46 Focus L’ECO DI BERGAMO DOMENICA 17 NOVEMBRE 2013 La Resistenza ieri e oggi A destra sopra il titolo, i funerali delle vittime della strage dei Fondi, la zona della Malga Lunga e alcuni partigiani della 53ª Brigata Garibaldi QUADERNO 1 DEL MUSEO ETNOGRAFICO DI SCHILPARIO A Malga Lunga il nuovo incontro dei partigiani Si ricordano le vittime della 53a Brigata Garibaldi Le iniziative del Museo rifugio curato dall’Anpi Sovere GIAMBATTISTA GHERARDI Una finestra affacciata sui monti, ma innanzitutto una porta aperta alle giovani generazioni. Si celebra oggi alla Malga Lunga, sui monti che dividono Val Gandino e Val Cavallina, in territorio di Sovere, il 69° anniversario del combattimento che costò la vita ai partigiani della 53a Brigata Garibaldi guidata da Giorgio Paglia. Fra queste montagne, meta di famiglie e comitive per escursioni con panorami mozzafiato sul lago e le Orobie, è nato il Museo rifugio della Resistenza, inaugurato nel 2012 e ora completato grazie all’impegno dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) e di tanti volontari. «Il ricordo di quanti hanno combattuto per i valori fondanti della nostra Costituzione – sottolineano Salvo Parigi e Renzo Vavassori dell’Anpi – resta di estrema attualità e continua a parlare alle nostre coscienze. Il Museo della Malga Lunga nasce come un testimone da passare a figli e nipoti, rendendo vivo il luogo simbolo della Resistenza bergamasca e offrendo opportunità didattiche importanti grazie all’ausilio delle moderne tecnologie». Nelle sale ricavate nella grande struttura rettilinea che Bandiere davanti al monumento domina la Val Cavallina (cui si giunge grazie ad una comoda carrabile che sale da Gandino), negli ultimi mesi sono state installate dotazioni multimediali e interattive. «La sala incontri, ideale per gruppi e scolaresche – spiega Vavassori – è dotata di uno schermo video da 50 pollici, dove proiettare filmati di ricostruzione storica. Per i visitatori sono disponibili schermi con tecnologia “touch”, la stessa di tablet e smartphones È possibile consultare elenchi di partigiani, patrioti, benemeriti per nome, ma anche per località di residenza, formazione di appartenenza e zona d’azione». Un lavoro particolarmente articolato quello realizzato in questi anni, per il quale è stato preziosa la collaborazione di molte famiglie. «Nelle case di molti bergamaschi – sottolinea Vavassori – ci sono ancor oggi moltissimi documenti relativi agli anni della Resistenza: fotografie, scritti, ricordi di ogni genere. Lanciamo un appello a tutti affinchè rendano disponibile questo materiale per il nostro Museo. Si tratterebbe semplicemente di farne copia digitale, senza privare le famiglie dei propri ricordi». Il lavoro del Museo è già impostato anche per il biennio 2014-2015: si lavorerà sulla ricostruzione del periodo resi- Il Museo all’opera per ricostruire il periodo resistenziale stenziale a Bergamo e provincia, in modo da offrire nuove possibilità di consultazione: in sequenza temporale oppure per zona d’interesse (Valle Brembana, Valle Seriana, Alto Sebino, Bergamo città, ecc.). L’Anpi ha ricevuto la Malga Lunga in comodato dal Comune di Sovere, dopo che questi l’aveva a sua volta ricevuta in E c’è un opuscolo a fumetti per i ragazzi delle medie sovere La storia della Malga Lunga risale al 1944, quando alcuni reparti fascisti della «Tagliamento» riuscirono a catturare i componenti della squadra partigiana di Giorgio Paglia, che era di stanza sui monti che dividono la Val Seriana e la Val Cavallina. Due di loro (il sovietico Efanov «Starik» e Mario Zedurri «Tormenta») vennero uccisi a pugnalate sul posto, gli altri cinque (ol- tre a Paglia, Guido Galimberti «Barbieri», Andrea Caslini «Rocco», Donez «Molotov» e Copenko «Noghin») furono fucilati