Testi a cura di fr. Massimo Rossi O.P. Finito di stampare nel mese di Dicembre 2013 dalla Tipolitografia Edigraph snc 10020 Andezeno (TO) Frati Domenicani Via San Domenico, 1 10023 Chieri (To) “mais cest un martyr!” beato Giuseppe Girotti domenicano testimone della fede nell’inferno di Dachau «In me è buio, ma da te c’è luce, io sono solo, ma tu non mi lasci son pusillanime, ma da te c’è aiuto sono irrequieto, ma da te c’è pace in me c’è amarezza, ma da te pazienza le tue vie non comprendo, ma tu conosci la retta via per me». Dietrich Bonhöeffer I n questo nostro tempo sembra esserci rimasto ben poco da sperare... Ebbene, con buona pace dei profeti di sventura che riempiono le pagine dei quotidiani e si contendono la ribalta delle tivù, la speranza è il nutrimento del desiderio, la condizione necessaria per ogni progetto, la terza dimensione della storia... Senza la speranza non solo la fede mancherebbe di verità e di realtà, ma anche la vita stessa dell’uomo. Senza la speranza quella meravigliosa invenzione che chiamiamo tempo sarebbe incagliata nell’oggi, come in un fermo-immagine che cristallizza il presente rendendolo infinito. Un paradosso per giunta beffardo, dal momento che l’uomo non è in grado di cogliere l’attimo e di trattenerlo, continuamente in bilico tra passato e avvenire. In questa riflessione sulla speranza tout court, si colloca il concetto di speranza cristiana; alcuni teologi definiscono la seconda virtù teologale una certezza dilazionata: la speranza inaugurata dal Risorto poggia infatti, da una parte, sulla certezza rappresentata dal mistero di Cristo, ormai compiuto, e dall’altra, sull’incertezza del nostro mistero, delle nostre convinzioni, della nostra volontà di realizzare nella storia la Verità rivelata dal Figlio di Dio, in un mondo e dentro una civiltà ove, come direbbe S. Giovanni, gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (cfr. Gv 1). Alcuni pensatori del 900 hanno accettato la sfida di misurarsi con la speranza, ma il loro approccio è stato spesso critico, per non dire addirittura negativo. Si parlerebbe oggi di eutanasia della speranza. Del resto, sorge spontanea la domanda se, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, in un campo di sterminio nazista, si potesse ragionevolmente sperare ancora in qualcosa, in qualcuno... Per il Domenicano fr. Giuseppe Girotti, per il teologo Dietrich Bonhöeffer, per padre Kolbe, per suor Edith Stein, per Salvo D’Acquisto, per 2 molti altri uomini e donne, cristiani o non cristiani, conosciuti o sconosciuti, uccisi nei lager, l’invito accorato di S. Paolo a sperare contro ogni speranza (cfr. Romani 4,18), è diventato una testimonianza vivente che il grido della speranza è più forte di quello della violenza e la luce vince sempre sulle tenebre. Cenni storici e biografici Il Servo di Dio fr. Giuseppe Girotti nacque ad Alba il 19 luglio 1905, primogenito dei tre figli di Celso e Martina Proetto; ricevette il Battesimo il 30 luglio nella parrocchia di S. Lorenzo. Fin dalla più tenera età fu educato secondo i principi cristiani. La sua non era una famiglia benestante, tuttavia i tre i fratellini frequentarono le elementari e poi vennero inviati nel collegio domenicano di Panorama di Alba e facciata del Duomo Chieri (TO) ove proseguirono gli studi. Nel gennaio 1919 Giuseppe fu accolto nel piccolo Seminario dei frati Domenicani (Chieri); il 7 ottobre del 1922 iniziò il noviziato a Viterbo; un anno dopo emise i primi voti religiosi. Compì gli studi filosofici prima a Fiesole e Viterbo, poi a Chieri; ivi seguì anche i corsi di teologia e il 3 agosto del 1930 venne ordinato presbitero. Gli anni successivi fr. Giuseppe approfondì gli studi 3 biblici, rispettivamente a Torino (convento di Santa Maria delle Rose), a Roma (Università domenicana San Tommaso d’Aquino - Angelicum) e infine a Gerusalemme (École Biblique). Tornato a Torino cominciò ad insegnare S. Scrittura, presso il convento di S. Maria delle Rose; contemporaneamente lavorò ad un commento alla Bibbia subentrando al confratello fr. Marco Sales, morto nel 1936. Le testimonianze sulla sua competenza scientifica e dedizione alla ricerca sono unanimi. Al lavoro più propriamente professionale, Giuseppe univa un prezioso ministero pastorale nel servizio umile agli anziani indigenti dell’ospizio “Poveri Vecchi” che sorgeva davanti al convento. Nel gennaio ’39 il Servo di Dio fu sospeso dall’insegnamento, a motivo di tensioni presenti all’interno della Provincia domenicana piemontese, tra coloro che desideravano una maggiore sensibilità dell’Ordine verso i fedeli – fr. Giuseppe era tra questi – e quelli che difendevano invece la prassi tradizionale, nella linea restauratrice imposta dal Maestro dell’Ordine, fr. Martino Gilet. Padre Girotti continuò gli studi e nel ’41, dopo il volume sui Sapienziali, pubblicò un commento al libro di Isaia. Nell’ottobre del ’42 venne reintegrato nell’insegnamento: ma il religioso non riprese più le lezioni; ormai era orientato al servizio della carità, che lo spinse ad operare clandestinamente, per aiutare le vittime della repressione nazifascista. È necessario precisare subito che la sua azione in favore dei perseguitati non si inserì mai in alcun movimento politico, né attività di partito, né iniziativa partigiana: l’opera di fr. Giuseppe rispondeva esclusivamente ad uno slancio interiore ispirato alla carità di Cristo, obbediente alla scelta vocazionale di vivere con e per i poveri, gli ultimi, gli emarginati, diseredati, perseguitati a causa della giustizia, secondo il più genuino spirito delle Beatitudini evangeliche (cfr. Mt 5,10-12). Il 29 agosto 1944 fr. Giuseppe fu arrestato e tradotto alle Carceri Nuove di Torino.Trasferito il mese successivo a S. Vittore (MI) e poi a Bolzano, nell’autunno partì per Dachau, ove fu internato nel cosiddetto Blocco dei preti, la baracca riservata ai sacerdoti e ai religiosi. Interrogato sulla figura del Servo di Dio, mons. Carlo Manziana, compagno di prigionia, dichiarò: «Mentre il suo comportamento nel campo non aveva nulla di eccepibile, ritengo che quello che ha caratterizzato la personalità di Girotti sia soprattutto il 4 Il convento di S. Domenico a Chieri, visto dall’alto e dal cortile Chieri, chiesa di S. Domenico 5 suo impegno nel salvare gli Ebrei. Ha confermato nella sofferenza quello che aveva anteriormente operato nell’esercizio della carità. Edif icante come religioso e sacerdote, semplice, buono e umile, era dotato di un’intelligenza e competenza eccezionali». All’arrivo nel campo di concentramento, veniva imposto ai prigionieri di denudarsi per la disinfestazione: fr. Giuseppe incoraggiò il compagno don Angelo Dalmasso ad affrontare quella penosa umiliazione, dicendo: «Coraggio, siamo alla X stazione della Via Crucis!». Nei mesi dolorosi che seguirono il Servo di Dio rimase fedele alla sequela di Cristo, salendo passo dopo passo il monte della crocifissione. Lo sostennero la preghiera e lo studio della S. Scrittura, così riferiscono concordi i testimoni. L’omelia sull’unità dei cristiani da lui pronunciata nel gennaio del ’45 ne è una prova eloquente. Don Dalmasso commenta: «P. Girotti