Il Tempietto
La storia
contemporanea
dalla semplicità
del localismo
all’universalità
della complessità
attraverso
la transitoria
coazione sociale
Danilo Veneruso
1. La “rivoluzione nazionale”
di Massimo d’Azeglio nel
contesto del complesso
rivoluzionario triadico in
relazione costante con il
patrimonio teologico cristiano.
Nel 1847 appare e circola nell’opinione
pubblica un opuscolo in apparenza
modesto del piemontese Massimo
d’Azeglio, che gode di fama per essere
intellettuale, scrittore, pittore, uomo
politico e marito di Giulia, figlia di
Alessandro Manzoni. Si tratta della
Proposta di un programma per l’opinione
nazionale italiana, pubblicato a Firenze
dalla editrice fondata e gestita da Felice
Le Monnier, un francese trapiantato
nella penisola e sensibile al filone
rivoluzionario che sta emergendo nel
capoluogo toscano, come in Italia e in
tutta l’Europa. Questa pubblicazione
potrebbe sembrare una delle tante, dal
momento che è convinzione diffusa che
sulla questione italiana quello che di
importante che sull’argomento è stato
scritto sia racchiuso negli scrigni
201
inarrivabili di Mazzini e Gioberti.
Eppure non è così: dall’opuscolo di
Massimo d’Azeglio scaturisce infatti con
grande freschezza un senso di
universalità che in Mazzini e in
Gioberti, non si avverte, o almeno non si
avverte più, smarriti come sono in un
localismo che come tale non può essere
universale e in un opaco strutturalismo
statalista che aveva già sconfitto la
Rivoluzione francese. Non a caso
D’Azeglio ha come interlocutore critico
sottilmente non dichiarato ma reale
proprio il Gioberti successivo al Primato
morale e civile degli italiani (1843), vale
a dire il Gioberti autore dei Prolegomeni
del primato morale e civile degli italiani
(1845) e de Il Gesuita moderno (1846).
D’Azeglio non è certo uno sprovveduto:
avverte infatti il bisogno di fare i conti
con l’Historismus germanico che,
comunque lo si giudichi, non può essere
ignorato anche per la statura e la
“popolarità” del suo alfiere Georg
Friedrich Wilhelm Hegel. In tutto lo
scritto del d’Azeglio circola la
convinzione che l’a posteriori della
storiografia è integrazione, non
contraddizione dell’a priori filosofico
che circola più compiutamente in
Rosmini che in Kant: tanto l’a priori
quanto l’a posteriori indicano infatti che
il cristianesimo possa e debba essere
predicato ed attuato tra gli uomini
mediante la complementarità tra Dio e il
mondo, tra il tempo e l’eternità, e, per
conseguenza, come non manca di
sottolineare ripetutamente l’intellettuale
piemontese, tra la ragione e la morale.
Contro l’assolutismo pieno di esclusività
che giunge alla separazione e, di qui,
inevitabilmente, alla distruzione
202
Il Tempietto
dell’altro, D’Azeglio pone il movimento
per l’identificazione della nazione
italiana e per la costruzione dello Stato
nazionale ad essa correlativo all’interno
non già di se stesso (il che sarebbe una
tautologia priva di significato in quanto
incapace di uscirne), bensì del processo
di liberazione dell’umanità intera in
virtù della forza convertitrice e
rinnovatrice del cristianesimo quale
religione dell’umanità. Emergono così
due questioni:
a) vano e sterile sarebbe il tentativo di
attribuire alla rivoluzione nazionale
una soluzione particolare al solo
popolo italiano e alla sola struttura
statale conseguente;
b) altrettanto vano e sterile sarebbe
isolare la rivoluzione nazionale dalle
altre due rivoluzioni, liberale o
nazionale che siano, senza le quali
nessuna di esse avrebbe senso
compiuto.
In virtù della Proposta azegliana, la
politica nazionale che sta sorgendo
all’orizzonte della storia per sostituire
il legittimismo monarchico che non ha
più ragion d’essere viene affermata ma
non assolutizzata. In particolare viene
concretamente riferita al patrimonio
teologico, spirituale e morale del
cristianesimo il quale è capace di
mediazioni che fanno vivere,
conservare, crescere, giungere al
proprio fine tutti gli elementi della
realtà ognuno secondo il proprio
ordine. Il genero di Manzoni è tanto
convinto che il cristianesimo sia
capace di mediazioni vitali da aprire
con questa consapevolezza la Proposta
che comunica non solo agli italiani, ma
anche agli europei e, virtualmente, a
tutti e, in particolare, ai sostenitori non
soltanto della rivoluzione nazionale,
ma anche delle rivoluzioni liberale e
sociale. Infatti per lui “l’idea di una
giustizia universale, d’un rispetto
generale al diritto si vien dilatando in
tutti gli ordini della società: e sembra
prossima ad avverarsi una nuova e
grande applicazione del principio
cristiano. di quel principio che, per
rivestir la giustizia d’un più nobile e
quasi divino carattere e formarne un
vincolo d’amore tra gli uomini, le ha
trovato il nome di carità”1. Dunque
Dio, proprio in quanto è principio di
carità, può essere soltanto universale:
per lo stesso motivo è obbligante senza
essere obbligatorio, proprietà che
dell’obbligatorietà è anzi l’antitesi.
Dio, essendo principio di tutte cose, lo
è anche della vita sociale e politica.
