BIBLIOTHECA SARDA
N. 96
Peppino Mereu
POESIAS
traduzione e cura di Marco Maulu
In copertina:
Antonio Ballero, Monti d’Oliena, 1926 (particolare)
INDICE
7 Prefazione
Riedizione delle opere:
Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P. Valdés, 1899;
Sas poesias isconnottas …, Cagliari, Tipografia Tea, 1978;
Poesias, Cagliari, Della Torre, 1982;
Terra de musas, Cagliari, Edizioni Frorias, 2001;
con l’aggiunta dei componimenti tratti da:
Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, a. I, n. 7, 26 maggio 1898;
La Piccola Rivista, a. I, n. 9, 29 aprile 1899 e a. I, n. 14, 30 giugno 1899.
Mereu, Peppino
Poesias / Peppino Mereu ; traduzione e cura
di Marco Maulu. - Nuoro : Ilisso, c2004.
315 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 96)
I. Maulu, Marco
851.8
Scheda catalografica:
Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro
© Copyright 2004
ILISSO EDIZIONI - Nuoro
ISBN 88-89188-19-7
164 Solferino!
55 Nota biografica
165 A Nanni Sulis [I]
59 Nota bibliografica
171 Galusè
65 Nota al testo
182 A Juanne Sulis
83 Classificazione metrica
188 Caresima
192 A Eugeniu Unale [I]
POESIAS
101 Prefazione – Cortese
Lettore
201 A Paolo Hardy
204 Aritzo
205 X…
105 Dae una losa ismentigada
207 A Eugeniu Unale [II]
107 Amore
211 Non ti poto amare
108 Adultera
215 Studente
112 Moribunda
216 S’orfana pedit pane
120 A Tonara
217 K…
131 Consizos a unu amigu
220 Y…
138 Lamentos d’unu nobile
222 A Nanni Sulis [II]
147 A Genesio Lamberti
230 A Signorina S…
160 Agonia
232 Addio a Nuoro
PEPPINO MEREU: IL SUPERAMENTO DEL RITARDO
233 Unu ballu in maschera
234 W…
243 Sa teracca mia
244 Su minestrone
247 A Signor Tanu
252 A Nanni Sulis [III]
254 Sa bottiglia
255 Titti tittia
256 A Ernesto Mereu
262 In Conziliatura
263 Su socialista a una bigotta
265 Anima niedda
281 Signor Ciarla a su fizu
Ciarlatanu
282 Piazzaforte di Orune
284 Cunfessende
285 Signora maestra
287 Litanias maggiores
289 A una violetta sicca
291 Sas giarrettieras
292 Ottava
293 Serenada
294 Proposta amorosa
295 Risposta amorosa
298 Imbasciada
268 Turmentos
299 Su testamentu
269 A su tianesu
303 [Anepigrafa]
270 S’isveglia
304 Mauru Zucca
271 Unu bandu
305 A Peppe Cappai
272 Su canarinu de su rettore
306 Muttu
273 Minca maccaca
307 A un’illusa
276 Alberto La Marmora
308 Aspettos
280 S’ambulante tonaresu
311 Notas
La vicenda umana e poetica di Peppino Mereu offre lo
spunto per richiamare brevemente alcuni dati relativi al profilo
storico, culturale e linguistico che offre la Sardegna all’indomani dell’Unità, cioè al momento in cui si verificano progressivi
strappi nei confronti dell’eredità di un passato “localistico” e,
tanto per l’Isola quanto per tante altre regioni, caratterizzato da
pesanti dominazioni straniere. Si può dire che dal 1861 in poi
lo sforzo richiesto dalla nazione agli ex stati regionali sia quello di far parte costituente dell’Italia non solo in quanto realtà
geografica, ma anche e soprattutto statuale.
In una situazione così mutevole e per molti lati, compreso quello culturale, drammatica, si colloca l’opera del poeta
di Tonara, che si dimostra essere tutt’altro che aliena al dibattito politico e sociale che un evento di tale portata suscita nel
Paese. Da tale considerazione si è preso lo spunto per il titolo della nostra prefazione: la poesia in lingua italiana, come
si sa, appare a lungo statica nel suo petrarchismo di fondo e
nella sua lingua inerte fino all’Ottocento maturo rispetto alle
coeve realtà europee, mentre quella in dialetto è vista, spesso giustamente, come «Verdi suonato con la fisarmonica».1 In
Sardegna tale ritardo assume connotazioni ancor più evidenti, principalmente a causa del durevole connubio fra lirica
isolana e modelli arcadici, fra i quali Zappi, Rolli, Metastasio.
Non si dimentichino infine la stanca riproduzione della poesia classica latina (ad esempio Orazio) e l’influsso imprescindibile dei “monumenti nazionali”, un po’ come avviene in
tutto il paese per Petrarca ad esempio, ancora ben vivi nel
secondo Ottocento, come testimoniato dallo stesso Peppino
Mereu quando cita il Tieste di Foscolo in epigrafe a K… e la
stessa Corona aretina in A Genesio Lamberti.
1. F. Brevini, “Introduzione”, in La poesia in dialetto, tomo I, Milano,
Mondadori, 1999, p. XLIII.
7
Prefazione
Tale apparente immobilità dovette sposarsi bene con la
realtà agricola e pastorale dell’Isola e col suo immaginario,
ma è pur vero che l’abituale patrimonio di citazioni e formule poetiche, che costituivano una sorta di auctoritas – si veda
la proemiale e frequente invocazione alle muse – doveva trasferirsi con una certa facilità nel mondo della produzione
estemporanea da un poeta all’altro, per riflettersi di conseguenza su quella scritta. Ciò è tipico della dimensione letteraria orale e difatti, con Zumthor, l’improvvisatore appare come
colui che «possède le talent de rameuter et d’organiser prestement des matériaux bruts, thématiques, stylistiques, musicaux, auxquels se mêlent les souvenirs d’autres performances
et, souvent, des fragments mémorisés d’écriture. Ou bien, s’il
partecipe à une tradition mieux formalisée, il construit … au
jour le jour, avec des éléments standard, des textes toujours
nouveaux».2 Tuttavia in Mereu, accanto all’abituale apparato
formulistico, compaiono temi e forme tutt’altro che distanti
da quanto accadeva in buona parte della produzione poetica
italiana del secondo Ottocento, come vedremo anche in seguito. Perciò si rende necessaria una attenta valutazione della
categoria denominata “ritardo”, se la si vuole applicare a
questo poeta ricco di contrasti e innovazioni.
Anzitutto, fatta nostra la lezione di Pier Vincenzo Mengaldo, secondo il quale «sulla poesia italiana contemporanea
s’impara, assai più che da tanti ambiziosi problemi globali,
da ricerche apparentemente decentrate che percorrono per
esempi e campioni l’intero territorio a partire da ipotesi di
lavoro circoscritte ma precise»,3 approfittiamo di queste pagine per delineare la realtà storico-sociale dalla quale scaturiscono i versi che proponiamo nella presente silloge. E tale
realtà si rispecchia direttamente nella vicenda testuale del
corpus mereiano, che consta di una raccolta organica uscita
vivente il poeta per i tipi Valdés, tipografia cagliaritana sorta
nel 1894 grazie all’intraprendenza di Pietro Valdés e a seguito dell’importante funzione di apripista svolta dalla tipografia
Timon, sempre di Cagliari, che ben simboleggiava la vivacità
di questo centro dal punto di vista economico e culturale a
cavaliere fra i due secoli. D’altro canto nello stesso settore
anche Sassari, con l’attività di Dessì, Chiarella, Azuni ecc. appariva in continua espansione.4
A tale effervescenza consegue una progressiva professionalizzazione dell’editoria sia all’interno delle tipografie, sia
dei giornali, con riflessi importanti sulla diffusione della cultura in una regione che le statistiche del tempo descrivono
quasi totalmente analfabeta, arretrata e isolata.5 A proposito
2. P. Zumthor, Introduction à la poésie orale, Parigi, Éditions du Seuil,
1983, p. 226 [trad. it. La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1984].
3. P.V. Mengaldo, “Introduzione”, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. XIX.
4. Per un rapido panorama sull’industria tipografica in Sardegna in sinossi
con la realtà imprenditoriale isolana pre e post-unitaria rimandiamo a M.L.
De Felice, “La storia economica dalla «fusione perfetta» alla legislazione
speciale”, in Storia d’italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 391-392, 396, con relativa bibliografia ivi fornita.
5. Si vedano a tal proposito i dati relativi all’alfabetizzazione dell’Italia
post-unitaria pubblicati e discussi da T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Editori Laterza, 19723, pp. 95-98: in essi la Sardegna
occupa il primo posto per percentuale di analfabeti nel 1861 con un tasso del 90 per cento, mentre nel 1911 si scende al 58 per cento. G. Sotgiu, in Storia della Sardegna dopo l’Unità, Bari, Editori Laterza, 1896, p.
173, fornisce i seguenti dati: secondo il censimento del 1871 risultava
analfabeta l’87,98 per cento della popolazione sarda, superata da quella
della Basilicata, a fronte di una media nazionale del 73,27 per cento. Lo
stesso Mereu, in seguito ai problemi economici derivanti dalla morte dei
genitori, non andò oltre la terza elementare, risultato che tuttavia non
doveva apparire di poco conto per una comunità rurale come Tonara.
Ciò risulta nel volume Tradizione e modernità a Tonara in un’inchiesta
condotta nel 1928 da Giuseppe Tore, a cura di Gianfranco Tore, con
prefazione dello stesso Tore e di Giulio Angioni, edito col patrocinio del
comune di Tonara nel 1995: «Il numero di coloro che, pur essendo obbligati, non si iscrivono alla scuola, supera i duecento, e nessuna legge
si può applicare contro di essi per mancanza di edificio scolastico» (p.
77). Non si specifica il periodo storico, ma probabilmente si tratta dei
primi del secolo scorso. E ancora, a p. 213: «Nello stesso anno 1824,
addì due novembre fu aperta la prima scuola elementare in Tonara, con
circa 80 alunni [a fronte di 1770 abitanti complessivi] … verso il 1850
8
9
Prefazione
di questi dati, spesso volti a detrimento dell’immagine della
regione, è senz’altro condivisibile, anche dal punto di vista
letterario qui assunto, l’invito intelligente e fondato di Federico Francioni ad evitare che fatti prettamente storici possano «scivolare dalla dimensione storiografica o dell’indagine
economica a quella dell’antropologia culturale», così da ricavare un’immagine della Sardegna nella quale il ritardo sociale in ogni sua forma appaia “congenito”.6
Il caso di Peppino Mereu e della sua silloge edita nel 1899
è davvero raro, se non probabilmente unico, fra i poeti dialettali sardi, soprattutto se si tiene conto della qualità della pubblicazione di cui parliamo, curata sotto ogni aspetto, a parte i
difetti grafici e tipografici che affliggeranno per molto tempo
ancora la stampa della poesia in lingua sarda, nonostante la
generale riscoperta che il genere visse proprio nel secondo Ottocento. Non si dimentichi difatti che la sua diffusione era affidata – anche a causa della sua produzione frequentemente
estemporanea – quando non alla memoria dei cultori, a supporti quali i fogli volanti, pubblicazioni artigianali di poche pagine dai prezzi popolari che contribuivano a diffondere le
opere dei poeti locali e svolgevano talvolta una funzione “sociale”. A riguardo Rosario Cecaro scrive: «Questi fogli … conoscono nel secolo scorso una vastissima popolarità … il fenomeno si spiega se si pensa che le canzoni sono il mezzo
principale di comunicazione e informazione nella cultura sarda, ancora caratterizzata lungo tutto l’Ottocento dall’oralità».7
una sessantina di persone sapeva appena leggere e scrivere». Non di
molto dovette variare la situazione quando Mereu, nato nel 1871, entrò
in età scolare.
6. Cfr. F. Francioni, “Giornali, giornalismo e questione sarda nell’Ottocento: linee generali d’analisi e interpretazione”, in I giornali sardi dell’Ottocento. Quotidiani, periodici e riviste della Biblioteca universitaria
di Sassari. Catalogo (1795-1899), a cura di R. Cecaro, G. Fenu, F. Francioni, Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, 1991, p. 11.
7. R. Cecaro, “La poesia come informazione”, in Cantones de sambene.
Amori, delitti e processi nella poesia popolare di fine Ottocento, a cura
di R. Cecaro e S. Tola, Cagliari, Della Torre, 1999, p. 24.
10
Anche Enrica Delitala conferma che «il foglio volante spesso
costituisce l’unico patrimonio librario ed uno dei pochi mezzi
di comunicazione culturale, là dove l’isolamento e la subalternità … rendono più facilmente accetti determinati argomenti ed il modo di trattarli proprio dei fogli esaminati [un
corpus di 250 fogli conservati presso la Biblioteca universitaria di Cagliari]».8
In secondo luogo, ha per noi importanza fondamentale ai
fini dell’inquadramento critico del poeta nella cornice offerta
dall’Unità, la presenza di tre componimenti del poeta tonarese
in due riviste letterarie dell’epoca, La Piccola Rivista [18981900] e La Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata [1897-1898].
Questo fatto ci consente di toccare la questione del proliferare dei periodici, letterari e non, in un territorio apparentemente incolto e preso da questioni di ben altra importanza. Invece
l’invio dei propri componimenti alle numerosissime riviste doveva costituire un passo obbligato per chi, come Mereu, andava alla ricerca di un minimo di visibilità all’interno di un
panorama letterario in grande fermento e col quale, tenuto
conto dell’isolamento di cui certamente soffriva allora Tonara,
non doveva essere altrimenti facile entrare in contatto.
Che si trattasse di una necessità lo si capisce bene andando a sfogliare i periodici di fine Ottocento: da queste pagine emerge chiaramente una vivace comunità d’intellettuali
che essendo per giunta ristretta, mostrava un buon numero
di vicendevoli conoscenze personali e un interessante dialogo interno. Lo scambio d’idee e informazioni era talvolta basato sulla stima, talvolta astioso e improntato alla polemica,
ma comunque fondamentale ai fini della comprensione della
realtà letteraria e artistica isolana.
Fra le pagine delle numerosissime effemeridi, stampate
principalmente nei due maggiori centri dell’Isola, ci s’imbatte
8. E. Delitala, “Poesie sarde su fogli volanti: poesia popolare, popolareggiante o culta?”, in Oralità e scrittura nel sistema letterario, a cura di
G. Cerina, C. Lavinio, L. Mulas, Atti del Convegno (Cagliari, 14-16 aprile
1980), Roma, Bulzoni Editore, 1982, p. 231.
11
Prefazione
di frequente nelle prove letterarie di tanti fra i personaggi di
spicco della cultura sarda. Per limitarci a un arco cronologico
comprensivo dell’attività del nostro autore, basti ricordare almeno Vita sarda [1891-1893] dove, fra altre cose, si trova pubblicata una lirica di Grazia Deledda intitolata Fantasia grigia
[a. III, n. 3, 1892] che tratta il tema della viola fatta appassire
fra le pagine di un libro quale simbolo del ricordo, medesimo
spunto, probabilmente casuale, delle terzine di A una violetta
sicca di Mereu. Proprio quest’ultima fu consegnata dall’autore
o chi per lui alla Piccola Rivista, effemeride cagliaritana diretta
da Ranieri Ugo, che ospitò anche il sonetto In Conziliatura,
oltre a vantare contributi di valore come quelli della stessa
Deledda e di altre figure di spicco dell’intellighenzia isolana.9
Parte importante della documentazione diretta sulle vicende sarde post-unitarie è dunque fornita da riviste e periodici, che acquisiscono progressivamente figure capaci e specializzate all’interno delle proprie redazioni, così da assumere
man mano orientamenti sempre più connotati sia riguardo alle tematiche trattate, sia riguardo alle correnti politiche e di
pensiero alle quali essi aderiscono. È però opportuno precisare che l’informazione fornita da questi media difficilmente
riusciva a raggiungere le classi più basse; pertanto ad usufruire maggiormente delle novità messe in circolazione dai giornali erano la media borghesia e i ceti urbani in generale. In
realtà, durante quegli anni furono destinati alle classi rurali
9. Giancarlo Porcu, in un interessante articolo dal titolo “In Conziliatura, sonetto di Peppino Mereu”, apparso su La grotta della vipera, a.
XXVII, n. 93, primavera 2001, traccia una breve panoramica dei contenuti e delle collaborazioni che poteva vantare il periodico. Inoltre cfr.
I giornali sardi dell’Ottocento cit., pp. 174-175 e G. Fois, F. Pilia, I giornali sardi. 1900/1940. Catalogo, Cagliari, Della Torre, 1976, p. 310. Sia
detto di passata: Ranieri Ugo, sotto lo pseudonimo di Paolo Hardy, fu il
procacciatore di voti commiserato da Mereu nella sua A Paolo Hardy,
lirica composta nel ’95 in risposta al sonetto dello stesso Ugo (cfr. p.
201). Ciò non impedì che fossero pubblicati, quattro anni dopo, i sonetti mereiani di cui sopra proprio nella Piccola Rivista, che questo eccentrico personaggio diresse.
12
all’incirca i medesimi canali d’informazione e acculturazione
del passato, principalmente forniti dal basso clero. Difatti, come appare evidente nella stessa storia letteraria sarda, furono
per lo più gli esponenti di questo ceto a segnare le punte più
alte della produzione letteraria locale, fortemente caratterizzata dalla poesia improvvisata. Il parroco del paese condivideva spesso con la plebe, oltre alle condizioni di vita più o
meno modeste, cultura, mentalità e lingua, in assenza praticamente totale di italofonia fra i ceti agrari. Tale figura, che
poteva associare alla predica l’attività poetica, era in grado di
garantire un minimo di “istruzione” sfruttando questi due canali comunicativi, ovviamente sotto il condizionamento della
formazione ecclesiastica. Talvolta però le rigorose e severe
letture sacre erano stemperate da esperienze poetiche provenienti da letture personali, come anche da estri poetici – clamoroso il caso di “Padre Luca” Cubeddu – che la Chiesa non
poteva sempre tenere sotto controllo.10 Si è già insistito sulla
funzione informativa svolta dai fogli volanti.
Naturalmente il progresso registrato dai mezzi d’informazione e diffusione dei saperi provenienti da altre realtà geografiche è legato all’evoluzione socio-economica interna: dall’Unità in poi si nota un aumento dell’indice di alfabetizzazione e,
di pari passo, di scolarizzazione, fattori che si affiancano al
cambiamento di politica culturale verificatosi col passaggio dal
governo sabaudo, tendenzialmente contrario alle innovazioni
e portato a favorire il già saldo monopolio culturale del clero,
all’unificazione del Regno. In questa fase, difatti, diventa possibile la libera circolazione di uomini e idee da essi veicolate
che, giunti a contatto con l’arretrata realtà locale, ne intaccano
10. In relazione all’innegabile importanza della funzione svolta da questa istituzione nei processi di acculturazione dell’Isola, sarà bene ricordare che anche la stampa vi fu introdotta da un suo esponente, Nicolò
Canelles, vescovo di Bosa che impiantò a Cagliari la prima tipografia
stabile intorno al 1566. Si veda in proposito, anche per la dovizia di dati sulla produzione libraria e sul rapporto fra questa e le lingue della
cultura al tempo, B. Anatra, “Editoria e pubblico in Sardegna tra Cinque
e Seicento”, in Oralità e scrittura cit., pp. 233-243.
13
Prefazione
fortemente la scorza, entrando spesso a contatto con periodici
già esistenti, oppure fondandone di nuovi.11
Un esempio della forza di questi cambiamenti è costituito da La Farfalla [1876-1877], effemeride cagliaritana che
nonostante la sua breve stagione sarda – sarà in seguito trasferita a Milano – rivestì una parte importante negli sviluppi
delle vicende culturali sarde. La rivista annoverava fra i suoi
collaboratori alcuni fra i maggiori esponenti della scapigliatura milanese, fra cui Cletto Arrighi e Felice Cameroni, le cui
idee e opere ebbero buon seguito sia fra gli intellettuali, sia
fra i lettori più attenti alle novità in campo artistico-letterario,
da individuarsi principalmente all’interno di quella borghesia
cittadina cui abbiamo accennato poco sopra.12
11. Ci piace fornire al lettore, a proposito del proliferare di periodici letterari, una testimonianza divertente ma preziosa, tratta da un articolo intitolato appunto “I periodici letterari”, apparso a firma di Ramiro [sic] su
La Nuova Sardegna, a. X, n. 290, 21 ottobre 1898: «Premetto che questi
fogli [ci si riferisce a periodici per lo più “goliardici”] si pubblicano ordinariamente alla fine di dicembre per potere poi al secondo o terzo numero scrivere sulla copertina Anno II. Chiedete ai fondatori di tali riviste
… gli intenti di tali pubblicazioni e vi risponderanno inevitabilmente che
è quello di portare nella breve cerchia della provincia un risveglio intellettuale … esce il primo numero che contiene un’ode a Ninetta di Goliardo ed una Penombra di Alfa … seguono quattro colonne di studi
glottologici e una pagina di folklorismo. Poi viene il romanzo della signorina Zeta di Elle … e sotto la firma del direttore responsabile il N.B.:
Coloro che non rifiuteranno il presente numero si intendono abbonati …
ma l’abbonamento non lo paga nessuno. Ciò non toglie però che la direzione non spedisca i numeri seguenti, i quali contengono … cinquanta
stornelli dialettali, dedicati a Virgilio … al settimo numero il giornale è
morto … il direttore ha contratto con la casa editrice un debito che non
pagherà più mai. Parce sepulto!».
12. Roberto Tessari, nella monografia da lui curata e intitolata La scapigliatura. Un’avanguardia artistica nella società preindustriale, Torino,
Paravia, 1975, p. 82, sottolinea giustamente che «l’essere scapigliato, tra il
1860 e il 1890 significò soprattutto esprimersi non solo e non più attraverso l’invecchiata forma del volume di versi o di prosa romanzesca …
bensì sulla pagina del quotidiano e della rivista, potenzialmente aperte
ad un pubblico … più ampio».
14
Per comprendere meglio quale sia la temperie culturale
nella quale si colloca lo scambio d’idee, opinioni e la diffusione delle opere all’epoca in cui Mereu visse, sarà sufficiente ricordare almeno La Meteora [1878-1879], che pubblicò alcuni
contributi di due fra i modelli “nazionali” più influenti del
poeta tonarese: Giuseppe Giusti e Olindo Guerrini, quest’ultimo noto anche con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, al
tempo celebri poeti ai quali si può attribuire in buona parte, a
livello di lingua letteraria, la tendenza al concreto, all’abbassamento di registro a fini realistici di alcune liriche mereiane. Di
Giusti inoltre è espressamente citata, oltre ad altre forti suggestioni interne, la quartina d’apertura di Parla il mascherone
della Fonte del Tettuccio, posta in epigrafe a Galusè: nel leggere versi come «preides, polizzottos, cummissarios / e nobiles ispias» (vv. 148-149) non si può non ricordare l’elenco
snocciolato dal poeta toscano di «villani, nobili, / birri, crociati, / spie, preti, monache / scrocconi e frati» (vv. 73-76), i quali
si riuniscono attorno alla fonte di Montecatini, ognuno coi più
disparati “interessi”.13 Infine anche la fonte giustiana ha il dono della parola e racconta ciò che vede accadere davanti a sé,
in un comune e tipico esperimento di mimetismo che nello
specifico serve a entrambi i poeti per non dover attuare in
prima persona la rispettiva critica sociale.
Si tenga conto del fatto che la diffusione dell’opera di
questi due personaggi, soprattutto dello Stecchetti, avvenne
non solo ad opera di effemeridi letterarie come La Meteora,
ma anche, in seguito, dei due maggiori quotidiani regionali,
L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, fondati rispettivamente a Cagliari nel 1889 e a Sassari nel 1892.
Al cambiamento politico e sociale si legano quindi i modelli culturali provenienti dal “continente”; da qui la diffusione della scapigliatura, seguita dai primi passi mossi in Sardegna dal socialismo, e della ribellione linguistica e tematica
soprattutto stecchettiana – ma pure Giusti avrà il suo seguito –
13. Cfr. G. Giusti, Poesie, a cura di N. Sabbatucci, vol. II, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, pp. 712-715.
15
Prefazione
della poetica di Carducci ecc., che tanto riverbero avranno
su un poeta come Sebastiano Satta (particolarmente il Carducci, tramite l’influsso giovanile esercitato a Sassari dal poeta e professore livornese Giovanni Marradi). Con ciò si giunse a creare un sottogenere per lo più in dialetto, ossia quello
dei rifacimenti di tali modelli. Per quest’ultimo aspetto basti
pensare al Mereu stecchettiano di Dae una losa ismentigada
o al Pascale Dessanai di A Chillina ecc.,14 per giungere fino
alla poesia “stecchettiana” – troviamo con questo titolo, ad
esempio, un sonetto in sassarese di E. Dessena, in Il Massinelli [1900-1908], a. II, n. 11, 1901 – che ama rifare il proprio
modello cogliendone in particolare l’aspetto della critica sociale e anticlericale.
Sintetizza felicemente il fermento culturale di cui sopra
Nicola Tanda quando parla di un «movimento che, dalla scapigliatura al Carducci e allo Stecchetti, aveva elaborato una
poetica e procedimenti formali adatti a corrodere lo smalto
dell’étabilissement post-risorgimentale (Stecchetti fu infatti
uno dei modelli preferiti del tonarese Peppino Mereu)».15
Sarebbe superfluo ricordare come gli esponenti più noti
della cultura sarda legarono il proprio nome a una o più riviste, in qualità di collaboratori o direttori: da Enrico Costa e
Attilio Deffenu a Sebastiano Satta e Grazia Deledda, fino a
Luigi Falchi e Ranieri Ugo, solo per citare i nomi più “ovvi”
e rappresentativi dell’importanza del fenomeno. È perciò
comprensibile che anche il nostro poeta, per diversi motivi,
abbia avvertito l’esigenza di entrare a far parte di una comunità tanto attiva quanto ricca di suggestioni, soprattutto per
un giovane di carattere, ambizioso e desideroso di farsi conoscere quale Mereu ci appare. Ed ecco che nel 1898 egli
14. Su Dessanai cfr. G. Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio
in Pascale Dessanai, con una proposta di edizione critica, Nuoro, Il
Maestrale, 2000. In questa pubblicazione si trova una sezione intitolata
“Da Stecchetti” (pp. 295-298) e diversi accenni al rapporto del poeta
nuorese col modello nella parte introduttiva.
15. N. Tanda, Letteratura e lingue in Sardegna [1983], Cagliari, EDES,
1984, p. 37.
decide, forse dietro consiglio dell’amico e mentore Giovanni
Sulis, d’inviare al periodico letterario Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, stampato a Cagliari e diretto da Renato
Manzini e G.B. Troiani, il già citato componimento in terzine
A una violetta sicca, pubblicato nel n. 7 il 26 maggio di
quello stesso anno. La lirica non è fra le più felici né fra le
più innovative del poeta tonarese e anzi, come si è visto, si
rifà a un percorso tematico assai praticato dalla tradizione
poetica locale e non solo.
L’anno seguente, prima della pubblicazione della silloge
per i tipi Valdés – essa, secondo l’articolo di Francesco Corona riportato nella “Nota bibliografica”, risulta essere stata
pubblicata a settembre – Mereu invia a La Piccola Rivista
dapprima il sonetto In Conziliatura e, a seguire, la serie di
sonetti intitolata A Ernesto Mereu, apparsi rispettivamente nei
nn. 9 e 14 del periodico succitato. Stavolta ci si trova di fronte a due prove caratterizzate dal mistilinguismo e che, come
generalmente accade fra i dialettali post-unitari, si riferiscono
a situazioni e personaggi che contemplano realmente lo
scambio di codici (qui sardo e italiano) fatti assurgere alla dignità poetica, per lo più con intento parodiante e deformante. Egli cioè si dichiara implicitamente non più epigono della
tradizione amorosa e aulica, pur rivisitata con toni scapigliati,
come accadeva in occasione del primo “languido” componimento, ma di quella satirica e mordace, aderente ai canoni
del vero e che fa della critica linguistica lo spunto per la caricatura di personaggi tipici della Sardegna post-unitaria, allora
ben presenti in qualsiasi regione d’Italia. Difatti non appena
la situazione lo richieda o consenta, ad esempio nella burocrazia, costoro si lasciano inconsapevolmente andare a quell’italiano porcheddinu, frammisto cioè al dialetto, che in epoca
di scarsa diffusione della lingua nazionale negli anni successivi all’unificazione, era quanto di meglio si potesse probabilmente udire in occasioni consimili.
Pertanto si tratta di una scelta stilistico-tematica ben marcata e che supera se vogliamo, a livello d’intento programmatico, quella della poesia di protesta sociale “pura”, più nota ai
16
17
Prefazione
lettori certamente, ma che non appare come si è visto, se non
in forma mimetico-linguistica, fra i componimenti inviati alle
riviste letterarie. Si trattava, evidentemente, di un filone assai
congeniale al poeta tonarese, che univa ad una acuta sensibilità sociale un’altrettanto acuta intelligenza linguistica che lo
portò ad operare anche per altri componimenti questa scelta,
davvero rara nel panorama della poesia dialettale sarda.16 Di
questa rarità il poeta dovette essere consapevole, ed è forse
da tale consapevolezza che nacque la selezione del materiale
poetico poi apparso sulle due effemeridi.
È necessario ora, oltre a quanto già detto, fornire qualche
dato storico aggiuntivo sulla Sardegna post-unitaria, poiché
lo stesso Mereu, tutt’altro che fossilizzato nell’Arcadia che
tanta e durevole eco ebbe fra i poeti conterranei, vi accenna
esplicitamente nelle sue liriche. In effetti le condizioni di vita,
soprattutto nel centro-sud del Paese, non furono facili a causa di numerosi fattori: la politica espansionistica del nuovo
stato unitario portò quest’ultimo ad esigere tasse esose, il cui
re-investimento in buona parte non ricadeva direttamente sul
territorio italiano, ma sulla spesa legata alle operazioni militari. Inoltre regioni già povere come la Sardegna, che non conoscevano la grande industria, soprattutto quella siderurgica,
si videro estromesse dai possibili guadagni derivanti dalla
produzione di materiale bellico. Perciò esse furono costrette
a fare affidamento unicamente sulle fonti di sostentamento
tradizionali (agricoltura e pastorizia) e non ebbero molto altro dal nuovo governo se non, nel caso specifico dell’Isola,
16. Si legge su Il Burchiello [1901-1909] a firma di Anastasio [sic], un
componimento in quartine di endecasillabi con una morale conclusiva
in settenari e endecasillabi, redatto nell’italiano interferito appena descritto e intitolato Il lupo e il miritare, a. I, n. 4, 1901, nel quale si gioca,
evidentemente già a partire dal titolo, sulla pronuncia rotacizzante della
liquida l da parte dei parlanti la varietà sassarese, ovviamente con intento comico. Si tratta di una satira misogina di qualità poetica nulla, ma
per i nostri scopi indicativa già a partire dall’“epigrafe”: «(Fatto capitato
ad un poeta sorsinco [‘di Sorso’] di ritorno da ra Toscana)». Si leggano i
vv. 16-20: «“Che” – fece il giovinotto, abituato / a trattare con gente di
profetto, / “facci pure, gnò lupo!, io son sordato / e queste cose, cavolo,
le ammetto!”. // Ma ir lupo, che alla fine era un villano, / marintragnato,
un vire mascarzone, / s’accosta alla signora piano piano / ed haum! se
l’ingodde in un boccone». Un altro componimento mistilingue in ottave
di endecasillabi e settenari, improntato al code mixing e al code switching, ossia alla ‘commutazione’ e ‘mescolanza di codici’, si trova nel
medesimo periodico sassarese a firma di Burchiellino, col titolo La camera del lavoro, a. I, n. 15, 1901. Eccone uno stralcio che si riferisce alle
interferenze fra sardo e italiano: «Così parla Antonino entusiasmato, [egli
ha appena concluso un comizio] / tace: terge il sudore e, tra gli evviva,
/ dai compagnoni vien felicitato. / Ma un tal che non capiva / o capiva
ben poco l’italiano, / si avvicina pauroso all’oratore / e gli sussurra col
berretto in mano: // Mi l’ispiegheggia un po’, caru dottore, / in sassaresu
chi cussì no ibagliu… / La camara, cumpà, di lu trabagliu… / E quello
ch’era un furbo di tre cotte, / stette un pochetto muto / e poi così rispose: / Buona notte / ho bene… comprenduto: / la camera che ài detto /
di siguru è… la camera da letto» (vv. 9-24). Se nel primo caso è rappresentato un soldato, soggetto tipico di tali raffigurazioni nello stesso Mereu, in La camera del lavoro notiamo un ambiente legato alla propaganda politica, che richiede pertanto l’utilizzo della lingua ufficiale. Qui un
“tale”, descritto in atteggiamento umile e riverente, chiede di poter ricevere una spiegazione nella propria lingua, sì da non equivocare il messaggio («in sassaresu chi cussì no ibagliu»). Tuttavia, mentre in Mereu
l’effetto comico nasce principalmente dall’inconsapevolezza da parte dei
personaggi della propria precaria padronanza della lingua italiana, qui
invece la consapevolezza d’ignorare la medesima è posseduta dal popolano, che la dichiara apertamente. Pertanto il code switching si verifica
anzitutto a livello della struttura poetica, con una parte introduttiva in
un italiano forbito che funge da voce fuori campo, seguita dalla parte in
dialetto che, ovviamente, dovrebbe creare un effetto comico dovuto all’accostamento anche linguistico fra l’oratore, veicolo in negativo di una
lingua incomprensibile e fumosa, e l’umiltà popolana ma saggia del dialettofono, il cui ruolo è palesato da quel «caru dottore» ironicamente
confidenziale. Si giunge poi alla commutazione di codice nella risposta
di Antonino, chiaramente connotante in senso negativo, in quanto costui pretende di potersi gestire in italiano, ma si trova a mescidare i due
codici, risultando così assai più risibile rispetto primo attante, che parla
una sola lingua ma, almeno questo, correttamente. La morale linguistica
è che il dialettofono sa stare al suo posto, mentre chi sperimenta attivamente il bilinguismo corre spesso il rischio di apparire ridicolo o riceve
comunque una connotazione negativa. Questo schema si trova applicato assai spesso fra i poeti dialettali del secondo Ottocento.
18
19
Prefazione
una guerra doganale con la Francia (1878-1888) che bloccò i
suoi proficui contatti con Marsiglia nell’esportazione di bestiame, latticini e prodotti agricoli, senza contare la sordità
per lo più cronica nei confronti dei problemi locali a favore
dell’aggressiva politica estera. Per giunta, come Mereu stesso
documenta ad esempio in A Nanni Sulis, le annate negative,
la filossera e la peronospora, alluvioni e quant’altro,17 mettevano in difficoltà cronica le popolazioni rurali che, oltre a
dover fronteggiare i capricci del clima, spesso aggravavano i
propri debiti ricorrendo all’usura, anche per poter far fronte
alle forti imposte.
Inoltre appartiene agli anni a cavallo fra Unità e cambio
di secolo l’opera di disboscamento che, per dirla con le
(ri)sentite parole di Raimondo Carta Raspi, non fu altro se
non una «vandalica distruzione dei boschi consentita per cifre irrisorie ai concessionari di miniere e soprattutto agli appaltatori del ricco patrimonio forestale che dell’isola avevano
fatto un immenso braciere per ricavarne carbone vegetale».18
I tentativi di inquadrare i problemi della Sardegna, sfociati nelle inchieste Depretis (1869), che pure fruttò l’importante
relazione di Quintino Sella,19 o il più letterario lavoro di Paolo Mantegazza,20 e Jacini (1877) – affidata per la Sardegna a
Francesco Salaris21 – fino alle numerose interpellanze del Pais
17. «B’est sa filossera, / impostas tinzas, / chi nos distruint / campos e
binzas. // Undas chi falant / in Campidanu, / trazan tesoros / a s’oceanu» (A Nanni Sulis, vv. 22-29).
18. R. Carta Raspi, Storia della Sardegna, Milano, Mursia, 1983, p. 881.
Si noti quanto in queste parole riecheggino i vv. 154-156 A Nanni Sulis
[II]: «Sos vandalos, cun briga e cuntierra, / benint dae lontanu, a si partire / sos fruttos, da chi si brujant sa terra».
19. Q. Sella, Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1871 [riedito a cura di F. Manconi, Nuoro, Ilisso, 1999].
20. P. Mantegazza, Profili e paesaggi della Sardegna, Milano, Brigola
(Tipografia Wilmant), 1869 [Sassari, La Nuova Sardegna, 2004].
21. F. Salaris, “Relazione del commissario S. F. per l’inchiesta agraria
sulla dodicesima circoscrizione (provincie di Sassari e Cagliari)”, in Atti
della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe
20
Serra dall’83 in poi,22 portarono per lo più a provvedimenti
tanto inefficaci quanto tardivi. Tutto questo è documentato
dai giornali dell’epoca, spesso critici nei confronti della politica governativa: «Anche il 1899 è sorto senza vedere l’inizio di
quei provvedimenti che dovevano rigenerare la Sardegna …
dove sono i lavori di bonificazione agricola, di sistemazione
idraulica? … si va di male in peggio. Si distribuiscono pochi
centesimi, si inaugurano sistemi di violenza, e sono completamente trascurati i supremi bisogni dell’isola»,23 e via di seguito sullo stesso tono di delusione per le promesse non
mantenute a seguito delle inchieste succitate.
Da ultimo, non si può non sottolineare la spaventosa carenza di strutture e insegnanti nell’ambito dell’istruzione elementare del tempo. Quest’ultima fu resa obbligatoria a partire
dal 1877, ma l’evasione della legge Coppino era la prassi per
gran parte della popolazione in età scolare, anche a causa della diffusa tendenza da parte delle famiglie a non volersi o potersi privare di forza-lavoro e per la scarsa fiducia nei confronti
di maestri dalla dubbia cultura. Da ciò nascono i corrosivi versi
conclusivi di Signora maestra, che valgono ben più di qualsiasi
testimonianza storica: «La madre l’ha detto anche nel forno /
che la maestra non capisce un corno / e piùs de issa nd’ischit
sa pizzinna / e dae cussu l’hat mandada a linna» (vv. 36-39).
Peppino Mereu registra il malessere da poeta che si fa interprete di un ruolo sociale ben preciso, con versi taglienti, a
volte ingenui per foga, ma lucidi e quasi corali in quanto vox
agricola, Roma, vol. XIV, fascc. 1° e 2°, estr. Roma, Forzani & C., Tipografia del Senato, 1885.
22. F. Pais Serra, Sulle condizioni della pubblica sicurezza in Sardegna.
Interpellanza fatta alla Camera dei Deputati, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1883; F. Pais Serra, Sulla crisi agraria in Sardegna.
Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati (tornata 13 marzo 1885),
Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1885 et al., ma cfr. soprattutto F. Pais Serra, Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche
e della sicurezza pubblica in Sardegna, Roma, Tipografia della Camera
dei Deputati, 1896.
23. La Nuova Sardegna, a. IX, n. 5, 5 gennaio 1899.
21
Prefazione
populi, quello stesso popolo che egli ritrae nell’atto di «lingher /
s’ispada tinta de sambene tou» (A Genesio Lamberti, vv. 69-70),
mentre di sé stesso scrive, orgogliosamente: «Mai lintu / happo
s’ispada tinta ’e samben meu» (A Signor Tanu, vv. 71-72).
Il mistilinguismo come dato sociale
Con questo titolo intendiamo inscrivere i componimenti
mistilingui del poeta all’interno di quel filone sociale, che è
stato ampiamente messo in luce per altri ambiti più propriamente riconducibili alle tendenze contestatrici e politiche del
tempo, come il socialismo, cui Mereu, analogamente ad altri
giovani ed a parte della classe intellettuale dei due atenei
isolani, aderì con convinzione, e cui fa riferimento esplicito
in più d’una occasione nelle sue poesie.
L’acutezza di questo autore nel tracciare il profilo della
società post-unitaria non è stata però, così ci sembra, organicamente messa in luce da questo punto di vista: fra i componimenti della raccolta si nota come egli abbia, sotto le spoglie
della deformazione linguistica, colto un aspetto fondamentale
come quello della diffusione dell’italiano in Sardegna a partire
da ambienti di “frontiera” come l’esercito, la scuola, la burocrazia. Un’intelligenza storica vigile quindi, in grado di cogliere, anche grazie alla sua esperienza nell’Arma, i mutamenti
sociali e di lingua che investivano con forza sempre maggiore
la comunità. È certamente vero quel che dice Franco Brevini
a proposito del «topos della letteratura postunitaria … la satira
di chi, nella compagine del nuovo stato, si sente in dovere di
fare affettazione di italofonia senza possedere una effettiva
competenza della recente lingua nazionale»,24 ma si tenga presente che questo non fu, se non a partire proprio da Mereu,
un percorso poetico sfruttato dalla poesia dialettale sarda, eccettuati pochi altri casi. La poesia isolana, proprio in quanto
legata straordinariamente a lungo a modelli superati ma di
grande solidità, non si curò troppo del confronto storico con
le lingue e culture dominatrici almeno fino al secondo Ottocento, se non per assorbirne selettivamente gli elementi funzionali a quegli stessi modelli che le si confacevano, non certo per spirito di rivalsa. Pertanto Mereu, almeno relativamente
alla realtà locale, non si trovò ad aver a che fare con un tòpos
ampiamente sfruttato, semmai lo dovette importare dall’esterno,25 mentre la sua esperienza nell’Arma – con l’inevitabile
commistione di dialetti che la caratterizzava – dovette acuirne,
come detto, la sensibilità linguistica. Insomma, er parlà cciovìle
de ppiù, per dirla con Belli, costituisce nel discorso poetico
regionale una novità che peraltro Mereu condivise con Antonio Domenico Migheli e Pompeo Calvia.
A tal proposito risulta importante richiamare ancora una
volta il concetto di dialettalità applicabile a un’isola nella quale
non si scelse il sardo in opposizione al toscano quale “lingua
della poesia”, ma si continuò semplicemente ad utilizzare l’unico codice espressivo a tutti noto, il sardo appunto, pur ampiamente differenziato rispetto al parlato, che si accompagna ai
modelli nazionali. È quindi nei componimenti di Mereu che il
contrasto con la lingua ufficiale assume un carattere non più
occasionale; pertanto non possiamo che dar ragione a Giancarlo Porcu, senza trascurare il già citato tòpos richiamato da Brevini, quando relativamente all’uso poetico dell’italiano interferito, egli parla di «un gesto formale che ha del rivoluzionario se
rapportato alla storia del linguaggio poetico sardo», ricordando
poi il precedente dei summenzionati Migheli e Calvia.26
Perciò torniamo sopra la questione dell’interferenza fra
sardo e italiano accennata in precedenza, poiché è a partire da
essa che ci pare si possa inquadrare entro un canone il più
possibile definito il poeta tonarese, ed è forse da questo aspetto che può emergere con maggior evidenza la sua grande modernità, in rapporto al sistema letterario che lo accoglieva.
24. F. Brevini, La poesia in dialetto, tomo 2, Milano, Mondadori, 1999,
p. 2866.
25. Pensiamo ad esempio allo Stecchetti di Postuma XXV, dove il poeta, nella classica forma del sonetto, rifà la parlata di un’irascibile “svizzero” [L. Stecchetti, Le rime, Bologna, Zanichelli, 1903, p. 49].
26. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., p. 59 e nota 4.
22
23
Prefazione
In base a quanto detto in precedenza si può perciò concludere che la comunità di cui Mereu fa parte non è certo bilingue, analogamente a tutti i centri rurali di allora; di conseguenza la consapevolezza della dialettalità negli immediati
anni post-unitari – in tale vocabolo è compresa per noi anche
l’accezione deteriore, cioè il sermo humilior – da parte di costui, come degli altri parlanti, non sarebbe stata possibile. Allora ci chiediamo se anche Peppino Mereu possa essere inscritto
all’interno del raggruppamento d’intellettuali di cui parla Nicola Tanda e che, legati ai ceti rurali, intendevano comunicare in
limba «per offrire alla propria comunità un servizio favorendo
un flusso di comunicazione più attivo e moderno».27 A noi ciò
non sembra fattibile in quanto, mancando la possibilità di scelta fra codici, veniva a mancare anche quella spinta contrappositiva derivante da una coscienza linguistica improntata alla ribellione nei confronti di una lingua più forte che, in teoria,
sarebbe stata l’italiano, ma che in pratica continuava ad essere
il sardo. Perciò la sua unica intenzione comunicativa, a livello
poetico, era espressa in quest’ultimo codice e la partita si sarebbe potuta giocare non fra lingua nazionale e dialetto, ma,
al più, fra vernacolo (il tonarese) e koinè sovra-locale, ossia il
logudorese poetico o illustre, che si rivelerà poi essere la scelta del poeta. Tale partita, come sappiamo, si inizierà a giocare
con consapevolezza sempre maggiore nella poesia sarda in
concomitanza con quanto accade in Italia nella stagione dei
dialettali del Novecento, naturalmente con l’inserimento dell’italiano. A Mereu è però dato d’innovare il sistema poetico attraverso i temi, i metri da alcuni punti di vista (cfr. la “Classificazione metrica”), e l’utilizzo di un linguaggio improntato al
realismo, che abbandona l’aulicità della tradizione precedente,
per iscriversi invece in quel filone satirico-sociale che, a partire
da Pisurzi e Mele, si svilupperà poi con Murenu, Migheli ecc.,
sempre con l’uso della variante logudorese illustre. Semmai
l’innovazione linguistica più forte consisterà nell’utilizzo costante, come accennato sopra, della commistione fra italiano e
27. N. Tanda, Letteratura e lingue cit., p. 35.
24
dialetto, che darà così origine a un pastiche interferito dagli
esiti comici non indifferenti e che diverrà possibile all’indomani dell’Unità, quando la società sarda, come altre micro-realtà,
uscirà dalla stasi che per lo più la caratterizzerà fino al periodo
immediatamente precedente.28
In Italia la situazione prevalente è quella di una poesia in
dialetto che, a cavaliere fra i due secoli e nel primo Novecento, mostra una produzione maggiore da parte dei centri cittadini con l’utilizzo di varietà urbanizzate, in un periodo in cui
l’esistenza dei vernacoli non era ancora sentita come messa in
pericolo dalla lingua nazionale; questa d’altra parte andava affermandosi con forza invasiva sempre maggiore. In seguito,
man mano che lingua e modelli culturali unitari vanno prendendo sempre più piede, si tende a una dialettalità «introversa» e «endofasica»,29 che utilizza sempre più spesso vernacoli
in precedenza ritenuti privi di dignità poetica – si pensi, quale
esempio tardo, alla scelta eclatante del friulano da parte di Pasolini – e, per giunta, spesso sovrastati da altre koinài sovralocali più prestigiose. Tale scelta è motivata dal fatto che quei
linguaggi “privati” sono sentiti in qualche modo confacenti all’istanza di rifiuto nei confronti di modelli che, se accettati,
porterebbero alla morte di un intero nostalgico mondo, cui si
vorrebbe invece far ritorno. Sappiamo tuttavia come questo
non sia stato nell’Isola un processo di breve durata, a causa
28. La compresenza di due varietà locali, l’oschirese (o in generale logudorese) e il sassarese, assieme all’italiano interferito, rende l’opera di Antonio Domenico Migheli unica da questo punto di vista. Difatti nella sua
opera più nota, Sa briga ’e sos santos, un gustosissimo litigio fra i santi sorto per problemi “condominiali” e non a caso d’impianto teatrale, l’autore
inscena una tragicommedia in cui, secondo la tradizione comico-parodistica, la variatio di codici (italiano compreso) e registri è finalizzata alla
tipizzazione principalmente diastratica di ogni attante, come in Mereu
[cfr. G. Atzori, G. Sanna, Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura,
vol. II, Cagliari, Edizioni Castello, 1998, p. 224, nota 26 e p. 228, nota 37].
Ciò si riscontra anche, ad esempio, in Sa cantone de sa trotta [cfr. A.D.
Migheli, Sa briga ’e sos santos e altre poesie, Cagliari, Della Torre, 1986,
pp. 175-185, 189-195].
29. P.V. Mengaldo, “Introduzione” cit., p. LXX.
25
Prefazione
del prestigio che logudorese e, in misura minore, campidanese illustri hanno mantenuto saldamente fino a tempi recenti,
come testimoniato dai primi, “storici” verbali del premio Ozieri ancora negli anni ’50 del secolo scorso, in special modo
quello del ’57.
Ma tant’è: se la lingua di Peppino Mereu era lontana dal
parlato, gli stessi vernacoli utilizzati dai contemporanei che
Brevini definisce «neodialettali», collocandoli entro la sezione
intitolata Lirica e dialetto, con sottotitolo “La lezione del Novecento e la scoperta delle lingue periferiche”, possono esserlo altrettanto. Ciò per il recupero di fasi arcaiche spesso
frutto di ricerca erudita e che possono essere adottate unicamente in funzione poetica, talvolta a scapito della sostanza
delle liriche stesse, ma non di certo ai fini di un illusorio riuso generalizzato nel parlato.30
Secondo quanto premesso non si può certo fare nostro
in toto il mirabile panorama sulla poesia dialettale italiana
tracciato dall’italianista tedesco Wilhelm Theodor Elwert, soprattutto quando in relazione al periodo post-unitario che a
noi interessa egli, riprendendo la tesi di Giuseppe Ferrari,31
rileva che «in contrasto con la poesia italiana … sentita come
cortigiana … e lontana dalla vita, si cominciò a rappresentare
nella lingua della vita quotidiana, uomini quotidiani ed eventi
quotidiani», fino ad evincere, secondo logica, che «la poesia
dialettale ora non esiste più per sé, sullo stesso piano accanto alla poesia in italiano comune … ma adempie un compito
30. A tal proposito si veda F. Brevini, “Introduzione”, in Poeti dialettali
del Novecento, Torino, Einaudi, 1987, p. XI: «Certamente l’attuale ritorno
al dialetto rischia di essere un’operazione doppiamente riflessa, mediata, rispetto ad un codice che non corrisponde più ai bisogni linguistici
della comunità … di qui l’approccio al dialetto in quanto lingua della
pulsionalità, che conferma una volta di più il carattere mediato del recupero di questi anni».
31. G. Ferrari, “De la poésie populaire en Italie”, in Revue des deux
mondes, serie IV, n. XVIII, 1 giugno 1839 e n. XXI, 15 febbraio 1840;
poi in G. Ferrari, Opuscoli politici e letterari, Capolago, Tipografia Elvetica, 1852, pp. 431-545.
26
nel quadro di questa letteratura nazionale che ora le è anteposta».32
Tuttavia l’operazione di commistione fra lingue operata da
Mereu può a nostro giudizio essere inserita in questo discorso
oppositivo, naturalmente con gli opportuni distinguo, in quanto l’adozione del linguaggio interferito e di forme tipiche del
parlato regionale post-unitario può essere vista sì come intento
parodico, basato però sulla mimesi del vero e spinta fino a fare il verso alla parlata ridicola dei personaggi presi di mira dal
poeta tonarese. Insomma, ci sembra che la mimesi possa essere ricondotta all’atteggiamento realista della seconda metà dell’Ottocento che, se in Italia fu sostenuto in larga parte dalla
poesia in dialetto in opposizione alla letteratura nazionale, nel
caso del poeta tonarese rappresenta invece quella rottura con
la tradizione che, però, non era rappresentata in Sardegna da
Petrarca ed i suoi epigoni ma da altri poeti, sardi, avvertiti, loro sì, come modelli “nazionali”. Del resto si trova una citazione
esplicita del poeta aretino, peraltro errata ed evidentemente a
braccio, nel penultimo verso del sonetto VI di A Genesio Lamberti. Ma questo è un altro discorso.
Naturalmente quando Mereu tratta di soggetti definibili
come “alti” oppure, più semplicemente, tipici della poesia isolana, il suo linguaggio poetico, le formule, le rime ecc. si collocano all’interno di una tradizione sempre forte e influente.
Al contrario, il distacco da quest’ultima si verifica nel momento in cui la realtà cogente entra a far parte della sua poesia, sì
da allontanarla dalla via più battuta dalla gran parte dei predecessori. È allora che egli avverte la necessità di rifarsi ad altri modelli, come Giusti o Stecchetti, i quali proprio dalla
realtà tout court prendono spunto per i loro componimenti.
Da ciò la differenza che intercorre fra A Tonara, dove il classico io lirico prende la parola per descrivere nostalgicamente
32. W.T. Elwert, La poesia dialettale d’arte in Italia e la sua relazione con
la letteratura in lingua colta, Roma, Quaderni della Biblioteca nazionale
centrale di Roma, 2000, p. 47. L’articolo è apparso per la prima volta nella rivista Archiv für das Studium der neueren Sprachen, n. 94, 1939.
27
Prefazione
la patria lontana e Galusè, che si trasforma in locus describens
anzichè descriptus, sicchè l’elegiaca contemplazione delle bellezze naturali da parte di un narratore interno coincidente con
l’autore implicito cede il passo al quadro sociale dipinto dalla
stessa fonte grazie al modello giustiano, come detto a p. 15.
In conseguenza di ciò, il logudorese illustre, lingua della
poesia, è abbassato da Mereu attraverso la commistione e la
mescolanza di codici quando egli descrive situazioni particolarmente aderenti alla realtà sociale in cui vive, come quella
degli strati bassi che tentano i primi, drammatici approcci alla
lingua nazionale. Ovviamente non si deve pensare a una
operazione di attacco preordinato nei confronti della lingua
letteraria, ma a un dato di fatto secondo il quale il poeta non
esitò, senza praticamente avere il sostegno di una tradizione
locale alle spalle, ad “inquinarla” con il mistilinguismo e con
i calchi di un signor Ciarla, così comici perché così aderenti a
situazioni sociali che allora in Sardegna non avevano quasi
mai fatto parte del registro tematico della poesia locale. Ciò
accadeva anche perché simili istantanee del presente erano
avvertite come estranee ai temi ammessi al Parnaso da parte
di poeti spesso volti alla contemplazione di un passato per lo
più mitico o a-storico ma che, secondo la tradizione alta locale, costituiva il soggetto principe della produzione in versi.
A tal proposito ci sembra opportuno richiamare il fondamentale contributo di Gianfranco Contini “Preliminari sulla
lingua del Petrarca”, ove lo studioso afferma che «se la lingua
di Petrarca è la nostra, ciò accade perché egli si è chiuso in
un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della
storia».33 Questa costante si è in qualche modo riflessa sulla lirica italiana tutta, dialettale compresa, ma secondo percorsi
propri di ogni realtà geografica e conseguentemente culturale,
come ha impeccabilmente messo in luce Carlo Dionisotti nella sua opera più nota. Secondo il grande italianista e filologo
dopo il 1374, anno della morte di Francesco Petrarca, «la grande poesia italiana vien meno … l’ambito della letteratura toscana si … municipalizza … e … allora si ha, per la prima
volta forse in Italia, una letteratura dialettale nel senso vero e
proprio della parola, fondata cioè sull’uso consapevole di un
linguaggio di rango inferiore».34 Il tradizionale disegno unitario desanctisiano (ma non solo) già posto in discussione da
Croce, si spezza definitivamente in frammenti, entro i quali è
più agevole assegnare ai dialetti e ai dialettali una dimensione
precisa e dove è finalmente riconosciuto il ruolo che essi hanno ricoperto nel lavoro di rinnovamento del linguaggio poetico e letterario tout court; ciò nonostante resistenze e lentezze
dovute anche al corso storico del Paese, a tutti ben noto. Si è
così aperta la possibilità di leggere la reale complessità di un
dialogo fra tendenze centripete e centrifughe di lunghissima
data, le cui tappe fondamentali sono costituite dalla codificazione cinquecentesca del Bembo e dall’Unità. In Sardegna
però, per vedere nascere quell’«uso consapevole» e oppositivo
del sardo rispetto alla lingua nazionale di cui parla Dionisotti,
bisogna attendere il pieno Novecento.35
33. Facciamo riferimento al saggio sopraccitato apparso con questo titolo in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 177. Esso
apparve per la prima volta nel ’51 sulla rivista Paragone e, col titolo
“La lingua del Petrarca”, nel volume collettaneo Il trecento, Firenze,
Sansoni, 1953.
34. C. Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura italiana”, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 40.
35. L’esempio principe e se vogliamo “estremo” di questa consapevolezza da parte di un poeta novecentesco si trova nelle parole del nuorese Antonio Mura. Esse, difatti, riassumono un po’ tutto ciò che, con le
necessarie astrazioni della critica letteraria, ci siamo dilungati a esporre
in queste pagine: «Ho usato il nuorese per la sua arcaica, rude bellezza.
In ogni modo, ho voluto scartare, per quanto possibile, ogni forma di
loqutio artificialis, aulica, eletta, com’è nella tradizione poetica sarda,
ed ho preferito servirmi delle forme linguistiche comuni e popolari
che, anche quando sembrano barbariche e anticlassiche, non perdono
mai una loro aspra e pietrosa autenticità. Quando … opportuno, per
non forzare il dialetto ho usato le forme italiane» [A. Mura, “Avvertenza”,
in Lingua e dialetto. Poesie bilingui, Nuoro, Edizioni Barbaricine, 1971,
p. XXXI, riedito a cura di M. Virdis col titolo Su birde. Sas erbas. Poesie
bilingui, Nuoro, Ilisso, 1998, con l’aggiunta di una sezione intitolata Poesie
28
29
Prefazione
Tornando al fenomeno mimetico-linguistico, col passare
del tempo esso sarà riassorbito entro il gusto del comico che
da sempre ha caratterizzato la connotazione di personaggi determinati dalla loro stessa parlata. Nel periodo pre-unitario, in
Italia, tale connotazione si risolveva solitamente nell’utilizzo
dell’una o dell’altra variante dialettale, a seconda dei tipi ritratti; questo avveniva con particolare evidenza nel teatro. In Mereu invece latino e sardo mescidato all’italiano denotano la
mancanza di suddetta caratterizzazione dei vernacoli nell’Isola. Di conseguenza il nobile, quando utilizza l’italiano, non
adopera il code mixing, evidentemente tipico di altre classi
sociali, come il militare o il reduce, per esempio, ma la sua
tipizzazione linguistica è meglio determinata dall’utilizzo di
alcune formule latine e da un logudorese fortemente italianizzato ma non scorretto, forse una sorta di variante urbana.
Ugualmente ciò accade per l’ecclesiastico,36 mentre ad altre
figure, il militare principalmente, è destinato l’uso di un italiano a dir poco improbabile, che il poeta doveva aver potuto
udire spesso nelle caserme. Ciò, si è detto, senza spingersi a
vedere in Mereu un ideologo del verismo in contrapposizione
all’aulicità della tradizione precedente. Semmai il nostro è un
poeta al passo con quanto accade nel panorama dialettale post-unitario, quando «alla passione e all’idealità risorgimentali,
con quanto di astratto e indeterminato comportavano, succede un atteggiamento più realistico … rivolto all’analisi delle
condizioni della nazione».37 E in questa «operazione di discesa
verso la realtà»38 si spiega anche l’adesione agli irriverenti canoni poetici di Stecchetti, fra cui il mistilinguismo, assai distante dal diffuso bozzettismo dialettale, ma anche immagini e
spunti tematici che possono spingersi fino ai calchi frastici. Si
pensi ad esempio ai vv. 85-86 di A Signor Tanu: «Odio cuddos viles istrozzinos / chi dan dinare su chentu pro chentu» e
al v. 17 di Anima niedda: «Prestas dinares su chentu pro
chentu», la cui origine è da cercarsi probabilmente in Postuma
XXIV. In morte di un molto reverendo strozzino, dove l’anima
nera, come Mereu definisce il suo prete mangia-ostie, è descritta «rubando al postribolo, / rubando al convento, / prestando al
suo prossimo / al cento per cento».39
In conclusione, per completare il nostro discorso sulla
dialettalità spontanea o riflessa riguardo alla poesia sarda
pre-novecentesca si può prendere spunto da Piazzaforte di
Orune, componimento redatto interamente in italiano.40 Pur
sommerse che raccoglie sedici componimenti esclusi dalla prima pubblicazione]. Rimandiamo inoltre all’introduzione al volume di Mura intitolata
significativamente Dialetto e cultura ad opera dell’editore Raffaello Marchi, riportandone solo l’ouverture: «Che senso può avere, oggi, un libro di
poesia sarda scritto da un autore colto, che avrebbe potuto tranquillamente poetare in lingua italiana, e che invece ha usato l’italiano come semplice
lingua di traduzione e questo “parlato” di Nùoro come prima lingua … ?
Ha un senso … polemico e forse persino provocatorio» (p. IX).
36. Segnaliamo l’interferenza sardo/latino ad uso comico in bocca ad un
ecclesiastico nel testo campidanese di discussa datazione intitolato Sa
scomuniga de predi Antiogu, arrettori de Masuddas, scritto probabilmente attorno alla metà dell’800 e apprezzato, fra l’altro, da Antonio Gramsci,
che ne chiede una copia alla madre in una lettera dal carcere di Milano
datata 27 giugno 1927 [cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S.
Caprifoglio e E. Fubini, Torino, Einaudi, 1965, pp. 99-100 (ma cfr. ibidem
anche la lettera del 3 ottobre 1927, p. 131, dove Gramsci cita a braccio
pochi versi dell’opera)], e da Max Leopold Wagner, il quale ne promosse una ristampa [cfr. Zeitschrift für romanische Philologie, LXII, 1942, pp.
225-262]. Sa scomuniga è stata riproposta di recente in edizione critica
per la cura di Antonello Satta, Cagliari, Della Torre, 1983, poi, con medesimo titolo e curatore, Oristano, Editrice S’alvure, 2002. In questo testo di quasi settecento versi stampato per la prima volta nel 1879 su un
foglio volante, le citazioni latine s’innestano su una variante di campidanese rurale in bocca al povero parroco di Masuddas, che le utilizza per
maledire con maggior efficacia i ladri del suo bestiame. Ciò avviene durante un’appassionata predica-requisitoria, che ci offre così un pastiche
linguistico e un esito comico assai interessanti per il discorso sui generi
della letteratura sarda in relazione al mistilinguismo.
37. F. Brevini, “La moneta di rame”, in Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Torino, Einaudi, 1990, p. 168.