manifestava semplicità, mitezza del giudizio, amore per la Parola di Dio. Era in ottimi rapporti anche con i non cattolici. Aiutava gli altri in tutto quello che poteva. Si animava con la speranza in Dio misericordioso e cercava di animare gli altri. Ricordo che scherzando mi diceva che, se fosse tornato in Italia, avrebbe chiesto ai superiori di andare in un conventino, dove avrebbe passato il tempo a ringraziare Dio ed insieme scrivere qualche poesia». P. Girotti morì nell’aprile del ’45, probabilmente il primo del mese, per una iniezione letale. Il suo stato di deperimento fisico era ormai irreversibile, a causa dei rigori del lager. Dalla cospicua documentazione raccolta emerge l’eroica virtù del martire. Il calvario e la nascita al cielo del Servo di Dio non lasciano dubbi. A prescindere dalle modalità, irrilevanti ai fini della valutazione, si è trattato di morte violenta. Ugualmente chiara appare la motivazione di sola carità verso gli Ebrei perseguitati, per la quale fr. Giuseppe fu internato a Dachau. Altre motivazioni di ordine politico e ideologico vengono escluse da coloro che gli furono più vicini. Le testimonianze dei sopravvissuti, che condivisero la prigionia nel lager, convengono nell’affermare l’evangelicità della sua condotta, retta dalla costante tensione a rimanere fedele alla sequela Christi. Nella sua dolorosa e gloriosa vicenda terrena spicca in maniera particolare lo stretto rapporto tra Parola di Dio e stile di vita, un rapporto corroborato dal coraggio della fede, testimoniata fino all’effusione del sangue. 6 S. Maria delle Rose a Torino: il convento e la cripta della chiesa 7 Verso la Beatificazione... Il 2 giugno del ’45, a seguito della Liberazione, don Dalmasso consegnò ai frati di S. Domenico di Torino gli effetti personali di p. Girotti, tra i quali alcuni appunti manoscritti. Il clima politico era ancora troppo confuso per dare doveroso risalto pubblico alla morte di fr. Giuseppe; tuttavia, tra i confratelli che lo avevano conosciuto di persona, cominciò a farsi strada la convinzione che si potesse riconoscere la virtù eroica del martirio. Nel 1955 la Comunità ebraica di Torino conferì alla memoria del p. Girotti un Diploma di benemerenza, e nel convento di S. Domenico fu collocata una lapide commemorativa. Il 1988 è l’anno della richiesta formale di aprire la causa di Canonizzazione e iniziò il Processo canonico. Nel 1995, a cinquant’anni dalla morte, il p. Girotti ricevette il prezioso riconoscimento “Giusto tra le genti” che il Governo di Gerusalemme assegna a coloro che hanno sacrificato la vita per aiutare le vittime dell’Olocausto. La cerimonia si svolse di fronte ad un pubblico commosso di fedeli: al discorso commemorativo tenuto dal Console di Israele in Italia, fece seguito un concerto spirituale del Complesso Vocale “Musica Laus” di Torino, fondato e diretto dal Domenicano fr. Luigi Mulatero. Fu un’occasione per manifestare come l’arte e la parola, insieme, possono pienamente esprimere il comune senso religioso e la riconoscenza per la misericordia che Dio manifesta, suscitando in alcuni suoi figli l’eroismo della fede. Dalla vasta raccolta di testimonianze messe agli atti del processo diocesano, emerge l’elogio della carità del frate domenicano e della testimonianza resa nel campo di concentramento fino al martirio. I Consultori della S. Sede chiesero al Tribunale torinese di approfondire l’inchiesta sulla fama martiriale, al fine di illuminare la vicenda con particolare riferimento ai mesi della prigionia nel lager. Lo studio offre ulteriori spunti preziosi per annoverare questa pagina eroica della carità alle tante pagine firmate col sangue negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dai tanti cristiani, i quali finirono i loro giorni come fr. Giuseppe Girotti, in un campo di sterminio nazista. È il «dramma umano e spirituale di tanti fratelli, rinchiusi e inceneriti nei campi di concentramento; la vicenda di fr. Giuseppe Girotti, in particolare, non cessa di scuotere le coscienze del mondo intero, con quel suo altissimo sentimento di solidarietà che, prima e durante la passione, gli aveva fatto dire più volte:Tutto quello che faccio è solo per la carità» (Cristoforo Bove OFMConv.). 8 École Biblique di Gerusalemme P. Girotti a Gerusalemme P. Girotti, secondo da destra in seconda fila. Sotto: Padre Lagrange, seduto in prima fila, il secondo da destra. 9 Date essenziali 1905 nascita e Battesimo ad Alba 1912 prima Comunione 1911-1917 scuole elementari e a S. Domenico di Chieri (TO) 1919-1922 Seminario minore domenicano di Chieri 1922-1923 accoglienza nell’Ordine con il rito della vestizione e noviziato a Viterbo 1923 prima professione dei voti 1924-1925 studi filosofici a Fiesole e Viterbo 1925-1930 completamento della filosofia, a Chieri, cui segue il triennio istituzionale di teologia 1930 (3 agosto) Ordinazione presbiterale a S. Domenico di Chieri 1931-1934 perfezionamento in Sacra Scrittura a Torino, Roma e Gerusalemme 1935-1938 insegnamento a Torino Le Rose 1938-1944 pubblicazione di un commento sui Libri Sapienziali e Profeta Isaia, e assistenza agli Ebrei di Torino 1944 (29 agosto) arresto e internamento nelle carceri Nuove di Torino; trasferimento a Milano (21 settembre), poi a Bolzano, infine a Dachau 1944-1945 passione e morte nel lager: il 20 marzo viene diagnosticato al Servo di Dio un cancro al fegato; il 1º aprile si diffonde la voce che p. Girotti è morto per iniezione letale. Il cadavere finisce in una fossa comune. Un anonimo compagno di prigionia incide sulla testiera del suo giaciglio: “San Giuseppe Girotti”. 10 Torino San Domenico: il corridoio superiore del convento e la chiesa 11 Torino: Ospizio dei Poveri Vecchi Torino: ingresso del carcere “le Nuove” 12 un vero martirio della fede Dal concetto alla realtà Il termine “martirio” significa testimone, testimoniare; è la testimonianza che un fedele rende a Cristo e alla sua dottrina, affrontando volontariamente la morte, o almeno le sofferenze inflittegli in odio a Cristo e alla sua religione. Questa parola viene dunque usata per indicare un credente che, in nome della fede e dei propri ideali, accetta di subire il sacrificio di sé fino alla morte; traduce il latino martyr, derivante dal vocabolo greco martys che significa testimone. Inizialmente usato per indicare una persona che rendeva in qualche modo testimonianza, solo in seguito il vocabolo martirio ha implicato il sacrificio corporale e la morte violenza. Il significato originale non è stato in questo caso tuttavia abbandonato, bensì approfondito e reso specifico: il martire è effettivamente un testimone della propria fede e, nel sommo intento di rendere testimonianza a questa fede, accetta in qualche modo la passione e la morte. Quanto affermato riguarda in modo particolare al cristianesimo primitivo: in uno studio sulla spiritualità del martirio il prof. Cardinale Michele Pellegrino scrive: «Il cristianesimo dei primi secoli fu giustamente caratterizzato come la Chiesa dei martiri, perché, sebbene i fedeli abbiano goduto lunghi periodi di tranquillità, l’ostilità più o meno aperta e attiva del potere temporale e dei suoi