BIBLIOTHECA SARDA N. 96 Peppino Mereu POESIAS traduzione e cura di Marco Maulu In copertina: Antonio Ballero, Monti d’Oliena, 1926 (particolare) INDICE 7 Prefazione Riedizione delle opere: Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P. Valdés, 1899; Sas poesias isconnottas …, Cagliari, Tipografia Tea, 1978; Poesias, Cagliari, Della Torre, 1982; Terra de musas, Cagliari, Edizioni Frorias, 2001; con l’aggiunta dei componimenti tratti da: Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, a. I, n. 7, 26 maggio 1898; La Piccola Rivista, a. I, n. 9, 29 aprile 1899 e a. I, n. 14, 30 giugno 1899. Mereu, Peppino Poesias / Peppino Mereu ; traduzione e cura di Marco Maulu. - Nuoro : Ilisso, c2004. 315 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 96) I. Maulu, Marco 851.8 Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro © Copyright 2004 ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 88-89188-19-7 164 Solferino! 55 Nota biografica 165 A Nanni Sulis [I] 59 Nota bibliografica 171 Galusè 65 Nota al testo 182 A Juanne Sulis 83 Classificazione metrica 188 Caresima 192 A Eugeniu Unale [I] POESIAS 101 Prefazione – Cortese Lettore 201 A Paolo Hardy 204 Aritzo 205 X… 105 Dae una losa ismentigada 207 A Eugeniu Unale [II] 107 Amore 211 Non ti poto amare 108 Adultera 215 Studente 112 Moribunda 216 S’orfana pedit pane 120 A Tonara 217 K… 131 Consizos a unu amigu 220 Y… 138 Lamentos d’unu nobile 222 A Nanni Sulis [II] 147 A Genesio Lamberti 230 A Signorina S… 160 Agonia 232 Addio a Nuoro PEPPINO MEREU: IL SUPERAMENTO DEL RITARDO 233 Unu ballu in maschera 234 W… 243 Sa teracca mia 244 Su minestrone 247 A Signor Tanu 252 A Nanni Sulis [III] 254 Sa bottiglia 255 Titti tittia 256 A Ernesto Mereu 262 In Conziliatura 263 Su socialista a una bigotta 265 Anima niedda 281 Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu 282 Piazzaforte di Orune 284 Cunfessende 285 Signora maestra 287 Litanias maggiores 289 A una violetta sicca 291 Sas giarrettieras 292 Ottava 293 Serenada 294 Proposta amorosa 295 Risposta amorosa 298 Imbasciada 268 Turmentos 299 Su testamentu 269 A su tianesu 303 [Anepigrafa] 270 S’isveglia 304 Mauru Zucca 271 Unu bandu 305 A Peppe Cappai 272 Su canarinu de su rettore 306 Muttu 273 Minca maccaca 307 A un’illusa 276 Alberto La Marmora 308 Aspettos 280 S’ambulante tonaresu 311 Notas La vicenda umana e poetica di Peppino Mereu offre lo spunto per richiamare brevemente alcuni dati relativi al profilo storico, culturale e linguistico che offre la Sardegna all’indomani dell’Unità, cioè al momento in cui si verificano progressivi strappi nei confronti dell’eredità di un passato “localistico” e, tanto per l’Isola quanto per tante altre regioni, caratterizzato da pesanti dominazioni straniere. Si può dire che dal 1861 in poi lo sforzo richiesto dalla nazione agli ex stati regionali sia quello di far parte costituente dell’Italia non solo in quanto realtà geografica, ma anche e soprattutto statuale. In una situazione così mutevole e per molti lati, compreso quello culturale, drammatica, si colloca l’opera del poeta di Tonara, che si dimostra essere tutt’altro che aliena al dibattito politico e sociale che un evento di tale portata suscita nel Paese. Da tale considerazione si è preso lo spunto per il titolo della nostra prefazione: la poesia in lingua italiana, come si sa, appare a lungo statica nel suo petrarchismo di fondo e nella sua lingua inerte fino all’Ottocento maturo rispetto alle coeve realtà europee, mentre quella in dialetto è vista, spesso giustamente, come «Verdi suonato con la fisarmonica».1 In Sardegna tale ritardo assume connotazioni ancor più evidenti, principalmente a causa del durevole connubio fra lirica isolana e modelli arcadici, fra i quali Zappi, Rolli, Metastasio. Non si dimentichino infine la stanca riproduzione della poesia classica latina (ad esempio Orazio) e l’influsso imprescindibile dei “monumenti nazionali”, un po’ come avviene in tutto il paese per Petrarca ad esempio, ancora ben vivi nel secondo Ottocento, come testimoniato dallo stesso Peppino Mereu quando cita il Tieste di Foscolo in epigrafe a K… e la stessa Corona aretina in A Genesio Lamberti. 1. F. Brevini, “Introduzione”, in La poesia in dialetto, tomo I, Milano, Mondadori, 1999, p. XLIII. 7 Prefazione Tale apparente immobilità dovette sposarsi bene con la realtà agricola e pastorale dell’Isola e col suo immaginario, ma è pur vero che l’abituale patrimonio di citazioni e formule poetiche, che costituivano una sorta di auctoritas – si veda la proemiale e frequente invocazione alle muse – doveva trasferirsi con una certa facilità nel mondo della produzione estemporanea da un poeta all’altro, per riflettersi di conseguenza su quella scritta. Ciò è tipico della dimensione letteraria orale e difatti, con Zumthor, l’improvvisatore appare come colui che «possède le talent de rameuter et d’organiser prestement des matériaux bruts, thématiques, stylistiques, musicaux, auxquels se mêlent les souvenirs d’autres performances et, souvent, des fragments mémorisés d’écriture. Ou bien, s’il partecipe à une tradition mieux formalisée, il construit … au jour le jour, avec des éléments standard, des textes toujours nouveaux».2 Tuttavia in Mereu, accanto all’abituale apparato formulistico, compaiono temi e forme tutt’altro che distanti da quanto accadeva in buona parte della produzione poetica italiana del secondo Ottocento, come vedremo anche in seguito. Perciò si rende necessaria una attenta valutazione della categoria denominata “ritardo”, se la si vuole applicare a questo poeta ricco di contrasti e innovazioni. Anzitutto, fatta nostra la lezione di Pier Vincenzo Mengaldo, secondo il quale «sulla poesia italiana contemporanea s’impara, assai più che da tanti ambiziosi problemi globali, da ricerche apparentemente decentrate che percorrono per esempi e campioni l’intero territorio a partire da ipotesi di lavoro circoscritte ma precise»,3 approfittiamo di queste pagine per delineare la realtà storico-sociale dalla quale scaturiscono i versi che proponiamo nella presente silloge. E tale realtà si rispecchia direttamente nella vicenda testuale del corpus mereiano, che consta di una raccolta organica uscita vivente il poeta per i tipi Valdés, tipografia cagliaritana sorta nel 1894 grazie all’intraprendenza di Pietro Valdés e a seguito dell’importante funzione di apripista svolta dalla tipografia Timon, sempre di Cagliari, che ben simboleggiava la vivacità di questo centro dal punto di vista economico e culturale a cavaliere fra i due secoli. D’altro canto nello stesso settore anche Sassari, con l’attività di Dessì, Chiarella, Azuni ecc. appariva in continua espansione.4 A tale effervescenza consegue una progressiva professionalizzazione dell’editoria sia all’interno delle tipografie, sia dei giornali, con riflessi importanti sulla diffusione della cultura in una regione che le statistiche del tempo descrivono quasi totalmente analfabeta, arretrata e isolata.5 A proposito 2. P. Zumthor, Introduction à la poésie orale, Parigi, Éditions du Seuil, 1983, p. 226 [trad. it. La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1984]. 3. P.V. Mengaldo, “Introduzione”, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. XIX. 4. Per un rapido panorama sull’industria tipografica in Sardegna in sinossi con la realtà imprenditoriale isolana pre e post-unitaria rimandiamo a M.L. De Felice, “La storia economica dalla «fusione perfetta» alla legislazione speciale”, in Storia d’italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 391-392, 396, con relativa bibliografia ivi fornita. 5. Si vedano a tal proposito i dati relativi all’alfabetizzazione dell’Italia post-unitaria pubblicati e discussi da T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Editori Laterza, 19723, pp. 95-98: in essi la Sardegna occupa il primo posto per percentuale di analfabeti nel 1861 con un tasso del 90 per cento, mentre nel 1911 si scende al 58 per cento. G. Sotgiu, in Storia della Sardegna dopo l’Unità, Bari, Editori Laterza, 1896, p. 173, fornisce i seguenti dati: secondo il censimento del 1871 risultava analfabeta l’87,98 per cento della popolazione sarda, superata da quella della Basilicata, a fronte di una media nazionale del 73,27 per cento. Lo stesso Mereu, in seguito ai problemi economici derivanti dalla morte dei genitori, non andò oltre la terza elementare, risultato che tuttavia non doveva apparire di poco conto per una comunità rurale come Tonara. Ciò risulta nel volume Tradizione e modernità a Tonara in un’inchiesta condotta nel 1928 da Giuseppe Tore, a cura di Gianfranco Tore, con prefazione dello stesso Tore e di Giulio Angioni, edito col patrocinio del comune di Tonara nel 1995: «Il numero di coloro che, pur essendo obbligati, non si iscrivono alla scuola, supera i duecento, e nessuna legge si può applicare contro di essi per mancanza di edificio scolastico» (p. 77). Non si specifica il periodo storico, ma probabilmente si tratta dei primi del secolo scorso. E ancora, a p. 213: «Nello stesso anno 1824, addì due novembre fu aperta la prima scuola elementare in Tonara, con circa 80 alunni [a fronte di 1770 abitanti complessivi] … verso il 1850 8 9 Prefazione di questi dati, spesso volti a detrimento dell’immagine della regione, è senz’altro condivisibile, anche dal punto di vista letterario qui assunto, l’invito intelligente e fondato di Federico Francioni ad evitare che fatti prettamente storici possano «scivolare dalla dimensione storiografica o dell’indagine economica a quella dell’antropologia culturale», così da ricavare un’immagine della Sardegna nella quale il ritardo sociale in ogni sua forma appaia “congenito”.6 Il caso di Peppino Mereu e della sua silloge edita nel 1899 è davvero raro, se non probabilmente unico, fra i poeti dialettali sardi, soprattutto se si tiene conto della qualità della pubblicazione di cui parliamo, curata sotto ogni aspetto, a parte i difetti grafici e tipografici che affliggeranno per molto tempo ancora la stampa della poesia in lingua sarda, nonostante la generale riscoperta che il genere visse proprio nel secondo Ottocento. Non si dimentichi difatti che la sua diffusione era affidata – anche a causa della sua produzione frequentemente estemporanea – quando non alla memoria dei cultori, a supporti quali i fogli volanti, pubblicazioni artigianali di poche pagine dai prezzi popolari che contribuivano a diffondere le opere dei poeti locali e svolgevano talvolta una funzione “sociale”. A riguardo Rosario Cecaro scrive: «Questi fogli … conoscono nel secolo scorso una vastissima popolarità … il fenomeno si spiega se si pensa che le canzoni sono il mezzo principale di comunicazione e informazione nella cultura sarda, ancora caratterizzata lungo tutto l’Ottocento dall’oralità».7 una sessantina di persone sapeva appena leggere e scrivere». Non di molto dovette variare la situazione quando Mereu, nato nel 1871, entrò in età scolare. 6. Cfr. F. Francioni, “Giornali, giornalismo e questione sarda nell’Ottocento: linee generali d’analisi e interpretazione”, in I giornali sardi dell’Ottocento. Quotidiani, periodici e riviste della Biblioteca universitaria di Sassari. Catalogo (1795-1899), a cura di R. Cecaro, G. Fenu, F. Francioni, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, 1991, p. 11. 7. R. Cecaro, “La poesia come informazione”, in Cantones de sambene. Amori, delitti e processi nella poesia popolare di fine Ottocento, a cura di R. Cecaro e S. Tola, Cagliari, Della Torre, 1999, p. 24. 10 Anche Enrica Delitala conferma che «il foglio volante spesso costituisce l’unico patrimonio librario ed uno dei pochi mezzi di comunicazione culturale, là dove l’isolamento e la subalternità … rendono più facilmente accetti determinati argomenti ed il modo di trattarli proprio dei fogli esaminati [un corpus di 250 fogli conservati presso la Biblioteca universitaria di Cagliari]».8 In secondo luogo, ha per noi importanza fondamentale ai fini dell’inquadramento critico del poeta nella cornice offerta dall’Unità, la presenza di tre componimenti del poeta tonarese in due riviste letterarie dell’epoca, La Piccola Rivista [18981900] e La Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata [1897-1898]. Questo fatto ci consente di toccare la questione del proliferare dei periodici, letterari e non, in un territorio apparentemente incolto e preso da questioni di ben altra importanza. Invece l’invio dei propri componimenti alle numerosissime riviste doveva costituire un passo obbligato per chi, come Mereu, andava alla ricerca di un minimo di visibilità all’interno di un panorama letterario in grande fermento e col quale, tenuto conto dell’isolamento di cui certamente soffriva allora Tonara, non doveva essere altrimenti facile entrare in contatto. Che si trattasse di una necessità lo si capisce bene andando a sfogliare i periodici di fine Ottocento: da queste pagine emerge chiaramente una vivace comunità d’intellettuali che essendo per giunta ristretta, mostrava un buon numero di vicendevoli conoscenze personali e un interessante dialogo interno. Lo scambio d’idee e informazioni era talvolta basato sulla stima, talvolta astioso e improntato alla polemica, ma comunque fondamentale ai fini della comprensione della realtà letteraria e artistica isolana. Fra le pagine delle numerosissime effemeridi, stampate principalmente nei due maggiori centri dell’Isola, ci s’imbatte 8. E. Delitala, “Poesie sarde su fogli volanti: poesia popolare, popolareggiante o culta?”, in Oralità e scrittura nel sistema letterario, a cura di G. Cerina, C. Lavinio, L. Mulas, Atti del Convegno (Cagliari, 14-16 aprile 1980), Roma, Bulzoni Editore, 1982, p. 231. 11 Prefazione di frequente nelle prove letterarie di tanti fra i personaggi di spicco della cultura sarda. Per limitarci a un arco cronologico comprensivo dell’attività del nostro autore, basti ricordare almeno Vita sarda [1891-1893] dove, fra altre cose, si trova pubblicata una lirica di Grazia Deledda intitolata Fantasia grigia [a. III, n. 3, 1892] che tratta il tema della viola fatta appassire fra le pagine di un libro quale simbolo del ricordo, medesimo spunto, probabilmente casuale, delle terzine di A una violetta sicca di Mereu. Proprio quest’ultima fu consegnata dall’autore o chi per lui alla Piccola Rivista, effemeride cagliaritana diretta da Ranieri Ugo, che ospitò anche il sonetto In Conziliatura, oltre a vantare contributi di valore come quelli della stessa Deledda e di altre figure di spicco dell’intellighenzia isolana.9 Parte importante della documentazione diretta sulle vicende sarde post-unitarie è dunque fornita da riviste e periodici, che acquisiscono progressivamente figure capaci e specializzate all’interno delle proprie redazioni, così da assumere man mano orientamenti sempre più connotati sia riguardo alle tematiche trattate, sia riguardo alle correnti politiche e di pensiero alle quali essi aderiscono. È però opportuno precisare che l’informazione fornita da questi media difficilmente riusciva a raggiungere le classi più basse; pertanto ad usufruire maggiormente delle novità messe in circolazione dai giornali erano la media borghesia e i ceti urbani in generale. In realtà, durante quegli anni furono destinati alle classi rurali 9. Giancarlo Porcu, in un interessante articolo dal titolo “In Conziliatura, sonetto di Peppino Mereu”, apparso su La grotta della vipera, a. XXVII, n. 93, primavera 2001, traccia una breve panoramica dei contenuti e delle collaborazioni che poteva vantare il periodico. Inoltre cfr. I giornali sardi dell’Ottocento cit., pp. 174-175 e G. Fois, F. Pilia, I giornali sardi. 1900/1940. Catalogo, Cagliari, Della Torre, 1976, p. 310. Sia detto di passata: Ranieri Ugo, sotto lo pseudonimo di Paolo Hardy, fu il procacciatore di voti commiserato da Mereu nella sua A Paolo Hardy, lirica composta nel ’95 in risposta al sonetto dello stesso Ugo (cfr. p. 201). Ciò non impedì che fossero pubblicati, quattro anni dopo, i sonetti mereiani di cui sopra proprio nella Piccola Rivista, che questo eccentrico personaggio diresse. 12 all’incirca i medesimi canali d’informazione e acculturazione del passato, principalmente forniti dal basso clero. Difatti, come appare evidente nella stessa storia letteraria sarda, furono per lo più gli esponenti di questo ceto a segnare le punte più alte della produzione letteraria locale, fortemente caratterizzata dalla poesia improvvisata. Il parroco del paese condivideva spesso con la plebe, oltre alle condizioni di vita più o meno modeste, cultura, mentalità e lingua, in assenza praticamente totale di italofonia fra i ceti agrari. Tale figura, che poteva associare alla predica l’attività poetica, era in grado di garantire un minimo di “istruzione” sfruttando questi due canali comunicativi, ovviamente sotto il condizionamento della formazione ecclesiastica. Talvolta però le rigorose e severe letture sacre erano stemperate da esperienze poetiche provenienti da letture personali, come anche da estri poetici – clamoroso il caso di “Padre Luca” Cubeddu – che la Chiesa non poteva sempre tenere sotto controllo.10 Si è già insistito sulla funzione informativa svolta dai fogli volanti. Naturalmente il progresso registrato dai mezzi d’informazione e diffusione dei saperi provenienti da altre realtà geografiche è legato all’evoluzione socio-economica interna: dall’Unità in poi si nota un aumento dell’indice di alfabetizzazione e, di pari passo, di scolarizzazione, fattori che si affiancano al cambiamento di politica culturale verificatosi col passaggio dal governo sabaudo, tendenzialmente contrario alle innovazioni e portato a favorire il già saldo monopolio culturale del clero, all’unificazione del Regno. In questa fase, difatti, diventa possibile la libera circolazione di uomini e idee da essi veicolate che, giunti a contatto con l’arretrata realtà locale, ne intaccano 10. In relazione all’innegabile importanza della funzione svolta da questa istituzione nei processi di acculturazione dell’Isola, sarà bene ricordare che anche la stampa vi fu introdotta da un suo esponente, Nicolò Canelles, vescovo di Bosa che impiantò a Cagliari la prima tipografia stabile intorno al 1566. Si veda in proposito, anche per la dovizia di dati sulla produzione libraria e sul rapporto fra questa e le lingue della cultura al tempo, B. Anatra, “Editoria e pubblico in Sardegna tra Cinque e Seicento”, in Oralità e scrittura cit., pp. 233-243. 13 Prefazione fortemente la scorza, entrando spesso a contatto con periodici già esistenti, oppure fondandone di nuovi.11 Un esempio della forza di questi cambiamenti è costituito da La Farfalla [1876-1877], effemeride cagliaritana che nonostante la sua breve stagione sarda – sarà in seguito trasferita a Milano – rivestì una parte importante negli sviluppi delle vicende culturali sarde. La rivista annoverava fra i suoi collaboratori alcuni fra i maggiori esponenti della scapigliatura milanese, fra cui Cletto Arrighi e Felice Cameroni, le cui idee e opere ebbero buon seguito sia fra gli intellettuali, sia fra i lettori più attenti alle novità in campo artistico-letterario, da individuarsi principalmente all’interno di quella borghesia cittadina cui abbiamo accennato poco sopra.12 11. Ci piace fornire al lettore, a proposito del proliferare di periodici letterari, una testimonianza divertente ma preziosa, tratta da un articolo intitolato appunto “I periodici letterari”, apparso a firma di Ramiro [sic] su La Nuova Sardegna, a. X, n. 290, 21 ottobre 1898: «Premetto che questi fogli [ci si riferisce a periodici per lo più “goliardici”] si pubblicano ordinariamente alla fine di dicembre per potere poi al secondo o terzo numero scrivere sulla copertina Anno II. Chiedete ai fondatori di tali riviste … gli intenti di tali pubblicazioni e vi risponderanno inevitabilmente che è quello di portare nella breve cerchia della provincia un risveglio intellettuale … esce il primo numero che contiene un’ode a Ninetta di Goliardo ed una Penombra di Alfa … seguono quattro colonne di studi glottologici e una pagina di folklorismo. Poi viene il romanzo della signorina Zeta di Elle … e sotto la firma del direttore responsabile il N.B.: Coloro che non rifiuteranno il presente numero si intendono abbonati … ma l’abbonamento non lo paga nessuno. Ciò non toglie però che la direzione non spedisca i numeri seguenti, i quali contengono … cinquanta stornelli dialettali, dedicati a Virgilio … al settimo numero il giornale è morto … il direttore ha contratto con la casa editrice un debito che non pagherà più mai. Parce sepulto!». 12. Roberto Tessari, nella monografia da lui curata e intitolata La scapigliatura. Un’avanguardia artistica nella società preindustriale, Torino, Paravia, 1975, p. 82, sottolinea giustamente che «l’essere scapigliato, tra il 1860 e il 1890 significò soprattutto esprimersi non solo e non più attraverso l’invecchiata forma del volume di versi o di prosa romanzesca … bensì sulla pagina del quotidiano e della rivista, potenzialmente aperte ad un pubblico … più ampio». 14 Per comprendere meglio quale sia la temperie culturale nella quale si colloca lo scambio d’idee, opinioni e la diffusione delle opere all’epoca in cui Mereu visse, sarà sufficiente ricordare almeno La Meteora [1878-1879], che pubblicò alcuni contributi di due fra i modelli “nazionali” più influenti del poeta tonarese: Giuseppe Giusti e Olindo Guerrini, quest’ultimo noto anche con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, al tempo celebri poeti ai quali si può attribuire in buona parte, a livello di lingua letteraria, la tendenza al concreto, all’abbassamento di registro a fini realistici di alcune liriche mereiane. Di Giusti inoltre è espressamente citata, oltre ad altre forti suggestioni interne, la quartina d’apertura di Parla il mascherone della Fonte del Tettuccio, posta in epigrafe a Galusè: nel leggere versi come «preides, polizzottos, cummissarios / e nobiles ispias» (vv. 148-149) non si può non ricordare l’elenco snocciolato dal poeta toscano di «villani, nobili, / birri, crociati, / spie, preti, monache / scrocconi e frati» (vv. 73-76), i quali si riuniscono attorno alla fonte di Montecatini, ognuno coi più disparati “interessi”.13 Infine anche la fonte giustiana ha il dono della parola e racconta ciò che vede accadere davanti a sé, in un comune e tipico esperimento di mimetismo che nello specifico serve a entrambi i poeti per non dover attuare in prima persona la rispettiva critica sociale. Si tenga conto del fatto che la diffusione dell’opera di questi due personaggi, soprattutto dello Stecchetti, avvenne non solo ad opera di effemeridi letterarie come La Meteora, ma anche, in seguito, dei due maggiori quotidiani regionali, L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, fondati rispettivamente a Cagliari nel 1889 e a Sassari nel 1892. Al cambiamento politico e sociale si legano quindi i modelli culturali provenienti dal “continente”; da qui la diffusione della scapigliatura, seguita dai primi passi mossi in Sardegna dal socialismo, e della ribellione linguistica e tematica soprattutto stecchettiana – ma pure Giusti avrà il suo seguito – 13. Cfr. G. Giusti, Poesie, a cura di N. Sabbatucci, vol. II, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, pp. 712-715. 15 Prefazione della poetica di Carducci ecc., che tanto riverbero avranno su un poeta come Sebastiano Satta (particolarmente il Carducci, tramite l’influsso giovanile esercitato a Sassari dal poeta e professore livornese Giovanni Marradi). Con ciò si giunse a creare un sottogenere per lo più in dialetto, ossia quello dei rifacimenti di tali modelli. Per quest’ultimo aspetto basti pensare al Mereu stecchettiano di Dae una losa ismentigada o al Pascale Dessanai di A Chillina ecc.,14 per giungere fino alla poesia “stecchettiana” – troviamo con questo titolo, ad esempio, un sonetto in sassarese di E. Dessena, in Il Massinelli [1900-1908], a. II, n. 11, 1901 – che ama rifare il proprio modello cogliendone in particolare l’aspetto della critica sociale e anticlericale. Sintetizza felicemente il fermento culturale di cui sopra Nicola Tanda quando parla di un «movimento che, dalla scapigliatura al Carducci e allo Stecchetti, aveva elaborato una poetica e procedimenti formali adatti a corrodere lo smalto dell’étabilissement post-risorgimentale (Stecchetti fu infatti uno dei modelli preferiti del tonarese Peppino Mereu)».15 Sarebbe superfluo ricordare come gli esponenti più noti della cultura sarda legarono il proprio nome a una o più riviste, in qualità di collaboratori o direttori: da Enrico Costa e Attilio Deffenu a Sebastiano Satta e Grazia Deledda, fino a Luigi Falchi e Ranieri Ugo, solo per citare i nomi più “ovvi” e rappresentativi dell’importanza del fenomeno. È perciò comprensibile che anche il nostro poeta, per diversi motivi, abbia avvertito l’esigenza di entrare a far parte di una comunità tanto attiva quanto ricca di suggestioni, soprattutto per un giovane di carattere, ambizioso e desideroso di farsi conoscere quale Mereu ci appare. Ed ecco che nel 1898 egli 14. Su Dessanai cfr. G. Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pascale Dessanai, con una proposta di edizione critica, Nuoro, Il Maestrale, 2000. In questa pubblicazione si trova una sezione intitolata “Da Stecchetti” (pp. 295-298) e diversi accenni al rapporto del poeta nuorese col modello nella parte introduttiva. 15. N. Tanda, Letteratura e lingue in Sardegna [1983], Cagliari, EDES, 1984, p. 37. decide, forse dietro consiglio dell’amico e mentore Giovanni Sulis, d’inviare al periodico letterario Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, stampato a Cagliari e diretto da Renato Manzini e G.B. Troiani, il già citato componimento in terzine A una violetta sicca, pubblicato nel n. 7 il 26 maggio di quello stesso anno. La lirica non è fra le più felici né fra le più innovative del poeta tonarese e anzi, come si è visto, si rifà a un percorso tematico assai praticato dalla tradizione poetica locale e non solo. L’anno seguente, prima della pubblicazione della silloge per i tipi Valdés – essa, secondo l’articolo di Francesco Corona riportato nella “Nota bibliografica”, risulta essere stata pubblicata a settembre – Mereu invia a La Piccola Rivista dapprima il sonetto In Conziliatura e, a seguire, la serie di sonetti intitolata A Ernesto Mereu, apparsi rispettivamente nei nn. 9 e 14 del periodico succitato. Stavolta ci si trova di fronte a due prove caratterizzate dal mistilinguismo e che, come generalmente accade fra i dialettali post-unitari, si riferiscono a situazioni e personaggi che contemplano realmente lo scambio di codici (qui sardo e italiano) fatti assurgere alla dignità poetica, per lo più con intento parodiante e deformante. Egli cioè si dichiara implicitamente non più epigono della tradizione amorosa e aulica, pur rivisitata con toni scapigliati, come accadeva in occasione del primo “languido” componimento, ma di quella satirica e mordace, aderente ai canoni del vero e che fa della critica linguistica lo spunto per la caricatura di personaggi tipici della Sardegna post-unitaria, allora ben presenti in qualsiasi regione d’Italia. Difatti non appena la situazione lo richieda o consenta, ad esempio nella burocrazia, costoro si lasciano inconsapevolmente andare a quell’italiano porcheddinu, frammisto cioè al dialetto, che in epoca di scarsa diffusione della lingua nazionale negli anni successivi all’unificazione, era quanto di meglio si potesse probabilmente udire in occasioni consimili. Pertanto si tratta di una scelta stilistico-tematica ben marcata e che supera se vogliamo, a livello d’intento programmatico, quella della poesia di protesta sociale “pura”, più nota ai 16 17 Prefazione lettori certamente, ma che non appare come si è visto, se non in forma mimetico-linguistica, fra i componimenti inviati alle riviste letterarie. Si trattava, evidentemente, di un filone assai congeniale al poeta tonarese, che univa ad una acuta sensibilità sociale un’altrettanto acuta intelligenza linguistica che lo portò ad operare anche per altri componimenti questa scelta, davvero rara nel panorama della poesia dialettale sarda.16 Di questa rarità il poeta dovette essere consapevole, ed è forse da tale consapevolezza che nacque la selezione del materiale poetico poi apparso sulle due effemeridi. È necessario ora, oltre a quanto già detto, fornire qualche dato storico aggiuntivo sulla Sardegna post-unitaria, poiché lo stesso Mereu, tutt’altro che fossilizzato nell’Arcadia che tanta e durevole eco ebbe fra i poeti conterranei, vi accenna esplicitamente nelle sue liriche. In effetti le condizioni di vita, soprattutto nel centro-sud del Paese, non furono facili a causa di numerosi fattori: la politica espansionistica del nuovo stato unitario portò quest’ultimo ad esigere tasse esose, il cui re-investimento in buona parte non ricadeva direttamente sul territorio italiano, ma sulla spesa legata alle operazioni militari. Inoltre regioni già povere come la Sardegna, che non conoscevano la grande industria, soprattutto quella siderurgica, si videro estromesse dai possibili guadagni derivanti dalla produzione di materiale bellico. Perciò esse furono costrette a fare affidamento unicamente sulle fonti di sostentamento tradizionali (agricoltura e pastorizia) e non ebbero molto altro dal nuovo governo se non, nel caso specifico dell’Isola, 16. Si legge su Il Burchiello [1901-1909] a firma di Anastasio [sic], un componimento in quartine di endecasillabi con una morale conclusiva in settenari e endecasillabi, redatto nell’italiano interferito appena descritto e intitolato Il lupo e il miritare, a. I, n. 4, 1901, nel quale si gioca, evidentemente già a partire dal titolo, sulla pronuncia rotacizzante della liquida l da parte dei parlanti la varietà sassarese, ovviamente con intento comico. Si tratta di una satira misogina di qualità poetica nulla, ma per i nostri scopi indicativa già a partire dall’“epigrafe”: «(Fatto capitato ad un poeta sorsinco [‘di Sorso’] di ritorno da ra Toscana)». Si leggano i vv. 16-20: «“Che” – fece il giovinotto, abituato / a trattare con gente di profetto, / “facci pure, gnò lupo!, io son sordato / e queste cose, cavolo, le ammetto!”. // Ma ir lupo, che alla fine era un villano, / marintragnato, un vire mascarzone, / s’accosta alla signora piano piano / ed haum! se l’ingodde in un boccone». Un altro componimento mistilingue in ottave di endecasillabi e settenari, improntato al code mixing e al code switching, ossia alla ‘commutazione’ e ‘mescolanza di codici’, si trova nel medesimo periodico sassarese a firma di Burchiellino, col titolo La camera del lavoro, a. I, n. 15, 1901. Eccone uno stralcio che si riferisce alle interferenze fra sardo e italiano: «Così parla Antonino entusiasmato, [egli ha appena concluso un comizio] / tace: terge il sudore e, tra gli evviva, / dai compagnoni vien felicitato. / Ma un tal che non capiva / o capiva ben poco l’italiano, / si avvicina pauroso all’oratore / e gli sussurra col berretto in mano: // Mi l’ispiegheggia un po’, caru dottore, / in sassaresu chi cussì no ibagliu… / La camara, cumpà, di lu trabagliu… / E quello ch’era un furbo di tre cotte, / stette un pochetto muto / e poi così rispose: / Buona notte / ho bene… comprenduto: / la camera che ài detto / di siguru è… la camera da letto» (vv. 9-24). Se nel primo caso è rappresentato un soldato, soggetto tipico di tali raffigurazioni nello stesso Mereu, in La camera del lavoro notiamo un ambiente legato alla propaganda politica, che richiede pertanto l’utilizzo della lingua ufficiale. Qui un “tale”, descritto in atteggiamento umile e riverente, chiede di poter ricevere una spiegazione nella propria lingua, sì da non equivocare il messaggio («in sassaresu chi cussì no ibagliu»). Tuttavia, mentre in Mereu l’effetto comico nasce principalmente dall’inconsapevolezza da parte dei personaggi della propria precaria padronanza della lingua italiana, qui invece la consapevolezza d’ignorare la medesima è posseduta dal popolano, che la dichiara apertamente. Pertanto il code switching si verifica anzitutto a livello della struttura poetica, con una parte introduttiva in un italiano forbito che funge da voce fuori campo, seguita dalla parte in dialetto che, ovviamente, dovrebbe creare un effetto comico dovuto all’accostamento anche linguistico fra l’oratore, veicolo in negativo di una lingua incomprensibile e fumosa, e l’umiltà popolana ma saggia del dialettofono, il cui ruolo è palesato da quel «caru dottore» ironicamente confidenziale. Si giunge poi alla commutazione di codice nella risposta di Antonino, chiaramente connotante in senso negativo, in quanto costui pretende di potersi gestire in italiano, ma si trova a mescidare i due codici, risultando così assai più risibile rispetto primo attante, che parla una sola lingua ma, almeno questo, correttamente. La morale linguistica è che il dialettofono sa stare al suo posto, mentre chi sperimenta attivamente il bilinguismo corre spesso il rischio di apparire ridicolo o riceve comunque una connotazione negativa. Questo schema si trova applicato assai spesso fra i poeti dialettali del secondo Ottocento. 18 19 Prefazione una guerra doganale con la Francia (1878-1888) che bloccò i suoi proficui contatti con Marsiglia nell’esportazione di bestiame, latticini e prodotti agricoli, senza contare la sordità per lo più cronica nei confronti dei problemi locali a favore dell’aggressiva politica estera. Per giunta, come Mereu stesso documenta ad esempio in A Nanni Sulis, le annate negative, la filossera e la peronospora, alluvioni e quant’altro,17 mettevano in difficoltà cronica le popolazioni rurali che, oltre a dover fronteggiare i capricci del clima, spesso aggravavano i propri debiti ricorrendo all’usura, anche per poter far fronte alle forti imposte. Inoltre appartiene agli anni a cavallo fra Unità e cambio di secolo l’opera di disboscamento che, per dirla con le (ri)sentite parole di Raimondo Carta Raspi, non fu altro se non una «vandalica distruzione dei boschi consentita per cifre irrisorie ai concessionari di miniere e soprattutto agli appaltatori del ricco patrimonio forestale che dell’isola avevano fatto un immenso braciere per ricavarne carbone vegetale».18 I tentativi di inquadrare i problemi della Sardegna, sfociati nelle inchieste Depretis (1869), che pure fruttò l’importante relazione di Quintino Sella,19 o il più letterario lavoro di Paolo Mantegazza,20 e Jacini (1877) – affidata per la Sardegna a Francesco Salaris21 – fino alle numerose interpellanze del Pais 17. «B’est sa filossera, / impostas tinzas, / chi nos distruint / campos e binzas. // Undas chi falant / in Campidanu, / trazan tesoros / a s’oceanu» (A Nanni Sulis, vv. 22-29). 18. R. Carta Raspi, Storia della Sardegna, Milano, Mursia, 1983, p. 881. Si noti quanto in queste parole riecheggino i vv. 154-156 A Nanni Sulis [II]: «Sos vandalos, cun briga e cuntierra, / benint dae lontanu, a si partire / sos fruttos, da chi si brujant sa terra». 19. Q. Sella, Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1871 [riedito a cura di F. Manconi, Nuoro, Ilisso, 1999]. 20. P. Mantegazza, Profili e paesaggi della Sardegna, Milano, Brigola (Tipografia Wilmant), 1869 [Sassari, La Nuova Sardegna, 2004]. 21. F. Salaris, “Relazione del commissario S. F. per l’inchiesta agraria sulla dodicesima circoscrizione (provincie di Sassari e Cagliari)”, in Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe 20 Serra dall’83 in poi,22 portarono per lo più a provvedimenti tanto inefficaci quanto tardivi. Tutto questo è documentato dai giornali dell’epoca, spesso critici nei confronti della politica governativa: «Anche il 1899 è sorto senza vedere l’inizio di quei provvedimenti che dovevano rigenerare la Sardegna … dove sono i lavori di bonificazione agricola, di sistemazione idraulica? … si va di male in peggio. Si distribuiscono pochi centesimi, si inaugurano sistemi di violenza, e sono completamente trascurati i supremi bisogni dell’isola»,23 e via di seguito sullo stesso tono di delusione per le promesse non mantenute a seguito delle inchieste succitate. Da ultimo, non si può non sottolineare la spaventosa carenza di strutture e insegnanti nell’ambito dell’istruzione elementare del tempo. Quest’ultima fu resa obbligatoria a partire dal 1877, ma l’evasione della legge Coppino era la prassi per gran parte della popolazione in età scolare, anche a causa della diffusa tendenza da parte delle famiglie a non volersi o potersi privare di forza-lavoro e per la scarsa fiducia nei confronti di maestri dalla dubbia cultura. Da ciò nascono i corrosivi versi conclusivi di Signora maestra, che valgono ben più di qualsiasi testimonianza storica: «La madre l’ha detto anche nel forno / che la maestra non capisce un corno / e piùs de issa nd’ischit sa pizzinna / e dae cussu l’hat mandada a linna» (vv. 36-39). Peppino Mereu registra il malessere da poeta che si fa interprete di un ruolo sociale ben preciso, con versi taglienti, a volte ingenui per foga, ma lucidi e quasi corali in quanto vox agricola, Roma, vol. XIV, fascc. 1° e 2°, estr. Roma, Forzani & C., Tipografia del Senato, 1885. 22. F. Pais Serra, Sulle condizioni della pubblica sicurezza in Sardegna. Interpellanza fatta alla Camera dei Deputati, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1883; F. Pais Serra, Sulla crisi agraria in Sardegna. Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati (tornata 13 marzo 1885), Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1885 et al., ma cfr. soprattutto F. Pais Serra, Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1896. 23. La Nuova Sardegna, a. IX, n. 5, 5 gennaio 1899. 21 Prefazione populi, quello stesso popolo che egli ritrae nell’atto di «lingher / s’ispada tinta de sambene tou» (A Genesio Lamberti, vv. 69-70), mentre di sé stesso scrive, orgogliosamente: «Mai lintu / happo s’ispada tinta ’e samben meu» (A Signor Tanu, vv. 71-72). Il mistilinguismo come dato sociale Con questo titolo intendiamo inscrivere i componimenti mistilingui del poeta all’interno di quel filone sociale, che è stato ampiamente messo in luce per altri ambiti più propriamente riconducibili alle tendenze contestatrici e politiche del tempo, come il socialismo, cui Mereu, analogamente ad altri giovani ed a parte della classe intellettuale dei due atenei isolani, aderì con convinzione, e cui fa riferimento esplicito in più d’una occasione nelle sue poesie. L’acutezza di questo autore nel tracciare il profilo della società post-unitaria non è stata però, così ci sembra, organicamente messa in luce da questo punto di vista: fra i componimenti della raccolta si nota come egli abbia, sotto le spoglie della deformazione linguistica, colto un aspetto fondamentale come quello della diffusione dell’italiano in Sardegna a partire da ambienti di “frontiera” come l’esercito, la scuola, la burocrazia. Un’intelligenza storica vigile quindi, in grado di cogliere, anche grazie alla sua esperienza nell’Arma, i mutamenti sociali e di lingua che investivano con forza sempre maggiore la comunità. È certamente vero quel che dice Franco Brevini a proposito del «topos della letteratura postunitaria … la satira di chi, nella compagine del nuovo stato, si sente in dovere di fare affettazione di italofonia senza possedere una effettiva competenza della recente lingua nazionale»,24 ma si tenga presente che questo non fu, se non a partire proprio da Mereu, un percorso poetico sfruttato dalla poesia dialettale sarda, eccettuati pochi altri casi. La poesia isolana, proprio in quanto legata straordinariamente a lungo a modelli superati ma di grande solidità, non si curò troppo del confronto storico con le lingue e culture dominatrici almeno fino al secondo Ottocento, se non per assorbirne selettivamente gli elementi funzionali a quegli stessi modelli che le si confacevano, non certo per spirito di rivalsa. Pertanto Mereu, almeno relativamente alla realtà locale, non si trovò ad aver a che fare con un tòpos ampiamente sfruttato, semmai lo dovette importare dall’esterno,25 mentre la sua esperienza nell’Arma – con l’inevitabile commistione di dialetti che la caratterizzava – dovette acuirne, come detto, la sensibilità linguistica. Insomma, er parlà cciovìle de ppiù, per dirla con Belli, costituisce nel discorso poetico regionale una novità che peraltro Mereu condivise con Antonio Domenico Migheli e Pompeo Calvia. A tal proposito risulta importante richiamare ancora una volta il concetto di dialettalità applicabile a un’isola nella quale non si scelse il sardo in opposizione al toscano quale “lingua della poesia”, ma si continuò semplicemente ad utilizzare l’unico codice espressivo a tutti noto, il sardo appunto, pur ampiamente differenziato rispetto al parlato, che si accompagna ai modelli nazionali. È quindi nei componimenti di Mereu che il contrasto con la lingua ufficiale assume un carattere non più occasionale; pertanto non possiamo che dar ragione a Giancarlo Porcu, senza trascurare il già citato tòpos richiamato da Brevini, quando relativamente all’uso poetico dell’italiano interferito, egli parla di «un gesto formale che ha del rivoluzionario se rapportato alla storia del linguaggio poetico sardo», ricordando poi il precedente dei summenzionati Migheli e Calvia.26 Perciò torniamo sopra la questione dell’interferenza fra sardo e italiano accennata in precedenza, poiché è a partire da essa che ci pare si possa inquadrare entro un canone il più possibile definito il poeta tonarese, ed è forse da questo aspetto che può emergere con maggior evidenza la sua grande modernità, in rapporto al sistema letterario che lo accoglieva. 24. F. Brevini, La poesia in dialetto, tomo 2, Milano, Mondadori, 1999, p. 2866. 25. Pensiamo ad esempio allo Stecchetti di Postuma XXV, dove il poeta, nella classica forma del sonetto, rifà la parlata di un’irascibile “svizzero” [L. Stecchetti, Le rime, Bologna, Zanichelli, 1903, p. 49]. 26. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., p. 59 e nota 4. 22 23 Prefazione In base a quanto detto in precedenza si può perciò concludere che la comunità di cui Mereu fa parte non è certo bilingue, analogamente a tutti i centri rurali di allora; di conseguenza la consapevolezza della dialettalità negli immediati anni post-unitari – in tale vocabolo è compresa per noi anche l’accezione deteriore, cioè il sermo humilior – da parte di costui, come degli altri parlanti, non sarebbe stata possibile. Allora ci chiediamo se anche Peppino Mereu possa essere inscritto all’interno del raggruppamento d’intellettuali di cui parla Nicola Tanda e che, legati ai ceti rurali, intendevano comunicare in limba «per offrire alla propria comunità un servizio favorendo un flusso di comunicazione più attivo e moderno».27 A noi ciò non sembra fattibile in quanto, mancando la possibilità di scelta fra codici, veniva a mancare anche quella spinta contrappositiva derivante da una coscienza linguistica improntata alla ribellione nei confronti di una lingua più forte che, in teoria, sarebbe stata l’italiano, ma che in pratica continuava ad essere il sardo. Perciò la sua unica intenzione comunicativa, a livello poetico, era espressa in quest’ultimo codice e la partita si sarebbe potuta giocare non fra lingua nazionale e dialetto, ma, al più, fra vernacolo (il tonarese) e koinè sovra-locale, ossia il logudorese poetico o illustre, che si rivelerà poi essere la scelta del poeta. Tale partita, come sappiamo, si inizierà a giocare con consapevolezza sempre maggiore nella poesia sarda in concomitanza con quanto accade in Italia nella stagione dei dialettali del Novecento, naturalmente con l’inserimento dell’italiano. A Mereu è però dato d’innovare il sistema poetico attraverso i temi, i metri da alcuni punti di vista (cfr. la “Classificazione metrica”), e l’utilizzo di un linguaggio improntato al realismo, che abbandona l’aulicità della tradizione precedente, per iscriversi invece in quel filone satirico-sociale che, a partire da Pisurzi e Mele, si svilupperà poi con Murenu, Migheli ecc., sempre con l’uso della variante logudorese illustre. Semmai l’innovazione linguistica più forte consisterà nell’utilizzo costante, come accennato sopra, della commistione fra italiano e 27. N. Tanda, Letteratura e lingue cit., p. 35. 24 dialetto, che darà così origine a un pastiche interferito dagli esiti comici non indifferenti e che diverrà possibile all’indomani dell’Unità, quando la società sarda, come altre micro-realtà, uscirà dalla stasi che per lo più la caratterizzerà fino al periodo immediatamente precedente.28 In Italia la situazione prevalente è quella di una poesia in dialetto che, a cavaliere fra i due secoli e nel primo Novecento, mostra una produzione maggiore da parte dei centri cittadini con l’utilizzo di varietà urbanizzate, in un periodo in cui l’esistenza dei vernacoli non era ancora sentita come messa in pericolo dalla lingua nazionale; questa d’altra parte andava affermandosi con forza invasiva sempre maggiore. In seguito, man mano che lingua e modelli culturali unitari vanno prendendo sempre più piede, si tende a una dialettalità «introversa» e «endofasica»,29 che utilizza sempre più spesso vernacoli in precedenza ritenuti privi di dignità poetica – si pensi, quale esempio tardo, alla scelta eclatante del friulano da parte di Pasolini – e, per giunta, spesso sovrastati da altre koinài sovralocali più prestigiose. Tale scelta è motivata dal fatto che quei linguaggi “privati” sono sentiti in qualche modo confacenti all’istanza di rifiuto nei confronti di modelli che, se accettati, porterebbero alla morte di un intero nostalgico mondo, cui si vorrebbe invece far ritorno. Sappiamo tuttavia come questo non sia stato nell’Isola un processo di breve durata, a causa 28. La compresenza di due varietà locali, l’oschirese (o in generale logudorese) e il sassarese, assieme all’italiano interferito, rende l’opera di Antonio Domenico Migheli unica da questo punto di vista. Difatti nella sua opera più nota, Sa briga ’e sos santos, un gustosissimo litigio fra i santi sorto per problemi “condominiali” e non a caso d’impianto teatrale, l’autore inscena una tragicommedia in cui, secondo la tradizione comico-parodistica, la variatio di codici (italiano compreso) e registri è finalizzata alla tipizzazione principalmente diastratica di ogni attante, come in Mereu [cfr. G. Atzori, G. Sanna, Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura, vol. II, Cagliari, Edizioni Castello, 1998, p. 224, nota 26 e p. 228, nota 37]. Ciò si riscontra anche, ad esempio, in Sa cantone de sa trotta [cfr. A.D. Migheli, Sa briga ’e sos santos e altre poesie, Cagliari, Della Torre, 1986, pp. 175-185, 189-195]. 29. P.V. Mengaldo, “Introduzione” cit., p. LXX. 25 Prefazione del prestigio che logudorese e, in misura minore, campidanese illustri hanno mantenuto saldamente fino a tempi recenti, come testimoniato dai primi, “storici” verbali del premio Ozieri ancora negli anni ’50 del secolo scorso, in special modo quello del ’57. Ma tant’è: se la lingua di Peppino Mereu era lontana dal parlato, gli stessi vernacoli utilizzati dai contemporanei che Brevini definisce «neodialettali», collocandoli entro la sezione intitolata Lirica e dialetto, con sottotitolo “La lezione del Novecento e la scoperta delle lingue periferiche”, possono esserlo altrettanto. Ciò per il recupero di fasi arcaiche spesso frutto di ricerca erudita e che possono essere adottate unicamente in funzione poetica, talvolta a scapito della sostanza delle liriche stesse, ma non di certo ai fini di un illusorio riuso generalizzato nel parlato.30 Secondo quanto premesso non si può certo fare nostro in toto il mirabile panorama sulla poesia dialettale italiana tracciato dall’italianista tedesco Wilhelm Theodor Elwert, soprattutto quando in relazione al periodo post-unitario che a noi interessa egli, riprendendo la tesi di Giuseppe Ferrari,31 rileva che «in contrasto con la poesia italiana … sentita come cortigiana … e lontana dalla vita, si cominciò a rappresentare nella lingua della vita quotidiana, uomini quotidiani ed eventi quotidiani», fino ad evincere, secondo logica, che «la poesia dialettale ora non esiste più per sé, sullo stesso piano accanto alla poesia in italiano comune … ma adempie un compito 30. A tal proposito si veda F. Brevini, “Introduzione”, in Poeti dialettali del Novecento, Torino, Einaudi, 1987, p. XI: «Certamente l’attuale ritorno al dialetto rischia di essere un’operazione doppiamente riflessa, mediata, rispetto ad un codice che non corrisponde più ai bisogni linguistici della comunità … di qui l’approccio al dialetto in quanto lingua della pulsionalità, che conferma una volta di più il carattere mediato del recupero di questi anni». 31. G. Ferrari, “De la poésie populaire en Italie”, in Revue des deux mondes, serie IV, n. XVIII, 1 giugno 1839 e n. XXI, 15 febbraio 1840; poi in G. Ferrari, Opuscoli politici e letterari, Capolago, Tipografia Elvetica, 1852, pp. 431-545. 26 nel quadro di questa letteratura nazionale che ora le è anteposta».32 Tuttavia l’operazione di commistione fra lingue operata da Mereu può a nostro giudizio essere inserita in questo discorso oppositivo, naturalmente con gli opportuni distinguo, in quanto l’adozione del linguaggio interferito e di forme tipiche del parlato regionale post-unitario può essere vista sì come intento parodico, basato però sulla mimesi del vero e spinta fino a fare il verso alla parlata ridicola dei personaggi presi di mira dal poeta tonarese. Insomma, ci sembra che la mimesi possa essere ricondotta all’atteggiamento realista della seconda metà dell’Ottocento che, se in Italia fu sostenuto in larga parte dalla poesia in dialetto in opposizione alla letteratura nazionale, nel caso del poeta tonarese rappresenta invece quella rottura con la tradizione che, però, non era rappresentata in Sardegna da Petrarca ed i suoi epigoni ma da altri poeti, sardi, avvertiti, loro sì, come modelli “nazionali”. Del resto si trova una citazione esplicita del poeta aretino, peraltro errata ed evidentemente a braccio, nel penultimo verso del sonetto VI di A Genesio Lamberti. Ma questo è un altro discorso. Naturalmente quando Mereu tratta di soggetti definibili come “alti” oppure, più semplicemente, tipici della poesia isolana, il suo linguaggio poetico, le formule, le rime ecc. si collocano all’interno di una tradizione sempre forte e influente. Al contrario, il distacco da quest’ultima si verifica nel momento in cui la realtà cogente entra a far parte della sua poesia, sì da allontanarla dalla via più battuta dalla gran parte dei predecessori. È allora che egli avverte la necessità di rifarsi ad altri modelli, come Giusti o Stecchetti, i quali proprio dalla realtà tout court prendono spunto per i loro componimenti. Da ciò la differenza che intercorre fra A Tonara, dove il classico io lirico prende la parola per descrivere nostalgicamente 32. W.T. Elwert, La poesia dialettale d’arte in Italia e la sua relazione con la letteratura in lingua colta, Roma, Quaderni della Biblioteca nazionale centrale di Roma, 2000, p. 47. L’articolo è apparso per la prima volta nella rivista Archiv für das Studium der neueren Sprachen, n. 94, 1939. 27 Prefazione la patria lontana e Galusè, che si trasforma in locus describens anzichè descriptus, sicchè l’elegiaca contemplazione delle bellezze naturali da parte di un narratore interno coincidente con l’autore implicito cede il passo al quadro sociale dipinto dalla stessa fonte grazie al modello giustiano, come detto a p. 15. In conseguenza di ciò, il logudorese illustre, lingua della poesia, è abbassato da Mereu attraverso la commistione e la mescolanza di codici quando egli descrive situazioni particolarmente aderenti alla realtà sociale in cui vive, come quella degli strati bassi che tentano i primi, drammatici approcci alla lingua nazionale. Ovviamente non si deve pensare a una operazione di attacco preordinato nei confronti della lingua letteraria, ma a un dato di fatto secondo il quale il poeta non esitò, senza praticamente avere il sostegno di una tradizione locale alle spalle, ad “inquinarla” con il mistilinguismo e con i calchi di un signor Ciarla, così comici perché così aderenti a situazioni sociali che allora in Sardegna non avevano quasi mai fatto parte del registro tematico della poesia locale. Ciò accadeva anche perché simili istantanee del presente erano avvertite come estranee ai temi ammessi al Parnaso da parte di poeti spesso volti alla contemplazione di un passato per lo più mitico o a-storico ma che, secondo la tradizione alta locale, costituiva il soggetto principe della produzione in versi. A tal proposito ci sembra opportuno richiamare il fondamentale contributo di Gianfranco Contini “Preliminari sulla lingua del Petrarca”, ove lo studioso afferma che «se la lingua di Petrarca è la nostra, ciò accade perché egli si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia».33 Questa costante si è in qualche modo riflessa sulla lirica italiana tutta, dialettale compresa, ma secondo percorsi propri di ogni realtà geografica e conseguentemente culturale, come ha impeccabilmente messo in luce Carlo Dionisotti nella sua opera più nota. Secondo il grande italianista e filologo dopo il 1374, anno della morte di Francesco Petrarca, «la grande poesia italiana vien meno … l’ambito della letteratura toscana si … municipalizza … e … allora si ha, per la prima volta forse in Italia, una letteratura dialettale nel senso vero e proprio della parola, fondata cioè sull’uso consapevole di un linguaggio di rango inferiore».34 Il tradizionale disegno unitario desanctisiano (ma non solo) già posto in discussione da Croce, si spezza definitivamente in frammenti, entro i quali è più agevole assegnare ai dialetti e ai dialettali una dimensione precisa e dove è finalmente riconosciuto il ruolo che essi hanno ricoperto nel lavoro di rinnovamento del linguaggio poetico e letterario tout court; ciò nonostante resistenze e lentezze dovute anche al corso storico del Paese, a tutti ben noto. Si è così aperta la possibilità di leggere la reale complessità di un dialogo fra tendenze centripete e centrifughe di lunghissima data, le cui tappe fondamentali sono costituite dalla codificazione cinquecentesca del Bembo e dall’Unità. In Sardegna però, per vedere nascere quell’«uso consapevole» e oppositivo del sardo rispetto alla lingua nazionale di cui parla Dionisotti, bisogna attendere il pieno Novecento.35 33. Facciamo riferimento al saggio sopraccitato apparso con questo titolo in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 177. Esso apparve per la prima volta nel ’51 sulla rivista Paragone e, col titolo “La lingua del Petrarca”, nel volume collettaneo Il trecento, Firenze, Sansoni, 1953. 34. C. Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura italiana”, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 40. 35. L’esempio principe e se vogliamo “estremo” di questa consapevolezza da parte di un poeta novecentesco si trova nelle parole del nuorese Antonio Mura. Esse, difatti, riassumono un po’ tutto ciò che, con le necessarie astrazioni della critica letteraria, ci siamo dilungati a esporre in queste pagine: «Ho usato il nuorese per la sua arcaica, rude bellezza. In ogni modo, ho voluto scartare, per quanto possibile, ogni forma di loqutio artificialis, aulica, eletta, com’è nella tradizione poetica sarda, ed ho preferito servirmi delle forme linguistiche comuni e popolari che, anche quando sembrano barbariche e anticlassiche, non perdono mai una loro aspra e pietrosa autenticità. Quando … opportuno, per non forzare il dialetto ho usato le forme italiane» [A. Mura, “Avvertenza”, in Lingua e dialetto. Poesie bilingui, Nuoro, Edizioni Barbaricine, 1971, p. XXXI, riedito a cura di M. Virdis col titolo Su birde. Sas erbas. Poesie bilingui, Nuoro, Ilisso, 1998, con l’aggiunta di una sezione intitolata Poesie 28 29 Prefazione Tornando al fenomeno mimetico-linguistico, col passare del tempo esso sarà riassorbito entro il gusto del comico che da sempre ha caratterizzato la connotazione di personaggi determinati dalla loro stessa parlata. Nel periodo pre-unitario, in Italia, tale connotazione si risolveva solitamente nell’utilizzo dell’una o dell’altra variante dialettale, a seconda dei tipi ritratti; questo avveniva con particolare evidenza nel teatro. In Mereu invece latino e sardo mescidato all’italiano denotano la mancanza di suddetta caratterizzazione dei vernacoli nell’Isola. Di conseguenza il nobile, quando utilizza l’italiano, non adopera il code mixing, evidentemente tipico di altre classi sociali, come il militare o il reduce, per esempio, ma la sua tipizzazione linguistica è meglio determinata dall’utilizzo di alcune formule latine e da un logudorese fortemente italianizzato ma non scorretto, forse una sorta di variante urbana. Ugualmente ciò accade per l’ecclesiastico,36 mentre ad altre figure, il militare principalmente, è destinato l’uso di un italiano a dir poco improbabile, che il poeta doveva aver potuto udire spesso nelle caserme. Ciò, si è detto, senza spingersi a vedere in Mereu un ideologo del verismo in contrapposizione all’aulicità della tradizione precedente. Semmai il nostro è un poeta al passo con quanto accade nel panorama dialettale post-unitario, quando «alla passione e all’idealità risorgimentali, con quanto di astratto e indeterminato comportavano, succede un atteggiamento più realistico … rivolto all’analisi delle condizioni della nazione».37 E in questa «operazione di discesa verso la realtà»38 si spiega anche l’adesione agli irriverenti canoni poetici di Stecchetti, fra cui il mistilinguismo, assai distante dal diffuso bozzettismo dialettale, ma anche immagini e spunti tematici che possono spingersi fino ai calchi frastici. Si pensi ad esempio ai vv. 85-86 di A Signor Tanu: «Odio cuddos viles istrozzinos / chi dan dinare su chentu pro chentu» e al v. 17 di Anima niedda: «Prestas dinares su chentu pro chentu», la cui origine è da cercarsi probabilmente in Postuma XXIV. In morte di un molto reverendo strozzino, dove l’anima nera, come Mereu definisce il suo prete mangia-ostie, è descritta «rubando al postribolo, / rubando al convento, / prestando al suo prossimo / al cento per cento».39 In conclusione, per completare il nostro discorso sulla dialettalità spontanea o riflessa riguardo alla poesia sarda pre-novecentesca si può prendere spunto da Piazzaforte di Orune, componimento redatto interamente in italiano.40 Pur sommerse che raccoglie sedici componimenti esclusi dalla prima pubblicazione]. Rimandiamo inoltre all’introduzione al volume di Mura intitolata significativamente Dialetto e cultura ad opera dell’editore Raffaello Marchi, riportandone solo l’ouverture: «Che senso può avere, oggi, un libro di poesia sarda scritto da un autore colto, che avrebbe potuto tranquillamente poetare in lingua italiana, e che invece ha usato l’italiano come semplice lingua di traduzione e questo “parlato” di Nùoro come prima lingua … ? Ha un senso … polemico e forse persino provocatorio» (p. IX). 