quattro giorni dopo al cimitero di Costa Volpino. Giorgio Paglia, che pure poteva aver salva la vita perché figlio di una medaglia d’oro al valor militare, rifiutò la grazia e morì coi compagni proclamando «O tutti, o nessuno!». Per raccontare quei tragici giorni alle nuove generazioni l’Anpi Valgandino, sezione Bepi Lanfranchi, ha pubblicato lo scorso anno un originale opuscolo a fumetti, edito da Radici Due di Gandino. «Una modalità narrativa efficace per suscitare l’interesse dei ragazzi – conferma il presidente Giovanni Cazzaniga – che ha coinvolto nella realizzazione diversi giovani. Oggi vediamo crescere sentimenti di noia e rassegnazione, misti a paura, che ricordano quelli antecedenti Una tavola dell’opuscolo a fumetti edito da Radici Due di Gandino dono nel 1979 dal cavalier Gianni Radici. Un luogo simbolo della Resistenza, legato ai fatti del 1944 ma anche crocevia di un’area montana dove innumerevoli furono gli episodi della lotta al nazifascismo. Il programma delle celebrazioni di oggi prevede alle 10,45 la deposizione di corone alle lapidi che ricordano i caduti. Alle all’esplosione dei regimi dittatoriali del secolo scorso. Conoscere la storia è elemento essenziale per non ripetere gli errori del passato. La nascita del nuovo Museo ha dato la spinta decisiva per dare forma a un’idea che già era nata in Val Gandino da alcuni anni». Al progetto oltre allo stesso Cazzaniga hanno lavorato Francesco Moro di Casnigo, allievo dell’Accademia Carrara e autore dei disegni, e Naomi Zambon di Peia che ha curato grafica e impaginazione. La pubblicazione è stata sostenuta economicamente dai comuni di Casnigo, Gandino, Leffe, Peia e Cazzano, che hanno fatto dono di una copia omaggio a tutti i ragazzi di terza media. Per non dimenticare. 1 G. B. G. 47 L’ECO DI BERGAMO DOMENICA 17 NOVEMBRE 2013 Una maschera di sangue Fu creduto morto, così si salvò Alle pareti, le fotografie raccontano l’epopea partigiana Schilpario, in 12 furono uccisi dai militari fascisti della Tagliamento Il figlio racconta del padre partigiano scampato alla strage dei Fondi ILDO SERANTONI Il rifugio alla Malga Lunga meta di turisti e appassionati di storia Una postazione multimediale per avvicinare i giovani alla storia 11,15 l’Anpi presenterà le attività svolte e il programma 2013, mentre alle 11,45 chiuderà la mattinata l’intervento di Roberto Cenati, vicepresidente Anpi regionale della Lombardia. Per salire alla Malga Lunga è possibile percorrere la strada carrabile che dagli opifici di Gandino sale verso Valpiana. Dalle aree di parcheggio in località Teade (a pagamento con tagliandi «gratta e sosta» in vendita negli esercizi pubblici di Gandino) si sale agevolmente alla Malga attraverso un sentiero. Predisposto per l’occasione anche un servizio navetta con minibus. Info complete su www.malgalunga.it. 1 ©RIPRODUZIONE RISERVATA Il28aprile1945laguerra è finita da tre giorni. Tedeschi e fascistibattonodisordinatamente in ritirata. Nelle città del Nord, finalmente liberate dal giogo dell’oppressione, i patrioti sfilano sui camion sventolando le bandiere: rosse, bianche, soprattutto tricolori. La gente si riversa felice sulle strade, applaude e lancia fiori. Ma non è così dappertutto. Su in montagna le armi crepitano ancora. Ci sono conti da regolare, vendette da consumare. A Schilpario, verso le 6 del pomeriggio, giunge la notizia che dal passo del Vivione sta venendogiùungruppodisbandati fascisti della famigerata «Tagliamento», uno dei reparti più tragicamente noti dell’esercito di Salò. Sono in fuga dal Mortirolo e dalla Valcamonica: arrivati ai Fondi, dunque in prossimità del paese, si sono asserragliati in un edificio delcantiereminerario,dopoavere catturato i contadini che si trovavano nelle baite. NellasedeimprovvisatadelCln si vivono