenziale viene risolto dalla
consolazione di perdersi con la persona amata
nell’eternità del Tutto.
Con un linguaggio musicale tardoromantico,
scevro da qualsiasi adeguamento sperimentale
e modernistico, Strauss reinterpreta, con il suo
testamento spirituale, l’eterno mito del finis vitae
nella caduca esperienza di noi mortali.
Ruggero Prospero
Stipendium Bayreuth 1992
Docente di Filosofia e Storia
Liceo scientifico “Giordano Bruno”
Mestre-Venezia
41
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
FISICA
Dal mondo macroscopico
al microscopico:
N
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la soglia tra due mondi
el 1966 Asimov pubblica il “Viaggio
allucinante”. Soggetto della narrazione
è un sommergibile miniaturizzato che
viene iniettato, con tutto con il suo equipaggio,
nella vena di un uomo allo scopo di curargli un
embolo. Durante il viaggio fino al cervello il sommergibile incontra un mondo fantastico, pieno
di pericoli, dove globuli, batteri e quant’altro
minacciano il suo cammino verso la destinazione.
Ben più strano e misterioso sarebbe il viaggio
nel mondo microscopico degli atomi, se potessimo effettuarlo, miniaturizzati con un procedimento simile a quello di Asimov. Proviamo, ad
esempio, a filmare con una cinepresa le volute
di fumo di una sigaretta.
Man mano che prosegue la nostra miniaturizzazione, osserviamo quanto segue: all’inizio,
ci accorgiamo della sequenza temporale delle
immagini, quelle che vengono prima e quelle
che vengono dopo. Da un certo punto in poi,
man mano che si accentua la miniaturizzazione,
questo non è più possibile: osserviamo semplicemente un susseguirsi casuale e disordinato di
urti tra le molecole senza distinguere la sequenza
temporale delle immagini: è scomparso il fluire
del tempo, non possiamo più misurare la temperatura del fumo poiché questa è una variabile
macroscopica derivante dalle medie quadratiche
delle velocità delle singole molecole, il cui nu-
mero in un centimetro cubo è maggiore di un
milione di miliardi di miliardi.
Se ora proviamo a miniaturizzarci per entrare
nel mondo degli atomi, osserviamo fenomeni ancora più strani: ci troviamo nel mondo dei quanti
e delle loro stranezze dove la logica del mondo
macroscopico viene meno facendoci rimanere
disorientati.
All’interno di un atomo troviamo alcune
particelle note a tutti: l’elettrone, il protone, il
neutrone, e una miriade di altre particelle meno
note che, a differenza delle prime, sono instabili
poiché si formano e si distruggono continuamente con una vita media di miliardesimi di secondi.
Anche il neutrone è instabile, ma la sua vita media
è di circa 8 minuti quindi abbastanza facile da
osservare prima che decada in un protone, un
elettrone e un neutrino. Il protone, a sua volta,
al suo interno contiene altre particelle chiamate
quark. Non ci dilunghiamo sulle caratteristiche
di queste particelle, vediamo piuttosto cosa
hanno di strano descrivendo un esperimento
visualizzato nella figura seguente: c’è una parete
con due fenditure e una mitragliatrice che spara
delle pallottole:
chiudiamo la prima, poi la seconda, quindi
apriamole tutte due; mentre su uno schermo
vengono visualizzati i punti colpiti dalle pallottole nei tre casi suddetti. Osserviamo ciò che ci
saremmo aspettati essendo le pallottole oggetti
macroscopici.
Ripetiamo l'esperimento ponendo davanti
alle fenditure un apparato che produce delle
onde che le attraversano. In questo caso, quando
apriamo contemporaneamente le fenditure si
forma una figura di interferenza; anche questo
risultato era da aspettarsi poiché le onde interferiscono tra di loro.
Adesso, se ripetiamo l'esperimento con un
fascio di elettroni, osservando lo schermo dove
vanno a finire,ci rendiamo conto che questi si
comportano come un’onda. Se però osserviamo l'elettrone nel momento in cui attraversa la
fenditura, siamo in grado di fare delle misure che
ci dicono che è una particella materiale. Viene
spontanea la domanda: l'elettrone è una particella o un'onda? La logica classica ci dice che
è una delle due cose e che l'una esclude l'altra:
tertium non datur.
Ma nel mondo microscopico le cose stanno
diversamente: la risposta a questo quesito, che ha
fatto sudare le migliori menti degli
scienziati per una ventina di anni
sin dai primi del novecento, è che
la realtà non esiste in sé ma è creata dall’osservatore nel momento
in cui decide di effettuare l’esperimento. Nel nostro esperimento,
quindi, se si osserva lo schermo è
un’onda, se si osserva da dietro la
fenditura è una particella.
Questo risultato fa a pugni con
la nostra logica che deriva dal fatto
che normalmente osserviamo oggetti macroscopici. D’altra parte, l’esperimento della doppia
fenditura ha avuto una formalizzazione matematica che ha permesso lo sviluppo tecnologico
dei nostri tempi, dal computer alla televisione,
ai telefonini, ai trasporti.
Le stranezze nel mondo microscopico non finiscono qua. Siamo abituati a pensare che di un qualsiasi oggetto, facendo le misure opportune, possiamo determinare la posizione e la velocità con qualsiasi grado di precisione; per le particelle microscopiche non è così, poiché per queste vale la relazione
matematica dovuta ad Werner Karl Heisemberg
(Principio di indeterminazione di Heisenberg)
Δx è la media quadratica degli errori che si commettono su un numero rilevante di misure atte a
stabilire la posizione di una particella; allo stesso
modo, poiché p (quantità di moto) = m • v (massa per velocità), per determinare p occorre fare
molte misure di v, e fare la media quadratica degli
errori di misura. Ovviamente, la certezza sulla posizione implica che Δx = 0 e quindi il prodotto Δx
moltiplicato per Δp dovrebbe essere uguale a 0;
allo stesso modo, se misuriamo con la massima
precisione, la velocità. La relazione:
ci dice che questo non è vero, cioè avremo
comunque una incertezza per quanto riguarda
la posizione e la velocità di una particella indipendentemente dallo strumento adoperato per
quanto sofisticato questo possa essere.
Quali conseguenze può avere questa relazione? Una conseguenza è che un elettrone, allo stesso modo delle altre particelle
quantistiche, esiste in una zona di spazio
dove a ogni punto può essere assegnato
un numero che indica la probabilità che
ha l'elettrone di trovarsi in quel punto. Se
immaginiamo l'elettrone chiuso dentro
un recipiente dalle pareti più sottili della
sua zona di probabilità, può come un
fantasma attraversarne le pareti. Un’ap-
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Strumenti/Liminarismo
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Nanotecnologie
Microscopio a effetto tunnel
plicazione di questa caratteristica è
il microscopio a effetto tunnel che
è usato in moltissimi campi della
ricerca scientifica: nello studio delle
superfici dei materiali, dove la sua
alta risoluzione permette praticamente di visualizzare i singoli atomi
presenti sulla superficie del solido;
nel controllo della produzione di
materiali, dove un microscopio,
accoppiato con un elaboratore elettronico, permette di controllare se
le superfici dei materiali prodotti corrispondono
a un modello dato.
Nei principali laboratori di ricerca, si sperimenta la possibilità di utilizzare i microscopi a
effetto tunnel non come microscopi veri e propri,
ma come pinze atomiche. In opportune condizioni, infatti, la punta del microscopio a effetto
tunnel può trasformarsi in una calamita per uno o
più atomi presenti sulla superficie del campione.
È così possibile usare la punta per spostare gli
atomi sulla superficie di un solido. Questa tecnica
permette quindi di costruire materiali contenenti
impurezze ben localizzate
Feynman, premio nobel per la
fisica nel 1965, diceva delle particelle
quantistiche che “sono tutte ugualmente folli”; il suo genio aveva già
intuito che dalla follia di queste particelle un giorno si sarebbe arrivati
alle nanotecnologie e ai computer
quantistici, settori della tecnica in
fase di avanzato sviluppo che ha
già permesso notevoli realizzazioni
pratiche, sopratutto nel campo delle
nanotecnologie, cioè nel mondo microscopico,
regno della incertezza e della probabilità. Quello
che Asimov solo 50 anni fa aveva scritto nel suo
libro “Viaggio allucinante” è in parte già divenuto
realtà in quanto le nanotecnologie oggi permettono di fabbricare motori molecolari in grado di
trasportare farmaci esattamente nel punto del
corpo dove è necessario senza coinvolgere e fare
danni ad altre parti del corpo.
Giovanni Cimino
Docente di Matematica e Fisica
Lamezia Terme (Cz)
Analisi testuale
L’allusivo e pregnante testo de
La Spiaggia di Vittorio Sereni
rivela che in una liminare “terra di mezzo” esistono persone
escluse, emarginate, ridotte
a pure toppe di inesistenza.
Macchie evidenti nella società,
che ognuno si rifiuta di vedere.
Ma che sono pronte a farsi movimento e luce.
L
’incipit della lirica La spiaggia (1965) di
Vittorio Sereni ha come protagonista una
voce beffarda, che, fuoriuscendo dalla cornetta, annuncia senza alcuna emozione: “Se ne
sono andati e non torneranno più”. Questa sembra una notizia di cronaca quotidiana, mediocre
e ordinaria, a cui, tuttavia il poeta non si rassegna.
Anzi va avanti in una disperata ricerca, alla riscoperta dei suoi amici, dei “morti di ogni tempo”
celati oltre l’apparenza di un sottile raggio di
sole, che si infrange su una spiaggia inesplorata.
Incatenati in regioni limitrofe della nostra
realtà, torneranno. Sì torneranno -e Sereni ci
invita a non dubitarne- e, manifestandosi sotto
forma di vita e riscatto, finalmente, parleranno.
Siam pronti
a varcare
la soglia
Nel realizzare la poesia, l’attenzione dell’autore si
è intensamente focalizzata sull’intento di svelare
il volto della morte. Essa è un baratro. Risucchia
persone, speranze, ricordi. Li seppellisce sotto
montagne di sabbia, pur non eliminandoli del
tutto. Li incatena sul confine tra oblio ed evidenza.
Sereni non è fatalista: non si arrende alla
cruda realtà. Ci chiede di non cedere alla dimenticanza e di riportare alla luce i morti latenti
dentro di noi. Ma i morti rimangono silenti, non
reagiscono allo sguardo del poeta, sfuggono alla
sua indagine svanendo alla stregua di sostanze
eteree che si disperdono nell’atmosfera. Ignorano
45
il poeta, come se egli non esistesse, come se tutto
fosse continuamente rimosso e soppresso dal
masso impetuoso della realtà.
“I morti non sono quel che di giorno in
giorno va sprecato” sostiene Sereni, “ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere, pronte a farsi
movimento e luce” (vv. 11-12). Come funamboli,
i morti stanno in equilibrio sui fili sottili dei loro
destini, che l’autore intreccia in
un’unica entità: Sereni accosta
(nel v. 9) ad un soggetto plurale (“I morti”) un predicato al
singolare (“è”). Riportano alla
mente quei pensieri minuti e
insignificanti, che ogni giorno
rimuoviamo dalla nostra memoria per fare spazio ad altri.
E corrispondono ad essi. Si
incarnano nei popoli devastati
dalla storia e poi dimenticati,
negli usati gesti quotidiani,
considerati scontati, dai quali
si desidera evadere.
L’intreccio, però, si scioglie
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
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presto (Sereni nei vv. 11-12 ritorna a parlare al
plurale) e ogni filo si trasforma in una toppa, una
“toppa di inesistenza”. Una toppa è una realtà
evidente: si pone sul tessuto smagliato della
realtà, ne ricopre e nasconde i buchi e le falle, lo
tiene unito. Ma l’occhio umano non vi attribuisce
alcuna rilevanza. Le toppe sono chiari simboli di
invisibilità, paragonate a quei timidi raggi di luce
che infrangono le nuvole per illuminare dei punti
casuali sulla spiaggia. Dunque, al tempo stesso
sono mobili e paralizzate, oscure e abbaglianti.
Sereni esprime questo concetto attraverso il parallelismo tra “calce o cenere” (v. 11) e “movimento
e luce” (v.12).
La dinamicità del movimento si staglia contro
la fredda immobilità della calce. Il fuoco ardente,
ormai ridotto in cenere, ritorna vivo e luminoso.
Dunque la scelta di questi termini, apparentemente di uso quotidiano, nasconde un intenso
simbolismo. Le situazioni comuni che danno
spinta all’intero sviluppo della vicenda, rendono
semplice al lettore introdursi sulla “spiaggia”
di Sereni, ma difficile venirne fuori: non si può
più tralasciare l’inesistenza delle toppe, la vita
dei morti.
La chiave per raggiungere quest’obiettivo,
Sereni la evidenzia attraverso un enjambement
e una forte funzione conativa (“Non dubitare”,
vv. 13-14). Il mare, allegoria della vita, attività
continua dalla forza travolgente, è la rappresentazione perfetta dei morti e dell’azione che stanno
per compiere: parlare. E proprio nel momento in
cui Sereni si trova investito dal mare e ottiene la
consapevolezza che i morti non rimarranno tali
per molto, egli entra a far parte del loro moto di
luce turbinosa e comprende che la speranza si è
trasformata in profonda consapevolezza.
Dunque Sereni ha voluto esprimere la sua
idea di morte attraverso il concetto liminare di
“spiaggia”, luogo che simboleggia la “terra di
mezzo”, dove i morti sono stati abbandonati e
dalla quale evaderanno, trascinati dalla furia
imponente del mare. Terra che, invece, Ariosto
immaginava corrispondesse alla Luna. Nell’Orlando furioso, infatti, è proprio lì che dimorano le
cose smarrite, le persone dimenticate. Astolfo si
reca sulla Luna per recuperare il senno perduto
di Orlando e permettere all’eroe di vincere la sua
battaglia. Ma per Sereni non è così semplice: i
morti torneranno alla luce solo per coloro che
sapranno uscire dal labirinto della società, che
continuamente lascia indietro ciò che non le è più
utile, per guardare al mondo da un’ottica nuova,
intrisa di curiosità e ottimismo.
Un secolo prima di Sereni, anche il pessimista
Schopenhauer, nella sua celebre opera, Il mondo
come volontà e rappresentazione, sintesi della sua filosofia
della voluntas, ha manifestato
la speranza che un sentimento spesso trascurato, la pietà,
possa contrastare quell’entità,
tiranna e manipolatrice, che
trasforma tutti gli uomini in
morti, privandoli della libertà di agire, di decidere della
propria vita. Gli stessi morti
che sfilano tra le pagine di
Dubliners, raccolta di racconti
scritta da James Joyce. I Dublinesi di Joyce attraversano una
fase di epiphany (“manifestazione”). Vorrebbero fuggire
dalla città opprimente, ma
sono incapaci di recidere il
cordone ombelicale che li lega a Dublino. Eveline,
uno dei personaggi più enigmatici della raccolta,
pronuncia la parola “escape” mentre, persa nei
suoi pensieri, si rende conto che l’unico modo
per salvarsi dalla pazzia è lasciare casa sua e la
sua città. Ma la ragazza non sa osare, abbandonare il suo stato di morte e varcare la soglia
dell’esistenza vera.
Allo stesso modo, la donzelletta, la vec-
chierella e “il” zappatore che Leopardi dipinge
nel suo Il sabato del villaggio, sono ignorati dal
mondo, abbandonati da coloro che li illudono,
spingendoli a credere in una felicità apparente
e fallace. Sono morti, ma non sanno di esserlo.
Sono toppe, macchie evidenti nella società, che
ognuno si rifiuta di vedere.
Giovanna Tramontano
V B Liceo Classico
Questa analisi testuale è la riproduzione fedele del testo di un compito in classe svolto secondo le
modalità della Prima Prova Scritta (tipologia A), prevista dall’Esaame di Stato.
La spiaggia
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Sono andati via tutti Blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più Ma oggi
Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato 5
Quelle toppe solari... Segnali
Di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
I morti non è quel che di giorno
In giorno va sprecato, ma quelle
Toppe di inesistenza, calce o cenere
Pronte a farsi movimento e luce.
Non
Dubitare, - m’investe della sua forza il mare Parleranno.
10
Vittorio Sereni
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
Excursus liminare
Tra genio e sregolatezza
aleggia il modernismo
O
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ltre le Colonne dell’apparenza. Da
sempre il Liminarismo fa da giuntura
nel il mondo degli opposti: Ragione
e Passione si prendono per mano, generando
impulsi di sentimento pervasi da una fortissima
vena razionale che spingono l’intelletto umano
ad un livello superiore. Le porte della convenzione vengono varcate
senza mai spezzarne i cardini. Tutti potrebbero
essere definiti dei liminaristi, se solo avessero
il θυμός, l’anima emozionale, che col tempo si è
persa. Tutti potrebbero aprire quella porta, fare
quel viaggio, dire quella frase, mandare quel
messaggio, se solo varcassero la soglia della
paura che li frena e li trattiene, nelle sue strette
redini come uno schiavo in catene. Non bisogna farsi schiavizzare dalla paura,
mai. Il Liminarismo è quindi presente nella quotidianità in una forma così labile che è vagamente
percepibile solo dalle menti più argute.
Una lettura comparata di
due capolavori incardinati
sul tema del Doppio: Il ritratto di Dorian Gray di Oscar
Wilde e Heart of Darkness
di Joseph Conrad Questione di stile, sottigliezza psicologica,
capacità di carpire ciò che sta sotto: questa la
vera substantia delle cose. È necessario andare
oltre le Colonne d’Ercole dell’apparenza, come lo
stesso Dante pensava. Non è mai troppo tardi per
andare oltre: fermarsi alle apparenze in un’epoca
mediatica, in cui tutto è dettato da futili clichés
vuol dire massificarsi nella anonimità, mentre
bisognerebbe fare la
differenza sempre, in
tutto. Bisogna essere
così avanti da andare
oltre il tempo stesso. Oltre le convenzioni
culturali. Le convenzioni, ad esempio,
della letteratura antica, ispirate principalmente a quella vittoriana del ‘700 inglese,
viene scavalcata dal
Modernismo, vero
mot clé della cultura
dal 1800 fino ad oggi.
Nell’arte figurativa,
nel teatro, nella mu-
sica, nella letteratura, dal
1800 in poi è stato possibile assistere ad un boom
mediatico di novità infinite. Un vento di freschezza
ha spazzato via la polvere
accumulata, portando innovazioni fondamentali e
spingendo alcuni scrittori di
fama mondiale sul versante
della creatività. Può essere definita Art noveau della letteratura, il tema del Doppio. Due sono state, in relazione
a tale tema, le opere di maggior rilievo: Il ritratto
di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde e Heart of
Darkness (1902) di Joseph Conrad. Il tema del
Doppio in questi due romanzi è elaborato in
modo diverso. Nel testo di Wilde esso consiste
nel mettere due identità nel singolo personaggio,
mentre in Conrad le due personalità vengono
affiancate per evidenziarne i lati discordanti.
Nel Ritratto di Dorian Gray fa da protagonista
un villain, disposto a tutto per assaporare il gusto dell’eterna giovinezza al punto di vendersi
al Diavolo, facendo sì che il dipinto di Hallward
invecchiasse, mentre Dorian sarebbe rimasto per
sempre giovane e bello. Ciò succede dopo la conoscenza con Lord Wotton, il quale cinicamente
affronta la vita come una vera e propria missione
volta all’estetismo più oltranzista. Egli vive così
una vita dissoluta, ricca di piaceri, all’insegna
dell’edonismo e dell’amoralità più totale. Dopo
la morte di Sybil il quadro viene celato in soffitta
per nasconderlo al pubblico che era solito affollare la sua dimora, eccetto Hallward, che verrà
ucciso dallo stesso Dorian in preda alla follia, in
quanto considerato responsabile della sua sventura. Ogni tanto egli si reca in soffitta per deridere
la bruttezza del quadro, fino a che un giorno
stanco decide di liberarsi dal peso opprimente
del peccato pugnalandolo. I servi ritrovano ai
piedi del quadro
un Dorian irriconoscibile, vecchio,
avvizzito e con un
coltello al lato del
cuore. Il Doppio e l’Orrore. In Conrad
è tangibile sin
d a l l ’i n i z i o c h e
Kurtz si oppone alla figura di Marlow. Marlow,
protagonista principale della storia, è una persona di buon cuore; Kurtz, invece, co-narratore
spregiudicato, è disposto a tutto per fini di potere. Egli si ritrova presto a fare i conti con la realtà
della schiavitù: la sua unica preoccupazione è
rintracciare nella Colonia congolese Kurtz, il
tipico borghese inglese che spadroneggia nel
Congo Belga. L’incontro con questa spietata
figura rappresenta la Spannung della narrazione: Kurtz affronta due momenti, scanditi dalla
numerica successione temporale 3-1-3. Tre anni
49
in Africa, uno in patria, altri 3 nel medesimo
continente africano. Prima era un “buono”, desiderava venire a
contatto con una realtà sconosciuta per civilizzarla e migliorarla, pian piano gli obiettivi si son
poi focalizzati sulle forti ricchezze proprie del
territorio; diamanti, oro, fanno gola ad una mente
labile e convinta di fare successo con poco, con
gli sforzi altrui, soprattutto. Dopo ciò viene colto
da una forte febbre che lo tiene inchiodato al
letto e gli permette di riflettere sulle sue scelleratezze: “Aveva tirato le somme e aveva giudicato.
“L’orrore!”. Orrore: questa parola pervade l’inizio e
la fine di questa storia che contrappone il Bianco
e il Nero, il Bene e il Male dell’uomo, come il
Diavolo e l’acquasanta.
Elisabetta Manfredonia
V B Liceo Classico
Lyceum Dicembre 2012
Strumenti/Liminarismo
saggio breve
Lontano dagli occhi,
lontano dal portafoglio?
