1 A.A. 2014-2015 Letteratura italiana: Le Poesie di Foscolo (1803) Ritratto di Ugo Foscolo (1813) di F. X. Fabre 2 1. Versi giovanili Dalla “raccolta Naranzi” (1794): La rosa tarda Le bionde Grazie schiusero Al ghirlandato aprile Le verdi porte, e mancavi De' fiori il più gentile? Con le sue mani ambrosie L'innamorata Aurora Dal Cielo umor freschissimo Per lui non sparse ancora? Tu, fior splendente e semplice Come la mia vezzosa, Tu fra le spine floride Ancor non spunti, o Rosa. […] E a noi sei caro: immagine Tu delle guance sei Di Lei che tien l'imperio Su tutti gli atti miei. Di Lei che bella e fulgida In sua bellezza or viene, Che con un sguardo sforzami Baciar le mie catene. Ma sorgi ormai, purpureo Bel fiorellino, sorgi; Tu alla mia dolce vergine Gaja ghirlanda porgi. […] [Ode] Fra soavissimi fioretti un giorno Giaceano Amore e Venere, E mille Genii stavan d'intorno E mille Grazie tenere. Io con l'eburnea mia cetra al collo, Scarco di cure torbide, Passai con l'alma piena di Apollo Per quelle sedi morbide. A sè chiamatomi la gaja Diva, Con fiamma al labbro e al ciglio, Disse: Tua cetera canti giuliva La possa del mio figlio. […] La partenza Partita è Cloe: ah! volino Le Grazie a lei d'intorno, E lieta l'accompagnino Al rustico soggiorno. Or forse è giunta, e tacita Trascorre il campo aprico: Deh! fra soavi palpiti Rammenti il fido amico. Ruscel che scorri limpido, Se ascolti il nome mio, Più dolcemente mormora, Dille che l'amo anch'io. Auretta solitaria, Se intorno a lei t'aggiri, Con flebil suono annunziale I mesti miei sospiri. Vispi augellini teneri, Ite dov'ella siede, E con gorgheggio querulo Le rammentato fede. Voi pure amate, e il giubilo È a voi compagno: io solo Amo, ma spargo lagrime, Amo, ma in mezzo al duolo. Pur mi son dolci i gemiti Per questo amor pudico; Ah! fra soavi palpiti Rammenti il fido amico. 3 Dalla breve raccolta – 1 canzone e 5 sonetti – scritta nel 1796 “In morte del padre”(avvenuta nel 1788) e dedicata alla madre: Oh! qual'orror! un fremito funèbre Scuote la terra ed apresi la Fossa, Ove in mezzo a tetrissime tenèbre Stan biancheggiando del mio padre l'ossa. Le guato allor con incerte palpebre; Scendo d'un salto e alla feral percossa Gemono le profonde alte latebre Ove ogni parte della tomba è smossa. E già stendo la man; già il cener santo Raccolgo.... ahi tremo.... la più cupa notte Mi casca intorno, e il cor gelo mi stringe: E par che un suono, un pianto, mi rimbrotte, Ond'io mi fuggo, e tutto mi dipinge L' ossa, l'orror, l'oscuritade il pianto. Sonetto a Venezia [Scritto nel 1796, fu stampato la prima volta, nell'Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi, Venezia, 1797] O di mille tiranni, a cui rapina Riga il soglio di sangue, imbelle terra! 'Ve mentre civil fama ulula ed erra, Siede negra Politica reina; Dimmi: che mai ti val se a te vicina Compra e vil pace dorme, e se ignea guerra A te non mai le molli trecce afferra Onde crollarti in nobile ruina? Già striscia il popol tuo scarno e fremente, E strappa bestemmiando ad altri i panni, Mentre gli strappa i suoi man più potente. Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta Sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni Farà col loro scettro alta vendetta. 