momenti febbrili. Si scontrano valutazioni diverse. Che fare? Andare incontro ai fascisti e invitarli ad arrendersi perché la guerra è finita? Oppure, più prudentemente, fare una ricognizione per osservarne i movimenti e organizzare un’avanzata militare? Prevale la prima opinione, basata su un precedente rassicurante: qualche ora prima il distaccamento della stessa «Tagliamento» dislocato al Dezzo si era arreso senza colpo ferire. Non solo: uno di quei prigionieri, il tenente medico Giovanni Scolari, si offre come intermediario per convincere i suoi ad arrendersi senza opporre resistenza. Alle 8 di sera, mentre sulla valle di Scalve viene giù un’acqua mista a neve, 19 uomini salgono su un camion che si dirige verso i Fondi. A bordo del mezzo, un autocarro tedesco requisito al Dezzo il 25 aprile, c’è anche Giorgio Serantoni, papà di chi scrive, partigiano inquadrato nelle «Fiamme Verdi» della «Tito Speri »con sede operativa a Breno, in Valle Camonica. È lui che comanda quella spedizione, composta non solo da combattenti, ma anche da giovani volenterosi del paese che si sono messi a disposizione «per dare una mano». Viene caricata una mitragliatrice, perché non si sa mai, ma è convinzione dei più che non servirà: vedrete che quelli della Tagliamento si arrenderanno come avevano fatto i loro camerati del Dezzo. L’automezzo, i fari oscurati, arriva ai Fondi. La luce fioca consentecomunquediscorgereglielmetti lucidi di pioggia dei fascisti appostati sopra la tettoia dei forni, altri armati fino ai denti sono alle finestre del caseggiato. Sono di- I funerali delle vittime dei Fondi QUADERNO 1 MUSEO ETNOGRAFICO SCHILPARIO sposti in assetto di guerra, come se sapessero che qualcuno stava per arrivare. Un agguato in piena regola. Parte una scarica di mitraglia che blocca l’avanzata del camion. I patrioti scendono e urlano di lasciare le armi, la guerra è finita diamine. Il tenente medico, davanti a tutti, vestito da militare, la fascia della Croce Rossa al braccio, dunque ben riconoscibile, urla: «Giù le armi ragazzi, che non vi fanno niente». La risposta è una sventagliata che lo crivella di colpi: è il primo a perdere la vita. Quella che segue è una strage di inenarrabile efferatezza. Il fuoco delle mitragliatrici e i lanci delle bombe a mano inchiodano il camion senza lasciargli la possibilità del minimo movimento. I partigiani, senz’armi, in fuga disperata, cercano riparo dietro gli abeti, nelle buche del terreno, nelle gallerie della miniera. Vengono inseguiti, abbattuti, finiti a colpi di pistola e di pugnale, depredati delle poche cose che hanno addosso: portafogli, orologi, giacche a vento. Una carneficina. Alla fine ne restano sul terreno 11, con il medico 12. I sette che si salvano lo devono al caso. Uno, illeso, trova scampo abbracciandosi al cadavere di un compagno sotto il quale si nasconde. Altri si fingono morti. Due o tre erano riusciti a scappare dopo la prima scarica di mitra. Il massacro dura un quarto d’ora, poi i fascisti, ovviamente tutti incolumi perché dal camion non è partito un solo colpo, risalgono verso il passo. Giorgio Serantoni, stordito e ferito a un occhio dalla scheggia di una bomba a mano, era una maschera di sangue: così conciato era stato creduto morto e il boia era passato oltre. Quando il silenzio torna nell’abe- taia, Serantoni si allontana dal luogo della strage. Non torna a Schilpario, scavalca la montagna e scende a Villa di Lozio per avvertire il comando delle Fiamme Verdi, a Breno, e consentire l’invio di rinforzi su in valle. Intanto trova asilo nella casa parrocchiale di Cividate Camuno, che il prevosto don Carlo Comensoli ha trasformato in un rifugio per i partigiani. Chiunque arrivi, di giorno o di notte, sa che c’è un materasso per dormireeunafinestrachedàsulbrolo