rappresentanti verso la religio illicita, l’avversione radicata nelle masse popolari che esplodeva di quando in quando in violenze sanguinose, la polemica letteraria condotta dagli Ebrei e dai f ilosof i pagani, mantenevano nei cristiani la coscienza del pericolo permanente a cui li esponeva la professione della propria fede e che da un giorno all’altro poteva richiedere la testimonianza del sangue. E quando ciò avveniva, l’ammirazione della comunità circondava gli atleti di Cristo, considerati quali esemplari della vita cristiana professata nel mondo più sublime ed eroico». Il martire è quindi colui al quale viene richiesta la “testimonianza del sangue”, testimonianza che peraltro non tutti i componenti di una comunità, neppure quella cristiana, sono in grado di offrire come ribadisce lo stesso Cardinal Pellegrino: 13 «Converrà notare che quanto diciamo dell’atteggiamento dei martiri non si potrebbe senz’altro trasferire alle disposizioni della comunità cristiana dei loro tempi. I martiri rappresentavano nella Chiesa una sorta di aristocrazia della virtù, né si può pensare che tutti i cristiani si elevassero alla loro altezza». In senso lato il martire è colui che sostiene la sua fede religiosa, i suoi ideali filosofici, politici con singolare ed eroica coerenza, fino al punto di darne espressa testimonianza con il sacrificio della vita. Per i martiri cristiani l’ideale unico che deve essere testimoniato è la totale fedeltà alla Parola di Cristo, fedeltà che si realizza nell’imitare il Maestro fino a seguirne l’esempio lungo la strada del Calvario e nell’estremo supplizio della croce. D’altra parte è lo stesso Cristo che ha promesso l’eterna beatitudine a tutti coloro che avranno sopportato vessazioni fisiche e morali per essere rimasti fedeli ai suoi insegnamenti; in ultima analisi, l’essenza del martirio cristiano si racchiude nella promessa contenuta nel Vangelo di Matteo (5,1012), promessa alla quale hanno prestato fede i primi apostoli di Gesù, molti dei quali sono stati appunto suppliziati nel vano tentativo di impedire loro di diffondere la dottrina del loro Maestro. Non a caso nell’antica letteratura martirologica, il Cristo viene presentato come esempio da imitare, o come consolatore ed aiuto nel sopportare le pene corporali, o ancora, come termine supremo di amore, a causa del quale, occorre sacrificare eroicamente la propria vita, se necessario. Quale atto può sancire meglio l’assoluto della fede cristiana, se non quello di imitare Gesù anche nel momento della sua passione e morte? Il martire cristiano, ovvero il più autorevole testimone di Cristo, è colui che ha dovuto subire gravi maltrattamenti fisici, o morali a causa della sua fedeltà alla lettera del Vangelo; questa testimonianza raggiunge il supremo grado di completezza quando il fedele perde la vita, ossia dona il suo bene terreno più prezioso. Stando alle testimonianze, è assai probabile che frate Girotti sia stato ucciso con un’iniezione di veleno, ma queste testimonianze sono tutte indirette in quanto nessuno tra i testimoni ha assistito alla morte del Domenicano. Viceversa sembra sufficientemente documentato il carcinoma al fegato diagnosticato dietro esame radiologico dal medico cecoslovacco che ebbe in cura il Domenicano per un breve periodo di tempo. Dobbiamo concludere che è stato il cancro e non il lager a causare la morte di frate Girotti? Procediamo con ordine. 14 Poco prima è stato accennato che la violenza generata nei campi di sterminio aveva come scopo la distruzione psico-fisica della persona e questo fatto ha tutto sommato una sua tragica e crudele logica, dal momento che tutti i prigionieri in questi campi di concentramento erano dei nemici, reali o potenziali, del III Reich. «(...) Il prigioniero politico doveva infatti morire. Ma morire lentamente, seguendo un criterio ed un ritmo scientif icamente stabiliti, per mezzo di una dieta che permettesse di sf inirlo senza ucciderlo subito in modo da poter utilizzare le sue estreme energie – f ino alle ultime stille – per potenziare la grande Germania. (...) Ci sentivamo decadere e non soltanto nel f isico. La fame lancinante produceva manie e distorsioni psicologiche pietose. Ho visto uomini di grande levatura morale e intellettuale nascondere furtivamente nel pagliericcio qualche tubero rubato; altri racimolare con lunga pazienza ed accumulare nello stipo pezzettini di pane e lasciarveli muff ire pur di avere il gusto di vederli e toccarli ogni tanto: mentre loro stessi e molti compagni intorno stavano morendo di denutrizione». È la toccante testimonianza di don Angeli, deportato nel lager di Mauthausen. In certi casi l’annientamento psicologico diventava quasi un fattore indispensabile per la conservazione fisica dell’individuo, come è chiaramente dimostrato dal seguente brano tratto sempre dalla testimonianza di don Angeli: «È diff icile dare giudizi in base alle esperienze fatte nei campi di concentramento, ma credo che si possano fare alcune osservazioni signif icative. I russi per esempio erano di certo quelli che soffrivano di meno. Non perché fossero trattati meglio, ma perché quella vita non li meravigliava affatto e vi si adattavano con disinvoltura. Le pene morali, i motivi ideali e sentimentali che per noi erano spine insopportabili, sembrava non avessero alcun senso per loro. I becchini del campo, gli addetti al forno crematorio e al carro dei morti erano quasi tutti russi. Ladri perfetti, rubavano tutto il possibile dai magazzini e ai compagni di sventura, con una tecnica sbalorditiva. Chi aveva l’ingenuità di non mettersi gli zoccoli sotto la testa, di notte, poteva star sicuro di non trovarli più l’indomani mattina. Per rubare qualche patata dai carri del campo erano capaci di rischiare la vita, sf idando i mitra delle sentinelle. Se qualcuno era riuscito a trovare o a comprare al mercato nero, col cambio di pane o sigarette, un capo di vestiario di un certo interesse, doveva stare ben attento a non circolare di sera. Infatti se fosse stato individuato, avrebbe trovato per strada un russo che gli dava una spinta, un altro era pronto a fargli lo sgambetto, altri sopraggiunge15 vano a fare confusione e a gettarlo per terra... un istante dopo si trovava solo e privo del prezioso oggetto. La pena intima e struggente di ogni prigioniero è il ricordo dei cari lontani. La conversazione tra due detenuti che s’incontrano per la prima volta ha quasi sempre inizio di lì: - Di dove sei tu? Hai famiglia?...e tua madre? I russi a simili domande ridevano... - Madre... madre... ah! Scheisse. Non possiamo tradurre la parola per decenza. Ma quella parola ed il gesto col quale i russi l’accompagnavano facevano gelare il cuore. Forse quegli infelici erano un tipico prodotto di lunghi anni nei campi hitleriani. Milioni di loro compatrioti erano morti: essi erano sopravvissuti solo perché erano riusciti ad “adattarsi”, spogliandosi di ogni sentimento o sensibilità, riducendo al minimo i loro attributi umani. Col passare dei mesi avrei potuto notare lo stesso fenomeno in molti altri “anziani” di ogni nazionalità e condizione». Da questo ampio stralcio traspare in modo chiaro la