4 ‘Sciolti’ pubblicati nel 1797 sull’«Anno poetico»: AL SOLE Alfin tu splendi, o Sole, o del creato Anima e vita, immagine sublime Di Dio, che sparse la tua faccia immensa Di sua luce infinita! Ore e Stagioni, Tinte a vari color, danzano belle Per l'aureo lume tuo misuratore De' secoli, e de' secoli scorrenti. Alfin tu splendi! tempestoso e freddo Copria nembo la terra; a gran volute Gravide nubi accavallate il cielo Empian di negre liste, e brontolando Per l'ampiezza dell'aere tremendi Rotolavano i tuoni, e lampi lampi Rompeano il bujo orribile. - Tacea Spaventata natura; il ruscelletto Timido e lamentevole fra l'erbe Volgeva il corso, né stormian le frondi Per la foresta, né dall'atre tane Sporgean le belve l'atterrita fronte. Ulularono i venti, e ruinando Fra grandini, fra folgori, fra piove La bufera lanciosse, e riottoso Diffuse il fiume le gonfie e spumose Onde per le campagne, e svelti i tronchi Striderono volando, e da’ scommossi Ciglion dell'ondeggianti audaci rupi Piombàr torrenti, che spiccati massi Coll'acque strascinarono. Dal fondo D'una caverna i fremiti e la guerra Degli elementi udii; Morte su l'antro Mi s'affacciò gigante; ed io la vidi Ritta: crollò la testa e di natura L'esterminio additommi. - In ciel spiegasti, O Sol, tua fronte, e la procella orrenda Ti vide e si nascose, e i paurosi Irti fantasmi sparvero.... ma quanti Segni di lutto su i vedovi campi, Oimè, il nembo lasciò! Spogli di frutta, Aridi, e mesti sono i pria sì vaghi Alberi gravi, e le acerbette e colme Promettitrici di liquor giocondo Uve giacciono al suol; passa 1'armento E le calpesta; e istupidito e muto L'agricoltore le contempla e geme. 5 Intanto scompigliata, irta, e piangente, Te, o Sol, ripriega la Natura, e il tuo Di pianto asciugator raggio saluta; E tu la accendi, e si rallegra e nuovi Promette frutti e fior. Tutto si cangia, Tutto père quaggiù! Ma tu giammai, Eterna lampa, non ti cangi? mai? Pur verrà dì che nell'antiquo vòto Cadrai del nulla, allor che Dio suo sguardo Ritirerà da te: non più le nubi Corteggeranno a sera, i tuoi cadenti Raggi su l'Oceàno; e non più l'Alba Cinta di un raggio tuo, verrà su l'Orto Ad annunziar che sorgi. Intanto godi Di tua carriera: oimè! ch'io sol non godo De' miei giovani giorni: io sol rimiro Gloria e piacere, ma lugubri e muti Sono per me, che dolorosa ho l'alma. Sul mattin della vita io non mirai Pur anco il Sole; e omai son giunto a sera Affaticato; e sol la notte aspetto Che mi copra di tenebre e di morte. Una prima stesura del son. V delle Poesie (1797?): Quando la terra è d'ombre ricoverta, E soffia '1 vento, e in su le arene estreme L'onda va e vien che mormorando geme, E appar la luna tra le nubi incerta; Son. V Così gl’interi giorni in lungo incerto sonno gemo! ma poi quando la bruna notte gli astri nel ciel chiama e la luna, e il freddo aer di mute ombre è coverto; Torno dove la spiaggia è più deserta Solingo a ragionar con la mia speme, E del mio cor che sanguinando geme Ad or ad or palpo la piaga aperta. dove selvoso è il piano e più deserto allor lento io vagando, ad una ad una palpo le piaghe onde la rea fortuna, e amore, e il mondo hanno il mio core aperto. Lasso! me stesso in me più non discerno, E languono i miei dì come viola Nascente ch'abbia tempestata il verno; Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino, ed or prostrato ove strepitan l’onde, con le speranze mie parlo e deliro. Chè va lungi da me colei che sola Far potea sul mio labbro il riso eterno: Luce degli occhi miei, chi mi t'invola? Ma per te le mortali ire e il destino spesso obblïando, a te, donna, io sospiro: luce degli occhi miei chi mi t’asconde? 6 2. Nei dintorni delle Odi ‘neoclassiche’ Antonio Canova (1757-1822): Danzatrici 7 J. M. NATTIER, Maria Adelaide di Francia ritratta nelle vesti di Diana (1745) POMPEO BATONI, Diana (1761) 8 J. BOUCHER, La toilette di Venere (1751) ANDREA APPIANI, Ritratto di Giuseppina Beauharnais come Venere (1791) 9 LODOVICO SAVIOLI FONTANA (1729-1804): dagli Amori (1765) A Venere O figlia alma d'Egioco, leggiadro onor dell'acque, per cui le Grazie apparvero e 'l riso al mondo nacque; […] Accese a te le tenere fanciulle alzan la mano: sole ritrosa invocano le antiche madri invano. Te sulle corde eolie Saffo invitar solea, quando a quiete i languidi begli occhi Amor togliea. E tu richiesta, o Venere, sovente a lei scendesti, posta in oblio l'ambrosia, e i tetti aurei celesti. […] E mentre udir propizia solevi il flebil canto, tergean le dita rosee della fanciulla il pianto. […] Se tu m'assisti, io Pallade abbia, se vuol, nimica; teco ella innanzi a Paride perdé la lite antica. […] All’amica che lascia la città […] Psiche apparia: prostravasi la turba al suol devota; e in te le selve onorino divinitate ignota. […] Casta abitar compiacquesi Diana ancor le selve: la pura mano armavano dardi, terror di belve. Al cacciator Gargafio, che osò mirarla al fonte, ultrici acque cangiarono la temeraria fronte. […] 10 Il passeggio Già già, sentendo all'auree briglie allentar la mano, correan d'Apollo i fervidi cavalli all'Oceàno; La bella intanto i lucidi percote ampi cristalli, l'auriga intende, e posano i docili cavalli. me i passi incerti trassero pel noto altrui cammino, che alla città di Romolo conduce il pellegrino. Tosto m'appresso, e inchinomi a quel leggiadro viso, che s'adornò d'un facile conquistator sorriso. Dall'una parte gli àrbori al piano suol fann'ombra, l'altra devoto portico per lungo tratto ingombra. Amor, di tua vittoria come vorrei lagnarmi? Chi mai dovea resistere, potendo, a tue bell'armi? La tua, gran padre Ovidio, scorrea difficil arte, pascendo i guardi e l'animo sulle maestre carte, In noi t'accrebbe imperio la destra man cortese, che mossa dalle Grazie a' baci miei si stese. quando improvviso scossemi l'avvicinar d'un cocchio, e ratto addietro volgere mi fece il cupid'occhio. Risvegliator di zefiri ventaglio avea la manca, onde solea percotere lieve la gota bianca. […] Sui piè m'arresto immobile, e il cocchio aureo trapassa, che per la densa polvere orma profonda lassa. Sola sui drappi serici con maestà sedea tal che in quel punto apparvemi men donna assai che dea. Più bello il volto amabile, più bello il sen parere fean pel color contrario l'opposte vesti nere. Tal sul suo carro Venere forse scorrea Citera, da poi che Adon le tolsero denti d'ingorda fera. O man, che d'Ebe uguagliano per lor bianchezza il seno, ove fissando allegrasi Giove di cure pieno! forse sì fatte in Caria Endimion stringea, quando dal carro argenteo Diana a lui scendea. Quei vaghi occhi cerulei movea frattanto Amore; rette per lui scendevano le dolci note al core. Come potrei ripetere quel ch'a me udir fu dato? Dal novo foco insolito troppo era il cor turbato. 11 Il mattino Già col meriggio accelera l'ora compagna il piede, e già l'incalza e stimola nova, che a lei succede. Già dal notturno carcere i crini aurei sprigiona, ed all'eburneo pettine gl'indocili abbandona. Entra la luce e rapida empie le stanze intorno: il pigro sonno involisi, apri i begli occhi al giorno. Segui, o fra quante furono illustri ancelle esperta: felice te! la grazia della tua donna è certa. Cinese tazza eserciti beata il suo costume, e il roseo labbro oscurino le americane spume. Te nulla turbi, e rigido guardi silenzio il loco, solo garrisca l'indico verde amator del croco. S'erge segreto un tempio dell'ampie coltri a lato: là tue bellezze aspettano il sacrificio usato. Oh quante volte il frigio, caro alla greca altera, tacque, e con lui di Priamo tacque la reggia intera! Vieni. Sia fausta Venere, gli uffizi Amor comparta, le Grazie in piedi assistano: tu sederai la quarta. Ella frattanto ornavasi pari all'eterne dive, e il caldo ferro iliaco torcea le chiome argive. Forse, al fissar sollecita nel chiaro specchio il volto ti parrà meno amabile sol perché men fia còlto. Arser d'amara invidia poi le dardanie spose: arse d'amor Deifobo, ma 'l foco incesto ascose. Pur, se dal tuo giudizio dissento, il porta in pace: negletto e senza studio più il viso tuo mi piace. M'inganno? o il sacrifizio il chiesto fine or tocca, né ancor il Sol coi fervidi cavalli in mar trabocca? Tal da' superbi talami dell'ampia reggia achea, sciolta dal caro Pelope, Ippodamìa sorgea; tal dallo speco emonio, ove a Peleo soggiacque, madre tornò del tessalo l'azzurra dea dell'acque. Ma già tuo dolce imperio la fida ancella invita; ella s'appressa, e all'opera stende la destra ardita. 12 JACOPO VITTORELLI (1749-1835) Dalle Anacreontiche A Dori che prende le acque di Recoaro 13 14 15 16 17 18 19 GIUSEPPE PARINI, Odi La educazione [1764] Il pericolo [1787] Torna a fiorir la rosa 1 Che pur dianzi languìa; E molle si riposa Sopra i gigli di pria. Brillano le pupille Di vivaci scintille. […] La guancia risorgente 7 Tondeggia sul bel viso: E quasi lampo ardente Va saltellando il riso Tra i muscoli del labro Ove riede il cinabro. I crin, che in rete accolti Lunga stagione ahi foro, Su l'omero disciolti Qual ruscelletto d'oro Forma attendon novella D'artificiose anella. […] Parve a mirar nel volto E ne le membra Pallade, Quando, l'elmo a sè tolto, Fin sopra il fianco scorrere Si lascia il lungo crin: 45 Se non che a lei dintorno Le volubili grazie Dannosamente adorno Rendeano ai guardi cupidi L'almo aspetto divin. 50 15 Qual, se parlando, eguale A gigli e rose il cubito Molle posava? Quale, Se improvviso la candida Mano porgea nel dir? 55 E a le nevi del petto, Chinandosi da i morbidi Veli non ben costretto, Fiero dell'alme incendio! Permetteva fuggir? 60 In tanto il vago labro, E di rara facondia E d'altre insidie fabro, Gìa modulando i lepidi Detti nel patrio suon. 65 Che più? Da la vivace Mente lampi scoppiavano Di poetica face, Che tali mai non arsero L'amica di Faon; 70 […] 20 Il dono. Per la marchesa Paola Castiglioni [1790] Queste, che il fero Allobrogo Note piene d'affanni Incise col terribile Odiator de' tiranni Pugnale, onde Melpomene 5 Lui fra gl'Itali spirti unico armò; Ma sovra lui se pendere La madre de gli amori, Cingendol con le rosee 45 Braccia si vede, i cori Oh quanto allor si sentono Da giocondo tumulto agitar più! Come oh come a quest'animo Giungon soavi e belle, Or che la stessa Grazia A me di sua man dielle, 10 Dal labbro sorridendomi, E dalle luci, onde cotanto può! Certo maggior, ma simile Fra le torbide scene 50 Senso in me desta il pingermi Tue sembianze serene; E all'atre idee contessere I bei pregi, onde sol sei pari a te. Me per l'urto e per l'impeto De gli affetti tremendi, Me per lo cieco avvolgere 15 De' casi, e per gli orrendi Dei gran re precipizii, Ove il coturno camminando va, Ben porteranno invidia 55 A' miei novi piaceri Quant'altri a scorrer prendano I volumi severi. Che far, se amico genio Sì amabil donatrice a lor non diè? 60 Segue tua dolce immagine, Amabil donatrice, 20 Grata spirando ambrosia Su la strada infelice; E in sen nova eccitandomi Mista al terrore acuta voluttà: O sia che a me la fervida 25 Mente ti mostri, quando In divin modi, e in vario Sermon, dissimulando, Versi d'ingegno copia E saper che lo ingegno almo nodrì: 30 O sia quando spontaneo Lepor tu mesci a i detti; E di gentile aculeo Altrui pungi e diletti Mal cauto da le insidie, 35 Che de' tuoi vezzi la natura ordì. Caro dolore, e specie Gradevol di spavento È mirar finto in tavola E squallido, e di lento 40 Sangue rigato il giovane Che dal crudo cinghiale ucciso fu. 21 3. La tradizione italiana del sonetto in un opuscolo foscoliano (1816) 22 23 24 25 26 1[N.B. Compare nell’opuscolo dopo il son. “di Vittorio Alfieri. Morto nel 1803”. Il testo presenta alcune varianti, interpuntive e sostanziali, rispetto a quello delle Poesie 1803] 27 4. Le Poesie. Intertestualità, varianti testuali, trasformazioni del macrotesto V. ALFIERI, Rime (Son. 167, datato 1786) Sublime specchio di veraci detti, mostrami in corpo e in anima qual sono: capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; lunga statura, e capo a terra prono; sottil persona in su due stinchi schietti; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; giusto naso, bel labro, e denti eletti; pallido in volto, più che un re sul trono: or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; irato sempre, e non maligno mai; la mente e il cor meco in perpetua lite: per lo più mesto, e talor lieto assai, or stimandomi Achille, ed or Tersite: uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai. FOSCOLO, son. VII (1803) [1824] Solcata ho fronte, occhi incavatì intenti, crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto, labbro tumido acceso, e tersi denti, capo chino, bel collo e largo petto; Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto, tumidi labbri ed al sorriso lenti, capo chino, bel collo, irsuto petto; giuste membra, vestir semplice, eletto (1); ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti; sobrio, umano, leal, prodigo, schietto ; avverso al mondo, avversi a me gli eventi: membra esatte; vestir semplice, eletto; ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti; sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto, avverso al mondo, avversi a me gli eventi. talor di lingua, e spesso di man prode; mesto i più giorni e solo, ognor pensoso, pronto, iracondo, inquïeto, tenace: Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso; alle speranze incredulo e al timore, il pudor mi fa vile e prode l'ira: di vizi ricco e di virtù, do lode alla ragion, ma corro ove al cor piace: morte sol mi darà fama e riposo. cauta in me parla la ragion; ma il cuore, ricco di vizj e di virtù, delira . Morte, tu mi darai fama e riposo (1). (1) < vestir mondo e negletto (1) < (1808) forse da morte avrò… 28 Poesie, edd. Pisa1 ePisa2, 1803, son. II: Che stai? già il secol l'orma ultima lascia; dove del tempo son le leggi rotte precipita, portando entro la notte quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia. Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia, troppo hai del viver tuo l'ore prodotte; or meglio vivi e con fatiche dotte a chi diratti antico esempi lascia. Figlio infelice, e disperato amante, e senza patria, a tutti aspro e a te stesso, giovine d'anni e rugoso in sembiante, che stai? nè siegui omai che t’è concesso questa ch’ è duce alle incerte tue piante, larva di gloria '? E già morte t’ è appresso. Poesie, edd. Milano, Destefanis e Milano, Nobile, 1803, son. XII: Che stai? già il secol l'orma ultima lascia; dove del tempo son le leggi rotte precipita, portando entro la notte quattro tuoi lustri e obblio freddo li fascia. Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia, troppo hai del viver tuo l'ore prodotte; or meglio vivi, e con fatiche dotte a chi diratti antico esempi lascia. Figlio infelice, e disperato amante, e senza patria, a tutti aspro e a te stesso, giovine d'anni e rugoso in sembiante, che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte; a chi altamente oprar non è concesso fama tentino almen libere carte. 