per scappare in caso di necessità. Schilpario viene a sapere della strage al risveglio, la mattina del 29 aprile. Il paese sprofonda in un lutto senza fine. I cadaveri vengono recuperati e composti pietosamente. In molte case si piangono i morti. Francesca Mora non ha più lacrime: su ai Fondi i fascisti le hanno ammazzato due figli e un fratello. Olga Serantoni, giovane moglie del comandante, stringendo fra le braccia l’autore di questo articolo, che ha quattro anni, e con un secondo figlio che le sta crescendo nel pancione, vive ore di disperazione. Non sa nulla della sorte del marito: potrebbe essere morto, o chi lo sa, nelle mani dei carnefici che lo stanno torturando. Scrive una lettera straziante allamammadiGiorgio,dellaquale noi figli verremo a conoscenza soltanto molti anni più tardi. Dopo tre giorni, papà, bendato all’occhio irrimediabilmente offeso, tornerà a Schilpario in tempo per accompagnare nell’ultimo viaggio i suoi compagni Caduti per la libertà, avvolti nel tricolore. Nel suo animo né la Liberazione per la quale aveva tanto combattuto, né la gioia di riabbracciare la sua donna e il suo bambino riescono a prevalere sul dolore. Il paese in lutto elabora sentimenti che lo feriscono profondamente. Al punto tale che, per il resto della sua vita, non metterà mai più piede in valle di Scalve. C’è chi pensa che sia stata una imperdonabile imprudenza andare incontro col ramoscello d’ulivo a quelle canaglie assetate di odio e di sangue. Ma è ragionevole pensare che senza l’eroico sacrificio di quei 12 martiri, i fascisti quella notte non si sarebbero fermati ai Fondi, avrebbero messo a ferro e fuoco l’intero paese. E Schilpario sarebbe ricordato oggi come Boves, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema. Sull’eccidio dei Fondi sono stati scritti libri, frutto di minuziose ricostruzioni. Uno di questi volumi, dal titolo emblematico «Credettero che bastasse venir cantando», autori Angelo Bendotti e Giuliana Bertacchi, pubblicato nel cinquantenario della strage, è aperto da una toccante introduzione di don Andrea Spada, schilpariese, storico direttore de «L’Eco di Bergamo», di cui trascriviamo volentieri le nobili parole. Scrive Spada: «I 12 giovani che raccolgono l’invito del presidente del Cln si dirigono incontro a un gruppo disperso di fascisti, che erano arrivati al villaggio minerario dei Fondi, perché venissero accolti alla libertà. Salgono su un autocarro con una bandiera, per andarli a ricevere. Un gesto fraterno di assoluta nobiltà, la gioia di perdonare, di farla finita con gli odi, con le lacrime, di riaccendere una luce dopo tanti giorni di buio e di incubi. E vengono falciati dal più vile degli agguati con lo stesso medico del reparto fascista che si era offerto di accompagnare la spedizione per favorire la resa specifica. “O Signore che queste montagne non vedano mai più simili orrori” è scritto sulla lapide dei Fondi. Cinquant’anni non hanno spento le lacrime e l’orrore del ricordo. Ma nei tempi che verranno, quando non ci saranno più i testimoni che hanno vissuto e pianto in quel lontano 28 aprile, quando forse le stesse case che furono devastate da quell’immenso strazio saranno rimaste svuotate e lasciate dal tempo sole con le foto appese nelle stanze, forse che proprio allora non ci sarà più bisogno di tener sempre netto e vero nelle future generazioni la memoria di quell’Olocausto? Con tutti i suoi tremendi moniti. Quei giovani che correvano gioiosi, con la bandiera, sperando di incontrare dei fratelli che avevano deciso di arrendersi alla libertà e, di contro, la spaventosa testimonianza degli abissi di viltà, di efferatezza, di disumanità in coloro che avevano teso l’agguato, dimostrando dove può arrivare l’odio covato nel cuore dell’uomo». 1 ©RIPRODUZIONE RISERVATA