tesi, peraltro suffragata da approfonditi studi psicologici e psichiatrici, dell’annichilimento mentale inteso come totale rimozione dai più fondamentali valori umani a favore della sopravvivenza fisica. Per questi prigionieri l’essenziale è rimanere in qualche modo vivi; poco importa se la conservazione della vita deve avvenire a discapito di altri compagni di sventura. Nella cruda legge della sopravvivenza ad oltranza, sentimenti come l’amore per la famiglia, o il rispetto per la vita del prossimo possono diventare gravi ostacoli per il conseguimento dello scopo e quindi devono essere necessariamente e sistematicamente eliminati; soltanto un egoista meschino e prepotente ha qualche possibilità in più di percorrere fino in fondo il calvario, rimanendo vivo, per quanto psicologicamente ridotto ad uno stato infraumano. Per contro possiamo affermare, in base alle testimonianze raccolte, che fr. Giuseppe Girotti operò una scelta diametralmente opposta: mantenne intatta la sua integrità psicologica, mentre il suo fisico deperiva progressivamente, di malattia in malattia, fino alla morte. Tutto il periodo trascorso a Dachau dal Domenicano venne infatti contrassegnato dalle sofferenze fisiche che tuttavia non intaccarono mai le sue intime convinzioni religiose e morali. 16 Il frontespizio dei commenti ai Libri Sapienziali e al Libro di Isaia redatti da Padre Girotti 17 Le stazioni della Via Crucis Padre Girotti arrivò a Dachau il 9 ottobre 1944, insieme con il sacerdote don Angelo Dalmasso, il quale in seguito, si sarebbe rivelato il più autorevole testimone oculare, nell’indagine condotta per ricostruire il breve periodo di permanenza del Domenicano nel lager. È proprio don Dalmasso a darci un quadro rapido ed esauriente dell’arrivo a Dachau: «Padre Girotti ed io eravamo in testa con i nostri abiti religiosi restituitici prima della partenza. Un militare germanico si avvicinò a padre Girotti e dopo avergli strappata di mano violentemente la valigia cominciò a urlare e a malmenarlo. Parlava in tedesco e non capivamo. Un prigioniero vestito con una certa cura si avvicinò a me e in latino mi disse che bisognava lasciare tutto e spogliarsi completamente conservando le sole scarpe: noi due religiosi per primi! Padre Girotti mi ricordò la decima stazione della via Crucis – Gesù viene spogliato dei vestiti – ed iniziammo insieme l’umiliante operazione sotto una pioggerella di ottobre penetrante f in nelle ossa». In questo episodio iniziale già si delinea la futura presa di posizione del frate domenicano: la violenza e l’umiliazione inflitta dal nazista divengono infatti strumenti necessari per imitare Cristo, il quale, prima di essere crocifisso, dovette subire violenze e umiliazioni ancora più gravi. In tal modo, le vessazioni fisiche e psicologiche non solo non scalfirono minimamente le certezze dottrinali del Girotti, ma, al contrario, le ravvivarono, diventando esse stesse strumento di crescita spirituale e di maturazione psicologica. Seguire l’esempio di Cristo significa accettare, in caso di necessità, anche la sua stessa agonia, la sua stessa morte fisica; di questo il Domenicano sembra essere ben consapevole fin dall’inizio della sua permanenza a Dachau, come dimostra chiaramente questo episodio narrato sempre da don Dalmasso: «Una sera il famoso priore domenicano di Colonia, padre Roth, portò al suo confratello un piccolo supplemento di cibo, un pezzetto di formaggio. Padre Girotti mi chiamò in disparte e me lo consegnò dicendo: Prendi, tu sei giovane, hai più bisogno di me». Questo atto di carità cristiana in un posto in cui, come afferma categoricamente un altro testimone “on crevait littéralement de faim”, non solo mette in risalto la ferma volontà del frate di seguire senza alcuna condizione gli insegnamenti evangelici, ma evidenzia altresì come la sua scelta fosse diametralmente opposta a quella operata dai prigionieri russi di Mauthausen, dei quali ha parlato sopra don Angeli. Se la pratica della carità infatti è per il frate condizione essenziale per rimanere fedele al suo credo religioso, essa 18 deve sempre e comunque essere esercitata, anche quando può effettivamente rivelarsi un pericolo per la propria sopravvivenza. È stata dunque la carità una delle principali cause del deperimento fisico di Girotti? Difficile dare una risposta precisa, ma è chiaro che essa influì in modo decisivo. Dal 9 ottobre fino alla fine del mese p. Girotti dovette sottostare ad una specie di quarantena, alla quale venivano sottoposti tutti i deportati; in teoria essa doveva costituire una normale procedura di profilassi nonché un periodo di addestramento, per dar modo ai nuovi prigionieri di apprendere le regole del campo. Nella realtà dei fatti invece essa rappresentava il primo passo verso quella distruzione fisica e psichica dell’individuo che il lager doveva in seguito perfezionare e portare al fatale compimento. Don Angeli, parlando della quarantena di Mauthausen che lui aveva subito, la definisce «un noviziato rapido, ma della più alta eff icacia dimostrativa, fatto di terrore, fame e umiliazioni inaudite». 19 Durante la quarantena di Dachau, il cibo distribuito ai prigionieri era particolarmente scarso, in quanto i detenuti in quarantena non lavoravano e quindi non avevano diritto alle pur magre razioni distribuite invece ai prigionieri che svolgevano la loro opera all’interno del lager. Il sovraffollamento delle baracche che ospitavano i detenuti era inaudito: basti pensare che nel blocco 26, costruito per contenere circa 180 persone, si assiepavano 1.800 prigionieri, quasi tutti preti polacchi. In queste tragiche condizioni si capisce quanto fosse mendace e assurdo il tentativo delle autorità naziste di far apparire la quarantena un normale procedimento per la profilassi: le malattie, in particolare quelle infettive, trovavano un terreno favorevole per il loro sviluppo in quei corpi sfiniti dal digiuno ed ammucchiati in modo disumano. Quando la quarantena era finita i prigionieri venivano destinati alle attività del lager: a p. Girotti toccò il “plantage”, ovvero una specie di istituto agricolo sperimentale, di cui era proprietario Himmler e che contava tra i propri azionisti anche Goebbels: l’azienda procurava lauti guadagni ai maggiori gerarchi nazisti. Per capire cosa poteva rappresentare questo immenso orto per un prigioniero addetto alla sua manutenzione, dobbiamo rifarci alla testimonianza diretta di don Angeli: «Vicino al campo si estendeva un vasto terreno che le SS facevano coltivare dai detenuti. Dalla mattina presto f ino al tramonto, con un freddo umido che penetrava nelle ossa, mal vestiti e indeboliti dalla fame, dovevamo estrarre patate dai “magazzini”. I magazzini erano costituiti da fosse profonde riempite di patate e ricoperte di terra che funzionavano da frigoriferi. Avevamo per solo strumento le mani: la terra era ghiacciata e le mani si gonf iavano e sanguinavano». Non meno tragica è la testimonianza del parroco alsaziano Goldschmit: «(...) I detenuti curavano 5 ettari solo di gladioli coltivati per il loro contenuto vitaminico. Con i colori smaglianti dei f iori, con il suo fresco verde, la piantagione avrebbe offerto in primavera e in estate un magnif ico quadro; ma c’era il tremendo lavoro degli schiavi. Davanti agli aratri e agli erpici venivano attaccati dei parroci e sei uomini dovevano tirare il pesante carico». In quegli anni la grande Germania era senz’altro la nazione tecnologicamente più progredita d’Europa; tuttavia i prigionieri erano costretti ad estrarre le patate dal terreno ghiacciato usando le mani nude e venivano attaccati agli aratri e agli erpici per svolgere un lavoro adatto ai buoi e non agli uomini. Ancora una volta abbiamo la tragica dimostrazione del vero scopo del lager, distruggere ogni parvenza di umanità, per rendere una persona sempre più simile a una bestia. 