Historia docet: se gli immigrati
sono cristallizzati al limen della
società, ‘’gli altri’’ restano impalati, quasi inebetiti, a quello
della civiltà. Utilizzate gli occhi.
Che sono lo specchio dell’anima.
I
50
l must dell’uomo: vincere se stessi. Il
mito dell’American Dream non tramonterà
mai; ma, col susseguirsi dei decenni, esso,
trasformata la species e alterata la vox, da satiro
perverso vellica l’ambizioso animo tipico della
natura umana, rito simile a quello che avviene
nella zona amorfa delle membrane biologiche,
che separano due fasi eterogenee: in esso, per
permettere il passaggio di molte sostanze contro
un gradiente di concentrazione sfavorevole, la
natura ricorre al supporto di un enzima-carrier. E
come codesto supporto esterno fa in modo che le
sostanze organiche riescano a superare le proprie
barriere nonostante le difficoltà, così l’ambizione
spinge l’uomo a cercare di superare le frontiere,
specialmente quelle che sembrano inaccessibili.
Solo qualche secolo fa è stato il turno degli
Italiani nello sbarcare il lunario sulle coste del
mondo, per cui molti hanno posto efficientemente e definitivamente le radici somewhere else; ora
che profluvi di persone vengono vomitati fuori
da società non solo in crisi, ma del tutto dissipate,
li lasceremo davvero soli (letteralmente) come
barche in mezzo all’ oceano?
Gli Italiani non vincono, si nascondono per
inezia. Stando al 2012, le registrazioni all’anagrafe sembrano propizie: “adesso sono oltre
due milioni e 400 mila gli stranieri che vivono
nel nostro Paese con regolare permesso di sog-
giorno.” (Corriere della sera, giugno 2012) E gli
immigrati, instancabilmente, continuano la loro
scalata verso, almeno, un Purgatorio terrestre a
spogliarsi lo scoglio. Infatti, nonostante quasi il
60% delle coppie residenti in Italia, conviventi o
coniugate, siano miste tra italiani e stranieri, gli
abitanti della nostra civilissima nazione hanno
dichiarato in maggioranza di non nutrire “nulla di
particolare” nei loro confronti, espressione dell’ignavia inerziale che caratterizza l’italiano medio;
infatti “parlare è da stupidi, tacere è da codardi”,
come una volta scrisse Carlos Ruiz Zafon. Ma ciò
che spaventa i già timorati italiani è “soprattutto
l’aumento dei clandestini”.
Appena un anno fa le acque del Mediterraneo furono squassate da un terremoto sociale:
il nemico lontano, e ai più quasi sconosciuto,
del clandestino. Episodi considerati epocali si
imprimono nelle menti dei tragicomici abitanti
delle isole italiane, che hanno rivelato un alter
ego: infatti, dinanzi alle telecamere, essi si mostrano disponibili e solidali, come hanno anche
dichiarato nella stessa statistica sopracitata,
mentre dietro le porte delle proprie case restano, col fucile in spalla, come Roma ai tempi del
facondo Catone, in attesa del nemico cartaginese
proveniente dal mare.
I risultati non sono per niente buoni. Con
un’ età media di 30,4, gli immigrati in Italia sono
solo il 5%, mentre nell’Europa centrale l’ago della
bilancia oscilla tra il
20,2% svizzero e l’8,8%,
raggiunto parimenti
da Germania e Belgio.
Germania e Svizzera
sono tra i Paesi più ricchi d’Europa. Ma si può
davvero biasimare solo
il nostro governo politico? Anche in Grecia,
il cui spread è di gran lunga superiore a quello
italiano, si supera l’8% di stranieri.
Di che cosa ha paura l’Italia? Che gli stranieri
possano superare in ambizione gli Italiani e per
questo “rubare” loro il posto di lavoro in questi
tempi di crisi? Ma non riuscite a leggere nei loro
occhi la loro anima, il loro passato, la loro paura?
Ritroviamo noi stessi per ritrovare l’Italia. Forse si dovrebbe
sostenere di più chi decide di
restare, risoluzione che arresterebbe anche la cosiddetta “fuga
di cervelli”, la quale al momento
è in rapidissima crescita, dal Bel
Paese e tentare di ricostruirlo,
senza badare al colore della
pelle della mano che offre aiuto,
ma guardando, con riconoscenza, negli occhi di
queste lost souls, che hanno perso tutto, tranne
l’intramontabile speranza. Stendhal ne Il Rosso e
il Nero ha scritto: “Siate timidi, se volete, ma non
stupidi; aprite gli occhi.”
Ilaria Gigi
IV B Liceo Classico
Il testo è la trascrizione fedele di una Prova scritta di italiano, svolta in classe nell’anno scolastico
2012/2013, tipologia B (saggio breve). Le citazioni e le percentuali, a cui il saggio si riferisce, fanno
parte di documenti usati come “consegne” nella traccia.
Lyceum Dicembre 2012
51
Percorso
Il dubbio
Molteplici e variamente sfaccettati i volti del dubbio: quello dal sapore metallico che si vive
in un giorno qualunque in un campo di sterminio nazista e che si traduce in certezza dell’ultimo
rintocco; quello di Oreste, tormentato perché non sa se uccidere la madre oppure offendere la
memoria del padre; ma anche il dubbio come sospetto così sottile ed impalpabile da renderne
impossibile la definizione; e, poi, quello misto ad intuizione nel giallo in genere, ma anche nel
giallo contemporaneo al femminile.
E se, dal livello esistenziale, sia reale che immaginario, passiamo ad ambiti più specifici,
ecco che il dubbio finisce con identificarsi con la certezza innegabile da cui trarre lo spunto per
avviare un’analisi sulle geometrie euclidee e su quelle non euclidee con risultanze inaspettate
e, pertanto, lo slancio verso conoscenze che si spingono sempre oltre e inducono ad azioni non
sorrette solo dall’abitudine.
Il dubbio, insomma, come strumento di salvezza per l’umanità.
L’argomento del prossimo Percorso è:
Conoscere, trasformare, creare
Un giorno qualunque
in un campo di sterminio nazista
L’orizzonte in lontananza mostrava profili irregolari
Mutevoli come le funeste nubi dell’incertezza.
Le facce scavate facevano fatica a reggere gli occhi
Vuoti di sguardi ed assuefatti al comando.
Fango limaccioso si aggrappava alle caviglie
Trascinate a stento dagli esausti piedi:
Incolonnati, come il più misero dei bestiami,
arrancavano sicuri sul manto oscuro del destino.
Quanto avrebbero desiderato possedere l’inconsapevolezza delle bestie al macello
Pur di non assaporare ancora una volta il sapore metallico del dubbio!
Senza alcuna razionalità, con una “precisione casuale”
Si poteva oscurare la luce del sole repentinamente.
Le insegne lacrimavano ululanti scritte tedesche
Ricche di subdolo significato “sconosciuto”
Le lacrime si erano nascoste al riparo dai soprusi quotidiani,
le speranze giacevano incoscienti nel labirinto senza uscita.
Accatastati in uno spazio angusto e spogliati degli stracci,
Teste rasate e ciondolanti davano inzio alla processione…
…disperazione di dubbia consapevolezza cresceva nello “stanzone”
sovrastato da tubi metallici colorati di piccoli buchi.
Come una bestia dormiente e ferita si ridesta al cospetto della morte,
così l’ammasso senza forma si armonizzò nel rumore disperato
di pianti e urla di “fragile” attaccamento alla vita
nella certezza dell’ultimo rintocco…
Nello Agovino
Lyceum Dicembre 2012
55
Percorso/Il dubbio
primo piano
Il dubbio fecondo
degli artisti
I
56
l compito degli uomini di cultura è più che mai
oggi quello di seminare dei dubbi, non già di
raccogliere certezze. Così scriveva nel 1955
Norberto Bobbio, in Politica e cultura, suggerendo, con l’espressione più che mai oggi, che il
compito, sempre prezioso, di seminare dubbi, in
alcune epoche diventa ancora
più importante. Ma quali sono
queste epoche? E, volendo
essere più precisi rispetto alla
generica espressione uomini di cultura, a chi potrebbe
spettare il compito di fare
l’avvocato del diavolo?
Istintivamente ci verrebbe da dire che in
un’epoca di grande incertezza come quella che
stiamo vivendo non avremmo bisogno di ulteriori
dubbi. Eppure una riflessione appena un po’ più
attenta ci fa capire che invece anche nei momenti
di crisi è opportuno porsi nuove domande, per
rivedere idee o modelli di sviluppo che fino a
qualche anno prima promettevano magnifiche
sorti e progressive.
Ma forse l’opera di chi pone spunti di riflessione è ancora più preziosa nelle epoche in cui
E se il mondo, come
dicono poeti registi
o scrittori, lo affidassimo davvero ai
folli, alle donne e ai
ragazzini piuttosto
che agli uomini in
giacca e cravatta
che lo hanno rovinato?
sembra che tutto
vada per il meglio
e invece i germi
della crisi covano
come fuoco sotto
la cenere. Nell’età
in cui prevale una visione ottimistica della vita sono, infatti,
particolarmente utili l’acume e
la lungimiranza degli intellettuali
che riescono a cogliere ciò che ad
altri sfugge. Certamente, andando
controcorrente, essi rischiano di
apparire delle cassandre ma, come
scrive Leopardi nella Ginestra, la dignità di un
uomo di cultura non può essere svenduta per il
conseguimento di un facile consenso.
Ma allora, tra gli uomini di cultura, chi potrebbe svolgere in particolare questa funzione
così importante di vedetta e avvertire della
possibilità che le cose non siano come appaiono, un po’ prima che tutti gli altri ne abbiano
piena consapevolezza? Non è azzardato dire che
questo compito, insieme ad altri, possono svolgerlo scrittori e poeti anche perché ad essi non
è richiesto di dimostrare con grafici e tabelle ciò
che è suggerito dal loro sesto senso.
La nostra storia letteraria ci può aiutare nel
sostenere questa tesi.
Nel Cinquecento, in piena epoca rinascimentale, quando cioè arrivano a compimento gli
ideali di bellezza, armonia e compostezza dell’Umanesimo, un poeta, Ludovico Ariosto, esprime
controcorrente un senso di precarietà dell’esistenza con l’Orlando furioso. Infatti, nel suo
poema cavalleresco presenta ossimoricamente
come folle non solo Orlando, che, nelle Chansons
de geste, è il paladino simbolo dell’equilibrio ma,
con un’evidente incrinatura della concezione
fiduciosa dell’uomo ereditata dall’Umanesimo,
anche se stesso e l’umanità nel suo complesso.
Nel proemio dell’opera, infatti, in un’originale
invocazione alla sua donna
piuttosto che alla Musa,
Ariosto promette di completare l’opera a patto che
non diventi folle per amore
come Orlando. Inoltre nel
corso della narrazione, nel
raccontare di Astolfo che
va sulla Luna in groppa
all’ippogrifo a recuperare
il senno di Orlando, mostra
come tanta gente che sulla terra appare saggia
non lo sia affatto, perché in quel luogo c’è una
gran quantità del loro senno.
Scritto in un’epoca in cui l’Italia era teatro
della guerra tra Francia e Impero, l’Orlando furioso esprime comprensibilmente, con il tema
della follia, la crisi della fiducia nell’uomo visto
come libero artefice del proprio destino e segna
l’affermazione della concezione della vita umana
dominata da forze incontrollabili.
Certamente si potrà obiettare che il dubbio
circa la visione ottimistica o pessimistica della
realtà nulla porta alla soluzione dei problemi. Tuttavia se, quando gli artisti colgono i germi della
crisi, chi ha responsabilità politiche prendesse un
po’ più sul serio queste intuizioni, probabilmente si potrebbe intervenire in anticipo rispetto
all’esplosione di determinati
fenomeni. Parafrasando ancora Ariosto che, nel dedicare il
suo poema ad Ippolito D’Este,
chiedeva al principe, notoriamente poco attratto dalla poesia, di trovare un po’ di tempo
tra i suoi alti pensieri per i suoi
versi, potremmo invitare anche noi gli uomini di governo
o tutti coloro che hanno delle responsabilità nella
gestione della cosa pubblica, a non considerare
gli artisti degli acchiappa nuvole e di tenere più
in conto le loro intuizioni.
Nel Settecento, per esempio, un poeta satiri-
co, Giuseppe Parini, ed un
commediografo, Carlo Goldoni, denunciano la futilità
di un’aristocrazia che di lì a
poco sarebbe stata spazzata
dalla Rivoluzione francese.
Bene avrebbero fatto i nobili
dell’epoca ad ascoltare due
intellettuali che non erano
certamente dei sovversivi e che avrebbero voluto
semplicemente una classe dirigente all’altezza
del suo ruolo.
Ma forse il riferimento a qualche scrittore più
recente ci può aiutare a comprendere meglio il
ragionamento che stiamo portando avanti.
Eugenio Montale nel bellissimo mottetto
Ti libero la fronte dai ghiaccioli, entrato a far
parte delle Occasioni nel 1940 con la seconda
edizione della raccolta, presenta la donna amata,
Irma Brandeis, studiosa americana di religione
ebraica riparata in America in seguito alle leggi
razziali del 1938, come angelo che torna in volo
per portare la salvezza. La donna, cantata col
57
nome di Clizia, amante di Apollo, dio del sole e
delle arti, giunge in una giornata fredda e scura,
in mezzo ad uomini inconsapevoli, a differenza
del poeta, del suo messaggio salvifico.
Ma, perché il poeta ha voluto che una donna
incarnasse i valori della cultura e della poesia
contro la barbarie del nazifascismo e non ha attribuito questo compito fondamentale a se stesso
e alla sua poesia? In contrasto con una tradizione
che vedeva nel poeta un vate o un portatore di
valori fondamentali per la società, Montale dichiara di non avere formule che possano rivelare
certezze o verità e di poter dire solo ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo. Quanto agli altri
uomini, presentati nel mottetto come inconsapevoli, sono altrove, con invidia mista ad ironia,
definiti sicuri, amici
a se stessi e agli altri,
incuranti degli aspetti più oscuri della loro
personalità, dove si
accumulano ansie e
incertezze.
La donna, dun-
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
que, nelle vesti di visiting angel, può essere per
Montale qualcosa di più e di nuovo rispetto agli
uomini, nelle cui mani è stato per lungo tempo
saldamente il potere. E questa fiducia nel potere
della donna accompagna Montale in tutta la sua
produzione se, nella lirica L’anguilla del 1948,
Clizia è assimilata all’anguilla, l’animale che è
capace di riprodursi nel fango e se, nel cantare
la propria moglie, col nomignolo di Mosca, il
poeta ne riconosce il buon senso e la capacità
di adattarsi alla realtà.
Sembra che Montale, scegliendo la donna,
voglia affidare la funzione di salvezza a chi è fuori
dalla Storia con la esse maiuscola. Qualche anno
dopo, Elsa Morante farà altrettanto, quando nel
1968 pubblicherà la raccolta poetica Il mondo
salvato dai ragazzini.
E, con il riferimento ai ragazzini, passiamo ai
nostri giorni, con un breve cenno al recentissi-
58
mo film che Bernardo Bertolucci ha realizzato,
partendo dal romanzo di Niccolò Ammaniti, Io
e te. È questa l’ultima fatica del famoso regista
costretto sulla sedia a rotelle che, con una delicata attenzione al mondo degli adolescenti,
esprime la convinzione che due fragilità possano
generare una forza. Le due fragilità sono quelle
di Lorenzo, un ragazzo problematico alle soglie
dell’adolescenza e della sorella Olivia, eroinomane. Una settimana trascorsa lontano dal mondo
degli adulti fa in modo che entrambi trovino la
forza per andare avanti, in uno scambio di amore
che li rafforzerà.
Ma allora ci sorge un dubbio: e se avessimo
sbagliato tutto? e se il mondo, come dicono poeti
registi o scrittori, lo affidassimo davvero ai folli,
alle donne e ai ragazzini piuttosto che agli uomini
in giacca e cravatta che lo hanno rovinato?
Elsa Franco
LETTERATURA greca
I dubbi
amletici
di Oreste
L’eroe greco, noto per il matricidio perpetrato per vendicare
il padre, è – secondo un’interpretazione generalmente diffusa – prototipo
di uomo che di fronte a un atto di tale gravità sceglie l’azione senza dissidi interiori. In realtà, nella tragedia Coefore di Eschilo, Oreste è antesignano di Amleto.
1. Oreste, l’eroe “burattino”
La figura dell’eroe, Oreste è stata nel corso
della storia soggetta a vari adattamenti e il suo
gesto disumano ha dato luogo a diverse e sottili
interpretazioni. Anche Pirandello nel cap. XII de
Il fu Mattia Pascal diede una personale “rilettura”
in chiave moderna del personaggio:
La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo
Paleari. - Marionette automatiche, di nuova
invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via
dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe
da andarci, signor Meis.
- La tragedia d’Oreste?
- Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà
l’Elettra. Ora senta un po’, che bizzarria mi viene
in mente! Se, nel momento culminante, proprio
quando la marionetta che rappresenta Oreste è
per vendicare la morte del padre sopra Egisto e
la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta
del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarreb-
be terribilmente sconcertato da quel buco nel
cielo. - E perché?
- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con
smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli
andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni
sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena,
e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma,
diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor
Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste
in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
Nel voler rimarcare la netta differenza rispetto ai personaggi moderni (“amletici” e lacerati dal vuoto di certezze, dalla caduta di valori
personificati dal “buco” nel cielo di carta, come
il protagonista Mattia/Adriano), Pirandello definisce Oreste prototipo di “burattino”, ovvero
personaggio tipico del mondo tragico antico,
che ritrova un saldo sistema di valori a guidare
le sue azioni, inserito in un orizzonte assoluto in
cui l’uomo assume un’identità precisa.
In realtà, se consideriamo bene, nella tragedia greca gli eroi – e anche Oreste – non sono
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Percorso/Il dubbio
affatto “marionette” sicure della scelta che si
apprestano a operare: i protagonisti tragici sono
spesso dilaniati da dubbi che nascono dal profondo della loro coscienza e, anche se non implicano come in Pirandello la solitudine dell’uomo
moderno di fronte alla realtà vuota e illusoria,
evidenziano la difficoltà di operare dell’uomo in
generale fra volontà e necessità. In verità, Oreste
è combattuto fra l’uccidere sua madre Clitemnestra vendicando così suo padre Agamennone e il
non uccidere, lasciando invendicato suo padre e
disubbidendo a un ordine religioso impartito dal
dio Apollo. L’azione presuppone una colpa; i suoi
dubbi divengono emblematicamente “tragici”:
nel momento in cui Oreste alza la mano, vendica
suo padre, ma quando l’abbassa per colpire, cade
nella colpa, uccidendo sua madre.
60
2. L’Oreste di Eschilo di fronte a una scelta
“disumana”
A costruire il vero personaggio tragico di
Oreste fu Eschilo nelle Coefore, secondo dramma
della trilogia Orestea, composta e rappresentata
nel 458 a.C. Nella tragedia Oreste ha ricevuto il
vaticinio da Apollo, che gli ha ordinato di uccidere gli assassini, minacciandolo in caso contrario
della vendetta delle Erinni e di terribili sofferenze
(vv. 269‑296); tuttavia anche altre motivazioni
inducono il giovane alla vendetta: il dolore per il
padre morto, la povertà opprimente, la tirannide
imposta ai suoi concittadini; il figlio di Agamennone rivendica inoltre il ruolo che gli spetta, quello di legittimo successore ed alter ego del padre,
che deve riprendere il posto che gli compete.
Ai vv. 306-478 troviamo il centro materiale ed
ideologico non solo delle Coefore, ma dell’intera
trilogia: un lunghissimo commo serve a invocare
lo spirito del re a soccorso del suo vendicatore;
questo è il “nodo problematico delle Coefore” perché, se prima del commo Oreste era già deciso a
uccidere la madre, perché minacciato dall’oracolo
di Apollo, ora è ancora più deciso: rivivendo l’uccisione del padre, egli ha interiorizzato la spinta ad
agire. La pressione esterna, pertanto, si trasforma
in un impulso interno, in autonoma decisione. Il
coro avalla subito le parole di Oreste (vv. 386‑390)
e più avanti il giovane, rivolto idealmente alla ma-
dre, ne preannuncia apertamente l’uccisione, pur
mostrando un evidente turbamento interiore:
“pagherai l’oltraggio inflitto a nostro padre,
gli dèi mi aiuteranno,
queste mie mani mi aiuteranno.
A patto di ucciderti, sono pronto a morire”
(vv. 435‑438).
Da questi versi sembrerebbe non esserci in
Oreste un vero e proprio dramma psicologico: “il
suo conflitto non è infatti interiore, tra due scelte
ugualmente sofferte, ma si sviluppa su un piano
eminentemente sociale e culturale. Egli non ha
scelta (v. 298), deve portare a termine il castigo
perché a questo lo spingono i condizionamenti sociali della vendetta e i doveri rituali verso
lo spirito offeso del padre, oltre che le ragioni
politiche della riconquista del potere da parte
della legittima dinastia regnante” (G. Guidorizzi,
Il mondo letterario greco, vol. 2, t. I, p. 102).
Nella parte conclusiva del primo episodio,
Oreste apprende dal coro quale sia stato l’incubo
notturno di Clitemnestra: la regina aveva sognato di partorire un serpente, di avvolgerlo in fasce
come un bimbo e di allattarlo; ma il serpente le
aveva morso il seno, provocando l’urlo di terrore
nella notte. Oreste interpreta immediatamente
il sogno: “sarò io, io, il serpente, a ucciderla” (vv.