38. F. Brevini, Le parole perdute cit., p. 169.
39. L. Stecchetti, Le rime cit., str. III, p. 46.
40. Riguardo a questa lirica, un verbale comico, e ai dubbi espressi dall’amico Duilio Caocci circa l’attribuzione a Mereu [“La poetica del controcanto. Note su un poeta sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1,
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31
Prefazione
se esso testimonia un accettabilissimo livello di conoscenza
di questa lingua da parte di Mereu, ancora una volta non si
può pensare né per lui, né per i predecessori (al limite, azzardiamo, si potrebbe ipotizzarlo per Montanaru, visto il livello d’istruzione, i maggiori contatti diretti col modo culturale
isolano e non e la coscienza politica) che potesse verificarsi
una contrapposizione “poesia in dialetto vs. italiano”; semmai
Piazzaforte di Orune va vista come controcanto rivolto ai
generi poetici tradizionali coi quali Mereu si confronta. Ha
ragione quindi Ivano Paccagnella a dire che «non si può discutere di scernimento di dialettalità in chi possiede l’unica
variante della propria Mundart».41
Pare ovvio, per le ragioni di cui sopra, che non si possa
da parte nostra concordare con l’inserimento di Mereu e Calvia da parte di Brevini entro il filone che egli definisce «orgoglio municipale [che] nasce dalla risentita reazione linguistica
e culturale degli stati della penisola di fronte al fissarsi di una
norma sentita come estranea».42 Rimarchiamo insomma la necessità di approfondire non solo storicamente la nascita del
logudorese illustre, ma anche le sue conseguenze a livello
d’intenzione comunicativa, in rapporto agli sviluppi più recenti della critica sul concetto di dialettalità spontanea e riflessa. Queste categorie interpretative, certamente utili da molti
punti di vista per capire una cultura complessa come quella
sarda, rischiano tuttavia di non poter includere nella griglia interpretativa che presuppongono le sfumature proprie di una
2001, p. 102, nota 26], che a noi pare invece verosimile la paternità del
poeta tonarese, in base alla coincidenza biografica del servizio prestato
da costui assieme a Eugenio Unale, suo caro amico esplicitamente
menzionato in Piazzaforte di Orune al quale, nella seconda delle due
liriche a lui intitolate, Mereu ricorda chiaramente la condivisione delle
ristrettezze della vita militare (A Eugeniu Unale, vv. 112-152). Oltretutto
non ci stupisce il fatto che la lingua sia l’italiano, soprattutto per l’intenzione mimetica che sottende all’utilizzo di tale codice.
41. I. Paccagnella, “Plurilinguismo letterario: lingue, dialetti, linguaggi”,
in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Produzione e
consumo, Torino, Einaudi, 1983, p. 111.
42. F. Brevini, “L’altra letteratura”, in La poesia in dialetto cit., tomo I, p. XC.
32
terra che, invece, mostra ancora una volta di avere peculiarità
difficili da valutare in comparazione con culture dominanti. E
se in effetti grandi frutti ha dato la ricerca demo-antropologica
nell’individuazione della poesia popolare dapprima, e nelle
sue caratteristiche formali poi,43 ciò non pare essersi ancora
verificato per quella forte attività riflessa, ossia ‘non popolare’,
che caratterizza la grande parte della produzione letteraria locale. Ciò che ci preme è soltanto la necessità di uno statuto
peculiare alla disamina critica di questo evidente fenomeno,
se lo si vuole collocare correttamente entro la riflessione su
volgari regionali, dialetti e produzione letteraria che, dal De
vulgari eloquentia ai giorni nostri, ha tracciato con spunti illuminanti da parte di autori e studiosi troppo noti per essere
enumerati al lettore, la storia linguistica e artistica italiana.
Allora bisogna cercare di capire, ad esempio, qual è il
ruolo che possono occupare i componimenti mistilingui o in
lingua italiana del poeta tonarese all’interno della nostra riflessione, per passare poi in rassegna quelli più propriamente “tradizionali”, premettendo quale condizione necessaria
che «la compresenza di più lingue in una comunità comporta, con l’uso alternativo dei codici, fenomeni causati dalla
commutazione e dalla mescolanza di codici».44
L’argomento, accennato da Duilio Caocci e analizzato nello specifico da Giancarlo Porcu nell’ambito della commutazione di codice all’interno dei rispettivi articoli su Mereu più volte citati, merita di essere qui approfondito in base ad una
ulteriore distinzione fra code switching e code mixing, ossia
fra ‘commutazione di codice’ e ‘mescolanza di codice’. Con
questo distinguo intendiamo descrivere rispettivamente una
situazione linguistica in cui si verifica un passaggio da un codice all’altro (italiano/sardo e viceversa) che nel caso del code
43. Si veda su questo argomento almeno l’efficace sintesi storica di
A.M. Cirese, Poesia sarda e poesia popolare nella storia degli studi, dapprima uscito in Studi Sardi, a. XVII, 1959-1960, poi rist. anast. Sassari
1961, e, infine, rist. anast. Cagliari, 3T, Gianni Trois Editore, 1977.
44. I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri alla fantaria. Lettere dei soldati nella
Grande Guerra, in Officina Linguistica, a. II, n. 2, dicembre 1998, p. 9.
33
Prefazione
switching, avviene attraverso l’osservanza delle regole di
ognuna delle lingue che si utilizzano di volta in volta (cfr. supra p. 18, nota 16), mentre nel code mixing si verifica da parte del parlante una mescolanza di codici per lo più inconsapevole, dalla quale scaturisce l’effetto comico che Mereu, nel
nostro caso, intende raggiungere.
Precisiamo che l’interferenza – a parte la corruzione dell’anglicismo dum-dum > dumu-dumu in Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu – avviene fra sardo, latino e italiano (abbr. s., l.,
i.) e che, com’è ovvio, non si tiene conto in questa disamina
dei numerosi italianismi penetrati nella poesia sarda in numero
considerevole, sulla base dell’individuazione di una differente
intenzionalità linguistica. Inoltre nella princeps è stato adottato
un distinguo tipografico secondo il quale, nei casi di commutazione e mescolanza di codici, i vocaboli o sintagmi non sardi
sono stati differenziati tramite carattere corsivo, secondo il costume editoriale dell’epoca. Naturalmente vi sono casi dubbi
nei quali tale distinzione è assente – ad esempio «e, tra parentesi,» (v. 37) o «miseria stabile» (v. 100) in Lamentos d’unu nobile, ma essi sono spiegabili come forme italianizzanti di un
linguaggio poetico che le concepiva parte integrante di sé o le
tollerava e adottava per necessità di rima e che, perciò, non
avevano valore ai fini espressionistici. Ciò spesso non era concepibile nel parlato. Pertanto saranno riportati solamente casi
come quello di A Nanni Sulis, dove «a sicut erat» è giustamente distinto in quanto latino (evidentemente il corsivo della a
non sarebbe necessario), mentre «su rapio rapis» (v. 85) è in
carattere ordinario, probabilmente per svista di tipografo che
di conseguenza è stata emendata. Di seguito le liriche di Mereu che presentano fenomeni d’interferenza:
Lamentos d’unu nobile [s./l./i.]
Solferino! [s./i.]
A Nanni Sulis [s./l.]
Caresima [s./l./i.]
In Conziliatura [s./i.]
A Ernesto Mereu [s./i.]
34
Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu [s./i.]
Signora maestra [s./i.]
Sas giarrettieras [s./i.]
Risposta amorosa [s./i.]
In base alle due definizioni di cui sopra sarà possibile
chiarire la tecnica utilizzata dal poeta per poter ricavare l’effetto comico-espressionistico che spesso sottende a tali procedimenti.
Partendo dal primo componimento, Lamentos d’unu nobile, ripetiamo che l’interferenza s./l. a nostro parere si deve
attribuire all’influenza del Giusti, in quanto il poeta toscano
era solito utilizzare tale commistione linguistica nelle stesse
sue caratteristiche strofe di quinari, che Mereu riprende (cfr.
la “Classificazione metrica”, p. 91). Il valore poetico dell’uso
delle formule latine è legato ad un linguaggio che connota il
passato, ipostatizzato dalla nobiltà, che si avvaleva di un formulario ormai vuoto e privo di sostanza.
In questo componimento si potrà parlare di code switching sia per la fase s./l., sia per quella s./i., poiché la commutazione di codice avviene nel rispetto delle regole di entrambi.
s./l.: «Per omnia sæcula / ba’in ora mala» (vv. 3-4); «In
diebus illis / m’has fatt’onore» (vv. 5-6); «In illo tempore, /
cando tenia» (vv. 25-26).
s./i.: «Mi ’ettat in cara: / Ricchezza mobile» (vv. 95-96);
«Lei, Cavaliere, / poveru gai?» (vv. 103-104); «Quindi, pazienza / tenzant pro como» (vv. 109-110).
«Miseria stabile» (v. 100) è, come detto prima, uno di
quei casi in cui l’italiano pare integrarsi nel tessuto linguistico dominante, costituito da un sardo probabilmente urbanizzato, così da non essere percepito come estraneo, quindi
connotato tipograficamente.
Il caso di Solferino! è più complesso, in quanto nel sonetto sono presenti entrambi i tipi d’interferenza: i due personaggi, Pedru e il padrino Francesco intavolano una discussione a
35
Prefazione
partire dalla battuta in italiano del primo – anche se l’Ebbè iniziale ha un forte sapore dialettale – che dà il via ai ricordi di
guerra del secondo, già peraltro predisposto ad utilizzare il
suo personalissimo italiano dalla situazione linguistica instauratasi col suo interlocutore. Inoltre, proprio la guerra, come il
militare, costituisce una base più che propizia per effettuare
tali esperimenti linguistici, vista la commistione di lingue che
si verificava fra i soldati provenienti dalle diverse regioni d’Italia e che diede vita a una «koinè popolare interdialettale», come la definisce De Mauro, che consentiva per lo meno la mutua comprensione.45
Entrando nel merito dei singoli versi, si nota nelle quartine una disposizione dei «fenomeni di code switching … riferiti in modo da restituire sensibilmente l’idea d’inserto, con
quel sigillare, entro la quartina, l’enunciato sardo tra due asserzioni in lingua, marcandone i confini con la rima».46
Ecco i vv. 1 e 4 in italiano (AA), inframezzati da due versi in sardo, 2 e 3 (BB), connotati dal corsivo. Lo schema rimico è ABBA, valido anche per la quartina successiva.
i./s.: «“Ebbè, come la va, signor Francesco?” / nesit Pedru
passend’in su camminu, / “semus a s’orizzont’e su destinu: /
vieni figlioccio che prendiamo il fresco”».
Vv. 5, 8: «“Ti voglio raccontar, se ci riesco, /… /… / come fuggì l’esercito tedesco”».
Al code switching delle quartine segue, nella prima terzina, il code mixing:
«La notte che ci avevano attaccati / zunchiavano le balle
sulla testa / come fanno i calleddi appena nati».
La dialettalità in funzione comica nell’interferenza i./s. è
accentuata in particolare da composti quali zunchia -va -no,
ball -e, calledd -i (centometro deriva dall’italiano centimetro
+ chilometro), creati dall’unione del morfema lessicale sardo
+ la terminazione italiana, che danno la misura di una personale koinè militaresca utilizzata dal reduce.47 Infine si veda
la nota 29, apposta da Sulis al sonetto.
Per A Nanni Sulis, la lirica più celebre del poeta, vale lo
stesso discorso fatto sopra per le formule latine di Lamentos
d’unu nobile: anche in questo componimento esse danno voce al rimpianto del passato da parte del nobile, simboleggiato
dalla lingua morta delle frasi fatte. Nel caso di rapio rapis si
ricordi che il soggetto logico è significativamente «s’avvocazia»
(v. 75), ma in questo caso al lemma è affiancata una scolastica
declinazione che rifà il verso alle formule dietro cui la classe
sociale dell’avvocatura, secondo il poeta, è solita trincerarsi.
l./s.: «A sicut erat / non torrat mai» (vv. 3-4, 133-134).
s./l.: «Intrat in ballu / su rapio rapis» (vv. 84-85).
Caresima è un componimento che ha un fondo tipicamente anticlericale, d’impronta scapigliata, e che si compiace del
falso pentimento per la vita libertina condotta in precedenza,
pentimento che può esser finto come in occasione di un dibattimento in tribunale (vv. 69-76), dato che bastano poche formule per fare «sa lissi’a sa cussenzia» (v. 63) e che si può perfino «esser purgadu / senza su sal’inglesu!» (vv. 67-68). Pertanto
ecco comparire il code switching s./l.: «Su preid’oe narat: “Ses
de terra, / Pulverem reverteris”» (vv. 11-12), parole definite
«faeddos misteriosos e fatales» (v. 13) pronunciate dal prete e
che dovrebbero ammonire la popolazione. Naturalmente il
45. Lo stesso studioso, in Storia linguistica cit., pp. 106-107, aggiunge
che «il servizio militare … allontanando per un certo periodo gli individui dai luoghi di origine … ha concorso ad indebolire le tradizioni dialettali … l’uso costante dell’italiano era però eccezionale nell’esercito
immediatamente postunitario anche fra gli ufficiali … ancora al tempo
della prima guerra mondiale … l’uso del dialetto era consueto».
46. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., p. 60.
47. Zunchiavano è un rifacimento su tzunchiai = ‘mugolare del cane’
[cfr. M.L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo (d’ora in poi DES), Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag, 1962, s.v. qunkiare]; balle su
ballas = ‘palle’, quindi ‘proiettili’; calleddi equivale a ‘cagnolini’, ‘cuccioli’. Simili composti traggono origine da procedimenti tipici di quella
variante d’italiano interferito col dialetto che nell’Isola è chiamato popolarmente porcheddinu, «che potrebbe essere denominato anche ‘dialetto italianizzato’» [I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri cit., p. 14].
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37
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Prefazione
poeta dà a questa, come ad altre formule consimili, un peso
morale nullo, tant’è che nella strofa successiva l’effetto ammonitore delle sue parole è spento da quel pensare di essere terraglia, ‘vasellame’, e di poter scendere a patti con la fragilità
umana, che porta a peccare, semplicemente con l’apporre sulle
proprie spalle un cartello che reca scritta un’altra formula, fra
sardo e italiano per esigenza di rima: «Vetro-posa pianu» (v. 20).
Stesso discorso per «s’eternu mea culpa» (v. 24), atto di
pentimento smentito con continue allusioni in tutto il testo.
La serie di sonetti A Ernesto Mereu è affine nello spunto
linguistico a Solferino!, in quanto l’occasione parodistica è
data dal ritorno di Ernesto, «sergente in su Geniu», al paese
natio. Egli si esprime in quel linguaggio militaresco che abbiamo descritto in precedenza e che Mereu dovette conoscere bene, vista la sua permanenza nell’Arma dal ’91 al ’95.
La questione è toccata esplicitamente nel sonetto [IV] e il mistilinguismo si concentra nell’ultima terzina:
«Como chi prallas tottu talianu, / finas a frade tuo naras:
“Voi, / sardo molente, non capisci miga! ”» (vv. 54-56).
Prallas è forma metatetica sardizzante < italiano parlata
> prallata > prallare; talianu, con l’aferesi della i – forse un
rifacimento sul veneto – e il prolungamento della fonesi dovuto alla iatizzazione che rende la parola quadrisillabica, assume una sfumatura spregiativa. L’ultima frase è tipica di un
repertorio diffuso fra le truppe, in cui si evidenzia l’improbabile anacoluto Voi :: non capisci, con quel miga a suggello,
quale tipica esclamazione connotante personaggi simili.
Da notare è il fatto che il “mimetismo dialettale” – «la facilità con cui il meridionale è individuato attraverso il suo comportamento linguistico» di cui parla De Mauro a proposito dei
«pregiudizi etnici contro i meridionali che abbandonano il
Sud»48 per andare a lavorare nelle industrie del settentrione –
mostra in Mereu l’altra faccia della medaglia: Ernesto, al suo ritorno, è fatto oggetto del mimetismo perché ha dimenticato la
48. T. De Mauro, Storia linguistica cit., p. 87.
38
sua lingua, oltre a non padroneggiare neppure l’italiano. Perciò è rimproverato in questo modo: «Dae cando ses benidu /
non has bettadu faeddu in derettu. // Has lassadu su tou dialettu, / de varios limbazos ses cundidu» (vv. 45-48). Egli rappresenta non solo l’emigrato privo di contatti con la nuova
realtà che lo ospita, ma anche colui che perde in certo qual
modo l’appartenenza, linguistica in primis, alla comunità d’origine. Si tratta, insomma, di un piccolo riassunto delle spaccature della società post-unitaria.
Da notare è anzitutto la presenza del code mixing, suddiviso però fra una sorta di discorso indiretto libero che rifà il
verso al linguaggio del soldato: «Como chi prallas tottu talianu» e il discorso diretto «naras: “Voi” …». Inoltre è presente
non solo il dato lessicale relativo all’italiano militaresco di cui
sopra, ma anche quello sintattico, con l’anacoluto Voi :: non
capisci di cui sopra, espediente che, fra l’altro, sarà ripreso
anche nel sonetto In Conziliatura. Infine, è da sottolineare
l’espressione tou dialettu, forma certamente colta e italianizzante, che connota il sardo come prima lingua di Ernesto, rispetto all’incalzante e nuovo talianu, almeno per quanto riguarda la lingua d’uso. Allora con «non has bettadu faeddu in
derettu» e «duos faeddos non pones in liga» Mereu si riferirà
alla mancanza di competenza in entrambi i codici, esprimendo così lo spregio nei confronti della commistione linguistica
adottata dal nostro sergente, non della sostituzione del “dialetto” a favore dell’italiano.
In Conziliatura prende l’avvio da un’altra situazione in
cui il confine lingua/dialetto non poteva essere tenuto separato, poiché i burocrati «dai trasferimenti sono stati costretti
ad abbandonare … il dialetto d’origine e diffondere un tipo
linguistico unitario».49 Naturalmente Mereu, che ebbe occasione di lavorare per la Conciliatura del proprio paese, non
perde l’occasione di ritrarre in modo più che riuscito le difficoltà che insorgevano al momento dell’utilizzo di un gergo
49. T. De Mauro, Storia linguistica cit., p. 105.
39
Prefazione
tecnico in italiano da parte dei dialettofoni e che, dopo il code switching i./s. tutto sommato “innocuo” del v. 5 («state zitto! Mi cherzo rispettadu»), esplode nel code mixing della terzina conclusiva:
«Questo non prallate, giudico io, / stia zitto, se no condanno ad Ello, / e poi vi faccio vedere cosa sono!», dove una concordanza a senso come prallate :: stia zitto è elevata al quadrato dal cultismo latineggiante del pronome Ello,50 con l’ultimo
verso vagamente ellittico – da notare l’utilizzo del pronome
cosa per il più corretto chi – che suggella la fumosità del linguaggio giuridico, in cui le voci degli attanti appaiono confuse
quanto i ruoli che essi dovrebbero ricoprire istituzionalmente.
Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu, nuovamente un sonetto, presenta insieme caratteri di slittamento e giustapposizione di codice, ancora una volta legati ai ricordi di guerra:
dopo un attacco in italiano corretto si ha subito il code switching i./s. al v. 2 («sì, caro mio, sono stato in guerra, / de
maccarrones nd’happo bidu fumu»). Ai vv. 3-4 si verifica il
code mixing («avevo freddo e mi corcavo in terra / allora non
conoscevo neanche il rumu»).
Il code mixing, evidenziato dal corsivo, prende il sopravvento ai vv. 5-6 della seconda quartina: «Cando le balle si
chiamavan prumu / spaccavano una zudda perra perra»,
mentre ai vv. 7-8 si ritorna al code switching s./i.: «E beneminde ballas dumu dumu, / porcherie inventate in Inghilterra».
La prima terzina prosegue con questo espediente: «Io sì
che ne ho visto di disastri / reduidu a peus de una belva /
pro fagher una e libera s’Italia», mentre i versi conclusivi dovrebbero essere tutti in italiano, se non fosse per quel selva,
dove si verifica il passaggio r > l per ipercorrettismo attribuibile a quel fenomeno che porta i dialettofoni privi di padronanza dell’italiano ad utilizzare dei vocaboli che al loro orecchio sembrano escludere la possibilità del code mixing. Si ha
insomma l’inibizione del suono [r] a causa della connotazione “regionale” che ad esso è attribuita e che, nella sua varietà
d’italiano interferito, diverso «rispetto al fenomeno che sta alla base della varietà dell’italiano regionale»,51 è sentito come
diastraticamente connotato verso il basso, quindi poco tollerato in Sardegna, soprattutto da parte degli italofoni.52 Il contrario accadeva nel citato sonetto Il lupo e il miritare, dove
invece è stato marcato con intento parodistico il suono sentito come locale; in questo caso però non si può parlare di code mixing, in quanto la voce del narratore, che coincide con
l’autore implicito, ha coscienza dell’interferenza e non sussiste alcun tentativo di mimesi da parte sua. Si può dire che a
livello di lessico le neoformazioni create dall’interferenza sardo/italiano sono corcav -o e selva; rumu e dumu dumu sono
ovviamente forestierismi addomesticati. Per il resto si utilizzano inserti in dialetto all’interno di frasi in italiano.53
Una breve notazione sul personaggio di signor Ciarla, che
ricorre in due sonetti: il suo nome deriva da ciarlare, voce
onomatopeica per ‘chiaccherare’, (sardo tsarrare o čarrare),
in modo tale che egli risulti pesantemente connotato già a partire da questo primario elemento identificativo, il nome appunto. Difatti Mereu fa riferimento all’abitudine che egli attribuisce
al personaggio in questione di utilizzare l’italiano “traducendolo” a sua volta dal sardo, senza possederlo a sufficienza. Signor Ciarla rappresenta un personaggio tipizzato, che incarna
50. Ello potrebbe anche essere una corruzione intenzionale del più corretto pronome di 3a persona ella.
51. I. Loi Corvetto, “La Sardegna”, in I. Loi Corvetto, A. Nesi, La Sardegna e la Corsica, Torino, Utet, 1993, pp. 88-89, pubblicato nella collana
“L’italiano nelle regioni”, a cura di F. Bruni.
52. Cfr. I. Loi Corvetto, Dai bressaglieri cit., pp. 17-20.
53. Corcavo < sardo corcare (*COLCARE): è forma sincopata, per influsso
dialettale, per ‘(mi) coricavo’; rumu è un forestierismo, come detto, dove
è stata aggiunta una u epitetica per la nota avversione nei confronti delle
finali di parola consonantiche propria tanto del sardo quanto dell’italiano,
oltre che per esigenza di rima con fumu; cando sta per ‘quando’; prumu
= ‘piombo’; zudda = ‘setola’ (etimo incerto); perra perra = ‘per metà’ (cfr.
DES, s.v. pèrra1); dumu dumu = ‘dum dum’ < Dumdum, località nei pressi di Calcutta. Si tratta di proiettili a frantumazione incisi a croce sulla punta e fabbricati a Calcutta, per l’appunto, alla fine dell’Ottocento.
40
41
Prefazione
il parlante incolto e risibile che il poeta però, sufficientemente
istruito per poter cadere in simili errori, non doveva vedere di
buon occhio (cfr. la critica presente in A Ernesto Mereu). Anche il figlio è definito ciarlatanu, ossia ‘chiacchierone’, ‘logorroico’, e lo stesso Mereu utilizza il vocabolo con questa accezione in A Eugeniu Unale [I], vv. 191-193: «Deo t’happ’a iscrier
frequente / fin’a mi narrer maccu e infadosu, / ciarlatanu, seccant’e imprudente» [cfr. DES, s.v. čarlatánu].
Signora maestra tocca un altro tasto dolente dell’Italia
post-unitaria: quello dell’istruzione, cui abbiamo già accennato in precedenza. In questo caso la confusione è dovuta
all’interferenza fra codici in un paese che conosceva un largo utilizzo del dialetto nelle scuole, sia da parte degli alunni,
sia dei maestri, tollerato in Sardegna già ai tempi del governo sabaudo.54 Nella prima strofa (vv. 1-6), a partire dall’italiano dei primi due versi, l’endecasillabo al v. 3 («no isco si
cheret emma maiuscola») introduce il code switching, cui segue il code mixing di bibanda < sardo bibere = ‘bevanda’,
dove l’interferenza del sardo dà origine ad una neoformazione che non è difficile udire ancora ai giorni nostri, ma che
fuoriesce dalla bocca della maestra, fatto per allora non certo inverosimile. A parte il date attenzione al v. 10, che sembrerebbe un calco dal sardo per l’utilizzo di dare in luogo di
fare, si deve giungere al v. 30, dove cioè ha inizio la sequenza di cognomi che segna il ritorno al sardo: «Gavina Pibiu: / A su riu. / Luciana Gasparra: / A sa giarra. / Marianna
Frisciola: / Cussa na’ chi non torrat a iscola» (vv. 30-35).
La commutazione di codice i./s. conclude la poesia nella
quartina finale, dove a due versi in italiano ne seguono due
in sardo, a rima baciata come nella strofa precedente.
Sas giarrettieras è il secondo sonetto dedicato a signor
Ciarla ed è strutturato in maniera più complessa rispetto ai
componimenti esaminati in precedenza. Alla voce narrante
che occupa le prime due quartine segue la domanda di un
toscano, in forma diretta, che chiede ragione di una melodia
descritta con toni volutamente elegiaci: «Canticu lontanu»,
«armonia de boghes», «trillos de puzoneddu in su beranu»
(vv. 6-8), in previsione del brusco abbassamento di registro
successivo dovuto ai tre versi finali, quando giunge al primo
interlocutore la sconclusionatissima risposta del nostro:
«Quelle lì son le donne giarrettiere, / cantano, poverine,
ma la giarra / è a sessanta centesimi il montone» (vv. 12-14).
In questo caso è particolarmente riuscita l’operazione di
code mixing, per il fatto che, come dice Giancarlo Porcu, «il personaggio mereiano ha ritenuto, partendo da giarra (‘ghiaia’), di
derivarne un sostantivo indicante quelle donne del paese che,
accompagnandosi col canto, lavorano la ghiaia».55 Inoltre
montone < sardo muntone, sta per ‘mucchio’, con passaggio
u > o che “giustifica” l’adozione del vocabolo.
Da ultimo segnaliamo il code switching di Risposta amorosa, dove la pastorella, secondo la parodia dell’omonimo genere, dà cruccuriga (‘zucca’, quindi ‘rifiuto’) al cavalier Fromigadizzu, nobile al quale si conviene la lingua ufficiale.56
L’italiano apre la strofa per tre volte (cfr. i vv. 1, 9, 37), col fine di innalzare comicamente il registro, per abbassarlo però
col sarcasmo canzonatorio che pertiene alla connotazione diastratica del sardo, che dà voce alla saggezza del popolo, come traspare ben chiaro dai vv. 17, 26.
Prevale il code switching effettuato attraverso la separazione dei versi, a parte un caso di mescolanza all’interno
dello stesso verso («e lei è spasimante pro sa doda», v. 20):
54. «L’impiego delle varietà dialettali nell’isola non viene ostacolato, ma
anzi si caldeggia il ricorso al dialetto, nella pratica didattica, quale ‘ponte’ verso l’apprendimento dell’italiano» [I. Loi Corvetto, “La Sardegna
plurilingue e la politica dei Savoia”, in Lingua e letteratura per la Sardegna sabauda. Tra ancien régime e restaurazione, a cura di E. Sala
De Felice, I. Loi Corvetto, Roma, Carocci, 1999, p. 64]).
55. G. Porcu, “In Conziliatura” cit., pp. 60-61.
56. Quest’ultimo utilizza l’italiano solo al v. 12 di Proposta amorosa, ma
quel «o signorina senta» può essere visto come un italianismo ammesso
nella koinè urbana utilizzata da simili personaggi, appartenenti alla nobiltà decaduta.
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Prefazione
«Signor cavaliere, / eccomi a cumprire su dovere» (vv. 12); «Lei lo sa che sono pastorella, / tottu canta sa mia parentella» (vv. 9-10); «Cavaliere carissimo, capita; / a mie deghet
unu cun berritta» (vv. 21-22); «Fromigadizzo caro, / col massimo rispetto mi dichiaro / de fostè …» (vv. 37-39).
Da questa breve panoramica si può quindi notare come
l’esperimento linguistico in Mereu giochi un ruolo assai importante, ma non disgiunto da quella tensione ad aderire al vero
che caratterizza le liriche espressamente “impegnate” e che qui
assume i toni propri del mimetismo e del plurilinguismo.
Naturalmente la sua poesia non è solo questo e non va
sempre “contro”, ma accoglie in sé numerosi tratti della tradizione locale, ben evidenti, ad esempio, in prove quali A Tonara, come detto. Difatti versi come «hant sas melas / provocantes de sinu, / sutta su velu de candidu linu. / Issas parent
lizos, / biancas, bellas, robustas e sanas» (vv. 158-162) non
possono non richiamare alla mente le più classiche immagini
di bellezza muliebre ripetute infinite volte nella poesia logudorese. Tutto ciò non dev’essere però visto come il segno di una
qualche disomogeneità all’interno del corpus, semmai si tratta
della oggettiva presenza nel poeta di un immaginario e di formule praticamente imprescindibili dall’atto poietico, al quale
però Mereu mostra altrove di volersi contrapporre, probabilmente con costanza sempre maggiore in rapporto alla sua maturazione artistica e culturale e in seguito alla selezione dei
modelli cui si è già accennato. Queste due fasi fanno sì che il
poeta di Tonara si ponga nei confronti della poesia a lui coeva
in una posizione se vogliamo di sfida, ma con una attestazione
forte della stessa nella sua produzione, fino a casi ecclatanti
come quello della lirica summenzionata, ma che si potrebbe
rilevare frequentemente anche in altre, come ad esempio in
Non ti poto amare, un po’ di maniera, o Unu ballu in maschera. Talvolta invece, la presenza del filone aulico è funzionale,
come tenteremo di spiegare nel paragrafo seguente, alla sua
messa in discussione attraverso il contrasto con la linea “bassa”, conformemente con quanto accade nel panorama dialettale post-unitario. In definitiva Mereu sembra vivere un buon
rapporto col passato, in quanto ne usufruisce con certa libertà
– non potrebbe essere altrimenti – senza però subirlo acriticamente, riuscendo così a plasmare questo patrimonio secondo
le esigenze del suo personalissimo stile, del resto ancora in fase di formazione. Ciò che stupisce piacevolmente è la selezione severa del materiale ereditato che egli accoglie, sintomo di
un gusto ed una acculturazione non facilmente riscontrabili in
un giovane ventenne con pochi anni di scuola alle spalle.
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Una poesia “di confine”
Si è già accennato qui e nella “Classificazione metrica” a
questi due concetti che, per i loro caratteri costitutivi, ci porterebbero assai lontano e richiederebbero una trattazione a parte per poter aspirare lontanamente all’esaustività. Più volte è
stato messo in evidenza l’influsso di Giusti, Stecchetti e delle
«esperienze della poesia scapigliata o pre-crepuscolare»57 nei
temi della malattia per la tisi di Moribunda (si pensi a Lorenzo Stecchetti, che sarebbe un cugino tisico del Guerrini), l’anticlericalismo, certa tensione all’eros e alla necrofilia ecc.
La diffusione di questi modelli nell’Isola contribuì all’inserimento di quest’ultima all’interno delle correnti culturali “nazionali”, pur se avvertiamo la necessità di ricordare che non
sempre in poesia il nuovo è sinonimo di positivo, come pure
lo sguardo rivolto alla tradizione non dev’essere necessariamente bollato come “ritardo”. Ciò per evitare di considerare
quest’ambito di studi secondo i medesimi parametri di certa
critica di stampo desanctisiano ormai, ma non del tutto, superata, che vede la letteratura – come anche, ad esempio, la storia o in generale l’avvicinamento alla lingua nazionale – come
un progressivo miglioramento dall’antichità ai nostri giorni, e
che ha emarginato il mondo dialettale soprattutto dalle antologie, potentissimi media di divulgazione. D’altronde, anche
per riprendere quanto detto all’inizio di questa prefazione, la
57. G. Pirodda, “L’attività letteraria tra Otto e Novecento”, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità d’Italia a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Torino, Einaudi, 1998, p. 1092.
Prefazione
questione del “ritardo” appare ribaltata se si analizza Mereu in
un’ottica interna alla poesia sarda: egli difatti giunge a una
rottura delle griglie d’interpretazione dei precedessori data
dall’immissione di modelli, temi e linguaggio poetico attuali,
che lo portano ad un abbassamento di registro rispetto alla
consueta produzione poetica locale. Ciò si può inferire dalla
decisa e talvolta brutale satira ma, più spesso, dalla consapevole commistione di generi e forme.
Nella varietà di argomenti e registri toccati dal corpus mereiano, ci sembra di poter individuare una delle caratteristiche
costitutive più importanti della poesia del nostro. A Mereu
piacciono le “zone di contatto” fra un genere e l’altro, la
commistione appunto, che gli consente di liberare al massimo l’estro poetico e di ampliare le tonalità linguistiche, spesso a fini dissacratori. Egli, nonostante l’immagine che si evince dalla sua condizione di povero reietto, conserva un fondo
comico che, se nella silloge del 1899 appare contenuto da
una comprensibile selezione del materiale poetico, tuttavia vi
appare già ben evidente, per accentuarsi poi nella restante
produzione, di derivazione prevalentemente orale. Dice bene Duilio Caocci quando parla per Mereu di una «lunga tradizione comica e “realistica” esercitata al controcanto»,58 né
si può e si deve pensare a costui come a un poeta di totale
rottura, fatto comunque impossibile, come ci insegna la teoria della letteratura, nei confronti della tradizione locale a lui
precedente: basti pensare ad esempio al forte influsso di
Melchiorre Murenu sul nostro, riscontrabile in una delle liriche mereiane più note per la forte carica di protesta sociale
che vi è insita, cioè A Nanni Sulis [II].
Nella descrizione mereiana del povero che ruba per sostentamento («mentres chi unu poveru appretadu / furat pro
s’appititu unu cogone, / lu ’ides arrestadu e cundennadu», vv.
97-99) contrapposta a quella dei ricchi che, invece, possono
costruire interi «palattos fraigados / dae sa man’infam’ ’e sa
rapina» (vv. 103-104), non possiamo non vedere il Murenu di
58. D. Caocci, “La poetica” cit., p. 96.
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Amigu ’e sos affannos,59 quando l’aedo macomerese dice che
il povero «furat una pitticca bagattella / pro tenner su sustentu in porzione / li giurat su riccu una carella / e che finit sos
ossos in presone» (str. 8), mentre «su riccu hat a furare iscudos chentu / e no bi l’ischit nessuna pessone. / Su poberu si
furat su sustentu / li naran chi est pubblicu ladrone» (str. 9).
E ancora, si veda in Mereu l’immagine del povero che
elemosina il pane al ricco: «Miserinu su c’andat pedidore / a
pedir’unu bicculu ’e pane / a su gianile de calchi segnore. /
Su riccu dàt biscottos a su cane, / e a su poveru narat: “Preizosu, / trivaglia, e dae me istad’addane” // … tottu sos poverittos sunt mandrones / pro sos attattos, ca no hant connotu /
famen, affannos e afflissiones» (vv. 115-120, 124-126) e la si
confronti con alcuni versi della stessa Amigu ’e sos affannos
di Murenu: «Sos miseros de benes e de pannos / pro chi sian
astutos, paren tontos [str. 2] // … sempre ch’andat s’afflittu
birgonzosu / a domo de su riccu ingratu e feu … / ei su riccu artivu, potentosu, … / a lu lassare reu hat da usanza; /
non li narat: né sezze, né avanza» (str. 3).
In effetti Mereu non è inscrivibile, se non in piccola parte,
entro il filone dei dialettali che si rifanno a una tradizione
“maggiore” pressoché fissa e ben determinata come ad esempio l’Arcadia per i suoi numerosi seguaci nell’Isola, fra i quali il
più noto è certamente Paolo Mossa. Il poeta tonarese inevitabilmente segue, come detto altrove, dei modelli, ma la ribellione nei confronti della tradizione sta proprio nella selezione di
essi e nella rielaborazione dei temi trattati. In breve, se si guarda non alle singole liriche ma si assume una visione d’insieme,
si nota quella già accennata commistione fra opzioni poetiche
contrastanti che ne fa senz’altro un autore complesso, non
sempre inquadrabile con etichette che, per forza di cose, ne
sacrificherebbero taluni aspetti, pur importanti. E l’esperienza
insegna che, spesso, proprio fra i dialettali l’attitudine al multiforme, all’adesione nei confronti di un reale escluso dalla
59. Citiamo da M. Murenu, Tutte le poesie, a cura di F. Pilia, Cagliari,
Della Torre, 1990.
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Prefazione
poesia ufficiale, risulta una delle caratteristiche più diffuse. Naturalmente non si parla solo di ribellione ai generi, ma anche
alla cultura e alla lingua che essi rappresentano, e in questo
Mereu si dimostra assai aggiornato, soprattutto nel dosare la
sua tecnica contrastiva ad uso comico, in una frequente altalena fra “alto” e “basso”. Egli difatti appartiene a una stagione
poetica che è definibile, con Brevini, comico-realistica,60 quando cioè, fra ovvie sfumature, si verifica il passaggio dalla dialettalità intesa come sinonimo di comicità o folklore ad una interpretazione della realtà che, pur non privandosi del riso e
dei soggetti “bassi”, tende ad essere aderente ad essa, e non
disimpegnata o fine a sé stessa. Tale stagione inizierà a sfumare invece con Antioco Casula, poeta che si distanzierà progressivamente dalla tradizione comico-mimetica per abbracciare
una linea “alta”, verificabile anche nella metrica, tendente all’effusione dell’io lirico, spesso collocata in ambienti naturali e
domestici fortemente connotati in senso localistico, che implicano il vagheggiamento del passato e appaiono profondamente intrisi di nostalgia, senza trascurare in questo processo l’influsso di Sebastiano Satta e del decadentismo.
Per tornare alla mescolanza di generi, temi e registri cui
si accennava in precedenza, si pensi ad esempio a un componimento come Caresima, apparso nella princeps e nel
quale si passa dalla commistione linguistica fra sardo e latino a quella dissacratoria di cibo – che simboleggia il senso
di colpa – e religione, il cui vuoto concettuale è rappresentato dalle inutili formule latine. Nel complesso Caresima suscita certamente il riso, ma con altri intenti sullo sfondo che
non quello superficialmente comico. Inoltre, ad illustrare il
beghinismo ipocrita dei penitenti durante la quaresima bastano i fitti elenchi di cibi, tutt’altro che poveri e umili, ai
quali “rigorosamente” essi devono attenersi, dato che «suni
baranta dies de dieta … / su pisch’est permittidu, de sa peta
/ assolut’astinenzia» (vv. 29-32).
Bisogna chiarire però che l’anticlericalismo del Mereu non
fu “di maniera”, e che non fu neppure contestazione meditata
della verità della Scrittura, anche perché egli stesso si premura
di dichiarare apertamente il proprio credo in Su testamentu:
«Deo non so marranu e creo in Deu / prîte m’han’imparadu a
l’istimare / dae minore mamma e babbu meu. // Però sos corvos los lasso bolare / bestidos de terrena finzione, / manc’a
mortu nde cherzo fentomare» (vv. 25-30).61 In questa excusatio
ci pare si possa intravedere quel fenomeno che riguardò poeti
come Porta e Belli, secondo il quale «gli autori si sono … affrettati a giurare che se la pagina è lasciva la vita è però proba».62
Ci pare opportuno sottolineare definitivamente che la chiesa in Mereu non appare come istituzione di potere da abbattere
in funzione del riscatto delle masse contadine, come si dovrebbe abbattere qualsiasi potere “lobbistico”, secondo quanto propugnato dalla corrente socialista di quegli anni e divulgato dalla
pesante satira di riviste come L’asino [1885, 1914]. Essa è, invece, un apparato da demistificare nella sua interpretazione del
verbum ecclesiastico, fatto passare arbitrariamente per verità assoluta e capace di condizionare la vita dei bassi ceti. La forza
60. F. Brevini, Le parole perdute cit., specialmente nel capitolo intitolato
“Dal comico al subime”.
61. Assai somigliante in questo è l’atteggiamento di Antonio Domenico
Migheli, che nel Cantigu segundu: umilidade preidesca [in A.D. Migheli, Sa briga cit., pp. 115-124] scrive: «Non naro male a sa religione /
Ch’in Palestina Gesus hat fundadu, / Sa cale (appende bene ijaminadu)
/ Analoga l’incontro a sa rejione; / Ma naro male de calchi pessone /
chi de sa tale si nd’est abusadu!» (str. 17). Così egli se la prende contro
il presuntuoso monopolio culturale esercitato da sos sazerdotes: «A crere a su chi naran zegamente / Cheren sos autocrates rettores!» (str. 13),
mentre «Nois che profanos e plebeos / Tottu devimus crer senz’osservare» (str. 14). Inoltre, come il Mereu critico nei confronti dei bacia-pile
o basa mattones, il poeta osilese se la prende contro «sa bacchettona
credenzoneria … [chi] / no est de moda e s’est fatta istantia» (str. 22). In
tale analogia si può intravedere un sentire comune ai due personaggi e
non solo, che si diffuse in Sardegna nel secondo Ottocento, per andare
poi a confluire nel nascente socialismo, che tanto seguito ebbe fra numerosi poeti coevi, come si può riscontrare da una disamina delle numerose effemeridi letterarie del tempo.
62. F. Brevini, “L’altra letteratura”, in La poesia in dialetto cit., tomo I, p.
LXXXI.
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Prefazione
poetica di Mereu, qui e altrove, risiede a parer nostro nella sua
capacità mimetica tipica della satira più intelligente – anche in
questo Giusti si è rivelato buon maestro – che gli consente di
sfumare la critica sociale e di costume in modo senz’altro fine.
Un altro fatto da sottolineare nel nostro poeta, da ascriversi alla tendenza contrappuntistica nei confronti della tradizione alta, è la presenza dell’osceno, del triviale, sia in forma
chiaramente allusiva, sia in forma esplicita. Anche il riferimento alla corporeità, alla sessualità, dà adito alle commistioni
più dissacranti fra generi, temi e classi sociali. Premettiamo
che per questo filone vale quanto detto prima sul processo
di selezione poetica avvenuto per la princeps, per cui si passa dall’innocente «si calchi femminedda / ti mustrat sa bunnedda / nara c’has fattu vot’ ’e castidade» (vv. 39-41 di Consizos a unu amigu), concetto per di più collocabile entro il
genere antiuxorio di maniera che lo rende in qualche modo
“lecito” all’interno della raccolta, alla ben diversa sostanza di
Su socialista a una bigotta, di Minca maccaca o di Piazzaforte di Orune, frutto della successiva e meritoria indagine
svolta dal Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara.
Quale esemplificazione di commistione irriverente ci pare
particolarmente adatta Su socialista a una bigotta. Nel primo
dei due sonetti di cui si compone la poesia, al registro appartenente alla poesia amorosa di tipo non idealizzante e che ricorda a tratti, nella prima quartina ad esempio, il linguaggio
dei mutos, fa da contrappunto il bordone anticlericale. Quest’ultimo, col continuo riferimento ai feticci della chiesa («lassa
sos santigheddos d’ozu seu», v. 7), ai sacramenti («de cando
ses cun sa cunfessione», in rima con tentazione, v. 1), alla gestualità rituale del fedele («basa a mie, non bases su mattone»,
v. 8), diviene man mano più esplicito nelle terzine, col verso
«lassa sos Santos, faedda de affettu» (v. 9) che ricorda assai da
vicino quello conclusivo del sonetto Postuma LII di Stecchetti:
«Parla d’amore e non parlar di Dio».63 Nel secondo sonetto il
Un altro filone che Mereu ama è evidentemente quello
della deformità, sulla cui popolarità a partire dal contadino
ruzzantesco non è necessario discutere più a lungo in questa sede, se non per richiamare il fatto che fin dal Medioevo,
come ben chiarito dagli studi di Bachtin sul carnevalesco, tale strada è stata percorsa con grande frequenza dai dialettali.
Naturalmente alla satira del villano, tipica di tutta una parte
della poesia in dialetto, non si può ascrivere l’intento poetico mereiano, volto invece all’osservazione della quotidianità,
della povertà come detto in precedenza, e che si colloca più
in generale entro il fenomeno del distacco fra i dialetti e il
mondo che essi descrivono e fra la lingua letteraria e i suoi
splendidi ma remoti soggetti, con tutte le specificazioni fatte
in precedenza per il caso della Sardegna.
Ecco allora comparire la bruttezza nel tipo della vecchia
deforme di Sa teracca mia, il popolo misero di Su bandu,
l’emarginazione sociale di Adultera, l’accostamento fra uomo
e animale di Su canarinu de su rettore, e così via. Il poeta
mette in campo una galleria tipizzata, divertente nei suoi tratti
deformati e nel linguaggio, ma anche compartecipata e triste,
63. Si leggano i cinque versi finali di questo componimento: «Ella dicea:
l’anima tua non crede / al Cristo, al tuo custode angelo pio? // Io le dicea:
tu sei l’angelo mio, / tu sei la mia speranza e la mia fede: / parla d’amore
e non parlar di Dio» [L. Stecchetti, Le rime cit., p. 94].
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gioco contrappuntistico si fa ancora più esplicito, con la dissacrazione definitiva della domina ottusa che cerca inutilmente
di soffocare nella religione i suoi istinti: troverà invece soddisfazione ai suoi bisogni non nella fede, bensì nella brutale
“concretezza” del socialista, che conclude col riso becero questa irriverente parodia di corteggiamento.
Infine, in Minca maccaca il tema del sesso si mescola alla malattia, ai dettagli anatomici più crudi e ributtanti, che già
nell’incipit presentano la tecnica contrappuntistica attraverso
l’ardito accostamento al membro virile di due aggettivi “epici”
e alti quali funesta e fatale, che contrastano col primo (maccaca = ‘stolta’), sì da creare una drammaticità comica tipica
della poesia dialettale nei suoi vari e differenziati sviluppi.
Prefazione
visto che il suo sguardo non giunge “dall’alto” a ritrarre il popolo vero, ma ne fa inscindibilmente parte; con un privilegio
però, quello di possedere le parole, la lucidità, la tecnica e la
cultura per poterne trarre dell’arte, distaccandosene in qualche
modo anche attraverso il riso. Probabilmente è di questo che
parla Sulis nella sua prefazione, quando accenna al fatto che
«malgrado, però, il suo disgusto universale, il Mereu, talvolta
giuoca, ride, schernisce», senza però, aggiungiamo noi, perdere contatto col suo mondo nel compiacimento della scrittura.
Spesso oggetto della satira mereiana è la donna. Ad
esempio si possono ricordare le terzine di Adultera, dove
l’aspra critica nei confronti dei costumi muliebri, di maniera e
ben presente nella tradizione poetica locale, è affiancata dalla descrizione della patetica bellezza artificiale che nasconde
il decadimento fisico, tipica della poesia scapigliata. E in effetti Mereu attribuisce un diverso peso morale alla deformità
“al naturale” rispetto a «s’ingann’ ’e s’artifissiale» (A Tonara,
v. 144): quest’ultimo è sempre sintomo di depravazione dei
costumi, come si vede nella stessa Adultera, ma anche in A
Signorina S…, dove quel guardare sos piccioccos (v. 26) a
dispetto dell’età e della morale vigente, appare forse la critica più severa.
È d’obbligo a questo punto un rapidissimo accenno alla figura femminile nella poesia di Mereu: dalla citata Adultera alla
proemiale Dae una losa ismentigada, da Consizos a unu amigu, X…, K…, W…, a Sa teracca mia, Litanias maggiores,
Aspettos ecc. emerge una donna tutt’altro che idealizzata, anzi,
sovente simbolo di corruzione, scialacquo, infedeltà e morte.
Essa, tuttavia, è tanto letteraria e ficta quanto lo sono Beatrice
o Laura delle Corone toscane e l’atteggiamento che impronta
queste liriche non è certo schiettamente misogino, ma fa parte
di una intenzione contrappuntistica tipica della letteratura dialettale che, in tal modo, costruisce un contro-canone. Secondo
tale convenzione satirica generalizzata la Laura petrarchesca si
trasforma non in donna normale, ma assai più di frequente in
prostituta o nell’esatta antitesi della femminilità. Le stesse muse
in Mereu, quando insistenti, sono minacciate di esser prese «a
colpos de iscova» (A Eugeniu Unale [I], v. 70). Nello specifico
per il poeta tonarese si devono tenere presenti gli influssi della
poesia satirica isolana (cfr. ad esempio il Murenu di Sa libertina, Dinda troppu fantastica ecc.), di quella scapigliata e dei
già citati Giusti e soprattutto Stecchetti (cfr. ad esempio Postuma XX). Ciò in maniera particolare nell’immagine dell’amata
associata ai successivi tradimento, indifferenza, abbandono,
malattia e precoce morte del poeta, che così maledice dalla
tomba – ma anche in vita – colei che lo ha illuso.
Infine non si deve tralasciare di spendere qualche parola
sul fondo propriamente lirico di questo poeta, nel quale ci
pare si possa intravedere una maggiore presenza della tradizione locale rispetto ai filoni più sperimentali, ricollegabili alla
critica sociale di cui si è detto precedentemente. Nell’emblematico e già citato caso di Galusè, ad esempio, la contemperanza di entrambi i cotè dà luogo a una delle prove poetiche
più belle, ove lo slancio creativo e la facilità di verso consentono a Mereu di collocare almeno su tre piani, fra loro fortemente collegati, la diegesi: si parte difatti dalla classica ma riuscitissima presentazione della fonte come locus amoenus, che
certamente non risulta nuova alle orecchie di chi pratica la
poesia sarda e che giunge fino al v. 56. Il tutto è però reso
“leggero” dalla costante ironia che stempera il tòpos e da inserti e allusioni in suspu, ossia criptici, come quel «cuntento
broccas mannas e brocchittas» (v. 46) che non può non strappare un complice sorriso a chi è in grado di decodificare il
gergo. Il secondo piano narrativo giunge con il trapasso da
questa situazione idillica al racconto delle brutture commesse
davanti alla fonte da persone che ne turbano profondamente
la quiete e la bellezza (in ciò è presente il modello giustiano,
come detto a p. 15). Semplificando ulteriormente si può dire
che, da un quadro atemporale di vita comunitaria attorno alla
fonte, nel quale sono cioè descritte scene prive di connotazione cronologica attribuibile a un’epoca precisa, com’è proprio
del locus amoenus appunto, si passa ad uno nel quale il presente irrompe con forza, cogliendo quasi di sorpresa il lettore,
secondo un procedimento non nuovo ma applicato qui con
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grande efficacia. Da ultimo, è celebre la dimensione biografica che subentra a partire dal v. 161, ossia quando Mereu ci
regala un suo autoritratto, preparato dall’ottava immediatamente precedente, che allude alla sua grande passione: la
poesia, in questo caso estemporanea. Nella descrivere la sua
condizione Mereu dà ampio spazio, come di consueto, alla
presenza della malattia, di frequente spunto poietico del nostro (cfr. ad es. Agonia, A Nanni Sulis [II] ecc.). Infine la dedica a Lia, strettamente collegata alla dimensione autobiografica,
che conferisce a Galusè un lieto-fine speranzoso e sereno nell’augurio a una bambina di un avvenire sereno, santificato
dall’«abba pura» della fonte, quale ritorno a un minimo d’ordine sociale che il poeta vagheggia, in contrapposizione al capovolgimento di ruoli e valori delineato, ad esempio, nei vv.
65-72 e 145-152. Si può dire che in questa lirica l’equilibrio
trovato da Mereu nell’utilizzo proficuo dei modelli e nella descrizione delle situazioni abbia raggiunto un livello tale da far
scorgere in lui il poeta di sicuro talento.
In definitiva Peppino Mereu costituisce un caso assai singolare nella sua figura di poeta per molti versi misteriosa, legata com’è ad un oblio al quale spesso i dialettali sono destinati,
talvolta anche all’interno delle proprie comunità di appartenenza. Esprimiamo qui il dubbio che, allo stato delle cose,
possa emergere un autografo o comunque del materiale che
possa dar vita a una vera e propria edizione critica del corpus mereiano, perlomeno intesa in senso tradizionale. L’augurio che rivolgiamo alle sue liriche, come alla poesia dialettale in genere, è quello di non “perdersi” né materialmente –
prima che troppa polvere seppellisca quelle carte che costituiscono l’ambizione del filologo –, né a livello dei contenuti,
la vita dei quali è garantita da un pubblico di lettori entrato
in crisi con la crisi stessa dei dialetti e dei mondi che essi veicolano, in un vortice negativo che tende a triturare ciò che
non è protetto dai canoni di maggior consumo.
Marco Maulu
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NOTA BIOGRAFICA
Giuseppe Ilario Efisio Antonio Sebastiano Mereu, figlio di
Giuseppe Mereu e Angiolina Zedda, nasce a Tonara, quarto di
sette fratelli, il 14 gennaio del 1872. La madre muore nel 1887
mentre il padre, medico condotto di Tonara, viene a mancare
due anni più tardi, pare in seguito all’ingestione accidentale di
un veleno. Così Peppino si ritrova orfano a diciassette anni, assieme ai fratelli Edoardo, il primogenito, Manfredi, Elvira, Matilde, Rinaldo ed Emilia, in grave difficoltà economica.
Probabilmente il giovane Mereu non ebbe la possibilità
di andare oltre la terza elementare, speranza di studi più che
ottimistica in quegli anni e in realtà povere e disagiate quale
era Tonara a fine Ottocento. Tuttavia dovette proseguire a
formarsi da autodidatta, possibilmente dietro l’aiuto e i consigli del «laureando in medicina» Giovanni Sulis, suo amico,
sostenitore e infine editore nel 1899, anno dell’uscita della
raccolta intitolata Poesias per i tipi Valdés.
In generale le poche notizie che abbiamo sulla gioventù
del poeta sono in larga parte desunte dalla sua opera e dagli
apparati alla princeps curati da Sulis come, ad esempio, l’interesse per la poesia improvvisata e la sua particolare predisposizione al genere o l’adesione al socialismo, fino alle difficoltà nell’accettazione della vita militare.
A questo proposito si legge nella “Nota biografica” della
raccolta intitolata Poesias, uscita nel 1978 e curata dal Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara, p. 16, che Mereu «il 7 aprile
1891, si arruola volontario carabiniere», a diciannove anni
quindi, in cerca di una occupazione che, per coloro i quali
non possedevano terre e bestiame “di famiglia”, costituiva
pressoché l’unica via d’uscita.
Mereu resterà in servizio per cinque anni, durante i quali,
fino a quando la salute glielo consentirà, si sposterà in vari
centri della Sardegna, come risulta dalle date di composizione
in calce ad alcune sue poesie. Lo ritroviamo allora a Cagliari
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Nota biografica
1. Cfr. D. Caocci, “Peppino Mereu: il grido della miseria”, in Erbafoglio,
a. VIII, n. 16, maggio 1995, pp. 74-75.
pubblicazione su periodico dei tre componimenti più volte citati a partire dal 26 maggio del ’98 all’edizione del corpus vera
e propria nel settembre del ’99, peraltro subito recensita sull’Unione Sarda (cfr. la “Nota bibliografica”).
Le condizioni di salute e di conseguenza esistenziali, devono farsi tuttavia sempre più difficili, finché Peppino Mereu
non si spegne l’undici marzo del 1901, a ventinove anni,
non si sa con certezza se per diabete o altro.
Non intendiamo entrare ulteriormente in merito ad ambiti già trattati nella presente e in altre raccolte e che riguardano diversi aspetti biografici quali l’amore, la politica, i rapporti con gli altri poeti o l’importante amicizia che lo legò a
Nanni Sulis, Genesio Lamberti ed Eugenio Unale. Vogliamo
invece sottolineare come gli stessi riferimenti e auto-ritratti
che si ricavano dall’opera hanno contribuito, anche per la
mancanza di dati certi che smentissero quanto scritto dal
poeta stesso, talvolta dietro la fictio del “maledettismo” scapigliato, ad alimentare la leggenda attorno alla sua figura:
essa comprensibilmente ha conosciuto un crescendo d’interesse sia da parte di appassionati e studiosi della poesia sarda, sia da parte del pubblico, anche giovane, che tutt’oggi
ama i suoi versi e talvolta si ritrova ad interrogarsi sulla natura reale o fittizia dei suoi amori e dolori. Quale esempio
della riflessione che sottoponiamo al lettore valga il titolo
della piccola raccolta più volte citata in precedenza e apparsa nel 1978 col titolo di Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas da su famosu “Paccu Sigilladu”, dove alcune
liriche inedite attribuite a Mereu (cfr. la “Nota al testo”) sono
fatte risalire, scherzosamente ma in maniera significativa, al
misterioso pacco cui fa riferimento il poeta in Su testamentu,
ove si legge a riguardo: «Non siat su sigillu profanadu» (v. 39).
Quest’ultimo monito simboleggia proprio quella precisa volontà di creare e accrescere ulteriormente un alone di mistero che, in effetti, esercita sul lettore il suo fascino e sul quale
l’editore del libretto gioca intelligentemente.
Il meccanismo descritto è in buona parte un tòpos della letteratura “minore” e, in fondo, va incontro alla mitologizzazione
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57
nel ’91 e nel ’93, a Nuoro nel ’94, ad Osilo, Sassari e Cossoine
nel ’95, ad Assemini nel ’96 e, sempre a partire da quest’anno,
lo sappiamo a Tonara, alle prese con i problemi di salute che
lo condurranno al disagio, alla miseria e all’isolamento progressivo di cui egli stesso racconta in alcune delle liriche più
note. La difficoltà di vivere e la condivisione ideale di questo
stato col basso popolo tutto – che allora comprendeva la
maggioranza degli abitanti del Paese – influenzerà profondamente il mondo poetico del poeta tonarese, come sottolineato
da Duilio Caocci.1
A seguito del peggioramento del suo stato fisico Mereu è
ricoverato, secondo la sua stessa testimonianza, presso le infermerie presidiarie di Sassari e Cagliari e riceve il congedo il
6 dicembre del 1895, ritirandosi così nell’amata/odiata solitudine del suo paese, inizialmente a casa del fratello Manfredi.
Questo ritiro e l’emarginazione da parte di alcuni suoi compaesani, gli sbeffeggiamenti e il bisogno di dialogo con amici
ormai lontani è ben descritto da liriche quali A Juanne Sulis,
A Eugeniu Unale [I] e [II] e A Nanni Sulis [II], fino a Su testamentu. Si tratta di quattro epistole poetiche in terzine abbastanza estese, nelle quali il dato biografico emerge con chiarezza accanto al filone gnomico e di protesta sociale.
In seguito a incomprensioni con Manfredi, Peppino cambia abitazione e vive come può, finché il segretario comunale
Pulix non lo farà assumere come scrivano presso la Conciliatura dal 1898 al 1900. Il dato biografico è confermato dall’omonimo sonetto, datato difatti al 27 gennaio 1899. In base ai dati in
nostro possesso il biennio fra ’98 e ’900 risulta essere decisivo
per la ricerca di visibilità da parte del poeta al di fuori del paese natio. Ci si potrebbe allora chiedere fino a che punto la
princeps sia stata stampata a sua insaputa per l’iniziativa personale di Sulis, come costui dichiara nella “Prefazione”, vista la
precedente promozione, certo studiata, presso i media locali e
che porta, secondo una traiettoria difficilmente casuale, dalla
di sapore agiografico di simili figure che l’appartenente alle
comunità locali mette in atto quasi d’istinto, ovviamente assieme al desiderio di svelare ciò che la fantasia popolare rende arcano.
In conclusione, la stessa penuria di dati storici certi con
la quale ancora oggi ci confrontiamo ha contribuito – vista
la peculiarità della sua esistenza, unita a quella della sua
poesia – a mantenere vivo un interesse che fa di Peppino
Mereu parte reale di un patrimonio collettivo regionale che
ancora lo recita e lo canta, non solo nelle piazze, ma anche
su palchi solitamente deputati ad altre voci.
NOTA BIBLIOGRAFICA
OPERE DI PEPPINO MEREU1
A una violetta sicca, in Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata, a. I, n. 7, 26 maggio 1898.
In Conziliatura, in La Piccola Rivista, a. I, n. 9, 29 aprile 1899,
p. 9.
A Ernesto Mereu, in La Piccola Rivista, a. I, n. 14, 30 giugno
1899, p. 15.
Giuseppe Mereu, Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P.
Valdés, 1899.
RACCOLTE
Peppino Mereu, Consizos a unu amigu e Dae una losa ismentigada, in Il Nuraghe, a. III, n. 33, 1925, pp. 9-10, all’interno
della rubrica “Le più belle poesie dialettali”.
Peppino Mereu, Poesie scelte, Cagliari, Edizioni della Fondazione il Nuraghe-Tipografia della Società Editoriale Italiana, 1926.
Peppino Mereu, Galusè, in Il Nuraghe, a. IV, n. 36, 1926, pp.
15-17, all’interno della rubrica “Poesie dialettali”.
Peppino Mereu, Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Editrice P.
Valdés, 1928.
Peppino Mereu, Le più belle poesie dialettali sarde, Cagliari,
Edizioni della Fondazione il Nuraghe, 1951.
P. Mereu, Poesie, Cagliari-Varese, Edizioni della Fondazione
Il Nuraghe, 1951.
Peppino Mereu, Poesie, Sassari, Tip. Editoriale Moderna, 1967.
Peppinu Mereu, Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas
da su famosu “Paccu Sigilladu”, Cagliari, Tipografia Tea, 1978.
1. S’intende con tale dicitura il materiale pubblicato o apparso quando
il poeta era in vita.
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Nota bibliografica
SCRITTI SU PEPPINO MEREU2
F. Corona, “Giuseppe Mereu – Poesias – Cagliari, Prem. tip.
editr. di P. Valdés, 1999”, all’interno della rubrica “Fra libri e
giornali” de L’Unione Sarda, a. XI, n. 266, 27 settembre 1899.
A beneficio del lettore riportiamo alcuni stralci di quella che
ci risulta essere la prima recensione alla pubblicazione Valdés,
redatta da un personaggio di spicco della cultura isolana, l’erudito cagliaritano Francesco Corona, che non ci risulta segnalata in nessuna edizione dell’opera di Mereu. Corona collaborò per vari anni con L’Unione Sarda, soprattutto durante
la direzione di Raffa Garzia (1904-1916) e fu autore, fra l’altro,
della Guida dell’Isola di Sardegna, Bergamo, Istituto Italiano
d’Arti Grafiche, 1896 e del Dizionario dei comuni della Sardegna, Cagliari, Premiato stab. tip. G. Dessì, 1898. Ecco, senza
commenti – l’articolo descrive chiaramente da sè le posizioni
del suo autore e un atteggiamento critico al tempo generalizzato – un largo stralcio di questa testimonianza, davvero preziosa quale prima, autorevole attestazione della ricezione dell’opera di Mereu: «In un elegante volumetto, uscito alla luce in
questi giorni a cura dello stabilimento tipografico Valdés, si
raccolgono una trentina di poesie in dialetto tonarese [sic] e di
diverso metro. Ne è autore Giuseppe Mereu, nome finora
ignoto, se non alle muse, alla repubblica letteraria sarda e
che, per qualche titolo, si presenta bene. Egli ha in fatto una
vena calda, sebbene non molto appassionata, e verso facile.
Non intendo già fargli rimprovero [per]3 quella punta di scetticismo, che quà e là fa capolino nelle sue poesie … solo mi
sorprende com’egli, nato in quella regione, ove la natura spiega tutta la superba pompa della sua bellezza … non senta
scorrersi nel sangue quell’onda di forte e sana poesia che ha
sempre acceso l’astro dei grandi poeti d’ogni epoca … la poesia soggettiva – ch’egli preferisce – all’oggettiva – … richiede
esuberanza di sentimento, per modo che riesca ad impressionare profondamente chi legge … orbene; questa forza di sentimento manca nel Mereu, per cui le sue afflizioni, i suoi dolori, ci lasciano indifferenti, freddi. Dae una losa ismentigada,
un po’ stecchettiana, Amore, Adultera, Moribunda ed altre;
svolgono concettuzzi, in versi dolci e melodiosi, ma privi di
quell’affettività che deve vibrare potentemente pietosa in simili poesie soggettive. Per contrario il Mereu usa benissimo la
satira, e in quelle poche poesie, ove l’adopera con parsimonia
e studiata misura, è assai efficace e geniale. In complesso
2. La bibliografia critica non comprende tutti i per lo più nominali accenni a Peppino Mereu presenti in varie monografie, soprattutto antologie, ma solo quelli che, a nostro giudizio, hanno un minimo d’utilità
nell’inquadramento della sua figura.
