Il Tempietto La storia contemporanea dalla semplicità del localismo all’universalità della complessità attraverso la transitoria coazione sociale Danilo Veneruso 1. La “rivoluzione nazionale” di Massimo d’Azeglio nel contesto del complesso rivoluzionario triadico in relazione costante con il patrimonio teologico cristiano. Nel 1847 appare e circola nell’opinione pubblica un opuscolo in apparenza modesto del piemontese Massimo d’Azeglio, che gode di fama per essere intellettuale, scrittore, pittore, uomo politico e marito di Giulia, figlia di Alessandro Manzoni. Si tratta della Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana, pubblicato a Firenze dalla editrice fondata e gestita da Felice Le Monnier, un francese trapiantato nella penisola e sensibile al filone rivoluzionario che sta emergendo nel capoluogo toscano, come in Italia e in tutta l’Europa. Questa pubblicazione potrebbe sembrare una delle tante, dal momento che è convinzione diffusa che sulla questione italiana quello che di importante che sull’argomento è stato scritto sia racchiuso negli scrigni 201 inarrivabili di Mazzini e Gioberti. Eppure non è così: dall’opuscolo di Massimo d’Azeglio scaturisce infatti con grande freschezza un senso di universalità che in Mazzini e in Gioberti, non si avverte, o almeno non si avverte più, smarriti come sono in un localismo che come tale non può essere universale e in un opaco strutturalismo statalista che aveva già sconfitto la Rivoluzione francese. Non a caso D’Azeglio ha come interlocutore critico sottilmente non dichiarato ma reale proprio il Gioberti successivo al Primato morale e civile degli italiani (1843), vale a dire il Gioberti autore dei Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani (1845) e de Il Gesuita moderno (1846). D’Azeglio non è certo uno sprovveduto: avverte infatti il bisogno di fare i conti con l’Historismus germanico che, comunque lo si giudichi, non può essere ignorato anche per la statura e la “popolarità” del suo alfiere Georg Friedrich Wilhelm Hegel. In tutto lo scritto del d’Azeglio circola la convinzione che l’a posteriori della storiografia è integrazione, non contraddizione dell’a priori filosofico che circola più compiutamente in Rosmini che in Kant: tanto l’a priori quanto l’a posteriori indicano infatti che il cristianesimo possa e debba essere predicato ed attuato tra gli uomini mediante la complementarità tra Dio e il mondo, tra il tempo e l’eternità, e, per conseguenza, come non manca di sottolineare ripetutamente l’intellettuale piemontese, tra la ragione e la morale. Contro l’assolutismo pieno di esclusività che giunge alla separazione e, di qui, inevitabilmente, alla distruzione 202 Il Tempietto dell’altro, D’Azeglio pone il movimento per l’identificazione della nazione italiana e per la costruzione dello Stato nazionale ad essa correlativo all’interno non già di se stesso (il che sarebbe una tautologia priva di significato in quanto incapace di uscirne), bensì del processo di liberazione dell’umanità intera in virtù della forza convertitrice e rinnovatrice del cristianesimo quale religione dell’umanità. Emergono così due questioni: a) vano e sterile sarebbe il tentativo di attribuire alla rivoluzione nazionale una soluzione particolare al solo popolo italiano e alla sola struttura statale conseguente; b) altrettanto vano e sterile sarebbe isolare la rivoluzione nazionale dalle altre due rivoluzioni, liberale o nazionale che siano, senza le quali nessuna di esse avrebbe senso compiuto. In virtù della Proposta azegliana, la politica nazionale che sta sorgendo all’orizzonte della storia per sostituire il legittimismo monarchico che non ha più ragion d’essere viene affermata ma non assolutizzata. In particolare viene concretamente riferita al patrimonio teologico, spirituale e morale del cristianesimo il quale è capace di mediazioni che fanno vivere, conservare, crescere, giungere al proprio fine tutti gli elementi della realtà ognuno secondo il proprio ordine. Il genero di Manzoni è tanto convinto che il cristianesimo sia capace di mediazioni vitali da aprire con questa consapevolezza la Proposta che comunica non solo agli italiani, ma anche agli europei e, virtualmente, a tutti e, in particolare, ai sostenitori non soltanto della rivoluzione nazionale, ma anche delle rivoluzioni liberale e sociale. Infatti per lui “l’idea di una giustizia universale, d’un rispetto generale al diritto si vien dilatando in tutti gli ordini della società: e sembra prossima ad avverarsi una nuova e grande applicazione del principio cristiano. di quel principio che, per rivestir la giustizia d’un più nobile e quasi divino carattere e formarne un vincolo d’amore tra gli uomini, le ha trovato il nome di carità”1. Dunque Dio, proprio in quanto è principio di carità, può essere soltanto universale: per lo stesso motivo è obbligante senza essere obbligatorio, proprietà che dell’obbligatorietà è anzi l’antitesi. Dio, essendo principio di tutte cose, lo è anche della vita sociale e politica. Pertanto D’Azeglio, presentando “il fine della politica”, lo definisce come “il perfezionamento morale”, da intendersi