549‑550); il figlio rivela ora la natura viperina che
ha ereditato dalla madre. Per combattere la madre,
Oreste è costretto a divenire uguale a lei, ad usare
le stesse sue armi, a macchiarsi della sua stessa colpa. Oreste, sempre sicuro e deciso, svela poi il suo
piano: lui e Pilade si fingeranno stranieri, parleranno l’accento della Focide, chiederanno ospitalità:
appena ammessi nella reggia, uccideranno Egisto
e Clitemnestra; l’inganno con cui Agamennone
era stato attirato in trappola da Clitemnestra verrà
dunque ripagato da un nuovo δλς”.
Nel terzo episodio, avviene l’acmé tragica:
muore prima Egisto: Oreste, lo invita a entrare
nella reggia. Egisto ubbidisce, pochi istanti dopo
giunge dall’interno il suo urlo di dolore. Un servo bussa freneticamente alla porta del gineceo;
è Clitemnestra ad aprire, mostrando di avere
perso il controllo del palazzo; chiede notizie, il
servo risponde con una frase lapidaria: “io dico
che i morti uccidono i vivi” (v. 886); Clitemnestra
capisce il senso della battuta (che allude anzitutto
ad Oreste, ma anche ad Agamennone) e chiede
una scure per difendersi; ma non c’è più tempo:
Oreste è già davanti a lei pronto per ucciderla. Il
dialogo tra ma­dre e figlio è intensissimo, carico
di tensione: quando Oreste conferma la morte di Egisto, sfugge alla regina un’espressione
d’amore per il suo amante: “Dio mio, sei morto,
amatissimo Egisto!” (v. 893). La battuta accentua
il furore di Oreste: la clemenza latente di Oreste
si sgretola dinanzi alla donna di Egisto (U. Albini, Compattezza nelle Coefore, in Dioniso Istituto
Nazionale del Dramma Antico, Siracusa- volume
XLVIII, 1977, p. 18).
Ma Clitemnestra gioca disperatamente la
sua ultima carta, scoprendo il seno e chiedendo
pietà al figlio (vv. 896‑8); il giovane vacilla, esita,
abbassa la spada: “si può ben comprendere che Oreste esiti; egli è
scisso tra due opposte pulsioni che
provengono non dal suo animo,
bensì da condizionamenti sociali e
culturali: il diritto materno fondato
su profondi legami di sangue, e
quello paterno che appare piuttosto di natura sociale” (G. Guidorizzi,
p.113). Incerto e tormentato, Oreste
chiede consiglio a Pilade:
“Pilade, cosa devo fare? Risparmiare mia madre?” (v. 899).
Le parole dell’amico, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, ribadiscono
inesorabilmente la volontà di Apollo: “E allora
gli oracoli del Lossia, i vaticini della Pizia, la fede ai
giuramenti? È meglio avere come nemici gli uomini
tutti piuttosto che gli dèi” (vv. 900‑902).
L’ultimo drammatico dialogo tra madre e
figlio avviene nella forma incalzante della sticomitia: ai diritti familiari avanzati da Clitemnestra
Oreste oppone la sua colpa, alla deresponsabilizzazione (“è colpevole il destino”) un’analoga
deresponsabilizzazione per il matricidio che sta
per essere compiuto, alla minaccia delle Erinni
materne oppone la minaccia delle Erinni paterne.
Al termine della sticomitia, Oreste esprime con
un’ultima, icastica battuta l’estrema drammaticità
della situazione:
“Hai ucciso chi non dovevi e ora soffri ciò che non
ti toccherebbe” (v. 930).
Il giovane trascina dunque la madre all’interno della reggia; subito dopo, significativamente,
non si udrà alcun urlo di Clitemnestra. Nell’esodo
appare Oreste sull’ekkyklema, che stringe in mano
la spada insanguinata; accanto a lui, sono i cadaveri di Clitemnestra ed Egisto: l’eroe pronuncia
un discorso di difesa del suo operato, ma il tono
trionfalistico si smorza in una pesante angoscia.
Dopo aver ricordato brevemente la morte di Egisto, che ha avuto la pena di morte prevista per
gli adulteri, Oreste indica il cadavere della madre, con un brivido di orrore; il
giovane, tenendo tra le mani
il drappo in cui fu avvolto il
cadavere di suo padre, dà pro61
va di un crescente disordine
mentale (cfr. vv. 997‑ 1000). Il
giovane è ormai solo. Il trionfo
di Oreste è ora svuotato di ogni
significato: “il Coro ed Oreste,
fino a questo momento partecipi nella stessa volontà, appartengono ora a due
mondi diversi; quello di Oreste è popolato dalla
presenza delle Erinni, una realtà implacabile che
inutilmente ed erroneamente il Coro interpreta
come allucinazione. Estranee alla personalità di
Oreste e forme di una realtà ineludibile, le Erinni
entrano a costituire d’ora in poi l’esperienza fondamentale del giovane” (G. Paduano).
Alcuni critici vedono in questi versi la negazione del libero arbitrio dell’uomo: su Oreste
grava un destino inesorabile, che non gli concede
scampo e il concetto dell’ereditarietà della colpa
diventa il simbolo dell’irrazionalità delle umane
sorti, di fronte a cui l’unica via di redenzione per
l’uomo è contrassegnata dal dolore che conduce
alla conoscenza, e all’accettazione del male di
vivere; altri invece attribuiscono al personaggio eschileo piena responsabilità delle azioni:
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
62
“ritroviamo qui quella duplicità di motivazioni
(ammonimento divino e volontà umana) che ci
sembrava una delle caratteristiche principali della
psicologia omerica; ma quella che là era una unità
non problematica genera qui un profondo conflitto tragico” (A. Lesky, Storia della letteratura greca,
1, p 345). A nostro avviso, egli sembra libero di
autodeterminarsi; il testo tragico insiste su questa
prerogativa della sua volontà, presentando anche
l’alternativa opposta. Oreste decide di uccidere
sua madre, ma lo decide ad un certo punto delle
Coefore, da quel momento in poi. Prima esisteva
nella sua mente la possibilità di non uccidere e
lasciare invendicato il padre. Ciò che si presenta
davanti a lui è un campo aperto in cui egli sceglie
una possibilità ed esclude implicitamente l’altra.
“Oreste è un personaggio complesso: agisce, ma
è dominato dal dubbio: è un essere scisso, quasi
amletico in questa sua incertezza fra l’uccidere la
madre, violando il più viscerale legame che lega
un uomo alla vita, oppure offendere la memoria
del padre. Oreste rivela un aspetto originale per la
psicologia del teatro eschileo, fatto di personaggi
granitici e inflessibili: il dubbio, il dolore del folle, il
rimorso, la sofferenza.” (G. Guidorizzi, p. 55). Dunque i protagonisti delle tragedie di Eschilo, anche
dietro lo schermo della “necessità” e di questo o
quel responso, risultano pienamente responsabili
dei crimini che compiono, i quali non avvengono
in un momento di irrazionale predominio delle
passioni, e poiché tali crimini commessi nell’ambito di un’unica famiglia sono tutti cosí aberranti da non
sembrare il frutto di una mente sana,
appare legittima l’ipotesi che gli Atrei
abbiano una predisposizione al delitto, potenziata dall’ambiente esterno.
Oreste è un antesignano di Amleto: contrariamente ai personaggi e
agli eroi dell’epica omerica, egli è un
personaggio indeciso, caratterizzato dal dubbio
“τ δρσω". Perfino quando è Apollo, ovvero la
divinità, a ordinargli di agire, resta titubante e
insicuro sul da farsi. Oreste è il primo personaggio “moderno”: non è più veicolato dal volere
degli dei, ma in lui si è aperto il baratro della
decisione, e perciò stesso della volontà. Non è
un caso che, in una delle più celebri interpretazioni dell’Orestea, che è quella di E. Severino ne Il
Giogo, (Emanuele Severino, “Il giogo. Alle origini
della ragione: Eschilo”, Adelphi, Milano 1989) il
finale viene interpretato come l’inaugurazione
della ragione umana e della filosofia. Oreste,
l’uomo libero dal fardello divino, si assume così
la responsabilità delle proprie azioni, e la libertà
implica anche il dubbio e l’incertezza.
3. L’Oreste “minore” di Sofocle
Sofocle e Eschilo ebbero diversi modi di
rapportarsi al problema della scelta: infatti se
Eschilo ha grande fiducia nella scelta dell’uomo
e nella giustizia divina che di conseguenza giudica le azioni umane, Sofocle ha una visione più
pessimistica del rapporto tra volontà e necessità:
le azioni dell’uomo sono guidate da una serie di
forze sconosciute e i personaggi sofoclei sono
come dei burattini in balia del destino che li manovra. L’armonica simbiosi fra destino individuale
e volontà degli dei (tipica di Eschilo) si trasforma
in rapporto enigmatico: in Sofocle la colpa non è
connaturata all’azione dell’uomo, ma a qualcosa
che lo trascende, la scelta è una conseguenza
necessaria e i personaggi non hanno una possibilità di scelta: il loro dilemma non è più quale
strada scegliere, ma come comportarsi di fronte
all’evidenza di un percorso “tragico” già segnato.
Fu proprio il personaggio Oreste di Sofocle
a generare in Pirandello l’immagine
di marionetta, perché nell’Elettra di
Sofocle Oreste, rispetto alle Coefore, si
mostra fina dal prologo ideatore astuto
e subdolo più che eroe valoroso e leale
(i termini δλς e κλπτειν si oppongono a una natura nobile e leale dell’eroe).
Oreste, in genere freddo e calcolatore, si
commuove di fronte al lamento di Elettra
nell’anagnorisis (vv. 1199 ss.) ma dopo una
prima commozione Oreste torna al consueto
atteggiamento pragmatico freddamente rivolto
all’esecuzione del matricidio. Il vero “eroe” della
tragedia è Elettra, con il suo odio e il desiderio
di riscatto della propria dignità: ella si comporta
secondo i codici aristocratici sofoclei che si oppongono all’opportunismo (δλς) di Oreste.
Infatti anche nella scena del matricidio in Sofocle
non c’è alcuna perplessità in Oreste, né occorre
alcuna battuta di Pilade; è invece preponderante
la figura di Elettra, che giunge ad espressioni di
disumana crudeltà (“Vibra, se hai la forza, un altro
colpo!”, v. 1415), è lei la personificazione di una
Erinni che chiede vendetta e giustifica il matricidio quando definisce Clitemnestra “madre non
madre” (1154).
Sofocle non dà alcuno spazio a un senso di
rimorso o di pentimento negli autori del matricidio e ha voluto che nello stesso tempo non si
assista nemmeno a slanci di esultanza da parte
dei due fratelli per il compimento della punizione degli assassini del loro padre... Sofocle ha
voluto consapevolmente concludere la tragedia
in modo assolutamente ‘deidealizzato’. Non c’è
una ‘moralÈ da ricavare dalla fine dell’Elettra …
Sofocle ha voluto più semplicemente delineare
il quadro di una situazione caratterizzata da un
desolato, cupo grigiore” (V. Di Benedetto, Sofocle,
Firenze 1983, p.178).
Rispetto ad Eschilo, Sofocle, almeno apparentemente, non presenta alcuna antinomia: Oreste
non ha esitazioni nel compiere la vendetta, né
sorgono dubbi in proposito in Elettra o nel coro;
il ruolo delle Erinni è annullato; quanto ad Apollo, Oreste conferma di agire per suo ordine (vv.
32 ss.), ma si ha l’impressione che anche senza
l’input divino egli agirebbe ugualmente, in modo
freddo e determinato. Ponendo in secondo piano l’aspetto religioso e le implicazioni etiche del
matricidio, Sofocle procede ad una rivisitazione
del personaggio di Oreste, che risulta marginale rispetto alle Coefore, abulico e tormentato,
passivo e acritico esecutore degli ordini del dio,
subdolo e cinicamente opportunista.
4. Oreste antieroe in Euripide
Nell’Elettra di Euripide Oreste, già dal prologo, appare prudente e circospetto, dichiarandosi
addirittura pronto a ripiegare in un altro paese (v.
97) in caso di pericolo: all’eroe atteso da Elettra, si
contrappone sulla scena un Oreste francamente
de­ludente, assolutamente non eroico, privo di
vere motivazioni. Manca da parte di Oreste un’esplicita dichiarazione dei motivi che lo spingono
alla vendetta, mentre “è Elettra il personaggio
che rappresenta, nella sua prospettiva, la necessità della vendetta, sin dal suo primo apparire
sulla scena” (G. Basta Donzelli, Studio sull’Elettra
di Euripide, Catania 1978, p. 90). Oreste è l’eroe
che compie il dovere controvoglia (v. 1205), è il
primo a rendersi conto del ταραγµς ["scompiglio, confusione"] che regna tra gli uomini. Se
da una parte Elettra esalta la Giustizia, proprio
il concetto di giustizia viene subito dopo messo
in discussione (vv 959‑987) da Oreste, che infatti,
appare sempre più perplesso di fronte all'imminente matricidio: il giovane contesta apertamente Apollo, accusandolo di "insensatezza" (v. 971)
e ipotizzando poi addirittura che un demone (v.
979) si sia sostituito al dio, pronunciando un oracolo "non ragionevole". Il matricidio diventa in
Euripide un 'sacrificio empio', un puro e brutale
atto di vendetta, un gesto dettato dal risentimento di Elettra contro la madre. .. un delitto
inespiabile e inescusabile" (S. Fabbri, Elettra di
Euripide,Milano 1995 p. XXV).
Ai vv. 1168‑1171, viene qui espresso il lei63
tmotiv della tragedia: la punizione è giusta, ma
la morte per mano dei figli è atroce ed ingiustificabile; si manifesta pietà per la sciagurata regina,
ma subito dopo il coro conferma la sua convinzione che la pena sia meritata. Oreste ed Elettra
dopo il matricidio ritornano in scena grondanti
del sangue materno; i due giovani sono stanchi,
sconvolti: su di essi cade un’ombra sinistra, che
è rimorso e consapevolezza. Ora che l’odio è
caduto, l’odio che velava il loro sguardo, le cose
assumono i loro nudi, desolati contorni. Nella
parte più “patetica” del commo, Oreste “rivive”
la scena del matricidio, ricor­dando il seno che la
madre gli ha mostrato per impietosirlo, le parole
supplichevoli di lei, che l’avevano “paralizzato”,
facendogli cadere di mano la spada; il delitto era
stato così compiuto in modo anomalo: “Mi sono
gettato il mantello sul volto / e ho compiuto il sacri­
ficio con la spada,/immergendola nel collo di mia
madre” (vv. 1221‑1223). Ma subito dopo è Elettra
ad assumersi, ancora una volta, la responsabilità
dell’accaduto: “Io ti ho incoraggiato / e insieme a te
ho impugnato l’arma. Ho compiuto il più orribile dei
delitti” (vv. 1224‑1226). Al termine dell’amebeo,
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i due fratelli ricompongono la salma della madre; nel compiere questo pietoso ufficio, Elettra
definisce la madre, con uno stridente ossimoro,
“adorata e odiata” (v. 1230).
Euripide pone un quesito critico di come si possa ancora credere
al matricidio. Il tema fondamentale
è la vendetta che è voluta da Elettra, ma subìta da Oreste: “abbassando” il livello dei personaggi,
caratterizzati spesso da debolezze
e contraddizioni, Euripide costruisce un Oreste tormentato, dilaniato dai dubbi,
che deve apprendere dalla sorella le motivazioni
del proprio agire e riveste, di fatto, un ruolo subalterno di mero “esecutore materiale”. Mentre
il carattere principale nel dramma è ovviamente
quello di Elettra, che, “pienamente responsabile
delle sue scelte, agisce sotto la pulsione della
passionalità e sotto la pressione degli eventi:
impugna personalmente la spada, insieme col
fratello, per uccidere la madre (cfr. v. 1225). I due
personaggi nella versione euripidea sono molto
diversi da quelli dei precedenti e di questa nuova
umanità non-eroica Oreste è il campione: in conflitto con il proprio passato, impegnato a salvarsi
la vita, egli è una figura moralmente mediocre di
cui il poeta non si cura di sottolineare né la cupa
volontà di vendetta né il tormento psicologico né
il dubbio tragico di cui era preda l’eroe eschileo.
Euripide ha scarnificato il mito, spogliandolo di
tutti i connotati religiosi. L’uccisione di Egisto e
Clitemnestra è rappresentata come un semplice
fatto di cronaca nera: il mito è desacralizzato non
c’è il senso della colpa, il conflitto tra comando
divino e divieto morale. La sua opera termina
senza vincitori né vinti.
5. Un’interpretazione “esistenzialista” della
figura di Oreste: Sartre
Molti e prestigiosi autori moderni si sono
“confrontati” con il mito dei due fratelli matricidi: pur meritando una citazione i capolavori di
Hoffmansthal, O’ Neil e Pasolini, ci pare degno
ricordare la rilettura “esistenzialista” che il filosofo
J.P. Sarte fece del mito di Oreste con l’opera Le
Mosche (Les Mouches) nel 1943. Le mosche – che
“traspongono” le Erinni greche – sono il rimorso
che attanaglia sia Elettra che Oreste: il matricidio
in chiave moderna vine completamente rovesciato, l’atto sanguinoso resta, ma al prezzo di
un completo svuotamento di ogni connotazione sacrale e di un conseguente
annichilimento di valori. Oreste, inoltre,
uccidendo i re illegittimi, invece che
essere accolto come liberatore dai suoi
cittadini di Argo, rischia il linciaggio perché ha attentato alla pace civile, e perciò
costretto all’esilio.
“Ne Les Mouches, Oreste appare sulla scena
accompagnato da connotati profondamente distanti da quelli del modello greco: l’eroe sartriano
non sa cosa lo attende: la non-conoscenza del
suo destino di assassino e, ancor peggio, di matricida deve, dunque, essere considerata alla luce di
una rinnovata interiorizzazione del personaggio
che gli permette di muoversi, di oscillare, di prendere una decisione.… Costantemente soggetti a
dubbi ed incertezze, combattuti tra una dualità
interiore … i personaggi mostrano quelle stesse
complessità di individuo e relatività di storia che
saranno all’origine del romanzo moderno, segnando un distacco a posteriori irreversibile dalla
tradizione classica. L’Oreste di Sartre si inserisce,
a pieno titolo, in questo filone; nella categoria di
eroi, quindi, cui viene conferita una libertà di azione e scelta che, in modo profondo, rivoluziona la
stabilità del daimon.” (F. Battista, La vie humaine
commence de l’autre côté du désespoir. La lezione
di Macbeth ne Les Mouches, in Laboratorio critico
2012, 1 (2), p. 2)
In realtà nella sua riscrittura Sartre vuole
evidenziare la condanna alla libertà degli uomini di oggi, che non hanno scelto di esistere né
di essere liberi e questo peso li ossessiona per
tutta la loro vita. Scrive Sarte: “Egli dovrà infine
uccidere, caricarsi il proprio delitto sulle spalle e
passare sull’altra riva. La libertà, infatti, non è un
potere astratto di sorvolare la condizione umana:
è il più assurdo ed inesorabile degli impegni. Oreste
andrà avanti per la sua strada, senza giustificazioni,
senza scuse, senza ritorni, solo. Come un eroe, come
non importa chi”.
Guglielmo Caiazza
cinema
A Patrizia
Il bicchiere (di latte)
del sospetto
L
’opera di Alfred Hitchcock si offre, a chi la
prenda in esame, in una sorta di classica
angosciosa compostezza. Il suo lavoro
di regista abbraccia oltre un cinquantennio di
storia del cinema e si presenta come uno dei
corpus cinematografici più unitari e compatti
che esistano, caratterizzato da motivi tematici
e stilistici di continuo riproposti e approfonditi
e di continuo
rigeneranti le
sfaccettature
infinite di un’unica realtà, mai
interamente
scomposta e
decifrata fino
al significato
ultimo (Gian Piero Brunetta, Il cinema secondo
Hitchcock, Marsilio).
La scena più celebre del film oggetto del nostro breve saggio è proprio quella in cui si vede il
protagonista, Cary Grant, sospettato dalla moglie
di volerla avvelenare per ereditarne i beni, salire
le scale interne della loro lussuosa casa, portando un bicchiere di latte alla sua coprotagonista,
Joan Fontaine.
Vediamo come lo stesso Hitchcock rispondeva a Francois Truffaut, grande regista francese
e suo grande ammiratore, nel celebre dialogo a
due “Il cinema secondo Hitchcock”:
Truffaut. Eccoci arrivati a Suspicion. Quando abbiamo parlato
di Joan Fontaine in “Rebecca”,
mi sono dimenticato di chiederle maggiori dettagli. Ho,
infatti, l’impressione che per lei
sia stata un’attrice importante.
“Il sospetto è una cosa sottile,
così impalpabile che
nel momento stesso in cui nasce
non si sa definire...”.
Hitchcock. All’inizio di “Rebecca”
trovavo che era poco cosciente di
se stessa come attrice, ma vedevo
in lei la possibilità di una recitazione controllata e la ritenevo capace di rendere il personaggio in un modo calmo e timido. Subito faceva
un po’ troppo la timida, ma sentivo che ce
l’avremmo fatta, e ce l’abbiamo fatta.
Tr. Ha una certa fragilità fisica che non avevano
né Ingrid Bergman né Grace Kelly...
H. Penso anch’io. Per “Suspicion”, noti che si
tratta del mio secondo film inglese girato a
Hollywood: attori inglesi, atmosfera inglese,
romanzo inglese. Ho lavorato con un anziano autore teatrale, Samson Raphaelson, che
aveva collaborato a quasi tutti i film sonori
di Lubitsch.
T. Alcuni critici, che conoscono il romanzo
“Before the Fact”, l’hanno rimproverata di aver
completamente trasformato il soggetto. Il romanzo è la storia di una donna che si accorge
a poco a poco di aver sposato un assassino e infine si lascia uccidere da
lui per amore. Il suo film invece è la
storia di una donna che, scoprendo
il marito disinvolto, spendaccione
e bugiardo, arriva a pensare che
sia un assassino e a immaginarsi,
a torto, che la voglia uccidere. La
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Percorso/Il dubbio
conclusione del film tuttavia è rosea e vede i
due protagonisti di nuovo felici.