36. Segnaliamo l’interferenza sardo/latino ad uso comico in bocca ad un ecclesiastico nel testo campidanese di discussa datazione intitolato Sa scomuniga de predi Antiogu, arrettori de Masuddas, scritto probabilmente attorno alla metà dell’800 e apprezzato, fra l’altro, da Antonio Gramsci, che ne chiede una copia alla madre in una lettera dal carcere di Milano datata 27 giugno 1927 [cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprifoglio e E. Fubini, Torino, Einaudi, 1965, pp. 99-100 (ma cfr. ibidem anche la lettera del 3 ottobre 1927, p. 131, dove Gramsci cita a braccio pochi versi dell’opera)], e da Max Leopold Wagner, il quale ne promosse una ristampa [cfr. Zeitschrift für romanische Philologie, LXII, 1942, pp. 225-262]. Sa scomuniga è stata riproposta di recente in edizione critica per la cura di Antonello Satta, Cagliari, Della Torre, 1983, poi, con medesimo titolo e curatore, Oristano, Editrice S’alvure, 2002. In questo testo di quasi settecento versi stampato per la prima volta nel 1879 su un foglio volante, le citazioni latine s’innestano su una variante di campidanese rurale in bocca al povero parroco di Masuddas, che le utilizza per maledire con maggior efficacia i ladri del suo bestiame. Ciò avviene durante un’appassionata predica-requisitoria, che ci offre così un pastiche linguistico e un esito comico assai interessanti per il discorso sui generi della letteratura sarda in relazione al mistilinguismo. 37. F. Brevini, “La moneta di rame”, in Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Torino, Einaudi, 1990, p. 168. 38. F. Brevini, Le parole perdute cit., p. 169. 39. L. Stecchetti, Le rime cit., str. III, p. 46. 40. Riguardo a questa lirica, un verbale comico, e ai dubbi espressi dall’amico Duilio Caocci circa l’attribuzione a Mereu [“La poetica del controcanto. Note su un poeta sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1, 30 31 Prefazione se esso testimonia un accettabilissimo livello di conoscenza di questa lingua da parte di Mereu, ancora una volta non si può pensare né per lui, né per i predecessori (al limite, azzardiamo, si potrebbe ipotizzarlo per Montanaru, visto il livello d’istruzione, i maggiori contatti diretti col modo culturale isolano e non e la coscienza politica) che potesse verificarsi una contrapposizione “poesia in dialetto vs. italiano”; semmai Piazzaforte di Orune va vista come controcanto rivolto ai generi poetici tradizionali coi quali Mereu si confronta. Ha ragione quindi Ivano Paccagnella a dire che «non si può discutere di scernimento di dialettalità in chi possiede l’unica variante della propria Mundart».41 Pare ovvio, per le ragioni di cui sopra, che non si possa da parte nostra concordare con l’inserimento di Mereu e Calvia da parte di Brevini entro il filone che egli definisce «orgoglio municipale [che] nasce dalla risentita reazione linguistica e culturale degli stati della penisola di fronte al fissarsi di una norma sentita come estranea».42 Rimarchiamo insomma la necessità di approfondire non solo storicamente la nascita del logudorese illustre, ma anche le sue conseguenze a livello d’intenzione comunicativa, in rapporto agli sviluppi più recenti della critica sul concetto di dialettalità spontanea e riflessa. Queste categorie interpretative, certamente utili da molti punti di vista per capire una cultura complessa come quella sarda, rischiano tuttavia di non poter includere nella griglia interpretativa che presuppongono le sfumature proprie di una 2001, p. 102, nota 26], che a noi pare invece verosimile la paternità del poeta tonarese, in base alla coincidenza biografica del servizio prestato da costui assieme a Eugenio Unale, suo caro amico esplicitamente menzionato in Piazzaforte di Orune al quale, nella seconda delle due liriche a lui intitolate, Mereu ricorda chiaramente la condivisione delle ristrettezze della vita militare (A Eugeniu Unale, vv. 112-152). Oltretutto non ci stupisce il fatto che la lingua sia l’italiano, soprattutto per l’intenzione mimetica che sottende all’utilizzo di tale codice. 41. I. Paccagnella, “Plurilinguismo letterario: lingue, dialetti, linguaggi”, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, p. 111. 42. F. Brevini, “L’altra letteratura”, in La poesia in dialetto cit., tomo I, p. XC. 32 terra che, invece, mostra ancora una volta di avere peculiarità difficili da valutare in comparazione con culture dominanti. E se in effetti grandi frutti ha dato la ricerca demo-antropologica nell’individuazione della poesia popolare dapprima, e nelle sue caratteristiche formali poi,43 ciò non pare essersi ancora verificato per quella forte attività riflessa, ossia ‘non popolare’, che caratterizza la grande parte della produzione letteraria locale. Ciò che ci preme è soltanto la necessità di uno statuto peculiare alla disamina critica di questo evidente fenomeno, se lo si vuole collocare correttamente entro la riflessione su volgari regionali, dialetti e produzione letteraria che, dal De vulgari eloquentia ai giorni nostri, ha tracciato con spunti illuminanti da parte di autori e studiosi troppo noti per essere enumerati al lettore, la storia linguistica e artistica italiana. Allora bisogna cercare di capire, ad esempio, qual è il ruolo che possono occupare i componimenti mistilingui o in lingua italiana del poeta tonarese all’interno della nostra riflessione, per passare poi in rassegna quelli più propriamente “tradizionali”, premettendo quale condizione necessaria che «la compresenza di più lingue in una comunità comporta, con l’uso alternativo dei codici, fenomeni causati dalla commutazione e dalla mescolanza di codici».44 L’argomento, accennato da Duilio Caocci e analizzato nello specifico da Giancarlo Porcu nell’ambito della commutazione di codice all’interno dei rispettivi articoli su Mereu più volte citati, merita di essere qui approfondito in base ad una ulteriore distinzione fra code switching e code mixing, ossia fra ‘commutazione di codice’ e ‘mescolanza di codice’. Con questo distinguo intendiamo descrivere rispettivamente una situazione linguistica in cui si verifica un passaggio da un codice all’altro (italiano/sardo e viceversa) che nel caso del code 43. Si veda su questo argomento almeno l’efficace sintesi storica di A.M. Cirese, Poesia sarda e poesia popolare nella storia degli studi, dapprima uscito in Studi Sardi, a. XVII, 1959-1960, poi rist. anast. Sassari 1961, e, infine, rist. anast. Cagliari, 3T, Gianni Trois Editore, 1977. 44. I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri alla fantaria. Lettere dei soldati nella Grande Guerra, in Officina Linguistica, a. II, n. 2, dicembre 1998, p. 9. 33 Prefazione switching, avviene attraverso l’osservanza delle regole di ognuna delle lingue che si utilizzano di volta in volta (cfr. supra p. 18, nota 16), mentre nel code mixing si verifica da parte del parlante una mescolanza di codici per lo più inconsapevole, dalla quale scaturisce l’effetto comico che Mereu, nel nostro caso, intende raggiungere. Precisiamo che l’interferenza – a parte la corruzione dell’anglicismo dum-dum > dumu-dumu in Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu – avviene fra sardo, latino e italiano (abbr. s., l., i.) e che, com’è ovvio, non si tiene conto in questa disamina dei numerosi italianismi penetrati nella poesia sarda in numero considerevole, sulla base dell’individuazione di una differente intenzionalità linguistica. Inoltre nella princeps è stato adottato un distinguo tipografico secondo il quale, nei casi di commutazione e mescolanza di codici, i vocaboli o sintagmi non sardi sono stati differenziati tramite carattere corsivo, secondo il costume editoriale dell’epoca. Naturalmente vi sono casi dubbi nei quali tale distinzione è assente – ad esempio «e, tra parentesi,» (v. 37) o «miseria stabile» (v. 100) in Lamentos d’unu nobile, ma essi sono spiegabili come forme italianizzanti di un linguaggio poetico che le concepiva parte integrante di sé o le tollerava e adottava per necessità di rima e che, perciò, non avevano valore ai fini espressionistici. Ciò spesso non era concepibile nel parlato. Pertanto saranno riportati solamente casi come quello di A Nanni Sulis, dove «a sicut erat» è giustamente distinto in quanto latino (evidentemente il corsivo della a non sarebbe necessario), mentre «su rapio rapis» (v. 85) è in carattere ordinario, probabilmente per svista di tipografo che di conseguenza è stata emendata. Di seguito le liriche di Mereu che presentano fenomeni d’interferenza: Lamentos d’unu nobile [s./l./i.] Solferino! [s./i.] A Nanni Sulis [s./l.] Caresima [s./l./i.] In Conziliatura [s./i.] A Ernesto Mereu [s./i.] 34 Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu [s./i.] Signora maestra [s./i.] Sas giarrettieras [s./i.] Risposta amorosa [s./i.] In base alle due definizioni di cui sopra sarà possibile chiarire la tecnica utilizzata dal poeta per poter ricavare l’effetto comico-espressionistico che spesso sottende a tali procedimenti. Partendo dal primo componimento, Lamentos d’unu nobile, ripetiamo che l’interferenza s./l. a nostro parere si deve attribuire all’influenza del Giusti, in quanto il poeta toscano era solito utilizzare tale commistione linguistica nelle stesse sue caratteristiche strofe di quinari, che Mereu riprende (cfr. la “Classificazione metrica”, p. 91). Il valore poetico dell’uso delle formule latine è legato ad un linguaggio che connota il passato, ipostatizzato dalla nobiltà, che si avvaleva di un formulario ormai vuoto e privo di sostanza. In questo componimento si potrà parlare di code switching sia per la fase s./l., sia per quella s./i., poiché la commutazione di codice avviene nel rispetto delle regole di entrambi. s./l.: «Per omnia sæcula / ba’in ora mala» (vv. 3-4); «In diebus illis / m’has fatt’onore» (vv. 5-6); «In illo tempore, / cando tenia» (vv. 25-26). s./i.: «Mi ’ettat in cara: / Ricchezza mobile» (vv. 95-96); «Lei, Cavaliere, / poveru gai?» (vv. 103-104); «Quindi, pazienza / tenzant pro como» (vv. 109-110). «Miseria stabile» (v. 100) è, come detto prima, uno di quei casi in cui l’italiano pare integrarsi nel tessuto linguistico dominante, costituito da un sardo probabilmente urbanizzato, così da non essere percepito come estraneo, quindi connotato tipograficamente. Il caso di Solferino! è più complesso, in quanto nel sonetto sono presenti entrambi i tipi d’interferenza: i due personaggi, Pedru e il padrino Francesco intavolano una discussione a 35 Prefazione partire dalla battuta in italiano del primo – anche se l’Ebbè iniziale ha un forte sapore dialettale – che dà il via ai ricordi di guerra del secondo, già peraltro predisposto ad utilizzare il suo personalissimo italiano dalla situazione linguistica instauratasi col suo interlocutore. Inoltre, proprio la guerra, come il militare, costituisce una base più che propizia per effettuare tali esperimenti linguistici, vista la commistione di lingue che si verificava fra i soldati provenienti dalle diverse regioni d’Italia e che diede vita a una «koinè popolare interdialettale», come la definisce De Mauro, che consentiva per lo meno la mutua comprensione.45 Entrando nel merito dei singoli versi, si nota nelle quartine una disposizione dei «fenomeni di code switching … riferiti in modo da restituire sensibilmente l’idea d’inserto, con quel sigillare, entro la quartina, l’enunciato sardo tra due asserzioni in lingua, marcandone i confini con la rima».46 Ecco i vv. 1 e 4 in italiano (AA), inframezzati da due versi in sardo, 2 e 3 (BB), connotati dal corsivo. Lo schema rimico è ABBA, valido anche per la quartina successiva. i./s.: «“Ebbè, come la va, signor Francesco?” / nesit Pedru passend’in su camminu, / “semus a s’orizzont’e su destinu: / vieni figlioccio che prendiamo il fresco”». Vv. 5, 8: «“Ti voglio raccontar, se ci riesco, /… /… / come fuggì l’esercito tedesco”». Al code switching delle quartine segue, nella prima terzina, il code mixing: «La notte che ci avevano attaccati / zunchiavano le balle sulla testa / come fanno i calleddi appena nati». La dialettalità in funzione comica nell’interferenza i./s. è accentuata in particolare da composti quali zunchia -va -no, ball -e, calledd -i (centometro deriva dall’italiano centimetro + chilometro), creati dall’unione del morfema lessicale sardo + la terminazione italiana, che danno la misura di una personale koinè militaresca utilizzata dal reduce.47 Infine si veda la nota 29, apposta da Sulis al sonetto. Per A Nanni Sulis, la lirica più celebre del poeta, vale lo stesso discorso fatto sopra per le formule latine di Lamentos d’unu nobile: anche in questo componimento esse danno voce al rimpianto del passato da parte del nobile, simboleggiato dalla lingua morta delle frasi fatte. Nel caso di rapio rapis si ricordi che il soggetto logico è significativamente «s’avvocazia» (v. 75), ma in questo caso al lemma è affiancata una scolastica declinazione che rifà il verso alle formule dietro cui la classe sociale dell’avvocatura, secondo il poeta, è solita trincerarsi. l./s.: «A sicut erat / non torrat mai» (vv. 3-4, 133-134). s./l.: «Intrat in ballu / su rapio rapis» (vv. 84-85). Caresima è un componimento che ha un fondo tipicamente anticlericale, d’impronta scapigliata, e che si compiace del falso pentimento per la vita libertina condotta in precedenza, pentimento che può esser finto come in occasione di un dibattimento in tribunale (vv. 69-76), dato che bastano poche formule per fare «sa lissi’a sa cussenzia» (v. 63) e che si può perfino «esser purgadu / senza su sal’inglesu!» (vv. 67-68). Pertanto ecco comparire il code switching s./l.: «Su preid’oe narat: “Ses de terra, / Pulverem reverteris”» (vv. 11-12), parole definite «faeddos misteriosos e fatales» (v. 13) pronunciate dal prete e che dovrebbero ammonire la popolazione. Naturalmente il 45. Lo stesso studioso, in Storia linguistica cit., pp. 106-107, aggiunge che «il servizio militare … allontanando per un certo periodo gli individui dai luoghi di origine … ha concorso ad indebolire le tradizioni dialettali … l’uso costante dell’italiano era però eccezionale nell’esercito immediatamente postunitario anche fra gli ufficiali … ancora al tempo della prima guerra mondiale … l’uso del dialetto era consueto». 46. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., p. 60. 47. Zunchiavano è un rifacimento su tzunchiai = ‘mugolare del cane’ [cfr. M.L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo (d’ora in poi DES), Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, 1962, s.v. qunkiare]; balle su ballas = ‘palle’, quindi ‘proiettili’; calleddi equivale a ‘cagnolini’, ‘cuccioli’. Simili composti traggono origine da procedimenti tipici di quella variante d’italiano interferito col dialetto che nell’Isola è chiamato popolarmente porcheddinu, «che potrebbe essere denominato anche ‘dialetto italianizzato’» [I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri cit., p. 14]. 36 37 ˘ Prefazione poeta dà a questa, come ad altre formule consimili, un peso morale nullo, tant’è che nella strofa successiva l’effetto ammonitore delle sue parole è spento da quel pensare di essere terraglia, ‘vasellame’, e di poter scendere a patti con la fragilità umana, che porta a peccare, semplicemente con l’apporre sulle proprie spalle un cartello che reca scritta un’altra formula, fra sardo e italiano per esigenza di rima: «Vetro-posa pianu» (v. 20). Stesso discorso per «s’eternu mea culpa» (v. 24), atto di pentimento smentito con continue allusioni in tutto il testo. La serie di sonetti A Ernesto Mereu è affine nello spunto linguistico a Solferino!, in quanto l’occasione parodistica è data dal ritorno di Ernesto, «sergente in su Geniu», al paese natio. Egli si esprime in quel linguaggio militaresco che abbiamo descritto in precedenza e che Mereu dovette conoscere bene, vista la sua permanenza nell’Arma dal ’91 al ’95. La questione è toccata esplicitamente nel sonetto [IV] e il mistilinguismo si concentra nell’ultima terzina: «Como chi prallas tottu talianu, / finas a frade tuo naras: “Voi, / sardo molente, non capisci miga! ”» (vv. 54-56). Prallas è forma metatetica sardizzante < italiano parlata > prallata > prallare; talianu, con l’aferesi della i – forse un rifacimento sul veneto – e il prolungamento della fonesi dovuto alla iatizzazione che rende la parola quadrisillabica, assume una sfumatura spregiativa. L’ultima frase è tipica di un repertorio diffuso fra le truppe, in cui si evidenzia l’improbabile anacoluto Voi :: non capisci, con quel miga a suggello, quale tipica esclamazione connotante personaggi simili. Da notare è il fatto che il “mimetismo dialettale” – «la facilità con cui il meridionale è individuato attraverso il suo comportamento linguistico» di cui parla De Mauro a proposito dei «pregiudizi etnici contro i meridionali che abbandonano il Sud»48 per andare a lavorare nelle industrie del settentrione – mostra in Mereu l’altra faccia della medaglia: Ernesto, al suo ritorno, è fatto oggetto del mimetismo perché ha dimenticato la 48. T. De Mauro, Storia linguistica cit., p. 87. 38 sua lingua, oltre a non padroneggiare neppure l’italiano. Perciò è rimproverato in questo modo: «Dae cando ses benidu / non has bettadu faeddu in derettu. // Has lassadu su tou dialettu, / de varios limbazos ses cundidu» (vv. 45-48). Egli rappresenta non solo l’emigrato privo di contatti con la nuova realtà che lo ospita, ma anche colui che perde in certo qual modo l’appartenenza, linguistica in primis, alla comunità d’origine. Si tratta, insomma, di un piccolo riassunto delle spaccature della società post-unitaria. Da notare è anzitutto la presenza del code mixing, suddiviso però fra una sorta di discorso indiretto libero che rifà il verso al linguaggio del soldato: «Como chi prallas tottu talianu» e il discorso diretto «naras: “Voi” …». Inoltre è presente non solo il dato lessicale relativo all’italiano militaresco di cui sopra, ma anche quello sintattico, con l’anacoluto Voi :: non capisci di cui sopra, espediente che, fra l’altro, sarà ripreso anche nel sonetto In Conziliatura. Infine, è da sottolineare l’espressione tou dialettu, forma certamente colta e italianizzante, che connota il sardo come prima lingua di Ernesto, rispetto all’incalzante e nuovo talianu, almeno per quanto riguarda la lingua d’uso. Allora con «non has bettadu faeddu in derettu» e «duos faeddos non pones in liga» Mereu si riferirà alla mancanza di competenza in entrambi i codici, esprimendo così lo spregio nei confronti della commistione linguistica adottata dal nostro sergente, non della sostituzione del “dialetto” a favore dell’italiano. In Conziliatura prende l’avvio da un’altra situazione in cui il confine lingua/dialetto non poteva essere tenuto separato, poiché i burocrati «dai trasferimenti sono stati costretti ad abbandonare … il dialetto d’origine e diffondere un tipo linguistico unitario».49 Naturalmente Mereu, che ebbe occasione di lavorare per la Conciliatura del proprio paese, non perde l’occasione di ritrarre in modo più che riuscito le difficoltà che insorgevano al momento dell’utilizzo di un gergo 49. T. De Mauro, Storia linguistica cit., p. 105. 39 Prefazione tecnico in italiano da parte dei dialettofoni e che, dopo il code switching i./s. tutto sommato “innocuo” del v. 5 («state zitto! Mi cherzo rispettadu»), esplode nel code mixing della terzina conclusiva: «Questo non prallate, giudico io, / stia zitto, se no condanno ad Ello, / e poi vi faccio vedere cosa sono!», dove una concordanza a senso come prallate :: stia zitto è elevata al quadrato dal cultismo latineggiante del pronome Ello,50 con l’ultimo verso vagamente ellittico – da notare l’utilizzo del pronome cosa per il più corretto chi – che suggella la fumosità del linguaggio giuridico, in cui le voci degli attanti appaiono confuse quanto i ruoli che essi dovrebbero ricoprire istituzionalmente. Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu, nuovamente un sonetto, presenta insieme caratteri di slittamento e giustapposizione di codice, ancora una volta legati ai ricordi di guerra: dopo un attacco in italiano corretto si ha subito il code switching i./s. al v. 2 («sì, caro mio, sono stato in guerra, / de maccarrones nd’happo bidu fumu»). Ai vv. 3-4 si verifica il code mixing («avevo freddo e mi corcavo in terra / allora non conoscevo neanche il rumu»). Il code mixing, evidenziato dal corsivo, prende il sopravvento ai vv. 5-6 della seconda quartina: «Cando le balle si chiamavan prumu / spaccavano una zudda perra perra», mentre ai vv. 7-8 si ritorna al code switching s./i.: «E beneminde ballas dumu dumu, / porcherie inventate in Inghilterra». La prima terzina prosegue con questo espediente: «Io sì che ne ho visto di disastri / reduidu a peus de una belva / pro fagher una e libera s’Italia», mentre i versi conclusivi dovrebbero essere tutti in italiano, se non fosse per quel selva, dove si verifica il passaggio r > l per ipercorrettismo attribuibile a quel fenomeno che porta i dialettofoni privi di padronanza dell’italiano ad utilizzare dei vocaboli che al loro orecchio sembrano escludere la possibilità del code mixing. Si ha insomma l’inibizione del suono [r] a causa della connotazione “regionale” che ad esso è attribuita e che, nella sua varietà d’italiano interferito, diverso «rispetto al fenomeno che sta alla base della varietà dell’italiano regionale»,51 è sentito come diastraticamente connotato verso il basso, quindi poco tollerato in Sardegna, soprattutto da parte degli italofoni.52 Il contrario accadeva nel citato sonetto Il lupo e il miritare, dove invece è stato marcato con intento parodistico il suono sentito come locale; in questo caso però non si può parlare di code mixing, in quanto la voce del narratore, che coincide con l’autore implicito, ha coscienza dell’interferenza e non sussiste alcun tentativo di mimesi da parte sua. Si può dire che a livello di lessico le neoformazioni create dall’interferenza sardo/italiano sono corcav -o e selva; rumu e dumu dumu sono ovviamente forestierismi addomesticati. Per il resto si utilizzano inserti in dialetto all’interno di frasi in italiano.53 Una breve notazione sul personaggio di signor Ciarla, che ricorre in due sonetti: il suo nome deriva da ciarlare, voce onomatopeica per ‘chiaccherare’, (sardo tsarrare o čarrare), in modo tale che egli risulti pesantemente connotato già a partire da questo primario elemento identificativo, il nome appunto. Difatti Mereu fa riferimento all’abitudine che egli attribuisce al personaggio in questione di utilizzare l’italiano “traducendolo” a sua volta dal sardo, senza possederlo a sufficienza. Signor Ciarla rappresenta un personaggio tipizzato, che incarna 50. Ello potrebbe anche essere una corruzione intenzionale del più corretto pronome di 3a persona ella. 51. I. Loi Corvetto, “La Sardegna”, in I. Loi Corvetto, A. Nesi, La Sardegna e la Corsica, Torino, Utet, 1993, pp. 88-89, pubblicato nella collana “L’italiano nelle regioni”, a cura di F. Bruni. 52. Cfr. I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri cit., pp. 17-20. 53. Corcavo < sardo corcare (*COLCARE): è forma sincopata, per influsso dialettale, per ‘(mi) coricavo’; rumu è un forestierismo, come detto, dove è stata aggiunta una u epitetica per la nota avversione nei confronti delle finali di parola consonantiche propria tanto del sardo quanto dell’italiano, oltre che per esigenza di rima con fumu; cando sta per ‘quando’; prumu = ‘piombo’; zudda = ‘setola’ (etimo incerto); perra perra = ‘per metà’ (cfr. DES, s.v. pèrra1); dumu dumu = ‘dum dum’ < Dumdum, località nei pressi di Calcutta. Si tratta di proiettili a frantumazione incisi a croce sulla punta e fabbricati a Calcutta, per l’appunto, alla fine dell’Ottocento. 40 41 Prefazione il parlante incolto e risibile che il poeta però, sufficientemente istruito per poter cadere in simili errori, non doveva vedere di buon occhio (cfr. la critica presente in A Ernesto Mereu). Anche il figlio è definito ciarlatanu, ossia ‘chiacchierone’, ‘logorroico’, e lo stesso Mereu utilizza il vocabolo con questa accezione in A Eugeniu Unale [I], vv. 191-193: «Deo t’happ’a iscrier frequente / fin’a mi narrer maccu e infadosu, / ciarlatanu, seccant’e imprudente» [cfr. DES, s.v. čarlatánu]. Signora maestra tocca un altro tasto dolente dell’Italia post-unitaria: quello dell’istruzione, cui abbiamo già accennato in precedenza. In questo caso la confusione è dovuta all’interferenza fra codici in un paese che conosceva un largo utilizzo del dialetto nelle scuole, sia da parte degli alunni, sia dei maestri, tollerato in Sardegna già ai tempi del governo sabaudo.54 Nella prima strofa (vv. 1-6), a partire dall’italiano dei primi due versi, l’endecasillabo al v. 3 («no isco si cheret emma maiuscola») introduce il code switching, cui segue il code mixing di bibanda < sardo bibere = ‘bevanda’, dove l’interferenza del sardo dà origine ad una neoformazione che non è difficile udire ancora ai giorni nostri, ma che fuoriesce dalla bocca della maestra, fatto per allora non certo inverosimile. A parte il date attenzione al v. 10, che sembrerebbe un calco dal sardo per l’utilizzo di dare in luogo di fare, si deve giungere al v. 30, dove cioè ha inizio la sequenza di cognomi che segna il ritorno al sardo: «Gavina Pibiu: / A su riu. / Luciana Gasparra: / A sa giarra. / Marianna Frisciola: / Cussa na’ chi non torrat a iscola» (vv. 30-35). La commutazione di codice i./s. conclude la poesia nella quartina finale, dove a due versi in italiano ne seguono due in sardo, a rima baciata come nella strofa precedente. Sas giarrettieras è il secondo sonetto dedicato a signor Ciarla ed è strutturato in maniera più complessa rispetto ai componimenti esaminati in precedenza. Alla voce narrante che occupa le prime due quartine segue la domanda di un toscano, in forma diretta, che chiede ragione di una melodia descritta con toni volutamente elegiaci: «Canticu lontanu», «armonia de boghes», «trillos de puzoneddu in su beranu» (vv. 6-8), in previsione del brusco abbassamento di registro successivo dovuto ai tre versi finali, quando giunge al primo interlocutore la sconclusionatissima risposta del nostro: «Quelle lì son le donne giarrettiere, / cantano, poverine, ma la giarra / è a sessanta centesimi il montone» (vv. 12-14). In questo caso è particolarmente riuscita l’operazione di code mixing, per il fatto che, come dice Giancarlo Porcu, «il personaggio mereiano ha ritenuto, partendo da giarra (‘ghiaia’), di derivarne un sostantivo indicante quelle donne del paese che, accompagnandosi col canto, lavorano la ghiaia».55 Inoltre montone < sardo muntone, sta per ‘mucchio’, con passaggio u > o che “giustifica” l’adozione del vocabolo. Da ultimo segnaliamo il code switching di Risposta amorosa, dove la pastorella, secondo la parodia dell’omonimo genere, dà cruccuriga (‘zucca’, quindi ‘rifiuto’) al cavalier Fromigadizzu, nobile al quale si conviene la lingua ufficiale.56 L’italiano apre la strofa per tre volte (cfr. i vv. 1, 9, 37), col fine di innalzare comicamente il registro, per abbassarlo però col sarcasmo canzonatorio che pertiene alla connotazione diastratica del sardo, che dà voce alla saggezza del popolo, come traspare ben chiaro dai vv. 17, 26. Prevale il code switching effettuato attraverso la separazione dei versi, a parte un caso di mescolanza all’interno dello stesso verso («e lei è spasimante pro sa doda», v. 20): 54. «L’impiego delle varietà dialettali nell’isola non viene ostacolato, ma anzi si caldeggia il ricorso al dialetto, nella pratica didattica, quale ‘ponte’ verso l’apprendimento dell’italiano» [I. Loi Corvetto, “La Sardegna plurilingue e la politica dei Savoia”, in Lingua e letteratura per la Sardegna sabauda. Tra ancien régime e restaurazione, a cura di E. Sala De Felice, I. Loi Corvetto, Roma, Carocci, 1999, p. 64]). 55. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., pp. 60-61. 56. Quest’ultimo utilizza l’italiano solo al v. 12 di Proposta amorosa, ma quel «o signorina senta» può essere visto come un italianismo ammesso nella koinè urbana utilizzata da simili personaggi, appartenenti alla nobiltà decaduta. 42 43 Prefazione «Signor cavaliere, / eccomi a cumprire su dovere» (vv. 12); «Lei lo sa che sono pastorella, / tottu canta sa mia parentella» (vv. 9-10); «Cavaliere carissimo, capita; / a mie deghet unu cun berritta» (vv. 21-22); «Fromigadizzo caro, / col massimo rispetto mi dichiaro / de fostè …» (vv. 37-39). Da questa breve panoramica si può quindi notare come l’esperimento linguistico in Mereu giochi un ruolo assai importante, ma non disgiunto da quella tensione ad aderire al vero che caratterizza le liriche espressamente “impegnate” e che qui assume i toni propri del mimetismo e del plurilinguismo. Naturalmente la sua poesia non è solo questo e non va sempre “contro”, ma accoglie in sé numerosi tratti della tradizione locale, ben evidenti, ad esempio, in prove quali A Tonara, come detto. Difatti versi come «hant sas melas / provocantes de sinu, / sutta su velu de candidu linu. / Issas parent lizos, / biancas, bellas, robustas e sanas» (vv. 158-162) non possono non richiamare alla mente le più classiche immagini di bellezza muliebre ripetute infinite volte nella poesia logudorese. Tutto ciò non dev’essere però visto come il segno di una qualche disomogeneità all’interno del corpus, semmai si tratta della oggettiva presenza nel poeta di un immaginario e di formule praticamente imprescindibili dall’atto poietico, al quale però Mereu mostra altrove di volersi contrapporre, probabilmente con costanza sempre maggiore in rapporto alla sua maturazione artistica e culturale e in seguito alla selezione dei modelli cui si è già accennato. Queste due fasi fanno sì che il poeta di Tonara si ponga nei confronti della poesia a lui coeva in una posizione se vogliamo di sfida, ma con una attestazione forte della stessa nella sua produzione, fino a casi ecclatanti come quello della lirica summenzionata, ma che si potrebbe rilevare frequentemente anche in altre, come ad esempio in Non ti poto amare, un po’ di maniera, o Unu ballu in maschera. Talvolta invece, la presenza del filone aulico è funzionale, come tenteremo di spiegare nel paragrafo seguente, alla sua messa in discussione attraverso il contrasto con la linea “bassa”, conformemente con quanto accade nel panorama dialettale post-unitario. In definitiva Mereu sembra vivere un buon rapporto col passato, in quanto ne usufruisce con certa libertà – non potrebbe essere altrimenti – senza però subirlo acriticamente, riuscendo così a plasmare questo patrimonio secondo le esigenze del suo personalissimo stile, del resto ancora in fase di formazione. Ciò che stupisce piacevolmente è la selezione severa del materiale ereditato che egli accoglie, sintomo di un gusto ed una acculturazione non facilmente riscontrabili in un giovane ventenne con pochi anni di scuola alle spalle. 44 45 Una poesia “di confine” Si è già accennato qui e nella “Classificazione metrica” a questi due concetti che, per i loro caratteri costitutivi, ci porterebbero assai lontano e richiederebbero una trattazione a parte per poter aspirare lontanamente all’esaustività. Più volte è stato messo in evidenza l’influsso di Giusti, Stecchetti e delle «esperienze della poesia scapigliata o pre-crepuscolare»57 nei temi della malattia per la tisi di Moribunda (si pensi a Lorenzo Stecchetti, che sarebbe un cugino tisico del Guerrini), l’anticlericalismo, certa tensione all’eros e alla necrofilia ecc. La diffusione di questi modelli nell’Isola contribuì all’inserimento di quest’ultima all’interno delle correnti culturali “nazionali”, pur se avvertiamo la necessità di ricordare che non sempre in poesia il nuovo è sinonimo di positivo, come pure lo sguardo rivolto alla tradizione non dev’essere necessariamente bollato come “ritardo”. Ciò per evitare di considerare quest’ambito di studi secondo i medesimi parametri di certa critica di stampo desanctisiano ormai, ma non del tutto, superata, che vede la letteratura – come anche, ad esempio, la storia o in generale l’avvicinamento alla lingua nazionale – come un progressivo miglioramento dall’antichità ai nostri giorni, e che ha emarginato il mondo dialettale soprattutto dalle antologie, potentissimi media di divulgazione. D’altronde, anche per riprendere quanto detto all’inizio di questa prefazione, la 57. G. Pirodda, “L’attività letteraria tra Otto e Novecento”, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità d’Italia a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Torino, Einaudi, 1998, p. 1092. Prefazione questione del “ritardo” appare ribaltata se si analizza Mereu in un’ottica interna alla poesia sarda: egli difatti giunge a una rottura delle griglie d’interpretazione dei precedessori data dall’immissione di modelli, temi e linguaggio poetico attuali, che lo portano ad un abbassamento di registro rispetto alla consueta produzione poetica locale. Ciò si può inferire dalla decisa e talvolta brutale satira ma, più spesso, dalla consapevole commistione di generi e forme. Nella varietà di argomenti e registri toccati dal corpus mereiano, ci sembra di poter individuare una delle caratteristiche costitutive più importanti della poesia del nostro. A Mereu piacciono le “zone di contatto” fra un genere e l’altro, la commistione appunto, che gli consente di liberare al massimo l’estro poetico e di ampliare le tonalità linguistiche, spesso a fini dissacratori. Egli, nonostante l’immagine che si evince dalla sua condizione di povero reietto, conserva un fondo comico che, se nella silloge del 1899 appare contenuto da una comprensibile selezione del materiale poetico, tuttavia vi appare già ben evidente, per accentuarsi poi nella restante produzione, di derivazione prevalentemente orale. Dice bene Duilio Caocci quando parla per Mereu di una «lunga tradizione comica e “realistica” esercitata al controcanto»,58 né si può e si deve pensare a costui come a un poeta di totale rottura, fatto comunque impossibile, come ci insegna la teoria della letteratura, nei confronti della tradizione locale a lui precedente: basti pensare ad esempio al forte influsso di Melchiorre Murenu sul nostro, riscontrabile in una delle liriche mereiane più note per la forte carica di protesta sociale che vi è insita, cioè A Nanni Sulis [II]. Nella descrizione mereiana del povero che ruba per sostentamento («mentres chi unu poveru appretadu / furat pro s’appititu unu cogone, / lu ’ides arrestadu e cundennadu», vv. 97-99) contrapposta a quella dei ricchi che, invece, possono costruire interi «palattos fraigados / dae sa man’infam’ ’e sa rapina» (vv. 103-104), non possiamo non vedere il Murenu di 58. D. Caocci, “La poetica” cit., p. 96. 46 Amigu ’e sos affannos,59 quando l’aedo macomerese dice che il povero «furat una pitticca bagattella / pro tenner su sustentu in porzione / li giurat su riccu una carella / e che finit sos ossos in presone» (str. 8), mentre «su riccu hat a furare iscudos chentu / e no bi l’ischit nessuna pessone. / Su poberu si furat su sustentu / li naran chi est pubblicu ladrone» (str. 9). E ancora, si veda in Mereu l’immagine del povero che elemosina il pane al ricco: «Miserinu su c’andat pedidore / a pedir’unu bicculu ’e pane / a su gianile de calchi segnore. / Su riccu dàt biscottos a su cane, / e a su poveru narat: “Preizosu, / trivaglia, e dae me istad’addane” // … tottu sos poverittos sunt mandrones / pro sos attattos, ca no hant connotu / famen, affannos e afflissiones» (vv. 115-120, 124-126) e la si confronti con alcuni versi della stessa Amigu ’e sos affannos di Murenu: «Sos miseros de benes e de pannos / pro chi sian astutos, paren tontos [str. 2] // … sempre ch’andat s’afflittu birgonzosu / a domo de su riccu ingratu e feu … / ei su riccu artivu, potentosu, … / a lu lassare reu hat da usanza; / non li narat: né sezze, né avanza» (str. 3). In effetti Mereu non è inscrivibile, se non in piccola parte, entro il filone dei dialettali che si rifanno a una tradizione “maggiore” pressoché fissa e ben determinata come ad esempio l’Arcadia per i suoi numerosi seguaci nell’Isola, fra i quali il più noto è certamente Paolo Mossa. Il poeta tonarese inevitabilmente segue, come detto altrove, dei modelli, ma la ribellione nei confronti della tradizione sta proprio nella selezione di essi e nella rielaborazione dei temi trattati. In breve, se si guarda non alle singole liriche ma si assume una visione d’insieme, si nota quella già accennata commistione fra opzioni poetiche contrastanti che ne fa senz’altro un autore complesso, non sempre inquadrabile con etichette che, per forza di cose, ne sacrificherebbero taluni aspetti, pur importanti. E l’esperienza insegna che, spesso, proprio fra i dialettali l’attitudine al multiforme, all’adesione nei confronti di un reale escluso dalla 59. Citiamo da M. Murenu, Tutte le poesie, a cura di F. Pilia, Cagliari, Della Torre, 1990. 47 Prefazione poesia ufficiale, risulta una delle caratteristiche più diffuse. Naturalmente non si parla solo di ribellione ai generi, ma anche alla cultura e alla lingua che essi rappresentano, e in questo Mereu si dimostra assai aggiornato, soprattutto nel dosare la sua tecnica contrastiva ad uso comico, in una frequente altalena fra “alto” e “basso”. Egli difatti appartiene a una stagione poetica che è definibile, con Brevini, comico-realistica,60 quando cioè, fra ovvie sfumature, si verifica il passaggio dalla dialettalità intesa come sinonimo di comicità o folklore ad una interpretazione della realtà che, pur non privandosi del riso e dei soggetti “bassi”, tende ad essere aderente ad essa, e non disimpegnata o fine a sé stessa. Tale stagione inizierà a sfumare invece con Antioco Casula, poeta che si distanzierà progressivamente dalla tradizione comico-mimetica per abbracciare una linea “alta”, verificabile anche nella metrica, tendente all’effusione dell’io lirico, spesso collocata in ambienti naturali e domestici fortemente connotati in senso localistico, che implicano il vagheggiamento del passato e appaiono profondamente intrisi di nostalgia, senza trascurare in questo processo l’influsso di Sebastiano Satta e del decadentismo. Per tornare alla mescolanza di generi, temi e registri cui si accennava in precedenza, si pensi ad esempio a un componimento come Caresima, apparso nella princeps e nel quale si passa dalla commistione linguistica fra sardo e latino a quella dissacratoria di cibo – che simboleggia il senso di colpa – e religione, il cui vuoto concettuale è rappresentato dalle inutili formule latine. Nel complesso Caresima suscita certamente il riso, ma con altri intenti sullo sfondo che non quello superficialmente comico. Inoltre, ad illustrare il beghinismo ipocrita dei penitenti durante la quaresima bastano i fitti elenchi di cibi, tutt’altro che poveri e umili, ai quali “rigorosamente” essi devono attenersi, dato che «suni baranta dies de dieta … / su pisch’est permittidu, de sa peta / assolut’astinenzia» (vv. 29-32). Bisogna chiarire però che l’anticlericalismo del Mereu non fu “di maniera”, e che non fu neppure contestazione meditata della verità della Scrittura, anche perché egli stesso si premura di dichiarare apertamente il proprio credo in Su testamentu: «Deo non so marranu e creo in Deu / prîte m’han’imparadu a l’istimare / dae minore mamma e babbu meu. // Però sos corvos los lasso bolare / bestidos de terrena finzione, / manc’a mortu nde cherzo fentomare» (vv. 25-30).61 In questa excusatio ci pare si possa intravedere quel fenomeno che riguardò poeti come Porta e Belli, secondo il quale «gli autori si sono … affrettati a giurare che se la pagina è lasciva la vita è però proba».62 Ci pare opportuno sottolineare definitivamente che la chiesa in Mereu non appare come istituzione di potere da abbattere in funzione del riscatto delle masse contadine, come si dovrebbe abbattere qualsiasi potere “lobbistico”, secondo quanto propugnato dalla corrente socialista di quegli anni e divulgato dalla pesante satira di riviste come L’asino [1885, 1914]. Essa è, invece, un apparato da demistificare nella sua interpretazione del verbum ecclesiastico, fatto passare arbitrariamente per verità assoluta e capace di condizionare la vita dei bassi ceti. La forza 60. F. Brevini, Le parole perdute cit., specialmente nel capitolo intitolato “Dal comico al subime”. 61. Assai somigliante in questo è l’atteggiamento di Antonio Domenico Migheli, che nel Cantigu segundu: umilidade preidesca [in A.D. Migheli, Sa briga cit., pp. 115-124] scrive: «Non naro male a sa religione / Ch’in Palestina Gesus hat fundadu, / Sa cale (appende bene ijaminadu) / Analoga l’incontro a sa rejione; / Ma naro male de calchi pessone / chi de sa tale si nd’est abusadu!» (str. 17). Così egli se la prende contro il presuntuoso monopolio culturale esercitato da sos sazerdotes: «A crere a su chi naran zegamente / Cheren sos autocrates rettores!» (str. 13), mentre «Nois che profanos e plebeos / Tottu devimus crer senz’osservare» (str. 14). Inoltre, come il Mereu critico nei confronti dei bacia-pile o basa mattones, il poeta osilese se la prende contro «sa bacchettona credenzoneria … [chi] / no est de moda e s’est fatta istantia» (str. 22). In tale analogia si può intravedere un sentire comune ai due personaggi e non solo, che si diffuse in Sardegna nel secondo Ottocento, per andare poi a confluire nel nascente socialismo, che tanto seguito ebbe fra numerosi poeti coevi, come si può riscontrare da una disamina delle numerose effemeridi letterarie del tempo. 62. F. Brevini, “L’altra letteratura”, in La poesia in dialetto cit., tomo I, p. LXXXI. 48 49 Prefazione poetica di Mereu, qui e altrove, risiede a parer nostro nella sua capacità mimetica tipica della satira più intelligente – anche in questo Giusti si è rivelato buon maestro – che gli consente di sfumare la critica sociale e di costume in modo senz’altro fine. Un altro fatto da sottolineare nel nostro poeta, da ascriversi alla tendenza contrappuntistica nei confronti della tradizione alta, è la presenza dell’osceno, del triviale, sia in forma chiaramente allusiva, sia in forma esplicita. Anche il riferimento alla corporeità, alla sessualità, dà adito alle commistioni più dissacranti fra generi, temi e classi sociali. Premettiamo che per questo filone vale quanto detto prima sul processo di selezione poetica avvenuto per la princeps, per cui si passa dall’innocente «si calchi femminedda / ti mustrat sa bunnedda / nara c’has fattu vot’ ’e castidade» (vv. 39-41 di Consizos a unu amigu), concetto per di più collocabile entro il genere antiuxorio di maniera che lo rende in qualche modo “lecito” all’interno della raccolta, alla ben diversa sostanza di Su socialista a una bigotta, di Minca maccaca o di Piazzaforte di Orune, frutto della successiva e meritoria indagine svolta dal Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara. Quale esemplificazione di commistione irriverente ci pare particolarmente adatta Su socialista a una bigotta. Nel primo dei due sonetti di cui si compone la poesia, al registro appartenente alla poesia amorosa di tipo non idealizzante e che ricorda a tratti, nella prima quartina ad esempio, il linguaggio dei mutos, fa da contrappunto il bordone anticlericale. Quest’ultimo, col continuo riferimento ai feticci della chiesa («lassa sos santigheddos d’ozu seu», v. 7), ai sacramenti («de cando ses cun sa cunfessione», in rima con tentazione, v. 1), alla gestualità rituale del fedele («basa a mie, non bases su mattone», v. 8), diviene man mano più esplicito nelle terzine, col verso «lassa sos Santos, faedda de affettu» (v. 9) che ricorda assai da vicino quello conclusivo del sonetto Postuma LII di Stecchetti: «Parla d’amore e non parlar di Dio».63 Nel secondo sonetto il Un altro filone che Mereu ama è evidentemente quello della deformità, sulla cui popolarità a partire dal contadino ruzzantesco non è necessario discutere più a lungo in questa sede, se non per richiamare il fatto che fin dal Medioevo, come ben chiarito dagli studi di Bachtin sul carnevalesco, tale strada è stata percorsa con grande frequenza dai dialettali. Naturalmente alla satira del villano, tipica di tutta una parte della poesia in dialetto, non si può ascrivere l’intento poetico mereiano, volto invece all’osservazione della quotidianità, della povertà come detto in precedenza, e che si colloca più in generale entro il fenomeno del distacco fra i dialetti e il mondo che essi descrivono e fra la lingua letteraria e i suoi splendidi ma remoti soggetti, con tutte le specificazioni fatte in precedenza per il caso della Sardegna. Ecco allora comparire la bruttezza nel tipo della vecchia deforme di Sa teracca mia, il popolo misero di Su bandu, l’emarginazione sociale di Adultera, l’accostamento fra uomo e animale di Su canarinu de su rettore, e così via. Il poeta mette in campo una galleria tipizzata, divertente nei suoi tratti deformati e nel linguaggio, ma anche compartecipata e triste, 63. Si leggano i cinque versi finali di questo componimento: «Ella dicea: l’anima tua non crede / al Cristo, al tuo custode angelo pio? // Io le dicea: tu sei l’angelo mio, / tu sei la mia speranza e la mia fede: / parla d’amore e non parlar di Dio» [L. Stecchetti, Le rime cit., p. 94]. 50 51 gioco contrappuntistico si fa ancora più esplicito, con la dissacrazione definitiva della domina ottusa che cerca inutilmente di soffocare nella religione i suoi istinti: troverà invece soddisfazione ai suoi bisogni non nella fede, bensì nella brutale “concretezza” del socialista, che conclude col riso becero questa irriverente parodia di corteggiamento. Infine, in Minca maccaca il tema del sesso si mescola alla malattia, ai dettagli anatomici più crudi e ributtanti, che già nell’incipit presentano la tecnica contrappuntistica attraverso l’ardito accostamento al membro virile di due aggettivi “epici” e alti quali funesta e fatale, che contrastano col primo (maccaca = ‘stolta’), sì da creare una drammaticità comica tipica della poesia dialettale nei suoi vari e differenziati sviluppi. Prefazione visto che il suo sguardo non giunge “dall’alto” a ritrarre il popolo vero, ma ne fa inscindibilmente parte; con un privilegio però, quello di possedere le parole, la lucidità, la tecnica e la cultura per poterne trarre dell’arte, distaccandosene in qualche modo anche attraverso il riso. Probabilmente è di questo che parla Sulis nella sua prefazione, quando accenna al fatto che «malgrado, però, il suo disgusto universale, il Mereu, talvolta giuoca, ride, schernisce», senza però, aggiungiamo noi, perdere contatto col suo mondo nel compiacimento della scrittura. Spesso oggetto della satira mereiana è la donna. Ad esempio si possono ricordare le terzine di Adultera, dove l’aspra critica nei confronti dei costumi muliebri, di maniera e ben presente nella tradizione poetica locale, è affiancata dalla descrizione della patetica bellezza artificiale che nasconde il decadimento fisico, tipica della poesia scapigliata. E in effetti Mereu attribuisce un diverso peso morale alla deformità “al naturale” rispetto a «s’ingann’ ’e s’artifissiale» (A Tonara, v. 144): quest’ultimo è sempre sintomo di depravazione dei costumi, come si vede nella stessa Adultera, ma anche in A Signorina S…, dove quel guardare sos piccioccos (v. 26) a dispetto dell’età e della morale vigente, appare forse la critica più severa. È d’obbligo a questo punto un rapidissimo accenno alla figura femminile nella poesia di Mereu: dalla citata Adultera alla proemiale Dae una losa ismentigada, da Consizos a unu amigu, X…, K…, W…, a Sa teracca mia, Litanias maggiores, Aspettos ecc. emerge una donna tutt’altro che idealizzata, anzi, sovente simbolo di corruzione, scialacquo, infedeltà e morte. Essa, tuttavia, è tanto letteraria e ficta quanto lo sono Beatrice o Laura delle Corone toscane e l’atteggiamento che impronta queste liriche non è certo schiettamente misogino, ma fa parte di una intenzione contrappuntistica tipica della letteratura dialettale che, in tal modo, costruisce un contro-canone. Secondo tale convenzione satirica generalizzata la Laura petrarchesca si trasforma non in donna normale, ma assai più di frequente in prostituta o nell’esatta antitesi della femminilità. Le stesse muse in Mereu, quando insistenti, sono minacciate di esser prese «a colpos de iscova» (A Eugeniu Unale [I], v. 70). Nello specifico per il poeta tonarese si devono tenere presenti gli influssi della poesia satirica isolana (cfr. ad esempio il Murenu di Sa libertina, Dinda troppu fantastica ecc.), di quella scapigliata e dei già citati Giusti e soprattutto Stecchetti (cfr. ad esempio Postuma XX). Ciò in maniera particolare nell’immagine dell’amata associata ai successivi tradimento, indifferenza, abbandono, malattia e precoce morte del poeta, che così maledice dalla tomba – ma anche in vita – colei che lo ha illuso. Infine non si deve tralasciare di spendere qualche parola sul fondo propriamente lirico di questo poeta, nel quale ci pare si possa intravedere una maggiore presenza della tradizione locale rispetto ai filoni più sperimentali, ricollegabili alla critica sociale di cui si è detto precedentemente. Nell’emblematico e già citato caso di Galusè, ad esempio, la contemperanza di entrambi i cotè dà luogo a una delle prove poetiche più belle, ove lo slancio creativo e la facilità di verso consentono a Mereu di collocare almeno su tre piani, fra loro fortemente collegati, la diegesi: si parte difatti dalla classica ma riuscitissima presentazione della fonte come locus amoenus, che certamente non risulta nuova alle orecchie di chi pratica la poesia sarda e che giunge fino al v. 56. Il tutto è però reso “leggero” dalla costante ironia che stempera il tòpos e da inserti e allusioni in suspu, ossia criptici, come quel «cuntento broccas mannas e brocchittas» (v. 46) che non può non strappare un complice sorriso a chi è in grado di decodificare il gergo. Il secondo piano narrativo giunge con il trapasso da questa situazione idillica al racconto delle brutture commesse davanti alla fonte da persone che ne turbano profondamente la quiete e la bellezza (in ciò è presente il modello giustiano, come detto a p. 15). Semplificando ulteriormente si può dire che, da un quadro atemporale di vita comunitaria attorno alla fonte, nel quale sono cioè descritte scene prive di connotazione cronologica attribuibile a un’epoca precisa, com’è proprio del locus amoenus appunto, si passa ad uno nel quale il presente irrompe con forza, cogliendo quasi di sorpresa il lettore, secondo un procedimento non nuovo ma applicato qui con 52 53 grande efficacia. Da ultimo, è celebre la dimensione biografica che subentra a partire dal v. 161, ossia quando Mereu ci regala un suo autoritratto, preparato dall’ottava immediatamente precedente, che allude alla sua grande passione: la poesia, in questo caso estemporanea. Nella descrivere la sua condizione Mereu dà ampio spazio, come di consueto, alla presenza della malattia, di frequente spunto poietico del nostro (cfr. ad es. Agonia, A Nanni Sulis [II] ecc.). Infine la dedica a Lia, strettamente collegata alla dimensione autobiografica, che conferisce a Galusè un lieto-fine speranzoso e sereno nell’augurio a una bambina di un avvenire sereno, santificato dall’«abba pura» della fonte, quale ritorno a un minimo d’ordine sociale che il poeta vagheggia, in contrapposizione al capovolgimento di ruoli e valori delineato, ad esempio, nei vv. 65-72 e 145-152. Si può dire che in questa lirica l’equilibrio trovato da Mereu nell’utilizzo proficuo dei modelli e nella descrizione delle situazioni abbia raggiunto un livello tale da far scorgere in lui il poeta di sicuro talento. In definitiva Peppino Mereu costituisce un caso assai singolare nella sua figura di poeta per molti versi misteriosa, legata com’è ad un oblio al quale spesso i dialettali sono destinati, talvolta anche all’interno delle proprie comunità di appartenenza. Esprimiamo qui il dubbio che, allo stato delle cose, possa emergere un autografo o comunque del materiale che possa dar vita a una vera e propria edizione critica del corpus mereiano, perlomeno intesa in senso tradizionale. L’augurio che rivolgiamo alle sue liriche, come alla poesia dialettale in genere, è quello di non “perdersi” né materialmente – prima che troppa polvere seppellisca quelle carte che costituiscono l’ambizione del filologo –, né a livello dei contenuti, la vita dei quali è garantita da un pubblico di lettori entrato in crisi con la crisi stessa dei dialetti e dei mondi che essi veicolano, in un vortice negativo che tende a triturare ciò che non è protetto dai canoni di maggior consumo. Marco Maulu 54 NOTA BIOGRAFICA Giuseppe Ilario Efisio Antonio Sebastiano Mereu, figlio di Giuseppe Mereu e Angiolina Zedda, nasce a Tonara, quarto di sette fratelli, il 14 gennaio del 1872. La madre muore nel 1887 mentre il padre, medico condotto di Tonara, viene a mancare due anni più tardi, pare in seguito all’ingestione accidentale di un veleno. Così Peppino si ritrova orfano a diciassette anni, assieme ai fratelli Edoardo, il primogenito, Manfredi, Elvira, Matilde, Rinaldo ed Emilia, in grave difficoltà economica. Probabilmente il giovane Mereu non ebbe la possibilità di andare oltre la terza elementare, speranza di studi più che ottimistica in quegli anni e in realtà povere e disagiate quale era Tonara a fine Ottocento. Tuttavia dovette proseguire a formarsi da autodidatta, possibilmente dietro l’aiuto e i consigli del «laureando in medicina» Giovanni Sulis, suo amico, sostenitore e infine editore nel 1899, anno dell’uscita della raccolta intitolata Poesias per i tipi Valdés. In generale le poche notizie che abbiamo sulla gioventù del poeta sono in larga parte desunte dalla sua opera e dagli apparati alla princeps curati da Sulis come, ad esempio, l’interesse per la poesia improvvisata e la sua particolare predisposizione al genere o l’adesione al socialismo, fino alle difficoltà nell’accettazione della vita militare. A questo proposito si legge nella “Nota biografica” della raccolta intitolata Poesias, uscita nel 1978 e curata dal Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara, p. 16, che Mereu «il 7 aprile 1891, si arruola volontario carabiniere», a diciannove anni quindi, in cerca di una occupazione che, per coloro i quali non possedevano terre e bestiame “di famiglia”, costituiva pressoché l’unica via d’uscita. Mereu resterà in servizio per cinque anni, durante i quali, fino a quando la salute glielo consentirà, si sposterà in vari centri della Sardegna, come risulta dalle date di composizione in calce ad alcune sue poesie. Lo ritroviamo allora a Cagliari 55 Nota biografica 1. Cfr. D. Caocci, “Peppino Mereu: il grido della miseria”, in Erbafoglio, a. VIII, n. 16, maggio 1995, pp. 74-75. pubblicazione su periodico dei tre componimenti più volte citati a partire dal 26 maggio del ’98 all’edizione del corpus vera e propria nel settembre del ’99, peraltro subito recensita sull’Unione Sarda (cfr. la “Nota bibliografica”). Le condizioni di salute e di conseguenza esistenziali, devono farsi tuttavia sempre più difficili, finché Peppino Mereu non si spegne l’undici marzo del 1901, a ventinove anni, non si sa con certezza se per diabete o altro. Non intendiamo entrare ulteriormente in merito ad ambiti già trattati nella presente e in altre raccolte e che riguardano diversi aspetti biografici quali l’amore, la politica, i rapporti con gli altri poeti o l’importante amicizia che lo legò a Nanni Sulis, Genesio Lamberti ed Eugenio Unale. Vogliamo invece sottolineare come gli stessi riferimenti e auto-ritratti che si ricavano dall’opera hanno contribuito, anche per la mancanza di dati certi che smentissero quanto scritto dal poeta stesso, talvolta dietro la fictio del “maledettismo” scapigliato, ad alimentare la leggenda attorno alla sua figura: essa comprensibilmente ha conosciuto un crescendo d’interesse sia da parte di appassionati e studiosi della poesia sarda, sia da parte del pubblico, anche giovane, che tutt’oggi ama i suoi versi e talvolta si ritrova ad interrogarsi sulla natura reale o fittizia dei suoi amori e dolori. Quale esempio della riflessione che sottoponiamo al lettore valga il titolo della piccola raccolta più volte citata in precedenza e apparsa nel 1978 col titolo di Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas da su famosu “Paccu Sigilladu”, dove alcune liriche inedite attribuite a Mereu (cfr. la “Nota al testo”) sono fatte risalire, scherzosamente ma in maniera significativa, al misterioso pacco cui fa riferimento il poeta in Su testamentu, ove si legge a riguardo: «Non siat su sigillu profanadu» (v. 39). Quest’ultimo monito simboleggia proprio quella precisa volontà di creare e accrescere ulteriormente un alone di mistero che, in effetti, esercita sul lettore il suo fascino e sul quale l’editore del libretto gioca intelligentemente. Il meccanismo descritto è in buona parte un tòpos della letteratura “minore” e, in fondo, va incontro alla mitologizzazione 56 57 nel ’91 e nel ’93, a Nuoro nel ’94, ad Osilo, Sassari e Cossoine nel ’95, ad Assemini nel ’96 e, sempre a partire da quest’anno, lo sappiamo a Tonara, alle prese con i problemi di salute che lo condurranno al disagio, alla miseria e all’isolamento progressivo di cui egli stesso racconta in alcune delle liriche più note. La difficoltà di vivere e la condivisione ideale di questo stato col basso popolo tutto – che allora comprendeva la maggioranza degli abitanti del Paese – influenzerà profondamente il mondo poetico del poeta tonarese, come sottolineato da Duilio Caocci.1 A seguito del peggioramento del suo stato fisico Mereu è ricoverato, secondo la sua stessa testimonianza, presso le infermerie presidiarie di Sassari e Cagliari e riceve il congedo il 6 dicembre del 1895, ritirandosi così nell’amata/odiata solitudine del suo paese, inizialmente a casa del fratello Manfredi. Questo ritiro e l’emarginazione da parte di alcuni suoi compaesani, gli sbeffeggiamenti e il bisogno di dialogo con amici ormai lontani è ben descritto da liriche quali A Juanne Sulis, A Eugeniu Unale [I] e [II] e A Nanni Sulis [II], fino a Su testamentu. Si tratta di quattro epistole poetiche in terzine abbastanza estese, nelle quali il dato biografico emerge con chiarezza accanto al filone gnomico e di protesta sociale. In seguito a incomprensioni con Manfredi, Peppino cambia abitazione e vive come può, finché il segretario comunale Pulix non lo farà assumere come scrivano presso la Conciliatura dal 1898 al 1900. Il dato biografico è confermato dall’omonimo sonetto, datato difatti al 27 gennaio 1899. In base ai dati in nostro possesso il biennio fra ’98 e ’900 risulta essere decisivo per la ricerca di visibilità da parte del poeta al di fuori del paese natio. Ci si potrebbe allora chiedere fino a che punto la princeps sia stata stampata a sua insaputa per l’iniziativa personale di Sulis, come costui dichiara nella “Prefazione”, vista la precedente promozione, certo studiata, presso i media locali e che porta, secondo una traiettoria difficilmente casuale, dalla di sapore agiografico di simili figure che l’appartenente alle comunità locali mette in atto quasi d’istinto, ovviamente assieme al desiderio di svelare ciò che la fantasia popolare rende arcano. In conclusione, la stessa penuria di dati storici certi con la quale ancora oggi ci confrontiamo ha contribuito – vista la peculiarità della sua esistenza, unita a quella della sua poesia – a mantenere vivo un interesse che fa di Peppino Mereu parte reale di un patrimonio collettivo regionale che ancora lo recita e lo canta, non solo nelle piazze, ma anche su palchi solitamente deputati ad altre voci. NOTA BIBLIOGRAFICA OPERE DI PEPPINO MEREU1 A una violetta sicca, in Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, a. I, n. 7, 26 maggio 1898. In Conziliatura, in La Piccola Rivista, a. I, n. 9, 29 aprile 1899, p. 9. A Ernesto Mereu, in La Piccola Rivista, a. I, n. 14, 30 giugno 1899, p. 15. Giuseppe Mereu, Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P. Valdés, 1899. RACCOLTE Peppino Mereu, Consizos a unu amigu e Dae una losa ismentigada, in Il Nuraghe, a. III, n. 33, 1925, pp. 9-10, all’interno della rubrica “Le più belle poesie dialettali”. Peppino Mereu, Poesie scelte, Cagliari, Edizioni della Fondazione il Nuraghe-Tipografia della Società Editoriale Italiana, 1926. Peppino Mereu, Galusè, in Il Nuraghe, a. IV, n. 36, 1926, pp. 15-17, all’interno della rubrica “Poesie dialettali”. Peppino Mereu, Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P. Valdés, 1928. Peppino Mereu, Le più belle poesie dialettali sarde, Cagliari, Edizioni della Fondazione il Nuraghe, 1951. P. Mereu, Poesie, Cagliari-Varese, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, 1951. Peppino Mereu, Poesie, Sassari, Tip. Editoriale Moderna, 1967. Peppinu Mereu, Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas da su famosu “Paccu Sigilladu”, Cagliari, Tipografia Tea, 1978. 