3. La parola risulta erasa nell’esemplare cartaceo da noi esaminato e
conservato presso la Biblioteca universitaria di Cagliari, quindi nella riproduzione microfilmata, evidentemente tratta da questa medesima copia. Integriamo perciò tramite congettura.
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Peppino Mereu, Poesie, Nuoro, “La Tipografica” di Solinas, s.d.
Peppinu Mereu, Poesias. Raccolta dei versi, traduzioni italiane e nota biografica a cura del Collettivo di ricerca “Peppinu
Mereu” di Tonara, prefazione di F. Masala, Cagliari, Della
Torre, 1978.
Peppinu Mereu, Poesias. Raccolta dei versi, traduzioni italiane e nota biografica a cura del Collettivo di ricerca “Peppinu
Mereu” di Tonara, prefazione di F. Masala, Cagliari, Della
Torre, 1982.
Peppinu Mereu, Frores, Cagliari, Frorias, 1998.
Peppino Mereu, “Nanneddu meu”. Poesias de Peppinu Mereu, a cura del Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara, Cagliari, Condaghes, 2001.
Peppinu Mereu, Terra de musas. Contivizu de Bachis Bandinu e Paulu Pillonca, Cagliari, Edizioni Frorias, 2001.
Peppino Mereu, Poesias. Antologia a cura del Collettivo
“Peppino Mereu” di Tonara, traduzione italiana di S. Tola,
Sassari, La Nuova Sardegna, 2003.
Nota bibliografica
però i suoi canti, giudicati come una prima prova … sono apprezzabili e meritano parole di lode. Il verso, sempre facile, è
quà e là trasandato; pare ch’egli rifugga dalla lima, dopo la
penna, l’arnese più necessario ad ogni scrittore, massime poi
ad un poeta … e di questo verso fluido, dolce, carezzoso che
sgorga dal suo cuore terso e limpido … il Mereu dovrebbe
giovarsi, per cantare le sue ubertose valli … come pure per
descrivere i costumi, e i bisogni e le superstizioni di quei fieri
montanari, risuscitando d’una volta nella nostra isola – già ricca di poeti erotici e sentimentali – la poesia descrittiva e la sociale, le sole oramai, che in questa decadenza di sentire, possono veramente interessare. E s’egli vorrà seguire il nostro
consiglio, troverà certo più copiosa e variata messe nel campo
che gli additiamo, e plausi più fragorosi in quello intellettuale,
ove verrà consacrata la sua fama da quanti sanno apprezzare
l’ingegno accoppiato allo studio, e ai quali pertanto consigliamo la lettura di queste Poesias, rivelatrici del germe d’un futuro robusto poeta sardo».
G. Sulis, Peppinu Mereu, in S’Ischiglia, a. I, n. 12, 1949 [rist.
anast. Cagliari, Gianni Trois, 1979, p. 334].
D. Caocci, “Peppino Mereu: il grido della miseria”, in Erbafoglio, a. VIII, n. 16, maggio 1995.
D. Caocci, “La poetica del controcanto. Note su un poeta
sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1, 2001, pp. 96-109.
G. Porcu, “In Conziliatura, sonetto di Peppino Mereu”, in La
grotta della vipera, a. XXVII, n. 93, primavera 2001, pp. 58-63.
V. Flore, “Peppino Mereu a cent’anni dalla scomparsa. Da aedo dei campi a vate della sua terra”, con l’antologizzazione di
Agonia, in S’Ischiglia, a. XXII, settembre 2001, pp. 265-266.
G. Maieli, “Peppino Mereu tra passato e futuro della lingua
sarda”, in Nur, a. I, n. 5-6, 2001, pp. 3-8.
S. Flore, “Il canto sociale di Peppino Mereu. Espressioni di
una vita breve”, in Quaderni bolotanesi, a. XXIX, n. 29, 2003,
pp. 399-415.
Un buon interesse nei confronti del poeta tonarese mostrò Raimondo Carta Raspi, che oltre a promuoverne l’antologizzazione
in quattro occasioni (cfr. supra la rivista Il Nuraghe e le Edizioni
della Fondazione Il Nuraghe) inserì Dae una losa ismentigada
e Galusè nell’importante raccolta Sardegna. Terra di poesia. Antologia poetica dialettale a cura di R. Carta Raspi, Cagliari, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, s.d., pp 259-271.
L’altra figura di spicco della cultura sarda di quegli anni,
Francesco Alziator, in Storia della letteratura di Sardegna,
Cagliari, Edizioni “La Zattera”, 1954, p. 409 [rist. anast. Cagliari, 3T, 1982], cita solo nominalmente Mereu «fra i poeti
vernacoli … che meritano di essere ricordati».
Un breve saggio introduttivo di Manlio Brigaglia alla figura
del poeta intitolato “Uno scapigliato di paese”, cui seguono
quattro sue poesie, si trova nell’antologia Il meglio della grande poesia in lingua sarda, Cagliari, Della Torre, 1975, pp. 275314. Il contributo fa parte di una serie di scritti dello stesso
Brigaglia sui poeti dialettali della Sardegna, redatti per essere
letti durante alcune trasmissioni di Radio Cagliari nel 1962.
Un profilo del poeta ad opera di Leonardo Sole compare in
La Sardegna. Enciclopedia, a cura di M. Brigaglia, vol. I,
L’arte e la letteratura in Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1982,
pp. 59-61, mentre un accenno poco più che nominale si trova in N. Sanna, Il cammino dei sardi, vol. III, Cagliari, Editrice Sardegna, 1986, pp. 517-518, all’interno della sezione intitolata Letteratura ed arte della Sardegna sabauda e della
Sardegna italiana.
Si trovano utili accenni al poeta e al suo milieu culturale in G.
Pirodda, “La Sardegna”, in Letteratura Italiana, Storia e Geografia, a cura di A. Asor Rosa, III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 919-966. Ancora, sempre dello stesso
autore, si vedano, all’interno della collana “Letteratura delle
regioni d’Italia. Storia e testi”, “Giuseppe Mereu”, in Sardegna,
Brescia, La Scuola, 1992, pp. 306-308 e “L’attività letteraria fra
Otto e Novecento”, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a
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oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer, A. Mattone, Torino,
Einaudi, 1998, pp. 1083, 1122.
Un’altra breve presentazione del poeta, cui seguono due
poesie antologizzate e commentate, è presente in G. Sanna,
G. Atzori, Sardegna. Lingua, comunicazione, letteratura,
vol. II, Cagliari, Edizioni Castello, 1999, pp. 345-355.
Franco Brevini, nel suo fondamentale La poesia in dialetto,
Milano, Mondadori, 1999, 3 tomi, inquadra il poeta sardo nella sezione Orgogli municipali e mondi minori, pp. 2880-2882,
e antologizza Galusè e Lamentos d’unu nobile, pp. 2928-2944.
Accenni alla metrica si trovano, sparsi, in A. Deplano, Rimas,
Cagliari, Artigianarte, 1997.
Un curioso e raro episodio legato alla vita sentimentale del
poeta è presente, non sappiamo quanto credibile, nel capitolo intitolato “Il poeta e la ragazza”, in R. Manconi, Vecchia
Florinas, Novara, Tip. Stella Alpina, 1959, pp. 111-116.
NOTA AL TESTO
La tradizione1
Le sigle dei testimoni presi in considerazione per questa
raccolta sono, in ordine cronologico di pubblicazione:
MONOGRAFIE
V1 = Poesias, Cagliari, Prem. Tip. P. Valdés, 1899: l’editio princeps stampata vivente il poeta. Essa consta di ventinove componimenti da attribuirsi con certezza a Mereu ed è corredata di una
“Prefazione” del curatore, «Giovanni Sulis laureando in medicina», amico del poeta, e delle preziose “Notas” esplicative ad
opera dello stesso Sulis. L’esemplare da noi utilizzato, sul quale
si basa la presente edizione, è conservato in buono stato presso la Biblioteca degli Studi Sardi di Cagliari. Numerosi i refusi
di stampa, che riguardano principalmente la segnalazione di
apocopi ed elisioni tramite apostrofo e gli scambi e cadute di
lettere, verificatisi durante la composizione tipografica.
V2 = Poesias, Cagliari, Prem. Tip. Valdés, 1928: la ristampa di
V1. La si potrebbe definire una edizione “riveduta e corretta”, in
quanto alcuni refusi tipografici della princeps sono stati emendati; d’altra parte, degli altri sono stati aggiunti. Giovanni Sulis
vi appare ormai «laureato in medicina». L’esemplare da noi consultato è conservato presso la Biblioteca universitaria di Sassari.
N = Poesie, Cagliari-Varese, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, 1951: l’edizione discende da V1, come evidenziato da
alcuni errori tipografici comuni, emendati già da V2. Qui il
componimento conclusivo, intitolato redazionalmente W…
in V1, appare come Dialugu fra maridu e muzere, titolo accolto dalle pubblicazioni successive.
1. Eccezion fatta per Fr non si menzionano in questa sede le raccolte
che, pur citate in bibliografia, costituiscono delle ristampe di sillogi
precedenti, senza che presentino cioè novità a livello testuale.
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Nota al testo
DT78 = Poesias, Cagliari, Della Torre, 1978: si trovano qui
trenta componimenti aggiuntivi rispetto a V1 e, di conseguenza, alle due successive ristampe di quest’ultimo, raccolti dal
Collettivo “Peppino Mereu” di Tonara attraverso fonti orali o
comunque “indirette”. Inoltre tutte le stampe curate dal Collettivo – comprese quelle che da esse discendono – presentano, rispetto a V1, un titolo in più nell’indice (30 componimenti, quindi, contro i ventinove della princeps) in quanto le
dodici quartine di endecasillabi e settenari che compongono
la conclusione di Lamentos d’unu nobile sono ivi intitolate E
prite tottu custu? Non così in V1, ove appare chiaro che esse
costituiscono la seconda parte, il “finale” insomma, della stessa Lamentos d’unu nobile, con una variazione metrica tipica
di Mereu all’interno del medesimo componimento.
T = Sas poesias isconnottas e mai istampadas leadas da su famosu “Paccu Sigilladu”, Cagliari, Tipografia Tea, 1978: edizione artigianale che tramanda cinque componimenti + In Conziliatura (In cunziliadura T), da noi dati a testo con formula
dubitativa e mancanti nella tradizione rimanente. Inoltre sono
presenti varianti formali, a partire dai titoli delle poesie, che il
testimone ha in comune con le edizioni curate dal Collettivo
(ad es. T intitola Il verbale e suddivide giustamente in terzine
il componimento che da DT78 in poi appare invece tràdito in
sei strofe rispettivamente di 9 + 6 + 12 + 12 + 12 + 6 versi, col
titolo, da noi accolto, di Piazzaforte di Orune). In generale,
dei cinque componimenti di cui sopra convince poco lo stile
poetico, più rifatto che spontaneo, ci sembra, e talvolta la lingua. Tuttavia, tenuto conto dell’ambiente legato all’oralità e alla mancanza attuale di informazioni a livello attribuzionistico
su queste ed altre liriche, abbiamo deciso di darle comunque
a testo, se non altro come dato aggiuntivo su versi evidentemente estemporanei assegnati al poeta tonarese, forse all’interno dello stesso ambiente della poesia improvvisata.
tràdite da V1 e alcune di quelle reperite dal Collettivo “Peppino
Mereu”, come Su testamentu. Di questa lirica tramanda il verso
di chiusura «Peppe Mereu bos toccat sa manu» (cfr. p. 75).
DT82 = Poesias, Cagliari, Della Torre, 1982: la ristampa di
DT78 con alcune modifiche rispetto alla precedente pubblicazione, consistenti principalmente in un’operazione di
uniformazione linguistica, sia relativamente alle poesie tramandate da V1, sia a quelle apparse in DT78 ed altre di cui
sarà dato conto a breve.
C = “Nanneddu meu”. Poesias de Peppinu Mereu, Cagliari,
Condaghes, 2001: la stampa curata dal Collettivo “Peppino
Mereu” che sostanzialmente apporta, rispetto a DT78 e DT82,
alcune modifiche, volute e non (si veda la conclusione della
raccolta per la posposizione di Minca maccaca e A su tianesu), relative all’ordine in cui appaiono le liriche. Essa segue
sostanzialmente DT82, con in più una revisione condotta sulla princeps.
Fr = Terra de musas, Cagliari, Frorias, 2001: l’edizione contiene un componimento edito per la prima volta (ivi Chene
titulu), ma cfr. ultra, pp. 70-72.
PERIODICI
PR = La Piccola Rivista: periodico di cultura cagliaritano che
tramanda il sonetto In Conziliatura e la serie di sonetti intitolata A Ernesto Mereu.
SLA = Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata: periodico di
cultura cagliaritano che tramanda il componimento in terzine
dal titolo A una violetta sicca (cfr. per entrambi la “Nota bibliografica”).
S = Poesie, Nuoro, “La Tipografica” di Solinas, s.d.: pubblicazione artigianale priva di indice e di qualsiasi apparato, inaffidabile e colma di cattive lezioni e refusi. Essa comprende le poesie
Il corpus
La presente raccolta comprende l’intero corpus poetico di
66 poesie attribuite a Peppino Mereu. La “Prefazione – Cortese Lettore” di Giovanni Sulis, l’apparato di note esplicative
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Nota al testo
dello stesso Sulis intitolato “Notas” e collocato in chiusura della raccolta, infine i primi 29 componimenti, seguono fedelmente l’editio princeps del 1899.
Le 30 liriche successive, a parte il sonetto intitolato In
Conziliatura – che ivi manca ma è presente in T – rappresentano il materiale raccolto dal Collettivo “Peppino Mereu”
e dato per la prima volta alle stampe nel ’78. Tuttavia si è
qui seguita l’edizione dell’82, che ripropone sostanzialmente
quella precedente, con l’eccezione di una ottava intitolata
Ottava appunto, inclusa nella prima raccolta ed espunta dalla seconda. Si legga però quanto scritto nella nota redazionale a piè di pagina che l’accompagna nella stampa del ’78:
«Il poeta riprende in questa sua ottava estemporanea il motivo di un’antica filastrocca sarda» (p. 239). Probabilmente l’attribuzione a Mereu, già ricavata da fonte orale, è stata in seguito ritenuta improbabile, sì da procedere all’espunzione
nella pubblicazione successiva. Questi versi, che diamo comunque a testo, pur con formula dubitativa, sono inclusi anche in T. Inoltre, quella che in DT78 è erroneamente intitolata Ottava, pur essendo una deghina, appare come Titti tittia
nella silloge successiva.
Nella nostra raccolta si possono rilevare le seguenti modifiche “di sostanza” rispetto a DT82: includiamo anzitutto il
già citato sonetto In Conziliatura. Ancora, questo e i componimenti A Ernesto Mereu (A frade meu Coll.)2 e A una violetta sicca (Una viola sicca Coll. e T) seguono, sia nel titolo, sia
nella versione qui accolta, le stampe tratte rispettivamente da
La Piccola Rivista per i primi due e dalla Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata per l’ultimo. La presente edizione adotta le norme grafiche utilizzate dai periodici pur con minimi
adeguamenti e, pertanto, risulta volutamente disomogenea rispetto al restante corpus.
I sonetti intitolati A Ernesto Mereu datano in calce «30
settembre 1898» e precedono In Conziliatura, che data a sua
volta «27 gennaio 1899», mentre A una violetta sicca non è
datata, ma si trova pubblicata nel numero di Sardegna Letteraria-Artistica Illustrata uscito il 4 agosto 1899.
Sono queste le sole liriche stampate su periodico vivente
il poeta; pertanto esse costituiscono il nucleo rappresentativo
di una stagione poetica in cui Mereu, probabilmente spinto
dall’amico e mentore Sulis, cercò di ottenere un minimo di
visibilità sulla stampa letteraria del tempo e su riviste che accolsero le prove, dagli esordi e fin oltre, della maggior parte
degli artisti e intellettuali isolani dell’epoca.
Per un discorso di continuità coi lavori precedenti non è
stato stravolto l’ordine in cui le poesie compaiono in DT78 e
DT82: il raggruppamento qui stabilito vede A Ernesto Mereu
e In Conziliatura comparire in successione dopo Titti tittia,
mentre A una violetta sicca è stata inserita subito dopo Litanias maggiores.
Le differenze più macroscopiche fra la versione data da
Coll. di A Ernesto Mereu e A una violetta sicca e quella, rispettivamente, di PR e SLA, qui pubblicate per la prima volta
sono, in breve:
TITOLO:
METRO:
A Ernesto Mereu PR; A frade meu Coll.
serie di sette sonetti PR; due sestas + due ottavas +
una sesta + una ottava + una sesta + una ottava + una sesta
+ una ottava + due sestas Coll. Mancano i vv. 7-8 del sonetto
[I] e le due terzine del sonetto [II]; inoltre il sonetto [IV], anticipato, occupa il posto del [III] (in Coll. > ottava 4 e sesta 5)
il quale, a sua volta, “diventa” l’ottava 10 e la sesta 11. Infine
mancano le quartine del sonetto [VII], il conclusivo (cfr. la
presente edizione).
TITOLO: A una violetta sicca SLA; Una viola sicca Coll.
METRO: undici terzine di endecasillabi + un verso di chiusura
2. Coll. qui e altrove è la sigla rappresentativa di tutte le raccolte curate
dal Collettivo “Peppino Mereu”, o che ristampano queste.
SLA; una strofa di nove versi + una di dodici + una di tredici
tutti endecasillabi Coll.
Per entrambi i componimenti si riscontrano, ovviamente,
varianti sostanziali anche dal punto di vista linguistico, vista
la probabile fonte orale, o comunque indiretta, utilizzata in
Coll., col conseguente riuso e “degrado” del testo poetico.
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Nota al testo
e deceduta nel 2000, secondo le informazioni fornite dai curatori nel suddetto volume (ivi, pp. 124-125, 138-139). Ci sentiamo di proporre una ipotesi riguardo al ritrovamento di
questa lirica, che riportiamo sotto per comodità del lettore:
«Cando chi a Tonara / brujadu has cust’incensu / comunu, e casi de profumu ingratu, / su ’inu de Atzara / t’hat leadu su sensu, / e zeltu est chi no has bidu su c’has fattu. /
Partu de una mente / infelize, comente / ses bennidu a su
mundu? Ite baratu / fit su mustu a s’edade / ch’iscrittu has
cussos versos caru frade!».
Vista l’assenza di titolo, la corrispondenza metrica (strofe
di undici versi di endecasillabi e settenari con identico schema rimico), il tono polemico, i riferimenti alla sgradita “incensatura” del popolo (vv. 1-3), l’attacco personale per dei
versi adulatori, evidentemente pessimi, scritti e chiaramente
recitati a Tonara, probabilmente durante un’occasione conviviale (vv. 4-5), ci pare ipotizzabile che questa strofa isolata e
priva di titolo possa in realtà avere un forte collegamento
con A Paolo Hardy.3 In quella poesia difatti l’odiato politico
era così descritto:
«Cando chi ses bennidu / de votos pedidore, / in Galusè,
a s’iscrocca ’e unu pranzu, / a Tonar’has tessidu / su simpr’e
aduladore / cantu, de sensu iscancaradu e lanzu» (vv. 1-6),
mentre il poeta afferma che «in sa sublim’altura / non balent
sos fumos / de s’incensu c’has cherfidu brujare» (vv. 12-14).
Davvero non sono poche le coincidenze e, se è pur vero
che le date non coincidono (A Paolo Hardy è datata «Tonara
… 1895», l’anepigrafa «Assemini, 22 marzo 1896») tuttavia la
strofa potrebbe essere stata scritta in seguito alla prima stesura
I componimenti Mauro Zucca, A Peppe Cappai, Muttu, A
un’illusa, Aspettos chiudono la nostra raccolta quasi a mo’
d’appendice: essi sono tratti da T e non si trovano inclusi nelle
sillogi precedenti. Questo testimone, che trae scherzosamente
il proprio titolo dall’allusione a un misterioso paccu sigilladu
che il poeta richiede non venga profanato e che contiene allusioni alla sua vita (cfr. Su testamentu, vv. 37-48), è comprensivo di ventuno poesie in diversi metri, tutte comprese nelle
stampe curate dal Collettivo, a parte le cinque summenzionate.
Si tratta principalmente di fonti orali, forse reperite nell’ambiente della poesia improvvisata frequentato attivamente dal
poeta di Oliena Antoni Canu, che si autodefinisce poeta ’e gara nello stesso volumetto e che prefà brevemente la raccolta.
Si può sospettare anche che alcune di queste poesie avessero
diffusione nei fogli volanti e che fossero già da quella fonte attribuite, più o meno ufficialmente, a Peppino Mereu. Difatti fra
i componimenti assenti in Coll. si trovano due sonetti (A un’illusa e In cunziliadura) e, a parte questi, due ottavas, di cui
una presentata come lacunosa al termine della quartina data a
testo (A Peppe Cappai) e un Muttu, pur se cólto nella scelta
lessicale e nei concetti espressi: si tratta di schemi metrici tipici
della poesia sarda improvvisata. Tuttavia una conferma di un
certo grado di attendibilità del testimone viene dal sonetto In
cunziliadura, pur dato con qualche variante corriva (cfr. ad
esempio il v. 3 [«a mie però paret chi fosté]», ove l’endecasillabo in T è ipometro per la caduta di mi rispetto alla pubblicazione apparsa nella Piccola Rivista), effettivamente firmato dal
poeta tonarese e assente invece nelle precedenti raccolte.
Infine, per dare al lettore un’idea della tradizione testuale
con la quale spesso si ha a che fare in questo tipo di lavori, si
noti che T trae il titolo, come detto, da alcuni versi di Su testamentu, poesia che, però, paradossalmente non vi si trova
antologizzata.
Si è collocata poi l’anepigrafa edita dal solo Fr dopo l’ultimo componimento delle raccolte curate dal Collettivo (Su
testamentu) il cui autografo, riprodotto nella stampa del
2001, si trovava in possesso di Clelia Mereu, la più giovane
delle figlie di Edoardo, fratello del poeta, vivente ad Assemini
3. Ecco alcuni stralci della efficace descrizione di questo personaggio
tratta da P. Marica, Stampa e politica in Sardegna. 1793/1944, Cagliari,
La Zattera Editrice, 1968, pp. 144-145: «L’Ugo … era un impiegato della
Società delle Ferrovie Sarde, dov’era stato collocato dal suo parente
Francesco Cocco Ortu. Per riconoscenza diventò solerte procacciatore
di voti per il potente amico. Tra le poesie satiriche del poeta dialettale
Peppino Mereu, ce n’è una a lui dedicata che illustra in versi i suoi
viaggi elettorali … firmava Paolo Hardj oppure Filippo Argenti, producendo cose mediocri in prosa e in versi».
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Nota al testo
del componimento, poi incluso in V1: si spiegherebbe così il
riferimento a un passato ironicamente non determinato negli
ultimi tre versi («Ite baratu / fit su mustu a s’edade / ch’iscrittu
has cussos versos caru frade!», vv. 9-11), e non verrebbe difficile inserirla proprio quale strofa conclusiva.
Anche l’immagine presente nella strofa isolata «partu de
una mente / infelize, comente / ses bennidu a su mundu?»
(vv. 7-9) si spiegherebbe ora come il riferimento a quel sonetto intitolato Tonara (cfr. la nota del curatore a p. 201 della
nostra edizione), apparso sul periodico cagliaritano Spigolature d’arte e da noi pubblicato, definito «partu reu» e «partu fatale» (A Paolo Hardy, rispettivamente vv. 7 e 56), e non come
insulto rivolto a un non meglio identificato e inesperto poeta.
Insomma, si tratterebbe di un ulteriore rigurgito d’amarezza nei confronti di chi cerca di blandire il popolo con
poesie o altro «pro lograr’unu votu» (A Paolo Hardy, v. 37),
nonché di una preziosa testimonianza “genetica” che certo
non sarebbe potuta emergere dalla tradizione a stampa di
Mereu. Si noti inoltre l’incipit identico in entrambi i componimenti, «Cando chi», che a questo punto potrebbe non essere casuale, ma spiegabile come formula rimasta nella testa
del poeta, magari in seguito a una rilettura di A Paolo Hardy,
che gli avrebbe ispirato l’inizio di un’ulteriore strofa dedicata
al medesimo personaggio, redatta però in un secondo momento. In definitiva quindi la nostra titolatura è da ritenersi
utile meramente ai fini di una corrispondenza fra indice e
strofa e non al fatto che riteniamo si tratti di un componimento isolato rimasto privo di titolo, come potrebbe sembrare a una prima lettura.
Questo il corpus da noi accolto e i testimoni utilizzati per
la collazione. Da un ipotetico stemma rappresentativo della
parentela fra le varie stampe sarebbero ovviamente escluse le
raccolte successive a quella del 1899, ossia V2 e N, in quanto
“copie” della princeps stessa e da considerarsi, pertanto, inutili
o descriptae ai fini di una ricostruzione dell’originale. Come si
sa, il concetto di descriptus nella tradizione a stampa è da
prendersi con cautela; perciò è stata effettuata una collazione
fra V1 e i sunnominati testimoni – ad esclusione delle raccolte
di poesie scelte – sì da “misurare” le trasformazioni grafiche,
fonetiche e non di rado metriche intercorse negli anni, a partire dal 1899 fino ai giorni nostri. Inoltre si è ricorso alla collazione in presenza di lezioni dubbie, anche se per gli emendamenti ci si è basati, come consuetudine in questi casi, per lo
più sulla metrica e le rime, sul senso, l’usus scribendi e le abitudini linguistiche che si possono evincere dai testi.
Oltre a ciò precisiamo che la situazione testuale dell’opera
mereiana è certamente “scomoda”, in quanto non resta traccia
degli autografi consegnati dal poeta all’amico Giovanni Sulis e
pubblicati da costui a sua insaputa. Così, il materiale che non
compariva nella princeps proviene da fonti orali, a parte le eccezioni di cui sopra, anche se bisogna ammettere che la tradizione risulta meno evanescente rispetto ad altre. Difatti è abituale nelle raccolte poetiche dell’Isola aver a che fare con sole
fonti indirette, in quanto larga parte del repertorio di un poeta
poteva essere legato al mondo dell’improvvisazione e, di conseguenza, etichettabile come “estemporaneo”. La conseguenza di tutto questo, lo si potrà immaginare, è la trasformazione,
il riuso e, spesso, la deformazione del testo, nato come orale
e soggetto pertanto al degrado mnemonico.
Non altrettanto abituale, anzi rarissima nella forma data
da V1, è però l’esistenza di una raccolta compiuta e pubblicata
in vita per un editore locale prestigioso, organicamente selezionata, nata dalla trascrizione di un autografo e, pertanto, di
per sé assai attendibile, pur con le dovute riserve. Certamente
fa pensare l’incompiutezza di alcuni componimenti di Mereu,
dichiarata dallo stesso curatore, come anche i titoli X…, Y…
ecc., a nostro parere redazionali e non dati come provvisori
dal poeta, che però conserviamo. Tuttavia è forse un buon segnale il fatto che proprio l’incompiutezza sia stata dichiarata e
non, come talvolta càpita, nascosta o mascherata con integrazioni o tagli che non appartengono all’autore. Difatti ciò per
noi significa che vi fu da parte di Sulis un profondo rispetto
di tutto il testo, compresi eventuali suoi difetti (da intendersi
in senso lato), sicché ciò è consolante quando si ha a che fare, come nel nostro caso, con testimoni unici a stampa come
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Nota al testo
4. P. Stoppelli, “Introduzione”, in Filologia dei testi a stampa, Bologna,
Il Mulino, 1987, p. 13.
5. In questo caso è però la stessa princeps a mostrare incertezza: difatti
nell’indice il titolo del componimento è Consizos a un amigu, mentre
successivamente si trova Consizos a unu amigu, che qui accogliamo.
Inoltre le liriche anepigrafe e le anepigrafe lacunose di V1
sono state tutte intitolate dai curatori: X… > Ispasimos de amore; K… > Ninna nanna; Y… > Cainu; W… > Dialugu fra maridu e muzere, come in N. A tal proposito segnaliamo che V1
intitola queste poesie con le lettere maiuscole di cui sopra, seguite da puntini che dovrebbero segnalare omissione o lacuna,
mentre all’interno della raccolta esse sono seguite dal punto
fermo. In questo caso, visto che nelle stesse “Notas” di Sulis,
che fece da editore, si trova il rimando ai titoli con i puntini,
questi ultimi sono stati adottati nella nostra edizione.
Segnaliamo poi l’aggiunta del verso di chiusura delle terzine di Su testamentu, riportato da C: «Peppe Mereu bos toccat sa manu». A sua volta esso, assente in tutte le altre raccolte curate dal Collettivo, si trova dato a testo da S (ivi, p.
110) che, come già detto, è una stampa priva di datazione
ma di gran lunga antecedente alla pubblicazione di C. È presumibile che tale lezione sia stata accolta da C proprio in seguito allo spoglio di questa pubblicazione. Nonostante la
scarsa credibilità attribuibile al testimone S è tuttavia opportuno accogliere la lezione, in mancanza di prove contrarie,
pur se è evidente la possibilità che si tratti di una lectio facilior sulla quale è per lo meno lecito nutrire qualche dubbio.
In definitiva, come detto sopra, è soprattutto DT82 a
uniformare graficamente la lingua della princeps, pur se di frequente si tratta della estensione di principi grafici adottati in
maniera più sporadica nella raccolta del ’78. Tali modifiche, ad
esempio, riguardano la banalizzazione di alcune lezioni di V1
(ad es. Consizos a unu amigu, vv. 144-145: «Suni niente, appettu / a …» V1 > «suni niente a pettu de …» Coll.), oppure lo
scempiamento sistematico di alcune geminate (happ’ > hap’ o
magnetizzas > magnetizas), il passaggio dalla semiconsonante j a g (jardinu > giardinu) e la rotacizzazione della laterale
l (bennalzu, telalzu, ’ervegalzu > bennarzu, telarzu, ’ervegarzu ecc.), le elisioni (silenzi’e > silenz’e), la -t finale delle terze
persone plurali dei verbi che dilegua (isfozant > isfozan), fino
ad interventi sulla punteggiatura, alla soppressione delle dediche e degli apparati del Sulis delle edizioni Della Torre. Questi
ultimi, però, sono stati ripristinati da C, che d’altra parte segue
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V1 che, spesso, finiscono per «coincidere con la stessa definizione del testo critico dell’opera».4
Più problematica risulta l’edizione dei testi raccolti con
ammirevole sforzo dal Collettivo di ricerca “Peppino Mereu”,
in quanto nessuno dei criteri di scelta e vaglio delle fonti è
stato apertamente dichiarato e, pertanto, lo iudicium da utilizzare a fini attribuzionistici è unicamente la conformità o
meno ai dati “sicuri” in nostro possesso che ineriscono la
lingua, i temi trattati, i metri, lo stile poetico, di quanto tramandatoci dalle liriche “aggiuntive”.
Differenze fra i testimoni
Non è possibile dar conto in questa sede di tutte le varianti, anche solo sostanziali, che intercorrono fra i testimoni, operazione che richiederebbe un apparato critico. Ribadiamo però che V2 ed N sono delle ristampe della princeps
e che pertanto, a parte lievi differenze di carattere formale,
esse seguono fedelmente il testo di riferimento, emendano
pochi refusi, talvolta aggiungendone degli altri, soprattutto
V2, e ritoccano raramente la punteggiatura. Si è già detto,
inoltre, dell’inserimento da parte di N del titolo Dialugu fra
maridu e muzere al posto del titolo redazionale W… di V1.
Più interessanti risultano le divergenze fra quest’ultimo testimone e le raccolte curate dal Collettivo “Peppino Mereu”,
nelle quali è stato effettuato un lavoro di uniformazione linguistica, più leggero in DT78, più profondo nella raccolta successiva. Fra l’altro quest’ultima contiene non pochi refusi di stampa.
In generale, si trovano difformità evidenti già a partire
dai titoli: ad esempio Consizos a unu amigu > Cunsizu a
unu amigu Coll.;5 Lamentos d’unu nobile > Lamentos de u.
n. (cfr. anche p. 66); Solferino! > Solferino; Studente > Istudente; Addio a Nuoro > Addiu a Nugoro.
Nota al testo
generalmente DT82 per le modifiche di cui sopra, rivedendo
sporadicamente alcune lezioni sulla base di V1, fino al ripristino dello spazio fra gli apostrofi che indicano fenomeni d’elisione o aferesi della princeps.
Nel corpus di poesie raccolte dal Collettivo si ha ugualmente una netta contrapposizione fra DT78 da una parte, contro DT82 e C dall’altra, contrapposizione che si evince, ad
esempio, da grafie come l’happo/l’hapo, agattas/agatas, lentizza/lentiza, ligera/lizera (la prima forma è data da DT78 e
segue V1) ma anche da qualche lezione sostanziale, come finestra del v. 2 di Turmentos, cui DT82 e C oppongono ventana, o da suddivisioni metriche differenti (cfr. Serenada).
Criteri di edizione
Come si evince dalla situazione testuale descritta sopra il
corpus poetico di sessantasei poesie attribuite a Peppino Mereu è disomogeneo. Riassumiamo: ventinove testi pubblicati
in V1 + tre presenti nelle già citate riviste, per i quali l’attribuzione è certa e documentata a livello scritto da fonte diretta, +
uno riportato da Fr, del quale però non si è potuto vedere da
parte nostra altro che una riproduzione, presumibilmente da
fotocopia, all’interno del volume, + i ventotto di Coll. (compresa l’Ottava mancante in DT82), per un totale di 61. A queste si sommano le cinque liriche tràdite da T.
In conseguenza di ciò abbiamo deciso di editare il testo
nell’unico modo per noi minimamente scientifico, ossia secondo un criterio di coerenza interna alle fonti da cui le
poesie provengono, così da non affrontare una lotta impari
di “riscrittura” delle stesse, secondo inutili mire parificatorie.
Dal punto di vista tipografico si noterà quindi una sorta di
“stacco”, per quanto ridotto da alcune norme comuni, fra le
prime ventinove poesie e le successive raccolte da Coll., onde evitare una operazione di maquillage assolutamente falsa
e arbitraria.
orali si presuppone e, pertanto, filologicamente meno “sicure”
e verificabili.
Si è tenuto conto di questo nella trattazione testuale, operando in maniera assolutamente conservativa per il corpus di
fonte diretta, ove si è proceduto a emendare i refusi di stampa e ad adeguare la punteggiatura qualora questa risultasse
mancante o palesemente errata (cfr. ad es. l’inserimento della
virgola alla fine del v. 13 di S’orfana pedit pane), l’uso delle
maiuscole (ad es. nei nomi dei mesi nelle datazioni in calce,
resi tutti minuscoli secondo l’uso maggioritario) ecc.
Inoltre, per il trattamento linguistico del materiale poetico tràdito da V1, si è rispettata la norma grafica che emerge
con buona chiarezza da questo testimone, dalle stampe pubblicate sui periodici letterari e dall’autografo di Fr, pur con
qualche minimo adeguamento:
Per il gruppo di trenta componimenti reperiti dal Collettivo (compresi A frade meu e Una viola sicca) e i cinque di T
(senza tenere conto di In Conziliatura) le fonti sono indirette,
1. lo spazio dopo l’apostrofo che segnala l’elisione in V1 è
stato soppresso (es. senz’ arte > senz’arte), tranne nel caso
di vocaboli terminanti con vocale elisa preceduta da altra
vocale + h di haer < HABE-RE (es. ozi’ has, tu’ has ecc.). L’apostrofo è stato poi inserito nei pochi casi in cui risultava mancante dopo l’articolo indeterminativo (ad es. un amante >
un’amante, un ora > un’ora). In Agonia, inoltre, il v. 6 «de
juliar a mie» è stato emendato in «des juliar’a mie», come nel
v. 43 di W… «signales c’has pappadu menzus cosa» > signal’es, in quanto l’azione di conservare il pane di crusca, il
“segnale” quindi, è una sola. Similmente si è operato in altri
casi, non enumerabili però in questa sede;
2. l’alternanza di forme del sostantivo Patria/patria è stata risolta a favore dell’iniziale maiuscola, in quanto preponderante
nella princeps e poiché è lecito sospettare una distrazione del
tipografo, come pure nel caso Autore/autore, presente negli
apparati curati da Sulis e ugualmente risolto con la scelta dell’iniziale maiuscola. Alternanze del tipo abbizzo/abbizo sono
state invece preservate, in quanto pienamente giustificabili a
livello di scripta;
3. l’elisione, d’abitudine segnalata in V1, è stata regolarizzata
ove necessario (es. credi a > credi’a [Consizos a unu amigu,
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77
Nota al testo
v. 13]). Inoltre è stato inserito l’apostrofo nei casi in cui, per
necessità metriche, rimiche o eufoniche la vocale finale a
della 1a sing. dell’imperfetto indicativo è stata apocopata, così da evitare possibili fraintendimenti (es. mi sustentai > mi
sustentai’ [Lamentos d’unu nobile, v. 47]; alzai su cantigu >
alzai’ [ibid., v. 59]);
4. il nesso chi relativo + haer (es. c’has = chi has) è stato lasciato intatto in relazione all’uso dell’aspirata che indica la
pronuncia velare delle occlusive sorda e sonora, come non
si è intervenuti nei casi bindig’annos ma, più volte, degh’annos, o fog’/fogh’ per fogu. Consideriamo questa alternanza documento dell’incertezza grafica nella resa della velare sorda e sonora in fonosintassi;
5. sono stati ripristinati gli accenti nelle parole ossitone che
sporadicamente non li riportano (ad es. faghe si > faghe sì,
gia > già, quando non in presenza della forma apocopata
gia’ per giai; ne > nè, pe > pè);
6. la terza persona del verbo ‘dare’, das, compare con o senza accento grave sulla vocale; tale alternanza è stata conservata;
7. i discorsi diretti, quando chiaramente tali e quasi sempre
preceduti in V1 e nei due periodici dai due punti, sono stati
racchiusi fra virgolette basse. Inoltre è stato regolarizzato l’uso
dell’iniziale maiuscola, alternante nella tradizione di cui sopra
(es. «ca su cor’in su pettus ti nàt: vile! > «Vile!» [X…])». Per il restante corpus vale quanto fatto nelle raccolte che lo tramandano. Ciò per consentire una lettura più sicura del testo;
8. la numerazione delle strofe, mancante nella princeps se
non in due componimenti polimetri (Moribunda e A Genesio
Lamberti) ma presente in Coll. e in T, è stata evitata nell’intera silloge, a parte i polimetri di cui sopra e nelle serie di sonetti A Ernesto Mereu e Alberto La Marmora. In questi ultimi
due casi essa è stata racchiusa fra quadre. Per gli altri componimenti si è fatto quindi riferimento al numero dei versi;
9. il maiuscoletto con cui V1 contrassegna la parola iniziale di
ogni componimento non è stato conservato per ragioni d’uniformità col restante corpus. Inoltre il carattere corsivo, anche
allora utilizzato, come oggi del resto, per contraddistinguere i
vocaboli con accezione inusuale o non sardi, è stato minimamente regolarizzato (ad es. «declinat con furat» > «declinat con
furat» [A Paolo Hardy, v. 50]) o «Happ’a bider dolentes esclamende: «“Mea culpa”» > … «“Mea culpa”» (A Nanni Sulis [II], v.
130). Ciò perché si tratta, come spesso accade, di una disattenzione imputabile al tipografo. Quest’uso è stato esteso, come
in V1, alle parti mistilingui e in sardo interferito delle liriche reperite da Coll. In Signora maestra però si è preferito evidenziare in tal modo le parti in sardo, essendo largamente preponderante l’italiano;
10. a livello dei diacritici abbiamo preferito estendere l’uso
dell’apostrofo per la segnalazione del dileguo delle occlusive sonore in principio di parola all’intero corpus, così da
non confondere il lettore con due criteri differenti e da semplificare la comprensione del testo in sardo, soprattutto in
presenza di incontri con altri vocaboli che danno luogo a
elisioni (es. ’ona, ’irde ecc.). Naturalmente quest’uso grafico
è stato regolarizzato nelle poesie tràdite da DT82, dove risulta irregolare;
11. i componimenti che in V1 recano lo stesso titolo di altri
successivi sono contraddistinti da numeri romani in progressione fra parentesi quadre (ad es. A Nanni Sulis [I], [II], [III]);
12. abbiamo accolto la lezione data dallo stesso Sulis del v.
53 di A Paolo Hardy («Campidanu Nuòro s’ammesturat» V1),
alla nota 49: «Campidan’a Nuòro s’ammesturat». Ci sembra
anche questa una svista del tipografo.
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Circa l’aspetto grafico delle liriche, l’unica evidente normalizzazione è stata la disposizione delle strofe (cfr. ad es.
le terzine).
Quanto alle liriche aggiunte successivamente alla princeps si è preferito estendere l’uso della forma geminata della
prima persona del verbo haer (happo), nonostante l’uso
scempio di DT82, in quanto si tratta di una scelta meramente
grafica che sarebbe andata contro non solo l’uso della princeps, ma anche di PR, SLA e T, che costituiscono a loro volta
una parte del corpus poetico a sé stante rispetto a V1, come
detto.
Nota al testo
Pertanto pubblichiamo questa seconda parte rifacendoci
a DT82, ovviamente emendata degli assai numerosi refusi tipografici e di trascrizione (cfr. ad es. S’ambulante tonaresu,
v. 13 [«e chi leat truddas e tazeris»], ipometro in DT82 per il
chi > chïe nella presente edizione e A Signor Tanu, v. 98
[«non godimus in paghe s’ispettaculu»], dove non è stato
emendato con nos, perché la lezione appare carente di senso). Inoltre abbiamo eliminato il carattere corsivo che in Titti tittia contrassegnava una esclamazione che, tuttavia, è assai comune in sardo e che altrove è stata data in carattere
ordinario (cfr. Alberto La Marmora). Ci riserviamo di dare in
altra sede i risultati dettagliati della collazione fra i testimoni
da noi eseguita.
Inoltre sono stati effettuati alcuni cambiamenti inerenti la
metrica dell’edizione del Collettivo:6 Unu bandu è stato reso
come sonetto, in luogo delle suddivisioni, in effetti disparate, adottate dalle raccolte precedenti.
Alberto La Marmora è palesemente una serie composta
da quattro sonetti (del tipo di quelli dedicati a Ernesto Mereu) e, pertanto, il componimento ha qui tale suddivisione, a
differenza delle tre strofe dai quattordici versi senza scansione grafica in quartine e terzine proposte in DT78e dell’alternanza di ottavas e sestas proposte da DT82 e dalle stampe che
da essa discendono.
Signora maestra è stata resa con una strofa unica nei trentacinque versi che, invece, sono distribuiti da Coll. secondo
una suddivisione che ci sembra poco convincente: difatti essa
si basa, come evidente, sulle rime e sull’interpunzione utilizzata al termine di ogni strofa. In realtà però tale procedimento, se di per sé ammissibile, appare forzato tenuto conto del
fatto che i metri che andrebbero a comporre la sesta, la quartina, l’ottava, la seconda sesta, fino ad arrivare alla strofa di
dodici versi che precede la quartina conclusiva di Coll., spaziano dal trisillabo all’endecasillabo, passando per quadrisillabo e senario, senza alcuna attestazione a noi nota di un uso
simile da parte del nostro o, per lo meno, di un modello al
6. Per questo aspetto rimandiamo alla nostra “Classificazione metrica”.
80
quale egli avrebbe potuto rifarsi. Perciò si è preferita una soluzione più prudente, quale ci sembra sia quella di cui sopra.
Lasciamo come strofa a sé, analogamente a Coll., la quartina
di endecasillabi finale, che ci sembra invece più plausibile.
Lo stesso ragionamento è stato seguito per Proposta
amorosa e Risposta amorosa: nel primo componimento Coll.
costruisce una gabbia metrica forzata con una strofa incipitaria di sedici versi, così da poter ricavare successivamente
una ottava lira serrada e una sesta per i quattordici versi
successivi, endecasillabi e settenari alternanti. Tutto ciò è
stato ridotto a strofa unica. Nel secondo, in apertura, si trova
una ottava in settenari con un solo endecasillabo con schema aAbbccdd, + una ottava in endecasillabi e settenari a dir
poco atipica, con schema AABBCcdd,7 per concludere come
nella nostra edizione. In questo caso abbiamo preferito raggruppare i primi sedici versi in un’unica strofa, dato che essi
non ci sono parsi altrimenti suddivisibili, a meno di ingiustificabili forzature, mentre le due deghinas e la quartina finale
sono state conservate, secondo la soluzione adottata da Coll.
Piazzaforte di Orune appare qui in terzine, invece della
suddivisione in strofe di lunghezza variabile data dalle due
raccolte Della Torre e dalla strofa unica di C.
Serenada è qui data come una quartina iniziale + due
ottavas torradas.8
Si è poi evitata la scansione bisillabica col tratto breve
dei dittonghi (ad esempio da-e; e-i) utilizzata in Coll.
7. Andrea Deplano in Rimas cit., p. 78 afferma a proposito di questa ottava: «Si deve a Peppinu Mereu, invece, un raro esempio di Ottava costruita con verso senario intrecciato con endecasillabo e settenario». Lo
studioso considera cioè quadrisillabo cavaliere che, però, si potrebbe
anche leggere come pentasillabo, con dieresi eccezionale sul dittongo
(cavalïere) nonostante l’etimo “scoraggiante”. Inoltre egli conteggia come senari quelli che sono fuor di dubbio due settenari finali ossitoni,
come appare dallo schema metrico ivi collocato a fianco della strofa. In
definitiva non ci pare si tratti di una ottava “rara”, ma più semplicemente di una successione di endecasillabi e settenari, secondo lo schema in
lira. Circa le perplessità relative alla suddivisione strofica cfr. supra.
8. Cfr. la “Classificazione metrica”, p. 90.
81
Ancora, sono stati inseriti anche qui gli accenti quando
ritenuto necessario (es. negaz. ne > nè) o regolarizzati a seconda dei casi (es. dò < dare [caso unico] > do).
CLASSIFICAZIONE METRICA
Per concludere, si è cercato nel tradurre di rispettare,
quando non il computo sillabico, almeno la musicalità del verso e alcune rime, sempre che ciò non andasse a discapito dell’intento prefissatoci di adererire quanto più possibile al testo
di partenza, oltreché, ovviamente, della chiarezza del concetto
espresso dal poeta, a volte correttamente traducibile solo attraverso una banalizzazione della forma poetica e, quindi, rimica.
In generale è stata sacrificata la stretta aderenza formale al testo di partenza qualora essa richiedesse un eccessivo allontanamento dal senso più immediato da noi attribuito ai versi.
In taluni casi abbiamo preferito la perifrasi al singolo vocabolo italiano che, pur ottemperando alla esigenza estetica
o uditiva, tuttavia non avrebbe potuto rendere appropriatamente il concetto espresso nella lingua di partenza.
Raramente si è scelta la via della esegesi attraverso la
nota a piè di pagina, se non in pochi casi (quattro) nei quali
ciò si è reso necessario, almeno in rapporto alle nostre capacità e conoscenze. Come per tutte le nostre osservazioni, tali
note sono racchiuse fra parentesi quadre.
Inoltre si è scelto di tradurre, sempre fra quadre, i vocaboli in sardo interferito con l’italiano o con l’inglese (cfr. ad
es. Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu) presenti in alcuni sonetti, inserendo tali forme composte all’interno della traduzione, sì da tentare di preservare l’intenzione linguistica che
anima queste divertenti sperimentazioni mereiane.
Questa classificazione ha lo scopo di dare conto della
varietà e frequenza dei metri utilizzati dal poeta. Da tale
punto di vista Mereu appare legato per un verso a certo tipo
di tradizione ormai diffusa nella poesia “colta” isolana: difatti
egli si muove per lo più fra sonetti, terzine e ottavas serradas e in lira, variandone però continuamente lo schema rimico e, talvolta, la misura del verso.
Nella produzione che ci è giunta – quella sulla quale, pertanto, dobbiamo fondare le nostre osservazioni – spicca l’assenza dei metri torrados, composti di versi ripetuti e suddivisi
in isterrida o isterria o pesada, cambas (‘strofe’), cambas torradas (‘versi ritornati’, ossia ‘ripetuti’) e torradas.1 Queste tecniche, tipiche ad esempio di mutos e mutettus e assai legate alla
poesia improvvisata – ma quasi tutti i più noti poeti sardi a
taulinu le utilizzarono – sono praticamente assenti dal discorso
poetico di Peppino Mereu, il quale, però, le dovette ben conoscere, vista la sua frequentazione sia del mondo della produzione estemporanea degli improvvisatori, sia della produzione
dei “grandi” in lingua logudorese, che ne fecero largo uso.2
82
83
1. Per un’idea della metrica sarda e delle tecniche che la caratterizzano
rimandiamo almeno a M. Madau, Le armonie de’ Sardi, Cagliari, Reale
Stamperia, 1787 [rist. anast. Bologna, Li Causi, 1983] riedito a cura di C.
Lavinio, Nuoro, Ilisso, 1997 e a G. Spano, Ortografia sarda nazionale,
Cagliari, Reale Stamperia, 1840 [rist. anast. Cagliari, Gia Editrice, 1995],
capp. I e II. Si veda poi A.M. Cirese, Struttura e origine morfologica dei
mutos e mutettus sardi, 1964, [rist. anast. Cagliari, 3T, 1977], relativamente
alle strutture metriche di queste forme poetiche, mentre sulla terminologia delle forme metriche della poesia popolare sarda, dello stesso autore,
“Alcune questioni terminologiche in materia di poesia popolare sarda:
‘mutu’, ‘mutettu’, ‘battorina’, ‘taja’”, estr. da Annali delle Facoltà di Lettere
e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari, vol. XXVII, 1959 [rist.
anast. Cagliari, 3T, 1977]. Entrambi i lavori di Cirese sono confluiti nella
“Parte seconda. L’arte del trobear”, in A.M. Cirese, Ragioni metriche, Palermo, Sellerio, 1988. Sufficientemente esaustivo e chiaro è poi il lavoro
di A. Deplano, Rimas, Cagliari, Artigianarte, 1997.
Classificazione metrica
Appare convincente l’ipotesi formulata da Duilio Caocci a
proposito della selezione che ha dato luogo alla silloge edita
da Valdés: «A noi pare che, a strutturare l’antologia, intervenne
prima un’intenzione dell’autore … poi una selezione del curatore».3 È quindi ipotizzabile che tecniche come la retrogradazione, la ripetizione di parti di verso o di interi versi e di altre
tecniche tipiche della poesia popolare sarda e di quella legata
all’improvvisazione, che generalmente possiamo identificare
fra i metri composti di pesada e torrada, siano state volontariamente escluse dallo stesso poeta, oltre che da un mentore il
quale, al corrente come Mereu di quanto si andava pubblicando nel Paese, avrà incoraggiato il giovane autore a consegnargli di volta in volta la produzione considerata da entrambi “innovativa”. Non sembra inopportuno pertanto parlare di un
volontario distacco, relativamente alla produzione a taulinu,
da moduli poetici sentiti come legati a quel poetare orale che,
pure, Mereu ben conosceva e praticava con passione, tanto da
essere paragonato dall’amico Sulis al Tigellius della Satira I, 3
di Orazio nella “Prefazione” all’edizione del 1899. Ciò perché
«si nega sempre a cantare tra gli amici e una volta cominciato
non la smette più» (p. 102). S’impone, ovvia, una riflessione
circa il pubblico al quale Mereu e Sulis intesero rivolgere le
poesie contenute nella princeps: ci sembra che la scelta di
Dae una losa ismentigada ad esempio, rifatta su Postuma di
Lorenzo Stecchetti, figura assai in voga fra gli ambienti colti di
quegli anni in Sardegna, la cui opera era spesso diffusa dalle
effemeridi locali, collocata in apertura della silloge potesse
costituire quasi una implicita dichiarazione programmatica, che
vide il poeta tonarese ben consapevole nella volontà di distinguersi rispetto ai moduli poetici tradizionali.
A conforto di quanto detto sopra riportiamo pochi stralci
di un articolo a firma di Giovanni Sulis e intitolato semplicemente “Peppino Mereu”, apparso su S’Ischiglia, a. I, n. 12,
1949, [rist. anast. Cagliari, Gianni Trois, 1979, p. 334]: «Un vivido cervello nudrito di una discreta cultura … riuscì … ad
allontanarsi sdegnosamente dalle imitazioni pedantemente
servili di non pochi poeti nostrani, che amarono … le parodie dei poeti classici … il Mereu fu un ingegno … che si allontanò dalla schiera dei poeti vernacoli del suo tempo …
nei suoi vari atteggiamenti poetici che … schiusero dinanzi
al suo sguardo aquilino nuove vie alla sarda poesia». Sottolineare quale sia l’aspetto che Sulis apprezzò maggiormente
delle liriche di Mereu è a questo punto superfluo.
2. Si trovano con grande frequenza sestas e ottavas torradas nell’opera
di D. Mele [Satiras, Cagliari, Della Torre, 1984]; deghinas glossas in A.D.
Migheli [Sa briga ’e sos santos e altre poesie, Cagliari, Della Torre, 1986];
in M. Murenu [Tutte le poesie, a cura di F. Pilia, Cagliari, Della Torre,
1990], per limitarci a tre poeti satirici che con ogni probabilità Mereu conobbe e ai quali, in misura diversa, s’ispirò. I pochi casi di parti di verso
ripetute nel corpus mereiano sono formule o moniti come «Ammentadind’ammenta», ripetuto per due volte ai vv. 15 e 17 di X…, ma poco significativi ai fini del discorso metrico che qui affrontiamo.
3. D. Caocci, “La poetica del controcanto. Note su un poeta sardo di fine ’800”, in Portales, a. I, n. 1, 2001, p. 100.
Prima di giungere alla classificazione vera e propria spenderemo poche parole per definire lo stato di perizia metrica di
Peppino Mereu, che definiamo alto, tenuto conto della cultura
e dell’età del poeta, con poche ipermetrie, ipometrie e rare false rime, un numero elevato di dieresi eccezionali e in generale
irregolari, com’è tipico soprattutto della poesia che utilizza frequentemente versi sdruccioli, un uso della dialefe abbastanza
disinvolto sia dopo tonica, tonica + atona e, viceversa, in presenza di numerosi monosillabi, generalmente preceduti o seguiti da vocale atona. Si nota inoltre un uso moderato di sistole e diastole, tenuto conto anche del fatto che nella poesia
sarda, ma spesso anche in quella italiana, alcuni vocaboli hanno una pronuncia abitualmente differente rispetto alla lingua
parlata, tendente spesso a rendere piana una parola sdrucciola
(ad es. fémina > femìna, ocèanu > oceànu, cùmbidu >
cumbìdu ecc.) e che, perciò, è talvolta difficile definire tali
spostamenti d’accento come diastole o sistole vera e propria.
Si tenga presente che nello schema rimico che utilizziamo le lettere maiuscole indicano gli endecasillabi, le minuscole i versi di misura inferiore, mentre l’ordine in cui compaiono i vari metri è stabilito in base alla frequenza.
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85
Classificazione metrica
SONETTI
Questo metro, per numero di occorrenze (diciannove +
due fra i polimetri) e di versi, è in assoluto il più frequente.
Tale struttura strofica era considerata tipica della poesia a
taulinu e Mereu la utilizza diffusamente sia nella singola
poesia, sia “in serie”, sostituendola talvolta all’ottava, tipicamente discorsiva, nella redazione di poesie particolarmente
estese, ad esempio in A Ernesto Mereu e Alberto La Marmora. Anche quest’uso metrico del poeta tonarese ci pare un
segnale di novità all’interno della produzione sarda: il solo
fatto che prevalga il sonetto, difatti, indica da un lato la volontà di non limitarsi a un’unica direzione, quella appunto
dei versi torrados, quindi delle varie quartinas, sestas, ottavas e deghinas; dall’altro si evince il desiderio di inserirsi in
una sorta di filone mediano in cui sono presenti anche le ottavas e le quartinas, utilizzate però richiamando alla mente,
oltre alla tradizione locale, le letture dei modelli contemporanei della poesia nazionale. Il poeta cioè si colloca entro
un ambito di più ampio respiro e propone temi nuovi, legati
ad influenze derivanti dal realismo minore, come appunto
dimostra la massiccia presenza dei sonetti, «forme metriche
privilegiate in cui i dialettali veristi calano le loro istantanee
del mondo popolare»,4 rispetto a una più aulica produzione
locale.
A noi pare che questa libertà nello stare a cavaliere fra
due mondi ed assorbire da essi non solo temi ma anche
strutture formali, costituisca una delle formule vincenti della
poesia di Peppino Mereu, autore colto e consapevole delle
proprie scelte nonostante la giovane età, che si distingue
nettamente sull’asse dell’innovazione rispetto ai suoi predecessori. Ricordiamo inoltre che il sonetto è il metro tipico
dei componimenti che “rifanno” la parlata del dialettofono
che tenta, in determinate situazioni diastraticamente marcate, di imbastire discorsi in un improbabile italiano (cfr. la
“Prefazione”, pp. 22-44).
Amore
Solferino!
Aritzo
Studente
S’orfana pedit pane
Addio a Nuoro
Unu ballu in maschera
Sa teracca mia
A Ernesto Mereu
In Conziliatura
Su socialista a una bigotta [I]
[II]
S’isveglia
Unu bandu
Su canarinu de su rettore
Alberto La Marmora [I], [III], [IV]
[II]
S’ambulante tonaresu
Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu
Sas giarrettieras
A un’illusa
ABBA
ABBA
ABAB
ABBA
ABAB
ABAB
ABAB
ABBA
ABAB
ABBA
ABBA
ABBA
ABBA
ABAB
ABBA
ABBA
ABAB
ABBA
ABAB
ABAB
ABBA
ABBA
ABBA
ABAB
ABBA
ABAB
BABA
ABAB
ABBA
ABAB
ABBA
ABBA
ABBA
ABBA
ABBA
ABBA
ABBA
ABAB
ABAB
BABA
ABAB
ABBA
CDC DCD
CDC EDE
CDC CDC
CDE CDE
CDC DCD
CDC DCD
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDC DCD
CDE CDE
CDE CDE
CDC DCD
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDE CDE
CDC DCD
4. F. Brevini, La poesia in dialetto, tomo 2, Milano, Mondadori, 1999, p.
2866.
OTTAVAS
Numerose sono le ottavas (sette componimenti + una
ottava mutila fra le liriche “dubbie” [A Peppe Cappai] + otto
fra i polimetri). Si tratta di strofe di otto versi, in prevalenza
endecasillabi, che l’autore utilizza sempre nella forma serrada, ossia con un distico finale a rima baciata che dovrebbe
costituire sa serrada = ‘la chiusura’ appunto, e che conclude
ogni strofa, oppure in lira serrada, con endecasillabi e settenari alternati che si rincorrono fino alla chiusa della strofa,
costituita da un distico a rima baciata, sempre secondo lo
schema 7/11 (cinque occorrenze). Fanno eccezione le ottave
[IV] e [V] di Risposta amorosa, secondo l’edizione Della Torre dell’82, qui utilizzata come testo di riferimento (cfr. i
“Componimenti polimetri”).
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Classificazione metrica
OTTAVAS SERRADAS
Dae una losa ismentigada
W…
Sa bottiglia
A su tianesu
Cunfessende
Ottava
Mauru Zucca
ABABABCC
ABABABCC
ABBAABCC
ABABABCC
ABABABCC
ABBAABCC
ABABABCC
A Peppe Cappai: resta di questo componimento una
quartina probabilmente mutila dei quattro versi finali con
schema ABAB, con indicazione di lacuna data da T, il testimone che lo tramanda.
OTTAVAS LIRAS SERRADAS
A Tonara
Galusè
A Eugeniu Unale [II]
A signorina S…
Turmentos
aBaBaBcC
aBaBaBcC
abCabCdD
aaBccBdD
aBaBaBcC
TERZINE
Questo metro ricorre sovente nell’opera mereiana (dodici componimenti) e in genere è utilizzato per liriche estese
e, talvolta, a sfondo biografico e di carattere gnomico o satirico, ad esempio in A Eugeniu Unale [I] e A Nanni Sulis [II],
sorta di epistole poetiche. Si noti inoltre la misura dei versi
delle terzine di Litanias maggiores, in cui i consueti endecasillabi sono alternati ai settenari secondo lo schema abA, come segnalato da Andrea Deplano.5 Non manca tuttavia la satira, sovente legata a questo metro, che giunge fino agli
estremi dell’invettiva comicamente oscena di Minca maccaca e alla parodia del verbale redatto in italiano dai carabinieri Bertolini e Unale (Piazzaforte di Orune). Si può dire
5. A. Deplano, Rimas, Cagliari, Artigianarte, 1997, p. 51.
88
che un così massiccio utilizzo di questo metro non si riscontra fra i poeti sardi prima di Mereu, il quale, tuttavia, può
averlo apprezzato da molteplici fonti, ad esempio lo stesso
Giusti.
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
abA bcB deD… yzy Z
ABA ACB CDC… YZY
ABA ACB CDC… YZY
Adultera
A Juanne Sulis
A Eugeniu Unale [I]
A Nanni Sulis [II]
Su minestrone
A Signor Tanu
Anima niedda
Minca maccaca
Piazzaforte di Orune
Litanias maggiores
A una violetta sicca
Su testamentu
Z
Z
Z
Z
Z
Z
Z
Z
Z
Z
Z
COMPONIMENTI POLIMETRI
Si tratta di liriche nelle quali varia consapevolmente la
struttura strofica e, di volta in volta, la misura del verso.
Questa commistione di metri diversi non è diffusa nella produzione poetica regionale che precede Peppino Mereu ed è
dovuta, ci sembra, a quella che, con formula felice, Duilio
Caocci definisce «insubordinazione nei confronti delle forme
metriche … analoga all’insofferenza nei confronti dei generi
“poetici” tradizionali».6
Fra l’altro queste variazioni di strofa e metro non costituiscono una piccola parentesi (dieci occorrenze) e comprendono, per lo più, combinazioni di sonetti + ottavas (Moribunda, A Genesio Lamberti) e quartine di metri diversi, ad
esempio quinari + endecasillabi (Lamentos d’unu nobile)
oppure di quartine di endecasillabi + ottavas (K…, Y…).
6. D. Caocci, “La poetica del controcanto di Peppino Mereu”, in Portales, a. I, n. 1, agosto 2001, p. 104.
89
Classificazione metrica
K… è fatta rientrare fra i polimetri in quanto alla quartina di endecasillabi iniziale, una sorta di pesada introduttiva,
non corrisponde alcuna torrada dal punto di vista metrico.
Ciò per quanto riguarda le fonti dirette.
Nelle raccolte Coll., come in T, si presentano fra le liriche
reperite da fonti indirette strutture strofiche e variazioni metriche assai più azzardate, nelle quali cioè la libertà nel combinare strofe e metri aumenta in maniera esponenziale. Non pare
ingiustificato a questo punto pensare a un “degrado” derivante
dalla memorizzazione e riproduzione orale di liriche poi sistemate secondo una struttura che è parsa plausibile ma non
sempre corretta (rimandiamo alla “Nota al testo” per le difformità metriche riscontrate nel presente lavoro fra i vari testimoni). Tuttavia non è da escludersi a priori che nella produzione
meno “sorvegliata” o improvvisata, il poeta si sia lasciato andare ad uno sperimentalismo maggiore, pur se restiamo convinti
della necessità di una rivalutazione delle fonti indirette per valutarne l’attendibilità anche, ma non solo, a fini metrici.