nel modo cattolicamente più ortodosso, vale a dire come “l’intera sottomissione dell’intelligenza alla verità. e della volontà al dovere di trarne tutte le logiche e pratiche conseguenze che ne derivano”2. Va da sé che questa morale non è soltanto una somma di norme convenzionali per la cosiddetta retta convivenza, certo necessaria ma non sufficiente: così viene auspicato che “il Vangelo dia la sola vera, la sola utile direzione al senso morale” che, come tale, è dimensione comune tanto alla vita religiosa quanto alla vita sociale, politica ed economica, in quanto le finalità della politica, vale a dire “la grandezza e la potenza, sono vere e Il Tempietto durevoli finché non si scostano dal senso morale”; così, se spiritualmente si attua con l’amore, politicamente si attua con lo “spirito di legalità” esteso a tutti i membri della società, dal principe ai sudditi”3. Pertanto la relazione tra struttura e spirito implica la distinzione, modo di operare di ogni mediazione caritativa nei confronti degli elementi presenti nel sistema, come sottolinea Terenzio Mamiani, secondo il quale “lo Stato e la Chiesa, separatissimi negli uffici e nell’autorità, congiuntissmi sono d’animo, d’intendimento e di zelo”4. A sua volta Pasquale Stanislao Mancini, anche dopo il suo passaggio dal gruppo neo - guelfo al liberalismo nazionale tout court, conserva la sua precedente posizione riguardo al machiavellismo al quale rimprovera “un grave e rovinoso errore, quello cioè di considerare possibile un compiuto sistema di politica, escludendo dal suo campo il problema morale e facendo astrazione dal fine della giustizia”. Come si vede, D’Azeglio è il portavoce del gruppo in quel momento molto ampio di “neoguelfi”. Essi, tra l’altro, individuano nella convergenza dello spirito di legalità tra classe dirigente e classe diretta non soltanto una precisa analogia con la lunga tradizione britannica dell’Habeas corpus e con quella molto più breve ed altrettanto significativa degli Stati Uniti d’America da pochi decenni giunti l’’indipendenza politica, ma anche il titolo di “superiorità” dell’Europa sulle altre parti del mondo. Così sottolinea più tardi Vito d’Ondes Reggio 203 protagonista del Quarantotto siciliano ed esule nel Regno di Sardegna, secondo il quale il Vecchio Continente sta passando dal particolarismo della “cristianità”, come tale condannata a restare nei limiti spazio – temporali di una zona ristretta del globo, all’universalità del cristianesimo diffuso nei più remoti angoli della terra sia come Chiesa sia come civiltà6. Dal suo canto D’Azeglio giudica che la parte di genere umano che abita in quell’area euratlantica nella quale sono radicati i valori del cristianesimo7 possa avere i titoli per promuovere in tutto il globo il rinnovamento universale: “Crediamo che fra le nazioni cristiane ai mali sociali sia sempre apparecchiato un rimedio. Ci sembra vedere apparire i segni premonitori d’una più estesa applicazione del principio evangelico. Crediamo che dallo stato di mal essere, sentito generalmente nella società, e prodotto dal conflitto accanito degli egoismi e degli interessi materiali, debba presto emergere il bisogno di un interesse più alto, più universalmente benefico, il senso del sacrificio, il senso morale: crediamo perciò nello sviluppo della pace” che, nella politica collegata al patrimonio teologico, spirituale e morale del cristianesimo, implica “il trionfo del diritto e della pacifica opinione sulla forza”. Come sottolinea l’intellettuale e uomo politico piemontese, “questa nuova deferenza del forte verso il debole è indubbiamente il maggiore sviluppo del più nobili tra i principi cristiani, la carità. E crediamo sia appunto quello del rispetto del diritto 204 Il Tempietto del debole il principio cristiano rinnovato ed ampliato nella sua applicazione”8. Come si vede, il gruppo per così dire “neoguelfo” che nel 1847 trova in Massimo D’Azeglio un valido portavoce sta colorandosi di una sorta di ostentato ottimismo ottimismo perché ritiene sia la corrente vincente. In questo contesto, l’intellettuale e uomo politico piemontese crede di percepire indizi sicuri che “la filosofia del sensualismo sia al tramonto e quella dello spiritualismo all’aurora”. Riferendosi direttamente alla critica di De Maistre allo scientismo di Francis Bacone e ritenendo anche “impossibile all’umanità l’eseguire il semisuicidio di morir nello spirito e rimaner viva soltanto nella materia”, egli crede di trovar la prova di questa aurora “nella tendenza che s’avanza universalmente verso un maggior rispetto al diritto comune”, nella lotta contro la schiavitù, nella maggiore sollecitudine verso il povero e il debole, nella maggiore attenzione verso l’infanzia. Soprattutto è convinto che “dal medesimo principio della carità”, vale a dire dal senso universale della comprensione e del rispetto reciproco “ogni dì più esteso nell’opinione”, scaturiscano “le progressive modificazioni dell’ordine politico, le successive concessioni e transazioni tra governanti e governati”9. 