1. S’intende con tale dicitura il materiale pubblicato o apparso quando il poeta era in vita. 58 59 Nota bibliografica SCRITTI SU PEPPINO MEREU2 F. Corona, “Giuseppe Mereu – Poesias – Cagliari, Prem. tip. editr. di P. Valdés, 1999”, all’interno della rubrica “Fra libri e giornali” de L’Unione Sarda, a. XI, n. 266, 27 settembre 1899. A beneficio del lettore riportiamo alcuni stralci di quella che ci risulta essere la prima recensione alla pubblicazione Valdés, redatta da un personaggio di spicco della cultura isolana, l’erudito cagliaritano Francesco Corona, che non ci risulta segnalata in nessuna edizione dell’opera di Mereu. Corona collaborò per vari anni con L’Unione Sarda, soprattutto durante la direzione di Raffa Garzia (1904-1916) e fu autore, fra l’altro, della Guida dell’Isola di Sardegna, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1896 e del Dizionario dei comuni della Sardegna, Cagliari, Premiato stab. tip. G. Dessì, 1898. Ecco, senza commenti – l’articolo descrive chiaramente da sè le posizioni del suo autore e un atteggiamento critico al tempo generalizzato – un largo stralcio di questa testimonianza, davvero preziosa quale prima, autorevole attestazione della ricezione dell’opera di Mereu: «In un elegante volumetto, uscito alla luce in questi giorni a cura dello stabilimento tipografico Valdés, si raccolgono una trentina di poesie in dialetto tonarese [sic] e di diverso metro. Ne è autore Giuseppe Mereu, nome finora ignoto, se non alle muse, alla repubblica letteraria sarda e che, per qualche titolo, si presenta bene. Egli ha in fatto una vena calda, sebbene non molto appassionata, e verso facile. Non intendo già fargli rimprovero [per]3 quella punta di scetticismo, che quà e là fa capolino nelle sue poesie … solo mi sorprende com’egli, nato in quella regione, ove la natura spiega tutta la superba pompa della sua bellezza … non senta scorrersi nel sangue quell’onda di forte e sana poesia che ha sempre acceso l’astro dei grandi poeti d’ogni epoca … la poesia soggettiva – ch’egli preferisce – all’oggettiva – … richiede esuberanza di sentimento, per modo che riesca ad impressionare profondamente chi legge … orbene; questa forza di sentimento manca nel Mereu, per cui le sue afflizioni, i suoi dolori, ci lasciano indifferenti, freddi. Dae una losa ismentigada, un po’ stecchettiana, Amore, Adultera, Moribunda ed altre; svolgono concettuzzi, in versi dolci e melodiosi, ma privi di quell’affettività che deve vibrare potentemente pietosa in simili poesie soggettive. Per contrario il Mereu usa benissimo la satira, e in quelle poche poesie, ove l’adopera con parsimonia e studiata misura, è assai efficace e geniale. In complesso 2. La bibliografia critica non comprende tutti i per lo più nominali accenni a Peppino Mereu presenti in varie monografie, soprattutto antologie, ma solo quelli che, a nostro giudizio, hanno un minimo d’utilità nell’inquadramento della sua figura. 3. La parola risulta erasa nell’esemplare cartaceo da noi esaminato e conservato presso la Biblioteca universitaria di Cagliari, quindi nella riproduzione microfilmata, evidentemente tratta da questa medesima copia. Integriamo perciò tramite congettura. 60 61 Peppino Mereu, Poesie, Nuoro, “La Tipografica” di Solinas, s.d. Peppinu Mereu, Poesias. Raccolta dei versi, traduzioni italiane e nota biografica a cura del Collettivo di ricerca “Peppinu Mereu” di Tonara, prefazione di F. Masala, Cagliari, Della Torre, 1978. Peppinu Mereu, Poesias. Raccolta dei versi, traduzioni italiane e nota biografica a cura del Collettivo di ricerca “Peppinu Mereu” di Tonara, prefazione di F. Masala, Cagliari, Della Torre, 1982. Peppinu Mereu, Frores, Cagliari, Frorias, 1998. Peppino Mereu, “Nanneddu meu”. Poesias de Peppinu Mereu, a cura del Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara, Cagliari, Condaghes, 2001. Peppinu Mereu, Terra de musas. Contivizu de Bachis Bandinu e Paulu Pillonca, Cagliari, Edizioni Frorias, 2001. Peppino Mereu, Poesias. Antologia a cura del Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara, traduzione italiana di S. Tola, Sassari, La Nuova Sardegna, 2003. Nota bibliografica però i suoi canti, giudicati come una prima prova … sono apprezzabili e meritano parole di lode. Il verso, sempre facile, è quà e là trasandato; pare ch’egli rifugga dalla lima, dopo la penna, l’arnese più necessario ad ogni scrittore, massime poi ad un poeta … e di questo verso fluido, dolce, carezzoso che sgorga dal suo cuore terso e limpido … il Mereu dovrebbe giovarsi, per cantare le sue ubertose valli … come pure per descrivere i costumi, e i bisogni e le superstizioni di quei fieri montanari, risuscitando d’una volta nella nostra isola – già ricca di poeti erotici e sentimentali – la poesia descrittiva e la sociale, le sole oramai, che in questa decadenza di sentire, possono veramente interessare. E s’egli vorrà seguire il nostro consiglio, troverà certo più copiosa e variata messe nel campo che gli additiamo, e plausi più fragorosi in quello intellettuale, ove verrà consacrata la sua fama da quanti sanno apprezzare l’ingegno accoppiato allo studio, e ai quali pertanto consigliamo la lettura di queste Poesias, rivelatrici del germe d’un futuro robusto poeta sardo». G. Sulis, Peppinu Mereu, in S’Ischiglia, a. I, n. 12, 1949 [rist. anast. Cagliari, Gianni Trois, 1979, p. 334]. D. Caocci, “Peppino Mereu: il grido della miseria”, in Erbafoglio, a. VIII, n. 16, maggio 1995. D. Caocci, “La poetica del controcanto. Note su un poeta sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1, 2001, pp. 96-109. G. Porcu, “In Conziliatura, sonetto di Peppino Mereu”, in La grotta della vipera, a. XXVII, n. 93, primavera 2001, pp. 58-63. V. Flore, “Peppino Mereu a cent’anni dalla scomparsa. Da aedo dei campi a vate della sua terra”, con l’antologizzazione di Agonia, in S’Ischiglia, a. XXII, settembre 2001, pp. 265-266. G. Maieli, “Peppino Mereu tra passato e futuro della lingua sarda”, in Nur, a. I, n. 5-6, 2001, pp. 3-8. S. Flore, “Il canto sociale di Peppino Mereu. Espressioni di una vita breve”, in Quaderni bolotanesi, a. XXIX, n. 29, 2003, pp. 399-415. Un buon interesse nei confronti del poeta tonarese mostrò Raimondo Carta Raspi, che oltre a promuoverne l’antologizzazione in quattro occasioni (cfr. supra la rivista Il Nuraghe e le Edizioni della Fondazione Il Nuraghe) inserì Dae una losa ismentigada e Galusè nell’importante raccolta Sardegna. Terra di poesia. Antologia poetica dialettale a cura di R. Carta Raspi, Cagliari, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, s.d., pp 259-271. L’altra figura di spicco della cultura sarda di quegli anni, Francesco Alziator, in Storia della letteratura di Sardegna, Cagliari, Edizioni “La Zattera”, 1954, p. 409 [rist. anast. Cagliari, 3T, 1982], cita solo nominalmente Mereu «fra i poeti vernacoli … che meritano di essere ricordati». Un breve saggio introduttivo di Manlio Brigaglia alla figura del poeta intitolato “Uno scapigliato di paese”, cui seguono quattro sue poesie, si trova nell’antologia Il meglio della grande poesia in lingua sarda, Cagliari, Della Torre, 1975, pp. 275314. Il contributo fa parte di una serie di scritti dello stesso Brigaglia sui poeti dialettali della Sardegna, redatti per essere letti durante alcune trasmissioni di Radio Cagliari nel 1962. Un profilo del poeta ad opera di Leonardo Sole compare in La Sardegna. Enciclopedia, a cura di M. Brigaglia, vol. I, L’arte e la letteratura in Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1982, pp. 59-61, mentre un accenno poco più che nominale si trova in N. Sanna, Il cammino dei sardi, vol. III, Cagliari, Editrice Sardegna, 1986, pp. 517-518, all’interno della sezione intitolata Letteratura ed arte della Sardegna sabauda e della Sardegna italiana. Si trovano utili accenni al poeta e al suo milieu culturale in G. Pirodda, “La Sardegna”, in Letteratura Italiana, Storia e Geografia, a cura di A. Asor Rosa, III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 919-966. Ancora, sempre dello stesso autore, si vedano, all’interno della collana “Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi”, “Giuseppe Mereu”, in Sardegna, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 306-308 e “L’attività letteraria fra Otto e Novecento”, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a 62 63 oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer, A. Mattone, Torino, Einaudi, 1998, pp. 1083, 1122. Un’altra breve presentazione del poeta, cui seguono due poesie antologizzate e commentate, è presente in G. Sanna, G. Atzori, Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura, vol. II, Cagliari, Edizioni Castello, 1999, pp. 345-355. Franco Brevini, nel suo fondamentale La poesia in dialetto, Milano, Mondadori, 1999, 3 tomi, inquadra il poeta sardo nella sezione Orgogli municipali e mondi minori, pp. 2880-2882, e antologizza Galusè e Lamentos d’unu nobile, pp. 2928-2944. Accenni alla metrica si trovano, sparsi, in A. Deplano, Rimas, Cagliari, Artigianarte, 1997. Un curioso e raro episodio legato alla vita sentimentale del poeta è presente, non sappiamo quanto credibile, nel capitolo intitolato “Il poeta e la ragazza”, in R. Manconi, Vecchia Florinas, Novara, Tip. Stella Alpina, 1959, pp. 111-116. NOTA AL TESTO La tradizione1 Le sigle dei testimoni presi in considerazione per questa raccolta sono, in ordine cronologico di pubblicazione: MONOGRAFIE V1 = Poesias, Cagliari, Prem. Tip. P. Valdés, 1899: l’editio princeps stampata vivente il poeta. Essa consta di ventinove componimenti da attribuirsi con certezza a Mereu ed è corredata di una “Prefazione” del curatore, «Giovanni Sulis laureando in medicina», amico del poeta, e delle preziose “Notas” esplicative ad opera dello stesso Sulis. L’esemplare da noi utilizzato, sul quale si basa la presente edizione, è conservato in buono stato presso la Biblioteca degli Studi Sardi di Cagliari. Numerosi i refusi di stampa, che riguardano principalmente la segnalazione di apocopi ed elisioni tramite apostrofo e gli scambi e cadute di lettere, verificatisi durante la composizione tipografica. V2 = Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Valdés, 1928: la ristampa di V1. La si potrebbe definire una edizione “riveduta e corretta”, in quanto alcuni refusi tipografici della princeps sono stati emendati; d’altra parte, degli altri sono stati aggiunti. Giovanni Sulis vi appare ormai «laureato in medicina». L’esemplare da noi consultato è conservato presso la Biblioteca universitaria di Sassari. N = Poesie, Cagliari-Varese, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, 1951: l’edizione discende da V1, come evidenziato da alcuni errori tipografici comuni, emendati già da V2. Qui il componimento conclusivo, intitolato redazionalmente W… in V1, appare come Dialugu fra maridu e muzere, titolo accolto dalle pubblicazioni successive. 1. Eccezion fatta per Fr non si menzionano in questa sede le raccolte che, pur citate in bibliografia, costituiscono delle ristampe di sillogi precedenti, senza che presentino cioè novità a livello testuale. 64 65 Nota al testo DT78 = Poesias, Cagliari, Della Torre, 1978: si trovano qui trenta componimenti aggiuntivi rispetto a V1 e, di conseguenza, alle due successive ristampe di quest’ultimo, raccolti dal Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara attraverso fonti orali o comunque “indirette”. Inoltre tutte le stampe curate dal Collettivo – comprese quelle che da esse discendono – presentano, rispetto a V1, un titolo in più nell’indice (30 componimenti, quindi, contro i ventinove della princeps) in quanto le dodici quartine di endecasillabi e settenari che compongono la conclusione di Lamentos d’unu nobile sono ivi intitolate E prite tottu custu? Non così in V1, ove appare chiaro che esse costituiscono la seconda parte, il “finale” insomma, della stessa Lamentos d’unu nobile, con una variazione metrica tipica di Mereu all’interno del medesimo componimento. T = Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas da su famosu “Paccu Sigilladu”, Cagliari, Tipografia Tea, 1978: edizione artigianale che tramanda cinque componimenti + In Conziliatura (In cunziliadura T), da noi dati a testo con formula dubitativa e mancanti nella tradizione rimanente. Inoltre sono presenti varianti formali, a partire dai titoli delle poesie, che il testimone ha in comune con le edizioni curate dal Collettivo (ad es. T intitola Il verbale e suddivide giustamente in terzine il componimento che da DT78 in poi appare invece tràdito in sei strofe rispettivamente di 9 + 6 + 12 + 12 + 12 + 6 versi, col titolo, da noi accolto, di Piazzaforte di Orune). In generale, dei cinque componimenti di cui sopra convince poco lo stile poetico, più rifatto che spontaneo, ci sembra, e talvolta la lingua. Tuttavia, tenuto conto dell’ambiente legato all’oralità e alla mancanza attuale di informazioni a livello attribuzionistico su queste ed altre liriche, abbiamo deciso di darle comunque a testo, se non altro come dato aggiuntivo su versi evidentemente estemporanei assegnati al poeta tonarese, forse all’interno dello stesso ambiente della poesia improvvisata. tràdite da V1 e alcune di quelle reperite dal Collettivo “Peppino Mereu”, come Su testamentu. Di questa lirica tramanda il verso di chiusura «Peppe Mereu bos toccat sa manu» (cfr. p. 75). DT82 = Poesias, Cagliari, Della Torre, 1982: la ristampa di DT78 con alcune modifiche rispetto alla precedente pubblicazione, consistenti principalmente in un’operazione di uniformazione linguistica, sia relativamente alle poesie tramandate da V1, sia a quelle apparse in DT78 ed altre di cui sarà dato conto a breve. C = “Nanneddu meu”. Poesias de Peppinu Mereu, Cagliari, Condaghes, 2001: la stampa curata dal Collettivo “Peppino Mereu” che sostanzialmente apporta, rispetto a DT78 e DT82, alcune modifiche, volute e non (si veda la conclusione della raccolta per la posposizione di Minca maccaca e A su tianesu), relative all’ordine in cui appaiono le liriche. Essa segue sostanzialmente DT82, con in più una revisione condotta sulla princeps. Fr = Terra de musas, Cagliari, Frorias, 2001: l’edizione contiene un componimento edito per la prima volta (ivi Chene titulu), ma cfr. ultra, pp. 70-72. PERIODICI PR = La Piccola Rivista: periodico di cultura cagliaritano che tramanda il sonetto In Conziliatura e la serie di sonetti intitolata A Ernesto Mereu. SLA = Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata: periodico di cultura cagliaritano che tramanda il componimento in terzine dal titolo A una violetta sicca (cfr. per entrambi la “Nota bibliografica”). S = Poesie, Nuoro, “La Tipografica” di Solinas, s.d.: pubblicazione artigianale priva di indice e di qualsiasi apparato, inaffidabile e colma di cattive lezioni e refusi. Essa comprende le poesie Il corpus La presente raccolta comprende l’intero corpus poetico di 66 poesie attribuite a Peppino Mereu. La “Prefazione – Cortese Lettore” di Giovanni Sulis, l’apparato di note esplicative 66 67 Nota al testo dello stesso Sulis intitolato “Notas” e collocato in chiusura della raccolta, infine i primi 29 componimenti, seguono fedelmente l’editio princeps del 1899. Le 30 liriche successive, a parte il sonetto intitolato In Conziliatura – che ivi manca ma è presente in T – rappresentano il materiale raccolto dal Collettivo “Peppino Mereu” e dato per la prima volta alle stampe nel ’78. Tuttavia si è qui seguita l’edizione dell’82, che ripropone sostanzialmente quella precedente, con l’eccezione di una ottava intitolata Ottava appunto, inclusa nella prima raccolta ed espunta dalla seconda. Si legga però quanto scritto nella nota redazionale a piè di pagina che l’accompagna nella stampa del ’78: «Il poeta riprende in questa sua ottava estemporanea il motivo di un’antica filastrocca sarda» (p. 239). Probabilmente l’attribuzione a Mereu, già ricavata da fonte orale, è stata in seguito ritenuta improbabile, sì da procedere all’espunzione nella pubblicazione successiva. Questi versi, che diamo comunque a testo, pur con formula dubitativa, sono inclusi anche in T. Inoltre, quella che in DT78 è erroneamente intitolata Ottava, pur essendo una deghina, appare come Titti tittia nella silloge successiva. Nella nostra raccolta si possono rilevare le seguenti modifiche “di sostanza” rispetto a DT82: includiamo anzitutto il già citato sonetto In Conziliatura. Ancora, questo e i componimenti A Ernesto Mereu (A frade meu Coll.)2 e A una violetta sicca (Una viola sicca Coll. e T) seguono, sia nel titolo, sia nella versione qui accolta, le stampe tratte rispettivamente da La Piccola Rivista per i primi due e dalla Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata per l’ultimo. La presente edizione adotta le norme grafiche utilizzate dai periodici pur con minimi adeguamenti e, pertanto, risulta volutamente disomogenea rispetto al restante corpus. I sonetti intitolati A Ernesto Mereu datano in calce «30 settembre 1898» e precedono In Conziliatura, che data a sua volta «27 gennaio 1899», mentre A una violetta sicca non è datata, ma si trova pubblicata nel numero di Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata uscito il 4 agosto 1899. Sono queste le sole liriche stampate su periodico vivente il poeta; pertanto esse costituiscono il nucleo rappresentativo di una stagione poetica in cui Mereu, probabilmente spinto dall’amico e mentore Sulis, cercò di ottenere un minimo di visibilità sulla stampa letteraria del tempo e su riviste che accolsero le prove, dagli esordi e fin oltre, della maggior parte degli artisti e intellettuali isolani dell’epoca. Per un discorso di continuità coi lavori precedenti non è stato stravolto l’ordine in cui le poesie compaiono in DT78 e DT82: il raggruppamento qui stabilito vede A Ernesto Mereu e In Conziliatura comparire in successione dopo Titti tittia, mentre A una violetta sicca è stata inserita subito dopo Litanias maggiores. Le differenze più macroscopiche fra la versione data da Coll. di A Ernesto Mereu e A una violetta sicca e quella, rispettivamente, di PR e SLA, qui pubblicate per la prima volta sono, in breve: TITOLO: METRO: A Ernesto Mereu PR; A frade meu Coll. serie di sette sonetti PR; due sestas + due ottavas + una sesta + una ottava + una sesta + una ottava + una sesta + una ottava + due sestas Coll. Mancano i vv. 7-8 del sonetto [I] e le due terzine del sonetto [II]; inoltre il sonetto [IV], anticipato, occupa il posto del [III] (in Coll. > ottava 4 e sesta 5) il quale, a sua volta, “diventa” l’ottava 10 e la sesta 11. Infine mancano le quartine del sonetto [VII], il conclusivo (cfr. la presente edizione). TITOLO: A una violetta sicca SLA; Una viola sicca Coll. METRO: undici terzine di endecasillabi + un verso di chiusura 2. Coll. qui e altrove è la sigla rappresentativa di tutte le raccolte curate dal Collettivo “Peppino Mereu”, o che ristampano queste. SLA; una strofa di nove versi + una di dodici + una di tredici tutti endecasillabi Coll. Per entrambi i componimenti si riscontrano, ovviamente, varianti sostanziali anche dal punto di vista linguistico, vista la probabile fonte orale, o comunque indiretta, utilizzata in Coll., col conseguente riuso e “degrado” del testo poetico. 68 69 Nota al testo e deceduta nel 2000, secondo le informazioni fornite dai curatori nel suddetto volume (ivi, pp. 124-125, 138-139). Ci sentiamo di proporre una ipotesi riguardo al ritrovamento di questa lirica, che riportiamo sotto per comodità del lettore: «Cando chi a Tonara / brujadu has cust’incensu / comunu, e casi de profumu ingratu, / su ’inu de Atzara / t’hat leadu su sensu, / e zeltu est chi no has bidu su c’has fattu. / Partu de una mente / infelize, comente / ses bennidu a su mundu? Ite baratu / fit su mustu a s’edade / ch’iscrittu has cussos versos caru frade!». Vista l’assenza di titolo, la corrispondenza metrica (strofe di undici versi di endecasillabi e settenari con identico schema rimico), il tono polemico, i riferimenti alla sgradita “incensatura” del popolo (vv. 1-3), l’attacco personale per dei versi adulatori, evidentemente pessimi, scritti e chiaramente recitati a Tonara, probabilmente durante un’occasione conviviale (vv. 4-5), ci pare ipotizzabile che questa strofa isolata e priva di titolo possa in realtà avere un forte collegamento con A Paolo Hardy.3 In quella poesia difatti l’odiato politico era così descritto: «Cando chi ses bennidu / de votos pedidore, / in Galusè, a s’iscrocca ’e unu pranzu, / a Tonar’has tessidu / su simpr’e aduladore / cantu, de sensu iscancaradu e lanzu» (vv. 1-6), mentre il poeta afferma che «in sa sublim’altura / non balent sos fumos / de s’incensu c’has cherfidu brujare» (vv. 12-14). Davvero non sono poche le coincidenze e, se è pur vero che le date non coincidono (A Paolo Hardy è datata «Tonara … 1895», l’anepigrafa «Assemini, 22 marzo 1896») tuttavia la strofa potrebbe essere stata scritta in seguito alla prima stesura I componimenti Mauro Zucca, A Peppe Cappai, Muttu, A un’illusa, Aspettos chiudono la nostra raccolta quasi a mo’ d’appendice: essi sono tratti da T e non si trovano inclusi nelle sillogi precedenti. Questo testimone, che trae scherzosamente il proprio titolo dall’allusione a un misterioso paccu sigilladu che il poeta richiede non venga profanato e che contiene allusioni alla sua vita (cfr. Su testamentu, vv. 37-48), è comprensivo di ventuno poesie in diversi metri, tutte comprese nelle stampe curate dal Collettivo, a parte le cinque summenzionate. Si tratta principalmente di fonti orali, forse reperite nell’ambiente della poesia improvvisata frequentato attivamente dal poeta di Oliena Antoni Canu, che si autodefinisce poeta ’e gara nello stesso volumetto e che prefà brevemente la raccolta. Si può sospettare anche che alcune di queste poesie avessero diffusione nei fogli volanti e che fossero già da quella fonte attribuite, più o meno ufficialmente, a Peppino Mereu. Difatti fra i componimenti assenti in Coll. si trovano due sonetti (A un’illusa e In cunziliadura) e, a parte questi, due ottavas, di cui una presentata come lacunosa al termine della quartina data a testo (A Peppe Cappai) e un Muttu, pur se cólto nella scelta lessicale e nei concetti espressi: si tratta di schemi metrici tipici della poesia sarda improvvisata. Tuttavia una conferma di un certo grado di attendibilità del testimone viene dal sonetto In cunziliadura, pur dato con qualche variante corriva (cfr. ad esempio il v. 3 [«a mie però paret chi fosté]», ove l’endecasillabo in T è ipometro per la caduta di mi rispetto alla pubblicazione apparsa nella Piccola Rivista), effettivamente firmato dal poeta tonarese e assente invece nelle precedenti raccolte. Infine, per dare al lettore un’idea della tradizione testuale con la quale spesso si ha a che fare in questo tipo di lavori, si noti che T trae il titolo, come detto, da alcuni versi di Su testamentu, poesia che, però, paradossalmente non vi si trova antologizzata. Si è collocata poi l’anepigrafa edita dal solo Fr dopo l’ultimo componimento delle raccolte curate dal Collettivo (Su testamentu) il cui autografo, riprodotto nella stampa del 2001, si trovava in possesso di Clelia Mereu, la più giovane delle figlie di Edoardo, fratello del poeta, vivente ad Assemini 3. Ecco alcuni stralci della efficace descrizione di questo personaggio tratta da P. Marica, Stampa e politica in Sardegna. 1793/1944, Cagliari, La Zattera Editrice, 1968, pp. 144-145: «L’Ugo … era un impiegato della Società delle Ferrovie Sarde, dov’era stato collocato dal suo parente Francesco Cocco Ortu. Per riconoscenza diventò solerte procacciatore di voti per il potente amico. Tra le poesie satiriche del poeta dialettale Peppino Mereu, ce n’è una a lui dedicata che illustra in versi i suoi viaggi elettorali … firmava Paolo Hardj oppure Filippo Argenti, producendo cose mediocri in prosa e in versi». 70 71 Nota al testo del componimento, poi incluso in V1: si spiegherebbe così il riferimento a un passato ironicamente non determinato negli ultimi tre versi («Ite baratu / fit su mustu a s’edade / ch’iscrittu has cussos versos caru frade!», vv. 9-11), e non verrebbe difficile inserirla proprio quale strofa conclusiva. Anche l’immagine presente nella strofa isolata «partu de una mente / infelize, comente / ses bennidu a su mundu?» (vv. 7-9) si spiegherebbe ora come il riferimento a quel sonetto intitolato Tonara (cfr. la nota del curatore a p. 201 della nostra edizione), apparso sul periodico cagliaritano Spigolature d’arte e da noi pubblicato, definito «partu reu» e «partu fatale» (A Paolo Hardy, rispettivamente vv. 7 e 56), e non come insulto rivolto a un non meglio identificato e inesperto poeta. Insomma, si tratterebbe di un ulteriore rigurgito d’amarezza nei confronti di chi cerca di blandire il popolo con poesie o altro «pro lograr’unu votu» (A Paolo Hardy, v. 37), nonché di una preziosa testimonianza “genetica” che certo non sarebbe potuta emergere dalla tradizione a stampa di Mereu. Si noti inoltre l’incipit identico in entrambi i componimenti, «Cando chi», che a questo punto potrebbe non essere casuale, ma spiegabile come formula rimasta nella testa del poeta, magari in seguito a una rilettura di A Paolo Hardy, che gli avrebbe ispirato l’inizio di un’ulteriore strofa dedicata al medesimo personaggio, redatta però in un secondo momento. In definitiva quindi la nostra titolatura è da ritenersi utile meramente ai fini di una corrispondenza fra indice e strofa e non al fatto che riteniamo si tratti di un componimento isolato rimasto privo di titolo, come potrebbe sembrare a una prima lettura. Questo il corpus da noi accolto e i testimoni utilizzati per la collazione. Da un ipotetico stemma rappresentativo della parentela fra le varie stampe sarebbero ovviamente escluse le raccolte successive a quella del 1899, ossia V2 e N, in quanto “copie” della princeps stessa e da considerarsi, pertanto, inutili o descriptae ai fini di una ricostruzione dell’originale. Come si sa, il concetto di descriptus nella tradizione a stampa è da prendersi con cautela; perciò è stata effettuata una collazione fra V1 e i sunnominati testimoni – ad esclusione delle raccolte di poesie scelte – sì da “misurare” le trasformazioni grafiche, fonetiche e non di rado metriche intercorse negli anni, a partire dal 1899 fino ai giorni nostri. Inoltre si è ricorso alla collazione in presenza di lezioni dubbie, anche se per gli emendamenti ci si è basati, come consuetudine in questi casi, per lo più sulla metrica e le rime, sul senso, l’usus scribendi e le abitudini linguistiche che si possono evincere dai testi. Oltre a ciò precisiamo che la situazione testuale dell’opera mereiana è certamente “scomoda”, in quanto non resta traccia degli autografi consegnati dal poeta all’amico Giovanni Sulis e pubblicati da costui a sua insaputa. Così, il materiale che non compariva nella princeps proviene da fonti orali, a parte le eccezioni di cui sopra, anche se bisogna ammettere che la tradizione risulta meno evanescente rispetto ad altre. Difatti è abituale nelle raccolte poetiche dell’Isola aver a che fare con sole fonti indirette, in quanto larga parte del repertorio di un poeta poteva essere legato al mondo dell’improvvisazione e, di conseguenza, etichettabile come “estemporaneo”. La conseguenza di tutto questo, lo si potrà immaginare, è la trasformazione, il riuso e, spesso, la deformazione del testo, nato come orale e soggetto pertanto al degrado mnemonico. Non altrettanto abituale, anzi rarissima nella forma data da V1, è però l’esistenza di una raccolta compiuta e pubblicata in vita per un editore locale prestigioso, organicamente selezionata, nata dalla trascrizione di un autografo e, pertanto, di per sé assai attendibile, pur con le dovute riserve. Certamente fa pensare l’incompiutezza di alcuni componimenti di Mereu, dichiarata dallo stesso curatore, come anche i titoli X…, Y… ecc., a nostro parere redazionali e non dati come provvisori dal poeta, che però conserviamo. Tuttavia è forse un buon segnale il fatto che proprio l’incompiutezza sia stata dichiarata e non, come talvolta càpita, nascosta o mascherata con integrazioni o tagli che non appartengono all’autore. Difatti ciò per noi significa che vi fu da parte di Sulis un profondo rispetto di tutto il testo, compresi eventuali suoi difetti (da intendersi in senso lato), sicché ciò è consolante quando si ha a che fare, come nel nostro caso, con testimoni unici a stampa come 72 73 Nota al testo 4. P. Stoppelli, “Introduzione”, in Filologia dei testi a stampa, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 13. 5. In questo caso è però la stessa princeps a mostrare incertezza: difatti nell’indice il titolo del componimento è Consizos a un amigu, mentre successivamente si trova Consizos a unu amigu, che qui accogliamo. Inoltre le liriche anepigrafe e le anepigrafe lacunose di V1 sono state tutte intitolate dai curatori: X… > Ispasimos de amore; K… > Ninna nanna; Y… > Cainu; W… > Dialugu fra maridu e muzere, come in N. A tal proposito segnaliamo che V1 intitola queste poesie con le lettere maiuscole di cui sopra, seguite da puntini che dovrebbero segnalare omissione o lacuna, mentre all’interno della raccolta esse sono seguite dal punto fermo. In questo caso, visto che nelle stesse “Notas” di Sulis, che fece da editore, si trova il rimando ai titoli con i puntini, questi ultimi sono stati adottati nella nostra edizione. Segnaliamo poi l’aggiunta del verso di chiusura delle terzine di Su testamentu, riportato da C: «Peppe Mereu bos toccat sa manu». A sua volta esso, assente in tutte le altre raccolte curate dal Collettivo, si trova dato a testo da S (ivi, p. 110) che, come già detto, è una stampa priva di datazione ma di gran lunga antecedente alla pubblicazione di C. È presumibile che tale lezione sia stata accolta da C proprio in seguito allo spoglio di questa pubblicazione. Nonostante la scarsa credibilità attribuibile al testimone S è tuttavia opportuno accogliere la lezione, in mancanza di prove contrarie, pur se è evidente la possibilità che si tratti di una lectio facilior sulla quale è per lo meno lecito nutrire qualche dubbio. In definitiva, come detto sopra, è soprattutto DT82 a uniformare graficamente la lingua della princeps, pur se di frequente si tratta della estensione di principi grafici adottati in maniera più sporadica nella raccolta del ’78. Tali modifiche, ad esempio, riguardano la banalizzazione di alcune lezioni di V1 (ad es. Consizos a unu amigu, vv. 144-145: «Suni niente, appettu / a …» V1 > «suni niente a pettu de …» Coll.), oppure lo scempiamento sistematico di alcune geminate (happ’ > hap’ o magnetizzas > magnetizas), il passaggio dalla semiconsonante j a g (jardinu > giardinu) e la rotacizzazione della laterale l (bennalzu, telalzu, ’ervegalzu > bennarzu, telarzu, ’ervegarzu ecc.), le elisioni (silenzi’e > silenz’e), la -t finale delle terze persone plurali dei verbi che dilegua (isfozant > isfozan), fino ad interventi sulla punteggiatura, alla soppressione delle dediche e degli apparati del Sulis delle edizioni Della Torre. Questi ultimi, però, sono stati ripristinati da C, che d’altra parte segue 74 75 V1 che, spesso, finiscono per «coincidere con la stessa definizione del testo critico dell’opera».4 Più problematica risulta l’edizione dei testi raccolti con ammirevole sforzo dal Collettivo di ricerca “Peppino Mereu”, in quanto nessuno dei criteri di scelta e vaglio delle fonti è stato apertamente dichiarato e, pertanto, lo iudicium da utilizzare a fini attribuzionistici è unicamente la conformità o meno ai dati “sicuri” in nostro possesso che ineriscono la lingua, i temi trattati, i metri, lo stile poetico, di quanto tramandatoci dalle liriche “aggiuntive”. Differenze fra i testimoni Non è possibile dar conto in questa sede di tutte le varianti, anche solo sostanziali, che intercorrono fra i testimoni, operazione che richiederebbe un apparato critico. Ribadiamo però che V2 ed N sono delle ristampe della princeps e che pertanto, a parte lievi differenze di carattere formale, esse seguono fedelmente il testo di riferimento, emendano pochi refusi, talvolta aggiungendone degli altri, soprattutto V2, e ritoccano raramente la punteggiatura. Si è già detto, inoltre, dell’inserimento da parte di N del titolo Dialugu fra maridu e muzere al posto del titolo redazionale W… di V1. Più interessanti risultano le divergenze fra quest’ultimo testimone e le raccolte curate dal Collettivo “Peppino Mereu”, nelle quali è stato effettuato un lavoro di uniformazione linguistica, più leggero in DT78, più profondo nella raccolta successiva. Fra l’altro quest’ultima contiene non pochi refusi di stampa. In generale, si trovano difformità evidenti già a partire dai titoli: ad esempio Consizos a unu amigu > Cunsizu a unu amigu Coll.;5 Lamentos d’unu nobile > Lamentos de u. n. (cfr. anche p. 66); Solferino! > Solferino; Studente > Istudente; Addio a Nuoro > Addiu a Nugoro. Nota al testo generalmente DT82 per le modifiche di cui sopra, rivedendo sporadicamente alcune lezioni sulla base di V1, fino al ripristino dello spazio fra gli apostrofi che indicano fenomeni d’elisione o aferesi della princeps. Nel corpus di poesie raccolte dal Collettivo si ha ugualmente una netta contrapposizione fra DT78 da una parte, contro DT82 e C dall’altra, contrapposizione che si evince, ad esempio, da grafie come l’happo/l’hapo, agattas/agatas, lentizza/lentiza, ligera/lizera (la prima forma è data da DT78 e segue V1) ma anche da qualche lezione sostanziale, come finestra del v. 2 di Turmentos, cui DT82 e C oppongono ventana, o da suddivisioni metriche differenti (cfr. Serenada). Criteri di edizione Come si evince dalla situazione testuale descritta sopra il corpus poetico di sessantasei poesie attribuite a Peppino Mereu è disomogeneo. Riassumiamo: ventinove testi pubblicati in V1 + tre presenti nelle già citate riviste, per i quali l’attribuzione è certa e documentata a livello scritto da fonte diretta, + uno riportato da Fr, del quale però non si è potuto vedere da parte nostra altro che una riproduzione, presumibilmente da fotocopia, all’interno del volume, + i ventotto di Coll. (compresa l’Ottava mancante in DT82), per un totale di 61. A queste si sommano le cinque liriche tràdite da T. In conseguenza di ciò abbiamo deciso di editare il testo nell’unico modo per noi minimamente scientifico, ossia secondo un criterio di coerenza interna alle fonti da cui le poesie provengono, così da non affrontare una lotta impari di “riscrittura” delle stesse, secondo inutili mire parificatorie. Dal punto di vista tipografico si noterà quindi una sorta di “stacco”, per quanto ridotto da alcune norme comuni, fra le prime ventinove poesie e le successive raccolte da Coll., onde evitare una operazione di maquillage assolutamente falsa e arbitraria. orali si presuppone e, pertanto, filologicamente meno “sicure” e verificabili. Si è tenuto conto di questo nella trattazione testuale, operando in maniera assolutamente conservativa per il corpus di fonte diretta, ove si è proceduto a emendare i refusi di stampa e ad adeguare la punteggiatura qualora questa risultasse mancante o palesemente errata (cfr. ad es. l’inserimento della virgola alla fine del v. 13 di S’orfana pedit pane), l’uso delle maiuscole (ad es. nei nomi dei mesi nelle datazioni in calce, resi tutti minuscoli secondo l’uso maggioritario) ecc. Inoltre, per il trattamento linguistico del materiale poetico tràdito da V1, si è rispettata la norma grafica che emerge con buona chiarezza da questo testimone, dalle stampe pubblicate sui periodici letterari e dall’autografo di Fr, pur con qualche minimo adeguamento: Per il gruppo di trenta componimenti reperiti dal Collettivo (compresi A frade meu e Una viola sicca) e i cinque di T (senza tenere conto di In Conziliatura) le fonti sono indirette, 1. lo spazio dopo l’apostrofo che segnala l’elisione in V1 è stato soppresso (es. senz’ arte > senz’arte), tranne nel caso di vocaboli terminanti con vocale elisa preceduta da altra vocale + h di haer < HABE-RE (es. ozi’ has, tu’ has ecc.). L’apostrofo è stato poi inserito nei pochi casi in cui risultava mancante dopo l’articolo indeterminativo (ad es. un amante > un’amante, un ora > un’ora). In Agonia, inoltre, il v. 6 «de juliar a mie» è stato emendato in «des juliar’a mie», come nel v. 43 di W… «signales c’has pappadu menzus cosa» > signal’es, in quanto l’azione di conservare il pane di crusca, il “segnale” quindi, è una sola. Similmente si è operato in altri casi, non enumerabili però in questa sede; 2. l’alternanza di forme del sostantivo Patria/patria è stata risolta a favore dell’iniziale maiuscola, in quanto preponderante nella princeps e poiché è lecito sospettare una distrazione del tipografo, come pure nel caso Autore/autore, presente negli apparati curati da Sulis e ugualmente risolto con la scelta dell’iniziale maiuscola. Alternanze del tipo abbizzo/abbizo sono state invece preservate, in quanto pienamente giustificabili a livello di scripta; 3. l’elisione, d’abitudine segnalata in V1, è stata regolarizzata ove necessario (es. credi a > credi’a [Consizos a unu amigu, 76 77 Nota al testo v. 13]). Inoltre è stato inserito l’apostrofo nei casi in cui, per necessità metriche, rimiche o eufoniche la vocale finale a della 1a sing. dell’imperfetto indicativo è stata apocopata, così da evitare possibili fraintendimenti (es. mi sustentai > mi sustentai’ [Lamentos d’unu nobile, v. 47]; alzai su cantigu > alzai’ [ibid., v. 59]); 4. il nesso chi relativo + haer (es. c’has = chi has) è stato lasciato intatto in relazione all’uso dell’aspirata che indica la pronuncia velare delle occlusive sorda e sonora, come non si è intervenuti nei casi bindig’annos ma, più volte, degh’annos, o fog’/fogh’ per fogu. Consideriamo questa alternanza documento dell’incertezza grafica nella resa della velare sorda e sonora in fonosintassi; 5. sono stati ripristinati gli accenti nelle parole ossitone che sporadicamente non li riportano (ad es. faghe si > faghe sì, gia > già, quando non in presenza della forma apocopata gia’ per giai; ne > nè, pe > pè); 6. la terza persona del verbo ‘dare’, das, compare con o senza accento grave sulla vocale; tale alternanza è stata conservata; 7. i discorsi diretti, quando chiaramente tali e quasi sempre preceduti in V1 e nei due periodici dai due punti, sono stati racchiusi fra virgolette basse. Inoltre è stato regolarizzato l’uso dell’iniziale maiuscola, alternante nella tradizione di cui sopra (es. «ca su cor’in su pettus ti nàt: vile! > «Vile!» [X…])». Per il restante corpus vale quanto fatto nelle raccolte che lo tramandano. Ciò per consentire una lettura più sicura del testo; 8. la numerazione delle strofe, mancante nella princeps se non in due componimenti polimetri (Moribunda e A Genesio Lamberti) ma presente in Coll. e in T, è stata evitata nell’intera silloge, a parte i polimetri di cui sopra e nelle serie di sonetti A Ernesto Mereu e Alberto La Marmora. In questi ultimi due casi essa è stata racchiusa fra quadre. Per gli altri componimenti si è fatto quindi riferimento al numero dei versi; 9. il maiuscoletto con cui V1 contrassegna la parola iniziale di ogni componimento non è stato conservato per ragioni d’uniformità col restante corpus. Inoltre il carattere corsivo, anche allora utilizzato, come oggi del resto, per contraddistinguere i vocaboli con accezione inusuale o non sardi, è stato minimamente regolarizzato (ad es. «declinat con furat» > «declinat con furat» [A Paolo Hardy, v. 50]) o «Happ’a bider dolentes esclamende: «“Mea culpa”» > … «“Mea culpa”» (A Nanni Sulis [II], v. 130). Ciò perché si tratta, come spesso accade, di una disattenzione imputabile al tipografo. Quest’uso è stato esteso, come in V1, alle parti mistilingui e in sardo interferito delle liriche reperite da Coll. In Signora maestra però si è preferito evidenziare in tal modo le parti in sardo, essendo largamente preponderante l’italiano; 10. a livello dei diacritici abbiamo preferito estendere l’uso dell’apostrofo per la segnalazione del dileguo delle occlusive sonore in principio di parola all’intero corpus, così da non confondere il lettore con due criteri differenti e da semplificare la comprensione del testo in sardo, soprattutto in presenza di incontri con altri vocaboli che danno luogo a elisioni (es. ’ona, ’irde ecc.). Naturalmente quest’uso grafico è stato regolarizzato nelle poesie tràdite da DT82, dove risulta irregolare; 11. i componimenti che in V1 recano lo stesso titolo di altri successivi sono contraddistinti da numeri romani in progressione fra parentesi quadre (ad es. A Nanni Sulis [I], [II], [III]); 12. abbiamo accolto la lezione data dallo stesso Sulis del v. 53 di A Paolo Hardy («Campidanu Nuòro s’ammesturat» V1), alla nota 49: «Campidan’a Nuòro s’ammesturat». Ci sembra anche questa una svista del tipografo. 78 79 Circa l’aspetto grafico delle liriche, l’unica evidente normalizzazione è stata la disposizione delle strofe (cfr. ad es. le terzine). Quanto alle liriche aggiunte successivamente alla princeps si è preferito estendere l’uso della forma geminata della prima persona del verbo haer (happo), nonostante l’uso scempio di DT82, in quanto si tratta di una scelta meramente grafica che sarebbe andata contro non solo l’uso della princeps, ma anche di PR, SLA e T, che costituiscono a loro volta una parte del corpus poetico a sé stante rispetto a V1, come detto. Nota al testo Pertanto pubblichiamo questa seconda parte rifacendoci a DT82, ovviamente emendata degli assai numerosi refusi tipografici e di trascrizione (cfr. ad es. S’ambulante tonaresu, v. 13 [«e chi leat truddas e tazeris»], ipometro in DT82 per il chi > chïe nella presente edizione e A Signor Tanu, v. 98 [«non godimus in paghe s’ispettaculu»], dove non è stato emendato con nos, perché la lezione appare carente di senso). Inoltre abbiamo eliminato il carattere corsivo che in Titti tittia contrassegnava una esclamazione che, tuttavia, è assai comune in sardo e che altrove è stata data in carattere ordinario (cfr. Alberto La Marmora). Ci riserviamo di dare in altra sede i risultati dettagliati della collazione fra i testimoni da noi eseguita. Inoltre sono stati effettuati alcuni cambiamenti inerenti la metrica dell’edizione del Collettivo:6 Unu bandu è stato reso come sonetto, in luogo delle suddivisioni, in effetti disparate, adottate dalle raccolte precedenti. Alberto La Marmora è palesemente una serie composta da quattro sonetti (del tipo di quelli dedicati a Ernesto Mereu) e, pertanto, il componimento ha qui tale suddivisione, a differenza delle tre strofe dai quattordici versi senza scansione grafica in quartine e terzine proposte in DT78e dell’alternanza di ottavas e sestas proposte da DT82 e dalle stampe che da essa discendono. Signora maestra è stata resa con una strofa unica nei trentacinque versi che, invece, sono distribuiti da Coll. secondo una suddivisione che ci sembra poco convincente: difatti essa si basa, come evidente, sulle rime e sull’interpunzione utilizzata al termine di ogni strofa. In realtà però tale procedimento, se di per sé ammissibile, appare forzato tenuto conto del fatto che i metri che andrebbero a comporre la sesta, la quartina, l’ottava, la seconda sesta, fino ad arrivare alla strofa di dodici versi che precede la quartina conclusiva di Coll., spaziano dal trisillabo all’endecasillabo, passando per quadrisillabo e senario, senza alcuna attestazione a noi nota di un uso simile da parte del nostro o, per lo meno, di un modello al 6. Per questo aspetto rimandiamo alla nostra “Classificazione metrica”. 80 quale egli avrebbe potuto rifarsi. Perciò si è preferita una soluzione più prudente, quale ci sembra sia quella di cui sopra. Lasciamo come strofa a sé, analogamente a Coll., la quartina di endecasillabi finale, che ci sembra invece più plausibile. Lo stesso ragionamento è stato seguito per Proposta amorosa e Risposta amorosa: nel primo componimento Coll. costruisce una gabbia metrica forzata con una strofa incipitaria di sedici versi, così da poter ricavare successivamente una ottava lira serrada e una sesta per i quattordici versi successivi, endecasillabi e settenari alternanti. Tutto ciò è stato ridotto a strofa unica. Nel secondo, in apertura, si trova una ottava in settenari con un solo endecasillabo con schema aAbbccdd, + una ottava in endecasillabi e settenari a dir poco atipica, con schema AABBCcdd,7 per concludere come nella nostra edizione. In questo caso abbiamo preferito raggruppare i primi sedici versi in un’unica strofa, dato che essi non ci sono parsi altrimenti suddivisibili, a meno di ingiustificabili forzature, mentre le due deghinas e la quartina finale sono state conservate, secondo la soluzione adottata da Coll. Piazzaforte di Orune appare qui in terzine, invece della suddivisione in strofe di lunghezza variabile data dalle due raccolte Della Torre e dalla strofa unica di C. Serenada è qui data come una quartina iniziale + due ottavas torradas.8 Si è poi evitata la scansione bisillabica col tratto breve dei dittonghi (ad esempio da-e; e-i) utilizzata in Coll. 7. Andrea Deplano in Rimas cit., p. 78 afferma a proposito di questa ottava: «Si deve a Peppinu Mereu, invece, un raro esempio di Ottava costruita con verso senario intrecciato con endecasillabo e settenario». Lo studioso considera cioè quadrisillabo cavaliere che, però, si potrebbe anche leggere come pentasillabo, con dieresi eccezionale sul dittongo (cavalïere) nonostante l’etimo “scoraggiante”. Inoltre egli conteggia come senari quelli che sono fuor di dubbio due settenari finali ossitoni, come appare dallo schema metrico ivi collocato a fianco della strofa. In definitiva non ci pare si tratti di una ottava “rara”, ma più semplicemente di una successione di endecasillabi e settenari, secondo lo schema in lira. Circa le perplessità relative alla suddivisione strofica cfr. supra. 8. Cfr. la “Classificazione metrica”, p. 90. 81 Ancora, sono stati inseriti anche qui gli accenti quando ritenuto necessario (es. negaz. ne > nè) o regolarizzati a seconda dei casi (es. dò < dare [caso unico] > do). CLASSIFICAZIONE METRICA Per concludere, si è cercato nel tradurre di rispettare, quando non il computo sillabico, almeno la musicalità del verso e alcune rime, sempre che ciò non andasse a discapito dell’intento prefissatoci di adererire quanto più possibile al testo di partenza, oltreché, ovviamente, della chiarezza del concetto espresso dal poeta, a volte correttamente traducibile solo attraverso una banalizzazione della forma poetica e, quindi, rimica. In generale è stata sacrificata la stretta aderenza formale al testo di partenza qualora essa richiedesse un eccessivo allontanamento dal senso più immediato da noi attribuito ai versi. In taluni casi abbiamo preferito la perifrasi al singolo vocabolo italiano che, pur ottemperando alla esigenza estetica o uditiva, tuttavia non avrebbe potuto rendere appropriatamente il concetto espresso nella lingua di partenza. Raramente si è scelta la via della esegesi attraverso la nota a piè di pagina, se non in pochi casi (quattro) nei quali ciò si è reso necessario, almeno in rapporto alle nostre capacità e conoscenze. Come per tutte le nostre osservazioni, tali note sono racchiuse fra parentesi quadre. Inoltre si è scelto di tradurre, sempre fra quadre, i vocaboli in sardo interferito con l’italiano o con l’inglese (cfr. ad es. Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu) presenti in alcuni sonetti, inserendo tali forme composte all’interno della traduzione, sì da tentare di preservare l’intenzione linguistica che anima queste divertenti sperimentazioni mereiane. Questa classificazione ha lo scopo di dare conto della varietà e frequenza dei metri utilizzati dal poeta. Da tale punto di vista Mereu appare legato per un verso a certo tipo di tradizione ormai diffusa nella poesia “colta” isolana: difatti egli si muove per lo più fra sonetti, terzine e ottavas serradas e in lira, variandone però continuamente lo schema rimico e, talvolta, la misura del verso. Nella produzione che ci è giunta – quella sulla quale, pertanto, dobbiamo fondare le nostre osservazioni – spicca l’assenza dei metri torrados, composti di versi ripetuti e suddivisi in isterrida o isterria o pesada, cambas (‘strofe’), cambas torradas (‘versi ritornati’, ossia ‘ripetuti’) e torradas.1 Queste tecniche, tipiche ad esempio di mutos e mutettus e assai legate alla poesia improvvisata – ma quasi tutti i più noti poeti sardi a taulinu le utilizzarono – sono praticamente assenti dal discorso poetico di Peppino Mereu, il quale, però, le dovette ben conoscere, vista la sua frequentazione sia del mondo della produzione estemporanea degli improvvisatori, sia della produzione dei “grandi” in lingua logudorese, che ne fecero largo uso.2 82 83 1. Per un’idea della metrica sarda e delle tecniche che la caratterizzano rimandiamo almeno a M. Madau, Le armonie de’ Sardi, Cagliari, Reale Stamperia, 1787 [rist. anast. Bologna, Li Causi, 1983] riedito a cura di C. Lavinio, Nuoro, Ilisso, 1997 e a G. Spano, Ortografia sarda nazionale, Cagliari, Reale Stamperia, 1840 [rist. anast. Cagliari, Gia Editrice, 1995], capp. I e II. Si veda poi A.M. Cirese, Struttura e origine morfologica dei mutos e mutettus sardi, 1964, [rist. anast. Cagliari, 3T, 1977], relativamente alle strutture metriche di queste forme poetiche, mentre sulla terminologia delle forme metriche della poesia popolare sarda, dello stesso autore, “Alcune questioni terminologiche in materia di poesia popolare sarda: ‘mutu’, ‘mutettu’, ‘battorina’, ‘taja’”, estr. da Annali delle Facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari, vol. XXVII, 1959 [rist. anast. Cagliari, 3T, 1977]. Entrambi i lavori di Cirese sono confluiti nella “Parte seconda. L’arte del trobear”, in A.M. Cirese, Ragioni metriche, Palermo, Sellerio, 1988. Sufficientemente esaustivo e chiaro è poi il lavoro di A. Deplano, Rimas, Cagliari, Artigianarte, 1997. Classificazione metrica Appare convincente l’ipotesi formulata da Duilio Caocci a proposito della selezione che ha dato luogo alla silloge edita da Valdés: «A noi pare che, a strutturare l’antologia, intervenne prima un’intenzione dell’autore … poi una selezione del curatore».3 È quindi ipotizzabile che tecniche come la retrogradazione, la ripetizione di parti di verso o di interi versi e di altre tecniche tipiche della poesia popolare sarda e di quella legata all’improvvisazione, che generalmente possiamo identificare fra i metri composti di pesada e torrada, siano state volontariamente escluse dallo stesso poeta, oltre che da un mentore il quale, al corrente come Mereu di quanto si andava pubblicando nel Paese, avrà incoraggiato il giovane autore a consegnargli di volta in volta la produzione considerata da entrambi “innovativa”. Non sembra inopportuno pertanto parlare di un volontario distacco, relativamente alla produzione a taulinu, da moduli poetici sentiti come legati a quel poetare orale che, pure, Mereu ben conosceva e praticava con passione, tanto da essere paragonato dall’amico Sulis al Tigellius della Satira I, 3 di Orazio nella “Prefazione” all’edizione del 1899. Ciò perché «si nega sempre a cantare tra gli amici e una volta cominciato non la smette più» (p. 102). S’impone, ovvia, una riflessione circa il pubblico al quale Mereu e Sulis intesero rivolgere le poesie contenute nella princeps: ci sembra che la scelta di Dae una losa ismentigada ad esempio, rifatta su Postuma di Lorenzo Stecchetti, figura assai in voga fra gli ambienti colti di quegli anni in Sardegna, la cui opera era spesso diffusa dalle effemeridi locali, collocata in apertura della silloge potesse costituire quasi una implicita dichiarazione programmatica, che vide il poeta tonarese ben consapevole nella volontà di distinguersi rispetto ai moduli poetici tradizionali. A conforto di quanto detto sopra riportiamo pochi stralci di un articolo a firma di Giovanni Sulis e intitolato semplicemente “Peppino Mereu”, apparso su S’Ischiglia, a. I, n. 12, 1949, [rist. anast. Cagliari, Gianni Trois, 1979, p. 334]: «Un vivido cervello nudrito di una discreta cultura … riuscì … ad allontanarsi sdegnosamente dalle imitazioni pedantemente servili di non pochi poeti nostrani, che amarono … le parodie dei poeti classici … il Mereu fu un ingegno … che si allontanò dalla schiera dei poeti vernacoli del suo tempo … nei suoi vari atteggiamenti poetici che … schiusero dinanzi al suo sguardo aquilino nuove vie alla sarda poesia». Sottolineare quale sia l’aspetto che Sulis apprezzò maggiormente delle liriche di Mereu è a questo punto superfluo. 