Un cenno a parte merita Serenada, vista l’irregolarità che
contraddistingue il componimento. Difatti le due raccolte Della Torre presentano una suddivisione 12 + 4 + 4, che a noi
pare assai improbabile, mentre C dà quattro quartine e T una
strofa unica di venti versi. La soluzione proposta da C sembra
plausibile, ma si è qui preferita una scansione 4 + 8 + 8 (cfr.
sotto lo schema), in quanto più diffusa rispetto al modello di
quartinas torradas con rima incrociata che propone C.7 In
questo caso utilizziamo il termine torrau per indicare la corrispondenza rimica fra l’ultimo verso di ogni quartina e il primo
della successiva, come anche, secondo la nostra suddivisione,
fra il primo verso della quartina e la prima ottava e fra l’ultimo verso di questa e il primo della seconda ottava, nella quale, infine, rimano anche il verso incipitario e quello di chiusura. Tuttavia anche la nostra scansione metrica è da prendersi
col beneficio del dubbio.
7. Per le ottavas torradas di ottonari con schema abbccdde // e … cfr.
ad es. Satira di A.D. Migheli, in Sa briga cit., pp. 143-151.
90
Quanto alle possibili origini dei polimetri mereiani, ci
sembra opportuno rimandare a Giuseppe Giusti e a liriche
estese del poeta toscano quali La vestizione o Gingillino ad
esempio. Quest’ultima poesia è dedicata al patriota napoletano Alessandro Poerio e costituisce una satira feroce nei confronti della burocrazia e dell’arrivismo in essa imperante. A livello metrico Giusti si muove, in un continuo e frenetico
variare, fra terzine, quartine, sestine, ottave, con metri che
spaziano dal quinario all’endecasillabo.
Nella poesia sarda dialettale non ci è dato trovare una simile ricerca di variatio metrica precedente a Mereu.
Moribunda
[I], [II], [IV]
[III]
Lamentos d’unu nobile
A Genesio Lamberti
[I], [II], [III], [IV]
Sonetti con schema ABAB ABAB
CDE CDE
12 strofe in ottava lira serrada con
schema abCabCdD
34 quartine di quinari con schema
abcb + 12 quartine con schema
ABa7B
27 ottavas liras serradas con schema abCabCdD
[V]
Sonetto con schema ABAB BABA
CDE CDE
[VI]
Sonetto con schema ABBA ABBA
CDE CDE
Agonia
Una ottava lira serrada con schema abCabCdD + 17 quartine con
schema ABa7B
K…
Una quartina con schema ABAB +
6 ottavas liras serradas con schema aaBaaBcC
91
Classificazione metrica
Y…
4 quartine con schema ABa7B +
una quartina col primo e il terzo
verso parzialmente mutili e una
quartina mancante dei primi 2 versi (gli ultimi 2 a rima baciata) + 2
ottavas liras serradas (la prima
mutila del distico finale) con schema abCabCdD
Signora maestra
Una strofa unica di 35 versi con
schema a 6a 6Bc 6c 6Bd 6d 6d 6d 6EEf 6f 6
f6f6GGh6h6i6i6LLm6m6n6n3o6o4p6p4q
6q 4r 6R + una quartina finale con
schema SSTT
Proposta amorosa8
Una strofa unica di 29 endecasillabi e settenari con schema aABBCC
DdEEFggFhHiilmmLnNoOPPQQ
Risposta amorosa
Una strofa unica di 16 endecasillabi e settenari con schema aAbb
ccddEEFFGghh + 2 deghinas con
schema IILLMMNNOO e PPQQ
RRSSTT + una quartina finale con
schema u7UVV
Serenada
Una quartina iniziale di ottonari con
schema abba + 2 ottavas torradas
di ottonari, di cui la prima con
schema accddeef, la seconda con
schema fgghhiif
QUARTINAS
Questo metro, assai frequente nella poesia sarda, è a dire
il vero poco utilizzato dal nostro poeta nelle formule abituali
in endecasillabi, ottonari e settenari (due occorrenze + cinque
fra i polimetri). Generalmente Mereu predilige l’alternanza di
versi lunghi e brevi alla misura unica (cfr. le diciassette quartine con schema Ab7a7B di Agonia). La novità nell’ambito dell’utilizzo di questa struttura strofica nella poesia sarda di produzione scritta è costituita principalmente dalle quartinas di
quinari della celebre A Nanni Sulis e di Lamentos d’unu
nobile, componimento inserito fra i polimetri che ci ricorda,
per l’uso delle formule latine (ad esempio «in diebus illis», v. 5)
e per la satira contro la laudatio temporis acti, il Giusti di Preterito più che perfetto del verbo “pensare”, nelle cui quartine di
quinari si trovano tali formule appunto, legate al mondo “preterito” ironicamente invocato, come «In illo tempore» (v. 17),
«Nihil de principe / Parum de reo» (vv. 23-24) ecc. Inoltre è
presente la figura dell’esattore («Il messo e l’èstimo / pareggia
tutti»), che anche nella lirica di Mereu appone i sigilli ad ogni
cosa che gli capiti a tiro, senza alcuna remora nei confronti del
titolo nobiliare.9 Questo metro è certamente ispirato a Mereu
dal poeta toscano sia per il tono, sia per la forte cadenza che
si deve alle rime sdrucciole. In più Mereu fa rimare solamente
il secondo e il quarto verso in A Nanni Sulis [I] e in Lamentos
d’unu nobile, come spesso fa il suo modello.
Il quinario è utilizzato in Sardegna, in alternanza ad altri
metri più lunghi (spesso settenari e ottonari), principalmente
nei gosos e nella poesia religiosa in genere, talvolta in quartine.
Si legga a tal proposito la strofa iniziale della Laude a su verbu
eternu pro s’incarnatione, et temporale natividade sua riportata da Madau ne Le armonie de’ Sardi: «Laudemus su Creadore,
/ Creaturas, chi vivímus, / Semus, & nos movímus / Pro gratia
sua».10 Qui lo schema è a7b7b7a5. Tuttavia nel caso di Mereu si
tratta d’influsso nettamente giustiano, come detto.
8. Questa e la lirica successiva appaiono fra i polimetri dato che essi,
pur suddivisi nel titolo da Coll., in realtà costituiscono due parti del
medesimo componimento.
9. Le citazioni sono tratte da G. Giusti, Poesie, a cura di N. Sabbatucci,
vol. I, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, p. 68.
10. M. Madau, Le armonie cit. Cito qui dall’edizione a cura di C. Lavinio, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 126.
92
93
Classificazione metrica
A Nanni Sulis [I]
X…
abcb
ABa7B
STROFE DI UNDICI VERSI
Questa struttura strofica, comparsa per la prima volta
nell’opera di Luca Cubeddu, secondo lo spoglio effettuato
da Andrea Deplano,11 quasi sempre prevede l’alternarsi di
settenari ed endecasillabi e, nel caso di Mereu, conserva lo
schema rimico più diffuso nei cinque componimenti che la
attestano, la cui varietà tematica non consente però di individuare un legame ben preciso fra metro e tema.
Consizos a unu amigu
A Paolo Hardy
Non ti poto amare
A Nanni Sulis
[Anepigrafa]
abCabCddCeE
abCabCddCeE
abCabCddCeE
abCabCddCeE
abCabCddCeE
SESTA
Questa struttura strofica, diffusissima nella poesia sarda
presso autori quali Cubeddu, Murenu, Mossa e altri, è utilizzata dal poeta tonarese per un solo componimento nella forma in lira serrada, ossia con alternanza fra endecasillabi e
settenari e con gli ultimi due versi a rima baciata. Netta appare quindi la predilezione del metro “concorrente”, l’ottava
appunto, spesso utilizzato dai poeti improvvisatori, assieme
alla sesta, nella forma torrada, ossia con l’ultimo verso a rima fissa che riprende una delle rime della pesada, costituita
generalmente da quattro versi a rima incrociata che dettano
il tema del componimento. Solitamente sa torrada si trova al
termine dell’ultima strofa e consiste nella ripetizione, a mo’
di congedo, della pesada. Tale struttura, che si può far rientrare all’interno di una categoria generale di ripetizione del
11. A. Deplano, Rimas cit., p. 90.
94
verso tipica della poesia sarda, è trascurata da Mereu, per lo
meno nella produzione a noi giunta.
ABaBcC
Imbasciada
DEGHINA
Anche questo metro è tipico e assai diffuso fra i poeti sardi
più noti, con diverse varianti e, spesso, nella forma glosa o
glossa, a seconda che si adotti la pronuncia spagnola (il metro
è d’importazione iberica) o quella assimilata alla fonesi sarda.
Nella forma semplice essa è composta generalmente di endecasillabi variamente rimati. Tuttavia è ben raro che si trovi
questo metro privo di pesada sul modello della corrispondente
ottava.12 La deghina glossa, che rientra fra i metri torrados è, a
conferma di quanto detto in precedenza, assente in Mereu e
assai diffusa fra i poeti più noti. Essa consiste, in breve, in una
pesada tetrastica cui seguono altrettante strofe di dieci versi,
generalmente ottonari. Si ha, inoltre, la ripresa della rima di un
verso della pesada in sesta e settima posizione di ciascuna
strofa, nonché la ripetizione dell’intero verso in chiusura di
ognuna delle quattro strofe.13 Mereu utilizza la deghina assai
di rado (una occorrenza + due strofe in Risposta amorosa [cfr.
“Componimenti polimetri”]). Questa struttura metrica non ricorre nella princeps, probabilmente per il discorso relativo alla
selezione metrica, oltre che tematica, delle liriche.
ABABABACAC
Titti tittia
12. Lo stesso Deplano, Rimas cit., p. 91, riporta una deghina priva di
pesada di Luca Cubeddu, collocata nella sezione dei “Versi improvvisati” e, perciò, di dubbia attribuzione, come del resto il componimento
attribuito a Mereu. Per Cubeddu si veda la “Nota all’edizione” in L. Cubeddu, Cantones e versos, a cura di S. Tola, introduzione di M. Pira, Cagliari, Della Torre, 1995, p. 40.
13. Rimandiamo per un quadro esplicativo ad A. Deplano, Rimas cit.,
pp. 116-118. Da non trascurare è però la spiegazione fornita da M. Madau, Le armonie cit., pp. 67-68 e pp. 168-197, per alcune interessanti
esemplificazioni fornitevi dal gesuita ozierese.
95
Classificazione metrica
STROFA DI QUINDICI VERSI
Questa struttura sarebbe stata utilizzata da Mereu in abbinamento con l’ottonario in una poesia che, per giunta, è
presente in un solo testimone, T, sulla cui autorità abbiamo
già espresso più d’un dubbio. Difatti Aspettos sembrerebbe
un rifacimento decisamente “facile” basato sul filone misogino ben presente nella tradizione lirica sarda e che il poeta
ha altrove mostrato di trovare congeniale, ad esempio in A
Signorina S… Ovviamente il componimento sarebbe suddivisibile anche secondo altre combinazioni strofiche, ad
esempio in una strofa di 9 + 6, oppure 11 + 4, tuttavia preferiamo darlo a testo secondo la scansione a strofa unica data
dal testimone, evitando così forzature di sorta. Si noti che il
verso incipitario e quello finale rimano fra loro.
Giusti (cfr. Legge penale degli impiegati) o da Stecchetti (cfr.
Postuma XX, in L. Stecchetti, Le rime, Bologna, Zanichelli,
1903).
ABAb7
Caresima
STROFA SAFFICA
Questo metro di derivazione classica, originariamente formato da tre saffici minori + un adonio, è stato ampiamente ripreso nella poesia italiana e generalmente reso con tre endecasillabi + un quinario a rima alterna (ABAb5), oppure, come
accade nell’uso mereiano, da tre endecasillabi + un settenario,
sempre a rima alterna. Quest’ultima struttura si trova in Monti,
Fantoni e Manzoni,14 ma probabilmente Mereu la mutua dal
MUTOS
I componimenti caratterizzati da questa denominazione
sono tipici del centro-nord dell’Isola e si suddividono in isterria e torrada: nell’isterria i versi non devono rimare fra loro,
in quanto le rime saranno soddisfatte dalla torrada. L’isterria
è composta da un numero variabile di versi, da due a otto generalmente, e la torrada, attraverso la ripetizione progressiva
di ognuno dei versi, disposti in ordine sempre diverso, dell’isterria e delle cambas (‘strofe’) successive, dà origine a un
numero di cambas pari ai versi dell’isterria. Generalmente
ogni camba consta di un verso in più rispetto all’isterria. Infine è tipica di questa struttura poetica la presenza di versi trobeados o troboiados, ossia ‘varianti’, che consistono in una variazione dell’ordine sintattico o nella sostituzione dell’ultima
parola del verso, così da intessere complessi giochi di rime e
da disporre di infinite possibilità rimiche, senza dover necessariamente reperire nuovi versi e nuovi concetti, fino all’esaurimento delle rime aperte dall’isterria o dalla camba precedente.15 I mutos sono forme poetiche tipicamente legate
14. Cfr. P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 20024, pp.
355-356. A. Deplano, Rimas cit., p. 56, dice a proposito della quartina:
«Esistono tante altre possibilità di diversificazione del ritmo, basta sostituire un verso della quartina con metro differente dai restanti tre, come
nei giochi proposti da Peppinu Mereu» e cita quale secondo esempio di
quartina i primi quattro versi di Caresima. La strofa saffica è composta di
quattro versi come la quartina, ma la sua derivazione non è certo sarda.
A p. 57 lo studioso afferma, a nostro parere con ragione, che «Peppinu
Mereu conosceva quella poesia di tipo religioso che l’abate Matteo Madau ci indicava come Laudes, in cui il verso di più breve durata racchiudeva il messaggio della dottrina cristiana». Tuttavia, vuoi per la lunghezza
del metro (l’endecasillabo non era presente in questi componimenti)
vuoi per la sua conoscenza non superficiale della poesia italiana, Mereu
avrà adottato consciamente la strofa saffica – assai utilizzata, col più tradizionale quinario ma anche col settenario, come si è visto, dal Giusti ad
esempio –, e non una quartina variata con “giochi” metrici, che sarebbe
tutt’altra cosa. Semmai la scelta del settenario in luogo del quinario quale
verso breve potrebbe avere anche cause “endogene”, ossia l’utilizzo di
una sorta di saffica in lira particolarmente congeniale al poeta. Tuttavia
simili ipotesi esulano da una disamina filologicamente fondata sulle forme metriche adottate da Mereu.
15. Per un’approfondita disamina di questa forma poetica rimandiamo
ad A.M. Cirese, Struttura e origine cit.
96
97
Aspettos
abacddcceeffgga
all’oralità, a quella poesia tradizionale ripartita in pesada e
torrada che, come abbiamo visto, è esclusa dalla silloge poi
fatta pubblicare dal Sulis.
Quindi il mutu tràdito da T, se realmente eseguito dall’autore, farebbe parte del territorio poetico legato all’improvvisazione e recuperato felicemente attraverso fonti orali.
Tuttavia esso sa di artificioso, di culto, di taulinu quindi.
Sembra uno degli eleganti mutos di Montanaru insomma,
tutt’altro che improvvisati o popolari. Non vi sono, d’altronde, elementi sufficienti per espungerlo. Come si noterà, esso
sviluppa solamente la prima camba. Infine i numeri in apice
ai versi della torrada, tutti settenari, come di regola in questi
componimenti, indicano la corrispondenza con i rispettivi
versi dell’isterria, anch’essa in settenari.
Muttu
isterria
torrada
98
abcdef
ae1f1c1b1a1d1
POESIAS
Cortese Lettore,
Sedotto dalla dolce melodia de’ versi che mi è grato presentarti, e facendomi forte della calda amicizia che mi lega
a colui che li dettò, mi son permesso – senza chiedergliene
l’autorizzazione – di consegnarli alla stampa, anche a rischio di dover pagare il fio della mia audacia. L’Autore –
senza dubbio – si lagnerà meco della soperchieria: ma che ci
fare adesso? Post factum nullum consilium.
Se, quindi, questi versi risentono qua e là di certo
neglige, se ad essi fan difetto il labor et mora tanto raccomandato dal divino Orazio e tanto necessario al felice successo di un’opera qualsiasi, la colpa è tutta mia: e, pubblicamente, ne faccio onorevole ammenda.
Dopo tutto soltanto i pedanti e i critici schizzinosi potranno trovare, in questo volume di versi, la grafomania dell’insensato: io però ho creduto non fosse privo d’interesse far conoscere al popolo sardo le prime manifestazioni giovanili del
pensiero e del cuore di Giuseppe Mereu – giovane d’ingegno
vivace e proteiforme – dell’alpestre Tonara, il quale, nella melanconica solitudine della vaga campagna, coltiva, con entusiasmo, le muse; rivelandosi, fin d’ora, fra le giovani forti speranze della poesia dialettale, a carattere eminentemente
soggettivo. E dico a carattere eminentemente soggettivo, poiché, sia che egli decanti le bellezze della sua patria, sia che
sciolga un canto ad una giovinetta defunta, o porti i saluti
all’amico lontano, vi trasfonde sempre ne’ versi tutta la grande
amarezza dell’anima sua, profondamente addolorata, ma
ricca di nobili ed elevati sentimenti.
A me – amico ed ammiratore del poeta – non spetterebbe
di metterne in evidenza i pregi; ma chi può mai rimanere indifferente dinanzi ad un giovane intelletto che dà di sè forte
promessa di più sicuro avvenire? Certamente se, la facilità,
che ammirasi in tutti i suoi poetici componimenti, la forma,
a volte, poco corretta e la inspirazione intemperata, attenuano il valore de’ suoi versi considerati isolatamente, aumentano – di gran lunga – quelli del poeta; poiché è sicura prova
101
POESIAS
che, il Mereu, quando scrive, si abbandona – senza ritegno –
agli affetti che agitano l’infelice suo spirito. «In Giuseppe Mereu,
come il pensiero nasce dal sentimento e non è altro che questo
sentimento riflesso nell’immaginazione, così la forma nasce
dal pensiero ed è il pensiero riflesso tal qual’è in un mondo
esteriore». Questo ci spiega la sua natura altamente poetica e
gli argomenti che imprese a trattare; giacché egli ha sortito da
natura una spiccatissima tendenza alla poesia; tendenza che
estrinseca – in mille modi – con una facilità di espressione veramente ammirabile e con una abbondanza e varietà di armonie che gli frullano in testa e gli titillano l’orecchio.
Onnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos
Ut nunquam inducant animum cantare rogati,
Iniussi nunquam desistant. Sardus babedat
Ille Tigellius hoc.
E dette queste poche parole invito il compiacente lettore che
mi ha seguito fin qui – a fare un’amorosa lettura de’ versi di
Giuseppe Mereu – di questo caro e simpatico giovane, che agli
albori della nuova età si schiude qual modesto fiore; dimostrando talento di artista, intelletto d’amore e cuor di cittadino.
Ancora una parola, e basta.
Non pago di aver tenuto il presente volume, al fonte battesimale, mi sono anche fatto ardito di apporvi qualche nota,
nella dolce lusinga di rischiarare alcuni punti. Avrò raggiunto lo scopo? A te, benevolo lettore, la risposta.
Tonara, 30 agosto 1897.
Giovanni Sulis
Laureando in Medicina
Tale è pure Giuseppe Mereu; il quale si nega sempre a cantare tra gli amici e una volta cominciato non la smette più.
Giovane d’anni, ma ricco d’espedienza, ha il senso del
presente, ed intende ciò che risponde all’anima popolare; e
quest’anima – così in una sfuriata alla nobilea, come in
una tirata contro certi farisei del nostro tempo – sbolla fuor
da ogni sua frase.
Malgrado, però, il suo disgusto universale, il Mereu, talvolta giuoca, ride, schernisce; ma questo riso non è gaio e
schietto, ma questo giuoco non è scherzo, ma scherno; c’è in
esso un profondo senso di amarezza; sotto la maschera stillano goccie di sangue.
Il Mereu è, a suo modo, anche umorista: persone vedute
appena, anedotti colti a volo entrano nel suo cervello per non
più uscirne e si trasformano, pigliando le più squisite figure
grottesche. Ma lo spirito motteggevole ed arguto, l’allegrezza
canzonatoria, di cui talvolta il suo spirito sembra pascersi,
non è che apparente, e sono nient’altro che ingannevoli artifizi, a cui, egli, talvolta ricorre, per coprire le malinconie profonde che aleggiano nell’anima sua scombuiata e ferita.
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DAE UNA LOSA ISMENTIGADA
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Non sias ingrata, no, para sos passos,
o giovana ch’in vid’happ’istimadu.
Lassa sas allegrias e ispassos
e pensa chi so inoghe sepultadu.
Vermes ischivos si sunt fattos rassos
de cuddos ojos chi tantu has miradu.
Para, par’un’istant’, e tene cura
de cust’ismentigada sepoltura.
A ti nd’ammentas, cando chi vivia
passaimis ridend’oras interas?
Como happ’una trista cumpagnia
de ossos e de testas cadaveras,
fin’a mortu mi faghet pauria
su tremendu silenzi’ ’e sas osseras.
E tue non ti dignas un’istante
de pensare ch’inog’has un’amante!
Ben’a’ custas osseras, cun anneos,
si non est falsu su chi mi giuraist,
e pensa chi bi sunt sos ossos meos,
sos ossos de su corpus ch’istimaist;
fattos in pruer, non pius intreos
coment’ ’e cand’a biu l’abbrazzaist.
Non pius agattas sas formas antigas,
ca so pastu de vermes e formigas.
Bae, ma cando ses dormind’a lettu
una ’oghe ti dèt benner in su bentu,
su coro t’hat a tremer in su pettu
a’ cussa trista boghe de lamentu
chi t’hat a narrer: «Custu fit s’affettu,
custu fit su solenne juramentu?».
105
POESIAS
Inoghe non ti firmas, lestra passas,
e a’ custa trista rughe non t’abbassas.
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Cando passas inoghe pass’umile;
t’imponzat custa pedra su rispettu,
ca so mortu pro te anima vile,
privu de isperanz’e de affettu.
Dae custa fritta losa unu gentile
fiore sega e ponedil’in pettu,
pro c’ammentes comente t’happ’amadu,
già chi tue ti l’has ismentigadu.
AMORE
Beni, dammi sa manu, isfortunadu,
tue ses dignu de s’istima mia:
lottend’in dunu mar’ ’e angustia
custu virgine cor’has meritadu.
5
Camposanto di Cagliari, 2 nov. 1891.
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DA UNA TOMBA DIMENTICATA
Non essere ingrata, no, ferma i passi, / o giovane che in vita ho amato. / Lascia le gioie e gli spassi / e pensa che sono qui sepolto. / Vermi schifosi sono diventati grassi / con quegli occhi che tanto hai guardato. / Ferma, fermati un istante, e abbi cura / di questa dimenticata
sepoltura. // Ti ricordi che, quand’ero vivo, / passavamo ore intere a
ridere? / Ora ho una triste compagnia / di ossa e di teschi, / perfino
da morto mi fa paura / il tremendo silenzio degli ossari. / E tu non ti
degni un istante / di pensare che qui hai un amante! // Vieni a questi
ossari, con tristezza, / se non è falso ciò che mi giurasti, / e pensa che
ci sono le mie ossa, / le ossa del corpo che amasti; / ridotte in polvere, non più integre, / come quando da vivo l’abbracciavi. / Non più
trovi le forme antiche, / perché sono pasto di vermi e formiche. //
Vai, ma quando dormi nel tuo letto / una voce ti giungerà col vento, /
il cuore ti tremerà nel petto / a quella triste voce di lamento / che ti
dirà: «Questo era l’affetto, / questo era il solenne giuramento?». / Qui
non ti fermi, lesta passi, / e a questa triste croce non t’abbassi. //
Quando passi qui, passa umile; / questa pietra t’imponga il rispetto, /
perché sono morto per te anima vile, / privo di speranza e d’affetto. /
Da questa fredda tomba un gentile / fiore cogli e appuntatelo al petto,
/ perché ricordi come t’ho amato, / già che tu l’hai dimenticato.
106
Cantas bortas pro me has deliradu
sognende cudda candida Maria,
chi t’est present’a ti narrer: «Isvia
su dolu, ca da ipsa ses amadu».
Eo so cudda c’amas, caru fiore,
c’abbandono ridente su jardinu
pro ti fagher de mene possessore.
Beni duncas, non vivas in pibinu,
e fattend’unu sognu de amore,
fritti sa test’in s’amorosu sinu.
AMORE
Vieni, dammi la mano, sfortunato, / tu sei degno della stima mia: /
lottando in un mare d’angustia / questo vergine cuore hai meritato.
// Quante volte per me hai delirato / sognando quella candida Maria, / che sta qui per dirti: «Allontana / il dolore, perché da lei sei
amato». // Io son colei che ami, caro fiore, / io che abbandono sorridente il giardino / per farti di me possessore. // Vieni dunque,
non vivere nel lamento, / e facendo un sogno d’amore / china la
testa sull’amoroso seno.
107
POESIAS
ADULTERA
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A cosa ses torrada, poveritta!
has in laras funest’unu signale;
«Adultera!» ti gridat un’iscritta
foza de sa corona nuziale,
sa virtude ti gridat: «Faghe pasu,
cando ti tentat respinghe su male».
Tue, perversa, no nde faghes casu,
sas laras corallinas e’ su sinu
nudu espones a s’infame basu.
Inespert’has sighid’unu destinu
de fangh’e infangad’a faccia manna,
has postu terras santas a camminu.
Semper frundida t’ ’ident in sa janna
inoperosa cunfort’e ruina
de sos macacos ch’isfozant sa canna.
De mangara t’has fatt’una cortina
a su pallidu vis’attripunzidu,
pro cumparrer sa carre purpurina.
Dae cand’has lassadu su maridu
chi sa sorte t’hat dadu, cun dilettu,
nara, cantos amantes has rezzidu?
Profanad’has sa dom’e’ su lettu
in su cale leggittim’un’isposu
ardentes basos t’hat depost’in pettu.
Pro te non vivet coro piedosu
chi ti consizet: «Faghes mal’a tie
cun s’operare tou iscandalosu».
Pallida t’hant a bider unu die,
suspirende, cun lagrimas a chizu,
sa fida chi ti colas de gosie.
Si su destinu ti dàt unu fizu,
de chi est fruttu mai podes narrer,
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pro c’hat haer de medas s’assimbizu.
Mischinedda! It’est chi ti dènt parrer
sos ispasimos maccos d’una Frine
chi disonesta ti faghent cumparrer?
Su lumen’e’ sa manu d’un omine
has azzettad’e a s’onore sou
e a su tou signad’has sa fine.
Bisonzu chi nascheras dae nou
pro bi durar’onestu su giudissiu,
in sa testa c’has fragile che ou.
Mischina! Non t’abbizas chi su vissiu
t’est iscavend’in sa giovan’edade
un’orroros’e feu prezipissiu?
Da chi ses rut’in sa disonestade
su visu to’est che unu cartellu
chi a sos passizzeris nât: «Intrade».
Su signal’infamant’ ’e su burdellu
t’hat in laras sa purpura distructu,
mancari bi la passes a pinzellu.
Ses cal’un’arvuredda chi su fructu
isquisitu, senza esser cumpridu,
dae su ram’a su fangu ch’est ructu.
Pens’e rifletti c’has unu maridu
chi pro te fuit su consorzi’umanu,
pensend’a tantos males; avvilidu.
Fist che giardin’in continu ’eranu
tott’induna però proadu hasa
s’ira d’unu terribil’uraganu.
Fist bella, ruja cale cariasa,
com’abbrutida: s’aperit sa losa
pro seppellire sa peta carasa.
Sa ’ucc’haiast che buton’ ’e rosa,
basada solamente cun amore
da una mamma bon’e amurosa.
Ses cale profumad’unu fiore,
chi, pro sa forz’ ’e l’haer giust’in sinu
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POESIAS
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hat perdidu profumos e colore.
Mischina! Ses passada in su camminu
pienu de sa bruttura maladitta,
chi t’hat giutu a finir’a su trainu!
Unu burdu suendedi sa titta
ti bio gia’, pro ischern’e collunu,
in fronte giughet fatal’un’iscritta,
chi narat: «Fizu so de su Comunu».
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ADULTERA
A cosa sei ridotta, poveretta! / hai nelle labbra un funesto segnale; /
«Adultera!» ti grida una scritta // foglia della corona nuziale, / la virtù
ti grida: «Fermati, / quando ti tenta, respingi il male». // Tu, perversa,
non ci fai caso, / le labbra coralline e il seno / nudo esponi all’infame bacio. // Inesperta hai seguito un destino / di fango e infangata
con faccia tosta / hai ridotto a uno stradone luoghi sacri. // Ti vedono sempre buttata sulla porta / inoperosa, conforto e rovina / degli
stolti che si “sfogliano” la canna. // Di sinòpia ti sei stesa una cortina
/ sul pallido viso rugoso / perché la faccia sembri porporina. // Da
quando hai lasciato il marito / che la sorte ti ha dato, con diletto, /
dì, quanti amanti hai ricevuto? // Hai profanato la casa e il letto / dove un legittimo sposo / ha deposto ardenti baci nel tuo petto. // Per
te non vive cuore pietoso / che ti consigli: «Fai male a te stessa, / col
tuo fare scandaloso». // Ti vedranno pallida un giorno, / sospirando,
con le lacrime agli occhi, / la vita che conduci in questo modo. // Se
il destino ti dà un figlio, / mai potrai dire di chi sia frutto, / perché di
molti avrà le sembianze. // Poverina! Cosa mai ti sembreranno / i
pazzi spasimi di una Frine / che ti fanno apparire disonesta? // Il nome e la mano d’un uomo / hai accettato e all’onore suo / e al tuo
hai posto fine. // Dovresti nascere di nuovo / perché possa durare
onesto il giudizio / nella testa che hai fragile come un uovo. // Poverina! Non t’accorgi che il vizio / ti sta scavando nella giovane età /
un mostruoso e orribile precipizio? // Da quando sei caduta nella
disonestà / il tuo viso è come un cartello / che dice ai passanti: «Entrate». // Il segnale infamante del bordello / la porpora delle labbra
t’ha distrutto, / anche se la ripassi col pennello. // Sei come un alberello il cui il frutto / squisito, senza esser maturo, / dal ramo al fango
è caduto. // Pensa e rifletti che hai un marito / che rifugge per te il
consorzio umano, / pensando a tanti mali; avvilito. // Eri come un
giardino in perpetua primavera, / d’un colpo però hai provato / l’ira
di un terribile uragano. // Eri bella, rossa come una ciliegia, / ora abbruttita: s’apre la tomba / per seppellire il corpo scheletrico. // Avevi
la bocca come un bocciolo di rosa, / baciata solamente con amore /
da una madre buona e affettuosa. // Sei come un profumato fiore, /
che, a forza di appuntarlo al petto, / ha perduto profumi e colore. //
Poverina! Sei passata nella strada / piena della bruttura maledetta, /
che ti ha portata a cadere nel ruscello! // Un bastardo che ti succhia
il seno / ti vedo già, per scherno e irrisione / reca in fronte, fatale,
una scritta, / che dice: «Sono figlio del Comune».
111
POESIAS
MORIBUNDA
25
Alla Signora Angelina Charavel.
I.
Cale viol’amabil’e gentile,
chi, priva de profumos, non fiorit,
gai, stes’in su lett’e in s’abrile
de sa vida, una fiza mia morit.
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torra, non ti cumbincana sas graves
penas chi t’hant sos risos consumidu,
ma donosa, ridente e fiorida,
rend’a su lizu tou sas suaves
isperanzas d’amore c’hat perdidu.
Est pallid’e fattu fattu sa febbrile
manu mi tendet, ma no mi favorit
d’unu sorrisu, ca sa Parca vile
de tenebras sa cara li colorit.
In s’ultimu sarragh’ ’e s’agonia
l’intendo murmurare: «Mamma faghe
coraggiu, a tantu dolu sias forte».
Ma no ischit però ch’in domo mia
b’est messende sa vid’e’ sa paghe
sa falch’inesorabil’ ’e sa morte.
15
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II.
O fiza, prite moris in s’istante
in su cale unu lizu de amore
si presentat a tie supplicante
a ti pedir’unu risu, unu fiore?
Non molzas, torra bell’inebriante
in vid’a canzellare su dolore
dae su coro chi t’amat: sa brillante
trista falche, respinghe cun orrore.
A sos dulches profumos de sa vida
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POESIAS
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III.
Frobide su piantu,
zesset ajò, su tediu
chi mi zircundat cun bois in su lettu.
Solu su campusantu
est s’unicu rimediu
pro calmare su fogu ch’in su pettu
lentu m’est consuminde,
como chi amore vida m’est pedinde.
In su libr’ ’e sa vida
iscrittu dae ora,
b’hat una man’a caratteres mannos:
«Dès morrer consumida
senza toccar’ancora
sa vird’edad’ ’e sos degheott’annos».
Sa trista profezia
s’avverat, prestu ti lasso mamma mia.
Cussa candel’ardente
mamma, prit’est chi l’hasa
post’in pees a sa virgine Maria?
L’has post’inutilmente,
deo ti lasso, crasa,
consumada sa chera, s’agonia
sonat pro sa consunta
fiza, chi dae como ’ides defunta.
Fra brev’eo m’assento
morta da custa domo,
dulche nid’ ’e sa mia pizzinnia,
e su lassare sento
a tie sola, como
chi de me nd’has bisonzu, mamma mia.
Est custu pensamentu
chi mi creschet in coro su turmentu.
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Prim’ ’e mi seppellire
tue mamm’amurosa,
ti pregh’e chelz’in cust’una promissa,
ponemi su bestire
biancu de isposa;
gai poto cumparrer in sa missa,
non de s’affidu meu
in terra, ma in chel’ispos’a Deu.
Pustis mort’ispiare
cheria sos amaros
suspiros de coro tou, mamma mia;
cando m’has a giamare
cun sos lumenes caros
chi mi dàs com’in s’ultim’agonia,
zeltu chi si dèt frangher
s’esistenzia tua in su piangher.
E tue, giovanu pallidu
e bellu, cun affettu
tenes cura de me, a cale prou?
Non bides? S’isquallidu
iscrittu c’happ’in pettu,
narat: «Custu fiore no es tou».
S’anim’hat già ispaltu
su ’olu, su corpus mort’ips’est in altu.
It’importat piangher?
si mi amas dammilu
cust’ultimu cunfortu, siast forte.
Forsis podes annangher
custu debile filu
truncadu dae sa falche de sa morte?
Ajò coraggiu faghe,
cunzedimi chi ridente molza in paghe.
Promittimi chi vives,
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POESIAS
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olvida s’isfortuna
chi como sos sorrisos ti cuntrastat.
Non chelzo chi ti prives
de amare, ater’una
femmin’istim’, a me tantu mi bastat
chi calchi ’ort’a fura
preghes pagh’a sa mia sepoltura.
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E cando t’est cunzessu
non t’ismentighes mai
chi cun deo perdid’has un’isposa;
visita su zipressu
ue riposo, gai
mi rendes dulches sognos in sa losa.
In cussa tumba mia
rezit’una secret’avemaria.
Sa manifide d’oro
chi m’has dad’in sa losa
non la sutterro, no, la torr’a tie.
E ti prego, t’imploro,
a un’ater’isposa
la das comente dada l’has a mie.
Dabil’e am’a ipsa,
ses isoltu dae me d’ogni promissa.
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IV.
Mentre sa moribunda est faeddende
grav’a sos coros, de cussa manera,
una ’ezza pili cana, pianghende
nàt a sa sufferente fiza: «Ispera».
Sa muribunda rispundet: «Intende
mamma, ite cos’est custa bufera
ch’intendo muilare?». Est pioende
e tristos lampos sulcana s’aèra.
Ite nott’infernale! In s’aposentu
sa disaura bi regnat sovrana:
solenne intendo una pregadoria.
E in sos tristos muìlos de su bentu
s’intendet lamentos’una campana
c’annunziat d’una rosa s’agonia.
Nuoro, settembre 1894.
Como, caru fiore,
cust’ultimu disizu
isculta, ca nd’has haer ingranzeu;1
si de un’ater’amore
has haer calchi fizu,
battizalu cun su tristu lumen meu,
gai chi calchi ’orta
ti suvvenis de me povera morta.
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117
POESIAS
MORIBONDA
I.
Come una viola amabile e gentile / che, priva di profumi, non dà
fiore, / così, stesa sul letto e nell’aprile / della vita, una figlia mia
muore. // È pallida e ogni tanto la febbricitante / mano mi tende,
ma non mi favorisce / un sorriso, perché la Parca vile / le colora il
volto di tenebre. // Nell’ultimo rantolo d’agonia / la sento mormorare: «Mamma, fatti / coraggio, di fronte a tanto dolore sii forte». //
Ma non sa però che a casa mia / la vita e la pace sta falciando / la
falce inesorabile della morte.
II.
O figlia, perché muori nell’istante / in cui un giglio d’amore / si
presenta a te supplicante / a chiederti un sorriso, un fiore? // Non
morire, torna bella inebriante / in vita a cancellare il dolore / dal
cuore che ti ama: la brillante / triste falce, respingi con orrore. // Ai
dolci profumi della vita / ritorna, non ti convincano le gravi / pene
che t’hanno consumato i sorrisi. // Ma graziosa, ridente e fiorita, /
rendi al tuo giglio le soavi / speranze d’amore che ha perduto.
III.
Asciugate le lacrime, / cessi, su!, il tedio / che mi circonda con voi
nel letto. / Solo il camposanto / è l’unico rimedio / per calmare il
fuoco che in petto / lento mi sta consumando, / ora che amore mi sta
chiedendo vita. // Nel libro della vita / scritto tanto tempo fa, / c’è
una scritta a grandi caratteri: / «Morirai consunta / senz’ancora aver
raggiunto / la verde età dei diciott’anni». / La triste profezia / s’avvera,
presto ti lascio madre mia. // Quella candela ardente / mamma, perché l’hai / deposta ai piedi della vergine Maria? / L’hai deposta inutilmente, / io ti lascio, domani, / consumata la cera, l’agonia / suona
per la consunta / figlia, che già ora vedi defunta. // Fra breve vado
via / morta da questa casa, / dolce nido della fanciullezza mia, / e
mi spiace lasciare / te sola, ora / che hai bisogno di me, madre mia.
/ È questo pensiero / che mi accresce nel cuore il tormento. // Prima di seppellirmi / tu madre affettuosa, / ti prego e voglio per questo una promessa, / mettimi il vestito / bianco da sposa; / così posso
presentarmi alla messa, / non delle mie nozze / in terra, ma in cielo
sposa a Dio. // Dopo morta spiare / vorrei gli amari / sospiri del tuo
cuore, madre mia; / quando mi chiamerai / coi nomignoli cari / che
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mi dai ora nell’ultima agonia, / certo si dovrà infrangere / la tua esistenza nel piangere. // E tu, giovane pallido / e bello, con affetto / ti
preoccupi per me, a che pro? / Non vedi? La squallida / scritta che
ho nel petto, / dice: «Questo fiore non è tuo». / L’anima ha già spiccato / il volo, il corpo morto è anche lui in alto. // Cosa importa
piangere? / se mi ami dammi / quest’ultimo conforto, sii forte. / Forse puoi congiungere / questo debole filo / spezzato dalla falce della
morte? / Su, fatti coraggio, / concedi che sorridente muoia in pace.
// Promettimi che vivi, / dimentica la sfortuna / che ora i sorrisi ti
contrasta. / Non voglio che ti privi / di amare, un’altra donna / ama,
a me solo basta / che qualche volta di nascosto / preghi per la pace
della mia sepoltura. // E quando ti è concesso / non dimenticarti mai
/ che con me hai perso una sposa; / visita il cipresso / dove riposo,
così / mi rendi dolci sogni nella tomba. / In quella tomba mia / recita una segreta Avemaria. // La fede d’oro / che mi hai dato, nella
tomba / non la sotterro, no, la ridò a te. / E ti prego, t’imploro, / a
un’altra sposa / dalla, come l’hai data a me. / Dagliela e ama lei, /
ogni promessa fatta a me è sciolta. // Ora, caro fiore, / quest’ultimo
desiderio / ascolta, perché ne ricaverai un premio; / se da un altro
amore / avrai un figlio, / battezzalo col triste nome mio, / così che
qualche volta / ti ricordi di me, povera morta.
IV.
Mentre la moribonda sta parlando / grave ai cuori, in quella maniera, / una vecchia dai capelli bianchi, piangendo, / dice alla sofferente figlia: «Spera». // La moribonda risponde: «Ascolta / mamma,
che cos’è questa bufera / che sento mugghiare?». Sta piovendo / e
tristi lampi solcano il cielo. // Che notte infernale! Nella stanza / la
sciagura regna sovrana: / solenne odo una preghiera. // E nel triste
mugghiare del vento / si sente una campana lamentosa / che annunzia l’agonia di una rosa.
119
POESIAS
A TONARA
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frittint pro gustare
su nettare chi ridend’andat a mare.
O gentile Tonara,
terra de musas, santa e beneitta,
Patria mia cara,
cand’est chi b’happ’a benner in bisitta?
E m’has a dare sa jara
abba de Croccoledda tantu fritta?2
A cando ’ider sas nies,
sas c’happo appettigadu ateras dies?
Ah dura lontananzia!
a sa chi m’hat sa sorte cundennadu.
Mi ’enit s’arregordanzia
de unu tempus ispensieradu,
s’onesta comunanzia
de amigos chi happo abbandonadu;
mi torrat a sa mente
unu tempus passadu allegramente.
A’ cussu pensamentu
gia’ m’abbizo de cantu happo perdìdu,
e vivo cun lamentu
che puzzone ch’est foras dae nidu;
proende un’isgumentu
chi mai happo proadu nè sentìdu.
Su pensamentu ’olat
a tie, terra gentile, e si consolat.
Bellas, seguras roccas,
chi frittas dades abbas cristallinas;
filende, cun sas broccas
in testa, bos bisittant sas femminas.
Abbas chi sas piccioccas
isprigant da chi sas laras purpurinas
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Majestosas muntagnas
fizas de su canudu Gennargentu,
ch’in sas virdes campagnas
sas nucciolas bos faghent ornamentu;
seculares castagnas,
chi supervas halzades a su bentu
virdes ramos umbrosos,
dulche nidu de cantos pibiosos.
Semper bos sogno, vanu
però est custu sognu, it’amalgura!
Deo bos so lontanu,
in brazzos a sa mia disaura;
sent’in cor’un’arcanu
sensu, si penso sol’a sa dulzura
chi unu tempus godia,
torrat trista s’allegra musa mia.
Cando chi a sa mente
cunzedo liberament’in te pensare,
o Patria, prepotente
mi sento su bisonz’ ’e suspirare,
e una lagrim’ardente
mai faghet a mancu de bagnare
sas siccas laras mias,
bramosas solu de abbas natias.
Tue Tonara, vantas
gentil’e profumadu su terrenu,
in issu riccas piantas
c’amorant de su chelu su serenu;
magnetizzas, incantas.
Pares una viola indun’amenu
giardinu de incantu:
eo m’inchino pro te, ses logu santu.
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POESIAS
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Si d’esser Cab’ ’e Susu
non tenes sa pretesa macca e vana,
tue vantas su fusu
onestu filador’ ’e bona lana;
tantu nde faghes usu
chi meritas sa fama chi ti dana,
d’esser’industriosa,
povera ma onorad’in dogni cosa.
Pro turrones famada,
de sa Sardign’in sas primas fieras,
faghes front’a Pattada.
Cando moves a festas furisteras
andas accumpagnada
dae sas fentomadas caffetteras,
chi totta nott’in pè
dispensant a sos festantes su caffè.
Dogni ann’in beranu
ti mudas, ricca, d’ervas e fiores,
dae su Campidanu
torrant in sin’a tie sos pastores,
tando ses fittianu
dulche nidu de festas e amores,
e tue, gentile, ispricas
su gosu tou in cantos e musìcas.3
Ite fest’ite briu!
Ses dae sa bassura imbidiada;
sos caldos de s’istìu
Cagliari fuit, un’iscampagnada
si faghet a su riu
Pitzirimasa, inue sa cascada4
dulchement’in sos graves
crastos, falat cun murmuros suaves.
De nott’in sas carrellas
cando ridet sa Lun’in su lugore,
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filant sas pastorellas
e tessent dulches divignos de amore:5
sunt de Canente bellas6
melodias, iscultat su pastore,
e dae sa muntagna
distinghet su salud’ ’e sa cumpagna.
Canta, canta continu,
o Patria de Larent’e de Cappeddu;7
de musas ses giardinu,
cara ses a Tomas’e Bacchiseddu;8
t’allegrat Aostinu,9
ca possidit bernescu su faeddu,
cun sa musa brullana
si mustrat dignu fiz’ ’e Pepp’Egiana.
In s’attonzu s’anzone
si partit volunter’a terr’istranza,
su ’ent’ ’e santu Simone –10
chi tenet fama timid’e metanza –11
nd’iscudet s’ischissone:
sa gioventude, collinde castanza,
in sa ricca foresta
tesset cantos de gioi’e de festa.
Sunt boghes de cuntentu,
trillos de puzzoneddu innamoradu;
liricas de Larentu12
chi consolant su coro angustiadu.
Eolo turbolentu13
non si mustrat pius, ma, incantadu,
si faghet volunteri
de gentiles profumos dispenseri.
Cando frittu bennalzu
ti mudat de sa sua biancura,
t’iscaldit su telalzu
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POESIAS
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tessinde s’onorada filadura,
mentres su ’ervegalzu
t’approntat lana noa in pianura.
De cuss’onesta lana
nd’attestant sas calcheras de Tiana.14
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Sa tua gioventude
paret naschid’in terra nuoresa,
colores e salude
possidit e s’est unica in bellesa,
no est pro sa virtude
de sa capitta ruj’Osilesa,
belles’est naturale,
senza s’ingann’ ’e s’artifissiale.
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Parent neulas fintas
sas fizas tuas, caras e dilettas,
chi sutta de sas chintas15
mustran tesoros de formas perfettas,
e a su sinu astrintas
giughene de broccadu sas palettas;
cun s’insoro presenzia
provocant d’unu Giobbe sa passenzia.
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Parent madonninas
de Raffaell’in sas famosas telas,
non suni signorinas
chi si tinghent sas laras a bandelas,
ma suni montaninas
bellas, friscas e sanas. Hant sas melas
provocantes de sinu,
sutta su velu de candidu linu.
Issas parent lizos,
biancas, bellas, robustas e sanas;
mammas de sette fizos
cumparint chi ancora sunt bajanas.
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Isfidant sos fastizos
de sa vida, e zeltas anzianas
faghent narrer a fama:
«Est pius bezza sa fiza de sa mama».
Ogni mente s’abbassat
gentile, pro ti fagher cumplimentu,
s’istranzu cando passat
dae te no nde restat discuntentu,
anzis cando ti lassat
provat in coro veru sentimentu:
a tottus est nodia
s’isquisita tua cortesia.
Ses ben’amministrada
de zente chi t’est dende bona ghia,
partidu no bi nd’ada
chi turbet in sinu tou s’armonia,
ca ti ses ribellada
un’ ’orta contr’a s’antiga tirannia,16
e da c’has dadu prou
de firmesa, ses fiorind’a nou.
Lughe noa ti ..........17
..............................................
............................
....................... s’inquisizione
........................
...............................................
............... chimera
Epaminonda serena e severa.
O terra de dulzuras,18
pro te so trist’e vivend’in regiru,
dae custas bassuras
riverente ti mand’unu suspiru;
in tantas amalguras,
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POESIAS
200
205
disizosu de te, in su zeffiru
de su ridente abrile,
ti faeddo de me terra gentile.
In custu logu insanu
de umbras virdes mai mi ristoro,
unu sole africanu,
tintul’e ispinosu figumoro:
un’immensu pianu,
si cheres bellu in sas ispigas d’oro,
ma in su fangu sas ranas
narant chi sas aèras no sunt sanas.
In su trist’and’e torru
si proat su sabore c’hat su corru.
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O versu, a dogni costu
ti chelz’in bidd’andamus a inie,
custu no est su postu,
in custu fangu non sutterr’a tie:
deo mi so propostu
de t’ ’ider galu cattighende nie.
Ti chelz’in terras sanas,
no inoghe cantende cun sas ranas.
X, aprile 189 …19
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230
Sa bella gioventude,
si naschidu bi nd’hat, ha fattu pasu,
mancantes de salude
sunt sas bajanas a color’ ’e casu:
si perdet sa virtude,
sa poesi’a pedir’unu basu:
sos omines isculzos,
cambi pilosos peus de sos ulzos.
Cara Patria mia,
assumancu b’has abba cristallina,
i nogh’est porcheria
chi frazigat e pudit s’istentina:
pro unu ticch’ebbia
chi si nde buffat bi cheret sa china.
Sunt abbas malaittas,
chi faghent finas a segar’a fittas.
In tanta pestilenza
de’a su versu libero sas alas,
fuo cun frequenzia
boes errantes, de ideas malas,
chi faghent riverenzia
ch’est su matess’a narrer: «Torr’in palas».
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127
POESIAS
A TONARA
O gentile Tonara, / terra di muse, santa e benedetta, / Patria mia cara, / quand’è che potrò venire a farti visita? / E mi darai la chiara /
acqua di Croccoledda tanto fredda? / A quando veder le nevi, / quelle che ho calpestato in altri tempi? // Ah dura lontananza! / a cui la
sorte mi ha condannato. / Mi sovviene il ricordo / di un tempo spensierato, / l’onesta compagnia / di amici che ho abbandonato; / mi
torna alla mente / un tempo trascorso allegramente. // A quel pensiero / già mi accorgo di quanto ho perduto, / e vivo nel lamento /
come un uccello che è fuori dal nido; / provando uno sgomento /
che mai ho provato o sentito. / Il pensiero vola / a te, terra gentile, e
si consola. // Belle, sicure rocce, / che date fredde acque cristalline;
/ filando, con le brocche / in testa, le donne vi fanno visita. / Acque
che le ragazze / rispecchiano, quando le labbra di porpora / sporgono per gustare / il nettare che, ridendo, arriva al mare. // Maestose montagne / figlie del canuto Gennargentu, / cui nelle verdi campagne, / le nocciole fanno da ornamento; / secolari castagni, / che
superbi alzate al vento / verdi rami ombrosi, / dolce nido di canti
melodiosi. // Sempre vi sogno, vano / però è questo sogno, che
amarezza! / Io vi sto lontano, / nelle braccia della mia sventura, /
provo nel cuore un arcano / sentire; se penso solo alla dolcezza /
che un tempo godevo, / diventa triste l’allegra mia musa. // Ché
quando alla mente / liberamente concedo a te di pensare / o Patria,
prepotente / mi sale il bisogno di sospirare, / e una lacrima ardente
/ mai fa a meno di bagnare / le secche labbra mie, / bramose solo di
acque natie. // Tu Tonara, vanti / gentile e profumato il terreno, / in
esso ricche piante, / che si amano col sereno del cielo; / magnetizzi,
incanti. / Sembri una viola in un ameno / giardino d’incanto: / io
m’inchino per te, sei luogo santo. // Se di essere Capo di Sopra /
non hai la pretesa matta e vana, / tu vanti il fuso / onesto filatore di
buona lana; / tanto ne fai uso / che meriti la fama che ti danno, / di
essere industriosa, / povera ma onorata in ogni cosa. // Famosa per i
torroni / nelle principali fiere della Sardegna, / tieni testa a Pattada. /
Quando vai verso feste forestiere / sei accompagnata / dalle famose
caffettiere, / che per tutta la notte in piedi / dispensano ai festanti il
caffè. // Ogni anno a primavera / ti rivesti, ricca, d’erbe e fiori; / dal
Campidano / tornano nel tuo seno i pastori, / allora sei quotidiano /
dolce nido di feste e amori, / e tu, gentile, rispecchi / la gioia tua in
canti e musiche. // Che festa, che brio! / Dalla pianura sei invidiata; /
la calura estiva / Cagliari fugge, una scampagnata / si fa al ruscello /
Pitzirmasa, dove la cascata / dolcemente nei gravi / monti scorre con
mormorii soavi. // La notte per le strade / quando ride la Luna nel
bagliore, / filano le pastorelle / e intessono dolci canti d’amore: / sono di Canente belle / melodie, ascolta il pastore, / e dalla montagna,
/ distingue il saluto della compagna. // Canta, canta di continuo, / o
Patria di Larentu e di Cappeddu; / di muse sei giardino, / sei cara a
Tomasu e Bacchiseddu; / ti rallegra Aostinu, / perché possiede il
motto bernesco, / con la musa burlesca, / si mostra degno figlio di
Pepp’Egiana. // D’autunno l’agnello / parte volentieri in terra straniera, / il vento di san Simone, / che ha una temuta e cattiva fama / fa
cadere i ricci: / la gioventù, raccogliendo castagne, / nella ricca foresta, / intesse canti di gioia e di festa. // Sono voci di gioia, / trilli
d’uccellino innamorato; / liriche di Larentu / che consolano il cuore
angustiato. / Eolo turbolento / non si mostra più, ma, incantato, / si
fa volentieri / dispensatore di gentili profumi. // Quando il freddo
gennaio / ti cangia col suo biancore, / ti scalda il telaio / tessendo
l’onorata filatura, / mentre il pecoraio / ti prepara lana nuova in pianura. / Di quell’onesta lana / fanno fede le gualchiere di Tiana. // La
tua gioventù / sembra nata in terra nuorese, / colori e salute / possiede, e se è unica per bellezza / non è in virtù / della mantellina
rossa osilese: / è bellezza naturale, / senza l’inganno dell’artificiale.
// Sembrano nubi finte / le figlie tue, care e dilette, / che sotto i
grembiali / mostrano tesori di forme perfette, / e al seno stretti /
hanno di broccato i corsetti; / con la loro presenza / provocano d’un
Giobbe la pazienza. // Sembrano madonnine / di Raffaello nelle famose tele, / non sono signorine / che si tingono le labbra a bandiera, / ma sono montanine / belle, fresche e sane. Hanno le mele /
provocanti del seno / sotto il velo di candido lino. // Esse sembrano
gigli, / bianche, belle, robuste e sane; / madri di sette figli / sembrano ancora signorine. / Sfidano le difficoltà / della vita, e certe anziane / fanno dire per fama: / «È più vecchia la figlia della mamma». //
Ogni mente s’abbassa / gentile, per farti un complimento, / il forestiero quando passa / di te non resta scontento, / anzi quando ti lascia / prova nel cuore un genuino sentimento: / a tutti è nota / la
tua squisita cortesia. // Sei ben amministrata / da gente che ti sta
dando una buona guida, / non c’è partito / che turbi nel tuo petto
l’armonia, / perché ti sei ribellata / una volta contro l’antica tirannia,
/ e poiché hai dato prova / di fermezza, stai fiorendo nuovamente.
// Luce nuova ti … / … / … / … l’inquisizione / … / … / … chimera
128
129
POESIAS
/ Epaminonda serena e severa. // O terra di dolcezze, / per te sono
triste e vivo nel dispiacere, / da queste pianure / riverente ti mando
un sospiro; / in tante amarezze, / desideroso di te, nello zeffiro / del
ridente aprile, / ti parlo di me, terra gentile. // In questo luogo malsano / di verdi ombre mai mi ristoro, / un sole africano, / zanzare e
spinoso ficodindia: / un immenso piano, / se vuoi bello nelle spighe
d’oro, / ma nel fango le rane / dicono che non sono arie sane. // La
bella gioventù, / se mai vi è nata, è cessata; / prive di salute / le giovani sono di color giallastro: / si perde la virtù, / la poesia, a chiedere un bacio: / gli uomini scalzi, / con le gambe più pelose degli orsi.
// Cara Patria mia, / almeno hai acqua cristallina, / qui è una porcheria / che marcisce e imputridisce l’intestino: / per un goccio solo
/ che se ne beve ci vuole la china. / Sono acque maledette, / che si
possono anche tagliare a fette. // In tanta pestilenza / io al verso libero le ali, / rifuggo di frequente / buoi erranti, d’indole malvagia, /
che fanno la riverenza / ma come se dicessero: «Torna indietro». /
Nel triste va e vieni / si prova il sapore che ha il corno. // O verso,
ad ogni costo / ti voglio nel paese, andiamoci, / questo non è il posto, / in questo fango non ti sotterro: / io mi son proposto / di vederti ancora calpestar la neve. / Ti voglio in terre sane, / non qui, a
cantare con le rane.
CONSIZOS A UNU AMIGU
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Pro cantu m’has pregadu
a ti dar’unu parre,
già c’has idea ’e leare muzere,
frade me’istimadu,
su chi ti poto narre
est chi fettas su tou piaghere.
Unu parre ti do,
l’azzettes, sì o no,
de ti lu dare mi sent’in dovere.
Com’est chi ti do prou
chi m’est a coro s’interessu tou.
Ti giuro francamente
chi m’agatto surpresu
prite mai credi’a tal’insoniu.
Non cumprendo comente
nè chie t’hat azzesu
s’idea macca de su matrimoniu.
In custu fattu tou
original’e nou,
zeltu b’hat postu coa su dimoniu,
pro cussu so dispostu
de ti rispunder cun su musu tostu.
Cumprid’has barant’annos,
e ti ses iscampadu
de leare muzere fin’a como,
de repent’in affannos,
cheres mudar’istadu,
cun ti ponner tiaulos in domo.
So in su disisperu
chi bi ruas a beru;
de s’oriolu c’happo no nde dromo.
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POESIAS
Ma s’iscultas a mie
no has’a esser fragile gasie.
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Ello no est macchine
amare a sa bezzesa
su c’has fuid’in sa giovan’edade?
Faghela de omine,
e abbandona s’impresa
si cheres viver cun felizidade;
si calchi femminedda
ti mustrat sa bunnedda,
nara c’has fattu vot’ ’e castidade.
Non ames in su seriu,
si no ti naro chi non has criteriu.
In s’umanu consorziu
pag’astutu ti creo,
si ti faghes teraccu sende mere.
Si bi fit su divorziu
forsis su primu deo
ti dia narrer: «Sì, lea muzere»,
prite tando assumancu,
da chi nde ses istancu
la podes riformar’a piaghere.
Ma como no affides:
cussa legg’est dorminde, già lu ’ides.
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Ahi cherveddu iscassu!
Su male ti disizas,
it’est custa mudada repentina?
Si su fatale passu
faghes, già tind’abbizas
ite cos’est in dom’una femmina.
De natur’ingannosa,
si mustrat una rosa,
cando la toccas ti punghet s’ispina.
Adamu, nàt s’istoria,
pro culpa d’Eva ha perdidu sa gloria.
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Ponimus in su casu
chi sies cojuadu.
Senza chi tant’esempios ti zite,
ti fatto persuasu
chi ti ses ingannadu,
e ti fatto connoscher su proite.
Amore no nde gosas,
dae su die ch’isposas
intras cun sos dimonios in lite:
sa femmina est pesu,
chi l’ischit sol’a chie b’est in mesu.
Dae su di’ ’e s’affidu
deves fagher su seriu
prit’abbrazzas sa rugh’ ’e su dolore.
Ti giamant maridu,
faeddu de misteriu
c’a bortas cheret narrer cobertore.
Cun s’amada cumpagna
ti dàs a sa campagna,
olvidende su mundu pro s’amore
e a front’alta che chervu
de sa cumpagna tu’andas supervu.
S’est una signorina,
cun onor’e decoro,
la dès tenner in abidos de rasu;
semper in cappellina,
manifide de oro
e’ sa riforma de su pan’e casu,
prite, s’est vissiosa,
de su ch’est disizzosa,
si non l’ottenet, ti negat su basu.
Tando pro dannu tou
intrat in ballu su caffè cun ou.
A una signorina
chi si tenet in gradu,
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POESIAS
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l’est in domo dezente sa fiacca.
Pro fagher sa coghina
tue sese obbligadu
a crebagor’accordare teracca,
e una cameriera,
senza sa caffettera,
ch’est sa chi t’allezirit sa bussaca.
A lettu sa padrona
bona mer’est de fagher sa mandrona.
Mentres tu’in s’offissiu
dae bonu manzanu,
sudas cuddas mischinas zorronadas,
ipsa, senza giudissiu,
cun su romanz’in manu,
faghet sa fida de pappa ’e badas.
Giornales e rivistas,
sartinas e modistas,
zeltamente ti dant pagas intradas;
anzis, modas e nastros,
favorint de sa bussa sos disastros.
A ipsa ogni cuntentu
tue des acanzare
si no ti perdet su geni’e’ s’affettu,
e si no istas attentu
si podet avverare
su fattu de su padre sutta lettu:
giughent s’argentu vivu,
e si non ses attivu
ti furcana sa testa pro dispettu.
Si est muzere bella
faghes ben’a li ponner sentinella.
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No este mancu dezente
a unu carratone
de l’accollar’una puddedra rude,
ca truncat sa trobea,
e si si pesat rea
zelt’est chi ti ruinat sa salude.
Debile ses de fisicu,
e si muzere leas moris tisicu.
Tottu custos fastizos
suni niente, appettu
a sas ateras penas e burrascas.
Cando benit in fizos,
ipsa corcad’a lettu,
e tu’istas abbiz’a fagher fascas:
pianghet su messia,
e tue, in s’anninnia,
li cantas su sinceru malas pascas.
Sa pedd’ ’e sa ’elveghe
non bastat a s’isfundadu colafeghe.
Tottu consideradu,
est gravos’e pesante
sa rughe chi ti cheres abbrazzare.
Si ses a mal’istadu
leand’unu purgante,
su calore già benit a zessare.
Teniast su disizu,
de ti dare consizu,
dadu ti l’happo: a ti’est a pensare.
Ammenta c’avvisadu
s’omine, nât su dicciu, est già salvadu.
Ses bezz’e impotente,
de manizzar’asprone
creo c’happes perdidu sa virtude.
134
135
POESIAS
CONSIGLI A UN AMICO
Visto che mi hai pregato / di darti un parere, / già che hai idea di
prender moglie, / fratello mio amato, / quello che ti posso dire / è
che faccia come ti piace. / Un parere ti do, / che lo accetti o no, /
di dartelo mi sento in dovere. / È ora che ti do la prova / che mi
sta a cuore il tuo interesse. // Ti giuro francamente / che sono sorpreso / perché mai avrei creduto a questa notizia. / Non capisco
come / né chi ti ha fatto nascere / l’idea matta del matrimonio. / In
questo tuo fatto / originale e nuovo, / certo ci ha messo la coda il
demonio, / per quello sono disposto / a risponderti a muso duro.