2. Dal fallimento della proposta alla palinodia del D’Azeglio (1848 – 1860). Tredici anni più tardi, lo stesso D’Azeglio si trova a trattare la stessa questione con contenuti e toni diversi da quelli esposti nel 1847. Egli riprende infatti le relazioni tra rivoluzione nazionale italiana e cristianesimo in un anno in cui l’ipotesi del federalismo monarchico italiano sta tramontando insieme al “neoguelfismo” mentre sta concretamente profilandosi la possibilità dell’unificazione italiana sotto lo scettro sabaudo. Pertanto la congiunzione tra politica nazionale e vita spirituale non è più così attuale come alla vigilia del Quarantotto per due ragioni, una di natura religiosa, l’altra di natura politica. Per quanto riguarda la prima, il genero di Manzoni constata che una “separazione” si è venuta nel frattempo a creare tra “dogma cristiano” e “principio cristiano”. Secondo D’Azeglio, tale separazione è stata prodotta dal fatto che “la fede nel domma cristiano non è più estesa e più forte oggi di quel che altre volte non fosse, mentre noi osserviamo che il principio cristiano, in quanto riguarda l’applicazione sociale delle massime e de’ precetti dell’Evangelo non aveva mai gittato ne’ cristiani così profonde radici”. Infatti ancora “oggi gli organi più rispettati de lo comune pensiero, i più eminenti uomini di Stato si fanno i diffusori di questa forma importante dell’eguaglianza nata da domma cristiano, del principio vo’ dire delle nazionalità; e i partiti, al par de’ governi, che dall’interesse son spinti ad avversare ostinatamente quel principio, si trovano costretti dalla voce potente dell’opinione a colorire la loro guerra con pretesti e mezzi Il Tempietto termini altre volte a loro ignoti”. A differenza di molti dei suoi amici che da tempo hanno rotto qualsiasi contatto di complementarità con l’altra rivoluzione di contenuto che è la rivoluzione sociale, l’uomo politico piemontese invece riesce ancora a rinvenire collegamento tra rivoluzione nazionale e rivoluzione sociale da lui valutata in termini di integrazione, non di contraddizione: pertanto considera ancora valido il percorso della pace tanto interna quanto internazionale come strumento di far trionfare “il diritto dei deboli” quale “consacrazione del diritto cristiano”. Come tredici anni prima, posto di fronte all’alternativa tra “persuasione” e “forza” allo scopo di “mantenere gli uomini in associazione politica e per costituire e far durevole uno Stato”, non ha dubbi: la persuasione è il solo metodo degno di scaturire dal principio cristiano. Per questo motivo la volontà di far prevalere il principio della forza per mantenere la società politica è contraria al cristianesimo, per questo motivo “due principi sono ora in lotta, il cristiano e il pagano: quello s’addentra sempre più nelle coscienze, questo domina troppo spesso ne’ fatti”. Tra i fatti che troppo spesso accadono si trova l’atteggiamento dell’Impero asburgico che, pur proclamandosi cristiano ed anzi protettore del cristianesimo e della Chiesa, in realtà segue “il principio pagano” della forza e dell’impero. Per questo le “nazioni cristiane”, ora chiamate a chiarire il loro comportamento di fronte alla “questione italiana” nella quale confluiscono i principi ambedue cristiani della diversità o specificità (rivoluzione 205 nazionale) e dell’eguaglianza, della totalità e dell’unità (rivoluzione sociale, che implica la difesa dei “deboli” che costituiscono la maggioranza delle popolazioni), devono in primo luogo accertare il comportamento da tenere verso l’Austria che, pur dichiarandosi cristiana, nei fatti fa una politica pagana in quanto fa una politica imperialistica di oppressione sociale e nazionale.10 In sostanza, l’ultimo D’Azeglio retrocede al secondo Gioberti e, più indietro ancora, a Hegel filosofo della logica, su due problemi: a) introduzione del fattore “guerra” come condizione generale per ottenere le proprie finalità, indipendentemente dalla necessità di difesa, in violazione del principio di carità che deve presiedere all’intero processo; b) l’affermazione di due “principi”, quello della fede e quello della società dei quali, comunque, il primo deve essere subordinato al secondo. È vero che l’uomo politico piemontese auspica e, per conto suo, promuove ancora la congiunzione in quanto continua a considerare desiderabile l’identità dei fini i quali non è detto che lo siano in quanto il processo starebbe in piedi ma “Qla voce del cantor non è più quella”. 