2. Si trovano con grande frequenza sestas e ottavas torradas nell’opera di D. Mele [Satiras, Cagliari, Della Torre, 1984]; deghinas glossas in A.D. Migheli [Sa briga ’e sos santos e altre poesie, Cagliari, Della Torre, 1986]; in M. Murenu [Tutte le poesie, a cura di F. Pilia, Cagliari, Della Torre, 1990], per limitarci a tre poeti satirici che con ogni probabilità Mereu conobbe e ai quali, in misura diversa, s’ispirò. I pochi casi di parti di verso ripetute nel corpus mereiano sono formule o moniti come «Ammentadind’ammenta», ripetuto per due volte ai vv. 15 e 17 di X…, ma poco significativi ai fini del discorso metrico che qui affrontiamo. 3. D. Caocci, “La poetica del controcanto. Note su un poeta sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1, 2001, p. 100. Prima di giungere alla classificazione vera e propria spenderemo poche parole per definire lo stato di perizia metrica di Peppino Mereu, che definiamo alto, tenuto conto della cultura e dell’età del poeta, con poche ipermetrie, ipometrie e rare false rime, un numero elevato di dieresi eccezionali e in generale irregolari, com’è tipico soprattutto della poesia che utilizza frequentemente versi sdruccioli, un uso della dialefe abbastanza disinvolto sia dopo tonica, tonica + atona e, viceversa, in presenza di numerosi monosillabi, generalmente preceduti o seguiti da vocale atona. Si nota inoltre un uso moderato di sistole e diastole, tenuto conto anche del fatto che nella poesia sarda, ma spesso anche in quella italiana, alcuni vocaboli hanno una pronuncia abitualmente differente rispetto alla lingua parlata, tendente spesso a rendere piana una parola sdrucciola (ad es. fémina > femìna, ocèanu > oceànu, cùmbidu > cumbìdu ecc.) e che, perciò, è talvolta difficile definire tali spostamenti d’accento come diastole o sistole vera e propria. Si tenga presente che nello schema rimico che utilizziamo le lettere maiuscole indicano gli endecasillabi, le minuscole i versi di misura inferiore, mentre l’ordine in cui compaiono i vari metri è stabilito in base alla frequenza. 84 85 Classificazione metrica SONETTI Questo metro, per numero di occorrenze (diciannove + due fra i polimetri) e di versi, è in assoluto il più frequente. Tale struttura strofica era considerata tipica della poesia a taulinu e Mereu la utilizza diffusamente sia nella singola poesia, sia “in serie”, sostituendola talvolta all’ottava, tipicamente discorsiva, nella redazione di poesie particolarmente estese, ad esempio in A Ernesto Mereu e Alberto La Marmora. Anche quest’uso metrico del poeta tonarese ci pare un segnale di novità all’interno della produzione sarda: il solo fatto che prevalga il sonetto, difatti, indica da un lato la volontà di non limitarsi a un’unica direzione, quella appunto dei versi torrados, quindi delle varie quartinas, sestas, ottavas e deghinas; dall’altro si evince il desiderio di inserirsi in una sorta di filone mediano in cui sono presenti anche le ottavas e le quartinas, utilizzate però richiamando alla mente, oltre alla tradizione locale, le letture dei modelli contemporanei della poesia nazionale. Il poeta cioè si colloca entro un ambito di più ampio respiro e propone temi nuovi, legati ad influenze derivanti dal realismo minore, come appunto dimostra la massiccia presenza dei sonetti, «forme metriche privilegiate in cui i dialettali veristi calano le loro istantanee del mondo popolare»,4 rispetto a una più aulica produzione locale. A noi pare che questa libertà nello stare a cavaliere fra due mondi ed assorbire da essi non solo temi ma anche strutture formali, costituisca una delle formule vincenti della poesia di Peppino Mereu, autore colto e consapevole delle proprie scelte nonostante la giovane età, che si distingue nettamente sull’asse dell’innovazione rispetto ai suoi predecessori. Ricordiamo inoltre che il sonetto è il metro tipico dei componimenti che “rifanno” la parlata del dialettofono che tenta, in determinate situazioni diastraticamente marcate, di imbastire discorsi in un improbabile italiano (cfr. la “Prefazione”, pp. 22-44). Amore Solferino! Aritzo Studente S’orfana pedit pane Addio a Nuoro Unu ballu in maschera Sa teracca mia A Ernesto Mereu In Conziliatura Su socialista a una bigotta [I] [II] S’isveglia Unu bandu Su canarinu de su rettore Alberto La Marmora [I], [III], [IV] [II] S’ambulante tonaresu Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu Sas giarrettieras A un’illusa ABBA ABBA ABAB ABBA ABAB ABAB ABAB ABBA ABAB ABBA ABBA ABBA ABBA ABAB ABBA ABBA ABAB ABBA ABAB ABAB ABBA ABBA ABBA ABAB ABBA ABAB BABA ABAB ABBA ABAB ABBA ABBA ABBA ABBA ABBA ABBA ABBA ABAB ABAB BABA ABAB ABBA CDC DCD CDC EDE CDC CDC CDE CDE CDC DCD CDC DCD CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDC DCD CDE CDE CDE CDE CDC DCD CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDE CDC DCD 4. F. Brevini, La poesia in dialetto, tomo 2, Milano, Mondadori, 1999, p. 2866. OTTAVAS Numerose sono le ottavas (sette componimenti + una ottava mutila fra le liriche “dubbie” [A Peppe Cappai] + otto fra i polimetri). Si tratta di strofe di otto versi, in prevalenza endecasillabi, che l’autore utilizza sempre nella forma serrada, ossia con un distico finale a rima baciata che dovrebbe costituire sa serrada = ‘la chiusura’ appunto, e che conclude ogni strofa, oppure in lira serrada, con endecasillabi e settenari alternati che si rincorrono fino alla chiusa della strofa, costituita da un distico a rima baciata, sempre secondo lo schema 7/11 (cinque occorrenze). Fanno eccezione le ottave [IV] e [V] di Risposta amorosa, secondo l’edizione Della Torre dell’82, qui utilizzata come testo di riferimento (cfr. i “Componimenti polimetri”). 86 87 Classificazione metrica OTTAVAS SERRADAS Dae una losa ismentigada W… Sa bottiglia A su tianesu Cunfessende Ottava Mauru Zucca ABABABCC ABABABCC ABBAABCC ABABABCC ABABABCC ABBAABCC ABABABCC A Peppe Cappai: resta di questo componimento una quartina probabilmente mutila dei quattro versi finali con schema ABAB, con indicazione di lacuna data da T, il testimone che lo tramanda. OTTAVAS LIRAS SERRADAS A Tonara Galusè A Eugeniu Unale [II] A signorina S… Turmentos aBaBaBcC aBaBaBcC abCabCdD aaBccBdD aBaBaBcC TERZINE Questo metro ricorre sovente nell’opera mereiana (dodici componimenti) e in genere è utilizzato per liriche estese e, talvolta, a sfondo biografico e di carattere gnomico o satirico, ad esempio in A Eugeniu Unale [I] e A Nanni Sulis [II], sorta di epistole poetiche. Si noti inoltre la misura dei versi delle terzine di Litanias maggiores, in cui i consueti endecasillabi sono alternati ai settenari secondo lo schema abA, come segnalato da Andrea Deplano.5 Non manca tuttavia la satira, sovente legata a questo metro, che giunge fino agli estremi dell’invettiva comicamente oscena di Minca maccaca e alla parodia del verbale redatto in italiano dai carabinieri Bertolini e Unale (Piazzaforte di Orune). Si può dire 5. A. Deplano, Rimas, Cagliari, Artigianarte, 1997, p. 51. 88 che un così massiccio utilizzo di questo metro non si riscontra fra i poeti sardi prima di Mereu, il quale, tuttavia, può averlo apprezzato da molteplici fonti, ad esempio lo stesso Giusti. ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY abA bcB deD… yzy Z ABA ACB CDC… YZY ABA ACB CDC… YZY Adultera A Juanne Sulis A Eugeniu Unale [I] A Nanni Sulis [II] Su minestrone A Signor Tanu Anima niedda Minca maccaca Piazzaforte di Orune Litanias maggiores A una violetta sicca Su testamentu Z Z Z Z Z Z Z Z Z Z Z COMPONIMENTI POLIMETRI Si tratta di liriche nelle quali varia consapevolmente la struttura strofica e, di volta in volta, la misura del verso. Questa commistione di metri diversi non è diffusa nella produzione poetica regionale che precede Peppino Mereu ed è dovuta, ci sembra, a quella che, con formula felice, Duilio Caocci definisce «insubordinazione nei confronti delle forme metriche … analoga all’insofferenza nei confronti dei generi “poetici” tradizionali».6 Fra l’altro queste variazioni di strofa e metro non costituiscono una piccola parentesi (dieci occorrenze) e comprendono, per lo più, combinazioni di sonetti + ottavas (Moribunda, A Genesio Lamberti) e quartine di metri diversi, ad esempio quinari + endecasillabi (Lamentos d’unu nobile) oppure di quartine di endecasillabi + ottavas (K…, Y…). 6. D. Caocci, “La poetica del controcanto di Peppino Mereu”, in Portales, a. I, n. 1, agosto 2001, p. 104. 89 Classificazione metrica K… è fatta rientrare fra i polimetri in quanto alla quartina di endecasillabi iniziale, una sorta di pesada introduttiva, non corrisponde alcuna torrada dal punto di vista metrico. Ciò per quanto riguarda le fonti dirette. Nelle raccolte Coll., come in T, si presentano fra le liriche reperite da fonti indirette strutture strofiche e variazioni metriche assai più azzardate, nelle quali cioè la libertà nel combinare strofe e metri aumenta in maniera esponenziale. Non pare ingiustificato a questo punto pensare a un “degrado” derivante dalla memorizzazione e riproduzione orale di liriche poi sistemate secondo una struttura che è parsa plausibile ma non sempre corretta (rimandiamo alla “Nota al testo” per le difformità metriche riscontrate nel presente lavoro fra i vari testimoni). Tuttavia non è da escludersi a priori che nella produzione meno “sorvegliata” o improvvisata, il poeta si sia lasciato andare ad uno sperimentalismo maggiore, pur se restiamo convinti della necessità di una rivalutazione delle fonti indirette per valutarne l’attendibilità anche, ma non solo, a fini metrici. Un cenno a parte merita Serenada, vista l’irregolarità che contraddistingue il componimento. Difatti le due raccolte Della Torre presentano una suddivisione 12 + 4 + 4, che a noi pare assai improbabile, mentre C dà quattro quartine e T una strofa unica di venti versi. La soluzione proposta da C sembra plausibile, ma si è qui preferita una scansione 4 + 8 + 8 (cfr. sotto lo schema), in quanto più diffusa rispetto al modello di quartinas torradas con rima incrociata che propone C.7 In questo caso utilizziamo il termine torrau per indicare la corrispondenza rimica fra l’ultimo verso di ogni quartina e il primo della successiva, come anche, secondo la nostra suddivisione, fra il primo verso della quartina e la prima ottava e fra l’ultimo verso di questa e il primo della seconda ottava, nella quale, infine, rimano anche il verso incipitario e quello di chiusura. Tuttavia anche la nostra scansione metrica è da prendersi col beneficio del dubbio. 7. Per le ottavas torradas di ottonari con schema abbccdde // e … cfr. ad es. Satira di A.D. Migheli, in Sa briga cit., pp. 143-151. 90 Quanto alle possibili origini dei polimetri mereiani, ci sembra opportuno rimandare a Giuseppe Giusti e a liriche estese del poeta toscano quali La vestizione o Gingillino ad esempio. Quest’ultima poesia è dedicata al patriota napoletano Alessandro Poerio e costituisce una satira feroce nei confronti della burocrazia e dell’arrivismo in essa imperante. A livello metrico Giusti si muove, in un continuo e frenetico variare, fra terzine, quartine, sestine, ottave, con metri che spaziano dal quinario all’endecasillabo. Nella poesia sarda dialettale non ci è dato trovare una simile ricerca di variatio metrica precedente a Mereu. Moribunda [I], [II], [IV] [III] Lamentos d’unu nobile A Genesio Lamberti [I], [II], [III], [IV] Sonetti con schema ABAB ABAB CDE CDE 12 strofe in ottava lira serrada con schema abCabCdD 34 quartine di quinari con schema abcb + 12 quartine con schema ABa7B 27 ottavas liras serradas con schema abCabCdD [V] Sonetto con schema ABAB BABA CDE CDE [VI] Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE Agonia Una ottava lira serrada con schema abCabCdD + 17 quartine con schema ABa7B K… Una quartina con schema ABAB + 6 ottavas liras serradas con schema aaBaaBcC 91 Classificazione metrica Y… 4 quartine con schema ABa7B + una quartina col primo e il terzo verso parzialmente mutili e una quartina mancante dei primi 2 versi (gli ultimi 2 a rima baciata) + 2 ottavas liras serradas (la prima mutila del distico finale) con schema abCabCdD Signora maestra Una strofa unica di 35 versi con schema a 6a 6Bc 6c 6Bd 6d 6d 6d 6EEf 6f 6 f6f6GGh6h6i6i6LLm6m6n6n3o6o4p6p4q 6q 4r 6R + una quartina finale con schema SSTT Proposta amorosa8 Una strofa unica di 29 endecasillabi e settenari con schema aABBCC DdEEFggFhHiilmmLnNoOPPQQ Risposta amorosa Una strofa unica di 16 endecasillabi e settenari con schema aAbb ccddEEFFGghh + 2 deghinas con schema IILLMMNNOO e PPQQ RRSSTT + una quartina finale con schema u7UVV Serenada Una quartina iniziale di ottonari con schema abba + 2 ottavas torradas di ottonari, di cui la prima con schema accddeef, la seconda con schema fgghhiif QUARTINAS Questo metro, assai frequente nella poesia sarda, è a dire il vero poco utilizzato dal nostro poeta nelle formule abituali in endecasillabi, ottonari e settenari (due occorrenze + cinque fra i polimetri). Generalmente Mereu predilige l’alternanza di versi lunghi e brevi alla misura unica (cfr. le diciassette quartine con schema Ab7a7B di Agonia). La novità nell’ambito dell’utilizzo di questa struttura strofica nella poesia sarda di produzione scritta è costituita principalmente dalle quartinas di quinari della celebre A Nanni Sulis e di Lamentos d’unu nobile, componimento inserito fra i polimetri che ci ricorda, per l’uso delle formule latine (ad esempio «in diebus illis», v. 5) e per la satira contro la laudatio temporis acti, il Giusti di Preterito più che perfetto del verbo “pensare”, nelle cui quartine di quinari si trovano tali formule appunto, legate al mondo “preterito” ironicamente invocato, come «In illo tempore» (v. 17), «Nihil de principe / Parum de reo» (vv. 23-24) ecc. Inoltre è presente la figura dell’esattore («Il messo e l’èstimo / pareggia tutti»), che anche nella lirica di Mereu appone i sigilli ad ogni cosa che gli capiti a tiro, senza alcuna remora nei confronti del titolo nobiliare.9 Questo metro è certamente ispirato a Mereu dal poeta toscano sia per il tono, sia per la forte cadenza che si deve alle rime sdrucciole. In più Mereu fa rimare solamente il secondo e il quarto verso in A Nanni Sulis [I] e in Lamentos d’unu nobile, come spesso fa il suo modello. Il quinario è utilizzato in Sardegna, in alternanza ad altri metri più lunghi (spesso settenari e ottonari), principalmente nei gosos e nella poesia religiosa in genere, talvolta in quartine. Si legga a tal proposito la strofa iniziale della Laude a su verbu eternu pro s’incarnatione, et temporale natividade sua riportata da Madau ne Le armonie de’ Sardi: «Laudemus su Creadore, / Creaturas, chi vivímus, / Semus, & nos movímus / Pro gratia sua».10 Qui lo schema è a7b7b7a5. Tuttavia nel caso di Mereu si tratta d’influsso nettamente giustiano, come detto. 8. Questa e la lirica successiva appaiono fra i polimetri dato che essi, pur suddivisi nel titolo da Coll., in realtà costituiscono due parti del medesimo componimento. 9. Le citazioni sono tratte da G. Giusti, Poesie, a cura di N. Sabbatucci, vol. I, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 68. 10. M. Madau, Le armonie cit. Cito qui dall’edizione a cura di C. Lavinio, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 126. 92 93 Classificazione metrica A Nanni Sulis [I] X… abcb ABa7B STROFE DI UNDICI VERSI Questa struttura strofica, comparsa per la prima volta nell’opera di Luca Cubeddu, secondo lo spoglio effettuato da Andrea Deplano,11 quasi sempre prevede l’alternarsi di settenari ed endecasillabi e, nel caso di Mereu, conserva lo schema rimico più diffuso nei cinque componimenti che la attestano, la cui varietà tematica non consente però di individuare un legame ben preciso fra metro e tema. Consizos a unu amigu A Paolo Hardy Non ti poto amare A Nanni Sulis [Anepigrafa] abCabCddCeE abCabCddCeE abCabCddCeE abCabCddCeE abCabCddCeE SESTA Questa struttura strofica, diffusissima nella poesia sarda presso autori quali Cubeddu, Murenu, Mossa e altri, è utilizzata dal poeta tonarese per un solo componimento nella forma in lira serrada, ossia con alternanza fra endecasillabi e settenari e con gli ultimi due versi a rima baciata. Netta appare quindi la predilezione del metro “concorrente”, l’ottava appunto, spesso utilizzato dai poeti improvvisatori, assieme alla sesta, nella forma torrada, ossia con l’ultimo verso a rima fissa che riprende una delle rime della pesada, costituita generalmente da quattro versi a rima incrociata che dettano il tema del componimento. Solitamente sa torrada si trova al termine dell’ultima strofa e consiste nella ripetizione, a mo’ di congedo, della pesada. Tale struttura, che si può far rientrare all’interno di una categoria generale di ripetizione del 11. A. Deplano, Rimas cit., p. 90. 94 verso tipica della poesia sarda, è trascurata da Mereu, per lo meno nella produzione a noi giunta. ABaBcC Imbasciada DEGHINA Anche questo metro è tipico e assai diffuso fra i poeti sardi più noti, con diverse varianti e, spesso, nella forma glosa o glossa, a seconda che si adotti la pronuncia spagnola (il metro è d’importazione iberica) o quella assimilata alla fonesi sarda. Nella forma semplice essa è composta generalmente di endecasillabi variamente rimati. Tuttavia è ben raro che si trovi questo metro privo di pesada sul modello della corrispondente ottava.12 La deghina glossa, che rientra fra i metri torrados è, a conferma di quanto detto in precedenza, assente in Mereu e assai diffusa fra i poeti più noti. Essa consiste, in breve, in una pesada tetrastica cui seguono altrettante strofe di dieci versi, generalmente ottonari. Si ha, inoltre, la ripresa della rima di un verso della pesada in sesta e settima posizione di ciascuna strofa, nonché la ripetizione dell’intero verso in chiusura di ognuna delle quattro strofe.13 Mereu utilizza la deghina assai di rado (una occorrenza + due strofe in Risposta amorosa [cfr. “Componimenti polimetri”]). Questa struttura metrica non ricorre nella princeps, probabilmente per il discorso relativo alla selezione metrica, oltre che tematica, delle liriche. ABABABACAC Titti tittia 12. Lo stesso Deplano, Rimas cit., p. 91, riporta una deghina priva di pesada di Luca Cubeddu, collocata nella sezione dei “Versi improvvisati” e, perciò, di dubbia attribuzione, come del resto il componimento attribuito a Mereu. Per Cubeddu si veda la “Nota all’edizione” in L. Cubeddu, Cantones e versos, a cura di S. Tola, introduzione di M. Pira, Cagliari, Della Torre, 1995, p. 40. 13. Rimandiamo per un quadro esplicativo ad A. Deplano, Rimas cit., pp. 116-118. Da non trascurare è però la spiegazione fornita da M. Madau, Le armonie cit., pp. 67-68 e pp. 168-197, per alcune interessanti esemplificazioni fornitevi dal gesuita ozierese. 95 Classificazione metrica STROFA DI QUINDICI VERSI Questa struttura sarebbe stata utilizzata da Mereu in abbinamento con l’ottonario in una poesia che, per giunta, è presente in un solo testimone, T, sulla cui autorità abbiamo già espresso più d’un dubbio. Difatti Aspettos sembrerebbe un rifacimento decisamente “facile” basato sul filone misogino ben presente nella tradizione lirica sarda e che il poeta ha altrove mostrato di trovare congeniale, ad esempio in A Signorina S… Ovviamente il componimento sarebbe suddivisibile anche secondo altre combinazioni strofiche, ad esempio in una strofa di 9 + 6, oppure 11 + 4, tuttavia preferiamo darlo a testo secondo la scansione a strofa unica data dal testimone, evitando così forzature di sorta. Si noti che il verso incipitario e quello finale rimano fra loro. Giusti (cfr. Legge penale degli impiegati) o da Stecchetti (cfr. Postuma XX, in L. Stecchetti, Le rime, Bologna, Zanichelli, 1903). ABAb7 Caresima STROFA SAFFICA Questo metro di derivazione classica, originariamente formato da tre saffici minori + un adonio, è stato ampiamente ripreso nella poesia italiana e generalmente reso con tre endecasillabi + un quinario a rima alterna (ABAb5), oppure, come accade nell’uso mereiano, da tre endecasillabi + un settenario, sempre a rima alterna. Quest’ultima struttura si trova in Monti, Fantoni e Manzoni,14 ma probabilmente Mereu la mutua dal MUTOS I componimenti caratterizzati da questa denominazione sono tipici del centro-nord dell’Isola e si suddividono in isterria e torrada: nell’isterria i versi non devono rimare fra loro, in quanto le rime saranno soddisfatte dalla torrada. L’isterria è composta da un numero variabile di versi, da due a otto generalmente, e la torrada, attraverso la ripetizione progressiva di ognuno dei versi, disposti in ordine sempre diverso, dell’isterria e delle cambas (‘strofe’) successive, dà origine a un numero di cambas pari ai versi dell’isterria. Generalmente ogni camba consta di un verso in più rispetto all’isterria. Infine è tipica di questa struttura poetica la presenza di versi trobeados o troboiados, ossia ‘varianti’, che consistono in una variazione dell’ordine sintattico o nella sostituzione dell’ultima parola del verso, così da intessere complessi giochi di rime e da disporre di infinite possibilità rimiche, senza dover necessariamente reperire nuovi versi e nuovi concetti, fino all’esaurimento delle rime aperte dall’isterria o dalla camba precedente.15 I mutos sono forme poetiche tipicamente legate 14. Cfr. P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 20024, pp. 355-356. A. Deplano, Rimas cit., p. 56, dice a proposito della quartina: «Esistono tante altre possibilità di diversificazione del ritmo, basta sostituire un verso della quartina con metro differente dai restanti tre, come nei giochi proposti da Peppinu Mereu» e cita quale secondo esempio di quartina i primi quattro versi di Caresima. La strofa saffica è composta di quattro versi come la quartina, ma la sua derivazione non è certo sarda. A p. 57 lo studioso afferma, a nostro parere con ragione, che «Peppinu Mereu conosceva quella poesia di tipo religioso che l’abate Matteo Madau ci indicava come Laudes, in cui il verso di più breve durata racchiudeva il messaggio della dottrina cristiana». Tuttavia, vuoi per la lunghezza del metro (l’endecasillabo non era presente in questi componimenti) vuoi per la sua conoscenza non superficiale della poesia italiana, Mereu avrà adottato consciamente la strofa saffica – assai utilizzata, col più tradizionale quinario ma anche col settenario, come si è visto, dal Giusti ad esempio –, e non una quartina variata con “giochi” metrici, che sarebbe tutt’altra cosa. Semmai la scelta del settenario in luogo del quinario quale verso breve potrebbe avere anche cause “endogene”, ossia l’utilizzo di una sorta di saffica in lira particolarmente congeniale al poeta. Tuttavia simili ipotesi esulano da una disamina filologicamente fondata sulle forme metriche adottate da Mereu. 15. Per un’approfondita disamina di questa forma poetica rimandiamo ad A.M. Cirese, Struttura e origine cit. 96 97 Aspettos abacddcceeffgga all’oralità, a quella poesia tradizionale ripartita in pesada e torrada che, come abbiamo visto, è esclusa dalla silloge poi fatta pubblicare dal Sulis. Quindi il mutu tràdito da T, se realmente eseguito dall’autore, farebbe parte del territorio poetico legato all’improvvisazione e recuperato felicemente attraverso fonti orali. Tuttavia esso sa di artificioso, di culto, di taulinu quindi. Sembra uno degli eleganti mutos di Montanaru insomma, tutt’altro che improvvisati o popolari. Non vi sono, d’altronde, elementi sufficienti per espungerlo. Come si noterà, esso sviluppa solamente la prima camba. Infine i numeri in apice ai versi della torrada, tutti settenari, come di regola in questi componimenti, indicano la corrispondenza con i rispettivi versi dell’isterria, anch’essa in settenari. Muttu isterria torrada 98 abcdef ae1f1c1b1a1d1 POESIAS Cortese Lettore, Sedotto dalla dolce melodia de’ versi che mi è grato presentarti, e facendomi forte della calda amicizia che mi lega a colui che li dettò, mi son permesso – senza chiedergliene l’autorizzazione – di consegnarli alla stampa, anche a rischio di dover pagare il fio della mia audacia. L’Autore – senza dubbio – si lagnerà meco della soperchieria: ma che ci fare adesso? Post factum nullum consilium. Se, quindi, questi versi risentono qua e là di certo neglige, se ad essi fan difetto il labor et mora tanto raccomandato dal divino Orazio e tanto necessario al felice successo di un’opera qualsiasi, la colpa è tutta mia: e, pubblicamente, ne faccio onorevole ammenda. Dopo tutto soltanto i pedanti e i critici schizzinosi potranno trovare, in questo volume di versi, la grafomania dell’insensato: io però ho creduto non fosse privo d’interesse far conoscere al popolo sardo le prime manifestazioni giovanili del pensiero e del cuore di Giuseppe Mereu – giovane d’ingegno vivace e proteiforme – dell’alpestre Tonara, il quale, nella melanconica solitudine della vaga campagna, coltiva, con entusiasmo, le muse; rivelandosi, fin d’ora, fra le giovani forti speranze della poesia dialettale, a carattere eminentemente soggettivo. E dico a carattere eminentemente soggettivo, poiché, sia che egli decanti le bellezze della sua patria, sia che sciolga un canto ad una giovinetta defunta, o porti i saluti all’amico lontano, vi trasfonde sempre ne’ versi tutta la grande amarezza dell’anima sua, profondamente addolorata, ma ricca di nobili ed elevati sentimenti. A me – amico ed ammiratore del poeta – non spetterebbe di metterne in evidenza i pregi; ma chi può mai rimanere indifferente dinanzi ad un giovane intelletto che dà di sè forte promessa di più sicuro avvenire? Certamente se, la facilità, che ammirasi in tutti i suoi poetici componimenti, la forma, a volte, poco corretta e la inspirazione intemperata, attenuano il valore de’ suoi versi considerati isolatamente, aumentano – di gran lunga – quelli del poeta; poiché è sicura prova 101 POESIAS che, il Mereu, quando scrive, si abbandona – senza ritegno – agli affetti che agitano l’infelice suo spirito. «In Giuseppe Mereu, come il pensiero nasce dal sentimento e non è altro che questo sentimento riflesso nell’immaginazione, così la forma nasce dal pensiero ed è il pensiero riflesso tal qual’è in un mondo esteriore». Questo ci spiega la sua natura altamente poetica e gli argomenti che imprese a trattare; giacché egli ha sortito da natura una spiccatissima tendenza alla poesia; tendenza che estrinseca – in mille modi – con una facilità di espressione veramente ammirabile e con una abbondanza e varietà di armonie che gli frullano in testa e gli titillano l’orecchio. Onnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos Ut nunquam inducant animum cantare rogati, Iniussi nunquam desistant. Sardus babedat Ille Tigellius hoc. E dette queste poche parole invito il compiacente lettore che mi ha seguito fin qui – a fare un’amorosa lettura de’ versi di Giuseppe Mereu – di questo caro e simpatico giovane, che agli albori della nuova età si schiude qual modesto fiore; dimostrando talento di artista, intelletto d’amore e cuor di cittadino. Ancora una parola, e basta. Non pago di aver tenuto il presente volume, al fonte battesimale, mi sono anche fatto ardito di apporvi qualche nota, nella dolce lusinga di rischiarare alcuni punti. Avrò raggiunto lo scopo? A te, benevolo lettore, la risposta. Tonara, 30 agosto 1897. Giovanni Sulis Laureando in Medicina Tale è pure Giuseppe Mereu; il quale si nega sempre a cantare tra gli amici e una volta cominciato non la smette più. Giovane d’anni, ma ricco d’espedienza, ha il senso del presente, ed intende ciò che risponde all’anima popolare; e quest’anima – così in una sfuriata alla nobilea, come in una tirata contro certi farisei del nostro tempo – sbolla fuor da ogni sua frase. Malgrado, però, il suo disgusto universale, il Mereu, talvolta giuoca, ride, schernisce; ma questo riso non è gaio e schietto, ma questo giuoco non è scherzo, ma scherno; c’è in esso un profondo senso di amarezza; sotto la maschera stillano goccie di sangue. Il Mereu è, a suo modo, anche umorista: persone vedute appena, anedotti colti a volo entrano nel suo cervello per non più uscirne e si trasformano, pigliando le più squisite figure grottesche. Ma lo spirito motteggevole ed arguto, l’allegrezza canzonatoria, di cui talvolta il suo spirito sembra pascersi, non è che apparente, e sono nient’altro che ingannevoli artifizi, a cui, egli, talvolta ricorre, per coprire le malinconie profonde che aleggiano nell’anima sua scombuiata e ferita. 102 103 DAE UNA LOSA ISMENTIGADA 5 10 15 20 25 30 Non sias ingrata, no, para sos passos, o giovana ch’in vid’happ’istimadu. Lassa sas allegrias e ispassos e pensa chi so inoghe sepultadu. Vermes ischivos si sunt fattos rassos de cuddos ojos chi tantu has miradu. Para, par’un’istant’, e tene cura de cust’ismentigada sepoltura. A ti nd’ammentas, cando chi vivia passaimis ridend’oras interas? Como happ’una trista cumpagnia de ossos e de testas cadaveras, fin’a mortu mi faghet pauria su tremendu silenzi’ ’e sas osseras. E tue non ti dignas un’istante de pensare ch’inog’has un’amante! Ben’a’ custas osseras, cun anneos, si non est falsu su chi mi giuraist, e pensa chi bi sunt sos ossos meos, sos ossos de su corpus ch’istimaist; fattos in pruer, non pius intreos coment’ ’e cand’a biu l’abbrazzaist. Non pius agattas sas formas antigas, ca so pastu de vermes e formigas. Bae, ma cando ses dormind’a lettu una ’oghe ti dèt benner in su bentu, su coro t’hat a tremer in su pettu a’ cussa trista boghe de lamentu chi t’hat a narrer: «Custu fit s’affettu, custu fit su solenne juramentu?». 105 POESIAS Inoghe non ti firmas, lestra passas, e a’ custa trista rughe non t’abbassas. 35 40 Cando passas inoghe pass’umile; t’imponzat custa pedra su rispettu, ca so mortu pro te anima vile, privu de isperanz’e de affettu. Dae custa fritta losa unu gentile fiore sega e ponedil’in pettu, pro c’ammentes comente t’happ’amadu, già chi tue ti l’has ismentigadu. AMORE Beni, dammi sa manu, isfortunadu, tue ses dignu de s’istima mia: lottend’in dunu mar’ ’e angustia custu virgine cor’has meritadu. 5 Camposanto di Cagliari, 2 nov. 1891. 10 DA UNA TOMBA DIMENTICATA Non essere ingrata, no, ferma i passi, / o giovane che in vita ho amato. / Lascia le gioie e gli spassi / e pensa che sono qui sepolto. / Vermi schifosi sono diventati grassi / con quegli occhi che tanto hai guardato. / Ferma, fermati un istante, e abbi cura / di questa dimenticata sepoltura. // Ti ricordi che, quand’ero vivo, / passavamo ore intere a ridere? / Ora ho una triste compagnia / di ossa e di teschi, / perfino da morto mi fa paura / il tremendo silenzio degli ossari. / E tu non ti degni un istante / di pensare che qui hai un amante! // Vieni a questi ossari, con tristezza, / se non è falso ciò che mi giurasti, / e pensa che ci sono le mie ossa, / le ossa del corpo che amasti; / ridotte in polvere, non più integre, / come quando da vivo l’abbracciavi. / Non più trovi le forme antiche, / perché sono pasto di vermi e formiche. // Vai, ma quando dormi nel tuo letto / una voce ti giungerà col vento, / il cuore ti tremerà nel petto / a quella triste voce di lamento / che ti dirà: «Questo era l’affetto, / questo era il solenne giuramento?». / Qui non ti fermi, lesta passi, / e a questa triste croce non t’abbassi. // Quando passi qui, passa umile; / questa pietra t’imponga il rispetto, / perché sono morto per te anima vile, / privo di speranza e d’affetto. / Da questa fredda tomba un gentile / fiore cogli e appuntatelo al petto, / perché ricordi come t’ho amato, / già che tu l’hai dimenticato. 106 Cantas bortas pro me has deliradu sognende cudda candida Maria, chi t’est present’a ti narrer: «Isvia su dolu, ca da ipsa ses amadu». Eo so cudda c’amas, caru fiore, c’abbandono ridente su jardinu pro ti fagher de mene possessore. Beni duncas, non vivas in pibinu, e fattend’unu sognu de amore, fritti sa test’in s’amorosu sinu. AMORE Vieni, dammi la mano, sfortunato, / tu sei degno della stima mia: / lottando in un mare d’angustia / questo vergine cuore hai meritato. // Quante volte per me hai delirato / sognando quella candida Maria, / che sta qui per dirti: «Allontana / il dolore, perché da lei sei amato». // Io son colei che ami, caro fiore, / io che abbandono sorridente il giardino / per farti di me possessore. // Vieni dunque, non vivere nel lamento, / e facendo un sogno d’amore / china la testa sull’amoroso seno. 107 POESIAS ADULTERA 35 5 10 15 20 25 30 A cosa ses torrada, poveritta! has in laras funest’unu signale; «Adultera!» ti gridat un’iscritta foza de sa corona nuziale, sa virtude ti gridat: «Faghe pasu, cando ti tentat respinghe su male». Tue, perversa, no nde faghes casu, sas laras corallinas e’ su sinu nudu espones a s’infame basu. Inespert’has sighid’unu destinu de fangh’e infangad’a faccia manna, has postu terras santas a camminu. Semper frundida t’ ’ident in sa janna inoperosa cunfort’e ruina de sos macacos ch’isfozant sa canna. De mangara t’has fatt’una cortina a su pallidu vis’attripunzidu, pro cumparrer sa carre purpurina. Dae cand’has lassadu su maridu chi sa sorte t’hat dadu, cun dilettu, nara, cantos amantes has rezzidu? Profanad’has sa dom’e’ su lettu in su cale leggittim’un’isposu ardentes basos t’hat depost’in pettu. Pro te non vivet coro piedosu chi ti consizet: «Faghes mal’a tie cun s’operare tou iscandalosu». Pallida t’hant a bider unu die, suspirende, cun lagrimas a chizu, sa fida chi ti colas de gosie. Si su destinu ti dàt unu fizu, de chi est fruttu mai podes narrer, 108 40 45 50 55 60 65 pro c’hat haer de medas s’assimbizu. Mischinedda! It’est chi ti dènt parrer sos ispasimos maccos d’una Frine chi disonesta ti faghent cumparrer? Su lumen’e’ sa manu d’un omine has azzettad’e a s’onore sou e a su tou signad’has sa fine. Bisonzu chi nascheras dae nou pro bi durar’onestu su giudissiu, in sa testa c’has fragile che ou. Mischina! Non t’abbizas chi su vissiu t’est iscavend’in sa giovan’edade un’orroros’e feu prezipissiu? Da chi ses rut’in sa disonestade su visu to’est che unu cartellu chi a sos passizzeris nât: «Intrade». Su signal’infamant’ ’e su burdellu t’hat in laras sa purpura distructu, mancari bi la passes a pinzellu. Ses cal’un’arvuredda chi su fructu isquisitu, senza esser cumpridu, dae su ram’a su fangu ch’est ructu. Pens’e rifletti c’has unu maridu chi pro te fuit su consorzi’umanu, pensend’a tantos males; avvilidu. Fist che giardin’in continu ’eranu tott’induna però proadu hasa s’ira d’unu terribil’uraganu. Fist bella, ruja cale cariasa, com’abbrutida: s’aperit sa losa pro seppellire sa peta carasa. Sa ’ucc’haiast che buton’ ’e rosa, basada solamente cun amore da una mamma bon’e amurosa. Ses cale profumad’unu fiore, chi, pro sa forz’ ’e l’haer giust’in sinu 109 POESIAS 70 75 hat perdidu profumos e colore. Mischina! Ses passada in su camminu pienu de sa bruttura maladitta, chi t’hat giutu a finir’a su trainu! Unu burdu suendedi sa titta ti bio gia’, pro ischern’e collunu, in fronte giughet fatal’un’iscritta, chi narat: «Fizu so de su Comunu». 110 ADULTERA A cosa sei ridotta, poveretta! / hai nelle labbra un funesto segnale; / «Adultera!» ti grida una scritta // foglia della corona nuziale, / la virtù ti grida: «Fermati, / quando ti tenta, respingi il male». // Tu, perversa, non ci fai caso, / le labbra coralline e il seno / nudo esponi all’infame bacio. // Inesperta hai seguito un destino / di fango e infangata con faccia tosta / hai ridotto a uno stradone luoghi sacri. // Ti vedono sempre buttata sulla porta / inoperosa, conforto e rovina / degli stolti che si “sfogliano” la canna. // Di sinòpia ti sei stesa una cortina / sul pallido viso rugoso / perché la faccia sembri porporina. // Da quando hai lasciato il marito / che la sorte ti ha dato, con diletto, / dì, quanti amanti hai ricevuto? // Hai profanato la casa e il letto / dove un legittimo sposo / ha deposto ardenti baci nel tuo petto. // Per te non vive cuore pietoso / che ti consigli: «Fai male a te stessa, / col tuo fare scandaloso». // Ti vedranno pallida un giorno, / sospirando, con le lacrime agli occhi, / la vita che conduci in questo modo. // Se il destino ti dà un figlio, / mai potrai dire di chi sia frutto, / perché di molti avrà le sembianze. // Poverina! Cosa mai ti sembreranno / i pazzi spasimi di una Frine / che ti fanno apparire disonesta? // Il nome e la mano d’un uomo / hai accettato e all’onore suo / e al tuo hai posto fine. // Dovresti nascere di nuovo / perché possa durare onesto il giudizio / nella testa che hai fragile come un uovo. // Poverina! Non t’accorgi che il vizio / ti sta scavando nella giovane età / un mostruoso e orribile precipizio? // Da quando sei caduta nella disonestà / il tuo viso è come un cartello / che dice ai passanti: «Entrate». // Il segnale infamante del bordello / la porpora delle labbra t’ha distrutto, / anche se la ripassi col pennello. // Sei come un alberello il cui il frutto / squisito, senza esser maturo, / dal ramo al fango è caduto. // Pensa e rifletti che hai un marito / che rifugge per te il consorzio umano, / pensando a tanti mali; avvilito. // Eri come un giardino in perpetua primavera, / d’un colpo però hai provato / l’ira di un terribile uragano. // Eri bella, rossa come una ciliegia, / ora abbruttita: s’apre la tomba / per seppellire il corpo scheletrico. // Avevi la bocca come un bocciolo di rosa, / baciata solamente con amore / da una madre buona e affettuosa. // Sei come un profumato fiore, / che, a forza di appuntarlo al petto, / ha perduto profumi e colore. // Poverina! Sei passata nella strada / piena della bruttura maledetta, / che ti ha portata a cadere nel ruscello! // Un bastardo che ti succhia il seno / ti vedo già, per scherno e irrisione / reca in fronte, fatale, una scritta, / che dice: «Sono figlio del Comune». 111 POESIAS MORIBUNDA 25 Alla Signora Angelina Charavel. I. Cale viol’amabil’e gentile, chi, priva de profumos, non fiorit, gai, stes’in su lett’e in s’abrile de sa vida, una fiza mia morit. 5 10 torra, non ti cumbincana sas graves penas chi t’hant sos risos consumidu, ma donosa, ridente e fiorida, rend’a su lizu tou sas suaves isperanzas d’amore c’hat perdidu. Est pallid’e fattu fattu sa febbrile manu mi tendet, ma no mi favorit d’unu sorrisu, ca sa Parca vile de tenebras sa cara li colorit. In s’ultimu sarragh’ ’e s’agonia l’intendo murmurare: «Mamma faghe coraggiu, a tantu dolu sias forte». Ma no ischit però ch’in domo mia b’est messende sa vid’e’ sa paghe sa falch’inesorabil’ ’e sa morte. 15 20 II. O fiza, prite moris in s’istante in su cale unu lizu de amore si presentat a tie supplicante a ti pedir’unu risu, unu fiore? Non molzas, torra bell’inebriante in vid’a canzellare su dolore dae su coro chi t’amat: sa brillante trista falche, respinghe cun orrore. A sos dulches profumos de sa vida 112 113 POESIAS 30 35 40 45 50 55 60 III. Frobide su piantu, zesset ajò, su tediu chi mi zircundat cun bois in su lettu. Solu su campusantu est s’unicu rimediu pro calmare su fogu ch’in su pettu lentu m’est consuminde, como chi amore vida m’est pedinde. In su libr’ ’e sa vida iscrittu dae ora, b’hat una man’a caratteres mannos: «Dès morrer consumida senza toccar’ancora sa vird’edad’ ’e sos degheott’annos». Sa trista profezia s’avverat, prestu ti lasso mamma mia. Cussa candel’ardente mamma, prit’est chi l’hasa post’in pees a sa virgine Maria? L’has post’inutilmente, deo ti lasso, crasa, consumada sa chera, s’agonia sonat pro sa consunta fiza, chi dae como ’ides defunta. Fra brev’eo m’assento morta da custa domo, dulche nid’ ’e sa mia pizzinnia, e su lassare sento a tie sola, como chi de me nd’has bisonzu, mamma mia. Est custu pensamentu chi mi creschet in coro su turmentu. 114 65 70 75 80 85 90 Prim’ ’e mi seppellire tue mamm’amurosa, ti pregh’e chelz’in cust’una promissa, ponemi su bestire biancu de isposa; gai poto cumparrer in sa missa, non de s’affidu meu in terra, ma in chel’ispos’a Deu. Pustis mort’ispiare cheria sos amaros suspiros de coro tou, mamma mia; cando m’has a giamare cun sos lumenes caros chi mi dàs com’in s’ultim’agonia, zeltu chi si dèt frangher s’esistenzia tua in su piangher. E tue, giovanu pallidu e bellu, cun affettu tenes cura de me, a cale prou? Non bides? S’isquallidu iscrittu c’happ’in pettu, narat: «Custu fiore no es tou». S’anim’hat già ispaltu su ’olu, su corpus mort’ips’est in altu. It’importat piangher? si mi amas dammilu cust’ultimu cunfortu, siast forte. Forsis podes annangher custu debile filu truncadu dae sa falche de sa morte? Ajò coraggiu faghe, cunzedimi chi ridente molza in paghe. Promittimi chi vives, 115 POESIAS 95 100 olvida s’isfortuna chi como sos sorrisos ti cuntrastat. Non chelzo chi ti prives de amare, ater’una femmin’istim’, a me tantu mi bastat chi calchi ’ort’a fura preghes pagh’a sa mia sepoltura. 125 130 105 110 115 120 E cando t’est cunzessu non t’ismentighes mai chi cun deo perdid’has un’isposa; visita su zipressu ue riposo, gai mi rendes dulches sognos in sa losa. In cussa tumba mia rezit’una secret’avemaria. Sa manifide d’oro chi m’has dad’in sa losa non la sutterro, no, la torr’a tie. E ti prego, t’imploro, a un’ater’isposa la das comente dada l’has a mie. Dabil’e am’a ipsa, ses isoltu dae me d’ogni promissa. 135 IV. Mentre sa moribunda est faeddende grav’a sos coros, de cussa manera, una ’ezza pili cana, pianghende nàt a sa sufferente fiza: «Ispera». Sa muribunda rispundet: «Intende mamma, ite cos’est custa bufera ch’intendo muilare?». Est pioende e tristos lampos sulcana s’aèra. Ite nott’infernale! In s’aposentu sa disaura bi regnat sovrana: solenne intendo una pregadoria. E in sos tristos muìlos de su bentu s’intendet lamentos’una campana c’annunziat d’una rosa s’agonia. Nuoro, settembre 1894. Como, caru fiore, cust’ultimu disizu isculta, ca nd’has haer ingranzeu;1 si de un’ater’amore has haer calchi fizu, battizalu cun su tristu lumen meu, gai chi calchi ’orta ti suvvenis de me povera morta. 116 117 POESIAS MORIBONDA I. Come una viola amabile e gentile / che, priva di profumi, non dà fiore, / così, stesa sul letto e nell’aprile / della vita, una figlia mia muore. // È pallida e ogni tanto la febbricitante / mano mi tende, ma non mi favorisce / un sorriso, perché la Parca vile / le colora il volto di tenebre. // Nell’ultimo rantolo d’agonia / la sento mormorare: «Mamma, fatti / coraggio, di fronte a tanto dolore sii forte». // Ma non sa però che a casa mia / la vita e la pace sta falciando / la falce inesorabile della morte. II. O figlia, perché muori nell’istante / in cui un giglio d’amore / si presenta a te supplicante / a chiederti un sorriso, un fiore? // Non morire, torna bella inebriante / in vita a cancellare il dolore / dal cuore che ti ama: la brillante / triste falce, respingi con orrore. // Ai dolci profumi della vita / ritorna, non ti convincano le gravi / pene che t’hanno consumato i sorrisi. // Ma graziosa, ridente e fiorita, / rendi al tuo giglio le soavi / speranze d’amore che ha perduto. III. Asciugate le lacrime, / cessi, su!, il tedio / che mi circonda con voi nel letto. / Solo il camposanto / è l’unico rimedio / per calmare il fuoco che in petto / lento mi sta consumando, / ora che amore mi sta chiedendo vita. // Nel libro della vita / scritto tanto tempo fa, / c’è una scritta a grandi caratteri: / «Morirai consunta / senz’ancora aver raggiunto / la verde età dei diciott’anni». / La triste profezia / s’avvera, presto ti lascio madre mia. // Quella candela ardente / mamma, perché l’hai / deposta ai piedi della vergine Maria? / L’hai deposta inutilmente, / io ti lascio, domani, / consumata la cera, l’agonia / suona per la consunta / figlia, che già ora vedi defunta. // Fra breve vado via / morta da questa casa, / dolce nido della fanciullezza mia, / e mi spiace lasciare / te sola, ora / che hai bisogno di me, madre mia. / È questo pensiero / che mi accresce nel cuore il tormento. // Prima di seppellirmi / tu madre affettuosa, / ti prego e voglio per questo una promessa, / mettimi il vestito / bianco da sposa; / così posso presentarmi alla messa, / non delle mie nozze / in terra, ma in cielo sposa a Dio. // Dopo morta spiare / vorrei gli amari / sospiri del tuo cuore, madre mia; / quando mi chiamerai / coi nomignoli cari / che 118 mi dai ora nell’ultima agonia, / certo si dovrà infrangere / la tua esistenza nel piangere. // E tu, giovane pallido / e bello, con affetto / ti preoccupi per me, a che pro? / Non vedi? La squallida / scritta che ho nel petto, / dice: «Questo fiore non è tuo». / L’anima ha già spiccato / il volo, il corpo morto è anche lui in alto. // Cosa importa piangere? / se mi ami dammi / quest’ultimo conforto, sii forte. / Forse puoi congiungere / questo debole filo / spezzato dalla falce della morte? / Su, fatti coraggio, / concedi che sorridente muoia in pace. // Promettimi che vivi, / dimentica la sfortuna / che ora i sorrisi ti contrasta. / Non voglio che ti privi / di amare, un’altra donna / ama, a me solo basta / che qualche volta di nascosto / preghi per la pace della mia sepoltura. // E quando ti è concesso / non dimenticarti mai / che con me hai perso una sposa; / visita il cipresso / dove riposo, così / mi rendi dolci sogni nella tomba. / In quella tomba mia / recita una segreta Avemaria. // La fede d’oro / che mi hai dato, nella tomba / non la sotterro, no, la ridò a te. / E ti prego, t’imploro, / a un’altra sposa / dalla, come l’hai data a me. / Dagliela e ama lei, / ogni promessa fatta a me è sciolta. // Ora, caro fiore, / quest’ultimo desiderio / ascolta, perché ne ricaverai un premio; / se da un altro amore / avrai un figlio, / battezzalo col triste nome mio, / così che qualche volta / ti ricordi di me, povera morta. IV. Mentre la moribonda sta parlando / grave ai cuori, in quella maniera, / una vecchia dai capelli bianchi, piangendo, / dice alla sofferente figlia: «Spera». // La moribonda risponde: «Ascolta / mamma, che cos’è questa bufera / che sento mugghiare?». Sta piovendo / e tristi lampi solcano il cielo. // Che notte infernale! Nella stanza / la sciagura regna sovrana: / solenne odo una preghiera. // E nel triste mugghiare del vento / si sente una campana lamentosa / che annunzia l’agonia di una rosa. 119 POESIAS A TONARA 5 10 15 20 25 30 frittint pro gustare su nettare chi ridend’andat a mare. O gentile Tonara, terra de musas, santa e beneitta, Patria mia cara, cand’est chi b’happ’a benner in bisitta? E m’has a dare sa jara abba de Croccoledda tantu fritta?2 A cando ’ider sas nies, sas c’happo appettigadu ateras dies? Ah dura lontananzia! a sa chi m’hat sa sorte cundennadu. Mi ’enit s’arregordanzia de unu tempus ispensieradu, s’onesta comunanzia de amigos chi happo abbandonadu; mi torrat a sa mente unu tempus passadu allegramente. A’ cussu pensamentu gia’ m’abbizo de cantu happo perdìdu, e vivo cun lamentu che puzzone ch’est foras dae nidu; proende un’isgumentu chi mai happo proadu nè sentìdu. Su pensamentu ’olat a tie, terra gentile, e si consolat. Bellas, seguras roccas, chi frittas dades abbas cristallinas; filende, cun sas broccas in testa, bos bisittant sas femminas. Abbas chi sas piccioccas isprigant da chi sas laras purpurinas 120 35 40 45 50 55 60 Majestosas muntagnas fizas de su canudu Gennargentu, ch’in sas virdes campagnas sas nucciolas bos faghent ornamentu; seculares castagnas, chi supervas halzades a su bentu virdes ramos umbrosos, dulche nidu de cantos pibiosos. Semper bos sogno, vanu però est custu sognu, it’amalgura! Deo bos so lontanu, in brazzos a sa mia disaura; sent’in cor’un’arcanu sensu, si penso sol’a sa dulzura chi unu tempus godia, torrat trista s’allegra musa mia. Cando chi a sa mente cunzedo liberament’in te pensare, o Patria, prepotente mi sento su bisonz’ ’e suspirare, e una lagrim’ardente mai faghet a mancu de bagnare sas siccas laras mias, bramosas solu de abbas natias. Tue Tonara, vantas gentil’e profumadu su terrenu, in issu riccas piantas c’amorant de su chelu su serenu; magnetizzas, incantas. Pares una viola indun’amenu giardinu de incantu: eo m’inchino pro te, ses logu santu. 121 POESIAS 65 70 75 80 85 90 95 Si d’esser Cab’ ’e Susu non tenes sa pretesa macca e vana, tue vantas su fusu onestu filador’ ’e bona lana; tantu nde faghes usu chi meritas sa fama chi ti dana, d’esser’industriosa, povera ma onorad’in dogni cosa. Pro turrones famada, de sa Sardign’in sas primas fieras, faghes front’a Pattada. Cando moves a festas furisteras andas accumpagnada dae sas fentomadas caffetteras, chi totta nott’in pè dispensant a sos festantes su caffè. Dogni ann’in beranu ti mudas, ricca, d’ervas e fiores, dae su Campidanu torrant in sin’a tie sos pastores, tando ses fittianu dulche nidu de festas e amores, e tue, gentile, ispricas su gosu tou in cantos e musìcas.3 Ite fest’ite briu! Ses dae sa bassura imbidiada; sos caldos de s’istìu Cagliari fuit, un’iscampagnada si faghet a su riu Pitzirimasa, inue sa cascada4 dulchement’in sos graves crastos, falat cun murmuros suaves. De nott’in sas carrellas cando ridet sa Lun’in su lugore, 122 100 105 110 115 120 125 130 filant sas pastorellas e tessent dulches divignos de amore:5 sunt de Canente bellas6 melodias, iscultat su pastore, e dae sa muntagna distinghet su salud’ ’e sa cumpagna. Canta, canta continu, o Patria de Larent’e de Cappeddu;7 de musas ses giardinu, cara ses a Tomas’e Bacchiseddu;8 t’allegrat Aostinu,9 ca possidit bernescu su faeddu, cun sa musa brullana si mustrat dignu fiz’ ’e Pepp’Egiana. In s’attonzu s’anzone si partit volunter’a terr’istranza, su ’ent’ ’e santu Simone –10 chi tenet fama timid’e metanza –11 nd’iscudet s’ischissone: sa gioventude, collinde castanza, in sa ricca foresta tesset cantos de gioi’e de festa. Sunt boghes de cuntentu, trillos de puzzoneddu innamoradu; liricas de Larentu12 chi consolant su coro angustiadu. Eolo turbolentu13 non si mustrat pius, ma, incantadu, si faghet volunteri de gentiles profumos dispenseri. Cando frittu bennalzu ti mudat de sa sua biancura, t’iscaldit su telalzu 123 POESIAS 135 140 145 150 tessinde s’onorada filadura, mentres su ’ervegalzu t’approntat lana noa in pianura. De cuss’onesta lana nd’attestant sas calcheras de Tiana.14 165 Sa tua gioventude paret naschid’in terra nuoresa, colores e salude possidit e s’est unica in bellesa, no est pro sa virtude de sa capitta ruj’Osilesa, belles’est naturale, senza s’ingann’ ’e s’artifissiale. 170 Parent neulas fintas sas fizas tuas, caras e dilettas, chi sutta de sas chintas15 mustran tesoros de formas perfettas, e a su sinu astrintas giughene de broccadu sas palettas; cun s’insoro presenzia provocant d’unu Giobbe sa passenzia. 175 180 185 155 160 Parent madonninas de Raffaell’in sas famosas telas, non suni signorinas chi si tinghent sas laras a bandelas, ma suni montaninas bellas, friscas e sanas. Hant sas melas provocantes de sinu, sutta su velu de candidu linu. Issas parent lizos, biancas, bellas, robustas e sanas; mammas de sette fizos cumparint chi ancora sunt bajanas. 124 190 195 Isfidant sos fastizos de sa vida, e zeltas anzianas faghent narrer a fama: «Est pius bezza sa fiza de sa mama». Ogni mente s’abbassat gentile, pro ti fagher cumplimentu, s’istranzu cando passat dae te no nde restat discuntentu, anzis cando ti lassat provat in coro veru sentimentu: a tottus est nodia s’isquisita tua cortesia. Ses ben’amministrada de zente chi t’est dende bona ghia, partidu no bi nd’ada chi turbet in sinu tou s’armonia, ca ti ses ribellada un’ ’orta contr’a s’antiga tirannia,16 e da c’has dadu prou de firmesa, ses fiorind’a nou. Lughe noa ti ..........17 .............................................. ............................ ....................... s’inquisizione ........................ ............................................... ............... chimera Epaminonda serena e severa. O terra de dulzuras,18 pro te so trist’e vivend’in regiru, dae custas bassuras riverente ti mand’unu suspiru; in tantas amalguras, 125 POESIAS 200 205 disizosu de te, in su zeffiru de su ridente abrile, ti faeddo de me terra gentile. In custu logu insanu de umbras virdes mai mi ristoro, unu sole africanu, tintul’e ispinosu figumoro: un’immensu pianu, si cheres bellu in sas ispigas d’oro, ma in su fangu sas ranas narant chi sas aèras no sunt sanas. In su trist’and’e torru si proat su sabore c’hat su corru. 235 240 O versu, a dogni costu ti chelz’in bidd’andamus a inie, custu no est su postu, in custu fangu non sutterr’a tie: deo mi so propostu de t’ ’ider galu cattighende nie. Ti chelz’in terras sanas, no inoghe cantende cun sas ranas. X, aprile 189 …19 210 215 220 225 230 Sa bella gioventude, si naschidu bi nd’hat, ha fattu pasu, mancantes de salude sunt sas bajanas a color’ ’e casu: si perdet sa virtude, sa poesi’a pedir’unu basu: sos omines isculzos, cambi pilosos peus de sos ulzos. Cara Patria mia, assumancu b’has abba cristallina, i nogh’est porcheria chi frazigat e pudit s’istentina: pro unu ticch’ebbia chi si nde buffat bi cheret sa china. Sunt abbas malaittas, chi faghent finas a segar’a fittas. In tanta pestilenza de’a su versu libero sas alas, fuo cun frequenzia boes errantes, de ideas malas, chi faghent riverenzia ch’est su matess’a narrer: «Torr’in palas». 