H. Avevo progettato una fine diversa: Grant
porta il bicchiere di latte avvelenato, la Fontaine è intenta a scrivere una lettera a sua
madre: “Cara mamma, sono irrimediabilmente
innamorata di lui, ma non voglio vivere. Sta
per uccidermi e preferisco morire. Ma penso
che la società dovrebbe essere protetta contro
di lui”. Poi dice a Grant che le ha appena dato
il bicchiere di latte: “Caro, per favore, vuoi
spedire questa lettera alla mamma per me ?”.
Egli risponde: “Sì”. Lei beve il bicchiere di latte
e muore. Dissolvenza, apertura, breve scena:
Cary Grant arriva fischiettando, apre una buca
delle lettere e butta dentro la lettera.
66
T. Era una soluzione molto astuta. Ho letto il
romanzo, che è bellissimo, ma trovo
che anche la sceneggiatura sia ottima. Mi sembra che il film abbia un
valore psicologico più grande del
romanzo, perché i caratteri sono
più sfumati. Sono sicuro che un
romanzo costruito sulla stessa vicenda della sceneggiatura sarebbe
stato superiore a “Before the Fact”.
H. Non sono in grado di esprimere un giudizio
a questo proposito, perché ho avuto molte
difficoltà con questo film.
T. A par te le difficoltà è soddisfatto
di”Suspicion”?
H. Non del tutto. Per questa storia, mi sarebbe
piaciuto disporre di un ambiente autentico,
non di uno ricostruito in America. Un altro
elemento debole era la fotografia, troppo
luminosa. Ma le è piaciuta la scena del bicchiere di latte ?
T. Quando Grant sale le scale, è molto bella.
H. Avevo fatto mettere una luce nel bicchiere
di latte.
T. Un proiettore puntato sul latte ?
H. No, nel latte, nel bicchiere. Perché doveva
essere estremamente luminoso. Cary Grant sta
salendo le scale e bisognava che si guardasse
solo questo bicchiere.
T. Era molto bella, veramente...
Ecco spiegato il mistero del nostro curioso
titolo.
Ma ora torniamo alla genesi del film.
Lo scrittore inglese Anthony Berkeley Cox,
che nel 1932 aveva scritto (sotto lo pseudonimo
di Francis Iles) “Before the Fact”, tre anni dopo
aveva venduto i diritti del libro alla RKO. Nel giugno 1940 Hitchcock lo scelse perché non solo
gli piacque lo strano taglio psicologico correlato
con l’ossessione della morte, ma sentiva anche
che l’ambientazione inglese
avrebbe giustificato un cast
inglese, in altre parole, star inglesi a Hollywood. Nel dicembre 1940 la sceneggiatura era
pronta, ma ingarbugliata, un
misto di umori, stili e pulsioni
che non avrebbe mai potuto
organizzarsi in film. Le riprese
ebbero inizio il 10 febbraio 1941 e continuarono
fino al 24 luglio.
Ma ciò che era cominciato con grande ottimismo presto si rivelò una delusione. Prima ci fu il
problema del titolo. All’epoca era abitudine degli
studios ingaggiare George Gallup per sondare
il parere dei cinefili del paese sui titoli proposti.
Risultò che il titolo “Before the Fact” aveva avuto
tiepide reazioni. Solo nel novembre 1941, pochi
giorni prima che il film fosse distribuito, i dirigenti
della RKO finalmente si misero d’accordo per un
titolo sul quale il regista aveva insistito fin dall’estate: “Suspicion”, parola che aveva attinto dal secondo paragrafo del romanzo (“Il sospetto è una
cosa sottile, così impalpabile che nel momento
stesso in cui nasce non si sa definire...”). Poi Joan
Fontaine cominciò a lamentarsi del disinteresse
che il regista mostrava per lei ed ebbe diversi
piccoli malanni. Il film, nonostante Hitchcock
fosse pronto a
disconoscerlo, al pubblico
piacque moltissimo, anche se i critici
erano divisi a
causa della rivelazione che
era tutta una
fantasia della
moglie (la Fontaine) e che il marito (Grant) era
poco più che uno spendaccione. L’idillio tra la
Fontaine e il pubblico continuò senza perdere
vigore e per questa interpretazione lei poi ricevette l’Oscar come migliore attrice protagonista.
“Suspicion” può essere considerato una summa della poetica del regista inglese.
Il personaggio interpretato dalla Fontaine
(Lina) appartiene a una categoria di donne insicure, profondamente romantiche, dominate da
complessi di inferiorità, introverse ed esposte ad
ogni possibile violenza da parte degli altri. Ma si
tratta di donne egualmente disposte a sacrificare
la propria vita per amore, anche se
nel film il sospettato avvelenamento da parte del marito John, interpretato da Cary Grant, si riduce alla
fine a una casuale serie di equivoci
e di coincidenze architettate dal regista per confondere lo spettatore.
Per il personaggio di Lina il
regista cerca una motivazione
pertinente e ben individuata al
suo comportamento nevrotico e
indeciso, e la trova nell’autorità
della famiglia, soprattutto la figura
carismatica del padre e il senso di sfiducia che
le hanno comunicato i genitori (vedi i discorsi
che sente dalla finestra sul fatto che ormai il suo
destino è segnato: “Lina sarà destinata a rimanere zitella...è intelligente, ha un carattere nobile,
ma...”). Sono queste parole a segnare la svolta del
film: la protagonista sarà travolta dall’amore per
John, un amore nato in fretta che porterà ad un
altrettanto frettoloso matrimonio. Questo amore
intenso, tipico di molti film del regista, si fonderà
ben presto con la paura di aver sposato un uomo
senza conoscerlo. È proprio a questo punto che il
sospetto, il vero protagonista del film (o meglio
il vero antagonista), comincerà ad agire sulla debole psicologia di Lina; ogni comportamento di
John sarà fonte di dubbi per la donna che finirà
col temere di essere
da lui uccisa.
In “Suspicion”, infatti, l’istituto matrimoniale è insediato
da ombre non bene
delineate, da uno
stravolgimento degli
indizi da parte della
protagonista, affettivamente sempre più insicura e sospettosa. Il conflitto tra il personaggio
introverso di Lina e quello fin troppo estroverso
di John è delineato fin dalla prima scena sul treno.
I loro comportamenti sono opposti. John rifiuta l’ordine costituito (non ha i soldi per pagare
il biglietto e li chiede all’occasionale compagna
di viaggio, dopo essere entrato in uno scompar67
timento di prima classe); Lina sembra accettarlo,
è composta, legge un libro, si protegge dietro gli occhiali.
La prima occhiata che John le
rivolge, espressa da un movimento in soggettiva della macchina
da presa, passa da una considerazione delle sue gambe per poi
salire al libro che ha in mano (un
trattato di psicoanalisi freudiana)
e giungere infine a considerare il
volto. In questo solo sguardo è già
definita la fondamentale antinomia di comportamento dei due
personaggi ed il rapporto di vittima che la donna
è destinata ad avere nei confronti dell’uomo.
Lo spostamento, dopo il matrimonio, del
punto di vista dalla parte della protagonista
femminile non può che mantenersi in uno stato
di continua incertezza nei confronti delle sue
diagnosi sullo strano comportamento del marito, troppo spesso smentite dai fatti (vedi il suo
primo sospetto: Bicki, amico di famiglia, sarebbe
stato ucciso da John per denaro, ma in realtà è
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Percorso/Il dubbio
in vacanza). Nel caso di “Suspicion” il sospetto/
dubbio della protagonista la porta a deformare la
realtà. Tale deformazione della realtà circostante
avviene non secondo la sua diretta esperienza dei
fatti, ma secondo arbitrarie dilatazioni nevrotiche
di determinati elementi innestati in una catena
di casualità. L’esempio più adatto è quello del
bicchiere di latte, che diventa determinante, per
gli effetti sul clima emotivo, a causa della produttività dello spazio fuori campo. Il bicchiere è
sentito più che visto materialmente dalla protagonista con tutto il suo essere. Di qui la funzione
del primo piano che si avvicina fino al dettaglio
della luminosità del latte. Il comportamento di
Lina è motivato come complesso edipico non
risolto (il peso autoritario del padre, presente
anche in effige militaresca dopo la sua morte,
quasi a ricordare e sottolineare la continuità
della nevrosi). La celebre salita lungo la scala di
John con il bicchiere di latte è sentita da Lina,
distesa a letto e convinta di venire progressiva-
mente avvelenata dal marito, come se fossero i
passi del suo boia. L’immagine della scala quindi
rende produttivo e drammatico un altro spazio,
quello della camera da letto. Il regista non a caso
avrebbe voluto concludere il film con una lenta
dissolvenza, lasciando immaginare l’omicidio
avvenuto, ma la RKO non volle sentire ragioni
e lo obbligò a un finale piuttosto inverosimile.
Ecco dunque che si ripropongono in “Suspicion” due capisaldi della poetica hitchcockiana, le
due forze perennemente in contrasto nel cinema
del maestro: l’amore e il sospetto. Il finale riserverà allo spettatore una sorpresa (non certo la
prima del film): non sarà il protagonista, l’amore, a
trionfare bensì l’antagonista, il sospetto. Un finale
così non potrà che risultare discrepante, non solo
con l’armonia e la coerenza della sceneggiatura,
ma soprattutto con la natura di Lina, che, per
tutto il film, si era dimostrata così innamorata da
esser pronta persino al sacrificio.
Francesco Sarno
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Scheda tecnica del film
Anno: 1941.
Titolo: Suspicion (Il sospetto).
Casa di produzione: RKO.
Regia: Alfred Hitchcock.
Soggetto: dal romanzo di Francis Illes.
Sceneggiatori: Samson Raphaelson, Joan Harrison, Alma Reville.
Fotografia: Harry Stradling.
Interpreti: Cary Grant (Johnnie Aysgarth), Joan Fontaine (Lina Mac Kinlaw), Sir Cedric Hardwike
(generale Mac Kinlaw), Nigel Bruce (Beaky).
Letterature straniere
Il dubbio e l’intuizione
nel giallo contemporaneo
al femminile
Breve introduzione alla lettura delle opere di
A. Holt, A. Gimenez-Bartlett e E. Aykol
C
os’hanno in comune Hanne Wilhelmsen,
Petra Delicado e Kati Hirschel? Sono tre
investigatrici nate dalla penna delle scrittrici contemporanee Anne Holt, norvegese, Alicia
Gimenez-Bartlett, spagnola, ed Esmahan Aykol,
turca. Tre personaggi femminili per tre europee
di nascita o di cultura, ma senza dubbio di grande esperienza di vita, certo capaci di apportare
elementi di novità in una tradizione consolidata:
la straordinaria intuizione delle loro eroine, che
segue il dubbio sugli elementi raccolti e sulle ipotesi investigative formulate; lo scenario (tre città,
Oslo, Barcellona, Istanbul, non tanto descritte
quanto “vissute”); infine, la condizione di chi svolge una professione (nel caso di Kati Hirschel, una
specie di hobby) che ancora sfugge al consueto.
Hanne, Petra e Kati lottano per affermarsi, e lo
fanno in una società, nonostante tutto, piena di
pregiudizi sulle donne e le loro scelte. Anne Holt,
prima ancora di dedicarsi alla scrittura di romanzi
gialli è stata giornalista, poliziotta, avvocato e per
due anni ministro della Giustizia norvegese. La
sua vasta esperienza
di vita e di lavoro le
consente di creare
un giallo realistico
che, se da una parte
si inserisce nella tradizione scandinava
del giallo dagli anni
Settanta del Nove69
cento, dall’altro strizza l’occhio all’hard
boiled statunitense.
Nello stesso tempo, fornisce un continuo spaccato della vita privata dei suoi personaggi, alternandolo alle loro indagini e mostrando la corruzione
di una società generalmente ritenuta civilissima,
quella norvegese, anticipando, dal punto di vista
fantapolitico, solo di qualche decennio orrori
inusitati (simili alla strage di Oslo ad opera di
Anders Breivik).
Hanne Wilhelmsen è una trentacinquenne
ispettrice di polizia, molto bella e di provate
capacità investigative, che percorre la carriera
con determinazione, ma anche con correttezza
e femminilità. Ha frequentato l’Accademia di
polizia con molti colleghi maschi di cui uno in
particolare, un gigante dalla vita strampalata,
Billy T., le diventerà amico e sottoposto e l’aiuterà validamente nelle indagini a lei assegnate. Ha
una grande passione per gli Stati Uniti e spesso si
esprime con proverbi e modi di dire anglosassoni.
Ma ha un segreto che nasconde gelosamente
al suo ambiente lavorativo: ama una donna, un
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medico con cui convive dalla fine del Liceo. Poco
alla volta imparerà a non temere questa sua situazione e anzi, pur senza volerla esternare ne
farà, anziché un suo problema di presunta disistima da parte dei colleghi, un punto di forza e
di serenità interiore. Nelle sue indagini usa tutta
la professionalità acquisita ed un metodo rigoroso, gestendo gli interrogatori dei
sospettati con oggettività ed anche con psicologia, ma arriva alle
conclusioni spesso per intuizione.
In “Nella tana dei lupi”, il presunto omicidio del Primo Ministro
norvegese (sempre una donna!)
è risolto da lei, che stavolta collabora da esterna alle indagini,
essendo ufficialmente negli Stati
Uniti per un anno sabbatico, con
la constatazione di aver eliminato
ormai tutti i possibili moventi e i
possibili responsabili pubblici e privati. Quindi,
intuisce non senza orrore che si è trattato di un
suicidio innescato dal riaffiorare di un segreto
personale del Primo Ministro. Nello stesso tempo è stato un suicidio inutile: la bimba, figlia
primogenita morta tanti anni prima per incuria
e tradimento della madre (come la donna crede)
è in realtà morta per un vaccino letale venduto
da una multinazionale tedesca al Ministero della
Sanità norvegese.
La scrittura della Holt è scarna, paratattica
e con una narrazione sempre in terza persona,
con una pluralità di punti di vista che rende i suoi
romanzi intriganti ma nello stesso tempo umanissimi, nonostante il crudo realismo dei delitti
su cui si indaga e le piccole e grandi difficoltà
e miserie della
vita quotidiana.
Vengono de scritte in parte
la vita privata e
le amicizie della protagonista,
immergendo
il privato nelle indagini ed
intrecciando le
indagini ai sentimenti, alle sensazioni del privato, spesso spunti di riflessione e di analisi su
quella che possa essere la psicologia del colpevole di un delitto. Ma Hanne Wilhelmsen rimane
nonostante tutto una outsider, non integrata
completamente nella società norvegese, come
invece sono i coniugi Johanne Vik, criminologa,
ed Ingvar Stubø, ispettore di polizia,
protagonisti dei gialli più recenti
della Holt.
Non integrata: quasi altrettanto
così si può descrivere Pedra Delicado,
la singolare protagonista dei gialli di
Alicia Gimenez-Bartlett, scrittrice
spagnola. Pedra Delicado: un nome,
un ossimoro: dura e testarda come
una pietra nella sua esteriorità, ma
femminile e sensibile nella sua interiorità, partecipe sempre e comunque
delle vicende altrui, positive o negative che siano. Per questo, infatti, la quarantenne ispettrice di polizia sembra voler indagare,
riuscendo a trovare le motivazioni nella sua vita
privata. Insofferente di tutto ciò che è ripetitivo
e consueto, amante della libertà e fermamente
decisa a realizzarsi pur rivendicando il diritto
di sbagliare in prima persona e di imparare dai
propri errori a gestirsi la vita, Pedra è inizialmente
un avvocato barcellonese di successo, con uno
studio bene avviato insieme al marito. Ma poi,
desiderando liberarsi dalla gabbia di una promettente carriera e di un matrimonio soffocante,
compie la sua scelta, scandalosa e di rottura per
chi appartiene alla sua classe sociale: decide di
entrare in polizia. Si occupa per molti anni del
lavoro di archivio, finché la circostanza fortuita
dei troppi impegni di lavoro dei colleghi
la catapulta nel mondo delle indagini su
casi piuttosto difficili da risolvere. Le viene affiancato Fermìn Garzòn, un anziano,
burbero viceispettore di origini galiziane,
inizialmente piuttosto diffidente sulle reali capacità investigative di un ispettore di
polizia donna, pur essendo ligio al dovere
e rispettoso degli ordini dei superiori. Ebbene, grazie alle capacità intuitive, al rigore
logico, ai modi da dura dal cuore tenero e
alle battute ironiche ma sincere di Pedra, Fermìn
dovrà ricredersi e ne diventerà il fido collaboratore, comprendendone l’umanità e instaurando
con lei un rapporto prima cameratesco, condito da scambi di battute, poi di vera amicizia;
un rapporto che, con le necessarie distinzioni
spazio-temporali, assomiglia moltissimo a quello
simbiotico tra Don Chisciotte e Sancio Panza.
Alicia Gimenez-Bartlett, infatti, dota il suo
personaggio di una eccellente cultura, soprattutto letteraria, la sua, in quanto per molti anni ha
insegnato letteratura inglese e spagnola; e della
necessaria ironia che salva la vita di chi per mestiere si trova a contatto ogni giorno con scene
del crimine e delitti da risolvere che hanno sullo
sfondo ogni tipo di ambiente e classe sociale, più
spesso i bassifondi di Barcellona. Pedra parla di sé
in prima persona e ci racconta delle sue indagini,
dei suoi successi e dei suoi fallimenti sia nel lavoro che nella sua vita privata, specie sentimentali;
della necessità di rilassarsi ascoltando musica
classica la sera o prendendosi cura del suo aspetto; della sua pietà e comprensione per i colpevoli
di delitti, spesso omicidi,
quasi sempre donne, e
persino bambine reiette
della società, piccole extracomunitarie affidate
ai servizi sociali. In “Nido
vuoto”, uno dei gialli più
recenti della Bartlett,
Pedra, scoraggiata dai
deludenti risultati delle
indagini sul furto della
sua pistola d’ordinanza, che si sono in un secondo momento intrecciate con quelle su una serie
di omicidi commessi proprio con la sua arma, si
concede un momento di distrazione nei giardini
ben curati di una casa di accoglienza per bambini disagiati. Qui, mentre chiacchiera con una
simpatica e sveglia vecchietta, si accorge che i
fiori nell’aiuola vicina sono gli stessi che aveva
notato interrogando a casa di lei la vicina di un
giardiniere rumeno, una delle vittime, coinvolto
in traffici di droga.
Arriva così ad intuire chi è stato il mandante
dei delitti, commessi proprio dalla bambina che
le aveva rubato la pistola: la direttrice dell’istituto, notata già all’inizio delle indagini per il suo
carattere arcigno e scontroso, dalla rigida moralità, che aveva avuto una relazione di lavoro,
poi sentimentale col rumeno. E proprio alla fine
di questo romanzo anche Pedra e Fermìn troveranno la stabilità sentimentale: Pedra sposerà in
terze nozze (dopo un lungo periodo da single
interrotto da qualche occasionale avventura) un
architetto conosciuto durante le indagini; Fermìn,
vedovo, con un figlio che lavora negli Stati Uniti,
sposerà la sua fidanzata che appartiene alla Barcellona “bene”.
Ma i due lavoreranno ancora insieme ad altre
indagini…La simpatia che l’eroina suscita, gli intrecci curati, l’ironia e qualche spunto comico con
cui l’autrice condisce la narrazione, la sua grande
attenzione a temi sociali di attualità, inseriti nelle
vicende che racconta, hanno reso estremamente
popolari i gialli della Bartlett, tanto che la Televisione spagnola ne ha ricavato una fortunata serie
di telefilm. Ciò accomuna Alicia Gimenez-Bartlett
ad Andrea Camilleri, e i due hanno in comune
71
anche un’altra situazione:
entrambi non sono semplici scrittori di gialli e vorrebbero essere ricordati
per gli altri romanzi che
hanno ideato e composto.
Alicia Gimenez-Bartlett,
infatti, ha ottenuto diversi premi letterari anche
in Italia per le tematiche
riguardanti le donne.
Ironia e commedia di costume sono anche
gli ingredienti dei gialli di Esmahan Aykol, simpatica scrittrice turca quarantenne (di alcune
generazioni dunque più giovane della Holt e
della Gimenez-Bartlett) di formazione europea,
tedesca nella fattispecie. Laureata in giurisprudenza, ha lavorato come giornalista e barista
prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
La sua Kati Hirschel è una detective sui generis. Tedesca, figlia di un giurista ebreo emigrato
in Turchia con la famiglia per sfuggire alle persecuzioni del regime nazista, è nata ad Istanbul
e ci ha vissuto per i primi sette anni della sua
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esistenza. Tornata in Germania con la famiglia,
dopo l’università ha deciso di ritornare in Turchia
e si è stabilita di nuovo ad Istanbul, dove gestisce
una libreria specializzata in libri gialli, sua grande
passione, in uno dei quartieri più centrali, popolari e pittoreschi della parte europea. Bella donna
quarantenne, è molto corteggiata e ha una mentalità aperta e libera, ma è pur sempre definita
“la tedesca” da chi la conosce poco. Ha una solida
e viva cultura europea ma si sente stambuliota.
Ama infatti profondamente Istanbul, nel cui caos
e traffico si sente a proprio agio, pur criticandolo;
altrettanto si sente parte di un ambiente dove il
pettegolezzo, la pigrizia e il farsi costantemente
gli affari altrui sono forma mentis imprescindibile
della società, sono anzi una forma
orientale di cortesia. Ha diversi
amici giornalisti, pubblicitari e appartenenti alla città “che conta”, che
frequenta nel tempo libero.