Pertanto D’Azeglio, presentando “il
fine della politica”, lo definisce come
“il perfezionamento morale”, da
intendersi nel modo cattolicamente più
ortodosso, vale a dire come “l’intera
sottomissione dell’intelligenza alla
verità. e della volontà al dovere di
trarne tutte le logiche e pratiche
conseguenze che ne derivano”2. Va da
sé che questa morale non è soltanto
una somma di norme convenzionali per
la cosiddetta retta convivenza, certo
necessaria ma non sufficiente: così
viene auspicato che “il Vangelo dia la
sola vera, la sola utile direzione al
senso morale” che, come tale, è
dimensione comune tanto alla vita
religiosa quanto alla vita sociale,
politica ed economica, in quanto le
finalità della politica, vale a dire “la
grandezza e la potenza, sono vere e
Il Tempietto
durevoli finché non si scostano dal
senso morale”; così, se spiritualmente
si attua con l’amore, politicamente si
attua con lo “spirito di legalità” esteso
a tutti i membri della società, dal
principe ai sudditi”3. Pertanto la
relazione tra struttura e spirito implica
la distinzione, modo di operare di ogni
mediazione caritativa nei confronti
degli elementi presenti nel sistema,
come sottolinea Terenzio Mamiani,
secondo il quale “lo Stato e la Chiesa,
separatissimi negli uffici e
nell’autorità, congiuntissmi sono
d’animo, d’intendimento e di zelo”4. A
sua volta Pasquale Stanislao Mancini,
anche dopo il suo passaggio dal
gruppo neo - guelfo al liberalismo
nazionale tout court, conserva la sua
precedente posizione riguardo al
machiavellismo al quale rimprovera
“un grave e rovinoso errore, quello
cioè di considerare possibile un
compiuto sistema di politica,
escludendo dal suo campo il problema
morale e facendo astrazione dal fine
della giustizia”.
Come si vede, D’Azeglio è il portavoce
del gruppo in quel momento molto
ampio di “neoguelfi”. Essi, tra l’altro,
individuano nella convergenza dello
spirito di legalità tra classe dirigente e
classe diretta non soltanto una precisa
analogia con la lunga tradizione
britannica dell’Habeas corpus e con
quella molto più breve ed altrettanto
significativa degli Stati Uniti
d’America da pochi decenni giunti
l’’indipendenza politica, ma anche il
titolo di “superiorità” dell’Europa sulle
altre parti del mondo. Così sottolinea
più tardi Vito d’Ondes Reggio
203
protagonista del Quarantotto siciliano
ed esule nel Regno di Sardegna,
secondo il quale il Vecchio Continente
sta passando dal particolarismo della
“cristianità”, come tale condannata a
restare nei limiti spazio – temporali di
una zona ristretta del globo,
all’universalità del cristianesimo
diffuso nei più remoti angoli della
terra sia come Chiesa sia come civiltà6.
Dal suo canto D’Azeglio giudica che la
parte di genere umano che abita in
quell’area euratlantica nella quale
sono radicati i valori del cristianesimo7
possa avere i titoli per promuovere in
tutto il globo il rinnovamento
universale: “Crediamo che fra le
nazioni cristiane ai mali sociali sia
sempre apparecchiato un rimedio. Ci
sembra vedere apparire i segni
premonitori d’una più estesa
applicazione del principio evangelico.
Crediamo che dallo stato di mal
essere, sentito generalmente nella
società, e prodotto dal conflitto
accanito degli egoismi e degli interessi
materiali, debba presto emergere il
bisogno di un interesse più alto, più
universalmente benefico, il senso del
sacrificio, il senso morale: crediamo
perciò nello sviluppo della pace” che,
nella politica collegata al patrimonio
teologico, spirituale e morale del
cristianesimo, implica “il trionfo del
diritto e della pacifica opinione sulla
forza”. Come sottolinea l’intellettuale e
uomo politico piemontese, “questa
nuova deferenza del forte verso il
debole è indubbiamente il maggiore
sviluppo del più nobili tra i principi
cristiani, la carità. E crediamo sia
appunto quello del rispetto del diritto
204
Il Tempietto
del debole il principio cristiano
rinnovato ed ampliato nella sua
applicazione”8.
Come si vede, il gruppo per così dire
“neoguelfo” che nel 1847 trova in
Massimo D’Azeglio un valido
portavoce sta colorandosi di una sorta
di ostentato ottimismo ottimismo
perché ritiene sia la corrente vincente.
In questo contesto, l’intellettuale e
uomo politico piemontese crede di
percepire indizi sicuri che “la filosofia
del sensualismo sia al tramonto e
quella dello spiritualismo all’aurora”.
Riferendosi direttamente alla critica di
De Maistre allo scientismo di Francis
Bacone e ritenendo anche “impossibile
all’umanità l’eseguire il semisuicidio
di morir nello spirito e rimaner viva
soltanto nella materia”, egli crede di
trovar la prova di questa aurora “nella
tendenza che s’avanza universalmente
verso un maggior rispetto al diritto
comune”, nella lotta contro la
schiavitù, nella maggiore sollecitudine
verso il povero e il debole, nella
maggiore attenzione verso l’infanzia.
Soprattutto è convinto che “dal
medesimo principio della carità”, vale
a dire dal senso universale della
comprensione e del rispetto reciproco
“ogni dì più esteso nell’opinione”,
scaturiscano “le progressive
modificazioni dell’ordine politico, le
successive concessioni e transazioni
tra governanti e governati”9.
2. Dal fallimento della
proposta alla palinodia del
D’Azeglio (1848 – 1860).