3. Che cosa è avvenuto nel frattempo: dalla fecondità della distinzione alla sterilità della separazione. La “rassegnazione” del secondo d’Azeglio, che più di salvare il salvabile del neoguelfismo non può 206 Il Tempietto fare, trova la sua conferma nella politica cavouriana di separazione tra Stato e Chiesa. Come tale la separazione significa il distacco del collegamento organico tra la struttura vale a dire, in questo caso, della rivoluzione nazionale all’interno del complesso rivoluzionario triadico, e il patrimonio teologico, spirituale e morale della religione di riferimento che è il cristianesimo. Come termine semantico, vale a dire come termine di significato, “separazione” significa contraddizione della “distinzione”: mentre la distinzione, quale esito di relazione, è funzione dell’amore, la separazione è funzione della contraddizione dell’amore che è l’odio, il quale esige guerra per la distruzione dell’altro che, ovviamente, è anche autodistruzione in quanto il se stesso è l’altro dell’altro. Eppure, nella sua formazione giovanile, Camillo di Cavour aveva appartenuto, sia pure in modo meno diretto del D’Azeglio, a quel mondo cattolico al quale suo fratello Gustavo aveva appartenuto direttamente.11 4. Il complesso rivoluzionario triadico. Dalla formazione al rovesciamento C’è ancora dell’altro. La sostituzione della distinzione con la separazione trascina con sé, inevitabilmente e simultaneamente, anche la separazione delle diverse rivoluzioni di cui è costituito il complesso rivoluzionario triadico. La costruzione di questo complesso era stato l’esito di un grande dibattito nel quale erano intervenuti intellettuali di ogni parte d’Europa, tra i quali molti di coloro che saranno poi protagonisti del Risorgimento e dell’unificazione della penisola italiana. Se questa costruzione viene definita rivoluzionaria non è certo per caso. Da una parte si vuole distinguerla dal legittimismo monarchico reimpiantato dal Congresso di Vienna il quale, dichiaratamente e strenuamente conservatore, ormai non può dare alcun frutto e, dall’altra, non può essere definito conservatore ciò che si riferisce al cristianesimo che, come ammetterà Benedetto Croce nel suo opuscolo del 1942 Perché non possiamo non dirci cristiani, è stata la più completa rivoluzione che sia mai avvenuta sulla faccia della terra. Infatti il complesso rivoluzionario triadico è una sorta di arco voltaico per la sintesi tra le varie strutture istituzionali, politiche e sociali e il patrimonio teologico, spirituale e morale del cristianesimo quale religione di riferimento. Tale formazione non avviene tutta di un colpo, ma si stratifica logicamente, e pertanto storicamente, a partire dal 1820. La prima ad emergere è la rivoluzione liberale o, per meglio dire, liberalcostituzionale. Essa, conferendo avviamento e significato all’intero processo, non ha contenuti di tipo strutturale: è soltanto il vettore sul quale transitano le due altre rivoluzioni, quella nazionale e quella sociale che sono invece di contenuto. A loro volta i contenuti rispecchiano dialetticamente, vale a dire inclusivamente nella condizione della coincidentia oppositorum (coincidenza degli opposti), la stessa realtà storica, per cui la rivoluzione nazionale rispecchia la Il Tempietto specificità del genere umano a partire dalla totalità per risolversi nell’individualità della persona, mentre la rivoluzione sociale rispecchia la totalità del genere umano a partire dalla specificità della persona12. Perciò la seconda rivoluzione, che è quella nazionale, è anche la prima di contenuto. Essa emerge, soprattutto per iniziativa di Mazzini e di Fichte, italiano l’uno e tedesco l’altro, nella seconda metà degli anni Quaranta dell’Ottocento, fino a culminare nel Quarantotto. È l’anno in cui la rivoluzione nazionale si estende in tutto il continente europeo, coinvolge una parte delle classi dirigenti dell’Italia e della Germania, porta alla “nazionalizzazione” di quegli Stati dotati di Habeas corpus come la Gran Bretagna o che hanno avvertito l’influenza della rivoluzione liberalcostituzionale come la Spagna, il Portogallo, la Francia, isola gli “imperi” di loro natura supernazionali (Impero asburgico, Impero russo e Impero ottomano) per i quali cominciano a svolgersi processi eversivi che finiscono nella loro dissoluzione. Nello stesso tempo, proprio nel momento in cui, a partire dalla Sicilia, si afferma in tutta Europa la rivoluzione nazionale, viene proposta, sia pure virtualmente, la rivoluzione sociale con il Manifesto del Partito Comunista redatto da Marx e da Engels. 5.L’improprietà dello strumento logico adoperato. Il quadro del complesso rivoluzionario triadico dunque è o, per meglio dire, sarebbe completo senonché, ancora una volta, come era già avvenuto nella 207 Rivoluzione francese, durante lo stesso Quarantotto si rompe la sintesi tra strutture e patrimonio teologico di riferimento. Dal momento in cui le strutture perdono la relazione con tale patrimonio correlativamente perdono anche le proprietà che avevano o che erano postulate in precedenza quali: a) la complementarietà e la solidarietà reciproche e simultanee tra rivoluzione nazionale e rivoluzione sociale; b) l’estensione della solidarietà anche all’interno delle rivoluzioni dello stesso genere, in modo tale che ogni nazionalità diventa concorrente di tutte le altre (sindrome della “torre di Babele”); c) il principio dell’ amore sostituito da quello di odio per governare le relazioni interne od esterne (lotta di nazioni da una parte e lotta di classi dall’altra); d) la possibilità di porre il fattore di integrazione del sistema internazionale che necessariamente deve essere positivo e non negativa. Appare addirittura paradossale la rottura della relazione tra strutture e patrimonio teologico di riferimento se si pensa che Hegel, uno dei maggiori esponenti del grande movimento culturale