// Hai compiuto quarant’anni, / e te la sei scampata, / fino ad ora,
dal prender moglie; / d’improvviso negli affanni, / vuoi cambiare
stato, / mettendoti i diavoli in casa. / Mi fa disperare / che ci caschi
davvero; / non ci dormo per il pensiero che ho. / Ma se ascolti me
/ non sarai così fragile. // Allora, non è pazzia / amare in vecchiaia
/ ciò che hai fuggito nella giovane età? / Comportati da uomo, / e
abbandona l’impresa / se vuoi vivere in felicità; / se qualche giovincella / ti mostra la gonnella, / dì che hai fatto voto di castità. /
Non amare sul serio, / se no ti dico che non hai criterio. // Nell’umano consorzio / ti credo poco astuto, / se da padrone ti rendi
schiavo. / Se ci fosse il divorzio / forse io per primo / ti direi: «Sì,
prendi moglie», / perché allora almeno / dacché te ne stanchi / la
puoi riformare a piacere. / Ma ora non sposarti: / quella legge sta
dormendo, lo vedi. // Ahi cervello scarso! / Ti auguri il male, / cos’è questo cambiamento repentino? / Se il fatale passo / fai, ti accorgerai / di che cos’è una donna in casa. / Di natura ingannatrice,
/ si mostra una rosa, / quando la tocchi ti punge la spina. / Adamo, dice la storia, / per colpa di Eva ha perso la gloria. // Mettiamo il caso / che sia sposato. / Senza che ti citi tanti esempi, / ti voglio persuadere / che ti sei sbagliato, / e ti faccio sapere il perché.
/ L’amore non ti godi, / dal giorno in cui ti sposi / entri in lite col
demonio: / la donna è un peso, / che conosce solo chi c’è in mezzo. // Dal giorno in cui ti sposi / devi fare il serio / perché abbracci la croce del dolore. / Ti chiamano marito, / parola misteriosa /
che a volte vuol dire “cornuto”. / Con l’amata compagna / ti dai alla campagna, / dimenticando il mondo per l’amore / e a fronte alta
come un cervo / vai orgoglioso della tua compagna. // Se è una signorina, / con onore e decoro, / la devi tenere in abiti di raso; /
sempre col cappellino, / con l’anello d’oro, / e la riforma del pane
136
e formaggio, / perché, se è capricciosa, / per quel che desidera, / se
non l’ottiene, ti nega il bacio. / Allora a tuo danno / entra in ballo il
caffè con uovo. // Ad una signorina / che si porta con decoro, / in
casa si confà la fiacca. / Per governare la cucina / tu sei obbligato /
a prendere a crepacuore una domestica, / e una cameriera, / senza
la caffettiera, / che è quella che ti alleggerisce la tasca. / A letto la signora / è ben padrona di fare la poltrona. // Mentre tu nell’ufficio /
di buon mattino, / sudi quelle misere giornate, / lei, senza giudizio,
/ col romanzo in mano, / fa la vita di chi mangia a sbafo. / Giornali e riviste, / sartine e modiste, / certamente ti danno poche entrate;
/ anzi, mode e nastri, / della borsa favoriscono i disastri. // A lei
ogni capriccio / tu devi accordare / se no perde la stima e l’affetto,
/ e se non stai attento / si può avverare / quel fatto del prete sotto
il letto: / hanno l’argento vivo, / e se non sei attivo / ti fanno la testa biforcuta per dispetto. / Se è una moglie bella / fai bene a metterle una sentinella. // Sei vecchio e impotente, / di maneggiare lo
sprone, / credo abbia perso la virtù. / Neppure si addice / a un
vecchio carro / che se lo accolli una puledra indomita, / perché
rompe le pastoie, / e se imbizzarrisce / è certo che ti rovina la salute. / Sei debole di fisico, / e se prendi moglie muori tisico. //
Tutti questi fastidi / son niente, rispetto / alle altre pene e burrasche. / Quando ha figli, / lei sta a letto, / e tu stai sveglio a fare fasce: / piange il messia, / e tu, nell’anninnia, / gli canti i tuoi peggiori auguri. / La pelle della pecora / non basta al culetto senza
fondo. // Tutto considerato, / è gravosa e pesante / la croce che
vuoi abbracciare. / Se sei in cattivo stato / prendendo un purgante,
/ il bollore certo verrà a cessare. / Avevi il desiderio, / che ti dessi
consiglio, / te l’ho dato: a te sta pensare. / Ricorda che avvisato /
l’uomo, dice il proverbio, è già salvato.
137
POESIAS
LAMENTOS D’UNU NOBILE20
30
Funesta rughe
chi giust’a pala,
per omnia sæcula
ba’in ora mala.
5
10
15
20
35
In diebus illis
m’has fatt’onore,
ma oe ses simbulu
de disonore.
40
Oe unu nobile
chi no hat pane,
senz’arte, faghet
vida ’e cane.
Oe mi cuntento
de pan’e casu,
cando chi nd’appo,
e binu a rasu.
E, tra parentesi,
gai, pro collunu,
mi narant martire
de su digiunu.
Ah caros tempos
c’happo connottu!
Sezis mudados
in d’unu bottu!
Senz’impiegu
su cavalleri,
est unu mulu
postu in sumbreri.
45
A pancia buida,
senza sienda,
pappat, che ainu,
paza in proenda.
50
Deo faeddo
cun cognizione,
ca isco it’este
s’ispiantagione.
55
25
pappai peta,
peta ’e vitellu,
frisca, frischissima
dae su masellu.
In illo tempore,
cando tenia
ricchesas, benes
e nobilia:
In cussos tempos,
in sos festinos
mi sustentai’
de puddighinos.
Puddas chi rassu
faghiant brou,
dogni manzanu
caffè cun ou.
Pranzos de gala,
festinos, ballos,
gorbatta bianca
e guantos giallos.
Cun sa chiterra
in sas carrellas,
138
139
POESIAS
60
alzai’ su cantigu
a sas istellas.
90
De notte in festas
semper ischidu –
tirriolupedde –
de die dormidu.
95
65
70
75
80
Supervu, a nemos
m’inchinaia,
vantende alteru
sa rughe mia.
Oe sa supervia
no est de mundu,
sos pantalones
non giughent fundu.
100
Dendemi titolos
de riccu e nobile
mi ’ettat in cara:
«Ricchezza mobile».
Eo li rispundo
in tonu affabile:
«Ricchesa mobile
miseria stabile».
«Eh già!» mi narat,
«ma cando mai
Lei, Cavaliere,
poveru gai?».
Sa bacchettina
de sas pius riccas,
s’est cunvertida
in ciappa-ciccas.
105
S’aneddu d’oro
de calidade,
est in su Monte
de piedade.
110
E su rolozu
cun sa cadena,
mi l’happo ’endidu
pro una chena.
115
85
Torrad’a domo
po pius dolore,
m’ ’ido sa visita
de s’esattore.
In cussa chena
funesta e vile,
m’happo giogadu
caddu e fusile.
«Sa peronospera
tottu ha distruttu,
binzas e campos
non dant produttu.
Quindi, pazienza
tenzant pro como»
li naro, ipse
intrat in domo.
E a crebagoro
de sa familia
ponet suggellos
a sa mobilia.
Sa domo no,
est rispettada
140
141
POESIAS
120
pro mores d’esser
ipotecada.
Tottu suggellat,
piattos, bottiglias,
ispidos, trebides,
truddas graviglias.
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140
E prite tottu custu? Zertamente
est pro sa macca e vana testa mia.
Superv’e indolente,
chi su mundu fit gai non credia.
Sa rughe si ridiat de su zappu
ca mai happo connott’it’est sudore,
e oe, tontu che nappu,
imbidio s’onestu zappadore.
E provvisteddas
c’haia fattas
basolu, caule,
zuccas, patatas.
145
Lintiza, fae,
lardu, salamene,
lassende in domo
miseri’e famene.
150
In fines, tottu
sequestradu,
eo cun sa rughe
mi so restadu.
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160
Zappador’in berritta mi disizo;
so famid’e m’abbizzo de s’isbagliu,
ma tardu mi nd’abbizo,
non frittit pius s’ischin’a su trivagliu.
Trivagliu dae sos bonos riveridu
ma rinnegadu dae sa rughe mia;
semper l’happo fuidu,
dendem’in brazzos a sa mandronia.
So vivid’oziosu, isreguladu
che caddu rude chi no sentit frenu:
s’haia trivagliadu
no haia bisonz’ ’e pan’anzenu.
Finalmente, funesta e tropp’in cabadu
de su male sa pag’happo cumprida.
Deus non pagat su sabadu,
ma pagat tottas sas dies de sa chida.
Galu sa paga giusta no m’hant dadu,
ca s’ischerant su male c’happo fattu,
di’a esser giamadu
s’astr’ ’e su domiciliu coattu.
165
142
Su vissiu, non curante de s’onore,
hat giogad’a s’anzenu bruttos tiros,
143
POESIAS
e vile truffadore
mi so fattu cun pessimos raggiros.
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180
Non est chi m’happet salvadu sa malissia
dae sas penas c’happo meritadu,
sol’est ca sa giustissia
hat fatt’assign’in su cavaglieradu.
Si dae cussas penas nde so foras,
sa rughe m’est servida pro iscuja,
si no a’ custas oras
fia carrende sale a testa ruja.
Però non poto narrer: «Nde so foras
de sas ferradas cabbias de ladros»,
prit’oe timo ancoras
de cuntemplare su chel’a quadros.
S’ ’enzerat cussu die passienzia
rughe buffa, no nelzas ch’est abusu:
tott’est cunseguenzia
de su vissiu ch’in me tue has infusu.
LAMENTI DI UN NOBILE
Croce funesta / che porto in spalla, / per omnia sæcula / va’ in malora. // In diebus illis / m’hai fatto onore, / ma oggi sei simbolo / di
disonore. // Oggi un nobile / che non ha pane, / senz’arte, fa / vita
da cane. // Senza impiego / il cavaliere, / è un mulo, / col cappello.
// A pancia vuota, / senza averi, / mangia, come l’asino, / la razione
di paglia. // Io parlo / con cognizione, / perché so cos’è, / la miseria. // In illo tempore / quando avevo / ricchezze, beni, / e nobiltà:
// mangiar carne, / carne di vitello, / fresca, freschissima, / dal macello. // Oggi m’accontento / di pane e formaggio, / quando ne ho,
/ e vino al colmo. // E tra parentesi, / così, per coglionatura, / mi dicono martire / del digiuno. // Ah tempi cari / che ho conosciuto! /
Siete cambiati / tutto d’un botto! // In quei tempi, / nei festini, / mi
nutrivo / di pollastri. // Galline che grasso / facevano il brodo, /
ogni mattina / caffè con l’uovo. // Pranzi di gala, / festini, balli, /
cravatta bianca / e guanti gialli. // Con la chitarra / per le strade, /
levavo il canto / alle stelle. // Di notte in festa / sempre sveglio, / pipistrello, / di giorno addormentato. // Superbo, a nessuno / m’inchinavo / vantando altero / la mia croce. // Oggi la superbia / non è di
mondo, / i pantaloni, / non hanno fondo. // La bacchettina / delle
più ricche, / s’è convertita / in acchiappa-chicche. // L’anello d’oro /
di qualità, / sta nel Monte / di pietà. // E l’orologio / con la catena, /
l’ho venduto / per una cena. // In quella cena / funesta e vile, / mi
son giocato / cavallo e fucile. // Tornato a casa / per maggior dolore
/ mi vedo la visita / dell’esattore. // Dandomi titoli / di ricco e nobile
/ mi getta in faccia: / «Ricchezza mobile». // Io gli rispondo / in tono
affabile: / «Ricchezza mobile / miseria stabile». // «Eh già!» mi dice, /
«ma quando mai, / Lei, Cavaliere, / così povero?». // «La peronospora
/ tutto ha distrutto, / vigne e campi / non dan prodotto. // Quindi
pazienza / abbiano per ora» / gli dico, lui / entra in casa. // E a crepacuore / della famiglia / mette i sigilli / alla mobilia. // La casa no,
/ è rispettata / perché tanto è / ipotecata. // Tutto sigilla, / piatti,
bottiglie, / spiedi, treppiedi, / mestoli e griglie. // E provviste / che
avevo fatte / fagioli, cavoli, / zucche, patate. // Lenticchie, fave, / lardo, salame, / lasciando in casa, / miseria e fame. // Infine, tutto / sequestrato, / io con la croce, / sono restato.
E perché tutto questo? Certamente / è per la matta e vana testa
mia. / Superbo e indolente, / non credevo che il mondo fosse così.
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145
POESIAS
// La croce rideva della zappa / perché mai ho saputo cos’è il sudore, / e oggi, tonto come una rapa, / invidio l’onesto zappatore.
// Mi vorrei zappatore in berretto; / sono affamato e m’accorgo
dello sbaglio, / ma tardi me ne accorgo, / non si piega più la schiena al lavoro. // Lavoro dagli onesti riverito / ma rinnegato dalla
mia croce; / sempre l’ho rifuggito, / abbracciando la poltronite. //
Sono vissuto ozioso, sregolato / come un cavallo indomito che non
sente il freno: / se avessi lavorato / non avrei bisogno del pane altrui. // Infine, funesto e troppo tardi / ho pagato il pegno del male
fatto. / Dio non paga il sabato, / ma paga tutti i giorni della settimana. // Ancora la giusta paga non m’hanno dato, / perché se sapessero del male che ho fatto, / sarei chiamato / l’astro del domicilio coatto. // Il vizio, noncurante dell’onore, / ha giocato all’altrui
brutti tiri, / e vile truffatore / son diventato, con pessimi raggiri. //
Non è che m’abbia salvato la malizia / dalle pene che ho meritato,
/ è solo che la giustizia / ha fatto affidamento sul cavalierato. // Se
da quelle pene sono fuori, / la croce mi è servita da scusa, / se no
a quest’ora, / starei trasportando sale con la testa rossa. // Però
non posso dire: «Sono fuori / dalle gabbie di ferro dei ladri», / perché oggi ancora temo / di contemplare il cielo a quadri. // Se giungesse quel giorno pazienza / buffa croce, non dire che è un abuso:
/ tutto è conseguenza / del vizio che in me hai infuso.
A GENESIO LAMBERTI
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I.
Ue che sezis dados
o sognos de amore,
o penseris de gloria? Distruttos
sezis e calpestados
dae su giustu rancore
chi proat custu coro: sognos bruttos
mi turbant s’intellettu,
e ispalghent velen’intro su pettu.
Ah sognu vanu! Iscrittu
dae cando so nadu,
in laras happo giutu su dolore.
Infamia! Malaittu
siast sognu incantadu,
cortigianu crudel’ingannadore.
Tè, sas giaes t’intrego,
friscio in coro sa janna, ti rinnego.
O sognu armoniosu,
si t’happo malaittu
est prite ti detesto: no est faula.
E si grido ingannosu,
nara, has forsis dirittu
de protest’a sa perfida paraula?
No – T’happ’ ’idu gentile,
però ses vile aduladore. Vile!
E tue vida penosa,
chi cun su fals’incantu,
m’has lead’a su cor’ogni dulzura,
truncad’e una losa
abber’in campusantu,
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POESIAS
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e sutterra sa mia disaura.
Su vivìre m’est duru,
ti disprezz’e detest’a tie puru.
Eo disprezzo tottu,
nè happo pius imbidia
de su risu chi miro in car’anzena
ca com’happo connottu
s’infamia, sa perfidia
de cust’isclavitudine terrena.
Ite cos’est sa vida?
Una rugh’ispinosa, incrudelida.
arza bomind’est su velen’, e nois,
genia poveritta,
rettenimus su grid’ ’e sa vinditta!
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Ah perfida genia!
Prite ti lassas tingher
su cor’a luttu? – Ischid’e faghe prou.
O forsis villania
non ti paret su lingher
s’ispada tinta de sambene tou?
Su can’a orulare
s’halzat si non li dant a mandigare:
Ite cos’est su mundu
in su cale vivimus,
privos de lughe, amor’e libertade?
Unu mar’est, profundu;
dae cando naschimus
bi navigamus – Cun felizidade?
No – pro chi palzat gai,
felizidade no nd’esistit mai.
E sos abitadores
de sa terr’ite sune?
Terra – Fangh’ischifosu, non sun terra.
Rettiles impostores,
tristos faccias de fune:
sos frades a sos frades faghent gherra.
E in sa terr’intantu
aumentat s’infamia e’ su piantu.
Vivimus avvilidos
in custa tenebrosa
badd’ingrata de ahis e de ohis.
Sutta sos fioridos
campos sa velenosa
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POESIAS
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II.
E tue, senza pane,
istancu, famid’e nudu,
no halzas de disdign’una protesta!
Ses peus de su cane,
vile servis e mudu:
linghes sa man’ingrat’e faghes festa
a chie ti deridet,
cando, pedinde, a manu tesa t’ ’idet!
De su grassu sarau
chi sos riccos segnores
faghent a palas tuas, cun fastizos,
populu, ses isciau.
Fadigas e sudores
cunsacras pro capriccios e disizos
de cussa zente ischiva,
e tue famidu gridas: «Viva! Evviva!».
Vivat chie su punzu
ponet in su siddadu
de su sambene tou pius ardente.
Su pane senz’aunzu,
si nd’has, e avvelenadu
lu pappas, ca ses dannad’eternamente
a vivir’in s’ischeffa,21
famidu, umiliad’e post’a beffa.
O populu famidu,
dae te cazz’addane
su pan’ispeli, scudel’a buleu.22
Su codul’induridu
chi mandigas pro pane,
halzalu minaccios’in car’a Deu:
cun disdign’in s’aèra
l’imbolas custa trista preghiera:
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III.
Già ch’in altu Segnore
sedes, e de amore
astru sese, ti preg’una mirada
no neghes piedosa
a’ custa tenebrosa
badde de te in tott’ismentigada,
ue viv’opprimidu
da s’ora c’a su mundu so bennidu.
Istancu de pedire
su pane, pro vivire
comente so vivend’in cuntierra,
pius non prego. Mira
de me su dolu, s’ira
tua pius funest’ ’enzat in terra,
e in cuss’ira funesta
ischizz’a tantos rettiles sa testa.
Su fulmine fatale
imbola: universale
siat s’orrend’isfatta, faghe ruer
in s’abissu s’intera
ipotecad’isfera.
Turbines de chisin’e de piuer
subra de me iscude:
su fangu pro me rettil’est salude.
Sì, turbines e lampos
sos fioridos campos
atterrent, sas funtanas cristallinas
diant a sos sididos
fele. Sos promittidos
de Patmo fumos caldos e chisinas23
abbrevia, ne’ sa pia
iscultes, preghiera de Maria.
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POESIAS
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Si sa zelest’Isposa
t’invocat piedosa
su perdonu, non zedas. Bisonzosu
mi credes de perdonu?
Unu lamp’unu tronu
ti dimando, una fine: est dolorosu
su viver e patire.
Abbrevia ca est ora a’ la finire.
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Tue chi de Gomorra24
t’appellant su severu
giuighe, cun terribil’e severa
ira, custa camorra
feri, e si est veru
chi ses giustu, sa mia preghiera
isculta. Imbenujadu
t’adoro, si brujas tottu su creadu.
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IV.
Ma tue populu finghes
de protestar’e times:
de pedire su tou bilgonzosu.
A chie t’opprimet linghes,
e de islancios sublimes
ses incapaze, zegh’e sonnigosu,
si no si fit intesu
su gridu ’e vinditta ’e s’offesu.
Cagliadi, dèt sighire
s’infamia. Sa festa
faghes a chie de sa frust’est dignu.
Preferis su pedire
a una giusta protesta
chi podes imbolare cun disdignu.
Ti negant su pane,
e tue da sa patri’andas addane!25
Deo cantone resto
e a s’infamia isfido:
t’odio mundu, in te cosa no amo.
Ti ruspo, ti detesto.
Cun ischernu ti grido:
«Marranu!». S’in su dol’a tie giamo
inuman’e marranu,
non ti risentas, non lu nar’invanu.
Est odiu implacabile
su ch’in su cor’azzesu
sento pro tene, non ti pot’amare,
o mundu miserabile.
Custu cor’est offesu
dae te mortalmente, a t’odiare
tue m’has imparadu:
de me ses odiad’e rinnegadu.
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Ind’una zell’oscura,
pro non bider a tie
camminend’a su buju senz’istella,
sa trista sepoltura
pro seppellir’a mie
happ’elett’, assumancus in sa zella
m’hat a esser cunzessu
cumpiangher a tie, mundu revessu.
Inie happ’ammentare
cuddos teneros annos
pienos de isperanzas e amore,
e cand’happ’abbassare
sa front’a sos affannos
chi m’hant fatt’odiosu, cun rancore,
mund’ingratu, su tou
risu falsu frastimo dae nou.
220
Odio, puru bi penso a sos lontanos
sorrisos de sa Patria natia.
Mi cumprimo su coro cun sas manos
tremulantes. S’oscura fantasia
225
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215
V.
Ecco chi finalmente s’agonia
m’hapo sonadu. Fantasmas istranos
attraversant s’istanca fronte mia
coronada de tantos pilos canos.
s’infogat e riscaldat. Meditende
penso ch’in custa zella, san’e forte,
viv’istancu de viver, cun affannos.
So viv’e mortu: semper delirende,
aborrinde sa vid’amo sa morte
e happ’appenas passadu sos vint’annos!
Si benit un’angelicu
ispirit’a ispender
novellas de sa tua redenzione,
unu mefistofelicu
sorrisu dèt surprender
in laras mias: «Ritiradi buffone»
l’happ’a narrer, «su mundu
es tundu, ed est destinu, morit tundu».
Ma si benit su clavu
chi ti dàt Kiriella26
nendemi c’a s’isfatta ti preparas,
l’happ’a rispunder: «Bravu,
custa cara novella
isettaia»: cun su sarcasm’in laras,
dae cussa zella fora
mi fatto, e benz’a ti ruspir’ancora.27
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155
POESIAS
VI.
Eccomi seppellidu, in brunu mantu
m’has a sa losa, o mundu, reduidu.
Tu’ has mentid’in vid’e has mentidu
dae nant’ ’e sa foss’in campusantu.
235
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Cun s’infame carazza de piantu
ipocritu, su visu s’est bestidu.
Sos vantos ch’in sa losa m’has tessidu
ti sunt servidos pro ti dare vantu.
Vivente m’has cattigadu e malaittu,
e confinadu m’has in cust’oscura
zella, de patimentos sa pastora.
Pustis mort’in sa losa m’has iscrittu:
«Cosa buona mortal passa e non dura».
Mentid’has prim’e ses mentind’ancora.
Osilo, 7 maggio 1895.
A GENESIO LAMBERTI
I.
Dove siete finiti / o sogni d’amore, / o pensieri di gloria? Distrutti /
siete e calpestati / dal giusto rancore / che prova questo cuore: brutti
sogni / mi turbano l’intelletto, / e spargono veleno dentro il petto. //
Ah sogno vano! Scritto / da quando sono nato, / sulle labbra ho portato il dolore. / Infamia! Maledetto / sia sogno incantato, / cortigiano,
crudele ingannatore. / Tiè, ti do le chiavi, / chiudo nel cuore la porta, ti rinnego. // O sogno armonioso, / se t’ho maledetto / è perché
ti detesto: non è una bugia. / E se grido ingannatore, / dì, hai forse
diritto / di protestare per la perfida parola? / No. T’ho visto gentile, /
però sei vile adulatore. Vile! // E tu vita penosa, / che con falso incanto, / mi hai portato al cuore ogni dolcezza, / spezzati e una tomba / apri nel camposanto, / e sotterra la mia sventura. / La vita è per
me dura, / disprezzo e detesto anche te. // Io disprezzo tutto, / né
ho più invidia / del riso che vedo nelle facce altrui / perché ora ho
conosciuto / l’infamia, la perfidia / di questa schiavitù terrena. / Che
cos’è la vita? / Una croce spinosa, incrudelita. // Che cos’è il mondo
/ nel quale viviamo, / privi di luce, amore e libertà? / È un mare,
profondo; / da quando nasciamo / ci navighiamo. Con felicità? / No.
Anche se sembra così, / non esiste mai felicità. // E gli abitanti / della terra cosa sono? / Terra. Fango schifoso, non sono terra. / Rettili
impostori, / tristi facce da forca: / i fratelli ai fratelli fanno la guerra. /
E sulla terra intanto / aumenta l’infamia e il pianto. // Viviamo avviliti / in questa tenebrosa / valle ingrata di ahi e di ohi. / Sotto i fioriti
/ campi la velenosa / argia sta vomitando il veleno, e noi, / progenie
poveretta, / tratteniamo il grido di vendetta! // Ah perfida genia! /
Perché ti lasci dipingere / il cuore a lutto? Sveglia e fai un tentativo. /
O forse villania / non ti sembra leccare / la spada tinta del tuo sangue? / Il cane comincia a ululare / se non gli danno da mangiare:
II.
E tu, senza pane, / stanco, affamato e nudo, / non innalzi di disdegno una protesta! / Sei peggio di un cane, / vile servi e zitto: / lecchi
la mano ingrata e fai festa / a chi ti deride, / quando, chiedendo, con
la mano distesa ti vede! // Del grande scialo / che i ricchi signori /
fanno alle tue spalle, molestandoti, / popolo, sei schiavo. / Fatiche e
sudori / consacri a capricci e desideri / di quella gente schifosa, / e tu
affamato gridi: «Viva! Evviva!». // Viva chi il pugno / infila nel segreto
156
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POESIAS
/ del tuo sangue più ardente. / Il pane senza companatico, / se ne
hai, e avvelenato / lo mangi, perché sei condannato eternamente / a
vivere nella feccia, / affamato, umiliato e deriso. // O popolo affamato, / da te scaccia lontano / il pane di ghianda, gettalo in aria. / Il sasso indurito / che mangi come pane, / alzalo minaccioso in faccia a
Dio: / con disdegno nel cielo / lanciagli questa triste preghiera:
III.
Già che in alto, Signore, / siedi, e d’amore / sei l’astro, ti prego
uno sguardo / non negare pietoso / a questa tenebrosa / valle da
te totalmente dimenticata, / dove vivo oppresso / dal momento in
cui son venuto al mondo. // Stanco di chiedere / il pane, per vivere / come sto vivendo in discordia, / più non prego. Osserva / il
mio dolore, l’ira / tua più funesta scenda sulla terra, / e in quell’ira
funesta / schiaccia a tanti rettili la testa. // Il fulmine fatale / scaglia: universale / sia l’orrenda distruzione, fa’ cadere / nell’abisso
l’intera / ipotecata sfera. / Turbini di cenere e polvere / scaglia sopra di me: / il fango per me rettile è salvezza. // Sì, turbini e lampi
/ i fioriti campi / distruggano, le fontane cristalline / diano agli assetati / fiele. I promessi / fumi caldi e ceneri di Patmo / affretta, né
la pia / ascolta, preghiera di Maria. // Se la celeste Sposa / t’invoca
pietosa / il perdono, non cedere. Bisognoso / mi credi di perdono?
/ Un lampo, un tuono / ti chiedo, una fine: è doloroso / il vivere e
patire. / Affrettati, perché è ora di finire. // Tu, che di Gomorra /
chiamano il severo / giudice, con terribile e severa / ira, questa camorra / colpisci, e se è vero / che sei giusto, la mia preghiera /
ascolta. Inginocchiato / ti adoro, se bruci tutto il creato.
IV.
Ma tu popolo fingi / di protestare e temi: / vergognoso di chiedere il
tuo. / Lecchi chi ti opprime, / e di slanci sublimi / sei incapace, cieco
e sonnolento, / se no si sarebbe sentito / il grido di vendetta dell’offeso. // Taci, deve proseguire / l’infamia. La festa / fai a chi della frusta è degno. / Preferisci il chiedere / a una giusta protesta / che puoi
scagliare con disdegno. / Ti negano il pane, / e tu dalla patria sei lontano! // Io, cantone, resto / e l’infamia sfido: / ti odio mondo, in te
niente amo. / Ti sputo, ti detesto. / Con scherno ti grido: / «Marrano!».
Se nel dolore ti chiamo / inumano e marrano, / non risentirti, non lo
dico invano. // È odio implacabile / quello che in cuore acceso / sento per te, non posso amarti, / o mondo miserabile. / Questo cuore è
158
offeso / da te mortalmente, a odiarti / tu m’hai insegnato: / da me sei
odiato e rinnegato. // In una cella oscura, / per non vedere te / camminando al buio senza stella, / la triste sepoltura / per seppellirmi /
ho scelto, almeno nella cella / mi sarà concesso / di compiangerti,
mondo avverso. // Lì ricorderò / quei teneri anni / pieni di speranze
e amore, / e quando abbasserò / la fronte agli affanni / che m’hanno
reso odioso, con rancore, / mondo ingrato, il tuo / riso falso maledico di nuovo. // Se viene un angelico / spirito a diffondere / novelle
della tua redenzione, / un mefistofelico / sorriso sorprenderà / nelle
mie labbra: «Ritirati buffone» / gli dirò, «il mondo / è tondo, ed è destino, muore tondo». // Ma se arriva il chiodo / che ti dà Kiriella / dicendomi che ti prepari alla disfatta, / gli risponderò: «Bravo, / questa
cara novella / aspettavo»: col sarcasmo sulle labbra, / da quella cella
m’affaccio, / e vengo a sputarti ancora.
V.
Ecco che finalmente l’agonia / ho suonato. Fantasmi strani / attraversano la stanca fronte mia / coronata da tanti capelli bianchi. // Odio,
pure ci penso, ai lontani / sorrisi della Patria natia. / Mi comprimo il
cuore con le mani / tremolanti. L’oscura fantasia // s’infoga e riscalda. Meditando / penso che in questa cella, sano e forte, / vivo stanco di vivere, fra gli affanni. // Sono vivo e morto: sempre delirando,
/ schifando la vita amo la morte / ed ho appena superato i vent’anni!
VI.
Eccomi sepolto, in bruno manto / mi hai alla tomba, o mondo, ricondotto. / Tu hai mentito in vita e hai mentito / davanti alla fossa
nel camposanto. // Con l’infame maschera di pianto / ipocrita, il viso s’è travestito. / I vanti che mi hai intessuto sulla tomba / ti sono
serviti per farti vanto. // Da vivo m’hai calpestato e maledetto, / e
mi hai confinato in quest’oscura / cella, di patimenti la pastora. //
Dopo morto sulla tomba mi hai scritto: / «Cosa buona mortal passa
e non dura». / Mentito hai prima e stai mentendo ancora.
159
POESIAS
AGONIA
25
A frade meu Edoardu.
5
10
Cand’has a legger custos
mutos[1] su campusantu
hat haer sos ossos meos accollidu.
Cun sos chizos infustos
de amaru piantu,
des juliar’a mie. Addoloridu
des frittire sa testa
istanca, in custa pagina funesta.
30
35
Cand’has a legger su flebile cantu
ch’iscrio in custas oras de anneu,
istillas de piantu
b’has a versare subra, o Frade meu.
40
15
20
In cuss’ora de dolu e iscunfortu,
leggende sos lamentos d’un’afflittu,
des pensar’a su mortu
frade c’hat custas paginas iscrittu.
Sunt paginas funestas e delirios
chi a tie cunsacro cun affannos,
pro ch’iscas sos martirios
chi m’hant bocchid’in sos teneros annos.
Iscri’a lettu, cun manu tremante,
ca su cor’est gravad’ ’e tantos luctos,
prite pens’a s’istante
in su cal’has a legger custos mutos.
[1. ‘Strofa, ritornello, canzonetta’ (cfr. Des, s.v. mút(t)u e, ibidem, il
pertinente riferimento ad A.M. Cirese, per il quale rimandiamo alla nota
1 della nostra “Classificazione metrica”).]
160
Haia decretad’ ’e non lassare
custu cantu c’a ti’est iscunfortu,
pro non ti rinnovare
sa memoria mia pustis mortu.
Ma una ’ogh’ ’e misteru nât a mie:
«Prite suffris gasi’e restas mudu,
o moribundu? Iscrie
a chi restat un’ultimu saludu».
Su saludu chi tristu ’enit a tie
t’addolorat, però dès cumpatire,
ca dolet pius a mie
dendelu che a ti’a lu rizire.
T’ammentas, caru frade, cantu forte,
allegr’e sanu fia in pizzinnia?
Odiende sa morte,
de solas isperanzias vivia.
Oe cuss’allegria s’est partida,
annientad’est cuddu coro forte:
manchendem’est sa vida,
pro cunfortu giamende so sa morte.
45
50
T’ammentas, caru frade, sos giucundos
sorrisos amurosos, senza pena?
Cuddos pilos biundos
chi m’abbasciaint a sa nazarena?
Zessados sos incantos risulanos,
oscurad’est s’allegra fantasia.
Como sunt pilos canos
chi coronant s’istanca fronte mia.
Como mi mancat s’antig’ardimentu
cuddu c’a pizzinneddu possidia,
161
POESIAS
55
60
e sent’un’isgumentu
c’annunziat sa trista fine mia.
Tue non l’ischis, no, so moribundu,
s’alen’est cuminzend’a mi mancare:
forsis lasso su mundu
senza mancu ti poder saludare.
Bae mutu, fatale documentu
chi vives, mentres and’eo in sepoltura,
ischelzu de su bentu,
e annunzia sa mia disaura.
65
70
75
In sa gentile Patria natia,
cun boghes de tristur’e de anneu,
racconta s’agonia
chi lenta t’hat cread’o mutu feu.
Si calencunu si mustrat surpresu
e’ sa novella li paret istrana,
nara chi has intesu
de s’agonia mia sa campana.
Ecco, già de sos sensos nde so foras,
cust’est s’ultimu bas’ ’e frade tou:
addio, si viv’ancoras
frade, t’happ’a iscrier dae nou.
Infermeria presidiaria di Sassari
20 maggio 1895.28
162
AGONIA
A mio fratello Edoardo.
Quando leggerai questi / mutos il camposanto / avrà accolto le mie
ossa. / Con le ciglia bagnate / di amaro pianto, / m’invocherai. Addolorato / piegherai la testa / stanca, in questa pagina funesta. // Quando leggerai il flebile canto / che scrivo in queste ore di tristezza, /
stille di pianto / vi verserai sopra, o Fratello mio. // In quell’ora di
dolore e sconforto, / leggendo i lamenti di un afflitto, / penserai al
morto / fratello che queste pagine ha scritto. // Sono pagine funeste
e deliri / che consacro a te con affanni, / perché sappia dei martiri /
che m’hanno ucciso nei teneri anni. // Scrivo a letto, con mano tremante, / perché il cuore è gravato da tanti lutti, / perché penso all’istante / in cui leggerai questi mutos. // Avevo decretato di non lasciare / questo canto che ti è di sconforto, / per non rinnovarti / la
mia memoria dopo morto. // Ma una voce di mistero mi dice: / «Perché soffri così e resti zitto, / o moribondo? Scrivi / a chi resta un ultimo saluto». // Il saluto che triste ti giunge / ti addolora, però devi
compatire, / perché fa più male a me / darlo che a te riceverlo. // Ti
ricordi, caro fratello, quanto forte, / allegro e sano ero in gioventù? /
Odiando la morte, / di sole speranze vivevo. // Oggi quell’allegria è
partita, / è annientato quel cuore forte: / mi sta mancando la vita, /
per conforto sto invocando la morte. // Ti ricordi, caro fratello, i giocondi / sorrisi amorosi, senza pena? / Quei capelli biondi / che mi
scendevano alla nazarena? // Cessati son gli incanti gioiosi, / oscurata
è l’allegra fantasia. / Ora sono capelli bianchi / che coronano la stanca fronte mia. // Ora mi manca l’antico ardimento / quello che possedevo da giovanetto, / e sento uno sgomento / che annunzia la triste fine mia. // Tu non lo sai, no, son moribondo, / il respiro mi
viene a mancare: / forse lascio il mondo / senza neanche poterti salutare. // Va’ mutu, fatale documento / che vive, mentre io vado alla
sepoltura, / scherzo del vento, / e annuncia la mia sventura. // Nella
gentile Patria natia, / con voci di tristezza e pena, / racconta l’agonia
/ che lenta t’ha creato, o mutu sgraziato. // Se qualcuno si mostra
sorpreso / e la notizia gli sembra strana, / dì che hai sentito / della
mia agonia la campana. // Ecco, già sono privo di sensi, / questo è
l’ultimo bacio di tuo fratello: / addio, se vivo ancora / fratello, ti scriverò di nuovo.
163
POESIAS
SOLFERINO!29
A NANNI SULIS [I]30
«Ebbè, come la va, signor Francesco?»
nesit Pedru passend’in su camminu,
«semus a s’orizzont’ ’e su destinu:
vieni figlioccio che prendiamo il fresco.
5
10
Nanneddu meu,
su mund’est gai,
a sicut erat
non torrat mai.
Ti voglio raccontar, se ci riesco,
comente fit sa gherr’a Solferinu,
si no pregunt’a frade meu Peppinu
come fuggì l’esercito tedesco.
5
Semus in tempos
de tiranias,
infamidades
e carestias.
La notte che ci avevano attaccati
zunchiavano le balle sulla testa
come fanno i calleddi appena nati.
10
Como sos populos
cascant che cane,
gridende forte:
«Cherimus pane».
C’era un calore che nel mio termometro
il mercurio bolliva, e la tempesta
del fuoco si sentiva ad un centometro».
15
20
SOLFERINO!
«Ebbè, come la va, signor Francesco?» / disse Pedru passando per strada, / «siamo all’orizzonte del destino: / vieni figlioccio che prendiamo
il fresco. // Ti voglio raccontar, se ci riesco, / com’era la guerra a Solferino, / se no chiedi a mio fratello Peppino / come fuggì l'esercito
tedesco. // La notte che ci avevano attaccati / zunchiavano [‘fischiavano’] le balle [‘pallottole’] sulla testa / come fanno i calleddi [‘cagnetti’] appena nati. // C'era un calore che nel mio termometro / il mercurio bolliva, e la tempesta / del fuoco si sentiva ad un centometro».
164
25
Famidos, nois
semus pappande
pan’ ’e castanza,
terra cun lande.
Terra c’a fangu
torrat su poveru
senz’alimentu,
senza ricoveru.
B’est sa filossera,
impostas tinzas,
chi nos distruint
campos e binzas.
Undas chi falant
in Campidanu,
trazan tesoros
a s’oceanu.
165
POESIAS
30
35
40
45
Cixerr’in Uda,31
Sumasu Assemene,
domos e binzas
torrat a tremene.
60
E non est semper
ch’in iras malas
intrat in cheja32
Dionis’Iscalas.33
65
Terra si pappat,
pro cumpanaticu
bi sunt sas ratas
de su focaticu.
70
Cuddas banderas
numeru trinta,
de binu ’onu,
mudad’han tinta.
Appenas mortas
cussas banderas
non piùs s’osservant
imbreagheras.
55
Peus sa famene
chi, forte, sonat
sa jann’a tottus
e non perdonat.
Avvocadeddos,
laureados,
bussacas buidas,
ispiantados.
75
50
pretende s’abba
parimus ranas.
Amig’a tottus
fit su Milesu,
como lu timent,
che passant tesu.
80
Santulussurzu
cun Solarussa
non sunt amigos
pius de sa bussa.
85
In sas campagnas
pappana mura,
che crabas lanzas
in sa crisura.
Cand’est famida
s’avvocazia,
cheres chi penset
in Beccaria?
Mancu pro sognu,
su quisitu
est de cumbincher
tant’appetitu.
Poi, abolidu
pabillu e lapis
intrat in ballu
su rapio rapis.
Mudant sas tintas
de su quadru,
s’omin’onestu
diventat ladru.
Semus sididos
in sas funtanas,
166
167
POESIAS
90
95
100
105
Sos tristos corvos
a chi los lassas?
Pienos de tirrias
e malas trassas.
120
Canaglia infame
piena de braga,
cherent s’iscettru
cherent sa daga!
125
115
Maccos, famidos,
ladros. Baccanu
faghimus, nemos
halzet sa manu.
Adiosu Nanni,
tenedi contu,
faghe su surdu,
’ettad’a tontu;
Ma non bi torrant
a sos antigos
tempos, de infamias
e de intrigos.
130
Pretant a Roma,
mannu est s’ostaculu;
ferru est s’ispada
linna est su baculu.
S’Intulzu apostulu
de su Signore
si finghet santu,
ite impostore.
110
e semper bides
una minestra.
a tantu, l’ ’ides,
su mund’est gai
a sicut erat
non torrat mai.
A NANNI SULIS [I]
Sos corvos suos
tristos, molestos,
sunt sa discordia
de sos onestos.
Nanneddu mio / il mondo è così, / a sicut erat / non torna mai. //
Siamo in tempi / di tirannie, / infamie / e carestie. // Ora i popoli /
sbadigliano come cani, / gridando forte: / «Vogliamo pane». // Affamati, noi / stiamo mangiando / pan di castagne / terra con ghiande.
// Terra come fango / riduce il povero / senza alimento, / senza ricovero. // C’è la filossera, / imposte, tigne, / che ci distruggono /
campi e vigne. // Onde che scendono / in Campidano, / trascinano
tesori / all’oceano. // Il Cixerri a Uta, / Elmas, Assemini, / case e vigne / riduce in dirupi. // E non è sempre / che nelle tempeste / entra in chiesa / Dionigi Scalas. // Terra si mangia, / per companatico
/ ci son le rate / del focatico. // Quelle bandiere, / di numero trenta, / di buon vino, / han cambiato tinta. // Appena sparite / quelle
bandiere / non più si vedono / ubriacature. // Amico di tutti / era il
E gai chi tottus
faghimus gherra,
pro pagas dies
de vida in terra.
Dae sinistra
’oltad’a destra
168
169
POESIAS
Milese, / ora lo temono, / gli passano lontano. // Santulussurgiu /
con Solarussa / non sono più amici / della borsa. / Siamo assetati /
nelle fontane, / contendendoci l’acqua / sembriamo rane. // Peggio
la fame / che, forte, bussa / alla porta di tutti / e non perdona. //
Avvocatucci, / laureati, / tasche vuote, / spiantati. // Nelle campagne / mangiano more, / come capre magre / nelle chiuse. // Quando è affamata / l’avvocatura, / vuoi che pensi / a Beccaria? // Neanche per sogno, / il quesito / è di appagare / tanto appetito. // Poi
aboliti / carta e lapis / entra in campo / il rapio rapis. // Mutano i
colori / del quadro, / l’uomo onesto / diventa ladro. // I tristi corvi /
a chi li lasci? / Pieni di astio / e male trame. // Canaglia infame /
piena di boria, / voglion lo scettro / voglion la daga! // Ma non ritornano / agli antichi / tempi, di infamie / e di intrighi. // Litigano a
Roma, / grande è l’ostacolo; / ferro è la spada / legno è il bacolo. //
L’Avvoltoio apostolo / del Signore / si finge santo, / che impostore!
// I corvi suoi / tristi, molesti, / son la discordia / degli onesti. // E
così tutti / facciamo guerra, / per pochi giorni / di vita in terra. //
Da sinistra / vòltati a destra / e sempre vedi / una minestra. // Pazzi, affamati, / ladri. Baccano / facciamo, nessuno / alzi la mano. //
Addio Nanni, / riguardati, / fai il sordo / fingiti tonto. // Che tanto,
lo vedi, / il mondo è così, / a sicut erat / non torna mai.
GALUSÈ34
A Lia Pulix Scano.
Io son probatica
Fonte novella
Propizia ai fegati
E alle budella.
GIUSTI
5
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Gentile signorina,
chi cal’abe a sa ros’a mie ’olas,
umil’e peregrina
bundo tra sos fiores e nucciolas;
so frisca e cristallina,
si t’abbascias a mie ti consolas.
A su cantaru meu
fritti sas laras, ca nd’has ingranzeu.35
Deo, bundanziosa,
so fentomada tra funtanas raras,
cun tottus amurosa,
so dispensera de sas abbas giaras:
s’est chi nde ses bramosa
a mie fritt’un’istante sas laras.
Si gustas abbas mias
des isclamare: «Beneitta sias!».
Chi frisch’e pura sia
l’ischit Cabu ’e Susu e Campidanu.
A sa friscura mia
benint sididos dae su pianu;
cun d’un’istill’ebbia
s’essere malaìdu torro sanu.
Dae lontan’in s’istiu
tottus bramant su meu murmuriu.
171
POESIAS
25
30
Eo so Galusè,
logu delissiosu de incantu,
firm’inoghe su pè
o passizzeri, cust’est logu santu:
deo cunfid’in te,
zelt’has accurrer a mi dare vantu,
cun bellas cumpagnias,
a t’infriscare de sas abbas mias.
60
65
35
40
45
50
55
Umil’in custa rocca
mai de murmurar’happo zessadu,
bentu fritt’e fiocca
hana sas venas mias astragadu,
mai però sa brocca
hat su nettare sou ismentigadu;
pedidu m’hat continu
sos bundantes umores c’happo in sinu.
Ancoras o’in die
no mi mancant dulzuras e bisittas.
Tottus current a mie,
e si consolant de sas abbas frittas,
e deo, rie rie,
cuntento broccas mannas e brocchittas.
Dae custas frittas venas
sempere partint sas broccas pienas.
A cust’abba, sididas,
sunt bennìdas donosas virginellas,
a mie sunt bennìdas
bajanas de Sardigna sas pius bellas:
tottas si sunt frittidas
a mi fagher onore. Pastorellas,
signorinas e damas,
de me cuntentas, nd’hant contadu famas.
Dae logos istranzos
70
75
80
85
90
172
bennìdu b’hat dottissimas persones,
e in festas e pranzos
cottu b’hana crabittos e anzones,
e mandigos liccanzos:
puddas, porcheddos, pisch’e maccarrones.
In custas abbas puras
hant ismaltidu zelebres cotturas.
Tottus hant divertidu
ismentighende dogni cuntierra,
preideros happ’ ’idu
cottos, cantend’a sonu ’e chiterra;
anzis nd’happ’assistidu
beatamente istrampados in terra,
in brazzos d’una vera,
solenne, reverenda imbreaghera.
Inoghe sa tristura
morit, e torrat s’animu serenu.
Sa sogra cun sa nura
in custas abbas lassant su velenu,
anzis si dana cura
de lassare s’immina in su terrenu,
c’hant fattu s’angallitta
unidas a pedirem’abba fritta.
Tottus sunt uguales,
inoghe nemos vantat sos blasones.
Baculos pastorales
s’aunint a ispadas e bastones.
Tottos parent fedales
sas bezzas cun sas giovanas persones,
bezzones e battias
torrant piseddos a sas abbas mias.
Odios e affectos
in me hant imprentadu sos c’hant bidu,
173
POESIAS
95
100
105
110
ma deo sos secretos
happo gelosamente custoidu,
ca non sunt indiscretos
sos umores ch’in vid’happo sumidu.
E narrer ch’isco cosas
chi parent finas meravigliosas!
Frisca, bundant’e pura,
cantas festas happ’ ’idu, e cantu giogu;
basos dados a fura,
toccos de man’e miradas de fogu.
Happ’intesu sa giura
de s’amant’a s’amada; in custu logu,
tra cantos e festinos,
happo bidu… una fila de puntinos.
De’ happo ’idu bettas
benner de nott’a’ custu logu santu,
crabolas in palettas
de fagher meravigli’e ispantu,
e ateras suggettas
incarazzadas de nieddu mantu:
cuddas pius santiccas
s’hant bagnadu sas laras tantu siccas.
125
130
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140
145
115
120
De’ happ’intesu cosas
chi a las narrer non parent costadas.
Zetras armoniosas,
fruscios de contrabband’e muiladas;
umbras misteriosas
fattu ball’hant segundu sas sonadas,
e ateras cosas puru,
chi no happ’ ’idu pro esser iscuru.
Bajanas samunende
intendo criticar’ogni persone,
sas tales critichende
174
150
155
su mal’anzenu l’ischint a cantone:
una s’est lamentende
chi l’hant male pesadu su sabone,
un’ater’a dovere
criticat sas camijas de su mere.
Mi vantant sos duttores
vera recepta de sa gent’istittica,
a sos meos umores
benid’a si purgare sa Politica.
Musseres e segnores,
a s’ora de su votu tantu critica,
inoghe, saturnale,
dànt su famosu pranzu elettorale.
Tando sos maccarrones
morint in buccas dottas e famidas,
misciados a sermones
e a bellas promissas non cumpridas.
Cantas discussiones
galu vivas in me sunt imprimidas!
Ma de tantas paraulas
nd’happ’incunzadu? Unu saccu ’e faulas.
A sas friscuras mias
benint a fagher paghe sos contrarios.
Diversas rettilias,
preides, polizzottos, cummissarios
e nobiles ispias,
inoghe si dànt festas e isvarios.
Inoghe su delittu
fatt’hat cun sa giustissia s’ojttu.
Inoghe s’allegria
mai si ponet abidos de dolu.
Intes’happ’a Pipia36
cantend’a zirfa cun su russignolu;
175
POESIAS
160
165
170
175
est debile de fisicu,
camminat a istentu, paret tisicu.
sa suav’armonia
de cussas boghes m’hat dadu consolu.
A sos cantigos graves
rispust’happo cun murmuros suaves.
Un’epoca beniat
unu giovanu pallid’e ramasu,
inoghe invocaiat
sas noe virginellas de Parnasu:
afflittu pianghiat,
e mentres chi m’imprimiat unu basu,
misciaiat amaras
lagrimas a sas mias abbas giaras.
Fit affligidu tantu
chi li naia su misteriosu,
flebile unu cantu
in laras l’intendia dolorosu.
Com’in su campusantu
creo chi dormat s’ultimu riposu.
Non pius b’est bennìdu,
nè una cara novella nd’happ’ischidu.
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Ischire nde cheria:
galu l’happo costant’in s’intellettu,
prit’una poesia
m’hat iscrittu gentil’e cun affettu;
servidemi de ghia
s’a cas’est galu vivu su suggettu.
Nadel’o signorinas
chi torret a’ custas abbas cristallinas.
Si mai l’hazis bidu,
breve nde fatto sa biografia;37
est pallidu, bestidu
a pannos tristos de malinconia,
mesu test’ispilidu,
in laras si l’annottat s’angustia:
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215
220
Bizzarr’est e selvaticu,
paret un’isciareu ’estid’a pannos:
nè bellu nè simpaticu,
cumparit bezz’e hat vintichimbannos,
in sa fronte: «Viaticu»
giughet iscritt’a caratteres mannos:
distint’est sa persone
sorr’a s’inseparabile bastone.
S’a casu l’incontrades
in s’umanu consorziu vivente,
de coro li pregades
chi mi fettat bisitta prontamente,
anzis li consizades
chi torret prestu e allegramente;
nadeli chi fulana
est torrad’amuros’a sa funtana.
O bellas zittadinas,
lassade sas gazzosas e limones:
cussas sunt meighinas
de chie giughet frazigos pulmones,
si custas cristallinas
abbas bibides vivides ruzones,38
sanas coment’ ’e dindos,
e chi s’impicchent a sos tamarindos.
E tue, imbreagone
chi giughes in sa ’ula sa siccagna,
e cottu su pulmone,
cun sa test’attontada de migragna;
su bin’in su pistone39
lass’e ben’a inogh’a sa muntagna
e curad’in sas veras
abbas friscas – istud’imbreagheras.
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POESIAS
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Tue o Lia cara40
de custu logu des esser sa prama,
che a’ cust’abba, giara
cunservadi onorad’a babb’e mama:
fentomada pro rara
in virtudes, belles’onor’e fama.
Chelzo chi s’abba mia
potat narrer: «So pura che a Lia».
Como benis a mie
senz’algunu penseri, ses minore:
gentil’e rie rie,
bestida ’e pures’e de candore,
goi pur’unu die
benzas in cumpagnia de s’amore.
Su die, o Lia cara,
m’has agattare pius frisca e giara.
De coro su disizu
happo chi siast mia fittiana:
rosa ses, cun su lizu
ben’a inoghe donosa e galana,
s’intemeradu chizu
cunserva sorrident’a sa funtana,
c’hat happidu sa fama
de haer cumbidad’a babb’e mama.
De sa pur’abba mia
ben’e leande cun devossione:
la giughes a cresia,
li faghes dare benedissione;
pro chi servat, o Lia,
cando chi su preide s’unione
suggellat, de su coro
chi t’amat, a su tou, o rosa d’oro.
Tonara-Galusè, marzo 1897.
178
GALUSÈ
Gentile signorina, / che come l’ape alla rosa verso me voli, / umile e
peregrina / sgorgo fra i fiori e le nocciole; / sono fresca e cristallina,
/ se t’inchini a me ti consoli. / Alla mia fonte / porgi le labbra, perché ne sarai ricompensata. // Io, abbondante, / sono conosciuta fra
fontane rare, / con tutti amorevole, / sono dispensatrice di acque
chiare: / se ne sei bramosa / porgi a me un istante le labbra. / Se gusti le acque mie / esclamerai: «Benedetta sia!». // Che fresca e pura
sia / lo sa il Capo di Sopra e il Campidano. / Alla frescura mia / vengono assetati dal piano; / con una stilla sola / rendo il malato sano. /
Da lontano d’estate / tutti bramano il mio mormorio. // Io sono Galusè, / luogo delizioso d’incanto, / ferma qui il piede / o passante,
questo è un luogo santo: / io confido in te, / certo accorrerai a darmi vanto, / con belle compagnie, / a rinfrescarti con le acque mie. //
Umile in questa rocca / mai ho cessato di mormorare, / vento freddo
e neve / hanno ghiacciato le mie vene, / mai però la brocca / ha dimenticato il suo nettare; / mi ha chiesto di continuo / gli umori abbondanti che ho in seno. // Al giorno d’oggi ancora / non mi mancano dolcezze e visite. / Tutti accorrono a me, / e si consolano con
le fredde acque, / ed io, sorridendo, / accontento brocche grandi e
brocchette. / Da queste fredde vene / sempre ripartono le brocche
piene. // A quest’acqua, assetate, / son venute graziose verginelle, /
a me sono giunte / della Sardegna le giovani più belle: / tutte si sono fermate / a farmi onore. Pastorelle, / signorine e dame, / soddisfatte, di me hanno raccontato la fama. // Da terre forestiere / sono
giunte dottissime persone, / e in feste e pranzi / qui hanno cotto capretti e agnelli, / e cibi appetitosi: / galline, porchetti, pesce e maccheroni. / In queste acque pure / hanno smaltito celebri “cotture”. //
Tutti si sono divertiti / dimenticando ogni contesa, / preti ho visto /
cotti, cantare a suon di chitarra; / anzi, ne ho assistito / beatamente
buttati a terra, / fra le braccia di una vera, / solenne, reverenda
ubriacatura. // Qui la tristezza / muore, e l’animo ritorna sereno. / La
suocera con la nuora / in queste acque lasciano il veleno, / anzi si
danno cura / di lasciare l’orma nel terreno, / perché hanno saltellato
/ assieme, chiedendomi acqua fredda. // Tutti sono uguali, / qui nessuno vanta i blasoni. / Bacoli pastorali / s’uniscono a spade e bastoni. / Tutti sembrano coetanei / i vecchi e le giovani persone, / vecchi e vedove / tornano bambini con le mie acque. // Odi e affetti /
hanno impresso in me quanti hanno bevuto, / ma io i segreti / ho
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POESIAS
gelosamente custodito, / perché non sono indiscreti / gli umori che
in vita ho assorbito. / E dire che so cose / che sembrano pure meravigliose! // Fresca, abbondante e pura, / quante feste ho visto, e
quanto gioco; / baci dati a ruba, / toccate di mano e sguardi di fuoco. / Ho sentito il giuramento / dell’amante all’amata; in questo luogo, / fra canti e festini, / ho visto… una fila di puntini. // Io ho visto
cerbiatte / venire di notte a questo luogo santo, / daine in corpetto /
da far meraviglia e stupire, / e altri soggetti / mascherate con un nero manto: / quelle più santocchie / si sono bagnate le labbra tanto
secche. // Io ho sentito cose / che a raccontarle non sembrano accadute. / Cetre armoniose, / fischi furtivi e mugghi, / ombre misteriose
/ hanno ballato secondo le sonate, / e anche altre cose / che non ho
visto perché era buio. // Giovani che fanno il bucato / sento criticare
ogni persona, / criticando le tali / a menadito conoscono il male altrui: / una si lamenta / che le hanno pesato male il sapone, / un’altra
a dovere / critica le camicie del padrone. // Mi vantano i dottori /
come vera ricetta della gente stitica, / ai miei umori / viene a purgarsi la politica. / Messeri e signori, / nell’ora del voto più critica, / qui,
saturnale, / danno il famoso pranzo elettorale. // Allora i maccheroni
/ muoiono in bocche dotte e affamate, / mescolati a sermoni / e a
belle promesse non rispettate. / Quante discussioni / ancora vive in
me sono impresse! / Ma di tante parole / cos’ho raccolto? Un sacco
di favole. // Alla mia frescura / vengono a far pace i contendenti. /
Varie specie di rettili, / preti, poliziotti, commissari / e nobili spie, /
qui si danno a feste e follie. / Qui il delitto / strizza l’occhiolino alla
giustizia. // Qui l’allegria / mai si veste con abiti di lutto. / Ho sentito
Pipia / cantare a gara con l’usignolo; / la soave armonia / di quelle
voci mi ha consolato. / Ai canti gravi / ho risposto con mormorii
soavi. // Un tempo veniva / un giovane pallido e magro, / qui invocava / le nove verginelle del Parnaso: / afflitto piangeva, / e mentre
un bacio m’imprimeva, / mescolava amare / lacrime alle mie acque
chiare. // Era afflitto tanto / che lo chiamavo il misterioso, / un flebile canto / gli sentivo sulle labbra, doloroso. / Ora nel camposanto /
credo che dorma l’ultimo riposo. / Non è più venuto, / né una cara
nuova ne ho saputo. // Avrei voluto saperne: / ancora lo serbo costante nella mente, / perché una poesia / mi ha scritto, gentile e con
affetto; / fatemi da guida / se per caso è ancora vivo il soggetto. /
Ditegli o signorine / che ritorni a queste acque cristalline. // Se mai
l’avete visto, / ne faccio una breve biografia; / è pallido, vestito /
con tristi panni di malinconia, / mezzo spelato, / sulle labbra gli si
legge l’angoscia: / è debole di fisico, / cammina a stento, sembra tisico. // È bizzarro e selvatico, / sembra un asfodelo coi panni indosso:
/ né bello né simpatico, / sembra vecchio e ha venticinque anni, /
sulla fronte: «Viatico» / ha scritto a grandi caratteri: / è distinta la persona / sorella dell’inseparabile bastone. // Se per caso lo incontrate /
nell’umano consorzio vivente, / di cuore lo pregate / che mi faccia
visita prontamente, / anzi consigliatelo / che torni presto e allegramente; / ditegli che “la tale” / è tornata amorevole alla fontana. // O
belle cittadine, / lasciate le gassose e limoni: / quelle sono medicine
/ di chi ha marci i polmoni, / se queste cristalline / acque bevete vivrete forti, / sane come tacchini / e che s’impicchino ai tamarindi. //
E tu, ubriacone / che hai nella gola l’arsura, / e cotto il polmone, /
con la testa stordita dall’emicrania; / il vino nel bottiglione / lascialo
e vieni qui alla montagna / e curati nelle vere / acque fresche spegni-ubriacature. // Tu o Lia cara / sarai di questo luogo la palma, /
come quest’acqua, chiara / conservati, onorata per babbo e mamma:
/ famosa per esser rara / in virtù, bellezza, onore e fama. / Voglio
che l’acqua mia / possa dire: «Sono pura come Lia». // Ora vieni a
me / senza alcun pensiero, sei piccola: / gentile e sorridente, / vestita di purezza e candore, / pure così un giorno / che tu venga in
compagnia dell’amore. / Il giorno, o Lia cara, / mi troverai più fresca
e chiara. // Di cuore il desiderio / ho che sia a me assidua: / sei una
rosa, col giglio / vieni qui, graziosa e leggiadra; / l’intemerato sguardo / conserva sorridente alla fontana, / che ha avuto la fama / di
aver dissetato babbo e mamma. // Della pura acqua mia / vieni e
prendine con devozione: / portala in chiesa, / falle dare la benedizione; / perché serva, o Lia, / quando il prete l’unione / suggella, del
cuore / che ti ama, col tuo, o rosa d’oro.
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POESIAS
A JUANNE SULIS41
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Caru Juanne meu,
Semper mudu
cun tegus so istadu, it’abbandonu!
In su mentres t’imbio unu saludu
affettuosu, dimando perdonu.
S’istadu so cun tegus inurbanu,
ismentiga s’offes’e siast bonu.
Pro chi non t’happ’iscrittu fittianu
semper happ’iscolpid’in coro meu
su lumen d’unu frade ch’est lontanu.
Zircundadu de dol’e de anneu,
de ti mandar’una novella mia,
mai happo gosadu su recreu.
In sa gentile Patria natia
su car’amigu tou est moribundu
in s’ultimu sarragh’ ’e s’agonia.
Cuddu sorris’amabil’e giucundu
dae su visu meu est isparidu:
est decretadu chi lasse su mundu.
Su debil’organismu est isfinidu,
tristu como, so ’ennid’a su puntu
de frastimare su primu cumbidu.
Si pro casu de me faghes preguntu
t’hant a rispunder: «Cuss’isventuradu
non lu chirches in vida, ch’est defuntu».
Deo cando chi m’ ’ido a’ cust’istadu,
bidende irreparabile su male,
suspiro cun su coro avvelenadu.
Intend’in cor’un’ansia fatale,
e naro: «Parca ingrata, già ch’est s’ora,
abbrevia su meu funerale».
Ite bi fatt’in su regnu ’e Flora
seminende dolor’e iscunfortu
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in coros dulches ch’isperant ancora?
Pro suffrire gosie menzus mortu;
pro me pius non bi nd’hat de ispera,
su campusant’est s’unicu cunfortu.
Amigu caru, pensa e cunsidera
cale det esser s’affann’e’ su dolu
chi mi consumit che candel’ ’e chera.
Sa morte no, no mi dat oriolu,
sento chi lasso custa cara terra
bestida de su funebre lentolu.
Etern’inimistad’eterna gherra
b’happo connottu, pizzinnu minore,
brigas, confusion’e cuntierra.
Paghe, risos, carignos e amore,
mai happo connottu, solamente
velenosas ispinas de dolore.
S’infami’ happo ’idu impunemente
bominde su velenu in sos fiores
de custu ridentissimu padente.
Pubusas, tilibrios e astores,
maistros de nefandas aziones,
dànt sa biccad’a puzzones minores.
Pugnales velenosos e bastones
animados, attalzu, ferr’e brunzu,
parant brigas e confusiones.
S’anonimu libellu de murrunzu
si bestit sa divisa ’e Pilatu,
frundit sa pedr’e si cuat su punzu.
Corvos molestos chi faghent disbatu
pro mantenner niedda sa pinnia,
ponende s’armonia in disbaratu.
Cale barch’in su mare senza ghia,
perigulant’in su fatal’iscogliu,
tue ses, o diletta terra mia.
In brazzos de s’Usura e de s’Imbrogliu,
su poveru, cun fadigas e sudore,
accuccurat su riccu portafogliu.
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POESIAS
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Su vampiru chi giamant esattore,
cun tassas medas graves e impostas,
seminend’est in bidda su terrore.
Zeltas faccias ipocritas e tostas
si rident de su ben’e de su male:
mudant in d’unu die milli crostas.
Sas testas chi si vantant d’haer sale
suni fertas a bin’e non hant cura
de pensar’a su bene soziale.
Su coraggiu zivile a sa paura
s’est abbrazzadu: timet, ca est zegu,
su frittu sognu de sa sepoltura.
Sos ricursantes sighint s’impiegu
de fagher male, in bidda sun timidos
che’ sa temporada de Murdegu.42
Galiotos a Preides unidos
suni tessende tirrias e brigas,
isfoghende sos odios zozzidos.
Tue, cando chi podes, duas rigas
iscrie contr’a’ custos tirriosos,
castiga sas anonimas pinnigas.