Tredici anni più tardi, lo stesso
D’Azeglio si trova a trattare la stessa
questione con contenuti e toni diversi
da quelli esposti nel 1847. Egli
riprende infatti le relazioni tra
rivoluzione nazionale italiana e
cristianesimo in un anno in cui
l’ipotesi del federalismo monarchico
italiano sta tramontando insieme al
“neoguelfismo” mentre sta
concretamente profilandosi la
possibilità dell’unificazione italiana
sotto lo scettro sabaudo. Pertanto la
congiunzione tra politica nazionale e
vita spirituale non è più così attuale
come alla vigilia del Quarantotto per
due ragioni, una di natura religiosa,
l’altra di natura politica. Per quanto
riguarda la prima, il genero di Manzoni
constata che una “separazione” si è
venuta nel frattempo a creare tra
“dogma cristiano” e “principio
cristiano”. Secondo D’Azeglio, tale
separazione è stata prodotta dal fatto
che “la fede nel domma cristiano non
è più estesa e più forte oggi di quel
che altre volte non fosse, mentre noi
osserviamo che il principio cristiano,
in quanto riguarda l’applicazione
sociale delle massime e de’ precetti
dell’Evangelo non aveva mai gittato ne’
cristiani così profonde radici”. Infatti
ancora “oggi gli organi più rispettati
de lo comune pensiero, i più eminenti
uomini di Stato si fanno i diffusori di
questa forma importante
dell’eguaglianza nata da domma
cristiano, del principio vo’ dire delle
nazionalità; e i partiti, al par de’
governi, che dall’interesse son spinti
ad avversare ostinatamente quel
principio, si trovano costretti dalla
voce potente dell’opinione a colorire la
loro guerra con pretesti e mezzi
Il Tempietto
termini altre volte a loro ignoti”.
A differenza di molti dei suoi amici che
da tempo hanno rotto qualsiasi contatto
di complementarità con l’altra
rivoluzione di contenuto che è la
rivoluzione sociale, l’uomo politico
piemontese invece riesce ancora a
rinvenire collegamento tra rivoluzione
nazionale e rivoluzione sociale da lui
valutata in termini di integrazione, non
di contraddizione: pertanto considera
ancora valido il percorso della pace
tanto interna quanto internazionale
come strumento di far trionfare “il
diritto dei deboli” quale “consacrazione
del diritto cristiano”. Come tredici anni
prima, posto di fronte all’alternativa tra
“persuasione” e “forza” allo scopo di
“mantenere gli uomini in associazione
politica e per costituire e far durevole
uno Stato”, non ha dubbi: la persuasione
è il solo metodo degno di scaturire dal
principio cristiano. Per questo motivo la
volontà di far prevalere il principio della
forza per mantenere la società politica è
contraria al cristianesimo, per questo
motivo “due principi sono ora in lotta, il
cristiano e il pagano: quello s’addentra
sempre più nelle coscienze, questo
domina troppo spesso ne’ fatti”. Tra i
fatti che troppo spesso accadono si trova
l’atteggiamento dell’Impero asburgico
che, pur proclamandosi cristiano ed anzi
protettore del cristianesimo e della
Chiesa, in realtà segue “il principio
pagano” della forza e dell’impero. Per
questo le “nazioni cristiane”, ora
chiamate a chiarire il loro
comportamento di fronte alla “questione
italiana” nella quale confluiscono i
principi ambedue cristiani della
diversità o specificità (rivoluzione
205
nazionale) e dell’eguaglianza, della
totalità e dell’unità (rivoluzione sociale,
che implica la difesa dei “deboli” che
costituiscono la maggioranza delle
popolazioni), devono in primo luogo
accertare il comportamento da tenere
verso l’Austria che, pur dichiarandosi
cristiana, nei fatti fa una politica pagana
in quanto fa una politica imperialistica
di oppressione sociale e nazionale.10
In sostanza, l’ultimo D’Azeglio
retrocede al secondo Gioberti e, più
indietro ancora, a Hegel filosofo della
logica, su due problemi:
a) introduzione del fattore “guerra”
come condizione generale per
ottenere le proprie finalità,
indipendentemente dalla necessità
di difesa, in violazione del principio
di carità che deve presiedere
all’intero processo;
b) l’affermazione di due “principi”,
quello della fede e quello della
società dei quali, comunque, il
primo deve essere subordinato al
secondo.
È vero che l’uomo politico piemontese
auspica e, per conto suo, promuove
ancora la congiunzione in quanto
continua a considerare desiderabile
l’identità dei fini i quali non è detto
che lo siano in quanto il processo
starebbe in piedi ma “Qla voce del
cantor non è più quella”.
3. Che cosa è avvenuto nel
frattempo: dalla fecondità
della distinzione alla sterilità
della separazione.