dell’Historismus, a sua volta erede del romanticismo e dello Sturm und Drang germanico, passa dalla teologia alla filosofia proprio per dotare il proposito di fare del cristianesimo la religione dell’umanità di uno strumento logico adatto alla bisogna. Il grande filosofo di Stoccarda parte dal Quarto Vangelo nel quale si afferma che Dio è spirito e, come tale, 208 Il Tempietto nessuno lo ha mai visto anche se, come creatore e, conservatore e provvidente, è in relazione con tutte le cose.13 Nella dottrina e nella prassi della relazionalità hegeliana si ritrova infatti una contraddizione irriducibile e fuorviante dovuta alla “tautologia”, ovvero all’esito identitario delle relazioni fondamentali della metafisica (scienza dell’essere) e della gnoseologia (scienza della conoscenza), quando non può darsi esito identitario della relazione a meno che i termini della relazione non siano sinonimi. Per giunta l’esito identitario che la relazione tra Dio (spirito) e mondo provoca non può fermarsi alla sua conseguenza panteistica che si è già avuta in precedenza con Plotino e Spinoza, ma privilegia la soluzione “mondo” che possiede una visibilità naturale e storica che lo spirito non possiede. Per questo motivo si producono conseguenze che rendono contraddittoria nel suo insieme la posizione del grande filosofo di Stoccarda, delle quali sono particolarmente importanti: a) dal momento che la relazione tra teologia e filosofia ha esito identitario, tutto il sistema relazionale della logica hegeliana ha inevitabilmente esito identitario o fagocitarlo, oppure, in alternativa, distruttivo; b) pertanto non solo non può reggere l’”immanenza” caratteristica della logica tanto di Hegel quanto di Gentile, ma, nella successione dell’Historismus, è anche logicamente e storicamente inevitabile che l’immanenza si trasformi in materialismo, come infatti avviene in Feuerbach e in Marx; c) la proprietà di inclusività, caratteristica della dialettica di riferimento a Dio - carità che come tale rispetta, conserva, promuove e sviluppa tutti gli enti si rovescia in esclusivismo a motivo della presenza nello schema dialettico dell’“antitesi” che nientifica tanto l’intera proposizione di relazione quanto i soggetti che ne sono i termini, tanto il diverso quanto se stesso, in quanto il se stesso è il diverso dell’altro; d) pertanto ogni relazione ha sempre quale esito il monismo che, come è stato notato nel punto a), è comunque sempre strutturalismo e mai spiritualismo; e) la stessa proprietà primaria che ha sempre caratterizzato l’essere non può reggere in quanto viene tagliata la proprietà creativa dello Spirito; f) perciò, da Hegel in poi, ogni sistema, e quindi ogni metafisica, non cominciano più dall’ontologia, bensì dalla gnoseologia; g) così non è più possibile l’individuazione dell’essere, con la conseguente necessità di tagliare la proprietà creativa dell’Assoluto che pure è esplicitamente indicata dalla fonte giovannea dalla quale il filosofo di Stoccarda è partito; h) di qui emerge la necessità della sostituzione del “personalismo comunitario” con il collettivismo, con la conseguenza della perdita di quella esigenza si concretezza, uno Il Tempietto dei capisaldi della filosofia moderna che di essa, a partire da Cartesio, hanno sempre fatto un punto d’onore. Pertanto la dialettica dello spirito, allo scopo di rendere possibile il passaggio dalla teologia alla filosofia e quindi il passaggio del cristianesimo quale religione storica alla religione dell’umanità, si rovescia nella sua contraddizione. Da questo punto in poi è chiaro che il percorso storico del complesso rivoluzionario triadico si svolge nei seguenti segni: a) del distacco del complesso rivoluzionario triadico tanto nell’insieme quanto nella specificazione delle tre rivoluzioni dal patrimonio teologico, spirituale e morale del cristianesimo; b) della reciproca antitesi fra le tre rivoluzioni che fanno parte del complesso rivoluzionario triadico; c) della guerra, sia essa nazionale, sociale o culturale, civile o internazionale che dir si voglia, quale fattore di aggregazione della o delle società indicate; d) della contraddizione ineliminabile se non nel caso di difesa senza provocazione (“caso polacco” o “caso sovietico” nel caso di aggressione germanica verificatosi nel giugno 1941) tra lo strumento della guerra e l’obiettivo dell’aggregazione sociale; e) dell’impossibilità, ovviamente nei tempi lunghi che sono quelli che contano nella storia, di ottenere qualsiasi vittoria con l’impiego della forza, come è stato constatato nelle 209 guerre provocate dagli Stati euratlantici dal 1914 ai nostri giorni; f) del colonialismo; g) dell’impossibilità, ovviamente nei tempi lunghi che richiede la storia, di ottenere qualsiasi vittoria nell’ambito del colonialismo. Pertanto lo svolgimento hegeliano e posthegeliano dello Spirito come assoluto si svolge in traccia rovesciata rispetto a quella cristiana di riferimento. Ciò significa che, partendo dall’assolutizzazione del principio, si dipanano successivamente l’esclusivismo, il monismo strutturalistico, la despiritualizzazione quale immanenza prima e materialismo poi, e, infine, il nichilismo. Tale percorso, a sua volta, viene trasferito da una rivoluzione all’altra in ragione degli insuccessi consecutivi con la speranza che le altre abbiano il successo che è mancato a quella precedente. 