Aunid’a sos pagos virtuosos,
pro dare dezisiva una battaglia
contr’a’ custos serpentes velenosos.
Sos pettos nostros dent esser muraglia,
chi devimus opponner cun virtude,
fortes, contr’a sa perfida canaglia.
Ti piango pro cussu, o gioventude,
perdid’has sa virtude, ca t’agattas
mancante de sa fisica salude.
Odios, gherras surdas e cumbattas
c’happo ’idu, in sa debile persone
b’hana lassadu terribiles trattas.
Tue, Juanne faghedi dugone
de s’opprimidu miser’e affrantu:
preiga libertad’e unione.
Cando m’has a ischir’in campusantu,
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mandam’unu penseri piedosu,
una sincer’istilla ’e piantu.
Finas dorminde s’ultimu riposu
mi devet esser car’e aggradidu
cussu saludu tou affettuosu.
Tue vive onestu. Favoridu
siast dae sa sort’e potas bier
realizzadu su sognu c’has bidu.
Cando podes procura de m’iscrier;
imbiam’una littera brullana,
in coro sento su bisonz’ ’e rier.
De rier veramente nd’happo gana,
però mi toccat a fagher su seriu
prite sa testa mi’est pili cana.
Inoghe, zeltos, chi non hant criteriu,
m’halzana s’oj’ ’e sa malignidade,
e mi giamant a lumene misteriu.
S’ischerant de sa mia infirmidade,
sos chi si rident de custu mischinu,
diant haer amor’e piedade.
Bastat, siat cumpridu su destinu,
est iscrittu, mi toccat prosighire
tamba tamb’e finire su camminu.
Est ora puru de mi dispedire,
meda t’happ’infadad’amigu meu:
amuros’e gentile cumpadire
deves s’amigu
Peppinu Mereu
13 marzo 1896.
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POESIAS
A GIOVANNI SULIS
Caro Giovanni mio, sempre zitto / sono stato con te, che abbandono! / Nel mentre t’invio un saluto // affettuoso, chiedo perdono. / Se
sono stato con te poco educato, / dimentica l’offesa e sii buono. //
Sebbene non ti abbia scritto spesso / sempre ho scolpito nel mio
cuore / il nome di un fratello che è lontano. // Circondato di dolore
e angoscia, / d’inviarti una nuova mia, / mai ho avuto il piacere. //
Nella gentile Patria natia / il tuo caro amico è moribondo / nell’ultimo rantolo d’agonia. // Quel sorriso amabile e giocondo / dal mio
viso è sparito: / è decretato che lasci il mondo. // Il debole organismo è sfinito, / triste ora, sono arrivato al punto / di maledire il primo invito. // Se per caso chiedi di me / ti risponderanno: «Quello
sventurato / non cercarlo in vita, perché è defunto». // Io, quando mi
vedo in questo stato, / vedendo irreparabile il male, / sospiro col
cuore avvelenato. // Sento nel cuore un’ansia fatale, / e dico: «Parca
ingrata, già che è l’ora, / affretta il mio funerale». // Cosa ci faccio nel
regno di Flora / seminando dolore e sconforto / in dolci cuori che
sperano ancora? // Per soffrire così meglio morto; / per me non c’è
più speranza, / il cimitero è l’unico conforto. // Amico caro, pensa e
considera / quale può essere l’affanno e il dolore / che mi consuma
come una candela di cera. // La morte no, non mi dà pensiero, /
sento che lascio questa cara terra / vestita del funebre lenzuolo. //
Eterna inimicizia, eterna guerra / vi ho conosciuto, da bambino, / liti, confusione e contese. // Pace, risa, carezze e amore / mai ho conosciuto, solamente / velenose spine di dolore. // Ho visto l’infamia
impunemente / vomitare il veleno sui fiori / di questo ridentissimo
bosco. // Upupe, gheppi e astori, / maestri di nefande azioni, / beccano i piccoli uccellini. // Pugnali velenosi e bastoni / animati, acciaio, ferro e bronzo, / organizzano liti e confusioni. // L’anonimo libello di mugugno / indossa la divisa di Pilato, / scaglia la pietra e
nasconde la mano. // Corvi molesti che litigano / per conservare nero il piumaggio, / mettendo disordine nell’armonia. // Come barca in
un mare senza guida, / in pericolo nel fatale scoglio, / tu sei, o diletta terra mia. // Fra le braccia dell’Usura e dell’Imbroglio, / il povero,
con fatiche e sudore, / riempie il ricco portafoglio. // Il vampiro che
chiamano esattore, / con tasse assai gravose e imposte, / sta seminando nel paese il terrore. // Certe facce ipocrite e toste / se la ridono del bene e del male: / cambiano in un giorno mille “scorze”. //
Le teste che si vantano d’aver sale, / sono guastate dal vino e non si
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curano / di pensare al bene sociale. // Il coraggio civile alla paura /
s’è abbracciato: teme, perché è cieco, / il freddo sogno della sepoltura. // I ricusanti proseguono nell’azione / di fare del male, in paese
sono temuti / come la tempesta di Murdegu. // Galeotti uniti a preti
/ stanno tessendo trame e brighe, / sfogando gli odi sozzi. // Tu,
quando puoi, due righe / scrivi contro questi odiosi, / castiga gli
anonimi imbrogli. // Unisciti ai pochi virtuosi, / per sferrare decisiva
una battaglia, / contro questi serpenti velenosi. // I nostri petti devono essere una muraglia, / che dobbiamo opporre con virtù, / forti,
contro la perfida canaglia. // Per questo ti piango, o gioventù, / hai
perso la virtù, perché ti ritrovi / mancante della salute fisica. // Odi,
guerre sorde e confusioni, / che ho visto, nella debole persona /
hanno lasciato terribili segni. // Tu, Giovanni, fatti condottiero / dell’oppresso misero e affranto: / predica libertà e unione. // Quando
mi saprai in camposanto, / mandami un pensiero pietoso, / una sincera stilla di pianto. // Anche mentre dormo l’ultimo riposo / mi dev’esser caro e gradito / quel tuo saluto affettuoso. // Tu vivi onesto.
Favorito / sii dalla sorte e possa vedere / realizzato il sogno che hai
fatto. // Quando puoi cerca di scrivermi; / mandami una lettera
scherzosa, / sento nel cuore il bisogno di ridere. // Ho veramente
voglia di ridere, / però mi tocca fare il serio / perché la mia testa è
imbiancata. // Qui, taluni senza criterio, / mi lanciano una maligna
occhiata, / e mi chiamano col nome di ‘mistero’. // Se sapessero della mia infermità, / quelli che ridono di questo infelice, / proverebbero amore e pietà. // Basta, si compia il destino, / è scritto, mi tocca
proseguire / barcollante e finire il cammino. // È pure ora di accomiatarmi, / ti ho infastidito abbastanza amico mio: / amorevole e
gentile compatire / devi l’amico Peppinu Mereu.
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POESIAS
CARESIMA
mandighende fenuj’e pigulosa,
arengu e baccalare.
In brazzos d’una vida libertina
d’eris allegramente mi so dadu,
umil’o’a rizire sa chijna
eccom’imbenujadu.
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D’eris a’ cust’ora fi’a cazza
de festas, maccu e ispensieradu,
oe, cumpuntu, e senza sa carazza
devotu so torradu.
Zessad’est cudda macca cuntierra
de sos festinos c’happo fattu d’eris,
su preid’oe narat: «Ses de terra,
Pulverem reverteris».
Faeddos misteriosos e fatales
chi ponent in penseris sa canaglia,
e nos ammentant miseros mortales
chi semus de terraglia.
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Già chi so terra lasso sas iscialas,
basa mattones, a coron’in manu,
m’iscri’a mann’a mann’in mesu palas:
«Vetro-posa pianu».
Sos zibos rassos de carrasegare
oe rinnego tottu, ossos e pulpa,
umile m’est obbligu rezitare
s’eternu mea culpa.
Caresim’est intrad’e rigorosa;
penettidu mi toccat dijunare,
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Murena, seppia, trigli’e minestrones
de basolu, sunt cosas de pappare,
e fattu fattu, duos maccarrones
tantu pro variare.
Su cundimentu però, ca est vedadu
s’ozu porchinu, det esser iscassu,
mancari siat de casu filadu,
ca non est zibu rassu.
Mi tremo solament’a bi pensare:
in dies chi mancant’ ’enit sa pisca,
m’happ’a bider costrint’a mandigare
carzoff’e fae frisca.
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Suni baranta dies de dieta
de mortificassion’e penitenzia:
su pisch’est permittidu, de sa peta
assolut’astinenzia.
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Ahi vida penosa! Reduidu
como so a pappare casu e pasta;
foras buffare ’inu, est proibidu,
si no est de s’Ozasta.
Com’a sa penitenzi’a suffrire
su corpus det frittir’ubbidiente;
a coment’happ’a poder resistire
penso seriamente.
Però, cun voluntad’e meda zelu,
no m’happ’a dar’in brazzos a sa famene,
ca est nient’a si perder su chelu
pro una fitt’ ’e salamene.
189
POESIAS
60
Baranta dies mannas casca casca,
e tue preide preigas: «Non pecches»,
ma si benit sa bella di’ ’e Pasca,
ah tando non mi secches!
Pro com’isto cumpunt’, a dilighenzia
rezito s’attu de contrizione,
e fatto sa lissi’a sa cussenzia
pro sa cunfessione.
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Ca chelzo cunfessar’ogni peccadu,
s’anima non det giugher pius pesu;
ite consolazion’esser purgadu
senza su sal’inglesu!
Anima mia si ti ses dannada
dended’in brazz’a su divertimentu,
tenedi bene pront’e preparada
pro su dibattimentu.
Mustradi senz’alguna pauria,
non timas, no, su cunfessionale:
cun pagu pag’astuzi’e furberia
salvamus sacch’e sale.
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QUARESIMA
Fra le braccia di una vita libertina / ieri allegramente mi sono gettato, / oggi umile a ricevere la cenere / eccomi inginocchiato. // Ieri a
quest’ora ero a caccia / di feste, folle e spensierato, / oggi, compunto, e senza la maschera / devoto son tornato. // Cessata è quella
matta sfida / dei festini che ho fatto ieri, / il prete oggi dice: «Sei di
terra, / pulverem reverteris». // Parole misteriose e fatali / che danno
da pensare alla canaglia, / e ci ricordano, miseri mortali, / che siamo terraglia. // Già che son terra lascio gli sciali, / bacia-mattoni,
col rosario in mano, / mi scrivo grande grande fra le spalle: / «Vetroposa piano». // I cibi grassi di carnevale / oggi rinnego tutti, ossa e
polpa; / umile mi è d’obbligo recitare / l’eterno mea culpa. // La
quaresima è entrata rigorosa; / pentito mi tocca digiunare, / mangiando finocchio e parietaria, / aringa e baccalà. // Sono quaranta
giorni di dieta, / di mortificazione e penitenza: / il pesce è permesso, dalla carne / assoluta astinenza. // Murena, seppia, triglia e minestroni / di fagioli, sono le cose da mangiare, / e ogni tanto, due
maccheroni / tanto per variare. // Il condimento, però, poiché è
vietato / il grasso di maiale, dev’essere scarso, / anche se è di formaggio fresco, / perché non è un cibo grasso. // Tremo al solo
pensiero: / nei giorni in cui manca la pesca, / mi vedrò costretto a
mangiare / carciofi e fave fresche. // Ahi vita penosa! Ridotto / sono
ora a mangiare formaggio e pasta; / basta bere vino, è proibito, / se
non è d’Ogliastra. // Ora a sopportare la penitenza / il corpo deve
piegarsi ubbidiente; / a come potrò resistere / penso seriamente. //
Però, con volontà e molto zelo, / non mi getterò fra le braccia della
fame, / perché è un niente perdersi il cielo / per una fetta di salame. // Quaranta lunghi giorni a sbadigli, / e tu, prete, predichi:
«Non peccare», / ma se arriva il bel giorno di Pasqua, / ah, allora
non mi seccare! // Per ora resto compunto, con diligenza / recito
l’atto di contrizione, / e faccio il bucato alla coscienza / per la confessione. // Perché voglio confessare ogni peccato, / l’anima non
avrà più peso; / che consolazione esser purgato / senza il sale inglese! // Anima mia, se ti sei dannata / gettandoti fra le braccia del
divertimento, / mantieniti ben pronta e preparata / per il dibattimento. // Mostrati senza alcuna paura, / non temere, no, il confessionale: / con un po’ d’astuzia e furberia / salviamo sacco e sale.
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POESIAS
A EUGENIU UNALE [I]43
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Eugeniu caru,
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non ti cretas
chi de te mi nde sia ismentigadu,
poeta coment’ ’e tottu sos poetas
su silenziu to’ happ’imitadu.
Pustis tant’isettare, finalmente,
un’amigu de te m’hat faeddadu.
Mi nd’hat trattad’e m’hat fattu presente
ch’in Simala ses galu fort’e sanu
e ti la cantas ancor’allegramente.
Deo, ca t’happ’in coro fittianu,
mi nde cuntent’ ’e sa novella cara,
e ti mand’una fort’istrint’ ’e manu.
Deo so in sa patria Tonara
respirende sas aèras natias,
curende sa person’a s’abba giara.
Cudda zetra ch’in manos mi bidias
est iscordad’e non sonat piusu,
ca l’happo postu cordas de tinnias.
Tue galu però nde faghes usu:
ti favorit sa zetr’in s’armonia,
ca ses fiz’a su veru Cab’ ’e Susu.
Ses naschid’in sa terra ’e Billia,44
si cantas podes cantar’a primore;
caru ses a Melpomen’e Talia.
Tue ses astru ch’in Putumajore
bi lassas fama coment’in Posada
bi nd’hat lassadu Mercioro Dore.
Sa poesia mi’abbandonada
senza mai nde fagher pius cura,
una pros’indezent’est diventada.
S’iscrio calchi vers’a fur’a fura
tando mi nàt una ’oghe secreta
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ch’est una porcheri’addirittura.
Sas noe Sorres mi narant: «Poeta,
mi chi sa poesi’est indigesta,
pensa de osservare sa dieta».
Cust’ironica ’oghe de protesta,
amigu meu, non podes pensare
cant’a s’orja mi sonat molesta.
Pro cuss’est chi no m’isco rassignare
a su dijunu de s’arte poetica;
sa fert’est grav’e non podet curare.
S’anima mia, de natur’iscettica,
bramosa de intrar’in su Parnasu,
credula si dimustrat e ascetica.
Però in Elicona pagu casu
faghent de me, mi faghent sas ficcas
sas noe Sorres si ped’unu basu.
De Ippocrene sas abbas sunt siccas;
cand’happo protestadu: «So sididu»,
m’hana rispustu: «Bandas e t’impiccas».
S’azzettadu l’haere su cumbidu
a’ custas oras tranquillu fia,
e forsis no mi nde fia penettidu.
Bae in bonora bae poesia!
S’est presentada che tentassione,
a brullare sa mia fantasia.
Bae chi happ’a dar’attenzione,
si a casu mi tentas dae nou
no happ’a esser gai tontorrone.
Sa testa mi’est fragile che ou,
però si benis tue musa vana
pro sort’est chi bi craves unu zou.
Pro cantu ses gasie risulana
a mie no mi ponzas a sa prova;
de brullare nde tenzo paga gana.
Non zocches a sa mia mente bova
a mi pedir’unu semplice mutu,
mi ca ti le’a colpos de iscova.
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Su laru tenedilu, ca est fructu
de sos veros poetes, sa corona
a mie faghemila de armutu.
Tue, Unali caru, in Elicona
jura fid’a sa Pieria dea,
ca de tottu sas musas est padrona.
Si ti capitat poneli trobea,
profitta como chi t’istimat tantu,
si no est fazil’a mudar’idea.
Tue abberi sas laras a su cantu
armoniosu, e siast de consolu
a sos coros chi vivent de piantu.
Deo t’invoco cale russignolu:
ben’a cantar’a sa Patria mia,
ispalghelas sas alas a su ’olu.
Milli cosas contare ti cheria,
e cheria godire ness’un’ora
su consol’ ’e sa tua cumpagnia.
Ismentigadu non t’hai’ancora,
ti nde fatto solenne juramentu,
sa limba mia no est impostora.
Galu ses in su meu pensamentu:
chi de te no m’ammente, caru amigu,
no che passat nè ora nè momentu.
Deo ancora so s’amig’antigu,
si ti paret chi facci’ happo mudadu
severamente ponem’in castigu.
Si a t’iscrier goi happo tardadu,
no nelzas inurban’e negligente,
ca mai negligente so istadu.
De su restu, faeddo francamente,
si eo istadu so silenziosu,
tu’ has fattu su surd’ugualmente.
Menzus ch’istadu siast disizosu
in isettare bonas novas mias,
che mi narrer seccant’e infadosu.
Prit’a la narrer, custas litanias
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chi t’imbio, ti devent resessire
seccantes verament’e istantias.
Mentres ti prego de mi cumpadire
si troppu noiosu so istadu,
varias cosas ti do a ischire.
In primu iscas chi happ’incontradu
cuddu superiore tirriosu45
chi tenimis fattende su soldadu.
Accanta m’est passadu, bilgonzosu,
ma non l’happo negadu su saludu,
prite ca so de coro piedosu.
No m’hat rispust’e restadu s’est mudu,
prite fit istrazzadu in modu tale
chi si timiat de li narrer nudu.
Puru si ti nd’ammentas cantu male
hat fattu cussu, a mi’e a tie
cando l’haimis sutt’uffiziale.
A lu diat a crer chi o’in die
diat a benner in bisonz’ ’e pane?
Su mundu caru meu, est fatt’ ’asie.
Deo, invece de li narrer: «Cane!»
happo tentadu de l’avvicinare,
ipse però de me s’est fatt’addane.
Ma inter ipse hat devid’esclamare:
«Si unu tempus bonu istadu fia,
como teni’a chie m’ajudare».
Cuddos chi de sa sua tirania
salvos sunt, si lu ’ident in s’istrada;
lu giamant cun su lumen de ispia.
S’ipocrita canagli’est mal’andada;
a unu l’hat punidu su pugnale,
s’ater’est mortu cun s’anca truncada.
Bona parte bi nd’hat in s’ispidale,
ca giughent frazigadu su pulmone,
isettende s’insoro funerale.
Cuddu marranu frade de Nerone
istad’est cundennadu pro rapina
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a bindig’annos de reclusione.
Bi nd’hat in cumpagni’ ’e disciplina:
samben’hat fattu s’istrale fonnesa,
basada siat sa man’assassina.
Non t’indignet sa mia cuntentesa
chi dimustr’in basare cudda manu
chi sever’hat punidu sa vilesa.
Peus pro chie de coro villanu
da ch’est soldadu ponet in olvidu
chi su soldadu det esser umanu.
Tue pur’a soldadu ses bestidu,
a dogn’istante des haer presente
su chi suffrinde ses e has suffridu.
Tratta bene su tou dipendente
cando nde tenes, ca ti narant bonu:
menzus semper chi siast indulgente.
Cumanda, ma no cumandes che padronu,
ma che babb’amurosu, su rigore
semper chi podes, pon’in abbandonu.
Cun sos bonos faeddos, cun s’amore
s’ottenet tottu, duncas amurosu
vive cun tottus e faghed’onore.
Prosigh’a ti mustrare virtuosu:
senza virtude s’omine s’agattat
che barchitt’in su mare burrascosu.
Però s’omine chi onestu trattat
pro finas cun sos malos tenet paghe,
prite sas differenzias appattat.
De su restu ses mannu, tue faghe
su dovere: ti chelzo in s’onestade
ischire un’incrollabile nuraghe.
Ti naro tottu cust’o caru frade,
prite t’istimo e senz’ipocrisia
amigu so de sa sinceridade.
Deo prego sa tua cortesia
a perdonare cust’iscrittu meu
bestid’a pannos de malinconia.
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Si ti preguntant de Peppe Mereu
nara chi est trazende isconsoladu
sa rughe de su dol’e de s’anneu.
Si calch’amigu giustu b’hat restadu,
soldadu de sa propria bandera,
siat a lumen meu saludadu.
Tue, si podes, faghe sa manera,
procura de m’iscrier prontamente
brullan’e consolant’una littèra.
Deo t’happ’a iscrier frequente
fin’a mi narrer maccu e infadosu,
ciarlatanu, seccant’e imprudente.
Luegh’iscrie. Pro com’adiosu,
dae cust’amenu e floridu jardinu
ti mandat unu basu affettuosu
s’amigu tou
Mereu Peppinu.
Tonara, 5 luglio 1896.
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POESIAS
A EUGENIO UNALE [I]
Eugenio caro, non credere / che di te mi sia dimenticato, / poeta come tutti i poeti // il tuo silenzio ho imitato. / Dopo tanta attesa, finalmente, / un amico di te mi ha parlato. // Mi ha raccontato e mi ha
fatto presente / che stai ancora a Simala, forte e sano / e te la canti
ancora allegramente. // Io, che ti ho spesso nel cuore, / mi rallegro
per la buona nuova / e ti mando una forte stretta di mano. // Io mi
trovo nella patria Tonara / respirando l’aria natia, / curando la persona all’acqua chiara. // Quella cetra che mi vedevi in mano / è scordata e non suona più, / perché le ho messo corde di giunco. // Tu
però ne fai ancora uso: / ti favorisce la cetra nell’armonia / perché
sei figlio del vero Capo di Sopra. // Sei nato nella terra di Billia, / se
canti puoi cantare eccellendo, / sei caro a Melpomene e Talia. // Tu
sei l’astro che a Pozzomaggiore / lascerà fama come a Posada / ne
ha lasciato Melchiorre Dore. // La mia poesia abbandonata / senza
essermene più preso cura / una prosa indecente è diventata. // Se
scrivo qualche verso di nascosto / allora mi dice una voce segreta /
che è una porcheria addirittura. // Le nove Sorelle mi dicono: «Poeta,
/ guarda che la poesia è indigesta, / cerca di stare a dieta». // Questa
ironica voce di protesta, / amico mio, non puoi pensare / quanto alle orecchie mi suoni molesta. // È per questo che non mi so rassegnare / al digiuno dell’arte poetica; / la ferita è grave e non si può
curare. // L’anima mia, di natura scettica, / bramosa d’entrare nel
Parnaso, / si dimostra credula e ascetica. // Però nell’Elicona poco
caso / fanno a me, mi fanno le fiche / le nove Sorelle se chiedo un
bacio. // Le fonti d’Ippocrene sono secche; / quando ho protestato:
«Sono assetato», / mi hanno risposto: «Vai e impiccati». // Se avessi accettato il loro invito / a quest’ora sarei tranquillo, / e forse non me
ne sarei pentito. // Vai in buon’ora, vai poesia! / S’è presentata come
una tentazione, / a burlare la mia fantasia. // Va’ che farò attenzione,
/ se per caso mi tenti di nuovo / non sarò così tontolone. // La mia
testa è fragile come un uovo, / però se vieni tu, musa vana, / sarà
molto se c’infili un chiodo. // Per quanto tu sia così beffarda / non
mettermi alla prova; / ho poca voglia di scherzare. // Non bussare
alla mia mente sciocca / per chiedermi un semplice mutu, / guarda
che ti prendo a colpi di scopa. // L’alloro tienitelo, perché è il frutto
/ dei veri poeti, la corona / a me falla di asfodelo. // Tu, Unali caro,
nell’Elicona / giura fedeltà alla dea Pieria, / perché di tutte le muse è
la padrona. // Se ti capita mettile una pastoia, / approfitta ora che ti
stima tanto, / se no è facile che cambi idea. // Tu apri le labbra al
canto / armonioso, e sii di consolazione / ai cuori che vivono di
pianto. // Io t’invoco come usignolo: / vieni a cantare nella mia Patria, / spargi le ali al volo. // Ti vorrei raccontare mille cose, / e vorrei godere almeno un’ora / il piacere della tua compagnia. // Non
t’avevo dimenticato ancora, / ti faccio un solenne giuramento, / la
mia lingua non è impostora. // Ancora sei nel mio pensiero: / che di
te non mi ricordi, caro amico, / non passa né un’ora, né un momento. // Io sono ancora l’amico antico, / se ti sembra che abbia mutato
volto, / mettimi severamente in castigo. // Se a scriverti così ho tardato, / non dirmi inurbano e negligente, / perché mai negligente sono stato. // Del resto, parlo francamente, / se io sono stato silenzioso, / tu hai fatto il sordo ugualmente. // Meglio che sia stato
desideroso / di attendere buone nuove mie, / anziché dirmi seccante
e fastidioso. // Perché a dirla, queste litanie / che t’invio, ti devono
risultare / davvero seccanti e stantie. // Mentre ti prego di scusarmi /
se troppo noioso sono stato, / varie cose ti faccio sapere. // Per prima sappi che ho incontrato / quel superiore odioso / che avevamo
quando eravamo soldati. // Mi è passato vicino, vergognoso, / ma
non gli ho negato il saluto, / perché ho un cuore pietoso. // Non mi
ha risposto ed è rimasto zitto, / perché era così cencioso / che si
aveva paura a definirlo nudo. // Anche se ti ricordi quanto male /
quello ha fatto, a me e a te, / quando l’avevamo come sottufficiale.
// L’avrebbe creduto che oggi / sarebbe giunto a chiedere il pane? /
Il mondo, caro mio, è fatto così. // Io, invece di dirgli: «Cane!» / ho
tentato di avvicinarlo, / lui però s’è fatto in là. // Ma dentro di sé deve aver esclamato: / «Se un tempo fossi stato buono, / ora ci sarebbe
chi m’avrebbe aiutato». // Quelli che dalla sua tirannia / si sono salvati, se lo vedono sulla strada; / lo chiamano col nome di spia. // L’ipocrita canaglia è malandata, / uno l’ha punito il pugnale, / l’altro è
morto con una gamba spezzata. // Buona parte è all’ospedale, / perché ha i polmoni marci, / e aspetta il suo funerale. // Quel marrano
fratello di Nerone / è stato condannato per rapina / a quindici anni
di reclusione. // Alcuni sono nella compagnia di disciplina: / la scure
di Fonni ha fatto scorrere sangue, / sia baciata la mano assassina. //
Non ti sdegni la mia felicità / che mostro nel baciare quella mano /
che severa ha punito la viltà. // Peggio per chi di cuore villano / essendo soldato dimentica / che il soldato dev’essere umano. // Anche
tu sei vestito da soldato, / ad ogni istante devi tener presente / quello che stai soffrendo e hai sofferto. // Tratta bene il tuo dipendente /
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POESIAS
quando ne hai, perché ti dicono buono: / meglio che sia sempre indulgente. // Comanda, ma non comandare da padrone, / ma da padre affettuoso; il rigore / sempre se puoi, abbandonalo. // Con le
buone parole, con l’amore / si ottiene tutto, dunque amorevole / vivi
con tutti e fatti onore. // Continua a mostrarti virtuoso: / senza virtù
l’uomo si trova / come una barchetta nel mare burrascoso. // Però
l’uomo che si comporta onestamente / anche coi cattivi sta in pace, /
perché appiana le differenze. // Del resto, sei grande, fai / il dovere:
ti voglio nell’onestà / sapere un incrollabile nuraghe. // Ti dico tutto
questo, o fratello caro, / perché ti stimo e senza ipocrisia / sono amico della sincerità. // Io prego la tua cortesia / di perdonare questo
mio scritto / vestito con panni di malinconia. // Se ti chiedono di
Peppe Mereu / dì che trascina sconsolato / la croce del dolore e dell’angoscia. // Se qualche amico giusto è restato, / soldato della stessa
bandiera, / a nome mio sia salutato. // Tu, se puoi, fa’ in modo, /
cerca di scrivermi prontamente / una lettera scherzosa e consolante.
// Io ti scriverò di frequente / anche se mi dirai matto e fastidioso, /
chiacchierone, seccante e impudente. // Scrivi presto. Per ora ti saluto, / da quest’ameno e fiorito giardino / ti manda un bacio affettuoso
/ l’amico tuo Mereu Peppino.
A PAOLO HARDY46
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Cando chi ses bennidu
de votos pedidore,
in Galusè, a s’iscrocca ’e unu pranzu,
a Tonar’has tessidu
su simpr’e aduladore
cantu,[2] de sensu iscancaradu e lanzu.
In cussu partu reu
c’has fattu, caru meu,
declaradu ti ses meda metanzu.
Indignada, Tonara
ti torrat custa risposta franch’e giara:
In sa sublim’altura
non balent sos fumos
de s’incensu c’has cherfidu brujare;
mi bastat sa dulzura
de gentiles profumos
chi sos fiores meos solent dare.
In sas nucciolas mias
si cantant poesias
dignas de custa terra singulare,
duncas boghes profanas
cantade in sa palude cun sas ranas.
[2. Riproduciamo il sonetto intitolato Tonara – a Maria – cui Mereu si
riferisce, che troviamo pubblicato a firma di Paolo Hardy sul periodico
cagliaritano Spigolature d’arte, a. II, n. 11, 1895, p. 5: «A Tonara salude;
dae s’artura / immensa, s’iscra de Brebì s’ammirat. / Custu est triunfu
mannu de natura / e ogni coro amorosu a tie suspirat. // Ammirende e
pensende, no declinat / mai su sole de s’anima, et sa pura / poesia virgini et santa / no la furat / sa noia de sa vida et sa tristura. // Dae inoghe, anima bella, sa ’olada / de sos sonnos de s’anima, s’ardente / disizzu de amore ’enit a tie. // Lontanu, mando a tie custa posada, / custa
posada mistica e prudente, / solu confortu ch’est restadu a mie».]
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Dae s’altu nuraghe,
cun supremu disgustu,
mi meravigli’ ’e su to’ardimentu.
Lassa dormir’in paghe
su sonn’a’ cuddu Giustu
chi de liricu summu fam’ha tentu.
S’insult’es meda grave,
turbare sa suave
armoni’a sos sognos de Larentu.47
Pro cussu, senz’indultu,
eo rispund’a s’insultu cun s’insultu.
Nar’inu’ has connotu
cussa mus’imperfecta,
chi t’hat postu sa ment’in fantasia?
Pro lograr’unu votu
ti ses fattu poeta,
profanende sa sarda poesia,
prit’a la narrer giara
su sonett’a Tonara,
est sa tua pius manna porcheria.
Ah cantu ses buffone!
Tue sì chi la meritas sa cantone.
Posada pro pesada
has iscrittu, sa lima
a su ch’ ’ido paghissimu si curat.
Sa forma est trascurada,
trascurada sa rima
cando mi rimas declinat cun furat.48
In su versu, dijunu
de su sensu comunu
Campidan’a Nuòro s’ammesturat.49
Sa posada prudente
chi naras tue, non balet niente.
Ahi partu fatale!
Ite confusione
sa c’has fattu! Non t’isco discujare.
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Forsis t’hat fattu male
su fogu de Carbone50
chi t’happ’azzesu pro t’asfissiare?
Su Cocco americanu
bisonz’istet lontanu,
in custos frittos non podet fruttare.
Fritt’happo su bestire,
Carbone chelz’ebbi’a m’iscardire.
Tonara … 1895.51
A PAOLO HARDY
Quando sei venuto / a chiedere voti, / a Galusè, a scroccare un
pranzo, / a Tonara hai intessuto / lo sciocco e adulatore / canto,
sconnesso e scarso di senso. / In quel parto infelice / che hai fatto,
caro mio, / ti sei dichiarato assai povero. / Indignata, Tonara / ti dà
questa risposta franca e chiara: // Nella sublime altezza / non valgono i fumi / dell’incenso che hai voluto bruciare; / ma basta la dolcezza / di gentili profumi / che i miei fiori sogliono dare. / Nelle
nocciole mie / si cantano poesie / degne di questa terra singolare, /
dunque voci profane / cantate nella palude con le rane. // Dall’alto
nuraghe, / con supremo disgusto, / mi meraviglio del tuo ardimento.
/ Lascia dormire in pace / il sonno a quel Giusto / che ha avuto fama di sommo lirico. / L’insulto è molto grave, / turbare la soave / armonia ai sogni di Larentu. / Per questo, senza indulto, / io rispondo
all’insulto con l’insulto. // Dì, dove hai conosciuto / quella musa imperfetta, / che ti ha instillato fantasticherie nella mente? / Per ottenere un voto / ti sei fatto poeta, / profanando la sarda poesia, / perché
a dirla chiara / il sonetto a Tonara, / è la tua più grande porcheria. /
Ah quanto sei buffone! / Tu sì che meriti la canzone! // Posada per
pesada / hai scritto, la lima, / a quel che vedo, pochissimo si cura. /
La forma è trascurata, / trascurata la rima, / quando mi rimi declinat
con furat. / Nel verso, digiuno / del senso comune, / Campidano si
mescola a Nuoro. / La fermata prudente / che tu dici, non vale niente. // Ahi parto fatale! / Che confusione / quella che hai fatto! Non
so scusarti. / Forse t’ha fatto male / il fuoco di Carbone / che ti ho
acceso per asfissiarti? / Il Cocco americano / bisogna che stia lontano, / fra questi freddi non può dar frutto. / Ho il vestito freddo, / voglio solo Carbone per scaldarmi.
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POESIAS
X…53
ARITZO
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Post’in alt’a sa tua capitale,
dispensera de abbas cristallinas;
poetica, gentile industriale,
terza de sas alturas montaninas.52
................................... fatale
ispasimos de amore ......................
............................................
..............................................................
De cor’aperta, franca e liberale,
a su progressu curres e camminas:
ses una zittadedda geniale,
in te s’isprigant sas biddas bighinas.
De me già ti nde ses ismentigada,
m’has cattigadu che verm’in su ludu:
crudele ses istada
finas a mi negare su saludu.
Onesta tue trivaglias e divignas;
de s’onestade tu’andas fiera,
ismentinde de Dante sas iscritas.
Fentomadas, sas tuas carapignas
faghent su giru de s’Isul’intera,
cunfirmende sa fama chi meritas.
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ARITZO
Collocata sopra la tua capitale, / dispensatrice di acque cristalline; /
poetica, gentile, industriosa, / terza delle alture montanine. //
Aperta di cuore, franca e liberale, / verso il progresso corri e cammini: / sei una cittadella geniale, / in te si specchiano i paesi vicini.
// Onesta tu lavori e canti; / della tua onestà vai fiera, / smentendo
le scritte di Dante. // Famose, le tue carapignas / fanno il giro dell’Isola intera, / confermando la fama che meriti.
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A saludar’a mie non t’abbassas,
pro me ti pones abidos de monza,
ma s’accanta mi passas
ti si mudant sas laras de ’ilgonza.
Cando m’ ’ides non rides amurosa,
non ses pius affabil’e gentile,
ma passas bilgonzosa,
ca su cor’in su pettus ti nàt: «Vile!».
Tue, da chi godinde ses cuntenta,
non faghes cont’ ’e sas lagrimas mias.
Ammentadind’ammenta,
de cant’in su passadu promittias.
Ammentadind’ammenta, cun ardore
mi basaist ridende cun recreu,
e naiast: «Fiore,
tue ses nadu pro su pettus meu».
Ammentadinde, cando promittias
de mi giugher in cor’eternamente,
da poi m’istringhias
contr’a su sinu tou ardent’ardente.
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............................................
...................................................
........................................
...............................................................
Cand’in cara su chizu m’halzaiast
ti naiast feliz’e fortunada,
como cherrer mi diast
zegu, pro non ti dar’una mirada!
A EUGENIU UNALE [II]54
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X…
… fatale / spasimi d’amore … / … / … // Di me già ti sei dimenticata, / m’hai calpestato come un verme nel fango: / crudele sei stata
/ a negarmi anche il saluto. // A salutarmi non ti abbassi, / per me ti
metti abiti da monaca, / ma se vicino mi passi / ti si ricoprono le
labbra di vergogna. // Quando mi vedi non ridi amorevole, / non sei
più affabile e gentile, / ma passi vergognosa, / perché il cuore in
petto ti dice: «Vile!». // Tu, poiché stai godendo contenta, / non fai
conto delle mie lacrime. / Ricordati, ricorda, / di quanto promettevi
nel passato. // Ricordati, ricorda, con ardore / mi baciasti ridendo e
con piacere, / e dicevi: «Fiore, / tu sei nato per il mio petto». // Ricordatene, quando promettevi / di portarmi nel cuore eternamente, /
e poi mi stringevi / contro il tuo seno ardente ardente. // … / … /
… / … // Quando alzavi lo sguardo sul mio viso / ti dicevi felice e
fortunata, / ora mi vorresti / cieco, per non darti un’occhiata!
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De tanta libertade
chelz’esser discujadu,
perdonami cun s’animu serenu.
Già l’ischis, caru frade,
su coro angustiadu
cando de amalguras est pienu,
si amore no est mortu,
chircat in sin’amigu su confortu.
Si cust’iscritta mia
ti causerat noia,
non sia tottu deo s’inculpadu,
ca dare ti cheria
novas de pura gioia,
ma su cor’altrimenti m’hat dittadu.
Duncasa cun benignu
ris’isculta s’amigu, si nd’est dignu.
Cando ridend’iscrio,
comente t’happ’iscrittu
novas buffas de gioi’e de festa,
no est de coro chi rio,
ma d’unu risu frittu
chi traighet de coro ogni tempesta.
Est unu risu feu,
fruttu de s’infeliz’istadu meu.
Tue m’iscries: «Forte
siast o caru frade:
pensa chi senz’ispinas non b’hat rosas,
pro mores chi sa sorte
amor’e libertade
t’hat lassad’, e in Patria riposas:
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POESIAS
deo so pianghende,
e, senz’amore, sa Patria sognende».
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Est bellu cunfortare
cun diccias tantu caras,
s’infelize ligadu in sa cadena,
ma prima de lassare
faeddare sas laras
est prezisu connoscher it’est pena.
Zelt’est, chi si l’ischiast,
«bocchidi, caru frade», m’iscridiast.
Ah m’essere bocchidu!
Tantu già nde so privu
de sa vida chi liberu godia.
In cust’ingratu nidu
sent’in su coro, vivu,
su disiz’ ’e sa Patria natia.
’Olat su pensamentu
a sa fiz’ ’e su canu Gennargentu.
Isparid’est s’incantu,
su briu, su sorrisu
ch’in laras mi ridiat che fiore;
amaru su piantu,
in su pallidu visu
b’hat lassadu s’imprent’ ’e su dolore.
Amigu, in cust’amigu
non vivet pius, no, s’amig’antigu.
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Sos sognos de sa mente
mi causant fastizos,
cand’inoghe mi toccat a pensare
a cando, dulchemente,
deo frittia sos chizos
a’ cuddu dulch’e liberu sognare.
Terribiles penseris!
Prite mi l’ammentades su ’e d’eris?
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E cheres chi reposu
su coro angustiadu,
agattet in custos tribulos crudeles?
S’abid’iscuriosu
mi nd’hat allontanadu
sos amigos c’haia pius fideles:
sos chi no hant pensadu
chi s’abidu su coro no hat mudadu.
D’eris happ’incontradu
passizend’in s’istrada,
unu caru signor’amig’antigu;
appenas m’hat dignadu
d’una fritta mirada,
che cando mai l’ess’istad’amigu.
Gai dogn’unu areste,
disprezzat sa persone pro sa ’este.
Ma in tempos antigos
faghiant milli festas
a su fiancu meu cun dulzura.
Ah! De tantos amigos
tue solu mi restas
amuros’e fidel’in s’isventura,
nè de me nd’has bilgonza
ca so bestid’a monz’e non so monza.
Ca ses bon’infadosu,
benz’a tie sovente
a versare su dol’in sinu tou,
e pro com’adiosu,
no nelzas imprudente
si a casu t’iscrio dae nou.
Tristu, dae lontanu
ti mand’una sincer’istrint’ ’e manu.
Cossoine-Nuraghe Idda, 13 feb. 1895.
209
POESIAS
NON TI POTO AMARE
A EUGENIO UNALE [II]
Di tanta libertà / voglio essere scusato, / perdonami con l’animo sereno. / Lo sai, caro fratello, / il cuore angustiato / quando d’amarezze è
pieno, / se amore non è morto, / cerca nel petto amico il conforto. //
Se questo mio scritto / ti causasse noia, / non a me solo sia data colpa, / perché ti volevo dare / nuove di pura gioia, / ma il cuore altrimenti mi ha dettato. // Dunque, con benigno / riso ascolta l’amico, se
ne è degno. // Quando scrivo ridendo, / come ti ho scritto / buffe
nuove di gioia e di festa, / non è di cuore che rido, / ma d’un riso
freddo / che tradisce del cuore ogni tempesta. / È un brutto riso, /
frutto del mio stato infelice. // Tu mi scrivi: «Forte / sii, o caro fratello:
/ pensa che non c’è rosa senza spine, / perché la sorte / amore e libertà / ti ha lasciato, e riposi in Patria: / io sto piangendo, / e, senza
amore, la Patria sto sognando». // È bello confortare / con parole tanto care, / l’infelice legato alla catena, / ma prima di lasciare / parlare
le labbra / bisogna sapere cosa sia la pena. / Certo è che se lo sapessi, / «ucciditi, fratello caro», mi scriveresti. // Ah, se mi fossi ucciso! /
Tanto già sono privo / della vita di cui libero godevo. / In questo ingrato nido / sento nel cuore, vivo, / il desiderio della Patria natia. /
Vola il pensiero / alla figlia del canuto Gennargentu. // È sparito l’incanto, / il brio, il sorriso / che nelle labbra mi rideva come un fiore; /
amaro il pianto, / sul pallido viso, / ha lasciato il marchio del dolore.
/ Amico, in quest’amico / non vive più, no, l’amico antico. // I sogni
della mente / mi danno tormento, / quando qui mi tocca pensare / a
quando, dolcemente, / io chiudevo gli occhi / a quel dolce e libero
sognare. / Terribili pensieri! / Perché mi ricordate quel che era ieri? //
E vuoi che riposo / il cuore angustiato, / trovi in queste tribolazioni
crudeli? / L’abito scuro / mi ha allontanato / gli amici che avevo più
fedeli: / quelli che non hanno pensato / che l’abito il cuore non ha
mutato. // Ieri ho incontrato, / passeggiando per strada, / un caro signore, amico antico; / appena mi ha degnato / di una fredda occhiata, / come che mai gli fossi stato amico. / Così ogni incivile, / disprezza le persone per l’abito. // Ma in tempi antichi / facevano mille
feste / al mio fianco, con dolcezza. / Ah! Di tanti amici / mi resti tu
solo / affettuoso e fedele nella sventura, / né hai vergogna di me /
perché son vestito da monaca e non son monaca. // Perché sei buono, fastidioso, / vengo sovente da te / a versare il dolore sul tuo petto, / e per ora addio, / non dirmi imprudente / se per caso ti scrivo
di nuovo. / Triste, da lontano / ti mando una sincera stretta di mano.
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Giovan’inutilmente
ti ses post’in s’isettu
chi deo benz’a ti pedir’amore.
Ti giuro francamente
chi non ti tenz’affettu,
pro mores c’am’un ateru fiore.
Si so franch’e leale
non ti nde parzat male,
nè b’hat motiv’ ’e mi tenne rancore.
Sos rancores lassamus,
amigos fimis, amigos restamus.
Si non ti pot’amare,
nè daredi recreu
comente dias a cherrer, bella mia,
nde deves inculpare
solu su coro meu,
chi pro te non dimustrat simpatia.
Su cor’uman’est gai,
non si piegat mai:
palpitat cando cheret ips’ebbia.
Deo non lu trattenzo,
ma si non t’amat culpa no nde tenzo.
Sa franchesa perdona,
deo faedd’in cara.
Non ti connosco nisciunu difettu;
ses bella, onest’e bona,
in virtudes ses rara,
puru cun tottu non ti tenz’affettu.
Duncas es tottu vanu
chi tenzas fittianu
211
POESIAS
iscrittu su lumen me’in s’intellettu.
Pens’ ’e ti rassignare,
e proa si nde lu podes canzellare.
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Ti deves figurare
ch’est una visione
su penseri chi firmu has in sa testa,
si no, podes pensare,
chi un’illusione
ti podet esser fatal’e funesta.
Lassa su sentimentu,
a’ cust’avvertimentu
si felize ti cheres, fide presta.
Si penseri non mudas,
de custa passione ti nd’impudas.
De amore suspiras,
si presente ti seo,
dae me ti pretendes cunfortada:
cand’in cara mi miras,
non t’abbizas chi deo
non corrispund’a sa tua mirada?
Ti fatto visu tostu,
prite non so dispostu
in coro me’a ti dare s’intrada.
Cando miras a mie
cheres azzender fogu cun sa nie.
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cuddu chi t’hat sa sorte destinadu,
pro su cale unu die
des olvidare c’has connott’a mie.
Ogn’affann’ogni pena
comente benit passat,
gai hat decretadu sa natura;
puru cussa cadena
ch’in paghe non ti lassat,
benit a si truncare, ista segura.
Un’ateru fiore
t’hat a pedir’amore,
de me no nd’has a fagher pius cura,
anzis, allegramente,
mi des ismentigare totalmente.
Como t’happ’avvisadu
chi non ti tenz’amore,
pro ca tenz’in su cor’atera rosa.
Si francu so istadu
no mi uses rancore,
anzis nde des andar’orgogliosa
de tenner unu frade,
chi, cun sinceridade,
t’est istadu fidel’in dogni cosa.
Sighimus s’amistade,
ma s’intendet, coment’ ’e sorr’e frade.
Pensa de m’olvidare
e cun serenidade
abbandona s’idea c’has leadu.
Mi des cunsiderare
coment’ ’e unu frade,
non coment’ ’e su tou innamoradu.
Allegra des istare,
ca non t’hat a mancare
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213
POESIAS
STUDENTE
NON POSSO AMARTI
Ragazza, inutilmente / ti sei messa in attesa / che io venga a chiederti amore. / Ti giuro francamente / che non provo per te affetto, /
perché amo un altro fiore. / Se sono franco e leale / non ti sembri
male, / né c’è motivo di serbarmi rancore. / I rancori lasciamo, /
amici eravamo, amici restiamo. // Se non ti posso amare / né darti
gioia / come tu vorresti, bella mia, / devi incolpare / solo il mio cuore, / che per te non prova simpatia. / Il cuore umano è così, / non si
piega mai: / palpita quando vuole lui solo. / Io non lo freno, / ma se
non ti ama non ho colpa. // La franchezza perdona, / io parlo in faccia. / Non vedo in te alcun difetto; / sei bella, onesta e buona, / sei
rara nelle virtù, / ma con tutto ciò per te non provo affetto. / Dunque è del tutto vano / che serbi di continuo / il mio nome scritto
nella mente. / Pensa a rassegnarti, / e vedi se riesci a cancellarlo. //
Devi renderti conto / che è una visione / il pensiero che hai fisso in
testa, / se no, puoi pensare, / che un’illusione / può esserti fatale e
funesta. / Abbandona il sentimento, / a questo avvertimento / se
vuoi esser felice, fede presta. / Se non cambi idea, / sei responsabile
di questa passione. // Sospiri d’amore, / se ti trovi in mia presenza, /
pretendi di essere confortata da me: / quando mi guardi in faccia, /
non t’accorgi che io / non corrispondo al tuo sguardo? / Ti mostro il
viso duro, / perché non sono disposto / a darti accesso al mio cuore. / Quando guardi me / vuoi accendere il fuoco con la neve. //
Pensa a dimenticarmi / e con serenità / abbandona l’idea che hai
concepito. / Mi devi considerare / come un fratello, / non come il
tuo spasimante. / Allegra devi stare, / perché non ti verrà a mancare
/ colui che ti è dato in sorte, / per il quale un giorno / dimenticherai
di avermi conosciuto. // Ogni affanno, ogni pena / come viene poi
passa, / così ha decretato la natura; / pure quella catena / che in pace non ti lascia, / si spezzerà, sta’ sicura. / Un altro fiore / ti chiederà
amore, / di me non t’interesserà più, / anzi, allegramente, / mi dimenticherai totalmente. // Ora ti ho avvisato / che non provo per te
affetto, / perché ho nel cuore un’altra rosa. / Se franco sono stato /
non serbarmi rancore, / anzi, devi essere orgogliosa / di avere un
fratello, / che, con sincerità, / t’è stato fedele in ogni cosa. / Continuiamo con l’amicizia, / ma, s’intende, come fratello e sorella.
214
Pizzinn’ancor’in custu mund’e rude
in brazzos a su vissiu ti ses dadu!
Babbu to’a iscola t’hat mandadu
sognend’in testa tua una virtude,
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ma tue, a pipp’azzesa, sa salude
ses perdinde, su libr’ismentigadu
has in tott’e a s’ozi’ has cundennadu
sa preziosa tua gioventude.
Ses appen’isbucciadu dae s’ou,
e cale can’isoltu ’e cadena
a sa ’ogh’ ’e su vissiu pones mente.
E non pensas chi bezzu babbu tou
andat famid’a zorronad’anzena,
pro ti mantenner semper istudente.
STUDENTE
Ancora ragazzo a questo mondo e immaturo / fra le braccia del vizio ti sei gettato! / Tuo padre a scuola ti ha mandato / sognando
nella tua testa una virtù, // ma tu, fumando, la salute / stai perdendo, il libro dimenticato / hai del tutto, e all’ozio hai condannato /
la tua preziosa gioventù. // Sei appena uscito dall’uovo, / e come
un cane sciolto dalla catena / dai retta alla voce del vizio. // E non
pensi che tuo padre / va affamato a lavorare a giornata, / per mantenerti sempre studente.
215
POESIAS
K...
S’ORFANA PEDIT PANE
A Maruccia Santoru.
misera! tace
Ogni dover se si rialza amore
Dentro il mio petto…
Tieste - UGO FOSCOLO
Orfana, senza babbu e senza mama
a istentu trazende so sa vida.
Isculza, nuda, derelita e grama,
a pedir’in sas giannas reduida.
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A ti’eo m’invoco eletta prama,
preghende chi consoles sa famida.
Dalli pane, in terr’has haer fama
de piedosa. Eo puru ben’ ’estida,
Anninnende Maria s’infantinu
cun sa ’oghe velada de piantu,
happ’intes’ista nott’a su camminu:
ecco cant’happ’intesu in cussu cantu:
5
fia ricc’unu die, s’isfortuna
crudele m’hat bocchidu, cale cane
dae tottus iscacciadu, so dijuna.
Dae me no halzes, no, su chiz’addane;
«fragiles sunt sos benes de fortuna»,
caridadosa siast, dammi pane.
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Ah ses troppu minore!
No ischis su dolore
chi proat custu coro, e’ sa fiamma
ch’in ipsu b’est, fatale,
cantu mi faghes male
cando mi donas su lumen de mamma.
Si ridente mi bramas
giamam’isfortunada, si mi giamas.
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Naschidu ses in luctu,
su latte chi has sutu
o fizu, t’est potentissimu velenu.
Si faghes mannu, in laras
ti dent bider amaras
15
L’ORFANA CHIEDE PANE
Orfana, senza padre e senza madre / sto trascinando a stento la vita. / Scalza, nuda, derelitta e grama, / ridotta a chiedere nelle porte. // A te io m’invoco, eletta palma, / pregando che consoli l’affamata. / Dalle pane, in terra avrai fama / di pietosa. Anch’io ben
vestita, // ero ricca un tempo, la sfortuna / crudele m’ha ucciso, come un cane / scacciato da tutti, sono digiuna. // No, non allontanare lo sguardo da me; / «son fragili i beni di fortuna», / sii caritatevole, dammi pane.
216
«Anninniend’a tie
deo pens’a su die
chi sognai’ unu fizu ’e su coro,
gia’ ti stimo che fizu,
però mi das fastizu,
ca non ses frutt’ ’e s’oggettu c’adoro.
Menzus non esses nadu
pro ’ider una mamm’a’ cust’istadu.
217
POESIAS
istillas chi turbant s’animu serenu.
Lizu meu de oro,
lu sento ma t’allatto contr’a coro.
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Si non fiast naschidu
dae cust’ingratu nidu
liberamente leai’ su ’olu,
ma tue m’incadenas
in ispinas e penas,
eternamente mi cheres in dolu.
Azzes’est sa fiamma,
ca cheret gai su dover’ ’e mamma.
Cagliad’e non piangas,
su coro non mi frangas
isventurad’e faghe s’anninnia,
ca su piantu tou
m’ammentat dae nou
sa trista e cumpianta sorte mia.
Menzus non ti nd’ischides
pro connoscher sas penas chi non bides.
Si benzerat su die
de ’ider mort’a mie,
pallid’e sorridente, a pees in porta,55
a babbu tou nara:
“A mamma mia cara,
babbu, s’amore tou est chi l’hat morta.
Cando m’anninnaiat
mamm’a ti narrer custu mi naiat”».
218
K…
Maria ninnare il bambino / con la voce velata di pianto, / ho sentito
stanotte nella strada; / ecco ciò che ho sentito in quel canto: // «Ninnando te / io penso al giorno / in cui sognavo un figlio del mio cuore; / sì, t’amo come un figlio, / però mi dai fastidio, / perché non sei
frutto dell’oggetto che adoro. / Meglio non fossi nato / per vedere
una madre in questo stato. // Ah, sei troppo piccolo! / Non conosci
il dolore / che prova questo cuore, e la fiamma / che alberga in esso, fatale, / quanto mi fai male / quando mi chiami col nome di
mamma. / Se sorridente mi chiami / chiamami sfortunata, se mi chiami. // Sei nato nel lutto, / il latte che hai succhiato / o figlio, è per te
un potentissimo veleno. / Se diventi grande, sulle labbra / ti vedranno amare / stille che turbano l’animo sereno. / Giglio mio d’oro, /
mi spiace ma ti allatto a malincuore. // Se non fossi nato / da questo
nido ingrato / spiccherei liberamente il volo, / ma tu m’incateni / fra
spine e pene, / mi vuoi eternamente nel dolore. / È accesa la fiamma, / perché così vuole il dovere di mamma. // Taci e non piangere,
/ non spezzarmi il cuore / sventurato e fai l’anninnia, / perché il
tuo pianto / mi ricorda di nuovo / la triste e compianta sorte mia. /
Meglio che non ti svegli / per conoscere le pene che non vedi. // Se
arrivasse il giorno / in cui mi vedi morta, / pallida e sorridente, i piedi verso la porta, / a tuo padre dì: / “La mia cara mamma, / babbo, è
l’amore per te che l’ha uccisa. / Quando mi ninnava, / mamma di
dirti questo mi diceva”».
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POESIAS
Y…56
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In ammentu de cuddas tristas oras
chi m’has trazad’a s’infamante ludu,
como chi nde so foras
Cainu, rezi de me custu saludu.
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Saludu tristu, bogh’est de su sinu
chi severa dimandat: «O crudele,
fraticida Cainu,
ite nd’as fatt’ ’e s’innossente Abele?».
Dae cuss’est chi rutu
ses in dannassione,
avversu a sa matessi razza tua:
su latte chi has sutu
fit latt’ ’e crabione
misciad’a fele de potente lua,
dae cabiju ispinosu
sut’has cussu licore velenosu.
A s’accusa s’ipocritu catramu
de su visu det benner purpurinu,
cale foz’in su ramu
ti det tremer su cor’intro ’e sinu.
No est cust’una lirica suave,
nè de su cor’unu risu gentile,
ma un’accusa grave
chi ti gridat severa: «Infame, vile!».
…………… psichicu momentu
de sa paur’e’ sa cunfusione,
……… motu violentu
det fagher tremer totta sa persone.
……………………………….
……………………………
Pius vile de Giudas
de su male chi faghes no t’impudas.
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e in da segus ti lassas
discordias e brigas,
odios, gherras e confusiones.
………………….
…………………………….
Inue tottu passas
sa zente t’immigas
pro sas tuas nefandas aziones,
220
Y…
In ricordo di quelle tristi ore / in cui mi hai trascinato nell’infamante
fango, / ora che ne sono fuori / Caino, ricevi da me questo saluto. //
Saluto triste, è voce dal petto / che severa domanda: «O crudele, / fratricida Caino, / cos’hai fatto dell’innocente Abele?» // All’accusa l’ipocrita catrame / del viso diventerà rosso, / come foglia nel ramo / ti
tremerà il cuore in petto. // Questa non è una lirica soave, / né un riso del cuore gentile, / ma un’accusa grave / che ti grida severa: «Infame, vile!». // … psichico momento / della paura e la confusione, / …
moto violento / farà tremare tutta la persona. // … / … / Più vile di
Giuda / non t’imputi il male che fai. // Dovunque passi / t’inimichi la
gente / per le tue nefande azioni, / e ti lasci dietro / discordie e liti, /
odi, guerre e confusioni. / … / … // È per questo che caduto / sei in
dannazione, / avverso alla tua stessa razza: / il latte che hai succhiato
/ era latte di fico immaturo / mischiato con fiele di potente euforbia; /
da un capezzolo spinoso / hai succhiato liquore velenoso.
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POESIAS
A NANNI SULIS [II]57
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Eccomi dae nou a t’infadare
cun sas solitas mias novas malas,
prite ca bonas no nde poto dare.
Maj’est fiorid’e post’in galas,
a tottus dàt cuntentu: su dolore
subra me hat ispaltu tristas alas.
It’importat chi sogne unu fiore,
una viol’amabil’e gentile,
cando ch’in sinu meu est mort’amore?
Tempestosu connottu happo s’abrile
de custa vida chi passende so
connoschinde sa notte a manzanile.
Semper chi s’Isperanzi’«ajò»
m’hat nadu, happo pedidu unu sorrisu,
ma s’Isventura m’hat rispustu: «No».
Dae sa vida m’agatto divisu,
sa persone pro s’ultimu viaggiu
serenamente isettat s’avvisu.
Como mi toccat a donare saggiu
de firmesa, sa mia sepoltura
est iscavad’e m’infundet coraggiu.
O forsis chi su fiz’ ’e s’isventura,
a vista de sa falche messadora,
si det bestir’a pannos de paura?
Est beru, sì, so gal’a s’aurora
de sos annos, ma si est decretadu,
e devo morrer, non timo cuss’ora.
Ite fatt’in su mundu disamadu,
afflittu dae milli graves penas?
Menzus in duna fossa sutterradu.
Su sambene siccad’happ’in sas venas,
istanca e isfinida sa persone,
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andat a traz’e si rezzet appenas.
Giovanu so e mi giamant bezzone,
e cun rejone mi narant moninca,
cando giut’a passizu su bastone.
Como non pot’andare brinca brinca
comente unu tempus brincaia,
ca m’hant fattu corona ’e proninca.
Sos menzus annos de sa pizzinnia
mi los passo tocchende sa campana
c’annunziat sa trista fine mia.
Cale, cale det esser cudda giana
chi a su cursu de sos annos meos
zintu hat sa funesta cadiana?
Cando happ’invocadu sos recreos
d’unu ris’amurosu, unu carignu,
happ’happidu dolores e anneos.
Possibile chi non sia istadu dignu
mai de incontrare affettuosu,
e sorrident’unu chizu benignu?
Ca so in cust’istadu dolorosu,
dae me si sunt fattos a un’ala:
non si nd’agattat coro piedosu.
Sos amigos, in custa sorte mala,
hant fattu finta de fagher su teu,
e m’hant lassadu cun sa rugh’a pala.
Deo però, pro su caratter meu,
mai mi so frittidu a zente gai
pedinde unu Simone Cireneu.
Pat’in segret’e no m’abbascio mai:
umiliarem’a coros marranos,
prim’ ’e connoscher cuss’ora guai.
Forsis s’haere lintu zertas manos
como fia nadende in sa ricchesa,
a dannu de sos nostros paisanos.
Ma prim’ ’e cummittire una vilesa
a dannu de sos meos patriottos,
mi onor’ ’e sa mia poveresa.
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Mi faghent fele zeltos signorottos,
concas de linna e ispiantados,
chi si vantant pro riccos e pro dottos.
Su los bider comente sunt mudados,
passizant pro mustrare sa bacchetta
e abidos chi non sunt galu pagados.
In bidda faghent sa marionetta,
ispudorados! Cun sas malas tramas
sunt vermes chi bulluzant s’abba netta.
Su disisperu sunt de tantas mamas
chi cherent in sas fizas coltivare
violas de virtud’e bonas famas.
Isfamare, trampar’e violare,
est dovere pro custos trampaneris:
onestamente no ischint campare.
Deo no isco, sos carabineris
in logu nostru prit’est chi bi sune,
e no arrestant sos bangarrutteris.
Bi cheret una furca e una fune,
e impiccar’impiccare continu,
finas a si purgare sa Comune.
Torret sa legge de Villamarinu:
pro chi su male non fettat cangrena
bi cheret a duttore su boccinu.
Viles c’hant meritadu sa cadena,
sa giustissia puru hana trampadu,
gai s’hant infrancadu dogni pena.
Mentres chi unu poveru appretadu
furat pro s’appititu unu cogone,
lu ’ides arrestadu e cundennadu.
Su famidu chi furat un’anzone
est cundennadu dae sos giurados
fin’a degh’annos de reclusione.
E narrer chi b’hat palattos fraigados
dae sa man’infam’ ’e sa rapina,
sos meres, ladros, sunt pius amados!
Sa ros’in custos tempos est ispina,
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o’in die s’ispina si nàt rosa:
si pagat su piuer pro farina.
Sa limba de s’infamia velenosa
si una rosa b’hat gentil’e bella,
ti la dipinghet fea e ispinosa.
Miseru chie corcad’in carrella,
e in nottes serenas de lugore
pro ips’in chelu non lughet istella.
Miserinu su c’andat pedidore
a pedir’unu bicculu ’e pane
a su gianile de calchi segnore.
Su riccu dàt biscottos a su cane,
e a su poveru narat: «Preizosu,
trivaglia, e dae me istad’addane».
Su chi no est istadu bisonzosu
incapaz’est de bonas aziones,
non podet esser mai piedosu.
Tottu sos poverittos sunt mandrones
pro sos attattos, ca no hant connotu
famen, affannos e afflissiones.
Ma si s’avverat cuddu terremotu,
su chi Giagu Siotto est preighende,58
puru sa poveres’hat haer votu.
Happ’a bider dolentes esclamende:
«Mea culpa», sos viles prinzipales;
palatos e terrinos dividende.
Senza distinziones, curiales
devimus esser, fizos d’un’insigna,
liberos, rispettados uguales.
Unu die sa povera Sardigna
si naiat de Roma su granariu;
como de tale fama no nd’est digna.
Su jardinu, su campu, s’olivariu
d’unu tempus antigu, s’est mudadu
ind’unu trist’ispinosu calvariu.
Buscos chi mai b’haiat intradu
rajos de sole, miseras sacchettas
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POESIAS
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hant bestid’e su log’hant ispozzadu.
Arvures chi pariant pinnettas,[3]
pro ingrassare su continentale,
affrontadu hant undas e marettas.
Inue tott’es passada s’istrale
pro seculos e seculos, de zertu
si det bider funestu su signale.
Vile su chi sas giannas hat apertu
a s’istranzu pro benner cun sa serra
a fagher de custu log’unu desertu.
Sos vandalos, cun briga e cuntierra,
benint dae lontanu, a si partire
sos fruttos, da chi si brujant sa terra.
Isperamus chi prestu hat a finire
cust’istadu de cosas dolorosu:
meda semus istancos de suffrire.
Guai si no essère isperanzosu
in fiores donosos e galanos,
de cuddos c’hant profumu virtuosu.
Mancar’in testa giuta pilos canos,
sa mente sognat e su coro bramat
pro custa terra rosas e beranos.