La “rassegnazione” del secondo
d’Azeglio, che più di salvare il
salvabile del neoguelfismo non può
206
Il Tempietto
fare, trova la sua conferma nella
politica cavouriana di separazione tra
Stato e Chiesa. Come tale la
separazione significa il distacco del
collegamento organico tra la struttura
vale a dire, in questo caso, della
rivoluzione nazionale all’interno del
complesso rivoluzionario triadico, e il
patrimonio teologico, spirituale e
morale della religione di riferimento
che è il cristianesimo. Come termine
semantico, vale a dire come termine di
significato, “separazione” significa
contraddizione della “distinzione”:
mentre la distinzione, quale esito di
relazione, è funzione dell’amore, la
separazione è funzione della
contraddizione dell’amore che è l’odio,
il quale esige guerra per la distruzione
dell’altro che, ovviamente, è anche
autodistruzione in quanto il se stesso è
l’altro dell’altro. Eppure, nella sua
formazione giovanile, Camillo di
Cavour aveva appartenuto, sia pure in
modo meno diretto del D’Azeglio, a
quel mondo cattolico al quale suo
fratello Gustavo aveva appartenuto
direttamente.11
4. Il complesso rivoluzionario
triadico. Dalla formazione al
rovesciamento
C’è ancora dell’altro. La sostituzione
della distinzione con la separazione
trascina con sé, inevitabilmente e
simultaneamente, anche la separazione
delle diverse rivoluzioni di cui è
costituito il complesso rivoluzionario
triadico. La costruzione di questo
complesso era stato l’esito di un grande
dibattito nel quale erano intervenuti
intellettuali di ogni parte d’Europa, tra i
quali molti di coloro che saranno poi
protagonisti del Risorgimento e
dell’unificazione della penisola italiana.
Se questa costruzione viene definita
rivoluzionaria non è certo per caso. Da
una parte si vuole distinguerla dal
legittimismo monarchico reimpiantato
dal Congresso di Vienna il quale,
dichiaratamente e strenuamente
conservatore, ormai non può dare alcun
frutto e, dall’altra, non può essere
definito conservatore ciò che si riferisce
al cristianesimo che, come ammetterà
Benedetto Croce nel suo opuscolo del
1942 Perché non possiamo non dirci
cristiani, è stata la più completa
rivoluzione che sia mai avvenuta sulla
faccia della terra. Infatti il complesso
rivoluzionario triadico è una sorta di
arco voltaico per la sintesi tra le varie
strutture istituzionali, politiche e sociali
e il patrimonio teologico, spirituale e
morale del cristianesimo quale religione
di riferimento. Tale formazione non
avviene tutta di un colpo, ma si
stratifica logicamente, e pertanto
storicamente, a partire dal 1820. La
prima ad emergere è la rivoluzione
liberale o, per meglio dire,
liberalcostituzionale. Essa, conferendo
avviamento e significato all’intero
processo, non ha contenuti di tipo
strutturale: è soltanto il vettore sul quale
transitano le due altre rivoluzioni, quella
nazionale e quella sociale che sono
invece di contenuto. A loro volta i
contenuti rispecchiano dialetticamente,
vale a dire inclusivamente nella
condizione della coincidentia
oppositorum (coincidenza degli opposti),
la stessa realtà storica, per cui la
rivoluzione nazionale rispecchia la
Il Tempietto
specificità del genere umano a partire
dalla totalità per risolversi
nell’individualità della persona, mentre
la rivoluzione sociale rispecchia la
totalità del genere umano a partire dalla
specificità della persona12. Perciò la
seconda rivoluzione, che è quella
nazionale, è anche la prima di
contenuto. Essa emerge, soprattutto per
iniziativa di Mazzini e di Fichte, italiano
l’uno e tedesco l’altro, nella seconda
metà degli anni Quaranta dell’Ottocento,
fino a culminare nel Quarantotto. È
l’anno in cui la rivoluzione nazionale si
estende in tutto il continente europeo,
coinvolge una parte delle classi dirigenti
dell’Italia e della Germania, porta alla
“nazionalizzazione” di quegli Stati dotati
di Habeas corpus come la Gran Bretagna
o che hanno avvertito l’influenza della
rivoluzione liberalcostituzionale come la
Spagna, il Portogallo, la Francia, isola
gli “imperi” di loro natura
supernazionali (Impero asburgico,
Impero russo e Impero ottomano) per i
quali cominciano a svolgersi processi
eversivi che finiscono nella loro
dissoluzione.
Nello stesso tempo, proprio nel
momento in cui, a partire dalla Sicilia,
si afferma in tutta Europa la rivoluzione
nazionale, viene proposta, sia pure
virtualmente, la rivoluzione sociale con
il Manifesto del Partito Comunista
redatto da Marx e da Engels.
5.L’improprietà dello
strumento logico adoperato.
Il quadro del complesso rivoluzionario
triadico dunque è o, per meglio dire,
sarebbe completo senonché, ancora
una volta, come era già avvenuto nella
207
Rivoluzione francese, durante lo
stesso Quarantotto si rompe la sintesi
tra strutture e patrimonio teologico di
riferimento. Dal momento in cui le
strutture perdono la relazione con tale
patrimonio correlativamente perdono
anche le proprietà che avevano o che
erano postulate in precedenza quali:
a) la complementarietà e la solidarietà
reciproche e simultanee tra
rivoluzione nazionale e rivoluzione
sociale;
b) l’estensione della solidarietà anche
all’interno delle rivoluzioni dello
stesso genere, in modo tale che ogni
nazionalità diventa concorrente di
tutte le altre (sindrome della “torre
di Babele”);
c) il principio dell’ amore sostituito da
quello di odio per governare le
relazioni interne od esterne (lotta di
nazioni da una parte e lotta di classi
dall’altra);
d) la possibilità di porre il fattore di
integrazione del sistema
internazionale che necessariamente
deve essere positivo e non negativa.
Appare addirittura paradossale la
rottura della relazione tra strutture e
patrimonio teologico di riferimento se
si pensa che Hegel, uno dei maggiori
esponenti del grande movimento
culturale dell’Historismus, a sua volta
erede del romanticismo e dello Sturm
und Drang germanico, passa dalla
teologia alla filosofia proprio per
dotare il proposito di fare del
cristianesimo la religione dell’umanità
di uno strumento logico adatto alla
bisogna. Il grande filosofo di Stoccarda
parte dal Quarto Vangelo nel quale si
afferma che Dio è spirito e, come tale,
208
Il Tempietto
nessuno lo ha mai visto anche se,
come creatore e, conservatore e
provvidente, è in relazione con tutte le
cose.13
Nella dottrina e nella prassi della
relazionalità hegeliana si ritrova infatti
una contraddizione irriducibile e
fuorviante dovuta alla “tautologia”,
ovvero all’esito identitario delle
relazioni fondamentali della metafisica
(scienza dell’essere) e della
gnoseologia (scienza della conoscenza),
quando non può darsi esito identitario
della relazione a meno che i termini
della relazione non siano sinonimi. Per
giunta l’esito identitario che la
relazione tra Dio (spirito) e mondo
provoca non può fermarsi alla sua
conseguenza panteistica che si è già
avuta in precedenza con Plotino e
Spinoza, ma privilegia la soluzione
“mondo” che possiede una visibilità
naturale e storica che lo spirito non
possiede. Per questo motivo si
producono conseguenze che rendono
contraddittoria nel suo insieme la
posizione del grande filosofo di
Stoccarda, delle quali sono
particolarmente importanti:
a) dal momento che la relazione tra
teologia e filosofia ha esito
identitario, tutto il sistema
relazionale della logica hegeliana ha
inevitabilmente esito identitario o
fagocitarlo, oppure, in alternativa,
distruttivo;
b) pertanto non solo non può reggere
l’”immanenza” caratteristica della
logica tanto di Hegel quanto di
Gentile, ma, nella successione
dell’Historismus, è anche
logicamente e storicamente
inevitabile che l’immanenza si
trasformi in materialismo, come
infatti avviene in Feuerbach e in
Marx;
c) la proprietà di inclusività,
caratteristica della dialettica di
riferimento a Dio - carità che come
tale rispetta, conserva, promuove e
sviluppa tutti gli enti si rovescia in
esclusivismo a motivo della
presenza nello schema dialettico
dell’“antitesi” che nientifica tanto
l’intera proposizione di relazione
quanto i soggetti che ne sono i
termini, tanto il diverso quanto se
stesso, in quanto il se stesso è il
diverso dell’altro;
d) pertanto ogni relazione ha sempre
quale esito il monismo che, come è
stato notato nel punto a), è
comunque sempre strutturalismo e
mai spiritualismo;
e) la stessa proprietà primaria che ha
sempre caratterizzato l’essere non
può reggere in quanto viene tagliata
la proprietà creativa dello Spirito;
f) perciò, da Hegel in poi, ogni
sistema, e quindi ogni metafisica,
non cominciano più dall’ontologia,
bensì dalla gnoseologia;
g) così non è più possibile
l’individuazione dell’essere, con la
conseguente necessità di tagliare la
proprietà creativa dell’Assoluto che
pure è esplicitamente indicata dalla
fonte giovannea dalla quale il
filosofo di Stoccarda è partito;
h) di qui emerge la necessità della
sostituzione del “personalismo
comunitario” con il collettivismo,
con la conseguenza della perdita di
quella esigenza si concretezza, uno
Il Tempietto
dei capisaldi della filosofia moderna
che di essa, a partire da Cartesio,
hanno sempre fatto un punto
d’onore.
Pertanto la dialettica dello spirito, allo
scopo di rendere possibile il passaggio
dalla teologia alla filosofia e quindi il
passaggio del cristianesimo quale
religione storica alla religione
dell’umanità, si rovescia nella sua
contraddizione.
Da questo punto in poi è chiaro che il
percorso storico del complesso
rivoluzionario triadico si svolge nei
seguenti segni:
a) del distacco del complesso
rivoluzionario triadico tanto
nell’insieme quanto nella
specificazione delle tre rivoluzioni
dal patrimonio teologico, spirituale
e morale del cristianesimo;
b) della reciproca antitesi fra le tre
rivoluzioni che fanno parte del
complesso rivoluzionario triadico;
c) della guerra, sia essa nazionale,
sociale o culturale, civile o
internazionale che dir si voglia,
quale fattore di aggregazione della o
delle società indicate;
d) della contraddizione ineliminabile
se non nel caso di difesa senza
provocazione (“caso polacco” o
“caso sovietico” nel caso di
aggressione germanica verificatosi
nel giugno 1941) tra lo strumento
della guerra e l’obiettivo
dell’aggregazione sociale;
e) dell’impossibilità, ovviamente nei
tempi lunghi che sono quelli che
contano nella storia, di ottenere
qualsiasi vittoria con l’impiego della
forza, come è stato constatato nelle
209
guerre provocate dagli Stati
euratlantici dal 1914 ai nostri
giorni;
f) del colonialismo;
g) dell’impossibilità, ovviamente nei
tempi lunghi che richiede la storia,
di ottenere qualsiasi vittoria
nell’ambito del colonialismo.
Pertanto lo svolgimento hegeliano e
posthegeliano dello Spirito come
assoluto si svolge in traccia rovesciata
rispetto a quella cristiana di
riferimento. Ciò significa che, partendo
dall’assolutizzazione del principio, si
dipanano successivamente
l’esclusivismo, il monismo
strutturalistico, la despiritualizzazione
quale immanenza prima e
materialismo poi, e, infine, il
nichilismo. Tale percorso, a sua volta,
viene trasferito da una rivoluzione
all’altra in ragione degli insuccessi
consecutivi con la speranza che le
altre abbiano il successo che è
mancato a quella precedente.
6. Differenze e graduatoria
delle diverse rivoluzioni del
complesso rivoluzionario
triadico.
Constatati questi principi e questi
criteri, si deve però tener conto della
differenza che intercorre tra le diverse
rivoluzioni del complesso
rivoluzionario triadico. Per quanto
riguarda la rivoluzione nazionale, la
capacità del fattore di aggregazione
sociale è senza confronto molto più
intensa di quella delle altre due
rivoluzioni. Tuttavia essa possiede il
difetto ineliminabile e irreparabile del
localismo, per cui quello che è bene
210
Il Tempietto
per quella rivoluzione è bene soltanto
per la nazione alla quale si riferisce:
tipico è il caso della Rivoluzione
francese che, nata universale, vale a
dire valida per tutti gli uomini, si
conclude come Grande Nation, vale a
dire valida soltanto per i francesi.
Pertanto la rivoluzione nazionale, nata
universale come le altre due come si è
constatato nel caso di Massimo
d’Azeglio, slitta presto in un localismo
sempre più sfrenato, fino a sfociare in
gare a livello mondiale per ottenere il
rango di Stato nazionale egemone per
cui tutti le altre nazioni sono colonie.
Non è un caso infatti che la
rivoluzione nazionale occupi quasi un
secolo di guerre, tra cui due mondiali,
per ottenere quel niente cui del resto è
destinata fin da principio dal momento
che il principio nazionale non possiede
la capacità di integrare il sistema
internazionale di Stati.
Tuttavia la rivoluzione nazionale,
padrona assoluta del campo fino al
1917, in quell’anno deve affrontare la
temibile (per essa) concorrenza tanto
della rivoluzione sociale, enunciata
virtualmente fin dal Manifesto del
Partito Comunista redatto nel 1848 da
Marx e da Engels ma non ancora
operante istituzionalmente, quanto
della rivoluzione liberaldemocratica
che, negli Stati Uniti, acquisisce con
Wilson quel contenuto strutturale di
cui finora è stata priva. Ritenuta
responsabile della prima guerra
mondiale, incapace di raggiungere i
propri obiettivi per i suoi limiti
localistici che le hanno impedito di
esercitare funzione d’integrazione del
genere umano, la rivoluzione nazionale
sembra destinata a cedere il campo
alle altre due rivoluzioni ben più
attrezzate di essa per fungere a questa
funzione fino al 1920, quando il
fallimento contemporaneo tanto della
rivoluzione liberaldemocratica guidata
da Wilson quanto dalla rivoluzione
sociale guidata da Lenin rimette in
carreggiata la rivoluzione nazionale,
guidata da Mussolini per l’Italia e poi
anche da Hitler per la Germania, nella
gara per ottenere il fattore
d’integrazione del genere umano
concentrato esclusivamente sul
soggiogamento coloniale del genere
umano. A tale impostazione sembrano
cedere per qualche anno (1920 - 1929)
perfino i due Stati anglosassoni. Infatti
la Gran Bretagna, in ragione della
conservazione del primato mondiale
che fino allora sembrava dovuto al suo
Empire, e gli Stati Uniti, in ragione
della loro splendid isolation che è in
realtà il camuffamento del fallimento
mondiale della rivoluzione liberale
riformata da rivoluzione soltanto di
metodo a rivoluzione anche di
contenuto convergono verso Mussolini
considerato campione della civiltà
occidentale. Tuttavia l’infatuazione per
il duce del fascismo non dura molto: la
grande tradizione dell’Habeas corpus
alla quale ambedue non hanno mai
abdicato perfino in occasione delle
tentazioni di potere più seducenti e
delle condizioni storiche più difficili
porta alla riscossa la rivoluzione
liberaldemocratica. Questa non
soltanto rompe ogni relazione fino ad
accettare la guerra scatenata
dall’Italia, dalla Germania e, da
lontano, dal Giappone entrato
Il Tempietto
progressivamente nell’area del
colonialismo esclusivo europeo, ma
anche si allea prima soltanto in
termini militari poi anche politici con
il “campione” della rivoluzione sociale
anche se guidata da Stalin che pure,
con il trattato Ribbentrop – Molotov
del 23 agosto 1939, è entrato nella
logica della rivoluzione nazionale in
termini colonialisti con l’aggressione
comune tra Unione Sovietica e
Germania per la fagocitazione
coloniale della Polonia. La proditoria
aggressione dell’Unione Sovietica da
parte di Hitler che intende fare
dell’immenso ex – impero russo lo
spazio riservato esclusivamente al
colonialismo germanico facilita
l’alleanza che porta alla vittoria il
blocco costituito dalla rivoluzione
sociale e dalla rivoluzione
liberaldemocratica. Dopo quasi un
secolo di prove, la rivoluzione
nazionale si rifugia definitivamente in
quell’angolino dal quale non avrebbe
mai dovuto uscire a causa del suo
localismo che, essendo contraddittorio
all’universalità, gli aveva impedito di
essere il fattore di integrazione del
genere umano. Così l’esito della
seconda guerra mondiale rivela, questa
volta senza ombra di dubbio o di
ripensamenti, che rimangono in campo
per la palma dell’universalità le
rivoluzioni sociale e
liberaldemocratica di contenuto.
Tuttavia occorre constatare che la
rivoluzione sociale guidata da Lenin e
Stalin e, da lontano, da Marx partecipa
alla vittoria contro la rivoluzione
nazionale per il rotto della cuffia, non
soltanto per l’enorme sacrificio di
211
sangue di oltre venti milioni di abitanti
sofferto dall’Unione Sovietica, ma anche
e probabilmente soprattutto per il
superamento di una crisi iniziale di
riserva, per non dire addittura di
sfiducia, che la società sovietica nutre
nei confronti della guida ideologica,
politica e militare del trio marxista e, in
particolare, di Stalin. In che cosa
consista questa riserva viene provato
dal fatto che, ancora una volta, il
regime sovietico punta tutto sulla forza
portata fino al terrorismo, sulla gestione
colonialistica del sistema
internazionale, come si vede nelle
repressioni delle nazionalità in Ucraina,
nella Russia asiatica, negli Stati
cosiddetti “satelliti” dell’Europa
orientale e, ultima goccia che fa
traboccare il vaso, sull’invasione
dell’Afghanistan nel dicembre 1979. Si
tratta, in definitiva, delle conseguenze
dell’impossibilità e, comunque,
dell’impossibilità di puntare su
quell’Habeas corpus caratterizzante il
binomio anglosassone avente la sua
origine dal collegamento con il
patrimonio teologico, spirituale e
morale del cristianesimo. Queste
deficienze strutturali finiscono per
generare per implosione tanto la crisi
della rivoluzione sociale e del sistema
internazionale originata dalla
Rivoluzione d’Ottobre del 7 novembre
1917 quanto il passaggio dalla
rivoluzione sociale alla rivoluzione
liberaldemocratica (1989 – 1991).
Così la palma della vittoria definitiva
nella storia contemporanea quale storia
universale spetta (o, per meglio dire,
sembra spettare) alla rivoluzione
liberaldemocratica impersonata dagli
212
Il Tempietto
Stati euratlantici e, in modo particolare,
dagli Stati Uniti d’America che nel
frattempo hanno rinunciato alle guerre
di natura colonialista nel sud – est
asiatico ed hanno allacciato relazioni
politico – diplomatiche con la Cina.
Per questo motivo può stabilirsi una
sorta di graduatoria di importanza
logica e dunque storica tra le tre
diverse rivoluzioni del complesso
rivoluzionario triadico. Partendo dal
basso, vale a dire dalla rivoluzione
nazionale che è la più intensa, ma
anche la più semplice di tutte, si nota
che proprio la sua semplicità
impedisce che essa possa essere il
fattore d’integrazione del genere
umano nella sua universalità. Così la
rivoluzione sociale si attesta nel
gradino superiore a quello della
rivoluzione nazionale in quanto il suo
principio, vale a dire il lavoro come
funzione dell’economia è valido per
tutto il genere umano, ma non è in
grado di raggiungere il primato in
quanto non esprime la complessità che
è la cifra più alta di universalità del
genere umano. A questo punto va da
sé che il primato nel complesso
rivoluzionario triadico spetta alla
rivoluzione liberaldemocratica
perché è l’unica capace di complessità
e, dunque, di abbracciare nel suo
interno anche le altre due.
Non è un caso che questa graduatoria
corrisponda alla fase storica che
intercorre dallo scoppio della seconda
guerra mondiale la quale, nel 1945,
sancisce definitivamente l’uscita della
rivoluzione nazionale dalla gara per il
primato del complesso rivoluzionario
triadico come formula, nel significato
più ampio possibile, della storia
contemporanea quale storia universale,
fino alla “guerra fredda” (1947 –
1990) che sancisce la palma della
vittoria alla rivoluzione
liberaldemocratica ai danni della meno
comprensiva rivoluzione sociale
secondo la tradizione bolscevica della
Rivoluzione d’Ottobre. Per giunta la
rivoluzione liberaldemocratica, senza
perdere la proprietà di dare avvio e
significato all’intero complesso
rivoluzionario triadico, con Wilson
(1913 – 1921) e, definitivamente, con
Franklin Delano Roosevelt, ha
aggiunto alla sua originaria funzione
vettoriale anche i contenuti propri
della complessità, ponendosi così tanto
all’alfa quanto all’omega dell’intero
processo e comprendendo nel suo
capace seno gli elementi propri delle
altre due rivoluzioni.
A questo punto parrebbe facile
condividere il giudizio, reso celebre
nel 1995 da Francis Fukuyama, di
celebrare addirittura la fine della
storia in quanto “tutto è compiuto”:
non resta altro che raccogliere ad uno
ad uno sotto il suo albero i pomi che
cadono, allo stesso modo che tutto era
sembrato compiuto quando, nella
seconda metà del Seicento, Isaac
Newton raccoglieva i pomi che
convalidavano il nuovo percorso della
scienza. Ma non è così. Dopo la
“vittoria” nella guerra fredda, i due
Stati anglosassoni, ed in modo
particolare gli Stati Uniti hanno
soprattutto inteso gestire e guidare la
complessità della storia
contemporanea con il metodo
semplicistico della forza che, essendo
Il Tempietto
213
lo strumento dell’odio, non conduce da
nessuna parte o, per meglio dire,
conduce al nichilismo. Non è così che
si può gestire la storia contemporanea
come storia universale con il rifiuto di
smantellare l’apparato politico e
militare relitto della guerra fredda e
con la pretesa di entrare con piglio
colonialista nel mondo islamico che,
nel frattempo, per iniziativa
dell’ayatollah Khomeiny, ha compiuto
un’autentica rivoluzione passando dal
localismo arabico all’universalità
religiosa capace di abbracciare tutto il
mondo. Ben altro richiede la
complessità della storia
contemporanea che, per esercitare la
funzione d’integrazione del genere
umano alla quale è chiamata, richiede
almeno tre elementi di cui non può
fare a meno. Si tratta pertanto:
a) in primo luogo della comprensione
universale di tutti gli elementi presenti
nell’intero processo;
b) indi della presenza e dell’attività di
un saldo, positivo e permanente fattore
di integrazione capace di sintesi tra le
strutture politico – sociali con lo
spirito positivo di cui il processo deve
essere necessariamente dotato;
c) infine della cancellazione del fattore
negativo che è il fenomeno bellico,
frutto dell’odio, con il conseguente
impianto del fattore positivo che è
l’amore.