20 «O morte, sarò la tua morte!» (Osea 13,14) È proprio sul terreno dell’annientamento psicologico-affettivo che il lager perde la sua battaglia più significativa, quando si scontra con personalità forti e risolute come quella di p. Giuseppe Girotti. Oltre alle testimonianze citate, sappiamo che, quando il lavoro e la salute glielo permettevano, il frate Domenicano si ritirava a pregare nella cappella che la Gestapo aveva inspiegabilmente lasciato costruire nel blocco 28; ogni mattina, alle 4 circa, partecipava alla Messa e riceveva la Comunione; compose persino una poesia in latino, purtroppo perduta, in occasione dell’Ordinazione segreta del diacono Karl Leisner, avvenuta il 18 dicembre 1944, proprio nella cappella del blocco 28. Durante il tempo libero fr. Giuseppe studiava la Bibbia in compagnia di un pastore luterano tedesco e scriveva saggi, forse sul libro del profeta Geremia; infine, tenne due conferenze sulle virtù teologali e pronunciò un discorso in latino per l’unità delle Chiese. Dicono inoltre che conservò a lungo il suo spirito ilare e sereno, nonostante il lavoro estenuante e le malattie e che ricevette la Comunione fino al giorno precedente la sua morte. Don Angeli lo definisce un uomo «(...) mite, umile e sereno... di grande pietà e cultura non comune, noto come commentatore e critico di una famosa edizione della Bibbia». È indubbio che l’uomo, lo studioso ed il credente Giuseppe Girotti non vennero in alcun modo alterati dall’esperienza di Dachau. Si può anzi sottolineare come in questo caso il lager abbia prodotto un risultato opposto a quello che avrebbe invece dovuto ottenere: ben lungi dal ridurre un uomo di fede al puro stato di sopravvivenza animale, al contrario, ne mise in evidenza la coerenza, la cultura, la fedeltà eroica ai principi religiosi. Ben diversa influenza ebbe invece l’azione del campo di sterminio sul fisico del Domenicano e non ci può essere nessun dubbio che in questo caso il lager raggiunse il suo scopo. La salute di fr. Giuseppe venne presto minata da una serie di malattie via via sempre più gravi: l’artrite, la nefrite, la pleurite e infine il carcinoma al fegato; queste malattie dovettero fare la loro comparsa in modo immediato, quando il religioso aveva appena iniziato il suo sfibrante lavoro nel “plantage”. Afferma il suo compagno di prigionia don Dalmasso: “Lavorò al plantage delle SS. Fin da allora accusava un dolore lombare, e ha sempre chiesto di essere curato, ma gli fu rif iutata ogni cura; lavorava sotto l’acqua e la neve e sotto le sferzate degli sgherri, portando addosso gli abiti bagnati per parecchie giornate. (...) Ciò nonostante egli ha mantenuto uno spirito ilare e sereno, e mai si è 21 lamentato. Divenne amico di don Mario Grazioli; per mezzo di mons. Sperling egli ottenne di farlo visitare da un medico cecoslovacco. Il che fece, di nascosto dai tedeschi. Gli riscontrò un principio di nefrite e di artrite. Già da giorni aveva febbre alta. Per suo interessamento fu sospeso il lavoro al plantage (...)». Alla fatica estenuante, ai maltrattamenti ed alla denutrizione debbono poi essere aggiunti gli appelli, specialmente quelli che seguivano il ritorno dal lavoro dei detenuti, durante i quali gli sventurati dovevano rimanere in piedi, immobili, spesso sotto la pioggia o sotto la neve anche tutta la notte; i sadici esercizi ginnici imposti ai prigionieri a capriccio dei Blockfuhrer, anche per due o tre ore di seguito, con un rigore invernale di dieci, quindici gradi sotto zero, spesso dopo una intera giornata lavorativa; i pidocchi, le terribili disinfezioni, e l’epidemia di tifo petecchiale che verso la fine di dicembre 1944 si era scatenata nel campo di Dachau. È evidente che il lager causò, o per lo meno aggravò notevolmente le malattie che martoriarono il frate fino alla sua irreversibile prostrazione fisica; dal momento che Girotti soggiornò per circa una decida di giorni nell’infermeria di Dachau, non sarà superfluo ascoltare ancora una volta la testimonianza di don Angeli, lui pure degente nella stessa infermeria per un certo tempo: «Era un’infermeria modello, quella di Dachau K.L.3. Sui pagliericci erano stese lenzuola di tela a quadratini azzurri; davanti ad ogni pagliericcio era appesa la tabella clinica col graf ico della febbre sempre aggiornato; in un angolo della baracca c’era la bilancia per controllare ogni 15 giorni il peso dei malati, e si faceva, ogni settimana, l’esame dello sputo e, ancora ogni settimana, la radiograf ia. La faccenda delle radiograf ie era straordinaria. Ci si alzava pre- Le baracche di Dachau 22 sto, si faceva la doccia e, nudi e bagnati, con uno straccio di coperta sulle spalle si andava al reparto radiologico. Un tragitto di 3-400 metri allo scoperto sotto la neve e l’acqua gelida. Poi l’attesa nel cortile, o in un corridoio dalle f inestre spalancate, per un’ora, due, o tre... Gli occhi dei disgraziati brillavano per la febbre, tutto il corpo raggelato tramava per il freddo. Le ginocchia si piegavano. Qualcuno tentava di sedersi al suolo, ma passava l’infermiere: Su in piedi, alzatevi! Molti crollavano e allora, qualche volta, venivano stesi su una barella. Ogni settimana così: le SS erano gelose della salute dei loro prigionieri. Bisognava far avanzare la scienza e per questo erano necessari esperimenti, statistiche, controlli. Specialmente esperimenti. L’infermeria del Dachau K.L.3 era attrezzatissima per questo. Vi si studiavano la malaria e altre malattie, infettandone alcuni detenuti. Vi studiavano le reazioni delle varie malattie al freddo. Mi raccontarono (ma questo non l’ho potuto verif icare con i miei occhi) che spesso denudavano alcuni disgraziati e li tenevano immersi nell’acqua gelida cronometrandone la resistenza in rapporto all’età, al sesso, alla gradazione termica dell’ambiente e alle varie malattie di cui erano affetti. Uno studio, come si vede, complesso ed interessantissimo...». Alla luce di queste tragiche testimonianze, non è necessario appellarsi ad un’ipotetica (per quanto probabile) iniezione di benzina, o di acido muriatico, per dichiarare che fr. Giuseppe Girotti fu effettivamente ucciso. Tuttavia nel caso possa sussistere ancora qualche dubbio, interviene il Cardinal Pellegrino, il quale mette in evidenza come fin dai primordi della cristianità, tanto i giovinetti quanto gli anziani non venivano uccisi direttamente Dachau: cippo a ricordo della baracca 26 23 dai loro aguzzini ma