126 127 POESIAS A TONARA O gentile Tonara, / terra di muse, santa e benedetta, / Patria mia cara, / quand’è che potrò venire a farti visita? / E mi darai la chiara / acqua di Croccoledda tanto fredda? / A quando veder le nevi, / quelle che ho calpestato in altri tempi? // Ah dura lontananza! / a cui la sorte mi ha condannato. / Mi sovviene il ricordo / di un tempo spensierato, / l’onesta compagnia / di amici che ho abbandonato; / mi torna alla mente / un tempo trascorso allegramente. // A quel pensiero / già mi accorgo di quanto ho perduto, / e vivo nel lamento / come un uccello che è fuori dal nido; / provando uno sgomento / che mai ho provato o sentito. / Il pensiero vola / a te, terra gentile, e si consola. // Belle, sicure rocce, / che date fredde acque cristalline; / filando, con le brocche / in testa, le donne vi fanno visita. / Acque che le ragazze / rispecchiano, quando le labbra di porpora / sporgono per gustare / il nettare che, ridendo, arriva al mare. // Maestose montagne / figlie del canuto Gennargentu, / cui nelle verdi campagne, / le nocciole fanno da ornamento; / secolari castagni, / che superbi alzate al vento / verdi rami ombrosi, / dolce nido di canti melodiosi. // Sempre vi sogno, vano / però è questo sogno, che amarezza! / Io vi sto lontano, / nelle braccia della mia sventura, / provo nel cuore un arcano / sentire; se penso solo alla dolcezza / che un tempo godevo, / diventa triste l’allegra mia musa. // Ché quando alla mente / liberamente concedo a te di pensare / o Patria, prepotente / mi sale il bisogno di sospirare, / e una lacrima ardente / mai fa a meno di bagnare / le secche labbra mie, / bramose solo di acque natie. // Tu Tonara, vanti / gentile e profumato il terreno, / in esso ricche piante, / che si amano col sereno del cielo; / magnetizzi, incanti. / Sembri una viola in un ameno / giardino d’incanto: / io m’inchino per te, sei luogo santo. // Se di essere Capo di Sopra / non hai la pretesa matta e vana, / tu vanti il fuso / onesto filatore di buona lana; / tanto ne fai uso / che meriti la fama che ti danno, / di essere industriosa, / povera ma onorata in ogni cosa. // Famosa per i torroni / nelle principali fiere della Sardegna, / tieni testa a Pattada. / Quando vai verso feste forestiere / sei accompagnata / dalle famose caffettiere, / che per tutta la notte in piedi / dispensano ai festanti il caffè. // Ogni anno a primavera / ti rivesti, ricca, d’erbe e fiori; / dal Campidano / tornano nel tuo seno i pastori, / allora sei quotidiano / dolce nido di feste e amori, / e tu, gentile, rispecchi / la gioia tua in canti e musiche. // Che festa, che brio! / Dalla pianura sei invidiata; / la calura estiva / Cagliari fugge, una scampagnata / si fa al ruscello / Pitzirmasa, dove la cascata / dolcemente nei gravi / monti scorre con mormorii soavi. // La notte per le strade / quando ride la Luna nel bagliore, / filano le pastorelle / e intessono dolci canti d’amore: / sono di Canente belle / melodie, ascolta il pastore, / e dalla montagna, / distingue il saluto della compagna. // Canta, canta di continuo, / o Patria di Larentu e di Cappeddu; / di muse sei giardino, / sei cara a Tomasu e Bacchiseddu; / ti rallegra Aostinu, / perché possiede il motto bernesco, / con la musa burlesca, / si mostra degno figlio di Pepp’Egiana. // D’autunno l’agnello / parte volentieri in terra straniera, / il vento di san Simone, / che ha una temuta e cattiva fama / fa cadere i ricci: / la gioventù, raccogliendo castagne, / nella ricca foresta, / intesse canti di gioia e di festa. // Sono voci di gioia, / trilli d’uccellino innamorato; / liriche di Larentu / che consolano il cuore angustiato. / Eolo turbolento / non si mostra più, ma, incantato, / si fa volentieri / dispensatore di gentili profumi. // Quando il freddo gennaio / ti cangia col suo biancore, / ti scalda il telaio / tessendo l’onorata filatura, / mentre il pecoraio / ti prepara lana nuova in pianura. / Di quell’onesta lana / fanno fede le gualchiere di Tiana. // La tua gioventù / sembra nata in terra nuorese, / colori e salute / possiede, e se è unica per bellezza / non è in virtù / della mantellina rossa osilese: / è bellezza naturale, / senza l’inganno dell’artificiale. // Sembrano nubi finte / le figlie tue, care e dilette, / che sotto i grembiali / mostrano tesori di forme perfette, / e al seno stretti / hanno di broccato i corsetti; / con la loro presenza / provocano d’un Giobbe la pazienza. // Sembrano madonnine / di Raffaello nelle famose tele, / non sono signorine / che si tingono le labbra a bandiera, / ma sono montanine / belle, fresche e sane. Hanno le mele / provocanti del seno / sotto il velo di candido lino. // Esse sembrano gigli, / bianche, belle, robuste e sane; / madri di sette figli / sembrano ancora signorine. / Sfidano le difficoltà / della vita, e certe anziane / fanno dire per fama: / «È più vecchia la figlia della mamma». // Ogni mente s’abbassa / gentile, per farti un complimento, / il forestiero quando passa / di te non resta scontento, / anzi quando ti lascia / prova nel cuore un genuino sentimento: / a tutti è nota / la tua squisita cortesia. // Sei ben amministrata / da gente che ti sta dando una buona guida, / non c’è partito / che turbi nel tuo petto l’armonia, / perché ti sei ribellata / una volta contro l’antica tirannia, / e poiché hai dato prova / di fermezza, stai fiorendo nuovamente. // Luce nuova ti … / … / … / … l’inquisizione / … / … / … chimera 128 129 POESIAS / Epaminonda serena e severa. // O terra di dolcezze, / per te sono triste e vivo nel dispiacere, / da queste pianure / riverente ti mando un sospiro; / in tante amarezze, / desideroso di te, nello zeffiro / del ridente aprile, / ti parlo di me, terra gentile. // In questo luogo malsano / di verdi ombre mai mi ristoro, / un sole africano, / zanzare e spinoso ficodindia: / un immenso piano, / se vuoi bello nelle spighe d’oro, / ma nel fango le rane / dicono che non sono arie sane. // La bella gioventù, / se mai vi è nata, è cessata; / prive di salute / le giovani sono di color giallastro: / si perde la virtù, / la poesia, a chiedere un bacio: / gli uomini scalzi, / con le gambe più pelose degli orsi. // Cara Patria mia, / almeno hai acqua cristallina, / qui è una porcheria / che marcisce e imputridisce l’intestino: / per un goccio solo / che se ne beve ci vuole la china. / Sono acque maledette, / che si possono anche tagliare a fette. // In tanta pestilenza / io al verso libero le ali, / rifuggo di frequente / buoi erranti, d’indole malvagia, / che fanno la riverenza / ma come se dicessero: «Torna indietro». / Nel triste va e vieni / si prova il sapore che ha il corno. // O verso, ad ogni costo / ti voglio nel paese, andiamoci, / questo non è il posto, / in questo fango non ti sotterro: / io mi son proposto / di vederti ancora calpestar la neve. / Ti voglio in terre sane, / non qui, a cantare con le rane. CONSIZOS A UNU AMIGU 5 10 15 20 25 30 130 Pro cantu m’has pregadu a ti dar’unu parre, già c’has idea ’e leare muzere, frade me’istimadu, su chi ti poto narre est chi fettas su tou piaghere. Unu parre ti do, l’azzettes, sì o no, de ti lu dare mi sent’in dovere. Com’est chi ti do prou chi m’est a coro s’interessu tou. Ti giuro francamente chi m’agatto surpresu prite mai credi’a tal’insoniu. Non cumprendo comente nè chie t’hat azzesu s’idea macca de su matrimoniu. In custu fattu tou original’e nou, zeltu b’hat postu coa su dimoniu, pro cussu so dispostu de ti rispunder cun su musu tostu. Cumprid’has barant’annos, e ti ses iscampadu de leare muzere fin’a como, de repent’in affannos, cheres mudar’istadu, cun ti ponner tiaulos in domo. So in su disisperu chi bi ruas a beru; de s’oriolu c’happo no nde dromo. 131 POESIAS Ma s’iscultas a mie no has’a esser fragile gasie. 35 40 45 50 Ello no est macchine amare a sa bezzesa su c’has fuid’in sa giovan’edade? Faghela de omine, e abbandona s’impresa si cheres viver cun felizidade; si calchi femminedda ti mustrat sa bunnedda, nara c’has fattu vot’ ’e castidade. Non ames in su seriu, si no ti naro chi non has criteriu. In s’umanu consorziu pag’astutu ti creo, si ti faghes teraccu sende mere. Si bi fit su divorziu forsis su primu deo ti dia narrer: «Sì, lea muzere», prite tando assumancu, da chi nde ses istancu la podes riformar’a piaghere. Ma como no affides: cussa legg’est dorminde, già lu ’ides. 70 75 80 85 90 55 60 65 Ahi cherveddu iscassu! Su male ti disizas, it’est custa mudada repentina? Si su fatale passu faghes, già tind’abbizas ite cos’est in dom’una femmina. De natur’ingannosa, si mustrat una rosa, cando la toccas ti punghet s’ispina. Adamu, nàt s’istoria, pro culpa d’Eva ha perdidu sa gloria. 132 95 100 Ponimus in su casu chi sies cojuadu. Senza chi tant’esempios ti zite, ti fatto persuasu chi ti ses ingannadu, e ti fatto connoscher su proite. Amore no nde gosas, dae su die ch’isposas intras cun sos dimonios in lite: sa femmina est pesu, chi l’ischit sol’a chie b’est in mesu. Dae su di’ ’e s’affidu deves fagher su seriu prit’abbrazzas sa rugh’ ’e su dolore. Ti giamant maridu, faeddu de misteriu c’a bortas cheret narrer cobertore. Cun s’amada cumpagna ti dàs a sa campagna, olvidende su mundu pro s’amore e a front’alta che chervu de sa cumpagna tu’andas supervu. S’est una signorina, cun onor’e decoro, la dès tenner in abidos de rasu; semper in cappellina, manifide de oro e’ sa riforma de su pan’e casu, prite, s’est vissiosa, de su ch’est disizzosa, si non l’ottenet, ti negat su basu. Tando pro dannu tou intrat in ballu su caffè cun ou. A una signorina chi si tenet in gradu, 133 POESIAS 105 110 115 120 125 130 l’est in domo dezente sa fiacca. Pro fagher sa coghina tue sese obbligadu a crebagor’accordare teracca, e una cameriera, senza sa caffettera, ch’est sa chi t’allezirit sa bussaca. A lettu sa padrona bona mer’est de fagher sa mandrona. Mentres tu’in s’offissiu dae bonu manzanu, sudas cuddas mischinas zorronadas, ipsa, senza giudissiu, cun su romanz’in manu, faghet sa fida de pappa ’e badas. Giornales e rivistas, sartinas e modistas, zeltamente ti dant pagas intradas; anzis, modas e nastros, favorint de sa bussa sos disastros. A ipsa ogni cuntentu tue des acanzare si no ti perdet su geni’e’ s’affettu, e si no istas attentu si podet avverare su fattu de su padre sutta lettu: giughent s’argentu vivu, e si non ses attivu ti furcana sa testa pro dispettu. Si est muzere bella faghes ben’a li ponner sentinella. 135 140 145 150 155 160 No este mancu dezente a unu carratone de l’accollar’una puddedra rude, ca truncat sa trobea, e si si pesat rea zelt’est chi ti ruinat sa salude. Debile ses de fisicu, e si muzere leas moris tisicu. Tottu custos fastizos suni niente, appettu a sas ateras penas e burrascas. Cando benit in fizos, ipsa corcad’a lettu, e tu’istas abbiz’a fagher fascas: pianghet su messia, e tue, in s’anninnia, li cantas su sinceru malas pascas. Sa pedd’ ’e sa ’elveghe non bastat a s’isfundadu colafeghe. Tottu consideradu, est gravos’e pesante sa rughe chi ti cheres abbrazzare. Si ses a mal’istadu leand’unu purgante, su calore già benit a zessare. Teniast su disizu, de ti dare consizu, dadu ti l’happo: a ti’est a pensare. Ammenta c’avvisadu s’omine, nât su dicciu, est già salvadu. Ses bezz’e impotente, de manizzar’asprone creo c’happes perdidu sa virtude. 134 135 POESIAS CONSIGLI A UN AMICO Visto che mi hai pregato / di darti un parere, / già che hai idea di prender moglie, / fratello mio amato, / quello che ti posso dire / è che faccia come ti piace. / Un parere ti do, / che lo accetti o no, / di dartelo mi sento in dovere. / È ora che ti do la prova / che mi sta a cuore il tuo interesse. // Ti giuro francamente / che sono sorpreso / perché mai avrei creduto a questa notizia. / Non capisco come / né chi ti ha fatto nascere / l’idea matta del matrimonio. / In questo tuo fatto / originale e nuovo, / certo ci ha messo la coda il demonio, / per quello sono disposto / a risponderti a muso duro. // Hai compiuto quarant’anni, / e te la sei scampata, / fino ad ora, dal prender moglie; / d’improvviso negli affanni, / vuoi cambiare stato, / mettendoti i diavoli in casa. / Mi fa disperare / che ci caschi davvero; / non ci dormo per il pensiero che ho. / Ma se ascolti me / non sarai così fragile. // Allora, non è pazzia / amare in vecchiaia / ciò che hai fuggito nella giovane età? / Comportati da uomo, / e abbandona l’impresa / se vuoi vivere in felicità; / se qualche giovincella / ti mostra la gonnella, / dì che hai fatto voto di castità. / Non amare sul serio, / se no ti dico che non hai criterio. // Nell’umano consorzio / ti credo poco astuto, / se da padrone ti rendi schiavo. / Se ci fosse il divorzio / forse io per primo / ti direi: «Sì, prendi moglie», / perché allora almeno / dacché te ne stanchi / la puoi riformare a piacere. / Ma ora non sposarti: / quella legge sta dormendo, lo vedi. // Ahi cervello scarso! / Ti auguri il male, / cos’è questo cambiamento repentino? / Se il fatale passo / fai, ti accorgerai / di che cos’è una donna in casa. / Di natura ingannatrice, / si mostra una rosa, / quando la tocchi ti punge la spina. / Adamo, dice la storia, / per colpa di Eva ha perso la gloria. // Mettiamo il caso / che sia sposato. / Senza che ti citi tanti esempi, / ti voglio persuadere / che ti sei sbagliato, / e ti faccio sapere il perché. / L’amore non ti godi, / dal giorno in cui ti sposi / entri in lite col demonio: / la donna è un peso, / che conosce solo chi c’è in mezzo. // Dal giorno in cui ti sposi / devi fare il serio / perché abbracci la croce del dolore. / Ti chiamano marito, / parola misteriosa / che a volte vuol dire “cornuto”. / Con l’amata compagna / ti dai alla campagna, / dimenticando il mondo per l’amore / e a fronte alta come un cervo / vai orgoglioso della tua compagna. // Se è una signorina, / con onore e decoro, / la devi tenere in abiti di raso; / sempre col cappellino, / con l’anello d’oro, / e la riforma del pane 136 e formaggio, / perché, se è capricciosa, / per quel che desidera, / se non l’ottiene, ti nega il bacio. / Allora a tuo danno / entra in ballo il caffè con uovo. // Ad una signorina / che si porta con decoro, / in casa si confà la fiacca. / Per governare la cucina / tu sei obbligato / a prendere a crepacuore una domestica, / e una cameriera, / senza la caffettiera, / che è quella che ti alleggerisce la tasca. / A letto la signora / è ben padrona di fare la poltrona. // Mentre tu nell’ufficio / di buon mattino, / sudi quelle misere giornate, / lei, senza giudizio, / col romanzo in mano, / fa la vita di chi mangia a sbafo. / Giornali e riviste, / sartine e modiste, / certamente ti danno poche entrate; / anzi, mode e nastri, / della borsa favoriscono i disastri. // A lei ogni capriccio / tu devi accordare / se no perde la stima e l’affetto, / e se non stai attento / si può avverare / quel fatto del prete sotto il letto: / hanno l’argento vivo, / e se non sei attivo / ti fanno la testa biforcuta per dispetto. / Se è una moglie bella / fai bene a metterle una sentinella. // Sei vecchio e impotente, / di maneggiare lo sprone, / credo abbia perso la virtù. / Neppure si addice / a un vecchio carro / che se lo accolli una puledra indomita, / perché rompe le pastoie, / e se imbizzarrisce / è certo che ti rovina la salute. / Sei debole di fisico, / e se prendi moglie muori tisico. // Tutti questi fastidi / son niente, rispetto / alle altre pene e burrasche. / Quando ha figli, / lei sta a letto, / e tu stai sveglio a fare fasce: / piange il messia, / e tu, nell’anninnia, / gli canti i tuoi peggiori auguri. / La pelle della pecora / non basta al culetto senza fondo. // Tutto considerato, / è gravosa e pesante / la croce che vuoi abbracciare. / Se sei in cattivo stato / prendendo un purgante, / il bollore certo verrà a cessare. / Avevi il desiderio, / che ti dessi consiglio, / te l’ho dato: a te sta pensare. / Ricorda che avvisato / l’uomo, dice il proverbio, è già salvato. 137 POESIAS LAMENTOS D’UNU NOBILE20 30 Funesta rughe chi giust’a pala, per omnia sæcula ba’in ora mala. 5 10 15 20 35 In diebus illis m’has fatt’onore, ma oe ses simbulu de disonore. 40 Oe unu nobile chi no hat pane, senz’arte, faghet vida ’e cane. Oe mi cuntento de pan’e casu, cando chi nd’appo, e binu a rasu. E, tra parentesi, gai, pro collunu, mi narant martire de su digiunu. Ah caros tempos c’happo connottu! Sezis mudados in d’unu bottu! Senz’impiegu su cavalleri, est unu mulu postu in sumbreri. 45 A pancia buida, senza sienda, pappat, che ainu, paza in proenda. 50 Deo faeddo cun cognizione, ca isco it’este s’ispiantagione. 55 25 pappai peta, peta ’e vitellu, frisca, frischissima dae su masellu. In illo tempore, cando tenia ricchesas, benes e nobilia: In cussos tempos, in sos festinos mi sustentai’ de puddighinos. Puddas chi rassu faghiant brou, dogni manzanu caffè cun ou. Pranzos de gala, festinos, ballos, gorbatta bianca e guantos giallos. Cun sa chiterra in sas carrellas, 138 139 POESIAS 60 alzai’ su cantigu a sas istellas. 90 De notte in festas semper ischidu – tirriolupedde – de die dormidu. 95 65 70 75 80 Supervu, a nemos m’inchinaia, vantende alteru sa rughe mia. Oe sa supervia no est de mundu, sos pantalones non giughent fundu. 100 Dendemi titolos de riccu e nobile mi ’ettat in cara: «Ricchezza mobile». Eo li rispundo in tonu affabile: «Ricchesa mobile miseria stabile». «Eh già!» mi narat, «ma cando mai Lei, Cavaliere, poveru gai?». Sa bacchettina de sas pius riccas, s’est cunvertida in ciappa-ciccas. 105 S’aneddu d’oro de calidade, est in su Monte de piedade. 110 E su rolozu cun sa cadena, mi l’happo ’endidu pro una chena. 115 85 Torrad’a domo po pius dolore, m’ ’ido sa visita de s’esattore. In cussa chena funesta e vile, m’happo giogadu caddu e fusile. «Sa peronospera tottu ha distruttu, binzas e campos non dant produttu. Quindi, pazienza tenzant pro como» li naro, ipse intrat in domo. E a crebagoro de sa familia ponet suggellos a sa mobilia. Sa domo no, est rispettada 140 141 POESIAS 120 pro mores d’esser ipotecada. Tottu suggellat, piattos, bottiglias, ispidos, trebides, truddas graviglias. 125 130 135 140 E prite tottu custu? Zertamente est pro sa macca e vana testa mia. Superv’e indolente, chi su mundu fit gai non credia. Sa rughe si ridiat de su zappu ca mai happo connott’it’est sudore, e oe, tontu che nappu, imbidio s’onestu zappadore. E provvisteddas c’haia fattas basolu, caule, zuccas, patatas. 145 Lintiza, fae, lardu, salamene, lassende in domo miseri’e famene. 150 In fines, tottu sequestradu, eo cun sa rughe mi so restadu. 155 160 Zappador’in berritta mi disizo; so famid’e m’abbizzo de s’isbagliu, ma tardu mi nd’abbizo, non frittit pius s’ischin’a su trivagliu. Trivagliu dae sos bonos riveridu ma rinnegadu dae sa rughe mia; semper l’happo fuidu, dendem’in brazzos a sa mandronia. So vivid’oziosu, isreguladu che caddu rude chi no sentit frenu: s’haia trivagliadu no haia bisonz’ ’e pan’anzenu. Finalmente, funesta e tropp’in cabadu de su male sa pag’happo cumprida. Deus non pagat su sabadu, ma pagat tottas sas dies de sa chida. Galu sa paga giusta no m’hant dadu, ca s’ischerant su male c’happo fattu, di’a esser giamadu s’astr’ ’e su domiciliu coattu. 165 142 Su vissiu, non curante de s’onore, hat giogad’a s’anzenu bruttos tiros, 143 POESIAS e vile truffadore mi so fattu cun pessimos raggiros. 170 175 180 Non est chi m’happet salvadu sa malissia dae sas penas c’happo meritadu, sol’est ca sa giustissia hat fatt’assign’in su cavaglieradu. Si dae cussas penas nde so foras, sa rughe m’est servida pro iscuja, si no a’ custas oras fia carrende sale a testa ruja. Però non poto narrer: «Nde so foras de sas ferradas cabbias de ladros», prit’oe timo ancoras de cuntemplare su chel’a quadros. S’ ’enzerat cussu die passienzia rughe buffa, no nelzas ch’est abusu: tott’est cunseguenzia de su vissiu ch’in me tue has infusu. LAMENTI DI UN NOBILE Croce funesta / che porto in spalla, / per omnia sæcula / va’ in malora. // In diebus illis / m’hai fatto onore, / ma oggi sei simbolo / di disonore. // Oggi un nobile / che non ha pane, / senz’arte, fa / vita da cane. // Senza impiego / il cavaliere, / è un mulo, / col cappello. // A pancia vuota, / senza averi, / mangia, come l’asino, / la razione di paglia. // Io parlo / con cognizione, / perché so cos’è, / la miseria. // In illo tempore / quando avevo / ricchezze, beni, / e nobiltà: // mangiar carne, / carne di vitello, / fresca, freschissima, / dal macello. // Oggi m’accontento / di pane e formaggio, / quando ne ho, / e vino al colmo. // E tra parentesi, / così, per coglionatura, / mi dicono martire / del digiuno. // Ah tempi cari / che ho conosciuto! / Siete cambiati / tutto d’un botto! // In quei tempi, / nei festini, / mi nutrivo / di pollastri. // Galline che grasso / facevano il brodo, / ogni mattina / caffè con l’uovo. // Pranzi di gala, / festini, balli, / cravatta bianca / e guanti gialli. // Con la chitarra / per le strade, / levavo il canto / alle stelle. // Di notte in festa / sempre sveglio, / pipistrello, / di giorno addormentato. // Superbo, a nessuno / m’inchinavo / vantando altero / la mia croce. // Oggi la superbia / non è di mondo, / i pantaloni, / non hanno fondo. // La bacchettina / delle più ricche, / s’è convertita / in acchiappa-chicche. // L’anello d’oro / di qualità, / sta nel Monte / di pietà. // E l’orologio / con la catena, / l’ho venduto / per una cena. // In quella cena / funesta e vile, / mi son giocato / cavallo e fucile. // Tornato a casa / per maggior dolore / mi vedo la visita / dell’esattore. // Dandomi titoli / di ricco e nobile / mi getta in faccia: / «Ricchezza mobile». // Io gli rispondo / in tono affabile: / «Ricchezza mobile / miseria stabile». // «Eh già!» mi dice, / «ma quando mai, / Lei, Cavaliere, / così povero?». // «La peronospora / tutto ha distrutto, / vigne e campi / non dan prodotto. // Quindi pazienza / abbiano per ora» / gli dico, lui / entra in casa. // E a crepacuore / della famiglia / mette i sigilli / alla mobilia. // La casa no, / è rispettata / perché tanto è / ipotecata. // Tutto sigilla, / piatti, bottiglie, / spiedi, treppiedi, / mestoli e griglie. // E provviste / che avevo fatte / fagioli, cavoli, / zucche, patate. // Lenticchie, fave, / lardo, salame, / lasciando in casa, / miseria e fame. // Infine, tutto / sequestrato, / io con la croce, / sono restato. E perché tutto questo? Certamente / è per la matta e vana testa mia. / Superbo e indolente, / non credevo che il mondo fosse così. 144 145 POESIAS // La croce rideva della zappa / perché mai ho saputo cos’è il sudore, / e oggi, tonto come una rapa, / invidio l’onesto zappatore. // Mi vorrei zappatore in berretto; / sono affamato e m’accorgo dello sbaglio, / ma tardi me ne accorgo, / non si piega più la schiena al lavoro. // Lavoro dagli onesti riverito / ma rinnegato dalla mia croce; / sempre l’ho rifuggito, / abbracciando la poltronite. // Sono vissuto ozioso, sregolato / come un cavallo indomito che non sente il freno: / se avessi lavorato / non avrei bisogno del pane altrui. // Infine, funesto e troppo tardi / ho pagato il pegno del male fatto. / Dio non paga il sabato, / ma paga tutti i giorni della settimana. // Ancora la giusta paga non m’hanno dato, / perché se sapessero del male che ho fatto, / sarei chiamato / l’astro del domicilio coatto. // Il vizio, noncurante dell’onore, / ha giocato all’altrui brutti tiri, / e vile truffatore / son diventato, con pessimi raggiri. // Non è che m’abbia salvato la malizia / dalle pene che ho meritato, / è solo che la giustizia / ha fatto affidamento sul cavalierato. // Se da quelle pene sono fuori, / la croce mi è servita da scusa, / se no a quest’ora, / starei trasportando sale con la testa rossa. // Però non posso dire: «Sono fuori / dalle gabbie di ferro dei ladri», / perché oggi ancora temo / di contemplare il cielo a quadri. // Se giungesse quel giorno pazienza / buffa croce, non dire che è un abuso: / tutto è conseguenza / del vizio che in me hai infuso. A GENESIO LAMBERTI 5 10 15 20 25 146 I. Ue che sezis dados o sognos de amore, o penseris de gloria? Distruttos sezis e calpestados dae su giustu rancore chi proat custu coro: sognos bruttos mi turbant s’intellettu, e ispalghent velen’intro su pettu. Ah sognu vanu! Iscrittu dae cando so nadu, in laras happo giutu su dolore. Infamia! Malaittu siast sognu incantadu, cortigianu crudel’ingannadore. Tè, sas giaes t’intrego, friscio in coro sa janna, ti rinnego. O sognu armoniosu, si t’happo malaittu est prite ti detesto: no est faula. E si grido ingannosu, nara, has forsis dirittu de protest’a sa perfida paraula? No – T’happ’ ’idu gentile, però ses vile aduladore. Vile! E tue vida penosa, chi cun su fals’incantu, m’has lead’a su cor’ogni dulzura, truncad’e una losa abber’in campusantu, 147 POESIAS 30 35 40 45 50 55 60 e sutterra sa mia disaura. Su vivìre m’est duru, ti disprezz’e detest’a tie puru. Eo disprezzo tottu, nè happo pius imbidia de su risu chi miro in car’anzena ca com’happo connottu s’infamia, sa perfidia de cust’isclavitudine terrena. Ite cos’est sa vida? Una rugh’ispinosa, incrudelida. arza bomind’est su velen’, e nois, genia poveritta, rettenimus su grid’ ’e sa vinditta! 65 70 Ah perfida genia! Prite ti lassas tingher su cor’a luttu? – Ischid’e faghe prou. O forsis villania non ti paret su lingher s’ispada tinta de sambene tou? Su can’a orulare s’halzat si non li dant a mandigare: Ite cos’est su mundu in su cale vivimus, privos de lughe, amor’e libertade? Unu mar’est, profundu; dae cando naschimus bi navigamus – Cun felizidade? No – pro chi palzat gai, felizidade no nd’esistit mai. E sos abitadores de sa terr’ite sune? Terra – Fangh’ischifosu, non sun terra. Rettiles impostores, tristos faccias de fune: sos frades a sos frades faghent gherra. E in sa terr’intantu aumentat s’infamia e’ su piantu. Vivimus avvilidos in custa tenebrosa badd’ingrata de ahis e de ohis. Sutta sos fioridos campos sa velenosa 148 149 POESIAS 75 80 85 90 95 100 II. E tue, senza pane, istancu, famid’e nudu, no halzas de disdign’una protesta! Ses peus de su cane, vile servis e mudu: linghes sa man’ingrat’e faghes festa a chie ti deridet, cando, pedinde, a manu tesa t’ ’idet! De su grassu sarau chi sos riccos segnores faghent a palas tuas, cun fastizos, populu, ses isciau. Fadigas e sudores cunsacras pro capriccios e disizos de cussa zente ischiva, e tue famidu gridas: «Viva! Evviva!». Vivat chie su punzu ponet in su siddadu de su sambene tou pius ardente. Su pane senz’aunzu, si nd’has, e avvelenadu lu pappas, ca ses dannad’eternamente a vivir’in s’ischeffa,21 famidu, umiliad’e post’a beffa. O populu famidu, dae te cazz’addane su pan’ispeli, scudel’a buleu.22 Su codul’induridu chi mandigas pro pane, halzalu minaccios’in car’a Deu: cun disdign’in s’aèra l’imbolas custa trista preghiera: 150 105 110 115 120 125 130 135 III. Già ch’in altu Segnore sedes, e de amore astru sese, ti preg’una mirada no neghes piedosa a’ custa tenebrosa badde de te in tott’ismentigada, ue viv’opprimidu da s’ora c’a su mundu so bennidu. Istancu de pedire su pane, pro vivire comente so vivend’in cuntierra, pius non prego. Mira de me su dolu, s’ira tua pius funest’ ’enzat in terra, e in cuss’ira funesta ischizz’a tantos rettiles sa testa. Su fulmine fatale imbola: universale siat s’orrend’isfatta, faghe ruer in s’abissu s’intera ipotecad’isfera. Turbines de chisin’e de piuer subra de me iscude: su fangu pro me rettil’est salude. Sì, turbines e lampos sos fioridos campos atterrent, sas funtanas cristallinas diant a sos sididos fele. Sos promittidos de Patmo fumos caldos e chisinas23 abbrevia, ne’ sa pia iscultes, preghiera de Maria. 151 POESIAS 140 Si sa zelest’Isposa t’invocat piedosa su perdonu, non zedas. Bisonzosu mi credes de perdonu? Unu lamp’unu tronu ti dimando, una fine: est dolorosu su viver e patire. Abbrevia ca est ora a’ la finire. 155 160 145 150 Tue chi de Gomorra24 t’appellant su severu giuighe, cun terribil’e severa ira, custa camorra feri, e si est veru chi ses giustu, sa mia preghiera isculta. Imbenujadu t’adoro, si brujas tottu su creadu. 165 170 175 180 152 IV. Ma tue populu finghes de protestar’e times: de pedire su tou bilgonzosu. A chie t’opprimet linghes, e de islancios sublimes ses incapaze, zegh’e sonnigosu, si no si fit intesu su gridu ’e vinditta ’e s’offesu. Cagliadi, dèt sighire s’infamia. Sa festa faghes a chie de sa frust’est dignu. Preferis su pedire a una giusta protesta chi podes imbolare cun disdignu. Ti negant su pane, e tue da sa patri’andas addane!25 Deo cantone resto e a s’infamia isfido: t’odio mundu, in te cosa no amo. Ti ruspo, ti detesto. Cun ischernu ti grido: «Marranu!». S’in su dol’a tie giamo inuman’e marranu, non ti risentas, non lu nar’invanu. Est odiu implacabile su ch’in su cor’azzesu sento pro tene, non ti pot’amare, o mundu miserabile. Custu cor’est offesu dae te mortalmente, a t’odiare tue m’has imparadu: de me ses odiad’e rinnegadu. 153 POESIAS 185 190 195 200 Ind’una zell’oscura, pro non bider a tie camminend’a su buju senz’istella, sa trista sepoltura pro seppellir’a mie happ’elett’, assumancus in sa zella m’hat a esser cunzessu cumpiangher a tie, mundu revessu. Inie happ’ammentare cuddos teneros annos pienos de isperanzas e amore, e cand’happ’abbassare sa front’a sos affannos chi m’hant fatt’odiosu, cun rancore, mund’ingratu, su tou risu falsu frastimo dae nou. 220 Odio, puru bi penso a sos lontanos sorrisos de sa Patria natia. Mi cumprimo su coro cun sas manos tremulantes. S’oscura fantasia 225 230 205 210 215 V. Ecco chi finalmente s’agonia m’hapo sonadu. Fantasmas istranos attraversant s’istanca fronte mia coronada de tantos pilos canos. s’infogat e riscaldat. Meditende penso ch’in custa zella, san’e forte, viv’istancu de viver, cun affannos. So viv’e mortu: semper delirende, aborrinde sa vid’amo sa morte e happ’appenas passadu sos vint’annos! Si benit un’angelicu ispirit’a ispender novellas de sa tua redenzione, unu mefistofelicu sorrisu dèt surprender in laras mias: «Ritiradi buffone» l’happ’a narrer, «su mundu es tundu, ed est destinu, morit tundu». Ma si benit su clavu chi ti dàt Kiriella26 nendemi c’a s’isfatta ti preparas, l’happ’a rispunder: «Bravu, custa cara novella isettaia»: cun su sarcasm’in laras, dae cussa zella fora mi fatto, e benz’a ti ruspir’ancora.27 154 155 POESIAS VI. Eccomi seppellidu, in brunu mantu m’has a sa losa, o mundu, reduidu. Tu’ has mentid’in vid’e has mentidu dae nant’ ’e sa foss’in campusantu. 235 240 Cun s’infame carazza de piantu ipocritu, su visu s’est bestidu. Sos vantos ch’in sa losa m’has tessidu ti sunt servidos pro ti dare vantu. Vivente m’has cattigadu e malaittu, e confinadu m’has in cust’oscura zella, de patimentos sa pastora. Pustis mort’in sa losa m’has iscrittu: «Cosa buona mortal passa e non dura». Mentid’has prim’e ses mentind’ancora. Osilo, 7 maggio 1895. A GENESIO LAMBERTI I. Dove siete finiti / o sogni d’amore, / o pensieri di gloria? Distrutti / siete e calpestati / dal giusto rancore / che prova questo cuore: brutti sogni / mi turbano l’intelletto, / e spargono veleno dentro il petto. // Ah sogno vano! Scritto / da quando sono nato, / sulle labbra ho portato il dolore. / Infamia! Maledetto / sia sogno incantato, / cortigiano, crudele ingannatore. / Tiè, ti do le chiavi, / chiudo nel cuore la porta, ti rinnego. // O sogno armonioso, / se t’ho maledetto / è perché ti detesto: non è una bugia. / E se grido ingannatore, / dì, hai forse diritto / di protestare per la perfida parola? / No. T’ho visto gentile, / però sei vile adulatore. Vile! // E tu vita penosa, / che con falso incanto, / mi hai portato al cuore ogni dolcezza, / spezzati e una tomba / apri nel camposanto, / e sotterra la mia sventura. / La vita è per me dura, / disprezzo e detesto anche te. // Io disprezzo tutto, / né ho più invidia / del riso che vedo nelle facce altrui / perché ora ho conosciuto / l’infamia, la perfidia / di questa schiavitù terrena. / Che cos’è la vita? / Una croce spinosa, incrudelita. // Che cos’è il mondo / nel quale viviamo, / privi di luce, amore e libertà? / È un mare, profondo; / da quando nasciamo / ci navighiamo. Con felicità? / No. Anche se sembra così, / non esiste mai felicità. // E gli abitanti / della terra cosa sono? / Terra. Fango schifoso, non sono terra. / Rettili impostori, / tristi facce da forca: / i fratelli ai fratelli fanno la guerra. / E sulla terra intanto / aumenta l’infamia e il pianto. // Viviamo avviliti / in questa tenebrosa / valle ingrata di ahi e di ohi. / Sotto i fioriti / campi la velenosa / argia sta vomitando il veleno, e noi, / progenie poveretta, / tratteniamo il grido di vendetta! // Ah perfida genia! / Perché ti lasci dipingere / il cuore a lutto? Sveglia e fai un tentativo. / O forse villania / non ti sembra leccare / la spada tinta del tuo sangue? / Il cane comincia a ululare / se non gli danno da mangiare: II. E tu, senza pane, / stanco, affamato e nudo, / non innalzi di disdegno una protesta! / Sei peggio di un cane, / vile servi e zitto: / lecchi la mano ingrata e fai festa / a chi ti deride, / quando, chiedendo, con la mano distesa ti vede! // Del grande scialo / che i ricchi signori / fanno alle tue spalle, molestandoti, / popolo, sei schiavo. / Fatiche e sudori / consacri a capricci e desideri / di quella gente schifosa, / e tu affamato gridi: «Viva! Evviva!». // Viva chi il pugno / infila nel segreto 156 157 POESIAS / del tuo sangue più ardente. / Il pane senza companatico, / se ne hai, e avvelenato / lo mangi, perché sei condannato eternamente / a vivere nella feccia, / affamato, umiliato e deriso. // O popolo affamato, / da te scaccia lontano / il pane di ghianda, gettalo in aria. / Il sasso indurito / che mangi come pane, / alzalo minaccioso in faccia a Dio: / con disdegno nel cielo / lanciagli questa triste preghiera: III. Già che in alto, Signore, / siedi, e d’amore / sei l’astro, ti prego uno sguardo / non negare pietoso / a questa tenebrosa / valle da te totalmente dimenticata, / dove vivo oppresso / dal momento in cui son venuto al mondo. // Stanco di chiedere / il pane, per vivere / come sto vivendo in discordia, / più non prego. Osserva / il mio dolore, l’ira / tua più funesta scenda sulla terra, / e in quell’ira funesta / schiaccia a tanti rettili la testa. // Il fulmine fatale / scaglia: universale / sia l’orrenda distruzione, fa’ cadere / nell’abisso l’intera / ipotecata sfera. / Turbini di cenere e polvere / scaglia sopra di me: / il fango per me rettile è salvezza. // Sì, turbini e lampi / i fioriti campi / distruggano, le fontane cristalline / diano agli assetati / fiele. I promessi / fumi caldi e ceneri di Patmo / affretta, né la pia / ascolta, preghiera di Maria. // Se la celeste Sposa / t’invoca pietosa / il perdono, non cedere. Bisognoso / mi credi di perdono? / Un lampo, un tuono / ti chiedo, una fine: è doloroso / il vivere e patire. / Affrettati, perché è ora di finire. // Tu, che di Gomorra / chiamano il severo / giudice, con terribile e severa / ira, questa camorra / colpisci, e se è vero / che sei giusto, la mia preghiera / ascolta. Inginocchiato / ti adoro, se bruci tutto il creato. IV. Ma tu popolo fingi / di protestare e temi: / vergognoso di chiedere il tuo. / Lecchi chi ti opprime, / e di slanci sublimi / sei incapace, cieco e sonnolento, / se no si sarebbe sentito / il grido di vendetta dell’offeso. // Taci, deve proseguire / l’infamia. La festa / fai a chi della frusta è degno. / Preferisci il chiedere / a una giusta protesta / che puoi scagliare con disdegno. / Ti negano il pane, / e tu dalla patria sei lontano! // Io, cantone, resto / e l’infamia sfido: / ti odio mondo, in te niente amo. / Ti sputo, ti detesto. / Con scherno ti grido: / «Marrano!». Se nel dolore ti chiamo / inumano e marrano, / non risentirti, non lo dico invano. // È odio implacabile / quello che in cuore acceso / sento per te, non posso amarti, / o mondo miserabile. / Questo cuore è 158 offeso / da te mortalmente, a odiarti / tu m’hai insegnato: / da me sei odiato e rinnegato. // In una cella oscura, / per non vedere te / camminando al buio senza stella, / la triste sepoltura / per seppellirmi / ho scelto, almeno nella cella / mi sarà concesso / di compiangerti, mondo avverso. // Lì ricorderò / quei teneri anni / pieni di speranze e amore, / e quando abbasserò / la fronte agli affanni / che m’hanno reso odioso, con rancore, / mondo ingrato, il tuo / riso falso maledico di nuovo. // Se viene un angelico / spirito a diffondere / novelle della tua redenzione, / un mefistofelico / sorriso sorprenderà / nelle mie labbra: «Ritirati buffone» / gli dirò, «il mondo / è tondo, ed è destino, muore tondo». // Ma se arriva il chiodo / che ti dà Kiriella / dicendomi che ti prepari alla disfatta, / gli risponderò: «Bravo, / questa cara novella / aspettavo»: col sarcasmo sulle labbra, / da quella cella m’affaccio, / e vengo a sputarti ancora. V. Ecco che finalmente l’agonia / ho suonato. Fantasmi strani / attraversano la stanca fronte mia / coronata da tanti capelli bianchi. // Odio, pure ci penso, ai lontani / sorrisi della Patria natia. / Mi comprimo il cuore con le mani / tremolanti. L’oscura fantasia // s’infoga e riscalda. Meditando / penso che in questa cella, sano e forte, / vivo stanco di vivere, fra gli affanni. // Sono vivo e morto: sempre delirando, / schifando la vita amo la morte / ed ho appena superato i vent’anni! VI. Eccomi sepolto, in bruno manto / mi hai alla tomba, o mondo, ricondotto. / Tu hai mentito in vita e hai mentito / davanti alla fossa nel camposanto. // Con l’infame maschera di pianto / ipocrita, il viso s’è travestito. / I vanti che mi hai intessuto sulla tomba / ti sono serviti per farti vanto. // Da vivo m’hai calpestato e maledetto, / e mi hai confinato in quest’oscura / cella, di patimenti la pastora. // Dopo morto sulla tomba mi hai scritto: / «Cosa buona mortal passa e non dura». / Mentito hai prima e stai mentendo ancora. 159 POESIAS AGONIA 25 A frade meu Edoardu. 5 10 Cand’has a legger custos mutos[1] su campusantu hat haer sos ossos meos accollidu. Cun sos chizos infustos de amaru piantu, des juliar’a mie. Addoloridu des frittire sa testa istanca, in custa pagina funesta. 30 35 Cand’has a legger su flebile cantu ch’iscrio in custas oras de anneu, istillas de piantu b’has a versare subra, o Frade meu. 40 15 20 In cuss’ora de dolu e iscunfortu, leggende sos lamentos d’un’afflittu, des pensar’a su mortu frade c’hat custas paginas iscrittu. Sunt paginas funestas e delirios chi a tie cunsacro cun affannos, pro ch’iscas sos martirios chi m’hant bocchid’in sos teneros annos. Iscri’a lettu, cun manu tremante, ca su cor’est gravad’ ’e tantos luctos, prite pens’a s’istante in su cal’has a legger custos mutos. [1. ‘Strofa, ritornello, canzonetta’ (cfr. Des, s.v. mút(t)u e, ibidem, il pertinente riferimento ad A.M. Cirese, per il quale rimandiamo alla nota 1 della nostra “Classificazione metrica”).] 160 Haia decretad’ ’e non lassare custu cantu c’a ti’est iscunfortu, pro non ti rinnovare sa memoria mia pustis mortu. Ma una ’ogh’ ’e misteru nât a mie: «Prite suffris gasi’e restas mudu, o moribundu? Iscrie a chi restat un’ultimu saludu». Su saludu chi tristu ’enit a tie t’addolorat, però dès cumpatire, ca dolet pius a mie dendelu che a ti’a lu rizire. T’ammentas, caru frade, cantu forte, allegr’e sanu fia in pizzinnia? Odiende sa morte, de solas isperanzias vivia. Oe cuss’allegria s’est partida, annientad’est cuddu coro forte: manchendem’est sa vida, pro cunfortu giamende so sa morte. 45 50 T’ammentas, caru frade, sos giucundos sorrisos amurosos, senza pena? Cuddos pilos biundos chi m’abbasciaint a sa nazarena? Zessados sos incantos risulanos, oscurad’est s’allegra fantasia. Como sunt pilos canos chi coronant s’istanca fronte mia. Como mi mancat s’antig’ardimentu cuddu c’a pizzinneddu possidia, 161 POESIAS 55 60 e sent’un’isgumentu c’annunziat sa trista fine mia. Tue non l’ischis, no, so moribundu, s’alen’est cuminzend’a mi mancare: forsis lasso su mundu senza mancu ti poder saludare. Bae mutu, fatale documentu chi vives, mentres and’eo in sepoltura, ischelzu de su bentu, e annunzia sa mia disaura. 65 70 75 In sa gentile Patria natia, cun boghes de tristur’e de anneu, racconta s’agonia chi lenta t’hat cread’o mutu feu. Si calencunu si mustrat surpresu e’ sa novella li paret istrana, nara chi has intesu de s’agonia mia sa campana. Ecco, già de sos sensos nde so foras, cust’est s’ultimu bas’ ’e frade tou: addio, si viv’ancoras frade, t’happ’a iscrier dae nou. Infermeria presidiaria di Sassari 20 maggio 1895.28 162 AGONIA A mio fratello Edoardo. Quando leggerai questi / mutos il camposanto / avrà accolto le mie ossa. / Con le ciglia bagnate / di amaro pianto, / m’invocherai. Addolorato / piegherai la testa / stanca, in questa pagina funesta. // Quando leggerai il flebile canto / che scrivo in queste ore di tristezza, / stille di pianto / vi verserai sopra, o Fratello mio. // In quell’ora di dolore e sconforto, / leggendo i lamenti di un afflitto, / penserai al morto / fratello che queste pagine ha scritto. // Sono pagine funeste e deliri / che consacro a te con affanni, / perché sappia dei martiri / che m’hanno ucciso nei teneri anni. // Scrivo a letto, con mano tremante, / perché il cuore è gravato da tanti lutti, / perché penso all’istante / in cui leggerai questi mutos. // Avevo decretato di non lasciare / questo canto che ti è di sconforto, / per non rinnovarti / la mia memoria dopo morto. // Ma una voce di mistero mi dice: / «Perché soffri così e resti zitto, / o moribondo? Scrivi / a chi resta un ultimo saluto». // Il saluto che triste ti giunge / ti addolora, però devi compatire, / perché fa più male a me / darlo che a te riceverlo. // Ti ricordi, caro fratello, quanto forte, / allegro e sano ero in gioventù? / Odiando la morte, / di sole speranze vivevo. // Oggi quell’allegria è partita, / è annientato quel cuore forte: / mi sta mancando la vita, / per conforto sto invocando la morte. // Ti ricordi, caro fratello, i giocondi / sorrisi amorosi, senza pena? / Quei capelli biondi / che mi scendevano alla nazarena? // Cessati son gli incanti gioiosi, / oscurata è l’allegra fantasia. / Ora sono capelli bianchi / che coronano la stanca fronte mia. // Ora mi manca l’antico ardimento / quello che possedevo da giovanetto, / e sento uno sgomento / che annunzia la triste fine mia. // Tu non lo sai, no, son moribondo, / il respiro mi viene a mancare: / forse lascio il mondo / senza neanche poterti salutare. // Va’ mutu, fatale documento / che vive, mentre io vado alla sepoltura, / scherzo del vento, / e annuncia la mia sventura. // Nella gentile Patria natia, / con voci di tristezza e pena, / racconta l’agonia / che lenta t’ha creato, o mutu sgraziato. // Se qualcuno si mostra sorpreso / e la notizia gli sembra strana, / dì che hai sentito / della mia agonia la campana. // Ecco, già sono privo di sensi, / questo è l’ultimo bacio di tuo fratello: / addio, se vivo ancora / fratello, ti scriverò di nuovo. 163 POESIAS SOLFERINO!29 A NANNI SULIS [I]30 «Ebbè, come la va, signor Francesco?» nesit Pedru passend’in su camminu, «semus a s’orizzont’ ’e su destinu: vieni figlioccio che prendiamo il fresco. 5 10 Nanneddu meu, su mund’est gai, a sicut erat non torrat mai. Ti voglio raccontar, se ci riesco, comente fit sa gherr’a Solferinu, si no pregunt’a frade meu Peppinu come fuggì l’esercito tedesco. 5 Semus in tempos de tiranias, infamidades e carestias. La notte che ci avevano attaccati zunchiavano le balle sulla testa come fanno i calleddi appena nati. 10 Como sos populos cascant che cane, gridende forte: «Cherimus pane». C’era un calore che nel mio termometro il mercurio bolliva, e la tempesta del fuoco si sentiva ad un centometro». 15 20 SOLFERINO! «Ebbè, come la va, signor Francesco?» / disse Pedru passando per strada, / «siamo all’orizzonte del destino: / vieni figlioccio che prendiamo il fresco. // Ti voglio raccontar, se ci riesco, / com’era la guerra a Solferino, / se no chiedi a mio fratello Peppino / come fuggì l'esercito tedesco. // La notte che ci avevano attaccati / zunchiavano [‘fischiavano’] le balle [‘pallottole’] sulla testa / come fanno i calleddi [‘cagnetti’] appena nati. // C'era un calore che nel mio termometro / il mercurio bolliva, e la tempesta / del fuoco si sentiva ad un centometro». 164 25 Famidos, nois semus pappande pan’ ’e castanza, terra cun lande. Terra c’a fangu torrat su poveru senz’alimentu, senza ricoveru. B’est sa filossera, impostas tinzas, chi nos distruint campos e binzas. Undas chi falant in Campidanu, trazan tesoros a s’oceanu. 165 POESIAS 30 35 40 45 Cixerr’in Uda,31 Sumasu Assemene, domos e binzas torrat a tremene. 60 E non est semper ch’in iras malas intrat in cheja32 Dionis’Iscalas.33 65 Terra si pappat, pro cumpanaticu bi sunt sas ratas de su focaticu. 70 Cuddas banderas numeru trinta, de binu ’onu, mudad’han tinta. Appenas mortas cussas banderas non piùs s’osservant imbreagheras. 55 Peus sa famene chi, forte, sonat sa jann’a tottus e non perdonat. Avvocadeddos, laureados, bussacas buidas, ispiantados. 75 50 pretende s’abba parimus ranas. Amig’a tottus fit su Milesu, como lu timent, che passant tesu. 80 Santulussurzu cun Solarussa non sunt amigos pius de sa bussa. 85 In sas campagnas pappana mura, che crabas lanzas in sa crisura. Cand’est famida s’avvocazia, cheres chi penset in Beccaria? Mancu pro sognu, su quisitu est de cumbincher tant’appetitu. Poi, abolidu pabillu e lapis intrat in ballu su rapio rapis. Mudant sas tintas de su quadru, s’omin’onestu diventat ladru. Semus sididos in sas funtanas, 166 167 POESIAS 90 95 100 105 Sos tristos corvos a chi los lassas? Pienos de tirrias e malas trassas. 120 Canaglia infame piena de braga, cherent s’iscettru cherent sa daga! 125 115 Maccos, famidos, ladros. Baccanu faghimus, nemos halzet sa manu. Adiosu Nanni, tenedi contu, faghe su surdu, ’ettad’a tontu; Ma non bi torrant a sos antigos tempos, de infamias e de intrigos. 130 Pretant a Roma, mannu est s’ostaculu; ferru est s’ispada linna est su baculu. S’Intulzu apostulu de su Signore si finghet santu, ite impostore. 110 e semper bides una minestra. a tantu, l’ ’ides, su mund’est gai a sicut erat non torrat mai. A NANNI SULIS [I] Sos corvos suos tristos, molestos, sunt sa discordia de sos onestos. Nanneddu mio / il mondo è così, / a sicut erat / non torna mai. // Siamo in tempi / di tirannie, / infamie / e carestie. // Ora i popoli / sbadigliano come cani, / gridando forte: / «Vogliamo pane». // Affamati, noi / stiamo mangiando / pan di castagne / terra con ghiande. // Terra come fango / riduce il povero / senza alimento, / senza ricovero. // C’è la filossera, / imposte, tigne, / che ci distruggono / campi e vigne. // Onde che scendono / in Campidano, / trascinano tesori / all’oceano. // Il Cixerri a Uta, / Elmas, Assemini, / case e vigne / riduce in dirupi. // E non è sempre / che nelle tempeste / entra in chiesa / Dionigi Scalas. // Terra si mangia, / per companatico / ci son le rate / del focatico. // Quelle bandiere, / di numero trenta, / di buon vino, / han cambiato tinta. // Appena sparite / quelle bandiere / non più si vedono / ubriacature. // Amico di tutti / era il E gai chi tottus faghimus gherra, pro pagas dies de vida in terra. Dae sinistra ’oltad’a destra 168 169 POESIAS Milese, / ora lo temono, / gli passano lontano. // Santulussurgiu / con Solarussa / non sono più amici / della borsa. / Siamo assetati / nelle fontane, / contendendoci l’acqua / sembriamo rane. // Peggio la fame / che, forte, bussa / alla porta di tutti / e non perdona. // Avvocatucci, / laureati, / tasche vuote, / spiantati. // Nelle campagne / mangiano more, / come capre magre / nelle chiuse. // Quando è affamata / l’avvocatura, / vuoi che pensi / a Beccaria? // Neanche per sogno, / il quesito / è di appagare / tanto appetito. // Poi aboliti / carta e lapis / entra in campo / il rapio rapis. // Mutano i colori / del quadro, / l’uomo onesto / diventa ladro. // I tristi corvi / a chi li lasci? / Pieni di astio / e male trame. // Canaglia infame / piena di boria, / voglion lo scettro / voglion la daga! // Ma non ritornano / agli antichi / tempi, di infamie / e di intrighi. // Litigano a Roma, / grande è l’ostacolo; / ferro è la spada / legno è il bacolo. // L’Avvoltoio apostolo / del Signore / si finge santo, / che impostore! // I corvi suoi / tristi, molesti, / son la discordia / degli onesti. // E così tutti / facciamo guerra, / per pochi giorni / di vita in terra. // Da sinistra / vòltati a destra / e sempre vedi / una minestra. // Pazzi, affamati, / ladri. Baccano / facciamo, nessuno / alzi la mano. // Addio Nanni, / riguardati, / fai il sordo / fingiti tonto. // Che tanto, lo vedi, / il mondo è così, / a sicut erat / non torna mai. GALUSÈ34 A Lia Pulix Scano. Io son probatica Fonte novella Propizia ai fegati E alle budella. GIUSTI 5 10 15 20 170 Gentile signorina, chi cal’abe a sa ros’a mie ’olas, umil’e peregrina bundo tra sos fiores e nucciolas; so frisca e cristallina, si t’abbascias a mie ti consolas. A su cantaru meu fritti sas laras, ca nd’has ingranzeu.35 Deo, bundanziosa, so fentomada tra funtanas raras, cun tottus amurosa, so dispensera de sas abbas giaras: s’est chi nde ses bramosa a mie fritt’un’istante sas laras. Si gustas abbas mias des isclamare: «Beneitta sias!». Chi frisch’e pura sia l’ischit Cabu ’e Susu e Campidanu. A sa friscura mia benint sididos dae su pianu; cun d’un’istill’ebbia s’essere malaìdu torro sanu. Dae lontan’in s’istiu tottus bramant su meu murmuriu. 171 POESIAS 25 30 Eo so Galusè, logu delissiosu de incantu, firm’inoghe su pè o passizzeri, cust’est logu santu: deo cunfid’in te, zelt’has accurrer a mi dare vantu, cun bellas cumpagnias, a t’infriscare de sas abbas mias. 60 65 35 40 45 50 55 Umil’in custa rocca mai de murmurar’happo zessadu, bentu fritt’e fiocca hana sas venas mias astragadu, mai però sa brocca hat su nettare sou ismentigadu; pedidu m’hat continu sos bundantes umores c’happo in sinu. Ancoras o’in die no mi mancant dulzuras e bisittas. Tottus current a mie, e si consolant de sas abbas frittas, e deo, rie rie, cuntento broccas mannas e brocchittas. Dae custas frittas venas sempere partint sas broccas pienas. A cust’abba, sididas, sunt bennìdas donosas virginellas, a mie sunt bennìdas bajanas de Sardigna sas pius bellas: tottas si sunt frittidas a mi fagher onore. Pastorellas, signorinas e damas, de me cuntentas, nd’hant contadu famas. Dae logos istranzos 70 75 80 85 90 172 bennìdu b’hat dottissimas persones, e in festas e pranzos cottu b’hana crabittos e anzones, e mandigos liccanzos: puddas, porcheddos, pisch’e maccarrones. In custas abbas puras hant ismaltidu zelebres cotturas. Tottus hant divertidu ismentighende dogni cuntierra, preideros happ’ ’idu cottos, cantend’a sonu ’e chiterra; anzis nd’happ’assistidu beatamente istrampados in terra, in brazzos d’una vera, solenne, reverenda imbreaghera. Inoghe sa tristura morit, e torrat s’animu serenu. Sa sogra cun sa nura in custas abbas lassant su velenu, anzis si dana cura de lassare s’immina in su terrenu, c’hant fattu s’angallitta unidas a pedirem’abba fritta. Tottus sunt uguales, inoghe nemos vantat sos blasones. Baculos pastorales s’aunint a ispadas e bastones. Tottos parent fedales sas bezzas cun sas giovanas persones, bezzones e battias torrant piseddos a sas abbas mias. Odios e affectos in me hant imprentadu sos c’hant bidu, 173 POESIAS 95 100 105 110 ma deo sos secretos happo gelosamente custoidu, ca non sunt indiscretos sos umores ch’in vid’happo sumidu. E narrer ch’isco cosas chi parent finas meravigliosas! Frisca, bundant’e pura, cantas festas happ’ ’idu, e cantu giogu; basos dados a fura, toccos de man’e miradas de fogu. Happ’intesu sa giura de s’amant’a s’amada; in custu logu, tra cantos e festinos, happo bidu… una fila de puntinos. De’ happo ’idu bettas benner de nott’a’ custu logu santu, crabolas in palettas de fagher meravigli’e ispantu, e ateras suggettas incarazzadas de nieddu mantu: cuddas pius santiccas s’hant bagnadu sas laras tantu siccas. 125 130 135 140 145 115 120 De’ happ’intesu cosas chi a las narrer non parent costadas. Zetras armoniosas, fruscios de contrabband’e muiladas; umbras misteriosas fattu ball’hant segundu sas sonadas, e ateras cosas puru, chi no happ’ ’idu pro esser iscuru. Bajanas samunende intendo criticar’ogni persone, sas tales critichende 174 150 155 su mal’anzenu l’ischint a cantone: una s’est lamentende chi l’hant male pesadu su sabone, un’ater’a dovere criticat sas camijas de su mere. Mi vantant sos duttores vera recepta de sa gent’istittica, a sos meos umores benid’a si purgare sa Politica. Musseres e segnores, a s’ora de su votu tantu critica, inoghe, saturnale, dànt su famosu pranzu elettorale. Tando sos maccarrones morint in buccas dottas e famidas, misciados a sermones e a bellas promissas non cumpridas. Cantas discussiones galu vivas in me sunt imprimidas! Ma de tantas paraulas nd’happ’incunzadu? Unu saccu ’e faulas. A sas friscuras mias benint a fagher paghe sos contrarios. Diversas rettilias, preides, polizzottos, cummissarios e nobiles ispias, inoghe si dànt festas e isvarios. Inoghe su delittu fatt’hat cun sa giustissia s’ojttu. Inoghe s’allegria mai si ponet abidos de dolu. Intes’happ’a Pipia36 cantend’a zirfa cun su russignolu; 175 POESIAS 160 165 170 175 est debile de fisicu, camminat a istentu, paret tisicu. sa suav’armonia de cussas boghes m’hat dadu consolu. A sos cantigos graves rispust’happo cun murmuros suaves. Un’epoca beniat unu giovanu pallid’e ramasu, inoghe invocaiat sas noe virginellas de Parnasu: afflittu pianghiat, e mentres chi m’imprimiat unu basu, misciaiat amaras lagrimas a sas mias abbas giaras. Fit affligidu tantu chi li naia su misteriosu, flebile unu cantu in laras l’intendia dolorosu. Com’in su campusantu creo chi dormat s’ultimu riposu. Non pius b’est bennìdu, nè una cara novella nd’happ’ischidu. 195 200 205 210 180 185 190 Ischire nde cheria: galu l’happo costant’in s’intellettu, prit’una poesia m’hat iscrittu gentil’e cun affettu; servidemi de ghia s’a cas’est galu vivu su suggettu. Nadel’o signorinas chi torret a’ custas abbas cristallinas. Si mai l’hazis bidu, breve nde fatto sa biografia;37 est pallidu, bestidu a pannos tristos de malinconia, mesu test’ispilidu, in laras si l’annottat s’angustia: 176 215 220 Bizzarr’est e selvaticu, paret un’isciareu ’estid’a pannos: nè bellu nè simpaticu, cumparit bezz’e hat vintichimbannos, in sa fronte: «Viaticu» giughet iscritt’a caratteres mannos: distint’est sa persone sorr’a s’inseparabile bastone. S’a casu l’incontrades in s’umanu consorziu vivente, de coro li pregades chi mi fettat bisitta prontamente, anzis li consizades chi torret prestu e allegramente; nadeli chi fulana est torrad’amuros’a sa funtana. O bellas zittadinas, lassade sas gazzosas e limones: cussas sunt meighinas de chie giughet frazigos pulmones, si custas cristallinas abbas bibides vivides ruzones,38 sanas coment’ ’e dindos, e chi s’impicchent a sos tamarindos. E tue, imbreagone chi giughes in sa ’ula sa siccagna, e cottu su pulmone, cun sa test’attontada de migragna; su bin’in su pistone39 lass’e ben’a inogh’a sa muntagna e curad’in sas veras abbas friscas – istud’imbreagheras. 177 POESIAS 225 230 235 240 245 250 255 Tue o Lia cara40 de custu logu des esser sa prama, che a’ cust’abba, giara cunservadi onorad’a babb’e mama: fentomada pro rara in virtudes, belles’onor’e fama. Chelzo chi s’abba mia potat narrer: «So pura che a Lia». Como benis a mie senz’algunu penseri, ses minore: gentil’e rie rie, bestida ’e pures’e de candore, goi pur’unu die benzas in cumpagnia de s’amore. Su die, o Lia cara, m’has agattare pius frisca e giara. De coro su disizu happo chi siast mia fittiana: rosa ses, cun su lizu ben’a inoghe donosa e galana, s’intemeradu chizu cunserva sorrident’a sa funtana, c’hat happidu sa fama de haer cumbidad’a babb’e mama. De sa pur’abba mia ben’e leande cun devossione: la giughes a cresia, li faghes dare benedissione; pro chi servat, o Lia, cando chi su preide s’unione suggellat, de su coro chi t’amat, a su tou, o rosa d’oro. Tonara-Galusè, marzo 1897. 178 GALUSÈ Gentile signorina, / che come l’ape alla rosa verso me voli, / umile e peregrina / sgorgo fra i fiori e le nocciole; / sono fresca e cristallina, / se t’inchini a me ti consoli. / Alla mia fonte / porgi le labbra, perché ne sarai ricompensata. // Io, abbondante, / sono conosciuta fra fontane rare, / con tutti amorevole, / sono dispensatrice di acque chiare: / se ne sei bramosa / porgi a me un istante le labbra. / Se gusti le acque mie / esclamerai: «Benedetta sia!». // Che fresca e pura sia / lo sa il Capo di Sopra e il Campidano. / Alla frescura mia / vengono assetati dal piano; / con una stilla sola / rendo il malato sano. / Da lontano d’estate / tutti bramano il mio mormorio. // Io sono Galusè, / luogo delizioso d’incanto, / ferma qui il piede / o passante, questo è un luogo santo: / io confido in te, / certo accorrerai a darmi vanto, / con belle compagnie, / a rinfrescarti con le acque mie. // Umile in questa rocca / mai ho cessato di mormorare, / vento freddo e neve / hanno ghiacciato le mie vene, / mai però la brocca / ha dimenticato il suo nettare; / mi ha chiesto di continuo / gli umori abbondanti che ho in seno. // Al giorno d’oggi ancora / non mi mancano dolcezze e visite. / Tutti accorrono a me, / e si consolano con le fredde acque, / ed io, sorridendo, / accontento brocche grandi e brocchette. / Da queste fredde vene / sempre ripartono le brocche piene. // A quest’acqua, assetate, / son venute graziose verginelle, / a me sono giunte / della Sardegna le giovani più belle: / tutte si sono fermate / a farmi onore. Pastorelle, / signorine e dame, / soddisfatte, di me hanno raccontato la fama. // Da terre forestiere / sono giunte dottissime persone, / e in feste e pranzi / qui hanno cotto capretti e agnelli, / e cibi appetitosi: / galline, porchetti, pesce e maccheroni. / In queste acque pure / hanno smaltito celebri “cotture”. // Tutti si sono divertiti / dimenticando ogni contesa, / preti ho visto / cotti, cantare a suon di chitarra; / anzi, ne ho assistito / beatamente buttati a terra, / fra le braccia di una vera, / solenne, reverenda ubriacatura. // Qui la tristezza / muore, e l’animo ritorna sereno. / La suocera con la nuora / in queste acque lasciano il veleno, / anzi si danno cura / di lasciare l’orma nel terreno, / perché hanno saltellato / assieme, chiedendomi acqua fredda. // Tutti sono uguali, / qui nessuno vanta i blasoni. / Bacoli pastorali / s’uniscono a spade e bastoni. / Tutti sembrano coetanei / i vecchi e le giovani persone, / vecchi e vedove / tornano bambini con le mie acque. // Odi e affetti / hanno impresso in me quanti hanno bevuto, / ma io i segreti / ho 179 POESIAS gelosamente custodito, / perché non sono indiscreti / gli umori che in vita ho assorbito. / E dire che so cose / che sembrano pure meravigliose! // Fresca, abbondante e pura, / quante feste ho visto, e quanto gioco; / baci dati a ruba, / toccate di mano e sguardi di fuoco. / Ho sentito il giuramento / dell’amante all’amata; in questo luogo, / fra canti e festini, / ho visto… una fila di puntini. // Io ho visto cerbiatte / venire di notte a questo luogo santo, / daine in corpetto / da far meraviglia e stupire, / e altri soggetti / mascherate con un nero manto: / quelle più santocchie / si sono bagnate le labbra tanto secche. // Io ho sentito cose / che a raccontarle non sembrano accadute. / Cetre armoniose, / fischi furtivi e mugghi, / ombre misteriose / hanno ballato secondo le sonate, / e anche altre cose / che non ho visto perché era buio. // Giovani che fanno il bucato / sento criticare ogni persona, / criticando le tali / a menadito conoscono il male altrui: / una si lamenta / che le hanno pesato male il sapone, / un’altra a dovere / critica le camicie del padrone. // Mi vantano i dottori / come vera ricetta della gente stitica, / ai miei umori / viene a purgarsi la politica. / Messeri e signori, / nell’ora del voto più critica, / qui, saturnale, / danno il famoso pranzo elettorale. // Allora i maccheroni / muoiono in bocche dotte e affamate, / mescolati a sermoni / e a belle promesse non rispettate. / Quante discussioni / ancora vive in me sono impresse! / Ma di tante parole / cos’ho raccolto? Un sacco di favole. // Alla mia frescura / vengono a far pace i contendenti. / Varie specie di rettili, / preti, poliziotti, commissari / e nobili spie, / qui si danno a feste e follie. / Qui il delitto / strizza l’occhiolino alla giustizia. // Qui l’allegria / mai si veste con abiti di lutto. / Ho sentito Pipia / cantare a gara con l’usignolo; / la soave armonia / di quelle voci mi ha consolato. / Ai canti gravi / ho risposto con mormorii soavi. // Un tempo veniva / un giovane pallido e magro, / qui invocava / le nove verginelle del Parnaso: / afflitto piangeva, / e mentre un bacio m’imprimeva, / mescolava amare / lacrime alle mie acque chiare. // Era afflitto tanto / che lo chiamavo il misterioso, / un flebile canto / gli sentivo sulle labbra, doloroso. / Ora nel camposanto / credo che dorma l’ultimo riposo. / Non è più venuto, / né una cara nuova ne ho saputo. // Avrei voluto saperne: / ancora lo serbo costante nella mente, / perché una poesia / mi ha scritto, gentile e con affetto; / fatemi da guida / se per caso è ancora vivo il soggetto. / Ditegli o signorine / che ritorni a queste acque cristalline. // Se mai l’avete visto, / ne faccio una breve biografia; / è pallido, vestito / con tristi panni di malinconia, / mezzo spelato, / sulle labbra gli si legge l’angoscia: / è debole di fisico, / cammina a stento, sembra tisico. // È bizzarro e selvatico, / sembra un asfodelo coi panni indosso: / né bello né simpatico, / sembra vecchio e ha venticinque anni, / sulla fronte: «Viatico» / ha scritto a grandi caratteri: / è distinta la persona / sorella dell’inseparabile bastone. // Se per caso lo incontrate / nell’umano consorzio vivente, / di cuore lo pregate / che mi faccia visita prontamente, / anzi consigliatelo / che torni presto e allegramente; / ditegli che “la tale” / è tornata amorevole alla fontana. // O belle cittadine, / lasciate le gassose e limoni: / quelle sono medicine / di chi ha marci i polmoni, / se queste cristalline / acque bevete vivrete forti, / sane come tacchini / e che s’impicchino ai tamarindi. // E tu, ubriacone / che hai nella gola l’arsura, / e cotto il polmone, / con la testa stordita dall’emicrania; / il vino nel bottiglione / lascialo e vieni qui alla montagna / e curati nelle vere / acque fresche spegni-ubriacature. // Tu o Lia cara / sarai di questo luogo la palma, / come quest’acqua, chiara / conservati, onorata per babbo e mamma: / famosa per esser rara / in virtù, bellezza, onore e fama. / Voglio che l’acqua mia / possa dire: «Sono pura come Lia». // Ora vieni a me / senza alcun pensiero, sei piccola: / gentile e sorridente, / vestita di purezza e candore, / pure così un giorno / che tu venga in compagnia dell’amore. / Il giorno, o Lia cara, / mi troverai più fresca e chiara. // Di cuore il desiderio / ho che sia a me assidua: / sei una rosa, col giglio / vieni qui, graziosa e leggiadra; / l’intemerato sguardo / conserva sorridente alla fontana, / che ha avuto la fama / di aver dissetato babbo e mamma. // Della pura acqua mia / vieni e prendine con devozione: / portala in chiesa, / falle dare la benedizione; / perché serva, o Lia, / quando il prete l’unione / suggella, del cuore / che ti ama, col tuo, o rosa d’oro. 180 181 POESIAS A JUANNE SULIS41 35 5 10 15 20 25 30 Caru Juanne meu, Semper mudu cun tegus so istadu, it’abbandonu! In su mentres t’imbio unu saludu affettuosu, dimando perdonu. S’istadu so cun tegus inurbanu, ismentiga s’offes’e siast bonu. Pro chi non t’happ’iscrittu fittianu semper happ’iscolpid’in coro meu su lumen d’unu frade ch’est lontanu. Zircundadu de dol’e de anneu, de ti mandar’una novella mia, mai happo gosadu su recreu. In sa gentile Patria natia su car’amigu tou est moribundu in s’ultimu sarragh’ ’e s’agonia. Cuddu sorris’amabil’e giucundu dae su visu meu est isparidu: est decretadu chi lasse su mundu. Su debil’organismu est isfinidu, tristu como, so ’ennid’a su puntu de frastimare su primu cumbidu. Si pro casu de me faghes preguntu t’hant a rispunder: «Cuss’isventuradu non lu chirches in vida, ch’est defuntu». Deo cando chi m’ ’ido a’ cust’istadu, bidende irreparabile su male, suspiro cun su coro avvelenadu. Intend’in cor’un’ansia fatale, e naro: «Parca ingrata, già ch’est s’ora, abbrevia su meu funerale». Ite bi fatt’in su regnu ’e Flora seminende dolor’e iscunfortu 182 40 45 50 55 60 65 70 in coros dulches ch’isperant ancora? Pro suffrire gosie menzus mortu; pro me pius non bi nd’hat de ispera, su campusant’est s’unicu cunfortu. Amigu caru, pensa e cunsidera cale det esser s’affann’e’ su dolu chi mi consumit che candel’ ’e chera. Sa morte no, no mi dat oriolu, sento chi lasso custa cara terra bestida de su funebre lentolu. Etern’inimistad’eterna gherra b’happo connottu, pizzinnu minore, brigas, confusion’e cuntierra. Paghe, risos, carignos e amore, mai happo connottu, solamente velenosas ispinas de dolore. S’infami’ happo ’idu impunemente bominde su velenu in sos fiores de custu ridentissimu padente. Pubusas, tilibrios e astores, maistros de nefandas aziones, dànt sa biccad’a puzzones minores. Pugnales velenosos e bastones animados, attalzu, ferr’e brunzu, parant brigas e confusiones. S’anonimu libellu de murrunzu si bestit sa divisa ’e Pilatu, frundit sa pedr’e si cuat su punzu. Corvos molestos chi faghent disbatu pro mantenner niedda sa pinnia, ponende s’armonia in disbaratu. Cale barch’in su mare senza ghia, perigulant’in su fatal’iscogliu, tue ses, o diletta terra mia. In brazzos de s’Usura e de s’Imbrogliu, su poveru, cun fadigas e sudore, accuccurat su riccu portafogliu. 183 POESIAS 75 80 85 90 95 100 105 Su vampiru chi giamant esattore, cun tassas medas graves e impostas, seminend’est in bidda su terrore. Zeltas faccias ipocritas e tostas si rident de su ben’e de su male: mudant in d’unu die milli crostas. Sas testas chi si vantant d’haer sale suni fertas a bin’e non hant cura de pensar’a su bene soziale. Su coraggiu zivile a sa paura s’est abbrazzadu: timet, ca est zegu, su frittu sognu de sa sepoltura. Sos ricursantes sighint s’impiegu de fagher male, in bidda sun timidos che’ sa temporada de Murdegu.42 Galiotos a Preides unidos suni tessende tirrias e brigas, isfoghende sos odios zozzidos. Tue, cando chi podes, duas rigas iscrie contr’a’ custos tirriosos, castiga sas anonimas pinnigas. Aunid’a sos pagos virtuosos, pro dare dezisiva una battaglia contr’a’ custos serpentes velenosos. Sos pettos nostros dent esser muraglia, chi devimus opponner cun virtude, fortes, contr’a sa perfida canaglia. Ti piango pro cussu, o gioventude, perdid’has sa virtude, ca t’agattas mancante de sa fisica salude. Odios, gherras surdas e cumbattas c’happo ’idu, in sa debile persone b’hana lassadu terribiles trattas. Tue, Juanne faghedi dugone de s’opprimidu miser’e affrantu: preiga libertad’e unione. Cando m’has a ischir’in campusantu, 184 110 115 120 125 130 mandam’unu penseri piedosu, una sincer’istilla ’e piantu. Finas dorminde s’ultimu riposu mi devet esser car’e aggradidu cussu saludu tou affettuosu. Tue vive onestu. Favoridu siast dae sa sort’e potas bier realizzadu su sognu c’has bidu. Cando podes procura de m’iscrier; imbiam’una littera brullana, in coro sento su bisonz’ ’e rier. De rier veramente nd’happo gana, però mi toccat a fagher su seriu prite sa testa mi’est pili cana. Inoghe, zeltos, chi non hant criteriu, m’halzana s’oj’ ’e sa malignidade, e mi giamant a lumene misteriu. S’ischerant de sa mia infirmidade, sos chi si rident de custu mischinu, diant haer amor’e piedade. Bastat, siat cumpridu su destinu, est iscrittu, mi toccat prosighire tamba tamb’e finire su camminu. Est ora puru de mi dispedire, meda t’happ’infadad’amigu meu: amuros’e gentile cumpadire deves s’amigu Peppinu Mereu 13 marzo 1896. 185 POESIAS A GIOVANNI SULIS Caro Giovanni mio, sempre zitto / sono stato con te, che abbandono! / Nel mentre t’invio un saluto // affettuoso, chiedo perdono. / Se sono stato con te poco educato, / dimentica l’offesa e sii buono. // Sebbene non ti abbia scritto spesso / sempre ho scolpito nel mio cuore / il nome di un fratello che è lontano. // Circondato di dolore e angoscia, / d’inviarti una nuova mia, / mai ho avuto il piacere. // Nella gentile Patria natia / il tuo caro amico è moribondo / nell’ultimo rantolo d’agonia. // Quel sorriso amabile e giocondo / dal mio viso è sparito: / è decretato che lasci il mondo. // Il debole organismo è sfinito, / triste ora, sono arrivato al punto / di maledire il primo invito. // Se per caso chiedi di me / ti risponderanno: «Quello sventurato / non cercarlo in vita, perché è defunto». // Io, quando mi vedo in questo stato, / vedendo irreparabile il male, / sospiro col cuore avvelenato. // Sento nel cuore un’ansia fatale, / e dico: «Parca ingrata, già che è l’ora, / affretta il mio funerale». // Cosa ci faccio nel regno di Flora / seminando dolore e sconforto / in dolci cuori che sperano ancora? // Per soffrire così meglio morto; / per me non c’è più speranza, / il cimitero è l’unico conforto. // Amico caro, pensa e considera / quale può essere l’affanno e il dolore / che mi consuma come una candela di cera. // La morte no, non mi dà pensiero, / sento che lascio questa cara terra / vestita del funebre lenzuolo. // Eterna inimicizia, eterna guerra / vi ho conosciuto, da bambino, / liti, confusione e contese. // Pace, risa, carezze e amore / mai ho conosciuto, solamente / velenose spine di dolore. // Ho visto l’infamia impunemente / vomitare il veleno sui fiori / di questo ridentissimo bosco. // Upupe, gheppi e astori, / maestri di nefande azioni, / beccano i piccoli uccellini. // Pugnali velenosi e bastoni / animati, acciaio, ferro e bronzo, / organizzano liti e confusioni. // L’anonimo libello di mugugno / indossa la divisa di Pilato, / scaglia la pietra e nasconde la mano. // Corvi molesti che litigano / per conservare nero il piumaggio, / mettendo disordine nell’armonia. // Come barca in un mare senza guida, / in pericolo nel fatale scoglio, / tu sei, o diletta terra mia. // Fra le braccia dell’Usura e dell’Imbroglio, / il povero, con fatiche e sudore, / riempie il ricco portafoglio. // Il vampiro che chiamano esattore, / con tasse assai gravose e imposte, / sta seminando nel paese il terrore. // Certe facce ipocrite e toste / se la ridono del bene e del male: / cambiano in un giorno mille “scorze”. // Le teste che si vantano d’aver sale, / sono guastate dal vino e non si 186 curano / di pensare al bene sociale. // Il coraggio civile alla paura / s’è abbracciato: teme, perché è cieco, / il freddo sogno della sepoltura. // I ricusanti proseguono nell’azione / di fare del male, in paese sono temuti / come la tempesta di Murdegu. // Galeotti uniti a preti / stanno tessendo trame e brighe, / sfogando gli odi sozzi. // Tu, quando puoi, due righe / scrivi contro questi odiosi, / castiga gli anonimi imbrogli. // Unisciti ai pochi virtuosi, / per sferrare decisiva una battaglia, / contro questi serpenti velenosi. // I nostri petti devono essere una muraglia, / che dobbiamo opporre con virtù, / forti, contro la perfida canaglia. // Per questo ti piango, o gioventù, / hai perso la virtù, perché ti ritrovi / mancante della salute fisica. // Odi, guerre sorde e confusioni, / che ho visto, nella debole persona / hanno lasciato terribili segni. // Tu, Giovanni, fatti condottiero / dell’oppresso misero e affranto: / predica libertà e unione. // Quando mi saprai in camposanto, / mandami un pensiero pietoso, / una sincera stilla di pianto. // Anche mentre dormo l’ultimo riposo / mi dev’esser caro e gradito / quel tuo saluto affettuoso. // Tu vivi onesto. Favorito / sii dalla sorte e possa vedere / realizzato il sogno che hai fatto. // Quando puoi cerca di scrivermi; / mandami una lettera scherzosa, / sento nel cuore il bisogno di ridere. // Ho veramente voglia di ridere, / però mi tocca fare il serio / perché la mia testa è imbiancata. // Qui, taluni senza criterio, / mi lanciano una maligna occhiata, / e mi chiamano col nome di ‘mistero’. // Se sapessero della mia infermità, / quelli che ridono di questo infelice, / proverebbero amore e pietà. // Basta, si compia il destino, / è scritto, mi tocca proseguire / barcollante e finire il cammino. // È pure ora di accomiatarmi, / ti ho infastidito abbastanza amico mio: / amorevole e gentile compatire / devi l’amico Peppinu Mereu. 187 POESIAS CARESIMA mandighende fenuj’e pigulosa, arengu e baccalare. In brazzos d’una vida libertina d’eris allegramente mi so dadu, umil’o’a rizire sa chijna eccom’imbenujadu. 5 10 15 20 D’eris a’ cust’ora fi’a cazza de festas, maccu e ispensieradu, oe, cumpuntu, e senza sa carazza devotu so torradu. Zessad’est cudda macca cuntierra de sos festinos c’happo fattu d’eris, su preid’oe narat: «Ses de terra, Pulverem reverteris». Faeddos misteriosos e fatales chi ponent in penseris sa canaglia, e nos ammentant miseros mortales chi semus de terraglia. 30 35 40 45 Già chi so terra lasso sas iscialas, basa mattones, a coron’in manu, m’iscri’a mann’a mann’in mesu palas: «Vetro-posa pianu». Sos zibos rassos de carrasegare oe rinnego tottu, ossos e pulpa, umile m’est obbligu rezitare s’eternu mea culpa. Caresim’est intrad’e rigorosa; penettidu mi toccat dijunare, 188 Murena, seppia, trigli’e minestrones de basolu, sunt cosas de pappare, e fattu fattu, duos maccarrones tantu pro variare. Su cundimentu però, ca est vedadu s’ozu porchinu, det esser iscassu, mancari siat de casu filadu, ca non est zibu rassu. Mi tremo solament’a bi pensare: in dies chi mancant’ ’enit sa pisca, m’happ’a bider costrint’a mandigare carzoff’e fae frisca. 50 25 Suni baranta dies de dieta de mortificassion’e penitenzia: su pisch’est permittidu, de sa peta assolut’astinenzia. 55 Ahi vida penosa! Reduidu como so a pappare casu e pasta; foras buffare ’inu, est proibidu, si no est de s’Ozasta. Com’a sa penitenzi’a suffrire su corpus det frittir’ubbidiente; a coment’happ’a poder resistire penso seriamente. Però, cun voluntad’e meda zelu, no m’happ’a dar’in brazzos a sa famene, ca est nient’a si perder su chelu pro una fitt’ ’e salamene. 189 POESIAS 60 Baranta dies mannas casca casca, e tue preide preigas: «Non pecches», ma si benit sa bella di’ ’e Pasca, ah tando non mi secches! Pro com’isto cumpunt’, a dilighenzia rezito s’attu de contrizione, e fatto sa lissi’a sa cussenzia pro sa cunfessione. 65 70 75 Ca chelzo cunfessar’ogni peccadu, s’anima non det giugher pius pesu; ite consolazion’esser purgadu senza su sal’inglesu! Anima mia si ti ses dannada dended’in brazz’a su divertimentu, tenedi bene pront’e preparada pro su dibattimentu. Mustradi senz’alguna pauria, non timas, no, su cunfessionale: cun pagu pag’astuzi’e furberia salvamus sacch’e sale. 190 QUARESIMA Fra le braccia di una vita libertina / ieri allegramente mi sono gettato, / oggi umile a ricevere la cenere / eccomi inginocchiato. // Ieri a quest’ora ero a caccia / di feste, folle e spensierato, / oggi, compunto, e senza la maschera / devoto son tornato. // Cessata è quella matta sfida / dei festini che ho fatto ieri, / il prete oggi dice: «Sei di terra, / pulverem reverteris». // Parole misteriose e fatali / che danno da pensare alla canaglia, / e ci ricordano, miseri mortali, / che siamo terraglia. // Già che son terra lascio gli sciali, / bacia-mattoni, col rosario in mano, / mi scrivo grande grande fra le spalle: / «Vetroposa piano». // I cibi grassi di carnevale / oggi rinnego tutti, ossa e polpa; / umile mi è d’obbligo recitare / l’eterno mea culpa. // La quaresima è entrata rigorosa; / pentito mi tocca digiunare, / mangiando finocchio e parietaria, / aringa e baccalà. // Sono quaranta giorni di dieta, / di mortificazione e penitenza: / il pesce è permesso, dalla carne / assoluta astinenza. // Murena, seppia, triglia e minestroni / di fagioli, sono le cose da mangiare, / e ogni tanto, due maccheroni / tanto per variare. // Il condimento, però, poiché è vietato / il grasso di maiale, dev’essere scarso, / anche se è di formaggio fresco, / perché non è un cibo grasso. // Tremo al solo pensiero: / nei giorni in cui manca la pesca, / mi vedrò costretto a mangiare / carciofi e fave fresche. // Ahi vita penosa! Ridotto / sono ora a mangiare formaggio e pasta; / basta bere vino, è proibito, / se non è d’Ogliastra. // Ora a sopportare la penitenza / il corpo deve piegarsi ubbidiente; / a come potrò resistere / penso seriamente. // Però, con volontà e molto zelo, / non mi getterò fra le braccia della fame, / perché è un niente perdersi il cielo / per una fetta di salame. // Quaranta lunghi giorni a sbadigli, / e tu, prete, predichi: «Non peccare», / ma se arriva il bel giorno di Pasqua, / ah, allora non mi seccare! // Per ora resto compunto, con diligenza / recito l’atto di contrizione, / e faccio il bucato alla coscienza / per la confessione. // Perché voglio confessare ogni peccato, / l’anima non avrà più peso; / che consolazione esser purgato / senza il sale inglese! // Anima mia, se ti sei dannata / gettandoti fra le braccia del divertimento, / mantieniti ben pronta e preparata / per il dibattimento. // Mostrati senza alcuna paura, / non temere, no, il confessionale: / con un po’ d’astuzia e furberia / salviamo sacco e sale. 191 POESIAS A EUGENIU UNALE [I]43 35 Eugeniu caru, 5 10 15 20 25 30 non ti cretas chi de te mi nde sia ismentigadu, poeta coment’ ’e tottu sos poetas su silenziu to’ happ’imitadu. Pustis tant’isettare, finalmente, un’amigu de te m’hat faeddadu. Mi nd’hat trattad’e m’hat fattu presente ch’in Simala ses galu fort’e sanu e ti la cantas ancor’allegramente. Deo, ca t’happ’in coro fittianu, mi nde cuntent’ ’e sa novella cara, e ti mand’una fort’istrint’ ’e manu. Deo so in sa patria Tonara respirende sas aèras natias, curende sa person’a s’abba giara. Cudda zetra ch’in manos mi bidias est iscordad’e non sonat piusu, ca l’happo postu cordas de tinnias. Tue galu però nde faghes usu: ti favorit sa zetr’in s’armonia, ca ses fiz’a su veru Cab’ ’e Susu. Ses naschid’in sa terra ’e Billia,44 si cantas podes cantar’a primore; caru ses a Melpomen’e Talia. Tue ses astru ch’in Putumajore bi lassas fama coment’in Posada bi nd’hat lassadu Mercioro Dore. Sa poesia mi’abbandonada senza mai nde fagher pius cura, una pros’indezent’est diventada. S’iscrio calchi vers’a fur’a fura tando mi nàt una ’oghe secreta 192 40 45 50 55 60 65 70 ch’est una porcheri’addirittura. Sas noe Sorres mi narant: «Poeta, mi chi sa poesi’est indigesta, pensa de osservare sa dieta». Cust’ironica ’oghe de protesta, amigu meu, non podes pensare cant’a s’orja mi sonat molesta. Pro cuss’est chi no m’isco rassignare a su dijunu de s’arte poetica; sa fert’est grav’e non podet curare. S’anima mia, de natur’iscettica, bramosa de intrar’in su Parnasu, credula si dimustrat e ascetica. Però in Elicona pagu casu faghent de me, mi faghent sas ficcas sas noe Sorres si ped’unu basu. De Ippocrene sas abbas sunt siccas; cand’happo protestadu: «So sididu», m’hana rispustu: «Bandas e t’impiccas». S’azzettadu l’haere su cumbidu a’ custas oras tranquillu fia, e forsis no mi nde fia penettidu. Bae in bonora bae poesia! S’est presentada che tentassione, a brullare sa mia fantasia. Bae chi happ’a dar’attenzione, si a casu mi tentas dae nou no happ’a esser gai tontorrone. Sa testa mi’est fragile che ou, però si benis tue musa vana pro sort’est chi bi craves unu zou. Pro cantu ses gasie risulana a mie no mi ponzas a sa prova; de brullare nde tenzo paga gana. Non zocches a sa mia mente bova a mi pedir’unu semplice mutu, mi ca ti le’a colpos de iscova. 193 POESIAS 75 80 85 90 95 100 105 Su laru tenedilu, ca est fructu de sos veros poetes, sa corona a mie faghemila de armutu. Tue, Unali caru, in Elicona jura fid’a sa Pieria dea, ca de tottu sas musas est padrona. Si ti capitat poneli trobea, profitta como chi t’istimat tantu, si no est fazil’a mudar’idea. Tue abberi sas laras a su cantu armoniosu, e siast de consolu a sos coros chi vivent de piantu. Deo t’invoco cale russignolu: ben’a cantar’a sa Patria mia, ispalghelas sas alas a su ’olu. Milli cosas contare ti cheria, e cheria godire ness’un’ora su consol’ ’e sa tua cumpagnia. Ismentigadu non t’hai’ancora, ti nde fatto solenne juramentu, sa limba mia no est impostora. Galu ses in su meu pensamentu: chi de te no m’ammente, caru amigu, no che passat nè ora nè momentu. Deo ancora so s’amig’antigu, si ti paret chi facci’ happo mudadu severamente ponem’in castigu. Si a t’iscrier goi happo tardadu, no nelzas inurban’e negligente, ca mai negligente so istadu. De su restu, faeddo francamente, si eo istadu so silenziosu, tu’ has fattu su surd’ugualmente. Menzus ch’istadu siast disizosu in isettare bonas novas mias, che mi narrer seccant’e infadosu. Prit’a la narrer, custas litanias 194 110 115 120 125 130 135 140 chi t’imbio, ti devent resessire seccantes verament’e istantias. Mentres ti prego de mi cumpadire si troppu noiosu so istadu, varias cosas ti do a ischire. In primu iscas chi happ’incontradu cuddu superiore tirriosu45 chi tenimis fattende su soldadu. Accanta m’est passadu, bilgonzosu, ma non l’happo negadu su saludu, prite ca so de coro piedosu. No m’hat rispust’e restadu s’est mudu, prite fit istrazzadu in modu tale chi si timiat de li narrer nudu. Puru si ti nd’ammentas cantu male hat fattu cussu, a mi’e a tie cando l’haimis sutt’uffiziale. A lu diat a crer chi o’in die diat a benner in bisonz’ ’e pane? Su mundu caru meu, est fatt’ ’asie. Deo, invece de li narrer: «Cane!» happo tentadu de l’avvicinare, ipse però de me s’est fatt’addane. Ma inter ipse hat devid’esclamare: «Si unu tempus bonu istadu fia, como teni’a chie m’ajudare». Cuddos chi de sa sua tirania salvos sunt, si lu ’ident in s’istrada; lu giamant cun su lumen de ispia. S’ipocrita canagli’est mal’andada; a unu l’hat punidu su pugnale, s’ater’est mortu cun s’anca truncada. Bona parte bi nd’hat in s’ispidale, ca giughent frazigadu su pulmone, isettende s’insoro funerale. Cuddu marranu frade de Nerone istad’est cundennadu pro rapina 195 POESIAS 145 150 155 160 165 170 175 180 a bindig’annos de reclusione. Bi nd’hat in cumpagni’ ’e disciplina: samben’hat fattu s’istrale fonnesa, basada siat sa man’assassina. Non t’indignet sa mia cuntentesa chi dimustr’in basare cudda manu chi sever’hat punidu sa vilesa. Peus pro chie de coro villanu da ch’est soldadu ponet in olvidu chi su soldadu det esser umanu. Tue pur’a soldadu ses bestidu, a dogn’istante des haer presente su chi suffrinde ses e has suffridu. Tratta bene su tou dipendente cando nde tenes, ca ti narant bonu: menzus semper chi siast indulgente. Cumanda, ma no cumandes che padronu, ma che babb’amurosu, su rigore semper chi podes, pon’in abbandonu. Cun sos bonos faeddos, cun s’amore s’ottenet tottu, duncas amurosu vive cun tottus e faghed’onore. Prosigh’a ti mustrare virtuosu: senza virtude s’omine s’agattat che barchitt’in su mare burrascosu. Però s’omine chi onestu trattat pro finas cun sos malos tenet paghe, prite sas differenzias appattat. De su restu ses mannu, tue faghe su dovere: ti chelzo in s’onestade ischire un’incrollabile nuraghe. Ti naro tottu cust’o caru frade, prite t’istimo e senz’ipocrisia amigu so de sa sinceridade. Deo prego sa tua cortesia a perdonare cust’iscrittu meu bestid’a pannos de malinconia. 196 185 190 195 Si ti preguntant de Peppe Mereu nara chi est trazende isconsoladu sa rughe de su dol’e de s’anneu. Si calch’amigu giustu b’hat restadu, soldadu de sa propria bandera, siat a lumen meu saludadu. Tue, si podes, faghe sa manera, procura de m’iscrier prontamente brullan’e consolant’una littèra. Deo t’happ’a iscrier frequente fin’a mi narrer maccu e infadosu, ciarlatanu, seccant’e imprudente. Luegh’iscrie. Pro com’adiosu, dae cust’amenu e floridu jardinu ti mandat unu basu affettuosu s’amigu tou Mereu Peppinu. Tonara, 5 luglio 1896. 197 POESIAS A EUGENIO UNALE [I] Eugenio caro, non credere / che di te mi sia dimenticato, / poeta come tutti i poeti // il tuo silenzio ho imitato. / Dopo tanta attesa, finalmente, / un amico di te mi ha parlato. // Mi ha raccontato e mi ha fatto presente / che stai ancora a Simala, forte e sano / e te la canti ancora allegramente. // Io, che ti ho spesso nel cuore, / mi rallegro per la buona nuova / e ti mando una forte stretta di mano. // Io mi trovo nella patria Tonara / respirando l’aria natia, / curando la persona all’acqua chiara. // Quella cetra che mi vedevi in mano / è scordata e non suona più, / perché le ho messo corde di giunco. // Tu però ne fai ancora uso: / ti favorisce la cetra nell’armonia / perché sei figlio del vero Capo di Sopra. // Sei nato nella terra di Billia, / se canti puoi cantare eccellendo, / sei caro a Melpomene e Talia. // Tu sei l’astro che a Pozzomaggiore / lascerà fama come a Posada / ne ha lasciato Melchiorre Dore. // La mia poesia abbandonata / senza essermene più preso cura / una prosa indecente è diventata. // Se scrivo qualche verso di nascosto / allora mi dice una voce segreta / che è una porcheria addirittura. // Le nove Sorelle mi dicono: «Poeta, / guarda che la poesia è indigesta, / cerca di stare a dieta». // Questa ironica voce di protesta, / amico mio, non puoi pensare / quanto alle orecchie mi suoni molesta. // È per questo che non mi so rassegnare / al digiuno dell’arte poetica; / la ferita è grave e non si può curare. // L’anima mia, di natura scettica, / bramosa d’entrare nel Parnaso, / si dimostra credula e ascetica. // Però nell’Elicona poco caso / fanno a me, mi fanno le fiche / le nove Sorelle se chiedo un bacio. // Le fonti d’Ippocrene sono secche; / quando ho protestato: «Sono assetato», / mi hanno risposto: «Vai e impiccati». // Se avessi accettato il loro invito / a quest’ora sarei tranquillo, / e forse non me ne sarei pentito. // Vai in buon’ora, vai poesia! / S’è presentata come una tentazione, / a burlare la mia fantasia. // Va’ che farò attenzione, / se per caso mi tenti di nuovo / non sarò così tontolone. // La mia testa è fragile come un uovo, / però se vieni tu, musa vana, / sarà molto se c’infili un chiodo. // Per quanto tu sia così beffarda / non mettermi alla prova; / ho poca voglia di scherzare. // Non bussare alla mia mente sciocca / per chiedermi un semplice mutu, / guarda che ti prendo a colpi di scopa. // L’alloro tienitelo, perché è il frutto / dei veri poeti, la corona / a me falla di asfodelo. // Tu, Unali caro, nell’Elicona / giura fedeltà alla dea Pieria, / perché di tutte le muse è la padrona. // Se ti capita mettile una pastoia, / approfitta ora che ti stima tanto, / se no è facile che cambi idea. // Tu apri le labbra al canto / armonioso, e sii di consolazione / ai cuori che vivono di pianto. // Io t’invoco come usignolo: / vieni a cantare nella mia Patria, / spargi le ali al volo. // Ti vorrei raccontare mille cose, / e vorrei godere almeno un’ora / il piacere della tua compagnia. // Non t’avevo dimenticato ancora, / ti faccio un solenne giuramento, / la mia lingua non è impostora. // Ancora sei nel mio pensiero: / che di te non mi ricordi, caro amico, / non passa né un’ora, né un momento. // Io sono ancora l’amico antico, / se ti sembra che abbia mutato volto, / mettimi severamente in castigo. // Se a scriverti così ho tardato, / non dirmi inurbano e negligente, / perché mai negligente sono stato. // Del resto, parlo francamente, / se io sono stato silenzioso, / tu hai fatto il sordo ugualmente. // Meglio che sia stato desideroso / di attendere buone nuove mie, / anziché dirmi seccante e fastidioso. // Perché a dirla, queste litanie / che t’invio, ti devono risultare / davvero seccanti e stantie. // Mentre ti prego di scusarmi / se troppo noioso sono stato, / varie cose ti faccio sapere. // Per prima sappi che ho incontrato / quel superiore odioso / che avevamo quando eravamo soldati. // Mi è passato vicino, vergognoso, / ma non gli ho negato il saluto, / perché ho un cuore pietoso. // Non mi ha risposto ed è rimasto zitto, / perché era così cencioso / che si aveva paura a definirlo nudo. // Anche se ti ricordi quanto male / quello ha fatto, a me e a te, / quando l’avevamo come sottufficiale. // L’avrebbe creduto che oggi / sarebbe giunto a chiedere il pane? / Il mondo, caro mio, è fatto così. // Io, invece di dirgli: «Cane!» / ho tentato di avvicinarlo, / lui però s’è fatto in là. // Ma dentro di sé deve aver esclamato: / «Se un tempo fossi stato buono, / ora ci sarebbe chi m’avrebbe aiutato». // Quelli che dalla sua tirannia / si sono salvati, se lo vedono sulla strada; / lo chiamano col nome di spia. // L’ipocrita canaglia è malandata, / uno l’ha punito il pugnale, / l’altro è morto con una gamba spezzata. // Buona parte è all’ospedale, / perché ha i polmoni marci, / e aspetta il suo funerale. // Quel marrano fratello di Nerone / è stato condannato per rapina / a quindici anni di reclusione. // Alcuni sono nella compagnia di disciplina: / la scure di Fonni ha fatto scorrere sangue, / sia baciata la mano assassina. // Non ti sdegni la mia felicità / che mostro nel baciare quella mano / che severa ha punito la viltà. // Peggio per chi di cuore villano / essendo soldato dimentica / che il soldato dev’essere umano. // Anche tu sei vestito da soldato, / ad ogni istante devi tener presente / quello che stai soffrendo e hai sofferto. // Tratta bene il tuo dipendente / 198 199 POESIAS quando ne hai, perché ti dicono buono: / meglio che sia sempre indulgente. // Comanda, ma non comandare da padrone, / ma da padre affettuoso; il rigore / sempre se puoi, abbandonalo. // Con le buone parole, con l’amore / si ottiene tutto, dunque amorevole / vivi con tutti e fatti onore. // Continua a mostrarti virtuoso: / senza virtù l’uomo si trova / come una barchetta nel mare burrascoso. // Però l’uomo che si comporta onestamente / anche coi cattivi sta in pace, / perché appiana le differenze. // Del resto, sei grande, fai / il dovere: ti voglio nell’onestà / sapere un incrollabile nuraghe. // Ti dico tutto questo, o fratello caro, / perché ti stimo e senza ipocrisia / sono amico della sincerità. // Io prego la tua cortesia / di perdonare questo mio scritto / vestito con panni di malinconia. // Se ti chiedono di Peppe Mereu / dì che trascina sconsolato / la croce del dolore e dell’angoscia. // Se qualche amico giusto è restato, / soldato della stessa bandiera, / a nome mio sia salutato. // Tu, se puoi, fa’ in modo, / cerca di scrivermi prontamente / una lettera scherzosa e consolante. // Io ti scriverò di frequente / anche se mi dirai matto e fastidioso, / chiacchierone, seccante e impudente. // Scrivi presto. Per ora ti saluto, / da quest’ameno e fiorito giardino / ti manda un bacio affettuoso / l’amico tuo Mereu Peppino. A PAOLO HARDY46 5 10 15 20 Cando chi ses bennidu de votos pedidore, in Galusè, a s’iscrocca ’e unu pranzu, a Tonar’has tessidu su simpr’e aduladore cantu,[2] de sensu iscancaradu e lanzu. In cussu partu reu c’has fattu, caru meu, declaradu ti ses meda metanzu. Indignada, Tonara ti torrat custa risposta franch’e giara: In sa sublim’altura non balent sos fumos de s’incensu c’has cherfidu brujare; mi bastat sa dulzura de gentiles profumos chi sos fiores meos solent dare. In sas nucciolas mias si cantant poesias dignas de custa terra singulare, duncas boghes profanas cantade in sa palude cun sas ranas. [2. Riproduciamo il sonetto intitolato Tonara – a Maria – cui Mereu si riferisce, che troviamo pubblicato a firma di Paolo Hardy sul periodico cagliaritano Spigolature d’arte, a. II, n. 11, 1895, p. 5: «A Tonara salude; dae s’artura / immensa, s’iscra de Brebì s’ammirat. / Custu est triunfu mannu de natura / e ogni coro amorosu a tie suspirat. // Ammirende e pensende, no declinat / mai su sole de s’anima, et sa pura / poesia virgini et santa / no la furat / sa noia de sa vida et sa tristura. // Dae inoghe, anima bella, sa ’olada / de sos sonnos de s’anima, s’ardente / disizzu de amore ’enit a tie. // Lontanu, mando a tie custa posada, / custa posada mistica e prudente, / solu confortu ch’est restadu a mie».] 200 201 POESIAS 25 30 35 40 45 50 55 Dae s’altu nuraghe, cun supremu disgustu, mi meravigli’ ’e su to’ardimentu. Lassa dormir’in paghe su sonn’a’ cuddu Giustu chi de liricu summu fam’ha tentu. S’insult’es meda grave, turbare sa suave armoni’a sos sognos de Larentu.47 Pro cussu, senz’indultu, eo rispund’a s’insultu cun s’insultu. Nar’inu’ has connotu cussa mus’imperfecta, chi t’hat postu sa ment’in fantasia? Pro lograr’unu votu ti ses fattu poeta, profanende sa sarda poesia, prit’a la narrer giara su sonett’a Tonara, est sa tua pius manna porcheria. Ah cantu ses buffone! Tue sì chi la meritas sa cantone. Posada pro pesada has iscrittu, sa lima a su ch’ ’ido paghissimu si curat. Sa forma est trascurada, trascurada sa rima cando mi rimas declinat cun furat.48 In su versu, dijunu de su sensu comunu Campidan’a Nuòro s’ammesturat.49 Sa posada prudente chi naras tue, non balet niente. Ahi partu fatale! Ite confusione sa c’has fattu! Non t’isco discujare. 202 60 65 Forsis t’hat fattu male su fogu de Carbone50 chi t’happ’azzesu pro t’asfissiare? Su Cocco americanu bisonz’istet lontanu, in custos frittos non podet fruttare. Fritt’happo su bestire, Carbone chelz’ebbi’a m’iscardire. Tonara … 1895.51 A PAOLO HARDY Quando sei venuto / a chiedere voti, / a Galusè, a scroccare un pranzo, / a Tonara hai intessuto / lo sciocco e adulatore / canto, sconnesso e scarso di senso. / In quel parto infelice / che hai fatto, caro mio, / ti sei dichiarato assai povero. / Indignata, Tonara / ti dà questa risposta franca e chiara: // Nella sublime altezza / non valgono i fumi / dell’incenso che hai voluto bruciare; / ma basta la dolcezza / di gentili profumi / che i miei fiori sogliono dare. / Nelle nocciole mie / si cantano poesie / degne di questa terra singolare, / dunque voci profane / cantate nella palude con le rane. // Dall’alto nuraghe, / con supremo disgusto, / mi meraviglio del tuo ardimento. / Lascia dormire in pace / il sonno a quel Giusto / che ha avuto fama di sommo lirico. / L’insulto è molto grave, / turbare la soave / armonia ai sogni di Larentu. / Per questo, senza indulto, / io rispondo all’insulto con l’insulto. // Dì, dove hai conosciuto / quella musa imperfetta, / che ti ha instillato fantasticherie nella mente? / Per ottenere un voto / ti sei fatto poeta, / profanando la sarda poesia, / perché a dirla chiara / il sonetto a Tonara, / è la tua più grande porcheria. / Ah quanto sei buffone! / Tu sì che meriti la canzone! // Posada per pesada / hai scritto, la lima, / a quel che vedo, pochissimo si cura. / La forma è trascurata, / trascurata la rima, / quando mi rimi declinat con furat. / Nel verso, digiuno / del senso comune, / Campidano si mescola a Nuoro. / La fermata prudente / che tu dici, non vale niente. // Ahi parto fatale! / Che confusione / quella che hai fatto! Non so scusarti. / Forse t’ha fatto male / il fuoco di Carbone / che ti ho acceso per asfissiarti? / Il Cocco americano / bisogna che stia lontano, / fra questi freddi non può dar frutto. / Ho il vestito freddo, / voglio solo Carbone per scaldarmi. 203 POESIAS X…53 ARITZO 5 10 Post’in alt’a sa tua capitale, dispensera de abbas cristallinas; poetica, gentile industriale, terza de sas alturas montaninas.52 ................................... fatale ispasimos de amore ...................... ............................................ .............................................................. De cor’aperta, franca e liberale, a su progressu curres e camminas: ses una zittadedda geniale, in te s’isprigant sas biddas bighinas. De me già ti nde ses ismentigada, m’has cattigadu che verm’in su ludu: crudele ses istada finas a mi negare su saludu. Onesta tue trivaglias e divignas; de s’onestade tu’andas fiera, ismentinde de Dante sas iscritas. Fentomadas, sas tuas carapignas faghent su giru de s’Isul’intera, cunfirmende sa fama chi meritas. 5 10 15 ARITZO Collocata sopra la tua capitale, / dispensatrice di acque cristalline; / poetica, gentile, industriosa, / terza delle alture montanine. // Aperta di cuore, franca e liberale, / verso il progresso corri e cammini: / sei una cittadella geniale, / in te si specchiano i paesi vicini. // Onesta tu lavori e canti; / della tua onestà vai fiera, / smentendo le scritte di Dante. // Famose, le tue carapignas / fanno il giro dell’Isola intera, / confermando la fama che meriti. 204 20 A saludar’a mie non t’abbassas, pro me ti pones abidos de monza, ma s’accanta mi passas ti si mudant sas laras de ’ilgonza. Cando m’ ’ides non rides amurosa, non ses pius affabil’e gentile, ma passas bilgonzosa, ca su cor’in su pettus ti nàt: «Vile!». Tue, da chi godinde ses cuntenta, non faghes cont’ ’e sas lagrimas mias. Ammentadind’ammenta, de cant’in su passadu promittias. Ammentadind’ammenta, cun ardore mi basaist ridende cun recreu, e naiast: «Fiore, tue ses nadu pro su pettus meu». Ammentadinde, cando promittias de mi giugher in cor’eternamente, da poi m’istringhias contr’a su sinu tou ardent’ardente. 205 POESIAS 25 30 ............................................ ................................................... ........................................ ............................................................... Cand’in cara su chizu m’halzaiast ti naiast feliz’e fortunada, como cherrer mi diast zegu, pro non ti dar’una mirada! A EUGENIU UNALE [II]54 5 10 15 X… … fatale / spasimi d’amore … / … / … // Di me già ti sei dimenticata, / m’hai calpestato come un verme nel fango: / crudele sei stata / a negarmi anche il saluto. // A salutarmi non ti abbassi, / per me ti metti abiti da monaca, / ma se vicino mi passi / ti si ricoprono le labbra di vergogna. // Quando mi vedi non ridi amorevole, / non sei più affabile e gentile, / ma passi vergognosa, / perché il cuore in petto ti dice: «Vile!». // Tu, poiché stai godendo contenta, / non fai conto delle mie lacrime. / Ricordati, ricorda, / di quanto promettevi nel passato. // Ricordati, ricorda, con ardore / mi baciasti ridendo e con piacere, / e dicevi: «Fiore, / tu sei nato per il mio petto». // Ricordatene, quando promettevi / di portarmi nel cuore eternamente, / e poi mi stringevi / contro il tuo seno ardente ardente. // … / … / … / … // Quando alzavi lo sguardo sul mio viso / ti dicevi felice e fortunata, / ora mi vorresti / cieco, per non darti un’occhiata! 206 20 25 30 De tanta libertade chelz’esser discujadu, perdonami cun s’animu serenu. Già l’ischis, caru frade, su coro angustiadu cando de amalguras est pienu, si amore no est mortu, chircat in sin’amigu su confortu. Si cust’iscritta mia ti causerat noia, non sia tottu deo s’inculpadu, ca dare ti cheria novas de pura gioia, ma su cor’altrimenti m’hat dittadu. Duncasa cun benignu ris’isculta s’amigu, si nd’est dignu. Cando ridend’iscrio, comente t’happ’iscrittu novas buffas de gioi’e de festa, no est de coro chi rio, ma d’unu risu frittu chi traighet de coro ogni tempesta. Est unu risu feu, fruttu de s’infeliz’istadu meu. Tue m’iscries: «Forte siast o caru frade: pensa chi senz’ispinas non b’hat rosas, pro mores chi sa sorte amor’e libertade t’hat lassad’, e in Patria riposas: 207 POESIAS deo so pianghende, e, senz’amore, sa Patria sognende». 35 40 45 50 55 Est bellu cunfortare cun diccias tantu caras, s’infelize ligadu in sa cadena, ma prima de lassare faeddare sas laras est prezisu connoscher it’est pena. Zelt’est, chi si l’ischiast, «bocchidi, caru frade», m’iscridiast. Ah m’essere bocchidu! Tantu già nde so privu de sa vida chi liberu godia. In cust’ingratu nidu sent’in su coro, vivu, su disiz’ ’e sa Patria natia. ’Olat su pensamentu a sa fiz’ ’e su canu Gennargentu. Isparid’est s’incantu, su briu, su sorrisu ch’in laras mi ridiat che fiore; amaru su piantu, in su pallidu visu b’hat lassadu s’imprent’ ’e su dolore. Amigu, in cust’amigu non vivet pius, no, s’amig’antigu. 65 70 75 80 85 90 60 Sos sognos de sa mente mi causant fastizos, cand’inoghe mi toccat a pensare a cando, dulchemente, deo frittia sos chizos a’ cuddu dulch’e liberu sognare. Terribiles penseris! Prite mi l’ammentades su ’e d’eris? 208 95 E cheres chi reposu su coro angustiadu, agattet in custos tribulos crudeles? S’abid’iscuriosu mi nd’hat allontanadu sos amigos c’haia pius fideles: sos chi no hant pensadu chi s’abidu su coro no hat mudadu. D’eris happ’incontradu passizend’in s’istrada, unu caru signor’amig’antigu; appenas m’hat dignadu d’una fritta mirada, che cando mai l’ess’istad’amigu. Gai dogn’unu areste, disprezzat sa persone pro sa ’este. Ma in tempos antigos faghiant milli festas a su fiancu meu cun dulzura. Ah! De tantos amigos tue solu mi restas amuros’e fidel’in s’isventura, nè de me nd’has bilgonza ca so bestid’a monz’e non so monza. Ca ses bon’infadosu, benz’a tie sovente a versare su dol’in sinu tou, e pro com’adiosu, no nelzas imprudente si a casu t’iscrio dae nou. Tristu, dae lontanu ti mand’una sincer’istrint’ ’e manu. Cossoine-Nuraghe Idda, 13 feb. 1895. 209 POESIAS NON TI POTO AMARE A EUGENIO UNALE [II] Di tanta libertà / voglio essere scusato, / perdonami con l’animo sereno. / Lo sai, caro fratello, / il cuore angustiato / quando d’amarezze è pieno, / se amore non è morto, / cerca nel petto amico il conforto. // Se questo mio scritto / ti causasse noia, / non a me solo sia data colpa, / perché ti volevo dare / nuove di pura gioia, / ma il cuore altrimenti mi ha dettato. // Dunque, con benigno / riso ascolta l’amico, se ne è degno. // Quando scrivo ridendo, / come ti ho scritto / buffe nuove di gioia e di festa, / non è di cuore che rido, / ma d’un riso freddo / che tradisce del cuore ogni tempesta. / È un brutto riso, / frutto del mio stato infelice. // Tu mi scrivi: «Forte / sii, o caro fratello: / pensa che non c’è rosa senza spine, / perché la sorte / amore e libertà / ti ha lasciato, e riposi in Patria: / io sto piangendo, / e, senza amore, la Patria sto sognando». // È bello confortare / con parole tanto care, / l’infelice legato alla catena, / ma prima di lasciare / parlare le labbra / bisogna sapere cosa sia la pena. / Certo è che se lo sapessi, / «ucciditi, fratello caro», mi scriveresti. // Ah, se mi fossi ucciso! / Tanto già sono privo / della vita di cui libero godevo. / In questo ingrato nido / sento nel cuore, vivo, / il desiderio della Patria natia. / Vola il pensiero / alla figlia del canuto Gennargentu. // È sparito l’incanto, / il brio, il sorriso / che nelle labbra mi rideva come un fiore; / amaro il pianto, / sul pallido viso, / ha lasciato il marchio del dolore. / Amico, in quest’amico / non vive più, no, l’amico antico. // I sogni della mente / mi danno tormento, / quando qui mi tocca pensare / a quando, dolcemente, / io chiudevo gli occhi / a quel dolce e libero sognare. / Terribili pensieri! / Perché mi ricordate quel che era ieri? // E vuoi che riposo / il cuore angustiato, / trovi in queste tribolazioni crudeli? / L’abito scuro / mi ha allontanato / gli amici che avevo più fedeli: / quelli che non hanno pensato / che l’abito il cuore non ha mutato. // Ieri ho incontrato, / passeggiando per strada, / un caro signore, amico antico; / appena mi ha degnato / di una fredda occhiata, / come che mai gli fossi stato amico. / Così ogni incivile, / disprezza le persone per l’abito. // Ma in tempi antichi / facevano mille feste / al mio fianco, con dolcezza. / Ah! Di tanti amici / mi resti tu solo / affettuoso e fedele nella sventura, / né hai vergogna di me / perché son vestito da monaca e non son monaca. // Perché sei buono, fastidioso, / vengo sovente da te / a versare il dolore sul tuo petto, / e per ora addio, / non dirmi imprudente / se per caso ti scrivo di nuovo. / Triste, da lontano / ti mando una sincera stretta di mano. 210 5 10 15 20 25 30 Giovan’inutilmente ti ses post’in s’isettu chi deo benz’a ti pedir’amore. Ti giuro francamente chi non ti tenz’affettu, pro mores c’am’un ateru fiore. Si so franch’e leale non ti nde parzat male, nè b’hat motiv’ ’e mi tenne rancore. Sos rancores lassamus, amigos fimis, amigos restamus. Si non ti pot’amare, nè daredi recreu comente dias a cherrer, bella mia, nde deves inculpare solu su coro meu, chi pro te non dimustrat simpatia. Su cor’uman’est gai, non si piegat mai: palpitat cando cheret ips’ebbia. Deo non lu trattenzo, ma si non t’amat culpa no nde tenzo. Sa franchesa perdona, deo faedd’in cara. Non ti connosco nisciunu difettu; ses bella, onest’e bona, in virtudes ses rara, puru cun tottu non ti tenz’affettu. Duncas es tottu vanu chi tenzas fittianu 211 POESIAS iscrittu su lumen me’in s’intellettu. Pens’ ’e ti rassignare, e proa si nde lu podes canzellare. 35 40 45 50 55 60 Ti deves figurare ch’est una visione su penseri chi firmu has in sa testa, si no, podes pensare, chi un’illusione ti podet esser fatal’e funesta. Lassa su sentimentu, a’ cust’avvertimentu si felize ti cheres, fide presta. Si penseri non mudas, de custa passione ti nd’impudas. De amore suspiras, si presente ti seo, dae me ti pretendes cunfortada: cand’in cara mi miras, non t’abbizas chi deo non corrispund’a sa tua mirada? Ti fatto visu tostu, prite non so dispostu in coro me’a ti dare s’intrada. Cando miras a mie cheres azzender fogu cun sa nie. 65 70 75 80 85 cuddu chi t’hat sa sorte destinadu, pro su cale unu die des olvidare c’has connott’a mie. Ogn’affann’ogni pena comente benit passat, gai hat decretadu sa natura; puru cussa cadena ch’in paghe non ti lassat, benit a si truncare, ista segura. Un’ateru fiore t’hat a pedir’amore, de me no nd’has a fagher pius cura, anzis, allegramente, mi des ismentigare totalmente. Como t’happ’avvisadu chi non ti tenz’amore, pro ca tenz’in su cor’atera rosa. Si francu so istadu no mi uses rancore, anzis nde des andar’orgogliosa de tenner unu frade, chi, cun sinceridade, t’est istadu fidel’in dogni cosa. Sighimus s’amistade, ma s’intendet, coment’ ’e sorr’e frade. Pensa de m’olvidare e cun serenidade abbandona s’idea c’has leadu. Mi des cunsiderare coment’ ’e unu frade, non coment’ ’e su tou innamoradu. Allegra des istare, ca non t’hat a mancare 212 213 POESIAS STUDENTE NON POSSO AMARTI Ragazza, inutilmente / ti sei messa in attesa / che io venga a chiederti amore. / Ti giuro francamente / che non provo per te affetto, / perché amo un altro fiore. / Se sono franco e leale / non ti sembri male, / né c’è motivo di serbarmi rancore. / I rancori lasciamo, / amici eravamo, amici restiamo. // Se non ti posso amare / né darti gioia / come tu vorresti, bella mia, / devi incolpare / solo il mio cuore, / che per te non prova simpatia. / Il cuore umano è così, / non si piega mai: / palpita quando vuole lui solo. / Io non lo freno, / ma se non ti ama non ho colpa. // La franchezza perdona, / io parlo in faccia. / Non vedo in te alcun difetto; / sei bella, onesta e buona, / sei rara nelle virtù, / ma con tutto ciò per te non provo affetto. / Dunque è del tutto vano / che serbi di continuo / il mio nome scritto nella mente. / Pensa a rassegnarti, / e vedi se riesci a cancellarlo. // Devi renderti conto / che è una visione / il pensiero che hai fisso in testa, / se no, puoi pensare, / che un’illusione / può esserti fatale e funesta. / Abbandona il sentimento, / a questo avvertimento / se vuoi esser felice, fede presta. / Se non cambi idea, / sei responsabile di questa passione. // Sospiri d’amore, / se ti trovi in mia presenza, / pretendi di essere confortata da me: / quando mi guardi in faccia, / non t’accorgi che io / non corrispondo al tuo sguardo? / Ti mostro il viso duro, / perché non sono disposto / a darti accesso al mio cuore. / Quando guardi me / vuoi accendere il fuoco con la neve. // Pensa a dimenticarmi / e con serenità / abbandona l’idea che hai concepito. / Mi devi considerare / come un fratello, / non come il tuo spasimante. / Allegra devi stare, / perché non ti verrà a mancare / colui che ti è dato in sorte, / per il quale un giorno / dimenticherai di avermi conosciuto. // Ogni affanno, ogni pena / come viene poi passa, / così ha decretato la natura; / pure quella catena / che in pace non ti lascia, / si spezzerà, sta’ sicura. / Un altro fiore / ti chiederà amore, / di me non t’interesserà più, / anzi, allegramente, / mi dimenticherai totalmente. // Ora ti ho avvisato / che non provo per te affetto, / perché ho nel cuore un’altra rosa. / Se franco sono stato / non serbarmi rancore, / anzi, devi essere orgogliosa / di avere un fratello, / che, con sincerità, / t’è stato fedele in ogni cosa. / Continuiamo con l’amicizia, / ma, s’intende, come fratello e sorella. 214 Pizzinn’ancor’in custu mund’e rude in brazzos a su vissiu ti ses dadu! Babbu to’a iscola t’hat mandadu sognend’in testa tua una virtude, 5 10 ma tue, a pipp’azzesa, sa salude ses perdinde, su libr’ismentigadu has in tott’e a s’ozi’ has cundennadu sa preziosa tua gioventude. Ses appen’isbucciadu dae s’ou, e cale can’isoltu ’e cadena a sa ’ogh’ ’e su vissiu pones mente. E non pensas chi bezzu babbu tou andat famid’a zorronad’anzena, pro ti mantenner semper istudente. STUDENTE Ancora ragazzo a questo mondo e immaturo / fra le braccia del vizio ti sei gettato! / Tuo padre a scuola ti ha mandato / sognando nella tua testa una virtù, // ma tu, fumando, la salute / stai perdendo, il libro dimenticato / hai del tutto, e all’ozio hai condannato / la tua preziosa gioventù. // Sei appena uscito dall’uovo, / e come un cane sciolto dalla catena / dai retta alla voce del vizio. // E non pensi che tuo padre / va affamato a lavorare a giornata, / per mantenerti sempre studente. 215 POESIAS K... S’ORFANA PEDIT PANE A Maruccia Santoru. misera! tace Ogni dover se si rialza amore Dentro il mio petto… Tieste - UGO FOSCOLO Orfana, senza babbu e senza mama a istentu trazende so sa vida. Isculza, nuda, derelita e grama, a pedir’in sas giannas reduida. 5 10 A ti’eo m’invoco eletta prama, preghende chi consoles sa famida. Dalli pane, in terr’has haer fama de piedosa. Eo puru ben’ ’estida, Anninnende Maria s’infantinu cun sa ’oghe velada de piantu, happ’intes’ista nott’a su camminu: ecco cant’happ’intesu in cussu cantu: 5 fia ricc’unu die, s’isfortuna crudele m’hat bocchidu, cale cane dae tottus iscacciadu, so dijuna. Dae me no halzes, no, su chiz’addane; «fragiles sunt sos benes de fortuna», caridadosa siast, dammi pane. 10 20 Ah ses troppu minore! No ischis su dolore chi proat custu coro, e’ sa fiamma ch’in ipsu b’est, fatale, cantu mi faghes male cando mi donas su lumen de mamma. Si ridente mi bramas giamam’isfortunada, si mi giamas. 25 Naschidu ses in luctu, su latte chi has sutu o fizu, t’est potentissimu velenu. Si faghes mannu, in laras ti dent bider amaras 15 L’ORFANA CHIEDE PANE Orfana, senza padre e senza madre / sto trascinando a stento la vita. / Scalza, nuda, derelitta e grama, / ridotta a chiedere nelle porte. // A te io m’invoco, eletta palma, / pregando che consoli l’affamata. / Dalle pane, in terra avrai fama / di pietosa. Anch’io ben vestita, // ero ricca un tempo, la sfortuna / crudele m’ha ucciso, come un cane / scacciato da tutti, sono digiuna. // No, non allontanare lo sguardo da me; / «son fragili i beni di fortuna», / sii caritatevole, dammi pane. 216 «Anninniend’a tie deo pens’a su die chi sognai’ unu fizu ’e su coro, gia’ ti stimo che fizu, però mi das fastizu, ca non ses frutt’ ’e s’oggettu c’adoro. Menzus non esses nadu pro ’ider una mamm’a’ cust’istadu. 217 POESIAS istillas chi turbant s’animu serenu. Lizu meu de oro, lu sento ma t’allatto contr’a coro. 30 35 40 45 50 Si non fiast naschidu dae cust’ingratu nidu liberamente leai’ su ’olu, ma tue m’incadenas in ispinas e penas, eternamente mi cheres in dolu. Azzes’est sa fiamma, ca cheret gai su dover’ ’e mamma. Cagliad’e non piangas, su coro non mi frangas isventurad’e faghe s’anninnia, ca su piantu tou m’ammentat dae nou sa trista e cumpianta sorte mia. Menzus non ti nd’ischides pro connoscher sas penas chi non bides. Si benzerat su die de ’ider mort’a mie, pallid’e sorridente, a pees in porta,55 a babbu tou nara: “A mamma mia cara, babbu, s’amore tou est chi l’hat morta. Cando m’anninnaiat mamm’a ti narrer custu mi naiat”». 218 K… Maria ninnare il bambino / con la voce velata di pianto, / ho sentito stanotte nella strada; / ecco ciò che ho sentito in quel canto: // «Ninnando te / io penso al giorno / in cui sognavo un figlio del mio cuore; / sì, t’amo come un figlio, / però mi dai fastidio, / perché non sei frutto dell’oggetto che adoro. / Meglio non fossi nato / per vedere una madre in questo stato. // Ah, sei troppo piccolo! / Non conosci il dolore / che prova questo cuore, e la fiamma / che alberga in esso, fatale, / quanto mi fai male / quando mi chiami col nome di mamma. / Se sorridente mi chiami / chiamami sfortunata, se mi chiami. // Sei nato nel lutto, / il latte che hai succhiato / o figlio, è per te un potentissimo veleno. / Se diventi grande, sulle labbra / ti vedranno amare / stille che turbano l’animo sereno. / Giglio mio d’oro, / mi spiace ma ti allatto a malincuore. // Se non fossi nato / da questo nido ingrato / spiccherei liberamente il volo, / ma tu m’incateni / fra spine e pene, / mi vuoi eternamente nel dolore. / È accesa la fiamma, / perché così vuole il dovere di mamma. // Taci e non piangere, / non spezzarmi il cuore / sventurato e fai l’anninnia, / perché il tuo pianto / mi ricorda di nuovo / la triste e compianta sorte mia. / Meglio che non ti svegli / per conoscere le pene che non vedi. // Se arrivasse il giorno / in cui mi vedi morta, / pallida e sorridente, i piedi verso la porta, / a tuo padre dì: / “La mia cara mamma, / babbo, è l’amore per te che l’ha uccisa. / Quando mi ninnava, / mamma di dirti questo mi diceva”». 219 POESIAS Y…56 30 In ammentu de cuddas tristas oras chi m’has trazad’a s’infamante ludu, como chi nde so foras Cainu, rezi de me custu saludu. 5 10 15 20 Saludu tristu, bogh’est de su sinu chi severa dimandat: «O crudele, fraticida Cainu, ite nd’as fatt’ ’e s’innossente Abele?». Dae cuss’est chi rutu ses in dannassione, avversu a sa matessi razza tua: su latte chi has sutu fit latt’ ’e crabione misciad’a fele de potente lua, dae cabiju ispinosu sut’has cussu licore velenosu. A s’accusa s’ipocritu catramu de su visu det benner purpurinu, cale foz’in su ramu ti det tremer su cor’intro ’e sinu. No est cust’una lirica suave, nè de su cor’unu risu gentile, ma un’accusa grave chi ti gridat severa: «Infame, vile!». …………… psichicu momentu de sa paur’e’ sa cunfusione, ……… motu violentu det fagher tremer totta sa persone. ………………………………. …………………………… Pius vile de Giudas de su male chi faghes no t’impudas. 25 35 e in da segus ti lassas discordias e brigas, odios, gherras e confusiones. …………………. ……………………………. Inue tottu passas sa zente t’immigas pro sas tuas nefandas aziones, 220 Y… In ricordo di quelle tristi ore / in cui mi hai trascinato nell’infamante fango, / ora che ne sono fuori / Caino, ricevi da me questo saluto. // Saluto triste, è voce dal petto / che severa domanda: «O crudele, / fratricida Caino, / cos’hai fatto dell’innocente Abele?» // All’accusa l’ipocrita catrame / del viso diventerà rosso, / come foglia nel ramo / ti tremerà il cuore in petto. // Questa non è una lirica soave, / né un riso del cuore gentile, / ma un’accusa grave / che ti grida severa: «Infame, vile!». // … psichico momento / della paura e la confusione, / … moto violento / farà tremare tutta la persona. // … / … / Più vile di Giuda / non t’imputi il male che fai. // Dovunque passi / t’inimichi la gente / per le tue nefande azioni, / e ti lasci dietro / discordie e liti, / odi, guerre e confusioni. / … / … // È per questo che caduto / sei in dannazione, / avverso alla tua stessa razza: / il latte che hai succhiato / era latte di fico immaturo / mischiato con fiele di potente euforbia; / da un capezzolo spinoso / hai succhiato liquore velenoso. 221 POESIAS A NANNI SULIS [II]57 35 5 10 15 20 25 30 Eccomi dae nou a t’infadare cun sas solitas mias novas malas, prite ca bonas no nde poto dare. Maj’est fiorid’e post’in galas, a tottus dàt cuntentu: su dolore subra me hat ispaltu tristas alas. It’importat chi sogne unu fiore, una viol’amabil’e gentile, cando ch’in sinu meu est mort’amore? Tempestosu connottu happo s’abrile de custa vida chi passende so connoschinde sa notte a manzanile. Semper chi s’Isperanzi’«ajò» m’hat nadu, happo pedidu unu sorrisu, ma s’Isventura m’hat rispustu: «No». Dae sa vida m’agatto divisu, sa persone pro s’ultimu viaggiu serenamente isettat s’avvisu. Como mi toccat a donare saggiu de firmesa, sa mia sepoltura est iscavad’e m’infundet coraggiu. O forsis chi su fiz’ ’e s’isventura, a vista de sa falche messadora, si det bestir’a pannos de paura? Est beru, sì, so gal’a s’aurora de sos annos, ma si est decretadu, e devo morrer, non timo cuss’ora. Ite fatt’in su mundu disamadu, afflittu dae milli graves penas? Menzus in duna fossa sutterradu. Su sambene siccad’happ’in sas venas, istanca e isfinida sa persone, 222 40 45 50 55 60 65 andat a traz’e si rezzet appenas. Giovanu so e mi giamant bezzone, e cun rejone mi narant moninca, cando giut’a passizu su bastone. Como non pot’andare brinca brinca comente unu tempus brincaia, ca m’hant fattu corona ’e proninca. Sos menzus annos de sa pizzinnia mi los passo tocchende sa campana c’annunziat sa trista fine mia. Cale, cale det esser cudda giana chi a su cursu de sos annos meos zintu hat sa funesta cadiana? Cando happ’invocadu sos recreos d’unu ris’amurosu, unu carignu, happ’happidu dolores e anneos. Possibile chi non sia istadu dignu mai de incontrare affettuosu, e sorrident’unu chizu benignu? Ca so in cust’istadu dolorosu, dae me si sunt fattos a un’ala: non si nd’agattat coro piedosu. Sos amigos, in custa sorte mala, hant fattu finta de fagher su teu, e m’hant lassadu cun sa rugh’a pala. Deo però, pro su caratter meu, mai mi so frittidu a zente gai pedinde unu Simone Cireneu. Pat’in segret’e no m’abbascio mai: umiliarem’a coros marranos, prim’ ’e connoscher cuss’ora guai. Forsis s’haere lintu zertas manos como fia nadende in sa ricchesa, a dannu de sos nostros paisanos. Ma prim’ ’e cummittire una vilesa a dannu de sos meos patriottos, mi onor’ ’e sa mia poveresa. 223 POESIAS 70 75 80 85 90 95 100 105 Mi faghent fele zeltos signorottos, concas de linna e ispiantados, chi si vantant pro riccos e pro dottos. Su los bider comente sunt mudados, passizant pro mustrare sa bacchetta e abidos chi non sunt galu pagados. In bidda faghent sa marionetta, ispudorados! Cun sas malas tramas sunt vermes chi bulluzant s’abba netta. Su disisperu sunt de tantas mamas chi cherent in sas fizas coltivare violas de virtud’e bonas famas. Isfamare, trampar’e violare, est dovere pro custos trampaneris: onestamente no ischint campare. Deo no isco, sos carabineris in logu nostru prit’est chi bi sune, e no arrestant sos bangarrutteris. Bi cheret una furca e una fune, e impiccar’impiccare continu, finas a si purgare sa Comune. Torret sa legge de Villamarinu: pro chi su male non fettat cangrena bi cheret a duttore su boccinu. Viles c’hant meritadu sa cadena, sa giustissia puru hana trampadu, gai s’hant infrancadu dogni pena. Mentres chi unu poveru appretadu furat pro s’appititu unu cogone, lu ’ides arrestadu e cundennadu. Su famidu chi furat un’anzone est cundennadu dae sos giurados fin’a degh’annos de reclusione. E narrer chi b’hat palattos fraigados dae sa man’infam’ ’e sa rapina, sos meres, ladros, sunt pius amados! Sa ros’in custos tempos est ispina, 224 110 115 120 125 130 135 140 o’in die s’ispina si nàt rosa: si pagat su piuer pro farina. Sa limba de s’infamia velenosa si una rosa b’hat gentil’e bella, ti la dipinghet fea e ispinosa. Miseru chie corcad’in carrella, e in nottes serenas de lugore pro ips’in chelu non lughet istella. Miserinu su c’andat pedidore a pedir’unu bicculu ’e pane a su gianile de calchi segnore. Su riccu dàt biscottos a su cane, e a su poveru narat: «Preizosu, trivaglia, e dae me istad’addane». Su chi no est istadu bisonzosu incapaz’est de bonas aziones, non podet esser mai piedosu. Tottu sos poverittos sunt mandrones pro sos attattos, ca no hant connotu famen, affannos e afflissiones. Ma si s’avverat cuddu terremotu, su chi Giagu Siotto est preighende,58 puru sa poveres’hat haer votu. Happ’a bider dolentes esclamende: «Mea culpa», sos viles prinzipales; palatos e terrinos dividende. Senza distinziones, curiales devimus esser, fizos d’un’insigna, liberos, rispettados uguales. Unu die sa povera Sardigna si naiat de Roma su granariu; como de tale fama no nd’est digna. Su jardinu, su campu, s’olivariu d’unu tempus antigu, s’est mudadu ind’unu trist’ispinosu calvariu. Buscos chi mai b’haiat intradu rajos de sole, miseras sacchettas 225 POESIAS 145 150 155 160 165 hant bestid’e su log’hant ispozzadu. Arvures chi pariant pinnettas,[3] pro ingrassare su continentale, affrontadu hant undas e marettas. Inue tott’es passada s’istrale pro seculos e seculos, de zertu si det bider funestu su signale. Vile su chi sas giannas hat apertu a s’istranzu pro benner cun sa serra a fagher de custu log’unu desertu. Sos vandalos, cun briga e cuntierra, benint dae lontanu, a si partire sos fruttos, da chi si brujant sa terra. Isperamus chi prestu hat a finire cust’istadu de cosas dolorosu: meda semus istancos de suffrire. Guai si no essère isperanzosu in fiores donosos e galanos, de cuddos c’hant profumu virtuosu. Mancar’in testa giuta pilos canos, sa mente sognat e su coro bramat pro custa terra rosas e beranos. Su coro meu galu s’infiamat, su chizu, privu d’unu chizu ermosu, amarissimas lagrimas derramat. Tue, chi ses gentil’e amurosu, cumpatimi, s’iscrio dae nou non mi nelzas seccant’e infadosu. Si ti suvvenis de s’ammigu tou, cumandalu ch’est pront’a ti servire: tottu est chi lu ponzas a su prou. Deo, già l’ischis, so pro mi partire, abbrevia pro cussu, e prontamente de coment’istas donam’a ischire. 180 185 Si no mi podet benner de repente su colpu tristu ch’isettende so: tand’iscrittu m’has haer vanamente. Ancora ses a tempus, ajò, a’ custa ’oghe non ti mustres mudu; tue de coro duru non ses, no. Anzis istadu semper ses s’azzudu, su cunfortu, s’ispera ’e su mischinu, duncas azzetta su meu saludu, ca ti lu mandat s’amigu Peppinu. A NANNI SULIS [II] [3. ‘Capanne utilizzate specialmente dai pastori per trovarvi riparo, anche con le greggi’ (cfr. DES, s.v. pínna).] Eccomi di nuovo a infastidirti / con le mie solite cattive nuove, / perché buone non te ne posso dare. // Maggio è fiorito e vestito a festa, / a tutti dà allegria: il dolore / su di me ha sparso tristi ali. // Che importa se sogno un fiore, / una viola amabile e gentile, / quando nel mio petto è morto amore? // Ho conosciuto il tempestoso aprile / di questa vita che sto trascorrendo / conoscendo la notte all’albeggiare. // Ogni qual volta la Speranza «andiamo!» / mi ha detto, ho chiesto un sorriso, / ma la Sventura mi ha risposto: «No». // Mi ritrovo separato dalla vita, / il corpo per l’ultimo viaggio, / aspetta serenamente l’avviso. // Ora mi tocca dare saggio / di fermezza, la mia sepoltura / è scavata e m’infonde coraggio. // O forse che il figlio della sventura, / alla vista della falce mietitrice, / si deve vestire coi panni della paura? // È vero, sì, sono ancora all’aurora / degli anni, ma se è decretato / e devo morire, non temo quell’ora. // Cosa faccio al mondo 226 227 170 175 POESIAS disamato, / afflitto da mille gravi pene? / Meglio in una fossa, sotterrato. // Il sangue ho secco nelle vene, / stanco e sfinito il corpo, / va trascinandosi e si regge appena. // Sono giovane e mi chiamano vecchio, / e con ragione mi dicono scimmia, / quando a passeggio porto il bastone. // Ora non posso saltellare / come saltellavo un tempo / perché mi hanno fatto una corona di pervinca. // I migliori anni della gioventù / li trascorro suonando la campana / che annuncia la mia triste fine. // Quale, quale sarà quella fata / che al corso dei miei anni / ha cinto il funesto laccio? // Quando ho invocato le gioie / di un riso amorevole, una carezza, / ho avuto dolori e tristezza. // Possibile che non sia stato degno / mai di incontrare affettuoso / e sorridente uno sguardo benevolo? // Dacché mi trovo in questo stato doloroso, / da me si sono allontanati: / non si trova un cuore pietoso. // Gli amici, in questa malasorte, / hanno fatto finta di compiangermi, / e mi hanno lasciato con la croce in spalla. // Io però, per il mio carattere, / mai mi sono piegato a gente simile, / chiedendo un Simone Cireneo. // Soffro in segreto e non m’inchino mai: / umiliarmi a cuori marrani, / prima di conoscere quell’ora: guai! // Forse se avessi leccato certe mani / ora starei nuotando nella ricchezza, / a danno dei nostri paesani. // Ma prima di commettere una viltà / a danno dei miei compatrioti, / mi onoro della mia povertà. // Mi danno rabbia certi signorotti, / teste di legno e spiantati, / che si vantano di esser ricchi e dotti. // Se li vedessi come sono cambiati, / passeggiano per mostrare la bacchetta / e abiti non ancora pagati. // In paese fanno la marionetta, / spudorati! Con le loro perfide trame / son vermi che intorbidano l’acqua pura. // Sono la disperazione di tante mamme / che nelle figlie vogliono coltivare / viole di virtù e buona reputazione. // Diffamare, ingannare e violare, / è un dovere per questi truffatori: / onestamente non sanno campare. // Io non so, i carabinieri, / da noi che ci stanno a fare, / e non arrestano i bancarottieri. // Ci vuole una forca e una fune, / e impiccare, impiccare di continuo, / finché non si sia purgato il Comune. // Torni la legge di Villamarina: / perché il male non vada in cancrena / ci vuole come dottore l’aguzzino. // Vili che hanno meritato la catena, / hanno ingannato anche la giustizia, / così si sono affrancati da ogni pena. // Mentre un povero bisognoso / che ruba per fame un pane, / lo vedi arrestato e condannato. // L’affamato che ruba un agnello / è condannato dai giurati / anche a dieci anni di reclusione. // E dire che ci sono palazzi costruiti / dalla mano infame della rapina, / i padroni, ladri, sono più amati! // La rosa in questi tempi è spina, / oggi la spina si chiama rosa: / si paga la polvere per farina. // La lingua dell’infamia velenosa / se esiste una rosa gentile e bella / te la dipinge brutta e spinosa. // Misero chi dorme per strada, / e nelle notti serene di luce / per lui nel cielo non brilla una stella. // Poverino colui che va elemosinando / a chiedere un tozzo di pane / sulla soglia di qualche signore. // Il ricco dà biscotti al cane, / e al povero dice: «Poltrone, / lavora e da me stai lontano». // Chi non è stato bisognoso / è incapace di buone azioni, / non può essere mai pietoso. // Tutti i poveretti sono poltroni / per chi è sazio, perché non hanno conosciuto / fame, affanni e afflizioni. // Ma se s’avvera quel terremoto, / quello che Jago Siotto va predicando, / anche la povertà avrà il voto. // Vedrò dolenti esclamare: / «Mea culpa», i vili padroni; / dividendo palazzi e terreni. // Senza distinzioni, curiali / dobbiamo essere, figli d’un’insegna, / liberi, rispettati, uguali. // Un tempo la povera Sardegna / si chiamava il granaio di Roma; / ora di tale fama non è degna. // Il giardino, il campo, l’oliveto / d’un tempo antico, s’è tramutato / in un triste, spinoso calvario. // In boschi dove mai erano entrati / raggi di sole, misere sacchette / hanno introdotto, e hanno spogliato il terreno. // Alberi che sembravano pinnetas, / per ingrassare il continentale, / hanno affrontato onde e marette. // Ovunque sia passata l’accetta / per secoli e secoli, certamente, / si vedrà funesta la traccia. // Vile colui che le porte ha aperto / allo straniero per venire con la sega / a fare di questa terra un deserto. // I vandali, con liti e contese, / vengono da lontano, a ripartirsi / i frutti, perché bruciano la terra. // Speriamo che presto venga a cessare / questo stato di cose doloroso: / siamo davvero stanchi di soffrire. // Guai se non fossi speranzoso / in fiori belli e graziosi, / di quelli che hanno un profumo virtuoso. // Sebbene abbia in testa capelli bianchi, / la mente sogna e il cuore brama / per questa terra rose e primavere. // Il mio cuore ancora s’infiamma, / l’occhio, privo di uno sguardo attraente, / sparge amarissime lacrime. // Tu, che sei gentile e affettuoso, / perdonami, se scrivo di nuovo / non dirmi seccante e fastidioso. // Se ti sovviene del tuo amico, / comandalo, perché è pronto a servirti: / tutto sta nel metterlo alla prova. // Io sto per andarmene, lo sai, / affrettati per questo, e prontamente / fammi sapere come stai. // Se no potrebbe venirmi d’improvviso / il colpo triste che sto aspettando: / allora mi avrai scritto invano. // Sei ancora in tempo, andiamo, / non restar muto a questa voce; / tu non sei duro di cuore, no. // Anzi, sei sempre stato l’aiuto, / il conforto, la speranza dell’infelice, / dunque accetta il mio saluto, / perché te lo manda l’amico Peppino. 228 229 POESIAS A SIGNORINA S… 5 10 15 20 25 30 si no est ch’innamoret su dimoniu. E lesset sa ’ilgonza, ponzat giudissi’e sic’assentet monza. Cumpatat signorina, pro esser purpurina nelzat, da chi hat leadu sas tintas? Non la miro pr’amore ma miro cun dolore in vostè cussas bellas formas fintas, e so firm’in su parre chi su modde chi mustrat no est carre. In mancanza de pruppa forsis s’hat post’istuppa pro ammantare sas grinzas e fossos? Seguru no nde seo, ma la connosco, e creo c’happet solu sa pedde cun sos ossos. Cun sa sola camisa zertu chi sa person’est pius lisa. Su chi non dàt natura a s’iscarna figura bi lu procurat s’artifissiale. Cun sas perlas anzenas si connoschet appenas ch’in cheia ch’est rutu su portale. Sa ’ucca no aperit, si no sa perla falsa s’iscoberit. Cun pumas e fioccos, mirende sos piccioccos suspirat su dormidu matrimoniu! Menzus penset ch’est fea, deponzat cuss’idea 230 A SIGNORINA S… Perdoni signorina, / per esser porporina / dica, da chi ha comprato le tinte? / Non la guardo per amore / ma guardo con dolore / in voi quelle belle forme finte, / e sono fermo nel parere / che il molle che mostra non è carne. // In mancanza di polpa / forse s’è messa stoppa / per coprire grinze e fossi? / Sicuro non sono, / ma la conosco, e credo / che abbia solo la pelle con le ossa. /Con la sola camicia / certo che la persona è più liscia! // Quello che non dà la natura / alla scarna figura / lo procura l’artificiale. / Con le perle d’altri / si riconosce appena / che nella chiesa è caduto il portale. /La bocca non apre, / se no la perla falsa si scopre. // Con piume e fiocchi / guardando i giovanotti / sospira il sopito matrimonio! / Meglio pensi che è brutta, / abbandoni quell’idea / se non è che faccia innamorare il demonio. / E deponga la vergogna, / metta giudizio e si faccia monaca. 231 POESIAS ADDIO A NUORO A Gavinangela C… UNU BALLU IN MASCHERA A Billiana S… Terra fort’e gentile, custu cantu est su saludu chi non t’happo dadu in s’attu chi partinde, su piantu cuss’estremu consolu mi hat negadu. 5 10 Cale orfanu fizu, isconsoladu passo sas dies, cun su coro affrantu, suspirend’a Nuoro, profumadu jardinu d’una rosa c’amo tantu. S’anim’est temperad’a su dolore, ma non si calmat su coro, mischinu, c’hat perdidu s’amabile fiore. Si torro pro fortun’a su jardinu nde sego cussa rosa de amore, e mi l’assento sorridente in sinu. Tue no m’has connottu e pro femmina leadu forsis m’has, ca sorridente mi naiast: «Gentile mascherina, prite ga’in su ballu ses dolente?». 5 10 E mudende sa ’oghe, «Signorina» eo ti nesi, «mi sent’ardent’ardente in su cor’unu fogu». Repentina has frittidu sa test’e diffidente miradu m’has, e cun sos chizos graves indovinare cheriast s’afflittu chi cunsacradu t’hat sa vida totta: e cun faeddos dulches e suaves nadu m’has: «Chie ses?». Istesi zittu, sa nott’has frastimadu sa carotta! Cagliari, settembre 1893. ADDIO A NUORO UN BALLO IN MASCHERA Terra forte e gentile, questo canto / è il saluto che non ti ho mai dato / al momento in cui, partendo, il pianto / quella estrema consolazione mi ha negato. // Come un figlio orfano, sconsolato / passo i giorni, col cuore affranto, / sospirando a Nuoro, profumato / giardino d’una rosa che amo tanto. // L’anima è temprata al dolore, / ma non si calma il cuore, poverino, / che ha perduto l’amabile fiore. // Se per caso torno al giardino / coglierò quella rosa d’amore / e me la appunterò sorridente al petto. Tu non mi hai riconosciuto e per donna / forse mi hai preso, perché sorridente / mi dicevi: «Gentile mascherina, / perché nel ballo sei così dolente?». // E cambiando la voce: «Signorina» / io ti dissi, «mi sento ardente ardente / un fuoco nel cuore». D’improvviso / hai chinato la testa e diffidente // mi hai guardato, e con gli occhi gravi / volevi indovinare chi fosse l’afflitto / che ti ha consacrato tutta la sua vita: // e con parole dolci e soavi / m’hai detto: «Chi sei?». Stetti zitto, / quella notte hai maledetto la maschera. 232 233 POESIAS W… 5 10 15 Muzere Ue dias a esser fin’a como, possibile chi non t’iscas emendare? Bessidu chi che sias dae domo non pensas e nè sentis de torrare. Si no mudas penser’eo ti domo; mira chi non ti torret a costare de torrar’imbreag’a’ custas oras; s’ater’ ’orta lu faghes corcas foras. Maridu Importat pag’a ti dar’a ischire inue tottu cantu so istadu, de bessire mi cheres proibire, miserinu, a cosa so torradu! Però si foras mi faghes dormire de comente m’has como minettadu, cando zocco sa janna e no abberis, tando ti nd’ ’atto sos carabineris. 30 35 40 45 20 25 Muzere Non los fentomes sos carabineris ca sunt pro ti che ponner in presone, prite ses oziosu in sos zilleris, maccu, mal’a sentire, imbreagone. Dend’a pappar’a sos bangarrutteris, de sos iscamminados ses dugone.59 In domo b’est sa famen’a benuju, e tue pro su ticcu das su tuju! Maridu Mal’happes tue cun s’imbreaghera, 234 50 55 de t’intender gosie so istancu: la chi frastimes a sa caffettera, cussa gia’ mi l’arrangiat su fiancu; ses in domo che femmina partera, dogni die nde cheres unu francu. Tottu ti lu dissipas in decottos, zicculatte, rosoli’e biscottos. Muzere It’est su chi ses nende, faularzu? Da eri notte cand’hamus chenadu m’has lassad’in sa cass’unu chivarzu, non cretas chi mi l’happe mandigadu, l’happo chistid’a ti prenner s’iscarzu: pro te happo suffrid’e jaunadu. Lassadu non m’has pranzu no m’has chena, nè corcada mi so a brente piena. Maridu Cantu diliga ses e amurosa! Su chivarzu a mie has cunservadu, signal’es c’has pappadu menzus cosa: puzzone chi non biccat hat biccadu. S’istada fist de zibu bisonzosa su chivarzu l’haiast mandigadu. Cunservad’has a mie su cogone, ca t’has pappadu su menzus buccone. Muzere Cale det esser su menzus buccone ch’eo m’appo pappad’a fur’a tie? Forsis det esser sa pet’ ’e anzone, sa chi mi ses pighende dogni die? A mandigare pan’ ’e chilinzone60 abituada non fia gosie. De sa gana no isto manch’in pè, 235 POESIAS rejon’est chi mi fetta su caffè. 60 65 70 75 80 Maridu Paret chi non fist mancu abituada a mandigare seppia e triglia, pappaiast cogon’e aringada, ca fist de miserabile famiglia: in domo mia ti ses ingrassada e da cussu no sentis pius briglia. Pro t’ingrassare mi so ruinadu, mal’happe deo chi t’happo leadu. Muzere Bae chi deo non fia gasie, famene nè bilgonz’happo proadu: como sì, so torrada che a tie cando m’has a isposa dimandadu, ca si no iast incappad’a mie fiast ancor’a calzon’isfundadu. Cando t’happo leadu pro maridu in doda chent’iscudos t’happ’ ’attidu. Maridu De cussos chent’iscudos nd’happ’ispesu trinta pro su caffè a macchinetta, a mie mi nd’has dadu trinta e mesu, già ti los happo leados in petta, trinta iscudos e unu cagliaresu los has ispesos pro una fardetta, e de sos sette francos e chimbanta ti nd’has leadu de lana una manta. 85 90 95 100 105 110 Muzere Troppu prest’has perdìdu sos arrancos de tantas mias bonas aziones! Ammentadinde de sessanta francos chi happ’ispes’a ti fagher carzones, 236 cando giughiast nudos sos fiancos espost’a beffes e zitassiones: non l’happ’ispes’in su caffè cun ou, ma solu pro ti ponner fundu nou. Maridu Tando pro m’affundare su carzone deves giugher sas manos cancaradas? Cussu ti toccat de obbligassione, no ca ti tenzo pro pappar’ ’e badas: si mi hant fatt’una zitassione tue macaca mi l’has has chircadas; leende caffè a fide in sas buttegas, ti lu dant, ti lu buffas e ti negas. Muzere Bae chi deo so ancor’in sè, de sentidu non so galu guasta, nemmancu pro tres unzas de caffè sos benes meos des bider a s’asta: tue sì, maccu, non istas in pè, ca t’hat cumbintu su ’in’ ’e s’Ozasta. Buffas che unu turcu e t’imbreagas, deves a tottus e a nemos pagas. Maridu Naras chi mai stada ses zitada, cuss’a su narrer tou est una proa! Sos benes has lassad’a chie nd’hada, no siet chi ti pighent a sa coa! Ses una caffetter’ismanigada, ma ti dent ponner sa maniga noa. Suni nalzende chi sa zente truffas prite non pagas su caffè chi buffas. Muzere Bae chi pro tres unzas de caffè 237 POESIAS 115 120 125 130 135 140 non m’hasa a bier, no, in tribunale: tue bi podes istare pius de me, ca t’imbreagas, su porcu mannale; como ch’est como non firmas in pè, attentu pro su codice penale. Su tribunale non chirches a mie Pertunghefustes, ca deghet a tie. Maridu Siet finida custa chistione, cagliadi muda e lassami dormire; non cherzo brigas nè confusione, es tempus custa beffa a la finire, dogni notte mi faghes su sermone, balla c’a beru ses mal’a sentire. Abboghinende credes chi ses bella, e ses su ris’ ’e totta sa carrella. Muzere Tue ses su beffadu ’e su mundu, sos bonos già ti leant su fiagu. Giughes sos pantalones senza fundu e ses in sos zilleris imbreagu! Da ch’in domo no istas, vagabundu, feti non pig’a m’infilare s’agu a su ness’a ti ponner unu puntu, iscamminadu, cherveddi pertuntu! Maridu S’has faccia manna de agos faedda, e a ite mi naras vagabundu? Si non fist vissios’e mandronedda fia su lizzu de tottu su mundu. Balla, si coghes cos’in sa padedda pappas pro finas a bider su fundu! Tue divoras in domo, sola, e pappas, ma sas birgonzas mias non las tappas. 238 145 150 155 160 165 170 Muzere Si cheres assentada sa persone senza frenu no andes a iscappu: non si vivet faghinde su mandrone, lassa su ’inu e leadi su zappu, tand’has haer gianchett’e pantalone, ma si non mudas vida non has tappu. Anzis si sighis gai, prestu, prestu, nd’has a perdere su fund’e’ su restu. Maridu Gai cheres chi bande a zappittare, e a lassare su binu pro su piccu? E tue istas in dom’a iscazzare sa zorronada mia in su limbiccu! Si lu fatto ti nd’has a buffonare buffende su decott’a tic’a ticcu, e forsis has a narrer cun recreu: «A sa salude de maridu meu!». Muzere Bae chi deo non ispendo gai, anzis su punzu meu est mes’avaru; caffè a cua no nde fatto mai, già so padron’ ’e lu fagher in giaru; ma no nde buffo ch’est unu guai, prima de tottu ca su caff’est caru, segundariamente, des cumprender, c’happo pagos dinaris de ispender. Maridu Consumad’has dinaris e sienda tottu cant’in decottu ti l’has bijdu. A una buttegher’has dad’in prenda finamente s’aneddu ’e s’affidu! Caffè a bustu caffè a merenda, 239 POESIAS manten’a cuppas poveru maridu! Frundìdu c’has dae domo milli trastos dados in pignu pro pagare gastos! Moglie – Dove saresti stato fino ad ora, / possibile che non sappia ravvederti? / Una volta uscito di casa / non pensi né ti preoccupi di tornare. / Se non cambi atteggiamento io ti domo; / bada che non ti ricapiti / di tornare ubriaco a queste ore, / se lo fai un’altra volta dormi fuori. // Marito – Importa poco farti sapere / dove sono stato, / mi vuoi proibire di uscire, / poveretto, a cosa son ridotto! / Però se fuori mi fai dormire / come adesso mi hai minacciato, / quando busso alla porta e non apri, / allora ti chiamo i carabinieri. // Moglie – Non nominare i carabinieri / perché stanno per metterti in prigione, / perché stai ozioso nelle bettole, / stolto, impenitente, ubriacone. / Dando da mangiare ai bancarottieri, / sei condottiero dei traviati. / A casa c’è la fame alle ginocchia, / e tu dai il collo per un goccio. // Marito – Che ti venga un male con questa ubriachezza, / sono stanco di sentirti così: / maledici invece la caffettiera, / quella sì che mi sistema; / stai a casa come una puerpera, / ogni giorno vuoi una lira. / Spendi tutto in decotti, / cioccolato, rosolio e biscotti. // Moglie – Cos’è che stai dicendo, bugiardo? / Da ieri notte, quando abbiamo cenato, / mi hai lasciato nella cassa un pane di crusca, / non credere che me lo sia mangiato, / l’ho conservato per riempirti il gozzo: / per te ho patito e digiunato. / Non mi hai lasciato né pranzo né cena, / né mi sono coricata con la pancia piena. // Marito – Quanto sei delicata ed amorevole! / Il pane di crusca hai conservato per me, / è segno che cibo migliore hai mangiato: / uccello che non becca ha già beccato. / Se fossi stata bisognosa di cibo / avresti mangiato il pane di crusca. / Mi hai conservato il pane / perché ti sei mangiata il miglior boccone. // Moglie – Quale sarebbe il miglior boccone / che mi sono mangiata di nascosto da te? / Forse sarebbe la carne d’agnello, / quella che mi stai comprando ogni giorno? / Mangiare pane di crusca, / non ero così abituata. / Dalla fame neppure mi reggo in piedi, / motivo per cui mi faccio il caffè. // Marito – Pare che neppure fossi abituata / a mangiare seppia e triglia, / mangiavi pane e salacca, / perché eri di famiglia miserabile: / a casa mia ti sei ingrassata / e per quello non senti più la briglia. / Per ingrassarti mi sono rovinato, / che abbia un male io che ti ho pigliato. // Moglie – Va’ che io non ero così, / né fame né vergogna ho provato: / ora sì, mi sono ridotta come te / quando mi hai chiesto in sposa, / perché se non fossi incappato in me / saresti ancora col pantalone sfondato. / Quando ti ho preso come marito / in dote cento scudi ti ho portato. // Marito – Di quei cento scudi ne ho speso / trenta per il caffè macinato, / a me ne hai dato trenta e mezzo, / già li ho spesi per te in carne, / trenta scudi e un cagliarese / li hai spesi per una gonna, / e da sette lire e cinquanta / ti sei comprata una coperta di lana. // Moglie – Troppo presto hai perduto la traccia / di tante mie buone azioni! / Ricordati delle sessanta lire / che ho speso per farti i calzoni, / quando avevi i fianchi nudi / esposto a beffe e provocazioni: / non li ho spesi per il caffè con l’uovo, / ma per farti il fondo nuovo. // Marito – Allora per farmi il fondo del pantalone / devi avere le mani rattrappite? / Quello ti spetta come obbligo, / non perché ti mantengo per mangiare a sbafo. / Se mi hanno sbeffeggiato / tu sciocca me l’hai procurato; / prendendo caffè a credito nelle botteghe, / te lo danno, te lo bevi e ti neghi. // Moglie – Va’ che io sono ancora in me, / ancora non sono priva di senno, / neppure per tre once di caffè / vedresti i miei beni all’asta: / tu sì, sciocco, non stai in piedi, / perché t’ha “convinto” il vino d’Ogliastra. / Bevi come un turco e t’ubriachi, / devi a tutti e nessuno paghi. // Marito – Dici che non sei mai stata citata, / quello a tuo dire è una prova! / I beni li hai lasciati a chi ne ha già, / non capiti che ti acchiappino per la coda! / Sei una caffettiera smanicata, / ma ti metteranno il manico nuovo. / Stanno dicendo che truffi la gente / perché non paghi il caffè che bevi. // Moglie – Va’ che per tre once di caffè / non mi vedrai, no, in tribunale: / tu puoi starci più di me, / perché ti 240 241 175 ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. ……………………………….. W… POESIAS ubriachi, il porco da ingrasso; / ora come ora non ti reggi in piedi, / attento al codice penale. / Per il tribunale non cercare me / Picchio, perché si addice a te. // Marito – Finisca questa questione, / sta’ zitta e lasciami dormire, / non voglio né liti né confusione, / questa beffa è tempo di finire, / ogni notte mi fai il sermone, / certo che sei davvero impenitente. / Gridando credi di esser bella, / e sei il riso di tutta la via. // Moglie – Tu sei lo sbeffeggiato dal mondo, / gli accorti già ti prendono la traccia. / Hai i pantaloni senza fondo / e stai nelle bettole ubriaco! / Già che non stai a casa, vagabondo, / certo non mi metto a prender l’ago / almeno per metterti un punto, / traviato, cervello bucato! // Marito – Se hai faccia tosta parla d’aghi, / e perché mi chiami vagabondo? / Se non fossi viziosa e poltrona / saresti il giglio più bello di tutti. / Accidenti, se metti qualcosa in pentola / mangi fino a vederne il fondo! / Tu divori a casa, sola, e mangi, / ma le mie vergogne non le tappi. // Moglie – Se vuoi la persona ordinata / non andare in giro senza freno: / non si vive facendo il poltrone, / lascia il vino e prendi la zappa, / allora avrai giacca e pantalone, / ma se non cambi vita non hai fondo. / Anzi, se continui così, presto, presto, / perderai il fondo e il resto. // Marito – Così vuoi che vada a zappettare, / e a lasciare il vino per il piccone? / E tu stai a casa a sprecare / la mia giornata con l’alambicco! / Se lo faccio ti farai beffe di me / bevendo il decotto goccio a goccio, / e forse dirai con soddisfazione: / «Alla salute di mio marito!». // Moglie – Va’ che io non spendo così, / anzi la mia mano è mezzo avara; / caffè di nascosto non ne faccio mai, / che sono padrona di farlo normalmente, / ma non ne bevo chissà quanto, / prima di tutto perché il caffè è caro, / secondariamente, lo devi intendere, / che ho pochi soldi da spendere. // Marito – Hai consumato denari e beni, / tutto quanto te lo sei bevuto in decotto. / A una negoziante hai dato in pegno / perfino l’anello nuziale. / Caffè a pranzo, caffè a merenda, / fatti coraggio, povero marito! / Hai dato via mille utensili da casa / dati in pegno per pagare spese! // … / … / … / … / … / … / … / … SA TERACCA MIA Oh cantas mi nde faghet sa teracca! «Teracca» naro, ma est sa padrona: una bezza isdentada tabaccona, no est pizzinna, risulana e macca. 5 10 Degh’annos chi mi servit cun fiacca, ancora est a nde fagher una ’ona; issa est una grande maccarrona: comporat taulas pro petta de ’acca. Pro mi leare unu chilu de petta deris l’happo intregadu unu marengu che cando veramente essera riccu. Torra sa serva; dae sa valdetta rie rie nd’istaccat unu arengu che a issa nieddu feu e siccu. LA MIA SERVA Oh quante me ne fa la serva! / «Serva», dico, ma è la padrona: / una vecchia sdentata tabaccona, / non è giovane, ridanciana e matta. // Da dieci anni mi serve con fiacca, / ancora non ne ha fatto una buona; / è una grande pasticciona: / compra tavole per carne di vacca. // Per comprarmi un chilo di carne / ieri le ho dato un marengo / come quando ero davvero ricco. // Ritorna la serva; dalla gonna / sorridendo tira fuori un’aringa / come lei nera brutta e secca. 242 243 POESIAS SU MINESTRONE 35 5 10 15 20 25 30 Già chi tantu t’aggradat sa minestra ti do de minestrone unu piattu. Est male coghinadu e a sa lestra, fogu ’e linna ’irde l’happo fattu, ma si nd’assazas una trudda solu t’agatas prontamente soddisfattu. B’hat fae, b’hat lentiza cun basolu, patata, caule cun concas de raba, cottas in su matessi labiolu. Su cundimentu est de ozu ’e craba, ca non tenia nè lardu nè sumene: chie non tenet mele ponet saba. B’has agatare fittas de cugumene, cosa lizera pro sa gente sana chi non faghet nè pesu nè ballumene. B’happo postu unu pagu ’e denziana, ranziga cantu est ranziga sa china, però a mandigare ’attit sa gana. B’happo ’ettadu tres fozas de pimpina, e si b’hat calchi cosa mesu crua est chi b’hat de armuttu raighina. Postu l’happo cicuta e pagu lua: mancari nelzan chi est velenosa, pappa, chi hat esser sa salude tua. Si comente no haia menzus cosa, pro poder pienare sa padedda l’happo postu unu mazzu ’e pigulosa. Aligarza, fenuju e lattaredda e pro fagher su brodu piùs licanzu una tazza de latte ’e feruledda. Un’iscia mi pariat brodu lanzu: l’happo minadu un’ou de istria, attentu non cumbìdes calchi istranzu. 244 40 45 50 55 Podes cumprender, custa porcheria est indigesta pro sos delicados ca b’hat erbas de ogni genia. Cuddos chi non bi sunu abituados e non s’abbizant de su minestrone, si nde mandigant, morint velenados. Duncas ti prego: dona attenzione de non nde dare a su primu famidu, mira ch’est zerta s’indigestione! Si a tie happo fattu su cumbidu est ca ses de istogomo provadu e non t’offendet nessunu cundidu. Mandiga duncas senza coidadu, a tie zertu non ti faghet male mancu sa lua chi l’happo misciadu. Giughet pibere meda e pagu sale ei sos trunzos chi bi sunu in mesu nde tiran dae ’ucca su murrale. Tue però chi a tottu ses avvesu dês esclamare: «Ite zibu lichittu est custu minestrone tonaresu!». Anzis si ses in ora de appitittu ti devet esser grata sa ludura e timo chi cummittas su delittu de ti ’ender sa prima genitura. 245 POESIAS A SIGNOR TANU 5 IL MINESTRONE Già che ti piace tanto la minestra / ti do di minestrone un piatto. / È mal cucinato e alla svelta, // con fuoco di legna verde l’ho fatto, / ma se ne assaggi un mestolo solo / resti prontamente soddisfatto. // Ci sono fave, lenticchie con fagioli, / patate, cavoli con teste di rapa, / cotte nello stesso paiolo. // Il condimento è di grasso di capra, / perché non avevo né lardo né sugna: / chi non ha miele mette sapa. // Ci troverai fette di cetriolo, / roba leggera per la gente sana / che non fa né peso né volume. // Ci ho messo un po’ di genziana, / amara quanto è amara la china, / però fa venir voglia di mangiare. // Ci ho messo tre foglie di capelvenere, / e se c’è qualche cosa mezza cruda / è perché c’è radice d’asfodelo. // Ci ho messo cicuta e un po’ di euforbia: / anche se dicono che è velenosa, / mangia, che sarà la tua salute. // Siccome non avevo di meglio, / per poter riempire la pentola, / ci ho messo un mazzo di parietaria. // Ravanelli, finocchi e latteruola / e per fare il brodo più appetitoso / un bicchiere di latte di ferula. // Il brodo magro mi sembrava un acquitrino: / ci ho mischiato un uovo di gufo, / attento a non invitare qualche forestiero. // Puoi capire, questa porcheria / è indigesta per le persone delicate / perché c’è erba di ogni tipo. // Quelli che non ci sono abituati / e non si accorgono del minestrone, / se ne mangiano muoiono avvelenati. // Dunque ti prego: fai attenzione / a non darne al primo affamato, / guarda che è certa l’indigestione! // Se è te che ho invitato / è perché sei di stomaco provato / e non t’offende nessun condimento. // Mangia dunque senza preoccupazione, / a te certo non ti fa male / neppure l’euforbia che vi ho mescolato. // Ha molto pepe e poco sale / e i torsoli che ci sono in mezzo / strappano di bocca la cavezza. // Tu però che a tutto sei avvezzo / esclamerai: «Che cibo squisito / è questo minestrone tonarese!». // Anzi, se hai appetito / deve risultarti gradita la lavatura / e temo che commetta il delitto / di venderti la primogenitura. 246 10 15 20 25 30 Gentile signor Tanu, happo rezzidu de vostè sa carissima littèra cuntenente pro me unu cumbidu. Li promitto de fagher sa manera de no mi dimustrare negligente a sa gentile sua preghiera. Permittat chi cunfesse francamente chi deo non creia a tantu onore: ancora nde so mesu diffidente. Una ’oghe mi nât: «Meneschidore non ses de ti portare a su Parnasu pro limare su versu a s’autore». Puru cun tottu deo persuasu chi non sia vostè adulatore de cussa ’oghe non nde fatto casu. M’happ’a leare cura e cun ardore unu sorrisu dimando a Talia pro fagher a vostè custu favore. Zert’est chi s’aritzesa poesia giutt’a bulluzu dae tantas laras si nd’hat perdidu sa forma nadia. Cuddas castalianas abbas raras perdid’han sa fatidica virtude: puru cun tottu dênt torrare giaras. Si m’assistit sa fisica salude sos cantos de Bachis cherzo intender in bucca a s’aritzesa gioventude. So piseddu, però m’intend’azzender s’allegra fantasia in su coro: a sa dulche fadiga cherzo attendere. Si torrant’a s’antiga form’issoro sos versos de Bachis, est eclissada sa fama de Cubeddu e Melchioro. 247 POESIAS 35 40 45 50 55 60 65 70 Andàd’a Macumele o a Pattada sa lirica suave suliana altamente dêt essere onorada. Certu chi leo fadiga e mattana pro separare dae milli venas s’abba d’una frischissima funtana. Trainos, rios suldos e pienas han bulluzadu s’abba netta e pura, sumid’in terras dulches e amenas. Nessunu mai s’hat donadu cura de coronare a laru su poete ch’est clamende vinditta in sepoltura. A mie solu mi toccat chi prete ischidende su sonnu a custa zente chi pro Sulis hat bidu abba ’e Lete. De una cosa solu so dolente ed est chi b’happo a ponner med’istentu pro resissire una cosa dezente. A sa musa m’invoco cun assentu: cherzo ispuntare una misera lima cun s’ispera de giungher’a s’intentu. Onoradu mi sento de s’istima chi vostè m’hat cherfidu professare ponendemi a limare s’alta rima. Semper de tue cherzo a mi trattare, fizu cherzo a mi narrer cun amore prîte orgogliosu nd’happ’andare. Zertos mi dan su titulu ’e signore, ma cussos non mi sun veros amigos ca non vantant bandera nè colore. Cun babbu meu in tempos antigos, si faula no est, fistis che frades: b’istat su fizu puru in sos obbligos. Semper nemigu ’e sa disamistade preighende su giustu cun anneu so ruttu in pena de infermidade. Su ch’est de Deu l’happ’a dare a Deu 248 75 80 85 90 95 100 105 e a Cesare su sou, ma mai lintu happo s’ispada tinta ’e samben meu. Si gai cun vostè mi so dipintu est chi sa cussienzia est segura e nessunu mi podet narrer fintu. Sinceru cun s’amigu in s’isventura mai happo s’afflittu abbandonadu, in coro meu non b’hat impostura. Nemigu de su male so istadu, poveru ma onestu, semper unu, bintu sì, non però umiliadu. De coro francu e a tottus cumunu, mi la fatto cun poveros mischinos chi opprimidos sunt de su digiunu. Odio cuddos viles istrozzinos chi dan dinare su chentu pro chentu e ponent terras santas a camminos. Fizu de su canudu Gennargentu, bidende sas infamias terrenas, provo in coro veru sentimentu. Manos ch’hant meritadu sas cadenas firmant libellos ignominiosos, ponende sa virtude in graves penas. Rettiles malaittos ischifosos isparghende funestu su velenu in custos sitos virdes e umbrosos. E nois cun d’unu animu serenu nos godimus in paghe s’ispettaculu chi disonorat custu logu amenu. A su male si ponzat un’ostaculu, benefica si tendat una manu, sa Barbagia est zega e cheret baculu. Deo cunfido in signor Bustianu; su credo sou dêt esser su meu, a su villanu si gridet villanu. Non s’ismentighet mai chi Mereu est in Tonara prontu a lu servire 249 POESIAS e s’agatat in dolu e in recreu. Basta. Como est ora ’e la finire, ca so istadu troppu noiosu: de s’infadu mi devet cumpatire. Li mando unu saludu affettuosu chi sinceru mi essit dae sinu; s’amigu sou Gentile signor Tanu, ho ricevuto / la vostra carissima lettera / contenente un invito per me. // Le prometto di fare in modo / di non dimostrarmi negligente / alla sua gentile preghiera. // Permetta che confessi francamente / che io non credevo a tanto onore: / ancora sono mezzo diffidente. // Una voce mi dice: «Degno / non sei di innalzarti al Parnaso / per limare il verso all’autore». // Pure con tutto ciò, io persuaso / che voi non siate adulatore, / a quella voce non faccio caso. // Mi prenderò cura e con ardore / chiedo un sorriso a Talia / per fare a voi questo favore. // Certo è che l’aritzese poesia / intorbidata da tante labbra / ha perso la forma natia. // Quelle castaliane acque rare / hanno perduto la fatidica virtù: / pure, con tutto ciò torneranno chiare. // Se mi assiste la salute fisica / voglio sentire i canti di Bachis / in bocca alla gioventù aritzese. // Sono ragazzo, però mi sento accendere / l’allegra fantasia nel cuore: / alla dolce fatica voglio attendere. // Se ritornano alla loro forma antica / i versi di Bachis, è eclissata / la fama di Cubeddu e Melchiorre. // Giunta a Macomer o a Pattada / la soave lirica suliana / sarà altamente onorata. // Certo che mi carico di fatica e travaglio / per separare da mille vene / l’acqua di una freschissima fontana. // Ruscelli, cupi fiumi e piene / hanno intorbidato l’acqua limpida e pura, / assorbita in terre dolci e amene. // Mai nessuno si è dato cura / di coronare con alloro il poeta / che sta chiamando vendetta nella sepoltura. // A me solo tocca lottare / svegliando dal sonno quella gente / che per Sulis ha bevuto acqua del Lete. // Solo di una cosa sono dolente / ed è che ci vorrà molta tempo / perché riesca una cosa decente. // Invoco la musa con impegno: / voglio spuntare una misera lima / con la speranza di giungere allo scopo. // Mi sento onorato della stima / che voi mi avete voluto dimostrare / incaricandomi di limare l’alta rima. // Voglio che mi si dia sempre del tu, / voglio che mi si chiami figlio con amore / perché ne andrò orgoglioso. // Certi mi danno il titolo di signore, / ma quelli non mi sono davvero amici / perché non vantano bandiera né colore. // Con mio padre in tempi antichi, / se non è una bugia, eravate come fratelli: / negli doveri rientra anche il figlio. // Sempre nemico dell’inimicizia / predicando il giusto fra i crucci / sono caduto nella sofferenza dell’infermità. // Quel che è di Dio lo darò a Dio / e a Cesare il suo, ma mai leccato / ho la spada tinta del mio sangue. // Se così con voi mi sono dipinto / è perché la coscienza è sicura / e nessuno può definirmi finto. // Sincero con l’amico nella sventura / mai l’afflitto ho abbandonato, / in cuor mio non c’è impostura. // Nemico del male sono stato, / povero ma onesto, sempre uno, / vinto sì, non però umiliato. // Di cuore franco e sodale con tutti, / sono amico di poveri infelici / che sono oppressi dal digiuno. // Odio quei vili strozzini / che prestano denaro al cento per cento / e fanno di luoghi sacri comuni strade. // Figlio del canuto Gennargentu, / vedendo le infamie terrene, / provo nel cuore vero sentimento. // Mani che hanno meritato le catene / firmano libelli ignominiosi, / mettendo la virtù in gravi pene. // Rettili maledetti schifosi / che spargono il funesto veleno / in questi siti verdi e ombrosi. // E noi con un animo sereno / ci godiamo in pace lo spettacolo / che disonora questo luogo ameno. // Al male si frapponga un ostacolo, / si tenda benefica una mano, / la Barbagia è cieca e vuole un bacolo. // Io confido nel signor Sebastiano; / il suo credo sarà il mio, / al villano si gridi villano. // Non si dimentichi mai che Mereu / è a Tonara pronto a servirla / e lo si trova in pena e in gioia. // Basta. Ora è tempo di finirla, / perché sono stato troppo noioso: / del fastidio mi deve scusare. // Le mando un saluto affettuoso / che sinceramente mi esce dal petto; / il suo amico Mereu Peppino. 250 251 110 Mereu Peppinu A SIGNOR TANU POESIAS A NANNI SULIS [III] 5 10 15 20 25 30 a Deus e ti lamentas a issu pro sa trista infermidade chi est bocchinde a chie bisonzat sanu a seppellire a mie? Guai si avanzes. Para, falche ingrata. Non creo chi nde cherzas messare unu fiore. Porca assassina, nara: forzis non bi so deo lottende in d’unu mare de dolore? Abbrevia sa mia terribile agonia ma salva custu gravellu de amore; salva custu gentile lizu, s’est chi non ses ingrata e vile. Tue, o Crocifissu, si la podes suspender, para de Nanni sas afflissiones. Ca si bocchis a issu guai!, has a intender dae me funestas malediziones. In sa celeste isfera sa mia preghiera accetta: custu lizu non abbandones, provvedi prontamente, o salvalu o non ses onnipotente. E tue, dulche Maria, isposa e mamma ’e Deu, piedade ti prego, piedade: tue ses bona e pia, salva s’amigu meu, salva s’amigu meu, salva s’amigu meu, unicu frade. Prîte non ti presentas 252 A NANNI SULIS [III] Guai se avanzi. Fermati, / falce ingrata. Non credo / che voglia recidere un fiore. / Porca assassina, dì: / forse non ci sono io / a lottare in un mare di dolore? / Accorcia la mia / terribile agonia / ma salva questo garofano d’amore; / salva questo gentile / giglio, se è vero che non sei ingrata e vile. // Tu, o Crocefisso, / se puoi porvi fine, / di Nanni interrompi le afflizioni. / Perché se uccidi lui / guai! sentirai / da me funeste maledizioni. / Nella celeste sfera / la mia preghiera / accetta: non abbandonare questo giglio, / provvedi prontamente, / o lo salvi o non sei onnipotente. // E tu, dolce Maria, / sposa e madre di Dio, / pietà ti prego, pietà: / tu sei buona e pia, / salva il mio amico, / salva il mio amico, / salva il mio amico, unico fratello. / Perché non ti presenti / a Dio e ti lamenti / con lui per la triste infermità / che sta uccidendo chi / serve sano per seppellire me? 253 POESIAS SA BOTTIGLIA 5 TITTI TITTIA Semper a tie cherz’esser fidele, mancari dure mill’annos in vida, dae me onorada e riverida. Comente in Samo sa fiz’ ’e Cibele, tue pro me ses de Ibla su mele massimu cando a luttu ses bestida; e cando t’ ’ido de lagrimas prena ti baso forte ca mi faghes pena. 5 10 Titti,[4] ite frittu, ite notte infernale! Su ’entu est in terribiles muilos, astragadu est su meu cabidale, s’astragu mi lu sento fin’a pilos. Como non happo isperanza chi sane: prestu si truncant sos debiles filos. In sa bianca ’adde, addane addane, annunziende sa triste fine mia urulare s’intendet unu cane. Titti, ite frittu, tittia tittia. TITTI TITTIA LA BOTTIGLIA Sempre a te voglio esser fedele, / dovessi restare mille anni in vita, / da me onorata e riverita. / Come a Samo la figlia di Cibele, / tu per me sei di Ibla il miele / soprattutto quando a lutto sei vestita; / e quando di lacrime ti vedo piena / ti bacio forte perché mi fai pena. 254 Titti, che freddo, che notte infernale! / Il vento terribilmente mugghia, / ghiacciato è il mio cuscino, / il freddo me lo sento fino ai capelli. / Ora non ho speranza di guarire: / presto si spezzano i deboli fili. / Nella bianca valle, lontano lontano, / annunziando la triste fine mia / ululare si sente un cane. / Titti, che freddo, tittia tittia. [4. Esclamazione onomatopeica che equivale a ‘che freddo!’ (cfr. DES, s.v. tittir(r)ía).] 255 POESIAS A ERNESTO MEREU Sergente in su Geniu .1 25 Sa servidora mia, bell’e bova, l’happ’intes’isclamare: «Signoriccu ora p’ora est menzus de su chelu!». [I] Partidu ses a sos degheott’annos, fist piseddu, isbarvadu e birgonzosu; a vintunu ti bio a baffos mannos, brunu, omine fattu e geniosu. 5 10 Isco c’has isfidadu milli affannos, ma los has vintos ca ses virtuosu, e oe ses bestidu ’e tales pannos chi eo nde so pro te orgogliosu. Ses fentomadu tra bonas persones, l’intendo deo su chi nât sa zente: non bind’hat unu chi nde nerzat male. 30 35 20 [II] Sas pizzinnas nde contant un’ispantu, non ti cuant s’insoro passione: ti dànt pro fines titulu de santu, senza rifletter’a s’isquadrone. Restant che infulminadas de incantu cando passas a zoccu de isprone. De lizu raru ti dana su vantu, tottas ti giamant su simpaticone. 1. Sonettos dittados in su settembre de su 1898 in occasione de una visita sua in famiglia [«Sonetti dettati nel settembre del 1898 in occasione di una sua visita in famiglia»]. 256 [III] Già chi ti tenzo in domo pro bisitta, allegros ambos faghimus barracca. Como non ti disturbat sa trumbitta; mandiga pur’a fiacc’a fiacca. Su brou no est cottu in sa marmitta, sa peta no est caddu, ma est bacca; mandiga ca dèt esser ischisitta, prite l’hat coghinada sa teracca. Como dès olvidare sa pagnotta, in parte nessi, si non totalmente: mandiga ca sun tottas cosas sanas. L’hana postu de oro sos gallones, a vint’annos! Fulanu est già sergente! si sighit gai benit caporale! 15 Si non lu credes ti nde do sa prova. De virtudes ti faghent meda riccu: prestu ti ponent in biancu velu. 40 45 50 E’ sa tazza biedìla totta, ca si torras de nou in continente no nd’agattas de similes funtanas. [IV] Tra parentis però, unu difettu in sas virtudes tuas happo bidu, ed este chi dae cando ses benidu non has bettadu faeddu in derettu. Has lassadu su tou dialettu, de varios limbazos ses cundidu. Sos macacos ti credent istruidu, ma tue has male mannu in s’intellettu. 257 POESIAS Ses a frastimos che unu marranu, cando dès narrer ahi naras ohi: duos faeddos non pones in liga. 55 60 Como chi prallas tottu talianu, finas a frade tou naras: «Voi, sardo molente, non capisci miga!». [V] E raccontende faulas ti pistas, e de su male tou non ti abbizas. Nac’has isposas a mizas a mizas, tottas contissas, però sunt modistas, e sartinas ignobiles e tristas, chi no s’ischit de chie siant fizas, forsis amore veru nde disizas: ecco tottu sas tuas cunquistas! 65 70 75 80 A sos tontos los bogas dae sè – si comente ses furbu aiz’aizu – lis filas fune narende ch’est lana. A sos bovos lis mustras unu neu, e lis faghes a creder – cun ingannos – ch’est ferida de daga furistera! Sunt signos d’una ruta, caru meu, dae cando teniast treig’annos; fruttu d’una solenne imbreaghera. 85 90 95 [VII] Sos versos non ti causent dolore, tocca sa tazza, e bibimus su binu. Faghe sì chi a mie intro su sinu oe torret s’antigu bon’umore. Evviva! Sa bandera tricolore t’assistat – a front’alta in su camminu de sa virtude, sighi – su destinu t’auguro chi ti siet in favore. Ses ruzu, sanu, nerbiosu e forte; sa Patria difende – unica mama chi has in terra, donosa e gentile –. A unu l’has contadu chi su Re d’ogni sero, in pubblicu passizu, ti regalat zigarros de Avana!!! Cumbatti, creba! Non timast sa morte, mai però a mie ’enzat sa fama chi ses istad’unu sordadu vile. [VI] E nac’has tentu attaccos e duellos, «fattu de zertas damas paladinu» halzadu in fama de ispadaccinu, nac’has bocchidu battor colonnellos!! Tonara, 30 settembre 1898 Peppinu Mereu Mira non siant battor carradellos ch’has haer isciuttadu de su binu, prite dae minore in camasinu viviast sos momentos pius bellos. 258 259 POESIAS A ERNESTO MEREU [I] Sergente nel Genio. [I] Sei partito ai diciott’anni, / eri ragazzo, imberbe e vergognoso; / a ventuno ti vedo con grandi baffi, / bruno, uomo fatto e fascinoso. // So che hai sfidato mille affanni, / ma li hai vinti perché sei virtuoso, / e oggi sei vestito con tali panni / che io ne sono per te orgoglioso. // Sei conosciuto fra buone persone, / lo sento io quel che dice la gente: / non ce n’è uno che ne parli male. // Gli hanno messo i galloni d’oro, / a vent’anni! Il tale è già sergente! / se continua così diventa caporale! [II] Le ragazze ne raccontano meraviglie, / non ti nascondono la loro passione: / ti danno persino titolo di santo, / senza pensare allo squadrone. // Restano come fulminate d’incanto / quando passi a suon di sperone. / Di giglio raro ti danno il vanto / tutte ti chiamano il simpaticone. // Se non lo credi te ne do la prova. / Di virtù ti fanno assai ricco: / presto ti metteranno in bianco velo. // La mia serva, bella e sciocca, / l‘ho sentita esclamare: «Signorino / ora come ora è meglio del cielo!». [III] Già che sei a casa in visita, / entrambi allegri facciamo baldoria. / Ora non ti disturba la trombetta; / mangia pure con calma. // Il brodo non è cotto nella marmitta, / la carne non è cavallo, ma è vacca; / mangia che dev’essere squisita, / perché l’ha cucinata la serva. // Ora devi dimenticare la pagnotta, / almeno in parte, se non totalmente: / mangia, che sono tutte cose sane. // E il bicchiere bevilo tutto, / perché se torni di nuovo in continente / non ne trovi simili fontane. [V] E ti arrabatti a raccontare bugie, / e del tuo male non ti accorgi. / Dici che hai fidanzate a migliaia, / tutte contesse, però sono modiste, // e sartine ignobili e tristi, / che non si sa di chi siano figlie; / forse desideri amore vero: / ecco tutte le tue conquiste! // I tonti li freghi da soli – / siccome in fondo in fondo sei furbo – / gli fili corda dicendo che è lana. // Ad uno hai raccontato che il Re / ogni sera, nel passeggio pubblico, / ti regala sigari Avana!!! [VI] E si dice che hai partecipato ad attacchi e duelli, / «di certe dame fatto paladino», / innalzato a fama di spadaccino, / dici di aver ucciso quattro colonnelli. // Bada non siano quattro botti / di vino che devi aver prosciugato, / perché da piccolo in cantina / vivevi i momenti più belli. // Agli stolti mostri un neo, / e gli fai credere, con gli inganni, / che è la ferita di una daga straniera! // Sono segni di una caduta, caro mio, / di quando avevi tredici anni; / frutto di una solenne ubriacatura. [VII] I versi non ti causino dolore, / tocca il bicchiere, e beviamo il vino. / Fai sì che a me dentro al petto / oggi ritorni l’antico buonumore. // Evviva! La bandiera tricolore / ti assista, a fronte alta nel cammino / della virtù, continua; il destino / ti auguro che ti sia favorevole. // Sei giovane, sano, nerboruto e forte; / difendi la Patria, unica madre / che hai al mondo, bella e gentile. // Combatti, crepa! Non temere la morte, / mai però a me giunga voce / che sei stato un soldato vile. [IV] Tra parentesi però un difetto / ho visto fra le tue virtù, / ed è che da quando sei venuto / non hai detto una parola corretta. // Hai abbandonato il tuo dialetto, / con vari linguaggi sei condito. / Gli sciocchi ti credono istruito, / ma tu hai un grave male nell’intelletto. // Imprechi come un marrano, / quando devi dire ahi dici ohi: / non metti assieme due parole. // Ora che parli solo italiano / anche a tuo fratello dici: «Voi, / sardo molente, non capisci miga!». 260 261 POESIAS IN CONZILIATURA SU SOCIALISTA A UNA BIGOTTA Attore e Conziliadore. 5 Attore Su testimonzu cherzo interrogadu chi rispundat a terminos de lè. A mie però mi paret chi vostè siat unu giuighe comporadu. Conziliadore State zitto! Mi cherzo rispettadu, o su Procuradore de su Re, si ses mancante, ti torrat in sè; tando ’ides si falsu so istadu. Attore Miret signor Giuigh’eo nd’iscrio, de custu, a su Pretore. Mi nde appello, giustissia dimando: non perdono. 10 Conziliadore [I] De cando ses cun sa cunfessione, non faeddes de Santos, bene meu: comente cheres chi mi ponza in Deu da chi ses tue sa tentazione? 5 10 15 IN CONCILIATURA Attore e Conciliatore. Attore – Voglio che il testimone interrogato / risponda a termini di legge. / A me però sembra che vossignoria / sia un giudice comprato. // Conciliatore – State zitto! Mi voglio rispettato, / o Procuratore del Re, / se sei fuor di senno ti riporta in te; / allora vedi se falso son stato. // Attore – Guardi signor Giudice io ne scrivo, / di questo, al pretore. Mi appello, / domando giustizia: non perdono. // Conciliatore – Di questo non parlate, giudico io, / stia zitto, se no la condanno, / e poi vi faccio vedere chi sono io! 262 Lassa sos Santos, faedda de affettu: chi finas cun su chelu so a prima pro mesu ch’happo a tie intro su pettu. Ma si falsu non est chi m’has istima, pagu seguru tenzo custu lettu, istuda sa candela, abarra firma. Questo non prallate, giudico io, stia zitto, se no condanno ad Ello, e poi vi faccio vedere cosa sono! Tonara, 27 gennaio 1899. Peppino Mereu Ma si abberu m’has affezione, beni e dami unu basu cun recreu; lassa sos santigheddos d’ozu seu, basa a mie, non bases su mattone. 20 25 [II] Bianca, non lu nego, ses bianca, in biancura superas su lizu, però cando t’hant postu su battizu t’hana fattu sa rughe a manu manca. Tue giughes chelveddos de corranca, t’hana postu su sale aizzu aizu chi finas in su pubblicu passizu curres a musca che trau in sa tanca. Giughes sa musca, però non t’abbizas chi ti faghet andare furiosa, pro cussu faghes cussu passu istranu. 263 POESIAS Narami it’est su chi tottu disizas, beni a mie, non istes birgonzosa ca su chi chircas tue l’happo in manu. ANIMA NIEDDA 5 10 15 IL SOCIALISTA A UNA BIGOTTA [I] Basta con la confessione, / non parlare di Santi, bene mio: / come vuoi che mi accosti a Dio / quando sei tu la tentazione? // Ma se davvero provi affetto per me, / vieni e dammi un bacio con piacere; / lascia i santini d’olio di sego, / bacia me, non baciare il mattone. // Lascia i Santi, parla d’affetto: / che anche col cielo sono in discordia / per il fatto che ho te nel cuore. // Ma se non è falso che mi ami, / trovo poco sicuro questo letto, / spegni la candela, resta ferma. [II] Bianca, non lo nego, sei bianca, / in biancore superi il giglio, / però quando t’hanno battezzata / ti hanno fatto la croce con la sinistra. // Hai il cervello di una cornacchia, / ti hanno messo il sale appena appena, / così che perfino nel passeggio pubblico / corri nervosamente come il toro nella chiusa. // Hai l’assillo, però non t’accorgi / che ti fa diventare furiosa, / perciò fai quel passo strano. // Dimmi cos’è che vuoi, / vieni a me, non essere vergognosa / perché ciò che tu cerchi ce l’ho in mano. 264 20 25 30 Omine venale, tristu e vile, de cantos peccados has esser reu, tue giughes de Giudas su fachile. E dogni die nd’ingullis a Deu, est chi Deus est mortu dae ora si no, nde l’haias ingullidu intreu. Adamu l’hat tentadu sa colora, o puru su dimoniu o su serpente, a tie una grassa servidora: una chi nd’has ispudoradamente fatta padrona de segretas giaes dende su malu esempiu a sa zente. Prima fis un’iscurzu e a pês graes, como chi ses bestidu ’e santidade colas comente sas atteras aes. Non vives si non b’hat mortalidade, prestas dinares su chentu pro chentu: custas si narant bellas caridades. De onore non tenes sentimentu, si sonat de agonia una campana ti faghes lastimosu e ses cuntentu. Faghes s’anzone e ti ’estis de lana pro respirare s’aera serena ma sutta de s’ipocrita suttana fintu ses unu lupu, una iena chi pregas mortes, pestes e promissas campende subra s’isventura anzena. Amigu de maccacas priorissas no nde disizas de bonos buccones: criat sa pudda e tue naras missas. Dae sos bovos e basa mattones non ti mancan sas puddas in padedda, in s’ispidu crabittos e anzones. 265 POESIAS 35 40 45 50 55 Pro cussu andas cadredda cadredda ca ses vivende cun sa trassa mala, faccia de fune, anima niedda. Cristos est mortu cun sa rughe a pala, hat preigadu isculzu in su desertu: tue non cantas si non b’hat isciala. Si morit gente ricca, cussa est certu chi l’accumpagnas a sa sepoltura ispramadu cantende bucc’abertu. E pro su poverittu no has cura de l’intonare suave unu cantu, nde l’interras gasie a fuidura. A narrer da chi ses in campu santu cun zente morta pienende caffos non ti mudat sa faccia in su piantu. Sa carotta chi giughes senza baffos dae comente manna e brutta l’hasa est digna de sas ficcas e de ciaffos. Su chi nâs oe lu dennegas crasa, naras a dare pane a su meschinu, tenes trigu a muntone e non nde dasa, vile basa mattone e assassinu. 266 ANIMA NERA Uomo venale, triste e vile, / di quanti peccati sarai reo, / tu hai la maschera di Giuda. // E ogni giorno ingoi Dio, / è che Dio è morto da tanto, / se no l’avresti ingoiato intero. // Adamo l’ha tentato la biscia, / oppure il demonio o il serpente, / a te una grassa serva: // una che hai spudoratamente / reso padrona di chiavi segrete, / dando il cattivo esempio alla gente. // Prima eri scalzo e coi piedi pesanti, / ora che sei vestito di santità / passi come gli altri avvoltoi. // Non vivi se non c’è mortalità, / presti denaro al cento per cento: / queste si chiamano belle carità. // Non hai il senso dell’onore, / se l’agonia suona una campana / ti mostri compassionevole e sei contento. // Fai l’agnello e ti vesti di lana / per respirare l’aria serena / ma sotto l’ipocrita sottana // finto, sei un lupo, una iena / che prega morti, pestilenze e promesse, / campando sulla sventura del prossimo. // Sei amico di sciocche priore / certo non desideri buoni bocconi: / la gallina fa l’uovo e tu dici messa. // Dagli sciocchi e baciamattoni / non ti mancano le galline in pentola, / nello spiedo capretti e agnelli. // Per quello cammini agitandoti / perché stai vivendo con male trame, / faccia da forca, anima nera. // Cristo è morto con la croce in spalla, / ha predicato scalzo nel deserto: / tu non canti se non c’è scialo. // Se muore gente ricca, quella è certo / che l’accompagni alla sepoltura / cantando sguaiato a squarciagola. // E per il poveraccio non ti curi / d’intonare un soave canto, / lo seppellisci così, di fretta. // A dire che quando sei nel camposanto / riempiendo fosse con gente morta / l’espressione non ti muta nel pianto. // La maschera che porti senza baffi / da quanto l’hai grande e brutta / è degna di fiche e schiaffi. // Quel che dici oggi lo rinneghi domani, / dici di dare pane al povero, / hai grano a mucchi e non ne dai, / vile bacia-mattoni e assassino. 