Vive inizialmente in affitto, insieme ad un amico gay; successivamente decide di acquistare un
appartamento, avvalendosi dei
consigli fraudolenti di un’amica. Kati
indaga per passatempo, mossa da una enorme
curiosità che la porta anche a cacciarsi in situazioni ambigue o pericolose, e si ispira ai metodi
adoperati dagli investigatori dei suoi amati
gialli, sottraendo allegramente tempo alle sue
frenetiche occupazioni quotidiane e volte anche
agli incontri con amiche ed amici. Fortemente
diffidente nei confronti della polizia, secondo
un principio inculcatole da sua madre, si trova
paradossalmente a collaborare con la stessa polizia turca grazie all’incontro con l’ispettore (più
tardi commissario) Batuhan, assai attratto da lei.
Ma la sua vita sentimentale movimentata
trova un punto di (temporaneo?) arrivo nella relazione con l’avvocato Selim, comunque litigiosa
perché Kati non condivide idee ed atteggiamenti
snob degli amici del compagno, preferendo
amicizie magari più modeste, ma spontanee e
piene di voglia di vivere come lei. In “Hotel Bosforo”, il primo giallo della Aykol e forse anche il
più riuscito dei tre finora pubblicati, Kati indaga
sulla morte di un regista tedesco poco noto, ma
ingaggiato da una casa di produzione turca di
recente formazione, i cui manager sono dei noti
boss mafiosi. È coinvolta una sua amica tedesca,
attrice, che non incontra da anni; l’amica è sospettata di aver ucciso il regista per motivi sentimentali, ma solo per caso Kati scoprirà che il movente
dell’omicidio è ben altro: egli aveva fatto parte di
una rete di pedofili per i quali realizzava filmini
pedopornografici violenti; tra le piccole vittime
dei pedofili c’era stato anche il piccolo figlio
dell’amica, adottato dalla sorella e dal cognato.
E solo Kati intuirà che il regista è stato sì ucciso dall’amica, ma che ella è stata il braccio della
produttrice del film, sorella del boss mafioso, desiderosa di vendicare il rapimento,
la violenza e l’omicidio del bambino della
fidata cameriera bulgara. Qui come negli
altri romanzi, Kati verifica le sue intuizioni
parlando direttamente ed amichevolmente con le responsabili dei delitti, sempre
donne, dichiarando loro che non rivelerà
poi niente alla polizia: e mantiene la sua
promessa perché si accontenta di soddisfare solo la sua curiosità e realizzare di aver centrato
l’obiettivo, intellettivamente e umanamente. Una
conclusione che solo lo scintillante surrealismo
alla Almodovar di fatti, ambienti e situazioni
narrati dalla Aykol può raggiungere.
Si è parlato di giallo mediterraneo per Alicia
Gimenez-Bartlett; la Aykol ha molto in comune
con lei ma, al di là della ironica e scanzonata descrizione della passionalità del popolo spagnolo
e turco, e di quella della apparente freddezza e
razionalità di quello norvegese, si può senz’altro
concludere che le tre scrittrici donano alle loro
eroine la sensibilità squisitamente femminile di
sapersi immedesimare nelle ragioni delle vittime
e a volte anche in quelle dei (o delle) loro carnefici. Se è vero che “il sonno della ragione genera
mostri”, è anche vero che il debole essere umano
non vive di sola ragione, in tutti i tempi e a tutte
le latitudini.
Anna Loreto
matematica
Da Euclide a Bolyai, Lobacevskij e Riemann
Un dubbio lungo oltre 2000 anni
Ma le strida dei “beoti” kantiani riuscirono a fermare Gauss,
“il re dei matematici”, non la nascita delle geometrie
non euclidee e della teoria della relatività di Einstein
Sembra un paradosso, ma
dal dubbio sul postulato delle parallele di Euclide questi
grandi della matematica e
della fisica hanno fatto la
vera rivoluzione della scienza, la più grande della storia
Euclide
Dubium, il dubbio, per i latini
significava “stato di incertezza, esitazione ad affermare, decidere, risolvere”.Trasferirlo alla matematica, vuol
dire soffermarsi sulle congetture, sui
grandi enigmi della sua storia.
Il dubbio, possiamo dire, non è
ancora, può essere o non sarà mai
la verità.
Ecco: sciogliere un dubbio, in
matematica, in particolare in geometria, significa ricerca della verità.
E, proprio per discutere sui grandi
dubbi ancora aperti, dal 1897 si tengono i Congressi Internazionali della Matematica:
come per le Olimpiadi, vengono invitati a presentarvi il proprio lavoro coloro che la comunità dei
matematici ritiene siano i suoi migliori esponenti.
Bertolt Brecht, durante la sua esistenza, si era
convinto che “di tutte le cose sicure la più certa
è il dubbio”.
Non a caso, ancora oggi, restano aperti, come
grandi dubbi del secolo trascorso, a distanza di
oltre cento anni dal secondo Congresso tenutosi
a Parigi nel 1900, alcuni dei 23 problemi nel campo della matematica, allora esplicitati nella sua
prolusione da David Hilbert, il primo matematico
73
Gauss
Bolyai
Lobacevskij
Gauss
Riemann
Einstein
ad aver dato un assetto puramente formale e
assiomatico alla geometria.
Ma, in quell’occasione, Hilbert tenne a sottolineare che una soluzione accettabile di un
problema matematico potrebbe essere anche
una dimostrazione della sua insolubilità.
In altre parole, interpretando il pensiero del
grande matematico tedesco, si può ritenere che
il dubbio non cessi solo con il raggiungimento
della risoluzione del problema, cioè della verità
esplicita o assoluta. La prova, nascosta, della sua
non risoluzione ben può essere considerata verità
implicita o apparente.
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
74
Eppure, la storia secolare della
matematica, permeata di stati di incertezza ma anche di verità conseguite, ci
ha tramandato per anni grandi dubbi
come dogmi di fede, verità assolute.
Se andiamo per un attimo alle sue
origini, il primo dubbio lo troviamo in
uno dei pilastri portanti della geometria euclidea, quella che oggi si studia
nei licei, il quinto postulato, passato
alla storia come il postulato delle parallele che, nel 1759, D’Alembert definì addirittura
“lo scandalo degli Elementi di geometria”.
Per i matematici fu un vero campanello d’allarme: quel dubbio era durato troppo a lungo. La
bellezza di oltre duemila anni da quando, verso
il 300 a.C., Euclide lo aveva inserito nei suoi “Elementi”. Una macchia non più da nascondere ma
da approfondire.
Per tanto tempo c’era stata una sola geometria ed Euclide l’aveva catturata nel suo “libro
sacro”. Gli “Elementi”, racchiusi in 13 libri, erano
come la Bibbia per chi, allora, studiava geometria
ed erano diventati un modello di come si dovesse
fare matematica.
Tutto era organizzato secondo una logica
rigorosa, anche se Euclide era stato abile, usando
il lavoro di altri matematici.
Si definivano termini ed ogni proposizione
veniva dimostrata a partire da cinque postulati,
oggi detti anche assiomi.
I primi quattro erano:
1. Si può tracciare una retta da un qualsiasi
punto ad ogni altro punto.
2. Un segmento finito di retta si può estendere indefinitamente in linea retta.
3. Dati comunque un centro e un raggio, si
può costruire una circonferenza.
4. Tutti gli angoli retti sono uguali tra di loro.
Questi assiomi erano talmente ovvi che
nessuna persona sana di mente avrebbe potuto
metterli in discussione.
Il quinto postulato, invece, quello che riguardava proprio le rette parallele, aveva un carattere
leggermente diverso: era complicato e molto
meno ovvio.
Euclide lo enunciava in questo modo:
“Se una retta taglia altre due rette,
determinando dallo stesso lato angoli interni la cui somma è minore
di quella di due angoli retti, allora le
due rette, se prolungate all’infinito,
si incontreranno dalla parte in cui la
somma dei due angoli è minore di
due angoli retti”.
Altro che ovvio! Sembra più un
teorema che un assioma.
Il dubbio persistente era proprio questo: è un
teorema o un assioma?
E, se è un teorema, potrebbe esistere il modo
di dimostrarlo partendo dai primi quattro assiomi
o, magari, da qualcosa di più semplice e intuitivo?
Se si riuscisse a dimostrare che il quinto postulato è un teorema partendo dagli altri quattro,
allora si potrebbe toglierlo addirittura dalla lista
dei cinque, perché sarebbe un loro doppione.
D’altra parte, potremmo chiederci perché
Euclide abbia incluso nei suoi “Elementi” un postulato così poco elegante.
Forse ad avere quel dubbio fu proprio lui, il
suo inventore. Ma, l’averlo fatto è un indizio della
sua genialità.
Di certo, non riuscì a scioglierlo nella sua
mente e ce lo ha tramandato come postulato
indipendente dagli altri, cioè come verità da
accettare senza dimostrazione.
La prova del pizzico di genio: intuì che sarebbe stato necessario per i suoi ragionamenti
geometrici, per le sue dimostrazioni, perciò non
lo scartò, ma lo introdusse solo quando si venne a trovare in un vicolo cieco e fu costretto ad
utilizzarlo.
Così Euclide dimostrò, senza fare uso di quel
postulato, tutto ciò che poteva, fino alla dimostrazione della Proposizione 28 del Libro I, poi lo
ha tirato fuori, piazzandolo subito dopo gli altri
quattro e consegnandolo alla storia come quinto
postulato, battezzato, poi, col nome di “postulato
delle parallele”.
Quel dubbio non era la verità, né la negazione
della verità, ma Euclide lo aveva trasformato in
una sua verità, riuscendo a costruire “la sua geometria”, che nessuno, forse, avrebbe mai potuto
mettere in discussione, perché si sarebbe fondata
comunque su quel postulato, anche in caso di
sua negazione.
Ma il dubbio rimase ed è passato come verità
intoccabile per oltre due millenni.
La versione equivalente di quel postulato,
oggi più citata nello studio della geometria euclidea, fece la sua comparsa per la prima volta nel
V secolo, nei commentari del matematico greco
Proclo, ma è nota generalmente con il nome di
“assioma di Playfair”, in onore del matematico
scozzese John Playfair(1748-1819), dal momento
che lo stesso lo prese come variante del quinto
postulato nella sua edizione degli Elementi di
Euclide.
Nella formulazione di Proclo-Playfair, riportata negli attuali libri di testo, l’assioma si può
enunciare così:
“Dati una retta r e un punto P non appartenente ad essa, è possibile tracciare una e una sola
retta parallela a r passante per P”.
Non bastava, però, questo nuovo approccio.
Aveva retto per secoli, ma il quinto postulato, quella macchia ormai troppo scura sulla
perfezione euclidea, era diventato un chiodo
fisso per molti, nel tentativo di cancellarlo una
volta per sempre.
Si cercò in ogni modo di ricavarlo dagli altri
quattro postulati o di sostituirlo con un altro più
semplice, più evidente.
Il gesuita Saccheri
(1667-1733) e, più tardi,
il matematico svizzero
Lambert (1728-1777) tentarono di dimostrare il
postulato delle parallele
indirettamente, ammettendo il contrario e deducendone conseguenze
assurde.
Ben lungi dall’essere
assurde, le loro conclusioni equivalevano in realtà ai teoremi della geometria non euclidea che
doveva svilupparsi più tardi.
Se essi, anziché considerarle delle assurdi-
tà, le avessero ritenute delle verità in se stesse
compatibili, sarebbero stati gli scopritori della
geometria non euclidea.
Purtroppo ogni sistema geometrico alternativo a quello di Euclide non veniva preso in
considerazione, in quanto, a quel tempo, sarebbe stato considerato una vera eresia. Anche
perché Kant, il più influente filosofo dell’epoca,
con l’affermazione che i postulati di Euclide sono
inerenti alla mente umana ed hanno, perciò, una
validità oggettiva per lo “spazio reale”, riuscì a far
passare “questa fede” negli assiomi della geometria euclidea come verità intoccabile.
Fino a quando, nell’Ottocento, i matematici si
resero finalmente conto che Euclide aveva fatto
bene i suoi conti.
Così, i continui fallimenti nella ricerca di una
dimostrazione del postulato delle parallele incominciarono a indirizzarli verso un percorso alternativo, considerando quel postulato come indipendente e non come conseguenza degli altri.
Questa fu la grande intuizione dell’ungherese
Janos Bolyai (1802-1860) e del russo Nikolaj Iva75
novic Lobacevskij (1793-1856), i quali risolsero
quel lungo dubbio costruendo una geometria in
cui non vale il postulato delle parallele.
Quando, però, il trattato di Bolyai sulla “sua
riforma scritta” della geometria euclidea finì nelle
mani del maestro Gauss, soprannominato il “re
dei matematici”, il giovane studioso apprese, a
malincuore, di essere stato preceduto in quel
lavoro da Gauss stesso. Ma questi, a suo dire, pur
essendo sua intenzione pubblicare i risultati della
sua trentennale ricerca, perché non scomparissero con lui, fino a quel momento non li aveva
ancora dati alle stampe. E mai li darà più. Gauss,
forse, aveva temuto che una geometria alternativa a quella di Euclide, considerata un’ eresia
filosofica, avrebbe provocato le strida dei “beoti”,
cioè dei filosofi Kantiani, così da lui definiti.
Da allora Bolyai provò un odio profondo
nei confronti di Gauss, al quale il suo lavoro era
pervenuto quale appendice ad un trattato del
padre Farkas Bolyai, bravo matematico dell’epoca, che gettava le basi per una nuova frontiera
della geometria.
Così quello di Lobacevskij costituisce il primo
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
Figura 1
76
Figura 2
vero trattato di una geometria che poteva essere
costruita addirittura su una superficie a forma di sella incurvata. Pubblicato sull’oscuro “Messaggero di
Kazan”, passò inosservato, finché, verso il 1830, non
apparvero le prime traduzioni francesi e tedesche.
Ma cosa significa che il postulato delle parallele è indipendente?
Che è possibile costruire una geometria alternativa coerente di proposizioni geometriche
relative a punti e rette di un piano, deducendola
da un gruppo di assiomi il cui postulato delle
parallele sia sostituito da un postulato contrario.
Solo il coraggio intellettuale di Gauss, Bolyai
e Lobacevskij permise di arrivare a riconoscere
che una geometria alternativa di questo genere,
basata su un sistema di assiomi non euclideo,
potesse essere perfettamente coerente.
Per dimostrarne la coerenza, occorreva, però,
costruire dei “modelli” di geometria tali da soddisfare gli assiomi di Euclide, eccetto il postulato
delle parallele.
Ma, questi non si fecero attendere.
Figura 3
Nacquero tre modelli, che hanno preso il
nome dai loro inventori: Klein, Poincaré, Beltrami.
Nel più semplice di essi, dovuto a Felix Klein,
per un punto non appartenente a una retta data
si possono tracciare infinite rette parallele ad essa
(per Euclide una e una sola).
Fu il primo vero attacco alla “verità evangelica”, al verbo, del sommo Euclide.
Questa geometria non euclidea prese il nome
di geometria di Bolyai-Lobacevskij o “iperbolica”.
Il modello di Klein si può evidenziare, in
generale, nel piano non euclideo di Klein formato dai punti interni ad una conica (per esempio
un’ ellisse, più in particolare una circonferenza).
Data, pertanto, una circonferenza T (figura
1), si chiama:
- punto di Klein un qualunque punto P
interno a T;
- retta di Klein una qualunque corda AB
di T, esclusi gli estremi;
- piano di Klein l’insieme dei punti interni aT.
Modello di Riemann
Figura 4
Figura 5
Figura 6
Inoltre:
- due rette di Klein si dicono incidenti se si
intersecano un punto di Klein (cioè se hanno in
comune un punto interno alla circonferenza T).
Per esempio, nella figura 2, le rette di Klein AB
e CD sono incidenti nel punto P di Klein.
Invece:
- due rette di Klein si dicono parallele se
non si intersecano in alcun punto di Klein
(cioè se non si intersecano in alcun punto
interno alla circonferenza T oppure se
hanno in comune un punto di T).
Per esempio le rette AB e AC, come si vede
nella figura 3, sono parallele, in quanto si incontrano nel punto A della circonferenza T.
Si può dimostrare che questi enti (punti,
rette, piano di Klein) verificano gli assiomi della geometria euclidea, escluso l’assioma delle
parallele.
Vale invece la seguente proprietà:
In un piano, dati una retta e un punto non
appartenente ad essa, esistono almeno due
rette passanti per quel punto e parallele alla
retta data.
Per esempio (figura 4) le rette distinte AC e
BD passano per P e sono entrambe parallele alla
retta AB, in quanto sia AC che BD intersecano la
retta AB rispettivamente nei punti A e B della
circonferenza T, che non sono punti di Klein.
Se osserviamo, ora, la figura 5, possiamo
renderci conto che:
In un piano, dati una retta r e un punto P
non appartenente ad essa, esistono infinite
rette passanti per P e parallele alla retta r
(infatti, oltre alle due rette m ed n parallele ad r,
del tipo di quelle evidenziate in figura 4, ci sono
anche tutte le altre parallele ad r, come ad esempio s, t, costituite dalle corde della circonferenza
passanti per P e non intersecanti la retta data).
Il modello di Klein prova, quindi, che l’assioma delle parallele è indipendente dai precedenti
assiomi della geometria euclidea.
È il primo colpo per la fine di quel lungo dubbio iniziato nel terzo secolo avanti Cristo.
Bolyai e Lobacevskij avevano capito tutto. Per
costruire una geometria alternativa, si trattava
solo di adottare un nuovo postulato, con la sola
variante che, stavolta, le rette passanti per un
punto e parallele ad una retta data sono almeno
due o, se volete, infinite, e non già una e una sola,
come aveva statuito Euclide.
Si evidenzia che la geometria euclidea e la
geometria non euclidea iperbolica differiscono
in quei teoremi che scaturiscono dal quinto
postulato.
Perché, se cambia il postulato, si modificheranno anche i teoremi connessi.
Ad esempio, nella geometria euclidea, la
somma degli angoli interni di un triangolo vale
un angolo piatto, mentre nella geometria non
euclidea iperbolica di Bolyai-Lobacevskij è minore di un angolo piatto.
Ma non finisce qui, perché di lì a poco lo status privilegiato della geometria euclidea subiva
il colpo finale.
A sferrarlo fu proprio uno degli studenti di
Gauss, il più bravo, perché andò oltre Bolyai e
Lobacevskij.
Bernhard Riemann (1826-1866) riusciva non
solo a dimostrare che la geometria iperbolica non
77
era l’unica geometria non euclidea possibile, ma
anche a costruirne un’altra, facendo addirittura
scomparire le rette parallele.
Euclide si starà ancora rivoltando nella tomba!
Così nel nuovo modello, per un punto non
appartenente a una retta data non passa alcuna
retta parallela ad essa.
Questa nuova geometria non euclidea si dice
geometria di Riemann o “ellittica” e si costruisce a
partire da una superficie sferica o, più in generale,
da una superficie curva dello spazio.
Il modello di “geometria ellittica” di
Riemann, in modo alquanto semplificato, funziona così:
Data una superficie Sferica S(figura 6),
si definisce:
-punto di Riemann ogni coppia di
punti estremi diametralmente opposti della superficie Sferica S.
Per esempio, le coppie (A,B) e (C,D) sono
punti di Riemann;
-retta di Riemann ogni circonferenza
massima della superficie Sferica S.
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
Per esempio le circonferenze massime T1
e T2 della superficie Sferica S sono rette
di Riemann.
- piano di Riemann la superficie Sferica S.
Anche in questo caso, si può dimostrare
che questi enti verificano gli assiomi della
geometria euclidea, escluso l’assioma
delle parallele.
Vale invece il seguente assioma:
In un piano, qualunque retta passante
per un punto dato incontra una retta
data.
Infatti, due qualsiasi circonferenze massime di S si incontrano sempre in due punti
(E ed F) diametralmente opposti(figura 6).
78
Nel piano di Riemann, si verifica che i predetti
enti geometrici soddisfano i primi quattro postulati di Euclide, tranne il quinto, che è sostituito
dal seguente:
Fissati un punto (A, B) di Riemann ed una
retta T2 di Riemann, allora ogni altra retta T1 di
Riemann passante per (A, B) interseca la retta T2
in un altro punto (E,F) di Riemann.
In altre parole, fissati un punto (A, B) ed una
retta T2, non esiste alcuna retta passante per (A,B)
e parallela alla retta data T2.
Si verifica che anche la geometria euclidea
e la geometria non euclidea ellittica di Riemann
differiscono in quei teoremi che derivano dal
quinto postulato.
Così, nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni di un triangolo vale un angolo
piatto, mentre nella geometria non euclidea ellittica di Riemann è maggiore di un angolo piatto, diversamente dalla geometria non euclidea
iperbolica di Bolyai-Lobacevskij, in cui è minore
di un angolo piatto.
Ma quale fu l’intuizione che introdusse Riemann in tutto questo ben di Dio?
Fu Riemann stesso a sviscerarla nella sua
famosa lezione inaugurale sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, tenuta nel 1854 a
Gottinga.
Di fronte al suo maestro, un compiaciuto ed
ormai vecchio professor Gauss, si rivelava “un
grande”, quando effettuò la distinzione fondamentale tra l’illimitato e l’infinito.
Facendo notare che il secondo postulato di
Euclide si poteva interpretare in due modi diversi:
“ogni retta è infinita”, “ogni retta è illimitata”.
Fu lui il primo ad accorgersi che andava revisionato non soltanto il quinto postulato, quello
delle parallele, ma anche il secondo.
Fino a quel momento esistevano solo due
possibili geometrie, perché “ogni retta era stata
considerata solo infinita”: quella di Euclide e la
iperbolica di Bolyai-Lobacevskij.
Da allora nacque la terza
via alla geometria, quella sferica o ellittica di Riemann, in cui
“ogni retta è illimitata”, ma non
infinita.
Più tardi Felix Klein riordinò
tutte le geometrie, stabilendo
che ogni geometria è lo studio
di quelle proprietà che non
variano, i cosiddetti invarianti,
rispetto a un gruppo di trasformazioni.