morivano, il più delle volte, per le vessazioni che il loro corpo non era in grado di sopportare. Nonostante questo viene loro riconosciuta, e giustamente, la palma del martirio. Esistono precise analogie tra le storie di questi martiri della prima generazione e la vicenda di Girotti: in entrambi i casi troviamo una completa dedizione allo stesso credo religioso, che i maltrattamenti, gli stenti, le malattie, non solo non riuscirono a scalfire, ma, al contrario, rinvigorirono, mettendo in risalto l’eroica coerenza tra le idee professate e le scelte che le quelle idee richiedevano. Concludendo, il frate domenicano è stato ucciso dalla denutrizione, dalle vessazioni e dalle malattie che lo stesso luogo di detenzione ha causato e aggravato. L’amore per la fede più forte dell’odio Condizione essenziale per definire il p. Girotti martire è la dimostrazione che fu proprio la sua fede a causargli, se pur indirettamente, la morte, ovvero che venne imprigionato e subì ogni sorta di maltrattamenti a causa della sua piena dedizione al Vangelo. Occorre verificare se gli aguzzini di fr. Giuseppe abbiano avuto in odio la sua fede religiosa, o per lo meno le scelte che essa imponeva. L’odium f idei non è facilmente dimostrabile: basti pensare che la prima persecuzione contro i cristiani, avvenuta nel 64 d.C. sotto Nerone, ed in cui, secondo la tradizione, venne ucciso l’Apostolo Pietro, non ebbe inizio da un vero e proprio atto di odio, bensì dal tentativo di mascherare il malgoverno imperiale che regnava nella città di Roma. Solo in seguito si scatenò un vero e proprio odio popolare contro il nome cristiano, fomentato dallo stesso Imperatore, al quale risultava politicamente conveniente identificare i seguaci di Cristo con i colpevoli dello spaventoso incendio che aveva devastato gran parte dei quartieri romani. Gli episodi in cui l’odium f idei è evidente sono stati abbastanza numerosi nei lager nazisti; valga come esempio questa tragica testimonianza riportata ancora una volta da don Angeli: «Ci riferirono che il giorno di Venerdì Santo 1944, il comandante SS del campo, dopo aver gozzovigliato con i suoi sgherri, aveva trucidato a freddo un prete polacco: Sono le 15 e oggi è venerdì santo, il giorno che voi dite che è morto il vostro Cristo. Vai a raggiungerlo...Trasse fuori la rivoltella e gli sparò sghignazzando». 24 Don Leggeri, anche lui detenuto a Mauthausen, a proposito dello stesso episodio, aggiunge: «...E non si accontentò di averlo ucciso sul colpo. Fece subito portare il cadavere al crematoio, volle aiutare e assistere alla cremazione. E per f inire ne raccolse le ceneri ancora calde e, ridendo di voluttà, le sparse al vento”. Anche a Dachau, in un primo tempo, furono commessi atti dettati dal puro odio contro la religione cattolica, come afferma sempre don Angeli: «Mi raccontarono che il primo prete tedesco giunto al lager si chiamava Padre Fritz e fu accolto con uno speciale “cerimoniale”: un SS gli mise una corona del Rosario sulla testa con la croce pendente sulla fronte e a pugni e a calci gli fece girare tutto il campo urlando: È arrivato f inalmente il primo maiale di prete. Poi arriverà anche il gran prete di Roma e allora la truffa cattolica f inirà una volta per tutte...». È quasi incredibile il fatto che, in seguito fu permesso ai numerosissimi religiosi prigionieri a Dachau di allestire nel blocco 28 una cappella, nella quale veniva celebrata regolarmente una funzione serale. Le autorità delle SS hanno sempre detestato la carità cristiana che spingeva molti religiosi, soprattutto cattolici e protestanti ad adoperarsi a rischio della loro stessa vita, per aiutare e proteggere i perseguitati dal regime nazista, in particolare gli ebrei, considerati, per un assurdo concetto razziale, nemici del III Reich. Per la politica nazifascista, ormai completamente svuotata di qualsiasi valore ideologico, l’azione di questi uomini di fede equivaleva ad un vero e proprio tradimento e quindi doveva essere punita con la distruzione morale e fisica degli individui che si erano macchiati di un tale “reato”. P. Girotti ha indubbiamente realizzato la scelta che il suo stato di religioso imponeva: tra i dettami del credo fanatico e guerrafondaio della grande Germania e l’amore per il prossimo, primo comandamento della fede cristiana, ha scelto senza riserve quest’ultimo, incurante delle conseguenze, per quanto gravi potessero essere. L’avvocato Salvatore Fubini ricorda: «Durante il periodo delle persecuzioni razziali e delle lotta partigiana, padre Girotti prestò il suo ausilio verso tutti i perseguitati, tanto che la sua cella presso il convento di S. Domenico divenne simbolo di ospitalità e di sicura salvezza per coloro che a lui si rivolgevano.Tra i maggiormente benef icati furono i numerosissimi Israeliti i quali senza il suo soccorso avrebbero trovato morte certa nei campi di eliminazione». Paradigmatica l’affermazione del comandante Schmidt, austriaco e cattolico, allorché ribadì al priore domenicano, padre Balocco, venuto da lui subito dopo l’arresto di Girotti per implorare il suo interessamento: “Aiutava i nostri nemici”. 25 Ma la testimonianza più diretta ed incisiva è indubbiamente quella della stessa scheda personale del detenuto, contenuta nel registro di Dachau, in cui è scritta la ragione dell’arresto: aiuto agli Ebrei. Il comandamento dell’amore cristiano, una volta tradotto in opera, rappresentava in questo contesto un’azione perseguibile dal regime, ossia un’azione illecita, proprio come erano state dichiarate illecite nell’Impero romano le azioni religiose dei primi cristiani. Ma un’azione illecita la cui punizione comporti la distruzione fisica e morale dell’individuo che la compie, non è forse un’azione detestata, o meglio odiata, dallo stesso potere che la condanna? Al di là di ogni ragionevole dubbio, l’arresto, la deportazione e la conseguente morte di Girotti furono dunque causati da un profondo sentimento di odio verso quella carità che imponeva al religioso Domenicano di prodigarsi in tutti i modi per portare soccorso ai perseguitati dal potere nazifascista, carità alla quale, per una casualità della storia, proprio l’efficiente burocrazia del lager doveva rendere la più importante e completa testimonianza. Fr. Giuseppe Girotti è indubbiamente un grande testimone della carità cristiana e la sua testimonianza è quanto mai preziosa ed incisiva in quanto resa in un periodo storico nel quale la violenza e la sopraffazione sembravano essere gli unici valori predominanti, in un mondo devastato dalla guerra. Christian Reger, pastore della chiesa evangelica di Dachau, ha trascritto dai registri di detenzione i dati del religioso: «Quando lesse alla f ine: Ragione dell’arresto: “ha aiutato gli Ebrei”, vivamente commosso, posando la mano sulla nostra spalla, esclamò: MAIS CEST UN MARTYR!» (come riferisce la professoressa Cauvin al termine delle sue ricerche a Dachau). 