29 Poesie 1803 Ed. Pisa1 ePisa2, 1803 1) Non son chi fui 2) Che stai? 3) Te nudrice alle Muse 4) E tu ne’ carmi avrai 5) Perché taccia il rumor 6) Così gl’interi giorni 7) Meritamente, però ch’io potei 8) Solcata ho fronte Ode A Luigia Pallavicini Ed. Milano, Destefanis, aprile 1803 Ed. Milano, Nobili, agosto 1803 Ode A Luigia Pallavicini Ode A Luigia Pallavicini Ode All’amica risanata Ode All’amica risanata 1) Forse perché 1) Forse perché 2) Non son chi fui 2) Non son chi fui 3) Te nudrice alle Muse 3) Te nudrice alle Muse 4) Perché taccia il rumor 4) Perché taccia il rumor 5) Così gl’interi giorni 5) Così gl’interi giorni 6) Meritamente, però ch’io potei 6) Meritamente, però ch’io potei 7) Solcata ho fronte 7) Solcata ho fronte 8) E tu ne’ carmi avrai 8) E tu ne’ carmi avrai 9)Né più mai toccherò 9)Né più mai toccherò 10) Pur tu copia versavi 10) Un dì s’io non andrò 11) Che stai? 11) Pur tu copia versavi 12) Che stai? 30 5. FOSCOLO, Considerazioni sulla poesia lirica [1811] La definizione che prima i filosofi e poscia i facitori di poetiche diedero della poesia lirica è forse la più esatta di quante abbiamo in letteratura: la poesia lirica canta con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi. La religione ed i fasti delle nazioni furono i primi ad ottenere per mezzo della poesia lirica monumenti perpetui dalla letteratura; da che questa poesia emanò non tanto dalle tarde istituzioni sociali, quanto dall’entusiasmo naturale alla mente dell’uomo, e non frenabile quasi, quand'è mosso da forti e perpetue passioni. Finché gli uomini non avevano se non se il canto, tutta la loro storia e le loro leggi religiose e politiche dovevano necessariamente trovarsi nella tradizione delle loro canzoni. […] Come la poesia lirica fu prima a nascere, cosi anche pare che sia stata la prima a degenerare. L’entusiasmo nelle nazioni si va mortificando a misura che crescono le arti fondate sul raziocinio e sul calcolo. Quindi la poesia lirica, anzi che sgorgare con impeto dell’animo de’poeti, venne faticosamente finta con un entusiasmo compassato e fittizio.[……] In sì fatta condizione di tempi [si riferisce all’età Augustea], l’entusiasmo non può mostrarsi senza essere deriso e punito; si scrivono satire piene di sale, elegie piene di vezzi e d’amore; ma poche belle odi e pochissime odi sublimi. La poesia lirica fu dagli scrittori di poetica e da’ poeti stessi confusa con la amorosa, che Alessandro Tassoni nelle note al Petrarca [1609-1611], chiama più esattamente col nome di poesia melica, e con la poesia morale, di cui gli esempi migliori sono ne’ versi d’Orazìo. Un madrigale, un epigramma e una sentenza filosofica, perché erano scritti in versi lirici, furono chiamati ode. Si trascurò l’essenza e si badò alla forma esteriore. Nella letteratura italiana questa confusione di generi andò crescendo ognor più. I canzonieri de' poeti si chiamarono libri di poesia lirica: i sonetti d’amore e le canzoni propriamente italiane (cosi dette, per distinguerle dalle Pindariche e dalle altre fatte alla latina e alla greca) non sono se non elegie, e furono collocate nel genere lirico. Ma a ben considerare le poesie del Petrarca, le canzoni veramente liriche sono quelle ov’ei tratta delle cose politiche d’ltalia, e le poche ove idoleggia le idee sublimi della filosofia d’amore. Ma le canzoni : Chiare, fresche, dolci acque; Di pensier in pensier, di monte in monte e le altre molte di questa specie, sono piuttosto elegie o vanno poste, secondo 1’avviso del Tassoni, nel genere melico. Gli Amori del Savioli sono chiamati poesia lirica; ma in che mai differiscono dall’elegie di Properzio e d’Ovidio? […] Noi italiani viviamo nell’affanno e nella confusione dell’abbondanza ; ma chi volesse sceverare dagl’ infiniti nostri canzonieri, da Dante sino all’Alfieri, le poesie veramente liriche, appena ne ritrarrebbe un mediocre volume.