6. Differenze e graduatoria delle diverse rivoluzioni del complesso rivoluzionario triadico. Constatati questi principi e questi criteri, si deve però tener conto della differenza che intercorre tra le diverse rivoluzioni del complesso rivoluzionario triadico. Per quanto riguarda la rivoluzione nazionale, la capacità del fattore di aggregazione sociale è senza confronto molto più intensa di quella delle altre due rivoluzioni. Tuttavia essa possiede il difetto ineliminabile e irreparabile del localismo, per cui quello che è bene 210 Il Tempietto per quella rivoluzione è bene soltanto per la nazione alla quale si riferisce: tipico è il caso della Rivoluzione francese che, nata universale, vale a dire valida per tutti gli uomini, si conclude come Grande Nation, vale a dire valida soltanto per i francesi. Pertanto la rivoluzione nazionale, nata universale come le altre due come si è constatato nel caso di Massimo d’Azeglio, slitta presto in un localismo sempre più sfrenato, fino a sfociare in gare a livello mondiale per ottenere il rango di Stato nazionale egemone per cui tutti le altre nazioni sono colonie. Non è un caso infatti che la rivoluzione nazionale occupi quasi un secolo di guerre, tra cui due mondiali, per ottenere quel niente cui del resto è destinata fin da principio dal momento che il principio nazionale non possiede la capacità di integrare il sistema internazionale di Stati. Tuttavia la rivoluzione nazionale, padrona assoluta del campo fino al 1917, in quell’anno deve affrontare la temibile (per essa) concorrenza tanto della rivoluzione sociale, enunciata virtualmente fin dal Manifesto del Partito Comunista redatto nel 1848 da Marx e da Engels ma non ancora operante istituzionalmente, quanto della rivoluzione liberaldemocratica che, negli Stati Uniti, acquisisce con Wilson quel contenuto strutturale di cui finora è stata priva. Ritenuta responsabile della prima guerra mondiale, incapace di raggiungere i propri obiettivi per i suoi limiti localistici che le hanno impedito di esercitare funzione d’integrazione del genere umano, la rivoluzione nazionale sembra destinata a cedere il campo alle altre due rivoluzioni ben più attrezzate di essa per fungere a questa funzione fino al 1920, quando il fallimento contemporaneo tanto della rivoluzione liberaldemocratica guidata da Wilson quanto dalla rivoluzione sociale guidata da Lenin rimette in carreggiata la rivoluzione nazionale, guidata da Mussolini per l’Italia e poi anche da Hitler per la Germania, nella gara per ottenere il fattore d’integrazione del genere umano concentrato esclusivamente sul soggiogamento coloniale del genere umano. A tale impostazione sembrano cedere per qualche anno (1920 - 1929) perfino i due Stati anglosassoni. Infatti la Gran Bretagna, in ragione della conservazione del primato mondiale che fino allora sembrava dovuto al suo Empire, e gli Stati Uniti, in ragione della loro splendid isolation che è in realtà il camuffamento del fallimento mondiale della rivoluzione liberale riformata da rivoluzione soltanto di metodo a rivoluzione anche di contenuto convergono verso Mussolini considerato campione della civiltà occidentale. Tuttavia l’infatuazione per il duce del fascismo non dura molto: la grande tradizione dell’Habeas corpus alla quale ambedue non hanno mai abdicato perfino in occasione delle tentazioni di potere più seducenti e delle condizioni storiche più difficili porta alla riscossa la rivoluzione liberaldemocratica. Questa non soltanto rompe ogni relazione fino ad accettare la guerra scatenata dall’Italia, dalla Germania e, da lontano, dal Giappone entrato Il Tempietto progressivamente nell’area del colonialismo esclusivo europeo, ma anche si allea prima soltanto in termini militari poi anche politici con il “campione” della rivoluzione sociale anche se guidata da Stalin che pure, con il trattato Ribbentrop – Molotov del 23 agosto 1939, è entrato nella logica della rivoluzione nazionale in termini colonialisti con l’aggressione comune tra Unione Sovietica e Germania per la fagocitazione coloniale della Polonia. La proditoria aggressione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler che intende fare dell’immenso ex – impero russo lo spazio riservato esclusivamente al colonialismo germanico facilita l’alleanza che porta alla vittoria il blocco costituito dalla rivoluzione sociale e dalla rivoluzione liberaldemocratica. Dopo quasi un secolo di prove, la rivoluzione nazionale si rifugia definitivamente in quell’angolino dal quale non avrebbe mai dovuto uscire a causa del suo localismo che, essendo contraddittorio all’universalità, gli aveva impedito di essere il fattore di integrazione del genere umano. Così l’esito della seconda guerra mondiale rivela, questa volta senza ombra di dubbio o di ripensamenti, che rimangono in campo per la palma dell’universalità le rivoluzioni sociale e liberaldemocratica di contenuto. Tuttavia occorre constatare che la rivoluzione sociale guidata da Lenin e Stalin e, da lontano, da Marx partecipa alla vittoria contro la rivoluzione nazionale per il rotto della cuffia, non soltanto per l’enorme sacrificio di 211 sangue di oltre venti milioni di abitanti sofferto dall’Unione Sovietica, ma anche e probabilmente soprattutto per il superamento di una crisi iniziale di riserva, per non dire addittura di sfiducia, che la società sovietica nutre nei confronti della guida ideologica, politica e militare del trio marxista e, in particolare, di Stalin. In che cosa consista questa riserva viene provato dal fatto che, ancora una volta, il regime sovietico punta tutto sulla forza portata fino al terrorismo, sulla gestione colonialistica del sistema internazionale, come si vede nelle repressioni delle nazionalità in Ucraina, nella Russia asiatica, negli Stati cosiddetti “satelliti” dell’Europa orientale e, ultima goccia che fa traboccare il vaso, sull’invasione dell’Afghanistan nel dicembre 1979. Si tratta, in definitiva, delle conseguenze dell’impossibilità e, comunque, dell’impossibilità di puntare su quell’Habeas corpus caratterizzante il binomio anglosassone avente la sua origine dal collegamento con il patrimonio teologico, spirituale e morale del cristianesimo. Queste deficienze strutturali finiscono per generare per implosione tanto la crisi della rivoluzione sociale e del sistema internazionale originata dalla Rivoluzione d’Ottobre del 7 novembre 1917 quanto il passaggio dalla rivoluzione sociale alla rivoluzione liberaldemocratica (1989 – 1991). Così la palma della vittoria definitiva nella storia contemporanea quale storia universale spetta (o, per meglio dire, sembra spettare) alla rivoluzione liberaldemocratica impersonata dagli 212 Il Tempietto Stati euratlantici e, in modo particolare, dagli Stati Uniti d’America che nel frattempo hanno rinunciato alle guerre di natura colonialista nel sud – est asiatico ed hanno allacciato relazioni politico – diplomatiche con la Cina. Per questo motivo può stabilirsi una sorta di graduatoria di importanza logica e dunque storica tra le tre diverse rivoluzioni del complesso rivoluzionario triadico. Partendo dal basso, vale a dire dalla rivoluzione nazionale che è la più intensa, ma anche la più semplice di tutte, si nota che proprio la sua semplicità impedisce che essa possa essere il fattore d’integrazione del genere umano nella sua universalità. Così la rivoluzione sociale si attesta nel gradino superiore a quello della rivoluzione nazionale in quanto il suo principio, vale a dire il lavoro come funzione dell’economia è valido per tutto il genere umano, ma non è in grado di raggiungere il primato in quanto non esprime la complessità che è la cifra più alta di universalità del genere umano. A questo punto va da sé che il primato nel complesso rivoluzionario triadico spetta alla rivoluzione liberaldemocratica perché è l’unica capace di complessità e, dunque, di abbracciare nel suo interno anche le altre due. Non è un caso che questa graduatoria corrisponda alla fase storica che intercorre dallo scoppio della seconda guerra mondiale la quale, nel 1945, sancisce definitivamente l’uscita della rivoluzione nazionale dalla gara per il primato del complesso rivoluzionario triadico come formula, nel significato più ampio possibile, della storia contemporanea quale storia universale, fino alla “guerra fredda” (1947 – 1990) che sancisce la palma della vittoria alla rivoluzione liberaldemocratica ai danni della meno comprensiva rivoluzione sociale secondo la tradizione bolscevica della Rivoluzione d’Ottobre. Per giunta la rivoluzione liberaldemocratica, senza perdere la proprietà di dare avvio e significato all’intero complesso rivoluzionario triadico, con Wilson (1913 – 1921) e, definitivamente, con Franklin Delano Roosevelt, ha aggiunto alla sua originaria funzione vettoriale anche i contenuti propri della complessità, ponendosi così tanto all’alfa quanto all’omega dell’intero processo e comprendendo nel suo capace seno gli elementi propri delle altre due rivoluzioni. A questo punto parrebbe facile condividere il giudizio, reso celebre nel 1995 da Francis Fukuyama, di celebrare addirittura la fine della storia in quanto “tutto è compiuto”: non resta altro che raccogliere ad uno ad uno sotto il suo albero i pomi che cadono, allo stesso modo che tutto era sembrato compiuto quando, nella seconda metà del Seicento, Isaac Newton raccoglieva i pomi che convalidavano il nuovo percorso della scienza. Ma non è così. Dopo la “vittoria” nella guerra fredda, i due Stati anglosassoni, ed in modo particolare gli Stati Uniti hanno soprattutto inteso gestire e guidare la complessità della storia contemporanea con il metodo semplicistico della forza che, essendo Il Tempietto 213 lo strumento dell’odio, non conduce da nessuna parte o, per meglio dire, conduce al nichilismo. Non è così che si può gestire la storia contemporanea come storia universale con il rifiuto di smantellare l’apparato politico e militare relitto della guerra fredda e con la pretesa di entrare con piglio colonialista nel