Su coro meu galu s’infiamat,
su chizu, privu d’unu chizu ermosu,
amarissimas lagrimas derramat.
Tue, chi ses gentil’e amurosu,
cumpatimi, s’iscrio dae nou
non mi nelzas seccant’e infadosu.
Si ti suvvenis de s’ammigu tou,
cumandalu ch’est pront’a ti servire:
tottu est chi lu ponzas a su prou.
Deo, già l’ischis, so pro mi partire,
abbrevia pro cussu, e prontamente
de coment’istas donam’a ischire.
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Si no mi podet benner de repente
su colpu tristu ch’isettende so:
tand’iscrittu m’has haer vanamente.
Ancora ses a tempus, ajò,
a’ custa ’oghe non ti mustres mudu;
tue de coro duru non ses, no.
Anzis istadu semper ses s’azzudu,
su cunfortu, s’ispera ’e su mischinu,
duncas azzetta su meu saludu,
ca ti lu mandat s’amigu
Peppinu.
A NANNI SULIS [II]
[3. ‘Capanne utilizzate specialmente dai pastori per trovarvi riparo, anche con le greggi’ (cfr. DES, s.v. pínna).]
Eccomi di nuovo a infastidirti / con le mie solite cattive nuove, / perché buone non te ne posso dare. // Maggio è fiorito e vestito a festa,
/ a tutti dà allegria: il dolore / su di me ha sparso tristi ali. // Che importa se sogno un fiore, / una viola amabile e gentile, / quando nel
mio petto è morto amore? // Ho conosciuto il tempestoso aprile / di
questa vita che sto trascorrendo / conoscendo la notte all’albeggiare.
// Ogni qual volta la Speranza «andiamo!» / mi ha detto, ho chiesto
un sorriso, / ma la Sventura mi ha risposto: «No». // Mi ritrovo separato dalla vita, / il corpo per l’ultimo viaggio, / aspetta serenamente
l’avviso. // Ora mi tocca dare saggio / di fermezza, la mia sepoltura /
è scavata e m’infonde coraggio. // O forse che il figlio della sventura, / alla vista della falce mietitrice, / si deve vestire coi panni della
paura? // È vero, sì, sono ancora all’aurora / degli anni, ma se è decretato / e devo morire, non temo quell’ora. // Cosa faccio al mondo
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POESIAS
disamato, / afflitto da mille gravi pene? / Meglio in una fossa, sotterrato. // Il sangue ho secco nelle vene, / stanco e sfinito il corpo, / va
trascinandosi e si regge appena. // Sono giovane e mi chiamano vecchio, / e con ragione mi dicono scimmia, / quando a passeggio porto il bastone. // Ora non posso saltellare / come saltellavo un tempo
/ perché mi hanno fatto una corona di pervinca. // I migliori anni
della gioventù / li trascorro suonando la campana / che annuncia la
mia triste fine. // Quale, quale sarà quella fata / che al corso dei miei
anni / ha cinto il funesto laccio? // Quando ho invocato le gioie / di
un riso amorevole, una carezza, / ho avuto dolori e tristezza. // Possibile che non sia stato degno / mai di incontrare affettuoso / e sorridente uno sguardo benevolo? // Dacché mi trovo in questo stato doloroso, / da me si sono allontanati: / non si trova un cuore pietoso.
// Gli amici, in questa malasorte, / hanno fatto finta di compiangermi, / e mi hanno lasciato con la croce in spalla. // Io però, per il mio
carattere, / mai mi sono piegato a gente simile, / chiedendo un Simone Cireneo. // Soffro in segreto e non m’inchino mai: / umiliarmi a
cuori marrani, / prima di conoscere quell’ora: guai! // Forse se avessi
leccato certe mani / ora starei nuotando nella ricchezza, / a danno
dei nostri paesani. // Ma prima di commettere una viltà / a danno dei
miei compatrioti, / mi onoro della mia povertà. // Mi danno rabbia
certi signorotti, / teste di legno e spiantati, / che si vantano di esser
ricchi e dotti. // Se li vedessi come sono cambiati, / passeggiano per
mostrare la bacchetta / e abiti non ancora pagati. // In paese fanno
la marionetta, / spudorati! Con le loro perfide trame / son vermi che
intorbidano l’acqua pura. // Sono la disperazione di tante mamme /
che nelle figlie vogliono coltivare / viole di virtù e buona reputazione. // Diffamare, ingannare e violare, / è un dovere per questi truffatori: / onestamente non sanno campare. // Io non so, i carabinieri, /
da noi che ci stanno a fare, / e non arrestano i bancarottieri. // Ci
vuole una forca e una fune, / e impiccare, impiccare di continuo, /
finché non si sia purgato il Comune. // Torni la legge di Villamarina:
/ perché il male non vada in cancrena / ci vuole come dottore l’aguzzino. // Vili che hanno meritato la catena, / hanno ingannato anche
la giustizia, / così si sono affrancati da ogni pena. // Mentre un povero bisognoso / che ruba per fame un pane, / lo vedi arrestato e condannato. // L’affamato che ruba un agnello / è condannato dai giurati / anche a dieci anni di reclusione. // E dire che ci sono palazzi
costruiti / dalla mano infame della rapina, / i padroni, ladri, sono
più amati! // La rosa in questi tempi è spina, / oggi la spina si chiama
rosa: / si paga la polvere per farina. // La lingua dell’infamia velenosa / se esiste una rosa gentile e bella / te la dipinge brutta e spinosa.
// Misero chi dorme per strada, / e nelle notti serene di luce / per lui
nel cielo non brilla una stella. // Poverino colui che va elemosinando
/ a chiedere un tozzo di pane / sulla soglia di qualche signore. // Il
ricco dà biscotti al cane, / e al povero dice: «Poltrone, / lavora e da
me stai lontano». // Chi non è stato bisognoso / è incapace di buone
azioni, / non può essere mai pietoso. // Tutti i poveretti sono poltroni / per chi è sazio, perché non hanno conosciuto / fame, affanni e
afflizioni. // Ma se s’avvera quel terremoto, / quello che Jago Siotto
va predicando, / anche la povertà avrà il voto. // Vedrò dolenti esclamare: / «Mea culpa», i vili padroni; / dividendo palazzi e terreni. //
Senza distinzioni, curiali / dobbiamo essere, figli d’un’insegna, / liberi, rispettati, uguali. // Un tempo la povera Sardegna / si chiamava il
granaio di Roma; / ora di tale fama non è degna. // Il giardino, il
campo, l’oliveto / d’un tempo antico, s’è tramutato / in un triste, spinoso calvario. // In boschi dove mai erano entrati / raggi di sole, misere sacchette / hanno introdotto, e hanno spogliato il terreno. // Alberi che sembravano pinnetas, / per ingrassare il continentale, /
hanno affrontato onde e marette. // Ovunque sia passata l’accetta /
per secoli e secoli, certamente, / si vedrà funesta la traccia. // Vile
colui che le porte ha aperto / allo straniero per venire con la sega / a
fare di questa terra un deserto. // I vandali, con liti e contese, / vengono da lontano, a ripartirsi / i frutti, perché bruciano la terra. // Speriamo che presto venga a cessare / questo stato di cose doloroso: /
siamo davvero stanchi di soffrire. // Guai se non fossi speranzoso /
in fiori belli e graziosi, / di quelli che hanno un profumo virtuoso. //
Sebbene abbia in testa capelli bianchi, / la mente sogna e il cuore
brama / per questa terra rose e primavere. // Il mio cuore ancora
s’infiamma, / l’occhio, privo di uno sguardo attraente, / sparge amarissime lacrime. // Tu, che sei gentile e affettuoso, / perdonami, se
scrivo di nuovo / non dirmi seccante e fastidioso. // Se ti sovviene
del tuo amico, / comandalo, perché è pronto a servirti: / tutto sta nel
metterlo alla prova. // Io sto per andarmene, lo sai, / affrettati per
questo, e prontamente / fammi sapere come stai. // Se no potrebbe
venirmi d’improvviso / il colpo triste che sto aspettando: / allora mi
avrai scritto invano. // Sei ancora in tempo, andiamo, / non restar
muto a questa voce; / tu non sei duro di cuore, no. // Anzi, sei sempre stato l’aiuto, / il conforto, la speranza dell’infelice, / dunque accetta il mio saluto, / perché te lo manda l’amico Peppino.
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A SIGNORINA S…
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si no est ch’innamoret su dimoniu.
E lesset sa ’ilgonza,
ponzat giudissi’e sic’assentet monza.
Cumpatat signorina,
pro esser purpurina
nelzat, da chi hat leadu sas tintas?
Non la miro pr’amore
ma miro cun dolore
in vostè cussas bellas formas fintas,
e so firm’in su parre
chi su modde chi mustrat no est carre.
In mancanza de pruppa
forsis s’hat post’istuppa
pro ammantare sas grinzas e fossos?
Seguru no nde seo,
ma la connosco, e creo
c’happet solu sa pedde cun sos ossos.
Cun sa sola camisa
zertu chi sa person’est pius lisa.
Su chi non dàt natura
a s’iscarna figura
bi lu procurat s’artifissiale.
Cun sas perlas anzenas
si connoschet appenas
ch’in cheia ch’est rutu su portale.
Sa ’ucca no aperit,
si no sa perla falsa s’iscoberit.
Cun pumas e fioccos,
mirende sos piccioccos
suspirat su dormidu matrimoniu!
Menzus penset ch’est fea,
deponzat cuss’idea
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A SIGNORINA S…
Perdoni signorina, / per esser porporina / dica, da chi ha comprato
le tinte? / Non la guardo per amore / ma guardo con dolore / in
voi quelle belle forme finte, / e sono fermo nel parere / che il molle che mostra non è carne. // In mancanza di polpa / forse s’è
messa stoppa / per coprire grinze e fossi? / Sicuro non sono, / ma
la conosco, e credo / che abbia solo la pelle con le ossa. /Con la
sola camicia / certo che la persona è più liscia! // Quello che non
dà la natura / alla scarna figura / lo procura l’artificiale. / Con le
perle d’altri / si riconosce appena / che nella chiesa è caduto il
portale. /La bocca non apre, / se no la perla falsa si scopre. // Con
piume e fiocchi / guardando i giovanotti / sospira il sopito matrimonio! / Meglio pensi che è brutta, / abbandoni quell’idea / se
non è che faccia innamorare il demonio. / E deponga la vergogna,
/ metta giudizio e si faccia monaca.
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POESIAS
ADDIO A NUORO
A Gavinangela C…
UNU BALLU IN MASCHERA
A Billiana S…
Terra fort’e gentile, custu cantu
est su saludu chi non t’happo dadu
in s’attu chi partinde, su piantu
cuss’estremu consolu mi hat negadu.
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Cale orfanu fizu, isconsoladu
passo sas dies, cun su coro affrantu,
suspirend’a Nuoro, profumadu
jardinu d’una rosa c’amo tantu.
S’anim’est temperad’a su dolore,
ma non si calmat su coro, mischinu,
c’hat perdidu s’amabile fiore.
Si torro pro fortun’a su jardinu
nde sego cussa rosa de amore,
e mi l’assento sorridente in sinu.
Tue no m’has connottu e pro femmina
leadu forsis m’has, ca sorridente
mi naiast: «Gentile mascherina,
prite ga’in su ballu ses dolente?».
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E mudende sa ’oghe, «Signorina»
eo ti nesi, «mi sent’ardent’ardente
in su cor’unu fogu». Repentina
has frittidu sa test’e diffidente
miradu m’has, e cun sos chizos graves
indovinare cheriast s’afflittu
chi cunsacradu t’hat sa vida totta:
e cun faeddos dulches e suaves
nadu m’has: «Chie ses?». Istesi zittu,
sa nott’has frastimadu sa carotta!
Cagliari, settembre 1893.
ADDIO A NUORO
UN BALLO IN MASCHERA
Terra forte e gentile, questo canto / è il saluto che non ti ho mai
dato / al momento in cui, partendo, il pianto / quella estrema consolazione mi ha negato. // Come un figlio orfano, sconsolato / passo i giorni, col cuore affranto, / sospirando a Nuoro, profumato /
giardino d’una rosa che amo tanto. // L’anima è temprata al dolore,
/ ma non si calma il cuore, poverino, / che ha perduto l’amabile
fiore. // Se per caso torno al giardino / coglierò quella rosa d’amore / e me la appunterò sorridente al petto.
Tu non mi hai riconosciuto e per donna / forse mi hai preso, perché sorridente / mi dicevi: «Gentile mascherina, / perché nel ballo
sei così dolente?». // E cambiando la voce: «Signorina» / io ti dissi,
«mi sento ardente ardente / un fuoco nel cuore». D’improvviso / hai
chinato la testa e diffidente // mi hai guardato, e con gli occhi gravi / volevi indovinare chi fosse l’afflitto / che ti ha consacrato tutta
la sua vita: // e con parole dolci e soavi / m’hai detto: «Chi sei?».
Stetti zitto, / quella notte hai maledetto la maschera.
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W…
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Muzere
Ue dias a esser fin’a como,
possibile chi non t’iscas emendare?
Bessidu chi che sias dae domo
non pensas e nè sentis de torrare.
Si no mudas penser’eo ti domo;
mira chi non ti torret a costare
de torrar’imbreag’a’ custas oras;
s’ater’ ’orta lu faghes corcas foras.
Maridu
Importat pag’a ti dar’a ischire
inue tottu cantu so istadu,
de bessire mi cheres proibire,
miserinu, a cosa so torradu!
Però si foras mi faghes dormire
de comente m’has como minettadu,
cando zocco sa janna e no abberis,
tando ti nd’ ’atto sos carabineris.
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Muzere
Non los fentomes sos carabineris
ca sunt pro ti che ponner in presone,
prite ses oziosu in sos zilleris,
maccu, mal’a sentire, imbreagone.
Dend’a pappar’a sos bangarrutteris,
de sos iscamminados ses dugone.59
In domo b’est sa famen’a benuju,
e tue pro su ticcu das su tuju!
Maridu
Mal’happes tue cun s’imbreaghera,
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de t’intender gosie so istancu:
la chi frastimes a sa caffettera,
cussa gia’ mi l’arrangiat su fiancu;
ses in domo che femmina partera,
dogni die nde cheres unu francu.
Tottu ti lu dissipas in decottos,
zicculatte, rosoli’e biscottos.
Muzere
It’est su chi ses nende, faularzu?
Da eri notte cand’hamus chenadu
m’has lassad’in sa cass’unu chivarzu,
non cretas chi mi l’happe mandigadu,
l’happo chistid’a ti prenner s’iscarzu:
pro te happo suffrid’e jaunadu.
Lassadu non m’has pranzu no m’has chena,
nè corcada mi so a brente piena.
Maridu
Cantu diliga ses e amurosa!
Su chivarzu a mie has cunservadu,
signal’es c’has pappadu menzus cosa:
puzzone chi non biccat hat biccadu.
S’istada fist de zibu bisonzosa
su chivarzu l’haiast mandigadu.
Cunservad’has a mie su cogone,
ca t’has pappadu su menzus buccone.
Muzere
Cale det esser su menzus buccone
ch’eo m’appo pappad’a fur’a tie?
Forsis det esser sa pet’ ’e anzone,
sa chi mi ses pighende dogni die?
A mandigare pan’ ’e chilinzone60
abituada non fia gosie.
De sa gana no isto manch’in pè,
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POESIAS
rejon’est chi mi fetta su caffè.
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Maridu
Paret chi non fist mancu abituada
a mandigare seppia e triglia,
pappaiast cogon’e aringada,
ca fist de miserabile famiglia:
in domo mia ti ses ingrassada
e da cussu no sentis pius briglia.
Pro t’ingrassare mi so ruinadu,
mal’happe deo chi t’happo leadu.
Muzere
Bae chi deo non fia gasie,
famene nè bilgonz’happo proadu:
como sì, so torrada che a tie
cando m’has a isposa dimandadu,
ca si no iast incappad’a mie
fiast ancor’a calzon’isfundadu.
Cando t’happo leadu pro maridu
in doda chent’iscudos t’happ’ ’attidu.
Maridu
De cussos chent’iscudos nd’happ’ispesu
trinta pro su caffè a macchinetta,
a mie mi nd’has dadu trinta e mesu,
già ti los happo leados in petta,
trinta iscudos e unu cagliaresu
los has ispesos pro una fardetta,
e de sos sette francos e chimbanta
ti nd’has leadu de lana una manta.
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Muzere
Troppu prest’has perdìdu sos arrancos
de tantas mias bonas aziones!
Ammentadinde de sessanta francos
chi happ’ispes’a ti fagher carzones,
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cando giughiast nudos sos fiancos
espost’a beffes e zitassiones:
non l’happ’ispes’in su caffè cun ou,
ma solu pro ti ponner fundu nou.
Maridu
Tando pro m’affundare su carzone
deves giugher sas manos cancaradas?
Cussu ti toccat de obbligassione,
no ca ti tenzo pro pappar’ ’e badas:
si mi hant fatt’una zitassione
tue macaca mi l’has has chircadas;
leende caffè a fide in sas buttegas,
ti lu dant, ti lu buffas e ti negas.
Muzere
Bae chi deo so ancor’in sè,
de sentidu non so galu guasta,
nemmancu pro tres unzas de caffè
sos benes meos des bider a s’asta:
tue sì, maccu, non istas in pè,
ca t’hat cumbintu su ’in’ ’e s’Ozasta.
Buffas che unu turcu e t’imbreagas,
deves a tottus e a nemos pagas.
Maridu
Naras chi mai stada ses zitada,
cuss’a su narrer tou est una proa!
Sos benes has lassad’a chie nd’hada,
no siet chi ti pighent a sa coa!
Ses una caffetter’ismanigada,
ma ti dent ponner sa maniga noa.
Suni nalzende chi sa zente truffas
prite non pagas su caffè chi buffas.
Muzere
Bae chi pro tres unzas de caffè
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non m’hasa a bier, no, in tribunale:
tue bi podes istare pius de me,
ca t’imbreagas, su porcu mannale;
como ch’est como non firmas in pè,
attentu pro su codice penale.
Su tribunale non chirches a mie
Pertunghefustes, ca deghet a tie.
Maridu
Siet finida custa chistione,
cagliadi muda e lassami dormire;
non cherzo brigas nè confusione,
es tempus custa beffa a la finire,
dogni notte mi faghes su sermone,
balla c’a beru ses mal’a sentire.
Abboghinende credes chi ses bella,
e ses su ris’ ’e totta sa carrella.
Muzere
Tue ses su beffadu ’e su mundu,
sos bonos già ti leant su fiagu.
Giughes sos pantalones senza fundu
e ses in sos zilleris imbreagu!
Da ch’in domo no istas, vagabundu,
feti non pig’a m’infilare s’agu
a su ness’a ti ponner unu puntu,
iscamminadu, cherveddi pertuntu!
Maridu
S’has faccia manna de agos faedda,
e a ite mi naras vagabundu?
Si non fist vissios’e mandronedda
fia su lizzu de tottu su mundu.
Balla, si coghes cos’in sa padedda
pappas pro finas a bider su fundu!
Tue divoras in domo, sola, e pappas,
ma sas birgonzas mias non las tappas.
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Muzere
Si cheres assentada sa persone
senza frenu no andes a iscappu:
non si vivet faghinde su mandrone,
lassa su ’inu e leadi su zappu,
tand’has haer gianchett’e pantalone,
ma si non mudas vida non has tappu.
Anzis si sighis gai, prestu, prestu,
nd’has a perdere su fund’e’ su restu.
Maridu
Gai cheres chi bande a zappittare,
e a lassare su binu pro su piccu?
E tue istas in dom’a iscazzare
sa zorronada mia in su limbiccu!
Si lu fatto ti nd’has a buffonare
buffende su decott’a tic’a ticcu,
e forsis has a narrer cun recreu:
«A sa salude de maridu meu!».
Muzere
Bae chi deo non ispendo gai,
anzis su punzu meu est mes’avaru;
caffè a cua no nde fatto mai,
già so padron’ ’e lu fagher in giaru;
ma no nde buffo ch’est unu guai,
prima de tottu ca su caff’est caru,
segundariamente, des cumprender,
c’happo pagos dinaris de ispender.
Maridu
Consumad’has dinaris e sienda
tottu cant’in decottu ti l’has bijdu.
A una buttegher’has dad’in prenda
finamente s’aneddu ’e s’affidu!
Caffè a bustu caffè a merenda,
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POESIAS
manten’a cuppas poveru maridu!
Frundìdu c’has dae domo milli trastos
dados in pignu pro pagare gastos!
Moglie – Dove saresti stato fino ad ora, / possibile che non sappia
ravvederti? / Una volta uscito di casa / non pensi né ti preoccupi di
tornare. / Se non cambi atteggiamento io ti domo; / bada che non ti
ricapiti / di tornare ubriaco a queste ore, / se lo fai un’altra volta dormi fuori. // Marito – Importa poco farti sapere / dove sono stato, / mi
vuoi proibire di uscire, / poveretto, a cosa son ridotto! / Però se fuori
mi fai dormire / come adesso mi hai minacciato, / quando busso alla
porta e non apri, / allora ti chiamo i carabinieri. // Moglie – Non nominare i carabinieri / perché stanno per metterti in prigione, / perché
stai ozioso nelle bettole, / stolto, impenitente, ubriacone. / Dando da
mangiare ai bancarottieri, / sei condottiero dei traviati. / A casa c’è la
fame alle ginocchia, / e tu dai il collo per un goccio. // Marito – Che
ti venga un male con questa ubriachezza, / sono stanco di sentirti così: / maledici invece la caffettiera, / quella sì che mi sistema; / stai a
casa come una puerpera, / ogni giorno vuoi una lira. / Spendi tutto
in decotti, / cioccolato, rosolio e biscotti. // Moglie – Cos’è che stai dicendo, bugiardo? / Da ieri notte, quando abbiamo cenato, / mi hai
lasciato nella cassa un pane di crusca, / non credere che me lo sia
mangiato, / l’ho conservato per riempirti il gozzo: / per te ho patito
e digiunato. / Non mi hai lasciato né pranzo né cena, / né mi sono
coricata con la pancia piena. // Marito – Quanto sei delicata ed amorevole! / Il pane di crusca hai conservato per me, / è segno che cibo
migliore hai mangiato: / uccello che non becca ha già beccato. / Se
fossi stata bisognosa di cibo / avresti mangiato il pane di crusca. / Mi
hai conservato il pane / perché ti sei mangiata il miglior boccone. //
Moglie – Quale sarebbe il miglior boccone / che mi sono mangiata di
nascosto da te? / Forse sarebbe la carne d’agnello, / quella che mi stai
comprando ogni giorno? / Mangiare pane di crusca, / non ero così
abituata. / Dalla fame neppure mi reggo in piedi, / motivo per cui mi
faccio il caffè. // Marito – Pare che neppure fossi abituata / a mangiare seppia e triglia, / mangiavi pane e salacca, / perché eri di famiglia
miserabile: / a casa mia ti sei ingrassata / e per quello non senti più
la briglia. / Per ingrassarti mi sono rovinato, / che abbia un male io
che ti ho pigliato. // Moglie – Va’ che io non ero così, / né fame né
vergogna ho provato: / ora sì, mi sono ridotta come te / quando mi
hai chiesto in sposa, / perché se non fossi incappato in me / saresti
ancora col pantalone sfondato. / Quando ti ho preso come marito /
in dote cento scudi ti ho portato. // Marito – Di quei cento scudi ne
ho speso / trenta per il caffè macinato, / a me ne hai dato trenta e
mezzo, / già li ho spesi per te in carne, / trenta scudi e un cagliarese
/ li hai spesi per una gonna, / e da sette lire e cinquanta / ti sei comprata una coperta di lana. // Moglie – Troppo presto hai perduto la
traccia / di tante mie buone azioni! / Ricordati delle sessanta lire /
che ho speso per farti i calzoni, / quando avevi i fianchi nudi / esposto a beffe e provocazioni: / non li ho spesi per il caffè con l’uovo, /
ma per farti il fondo nuovo. // Marito – Allora per farmi il fondo del
pantalone / devi avere le mani rattrappite? / Quello ti spetta come
obbligo, / non perché ti mantengo per mangiare a sbafo. / Se mi
hanno sbeffeggiato / tu sciocca me l’hai procurato; / prendendo caffè
a credito nelle botteghe, / te lo danno, te lo bevi e ti neghi. // Moglie
– Va’ che io sono ancora in me, / ancora non sono priva di senno, /
neppure per tre once di caffè / vedresti i miei beni all’asta: / tu sì,
sciocco, non stai in piedi, / perché t’ha “convinto” il vino d’Ogliastra.
/ Bevi come un turco e t’ubriachi, / devi a tutti e nessuno paghi. //
Marito – Dici che non sei mai stata citata, / quello a tuo dire è una
prova! / I beni li hai lasciati a chi ne ha già, / non capiti che ti acchiappino per la coda! / Sei una caffettiera smanicata, / ma ti metteranno il manico nuovo. / Stanno dicendo che truffi la gente / perché
non paghi il caffè che bevi. // Moglie – Va’ che per tre once di caffè /
non mi vedrai, no, in tribunale: / tu puoi starci più di me, / perché ti
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ubriachi, il porco da ingrasso; / ora come ora non ti reggi in piedi, /
attento al codice penale. / Per il tribunale non cercare me / Picchio,
perché si addice a te. // Marito – Finisca questa questione, / sta’ zitta
e lasciami dormire, / non voglio né liti né confusione, / questa beffa
è tempo di finire, / ogni notte mi fai il sermone, / certo che sei davvero impenitente. / Gridando credi di esser bella, / e sei il riso di tutta la via. // Moglie – Tu sei lo sbeffeggiato dal mondo, / gli accorti già
ti prendono la traccia. / Hai i pantaloni senza fondo / e stai nelle bettole ubriaco! / Già che non stai a casa, vagabondo, / certo non mi
metto a prender l’ago / almeno per metterti un punto, / traviato, cervello bucato! // Marito – Se hai faccia tosta parla d’aghi, / e perché
mi chiami vagabondo? / Se non fossi viziosa e poltrona / saresti il giglio più bello di tutti. / Accidenti, se metti qualcosa in pentola / mangi fino a vederne il fondo! / Tu divori a casa, sola, e mangi, / ma le
mie vergogne non le tappi. // Moglie – Se vuoi la persona ordinata /
non andare in giro senza freno: / non si vive facendo il poltrone, / lascia il vino e prendi la zappa, / allora avrai giacca e pantalone, / ma
se non cambi vita non hai fondo. / Anzi, se continui così, presto, presto, / perderai il fondo e il resto. // Marito – Così vuoi che vada a
zappettare, / e a lasciare il vino per il piccone? / E tu stai a casa a
sprecare / la mia giornata con l’alambicco! / Se lo faccio ti farai beffe
di me / bevendo il decotto goccio a goccio, / e forse dirai con soddisfazione: / «Alla salute di mio marito!». // Moglie – Va’ che io non
spendo così, / anzi la mia mano è mezzo avara; / caffè di nascosto
non ne faccio mai, / che sono padrona di farlo normalmente, / ma
non ne bevo chissà quanto, / prima di tutto perché il caffè è caro, /
secondariamente, lo devi intendere, / che ho pochi soldi da spendere. // Marito – Hai consumato denari e beni, / tutto quanto te lo sei
bevuto in decotto. / A una negoziante hai dato in pegno / perfino
l’anello nuziale. / Caffè a pranzo, caffè a merenda, / fatti coraggio,
povero marito! / Hai dato via mille utensili da casa / dati in pegno
per pagare spese! // … / … / … / … / … / … / … / …
SA TERACCA MIA
Oh cantas mi nde faghet sa teracca!
«Teracca» naro, ma est sa padrona:
una bezza isdentada tabaccona,
no est pizzinna, risulana e macca.
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Degh’annos chi mi servit cun fiacca,
ancora est a nde fagher una ’ona;
issa est una grande maccarrona:
comporat taulas pro petta de ’acca.
Pro mi leare unu chilu de petta
deris l’happo intregadu unu marengu
che cando veramente essera riccu.
Torra sa serva; dae sa valdetta
rie rie nd’istaccat unu arengu
che a issa nieddu feu e siccu.
LA MIA SERVA
Oh quante me ne fa la serva! / «Serva», dico, ma è la padrona: / una
vecchia sdentata tabaccona, / non è giovane, ridanciana e matta. //
Da dieci anni mi serve con fiacca, / ancora non ne ha fatto una buona; / è una grande pasticciona: / compra tavole per carne di vacca.
// Per comprarmi un chilo di carne / ieri le ho dato un marengo /
come quando ero davvero ricco. // Ritorna la serva; dalla gonna /
sorridendo tira fuori un’aringa / come lei nera brutta e secca.
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POESIAS
SU MINESTRONE
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Già chi tantu t’aggradat sa minestra
ti do de minestrone unu piattu.
Est male coghinadu e a sa lestra,
fogu ’e linna ’irde l’happo fattu,
ma si nd’assazas una trudda solu
t’agatas prontamente soddisfattu.
B’hat fae, b’hat lentiza cun basolu,
patata, caule cun concas de raba,
cottas in su matessi labiolu.
Su cundimentu est de ozu ’e craba,
ca non tenia nè lardu nè sumene:
chie non tenet mele ponet saba.
B’has agatare fittas de cugumene,
cosa lizera pro sa gente sana
chi non faghet nè pesu nè ballumene.
B’happo postu unu pagu ’e denziana,
ranziga cantu est ranziga sa china,
però a mandigare ’attit sa gana.
B’happo ’ettadu tres fozas de pimpina,
e si b’hat calchi cosa mesu crua
est chi b’hat de armuttu raighina.
Postu l’happo cicuta e pagu lua:
mancari nelzan chi est velenosa,
pappa, chi hat esser sa salude tua.
Si comente no haia menzus cosa,
pro poder pienare sa padedda
l’happo postu unu mazzu ’e pigulosa.
Aligarza, fenuju e lattaredda
e pro fagher su brodu piùs licanzu
una tazza de latte ’e feruledda.
Un’iscia mi pariat brodu lanzu:
l’happo minadu un’ou de istria,
attentu non cumbìdes calchi istranzu.
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Podes cumprender, custa porcheria
est indigesta pro sos delicados
ca b’hat erbas de ogni genia.
Cuddos chi non bi sunu abituados
e non s’abbizant de su minestrone,
si nde mandigant, morint velenados.
Duncas ti prego: dona attenzione
de non nde dare a su primu famidu,
mira ch’est zerta s’indigestione!
Si a tie happo fattu su cumbidu
est ca ses de istogomo provadu
e non t’offendet nessunu cundidu.
Mandiga duncas senza coidadu,
a tie zertu non ti faghet male
mancu sa lua chi l’happo misciadu.
Giughet pibere meda e pagu sale
ei sos trunzos chi bi sunu in mesu
nde tiran dae ’ucca su murrale.
Tue però chi a tottu ses avvesu
dês esclamare: «Ite zibu lichittu
est custu minestrone tonaresu!».
Anzis si ses in ora de appitittu
ti devet esser grata sa ludura
e timo chi cummittas su delittu
de ti ’ender sa prima genitura.
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POESIAS
A SIGNOR TANU
5
IL MINESTRONE
Già che ti piace tanto la minestra / ti do di minestrone un piatto. / È
mal cucinato e alla svelta, // con fuoco di legna verde l’ho fatto, /
ma se ne assaggi un mestolo solo / resti prontamente soddisfatto. //
Ci sono fave, lenticchie con fagioli, / patate, cavoli con teste di rapa, / cotte nello stesso paiolo. // Il condimento è di grasso di capra,
/ perché non avevo né lardo né sugna: / chi non ha miele mette sapa. // Ci troverai fette di cetriolo, / roba leggera per la gente sana /
che non fa né peso né volume. // Ci ho messo un po’ di genziana,
/ amara quanto è amara la china, / però fa venir voglia di mangiare.
// Ci ho messo tre foglie di capelvenere, / e se c’è qualche cosa
mezza cruda / è perché c’è radice d’asfodelo. // Ci ho messo cicuta
e un po’ di euforbia: / anche se dicono che è velenosa, / mangia,
che sarà la tua salute. // Siccome non avevo di meglio, / per poter
riempire la pentola, / ci ho messo un mazzo di parietaria. // Ravanelli, finocchi e latteruola / e per fare il brodo più appetitoso / un
bicchiere di latte di ferula. // Il brodo magro mi sembrava un acquitrino: / ci ho mischiato un uovo di gufo, / attento a non invitare
qualche forestiero. // Puoi capire, questa porcheria / è indigesta per
le persone delicate / perché c’è erba di ogni tipo. // Quelli che non
ci sono abituati / e non si accorgono del minestrone, / se ne mangiano muoiono avvelenati. // Dunque ti prego: fai attenzione / a
non darne al primo affamato, / guarda che è certa l’indigestione! //
Se è te che ho invitato / è perché sei di stomaco provato / e non
t’offende nessun condimento. // Mangia dunque senza preoccupazione, / a te certo non ti fa male / neppure l’euforbia che vi ho mescolato. // Ha molto pepe e poco sale / e i torsoli che ci sono in
mezzo / strappano di bocca la cavezza. // Tu però che a tutto sei
avvezzo / esclamerai: «Che cibo squisito / è questo minestrone tonarese!». // Anzi, se hai appetito / deve risultarti gradita la lavatura / e
temo che commetta il delitto / di venderti la primogenitura.
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Gentile signor Tanu, happo rezzidu
de vostè sa carissima littèra
cuntenente pro me unu cumbidu.
Li promitto de fagher sa manera
de no mi dimustrare negligente
a sa gentile sua preghiera.
Permittat chi cunfesse francamente
chi deo non creia a tantu onore:
ancora nde so mesu diffidente.
Una ’oghe mi nât: «Meneschidore
non ses de ti portare a su Parnasu
pro limare su versu a s’autore».
Puru cun tottu deo persuasu
chi non sia vostè adulatore
de cussa ’oghe non nde fatto casu.
M’happ’a leare cura e cun ardore
unu sorrisu dimando a Talia
pro fagher a vostè custu favore.
Zert’est chi s’aritzesa poesia
giutt’a bulluzu dae tantas laras
si nd’hat perdidu sa forma nadia.
Cuddas castalianas abbas raras
perdid’han sa fatidica virtude:
puru cun tottu dênt torrare giaras.
Si m’assistit sa fisica salude
sos cantos de Bachis cherzo intender
in bucca a s’aritzesa gioventude.
So piseddu, però m’intend’azzender
s’allegra fantasia in su coro:
a sa dulche fadiga cherzo attendere.
Si torrant’a s’antiga form’issoro
sos versos de Bachis, est eclissada
sa fama de Cubeddu e Melchioro.
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POESIAS
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Andàd’a Macumele o a Pattada
sa lirica suave suliana
altamente dêt essere onorada.
Certu chi leo fadiga e mattana
pro separare dae milli venas
s’abba d’una frischissima funtana.
Trainos, rios suldos e pienas
han bulluzadu s’abba netta e pura,
sumid’in terras dulches e amenas.
Nessunu mai s’hat donadu cura
de coronare a laru su poete
ch’est clamende vinditta in sepoltura.
A mie solu mi toccat chi prete
ischidende su sonnu a custa zente
chi pro Sulis hat bidu abba ’e Lete.
De una cosa solu so dolente
ed est chi b’happo a ponner med’istentu
pro resissire una cosa dezente.
A sa musa m’invoco cun assentu:
cherzo ispuntare una misera lima
cun s’ispera de giungher’a s’intentu.
Onoradu mi sento de s’istima
chi vostè m’hat cherfidu professare
ponendemi a limare s’alta rima.
Semper de tue cherzo a mi trattare,
fizu cherzo a mi narrer cun amore
prîte orgogliosu nd’happ’andare.
Zertos mi dan su titulu ’e signore,
ma cussos non mi sun veros amigos
ca non vantant bandera nè colore.
Cun babbu meu in tempos antigos,
si faula no est, fistis che frades:
b’istat su fizu puru in sos obbligos.
Semper nemigu ’e sa disamistade
preighende su giustu cun anneu
so ruttu in pena de infermidade.
Su ch’est de Deu l’happ’a dare a Deu
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e a Cesare su sou, ma mai lintu
happo s’ispada tinta ’e samben meu.
Si gai cun vostè mi so dipintu
est chi sa cussienzia est segura
e nessunu mi podet narrer fintu.
Sinceru cun s’amigu in s’isventura
mai happo s’afflittu abbandonadu,
in coro meu non b’hat impostura.
Nemigu de su male so istadu,
poveru ma onestu, semper unu,
bintu sì, non però umiliadu.
De coro francu e a tottus cumunu,
mi la fatto cun poveros mischinos
chi opprimidos sunt de su digiunu.
Odio cuddos viles istrozzinos
chi dan dinare su chentu pro chentu
e ponent terras santas a camminos.
Fizu de su canudu Gennargentu,
bidende sas infamias terrenas,
provo in coro veru sentimentu.
Manos ch’hant meritadu sas cadenas
firmant libellos ignominiosos,
ponende sa virtude in graves penas.
Rettiles malaittos ischifosos
isparghende funestu su velenu
in custos sitos virdes e umbrosos.
E nois cun d’unu animu serenu
nos godimus in paghe s’ispettaculu
chi disonorat custu logu amenu.
A su male si ponzat un’ostaculu,
benefica si tendat una manu,
sa Barbagia est zega e cheret baculu.
Deo cunfido in signor Bustianu;
su credo sou dêt esser su meu,
a su villanu si gridet villanu.
Non s’ismentighet mai chi Mereu
est in Tonara prontu a lu servire
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POESIAS
e s’agatat in dolu e in recreu.
Basta. Como est ora ’e la finire,
ca so istadu troppu noiosu:
de s’infadu mi devet cumpatire.
Li mando unu saludu affettuosu
chi sinceru mi essit dae sinu;
s’amigu sou
Gentile signor Tanu, ho ricevuto / la vostra carissima lettera / contenente un invito per me. // Le prometto di fare in modo / di non dimostrarmi negligente / alla sua gentile preghiera. // Permetta che
confessi francamente / che io non credevo a tanto onore: / ancora
sono mezzo diffidente. // Una voce mi dice: «Degno / non sei di innalzarti al Parnaso / per limare il verso all’autore». // Pure con tutto
ciò, io persuaso / che voi non siate adulatore, / a quella voce non
faccio caso. // Mi prenderò cura e con ardore / chiedo un sorriso a
Talia / per fare a voi questo favore. // Certo è che l’aritzese poesia /
intorbidata da tante labbra / ha perso la forma natia. // Quelle castaliane acque rare / hanno perduto la fatidica virtù: / pure, con tutto
ciò torneranno chiare. // Se mi assiste la salute fisica / voglio sentire i
canti di Bachis / in bocca alla gioventù aritzese. // Sono ragazzo, però mi sento accendere / l’allegra fantasia nel cuore: / alla dolce fatica
voglio attendere. // Se ritornano alla loro forma antica / i versi di Bachis, è eclissata / la fama di Cubeddu e Melchiorre. // Giunta a Macomer o a Pattada / la soave lirica suliana / sarà altamente onorata.
// Certo che mi carico di fatica e travaglio / per separare da mille vene / l’acqua di una freschissima fontana. // Ruscelli, cupi fiumi e piene / hanno intorbidato l’acqua limpida e pura, / assorbita in terre
dolci e amene. // Mai nessuno si è dato cura / di coronare con alloro
il poeta / che sta chiamando vendetta nella sepoltura. // A me solo
tocca lottare / svegliando dal sonno quella gente / che per Sulis ha
bevuto acqua del Lete. // Solo di una cosa sono dolente / ed è che
ci vorrà molta tempo / perché riesca una cosa decente. // Invoco la
musa con impegno: / voglio spuntare una misera lima / con la speranza di giungere allo scopo. // Mi sento onorato della stima / che
voi mi avete voluto dimostrare / incaricandomi di limare l’alta rima.
// Voglio che mi si dia sempre del tu, / voglio che mi si chiami figlio
con amore / perché ne andrò orgoglioso. // Certi mi danno il titolo
di signore, / ma quelli non mi sono davvero amici / perché non vantano bandiera né colore. // Con mio padre in tempi antichi, / se non
è una bugia, eravate come fratelli: / negli doveri rientra anche il figlio. // Sempre nemico dell’inimicizia / predicando il giusto fra i
crucci / sono caduto nella sofferenza dell’infermità. // Quel che è di
Dio lo darò a Dio / e a Cesare il suo, ma mai leccato / ho la spada
tinta del mio sangue. // Se così con voi mi sono dipinto / è perché
la coscienza è sicura / e nessuno può definirmi finto. // Sincero con
l’amico nella sventura / mai l’afflitto ho abbandonato, / in cuor mio
non c’è impostura. // Nemico del male sono stato, / povero ma onesto, sempre uno, / vinto sì, non però umiliato. // Di cuore franco e
sodale con tutti, / sono amico di poveri infelici / che sono oppressi
dal digiuno. // Odio quei vili strozzini / che prestano denaro al cento
per cento / e fanno di luoghi sacri comuni strade. // Figlio del canuto Gennargentu, / vedendo le infamie terrene, / provo nel cuore vero sentimento. // Mani che hanno meritato le catene / firmano libelli
ignominiosi, / mettendo la virtù in gravi pene. // Rettili maledetti
schifosi / che spargono il funesto veleno / in questi siti verdi e ombrosi. // E noi con un animo sereno / ci godiamo in pace lo spettacolo / che disonora questo luogo ameno. // Al male si frapponga un
ostacolo, / si tenda benefica una mano, / la Barbagia è cieca e vuole
un bacolo. // Io confido nel signor Sebastiano; / il suo credo sarà il
mio, / al villano si gridi villano. // Non si dimentichi mai che Mereu /
è a Tonara pronto a servirla / e lo si trova in pena e in gioia. // Basta. Ora è tempo di finirla, / perché sono stato troppo noioso: / del
fastidio mi deve scusare. // Le mando un saluto affettuoso / che sinceramente mi esce dal petto; / il suo amico Mereu Peppino.
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Mereu Peppinu
A SIGNOR TANU
POESIAS
A NANNI SULIS [III]
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a Deus e ti lamentas
a issu pro sa trista infermidade
chi est bocchinde a chie
bisonzat sanu a seppellire a mie?
Guai si avanzes. Para,
falche ingrata. Non creo
chi nde cherzas messare unu fiore.
Porca assassina, nara:
forzis non bi so deo
lottende in d’unu mare de dolore?
Abbrevia sa mia
terribile agonia
ma salva custu gravellu de amore;
salva custu gentile
lizu, s’est chi non ses ingrata e vile.
Tue, o Crocifissu,
si la podes suspender,
para de Nanni sas afflissiones.
Ca si bocchis a issu
guai!, has a intender
dae me funestas malediziones.
In sa celeste isfera
sa mia preghiera
accetta: custu lizu non abbandones,
provvedi prontamente,
o salvalu o non ses onnipotente.
E tue, dulche Maria,
isposa e mamma ’e Deu,
piedade ti prego, piedade:
tue ses bona e pia,
salva s’amigu meu,
salva s’amigu meu,
salva s’amigu meu, unicu frade.
Prîte non ti presentas
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A NANNI SULIS [III]
Guai se avanzi. Fermati, / falce ingrata. Non credo / che voglia recidere un fiore. / Porca assassina, dì: / forse non ci sono io / a lottare
in un mare di dolore? / Accorcia la mia / terribile agonia / ma salva
questo garofano d’amore; / salva questo gentile / giglio, se è vero
che non sei ingrata e vile. // Tu, o Crocefisso, / se puoi porvi fine, /
di Nanni interrompi le afflizioni. / Perché se uccidi lui / guai! sentirai
/ da me funeste maledizioni. / Nella celeste sfera / la mia preghiera /
accetta: non abbandonare questo giglio, / provvedi prontamente, / o
lo salvi o non sei onnipotente. // E tu, dolce Maria, / sposa e madre
di Dio, / pietà ti prego, pietà: / tu sei buona e pia, / salva il mio amico, / salva il mio amico, / salva il mio amico, unico fratello. / Perché
non ti presenti / a Dio e ti lamenti / con lui per la triste infermità /
che sta uccidendo chi / serve sano per seppellire me?
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POESIAS
SA BOTTIGLIA
5
TITTI TITTIA
Semper a tie cherz’esser fidele,
mancari dure mill’annos in vida,
dae me onorada e riverida.
Comente in Samo sa fiz’ ’e Cibele,
tue pro me ses de Ibla su mele
massimu cando a luttu ses bestida;
e cando t’ ’ido de lagrimas prena
ti baso forte ca mi faghes pena.
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Titti,[4] ite frittu, ite notte infernale!
Su ’entu est in terribiles muilos,
astragadu est su meu cabidale,
s’astragu mi lu sento fin’a pilos.
Como non happo isperanza chi sane:
prestu si truncant sos debiles filos.
In sa bianca ’adde, addane addane,
annunziende sa triste fine mia
urulare s’intendet unu cane.
Titti, ite frittu, tittia tittia.
TITTI TITTIA
LA BOTTIGLIA
Sempre a te voglio esser fedele, / dovessi restare mille anni in vita, /
da me onorata e riverita. / Come a Samo la figlia di Cibele, / tu per
me sei di Ibla il miele / soprattutto quando a lutto sei vestita; / e
quando di lacrime ti vedo piena / ti bacio forte perché mi fai pena.
254
Titti, che freddo, che notte infernale! / Il vento terribilmente mugghia, / ghiacciato è il mio cuscino, / il freddo me lo sento fino ai capelli. / Ora non ho speranza di guarire: / presto si spezzano i deboli
fili. / Nella bianca valle, lontano lontano, / annunziando la triste fine mia / ululare si sente un cane. / Titti, che freddo, tittia tittia.
[4. Esclamazione onomatopeica che equivale a ‘che freddo!’ (cfr. DES,
s.v. tittir(r)ía).]
255
POESIAS
A ERNESTO MEREU
Sergente in su Geniu .1
25
Sa servidora mia, bell’e bova,
l’happ’intes’isclamare: «Signoriccu
ora p’ora est menzus de su chelu!».
[I]
Partidu ses a sos degheott’annos,
fist piseddu, isbarvadu e birgonzosu;
a vintunu ti bio a baffos mannos,
brunu, omine fattu e geniosu.
5
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Isco c’has isfidadu milli affannos,
ma los has vintos ca ses virtuosu,
e oe ses bestidu ’e tales pannos
chi eo nde so pro te orgogliosu.
Ses fentomadu tra bonas persones,
l’intendo deo su chi nât sa zente:
non bind’hat unu chi nde nerzat male.
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[II]
Sas pizzinnas nde contant un’ispantu,
non ti cuant s’insoro passione:
ti dànt pro fines titulu de santu,
senza rifletter’a s’isquadrone.
Restant che infulminadas de incantu
cando passas a zoccu de isprone.
De lizu raru ti dana su vantu,
tottas ti giamant su simpaticone.
1. Sonettos dittados in su settembre de su 1898 in occasione de una visita sua in famiglia [«Sonetti dettati nel settembre del 1898 in occasione
di una sua visita in famiglia»].
256
[III]
Già chi ti tenzo in domo pro bisitta,
allegros ambos faghimus barracca.
Como non ti disturbat sa trumbitta;
mandiga pur’a fiacc’a fiacca.
Su brou no est cottu in sa marmitta,
sa peta no est caddu, ma est bacca;
mandiga ca dèt esser ischisitta,
prite l’hat coghinada sa teracca.
Como dès olvidare sa pagnotta,
in parte nessi, si non totalmente:
mandiga ca sun tottas cosas sanas.
L’hana postu de oro sos gallones,
a vint’annos! Fulanu est già sergente!
si sighit gai benit caporale!
15
Si non lu credes ti nde do sa prova.
De virtudes ti faghent meda riccu:
prestu ti ponent in biancu velu.
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E’ sa tazza biedìla totta,
ca si torras de nou in continente
no nd’agattas de similes funtanas.
[IV]
Tra parentis però, unu difettu
in sas virtudes tuas happo bidu,
ed este chi dae cando ses benidu
non has bettadu faeddu in derettu.
Has lassadu su tou dialettu,
de varios limbazos ses cundidu.
Sos macacos ti credent istruidu,
ma tue has male mannu in s’intellettu.
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POESIAS
Ses a frastimos che unu marranu,
cando dès narrer ahi naras ohi:
duos faeddos non pones in liga.
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Como chi prallas tottu talianu,
finas a frade tou naras: «Voi,
sardo molente, non capisci miga!».
[V]
E raccontende faulas ti pistas,
e de su male tou non ti abbizas.
Nac’has isposas a mizas a mizas,
tottas contissas, però sunt modistas,
e sartinas ignobiles e tristas,
chi no s’ischit de chie siant fizas,
forsis amore veru nde disizas:
ecco tottu sas tuas cunquistas!
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A sos tontos los bogas dae sè –
si comente ses furbu aiz’aizu –
lis filas fune narende ch’est lana.
A sos bovos lis mustras unu neu,
e lis faghes a creder – cun ingannos –
ch’est ferida de daga furistera!
Sunt signos d’una ruta, caru meu,
dae cando teniast treig’annos;
fruttu d’una solenne imbreaghera.
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[VII]
Sos versos non ti causent dolore,
tocca sa tazza, e bibimus su binu.
Faghe sì chi a mie intro su sinu
oe torret s’antigu bon’umore.
Evviva! Sa bandera tricolore
t’assistat – a front’alta in su camminu
de sa virtude, sighi – su destinu
t’auguro chi ti siet in favore.
Ses ruzu, sanu, nerbiosu e forte;
sa Patria difende – unica mama
chi has in terra, donosa e gentile –.
A unu l’has contadu chi su Re
d’ogni sero, in pubblicu passizu,
ti regalat zigarros de Avana!!!
Cumbatti, creba! Non timast sa morte,
mai però a mie ’enzat sa fama
chi ses istad’unu sordadu vile.
[VI]
E nac’has tentu attaccos e duellos,
«fattu de zertas damas paladinu»
halzadu in fama de ispadaccinu,
nac’has bocchidu battor colonnellos!!
Tonara, 30 settembre 1898
Peppinu Mereu
Mira non siant battor carradellos
ch’has haer isciuttadu de su binu,
prite dae minore in camasinu
viviast sos momentos pius bellos.
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POESIAS
A ERNESTO MEREU [I]
Sergente nel Genio.
[I]
Sei partito ai diciott’anni, / eri ragazzo, imberbe e vergognoso; / a
ventuno ti vedo con grandi baffi, / bruno, uomo fatto e fascinoso.
// So che hai sfidato mille affanni, / ma li hai vinti perché sei virtuoso, / e oggi sei vestito con tali panni / che io ne sono per te orgoglioso. // Sei conosciuto fra buone persone, / lo sento io quel
che dice la gente: / non ce n’è uno che ne parli male. // Gli hanno
messo i galloni d’oro, / a vent’anni! Il tale è già sergente! / se continua così diventa caporale!
[II]
Le ragazze ne raccontano meraviglie, / non ti nascondono la loro
passione: / ti danno persino titolo di santo, / senza pensare allo
squadrone. // Restano come fulminate d’incanto / quando passi a
suon di sperone. / Di giglio raro ti danno il vanto / tutte ti chiamano il simpaticone. // Se non lo credi te ne do la prova. / Di virtù ti
fanno assai ricco: / presto ti metteranno in bianco velo. // La mia
serva, bella e sciocca, / l‘ho sentita esclamare: «Signorino / ora come ora è meglio del cielo!».
[III]
Già che sei a casa in visita, / entrambi allegri facciamo baldoria. / Ora
non ti disturba la trombetta; / mangia pure con calma. // Il brodo
non è cotto nella marmitta, / la carne non è cavallo, ma è vacca; /
mangia che dev’essere squisita, / perché l’ha cucinata la serva. // Ora
devi dimenticare la pagnotta, / almeno in parte, se non totalmente: /
mangia, che sono tutte cose sane. // E il bicchiere bevilo tutto, / perché se torni di nuovo in continente / non ne trovi simili fontane.
[V]
E ti arrabatti a raccontare bugie, / e del tuo male non ti accorgi. /
Dici che hai fidanzate a migliaia, / tutte contesse, però sono modiste, // e sartine ignobili e tristi, / che non si sa di chi siano figlie; /
forse desideri amore vero: / ecco tutte le tue conquiste! // I tonti li
freghi da soli – / siccome in fondo in fondo sei furbo – / gli fili
corda dicendo che è lana. // Ad uno hai raccontato che il Re / ogni
sera, nel passeggio pubblico, / ti regala sigari Avana!!!
[VI]
E si dice che hai partecipato ad attacchi e duelli, / «di certe dame
fatto paladino», / innalzato a fama di spadaccino, / dici di aver ucciso quattro colonnelli. // Bada non siano quattro botti / di vino
che devi aver prosciugato, / perché da piccolo in cantina / vivevi i
momenti più belli. // Agli stolti mostri un neo, / e gli fai credere,
con gli inganni, / che è la ferita di una daga straniera! // Sono segni di una caduta, caro mio, / di quando avevi tredici anni; / frutto
di una solenne ubriacatura.
[VII]
I versi non ti causino dolore, / tocca il bicchiere, e beviamo il vino.
/ Fai sì che a me dentro al petto / oggi ritorni l’antico buonumore.
// Evviva! La bandiera tricolore / ti assista, a fronte alta nel cammino / della virtù, continua; il destino / ti auguro che ti sia favorevole. // Sei giovane, sano, nerboruto e forte; / difendi la Patria, unica
madre / che hai al mondo, bella e gentile. // Combatti, crepa! Non
temere la morte, / mai però a me giunga voce / che sei stato un
soldato vile.
[IV]
Tra parentesi però un difetto / ho visto fra le tue virtù, / ed è che
da quando sei venuto / non hai detto una parola corretta. // Hai
abbandonato il tuo dialetto, / con vari linguaggi sei condito. / Gli
sciocchi ti credono istruito, / ma tu hai un grave male nell’intelletto. // Imprechi come un marrano, / quando devi dire ahi dici ohi:
/ non metti assieme due parole. // Ora che parli solo italiano / anche a tuo fratello dici: «Voi, / sardo molente, non capisci miga!».
260
261
POESIAS
IN CONZILIATURA
SU SOCIALISTA A UNA BIGOTTA
Attore e Conziliadore.
5
Attore
Su testimonzu cherzo interrogadu
chi rispundat a terminos de lè.
A mie però mi paret chi vostè
siat unu giuighe comporadu.
Conziliadore
State zitto! Mi cherzo rispettadu,
o su Procuradore de su Re,
si ses mancante, ti torrat in sè;
tando ’ides si falsu so istadu.
Attore
Miret signor Giuigh’eo nd’iscrio,
de custu, a su Pretore. Mi nde appello,
giustissia dimando: non perdono.
10
Conziliadore
[I]
De cando ses cun sa cunfessione,
non faeddes de Santos, bene meu:
comente cheres chi mi ponza in Deu
da chi ses tue sa tentazione?
5
10
15
IN CONCILIATURA
Attore e Conciliatore.
Attore – Voglio che il testimone interrogato / risponda a termini di
legge. / A me però sembra che vossignoria / sia un giudice comprato. // Conciliatore – State zitto! Mi voglio rispettato, / o Procuratore del Re, / se sei fuor di senno ti riporta in te; / allora vedi se
falso son stato. // Attore – Guardi signor Giudice io ne scrivo, / di
questo, al pretore. Mi appello, / domando giustizia: non perdono.
// Conciliatore – Di questo non parlate, giudico io, / stia zitto, se
no la condanno, / e poi vi faccio vedere chi sono io!
262
Lassa sos Santos, faedda de affettu:
chi finas cun su chelu so a prima
pro mesu ch’happo a tie intro su pettu.
Ma si falsu non est chi m’has istima,
pagu seguru tenzo custu lettu,
istuda sa candela, abarra firma.
Questo non prallate, giudico io,
stia zitto, se no condanno ad Ello,
e poi vi faccio vedere cosa sono!
Tonara, 27 gennaio 1899.
Peppino Mereu
Ma si abberu m’has affezione,
beni e dami unu basu cun recreu;
lassa sos santigheddos d’ozu seu,
basa a mie, non bases su mattone.
20
25
[II]
Bianca, non lu nego, ses bianca,
in biancura superas su lizu,
però cando t’hant postu su battizu
t’hana fattu sa rughe a manu manca.
Tue giughes chelveddos de corranca,
t’hana postu su sale aizzu aizu
chi finas in su pubblicu passizu
curres a musca che trau in sa tanca.
Giughes sa musca, però non t’abbizas
chi ti faghet andare furiosa,
pro cussu faghes cussu passu istranu.
263
POESIAS
Narami it’est su chi tottu disizas,
beni a mie, non istes birgonzosa
ca su chi chircas tue l’happo in manu.
ANIMA NIEDDA
5
10
15
IL SOCIALISTA A UNA BIGOTTA
[I]
Basta con la confessione, / non parlare di Santi, bene mio: / come
vuoi che mi accosti a Dio / quando sei tu la tentazione? // Ma se
davvero provi affetto per me, / vieni e dammi un bacio con piacere;
/ lascia i santini d’olio di sego, / bacia me, non baciare il mattone. //
Lascia i Santi, parla d’affetto: / che anche col cielo sono in discordia
/ per il fatto che ho te nel cuore. // Ma se non è falso che mi ami, /
trovo poco sicuro questo letto, / spegni la candela, resta ferma.
[II]
Bianca, non lo nego, sei bianca, / in biancore superi il giglio, / però quando t’hanno battezzata / ti hanno fatto la croce con la sinistra. // Hai il cervello di una cornacchia, / ti hanno messo il sale
appena appena, / così che perfino nel passeggio pubblico / corri
nervosamente come il toro nella chiusa. // Hai l’assillo, però non
t’accorgi / che ti fa diventare furiosa, / perciò fai quel passo strano.
// Dimmi cos’è che vuoi, / vieni a me, non essere vergognosa /
perché ciò che tu cerchi ce l’ho in mano.
264
20
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30
Omine venale, tristu e vile,
de cantos peccados has esser reu,
tue giughes de Giudas su fachile.
E dogni die nd’ingullis a Deu,
est chi Deus est mortu dae ora
si no, nde l’haias ingullidu intreu.
Adamu l’hat tentadu sa colora,
o puru su dimoniu o su serpente,
a tie una grassa servidora:
una chi nd’has ispudoradamente
fatta padrona de segretas giaes
dende su malu esempiu a sa zente.
Prima fis un’iscurzu e a pês graes,
como chi ses bestidu ’e santidade
colas comente sas atteras aes.
Non vives si non b’hat mortalidade,
prestas dinares su chentu pro chentu:
custas si narant bellas caridades.
De onore non tenes sentimentu,
si sonat de agonia una campana
ti faghes lastimosu e ses cuntentu.
Faghes s’anzone e ti ’estis de lana
pro respirare s’aera serena
ma sutta de s’ipocrita suttana
fintu ses unu lupu, una iena
chi pregas mortes, pestes e promissas
campende subra s’isventura anzena.
Amigu de maccacas priorissas
no nde disizas de bonos buccones:
criat sa pudda e tue naras missas.
Dae sos bovos e basa mattones
non ti mancan sas puddas in padedda,
in s’ispidu crabittos e anzones.
265
POESIAS
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55
Pro cussu andas cadredda cadredda
ca ses vivende cun sa trassa mala,
faccia de fune, anima niedda.
Cristos est mortu cun sa rughe a pala,
hat preigadu isculzu in su desertu:
tue non cantas si non b’hat isciala.
Si morit gente ricca, cussa est certu
chi l’accumpagnas a sa sepoltura
ispramadu cantende bucc’abertu.
E pro su poverittu no has cura
de l’intonare suave unu cantu,
nde l’interras gasie a fuidura.
A narrer da chi ses in campu santu
cun zente morta pienende caffos
non ti mudat sa faccia in su piantu.
Sa carotta chi giughes senza baffos
dae comente manna e brutta l’hasa
est digna de sas ficcas e de ciaffos.
Su chi nâs oe lu dennegas crasa,
naras a dare pane a su meschinu,
tenes trigu a muntone e non nde dasa,
vile basa mattone e assassinu.
266
ANIMA NERA
Uomo venale, triste e vile, / di quanti peccati sarai reo, / tu hai la
maschera di Giuda. // E ogni giorno ingoi Dio, / è che Dio è morto
da tanto, / se no l’avresti ingoiato intero. // Adamo l’ha tentato la
biscia, / oppure il demonio o il serpente, / a te una grassa serva: //
una che hai spudoratamente / reso padrona di chiavi segrete, / dando il cattivo esempio alla gente. // Prima eri scalzo e coi piedi pesanti, / ora che sei vestito di santità / passi come gli altri avvoltoi. //
Non vivi se non c’è mortalità, / presti denaro al cento per cento: /
queste si chiamano belle carità. // Non hai il senso dell’onore, / se
l’agonia suona una campana / ti mostri compassionevole e sei contento. // Fai l’agnello e ti vesti di lana / per respirare l’aria serena /
ma sotto l’ipocrita sottana // finto, sei un lupo, una iena / che prega
morti, pestilenze e promesse, / campando sulla sventura del prossimo. // Sei amico di sciocche priore / certo non desideri buoni bocconi: / la gallina fa l’uovo e tu dici messa. // Dagli sciocchi e baciamattoni / non ti mancano le galline in pentola, / nello spiedo
capretti e agnelli. // Per quello cammini agitandoti / perché stai vivendo con male trame, / faccia da forca, anima nera. // Cristo è
morto con la croce in spalla, / ha predicato scalzo nel deserto: / tu
non canti se non c’è scialo. // Se muore gente ricca, quella è certo /
che l’accompagni alla sepoltura / cantando sguaiato a squarciagola.
// E per il poveraccio non ti curi / d’intonare un soave canto, / lo
seppellisci così, di fretta. // A dire che quando sei nel camposanto /
riempiendo fosse con gente morta / l’espressione non ti muta nel
pianto. // La maschera che porti senza baffi / da quanto l’hai grande e brutta / è degna di fiche e schiaffi. // Quel che dici oggi lo rinneghi domani, / dici di dare pane al povero, / hai grano a mucchi e
non ne dai, / vile bacia-mattoni e assassino.
267
POESIAS
TURMENTOS
5
10
15
A SU TIANESU
Donosu rosignolu,
non cantes sutta sa ventana mia,
lassami istare solu
unu momentu ca benit s’istria;
custu est logu de dolu,
de iscunfortu e de malinconia,
custu est logu de pena
indigna ’e s’amorosa cantilena.
5
Prîte mi naras chi non so de notu,
chi non connosco chi ses tianesu?
Una ’olta una ’entre m’hazis cottu,
b’happo accatadu unu pettine in mesu.
Benit Curreli e nde fuliat tottu,
sas boghes s’intendian dae tesu.
Peppeddu Noli e Chiccangelu Puddu
s’hana pappadu fina su cruccuddu.
Passadas sun sas dies
chi mi ponias su coro in regiru,
tue cantas e ries
e tenes pro risposta unu sospiru.
Bentos frittos e nies
m’han leadu de vida su respiru.
Su canticu suave
suspende unu momentu, s’ora est grave.
TORMENTI
Grazioso usignolo, / non cantare sotto la mia finestra, / lasciami
star solo / un momento, perché viene il gufo; / questo è un luogo
di dolore, / di sconforto e di malinconia, / questo è un luogo di
pena / indegno dell’amorosa cantilena. // Sono passati i giorni / in
cui mi mettevi il cuore in tumulto, / tu canti e ridi / e ricevi in risposta un sospiro. / Venti freddi e nevi / mi hanno portato via il vitale respiro. / Il canto soave / sospendi un momento, l’ora è grave.