26 Il pastore Reger aveva ragione. La storia rende oggi omaggio all’uomo, alla virtù eroica e, nel rendergli omaggio, additando p. Girotti come esempio da imitare, celebra la vittoria della fede Il più volte citato Cardinal Michele Pellegrino scrive: «La spiritualità del martirio non si può considerare un modo di sentire la vita cristiana riservato a una categoria di fedeli e a un determinato momento storico, ma deve essere piuttosto intesa quale particolare atteggiarsi dello spirito cristiano di fronte ad eventi storici che contribuiscono a mettere in rilievo certi aspetti della vita cristiana. Ciò vale per il martirio considerato quale imitazione di Cristo.Tutta la vita del cristiano è un seguire, un imitare il Redentore, preso come modello nei singoli fatti della sua vita e più nell’intimo dei suoi sentimenti. E poiché la vita di Cristo culmina nella morte di croce, con la quale Egli dà compimento alla sua missione di salvatore, il cristiano vedrà nella morte accettata in testimonianza e per amore di Lui e nelle sofferenze che la precedono e la preparano la maniera migliore per attuare il programma essenziale della vita cristiana: imitare Cristo». Lapide a ricordo di P. Girotti nel corridoio del convento di S. Domenico a Torino 27 Chi sono? Spesso mi dicono che esco dalla mia cella sciolto e sereno e saldo come un signore dal suo castello Chi sono? Spesso mi dicono che parlo con i sorveglianti libero e cordiale e franco come se avessi da comandare. Chi sono? Mi dicono anche che i giorni porto della malasorte imperturbabile, sorridente e f iero, come chi è uso alle vittorie. Davvero sono quello che altri di me dicono? O son soltanto ciò che io stesso di me so? Inquieto, nostalgico, malato, come un uccello in gabbia, boccheggiante per un soff io di vita, come se mi strozzassero, affamato di f iori, di colori, cinguettii, assetato di buone parole, di calore umano, tremante d’ira per l’arbitrio e la minima offesa, tormentato dall’attesa di grandi cose, invano trepidante per amici a distanza inf inita, stanco e troppo vuoto per pregare, per pensare, per fare, f iacco e pronto a dire addio a tutto? Chi sono? Questo o quello? Sono forse oggi questo e domani un altro? Sono entrambi al contempo? Dinanzi agli uomini un ipocrita e per me stesso un debole piagnucoloso degno di disprezzo? O forse ciò che è ancora in me assomiglia all’esercito in rotta che arretra confuso dinanzi a vittoria già ottenuta? Chi sono? Solitario porsi domande si fa beffe di me. Chiunque io sia, Tu mi conosci, Tuo sono, o Dio! Dietrich Bonhöeffer 28 Omelia sull’unità dei cristiani pronunciata il 21 gennaio 1945 P « adre, consacrali nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,17.20-21). Questa preghiera che piace chiamare preghiera del Signore per eccellenza, la Santa Madre Chiesa innalza ancora e ripete oggi col più grande ardore, per impetrare l’unione di tutti i cristiani, conosce perfettamente le ragioni importantissime di questa invocazione. Perciò se torno a dire qualche parola su queste cose non è per istruirvi (la mia presunzione infatti sarebbe del tutto imperdonabile) ma per mutua edificazione, vostra e mia. Quando la luce della verità evangelica, rivelata per la salvezza di tutti i popoli, cominciò a diffondersi per tutto il mondo, fu necessario che il Signore confermasse la parola degli Apostoli, accompagnandola con prodigi esteriori, perché fossero vinti i vani ragionamenti e si dissolvessero le vanità della sapienza terrena, venissero confutati i culti delle divinità pagane, distrutta l’empietà dei sacrileghi. Dopo che Pietro, Paolo e i loro successori ebbero portato il trofeo della croce di Cristo dentro le mura di Roma e la Chiesa si fu affermata, ben fondata sopra il fondamento degli Apostoli, nella sana dottrina e nella carità vera, dopo che il seme del Vangelo ebbe messo profonde radici nel campo del Signore, dando frutto dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno, allora la verità rivelata non si sostenne più su segni esteriori, ma interiori, cioè sull’esistenza e l’essenza della Chiesa. Infatti il carattere apostolico della Chiesa e la sua cattolicità (proprietà queste che la Chiesa propone a credere e da tutti i fedeli di Cristo sempre e dovunque fermamente e inviolabilmente credute) provano la sua origine e missione divine. Dovunque la parola del Vangelo cresceva nel mondo non diversamente dal granello di senape, che diviene albero frondoso, conservando sempre, tuttavia, la sua identità con quel seme ricco di promesse che il divino Seminatore era uscito a seminare in questo mondo. E l’aspetto esteriore dell’albero frondoso in nessun modo impedisce che si veda con chiarezza ed evidenza, attraverso la successione apostolica, la sua interna unità e la stretta unione con Cristo-capo. 29 Perciò la Chiesa di Dio, che in modo visibile è una, nella sua anima, per la grazia del Salvatore, deve manifestare visibilmente, anche nel corpo, l’unità. Per questo tutti i fedeli di Cristo, che si onorano del nome cristiano (ortodossi, anglicani, luterani, calvinisti, ecc.), insieme con la Chiesa cattolica, effondono in questi giorni preghiere a Dio per ottenere la grazia dell’unione. La Santa Madre Chiesa, inoltre, maestra di verità, sospinge tutti, e in particolar modo gli Orientali, allo studio e all’imitazione di coloro che così strenuamente combatterono e gloriosamente diedero la vita per difendere l’unità della Chiesa, sia quanto al dogma che al culto e all’autorità: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51,1), ai santi padri e predecessori vostri, affinché, circondati da un così gran numero di testimoni, tutti deponiate il peso della divisione. L’Apostolo delle Genti parla quasi profeticamente di coloro che, seguendo le orme dei patriarchi e dei profeti, per fede vinsero i regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse. Alcuni furono torturati, altri subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora, bisognosi, tribolati – di loro il mondo non era degno! –, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra (cfr. Eb 11,33ss.). (...) Non c’è bisogno che quanto diciamo sia provato con i nostri ragionamenti, o con esempi di santi uomini, quando possiamo riportare le stesse parole del Signore, con le quali in modo chiaro e incontrovertibile afferma: un regno non può rimanere in piedi diviso in se stesso e «Ogni regno discorde cade in rovina» (Mt 12,25). Le pecore che non sono dell’ovile di Cristo bisogna condurle a lui perché ascoltino la sua voce e divengano un solo gregge e un solo pastore (cfr. Gv 16). Gesù parla della Chiesa al singolare e la chiama sua: «su questa pietra edif icherò la mia Chiesa e le porte degli inferi...» (Mt 16,18). Lo stesso Gesù è l’unica vite con la quale le membra della Chiesa sono congiunte, come tralci, in un’assoluta unità organica (cfr. Gv 15,1ss.). Chi di noi infine ignora le belle e appropriate immagini dell’edificio, del matrimonio, del corpo mistico, con cui san Paolo con uguale chiarezza e bellezza afferma in modo indiscusso l’unità della Chiesa? (...) A nessuno sfugge che l’unione di tutte le Chiesa e Comunità è massimamente necessaria ai nostri giorni. Per tutti noi è certo che la Provvidenza Divina non ha né voluto né messo a capo della nostra infelicissima Europa bisognosa d’essere ricostruita quelle forme organizzate di incredulità che sono responsabili di questo immane crimine qual è questa guerra scellerata? 