In questo studio si accorse addirittura che esistevano due tipi di geometrie sferiche, entrambe
dette ellittiche, quella sferica vera e propria (non
esistono parallele e le rette si incontrano in più
di un punto), e quella proiettiva (non esistono
parallele e le rette si incontrano solo in un punto).
“Una vera rivoluzione – direbbe oggi Euclide – ma il mio postulato è ancora valido e fa
buona compagnia ai postulati delle geometrie
non euclidee”.
E Albert Einstein così esultò, senza alcun dubbio: ”A questa interpretazione della geometria
io attribuisco una grande importanza, perché se
non l’avessi tenuta presente, non avrei mai potuto sviluppare la teoria della relatività”.
In effetti, tale teoria rappresenta lo spaziotempo come in una geometria non euclidea di
Riemann, che di fatto si deforma, o si curva, vicino ai corpi gravitazionali come il sole e i pianeti.
In uno dei suoi tanti libri, “Il caffè sospeso”,
Luciano De Crescenzo, con la sua saggezza
quotidiana in piccoli sorsi, a pag. 33, ci descrive
cosa sia il dubbio. È Socrate che sta parlando in
un dialogo con un suo amico,
Strepsiade.
Dice Socrate:
“Il dubbio, mio buon amico,
è una divinità che bussa con
gentilezza alla tua porta e
chiede di essere ascoltata. Il
dubbio espone le sue idee,
ma è anche pronto a cambiarle
non appena qualcuno gli mostra che sono sbagliate. Il dubbio è il padre
delle massime virtù dell’uomo: la Curiosità e
la Tolleranza”.
Così è stato anche per il dubbio sul quinto
postulato delle parallele.
Quel dubbio lo ebbe Euclide, lo hanno riavuto in tanti dopo di lui, è durato oltre duemila
anni, ha bussato alla porta, si è fatto ascoltare,
ha cambiato continuamente la propria idea, ma
oggi sappiamo qual è la verità.
Cioè che geometria euclidea e geometrie
alternative non euclidee sono tutte vere, convivono, ciascuna con la coerenza del proprio postulato, e insieme stanno cambiando il mondo.
Che bella, la matematica!
Vincenzo Sirica
Studioso di questioni matematiche
79
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
letteratura italiana
“Forse un mattino
andando in un’aria di vetro”
Analisi testuale di una lirica di Eugenio Montale
alla luce del tema del Dubbio
L
80
’incipit della lirica di Eugenio Montale
Forse un mattino andando in un’aria di
vetro è imperniato sull’avverbio “forse”,
dal quale emerge il dubbio e da cui prendono
forma i versi. Egli, infatti, prefigura il mattino in
cui, addentrandosi in un’atmosfera pungente
ed arida e voltandosi di scatto, vedrà realizzarsi
il “miracolo”. Quello di Montale, però, non è il
classico e positivo miracolo, bensì, attraverso
una transcodificazione del termine (dal latino
miror, “mi meraviglio di. ..”), si registra l’epifania
dell’anti-miracolo, con un’accezione negativa che
fa riferimento alla deludente scoperta del nulla
e del vuoto alle spalle del poeta stesso e che gli
provoca un terrore assimilabile a quello di un
uomo ubriaco.
D’improvviso, sulla scena compaiono la vegetazione, le abitazioni e dei colli, reincarnazione
di quella realtà che inganna abitudinariamente
l’uomo. Il poeta, però, capisce di essersi accorto
troppo tardi della realtà illusoria ed è quindi
costretto a tacere e a proseguire al fianco degli
altri uomini che, a differenza di Montale, non si
voltano, poiché non si interrogano sui problemi
esistenziali e non desiderano conoscere la verità.
Dunque, la costante del cammino del poeta sarà
il segreto di aver conosciuto una realtà del nulla e
del vuoto, su cui si impernia la lirica stessa.
La funzione referenziale (“un mattino”, v.1 e
“alle spalle”, v. 3) catapulta il lettore in un contesto reale prima e figurato dopo; dalla funzione
emotiva (“vedrò”, v. 2; “mie”, v. 3 e “io me ne andrò”,
v. 7) emerge, invece, una diretta partecipazione
del poeta, fautore dell’anti-miracolo; infine, la
funzione metalinguistica (“s’accamperanno”, “di
gitto”, e “schermo”, v.5) chiarisce concetti che appartengono prettamente alla lirica e vanno letti
in chiave connotativa.
Le metafore analogiche sono due: la prima
(“aria di vetro”, v.1) è inerente alla sofferenza, al
dubbio, è un’aria pungente, avversa all’uomo
stesso, che vi trascorre le sue giornate, ma avverte l’incompatibilità; la seconda (“terrore di
un ubriaco”, v. 4) esplicita e paragona il terrore
dell’uomo alla vista dell’abisso a quello di un
ubriaco e quindi dà l’idea del’animo sconvolto
del poeta. Altri tropi sono l’iperbato (vv. 5-6),
che pone al capoverso il soggetto della frase,
di notevole importanza per il poeta; il click narrativo (“ma”, v.7), che contrappone la scoperta
all’impossibilità di esprimerla, poiché è ormai
troppo tardi; gli enjambements (vv. 3-4, 5-6, 7-8),
attraverso i quali il poeta mette in risalto i termini
“dietro”, “gitto” e “ritto”; l’allitterazione
della liquida “l” (“nulla”, “alle” e “spalle”,
v. 3), che lascia intendere il fluire del
verso, e delle vocali “i” (“il” e “mie”, v.
3), “e” (“alle”, “spalle” e “dietro”, v.3) e “o”
(“con”, v. 4 e “vuoto”, v.3) che rispettivamente sottolineano il silenzio in cui
si svolge la scena, la meraviglia del
poeta e la perfezione, indice dell’irripetibile evento.
A ciò si aggiunge anche la ripetizione del gruppo consonantico
“tr” (“dietro”, v.3) e “r” (“terrore”, v.4),
che indicano il dubbio del poeta. È presente
una rima alternata che associa vari termini: ad
esempio “vetro” – “dietro”, legati dal rapporto tra
sofferenza e abisso alle spalle
del poeta, e “consueto” – “segreto”, legati dall’idea che la realtà
illusoria, scoperta da Montale,
sia un perpetuo inganno. Infatti, gli alberi, le case e i colli, che
nella lirica appartengono ad
un’enumerazione per asindeto,
sono una proiezione, come nei
film, sullo schermo che appare
agli occhi del poeta: dunque,
in tal modo, il poeta ha voluto
dare l’idea di scorrimento nella
dubbiosa apparizione degli elementi.
Sara De Rosa
III B Liceo Classico
Forse un mattino andando in un’aria di vetro
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto 5
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Eugenio Montale
[da Ossi di seppia, 1925]
Questa analisi è la trascrizione fedele del testo di un compito in classe assegnato secondo le modalità
prescritte dalla Prima Prova scritta (tipologia A) dell’Esame di Stato.
Lyceum Dicembre 2012
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Percorso/Il dubbio
idee/1
Sofferenza e grandezza
U
82
dell’essere umano
n paradosso vive in
noi, consuma la nostra vita, ferisce la nostra personalità oppure rende
forte il nostro essere rafforzando la nostra mente.
“Di tutte le cose sicure la
più certa è il dubbio” affermava Bertold Brecht, uno dei
massimi pensatori del secolo
scorso.
Ebbene, questa certezza
innegabile pervade l’uomo
dalla nascita, intesa sia a livello biologico che
storico.
I due livelli sono anzi assimilabili, in quanto
sia il bambino sia l’uomo, passano col tempo dal
dubbio prettamente pratico, concreto e materiale al più complesso pensiero astratto e teorico,
ossia alla filosofia.
Parliamo di una filosofia che non per forza si
riferisce al ragionamento sulle grandi questioni
insolubili che ci accompagnano da sempre, ma
ad un’arte del pensiero teorico che ognuno di noi
sperimenta quotidianamente nella propria vita.
Infatti è profondamente errato pensare che
la risoluzione di un problema di natura materiale
possa prescindere dal momento teorico; quello
che comunemente chiamiamo ragionamento.
È questo stesso atto del pensare, del connettere idee ed eventi, a contenere il grande segreto del dubbio, che ogni giorno viene svelato
inconsapevolmente anche dal più semplice degli
uomini, a patto che nella sua vita scelga, affermi
o neghi per sua volontà e non per costrizione o
passività di sorta.
Ogni ragionamento, a prescindere dalla sua
complessità, ha una dialettica interna che può
essere riassunta in termini diversi in
relazione all’ambito in cui si agisce.
In campo morale essa si estrinseca nel dualismo bene-male, in
politica si mostra sotto forma di
opposizione tra conservatorismo e
progressismo, il quale a sua volta può
essere moderato o rivoluzionario e
in tal modo si può operare in tutti
gli ambiti.
Dunque si può ben comprendere
come l’opposizione tra due atteggiamenti dia vita al dubbio, il quale
però non per forza porta ad una risoluzione del
problema.
In verità il dubbio è solo la prima parte dell’atto del pensare, che può essere seguito da una
scelta, dopo di che arriva il momento pratico in
cui ognuno è chiamato a mettere in atto la propria idea, la propria filosofia.
Ma c’è chi demanda le proprie scelte ad altri,
chi non segue la lezione illuminista ed, in particolar modo, kantiana del libero pensiero sviluppato
in prima persona, con l’Io protagonista.
Uno slancio carico di conoscenza
Ed è in questa incertezza perenne, che persiste, in quanto non si vuole o non si può compiere
una scelta, che si radica l’infelicità dell’uomo che
lascia risolvere ad altri i propri dubbi.
Ma noi non siamo fatti per vivere in questa
penosa condizione, o almeno non lo siamo tutti.
L’uomo vero, intelligente e libero – questi
sono i nostri attributi naturali – è colui il quale
trae dalla sua incertezza, dal suo tentennare iniziale, lo slancio verso la conoscenza del mondo
che lo circonda.
È il dubbio abbinato alla curiosità, secondo
Aristotele, “Metafisica, I”, che conduce
l’uomo a migliorarsi
ed è lo spirito di chi,
come Ulisse, sceglie
la via più aspra e più
lunga a rendere onore al nostro essere.
A tal proposito
uno dei fari del pensiero del ‘700, Voltaire, afferma che “il
dubbio è scomodo”
e possiamo tranquillamente aggiungere,
che talvolta è molesto, ma quasi mai inopportuno.
La scomodità del dubbio è egregiamente
e realisticamente colta dallo scultore francese
Auguste Rodin, il quale, nella sua opera ”Il pensatore” (Parigi, Musée Rodin) esprime l’impegno
mentale e psichico di un uomo la cui mente è
attanagliata da un dilemma imperscrutabile.
La muscolatura pronunciata proietta all’ester-
no lo sforzo interiore che diventa universale ed invita tutti a condividere quell’atto
così profondo ed utile.
L’utilità coincide con la natura costruttiva dell’atto del pensiero, che Karl Raimond
Popper, padre dell’epistemologia contemporanea, porta all’apice, applicando il dubbio filosofico al metodo scientifico.
Tanto è possibile grazie all’innovativa
e sconvolgente teoria della falsificabilità,
che, al contrario di quanto pensarono
alcuni scienziati (neopositivisti in primis),
non conduce ad un relativismo e ad un’incertezza sterili e permanenti, ma ad un
progresso basato sulla libertà di mettere
in discussione idee affermate e non sull’incondizionata accettazione di esse.
La “falsificazione” di una teoria scientifica
sancisce definitivamente l’imprescindibilità del
dubbio, che può essere applicato ad ogni ambito,
a patto che si abbia la forza d’animo e l’umiltà di
mettersi in discussione.
Antonio Annarumma
83
V C Liceo Classico
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
idee/2
84
È
Una meravigliosa
schiavitù
facile, soprattutto quando ci troviamo nel
fiore degli anni, pensare di essere liberi di
poter fare tutto ciò che vogliamo, quando
e dove vogliamo. Ma quando arriva l’amore,
tutto cambia, tutto il mondo, tutto l’universo si
concentrano in un’unica persona e pare quasi
che non esista nulla al di fuori di essa.
Certo, l’amore può essere inteso in tanti
modi; anche quello che proviamo nei confronti
della nostra famiglia o dei nostri amici è amore,
ma un amore “libero”. Invece quello che sentiamo verso la persona con la quale scegliamo di
trascorrere la nostra esistenza ci rende prigionieri.
Quante volte sentiamo pronunciare o vediamo scritte sui muri frasi come «Sei come l’aria
che respiro», «Sei come l’ossigeno», «Vivo di te» o
addirittura «Sei la mia droga»? Se ne potrebbero
citare a centinaia. Tutto ciò fa ben comprendere
che l’amore crea una sorta di dipendenza, qualcosa di cui non possiamo fare a meno.
Ariosto nel canto XXX dell’”Orlando furioso”
afferma di sentirsi «infermo», ovvero “malato”, e sia
la causa che la cura di questo “male” sono la stessa
persona, Alessandra Benucci. La sua invettiva contro le donne, fatta alla fine del canto precedente e
della quale si scusa, deve essere interpretata come
un tentativo di liberarsi del legame che l’amore
aveva creato tra lui e l’amata, tentativo sfociato
nel pentimento e nella rassegnazione: capisce,
infatti, di essere impotente di fronte a una cosa più
forte di lui. Non a caso con le sue ultime parole si
affida a Dio e alla sua donna: ormai non può fare
più affidamento sulla propria ragione. Allo stesso
modo noi, una volta caduti nella “trappola” amorosa, offriamo e perdiamo noi stessi, arrivando quasi
alla follia, per quella che non a caso chiamiamo
“anima gemella” o “dolce metà”.
Questo concetto è ripreso, con successo, in
una bellissima poesia di Erri De Luca,”Quando
saremo due”, in cui il poeta afferma che in amore
l’unità non equivale più a “uno” ma a “due”, come
sono i «piedi, gli occhi, i reni». Infatti, se riflettiamo meglio, anche il cuore, sede dei sentimenti e
simbolo per eccellenza dell’amore, nella coppia
si unisce definitivamente e irreversibilmente a
un altro cuore, come per mezzo di una potente
calamita, un filo indissolubile: «salti
tu, salto io» erano le parole costantemente ripetute da Jack a Rose, i
due giovani protagonisti del kolossal
“Titanic”del 1997.
Anche Kahlil Gibran circoscrive
l’amore come l’unico ambito in cui
siamo davvero «schiavi» emotivamente, mentre siamo completamente autonomi
per quanto riguarda tutto il resto. È assolutamente vero. Ce lo conferma anche il filosofo greco
Platone che, nel “Simposio”, descrive l’innamorato
come colui che va all’incessante ricerca di ciò che
gli manca, perché sa di aver bisogno di qualcosa
e, quindi, è dipendente.
Tuttavia, quest’idea non deve indurci a
guardare l’amore come un’esperienza dannosa,
perché la schiavitù che esso genera è ossimorica-
mente positiva e piacevole. Chi, al contrario, crede di poter dominare e controllare
l’amore cade in errore: se ci sentiamo liberi
di decidere a nostro piacimento quando
abbandonare una persona o ritornare da
lei, se crediamo di poter portare avanti
una relazione basata su bugie e ipocrisia
e non sulla fiducia, allora vuol dire che non
stiamo vivendo un amore vero e sincero, che la
persona che amiamo o che ci ama non è quella
giusta, e le consequenze di un amore vissuto in
questo modo sarebbero praticamente disastrose
perché comporterebbero solo sofferenza.
A questo punto non sarebbe meglio vivere
una meravigliosa schiavitù piuttosto che una
dolorosa libertà?
Livia Semioli
IV C Liceo Classico
85
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
opinioni/1
Una vita
costellata di
dubbi
O
86
gni età dell’esistenza umana è costellata
da dubbi talvolta positivi, altre laceranti
perché generati da condizioni contingenti per cui il soggetto non sa quale sia la scelta
più vantaggiosa.
Descrivere la condizione nel segno del dubbio è impresa difficile, perché i motivi per cui si
vive nell’incertezza sono molteplici e strettamente connessi a specifici contesti.
Il dubbio sollecita tutti i bambini che, per
ogni nuova esperienza, hanno pronto un “perché”
e poi ancora un altro, e un altro ancora.
Vive nel dubbio l’adolescente quando deve
decidere sul suo futuro compilando il modulo di
iscrizione alle scuole superiori; quando non sa
dire alla ragazza per la quale nutre un particolare
interesse, che a mandare i messaggini sdolcinati
che a lei tanto piacciono…..è lui.
Il dubbio, oggi, accompagna i neo diplomati
quando, per il tasso di disoccupazione crescente,
credono che l’unica strada sia “fare le valigie”; ma
quelli che rimangono e si laureano sono costretti
ad affrontarne uno maggiore:”Dopo cinque anni
di studio chi siamo? Cosa faremo? Quali prospettive abbiamo? Le nostre aspettative troveranno
riscontro in un periodo critico in cui manca una
adeguata politica del lavoro?”
Non sa cosa fare una giovane coppia dal lavoro precario quando scopre che è in arrivo un
bambino…..
Un’altra giovane coppia dalle condizioni
economiche stabili, di fronte allo stesso evento,
è al settimo cielo per la felicità e l’unico dubbio
è racchiuso nella ormai classica domanda: Sarà
maschio o femmina?”.
Il dubbio assale il padre che non sa se comprare il motorino al figlio e se acconsentire che
la figlia vada ad una festa che si protrarrà oltre
la mezzanotte. Troppi fatti di cronaca nera lo
condizionano…!
Il dubbio tormenta il lavoratore, oggi, perché
non sa se domani porterà il pane a casa.
Vive nel dubbio perfino il nonno che si domanda se si è spaccato la schiena per una giusta
causa, se il sacrificio di una vita servirà qualcosa.
Il dubbio lo ha colui che prima di morire si
chiede: “E ora?”
Il dubbio accomuna tutti ma, fortunatamente, il modo di risolverlo ci differenzia l’uno
dall’altro…
Mio nonno non comprò mai il motorino a mio
padre, mio padre, invece, lo ha fatto.
Non c’è una scelta giusta al 100%, una verità
assoluta. Ognuno vive secondo la propria “filosofia di vita”.
Se questa sia giusta o sbagliata, ebbene sta
proprio qui il più grande dubbio!
E solo il tempo, a medio o a lungo termine,
ci darà ragione o torto.
Salvatore Prisco
III C Liceo Classico
opinioni/2
- Solo gli stolti non hanno dubbi.
- Ne sei sicuro?
- Non ne ho alcun dubbio!
Nonostante questa ironica citazione, quanti di noi nel corso della
propria esistenza si sono trovati di fronte all’indecisione?
Quanti, anche dopo aver preferito una scelta piuttosto che un’altra,
si chiedono se fosse davvero quella giusta?
A
quanto pare, l’insicurezza gioca davvero
brutti scherzi!
Ma comunque, sembra
che essa sia paradossalmente un buon segno: infatti, è
spesso caratteristica di una
mentalità aperta, di ampi
orizzonti, i quali ovviamente implicano la considerazione di più opzioni,
una serie illimitata di alternative che, anche se
fastidiose al momento di scegliere, portano a
produrre risultati più efficienti.
Inoltre, il dubbio, sin dal suo etimo (duo
habeo), rivela soprattutto una certa serenità
interiore, più che intelligenza: una sorta di
auto-concessione di spaziare in più vedute
e quindi nel confronto, il quale, da che mondo è mondo, è sempre stato un giovamento.
Solo a chi abbia realizzato una certa pacificazione
con se stesso, quindi, sarebbe consentito di sospendere il giudizio, scetticamente, su aspetti anche importanti del proprio orientarsi nel mondo.
Potremmo quasi dire, ponendo fede in questa visione, che sia legittimo dubitare.
Ad ogni modo, sul fronte opposto, ci sarebbero alcune eventuali conseguenze di questo
“dubbio legittimo”, ossia sensazione di vulnerabilità, debolezza, timore di esporsi. Ciò si verifica
soprattutto fra gli adolescenti: capita, infatti, di
avere paura di esprimersi con gli amici, di non es-
ser capaci di persistere nelle proprie convinzioni,
di ritrattare argomenti più e più volte, sfociando
poi nel disprezzo di sé; quel che non capiamo,
però, cari coetanei, è che l’indugiare continuo che
“personalizza” questo periodo di vita è sintomo
di volontà di migliorarsi: questo non essere mai
contenti e convinti del modo in cui si pensa, si
vive, si ci muove, porta ad una formazione più 87
profonda della persona, indica che si è disposti
a mettersi in discussione, a crescere.
Ebbene, compreso questo, si dovrebbe essere più spaventati dalla troppa certezza: per
questo “solo gli stolti non hanno dubbi.”
In effetti, il non voler ascoltare altre ragioni,
l’avere pensieri univoci e incontestabili non è
affatto una gran cosa, sebbene possa dimostrare
determinazione e fede in sé stessi.
Prendiamo d’esempio i filosofi: senza il beneficio del dubbio, senza studiare il perché esistevano, senza ritrattare continuamente le loro argomentazioni, senza ipotizzare diverse teorie delle
proprie origini... Sarebbero mai arrivati a credere
fermamente in qualcosa tanto da difenderla fino
alla morte? Sarebbero mai stati ricordati?
In conclusione, quindi, per ottenere migliori
risultati nella vita, bisogna accertarsi che gli altri,
potenzialmente conseguibili allo stesso modo,
siano peggiori; e per farlo, il miglior modo è quello di dubitare, INDUBBIAMENTE!
Giusy Adiletta
IV C Liceo Scientifico
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
letteratura tedesca (testo a fronte)
C
88
Il dubbio,
una salvezza per l'umanità
h e c o s’è i l
dubbio? Anche ora, mentre scriviamo l’articolo, i dubbi non fanno
altro che renderci la
vita difficile. Qual è
la parola più giusta?
