la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 29 MARZO 2015 NUMERO 525 Cult La copertina. La carica dei detective 2.0 Straparlando. Giovanna Marini: “Il mio canto libero” Mondovisioni. La Valletta, cuore antico di Malta SIMONETTA FIORI ANNA FRANK AMSTERDAM, LUNEDÌ 29 APRILE 1940 I una bambina. Non solo nel corpo, costretto a una dolorosa convivenza anche con estranei, otto persone in sessanta metri quadri, giorno e notte sempre insieme, e quasi sempre in silenzio, nascosti dietro la libreria girevole al numero 263 della Prinsengracht. Ma anche nella testa la quattordicenne Anna divenne improvvisamente un’adulta. Una metamorfosi accelerata dalla guerra e dalla paura, perché il buio ti fa scavare dentro alla ricerca di un senso. E la letteratura può essere un buon rifugio, anche migliore di quello segreto dove la famiglia Frank aveva trovato riparo. “Il libro dei bei pensieri”, così decise di chiamarlo. Un registro di contabilità donatole dal padre Otto, dove prese l’abitudine di annotare le parole degli altri. Classici e minori, Tommaso Moro, Shakespeare e Goethe, ma anche una scrittrice come Alice Bretz, completamente cieca, capace però di trovare la luce nella malattia. «Finché esiste la bellezza, perché mai un uomo dovrebbe sentirsi solo?», annota Anna nel quadernone. Non c’è la riposta perché non c’è neppure la bellezza, in un’Amsterdam assediata dai nazisti nel 1943. Non è voluminoso “Il libro dei bei pensieri”. Solo trenta citazioni che però accendono una nuova luce su Anna, sottratta alla condizione di vittima e restituita alla pienezza della sua vita intellettuale prima della tragedia. Non più solo l’autrice del Diario, testimonianza del genocidio ebraico e parte irrinunciabile delle memorie del mondo. Ma anche una grande lettrice, compulsatrice irrequieta e sorprendente di testi che s’interrogano sulla pace e la guerra, sulla giustizia e l’utopia, sul libero arbitrio e la schiavitù. Il merito dell’opera omnia, ora tradotta per la prima volta in Italia da Einaudi nel settantesimo anniversario della morte, è proprio quello di consegnarci la fotografia di Anna prima del mito, prima di farsi simbolo di una storia grande che ha finito per inghiottire tutto. Un ritratto che parte da lontano, dalle lettere di una bambina giocosa e arguta, incline agli scherzi e ai valzer sul ghiaccio. E molto vanitosa. C ara Juanita, ho ricevuto la tua lettera e voglio risponderti più presto possibile. In casa nostra Margot e io siamo le uniche bambine. Nostra nonna vive con noi. Mio padre ha un ufficio e mia madre lavora in casa. Io abito non lontano da scuola e sono in quinta classe. Noi non abbiamo lezioni di un’ora, possiamo fare quello che vogliamo. Naturalmente dobbiamo raggiungere un certo obiettivo. Tua madre di certo conoscerà questo metodo, si chiama Montessori. Abbiamo pochi compiti a casa. Ho guardato di nuovo sulla cartina e trovato il nome Burlington. Ho chiesto a una mia amica se vuole scrivere a uno dei tuoi amici. Lei vorrebbe scrivere a una ragazza circa della mia età, non a un maschio. Ti scrivo sotto il suo indirizzo. La lettera che ho ricevuto da te l’hai scritta tu, o l’ha scritta tua madre? Allego una cartolina di Amsterdam e te ne manderò altre, io faccio raccolta di cartoline e ne ho già circa ottocento. Una mia ex compagna di scuola è andata a New York e qualche tempo fa ha scritto una lettera alla nostra classe. Se tu e Betty vi fate una foto, mandamene una copia perché sono curiosa di sapere che aspetto hai. Il mio compleanno è il 12 giugno. Per favore fammi sapere quando è il tuo. Magari una delle tue amiche potrebbe scrivere per prima alla mia amica, perché lei non sa scrivere in inglese ma suo padre o sua madre possono tradurre la lettera. Spero di sentirti presto >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE ANNA FRANK NEL 1934, QUANDO AVEVA CINQUE ANNI E PESAVA VENTICINQUE CHILI / © ANNE FRANK FONDS, BASEL N POCHE SETTIMANE CESSÒ DI ESSERE un caro saluto dalla tua amica olandese Annelies Marie Frank. P.S. Per favore mandami l’indirizzo di una ragazza. *** VENERDÌ 13 DICEMBRE 1940 Cara nonna e caro Stephan, tanti auguri per il vostro compleanno e spero che presto potremo festeggiarlo anche insieme. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Anna prima del diario L’album dei ricordi di una bambina che non era ancora diventata un simbolo La storia. Quando i poveri cristi parlarono alla radio L’immagine. Le illustrazioni per i più piccoli viste da un adulto: Lorenzo Mattotti Spettacoli. Erika Lust, vi spiego perché il porno può essere femminista Next. Da New York a Pechino in due ore e mezza (ma in treno) Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 30 La copertina. Marzo 1945 - 2015 Leconfidenzeall’amicadipenna (“Iocollezionocartoline,etu?”) eiconsiglichiestiallanonnaAlice (“Seidirittieseirovesci,giusto?”) PerlaprimavoltainItalia ipensierinidiunabambina checommuoveràilmondo conilsuodiario <SEGUE DALLA COPERTINA SIMONETTA FIORI IL LIBRO TUTTI GLI SCRITTI DI ANNE FRANK, EINAUDI SUPER ET 2015 (DIARI – RACCONTI DELL’ALLOGGIO SEGRETO – ALTRI RACCONTI – LETTERE – FOTOGRAFIE E DOCUMENTI) A CURA DELL’ANNE FRANK FONDS DI BASILEA CON SAGGI DI GERHARD HIRSCHFELD, MIRJAM PRESSLER E FRANCINE PROSE (875 PAGINE, 28 EURO) SARÀ IN LIBRERIA DAL 31 MARZO CON TRADUZIONI DAL NEERLANDESE DI LAURA PIGNATTI, ARRIGO VITA, ELIO NISSIM E SABINA DE WAAL, DAL TEDESCO DI SILVIA CAMATTA E DALL’INGLESE DI ALESSANDRA MONTRUCCHIO A NNAFUL’ULTIMAADARRIVARENELL’APPARTAMENTO in Merwedeplein, ad Amsterdam, nella primavera del 1934. L’avevano preceduta i genitori insieme a Margot, la sorella maggiore di tre anni. Erano dovuti scappare da una Francoforte divenuta ostile alle famiglie ebree. Grazie allo zio Erich, il padre Otto era riuscito ad aprire la sede olandese della Opekta, una ditta alimentare. La vita agli inizi non era affatto male. Anche le prime missive alla nonna paterna Alice, rifugiata in Svizzera con la figlia, restituiscono i rituali di una famiglia borghese in un bel quartiere affollato di immigrati tedeschi. La mattina a scuola, metodo Montessori. Nei giorni di festa un salto alla pista di pattinaggio, il momento prediletto da Anna. E poi i compiti a casa, la collezione di cartoline, lo studio delle lingue, le nuove amicizie, anche la scoperta di un mondo maschile in cui non appare a disagio («i ragazzi non mi mancano»). Insomma una felice quotidianità vissuta con piglio sicuro, a tratti impertinente, soprattutto nel confronto con Margot, più studiosa e riflessiva. Una differenza che non passa inosservata alle maestre. Molti anni più tardi, un’insegnante avrebbe confessato che il celebre diario se lo sarebbe aspettato da Margot, non da Anna. La tonalità allegra e spensierata è destinata a spegnersi nel settembre del 1939, con l’inizio della guerra, e nove mesi più tardi con l’invasione nazista dell’Olanda. Sono solo rapidi accenni, nelle lettere alla nonna Alice, che però disegnano l’angoscia di quei mesi: le finestre oscurate, il pattinaggio artistico rimandato a tempi migliori, il padre che va a vivere nell’ufficio sulla Prinsengracht. Anna non lo dice espressamente, forse non lo sa neppure, ma si tratta di una precauzione adottata da Otto per allontanare i sospetti dalla sua famiglia. Nell’estate del 1942 arriva improvvisa la chiamata per Margot: deve presentarsi il tal giorno in un certo luogo per essere portata in un campo di lavoro. Non c’è più tempo da perdere. Il padre aveva già preparato da tempo l’alloggio segreto nella sede della Opekta. La famiglia Frank si trasferisce al primo piano dell’elegante palazzo. Ne sarebbe uscita due anni dopo. In compagnia delle SS. Di quel periodo sappiamo già tutto grazie al Diario, che documenta la capacità di elaborazione maturata precipitosamente dalla ragazza. Una consapevolezza — scopriamo ora — nutrita da innumerevoli letture lumeggiate per la prima volta dal nuovo volume einaudiano. In fondo anche Anna è una “ladra” di libri, mandante segreta di Miep Gies, l’eroica collaboratrice di Otto che procura alla famiglia Frank non solo cibo e medicine ma anche una biblioteca clandestina. «È Anna a ordinare i titoli che Miep acquista in libreria o prende in prestito negli scaffali pubblici», SUO PADRE LE REGALÒ UN QUADERNO CONTABILE CHE LEI CHIAMÒ “IL LIBRO DEI PENSIERI”. PRESE L’ABITUDINE DI ANNOTARVI LE FRASI DEGLI SCRITTORI CHE PIÙ LA COLPIVANO. L’ULTIMA, MAGGIO 1944, FU SUA. SCRISSE: CHI NON SA ASCOLTARE NON SA NEMMENO RACCONTARE ci racconta Frediano Sessi, curatore dell’edizione critica del Diario. «Qualche volta li sceglieva lo stesso Otto, industriale colto che aveva in carico l’educazione delle figlie». Non sembra composta a caso la libreria di casa Frank. Un gioco di rimandi tra filosofia, antropologia e teologia nel quale trovare significato e conforto per la tragedia del presente. “Se non morire è l’unico obiettivo della vita, che cos’è per il popolo la bellezza della primavera? Niente! Un cielo stellato? Niente! Cos’è l’arte per il popolo? Niente!”. Sono i versi dello studioso Eduard Douwes Dekker, critico verso gli aspetti più crudeli del colonialismo olandese: come pseudonimo aveva scelto un verso di Ovidio, Multatuli, ovvero “ho sopportato molte cose”. Sopporta molte cose anche Anna, costretta alla reclusione, a una convivenza litigiosa, al silenzio. Cerca il suo posto nel mondo attraverso le parole, scritte e lette. S’interroga su Dio e sul mestiere delle armi, sul dialogo tra Galilei e Bellarmino (tratto da Il titano di Harsanyi) e sull’utopia di Moro. Anche la morte rimbalza nelle sue letture, inseguita e schivata, e alla fine accolta perché “come può il creato essere sempre nuovo e giovane, se non elimina esso stesso le vecchie forme? (dal Canto eterno di F.J. de Clercq Zubli)”. Il creato eliminò anche lei, anche se non era ancora “una vecchia forma”. La prelevarono nell’agosto del 1944, appena quindicenne. L’ultimo suo “bel pensiero” porta la data di maggio. «Chi non sa ascoltare, non sa nemmeno raccontare». Non c’è una fonte, forse era un pensiero tutto suo. Lei aveva ascoltato le voci del mondo, anche per questo ha saputo raccontarle. Le lettere di Anna Frank © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 31 LE AMICHE DA SINISTRA: LA CUSTODIA PER IL PIGIAMA SU CUI ANNA RICAMÒ LA“BUONA NOTTE”: IL PADRE, OTTO, LA REGALÒ AL SUO CUGINETTO BERND; CON LE AMICHE NEL GIORNO DEL DECIMO COMPLEANNO (1939) “Mi piacerebbe farmi crescere ancora i capelli” <SEGUE DALLA COPERTINA ANNA FRANK PERIAMO PROPRIO che questo sia stato il compleanno più brutto. Questo pomeriggio ho fatto un dettato e c’erano ben ventisette sbagli. Voi riderete, quando lo leggerete, ma non è proprio così strano perché era molto difficile e io non sono così brava nei dettati. Margot ha avuto una bellissima pagella e io sono molto fiera di lei. Non credo di riuscire ad avere tutti 8 e 9 anch’io un domani. Vi faccio tanti auguri per l’anno nuovo. Tanti bacetti a tutti, ma soprattutto alla nonna, la vostra Anna S *** PRIMAVERA 1941 Cara nonna, come stai? L’anno prossimo cambierò scuola, spero di poter andare alle superiori. Ho tantissimo da studiare, non riesco quasi più a giocare per strada. Presto avrò un nuovo vestito, è terribilmente difficile trovare la stoffa e per averla ci vogliono tantissime tessere. Hanneli è malata, a scuola non è affatto brava come me, è rimasta molto indietro, e io non sono certo la migliore. Adesso due volte la settimana va da lei un signore per aiutarla a recuperare. Papà ha tanto lavoro in ufficio, presto si trasferisce perché sul Singel ha troppo poco posto. Abiterà in Prinsengracht e così andrò a prenderlo molto spesso alla fermata del tram. Sono contenta di dormire con papà, però preferirei dormire al piano di sotto per un motivo diverso e che i tempi fossero di nuovo normali. Sto facendo un maglioncino ai ferri, è un modello molto carino ma anche facile. Farò uno schizzo alla fine di questa lettera. Sono sempre sei dritti e sei rovesci fino a fare un quadratino. Ho i capelli abbastanza lunghi, ma l’avrete visto sulla foto. Papà e mamma vogliono farmeli tagliare, io invece preferisco lasciarli crescere. Voi come state? Mi piacerebbe tanto vedere Bernd sul ghiaccio una volta, speriamo che sia prima di quanto tutti pensiamo! Al corso di francese sono la migliore, anche lì ci danno i voti, ma solo prima delle vacanze autunnali. Il corso di ebraico al momento è sospeso e anche in inverno non credo di poterci andare perché dovrei tornare a casa al buio e non mi piace e non mi lasciano nemmeno. Ho un apparecchio in bocca per regolare i denti. Adesso devo andare dal dentista tutte le settimane e il giorno dopo si leva. Sono già otto settimane e naturalmente lo trovo molto noioso. Adesso devo smettere di scrivere perché devo andare a letto. Tanti saluti a zio Erich, zia Lenie, Stephan, Bernd e nonna Ida, e ancora tanti bacetti a te dalla tua Anna ©Einaudi 2015, Anne Frank Fonds, Basel © RIPRODUZIONE RISERVATA I RITRATTI AL CENTRO DELLE PAGINE, DA SINISTRA, I RITRATTI DI ANNA DAI SEI AI TREDICI ANNI (’35, ’36, ’37, ’39, ’40 E ’42). QUI A SINISTRA IN ALTO UNA LETTERA ALLA NONNA PATERNA ALICE (NELLA FOTO A DESTRA) DEL DICEMBRE 1936. E, PIÙ IN BASSO, UNA DEDICA ALL’AMICA DINIE NELL’ALBUM DEI RICORDI DEL 1940. IN ALTO UNA PAGINA DEL SUO “LIBRO DELL’EGITTO”; UNA DAL DIARIO DEL12 GIUGNO 1942; L’ULTIMA PAGINA DEL DIARIO: 1 AGOSTO 1944. ANNA MORIRÀ NEL LAGER DI BERGEN-BELSEN NEL MARZO 1945 Repubblica Nazionale 2015-03-29 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 32 La storia.Onde lunghe Sosdalla radio dei poveri cristi Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 33 Il 25 marzo 1970 in un piccolissimo paese della Sicilia occidentale nacque la prima radio libera d’Italia.A inventarla fu un sociologo di Trieste, Danilo Dolci. Lui e i suoi amici volevano dare voce a chi voce non aveva. Durò poco: ventisei ore. Ma c’è chi se la ricorda ancora LE IMMAGINI ATTILIO BOLZONI ©NINO SGROI-FRANCO LANNINO/STUDIO CAMERA T UTTO È COMINCIATO CON L’ACQUA che i signori del latifondo e i loro campieri volevano solo per sé. Poi il terremoto del Belice del ‘68, trecentosettanta morti, settantamila sfollati, Gibellina e Salaparuta rase al suolo, paesi che non esistevano più. Accampati ancora nelle tende — e pochi fortunati nelle baracche di lamiera — dopo due anni di vita grama i superstiti sentirono improvvisamente una voce da brivido: «Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale...». Pino si ricorda che «era verso l’imbrunire», la sera quella del 25 marzo, l’anno il 1970. Forse fu lui a sollevare la pesante leva di ferro o forse Franco Alasia che era seduto lì accanto, tutti e due chiusero gli occhi, trattennero il respiro e nell’etere si diffuse la voglia di rivolta della prima radio libera italiana. Mandava segnali da Partinico, ventinove chilometri da Palermo e settantuno da Trapani, vigne e miseria, boss e contadini, padroni e servi. In modulazione di frequenza sui 98,5 megahertz e in onde corte sui 20,10, la trasmissione clandestina durò ventisei ore. Ventisei ore di libertà. Poi arrivarono i carabinieri. In questo 2015 che celebra il quarantesimo compleanno delle emittenti private bisogna fare un salto indietro di cinque anni e scendere molto più giù di Parma o Bologna o di Biella, più giù di Milano e Roma, per scoprire che sui tetti di una costruzione ottocentesca, Palazzo Scalia — a pochi metri dalla piazza dove un paio di mesi prima Damiano Damiani aveva girato Il giorno della civetta — c’era un’antenna. E al primo piano c’era qualcuno, barricato in una stanza con cento litri di gasolio per alimentare un generatore. La radio appena accesa, le zaffate di nafta che soffocavano l’aria, l’eccitazione del proibito e un po’ di paura. «Pensavamo che a un certo punto staccassero l’energia elettrica e ci eravamo premuniti del carburante per potere continuare la nostra trasmissione comunque», racconta Pino, Pino Lombardo, che allora aveva trent’anni ed era un emigrante di ritorno dal Venezuela dove aveva fatto il SOS. SOS. maestro, insegnato italiano, venduto scarQUI PARLANO pe e macellato polli. È passato quasi mezzo I POVERI CRISTI secolo ma nella sua memoria è come se tut- DELLA SICILIA to fosse avvenuto ieri: «Io e Franco eravamo OCCIDENTALE. dentro, Danilo era fuori su un palco in mez- SOS. SOS. zo alla folla, è successo in un attimo ma era SICILIANI, ITALIANI, iniziato molto, molto tempo prima». UOMINI DI TUTTO IL MONDO Pino Lombardo e lo studente-operaio di ASCOLTATE: SI STA Sesto San Giovanni Franco Alasia, i due “al- COMPIENDO UN DELITTO lievi” che avevano seguito Danilo Dolci nel- ASSURDO. SI LASCIA la comunità-laboratorio “Borgo di Dio” a SPEGNERE UNA INTERA Trappeto, l’uomo di confine venuto da Trie- POPOLAZIONE. ste nella Sicilia più povera e prigioniera, uto- LA POPOLAZIONE pista di mestiere, sociologo, pedagogo, filo- DEL BELICE, DELLO JATO sofo, pacifista e musicista, agitatore socia- E DEL CARBOI, le, scrittore, giornalista, poeta. E inventore LA POPOLAZIONE della prima radio d’Italia che non era la Rai. DELLA SICILIA «Qui parlano i poveri cristi della Sicilia CHE NON VUOLE MORIRE. Occidentale...». NON SI PUÒ VIVERE L’idea Danilo Dolci ce l’aveva da qualche NELLE BARACCHE. anno, quando avevano innalzato una gran- LO STATO ITALIANO de diga. Ma le valli dello Jato, del Carboj e del HA SPRECATO MILIARDI, Belice erano sempre a secco. Sete di acqua e A QUEST’ORA LA ZONA di giustizia. Così iniziò a immaginarsi una POTEVA ESSERE radio che poteva dare voce a chi non l’aveva. RICOSTRUITA CON CASE Sapeva che era fuorilegge, un giorno pensò VERE, STRADE, SCUOLE, perfino di installarla su un barcone che OSPEDALI. DI BUROCRAZIA avrebbe navigato al largo dell’isola, in alto SI PUÒ MORIRE. mare, fuori dalla sovranità dello Stato ita- GALLEGGIANO I PARASSITI, liano. Però, dopo il terremoto catastrofico, GLI IMBROGLIONI, dopo i morti e il saccheggio sui fondi della ri- GLI INTRIGANTI, I PAROLAI. costruzione (le ruberie italiche sulle trage- I POVERI CRISTI die hanno radici lontane, ben prima dell’A- VANNO A LAVORARE quila e dell’Emilia e dell’Irpinia), Danilo OGNI GIORNO capì che bisognava «accendere» subito la ra- ALLE QUATTRO dio della «nuova resistenza». DEL MATTINO Studiarono tutto nei dettagli e in gran se25 MARZO 1970, ORE 17.31 greto. Franco Alasia si mise in contatto con INIZIANO LE TRASMISSIONI alcuni amici del Nord per procurarsi le apDI “RADIO LIBERA DI PARTINICO” parecchiature e imparare a usarle, Pino Lombardo e l’antropologo Antonino Uccello raccolsero con un registratore le interviste ai disperati abitanti della Valle del Belice e ai loro sindaci. All’ultimo momento il profeta triestino inviò una lettera al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, al Presidente del Consiglio Mariano Rumor e al ministro dell’Interno Franco Restivo, informandoli di ciò che stava accadendo in un piccolo comune siciliano chiamato Partinico: «Signori, nessuna casa, neppure una sola casa lo Stato italiano è stato capace di costruire in più di due anni… Assumendo la responsabilità dell’iniziativa specifico: ogni cura abbiamo preso affinché sul piano tecnico radiofonico questa trasmissione non sia di nocumento ad alcuno... Impedire in qualsiasi modo l’ascolto della voce dei più sofferenti sarebbe un delitto, una crudeltà senza senso...». Un’altra lettera aveva come destinatari le Forze dell’Ordine. Poche righe, gli anni erano quelli delle cariche e in Sicilia tutti se la ricordavano bene la sbirraglia di Mario Scelba: «Risponderete, personalmente come Organi al servizio del bene comune, di ciascuno dei vostri atti: di fronte alla coscienza della popolazione della zona, dell’Italia e del mondo intero». Alle 17.31 la piazza di Partinico era gremita, un corteo aveva attraversato il corso principale «a sostegno delle genti delle zone terremotate». Poi Dolci fece un cenno e le voci dei «poveri cristi» riecheggiarono in tutta l’isola. Pino Lombardo — che oggi vive a Santa Ninfa — è rimasto il solo testimone (Alasia se n’è andato nel 2006, Dolci nove anni prima) di quella straordinaria avventura di radio libera, quattro ore di messaggi ripetuti in modulazione di frequenza per i siciliani e in onde corte «per tutto il mondo», in italiano e in lingua inglese, denunce e accuse alternate da musiche di Alessandro Scarlatti e da una canzone, La Sicilia camina, di Ignazio Buttitta. L’ultima voce recitava l’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Pino e Franco Alasia hanno resistito per un giorno e una notte e altre due ore ancora; la radio, un tavolino di legno, due sgangherate sedie. Poi hanno sentito rumore di ferri, visto le luci violente dei fari, fuori c’erano poliziotti e carabinieri che avanzavano, davanti a loro una squadra di vigili del fuoco. «Prima hanno rotto con la tenaglia il lucchetto di un cancello, poi hanno sfondato la porta al primo piano del Centro studi di Palazzo Scalia e hanno ordinato di interrompere le trasmissioni», ricorda Pino ricostruendo ogni attimo di quel finale spericolato. Non furono arrestati: «Ci chiesero i documenti per l’identificazione di rito, secondo me non ci trascinarono in caserma perché ebbero paura della folla là fuori, pronta a far barriera nel caso che ci avessero portati via». A Partinico arrivarono molti messaggi di amicizia. Dalla Norvegia, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’Abbé Pierre fondatore di Emmaus e da Ernesto Treccani. Scrisse anche Italo Calvino: «A vegliare a Partinico stanotte è la coscienza d’Italia, una coscienza che è per così poca parte rappresentata dalla classe dirigente, e che è amaro privilegio dei poveri». E poi, poi come è finita? «Un pretore sequestrò la radio, Franco Alasia e io fummo denunciati, condannati e amnistiati». Il reato: violazione delle norme del codice postale. Qualche mese dopo la sentenza di Cassazione — era il 1973 — ai due che stavano dentro Palazzo Scalia fu restituita l’apparecchiatura, il generatore elettrico e anche i fusti con dentro i cento litri di gasolio. Ma ormai Radio Libera di Partinico aveva scritto la storia. Quella che non capirono mai i tanti nemici di Danilo Dolci. Come quel porporato che, fra un’abbuffata e l’altra nella tenuta della Favarella di Michele Greco detto “il papa della mafia”, tra i mali della Sicilia includeva (oltre a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa «motivo di diffamazione dell’isola») anche «il pubblicista triestino Danilo Dolci». Scriveva Sua Eminenza Ernesto Ruffini, cardinale di Palermo e amministratore apostolico di Piana degli Albanesi: «Tengo d’occhio l’elenco delle sua gesta, che non specifico per non scendere a particolari incresciosi. Basti dire che dopo più di dieci anni di pseudo-apostolato questa terra non può vantarsi di alcuna opera sociale di rilievo che sia da attribuirsi a lui». UNA RADIO, DUE ALTOPARLANTI, UN TAVOLO E QUALCHE SEDIA: È IL MARZO 1970, DANILO DOLCI (1924 - 1997) CONTINUA LE TRASMISSIONI NELLA PIAZZA ANTISTANTE IL “CENTRO STUDI E INIZIATIVE” DA LUI FONDATO A PARTINICO (PALERMO). IN BASSO, NELLA FOTO PICCOLA, IL MOMENTO IN CUI POLIZIA E CARABINIERI FANNO IRRUZIONE NELLA SEDE DELLA “RADIO LIBERA DI PARTINICO” A PALAZZO SCALIA. LE FOTO VENNERO SCATTATE DA NINO SGROI REPUBBLICA.IT SUL SITO SI POSSONO ASCOLTARE LE VOCI DI “RADIO LIBERA DI PARTINICO”. IL CD DA CUI SONO TRATTE FU PRODOTTO DA AMICO DOLCI NEL 35ESIMO ANNIVERSARIO DELLA TRASMISSIONE. I DOCUMENTI SONORI (ARCHIVIATI A CURA DELL’ISTITUTO ERNESTO DE MARTINO) SONO ACCOMPAGNATI DA SCRITTI RACCOLTI IN UN OPUSCOLO DAL “CENTRO PER LO SVILUPPO CREATIVO DANILO DOLCI” © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 34 L’immagine. Da favola I disegni per l’infanzia sono sempre più belli e difficili. Troppo? Mentre a Bologna i migliori si mettono in mostra, abbiamo girato la domanda a un grande illustratore FABIO GAMBARO PARIGI «I L MONDO DEL LIBRO PER L’INFANZIA è diventato un laboratorio per nuovi linguaggi e nuove forme, una zona di resistenza all’estetica formattata che domina l’universo audivisivo». Lorenzo Mattotti, grande illustratore italiano, da molti anni trapiantato a Parigi, guarda le illustrazioni “per bambini”, appunto, che saranno esposte in questi giorni alla “Children’s Book Fair” di Bologna. L’autore di Fuochi e Stigmate si è spesso rivolto anche ai più piccoli, per esempio con Eugenio o Le avventure di Barbaverde, o illustrando grandi classici come Pinocchio, Hänsel e Gretel, Aladino e la lampada meravigliosa. «Una volta i libri per i bambini avevano tratti e colori molto semplici. Oggi, invece, come dimostrano molti di questi disegni, sono sempre più elaborati e raffinati, anche perché gli illustratori sono sempre più bravi», spiega il disegnatore che sta lavorando a un film d’animazione in 3D tratto da La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati. «È una tendenza che si è imposta negli ultimi vent’anni, prima in Francia, poi nel resto del mondo. A poco a poco, la letteratura per l’infanzia ha conosciuto una significativa evoluzione nella stilizzazione di personaggi e paesaggi, nelle tecniche e nell’uso dei colori. Quando ero piccolo, le immagini dei libri per l’infanzia erano codificate, semplici, didascaliche. Direi che miravano a una sorta di naturalismo per bambini. Oggi, e devo dire per fortuna, gli illustratori si sono emancipati da questo realismo didascalico. Cercano piuttosto di sviluppare e liberare la fantasia dei piccoli lettori, proponendo loro immagini originali da reinterpretare e reinventare. L’illustrazione è diventata così un appello alla libertà dell’immaginario per abituare i bambini alla varietà delle rappresentazioni della realtà e delle simbologie delle immagini». Ma non c’è il rischio che per i più piccoli questi disegni siano troppo difficili e complicati? «Non credo, anche se certo non mancano immagini che possono apparire loro incomprensibili e astratte. Naturalmente ciò dipende sempre da come le singole illustrazioni si articolano all’interno della storia. Un disegno può essere molto elaborato, ma perfettamente funzionale al racconto. L’importante è che le immagini, anche complicate, siano necessarie allo sviluppo della narrazione e non fini a se stesse. Solo così diventano un’occasione di scoperta. Per quanto riguarda la percezione visiva, i bambini sono molto più aperti e ricettivi di quanto non s’immagini. Occorre però riuscire a entrare nel loro mondo». Un autore deve pensare al punto di vista del bambino? «È una questione molto dibattuta. Io penso che occorra sempre fare lo sforzo di farsi capire, cercando di adottare i loro codici. Ci sono autori che ci riescono in modo naturale, io invece devo sforzarmi molto. Saper entrare naturalmente nel mondo dei più piccoli è una dote che non ho. Quindi, quando mi rivolgo loro, tutta la difficoltà consiste nel riuscire a ritrovare immediatezza, spontaneità e leggerezza, pur senza rinunciare alla profondità del mio lavoro. Per esempio, quando ho creato Le avventure di Barbaverde mi sono sforzato di usare tipologie e codici molto semplici, anche se le storie erano forse più elaborate di quanto sembrasse a prima vista». All’opposto c’è invece il suo Hänsel e Gretel, un libro molto cupo, tutto in bianco e nero, che non sembra preoccuparsi molto dei piccoli destinatari... «In effetti, non l’ho fatto per i bambini, ma pensando ai miei ricordi di bambino quando ascoltavo quella storia. Ho cercato di riprodurre le emozioni di allora, sentendomi completamente libero nella rappresentazione. In realtà poi ho scoperto che queste immagini inquietanti possono affascinare moltissimo anche i bambini, perché scatenano il loro immaginario e la loro fantasia. E poi perché i bambini hanno bisogno di confrontarsi con la paura, con il dramma e il mistero. Ed è sempre meglio farlo a casa, con una storia letta dai genitori, piuttosto che in strada di fronte a un pericolo vero». Secondo lei con i bambini si può affrontare qualsiasi argomento? «Penso di sì, basta trovare i modi e il linguaggio giusti per farlo. Forse è anche per questo che spesso preferisco partire dai classici, cercando ogni volta una soluzione originale adeguata alla storia. Oggi molti autori per l’infanzia sentono il bisogno di affrontare i temi sociali ed essere politicamente corretti, alla fine però prevalgono storie troppo serie, un po’ tristi e grigie. Più che per i bambini, sembrano storie fatte per genitori. Naturalmente è giusto affrontare questi temi, ma occorre fare in modo che le storie restino Ma i bambini li guardano? Lorenzo Mattotti.Non importa quanto siano complicati e astratti Importa quanti mondi aprano sempre una finestra spalancata sull’immaginazione. Purtroppo il libro per l’infanzia si rivolge ai bambini ma contemporaneamente anche agli adulti, visto che poi sono loro a scegliere quali libri acquistare per i loro figli. E talvolta questo doppio destinatario diventa una trappola, perché si rischia di privilegiare inconsciamente gli adulti». Quanto pesa sul lavoro degli illustratori l’estetica dominante dell’universo audiovisivo? «Questa estetica ha colonizzato il nostro immaginario in maniera insidiosa, il che spiega un certo appiattimento della produzione generale. Per questo bisogna offrire ai bambini le esperienze estetiche più diverse, arricchendo il loro sguardo e liberandoli dagli stereotipi, magari anche sfruttando tradizioni grafiche e narrative locali. Al contempo però occorre evitare di cadere in una prospettiva troppo elitaria. Bisogna imparare a spettacolarizzare il proprio mondo originale, renderlo affascinante ai più, anche sfruttando le regole dello spettacolo. È quello che sto cercando di fare con le immagini del film che sto preparando da La famosa invasione degli orsi in Sicilia: lì vorrei rivolgermi a tutti, a grandi e piccoli, proponendo qualcosa di diverso e al contempo di spettacolare. Vedremo se ci riuscirò». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 35 Solo gli innocenti trovano il mistero nell’ordinario MILTON GLASER I DISEGNI A PRIMA DIFFICOLTÀ che incontra chi vuole raccontare una storia attraverso le immagini è quella di organizzare queste immagini in un flusso narrativo capace di far scorrere il racconto senza confondere il lettore. Questo si chiama “livello minimo di professionalità” e non è necessariamente una meta che, personalmente, mi prefiggo. Ma c’è un altro aspetto nella sfida, e consiste nel produrre qualcosa il cui contenuto poetico amplifichi o estenda il racconto stesso in un’esperienza simbolica che stimoli la mente. Già, ma se poi chi vuole raccontare una storia attraverso le immagini la vuole raccontare a un bambino e non a un adulto le cose cambiano? Per questo interrogativo cosmico non ho che una risposta generica. Suppongo che l’innocenza dei bambini permetta loro di sperimentare il mondo con un minor bagaglio di aspettative e convinzioni rispetto agli adulti. Di conseguenza, almeno dal punto di vista ideale, sono più aperti e pronti ad accettare l’ambiguità. Gli adulti, invece, vivono ogni esperienza convinti di aver già capito il mondo. Il che è un grosso ostacolo. Potranno mai cogliere l’aspetto misterioso dell’ordinario? L A SINISTRA “LE NOTTI” DI KYOUNGMI AHN (SUDCOREA), SOTTO “IL BANCHETTO” DI MARIA FLORENCIA CAPELLA (ARGENTINA) E, SOPRA IL TITOLO, “EGO” DI SANGSUN AN (SUDCOREA). AL FONDO DELLA PAGINA, IN BIANCO E NERO, UN DISEGNO DALL’“HÄNSEL E GRETEL” DI LORENZO MATTOTTI LA MOSTRA QUI SOPRA “UN PROBLEMA IMPORTANTE” DI WON HEE JO (SUDCOREA); SOTTO “LA PISCINA” DI VERONIKA KLIMOVA (SLOVACCHIA); IN BASSO A DESTRA “LA MIA CITTÀ” DI RYO TAKEMASA (GIAPPONE) E IN BASSO A SINISTRA “BALLA COI LUPI” DI FRANCO GIUSTOZZI (ITALIA). TUTTI I DISEGNI PUBBLICATI IN QUESTE PAGINE (TRANNE QUELLO DI LORENZO MATTOTTI) SARANNO IN MOSTRA ALLA CHILDREN’S BOOK FAIR DI BOLOGNA DA DOMANI A GIOVEDÌ 2 APRILE E PER LA PRIMA VOLTA RACCOLTI NELL’“ILLUSTRATORS ANNUAL 2015” EDITO DA CORRAINI (192 PAGINE, 35 EURO) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 36 Spettacoli. XXX HIDEOUT IN THE SUN (1960) DI DORIS WISHMAN GOLA PROFONDA (1972) DI GERARD DAMIANO DUE FRATELLI RAPINANO UNA BANCA E SI RIFUGIANO IN UN CAMPO NUDISTA. LA NOVITÀ È CHE A DIRIGERE UN FILM CON UOMINI E DONNE NUDI È PER LA PRIMA VOLTA UNA DONNA. CHE DOPO AVER GIRATO VARI “SEXPLOITATION” DIRIGE ANCHE VERI PORNO COME “SATAN WAS A LADY” LA RICERCA DELL’ORGASMO DA PARTE DI LINDA: TEMATICA FEMMINISTA PER IL FILM CHE SDOGANÒ IL PORNO CREANDO UN CASO MONDIALE. MOLTO MENO FEMMINISTA IL MARITO DI LINDA LOVELACE, CHUCK TRAYNOR CHE, PARE, LA COSTRINSE CON LA FORZA A RECITARE LA PARTE ERIKA LUST P ER SPIEGARE in due parole cosa faccio dovrei dire: “Sono una pornografa femminista”. Ma non è semplice usare il termine “femminista” e neppure il termine “pornografa”. Tanto meno associarli. Molto tempo fa, infatti, ci convinsero a pensare che essere femminista equivalesse a essere contro la pornografia. Quello che vorrei dimostrare io con il mio lavoro, invece, è che il porno ha un aspetto assolutamente femminista. E che il problema non è il porno in sé, ma come viene fatto. Sono una femminista, dunque, ma non temete: non c’è nulla di cui avere paura. Si tratta semplicemente di riconoscere un dato di fatto, ossia che gli uomini e le donne ancora oggi non godono di pari diritti e opportunità. Definendomi femminista dichiaro semplicemente di avere coscienza di questa differenza strutturale e di volermi impegnare perché le cose migliorino. Tutto qua. Molto più difficile spiegare in che senso mi consideri una pornografa. Se per pornografia si intende la rappresentazione esplicita della sessualità, allora non c’è dubbio, sono una pornografa. Le mie opere contengono materiale sessualmente esplicito. Molto esplicito. Però i miei film hanno poco in comune con quelli che normalmente definiamo porno. E questo perché quella del porno è un’industria fortemente maschile, caratterizzata da un’estetica rozza, come rozza è la rappresentazione del desiderio. Inoltre manca totalmente di fantasia e, di conseguenza, riproduce stereoti- pi. Nel mio caso preferisco dunque non parlare di “film porno” ma di “film erotici” o di “intrattenimento per adulti”. Così facendo però si può correre il rischio di generare altri equivoci. Il fatto che io sia una regista donna e che preferisca usare una terminologia piuttosto soft potrebbe far pensare che anche i miei film siano soft oppure che possano — addirittura — ammantare di romanticismo la sessualità. Insomma, possono dare l’idea che la mia sia semplicemente una versione soft, romantica e femminile del porno maschile, più hard e più diretto. Niente di più sbagliato, anzi, credo proprio che pensare questo significhi ricadere in un altro stereotipo ancora. È per dimostrare quanto il porno possa avere aspetti molto femministi che perseguo il mio obiettivo principale: aprire il settore alle donne. Mi riferisco ai ruoli di potere: non solo attrici o truccatrici, ma sceneggiatrici, registe, produttrici. Questo è il primo passo, poi cambieranno anche i risultati, cioè le immagini, i film. Non però con l’obiettivo di accostare al porno maschile una versione femminile, ma per completare il porno tradizionale con un ventaglio di rappresentazioni diverse. Il soggetto femminile etero vuole soddisfatto il suo desiderio. È un processo di democratizzazione che porrà anche fine all’esiguità che caratterizza l’offerta per gli uomini etero. Del resto anche agli uomini ormai viene a noia il porno standard, di massa, e non è un segreto che il porno contemporaneo dia delle donne un’immagine molto limitata. Per me si tratta quindi di iniziare a mostrare le donne come soggetti indipendenti, dotati di autodeterminazione rispetto al desiderio. Donne che conducono il gioco, prendono l’iniziativa e si divertono a vivere fino in fondo la propria sessualità. Ovviamente ogni donna si eccita in maniera diversa. Bisogna solo dar loro l’opportunità di esprimersi ed essere ascoltate. E per ottenere questo risultato, vi assicuro, si può fare di meglio che tenere con una mano la videocamera e con l’altra tirarsi giù i pantaloni. Il pubblico è stanco della scopata sportiva, del sesso meccanico in location di terz’ordine, di riprese mediocri su set ridicoli oltre ogni immaginazione. La gente vuole vedere sesso realistico, situazioni che avrebbero potuto accadere anche a loro. Vogliono protagonisti veri, che somiglino al BEHIND THE GREEN DOOR (1972) DI ARTIE E JIM MITCHELL L’INIZIAZIONE SESSUALE DI UNA FANCIULLA INTERPRETATA DA MARILYN CHAMBERS. IN QUESTO FILM, CHE INCASSÒ DECINE DI MILIONI DI DOLLARI ED È DIVENTATO UN CULT, C’È LA PRIMA SCENA DI SESSO INTERAZZIALE DEL CINEMA USA bel ragazzo della porta accanto o alla ragazza che incontri sempre alla fermata dell’autobus ma a cui non hai mai avuto il coraggio di rivolgere la parola. Per fare questo tipo di cinema serve un grande impegno a livello di sceneggiatura, di casting, di location, di arredamento, abiti, trucco e così via. E, ovviamente, conta anche la trama. Certo, nel porno vogliamo vedere gente che scopa, ma per avere sott’occhio dei genitali basta aprire un libro di biologia, mentre per una sveltina ci sono i video amatoriali di due minuti. Su internet abbondano. Un film porno, invece, deve essere innanzitutto un film nel pieno senso del termine: come si sono conosciuti i protagonisti? come si sono ritrovati a vivere la loro avventura erotica? In quest’ambito tutto è permesso e tutto è possibile. L’unico limite che mi pongo nel rappresentare realisticamente fantasie femminili etero è racchiuso nel concetto “sicuro, sano e consensuale”. Nel porno mancava esattamente tutto questo. E chi lo avrebbe mai fatto se non avessi provato io stessa? Così girai il mio primo corto, The Good Girl, per conto mio. Lo mostrai anche alla casa di produzione per cui lavoravo ma mi accorsi subito che loro volevano solo appiccicare l’etichetta “porno per donne” ai loro i prodotti per vendere la solita vecchia robaccia a un mercato nuovo. Così, sette anni fa, ho fondato una mia società. Pensavo che non avremmo mai potuto reggere la concorrenza. E invece abbiamo costruito un’attività fiorente. Pensavano che il porno fosse territorio solo dei maschi. Noi invece abbiamo conquistato un nuovo continente. Traduzione di Emilia Benghi © RIPRODUZIONE RISERVATA IL FESTIVAL IL TESTO DI ERIKA LUST (NELLA FOTO GRANDE) È TRATTO DA “PORN AFTER PORN” DI ENRICO BIASIN, GIOVANNA MAINA E FEDERICO ZECCA (MIMESI INTERNATIONAL, 346 PAGINE, 26 EURO) PRESENTATO AL FILMFORUM FESTIVAL DI UDINE/GORIZIA CHE HA ANCHE OSPITATO FEONA ATTWOOD E CLARISSA SMITH, EDITORS DELLA RIVISTA INTERNAZIONALE “PORN STUDIES”. (WWW.FILMFORUM FESTIVAL.IT) © ERIKA LUST FILMS DOMANI IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) ELENA STANCANELLI RACCONTA IL NUOVO CINEMA PORNO Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 EMMANUELLE (1974) DI JUST JAECKIN FEMME (1984) DI CANDIDA ROYALLE TRATTO DAL ROMANZO OMONIMO DI EMMANUELLE ARSAN, IL FILM RACCONTA LE AVVENTURE EROTICHE DI UNA DONNA DELL’ALTA BORGHESIA E DIVENTA NEGLI ANNI ’70 UN SIMBOLO DELL’EMANCIPAZIONE FEMMINILE. INNUMEREVOLI I SEQUEL È TRA I PRIMI HARD CHE CONSAPEVOLMENTE CAMBIA PROSPETTIVA: FILM PORNO PER DONNE GIRATI DA DONNE. CANDIDA ROYALLE, CHE FA ANCHE PARTE DI UN GRUPPO FEMMINISTA, È LA PIONIERA DEL GENERE: EX ATTRICE, NEL 1980 FONDA LA CASA DI PRODUZIONE FEMME FILMS Erika Lust THE SLUTS AND GODDESSES VIDEO WORKSHOP (1992) DI ANNIE SPRINKLE UN DOCUMENTARIO-SHOW PER IL “SELF EMPOWERMENT” DELLA DONNA DALLA PORNOFEMMINISTA UNDERGROUND AMERICANA ANNIE SPRINKLE. CHE È ANCHE ATTRICE E REGISTA DI SHOW COME “POST PORN MODERNIST” E “HERSTORY OF PORN” BAISE MOI (2000) DI VIRGINIE DESPENTES USCITO ANCHE IN ITALIA CON IL TITOLO “SCOPAMI”, FECE DISCUTERE IN FRANCIA E NON SOLO PER LE SUE SCENE BRUTALI DI STUPRO E RABBIOSA VENDETTA. L’AUTRICE, EX PUNK, EX PROSTITUTA SI DEFINISCE “ANARCO-FEMMINISTA” Che cosa cambia Faccio film S porno e femministi ELENA STANCANELLI “Mettete una donna alla macchina da presa e vedrete che le due cose non sono incompatibili” La più famosa regista di cinema hard racconta la rivoluzione di un genere 37 Ì, MA QUAL È LA DIFFERENZA? Quando nacque il progetto “Le ragazze del porno”, i maschi non capivano. Volete girare corti pornografici al femminile, d’accordo, ma qual è la differenza col porno tradizionale? Piccola pausa: comunque, posso partecipare? La sola espressione “pornografia femminile” provoca scetticismo ed eccitazione. Si pensa che quello del porno sia un linguaggio codificato e immutabile, perché senza quegli obbligati passaggi, non serve, non funziona. E le donne non potrebbero che renderlo più romantico e meno zozzo — grandissimo equivoco, basta guardare uno qualsiasi dei film diretti da Belladonna. Quindi: esiste un porno femminile, e come lo si riconosce? La questione è mal posta. Direi piuttosto che esiste da una parte un porno tradizionale — legato all’industria, alle star come Rocco Siffredi o Moana Pozzi — dall’altra un porno più moderno, definitivo variamente “Alt” (Alternative), o Indie, o post-porno. E al quale le donne partecipano in maniera molto più attiva, in tutti i ruoli. Se ne comincia a parlare nel 1972, quando escono Gola Profonda e Behind the Green Door. Del primo sappiamo quasi tutto, l’altro, con la regia dei fratelli Mitchell, protagonista Marilyn Chambers, è la storia dell’iniziazione sessuale di una fanciulla. Che tra decine di variazioni si accoppia pure con un nero. Attenzione: si tratta della prima scena di sesso interraziale non simulata del cinema americano. I due film furono proiettati nelle sale, come prodotti mainstream, e incassarono decine di milioni di dollari. L’orgasmo femminile si fece protagonista. La seconda rivoluzione è estetica. Cambia l’immagine della donna, più magra e meno tettuta e cambia la scena: compaiono gli hippy e il punk e il dark. E poi il movimento LGBT e Queer, ma soprattutto arriva internet. Il porno tradizionale va in crisi, l’industria crolla di fronte all’offerta continua, capillare e gratuita della rete, mentre l’Altporn decolla. Nel 1992 Annie Sprinkle (attrice porno, prostituta, editore di riviste pornografiche, sex educator, animatrice di seminari sulla sessualità...) produce The Sluts and Goddesses Video Workshop — Or How To Be A Sex Goddess in 101 Easy Steps, una specie di docu-filmperformance su sesso e pornografia. Qualche anno dopo Lars Von Trier fonda PuzzyPower, casa di produzione per film porno diretti da donne. L’inevitabile manifesto dice sì al piacere femminile, no alla violenza sulla donne (se non esplicitata come una fantasia femminile), no ai primi piani eccessivi sui genitali e no alla fellatio (machista e coercitiva). Nel 2009 escono i Dirty Diaries di Mia Engberg, finanziati dal governo svedese. E infine Erika Lust, la più soft, che ha scritto di sé: «Una delle mie prime urgenze è creare un porno che mia figlia possa vedere». Ed è solo l’inizio. FIVE HOT STORIES FOR HER (2007) DI ERIKA LUST È IL PRIMO LUNGOMETRAGGIO DELLA LUST, CONSIDERATO UN CLASSICO DEL PORNO “ETICO”. TUTTA LA SUA OPERA SI FOCALIZZA SU UN’IDEA DI NUOVA PORNOGRAFIA CHE METTA LE FANTASIE FEMMINILI AL CENTRO DEL FILM THE JOY OF PORN: MY LIFE AS A FEMINIST PORNOGRAPHER (2009) DI PETRA JOY FILM-PROCLAMA DELLA JOY (NELLA FOTO) CHE LAVORA CON ATTORI NON PROFESSIONISTI, NON MOSTRA ATTI DEGRADANTI PER LA DONNA E NON SI FOCALIZZA SUI GENITALI COME NEL PORNO MAINSTREAM MA SUI VOLTI DIRTY DIARIES (2009) DI MIA ENGBERG È UN PROGETTO COLLETTIVO DI TREDICI CORTOMETRAGGI DI PORNOGRAFIA FEMMINISTA INTERPRETATI DA ARTISTI E ATTIVISTI SVEDESI BASATO SU UN VERO E PROPRIO MANIFESTO. È STATO FINANZIATO IN BUONA PARTE CON FONDI PUBBLICI E HA VINTO DIVERSI PREMI EXPERT GUIDE TO FEMALE ORGASM (2010) DI TRISTAN TAORMINO LA PIÙ CELEBRE TRA LE SUE “GUIDE” ESTREMAMENTE ESPLICITE SOTTO FORMA DI SAGGIO O DI FILM. TRISTAN TAORMINO HA TENUTO PER ANNI UNA RUBRICA SUL SESSO SUL “VILLAGE VOICE” ED È NIPOTE DI THOMAS PYNCHON INSIGHT (2015) DI LIDIA RAVVISO E SLAVINA NEL 2014 SULL’ESEMPIO DEL MANIFESTO DEI “DIRTY DIARIES” NASCE IN ITALIA IL PROGETTO “LE RAGAZZE DEL PORNO” CUI ADERISCONO REGISTE COME ROBERTA TORRE E ANNA NEGRI: DODICI CORTOMETRAGGI AUTOFINANZIATI. QUESTO SARÀ IL PRIMO DELLA SERIE © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 38 Next.Altiss ma velocità SERGIO PENNACCHINI D A LOS ANGELESA SAN FRANCISCO in quarantacinque minuti e, in futuro, dalla Grande Mela fino a Pechino (passando dall’Alaska) in due ore e mezza. In treno, o qualcosa di molto simile. Ecco il sogno di Elon Musk, imprenditore seriale americano con una passione per la tecnologia e un sogno nel cassetto: costruire un treno capace di muoversi a una velocità di oltre mille chilometri orari, con la promessa in futuro di arrivare fino a cinquemila chilometri all’ora. Il vulcanico Musk, “il Tony Stark d ei nostri tempi” secondo il Time, dopo aver rivoluzionato i pagamenti con PayPal, scosso l’industria dell’automobile con l’elettrica Tesla e siglato un accordo con la Nasa per portare astronauti nello spazio con il suo razzo SpaceX, potrebbe stravolgere il modo in cui ci spostiamo con Hyperloop, un treno a levitazione magnetica che viaggerà dentro un tubo di vetro a bassa pressione, senza la resistenza dell’aria. Sembra fantascienza o una boutade per farsi un po’ di pubblicità. Ma Musk ha intenzioni serissime. «Per velocizzare lo sviluppo di Hyperloop, costruiremo un tracciato di prova» ha twittato il presidente di Tesla. Verrà realizzato vicino alla citta- dina di Quay Valley, negli Stati Uniti, e sarà lungo circa otto chilometri. Servirà a mettere alla prova l’idea dell’imprenditore americano. Il treno è composto da capsule capaci di trasportare ventotto persone, che siedono quasi sdraiate. Sui tubi saranno installati dei pannelli fotovoltaici. Il convoglio accelera lentamente per arrivare alla velocità di crociera, in modo da proteggere al massimo il comfort dei passeggeri. I “binari” saranno costruiti all’interno di speciali tubi di vetro a bassa pressione: l’assenza quasi totale dell’aria annullerà la resistenza aerodinamica e permetterà a Hyperloop di raggiungere velocità da fantascienza. Le carrozze si muoveranno grazie alla levitazione magnetica, una soluzione importante anche per la sicurezza perché garantirà sempre la giusta posizione della capsula all’interno del tubo, impedendole di toccare le pareti. Hyperloop Transportation Technologies, la società fondata per portare a compimento la visione di Elon Musk, conta di completare il tracciato e il primo test entro il 2018. E non è l’unica a credere nel treno “sottovuoto” come il mezzo di trasporto più rapido del nostro futuro. Negli Stati Uniti infatti c’è chi promette di raggiungere velocità ancora superiori: la ET3 sta sperimentando una soluzione simile a quella di Hyperloop, con l’obiettivo di raggiungere una velocità di seimila e cinquecento chilometri orari. Quanto basta in teoria per coprire la distanza dagli Stati Uniti alla Cina in meno di due ore con un progetto che è per il momento solamente teorico, che prevederebbe il passaggio attraverso un tunnel di novantuno chi- lometri sullo Stretto di Bering tra Alaska e Russia fino all’Asia. Entrambi questi progetti sfruttano la levitazione magnetica. Una tecnologia che elimina l’attrito che si crea tra le ruote e i binari creando un campo gravitazionale che di fatto solleva il treno e lo fa scivolare in avanti. L’assenza di attrito con i binari permette di raggiungere velocità nettamente superiori rispetto ai sistemi tradizionali. Una soluzione antica, sperimentata già a inizio Novecento negli Stati Uniti, ma che fino a oggi non ha trovato molte applicazioni. Sono poche le tratte commerciali in cui già si usa, e sono tutte molto brevi, come la linea che collega l’aeroporto internazionale di Pudong con Shanghai: circa trenta chilometri a levitazione magnetica per il treno più veloce del mondo con quattrocentotrentuno chilometri orari di velocità di crociera. «Il problema della levitazione magnetica è che oltre certe velocità la resistenza dell’aria si fa troppo forte e il sistema diventa poco efficiente», scrive sul suo blog il dottor Deng Zigang dell’università di Jiaotong, in Cina. «A quattrocento all’ora l’ottantatré per cento dell’energia prodotta viene sprecata per colpa dell’aria che diventa sempre più densa». Il dottor Zigang sta lavorando a un progetto simile a quello di Hyperloop, denominato Super-Maglev, che si pone come alternativa per il trasporto del futuro. «Per essere davvero efficienti e commercialmente vantaggiosi, i treni a levitazione magnetica devono poter raggiungere velocità molto superiori e l’unica strada possibile è ridurre al massimo la resistenza dell’aria viaggiando dentro tubi a bassa pressione», conferma il dottor Zigang. In Giappone, però, non sono d’accordo. La Central Japan Railway Company ha da poco concluso i primi test del nuovo Shinkansen a levitazione magnetica, trasportando cento persone su un tracciato di ventisette miglia alla velocità di oltre cinquecento chilometri orari. L’obiettivo è collegare le città di Tokyo e Nagoya entro il 2027, per poi allargare la rete “maglev” a tutto il paese sostituendo le linee esistenti e, di fatto, accorciando i tempi di percorrenza del quaranta per cento. Quando entrerà in servizio, sarà il treno più veloce del mondo con una velocità di crociera di cinquecentotré chilometri orari. Il Giappone potrebbe essere la prima nazione ad adottare la levitazione magnetica anche sulle lunghe distanze. Eppure, secondo Zidang, il punto non è tanto unire Roma e Milano, per questo tipo di distanze il treno è già oggi una valida alternativa all’aereo. «Quello che noi vogliamo fare è creare un treno in grado di connettere continenti in poche ore, di viaggiare a velocità supersoniche per arrivare dal centro di New York al centro di Londra. Con un mezzo di trasporto che è più veloce, economico e rispettoso dell’ambiente rispetto agli aerei», conclude. «Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo». Intanto toccherà accontentarsi del treno su binari. Per ora il più veloce del mondo è l’Agv della Alstom, lo stesso utilizzato dalla compagnia italiana Italo. Raggiunge i trecentosessanta orari. Ancora pochini... © RIPRODUZIONE RISERVATA Chissà se ce la faranno mai gli ingegneri Usa a realizzare davvero un treno tanto veloce Certo è che il futuro non correrà su binari ma a levitazione magnetica.Magari non per tutti New YorkRepubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica 39 INFOGRAFICA ANNALISA VARLOTTA DOMENICA 29 MARZO 2015 STAZIONE SI IPOTIZZA CHE POSSA PARTIRE UN TRENO OGNI TRENTA SECONDI NELLE ORE DI PUNTA Mi accontenterei del Bologna-Modena in 28 minuti MICHELE SMARGIASSI B CAPSULA LE CAPSULE CONTERRANNO 28 PERSONE E VIAGGERANNO IN TUBI DA 2,23 METRI DI DIAMETRO EH, CERTO, PIACEREBBE ANCHE A ME fare l’esperienza del trenosiluro, scivolare in quei tubi senza attrito come una supposta di glicerina hi-tech, farmi risucchiare come uno stantuffo in un concerto di fruscii dentro una capsula di posta pneumatica... Se una cosa del genere si può ancora chiamare treno, avrei pure qualche prelazione da vantare: secondo i miei calcoli prudenziali, ormai ho viaggiato in treno per l’equivalente di sette giri del mondo, tra casa e università, poi tra casa e lavoro. Ecco, sarebbe meglio se il fantatreno, invece di scarrozzarmi da New York a Pechino, tratta che diciamo frequento un po’ poco, mi portasse semplicemente al lavoro, ogni giorno, lungo quei 40 chilometri che conosco a memoria. Ci metterebbe 28,8 secondi. Suvvia, gliene concedo anche 30, per far cifra tonda. Ma questi sogni non possiamo permetterceli noi pendolari, sono roba da trascontinentali, da ceto globale business class. È per loro che il mondo viene deformato nelle sue relazioni spazio-temporali, avvicinando New York a San Francisco più di Modena a Bologna. Un mappamondo ridisegnato secondo i tempi di viaggio non sarebbe più una sfera ma una mostruosità bitorzoluta dove gli spazi corti sono i più lunghi e quelli lunghi si contraggono fin quasi a sparire. Li voglio vedere, però, i businessmen appena scesi dai loro proiettili prendere un taxi a Pechino e accorgersi che ci vuole più tempo a raggiungere l’albergo nell’ora di punta che a fare il giro del mondo. Chissà poi se si può leggere un libro, dentro la pallottola-treno, non saprei, se si può sonnecchiare guardando il panorama dal finestrino, direi di no, chissà se l’ansia dell’ipervelocità lascia il tempo di godersi quel tempo inutile del viaggio, quello che gli ingegneri cercano affannosamente di far implodere, credendo di farci un favore, per liberarci dal peso dell’inazione, mentre noi che ne abbiamo perso tanto, di tempo, sui treni, abbiamo imparato che il tempo inutile del viaggio è un tempo diversamente utile, guadagnato, strappato all’agenda, un tempo che siamo costretti a dedicare a qualcosa che nel tempo utile-utile non abbiamo il tempo di fare: anche solo parlare un po’ con noi stessi. Ma no, lasciatemelo allora, questo tempo obbligato e liberato, non li voglio i vostri 28,8 secondi, mi accontento dei 28 minuti da tabella dei miei “regionali veloci” (che soave ossimoro), ecco, mi basterebbe che fossero davvero quelli, e non diventassero 38, o 48, o 58, come accade quasi tutti i giorni. “Trenitalia si scusa per il disagio”, mi basterebbe trovare un posto a sedere in carrozze pulite, con bagni funzionanti e porte che si aprono. Lo so, lo so, è fantascienza. Ma lasciateci sognare, noi pendolari incalliti, mentre sonnecchiamo con la fronte appoggiata al finestrino di un treno superlento. © RIPRODUZIONE RISERVATA HYPERLOOP L’HYPERLOOP HA L’OBIETTIVO DI COLLEGARE NEL 2030 SAN FRANCISCO A LOS ANGELES IN 35-45 MINUTI (A 1220 KM/H DI VELOCITÀ MEDIA): UN AEREO NE IMPIEGA OGGI 75 RENDERING DA OMEGABYTE 3D - Pechino 2h 30’ Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 40 Sapori. Globali NEI SECOLI ABBIAMO SCOPERTO L’INCREDIBILE VARIETÀ DEL PIANETA DEGLI AROMI. CHE IN PRIMAVERA VIVONO IL LORO MOMENTO D’ORO MA OCCHIO AGLI ABBINAMENTI E ALLE MISTURE L’appuntamento Undicesima edizione di “Formaggio & compagnia” oggi a Collecchio, dove le migliori produzioni della food valley emiliana verranno degustate e abbinate tra loro. In passerella anche marmellate, composte e mostarde declinate con le spezie, dal pepe rosa al cardamomo I segreti delle spezie. Dal curry al cardamomo il difficile sta nel mix LICIA GRANELLO “A NDANDO in chiesa e vedendo il sacro edificio di pietra, non penserei d’un tratto ai pericolosi scogli che, solo a toccare sul fianco il mio gentile vascello, ne spargerebbero tutte le spezie sui flutti vestendo delle mie sete le acque ruggenti?”. A parlare è Salerio, amico di Bassanio e Antonio, protagonisti de Il mercante di Venezia di Shakespeare. Il Seicento è un momento d’oro per gli scambi commerciali via mare, quando solo gli sconosciuti aromi d’Oriente possono rivaleggiare in lusso e pregio con i tessuti e le pietre. Oggi la democrazia del cibo porta sulle tavole di tutti senape e cannella. Ma di spezie e aromi continuiamo a sapere poco, al di là dei soliti noti, ereditati dalle cucine d’antàn, a cui aggiungere chiodi di garofano, pepe e peperoncino. Sono state le contaminazioni con la gastronomia del mondo a renderci curiosi in materia, tra vacanze e migrazioni, facendoci intuire l’incredibile varietà del pianeta spezie. La primavera funge da detonatore culinario. Abbandonate le lunghe cotture, ci lasciamo ingolosire da cibi più semplici e freschi, dove un tocco speziato sa regalare un quid di insolito e goloso. Lontano dall’inamovibile certezza della noce moscata grattugiata con molta moderazione sul puré di patate, o dai grissini puntinati dai semi di sesamo, abbiamo scoperto i nie inglesi, a introdurre in patria la cucina biscotti impastati con la polvere di cardamo- orientale a partire dai turkarry (parola a sua mo e il bagnetto rosso profumato con l’anice volta derivata da kari, che in lingua Tamil sistellato, il guacamole con il suo carico di co- gnifica salsa), gli stufati di carne resi piccanriandolo e il salmone marinato all’aneto. ti da una complessa miscela di spezie. Un passo oltre, arriva il cimento della dopNei secoli, abbiamo preso confidenza più pia speziatura. Perché se aggiungere una con l’intensità che con la varietà delle miscespolverata di cumino in un arrosto d’agnello le speziate. Se i masala indiani si differenziaè perfino semplice, altro è abbinare più spezie no in cento profumi diversi per abbracciare nella stessa ricetta, obbedendo al comanda- l’intero menù, i curry in versione occidentale mento gastronomico che prevede l’attivazio- si declinano soprattutto secondo la piccanne di tutti i nostri recettori del gusto: dolce, tezza del peperoncino usato, dal quasi innoamaro, salato, acido e umami (il sapido del cuo mild al terrificante very hot. Che siate renitenti ai sapori forti o provviglutammato). Una complessità gustativa a cui le spezie contribuiscono grazie alla som- sti di papille a prova di habanero, non dimenma di singole spezie — come nel caso del su- ticate di aggiungere un po’ di curcuma al voshi, servito con salsa di soia, zenzero e wasa- stro personale mix di spezie. I vostri piatti ne guadagneranno in colore — un bel giallo bi — o con gli assemblaggi. Madre di tutte le misture, il curry, nato in splendente, secondo solo a quello dello zaffeIndia — dove si chiama masala — ma diffuso rano — e in salute, visto che studi recenti le asnel mondo a partire dal Settecento grazie ai segnano potenti virtù anti-cancro. In caso di dipendenti della Compagnia delle Indie. Fu- incendio al palato, niente acqua, ma pane. rono loro, di ritorno dai soggiorni nelle colo© RIPRODUZIONE RISERVATA La colomba Nella ricerca continua per impreziosire gli impasti, le ricette della colomba sono state speziate quest’anno con bacca di vaniglia e cannella dalla famiglia pasticcera Loison di Vicenza. Vaniglia Bourbon anche nella colomba del maestro dolciario Sal De Riso (Tramonti, Salerno) La ricetta La mia carne nuda e cruda con ostriche e wasabi INGREDIENTI 200 G. DI CARNE PIEMONTESE ALLEVATA STILE WAGYU (MANZO GIAPPONESE) 4 OSTRICHE 4 G. DI SANSHO (PEPE GIAPPONESE) 30 G. DI RADICE DI WASABI 100 G. DI SALSA DI POMODORINI DATTERINI 30 G. DI CRESCIONE AMARO Il sushi A metà tra erbe e spezie, il wasabi è parente stretto del rafano. Ha foglie saporite, color verde squillante, e una radice piccantissima, che si utilizza grattugiata fresca, essiccata, ridotta in pasta o in polvere. Nella salsa di soia, con zenzero marinato nell’aceto di riso, accompagna il sushi EXTRAVERGINE AROMATIZZATO AL CARBONE LO CHEF idea parte dal condimento delle carne. Abitualmente usiamo il sale. Ma se al posto del sale mettiamo le ostriche? Il sale viene dal mare. Anche le ostriche. Così ho giocato con le spezie originarie del Giappone, aggiungendo i pomodori, che si legano bene sia con le carne sia con le ostriche. L’ostrica è nuda. La carne è cruda. Appoggiamo la carne tagliata molto sottile sul piatto delicatamente. Mettiamo la salsa di pomodoro profumata con l’olio al carbone e subito dopo un poco di wasabi. Appoggiamo le ostriche tagliate a pezzi. Grattugiamo sopra il sansho e poi le fogliette di crescione amaro. Spruzziamo l’acqua delle ostriche per coprire e condire le carne. Buon appetito! YOJI TOKUYOSHI, EX BRACCIO DESTRO DI MASSIMO BOTTURA, HA APPENA APERTO IL RISTORANTE CHE PORTA IL SUO NOME NEL CENTRO DI MILANO, DOVE CUCINA CON SAPIENZA E RIGORE, COME IN QUESTA RICETTA IDEATA PER REPUBBLICA L’ Mediorientale Cous cous con chicchi di melograno, datteri e pistacchi Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica DOMENICA 29 MARZO 2015 41 L’impero del pepe, una questione d’immagine 8 piatti FRANCESCO ANTINUCCI Baharat Polvere delle cinque spezie TURCHIA Pensata per aromatizzare i piatti a base di carne alla griglia, assomma pepe, paprika, scorza di cannella, coriandolo, chiodi di garofano, semi di cumino, cardamomo e noce moscata. Sul kebab CINA Anice semplice e stellato, cannella, chiodi di garofano e semi di finocchio: profuma un’ampia gamma di ricette, dalle carni alla frutta. Ideale sull’arrosto di maiale DROGHERIA MASCARI 381 S. POLO VENEZIA TEL. 041-5229762 ASIA MACH VIA MASCARELLA 81 BOLOGNA TEL. 051-253288 Dukkah Quatre-épices EGITTO Non solo spezie, ma anche frutta secca, nocciole in primis, per il mix di sesamo, cumino e coriandolo da spalmare sul pane azzimo spennellato d’olio. Con l’aperitivo o con l’insalata FRANCIA Solo quattro spezie (noce moscata, chiodi di garofano, cannella e pepe) per l’assemblaggio che aromatizza pasticci e ragù, col pepe nero e bianco protagonista. Su paté di selvaggina EMPORIO DELLE SPEZIE VIA LUCA DELLA ROBBIA 20 ROMA TEL. 327-8612655 BIZZARRI LO SPEZIALE DI UNA VOLTA VIA CONDOTTA 32/R FIRENZE TEL. 055-211580 Garam Masala INDIA La miscela più pregiata, con Tikka, Tandoori, Madras e Vindaloo, ottenuta tostando e pestando erbe e semi con diversi gradienti di piccantezza. Perfetta per lo spezzatino Shichimi togarashit GIAPPONE Per il “peperoncino ai sette sapori” occorrono pepe rosso e delle montagne giapponesi, sesamo bianco e nero, zenzero, mandarino essiccato, seetang (alga) verde. Nei noodles con gamberi KRISHNA INDIAN BAZAR VIA PANFILO CASTALDI 35 MILANO TEL. 02-20240451 YUKIKO - IL MONDO DEL GIAPPONE VIA MONGINEVRO 33/A TORINO TEL. 011-4279890 Raz el Hanout Polvere di Colombo MAROCCO Traduzione araba de “il meglio del negozio”, popolare in nord Africa. Può contenere fino a trenta ingredienti. Presso i Berberi, dentro c’è anche il coleottero essiccato. Sul cous cous GUADALUPA Arriva da Colombus, Sri Lanka, meta di immigrazione dei lavoratori indiani, il mix mutuato dalla cucina antillana. Oltre alle spezie tradizionali, latte di cocco o rum. Su pollo stufato IL SUQ VIA NAPOLI 19 CAGLIARI TEL. 070-660223 PRABODA VIA CARDUCCI 45/B VERONA TEL. 045-594418 UANDO LA HERMAPOLLON — una nave romana da carico del II secolo d. C. — giunse al porto egiziano del Mar Rosso di ritorno dall’India dovette pagare la dogana sul valore del carico che faceva entrare nel territorio dell’Impero romano. Sappiamo così che questo valore ammontava a circa dieci milioni di sesterzi, una notevole cifra: ci si sarebbe potuto comprare, per dare un’idea, la gran parte dei terreni della provincia di Piacenza. Quel che ci sorprende è apprendere da cosa era costituito questo prezioso carico: quasi esclusivamente da pepe, circa centoquaranta tonnellate. Per oltre quindici secoli le spezie hanno dato vita alla più lucrosa attività economica della storia umana. Hanno fatto la fortuna di Venezia, quando divenne, dopo la caduta dell’Impero romano, e col Mediterraneo diventato un mare arabo, l’unica porta verso l’oriente grazie al legame con Costantinopoli. E l’hanno poi fatta del piccolo Portogallo che per un secolo tenacemente ricercò la via dell’Oriente circumnavigando l’intera Africa fino ad arrivare per questa via in India. E poi dell’Olanda, cui le spezie permisero di costruire un impero di quasi due milioni di chilometri quadrati (l’odierna Indonesia), duecentocinquanta volte più grande del suolo patrio. Niente di strano — si dirà — il commercio è l’anima dell’economia preindustriale, ed è tanto più ricco quanto più preziose sono le merci che tratta. Ma qui sta il punto: le merci in questione, le spezie, non servono assolutamente a nulla, non hanno alcun valore nutritivo, salutare o altro. E, come ci ricorda Plinio fin dall’antichità, è opinabile anche il loro gusto. E allora perché sono state così importanti? Perché attraverso di esse (per via della loro rarità e per la difficoltà di procurasele) l’uomo che ne può disporre si “rappresenta”: come importante, ricco, potente, ecc. E la rappresentazione, la costruzione della propria immagine, è stata ed è per l’uomo più importante di qualunque valore pratico o funzionale, tanto da determinare gran parte della politica e della storia degli stati. Le spezie, inoltre, non si possono utilizzare così come sono — non si può offrire ai propri ospiti un cucchiaio di pepe o di chiodi di garofano — è necessario creare un sistema che permetta di impiegarle: questo sistema è la cucina. Naturalmente non la cucina intesa come preparazione dei cibi, ma come arte culinaria: una cucina che serva essa stessa allo scopo della rappresentazione e che darà origine a quelle fantasmagoriche messe in scena che sono i banchetti antichi, imparagonabili anche al più sontuoso dei nostri moderni. Dalle stravaganze della cena di Trimalcione del I secolo d. C. alle oltre duecento portate (!) di quella preparata nel 1536 da Bartolomeo Scappi per Carlo V imperatore, in occasione della sua visita a Roma. Q L’autore ha scritto Spezie. Una storia di scoperte, avidità e lusso. Laterza 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 29 MARZO 2015 42 L’incontro. Nuove leve IN QUESTO MESTIERE NON BISOGNA AVERE FRETTA NON È COME NELLO SPORT. FEDERER ERA CONSIDERATO UN VECCHIO A TRENTATRÈ ANNI. IO NE HO DUE IN PIÙ E SONO VISTO ANCORA COME UN RAGAZZINO Prima il successo londinese con Schumann al Covent Garden, poi il trionfo rossiniano al Metropolitan di New York. “Arrivare sul podio non è poi così difficile, difficile è restarci” osserva uno dei più giovani (ha trentacinque anni) e già acclamati direttori d’orchestra italiani. Figlio d’arte (“mi costruivo le bacchette con gli spiedini”), a capo del Comunale di Bologna, davanti ai grandi maestri prova il massimo rispetto ma non ha tismo, determinazione ma anche destino. Suo padre è Gianfranco Mariotti, stosovrintendente del Rof, il celeberrimo Rossini Opera Festival, tra le più importanti manifestazioni italiane e uno dei luoghi della rinascita interpretativa mori reverenziali: “Per carità, gli rico di Rossini (la prossima edizione sarà dal 10 al 22 agosto). «La mia principale attività da ragazzo era il basket. Giocavo a pallacanestro dieci mesi l’anno, poi aril festival e volevo fare il direttore. L’estate era per me l’odore del palco Abbado, i Muti, i Gatti: è nel loro rivava dell’orchestra che era proprio, guarda caso, quella di Bologna che oggi dirigo, i musicisti con cui sono cresciuto... La fissazione per il podio l’ho avuta fin da picCostruivo le bacchette con gli spiedini, e crescendo, confesso anche di aversolco che dobbiamo stare. La dif- colo. ne rubate ai direttori che venivano al festival. A Carlo Rizzi, David Eric Robertson... A Renzetti e a Daniele Gatti le ho chieste. Le prendevo e poi dirigevo in camia». Entra — «con fatica perché non avevo studiato» — al Conservatorio ferenza è che prima in quel solco mera di Pesaro, ma nel 2001 si iscrive anche al corso di direzione d’orchestra dell’Accademia Musicale Pescarese dove si diploma nel 2004 con Donato Renzetti. «Inal Conservatorio mi sono diplomato solo in composizione con Manlio Benprovavo una certa paura. Oggi, vece zi, perché mentre studiavo nel 2005 mi proposero di dirigere il Barbiere a Salerno e io accettai». In questi dieci anni da Salerno è volato a Bologna, alla Scala, Torino, Firenze, Barcellona, Parigi, Liegi, Mosca, Tokyo, New York, Los Angelo confesso, non più” les, Washington... Ora è in partenza per Monaco dove dirigerà un concerto, in Michele Mariotti ANNA BANDETTINI BOLOGNA B ISOGNEREBBEFAREILTIFOPERCHÉRESTIIN ITALIA, nonostante gli impegni, le lusinghe che arrivano dall’estero: Londra che lo ha celebrato, lo scorso dicembre, come un big dopo il concerto schumanniano al Covent Garden; New York che a metà febbraio con una pagina del New York Times e una valanga di applausi ha decretato il suo trionfo al Met per l’esecuzione di La donna del lago di Rossini con Juan Diego Flórez, Joyce DiDonato, Daniela Barcellona. Contrariamente all’attuale andazzo, però, Michele Mariotti, almeno per ora, ha deciso di restare. Direttore d’orchestra tra i migliori della nuova leva italiana, ha accettato con entusiasmo l’incarico di responsabile musicale del Comunale di Bologna fino al 2018 — con il sovrintendente Carlo Sani e il direttore artistico Fulvio Macciardi fanno uno dei migliori team artistici dei teatri italiani — e a Bologna ha preso casa, un appartamento in un signorile e antico palazzo del centro città, a due passi dal teatro, che considera la sua tana. Ha trentacinque anni e sembra un ragazzino: il viso tondo, il sorriso soave, l’aspetto da giovane perbene. Sembra subito uno velocissimo, ambizioso, serio. Nel salotto, elegante e molto tradizionale c’è il pianoforte e, sul tavolo, aperta, una partitura. «Se vuoi dirigere bene un’opera o un concerto devi studiare e non solo la partitura, ma anche il libretto, la storia, le radici culturali di quello che esegui», spiega e farebbe felice Riccardo Muti che considera la cultura un elemento necessario per un buon direttore d’orchestra. Di Mariotti si sente solo parlar bene, «allora c’è qualcosa che non va!», ride. «Io penso che il mio vero merito sia di non aver avuto fretta. Se riguardo il mio cammino finora, c’è un percorso costante. Arrivare sul podio è facile. Restarci è difficile. Io ho inaugurato il Comunale NON HO LA PRESUNZIONE DI DIRE CHE SO COME SI FA ROSSINI, MA SO COME NON SI DOVREBBE FARE. DONIZETTI RISCHIA DI SEMBRARE GROSSIER E UN PO’ BANDISTICO. QUANTO A VERDI, È TEATRO PURO: TI SMASCHERA, TI METTE A NUDO nel 2007 con un Simon Boccanegra che era la mia quarta opera. Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Andò bene tanto che Marco Tutino, l’allora sovrintendente, mi offrì la carica di direttore musicale. Dissi di no. Non tanti avrebbero rifiutato. Ma io credo che la carriera del direttore d’orchestra non sia come quella di un atleta. Qualche anno fa vidi Federer giocare contro Djokovic: vinse quest’ultimo e tutti dissero “Per forza Federer è ormai vecchio”. Aveva trentadue anni. Io, a trentacinque, sono considerato giovane». La storia di Mariotti racconta un misto di passione, dolore, entusia- giugno esordirà sul prestigioso podio della Gewandhaus di Lipsia, tra tre anni sarà a Chicago con Bohéme, mentre a Bologna (dove in questi anni lo hanno acclamato con La gazza ladra, Idomeneo, Carmen, La Cenerentola, La Traviata, Il prigioniero, Le nozze di Figaro, Norma) si aspetta un nuovissimo Flauto magico anche per l’allestimento degli sperimentali Fanny e Alexander. E il basket che fine ha fatto? «Non credo che mi stiano rimpiangendo. Ero bravino, ma non sono alto e oggi senza l’altezza nella pallacanestro sei fuori. Poi sono arrivati i problemi alla schiena dovuti al lavoro sul podio. Sono stato per un po’ ultras della Scavolini, poi sono passato al calcio, tifo Juve, gioco a tennis e vado in bici. A Pesaro ci sono delle bellissime ciclabili sulla spiaggia». I suoi autori preferiti restano Rossini e Verdi. «Non ho la presunzione di dire che so come si fa Rossini, che ho seguito tutta la vita, ma so come non si dovrebbe fare. La tradizione lo ha cambiato e violentato, ma per fortuna viviamo e godiamo dei benefici della rivoluzione di Claudio Abbado e Alberto Zedda della fine degli anni Sessanta che ci restituirono un autore più mozartiano, pulito, più concettuale e profondo. Cosa che servirebbe anche per Donizetti che ancora rischia di passare per grossier e un po’ bandistico. Quanto a Verdi è teatro puro. Verdi ti smaschera, ti mette a nudo, la musica è già una messa in scena, la parola, i silenzi che in musica contano. Ricordo ancora l’emozione di una Cavalleria rusticana diretta da Muti dove lui faceva cantare piano la morte di compare Turiddo». Sul tavolo squilla il cellulare. Dal display lampeggia la scritta “meine Liebe”, amore mio. «È il cellulare tedesco di mia moglie, sta lavorando in Germania», dice. La moglie è il soprano Olga Peretyatko che molti considerano la nuova Netrebko, bella, luminosa e di successo. Si sono conosciuti a Pesaro nel 2010 per il Sigismondo e due anni dopo si sono sposati. «Non è stato un colpo di fulmine, il nostro. Lei era già sposata, io avevo una compagna e un figlio. Ma la fortuna di essere russa è che divorzi in un mese e mezzo. Siamo una coppia un po’ particolare. Ognuno con la sua carriera, in giro per il mondo... La nostra casa è questa, a ANDARE VIA? MI MANCHEREBBE TROPPO IL BAR, LA PIAZZA. E POI IO SONO FIDUCIOSO: C’È SOLO DA LAVORARE PERCHÉ L’OPERA TORNI A ESSERE PARTE DELLA VITA DELLA GENTE Bologna. Trasferirmi? No. Non andrei mai per esempio a vivere negli Stati Uniti. Mi mancherebbe il bar, il giornale, la piazza... Partire da casa è sempre una guerra per me». Con Olga lavoreranno insieme ne I puritani il 14 aprile al Regio di Torino. «Ci sarà sempre qualcuno che dirà “l’ha chiamata il marito”, colleghi cui dà fastidio il successo, le carriere degli altri. Ma è una piccineria solo italiana. Noi siamo maghi nel rovinare tutto, basta ricordare le assurde polemiche dell’anno wagneriano e verdiano. In Germania senza far polemiche non c’è stato un teatro che ha fatto Verdi, da noi solo litigi perché se facevi Verdi dimenticavi Wagner. Provinciali». E allora perché scegliere Bologna invece che una grande città straniera? «Stare a Bologna non l’ho visto come una perdita di occasioni ma come una possibilità per maturare più velocemente. Qui c’è un’orchestra di qualità, con cui posso fare sinfonica e operistica, un’orchestra che conosco e mi conosce fin da ragazzino. Per tutti sono “Michele” e non lo vedo come perdita di autorevolezza perché il direttore non è un solista, non esiste senza gli altri. Nonostante la crisi della lirica in Italia, io sono ottimista. Il problema è che da noi il teatro, a differenza di Londra, Berlino, New York, ha perso il ruolo identificativo nella vita sociale. C’è da lavorare perché torni ad avere una funzione centrale nelle nostre vite e io sono fiducioso. Forse noi più giovani serviamo anche a questo». Alla generazione dei più grandi si rivolge con ammirazione o polemica? «Per carità. Non bisogna far la guerra a nessuno, figuriamoci ai Muti, agli Abbado, ai Gatti... C’è bisogno di queste personalità. E noi dobbiamo stare nel loro solco. Confesso che una volta in quel solco ci stavo con più paura. Oggi ho meno ansia. Mi sento finalmente calmo». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-03-29