267 POESIAS TURMENTOS 5 10 15 A SU TIANESU Donosu rosignolu, non cantes sutta sa ventana mia, lassami istare solu unu momentu ca benit s’istria; custu est logu de dolu, de iscunfortu e de malinconia, custu est logu de pena indigna ’e s’amorosa cantilena. 5 Prîte mi naras chi non so de notu, chi non connosco chi ses tianesu? Una ’olta una ’entre m’hazis cottu, b’happo accatadu unu pettine in mesu. Benit Curreli e nde fuliat tottu, sas boghes s’intendian dae tesu. Peppeddu Noli e Chiccangelu Puddu s’hana pappadu fina su cruccuddu. Passadas sun sas dies chi mi ponias su coro in regiru, tue cantas e ries e tenes pro risposta unu sospiru. Bentos frittos e nies m’han leadu de vida su respiru. Su canticu suave suspende unu momentu, s’ora est grave. TORMENTI Grazioso usignolo, / non cantare sotto la mia finestra, / lasciami star solo / un momento, perché viene il gufo; / questo è un luogo di dolore, / di sconforto e di malinconia, / questo è un luogo di pena / indegno dell’amorosa cantilena. // Sono passati i giorni / in cui mi mettevi il cuore in tumulto, / tu canti e ridi / e ricevi in risposta un sospiro. / Venti freddi e nevi / mi hanno portato via il vitale respiro. / Il canto soave / sospendi un momento, l’ora è grave. 268 AL TIANESE Perché mi dici che non sono fisionomista, / che non riconosco che sei tianese? / Una volta un ventre m’avete cotto, / ci ho trovato un pettine in mezzo. / Viene Curreli e butta tutto, / le grida si sentivano da lontano. / Peppeddu Noli e Chiccangelu Puddu / si son mangiati anche la crocchia. 269 POESIAS S’ISVEGLIA UNU BANDU Cando intendo su tou ticchi-tacca mi toccat a discurrere e pensare chi no isco comente ti pagare comente so a dolore ’e busciacca. 5 10 Tue ti ballas, pares una macca, non mi lassas ne mancu riposare e paret ti nde cherzas buffonare de narrer a su mere: «Crepa e zacca». Porca balla, accidente a Bonomi, non meritades s’assoluzione ca manna m’azis fatta sa piaga. Bandidore Peppa Bandidore 5 Marianna Arremunda Bandidore 10 Poveru ispiantadu, bae e dromi cun cuss’isveglia de precisione chi cun su ticchi-tacca ti nât: «Paga». Chicchedda «Si ’ettat custu bandu: s’esattore cheret pagada sa segunda rata». «Ancu li potat benner su puntore». «A chie cheret pische de iscatta, a tres soddos sa libbra». «Su rettore oe zertu non mandigat patata». «Ancu li pighet dolores de matta chi non fazzat a tempus su dottore». «Bandene a prazz’ ’e maistu Onoratu a chie cheret petta ’e craba grassa, a tres soddos sa libbra nd’hanta fattu. Binu nieddu dulche che pabassa, a domo de Pissente, est a barattu». «Occannu cherzo morrer conc’a tassa». UN BANDO Quando sento il tuo tic-tac / mi tocca discorrere e pensare / che non so come pagarti / per come mi duole la tasca. // Tu te la balli, sembri una matta, / non mi lasci neppure riposare / e sembra che ti voglia beffare / del padrone dicendogli: «Crepa e insacca». // Porca balla, accidenti a Bonomi, / non meritate l’assoluzione / perché mi avete causato una grande piaga. // Povero spiantato, va’ e dormi / con quella sveglia di precisione / che col tic-tac ti dice: «Paga». Banditore – «Si proclama questo bando: l’esattore / vuole che si paghi la seconda rata». / Peppa – «Che gli possa venire un malore». / Banditore – «Per chi vuole muggini, // a tre soldi la libbra». Marianna – «Il rettore / oggi certamente non mangia patate». / Arremunda – «Che gli vengano i dolori di pancia / e che non arrivi in tempo il dottore». // Banditore – «Vadano in piazza di mastro Onorato / chi vuole carne di capre grassa, / l’hanno messa a tre soldi la libbra. // Vino nero dolce come l’uva passa, / a casa di Pissente, è a buon prezzo». / Chicchedda – «Quest’anno voglio morire davanti al bicchiere». 270 271 LA SVEGLIA POESIAS SU CANARINU DE SU RETTORE[5] MINCA MACCACA Su burriccu chi tenet su rettore non meritat sa fama de molente, est a corrinos che un’accidente, invidio su sou bonumore. 5 5 Cantende su manzanu in “la maggiore” no est nudda a su mere differente, parent bessidos de tott’una brente, differenziant solu in su colore. 10 10 Tott’un’idea e differente lana: unu a sa mola, s’atteru a sa missa. In ue b’hat paghe ponent avvolottu, ma si su pegus giughiat suttana piùs d’una tabaccona priorissa diat a narrer: «Custu sì ch’est dottu!». 15 20 IL CANARINO DEL PARROCO L’asino che ha il parroco / non merita la fama di asino, / raglia come un accidente, / invidio il suo buonumore. // Cantando al mattino in “la maggiore” / in niente dal padrone è differente, / sembra siano usciti dallo stesso ventre, / differiscono solo nel colore. // Stesse idee e diversa lana: / uno alla macina, l’altro a messa. / Dove c’è pace creano scompiglio, // ma se la bestia avesse la sottana / più di una priora tabaccona / direbbe: «Questo sì che è dotto!». [5. Si veda in proposito, per comprendere meglio la metafora, l’accezione secondaria del lemma data da P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano, a cura di G. Paulis, Nuoro, ISRE-Ilisso, 2002, s.v. canàriu: «Canarino ... canariu de istalla = ‘il somaro’. Di un cantore cane si dice: pared unu canariu de istalla raglia come un somaro».] 272 25 30 Minca maccaca, funesta e fatale, tue est chi m’has giuttu a su casinu, tue est chi m’has trazadu a s’ispidale solu pro m’iscazzare unu pappinu. Pro cantu t’happ’a giughere appiccada non piùs has a andare a s’affainu. Una ’olta l’has fatta s’acconcada intrada ti nde sese in d’unu buccu e bessida nde sese allusinzada. Oe ses sa funtana ’e su muccu, de testa ses istada pagu azzetta, creias chi su cunnu fiat succu. No bi penses piùs in sa faldetta, de como in pois benis proibida pro finas de ti fagher sa pugnetta. Pro t’esser un’istante divertida già mi l’has arrangiadu su fiancu: m’has giuttu a sos istremos de sa vida, in prus m’has fattu ispender unu francu pro unu buccu puzzolente e feu: gustosu fesset istau assumancu! Da chi non connoschias cussu impreu, proite ses intrada in tale tana a ruinare su fisicu meu? E si non fist’istada macca e vana, narzende in cortesia e in politica, ancora fisti istada frisca e sana. Oe ses ispilida e sifilitica, finas sos cazzos de sette unu soddu ti narant male e ti faghent sa critica. De cando fisti cun su cunnu a coddu, minca, pro non dare attenzione su latte cunvertidu s’est in gioddu. 273 POESIAS 35 40 45 50 55 T’hasa abbrazzadu s’iscolazione e atteru non faghes, minca fea, che iscolare, isporcare cotone. Si a coberrer ti torrat s’idea pro comente m’has como iscramentadu, ti ponzo de cannau una trobea. Medas boltas t’haia prezettadu, minca, de non ferrere a s’intaccu: tue a s’intaccu has tiradu e l’has ciappadu. De ti giugher gasie so istraccu chi m’has privadu de buffare mustu, non cheres mancu chi fume tabaccu. Pro ti leare mes’ora ’e gustu ti ses bettada che musc’a sa zega, sa testa in d’una barza t’has’infustu. Ses a tempus ancora, pianghe e prega e faghe votu a sa chirurgia si no nde perdes tottu sa buttega. Eo ti cherzo senza maladia a su nessi pro podere esclamare a sas bajanas bellas: «Minca mia». E tue si cheres cun megus restare, pro finas chi ti passet cuss’isfogu, cun su cunnu non torres a brigare chi sa pest’est timida in ogni logu. 274 MINCHIA STOLTA Minchia stolta, funesta e fatale, / tu mi hai portato al casino, / tu mi hai trascinato in ospedale // solo per scacciarmi un prurito. / Per quanto ti porterò appesa / non andrai più alla cieca. // Una volta l’hai fatta la pazzia, / sei entrata in un buco / e ne sei uscita accesa. // Oggi sei la fontana del muco, / di testa sei stata inammissibile, / credevi che la fica fosse semolino. // Non pensare più alla gonna, / da ora in poi ti è proibito / anche di farti una sega. // Per esserti un istante divertita / mi hai sistemato per bene: / mi hai condotto allo stremo della vita, // in più mi hai fatto spendere una lira / per un buco puzzolente e brutto: / almeno fosse stato appetitoso! // Dacché non conoscevi quell’uso / perché sei entrata in una simile tana / a rovinare il mio fisico? // E se non fossi stata stolta e vana, / parlando cortesemente e con diplomazia, / ancora saresti stata fresca e sana. // Oggi sei spelata e sifilitica, / anche i cazzi da quattro soldi / ti parlano male e ti criticano. // Da quando avevi la fica al collo, / minchia, per non fare attenzione, / il latte s’è trasformato in yogurt. // Ti sei presa lo scolo / e altro non fai, minchia schifosa, / che scolare, sporcare cotone. // Se ti riviene l’idea di scopare, / per come ora sono rimasto scottato, / ti lego con una pastoia di canapa. // Molte volte t’avevo ordinato, / minchia, di non arrivare all’intacco: / tu all’intacco hai mirato e l’hai beccato. // Di averti in questo stato sono stanco, / che mi hai privato di bere vino, / e neppure vuoi che fumi tabacco. // Per prenderti mezzora di piacere / ti sei buttata alla cieca come una mosca, / ti sei bagnata la testa in una vasca. // Sei ancora in tempo, piangi e prega / e fai voto alla chirurgia / se no perdi tutta la bottega. // Io ti voglio senza malattia, / almeno per poter esclamare / alle belle ragazze: «Minchia mia». // E tu se con me vuoi restare, / finché non ti passa quello sfogo, / con la fica un’altra volta non litigare, / perché la peste è temuta in ogni luogo. 275 POESIAS e a pês meos sa Sardigna intera oe est benida a mi fagher’onore, avvenimentu dignu de sa gloria. ALBERTO LA MARMORA [I] Tottus unidos, minores e mannos, avanzad’a innoghe a passu lentu: sa Punta Paulina in Gennargentu cumprit su votu de settantott’annos. 5 10 Non bos fettan paura sos malannos chi podent causare nie e bentu. Sa prima preda de su fundamentu est bettada e lassade sos affannos. 20 35 Festa che custa non b’hat piùs bella, su momentu est solenne, s’ora est grave: La Marmora est torradu a Bruncu Spina. In santu Bastianu de Biella una ’oghe dulzissima e soave giammat da una losa: «Paolina». 15 30 [II] Paolina, cun boghe armoniosa a fronte alta sullevat custu gridu: «O Alberto La Marmora, riposa, su votu chi has fattu ecco cumpridu; 40 45 50 25 276 Barbagia, non dês narrer piùs tittia, beni puru a pedire carapigna;[6] s’has frittu agatas calura benigna, gai m’hat fattu Alberto, bona e pia. Grazie a chie mi faghet tanta festa: nd’approfitto ’e sa bella circustanzia, saludo augurende amor’e paghe; dormi in paghe sos sognos de sa losa ch’affine connottu happo su nidu de su cale nde fia bisonzosa dae cando a innoghe ses benidu. Zente povera, sì, però sincera hat versadu istillas de sudore pro unu nidu a sa tua memoria, [III] Ite festa, ite paghe, ite armonia! Orgogliosa so, no nde fia digna de saludare s’intera Sardigna in sa modesta domighedda mia. da una domo umile e modesta, cando bi hat amore e fratellanzia, s’alzad’un’incrollabile nuraghe. [IV] Gai firmu in te su sentimentu siat de s’onestade e de s’amore, o Sardigna, su pane cun sudore pappa e non ruas in avvilimentu. Non timas mai s’astragadu bentu nè a sas iras cunserves rancore. Oe so tottu risu e tottu amore, oe su coro palpitat cuntentu. [6. ‘Sorbetto confezionato con la neve’ (cfr. DES, s.v. karapíña).] 277 POESIAS Ti saludo e ti prego, eletta zente, d’Eolo non timas piùs su muilu nè de s’astragadu hapas timòria: 55 fritti innoghe su chizu e riverente in custa pedra, suspiradu asilu, saluda de Alberto sa memoria». Tonara, 22 luglio 1900 ALBERTO LA MARMORA [I] Tutti uniti, piccoli e grandi, / avanzate fin qui a passo lento: / la Punta Paolina nel Gennargentu / scioglie il voto di settantotto anni. // Non vi facciano paura i malanni / che possono causare neve e vento. / La prima pietra di fondazione / è stata messa e abbandonate gli affanni. // Di questa non c’è festa più bella, / il momento è solenne, l’ora è grave: / La Marmora è tornato al Bruncu Spina. // A San Sebastiano di Biella / una voce dolcissima e soave / chiama da una tomba: «Paolina». [II] Paolina, con voce armoniosa / a fronte alta leva questo grido: / «O Alberto La Marmora, riposa, / il voto che hai fatto eccolo sciolto; // dormi in pace i sogni della tomba / perché finalmente il rifugio ho conosciuto / del quale ero bisognosa / da quando qui sei venuto. // Gente povera, sì, però sincera / ha versato stille di sudore / per un rifugio alla tua memoria, // e ai miei piedi la Sardegna intera / oggi è venuta a farmi onore, / avvenimento degno di gloria. [III] Che festa, che pace, che armonia! / Sono orgogliosa, non ero degna / di salutare l’intera Sardegna / nella modesta casetta mia. // Barbagia, non dovrai dire più tittia, / vieni pure a chiedere la carapigna; / se hai freddo troverai calore benigno, / così mi ha fatto Alberto, buona e pia. // Grazie a chi mi fa tanta festa: / approfitto della bella circostanza, / saluto augurando amore e pace; // da una casa umile e modesta, / quando c’è amore e fratellanza, / s’innalza un incrollabile nuraghe. [IV] Così, in te saldo il sentimento / sia dell’onestà e dell’amore, / o Sardegna, il pane con sudore / mangia e non cadere nell’avvilimento. // Non temere mai il ghiacciato vento / e alle tempeste non serbare rancore. / Oggi sono tutta riso e tutta amore, / oggi il cuore palpita contento. // Ti saluto e ti prego, eletta gente, / non temere più il mugghiare di Eolo, / e non avere timore del gelo: // abbassa qui lo sguardo e riverente / in questa pietra, sospirato asilo, / saluta la memoria di Alberto». 278 279 POESIAS S’AMBULANTE TONARESU SIGNOR CIARLA A SU FIZU CIARLATANU Cun d’unu cadditteddu feu e lanzu sa vida tua a istentu la trazas; da’una ’idda a s’attera viazas, faghes Pasca e Nadale in logu istranzu. 5 10 A caldu e frittu girende t’iscazas pro chimbe o ses iscudos de ’alanzu, dae s’incassu de sett’otto sonazas chi malamente pagant’unu pranzu. Sempre ramingu senza tenner pasu, de una ’idda a s’attera t’ifferis aboghinende inue tottu colas: «Discos nobos pro fagher su casu e chie leat truddas e tazeris e palias de forru e de arzolas!». Sì, caro mio, sono stato in guerra, de maccarrones nd’happo bidu fumu, avevo freddo e mi corcavo in terra, allora non conoscevo neanche il rumu. 5 10 Cando le balle si chiamavan prumu spaccavano una zudda perra perra; e beneminde ballas dumu dumu, porcherie inventate in Inghilterra. Io sì che ne ho visto di disastri reduidu a peus de una belva pro fagher una e libera s’Italia; adesso siete soldati giovinastri col sigaro e a braccetto d’una selva a passeggio col bimbo e con la balia. SIGNOR CIARLA AL FIGLIO CIARLATANO L’AMBULANTE TONARESE Con un cavalluccio brutto e magro / trascini a stento la tua vita; / viaggi da un paese all’altro, / trascorri Pasqua e Natale in terra straniera. // Ti stanchi a girare col caldo e col freddo / per cinque o sei scudi di guadagno, / dall’incasso di sette, otto sonagli / che malamente pagano un pranzo. // Sempre ramingo, senza trovare riposo, / giungi da un paese all’altro / gridando ovunque tu passi: // «Recipienti nuovi per fare il formaggio / e chi compra mestoli e taglieri / e pale da forno e per l’aia!». Sì, caro mio, sono stato in guerra / ne ho visto fumo di maccheroni! / avevo freddo e mi corcavo [‘coricavo’] in terra, / allora non conoscevo neanche il rumu [‘rum’]. // Quando le balle [‘i proiettili’] si chiamavan piombo / spaccavano un pelo in due; / e altro che proiettili dumu dumu [‘dum-dum’], / porcherie inventate in Inghilterra. // Io sì che ne ho visto di disastri / ridotto peggio di una belva / per fare una e libera l’Italia; // adesso siete giovinastri, / col sigaro e a braccetto d’una selva [‘serva’] / a passeggio col bimbo e con la balia. 280 281 POESIAS PIAZZAFORTE DI ORUNE[7] 30 5 10 15 20 25 Noi sottoscritti, Unale brigadiere comandante la locale stazione e Bertolini carabiniere rapportiamo a chi ha sempre ragione, che la mattina del sette corrente presentavasi a noi un mascalzone, figlio di farabutto e delinquente, dell’età giusta per essere impiccato, nativo di Orune e possidente. Da costui ci venne denunciato che il giorno prima, in un’ora incerta, gli fu dal salto un asino involato, mentre trovavasi in campagna aperta in regione detta «terra infame», località bruttissima e deserta. L’asino era nero di pelame, con le orecchie lunghe mezzo metro, logoro dal lavoro e dalla fame; era in uno stato più che tetro, tanto che camminava in pochi casi col muso avanti e con la coda dietro. Per farci maggiormente persuasi il derubato, insomma, ci ebbe a dire che esso aveva cinque gambe o quasi e che in tutto egli ebbe a subire un danno calcolabile in danari [7. T, a p. 22, aggiunge in testa alla poesia questa informazione: «Verbale comico che Peppino Mereu ha fatto quando era carabiniere al suo collega Eugenio Unale – senza data – indicato però “l’anno della fame”». In calce si legge, appunto, «PIAZZA FORTE DI ORUNE Anno della fame». La fonte da cui il componimento sarebbe stato tratto è taciuta, quindi non si capisce dove tali dettagli siano “indicati”.] 282 35 40 45 50 55 da circa diciassette a venti lire. Allora noi, predetti militari, escludendo reato d’armate bande, constatammo i fatti più chiari. Risultò l’asino di un ingegno grande con voce canora di gentil pennuto. Alle nostre incalzanti domande, che prima riuscirono senza frutto, e dalle indagini praticate da noi, risultò che l’asino era distrutto. Tant’è vero che da quel giorno in poi altri non si vide in quella cinta che un gruppo di corvi ed avvoltoi. Noi, con perspicacia distinta, ricercando, ieri a mezzogiorno, ritrovammo la nota gamba quinta. A prima vista ci sembrava un corno, con chiari segni di idrofoba beccata mancante dei santissimi il contorno. Giova notare che fu rintracciata tra levante e ponente, lì vicino, località selvaggia e malfamata; l’abbiamo collocata in un cestino, ben sigillata perché non si scopra col suo relativo cartellino. In vista di quanto detto sopra, redigiamo il presente verbale per allegarlo alle donne di Bitti e per le orunesi copia uguale, e ci siamo intanto sottoscritti con riserva Bertolini e Unale 283 POESIAS SIGNORA MAESTRA CUNFESSENDE 5 Cunfessore Credere in sognos non permittit Deu ca est gravissimu peccau mortale. Penitente Mi so bisadu, su rettore meu, nânchi l’haian fattu cardinale, cretidu l’happo e mi nde fatto reu ca su sognu m’est parfidu reale. Cunfessore Cando passat in mente nettu e giaru su sognu est un’avvisu, o fizu caru. 5 10 15 20 25 CONFESSANDO Confessore – Di credere nei sogni non permette Dio / perché è un gravissimo peccato mortale. / Penitente – Ho sognato, parroco mio, / che l’avevano fatta cardinale, / l’ho creduto e mi riconosco reo, / perché il sogno mi è sembrato reale. / Confessore – Quando passa nella mente netto e chiaro / il sogno è un avvertimento, o figlio caro. 284 Signora maestra, per scriver minestra no isco si cheret emma maiuscola.[8] Che bella domanda! minestra e bibanda[9] scrivetelo con lettera minuscola. Prendetevi il gesso. Maestra, permesso che vado al cesso. Sedetevi adesso. Bambine mie, date attenzione che parliam di minestra e minestrone. Attente, guardate: minestra, patate, fagioli, insalate, così caffè-latte son nomi comuni e quindi si devono scrivere sempre così. Per scrivere cavoli, che furia che diavoli, andate all’inferno! Prendete il quaderno, la penna, il calamaio eccetera e preparatevi a scrivere una lettera. Non fate bordello, facciamo l’appello: Francesca Serpente: Presente. Giuseppa Pignata: Ammalata. [8. «Non so se ci vuole emme maiuscola».] [9. «Bevanda».] 285 POESIAS 30 35 Gavina Pibiu: A su riu.[10] Luciana Gasparra: A sa giarra.[11] Marianna Frisciola: Cussa na’ chi non torrat a iscola.[12] La madre l’ha detto anche nel forno che la maestra non capisce un corno e piùs de issa nd’ischit sa pizzinna e dae cussu l’hat mandada a linna.[13] LITANIAS MAGGIORES 5 10 15 20 25 [10. [11. [12. [13. «Al fiume».] «Alla ghiaia».] «Quella pare che non torni a scuola».] «E più di lei ne sa la la bambina / e così l’ha mandata a far legna».] 286 30 O comare Maria, bos presumides bella, a mie mi parides un’istria. O comare Zuanna, abberide sa ’ucca, già l’ischimos ca sezis denti manna. O comare Teresa, sezis fuende a musca como in su fiore ’e sa ’ezzesa. O comare Tattana, e prîte non penzades chi sezis isciancada e pili cana? O comare Michela, non l’incontrades piusu mancari lu chircades a candela. O comare Franzisca, non pianghides s’assu già chi bi l’hazis giogadu a sa brisca. O comare Antioga, già ch’in manu l’haizis, proite non l’hazis bettadu sa soga? O comare Luisa, infiladebos s’agu ch’hazis istrappada sa camisa. O comare Cecilia, faghides artes malas ca las hant fattas tottu sa familia. O comareddas mias, imparade a memoria e rezitade custas litanias pro lograre su regnu ’e sa gloria. 287 POESIAS A UNA VIOLETTA SICCA 5 10 15 20 LITANIE MAGGIORI O comare Maria, / vi credete bella, / a me sembrate una strega. // O comare Giovanna, / aprite la bocca, / tanto lo sappiamo che avete i denti grandi. // O comare Teresa, / vi state “agitando” / ora nel fiore della vecchiaia. // O comare Tattana, / perché non pensate / che siete sciancata e coi capelli bianchi? // O comare Michela, / non lo trovate più, / anche se lo cercate con la candela. // O comare Franzisca, / non rimpiangete l’asso, / che ve lo siete giocato alla briscola. // O comare Antioga, / già che l’avevate in mano, / perché non gli avete messo il cappio? // O comare Luisa, / infilatevi l’ago / che avete strappata la camicia. // O comare Cecilia, / praticate le male-arti / perché le ha praticate tutta la famiglia. // O comarelle mie, / imparate a memoria / e recitate queste litanie / per guadagnare il regno della gloria. 288 25 30 Indunu libru chi oe fia leggende una viola sicc’happ’incontradu, e istadu so un’ora cuntemplende cussas fozas, confusu e incantadu: e pensad’happo induna trista istoria chi cussa mammolett’hat inserradu. Pustis chi rinnovadu a sa memoria happ’una vida trista, cun dolore, dad’happ’a su piantu sa vittoria. De lagrimas bagnad’happo su fiore: «Nara, t’ammentas, nara», l’appo nadu, «de cando fist in sinu de s’amore? Ite nd’has fattu de su sinu amadu? Naram’ite nd’has fattu de su sinu in su cale ridente ses istadu?». Violetta donosa, su jardinu, in su cal’unu die fioriast, reduid’est a miseru camminu! Cando suav’e umil’isparghiast cuddu profumu gratu e dilicadu, forsis de t’olvidare non crediast! Narami tottu, coment’est istadu: ite nd’has fattu de s’anzone mia, prit’est chi t’hat inoghe abbandonadu? Tue pur’has suffrid’un’ingannìa, ses istada bestida ’e sentimentu: zessada t’est sa festa e’ s’allegria! E narrer c’has proadu ogni cuntentu, senza connoscher sa minima pena, in sinu sou, parada in assentu! Como t’hat olvidadu cuss’Elèna: suffri; dogniunu est suggett’a suffrire, 289 POESIAS para su piantu, sas lagrìmas frena, e giurami chi non torras a naschire. SAS GIARRETTIERAS Giuseppe Mereu Stanotte Signor Ciarla nd’hat nad’una cherfende faeddare italianu: fit’in terrazzu godinde sa luna in cumpagnia de unu toscanu. Tonara 5 10 A UNA VIOLETTA SECCA Ecco de unu bottu, tott’in d’una, s’intendet unu canticu lontanu, un’armonia de boghes non comuna, trillos de puzoneddu in su beranu. «Mi dica un po’, Signor, vorrei sapere sto canto che si sente è una chitarra o qualche coro che canta una canzone?». «Quelle lì son le donne giarrettiere, cantano, poverine, ma la giarra è a sessanta centesimi il montone». In un libro che oggi stavo leggendo / una viola secca ho trovato, / e son rimasto un’ora a contemplare // quelle foglie, confuso e incantato: / ed ho pensato a una triste storia / che quella mammoletta ha serbato. // Dopo che rinnovato alla memoria / ho una vita triste, con dolore, / ho dato al pianto la vittoria. // Ho bagnato di lacrime il fiore: / «Dì, ti ricordi, dì», gli ho detto, / «di quando eri in seno all’amore? // Che ne hai fatto del seno amato? / Dimmi, che hai fatto del seno / nel quale sorridente sei stato?». // Violetta graziosa, il giardino, / nel quale un giorno fiorivi, / è ridotto a una misera strada! // Quando soave e umile diffondevi / quel profumo grato e delicato, / forse non credevi d’esser stata dimenticata! // Dimmi tutto, come è stato: / cosa ne hai fatto del mio agnello, / perché ti ha qui abbandonato? // Anche tu hai subito un inganno, / sei stata ammantata di sentimento: / per te è cessata la festa e l’allegria! // E dire che hai provato ogni gioia, / senza conoscere la minima pena, / nel suo seno, adagiata con grazia! // Ora ti ha dimenticata quell’Elena: / soffri, ognuno è soggetto a soffrire, / cessa il pianto, frena le lacrime, / e giurami che non ritornerai a fiorire. Stanotte Signor Ciarla ne ha detta una / cercando di parlare in italiano: / era sul terrazzo, godendosi la luna / in compagnia di un toscano. // Ecco d’un botto, all’improvviso, / si sente un canto lontano, / un’armonia di voci non comune, / trilli d’uccelletto a primavera. // «Mi dica un po’, Signor, vorrei sapere / sto canto che si sente è una chitarra / o qualche coro che canta una canzone?». // «Quelle lì son le donne giarrettiere [‘che trasportano la ghiaia’], / cantano, poverine, ma la giarra [‘ghiaia’] / è a sessanta centesimi il montone [‘mucchio’]». 290 291 LE GIARRETTIERE POESIAS OTTAVA 5 SERENADA Cando deo happ’a esser cantadore, già no had’a esister pius lè…: tando tue has a bider a su Re in Sardigna faghinde su pastore; cando deo happ’a esser mussegnore cunfirmende sas fizas de vostè, tando su prinzipe had’a esser porcarzu ei su Paba in Roma mulinarzu. Aiz’aiz’arrustida tue ses modde bistecca, tue ses pro me busecca, sa piùs bene cundida, 5 10 15 20 ses taccula saborida, mustarda grassa e purpuda, ses una gioga minuda, un’iscarzoffa, un’olia, una vera trattalia pro fagher buffare mustu. Cosa piùs bella ’e custu non nde poto desizare. Pensa, bella, a t’ingrassare, dormi tranquilla e cuntenta, faghe sognos de pulenta, de basolu e de patata. Custa bella serenata l’hat fatta s’amante tou; amadu caffè cun ou, pensa de ti riposare. SERENATA Quando sarò improvvisatore, / già non esisterà più legge…: / allora tu vedrai il Re, / in Sardegna fare il pastore; / quando sarò monsignore / cresimando le figlie di Vossignoria, / allora il principe sarà porcaro / e il Papa a Roma mugnaio. Appena appena arrostita / tu sei una tenera bistecca, / tu per me sei trippa / la meglio condita, // sei una taccola saporita, / mostarda grassa e polposa, / sei una lumachina, / un carciofo, un’oliva, / una vera frattaglia / per far bere vino. / Cosa più bella di questa / non ne posso desiderare. // Pensa bella a ingrassare, / dormi tranquilla e contenta, / fai sogni di polenta, / di fagioli e di patate. / Questa bella serenata / l’ha fatta il tuo amante; / amato caffè con l’uovo / pensa a riposarti. 292 293 OTTAVA POESIAS PROPOSTA AMOROSA 5 10 15 20 25 RISPOSTA AMOROSA O gentile donzella, lei, de custu coro mia stella, bella, brillante, graziosa e pura, in notte tenebrosa, oscura, pro me paret chi siat apparida, de amorosu risu fiorida, a mi narrer: «Amadu meu, ispera». Si pro me in s’aera est beru chi esistit tantu raggiu, non mi trunchet in coro su coraggiu ma issu alimentet sa fiamma. O signorina senta, si fostè nd’est cuntenta, pro fagher sa domanda benit mamma: seria est sa proposta, sia gentile de una risposta. Non so de razza ignobile, so cavalieri nobile, giovanu galu so e s’ideale meu est fostè, l’adoro. Su lumen’e su coro l’intrego, si mi narat ch’est reale su sognu ch’in sa mente m’est persighinde continuamente. Duncas già m’hat cumpresu chi unu fogu in sinu l’happo azzesu e chi so pro fostè ispasimante. Si no est digna de m’essere amante mi rispundat luego a s’indirizzu: signor cavalier Fromigadizzu. 5 10 15 20 25 30 294 Signor cavaliere, eccomi a cumprire su dovere de giovane educada. Altamente onorada resto de sa proposta, ma sa mia risposta, o caro signor, do: francamente est chi no. Lei lo sa che sono pastorella, tottu canta sa mia parentella, dae me consultada in custu casu, si nd’hat formadu tres palmos de nasu; dae su prùs mannu a su piùs minore, non nde tenzat dolore, cun tres palmos de ’ucca, hana gridadu: «Zucca!». E fattu m’hant cumprender ca so fea, appartenente a sa classe plebea senza fioccos e pumas de moda e lei è spasimante pro sa doda. Cavaliere carissimo, capita; a mie deghet unu cun berritta. Abbrazzare una rugh’est grave pesu; si fatto cussu, a su chi happo intesu mi giamant Signora crucifissa. Menzus sa vida de sa pastorissa. Sa nobilìa non m’andat a grabbu e a la narrer giara, mamma e babbu pro custu sunt che tiaulu e dimoniu: trattendeli de custu matrimoniu est su matessi a lis dare sa china. 295 POESIAS 35 40 Fostè si chirchet una signorina bella e graziosa in sa presenzia e li resessat de cunvenienzia: si pro casu b’hat neu in cussu coju no est delittu su serrare un’oju. Fromigadizzo caro, col massimo rispetto mi dichiaro de fostè devotissima s’amiga: pastorella Maria Cruccuriga. classe plebea / senza fiocchi e piume alla moda / e lei è spasimante per la dote. / Cavaliere carissimo, capita; / a me si addice uno con la berretta. / Abbracciare una croce è un grave peso; / se faccio quello, a quel che ho sentito, / mi chiamano Signora crocefissa. / Meglio la vita della pastorella. // La nobiltà non mi va a genio / e a dirla chiara, mamma e babbo / per questo sono come il diavolo e il demonio: / parlargli di questo matrimonio / è lo stesso che dargli la china. / Vossignoria si cerchi una signorina / bella e graziosa nella presenza / e che le riesca conveniente: / se per caso c’è un neo in quel matrimonio / non è delitto chiudere un occhio. // Fromigadizzo caro, / col massimo rispetto mi dichiaro / di Vossignoria devotissima amica: / pastorella Maria Cruccuriga. PROPOSTA AMOROSA O gentile donzella, / lei, di questo cuore mia stella, / bella, brillante, graziosa e pura, / nella notte tenebrosa, oscura, / sembra sia apparsa per me, / fiorita di un riso amorevole, / a dirmi: «Amato mio, spera». / Se per me nel cielo / è vero che esiste tale raggio, / non mi spezzi nel cuore il coraggio / ma esso alimenti la fiamma. / O signorina, senta, / se Vossignoria ne è contenta, / per fare la domanda viene mamma: / seria è la proposta, / sia gentile, mi dia una risposta. / Non sono di razza ignobile, / sono un cavaliere nobile, / sono ancora giovane e l’ideale / mio è Vossignoria, la adoro. / Il nome e il cuore / le affido, se mi dice che è reale / il sogno che nella mente / mi sta perseguitando continuamente. / Dunque già ha capito / che un fuoco in petto l’ho acceso / e che spasimo per Vossignoria. / Se non è degna di essermi amante / mi risponda presto all’indirizzo: / signor cavalier Fromigadizzu. RISPOSTA AMOROSA Signor cavaliere, / eccomi a compiere il dovere / di giovane educata. / Altamente onorata / sono della proposta / ma la mia risposta / o caro signore, do: / francamente è no. / Lei lo sa che sono pastorella / tutta quanta la mia parentela, / da me consultata in questo caso, / ha fatto tre palmi di naso; / dal più grande al minore, / non ne abbia dolore, / con tre palmi di bocca, / hanno gridato: «Zucca!». // E mi hanno fatto capire che sono brutta / appartenente alla 296 297 POESIAS IMBASCIADA 5 10 SU TESTAMENTU Bidinde chi cantende in altu bolas, ti prego de una grande cortesia: lea custas violas e giughebilas a s’anzone mia. Si est galu vivente connoschet s’imbasciada prontamente. Bae, rundine mia, e faghe lestra, mira chi deo isetto s’imbasciada dae custa finestra, non bido s’ora de t’ ’ider torrada. Prestu ca cun affannos, sos minutos mi devent parrer annos. 5 10 15 20 25 AMBASCIATA Vedendo che cantando in alto voli, / ti prego di una grande cortesia: / prendi queste viole / e portale al mio agnello. / Se è ancora vivente / riconoscerà l’ambasciata prontamente. // Va’, rondinella mia, e fai in fretta, / guarda che io aspetto l’ambasciata / da questa finestra, / non vedo l’ora di vederti ritornata. / Presto, perché con gli affanni, / i minuti mi sembreranno anni. 298 30 Como chi so a lettu moribundu morzo tranquillu, serenu e cuntentu, però, prima chi lasse custu mundu, cherz’iscrier su meu testamentu e dimando chi siat rispettadu su disizu ’e s’ultimu momentu. Appena mi bidides ispiradu inserrademi puru in battor taulas: deo non cherzo baule forradu. E nessunu pro me ispendat paraulas in laudare, comente bi nd’hada, chi finzas in sa fossa narant faulas. Sa sepoltura la cherzo iscavada foras de su comunu campusantu: meritat gai s’anima dannada. Non permitto s’ipocritu piantu de benner a mi fagher cumpagnia, cando so sutta ’e su funebre mantu. Però si b’hat persona cara e pia, semplicemente, senza pompa vana, rezitet una santa avemaria. Muda s’istet sa funebre campana, non permitto su cantu, nè su teu, de sa niedda ipocrita suttana. Deo non so marranu e creo in Deu prîte m’han’imparadu a l’istimare dae minore mamma e babbu meu. Però sos corvos los lasso bolare bestidos de terrena finzione, manc’a mortu nde cherzo fentomare. E tantu in custa misera persone b’hat pagu pulpa ’e faghere biccada, tenidebolla s’assoluzione. 299 POESIAS 35 40 45 50 55 60 65 70 S’anima mia tant’est già purgada; pro su tantu patire hat meritadu su chelu, si est beru chi bi nd’hada. Si pro casu unu paccu sigilladu agatades, domando, pro favore, non siat su sigillu profanadu. Cuntenet un’istoria de dolore: sunu litteras d’un’isfortunada, dulche poema d’unu veru amore. Duos ritrattos puru inie b’hada: unu est de s’amorosa mamma mia, fattu sa die chi l’hant sepultada; s’atteru est de s’anzone chi tenia in coro, cun amore tantu forte, chi m’hat leadu vida e pizzinnia. De cuss’amore nde tenzo sa morte, a’ s’ora de sa vida sa piùs bella. Ah! Decretu fatale e dura sorte! Tue, in battor muros de una cella, ses pianghende e preghende in segretu, pover’isconsolada verginella! E deo moribundu so in lettu: … … No happo mortu, no happo furadu, morzo senza peccados birgonzosos, perdono, non cherz’esser perdonadu. Deo perdono cuddos ischifosos chi de su male meu hant fattu isciala cun sos libellos ignominiosos. Perdono s’infamante limba mala, cudda chi de velenu m’hat bocchidu tantu pro m’ ’ider cun sa rughe a pala. Perdono cuddos chi s’hant divididu unu bicculu ’e pane chi tenia a s’ora chi m’hant bidu piùs famidu. In mesu a tantos ramos de olia 300 75 80 85 deo cherz’esser su ’e sa cicuta, pro imbolare unu frastimu ebbia: «Chie m’hat causadu custa rutta, vivat chent’annos, ma paralizzadu, dae male caducu e dae gutta!». Custu frastimu est pesadu e pensadu prîte ca morrer non devia ancora, comente morzo, de coro airadu. Serpente vile, perfida colora fatt’hazis de prunizza avvelenada una foresta in su regnu ’e Flora. E cando m’hazis bidu chenz’ispada, viles, hazis tentu s’attrivida dandemi sa funesta pugnalada. E como, a sos istremos de sa vida, pro ricumpensa de s’attu villanu bos do custa tremenda dispedida, Peppe Mereu bos toccat sa manu. IL TESTAMENTO Ora che sono a letto moribondo / muoio tranquillo, sereno e contento, / però, prima che lasci questo mondo, // voglio scrivere il mio testamento / e chiedo che sia rispettato / il desiderio dell’ultimo momento. // Appena mi vedete spirato, / chiudetemi pure in quattro tavole: / io non voglio baule foderato. // E nessuno per me spenda parole / nel lodarmi, come ce ne sono, / che perfino nella fossa dicono bugie. // La sepoltura la voglio scavata / fuori del cimitero comune: / merita questo l’anima dannata. // Non permetto che l’ipocrita pianto / venga a farmi compagnia, / quando sarò sotto il funebre manto. // Però se c’è una persona cara e pia, / semplicemente, senza pompa vana, / reciti una santa avemaria. // Taccia la funebre campana, / non permetto il canto, né il lamento, / della nera, ipocrita sottana. // Io non sono marrano e credo in Dio / perché mi hanno insegnato ad amarlo / da piccolo la madre e il padre mio. // Però i corvi li lascio volare / vestiti di terrena finzione, / neanche 301 POESIAS da morto voglio sentirli nominare. // Tanto in questo misero corpo / c’è poca polpa da beccare, / tenetevela l’assoluzione. // La mia anima tanto è già purgata; / per il tanto patire ha meritato / il cielo, se è vero che esiste. // Se per caso un pacco sigillato / trovate, chiedo, per favore, / che il sigillo non sia profanato. // Contiene una storia di dolore: / sono lettere di una sfortunata, / dolce poema di un vero amore. // Ci sono anche due ritratti: / uno è della mia amorevole madre, / fatto il giorno in cui l’hanno sepolta; // l’altro è dell’agnello che avevo / nel cuore, con un amore così forte, / che mi ha sottratto vita e gioventù. // Da quell’amore trovo la morte, / nel momento della vita più bella. / Ah! Decreto fatale e dura sorte! // Tu, fra quattro mura di una cella, / stai piangendo e pregando in segreto, / povera sconsolata verginella. // Ed io sono moribondo nel letto / … / … // Non ho ucciso, non ho rubato, / muoio senza peccati vergognosi, / perdono, non voglio essere perdonato. // Io perdono quegli schifosi / che hanno fatto scialo del mio male / coi libelli ignominiosi. // Perdono l’infamante malalingua / quella che col veleno m’ha ucciso / solo per vedermi con la croce in spalla. // Perdono quelli che si sono spartiti / un tozzo di pane che avevo / nel momento in cui mi hanno visto più affamato. // In mezzo a tanti rami d’olivo / io voglio essere quello della cicuta, / per lanciare una sola maledizione: // «Chi mi ha causato questa caduta, / viva cent’anni, ma paralizzato, / dal mal caduco e dalla gotta!». // Questa maledizione è meditata e pensata / perché non dovevo ancora morire, / come muoio, col cuore colmo d’ira. // Serpente vile, perfida biscia / avete fatto di prugnolo avvelenato / una foresta nel regno di Flora. // E quando mi avete visto senza spada, / vili, avete avuto l’ardire / infliggendomi la funesta pugnalata. // E ora, allo stremo della vita, / per ricompensa dell’atto villano / vi do questo tremendo commiato, / Peppe Mereu vi stringe la mano. [ANEPIGRAFA] 5 10 Cando chi a Tonara brujadu has cust’incensu comunu, e casi de profumu ingratu, su ’inu de Atzara t’hat leadu su sensu, e zeltu est chi no has bidu su c’has fattu. Partu de una mente infelize, comente ses bennidu a su mundu? Ite baratu fit su mustu a s’edade ch’iscrittu has cussos versos caru frade! P. Mereu, Assemini 22 marzo 1896 Quando a Tonara / hai bruciato quest’incenso / comune, e quasi di profumo sgradito, / il vino di Atzara / t’ha privato del senno, / e certo è che non hai visto ciò che hai fatto. / Parto di una mente / infelice, come / sei venuto al mondo? Come costava poco / il vino al tempo / in cui hai scritto quei versi, fratello caro! 302 303 POESIAS MAURU ZUCCA 5 A PEPPE CAPPAI Mauru Zucca est cun sa cubedda, a pipp’azzesa e a cadd’irfunadu, andat a caddu truvedda truvedda e bidimus a Maur’issussiadu e sa zente accurriat a chedda: «Gesù, Maria! Ite hat capitadu? Oe già si l’hat fatta sa pilucca! Chi est su mortu? Maureddu Zucca!». Bidu mi l’hazes a Peppe Cappai faghinde barchiteddas de ’ortigu. Est unu geniu chi no happ’ ’idu mai chi podet figurare s’inimigu. … MAURO ZUCCA Mauro Zucca è col tinozzo, / a pipa accesa e a cavallo sciolto, / va a cavallo incitandolo ogni tanto / e vediamo Mauro buttato a terra / e la gente accorreva a frotte: / «Gesù Maria! cos’è successo? / Oggi se l’è fatta la parrucca! / Chi è morto? Maureddu Zucca!». 304 A PEPPE CAPPAI Avete visto Peppe Cappai / fare barchettine di sughero. / È un genio che non ho visto mai / che può raffigurare il nemico. / … 305 POESIAS MUTTU 5 10 A UN’ILLUSA S’affannu, su dirgustu, sa pena, su dolore, tottu sas agonias… mi l’has happo addossadas, pro istimare a tie ma tue nudda sentis. …S’affannu, su dirgustu… Had’a benner sa die ch’abberu ti nde pentis pro sas traitorìas chi faghes a s’amore de chie t’amat giustu, ma ti pentis de badas. Puzzi, perdeu cantu fea sese! Cun cussas laras tintas a mattone ei sa facci’a color’ ’e limone, a chie lu naras, ca bella ti crese? 5 10 Ojos e bucca cando rier dese faghent paura cun cumpassione. Cambi piluda che unu sirbone, cando camminas si brigant sos pese. Ses a vintitres annos pili cana, simile non s’agattat visu feu, petegolende pares una rana; e isparghes profumu d’ozu seu. A su chi nadu hat carchi anziana, in te s’had’isfogadu s’ira Deu. A UN’ILLUSA L’affanno, il disgusto, / la pena, il dolore, / tutte le agonie… / me le sono addossate, / per amarti / ma tu non provi niente. // …L’affanno, il disgusto… / Verrà il giorno / in cui davvero te ne pentirai / per i tradimenti / che fai all’amore / di chi ti ama, giusto, / ma ti pentirai inutilmente. Per Dio, che schifo, quanto sei brutta! / Con quelle labbra color mattone / e la faccia color di limone, / a chi lo dici che ti credi bella? // Occhi e bocca quando ridi / fanno paura e compassione. / Con le gambe pelose come un cinghiale, / quando cammini bisticciano i piedi. // A ventitré anni hai i capelli bianchi, / non si trova un viso così brutto, / spettegolando sembri una rana; // e diffondi profumo di olio di sego. / Per come ha detto qualche anziana, / in te ha sfogato l’ira Dio. 306 307 MUTTU POESIAS ASPETTOS 5 10 15 De formas ses imperfetta e a la narrer francamente non ses nè pische nè petta. Sa faccia tua est pagnotta, sa testa tua est de raba, tue ses corda ’e craba mesu crua e mesu cotta. Pro ti mandigare totta bi cheret unu leone; faghes indigestione, a s’istogomo das pesu. Buffare su sal’inglesu mi toccat si gusto a tie. Pro ti gustare gasie cherzo morrer a dieta. ASPETTI Di forme sei imperfetta / e a dirla francamente / non sei né carne né pesce. / La tua faccia è una pagnotta, / la tua testa è di rapa, / tu sei corda di capra / mezzo cruda e mezzo cotta. / Per mangiarti tutta / ci vuole un leone; / causi indigestione, / appesantisci lo stomaco. / Bere il sale inglese / mi tocca se ti assaggio. / Per gustarti così / voglio morire a dieta. 308 NOTAS Moribunda 1. (p. 116). Ingranzeu – Ricompensa. A Tonara 2. (p. 120). Croccoledda – Deliziosa sorgente, rinomata per la freschezza e bontà dell’acqua, situata a breve distanza dal paese. 3. (p. 122). Musìcas – I nostri pastori, all’approssimarsi della cattiva stagione, si recano, tutti gli anni, coi loro armenti, alle pianure, per svernare. Al ricomparire della bella stagione ritornano all’amplesso delle loro famiglie, e, la gioventù, seguendo una vecchia consuetudine, dà principio a sas musicas, specie di serenate che si fanno, in prestabiliti giorni, alle giovani leggiadre e belle, delle quali, in rime libere e spontanee, ne cantano con versi improvvisati lì per lì, le virtù. 4. (p. 122). Pitzirimasa – Nome di una località orridamente bella, poco discosta dal paese, nella quale trovasi una cascata, la quale esercita un fascino irresistibile in tutti coloro che, fuggendo i calori estivi di Cagliari e del Campidano, vengono a godere della refrigerante ospitalità dei nostri boschi. 5. (p. 123). Divignos – D’estate, nella notte in cui la luna splende, le nostre forosette si radunano nella piazza a filare e a cantare in coro armoniosi stornelli. (Divignos). 6. (p. 123). Canente – Dea del canto. 7. (p. 123). Larentu – Lorenzo Zucca, il principe dei poeti lirici tonaresi, morto, pressoché ottuagenario da qualche anno appena. – Cappeddu – Francesco Antonio Cappeddu fu anch’egli tra i più celebrati improvvisatori. I suoi certami poetici sono sempre vivi nella mente del nostro popolo. Possedeva lo scherno acre e tagliente dell’Aretino. 8. (p. 123). Tommasu e Bacchiseddu – Tommaso Zucca è tra i nostri migliori poeti viventi. Egli possiede il riso agile e fine di Orazio. – Bacchisio Sulis, poeta satirico vivente: possiede come la buon’anima di Voltaire, il sarcastico riso e gli acri sali. Colla beffa gaia e petulante nelle contese poetiche demolisce l’avversario. 9. (p. 123). Aostinu – Agostino Dejana figlio di poeta e poeta anch’egli, è, da noi, il vero rappresentante della poesia bernesca. Ha sempre in bocca la barzelletta e il frizzo gradito. 10. (p. 123). Su ’entu ’e santu Simone – Vento impetuosissimo che scatenasi, costantemente, ogni anno, in sullo scorcio di ottobre. È rimarchevole per i guasti che arreca alla campagna e specialmente ai castagni, 311 POESIAS 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. Notas ai quali strappa violentemente i ricci, che, per avventura, fossero ancora immaturi. (p. 123). Metanza, metanzu – Scarno, magro. (p. 123). Larentu – Vedi nota 7 a pagina 123. (p. 123). Eolo – Dio del vento. (p. 124). Tiana – A Tonara sono molte tessitrici, le quali producono una rilevante quantità di albagio, (furesi) del quale tutti gli anni riempiono le gualchiere del vicino comune di Tiana. (p. 124). Chintas – Due grembiali di lana che le nostre donne recano ai fianchi nei giorni feriali. (p. 125). Tirannia – In seguito alla cattiva amministrazione dell’azienda comunale, il nostro popolo, nel 1877, insorse al grido di abbasso le tasse! La folla tumultuante prese d’assalto il municipio e la forza pubblica, alla quale resistette disperatamente. Si eseguirono numerosi arresti e per far rientrare gli abitanti nella calma si dovette far venire una compagnia di soldati di fanteria da Cagliari. (p. 125). Lughe noa ti … – Per le numerose cancellature che inzeppano, a questo punto, il manoscritto, non mi è stato possibile capir nulla, e perciò ho omesso alcuni versi. (p. 125). O terra de dulzuras – In questa e nella strofa seguente il poeta sospira il paese natio, dal quale, a quanto pare, l’avea strappato il servizio militare, e trae, dalla sua lira, accenti d’ira e di dolore, per certi luoghi malsani, nei quali lo costrinse a vivere il ferreo peso della disciplina. (p. 127). Aprile, 189 … – La data della poesia è illegibile. Lamentos d’unu nobile 20. (p. 138). Lamentos d’unu nobile – In questa poesia, con fine e pungente ironia, l’Autore parla della nobiltà decaduta e fa un confronto fra la grandiosità e il fasto in cui essa nuotava in un tempo che fu e la miseria e le tribolazioni in cui trovasi presentemente. 27. (p. 154). Ruspire – Sputare. Agonia 28. (p. 162). 20 maggio 1895 – Da informazioni assunte mi consta che il nostro poeta nel 20 maggio 1895 trovavasi degente all’infermeria presidiaria di Sassari per aversi fratturato la tibia nel mentre accudiva al servizio militare. Solferino! 29. (p. 164). Solferino! – Ho riprodotto questo scherzo poetico non per il valore artistico, ma per il grazioso umorismo che da esso ne emana. Evidentemente qui il poeta ha voluto ritrarre e prendere di mira uno dei soliti arcifanfani, che senza saper l’abbicì, hanno la smania di voler parlare, sempre e poi sempre, la lingua italiana. A Nanni Sulis 30. (p. 165). A Nanni Sulis – Ho voluto pubblicare questa poesia che il poeta volle dedicarmi per la comicità che sprizza da ogni sua parte. Il senso della poesia è abbastanza intelligibile e per non offendere il lettore mi astengo da qualsiasi spiegazione. 31. (p. 166). Cixerri – Fiume tra Uta ed Assemini, il quale, rigonfiando, arreca terrore a quelle popolazioni. 32. (p. 166). Intrat in cheja – Il cavalier Scalas quando vide il pericolo che correvano i suoi compatrioti, per l’acqua copiosamente caduta, inforcato il suo cavallo, fece il giro del paese per destarli dal sonno e li invitò a ricoverarsi in Chiesa. 33. (p. 166). Dionis’Iscalas – Dionigi Scalas sindaco di Assemini, fu nominato cav. della corona d’Italia, con decreto reale 22 gennaio 1893, per la splendida condotta tenuta nel nubifragio avvenuto il 2 ottobre 1892. Galusè A Genesio Lamberti 21. (p. 150). Ischeffa – Schifezza, feccia. 22. (p. 150). Pane ispeli – Pane di ghianda mescolata con argilla. – Buleu – Gettare in aria. 23. (p. 151). Patmo – Isola dove S. Giovanni scrisse gli evangeli. 24. (p. 152). Gomorra – Antica città della Palestina distrutta dal fuoco celeste. 25. (p. 153). Andas addane – Andar lontano. Qui si allude alla mania migratoria. 26. (p. 154). Kiriella – Lavoro, fatica. 34. (p. 171). Galusè – Nome di una pittoresca località, che fa, quasi, cornice al paese, e nella quale trovansi diverse fonti, fra cui questa cantata dal poeta, appartenente al signor Raffaele Pulyx, segretario comunale nel nostro comune. 35. (p. 171). Ingranzeu – Vedi nota 1 a pagina 116. 36. (p. 175). Pipia – Luigi Pipia, giovane dalla voce melodiosa incantevole, intimo amico del poeta. 37. (p. 176). Sa biografia – Qui il poeta fa la sua prosografia. 38. (p. 177). Ruzones – Omine ruzone. Che si mantiene in salute. 39. (p. 177). Pistone – Bottiglione. 312 313 POESIAS Notas 40. (p. 178). Tue o Lia cara – Lia Pulyx, vezzosa figlioletta del segretario comunale, (vedi nota 34 a p. 171) alla quale il poeta ha dedicato questa canzone. A Juanne Sulis 41. (p. 182). A Juanne Sulis – Questa epistola poetica, scritta nel marzo del 1896, mi fu dall’Autore inviata a Cagliari. Egli racconta le sue sofferenze e descrive i mali da cui è travagliato il nostro paese. 42. (p. 184). Murdegu – Fu chiamata di Murdegu, perché morì, in quel tempo, un tale che aveva questo nomignolo. Temporada de Murdegu, famosa nevicata che i nostri vecchi ricordano con un senso di reccapriccio, avvenuta nel 1853. Aritzo 52. (p. 204). Terza de sas alturas montaninas – Fonni, Tonara ed Aritzo, fra tutti i paesi della Sardegna, hanno la maggiore elevazione sul mare. Egli è per questo che il nostro poeta chiama il paese, a cui ha dedicato il sonetto, terza de sas alturas montaninas. X… 53. (p. 205). X… – La prima e l’ultima strofa di questa canzone sono piene zeppe di cancellature, a segno tale da essere illegibili, e perciò ho messo una fila di puntini. A Eugenio Unale 54. (p. 207). A Eugenio Unale – Vedi nota 43 a pagina 192. A Eugeniu Unale 43. (p. 192). A Eugeniu Unale – Valente poeta sardo e già commilitone dell’Autore. 44. (p. 192). Terra de Billia – Billia Carta. Famoso poeta di Pozzomaggiore, dove sortì pure i natali l’Unale. 45. (p. 195). Superiore tirriosu – Qui evidentemente il poeta allude a qualche burbero superiore, avuto quand’era ancora sotto le armi. I versi susseguenti sono una fedele descrizione della vita militare. K… 55. (p. 218). Pallid’e sorridente, a pees in porta – Quest’uso di esporre i defunti è comune anche ai popoli orientali. Nell’Iliade d’Omero si leggono i seguenti versi: D’acuto acciar trafitto egli mi giace Nella tenda, coi piè volti all’uscita E gli fan cerchio i suoi compagni in pianto, A Paolo Hardy analogamente si espresse anche il Mossa in una sua poesia: 46. (p. 201). A Paolo Hardy – Questa canzone è in risposta ad un sonetto adulatorio: A Tonara, del sig. Paolo Hardy; sonetto che questi dapprima declamava in un banchetto politico offertogli nel delizioso tenimento di Galusè (vedi nota 34 a pagina 171) e che più tardi egli stesso faceva pubblicare nel giornale l’Illustrazione Sarda. 47. (p. 202). Sos sognos de Larentu – Vedi nota 7 a pagina 123. 48. (p. 202). Cando mi rimas declinat cun furat – Il nostro poeta riprende giustamente il signor Hardy, perché questi, dimenticando certe regole elementari intorno all’arte poetica, pretese rimare declinat e furat. 49. (p. 202). Campidan’a Nuòro s’ammesturat – Il dialetto adoperato dal poeta Paolo Hardy è un dialetto ibrido: nessun grottologo troverebbe un posto conveniente da assegnargli. 50. (p. 203). Su fogu de Carbone – In questa strofa il poeta parla allegoricamente e ognuno vede che il Carbone non è che l’onorevole Carboni Boy, e il Cocco, l’onorevole Cocco Ortu. 51. (p. 203). Tonara … 1895 – Nel manoscritto non è indicata la data precisa, nella quale il poeta dettò questi versi. It est custu ch’idia, Fiza de titta mia Mort’a manos in giae, a pees in gianna! 314 Y… 56. (p. 220). Y... – Anche in questa canzone vi sono numerose cancellature. Il poeta, a quanto pare, aveva intenzione di ritornarci su. A Nanni Sulis 57. (p. 222). A Nanni Sulis – Questa poesia ha molta analogia con l’altra dedicata a me stesso (vedi nota 30 a pagina 165). Anche qui il poeta fa vibrare la corda del dolore. 58. (p. 225). Giagu Siotto – Colto quanto modesto giovine, oriundo del forte nuorese. È celebre per le sue idee socialiste. W… 59. (p. 234). Dugone – Condottiero. 60. (p. 235). Chilinzone – Crusca. 315 BIBLIOTHECA SARDA Volumi pubblicati Aleo J., Storia cronologica del regno di Sardegna dal 1637 al 1672 (35) Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri (51) Atzeni S., Il quinto passo è l’addio (70) Ballero A., Don Zua (20) Baudi di Vesme C., Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna (101) Bechi G., Caccia grossa (22) Bernardini A., Un anno a Pietralata – La scuola nemica (93) Bottiglioni G., Leggende e tradizioni di Sardegna (86) Bresciani A., Dei costumi dell’isola di Sardegna (71) Cagnetta F., Banditi a Orgosolo (84) Calvia P., Quiteria (66) Cambosu S., L’anno del campo selvatico – Il quaderno di Don Demetrio Gunales (41) Cambosu S., Miele amaro (100) Casu P., Notte sarda (90) Cetti F., Storia naturale di Sardegna (52) Cossu G., Descrizione geografica della Sardegna (57) Costa E., Giovanni Tolu (21) Costa E., Il muto di Gallura (34) Costa E., La Bella di Cabras (61) Costa E., Rosa Gambella (95) Deledda G., Novelle, vol. I (7) Deledda G., Novelle, vol. II (8) Deledda G., Novelle, vol. III (9) Deledda G., Novelle, vol. IV (10) Deledda G., Novelle, vol. V (11) Deledda G., Novelle, vol. VI (12) Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. I (14) Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. II (15) Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. III (16) De Rosa F., Tradizioni popolari di Gallura (89) Dessì G., Il disertore (19) Dessì G., Paese d’ombre (28) Dessì G., Michele Boschino (78) Dessì G., San Silvano (87) Dessì G., Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo (94) Edwardes C., La Sardegna e i sardi (49) Fara G., Sulla musica popolare in Sardegna (17) Fuos J., Notizie dalla Sardegna (54) Gallini C., Il consumo del sacro (91) Goddard King G., Pittura sarda del Quattro-Cinquecento (50) Il Condaghe di San Nicola di Trullas (62) Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (88) Lawrence D. H., Mare e Sardegna (60) Lei-Spano G. M., La questione sarda (55) Levi C., Tutto il miele è finito (85) Lilliu G., La costante resistenziale sarda (79) Lobina B., Po cantu Biddanoa (99) Lussu E., Un anno sull’altipiano (39) Madau M., Le armonie de’ sardi (23) Manca Dell’Arca A., Agricoltura di Sardegna (59) Manno G., Storia di Sardegna, vol. I (4) Manno G., Storia di Sardegna, vol. II (5) Manno G., Storia di Sardegna, vol. III (6) Manno G., Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799 (27) Manno G., De’ vizi de’ letterati (81) Mannuzzu S., Un Dodge a fari spenti (80) Martini P., Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 (48) Mereu P., Poesias (96) Montanaru, Boghes de Barbagia – Cantigos d’Ennargentu (24) Montanaru, Sos cantos de sa solitudine – Sa lantia (25) Montanaru, Sas ultimas canzones – Cantigos de amargura (26) Moscati S., Fenici e Cartaginesi in Sardegna (102) Muntaner R., Pietro IV d’Aragona, La conquista della Sardegna nelle cronache catalane (38) Mura A., Su birde. Sas erbas, Poesie bilingui (36) Mura G. A., La tanca fiorita (98) Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano, vol. I (42) Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano, vol. II (43) Pallottino M., La Sardegna nuragica (53) Pesce G., Sardegna punica (56) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu A-C (74) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu D-O (75) Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu P-Z (76) Rombi P., Perdu (58) Ruju S., Sassari véccia e nóba (72) Satta S., De profundis (92) Satta S., Il giorno del giudizio (37) Satta S., La veranda (73) Satta S., Canti (1) Sella Q., Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna (40) Smyth W. H., Relazione sull’isola di Sardegna (33) Solinas F., Squarciò (63) Solmi A., Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo (64) Spano G., Proverbi sardi (18) Spano G., Vocabolariu sardu-italianu A-E (29) Spano G., Vocabolariu sardu-italianu F-Z (30) Spano G., Vocabolario italiano-sardo A-H (31) Spano G., Vocabolario italiano-sardo I-Z (32) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. I (44) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. II (45) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. III (46) Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. IV (47) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna A-C (67) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna D-M (68) Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna N-Z (69) Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. I (82) Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. II (83) Varese C., Il Proscritto (97) Valery, Viaggio in Sardegna (3) Vuillier G., Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio (77) Wagner M. L., La vita rustica (2) Wagner M. L., La lingua sarda (13) Wagner M. L., Immagini di viaggio dalla Sardegna (65) Finito di stampare nel mese di novembre 2004 presso lo stabilimento della Fotolito Longo, Bolzano