Quali frasi sono le
migliori? Una persona che non dubita
nella propria vita non
è mai esistita: ci sono
persone che dubitano di un uomo o di una donna o dubitano di un
credo politico o religioso o addirittura sul senso
della vita. Bertolt Brecht affermava che il dubbio
è, di tutte le cose certe, la più certa. Non c’è nulla
di più vero: la vita e la morte sono sottoposte al
dubbio; persino l’origine del mondo e della vita
lo sono. Goethe sosteneva invece che il dubbio
aumenta con la conoscenza; infatti il sapere
aumenta il desiderio di sapere ed alimenta altri
dubbi, come in “Faust”, che stringe un patto col
diavolo per combattere il dubbio ed ottenere
la conoscenza assoluta. Secondo Nietzsche, la
fede nella verità inizia dal dubbio su tutte le cose
ritenute vere fino ad allora. E poi c’era Lessing,
che dubitava sulle tre religioni principali, cioè Cristianesimo,
Ebraismo e
Islam. Infatti
il più famoso
esponente
del l’Illuminismo affronta la sempre attuale
questione
dell’intolle-
ranza religiosa nel dramma”Nathan il
saggio”, basato su una novella del Decameron di Boccaccio, tratta a sua volta da
una parabola, quella dell’anello o dei tre
anelli. Questa parabola viene raccontata
nell’opera dal protagonista Nathan che,
essendo un ebreo, rappresenta la religione
ebraica. La parabola dell’anello viene da lui
raccontata al sultano Saladino, che invece
rappresenta l’Islam e che chiede a Nathan
quale fra le tre religioni sia quella vera, per
dimostrargli che non è importante la religione in cui si crede bensì la fede in essa
e la tolleranza verso altri credo religiosi.
Infatti sceglie questa parabola perché essa parla
di un anello d’inestimabile valore, che da se coli
passava di padre in figlio, fin quando esso non
arrivò a un padre di tre figli. L’anello in questione era un opale che aveva “il potere nascosto”
di rendere chi lo possedeva gradito a Dio e agli
uomini ed anche padrone della casa paterna.
L’anello veniva da secoli donato dai padri al figlio
più amato, ma in questa parabola il padre non sa
scegliere fra i tre figli perché gli erano cari tutti
e tre. Così decide di rivolgersi a un artigiano per
commissionare due copie dell’anello originale,
che però dovevano essere assolutamente uguali
all’originale. Le copie dell’anello erano talmente
simili all’originale che nessuno era capace di
distinguerli. Ciò
fece morire in
p ace i l p adre
dopo aver dato
l’anello a ciascun
figlio. Purtroppo i figli, dopo la
morte del padre
arrivarono a una
lite furiosa, che
li portò davanti
Der Zweifel,
eine Rettung für die Menschheit
W
as ist der Zweifel? Auch jetzt,
während wir den
Artikel schreiben, machen
uns die Zweifel unser Leben
schwer. Welches Wort ist
das richtigste? Welche Sätze sind die besten? Keiner
Mensch hat in seinem Leben
nie gezweifelt: es gibt Menschen die einem Mann oder
einer Frau misstrauen oder
an einem politischen und
religiösen Glauben oder sogar über die Lebensbedeutung zweifeln.Bertolt
Brecht behauptete,dass der Zweifel unter allen si
chersten Sachen die sicherste sei. Es gibt nichts
Wahreres: Leben und Tod sind dem Zweifel unter
worfen; sogar der Ursprung der Welt und des Le
bens ist Zweifel.Goethe behauptete, dass je grös
ser das Wissen desto mehr der Wissensdurst sei;
in der Tat vergrösst das Wissen den Wissensdurst
und nährt das Zweifeln,wie in“ Faust”,der den Pa
kt mit dem Teufel schliesst, um das Zweifeln zu
bekämpfen und das absolute Wissen zu erhalten.
Nietzsches Meinung nach beginnt der Glaube an
die Wahrheit aus dem Zweifel über alle sicheren
Sachen bis damals. Und dann gab es Lessing,
der an den drei Hauptreligionen zweifelte, d.h.
an Ch ristentum, Judentum und Islam.Nämlich
setzt sich der bekannteste Vertreter der deutschen Aufklär ung
die immer aktuelle
Frage der religiösen Unto leranz im
Drama”Nathan der
Weise” auseinander
dessen Hauptthema aus einer Novelle von Boccac
cio entnommen wird,
die ihrerseits au seiner
Para bel, der Ringparabel oder der drei Ringe
stammt. Diese Parabel
wird im Werk von der
Hauptfigur Nathan erzählt, der das Judentum darstellt. Die Ringparabel wird von ihm
dem Sultan Saladin
er zählt, der den Islam
darstellt und Nathan
danach fragt, welche
unter den drei Religionen die wahre sei, um ihm
zu beweisen, dass es nicht wichtig sei an welche
89
Religion man glaube sondern der Glau be an unseren Gott und das Gefühl der Toleranz anderen
religiösen Glauben gegenüber. Nämlich wählt er
diese Parabel, weil sie über einen hoch schätzten
Ring spricht,der seit Jahrhunderten von Vater bis
Sohn geerbt wurde, bis wann er bis zu ei nem
Vater mit drei Söhnen ankam.Der Ring in Fra ge
war ein Opal, der “ die geheime Kraft “ hatte, vor
Gott und den Menschen angenehm und auch
Besitzer des Vaterhauses zu machen. Der Ring
wurde von den Vätern dem geliebtesten Sohn
geschenkt aber in dieser Parabel kann der Vater
keinen der drei Söhnen auswählen, weil ihm alle
drei Söhne lieb waren. So entscheidet er, sich an
einen Künstler zu wenden, um zwei Kopien des
e chten Rings zu bestellen,die aber ganz gleich
dem Muster sein mussten. Die Kopien des Rings
waren so gleich dem Muster, dass sie niemand
untersch eiden konnte. Das liess den Vater im
Frieden ster ben, nachdem er den Ring jedem von
seinen Söh nen gegeben hatte. Leider kamen die
drei Söhne zu einem wütenden Streit, der sie vor
einem Rich ter brachte, um zu bestimmen, wer
der Besitzer des echten Rings wäre und so auch
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
a un giudice per stabilire
chi fosse il possessore del
vero anello e quindi anche
chi dovesse diventare il
padrone della casa paterna. Il giudice, dopo un
lungo discorso, li convinse
dell’impossibilità di stabilire la verità e consigliò
loro di comportarsi come
se ognuno di essi fosse
il possessore dell’anello originale, cioè vivere
in modo retto ed essere devoti al proprio Dio.
Questo è il vero insegnamento che intende darci
Lessing attraverso la sentenza finale del giudice,
cioè che non conta la verità assoluta in caso di
dubbio ma la fede e la convinzione di credere nel
90
nostro Dio e nella nostra religione accettando
però anche le diversità culturali e religiose attraverso la tolleranza. Perciò quest’opera viene vista
come un’opera altamente pedagogica nonché di
grandissima attualità alla luce di tutti i conflitti
religiosi che da secoli insanguinano il mondo. Il
confronto dei tre anelli con le tre religioni più
importanti al mondo è di grande effetto ed anche il dubbio che da esso affiora può essere visto
positivamente per l’uomo in quanto esso può
frenare l’uomo dalla sua presunzione di certezza
e liberarlo dalla sua”hybris”. In tal senso, il dubbio
lessinghiano potrebbe diventare addirittura una
specie di salvezza per l’umanità.
Veronica Nappo
Nunzia Esposito
V MLA
wer der Besit zer des Vaterhauses
werden sollte. Der Richter,n ach
einer langen Rede, überzeugte
sie von der Un möglichkeit,die
Wahrheit zu bestimmen und riet
ihnen, sich zu verhalten, als ob
jeder von ihnen der Besitzer des
echten Rings wäre, d.h. beim Le
ben mit Anständigkeit und Ergebenheit in seinem Gott. Das ist die
richtige Lehre des Werks von Les
sing,der durch das endliche Urteil des Richters be
lehren will: es gilt nicht die absolute Wahrheit im
Fall von Zweifel sondern der Glaube an unseren
Gott und unsere Religion beim Annehmen aber
auch von den kulturellen und religiösen Verschie
denheiten durch die Toleranz. Deshalb wird dies
es Werk wie ein Lehrdrama mit grosser
Aktualität wenn wir an alle alten und
neuen Religionskriege denken, die leider seit Jahrhunderten die Welt blutig
macht. Der Vergleich der drei Ringe mit
den drei wichtigsten Religionen ist sehr
wirksam und auch der Zweifel, der aus
ihm hervorkommt, kann für den Menschen positive betrachtet werd en denn
er kann den Menschen von seiner Sicher
heitsvermutung zügeln und von seinem
“Hybris” (Hochmut) befreien.In diesem Sinn könnte Lessin gs Zweifel sogar eine Art Rettung für die
Mensch heit,
Veronica Nappo
Nunzia Esposito
V MLA
91
Lyceum Dicembre 2012
Percorso/Il dubbio
nuovi orizzonti
Verso il neutrino …
e oltre!
I neutrini, con una massa quasi 1 milione di volte più piccola di
quella dell’elettrone, rappresentano la sfida più esclusiva della fisica
delle particelle. Che cosa sono? Perché la
I
loro scoperta è così importante?
92
neutrini sono particelle elementari postulate
da Pauli negli anni ’30, come un “tentativo
estremo” per poter salvare il principio di
conservazione dell’energia relativamente ai
decadimenti radioattivi, ovvero ai nuclei atomici instabili le cui forze interne, non essendo
bilanciate, tendono a raggiungere la stabilità
attraverso l’emissione di una o più particelle.
Il neutrino è una particella con carica neutra
soggetta alle sole forze nucleare debole e gravitazionale; la sua particolare caratteristica è la bassa
interazione con la materia che gli permette di
attraversare quest’ultima indisturbato, rendendo
la sua individuazione molto complessa.
In natura esistono tre tipi di neutrino: Tauonico, Muonico ed Elettronico.
Ognuno di questi neutrini può essere soggetto al fenomeno dell’oscillazione, ovvero al mutamento della propria natura. Ad esempio da muonico può trasformarsi in tauonico o elettronico.
Il progetto “OPERA” (Oscillation project with
Emulsion-tRacking Apparatus), nato nel Laboratorio
di fisica nucleare del Gran Sasso, si occupa di isolare,
grazie ad un rilevatore, delle particelle da un fascio
di neutrini provenienti dal CERN di Ginevra, che
da muonici mutano la propria natura in tauonica.
Il percorso che compiono è di circa 730
km ma il tempo di percorrenza è ridottissimo
vista la scarsa interazione con la materia. I fisici
concentrano i propri sforzi nel cercare di capire
i motivi che determinano la trasformazione: In
OPERA, leptoni tau1, derivanti dalla interazione
di tau-neutrini, vengono rivelati e osservati in
“mattoni” attraverso emulsioni fotografiche
alternate a lastre di piombo. L’apparecchio
contiene circa 150.000 mattoni per una massa
totale di 1300 tonnellate ed è completato da
rivelatori elettronici (inseguitori e spettrometri)
e dalle infrastrutture ausiliarie. Ogni mattone ha
un peso approssimativo di 8,3 kg e ogni bersaglio è seguito da uno spettrometro magnetico
per l’ impulso e l’identificazione di carica delle
particelle penetranti. Durante la raccolta dei dati
viene captata in tempo reale un’interazione del
neutrino attraverso scintillatori e spettrometri ed
un robot estrae solo il mattone interessato, per
poter studiare le emulsioni fotografiche.
Tramite lo studio delle lastre fotografiche si
può identificare la natura del neutrino e verificare
se è avvenuto il passaggio dal tipo muonico a
tauonico.
Conoscere questa particella e i fenomeni che
la interessano sarà di fondamentale importanza
non solo per comprendere appieno le cause
che la determinano, ma anche per ampliare
gli orizzonti dell’astrofisica. Grazie allo studio
dei neutrini sarà infatti possibile delineare una
situazione precisa e aggiornata dello stato del
nostro Sole più di quanto non possa avvenire
oggi con lo studio dei fotoni. Questi ultimi, per
raggiungere la Terra dopo le reazioni avute nel
nucleo della sella, impiegano miliardi di anni. Di
contro i neutrini hanno un passaggio dal nucleo
solare alla nostra atmosfera molto veloce, stimato
nell’ordine di pochi minuti. Questo significa avere
notizie aggiornate e ancora più precise sull’attività e sullo stato di salute del Sole.
La strada da percorrere è ancora lunga.
L’apprensione dei fisici è notevole così come
la voglia di conoscere, di sapere di più sulla loro
natura, sulla loro velocità e di dare una risposta
alla domanda più ovvia:
Che ripercussioni avrà la scoperta del neutrino nel mondo scientifico?
Donatella Peluso
Francesco Volpe
V B Liceo Scientifico
Docenti referenti:
Rosa Aliberti
Francesco Siepe
93
1
Leptoni-tau: Un leptone è una particella subatomica che ad oggi si ritiene sia puntiforme, quindi fondamentale, cioè non composta da altre particelle. Per tau s’intende la famiglia a cui appartiene.
Lyceum Dicembre 2012
Orientamento
Una Scuola di qualità, che garantisce ai suoi studenti una proficua attività curriculare e
una serie di esperienze extracurriculari, non può non aprirsi alle molteplici sollecitazioni che
provengono dal mondo della cultura e della sperimentazione. Ne sono una prova eloquente
l’originale e creativa Mostra fotografica allestita con prodotti realizzati dagli studenti del Liceo
Linguistico e l’interessante visita al “Laboratorio nazionale del Gran Sasso”, effettuata dagli studenti del Liceo Scientifico. Fa da introduzione ai problemi dell’Orientamento un bel “dialogo
etico” fra un docente e un discente.
discussioni
Il Liceo, una scelta di vita
Dialogo etico
(tra un professore e un alunno)
“Scusate, ma cosa s’intende per ragazzo o
ragazza di liceo? Usate sempre questo modo
di dire per indicare noialtri che frequentiamo
questa scuola, ma sembra che vogliate imprimerci un marchio.”
“Ma vi offendo se vi chiamo in questo modo?”
“No, però siamo alunni normali.”
“Ma siete alunni normali, certamente!”
“Allora perché non ci chiamate semplicemente alunni, invece di ribadire, dopo ogni discorso che fate, che siamo ragazzi/e di liceo?”
“Cominciamo col dire che tutti i ragazzi che
frequentano una scuola sono alunni degni di
ogni rispetto, però chi ha deciso di frequentare
un liceo ha operato una scelta di vita particolare. I
ragazzi di liceo leggono un libro per puro piacere;
se ascoltano una canzone, ritengono importante
soprattutto il testo; se studiano, lo fanno per se
stessi; se seguono una lezione, si aspettano di
migliorare le loro conoscenze; se l’insegnante
è mediocre, essi soffrono, non godono, perché
sono consapevoli che stanno perdendo tempo
e non migliorano; se hanno un buon insegnante, sanno valorizzarlo: gli chiedono il massimo,
dando il massimo. Gli alunni
del liceo sono solidali, hanno
degli ideali, conoscono il mos
maiorum (fede, patria, onore,
famiglia…), vivono per la
conoscenza non fine a se
stessa, credono che il mondo
sia da migliorare e non da
peggiorare; se un giorno si
piange, l’altro si ride, perché
sono consapevoli che la vita è
costituita da attimi di infelicità
e felicità, e si fanno coraggio,
ricordandosi il panta rei di
Eraclito; se a qualcuno
di loro chiedi un favore
personale, di solito, te lo
fa; sanno cosa s’intende,
quando si parla d’amore:
essi conoscono Orazio
e Saffo; se in classe parli
di legalità, essi sono a
conoscenza del fatto che
in una società civile non
si ruba, non s’imbroglia, non si mente, non si
denigra, si rispettano le leggi, si pagano le tasse
per senso civico, si offre senza speranza di riconoscenza; se a loro parli di carpe diem, essi non
si limitano a dire che significa ‘cogli l’attimo’, ma
sanno benissimo che quella piccola frase ha mille
significati, e che uno su tutti equivale a godersi
la vita nel rispetto degli altri..”
“Secondo voi, gli insegnanti, oggi, sanno comunicare tutto ciò a noi alunni? Ma vi siete resi
conto che la vostra categoria è considerata
quasi una nullità?”
“Hai ragione, in questo momento storico
l’insegnante non ha molti estimatori,
ma ciò che importa è la vostra preparazione personale. Ti posso assicurare che
la scelta del liceo è una sorta di bonifico
postale: se entri in quella scuola-tempio
e percorri quei corridoi, difficilmente
incontrerai un pessimo insegnante, ma
sarà molto più semplice imbattersi in
un docente-sacerdote, che attende il
suo fedele discepolo. Quando terminerai i tuoi studi liceali, credimi, ti renderai
conto che la cultura è l’unica cosa a cui
bisogna affidarsi per sopravvivere alla
mediocrità.”
Lyceum Dicembre 2012
97
Orientamento
98
“Un’ultima curiosità, visto che
frequento il primo
anno: un ragazzo di
liceo ha una sua vita
sociale? Può coltivare i suoi hobby?”
“Ti cito solo chi
ha frequentato questo tipo di scuola e
capirai che non sei in
un carcere: Gabriele
D’Annunzio, Mario Monicelli, Alessandro Baricco,
Piero Angela, Primo Levi, Giulio Einaudi, Cesare
Pavese, Gianni Agnelli, Giovanni Giolitti, Piero
Gobetti, Giulio Carlo Argan, Giacomo De Benedetti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Parini, Gabriele
Salvatores, Giulio Andreotti, Alberto Moravia,
Vittorio Gassman, Carlo Verdone, Pier Paolo
Pasolini, Marco Biagi, Giovanni Pascoli, Marco
Pannella, Federico Moccia, Maurizio Costanzo,
Maria De Filippi, Salvator Luria (premio Nobel per
la medicina), Oriana Fallaci, Paolo Bonolis, Dario
Argento, Daniele Luttazzi, Valentina Stella, Antonello Venditti, Stramaccioni (tecnico dell’Inter),
Morgan (X Factor), Rossella Brescia, Claudia Koll,
Sabrina Ferilli, Tony Servillo (attore), Elisabetta
Canalis, i Finley (band musicale), Valerio Scanu,
Emma Marrone, Francesca (“Amici” di De Filippi), Adriano Celentano, Federico Fellini, Noemi
(cantante), Giuseppe Giofrè (ballerino di “Amici”),
Alessia Fabiani, Annalisa Scarrone…”
“Nooo!”
“Credo che questi signori abbiano
svolto o ancora svolgono qualche ruolo
nella società e, di
sicuro, hanno avuto
(moltissimi, ormai,
sono passati a miglior vita), hanno e
avranno mille hobby
da coltivare…”
Giuseppe
Robustelli
A fianco la
foto più votata
nell’ambito
della Mostra
fotografica
(autrice:
Carolina Grasso)
MOSTRA FOTOGRAFICA
“La bellezza è negli occhi di chi guarda!”
I
L’espressione
è un nostro diritto!
l poeta e scrittore tedesco J. W. Goethe
affermava: “La bellezza è negli occhi di chi
guarda!” Cosa accadrebbe se decidessimo
di problematizzare il concetto aggiungendo,
al famoso aforisma, un punto interrogativo? È
quello che si sono chiesti i ragazzi del Liceo MaxiLinguistico “T. L. Caro” di Sarno dove, dal 9 al 17
novembre, si è tenuta la prima mostra fotografica
che ha avuto per titolo proprio la domanda sopra
riportata. Con il coordinamento del docente di
Filosofia, prof. Alfredo Carrella, nove studenti,
meglio, nove fotografi in erba hanno strappato
all’oblio dei cassetti, ai meandri di memory card,
pc e quant’altro, immagini davvero straordinarie,
poetiche, problematiche...: Antonella Ambrosio,
Anastasia Babyak, Amina Dahbi, Giulia de Filippo,
Assia de Lorenzo, Antonella Ferrara, Carolina
Grasso, Giusy Iazzetta, Roberto Ruggiero.
Si sono viste ben trentasei foto bellamente
allestite al piano terra del Linguistico ora sul sito
internet del nostro Liceo. Sono state formate
ben otto guide –preparatissime– che hanno
accompagnato le classi a “leggere” il percorso
fotografico: Sara Puzone Bifulco, Paola Vastola,
Cinque Maria Diletta, Roberta Palmerio, Roberto
Ruggiero, Rosa Pastore e Giulia De Filippo.
La mostra è stata visitata, non solo da tutte le
classi del Liceo linguistico e dal Maxi-scientifico,
ma anche dalle classi terze della scuola media “G.
Amendola” di Sarno.
Ogni visitatore poteva liberamente scrivere
su un registro un giudizio, un commento, una
emozione etc. In generale il feedback è stato
molto lusinghiero: “Foto interessanti ed a tratti
suggestive, complimenti!”, “Grazie per averci
regalato un’infinità di emozioni”, “Complimenti!
Siete proprio bravi, qui c’è arte!!”.
Non sono mancati, poi, coloro che hanno
espresso delle ‘perplessità’: “Foto banali” oppure
“Non capisco cos’abbia di artistico una ragazza
con una sciarpa in faccia”, “Bella, ma niente di
interessante”, “Belle ma troppo banali”. Se la
bellezza è davvero negli occhi di chi guarda,
non possiamo certo pretendere da tutti la stessa
reazione.
Abbiamo, ancora, giudizi sibillini del tipo:
Lyceum Dicembre 2012
99
Orientamento
“Senza parole...”, “Un occhio scatta, tanti occhi
guardano. Gli occhi guardano l’occhio che
scatta”.
Nel registro sono finiti pure messaggi che
avrebbero avuto bisogno di un ‘muro’: “Michele
ti amo!”
Infine, ogni spettatore poteva votare la foto
più ‘bella’. La foto vincitrice della Mostra, con
ben cinquanta voti, è stata quella di Carolina
Grasso: un’istantanea – perfetta - che riprende un
episodio dell’ultima manifestazione studentesca
tenutasi a Salerno.