mondo islamico che, nel frattempo, per iniziativa dell’ayatollah Khomeiny, ha compiuto un’autentica rivoluzione passando dal localismo arabico all’universalità religiosa capace di abbracciare tutto il mondo. Ben altro richiede la complessità della storia contemporanea che, per esercitare la funzione d’integrazione del genere umano alla quale è chiamata, richiede almeno tre elementi di cui non può fare a meno. Si tratta pertanto: a) in primo luogo della comprensione universale di tutti gli elementi presenti nell’intero processo; b) indi della presenza e dell’attività di un saldo, positivo e permanente fattore di integrazione capace di sintesi tra le strutture politico – sociali con lo spirito positivo di cui il processo deve essere necessariamente dotato; c) infine della cancellazione del fattore negativo che è il fenomeno bellico, frutto dell’odio, con il conseguente impianto del fattore positivo che è l’amore. Senza questo “trattamento” autenticamente rivoluzionario nulla si ottiene se non il caos, come del resto ha apertamente riconosciuto il presidente degli Stati Uniti Barak Obama nel discorso da lui tenuto al Cairo il 13 giugno 2009 puntando appunto il dito contro l’“odio”. A nulla giova però l’avvertimento (che può suonare addirittura come una presa in giro) se questo vale soltanto per una parte. Occorre in sostanza che prenda radici universali la coscienza che è da abolire la categoria del “nemico” secondo il principio che Dio è amore.14 Note 1. Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana, Firenze, Le Monnier, 1847, pp. 22 -23. Su questa presa di posizione, cfr. D. VENERUSO, Dalla crisi della relazionalità alla formazione delle “religioni politiche” in Europa, in Le radici cristiane dell’Europa. Atti del convegno internazionale di studi tenuto a Treviso dal 6 al 7 febbraio 2004 ad iniziativa della Fondazione Casamassima. Treviso, 2004, pp. 57 – 74, citaz. p. 64 (paragrafo Una proposta” relazionale” per la legittimazione della vita politica). 2. Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 27; D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p. 64. 3. Nel caso di mancanza della relazione tra spiritualità e legalità, cioè tra patrimonio teologico e strutture, vale infatti la puntualizzazione di A. TILGHER: “I principi politici hanno natura dialettica. Lasciati a se stessi, liberi di svilupparsi fino in fondo, trapassano nel contrario di se stessi (libertà, eguaglianza, potenza)” (cfr. A. TILGHER, Diario politico 1937-1942, a cura di L. SCALERO, Roma, 1946, pp. 71 – 72, cit. in D. VENERUSO, Gentile e il primato della 214 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. Il Tempietto tradizione culturale italiana. Il dibattito politico all’interno del fascismo, Roma, 1984, p. 9, Introduzione). Cfr. T. MAMIANI, Di un nuovo diritto europeo, Torino, 1859, p. 346. Cfr. P.S. MANCINI, Diritto internazionale con un saggio su Machiavelli, Napoli, 1873, p. 317. Cfr. V. D’ONDES REGGIO, Introduzione ai principi dell’umana società. Opera da servire ai prolegomeni dello statuto sardo, Genova, 1857, p. 395, sul quale si veda D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p. 64. Cfr. D. VENERUSO, Le rivoluzioni euratlantiche. La rivoluzione nazionale, la rivoluzione sociale e la rivoluzione della libertà, Caltanissetta – Roma, 2008. Cfr, M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 56: D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., pp. 64 65. Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 56; D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p. 66. Cfr. M. D’AZEGLIO, La politica e il diritto cristiano considerati riguardo alla questione italiana: traduzione italiana del dottor S. Bianciardi, con l’aggiunta di una lettera del traduttore, Firenze, 1860, pp. 9- 13. Sulla natura e sui limiti dell’appartenenza di Camillo Cavour al gruppo dei cattolici che, più che liberali, potrebbero essere definiti novatori, si veda il passo del suo discorso in onore di Richard Cobden pubblicato nel periodico Il Commercio (a. X, n. 29, 14 luglio 1847: “Les plus nobles et le plus élévés [des idées] sont certainement, après le idées religieuses, les idées de patrie et de nationalité”. Tuttavia la chiarezza di idee a questo riguardo sono già da qualche anno è subordinata a posizioni di opportunità politica: come sottolinea il più informato dei suoi biografi, R. ROMEO (Cavour e il suo tempo 1852 – 1861, tomo I, Roma – Bari, 1984, p. 236), è convinto che il Cavour abbia maturato l’idea di separazione tra area religiosa ed area politica come il solo rimedio per i conflitti di natura teologica tra il 1842 e il 1843, quando si trovava a Parigi in occasione dei violenti attacchi contro i gesuiti lanciati da Michelet e da Quinet. 12. Sulla questione della dialettica, cfr. E. CASSIRER, Il platonismo in Galilei (1946), in ID., Dall’umanesimo all’illuminismo. Saggi raccolti a cura di P. O. KRISTELLER, Firenze, 1967, pp. 193 – 320 (citaz., pp. 212 – 215). 13. Cfr. Gv. 1, 18. 14. Cfr. lettera prima di Gv., 4, 8, con il commento dell’enciclica Deus caritas est, pubblicata da papa Benedetto XVI il 25 dicembre 2005.