268
AL TIANESE
Perché mi dici che non sono fisionomista, / che non riconosco che
sei tianese? / Una volta un ventre m’avete cotto, / ci ho trovato un
pettine in mezzo. / Viene Curreli e butta tutto, / le grida si sentivano da lontano. / Peppeddu Noli e Chiccangelu Puddu / si son
mangiati anche la crocchia.
269
POESIAS
S’ISVEGLIA
UNU BANDU
Cando intendo su tou ticchi-tacca
mi toccat a discurrere e pensare
chi no isco comente ti pagare
comente so a dolore ’e busciacca.
5
10
Tue ti ballas, pares una macca,
non mi lassas ne mancu riposare
e paret ti nde cherzas buffonare
de narrer a su mere: «Crepa e zacca».
Porca balla, accidente a Bonomi,
non meritades s’assoluzione
ca manna m’azis fatta sa piaga.
Bandidore
Peppa
Bandidore
5
Marianna
Arremunda
Bandidore
10
Poveru ispiantadu, bae e dromi
cun cuss’isveglia de precisione
chi cun su ticchi-tacca ti nât: «Paga».
Chicchedda
«Si ’ettat custu bandu: s’esattore
cheret pagada sa segunda rata».
«Ancu li potat benner su puntore».
«A chie cheret pische de iscatta,
a tres soddos sa libbra». «Su rettore
oe zertu non mandigat patata».
«Ancu li pighet dolores de matta
chi non fazzat a tempus su dottore».
«Bandene a prazz’ ’e maistu Onoratu
a chie cheret petta ’e craba grassa,
a tres soddos sa libbra nd’hanta fattu.
Binu nieddu dulche che pabassa,
a domo de Pissente, est a barattu».
«Occannu cherzo morrer conc’a tassa».
UN BANDO
Quando sento il tuo tic-tac / mi tocca discorrere e pensare / che
non so come pagarti / per come mi duole la tasca. // Tu te la balli,
sembri una matta, / non mi lasci neppure riposare / e sembra che
ti voglia beffare / del padrone dicendogli: «Crepa e insacca». // Porca balla, accidenti a Bonomi, / non meritate l’assoluzione / perché
mi avete causato una grande piaga. // Povero spiantato, va’ e dormi / con quella sveglia di precisione / che col tic-tac ti dice: «Paga».
Banditore – «Si proclama questo bando: l’esattore / vuole che si
paghi la seconda rata». / Peppa – «Che gli possa venire un malore».
/ Banditore – «Per chi vuole muggini, // a tre soldi la libbra». Marianna – «Il rettore / oggi certamente non mangia patate». / Arremunda – «Che gli vengano i dolori di pancia / e che non arrivi in
tempo il dottore». // Banditore – «Vadano in piazza di mastro Onorato / chi vuole carne di capre grassa, / l’hanno messa a tre soldi la
libbra. // Vino nero dolce come l’uva passa, / a casa di Pissente, è
a buon prezzo». / Chicchedda – «Quest’anno voglio morire davanti
al bicchiere».
270
271
LA SVEGLIA
POESIAS
SU CANARINU DE SU RETTORE[5]
MINCA MACCACA
Su burriccu chi tenet su rettore
non meritat sa fama de molente,
est a corrinos che un’accidente,
invidio su sou bonumore.
5
5
Cantende su manzanu in “la maggiore”
no est nudda a su mere differente,
parent bessidos de tott’una brente,
differenziant solu in su colore.
10
10
Tott’un’idea e differente lana:
unu a sa mola, s’atteru a sa missa.
In ue b’hat paghe ponent avvolottu,
ma si su pegus giughiat suttana
piùs d’una tabaccona priorissa
diat a narrer: «Custu sì ch’est dottu!».
15
20
IL CANARINO DEL PARROCO
L’asino che ha il parroco / non merita la fama di asino, / raglia come un accidente, / invidio il suo buonumore. // Cantando al mattino in “la maggiore” / in niente dal padrone è differente, / sembra
siano usciti dallo stesso ventre, / differiscono solo nel colore. //
Stesse idee e diversa lana: / uno alla macina, l’altro a messa. / Dove c’è pace creano scompiglio, // ma se la bestia avesse la sottana
/ più di una priora tabaccona / direbbe: «Questo sì che è dotto!».
[5. Si veda in proposito, per comprendere meglio la metafora, l’accezione secondaria del lemma data da P. Casu, Vocabolario sardo logudorese-italiano, a cura di G. Paulis, Nuoro, ISRE-Ilisso, 2002, s.v. canàriu:
«Canarino ... canariu de istalla = ‘il somaro’. Di un cantore cane si dice:
pared unu canariu de istalla raglia come un somaro».]
272
25
30
Minca maccaca, funesta e fatale,
tue est chi m’has giuttu a su casinu,
tue est chi m’has trazadu a s’ispidale
solu pro m’iscazzare unu pappinu.
Pro cantu t’happ’a giughere appiccada
non piùs has a andare a s’affainu.
Una ’olta l’has fatta s’acconcada
intrada ti nde sese in d’unu buccu
e bessida nde sese allusinzada.
Oe ses sa funtana ’e su muccu,
de testa ses istada pagu azzetta,
creias chi su cunnu fiat succu.
No bi penses piùs in sa faldetta,
de como in pois benis proibida
pro finas de ti fagher sa pugnetta.
Pro t’esser un’istante divertida
già mi l’has arrangiadu su fiancu:
m’has giuttu a sos istremos de sa vida,
in prus m’has fattu ispender unu francu
pro unu buccu puzzolente e feu:
gustosu fesset istau assumancu!
Da chi non connoschias cussu impreu,
proite ses intrada in tale tana
a ruinare su fisicu meu?
E si non fist’istada macca e vana,
narzende in cortesia e in politica,
ancora fisti istada frisca e sana.
Oe ses ispilida e sifilitica,
finas sos cazzos de sette unu soddu
ti narant male e ti faghent sa critica.
De cando fisti cun su cunnu a coddu,
minca, pro non dare attenzione
su latte cunvertidu s’est in gioddu.
273
POESIAS
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55
T’hasa abbrazzadu s’iscolazione
e atteru non faghes, minca fea,
che iscolare, isporcare cotone.
Si a coberrer ti torrat s’idea
pro comente m’has como iscramentadu,
ti ponzo de cannau una trobea.
Medas boltas t’haia prezettadu,
minca, de non ferrere a s’intaccu:
tue a s’intaccu has tiradu e l’has ciappadu.
De ti giugher gasie so istraccu
chi m’has privadu de buffare mustu,
non cheres mancu chi fume tabaccu.
Pro ti leare mes’ora ’e gustu
ti ses bettada che musc’a sa zega,
sa testa in d’una barza t’has’infustu.
Ses a tempus ancora, pianghe e prega
e faghe votu a sa chirurgia
si no nde perdes tottu sa buttega.
Eo ti cherzo senza maladia
a su nessi pro podere esclamare
a sas bajanas bellas: «Minca mia».
E tue si cheres cun megus restare,
pro finas chi ti passet cuss’isfogu,
cun su cunnu non torres a brigare
chi sa pest’est timida in ogni logu.
274
MINCHIA STOLTA
Minchia stolta, funesta e fatale, / tu mi hai portato al casino, / tu mi
hai trascinato in ospedale // solo per scacciarmi un prurito. / Per
quanto ti porterò appesa / non andrai più alla cieca. // Una volta l’hai
fatta la pazzia, / sei entrata in un buco / e ne sei uscita accesa. //
Oggi sei la fontana del muco, / di testa sei stata inammissibile, / credevi che la fica fosse semolino. // Non pensare più alla gonna, / da
ora in poi ti è proibito / anche di farti una sega. // Per esserti un
istante divertita / mi hai sistemato per bene: / mi hai condotto allo
stremo della vita, // in più mi hai fatto spendere una lira / per un
buco puzzolente e brutto: / almeno fosse stato appetitoso! // Dacché
non conoscevi quell’uso / perché sei entrata in una simile tana / a
rovinare il mio fisico? // E se non fossi stata stolta e vana, / parlando
cortesemente e con diplomazia, / ancora saresti stata fresca e sana.
// Oggi sei spelata e sifilitica, / anche i cazzi da quattro soldi / ti parlano male e ti criticano. // Da quando avevi la fica al collo, / minchia, per non fare attenzione, / il latte s’è trasformato in yogurt. // Ti
sei presa lo scolo / e altro non fai, minchia schifosa, / che scolare,
sporcare cotone. // Se ti riviene l’idea di scopare, / per come ora sono rimasto scottato, / ti lego con una pastoia di canapa. // Molte volte t’avevo ordinato, / minchia, di non arrivare all’intacco: / tu all’intacco hai mirato e l’hai beccato. // Di averti in questo stato sono
stanco, / che mi hai privato di bere vino, / e neppure vuoi che fumi
tabacco. // Per prenderti mezzora di piacere / ti sei buttata alla cieca
come una mosca, / ti sei bagnata la testa in una vasca. // Sei ancora
in tempo, piangi e prega / e fai voto alla chirurgia / se no perdi tutta
la bottega. // Io ti voglio senza malattia, / almeno per poter esclamare / alle belle ragazze: «Minchia mia». // E tu se con me vuoi restare,
/ finché non ti passa quello sfogo, / con la fica un’altra volta non litigare, / perché la peste è temuta in ogni luogo.
275
POESIAS
e a pês meos sa Sardigna intera
oe est benida a mi fagher’onore,
avvenimentu dignu de sa gloria.
ALBERTO LA MARMORA
[I]
Tottus unidos, minores e mannos,
avanzad’a innoghe a passu lentu:
sa Punta Paulina in Gennargentu
cumprit su votu de settantott’annos.
5
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Non bos fettan paura sos malannos
chi podent causare nie e bentu.
Sa prima preda de su fundamentu
est bettada e lassade sos affannos.
20
35
Festa che custa non b’hat piùs bella,
su momentu est solenne, s’ora est grave:
La Marmora est torradu a Bruncu Spina.
In santu Bastianu de Biella
una ’oghe dulzissima e soave
giammat da una losa: «Paolina».
15
30
[II]
Paolina, cun boghe armoniosa
a fronte alta sullevat custu gridu:
«O Alberto La Marmora, riposa,
su votu chi has fattu ecco cumpridu;
40
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25
276
Barbagia, non dês narrer piùs tittia,
beni puru a pedire carapigna;[6]
s’has frittu agatas calura benigna,
gai m’hat fattu Alberto, bona e pia.
Grazie a chie mi faghet tanta festa:
nd’approfitto ’e sa bella circustanzia,
saludo augurende amor’e paghe;
dormi in paghe sos sognos de sa losa
ch’affine connottu happo su nidu
de su cale nde fia bisonzosa
dae cando a innoghe ses benidu.
Zente povera, sì, però sincera
hat versadu istillas de sudore
pro unu nidu a sa tua memoria,
[III]
Ite festa, ite paghe, ite armonia!
Orgogliosa so, no nde fia digna
de saludare s’intera Sardigna
in sa modesta domighedda mia.
da una domo umile e modesta,
cando bi hat amore e fratellanzia,
s’alzad’un’incrollabile nuraghe.
[IV]
Gai firmu in te su sentimentu
siat de s’onestade e de s’amore,
o Sardigna, su pane cun sudore
pappa e non ruas in avvilimentu.
Non timas mai s’astragadu bentu
nè a sas iras cunserves rancore.
Oe so tottu risu e tottu amore,
oe su coro palpitat cuntentu.
[6. ‘Sorbetto confezionato con la neve’ (cfr. DES, s.v. karapíña).]
277
POESIAS
Ti saludo e ti prego, eletta zente,
d’Eolo non timas piùs su muilu
nè de s’astragadu hapas timòria:
55
fritti innoghe su chizu e riverente
in custa pedra, suspiradu asilu,
saluda de Alberto sa memoria».
Tonara, 22 luglio 1900
ALBERTO LA MARMORA
[I]
Tutti uniti, piccoli e grandi, / avanzate fin qui a passo lento: / la
Punta Paolina nel Gennargentu / scioglie il voto di settantotto anni.
// Non vi facciano paura i malanni / che possono causare neve e
vento. / La prima pietra di fondazione / è stata messa e abbandonate gli affanni. // Di questa non c’è festa più bella, / il momento è
solenne, l’ora è grave: / La Marmora è tornato al Bruncu Spina. //
A San Sebastiano di Biella / una voce dolcissima e soave / chiama
da una tomba: «Paolina».
[II]
Paolina, con voce armoniosa / a fronte alta leva questo grido: / «O
Alberto La Marmora, riposa, / il voto che hai fatto eccolo sciolto; //
dormi in pace i sogni della tomba / perché finalmente il rifugio ho
conosciuto / del quale ero bisognosa / da quando qui sei venuto.
// Gente povera, sì, però sincera / ha versato stille di sudore / per
un rifugio alla tua memoria, // e ai miei piedi la Sardegna intera /
oggi è venuta a farmi onore, / avvenimento degno di gloria.
[III]
Che festa, che pace, che armonia! / Sono orgogliosa, non ero degna / di salutare l’intera Sardegna / nella modesta casetta mia. //
Barbagia, non dovrai dire più tittia, / vieni pure a chiedere la carapigna; / se hai freddo troverai calore benigno, / così mi ha fatto
Alberto, buona e pia. // Grazie a chi mi fa tanta festa: / approfitto
della bella circostanza, / saluto augurando amore e pace; // da una
casa umile e modesta, / quando c’è amore e fratellanza, / s’innalza
un incrollabile nuraghe.
[IV]
Così, in te saldo il sentimento / sia dell’onestà e dell’amore, / o
Sardegna, il pane con sudore / mangia e non cadere nell’avvilimento. // Non temere mai il ghiacciato vento / e alle tempeste non
serbare rancore. / Oggi sono tutta riso e tutta amore, / oggi il cuore palpita contento. // Ti saluto e ti prego, eletta gente, / non temere più il mugghiare di Eolo, / e non avere timore del gelo: //
abbassa qui lo sguardo e riverente / in questa pietra, sospirato asilo, / saluta la memoria di Alberto».
278
279
POESIAS
S’AMBULANTE TONARESU
SIGNOR CIARLA A SU FIZU CIARLATANU
Cun d’unu cadditteddu feu e lanzu
sa vida tua a istentu la trazas;
da’una ’idda a s’attera viazas,
faghes Pasca e Nadale in logu istranzu.
5
10
A caldu e frittu girende t’iscazas
pro chimbe o ses iscudos de ’alanzu,
dae s’incassu de sett’otto sonazas
chi malamente pagant’unu pranzu.
Sempre ramingu senza tenner pasu,
de una ’idda a s’attera t’ifferis
aboghinende inue tottu colas:
«Discos nobos pro fagher su casu
e chie leat truddas e tazeris
e palias de forru e de arzolas!».
Sì, caro mio, sono stato in guerra,
de maccarrones nd’happo bidu fumu,
avevo freddo e mi corcavo in terra,
allora non conoscevo neanche il rumu.
5
10
Cando le balle si chiamavan prumu
spaccavano una zudda perra perra;
e beneminde ballas dumu dumu,
porcherie inventate in Inghilterra.
Io sì che ne ho visto di disastri
reduidu a peus de una belva
pro fagher una e libera s’Italia;
adesso siete soldati giovinastri
col sigaro e a braccetto d’una selva
a passeggio col bimbo e con la balia.
SIGNOR CIARLA AL FIGLIO CIARLATANO
L’AMBULANTE TONARESE
Con un cavalluccio brutto e magro / trascini a stento la tua vita; /
viaggi da un paese all’altro, / trascorri Pasqua e Natale in terra straniera. // Ti stanchi a girare col caldo e col freddo / per cinque o
sei scudi di guadagno, / dall’incasso di sette, otto sonagli / che malamente pagano un pranzo. // Sempre ramingo, senza trovare riposo, / giungi da un paese all’altro / gridando ovunque tu passi: //
«Recipienti nuovi per fare il formaggio / e chi compra mestoli e taglieri / e pale da forno e per l’aia!».
Sì, caro mio, sono stato in guerra / ne ho visto fumo di maccheroni! / avevo freddo e mi corcavo [‘coricavo’] in terra, / allora non conoscevo neanche il rumu [‘rum’]. // Quando le balle [‘i proiettili’] si
chiamavan piombo / spaccavano un pelo in due; / e altro che
proiettili dumu dumu [‘dum-dum’], / porcherie inventate in Inghilterra. // Io sì che ne ho visto di disastri / ridotto peggio di una belva / per fare una e libera l’Italia; // adesso siete giovinastri, / col sigaro e a braccetto d’una selva [‘serva’] / a passeggio col bimbo e
con la balia.
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POESIAS
PIAZZAFORTE DI ORUNE[7]
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Noi sottoscritti, Unale brigadiere
comandante la locale stazione
e Bertolini carabiniere
rapportiamo a chi ha sempre ragione,
che la mattina del sette corrente
presentavasi a noi un mascalzone,
figlio di farabutto e delinquente,
dell’età giusta per essere impiccato,
nativo di Orune e possidente.
Da costui ci venne denunciato
che il giorno prima, in un’ora incerta,
gli fu dal salto un asino involato,
mentre trovavasi in campagna aperta
in regione detta «terra infame»,
località bruttissima e deserta.
L’asino era nero di pelame,
con le orecchie lunghe mezzo metro,
logoro dal lavoro e dalla fame;
era in uno stato più che tetro,
tanto che camminava in pochi casi
col muso avanti e con la coda dietro.
Per farci maggiormente persuasi
il derubato, insomma, ci ebbe a dire
che esso aveva cinque gambe o quasi
e che in tutto egli ebbe a subire
un danno calcolabile in danari
[7. T, a p. 22, aggiunge in testa alla poesia questa informazione: «Verbale comico che Peppino Mereu ha fatto quando era carabiniere al suo
collega Eugenio Unale – senza data – indicato però “l’anno della fame”». In calce si legge, appunto, «PIAZZA FORTE DI ORUNE Anno della fame». La fonte da cui il componimento sarebbe stato tratto è taciuta,
quindi non si capisce dove tali dettagli siano “indicati”.]
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da circa diciassette a venti lire.
Allora noi, predetti militari,
escludendo reato d’armate bande,
constatammo i fatti più chiari.
Risultò l’asino di un ingegno grande
con voce canora di gentil pennuto.
Alle nostre incalzanti domande,
che prima riuscirono senza frutto,
e dalle indagini praticate da noi,
risultò che l’asino era distrutto.
Tant’è vero che da quel giorno in poi
altri non si vide in quella cinta
che un gruppo di corvi ed avvoltoi.
Noi, con perspicacia distinta,
ricercando, ieri a mezzogiorno,
ritrovammo la nota gamba quinta.
A prima vista ci sembrava un corno,
con chiari segni di idrofoba beccata
mancante dei santissimi il contorno.
Giova notare che fu rintracciata
tra levante e ponente, lì vicino,
località selvaggia e malfamata;
l’abbiamo collocata in un cestino,
ben sigillata perché non si scopra
col suo relativo cartellino.
In vista di quanto detto sopra,
redigiamo il presente verbale
per allegarlo alle donne di Bitti
e per le orunesi copia uguale,
e ci siamo intanto sottoscritti
con riserva
Bertolini e Unale
283
POESIAS
SIGNORA MAESTRA
CUNFESSENDE
5
Cunfessore Credere in sognos non permittit Deu
ca est gravissimu peccau mortale.
Penitente
Mi so bisadu, su rettore meu,
nânchi l’haian fattu cardinale,
cretidu l’happo e mi nde fatto reu
ca su sognu m’est parfidu reale.
Cunfessore Cando passat in mente nettu e giaru
su sognu est un’avvisu, o fizu caru.
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CONFESSANDO
Confessore – Di credere nei sogni non permette Dio / perché è un
gravissimo peccato mortale. / Penitente – Ho sognato, parroco mio, /
che l’avevano fatta cardinale, / l’ho creduto e mi riconosco reo, / perché il sogno mi è sembrato reale. / Confessore – Quando passa nella
mente netto e chiaro / il sogno è un avvertimento, o figlio caro.
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Signora maestra,
per scriver minestra
no isco si cheret emma maiuscola.[8]
Che bella domanda!
minestra e bibanda[9]
scrivetelo con lettera minuscola.
Prendetevi il gesso.
Maestra, permesso
che vado al cesso.
Sedetevi adesso.
Bambine mie, date attenzione
che parliam di minestra e minestrone.
Attente, guardate:
minestra, patate,
fagioli, insalate,
così caffè-latte
son nomi comuni e quindi si
devono scrivere sempre così.
Per scrivere cavoli,
che furia che diavoli,
andate all’inferno!
Prendete il quaderno,
la penna, il calamaio eccetera
e preparatevi a scrivere una lettera.
Non fate bordello,
facciamo l’appello:
Francesca Serpente:
Presente.
Giuseppa Pignata:
Ammalata.
[8. «Non so se ci vuole emme maiuscola».]
[9. «Bevanda».]
285
POESIAS
30
35
Gavina Pibiu:
A su riu.[10]
Luciana Gasparra:
A sa giarra.[11]
Marianna Frisciola:
Cussa na’ chi non torrat a iscola.[12]
La madre l’ha detto anche nel forno
che la maestra non capisce un corno
e piùs de issa nd’ischit sa pizzinna
e dae cussu l’hat mandada a linna.[13]
LITANIAS MAGGIORES
5
10
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20
25
[10.
[11.
[12.
[13.
«Al fiume».]
«Alla ghiaia».]
«Quella pare che non torni a scuola».]
«E più di lei ne sa la la bambina / e così l’ha mandata a far legna».]
286
30
O comare Maria,
bos presumides bella,
a mie mi parides un’istria.
O comare Zuanna,
abberide sa ’ucca,
già l’ischimos ca sezis denti manna.
O comare Teresa,
sezis fuende a musca
como in su fiore ’e sa ’ezzesa.
O comare Tattana,
e prîte non penzades
chi sezis isciancada e pili cana?
O comare Michela,
non l’incontrades piusu
mancari lu chircades a candela.
O comare Franzisca,
non pianghides s’assu
già chi bi l’hazis giogadu a sa brisca.
O comare Antioga,
già ch’in manu l’haizis,
proite non l’hazis bettadu sa soga?
O comare Luisa,
infiladebos s’agu
ch’hazis istrappada sa camisa.
O comare Cecilia,
faghides artes malas
ca las hant fattas tottu sa familia.
O comareddas mias,
imparade a memoria
e rezitade custas litanias
pro lograre su regnu ’e sa gloria.
287
POESIAS
A UNA VIOLETTA SICCA
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LITANIE MAGGIORI
O comare Maria, / vi credete bella, / a me sembrate una strega. //
O comare Giovanna, / aprite la bocca, / tanto lo sappiamo che
avete i denti grandi. // O comare Teresa, / vi state “agitando” / ora
nel fiore della vecchiaia. // O comare Tattana, / perché non pensate / che siete sciancata e coi capelli bianchi? // O comare Michela,
/ non lo trovate più, / anche se lo cercate con la candela. // O comare Franzisca, / non rimpiangete l’asso, / che ve lo siete giocato
alla briscola. // O comare Antioga, / già che l’avevate in mano, /
perché non gli avete messo il cappio? // O comare Luisa, / infilatevi l’ago / che avete strappata la camicia. // O comare Cecilia, / praticate le male-arti / perché le ha praticate tutta la famiglia. // O comarelle mie, / imparate a memoria / e recitate queste litanie / per
guadagnare il regno della gloria.
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25
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Indunu libru chi oe fia leggende
una viola sicc’happ’incontradu,
e istadu so un’ora cuntemplende
cussas fozas, confusu e incantadu:
e pensad’happo induna trista istoria
chi cussa mammolett’hat inserradu.
Pustis chi rinnovadu a sa memoria
happ’una vida trista, cun dolore,
dad’happ’a su piantu sa vittoria.
De lagrimas bagnad’happo su fiore:
«Nara, t’ammentas, nara», l’appo nadu,
«de cando fist in sinu de s’amore?
Ite nd’has fattu de su sinu amadu?
Naram’ite nd’has fattu de su sinu
in su cale ridente ses istadu?».
Violetta donosa, su jardinu,
in su cal’unu die fioriast,
reduid’est a miseru camminu!
Cando suav’e umil’isparghiast
cuddu profumu gratu e dilicadu,
forsis de t’olvidare non crediast!
Narami tottu, coment’est istadu:
ite nd’has fattu de s’anzone mia,
prit’est chi t’hat inoghe abbandonadu?
Tue pur’has suffrid’un’ingannìa,
ses istada bestida ’e sentimentu:
zessada t’est sa festa e’ s’allegria!
E narrer c’has proadu ogni cuntentu,
senza connoscher sa minima pena,
in sinu sou, parada in assentu!
Como t’hat olvidadu cuss’Elèna:
suffri; dogniunu est suggett’a suffrire,
289
POESIAS
para su piantu, sas lagrìmas frena,
e giurami chi non torras a naschire.
SAS GIARRETTIERAS
Giuseppe Mereu
Stanotte Signor Ciarla nd’hat nad’una
cherfende faeddare italianu:
fit’in terrazzu godinde sa luna
in cumpagnia de unu toscanu.
Tonara
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A UNA VIOLETTA SECCA
Ecco de unu bottu, tott’in d’una,
s’intendet unu canticu lontanu,
un’armonia de boghes non comuna,
trillos de puzoneddu in su beranu.
«Mi dica un po’, Signor, vorrei sapere
sto canto che si sente è una chitarra
o qualche coro che canta una canzone?».
«Quelle lì son le donne giarrettiere,
cantano, poverine, ma la giarra
è a sessanta centesimi il montone».
In un libro che oggi stavo leggendo / una viola secca ho trovato, /
e son rimasto un’ora a contemplare // quelle foglie, confuso e incantato: / ed ho pensato a una triste storia / che quella mammoletta
ha serbato. // Dopo che rinnovato alla memoria / ho una vita triste,
con dolore, / ho dato al pianto la vittoria. // Ho bagnato di lacrime
il fiore: / «Dì, ti ricordi, dì», gli ho detto, / «di quando eri in seno all’amore? // Che ne hai fatto del seno amato? / Dimmi, che hai fatto
del seno / nel quale sorridente sei stato?». // Violetta graziosa, il
giardino, / nel quale un giorno fiorivi, / è ridotto a una misera strada! // Quando soave e umile diffondevi / quel profumo grato e delicato, / forse non credevi d’esser stata dimenticata! // Dimmi tutto,
come è stato: / cosa ne hai fatto del mio agnello, / perché ti ha qui
abbandonato? // Anche tu hai subito un inganno, / sei stata ammantata di sentimento: / per te è cessata la festa e l’allegria! // E dire
che hai provato ogni gioia, / senza conoscere la minima pena, / nel
suo seno, adagiata con grazia! // Ora ti ha dimenticata quell’Elena: /
soffri, ognuno è soggetto a soffrire, / cessa il pianto, frena le lacrime, / e giurami che non ritornerai a fiorire.
Stanotte Signor Ciarla ne ha detta una / cercando di parlare in italiano: / era sul terrazzo, godendosi la luna / in compagnia di un toscano. // Ecco d’un botto, all’improvviso, / si sente un canto lontano, /
un’armonia di voci non comune, / trilli d’uccelletto a primavera. //
«Mi dica un po’, Signor, vorrei sapere / sto canto che si sente è una
chitarra / o qualche coro che canta una canzone?». // «Quelle lì son le
donne giarrettiere [‘che trasportano la ghiaia’], / cantano, poverine,
ma la giarra [‘ghiaia’] / è a sessanta centesimi il montone [‘mucchio’]».
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LE GIARRETTIERE
POESIAS
OTTAVA
5
SERENADA
Cando deo happ’a esser cantadore,
già no had’a esister pius lè…:
tando tue has a bider a su Re
in Sardigna faghinde su pastore;
cando deo happ’a esser mussegnore
cunfirmende sas fizas de vostè,
tando su prinzipe had’a esser porcarzu
ei su Paba in Roma mulinarzu.
Aiz’aiz’arrustida
tue ses modde bistecca,
tue ses pro me busecca,
sa piùs bene cundida,
5
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ses taccula saborida,
mustarda grassa e purpuda,
ses una gioga minuda,
un’iscarzoffa, un’olia,
una vera trattalia
pro fagher buffare mustu.
Cosa piùs bella ’e custu
non nde poto desizare.
Pensa, bella, a t’ingrassare,
dormi tranquilla e cuntenta,
faghe sognos de pulenta,
de basolu e de patata.
Custa bella serenata
l’hat fatta s’amante tou;
amadu caffè cun ou,
pensa de ti riposare.
SERENATA
Quando sarò improvvisatore, / già non esisterà più legge…: / allora tu vedrai il Re, / in Sardegna fare il pastore; / quando sarò monsignore / cresimando le figlie di Vossignoria, / allora il principe sarà porcaro / e il Papa a Roma mugnaio.
Appena appena arrostita / tu sei una tenera bistecca, / tu per me
sei trippa / la meglio condita, // sei una taccola saporita, / mostarda grassa e polposa, / sei una lumachina, / un carciofo, un’oliva, /
una vera frattaglia / per far bere vino. / Cosa più bella di questa /
non ne posso desiderare. // Pensa bella a ingrassare, / dormi tranquilla e contenta, / fai sogni di polenta, / di fagioli e di patate. /
Questa bella serenata / l’ha fatta il tuo amante; / amato caffè con
l’uovo / pensa a riposarti.
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OTTAVA
POESIAS
PROPOSTA AMOROSA
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RISPOSTA AMOROSA
O gentile donzella,
lei, de custu coro mia stella,
bella, brillante, graziosa e pura,
in notte tenebrosa, oscura,
pro me paret chi siat apparida,
de amorosu risu fiorida,
a mi narrer: «Amadu meu, ispera».
Si pro me in s’aera
est beru chi esistit tantu raggiu,
non mi trunchet in coro su coraggiu
ma issu alimentet sa fiamma.
O signorina senta,
si fostè nd’est cuntenta,
pro fagher sa domanda benit mamma:
seria est sa proposta,
sia gentile de una risposta.
Non so de razza ignobile,
so cavalieri nobile,
giovanu galu so e s’ideale
meu est fostè, l’adoro.
Su lumen’e su coro
l’intrego, si mi narat ch’est reale
su sognu ch’in sa mente
m’est persighinde continuamente.
Duncas già m’hat cumpresu
chi unu fogu in sinu l’happo azzesu
e chi so pro fostè ispasimante.
Si no est digna de m’essere amante
mi rispundat luego a s’indirizzu:
signor cavalier Fromigadizzu.
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Signor cavaliere,
eccomi a cumprire su dovere
de giovane educada.
Altamente onorada
resto de sa proposta,
ma sa mia risposta,
o caro signor, do:
francamente est chi no.
Lei lo sa che sono pastorella,
tottu canta sa mia parentella,
dae me consultada in custu casu,
si nd’hat formadu tres palmos de nasu;
dae su prùs mannu a su piùs minore,
non nde tenzat dolore,
cun tres palmos de ’ucca,
hana gridadu: «Zucca!».
E fattu m’hant cumprender ca so fea,
appartenente a sa classe plebea
senza fioccos e pumas de moda
e lei è spasimante pro sa doda.
Cavaliere carissimo, capita;
a mie deghet unu cun berritta.
Abbrazzare una rugh’est grave pesu;
si fatto cussu, a su chi happo intesu
mi giamant Signora crucifissa.
Menzus sa vida de sa pastorissa.
Sa nobilìa non m’andat a grabbu
e a la narrer giara, mamma e babbu
pro custu sunt che tiaulu e dimoniu:
trattendeli de custu matrimoniu
est su matessi a lis dare sa china.
295
POESIAS
35
40
Fostè si chirchet una signorina
bella e graziosa in sa presenzia
e li resessat de cunvenienzia:
si pro casu b’hat neu in cussu coju
no est delittu su serrare un’oju.
Fromigadizzo caro,
col massimo rispetto mi dichiaro
de fostè devotissima s’amiga:
pastorella Maria Cruccuriga.
classe plebea / senza fiocchi e piume alla moda / e lei è spasimante per la dote. / Cavaliere carissimo, capita; / a me si addice uno
con la berretta. / Abbracciare una croce è un grave peso; / se faccio quello, a quel che ho sentito, / mi chiamano Signora crocefissa.
/ Meglio la vita della pastorella. // La nobiltà non mi va a genio / e
a dirla chiara, mamma e babbo / per questo sono come il diavolo
e il demonio: / parlargli di questo matrimonio / è lo stesso che dargli la china. / Vossignoria si cerchi una signorina / bella e graziosa
nella presenza / e che le riesca conveniente: / se per caso c’è un
neo in quel matrimonio / non è delitto chiudere un occhio. // Fromigadizzo caro, / col massimo rispetto mi dichiaro / di Vossignoria
devotissima amica: / pastorella Maria Cruccuriga.
PROPOSTA AMOROSA
O gentile donzella, / lei, di questo cuore mia stella, / bella, brillante, graziosa e pura, / nella notte tenebrosa, oscura, / sembra sia apparsa per me, / fiorita di un riso amorevole, / a dirmi: «Amato mio,
spera». / Se per me nel cielo / è vero che esiste tale raggio, / non
mi spezzi nel cuore il coraggio / ma esso alimenti la fiamma. / O
signorina, senta, / se Vossignoria ne è contenta, / per fare la domanda viene mamma: / seria è la proposta, / sia gentile, mi dia
una risposta. / Non sono di razza ignobile, / sono un cavaliere nobile, / sono ancora giovane e l’ideale / mio è Vossignoria, la adoro.
/ Il nome e il cuore / le affido, se mi dice che è reale / il sogno
che nella mente / mi sta perseguitando continuamente. / Dunque
già ha capito / che un fuoco in petto l’ho acceso / e che spasimo
per Vossignoria. / Se non è degna di essermi amante / mi risponda
presto all’indirizzo: / signor cavalier Fromigadizzu.
RISPOSTA AMOROSA
Signor cavaliere, / eccomi a compiere il dovere / di giovane educata. / Altamente onorata / sono della proposta / ma la mia risposta /
o caro signore, do: / francamente è no. / Lei lo sa che sono pastorella / tutta quanta la mia parentela, / da me consultata in questo
caso, / ha fatto tre palmi di naso; / dal più grande al minore, / non
ne abbia dolore, / con tre palmi di bocca, / hanno gridato: «Zucca!». // E mi hanno fatto capire che sono brutta / appartenente alla
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POESIAS
IMBASCIADA
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SU TESTAMENTU
Bidinde chi cantende in altu bolas,
ti prego de una grande cortesia:
lea custas violas
e giughebilas a s’anzone mia.
Si est galu vivente
connoschet s’imbasciada prontamente.
Bae, rundine mia, e faghe lestra,
mira chi deo isetto s’imbasciada
dae custa finestra,
non bido s’ora de t’ ’ider torrada.
Prestu ca cun affannos,
sos minutos mi devent parrer annos.
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AMBASCIATA
Vedendo che cantando in alto voli, / ti prego di una grande cortesia: / prendi queste viole / e portale al mio agnello. / Se è ancora
vivente / riconoscerà l’ambasciata prontamente. // Va’, rondinella
mia, e fai in fretta, / guarda che io aspetto l’ambasciata / da questa
finestra, / non vedo l’ora di vederti ritornata. / Presto, perché con
gli affanni, / i minuti mi sembreranno anni.
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Como chi so a lettu moribundu
morzo tranquillu, serenu e cuntentu,
però, prima chi lasse custu mundu,
cherz’iscrier su meu testamentu
e dimando chi siat rispettadu
su disizu ’e s’ultimu momentu.
Appena mi bidides ispiradu
inserrademi puru in battor taulas:
deo non cherzo baule forradu.
E nessunu pro me ispendat paraulas
in laudare, comente bi nd’hada,
chi finzas in sa fossa narant faulas.
Sa sepoltura la cherzo iscavada
foras de su comunu campusantu:
meritat gai s’anima dannada.
Non permitto s’ipocritu piantu
de benner a mi fagher cumpagnia,
cando so sutta ’e su funebre mantu.
Però si b’hat persona cara e pia,
semplicemente, senza pompa vana,
rezitet una santa avemaria.
Muda s’istet sa funebre campana,
non permitto su cantu, nè su teu,
de sa niedda ipocrita suttana.
Deo non so marranu e creo in Deu
prîte m’han’imparadu a l’istimare
dae minore mamma e babbu meu.
Però sos corvos los lasso bolare
bestidos de terrena finzione,
manc’a mortu nde cherzo fentomare.
E tantu in custa misera persone
b’hat pagu pulpa ’e faghere biccada,
tenidebolla s’assoluzione.
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POESIAS
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S’anima mia tant’est già purgada;
pro su tantu patire hat meritadu
su chelu, si est beru chi bi nd’hada.
Si pro casu unu paccu sigilladu
agatades, domando, pro favore,
non siat su sigillu profanadu.
Cuntenet un’istoria de dolore:
sunu litteras d’un’isfortunada,
dulche poema d’unu veru amore.
Duos ritrattos puru inie b’hada:
unu est de s’amorosa mamma mia,
fattu sa die chi l’hant sepultada;
s’atteru est de s’anzone chi tenia
in coro, cun amore tantu forte,
chi m’hat leadu vida e pizzinnia.
De cuss’amore nde tenzo sa morte,
a’ s’ora de sa vida sa piùs bella.
Ah! Decretu fatale e dura sorte!
Tue, in battor muros de una cella,
ses pianghende e preghende in segretu,
pover’isconsolada verginella!
E deo moribundu so in lettu:
…
…
No happo mortu, no happo furadu,
morzo senza peccados birgonzosos,
perdono, non cherz’esser perdonadu.
Deo perdono cuddos ischifosos
chi de su male meu hant fattu isciala
cun sos libellos ignominiosos.
Perdono s’infamante limba mala,
cudda chi de velenu m’hat bocchidu
tantu pro m’ ’ider cun sa rughe a pala.
Perdono cuddos chi s’hant divididu
unu bicculu ’e pane chi tenia
a s’ora chi m’hant bidu piùs famidu.
In mesu a tantos ramos de olia
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deo cherz’esser su ’e sa cicuta,
pro imbolare unu frastimu ebbia:
«Chie m’hat causadu custa rutta,
vivat chent’annos, ma paralizzadu,
dae male caducu e dae gutta!».
Custu frastimu est pesadu e pensadu
prîte ca morrer non devia ancora,
comente morzo, de coro airadu.
Serpente vile, perfida colora
fatt’hazis de prunizza avvelenada
una foresta in su regnu ’e Flora.
E cando m’hazis bidu chenz’ispada,
viles, hazis tentu s’attrivida
dandemi sa funesta pugnalada.
E como, a sos istremos de sa vida,
pro ricumpensa de s’attu villanu
bos do custa tremenda dispedida,
Peppe Mereu bos toccat sa manu.
IL TESTAMENTO
Ora che sono a letto moribondo / muoio tranquillo, sereno e contento, / però, prima che lasci questo mondo, // voglio scrivere il
mio testamento / e chiedo che sia rispettato / il desiderio dell’ultimo
momento. // Appena mi vedete spirato, / chiudetemi pure in quattro tavole: / io non voglio baule foderato. // E nessuno per me
spenda parole / nel lodarmi, come ce ne sono, / che perfino nella
fossa dicono bugie. // La sepoltura la voglio scavata / fuori del cimitero comune: / merita questo l’anima dannata. // Non permetto
che l’ipocrita pianto / venga a farmi compagnia, / quando sarò sotto
il funebre manto. // Però se c’è una persona cara e pia, / semplicemente, senza pompa vana, / reciti una santa avemaria. // Taccia la
funebre campana, / non permetto il canto, né il lamento, / della nera, ipocrita sottana. // Io non sono marrano e credo in Dio / perché
mi hanno insegnato ad amarlo / da piccolo la madre e il padre mio.
// Però i corvi li lascio volare / vestiti di terrena finzione, / neanche
301
POESIAS
da morto voglio sentirli nominare. // Tanto in questo misero corpo
/ c’è poca polpa da beccare, / tenetevela l’assoluzione. // La mia
anima tanto è già purgata; / per il tanto patire ha meritato / il cielo,
se è vero che esiste. // Se per caso un pacco sigillato / trovate, chiedo, per favore, / che il sigillo non sia profanato. // Contiene una
storia di dolore: / sono lettere di una sfortunata, / dolce poema di
un vero amore. // Ci sono anche due ritratti: / uno è della mia amorevole madre, / fatto il giorno in cui l’hanno sepolta; // l’altro è dell’agnello che avevo / nel cuore, con un amore così forte, / che mi
ha sottratto vita e gioventù. // Da quell’amore trovo la morte, / nel
momento della vita più bella. / Ah! Decreto fatale e dura sorte! //
Tu, fra quattro mura di una cella, / stai piangendo e pregando in segreto, / povera sconsolata verginella. // Ed io sono moribondo nel
letto / … / … // Non ho ucciso, non ho rubato, / muoio senza peccati vergognosi, / perdono, non voglio essere perdonato. // Io perdono quegli schifosi / che hanno fatto scialo del mio male / coi libelli ignominiosi. // Perdono l’infamante malalingua / quella che
col veleno m’ha ucciso / solo per vedermi con la croce in spalla. //
Perdono quelli che si sono spartiti / un tozzo di pane che avevo /
nel momento in cui mi hanno visto più affamato. // In mezzo a tanti rami d’olivo / io voglio essere quello della cicuta, / per lanciare
una sola maledizione: // «Chi mi ha causato questa caduta, / viva
cent’anni, ma paralizzato, / dal mal caduco e dalla gotta!». // Questa
maledizione è meditata e pensata / perché non dovevo ancora morire, / come muoio, col cuore colmo d’ira. // Serpente vile, perfida
biscia / avete fatto di prugnolo avvelenato / una foresta nel regno
di Flora. // E quando mi avete visto senza spada, / vili, avete avuto
l’ardire / infliggendomi la funesta pugnalata. // E ora, allo stremo
della vita, / per ricompensa dell’atto villano / vi do questo tremendo commiato, / Peppe Mereu vi stringe la mano.
[ANEPIGRAFA]
5
10
Cando chi a Tonara
brujadu has cust’incensu
comunu, e casi de profumu ingratu,
su ’inu de Atzara
t’hat leadu su sensu,
e zeltu est chi no has bidu su c’has fattu.
Partu de una mente
infelize, comente
ses bennidu a su mundu? Ite baratu
fit su mustu a s’edade
ch’iscrittu has cussos versos caru frade!
P. Mereu, Assemini 22 marzo 1896
Quando a Tonara / hai bruciato quest’incenso / comune, e quasi di
profumo sgradito, / il vino di Atzara / t’ha privato del senno, / e
certo è che non hai visto ciò che hai fatto. / Parto di una mente /
infelice, come / sei venuto al mondo? Come costava poco / il vino
al tempo / in cui hai scritto quei versi, fratello caro!
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303
POESIAS
MAURU ZUCCA
5
A PEPPE CAPPAI
Mauru Zucca est cun sa cubedda,
a pipp’azzesa e a cadd’irfunadu,
andat a caddu truvedda truvedda
e bidimus a Maur’issussiadu
e sa zente accurriat a chedda:
«Gesù, Maria! Ite hat capitadu?
Oe già si l’hat fatta sa pilucca!
Chi est su mortu? Maureddu Zucca!».
Bidu mi l’hazes a Peppe Cappai
faghinde barchiteddas de ’ortigu.
Est unu geniu chi no happ’ ’idu mai
chi podet figurare s’inimigu.
…
MAURO ZUCCA
Mauro Zucca è col tinozzo, / a pipa accesa e a cavallo sciolto, / va
a cavallo incitandolo ogni tanto / e vediamo Mauro buttato a terra
/ e la gente accorreva a frotte: / «Gesù Maria! cos’è successo? / Oggi se l’è fatta la parrucca! / Chi è morto? Maureddu Zucca!».
304
A PEPPE CAPPAI
Avete visto Peppe Cappai / fare barchettine di sughero. / È un genio che non ho visto mai / che può raffigurare il nemico. / …
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POESIAS
MUTTU
5
10
A UN’ILLUSA
S’affannu, su dirgustu,
sa pena, su dolore,
tottu sas agonias…
mi l’has happo addossadas,
pro istimare a tie
ma tue nudda sentis.
…S’affannu, su dirgustu…
Had’a benner sa die
ch’abberu ti nde pentis
pro sas traitorìas
chi faghes a s’amore
de chie t’amat giustu,
ma ti pentis de badas.
Puzzi, perdeu cantu fea sese!
Cun cussas laras tintas a mattone
ei sa facci’a color’ ’e limone,
a chie lu naras, ca bella ti crese?
5
10
Ojos e bucca cando rier dese
faghent paura cun cumpassione.
Cambi piluda che unu sirbone,
cando camminas si brigant sos pese.
Ses a vintitres annos pili cana,
simile non s’agattat visu feu,
petegolende pares una rana;
e isparghes profumu d’ozu seu.
A su chi nadu hat carchi anziana,
in te s’had’isfogadu s’ira Deu.
A UN’ILLUSA
L’affanno, il disgusto, / la pena, il dolore, / tutte le agonie… / me le
sono addossate, / per amarti / ma tu non provi niente. // …L’affanno,
il disgusto… / Verrà il giorno / in cui davvero te ne pentirai / per i
tradimenti / che fai all’amore / di chi ti ama, giusto, / ma ti pentirai
inutilmente.
Per Dio, che schifo, quanto sei brutta! / Con quelle labbra color mattone / e la faccia color di limone, / a chi lo dici che ti credi bella? // Occhi e bocca quando ridi / fanno paura e compassione. / Con le gambe
pelose come un cinghiale, / quando cammini bisticciano i piedi. // A
ventitré anni hai i capelli bianchi, / non si trova un viso così brutto, /
spettegolando sembri una rana; // e diffondi profumo di olio di sego.
/ Per come ha detto qualche anziana, / in te ha sfogato l’ira Dio.
306
307
MUTTU
POESIAS
ASPETTOS
5
10
15
De formas ses imperfetta
e a la narrer francamente
non ses nè pische nè petta.
Sa faccia tua est pagnotta,
sa testa tua est de raba,
tue ses corda ’e craba
mesu crua e mesu cotta.
Pro ti mandigare totta
bi cheret unu leone;
faghes indigestione,
a s’istogomo das pesu.
Buffare su sal’inglesu
mi toccat si gusto a tie.
Pro ti gustare gasie
cherzo morrer a dieta.
ASPETTI
Di forme sei imperfetta / e a dirla francamente / non sei né carne
né pesce. / La tua faccia è una pagnotta, / la tua testa è di rapa, /
tu sei corda di capra / mezzo cruda e mezzo cotta. / Per mangiarti
tutta / ci vuole un leone; / causi indigestione, / appesantisci lo stomaco. / Bere il sale inglese / mi tocca se ti assaggio. / Per gustarti
così / voglio morire a dieta.
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NOTAS
Moribunda
1. (p. 116). Ingranzeu – Ricompensa.
A Tonara
2. (p. 120). Croccoledda – Deliziosa sorgente, rinomata per la freschezza e bontà dell’acqua, situata a breve distanza dal paese.
3. (p. 122). Musìcas – I nostri pastori, all’approssimarsi della cattiva stagione, si recano, tutti gli anni, coi loro armenti, alle pianure, per svernare. Al ricomparire della bella stagione ritornano all’amplesso delle
loro famiglie, e, la gioventù, seguendo una vecchia consuetudine, dà
principio a sas musicas, specie di serenate che si fanno, in prestabiliti
giorni, alle giovani leggiadre e belle, delle quali, in rime libere e
spontanee, ne cantano con versi improvvisati lì per lì, le virtù.
4. (p. 122). Pitzirimasa – Nome di una località orridamente bella,
poco discosta dal paese, nella quale trovasi una cascata, la quale
esercita un fascino irresistibile in tutti coloro che, fuggendo i calori
estivi di Cagliari e del Campidano, vengono a godere della refrigerante ospitalità dei nostri boschi.
5. (p. 123). Divignos – D’estate, nella notte in cui la luna splende, le
nostre forosette si radunano nella piazza a filare e a cantare in coro
armoniosi stornelli. (Divignos).
6. (p. 123). Canente – Dea del canto.
7. (p. 123). Larentu – Lorenzo Zucca, il principe dei poeti lirici tonaresi,
morto, pressoché ottuagenario da qualche anno appena. – Cappeddu – Francesco Antonio Cappeddu fu anch’egli tra i più celebrati improvvisatori. I suoi certami poetici sono sempre vivi nella mente del
nostro popolo. Possedeva lo scherno acre e tagliente dell’Aretino.
8. (p. 123). Tommasu e Bacchiseddu – Tommaso Zucca è tra i nostri
migliori poeti viventi. Egli possiede il riso agile e fine di Orazio. –
Bacchisio Sulis, poeta satirico vivente: possiede come la buon’anima di Voltaire, il sarcastico riso e gli acri sali. Colla beffa gaia e petulante nelle contese poetiche demolisce l’avversario.
9. (p. 123). Aostinu – Agostino Dejana figlio di poeta e poeta anch’egli,
è, da noi, il vero rappresentante della poesia bernesca. Ha sempre
in bocca la barzelletta e il frizzo gradito.
10. (p. 123). Su ’entu ’e santu Simone – Vento impetuosissimo che scatenasi, costantemente, ogni anno, in sullo scorcio di ottobre. È rimarchevole per i guasti che arreca alla campagna e specialmente ai castagni,
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POESIAS
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Notas
ai quali strappa violentemente i ricci, che, per avventura, fossero ancora immaturi.
(p. 123). Metanza, metanzu – Scarno, magro.
(p. 123). Larentu – Vedi nota 7 a pagina 123.
(p. 123). Eolo – Dio del vento.
(p. 124). Tiana – A Tonara sono molte tessitrici, le quali producono una rilevante quantità di albagio, (furesi) del quale tutti gli anni
riempiono le gualchiere del vicino comune di Tiana.
(p. 124). Chintas – Due grembiali di lana che le nostre donne recano ai fianchi nei giorni feriali.
(p. 125). Tirannia – In seguito alla cattiva amministrazione dell’azienda comunale, il nostro popolo, nel 1877, insorse al grido di
abbasso le tasse! La folla tumultuante prese d’assalto il municipio e
la forza pubblica, alla quale resistette disperatamente. Si eseguirono numerosi arresti e per far rientrare gli abitanti nella calma si
dovette far venire una compagnia di soldati di fanteria da Cagliari.
(p. 125). Lughe noa ti … – Per le numerose cancellature che inzeppano, a questo punto, il manoscritto, non mi è stato possibile
capir nulla, e perciò ho omesso alcuni versi.
(p. 125). O terra de dulzuras – In questa e nella strofa seguente il
poeta sospira il paese natio, dal quale, a quanto pare, l’avea strappato il servizio militare, e trae, dalla sua lira, accenti d’ira e di dolore, per certi luoghi malsani, nei quali lo costrinse a vivere il ferreo peso della disciplina.
(p. 127). Aprile, 189 … – La data della poesia è illegibile.
Lamentos d’unu nobile
20. (p. 138). Lamentos d’unu nobile – In questa poesia, con fine e
pungente ironia, l’Autore parla della nobiltà decaduta e fa un confronto fra la grandiosità e il fasto in cui essa nuotava in un tempo
che fu e la miseria e le tribolazioni in cui trovasi presentemente.
27. (p. 154). Ruspire – Sputare.
Agonia
28. (p. 162). 20 maggio 1895 – Da informazioni assunte mi consta che
il nostro poeta nel 20 maggio 1895 trovavasi degente all’infermeria
presidiaria di Sassari per aversi fratturato la tibia nel mentre accudiva al servizio militare.
Solferino!
29. (p. 164). Solferino! – Ho riprodotto questo scherzo poetico non
per il valore artistico, ma per il grazioso umorismo che da esso ne
emana. Evidentemente qui il poeta ha voluto ritrarre e prendere di
mira uno dei soliti arcifanfani, che senza saper l’abbicì, hanno la
smania di voler parlare, sempre e poi sempre, la lingua italiana.
A Nanni Sulis
30. (p. 165). A Nanni Sulis – Ho voluto pubblicare questa poesia che
il poeta volle dedicarmi per la comicità che sprizza da ogni sua
parte. Il senso della poesia è abbastanza intelligibile e per non offendere il lettore mi astengo da qualsiasi spiegazione.
31. (p. 166). Cixerri – Fiume tra Uta ed Assemini, il quale, rigonfiando,
arreca terrore a quelle popolazioni.
32. (p. 166). Intrat in cheja – Il cavalier Scalas quando vide il pericolo
che correvano i suoi compatrioti, per l’acqua copiosamente caduta, inforcato il suo cavallo, fece il giro del paese per destarli dal
sonno e li invitò a ricoverarsi in Chiesa.
33. (p. 166). Dionis’Iscalas – Dionigi Scalas sindaco di Assemini, fu
nominato cav. della corona d’Italia, con decreto reale 22 gennaio
1893, per la splendida condotta tenuta nel nubifragio avvenuto il 2
ottobre 1892.
Galusè
A Genesio Lamberti
21. (p. 150). Ischeffa – Schifezza, feccia.
22. (p. 150). Pane ispeli – Pane di ghianda mescolata con argilla. – Buleu
– Gettare in aria.
23. (p. 151). Patmo – Isola dove S. Giovanni scrisse gli evangeli.
24. (p. 152). Gomorra – Antica città della Palestina distrutta dal fuoco
celeste.
25. (p. 153). Andas addane – Andar lontano. Qui si allude alla mania
migratoria.
26. (p. 154). Kiriella – Lavoro, fatica.
34. (p. 171). Galusè – Nome di una pittoresca località, che fa, quasi,
cornice al paese, e nella quale trovansi diverse fonti, fra cui questa
cantata dal poeta, appartenente al signor Raffaele Pulyx, segretario
comunale nel nostro comune.
35. (p. 171). Ingranzeu – Vedi nota 1 a pagina 116.
36. (p. 175). Pipia – Luigi Pipia, giovane dalla voce melodiosa incantevole, intimo amico del poeta.
37. (p. 176). Sa biografia – Qui il poeta fa la sua prosografia.
38. (p. 177). Ruzones – Omine ruzone. Che si mantiene in salute.
39. (p. 177). Pistone – Bottiglione.
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POESIAS
Notas
40. (p. 178). Tue o Lia cara – Lia Pulyx, vezzosa figlioletta del segretario comunale, (vedi nota 34 a p. 171) alla quale il poeta ha dedicato questa canzone.
A Juanne Sulis
41. (p. 182). A Juanne Sulis – Questa epistola poetica, scritta nel marzo
del 1896, mi fu dall’Autore inviata a Cagliari. Egli racconta le sue
sofferenze e descrive i mali da cui è travagliato il nostro paese.
42. (p. 184). Murdegu – Fu chiamata di Murdegu, perché morì, in quel
tempo, un tale che aveva questo nomignolo. Temporada de Murdegu, famosa nevicata che i nostri vecchi ricordano con un senso
di reccapriccio, avvenuta nel 1853.
Aritzo
52. (p. 204). Terza de sas alturas montaninas – Fonni, Tonara ed Aritzo,
fra tutti i paesi della Sardegna, hanno la maggiore elevazione sul
mare. Egli è per questo che il nostro poeta chiama il paese, a cui
ha dedicato il sonetto, terza de sas alturas montaninas.
X…
53. (p. 205). X… – La prima e l’ultima strofa di questa canzone sono
piene zeppe di cancellature, a segno tale da essere illegibili, e perciò ho messo una fila di puntini.
A Eugenio Unale
54. (p. 207). A Eugenio Unale – Vedi nota 43 a pagina 192.
A Eugeniu Unale
43. (p. 192). A Eugeniu Unale – Valente poeta sardo e già commilitone
dell’Autore.
44. (p. 192). Terra de Billia – Billia Carta. Famoso poeta di Pozzomaggiore, dove sortì pure i natali l’Unale.
45. (p. 195). Superiore tirriosu – Qui evidentemente il poeta allude a
qualche burbero superiore, avuto quand’era ancora sotto le armi.
I versi susseguenti sono una fedele descrizione della vita militare.
K…
55. (p. 218). Pallid’e sorridente, a pees in porta – Quest’uso di esporre
i defunti è comune anche ai popoli orientali. Nell’Iliade d’Omero
si leggono i seguenti versi:
D’acuto acciar trafitto egli mi giace
Nella tenda, coi piè volti all’uscita
E gli fan cerchio i suoi compagni in pianto,
A Paolo Hardy
analogamente si espresse anche il Mossa in una sua poesia:
46. (p. 201). A Paolo Hardy – Questa canzone è in risposta ad un sonetto adulatorio: A Tonara, del sig. Paolo Hardy; sonetto che questi
dapprima declamava in un banchetto politico offertogli nel delizioso tenimento di Galusè (vedi nota 34 a pagina 171) e che più tardi
egli stesso faceva pubblicare nel giornale l’Illustrazione Sarda.
47. (p. 202). Sos sognos de Larentu – Vedi nota 7 a pagina 123.
48. (p. 202). Cando mi rimas declinat cun furat – Il nostro poeta riprende giustamente il signor Hardy, perché questi, dimenticando
certe regole elementari intorno all’arte poetica, pretese rimare declinat e furat.
49. (p. 202). Campidan’a Nuòro s’ammesturat – Il dialetto adoperato
dal poeta Paolo Hardy è un dialetto ibrido: nessun grottologo troverebbe un posto conveniente da assegnargli.
50. (p. 203). Su fogu de Carbone – In questa strofa il poeta parla allegoricamente e ognuno vede che il Carbone non è che l’onorevole
Carboni Boy, e il Cocco, l’onorevole Cocco Ortu.
51. (p. 203). Tonara … 1895 – Nel manoscritto non è indicata la data
precisa, nella quale il poeta dettò questi versi.
It est custu ch’idia,
Fiza de titta mia
Mort’a manos in giae, a pees in gianna!
314
Y…
56. (p. 220). Y... – Anche in questa canzone vi sono numerose cancellature. Il poeta, a quanto pare, aveva intenzione di ritornarci su.
A Nanni Sulis
57. (p. 222). A Nanni Sulis – Questa poesia ha molta analogia con l’altra dedicata a me stesso (vedi nota 30 a pagina 165). Anche qui il
poeta fa vibrare la corda del dolore.
58. (p. 225). Giagu Siotto – Colto quanto modesto giovine, oriundo
del forte nuorese. È celebre per le sue idee socialiste.
W…
59. (p. 234). Dugone – Condottiero.
60. (p. 235). Chilinzone – Crusca.
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BIBLIOTHECA SARDA
Volumi pubblicati
Aleo J., Storia cronologica del regno di Sardegna dal 1637 al 1672 (35)
Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri (51)
Atzeni S., Il quinto passo è l’addio (70)
Ballero A., Don Zua (20)
Baudi di Vesme C., Considerazioni politiche ed economiche
sulla Sardegna (101)
Bechi G., Caccia grossa (22)
Bernardini A., Un anno a Pietralata – La scuola nemica (93)
Bottiglioni G., Leggende e tradizioni di Sardegna (86)
Bresciani A., Dei costumi dell’isola di Sardegna (71)
Cagnetta F., Banditi a Orgosolo (84)
Calvia P., Quiteria (66)
Cambosu S., L’anno del campo selvatico – Il quaderno di Don Demetrio
Gunales (41)
Cambosu S., Miele amaro (100)
Casu P., Notte sarda (90)
Cetti F., Storia naturale di Sardegna (52)
Cossu G., Descrizione geografica della Sardegna (57)
Costa E., Giovanni Tolu (21)
Costa E., Il muto di Gallura (34)
Costa E., La Bella di Cabras (61)
Costa E., Rosa Gambella (95)
Deledda G., Novelle, vol. I (7)
Deledda G., Novelle, vol. II (8)
Deledda G., Novelle, vol. III (9)
Deledda G., Novelle, vol. IV (10)
Deledda G., Novelle, vol. V (11)
Deledda G., Novelle, vol. VI (12)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. I (14)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. II (15)
Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. III (16)
De Rosa F., Tradizioni popolari di Gallura (89)
Dessì G., Il disertore (19)
Dessì G., Paese d’ombre (28)
Dessì G., Michele Boschino (78)
Dessì G., San Silvano (87)
Dessì G., Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo (94)
Edwardes C., La Sardegna e i sardi (49)
Fara G., Sulla musica popolare in Sardegna (17)
Fuos J., Notizie dalla Sardegna (54)
Gallini C., Il consumo del sacro (91)
Goddard King G., Pittura sarda del Quattro-Cinquecento (50)
Il Condaghe di San Nicola di Trullas (62)
Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado (88)
Lawrence D. H., Mare e Sardegna (60)
Lei-Spano G. M., La questione sarda (55)
Levi C., Tutto il miele è finito (85)
Lilliu G., La costante resistenziale sarda (79)
Lobina B., Po cantu Biddanoa (99)
Lussu E., Un anno sull’altipiano (39)
Madau M., Le armonie de’ sardi (23)
Manca Dell’Arca A., Agricoltura di Sardegna (59)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. I (4)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. II (5)
Manno G., Storia di Sardegna, vol. III (6)
Manno G., Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799 (27)
Manno G., De’ vizi de’ letterati (81)
Mannuzzu S., Un Dodge a fari spenti (80)
Martini P., Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 (48)
Mereu P., Poesias (96)
Montanaru, Boghes de Barbagia – Cantigos d’Ennargentu (24)
Montanaru, Sos cantos de sa solitudine – Sa lantia (25)
Montanaru, Sas ultimas canzones – Cantigos de amargura (26)
Moscati S., Fenici e Cartaginesi in Sardegna (102)
Muntaner R., Pietro IV d’Aragona, La conquista della Sardegna
nelle cronache catalane (38)
Mura A., Su birde. Sas erbas, Poesie bilingui (36)
Mura G. A., La tanca fiorita (98)
Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,
vol. I (42)
Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,
vol. II (43)
Pallottino M., La Sardegna nuragica (53)
Pesce G., Sardegna punica (56)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu A-C (74)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu D-O (75)
Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu P-Z (76)
Rombi P., Perdu (58)
Ruju S., Sassari véccia e nóba (72)
Satta S., De profundis (92)
Satta S., Il giorno del giudizio (37)
Satta S., La veranda (73)
Satta S., Canti (1)
Sella Q., Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna (40)
Smyth W. H., Relazione sull’isola di Sardegna (33)
Solinas F., Squarciò (63)
Solmi A., Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo (64)
Spano G., Proverbi sardi (18)
Spano G., Vocabolariu sardu-italianu A-E (29)
Spano G., Vocabolariu sardu-italianu F-Z (30)
Spano G., Vocabolario italiano-sardo A-H (31)
Spano G., Vocabolario italiano-sardo I-Z (32)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. I (44)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. II (45)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. III (46)
Spano G., Canzoni popolari di Sardegna, vol. IV (47)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna A-C (67)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna D-M (68)
Tola P., Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna N-Z (69)
Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. I (82)
Tyndale J. W., L’isola di Sardegna, vol. II (83)
Varese C., Il Proscritto (97)
Valery, Viaggio in Sardegna (3)
Vuillier G., Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio (77)
Wagner M. L., La vita rustica (2)
Wagner M. L., La lingua sarda (13)
Wagner M. L., Immagini di viaggio dalla Sardegna (65)
Finito di stampare nel mese di novembre 2004
presso lo stabilimento della
Fotolito Longo, Bolzano
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