30 Il diploma di “Giusto tra le Genti” conferito al P. Giuseppe Girotti 31 Quelli che hanno preparato e portato a compimento questo nefando caos che è sotto i nostri occhi, sono del tutto incapaci di riedificare poiché in ogni costruzione unico fondamento è la pietra angolare Cristo, che essi hanno rigettato. Infatti la nostra sventurata età si può paragonare soltanto ai tempi barbari che succedettero all’impero romano; allora nessun altro fattore si poteva trovare per stabilire l’ordine o per fondarlo di nuovo, se non la Chiesa. La Chiesa di Cristo era in quel tempo, e ancora lo è oggi, l’unico rifugio dell’ordine naturale nella politica e nella vita sociale, familiare, individuale ed economica. La Chiesa fu, è e sempre sarà l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia; rifugio della verità, dei principi della retta ragione, della civiltà e della cultura; unica istituzione che rifletta perfettamente la legge eterna del Regno di Cristo Re. Per tutti gli uomini sani di mente è chiaro, infatti, che il campo di questo mondo può essere arato più in profondità e più perfettamente risanato, di quanto non sia possibile a chiunque altro, dallo stesso Autore della natura e della storia (che è storia della salvezza). Ora, questa straordinaria missione della Chiesa nel presente gravissimo momento della storia, fratelli carissimi, non può essere perfettamente condotta a termine, se i fedeli di Cristo, uniti nell’anima della Chiesa (poiché la grazia del Salvatore abbraccia tutti quelli cresciuti nel suo seno), rimangono invece divisi nel corpo visibile a causa di scismi e divisioni. L’azione della Chiesa suppone l’unione. La Chiesa infatti è intimamente indebolita per quel deplorevole scisma degli Orientali e per quella deplorevole Riforma fuori dalla Chiesa, romana, compiuta nel sec. XVI. Per queste due gravissime ferite la Chiesa di Cristo perdette e ancora oggi perde tanto sangue che né la Chiesa cattolica né quei nostri fratelli orientali e riformati hanno la benché minima forza di ristabilire l’ordine pubblico, ma necessariamente lasciano il campo a quei deisti e atei che per essere nemici più acerrimi del nome cristiano, hanno sconvolto, comportandosi paganamente, tutta la vita pubblica. Stando così le cose, che cosa pensiamo di fare noi cattolici? Anzitutto bisogna pregare. Questo è di per sé rimedio efficace e assolutamente necessario per ottenere la grazia straordinaria dell’unione di tutte le Chiese. Perciò, ritornati in patria, con opportuni suggerimenti dobbiamo indurre il gregge a noi affidato, soprattutto i fanciulli e i malati, ad impetrare questa grazia.Tutti siamo (o dobbiamo essere) convinti che il nostro Padre comune, che è nei cieli, non è adorato come si conviene finché il corpo di Cristo è lacerato sulla terra; che la volontà salvifica del Padre non può essere fatta o almeno è gravemente impedita se i Cristiani sono discordi e non sono nutriti 32 Fronte e retro della medaglia di “Giusto tra le Genti” del P. Girotti 33 dal pane nostro quotidiano eucaristico. Il Padre celeste rimetta i nostri debiti, perdoni la nostra tiepidezza nel promuovere e difendere la fede, tutte le mancanze di carità (che portano la fede a raffreddarsi), ogni atteggiamento farisaico che si gloria della esteriorità o piuttosto delle formule ortodosse della fede e tanto è lontano dallo spirito, dai desideri, dall’imitazione del Salvatore nostro. Dio ci liberi da quella pericolosissima tentazione per cui avviene che coloro che hanno la verità, la verità non la vivono, quelli che hanno un aspetto sano e lo spirito vivificante, con la loro vita siano di scandalo a quelli che sono fuori. Voglia il Padre celeste liberarci da ogni male, soprattutto da quel male personificato, da quel bugiardo fin dal principio, il diavolo, che fra gli uomini è fomentatore di discordia e di disunione. Quello che chiediamo ardentemente nella preghiera dobbiamo conseguirlo anche con la parola e l’esempio, insegnando e ammonendo che tutta la speranza della nostra redenzione è riposta nella grazia del Signore nostro Gesù Cristo, unico mediatore nostro e salvatore di tutto il genere umano, avendo sempre davanti agli occhi che il Signore ci ha redenti nella sua croce. Pertanto nel combattere il mistero di iniquità che si manifesta soprattutto nella disunione della Chiesa, certo incontriamo anche il mistero della croce, vale a dire l’opposizione, le inimicizie e la diffidenza da parte di chi, a noi esternamente congiunti per la medesima fede, tuttavia mancano di quella carità e di quell’intima comprensione, che già ineffabilmente unisce i nostri cuori con quelli la cui intelligenza, cercando la vera fede, ancora non l’ha raggiunta... Infine è chiaro che notte e giorno dobbiamo dedicarci allo studio della teologia e della storia ecclesiastica. Con la preghiera dunque, con una vita vissuta santamente, con studio della verità si compia il nostro terreno cammino sacerdotale. Infatti, se saremo attenti ascoltatori della parola del Vangelo e ubbidienti ai precetti della Chiesa, cioè, se con l’opportunità della dottrina e con la verità diamo forza a quello che è debole, consolidiamo quello che è spezzato, correggiamo le cose sviate, guariamo le divisioni e dispensiamo il cibo di vita in cibo di eternità per nutrire la famiglia dei credenti, e ciò facendo siamo riconosciuti in questo perseveranti: conseguiremo la gloria del Signore come dispensatori fedeli e amministratori utili e saremo posti sopra tutti i beni, cioè saremo collocati nella gloria di Dio; al di sopra della quale nulla ci può essere di meglio. Amen. Dachau, 21 gennaio 1945 fr. Giuseppe Girotti 34 Da Dio gli uomini vanno quando hanno bisogno aiuto implorano, chiedono pane e buona sorte, d’essere liberati da malattia, da colpa e morte. Così fan tutti, cristiani e pagani. Da Dio gli uomini vanno quando Lui ha bisogno, lo trovan povero, oltraggiato, senza pane e dimora, vedono come il peccato lo divora, debolezza e morte. Dio va da tutti quando hanno bisogno, sazia il corpo e l’anima con il Suo pane morte di croce muore per cristiani e pagani e perdona entrambi. Dietrich Bonhöeffer 35 BEATO GIUSEPPE GIROTTI Preghiera O Eterno Padre, ti ringraziamo per aver donato alla tua Chiesa il Beato Giuseppe Girotti. Egli ha nutrito il tuo popolo con la Parola che illumina e la Grazia che salva. Per amore dei fratelli ha offerto, come il tuo Figlio, Gesù, tutto se stesso fino al dono della stessa vita. Aiuta anche noi a lasciarci illuminare dalla Parola e ad essere testimoni credibili del Vangelo, e per intercessione del Beato Giuseppe Girotti concedici la grazia che ti chiediamo ... Amen. Santa Maria del Rosario, prega per noi. Beato Giuseppe Girotti, prega per noi. (CON APPROVAZIONE ECCLESIASTICA) BEATIFICAZIONE di fra Giuseppe Girotti domenicano (Alba 1905 - Dachau 1945) Sabato 26 aprile 2014 Duomo di Alba (CN) ore 14,00 accoglienza ore 15,30 introduzione ore 16,00 celebrazione della Beatificazione Per informazioni e per richiedere i biglietti (gratuiti) d’accesso al Duomo e alla piazza contattare: www.beatogirotti.it - tel. e fax 0173.293.163