Senza questo “trattamento”
autenticamente rivoluzionario nulla si
ottiene se non il caos, come del resto
ha apertamente riconosciuto il
presidente degli Stati Uniti Barak
Obama nel discorso da lui tenuto al
Cairo il 13 giugno 2009 puntando
appunto il dito contro l’“odio”. A nulla
giova però l’avvertimento (che può
suonare addirittura come una presa in
giro) se questo vale soltanto per una
parte. Occorre in sostanza che prenda
radici universali la coscienza che è da
abolire la categoria del “nemico”
secondo il principio che Dio è amore.14
Note
1. Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta di un
programma per l’opinione nazionale
italiana, Firenze, Le Monnier, 1847, pp.
22 -23. Su questa presa di posizione, cfr. D.
VENERUSO, Dalla crisi della
relazionalità alla formazione delle
“religioni politiche” in Europa, in Le
radici cristiane dell’Europa. Atti del
convegno internazionale di studi tenuto a
Treviso dal 6 al 7 febbraio 2004 ad
iniziativa della Fondazione Casamassima.
Treviso, 2004, pp. 57 – 74, citaz. p. 64
(paragrafo Una proposta” relazionale” per
la legittimazione della vita politica).
2. Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 27;
D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p. 64.
3. Nel caso di mancanza della relazione tra
spiritualità e legalità, cioè tra patrimonio
teologico e strutture, vale infatti la
puntualizzazione di A. TILGHER: “I principi
politici hanno natura dialettica. Lasciati a se
stessi, liberi di svilupparsi fino in fondo,
trapassano nel contrario di se stessi (libertà,
eguaglianza, potenza)” (cfr. A. TILGHER,
Diario politico 1937-1942, a cura di L.
SCALERO, Roma, 1946, pp. 71 – 72, cit. in
D. VENERUSO, Gentile e il primato della
214
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
Il Tempietto
tradizione culturale italiana. Il dibattito
politico all’interno del fascismo, Roma,
1984, p. 9, Introduzione).
Cfr. T. MAMIANI, Di un nuovo diritto
europeo, Torino, 1859, p. 346.
Cfr. P.S. MANCINI, Diritto
internazionale con un saggio su
Machiavelli, Napoli, 1873, p. 317.
Cfr. V. D’ONDES REGGIO, Introduzione
ai principi dell’umana società. Opera
da servire ai prolegomeni dello statuto
sardo, Genova, 1857, p. 395, sul quale si
veda D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p.
64.
Cfr. D. VENERUSO, Le rivoluzioni
euratlantiche. La rivoluzione
nazionale, la rivoluzione sociale e la
rivoluzione della libertà, Caltanissetta –
Roma, 2008.
Cfr, M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 56:
D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., pp. 64 65.
Cfr. M. D’AZEGLIO, Proposta, cit., p. 56;
D. VENERUSO, Dalla crisi, cit., p. 66.
Cfr. M. D’AZEGLIO, La politica e il
diritto cristiano considerati riguardo
alla questione italiana: traduzione
italiana del dottor S. Bianciardi, con
l’aggiunta di una lettera del traduttore,
Firenze, 1860, pp. 9- 13.
Sulla natura e sui limiti dell’appartenenza
di Camillo Cavour al gruppo dei cattolici
che, più che liberali, potrebbero essere
definiti novatori, si veda il passo del suo
discorso in onore di Richard Cobden
pubblicato nel periodico Il Commercio (a.
X, n. 29, 14 luglio 1847: “Les plus nobles
et le plus élévés [des idées] sont
certainement, après le idées religieuses, les
idées de patrie et de nationalité”. Tuttavia
la chiarezza di idee a questo riguardo sono
già da qualche anno è subordinata a
posizioni di opportunità politica: come
sottolinea il più informato dei suoi biografi,
R. ROMEO (Cavour e il suo tempo 1852 –
1861, tomo I, Roma – Bari, 1984, p. 236),
è convinto che il Cavour abbia maturato
l’idea di separazione tra area religiosa ed
area politica come il solo rimedio per i
conflitti di natura teologica tra il 1842 e il
1843, quando si trovava a Parigi in
occasione dei violenti attacchi contro i
gesuiti lanciati da Michelet e da Quinet.
12. Sulla questione della dialettica, cfr. E.
CASSIRER, Il platonismo in Galilei
(1946), in ID., Dall’umanesimo
all’illuminismo. Saggi raccolti a cura di P.
O. KRISTELLER, Firenze, 1967, pp. 193 –
320 (citaz., pp. 212 – 215).
13. Cfr. Gv. 1, 18.
14. Cfr. lettera prima di Gv., 4, 8, con il
commento dell’enciclica Deus caritas est,
pubblicata da papa Benedetto XVI il 25
dicembre 2005.
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