Se c’è un’opinione da tutti condivisa è, sicuramente, l’idea che questa mostra non si sia rivelata
solo un’ottima iniziativa, ma anche e soprattutto,
un modo diverso di fare scuola, slegato dai vincoli
stretti della lezione frontale, un modo per far sì
che i giovani si avvicinino all’arte e alla cultura.
Bellissimo un commento lasciato sul registro:
“L’espressione è un nostro diritto!”
È proprio il caso di dirlo: C’è assolutamente
bisogno di una seconda edizione!
Corrado Cascone
IV M LA
100
Premio “Salvatore Valitutti”
Il prestigioso Premio “Salvatore Valitutti” è stato assegnato a
Salerno il 28 maggio 2012 agli alunni Annarumma Antonio,
Carillo Anna Maria, Cimmelli Federica, Esposito Roberta della
IV C Liceo Classico (attuale V C) per il saggio “La linea d’ombra
tra ordine e disordine”.
La scienza di oggi
è la tecnologia di domani
esperienze
S
abato 10 novembre, i ragazzi della VA
e della VB del “Liceo Scientifico Galileo
Galilei”, accompagnati dalla professoressa
di scienze naturali R. M. Aliberti e dai professori
di fisica S. S. Albano e F. Siepe, hanno visitato
i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con una
puntata alla città dell’Aquila.
Desolazione, silenzio, angoscia: questo è ciò
che regna nel centro storico della città abruzzese. Ad un primo sguardo sembra quasi che
siano state tolte le macerie ma, insieme ad esse,
sembra che abbiano portato via anche l’anima
della città. Dopo il boato del terremoto, l’Aquila
è muta: è un silenzio assordante di chi si dà da
fare per poter ricominciare a vivere e ritrovare
finalmente un sorriso.
Abbiamo visitato la Basilica di Santa Maria di
Collemaggio, l’unica Porta Santa sita in una città
diversa da Roma e la Fontana delle 99 Cannelle,
monumento storico dell’Aquila.
Nel pomeriggio ci siamo recati ai Laboratori
Nazionali del Gran Sasso, il centro di ricerca sotterraneo più grande e importante del mondo, finanziato dall’ INFN, Istituto Nazionale Fisica Nucleare.
L’idea di dotare l’INFN di un grande laboratorio
sotterraneo dedicato alla fisica fondamentale nasce nel 1979 grazie ad Antonino Zichichi, luminare
della fisica delle particelle elementari.
I Laboratori sotterranei sono costituiti da tre
grandi sale sperimentali, ognuna delle quali misura circa 100 m di lunghezza, 20 m di larghezza
e 18 m di altezza e un tunnel di servizio.
Arrivati ai LNGS siamo stati accolti da Alessia,
una giovane ricercatrice laureata in fisica, che
ci ha accompagnati nella visita dei laboratori,
fornendoci prima alcune importanti informazioni per la successiva comprensione degli
esperimenti.
101
La Terra è continuamente bombardata dai
raggi cosmici. Nuclei di idrogeno (H), elio (He) e
di elementi più pesanti colpiscono l’atmosfera
causando una pioggia di particelle secondarie.
Gli studenti della classe VA del Liceo Scientifico durante una
visita al “Laboratorio Nazionale del Gran Sasso” per l’esperimento ICARUS, accompagnati dalla prof.ssa Rosa Aliberti,
dal prof. Sarno Albano e dal Preside prof. Giuseppa Vastola.
Lyceum Dicembre 2012
Orientamento
In superficie queste particelle (circa 100 per m2/s)
costituiscono quello che nel gergo scientifico viene detto ”rumore di fondo” che oscura i rivelatori.
Tuttavia, vi sono particolari particelle, come ad
esempio i neutrini 1 che, non interagendo con la
materia, ci permettono di ottenere preziosissime
ed invariate informazioni su fenomeni che avvengono a migliaia se non a milioni di anni luce dal
nostro pianeta. Quindi i 1400 metri di roccia che
sovrastano i Laboratori hanno il compito di ridurre il flusso dei raggi cosmici che interferirebbero
con la cattura dei neutrini.
Attualmente i Laboratori si stanno occupando di esperimenti relativi alla nascita dell’universo, al funzionamento delle stelle, alla natura del
neutrino e alla scoperta di ciò che costituisce la
materia oscura.
Gli esperimenti da noi visionati sono i
seguenti: Opera, Icarus, Borexino, LVD, Gerda,
Cuore, Dama e Cresst.
OPERA e ICARUS indagano sui neutrini che
vengono prodotti artificialmente dal CERN di Ginevra e che vengono inviati ai LNGS per studiare
102
il fenomeno dell’oscillazione2.
BOREXINO indaga sui neutrini solari emessi
in una particolare reazione che avviene all’interno del Sole, quella del berilio 7 che produce
neutrini elettronici e monoenergetici.
LVD indaga sui neutrini emessi, in un arco di
tempo brevissimo (circa 10-20 secondi), dall’esplosione di supernovae che si trovano nelle vicinanze della nostra galassia o nella nostra galassia.
Un’esplosione di una supernova avviene
circa ogni 30 anni (limitatamente ad una zona)
e l’ultima supernova risale al 1987, cinque anni
La sala in cui si tiene l’esperimento ICARUS.
prima che questo esperimento venisse messo in
funzione (1992). Quindi possiamo dire che si sta
aspettando l’esplosione di un’altra supernova
per catturare i neutrini e studiare così la natura
della stella esplosa.
GERDA indaga sul decadimento doppio
beta senza l’emissione di neutrini3 dell’isotopo4
germanio76 e lo fa utilizzando cristalli di germanio. In GERDA, quindi, il cristallo di germanio
ha una doppia funzionalità: è allo stesso tempo
rivelatore e sorgente del decadimento.
CUORE è ancora in costruzione e per ora vi
è soltanto il prototipo, “Cuoricino”. Anche Cuore
sarà costruito per studiare il decadimento doppio
beta senza emissione di neutrini, ma in questo
caso si vuole vedere il decadimento dell’isotopo
tellurio 103.
La particolarità di questo esperimento è che
il tutto verrà schermato con il “piombo romano”
rinvenuto in una nave romana affondata in
prossimità della Sardegna circa 2000 anni fa. Il
piombo è un ottimo schermo per le radiazioni
esterne, tuttavia ha una difetto intrinseco:
l’isotopo piombo 210, che ha un tempo di dimezzamento dell’ordine di 22 anni. L’interazione
dei raggi cosmici secondari con il piombo riproducono questo isotopo che, decadendo, emette
radiazioni che interferirebbero con il progetto
in questione. Il “piombo romano”, essendo stato
sommerso per 2000 anni, è stato schermato dai
raggi cosmici per cui l’isotopo piombo 210 è
completamente assente. Nel momento in cui
l’hanno portato in superficie, sono state utilizzate
le opportune protezioni per evitare che questo
venisse riattivato.
DAMA vuole dimostrare l’esistenza della
materia oscura tramite la modulazione annuale.
Il flusso delle particelle costituenti l’aria aumenta
con l’aumentare della velocità. In altre parole a
seconda che la terra si trovi in afelio o perielio, il
flusso delle particelle che costituiscono la materia
oscura rispettivamente aumenta e diminuisce.
CRESST indaga sulla materia oscura con
l’obiettivo di conoscere gli elementi che costituiscono la materia oscura.
A chi non è capitato di guardare film come
007, Star Wars e, alla vista di quegli immensi
laboratori con macchinari sofisticati, il cui
utilizzo è quasi impossibile da immaginare,
chiedersi: “ma a cosa serve, in realtà, tutto ciò?”
E questa è la stessa domanda che noi studenti ci
siamo posti dopo aver visto i grandi impianti e le
raffinate apparecchiature che dominano i LNGS.
In realtà pochi sanno che proprio dall’esigenza
degli scienziati a comunicare in tempi molto brevi
un gran numero di notizie è nato il protocollo
internet WWW o dal risultato di questi esperimenti si è giunti alla risonanza magnetica, o che
i neutrini vengono utilizzati nel campo finanziario
come strumento di comunicazione.
“La scienza di oggi è la tecnologia di domani.”
[cit. Edward Teller]
Stefania Balestra, Antonio Roccia,
Luca Ambrosio
V A Liceo Scientifico
Docenti referenti:
Rosa Aliberti
Salvatore Sarno Albano
103
Premio di Poesia “Il Pensiero Libero”
Christian Fiore, studente della IV B del Liceo Classico, è stato
insignito del prestigioso Premio “Il Pensiero Libero” (sez. Poesia,
secondo posto) con la lirica “Il nodo sciolto”. La manifestazione
di Premiazione si è svolta a Pagani il 14 novembre 2012 davanti
a un folto e qualificato pubblico di scrittori, docenti e giornalisti.
Neutrino: particella con una carica elettrica nulla, con una massa vicina allo zero.
Oscillazione del neutrino: fenomeno che vede la trasformazione di un neutrino da un tipo all’altro.
3
Nel doppio decadimento beta senza neutrini l’ antineutrino emesso, si trasforma in un neutrino ed è assorbito immediatamente da un altro nucleone del nucleo, quindi la somma delle energie totali dei due elettroni
è esattamente la differenza dell’energia di legame tra il nucleo iniziale e quello finale.
4
Isotopo: atomo di uno stesso elemento chimico, con ugual numero atomico Z, ma con differente numero
di massa A, e quindi con un differente numero di neutroni.
1
2
Lyceum Dicembre 2012
Itinerari
La sezione Itinerari di questo numero di Lyceum squaderna le attività extra-curriculari del “T.
L. Caro”. Essa si apre con il Progetto di Arte e prosegue con la presentazione dei due Spettacoli,
messi in scena dalle due Compagnie Teatrali del Liceo: La Nave dei Folli e L’allegra Brigata. Seguono
due itinerari di scrittura, imperniati sul registro saggistico, due proposte diverse, ma accomunate
dalla presenza di pregevoli elementi stilistici.
teatro/l’Allegra brigata
Specchio delle
mie trame
“La satira è una sorta di specchio,
dove gli osservatori in genere vedono
le facce di tutti tranne la loro”
Johnatan Swift
I
l topos del teatro come specchio delle trame
letterarie di alcuni tra gli scrittori della tradizione teatrale del Novecento sarà il tema
del laboratorio teatrale dell’Allegra Brigata del
Liceo Classico “T. L. Caro” con sezioni di Liceo
Scientifico, Scienze Applicate, Linguistico per
l’anno scolastico 2012/2013.
Lo spunto che ha avviato la scelta del percorso è stata la riflessione di Italo Calvino sulla fiaba,
vista come genere, che, se pur nella sua sì ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane,
costituisce una spiegazione generale della vita.
Allo stesso modo la condizione di a-temporalità della narrazione fiabesca ben rappresenta
il calo delle luci prima dell’apertura del sipario
che pone lo spettatore in una condizione di trascendenza del sé che vede proiettate sulla scena
le proprie aspirazioni, ansie, sofferenze e gioie.
Il teatro, dunque, come luogo del pieno trascendimento di quella negatività che troviamo
nell’esistenza e nel mondo storico.
L’ a r t i f i c i o
dell’opera letteraria come soluzione palliativa della
disgregazione
della realtà, nella quale sembra
sempre di essere
messi davanti ad
una scelta, cioè se
continuare sulla
via della nostra 107
realtà o imboccare un sentiero
completamente diverso, fatto di continue metamorfosi; in cui nulla è stabile tutto è sottoposto
ad un incessante e vorticoso movimento; il teatro
di parola, di indagine e desiderio diviene quindi
il luogo della giustizia; dove veder ed ascoltare,
come affermava il Basile, “le vicende degli uomini”, “si dà sfratto ai pensieri fastidiosi e si prolunga
la vita; svaporano gli affanni”.
Chiarelli della “Maschera e il volto” (1914),
Pirandello del “Giuoco delle parti” (1918), Pier
Maria Rosso di San Secondo di “Marionette che
passione!”, Luigi Antonelli della “Bottega dei
sogni” (1927), Achille Campanile, Dario Fo, gli
autori che stimoleranno la creatività delle guide:
il maestro Antonio Avigliano e la professoressa
Grazia Celentano che in un progetto attento e
condiviso con i discenti si impegneranno in una
vorticosa e versatile rappresentazione finale che
sicuramente strapperà applausi a piene mani al
suo caro pubblico.
Grazia Celentano
Lyceum Dicembre 2012
Itinerari
LA NAVE DEI FOLLI/ Il nuovo Spettacolo teatrale
Uomini contro
Contro le ombre dei disvalori.
Con la speranza nel cuore.
Che nasce quando tutto sembra morire
L
a scena del teatro è la stessa della vita.
Magnifica e atroce. Terribile e dolce. In
essa si agitano, sotto l’aerea volta del cielo,
speranze e delusioni. E sulla scena si consuma il
dramma universale dell’uomo. A cui fu detto: “Tu
camminerai in eterno, compirai viaggi infiniti e ti
porterai dentro il peso delle ombre che gravano
su di te.” E le ombre che vagano, sul palcoscenico,
di tra i fondali, le quinte e le lignee assi calpestate
sono tante. E spesso innominabili. Si chiamano
potere e sopraffazione, egoismo ed arroganza.
Contro di loro donne e uomini corag108 giosi hanno ingaggiato una battaglia
titanica ed epocale.
Finché un raggio
di luce, misterioso
e inspiegabile, ma
pur sempre capace
di diradare le ombre, attraversa il cielo nero e
minaccioso. E così davanti ai loro occhi increduli
e straniati si accampa l’epifania dell’antimiracolo.
Questi ed altri sentimenti popolano e agitano lo Spettacolo, che la Compagnia teatrale “La
Nave dei Folli” del Liceo Classico, Scientifico e
Linguistico “T. L. Caro” sta preparando per festeggiare il ventesimo compleanno della sua attività.
Operazione iniziale: stesura del testo, ripreso e
transcodificato dalla tradizione classica. Perché
riteniamo che i grandi Classici latini e greci hanno
fondato la cultura dell’Occidente, la democrazia
e la possibilità
di confrontarsi
con l’altro. Anche con l’altro
che abita dentro
di noi.
Poi sarà la volta degli attori, che dovranno
imparare a vedere il mondo con gli occhi dei personaggi a cui daranno voce e vita. E a raccordarsi
con le musiche, i canti e le danze. Una vera e propria Orchestra live accompagna le scene apicali
del lavoro teatrale, fondendo,
come “La Nave dei Folli” fa da
sempre, folk e pop, jazz e rock, in
una concezione che abbiamo da
tempo definito “saturesca”. Fondata, cioè, sulla contaminazione,
sul mélange, sull’ottica liminare
applicata al teatro.
Quello della “Nave dei Folli”
è un teatro che si costruisce durante la messa in
scena, che si adegua alle peculiarità dei discenti,
che cerca di far venire alla luce la creatività dei
giovani. Il “Tito Lucrezio Caro” prova a far questo
lavorando con rigore e con passione nella pratica
curriculare di ogni giorno e proponendo attività
extra-curriculari profondamente formative come
il teatro, che non è un mettersi in mostra, ma un
mettere in discussione se stessi. Andando oltre
i confini delle proprie esperienze, ma sapendo
anche essere sentinelle delle proprie frontiere.
Franco Salerno
Il testo dello Spettacolo della “Nave dei Folli” è di Franco Salerno (con la collaborazione della Sezione “Scrittura
creativa” della Compagnia). La regia è curata da Angelo Pastore e da Franco Salerno; l’arrangiamento e la direzione
delle musiche sono realizzati da Ciro Ruggiero e le coreografie sono ideate e dirette da Carmela Fiore.
itinerari di scrittura/1
Amarsi per
amare la vita e salvarsi
Il vero testamento leopardiano:
L
eopardi, l’uomo, il pensatore, un binomio inscindibile che non è svanito nell’
oblio del tempo contaminato da nuove
e contrastanti ideologie, da indefiniti orizzonti.
Il cantore instancabile, insofferente al conformismo della sua epoca, ha illuminato la mente
dell’uomo, districato con ardore i suoi sensi, annientando con sconvolgente lucidità speranze e
false credenze, annunciando un ‘esistenza desolata e infelice, il cui unico senso, l’ unico fine è la
morte, disgregazione di materia. “Non gli uomini
solamente ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente
ma tutti gli altri esseri a loro modo. Non gli individui, ma la specie, i generi, i regni, i sistemi, i mondi”.
La sua filosofia, vera e dolorosa, è una fonte di
consolazione anche per l’animo più tormentato
e sofferente, riaccedendo un barlume di entusiasmo, un attaccamento seppur momentaneo alla
vita. L’atroce verità infonde nell’uomo un sentimento inesplorato, un amore vero e proprio per
la vita, frammento cosmico fatto di fiato e carne.
Ma negare il vero è arroganza, se l’uomo nega il
vero la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe
potuto essere, un rimorso di ciò che non ha fatto
e avrebbe potuto fare.
I suoi sentimenti non nascono da una condizione personale come la malattia oppure da un
odio insensato e profondo verso gli uomini. In
realtà le sue opere sono destinate ad alleviare i
mali dell’ uomo, a sanare i conflitti e i dissensi tra
creature simili accomunate da un unico destino.
È fondamentale che gli uomini si sostengano e si incoraggino reciprocamente per
affrontare la fatica del vivere. Sì, vivere, occorre vivere: sforzo titanico, virile e disilluso.
Stolto è colui che si piega vigliaccamente dinanzi
all’ oppressore, piangendo e supplicando la rea
natura. Vivere plasmando una social catena nella
quale tutti i componenti conoscano democraticamente il loro stato e condividano sofferenze
109
comuni e, perché no, ridano di esse.
“L’umana compagnia
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce della
guerra comune.”
Leopardi affronta nuovamente un concetto
universale come l’ amore, ma se nelle liriche del
Ciclo di Aspasia “Pensiero dominante” e “Amore e morte” riflette su di
esso come forza che consola ma al
tempo stesso conduce al dolore,
nel suo testamento spirituale tale
sentimento tende a naufragare nella
visione evangelica della fratellanza.
Unico atteggiamento possibile per
un miglioramento probabile della
condizione umana.
Anna Clelia Adiletta
V B Liceo Scientifico
Lyceum Dicembre 2012
Itinerari
itinerari di scrittura/2
La crisi
economica
L
a crisi economica che incombe sul nostro
Paese e che si sta ripercuotendo, anche
in altre nazioni, a livello mondiale, sta
generando naturali problemi anche nell’ambito occupazionale, soprattutto tra i giovani.
In linea con quello che ha sempre caratterizzato
l’Italia, Paese in cui i lavoratori tendono a tenere
ben saldo il proprio posto di lavoro e sono poco
propensi a nuove opportunità, i più penalizzati
sono i giovani, che al termine del corso di studi
si trovano a sperare di accedere ad esso che in
questo momento appare come un mondo cristallizzato e impenetrabile.
La contrazione dei consumi, insieme alla
110
pressione fiscale, non solo rendono difficili nuove
assunzioni, ma portano le aziende a ridurre il
personale, considerato spesso solo una voce di
costo, prediligendo l’impiego di giovani esodati o
extracomunitari che per anzianità lavorativa, per
competenze, naturalmente limitate, e inoltre per
la scarsa durata del rapporto di lavoro gravano di
meno sul sistema economico nazionale.
L’elevato numero di attività analoghe, inoltre, e la crisi dei vari settori, anche di quelli tipicamente più forti, ossia quelli su cui la politica
ha puntato, come il settore edile, industriale,
tralasciando quello turistico, demotivano la
scelta dei giovani lavoratori disoccupati a
iniziare un’attività imprenditoriale autonoma,
preoccupati sia degli investimenti iniziali che
potrebbero divenire un fallimentare tentativo,
sia dall’eccessiva presenza di attività simili già
in essere sul mercato e che lamentano in continuazione la contrazione dell’attività a causa,
appunto, della pressione fiscale.
Esistono però casi di giovani che tendono a
mascherarsi dietro la crisi occupazionale di cui
si sente continuamente parlare in Tv, in radio,
sul web disinteressati alla ricerca di un posto di
lavoro; o che sia tralasciata la ricerca di un’occupazione non in linea con le aspettative retributive o di mansione, preferendo non lavorare
piuttosto che svolgere un’attività di impiego non
appagante, che non è tra le proprie aspettative,
i propri desideri.
Tutto questo porta a numeri sconcertanti,
evidenziando da un lato l’aumento dei giovani
disoccupati inteso come numero di nuove risorse
pronte al mondo del lavoro, ma che non trovano
opportunità, e dall’altro la diminuzione dei giovani occupati, vittime di riduzioni.
L’aumento dei laureati ha creato una situazione tale che spesso, dopo gli studi, è complicato
trovare un’occupazione nell’ambito del titolo
conseguito. Tale dato è evidente sintesi di quanto
esposto in precedenza: oltre alla crisi dell’occupazione, subentrano motivazioni soggettive quali la
mancanza di volontà di trasferirsi altrove.
In un momento così particolare, la progettazione di una vita scolastica dei giovani dovrebbe
essere rivalutata e indirizzata nel pieno rispetto
delle proprie passioni, ambizioni o aspettative.
Si legge di giovani che, avendo fatto scelte
apparentemente discutibili, siano giunti alla
realizzazione personale e professionale.
Pertanto, se da una parte la crisi economica
viene additata come unica causa della disoccupazione giovanile, non ci si può limitare ad
accettare che essa sia assoluta responsabile,
bensì è importante valutare la situazione sotto le
molteplici sfaccettature, valutando attentamente
tutte le motivazioni che hanno portato all’attuale
situazione e cercando di reagire, con i propri
mezzi e impegno, a un momento così delicato.
Raffaele Massa
II B Liceo Scientifico
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n°44 - Dicembre 2012 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro