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A.A. 2014-2015
Letteratura italiana: Le Poesie di Foscolo (1803)
Ritratto di Ugo Foscolo (1813) di F. X. Fabre
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1. Versi giovanili
Dalla “raccolta Naranzi” (1794):
La rosa tarda
Le bionde Grazie schiusero
Al ghirlandato aprile
Le verdi porte, e mancavi
De' fiori il più gentile?
Con le sue mani ambrosie
L'innamorata Aurora
Dal Cielo umor freschissimo
Per lui non sparse ancora?
Tu, fior splendente e semplice
Come la mia vezzosa,
Tu fra le spine floride
Ancor non spunti, o Rosa.
[…]
E a noi sei caro: immagine
Tu delle guance sei
Di Lei che tien l'imperio
Su tutti gli atti miei.
Di Lei che bella e fulgida
In sua bellezza or viene,
Che con un sguardo sforzami
Baciar le mie catene.
Ma sorgi ormai, purpureo
Bel fiorellino, sorgi;
Tu alla mia dolce vergine
Gaja ghirlanda porgi.
[…]
[Ode]
Fra soavissimi fioretti un giorno
Giaceano Amore e Venere,
E mille Genii stavan d'intorno
E mille Grazie tenere.
Io con l'eburnea mia cetra al collo,
Scarco di cure torbide,
Passai con l'alma piena di Apollo
Per quelle sedi morbide.
A sè chiamatomi la gaja Diva,
Con fiamma al labbro e al ciglio,
Disse: Tua cetera canti giuliva
La possa del mio figlio.
[…]
La partenza
Partita è Cloe: ah! volino
Le Grazie a lei d'intorno,
E lieta l'accompagnino
Al rustico soggiorno.
Or forse è giunta, e tacita
Trascorre il campo aprico:
Deh! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
Ruscel che scorri limpido,
Se ascolti il nome mio,
Più dolcemente mormora,
Dille che l'amo anch'io.
Auretta solitaria,
Se intorno a lei t'aggiri,
Con flebil suono annunziale
I mesti miei sospiri.
Vispi augellini teneri,
Ite dov'ella siede,
E con gorgheggio querulo
Le rammentato fede.
Voi pure amate, e il giubilo
È a voi compagno: io solo
Amo, ma spargo lagrime,
Amo, ma in mezzo al duolo.
Pur mi son dolci i gemiti
Per questo amor pudico;
Ah! fra soavi palpiti
Rammenti il fido amico.
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Dalla breve raccolta – 1 canzone e 5 sonetti – scritta nel 1796 “In morte del padre”(avvenuta
nel 1788) e dedicata alla madre:
Oh! qual'orror! un fremito funèbre
Scuote la terra ed apresi la Fossa,
Ove in mezzo a tetrissime tenèbre
Stan biancheggiando del mio padre l'ossa.
Le guato allor con incerte palpebre;
Scendo d'un salto e alla feral percossa
Gemono le profonde alte latebre
Ove ogni parte della tomba è smossa.
E già stendo la man; già il cener santo
Raccolgo.... ahi tremo.... la più cupa notte
Mi casca intorno, e il cor gelo mi stringe:
E par che un suono, un pianto, mi rimbrotte,
Ond'io mi fuggo, e tutto mi dipinge
L' ossa, l'orror, l'oscuritade il pianto.
Sonetto a Venezia
[Scritto nel 1796, fu stampato la prima volta, nell'Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie
inedite di autori viventi, Venezia, 1797]
O di mille tiranni, a cui rapina
Riga il soglio di sangue, imbelle terra!
'Ve mentre civil fama ulula ed erra,
Siede negra Politica reina;
Dimmi: che mai ti val se a te vicina
Compra e vil pace dorme, e se ignea guerra
A te non mai le molli trecce afferra
Onde crollarti in nobile ruina?
Già striscia il popol tuo scarno e fremente,
E strappa bestemmiando ad altri i panni,
Mentre gli strappa i suoi man più potente.
Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta
Sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni
Farà col loro scettro alta vendetta.
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‘Sciolti’ pubblicati nel 1797 sull’«Anno poetico»:
AL SOLE
Alfin tu splendi, o Sole, o del creato
Anima e vita, immagine sublime
Di Dio, che sparse la tua faccia immensa
Di sua luce infinita! Ore e Stagioni,
Tinte a vari color, danzano belle
Per l'aureo lume tuo misuratore
De' secoli, e de' secoli scorrenti.
Alfin tu splendi! tempestoso e freddo
Copria nembo la terra; a gran volute
Gravide nubi accavallate il cielo
Empian di negre liste, e brontolando
Per l'ampiezza dell'aere tremendi
Rotolavano i tuoni, e lampi lampi
Rompeano il bujo orribile. - Tacea
Spaventata natura; il ruscelletto
Timido e lamentevole fra l'erbe
Volgeva il corso, né stormian le frondi
Per la foresta, né dall'atre tane
Sporgean le belve l'atterrita fronte.
Ulularono i venti, e ruinando
Fra grandini, fra folgori, fra piove
La bufera lanciosse, e riottoso
Diffuse il fiume le gonfie e spumose
Onde per le campagne, e svelti i tronchi
Striderono volando, e da’ scommossi
Ciglion dell'ondeggianti audaci rupi
Piombàr torrenti, che spiccati massi
Coll'acque strascinarono. Dal fondo
D'una caverna i fremiti e la guerra
Degli elementi udii; Morte su l'antro
Mi s'affacciò gigante; ed io la vidi
Ritta: crollò la testa e di natura
L'esterminio additommi. - In ciel spiegasti,
O Sol, tua fronte, e la procella orrenda
Ti vide e si nascose, e i paurosi
Irti fantasmi sparvero.... ma quanti
Segni di lutto su i vedovi campi,
Oimè, il nembo lasciò! Spogli di frutta,
Aridi, e mesti sono i pria sì vaghi
Alberi gravi, e le acerbette e colme
Promettitrici di liquor giocondo
Uve giacciono al suol; passa 1'armento
E le calpesta; e istupidito e muto
L'agricoltore le contempla e geme.
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Intanto scompigliata, irta, e piangente,
Te, o Sol, ripriega la Natura, e il tuo
Di pianto asciugator raggio saluta;
E tu la accendi, e si rallegra e nuovi
Promette frutti e fior. Tutto si cangia,
Tutto père quaggiù! Ma tu giammai,
Eterna lampa, non ti cangi? mai?
Pur verrà dì che nell'antiquo vòto
Cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo
Ritirerà da te: non più le nubi
Corteggeranno a sera, i tuoi cadenti
Raggi su l'Oceàno; e non più l'Alba
Cinta di un raggio tuo, verrà su l'Orto
Ad annunziar che sorgi. Intanto godi
Di tua carriera: oimè! ch'io sol non godo
De' miei giovani giorni: io sol rimiro
Gloria e piacere, ma lugubri e muti
Sono per me, che dolorosa ho l'alma.
Sul mattin della vita io non mirai
Pur anco il Sole; e omai son giunto a sera
Affaticato; e sol la notte aspetto
Che mi copra di tenebre e di morte.
Una prima stesura del son. V delle Poesie (1797?):
Quando la terra è d'ombre ricoverta,
E soffia '1 vento, e in su le arene estreme
L'onda va e vien che mormorando geme,
E appar la luna tra le nubi incerta;
Son. V
Così gl’interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo aer di mute ombre è coverto;
Torno dove la spiaggia è più deserta
Solingo a ragionar con la mia speme,
E del mio cor che sanguinando geme
Ad or ad or palpo la piaga aperta.
dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando, ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fortuna,
e amore, e il mondo hanno il mio core aperto.
Lasso! me stesso in me più non discerno,
E languono i miei dì come viola
Nascente ch'abbia tempestata il verno;
Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e deliro.
Chè va lungi da me colei che sola
Far potea sul mio labbro il riso eterno:
Luce degli occhi miei, chi mi t'invola?
Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obblïando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
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2. Nei dintorni delle Odi ‘neoclassiche’
Antonio Canova (1757-1822): Danzatrici
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J. M. NATTIER, Maria Adelaide di Francia ritratta nelle vesti di Diana (1745)
POMPEO BATONI, Diana (1761)
8
J. BOUCHER, La toilette di Venere (1751)
ANDREA APPIANI, Ritratto di Giuseppina Beauharnais come Venere (1791)
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LODOVICO SAVIOLI FONTANA (1729-1804): dagli Amori (1765)
A Venere
O figlia alma d'Egioco,
leggiadro onor dell'acque,
per cui le Grazie apparvero
e 'l riso al mondo nacque;
[…]
Accese a te le tenere
fanciulle alzan la mano:
sole ritrosa invocano
le antiche madri invano.
Te sulle corde eolie
Saffo invitar solea,
quando a quiete i languidi
begli occhi Amor togliea.
E tu richiesta, o Venere,
sovente a lei scendesti,
posta in oblio l'ambrosia,
e i tetti aurei celesti.
[…]
E mentre udir propizia
solevi il flebil canto,
tergean le dita rosee
della fanciulla il pianto.
[…]
Se tu m'assisti, io Pallade
abbia, se vuol, nimica;
teco ella innanzi a Paride
perdé la lite antica.
[…]
All’amica che lascia la città
[…]
Psiche apparia: prostravasi
la turba al suol devota;
e in te le selve onorino
divinitate ignota.
[…]
Casta abitar compiacquesi
Diana ancor le selve:
la pura mano armavano
dardi, terror di belve.
Al cacciator Gargafio,
che osò mirarla al fonte,
ultrici acque cangiarono
la temeraria fronte.
[…]
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Il passeggio
Già già, sentendo all'auree
briglie allentar la mano,
correan d'Apollo i fervidi
cavalli all'Oceàno;
La bella intanto i lucidi
percote ampi cristalli,
l'auriga intende, e posano
i docili cavalli.
me i passi incerti trassero
pel noto altrui cammino,
che alla città di Romolo
conduce il pellegrino.
Tosto m'appresso, e inchinomi
a quel leggiadro viso,
che s'adornò d'un facile
conquistator sorriso.
Dall'una parte gli àrbori
al piano suol fann'ombra,
l'altra devoto portico
per lungo tratto ingombra.
Amor, di tua vittoria
come vorrei lagnarmi?
Chi mai dovea resistere,
potendo, a tue bell'armi?
La tua, gran padre Ovidio,
scorrea difficil arte,
pascendo i guardi e l'animo
sulle maestre carte,
In noi t'accrebbe imperio
la destra man cortese,
che mossa dalle Grazie
a' baci miei si stese.
quando improvviso scossemi
l'avvicinar d'un cocchio,
e ratto addietro volgere
mi fece il cupid'occhio.
Risvegliator di zefiri
ventaglio avea la manca,
onde solea percotere
lieve la gota bianca.
[…]
Sui piè m'arresto immobile,
e il cocchio aureo trapassa,
che per la densa polvere
orma profonda lassa.
Sola sui drappi serici
con maestà sedea
tal che in quel punto apparvemi
men donna assai che dea.
Più bello il volto amabile,
più bello il sen parere
fean pel color contrario
l'opposte vesti nere.
Tal sul suo carro Venere
forse scorrea Citera,
da poi che Adon le tolsero
denti d'ingorda fera.
O man, che d'Ebe uguagliano
per lor bianchezza il seno,
ove fissando allegrasi
Giove di cure pieno!
forse sì fatte in Caria
Endimion stringea,
quando dal carro argenteo
Diana a lui scendea.
Quei vaghi occhi cerulei
movea frattanto Amore;
rette per lui scendevano
le dolci note al core.
Come potrei ripetere
quel ch'a me udir fu dato?
Dal novo foco insolito
troppo era il cor turbato.
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Il mattino
Già col meriggio accelera
l'ora compagna il piede,
e già l'incalza e stimola
nova, che a lei succede.
Già dal notturno carcere
i crini aurei sprigiona,
ed all'eburneo pettine
gl'indocili abbandona.
Entra la luce e rapida
empie le stanze intorno:
il pigro sonno involisi,
apri i begli occhi al giorno.
Segui, o fra quante furono
illustri ancelle esperta:
felice te! la grazia
della tua donna è certa.
Cinese tazza eserciti
beata il suo costume,
e il roseo labbro oscurino
le americane spume.
Te nulla turbi, e rigido
guardi silenzio il loco,
solo garrisca l'indico
verde amator del croco.
S'erge segreto un tempio
dell'ampie coltri a lato:
là tue bellezze aspettano
il sacrificio usato.
Oh quante volte il frigio,
caro alla greca altera,
tacque, e con lui di Priamo
tacque la reggia intera!
Vieni. Sia fausta Venere,
gli uffizi Amor comparta,
le Grazie in piedi assistano:
tu sederai la quarta.
Ella frattanto ornavasi
pari all'eterne dive,
e il caldo ferro iliaco
torcea le chiome argive.
Forse, al fissar sollecita
nel chiaro specchio il volto
ti parrà meno amabile
sol perché men fia còlto.
Arser d'amara invidia
poi le dardanie spose:
arse d'amor Deifobo,
ma 'l foco incesto ascose.
Pur, se dal tuo giudizio
dissento, il porta in pace:
negletto e senza studio
più il viso tuo mi piace.
M'inganno? o il sacrifizio
il chiesto fine or tocca,
né ancor il Sol coi fervidi
cavalli in mar trabocca?
Tal da' superbi talami
dell'ampia reggia achea,
sciolta dal caro Pelope,
Ippodamìa sorgea;
tal dallo speco emonio,
ove a Peleo soggiacque,
madre tornò del tessalo
l'azzurra dea dell'acque.
Ma già tuo dolce imperio
la fida ancella invita;
ella s'appressa, e all'opera
stende la destra ardita.
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JACOPO VITTORELLI (1749-1835)
Dalle Anacreontiche
A Dori
che prende le acque di Recoaro
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GIUSEPPE PARINI, Odi
La educazione [1764]
Il pericolo [1787]
Torna a fiorir la rosa 1
Che pur dianzi languìa;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.
[…]
La guancia risorgente 7
Tondeggia sul bel viso:
E quasi lampo ardente
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.
I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi foro,
Su l'omero disciolti
Qual ruscelletto d'oro
Forma attendon novella
D'artificiose anella.
[…]
Parve a mirar nel volto
E ne le membra Pallade,
Quando, l'elmo a sè tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin: 45
Se non che a lei dintorno
Le volubili grazie
Dannosamente adorno
Rendeano ai guardi cupidi
L'almo aspetto divin. 50
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Qual, se parlando, eguale
A gigli e rose il cubito
Molle posava? Quale,
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir? 55
E a le nevi del petto,
Chinandosi da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero dell'alme incendio!
Permetteva fuggir? 60
In tanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Gìa modulando i lepidi
Detti nel patrio suon. 65
Che più? Da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,
Che tali mai non arsero
L'amica di Faon; 70
[…]
20
Il dono. Per la marchesa Paola Castiglioni
[1790]
Queste, che il fero Allobrogo
Note piene d'affanni
Incise col terribile
Odiator de' tiranni
Pugnale, onde Melpomene 5
Lui fra gl'Itali spirti unico armò;
Ma sovra lui se pendere
La madre de gli amori,
Cingendol con le rosee 45
Braccia si vede, i cori
Oh quanto allor si sentono
Da giocondo tumulto agitar più!
Come oh come a quest'animo
Giungon soavi e belle,
Or che la stessa Grazia
A me di sua man dielle, 10
Dal labbro sorridendomi,
E dalle luci, onde cotanto può!
Certo maggior, ma simile
Fra le torbide scene 50
Senso in me desta il pingermi
Tue sembianze serene;
E all'atre idee contessere
I bei pregi, onde sol sei pari a te.
Me per l'urto e per l'impeto
De gli affetti tremendi,
Me per lo cieco avvolgere 15
De' casi, e per gli orrendi
Dei gran re precipizii,
Ove il coturno camminando va,
Ben porteranno invidia 55
A' miei novi piaceri
Quant'altri a scorrer prendano
I volumi severi.
Che far, se amico genio
Sì amabil donatrice a lor non diè? 60
Segue tua dolce immagine,
Amabil donatrice, 20
Grata spirando ambrosia
Su la strada infelice;
E in sen nova eccitandomi
Mista al terrore acuta voluttà:
O sia che a me la fervida 25
Mente ti mostri, quando
In divin modi, e in vario
Sermon, dissimulando,
Versi d'ingegno copia
E saper che lo ingegno almo nodrì: 30
O sia quando spontaneo
Lepor tu mesci a i detti;
E di gentile aculeo
Altrui pungi e diletti
Mal cauto da le insidie, 35
Che de' tuoi vezzi la natura ordì.
Caro dolore, e specie
Gradevol di spavento
È mirar finto in tavola
E squallido, e di lento 40
Sangue rigato il giovane
Che dal crudo cinghiale ucciso fu.
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3. La tradizione italiana del sonetto in un opuscolo foscoliano (1816)
22
23
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1[N.B. Compare nell’opuscolo dopo il son. “di Vittorio Alfieri. Morto nel 1803”. Il testo
presenta alcune varianti, interpuntive e sostanziali, rispetto a quello delle Poesie 1803]
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4. Le Poesie. Intertestualità, varianti testuali, trasformazioni del macrotesto
V. ALFIERI, Rime
(Son. 167, datato 1786)
Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:
per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
FOSCOLO, son. VII (1803)
[1824]
Solcata ho fronte, occhi incavatì intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo e largo petto;
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
tumidi labbri ed al sorriso lenti,
capo chino, bel collo, irsuto petto;
giuste membra, vestir semplice, eletto (1);
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto ;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:
membra esatte; vestir semplice, eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto,
avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquïeto, tenace:
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso;
alle speranze incredulo e al timore,
il pudor mi fa vile e prode l'ira:
di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.
cauta in me parla la ragion; ma il cuore,
ricco di vizj e di virtù, delira .
Morte, tu mi darai fama e riposo (1).
(1) < vestir mondo e negletto
(1) < (1808) forse da morte avrò…
28
Poesie, edd. Pisa1 ePisa2, 1803, son. II:
Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia.
Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
or meglio vivi e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia.
Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d'anni e rugoso in sembiante,
che stai? nè siegui omai che t’è concesso
questa ch’ è duce alle incerte tue piante,
larva di gloria '? E già morte t’ è appresso.
Poesie, edd. Milano, Destefanis e Milano, Nobile, 1803, son. XII:
Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia.
Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
or meglio vivi, e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia.
Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d'anni e rugoso in sembiante,
che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama tentino almen libere carte.
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Poesie 1803
Ed. Pisa1 ePisa2, 1803
1) Non son chi fui
2) Che stai?
3) Te nudrice alle Muse
4) E tu ne’ carmi avrai
5) Perché taccia il rumor
6) Così gl’interi giorni
7) Meritamente, però ch’io potei
8) Solcata ho fronte
Ode A Luigia Pallavicini
Ed. Milano, Destefanis, aprile 1803
Ed. Milano, Nobili, agosto 1803
Ode A Luigia Pallavicini
Ode A Luigia Pallavicini
Ode All’amica risanata
Ode All’amica risanata
1) Forse perché
1) Forse perché
2) Non son chi fui
2) Non son chi fui
3) Te nudrice alle Muse
3) Te nudrice alle Muse
4) Perché taccia il rumor
4) Perché taccia il rumor
5) Così gl’interi giorni
5) Così gl’interi giorni
6) Meritamente, però ch’io potei
6) Meritamente, però ch’io potei
7) Solcata ho fronte
7) Solcata ho fronte
8) E tu ne’ carmi avrai
8) E tu ne’ carmi avrai
9)Né più mai toccherò
9)Né più mai toccherò
10) Pur tu copia versavi
10) Un dì s’io non andrò
11) Che stai?
11) Pur tu copia versavi
12) Che stai?
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5. FOSCOLO, Considerazioni sulla poesia lirica [1811]
La definizione che prima i filosofi e poscia i facitori di poetiche diedero della poesia lirica è
forse la più esatta di quante abbiamo in letteratura: la poesia lirica canta con entusiasmo le lodi de’
numi e degli eroi. La religione ed i fasti delle nazioni furono i primi ad ottenere per mezzo della
poesia lirica monumenti perpetui dalla letteratura; da che questa poesia emanò non tanto dalle tarde
istituzioni sociali, quanto dall’entusiasmo naturale alla mente dell’uomo, e non frenabile quasi,
quand'è mosso da forti e perpetue passioni.
Finché gli uomini non avevano se non se il canto, tutta la loro storia e le loro leggi religiose e
politiche dovevano necessariamente trovarsi nella tradizione delle loro canzoni. […]
Come la poesia lirica fu prima a nascere, cosi anche pare che sia stata la prima a degenerare.
L’entusiasmo nelle nazioni si va mortificando a misura che crescono le arti fondate sul raziocinio e
sul calcolo. Quindi la poesia lirica, anzi che sgorgare con impeto dell’animo de’poeti, venne
faticosamente finta con un entusiasmo compassato e fittizio.[……] In sì fatta condizione di tempi
[si riferisce all’età Augustea], l’entusiasmo non può mostrarsi senza essere deriso e punito; si
scrivono satire piene di sale, elegie piene di vezzi e d’amore; ma poche belle odi e pochissime odi
sublimi.
La poesia lirica fu dagli scrittori di poetica e da’ poeti stessi confusa con la amorosa, che
Alessandro Tassoni nelle note al Petrarca [1609-1611], chiama più esattamente col nome di poesia
melica, e con la poesia morale, di cui gli esempi migliori sono ne’ versi d’Orazìo.
Un madrigale, un epigramma e una sentenza filosofica, perché erano scritti in versi lirici, furono
chiamati ode. Si trascurò l’essenza e si badò alla forma esteriore. Nella letteratura italiana questa
confusione di generi andò crescendo ognor più. I canzonieri de' poeti si chiamarono libri di poesia
lirica: i sonetti d’amore e le canzoni propriamente italiane (cosi dette, per distinguerle dalle
Pindariche e dalle altre fatte alla latina e alla greca) non sono se non elegie, e furono collocate nel
genere lirico. Ma a ben considerare le poesie del Petrarca, le canzoni veramente liriche sono quelle
ov’ei tratta delle cose politiche d’ltalia, e le poche ove idoleggia le idee sublimi della filosofia
d’amore. Ma le canzoni : Chiare, fresche, dolci acque; Di pensier in pensier, di monte in monte e le
altre molte di questa specie, sono piuttosto elegie o vanno poste, secondo 1’avviso del Tassoni, nel
genere melico. Gli Amori del Savioli sono chiamati poesia lirica; ma in che mai differiscono
dall’elegie di Properzio e d’Ovidio?
[…] Noi italiani viviamo nell’affanno e nella confusione dell’abbondanza ; ma chi volesse sceverare
dagl’ infiniti nostri canzonieri, da Dante sino all’Alfieri, le poesie veramente liriche, appena ne
ritrarrebbe un mediocre volume.
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Foscolo. Materiali letterari