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C I N Q U A N T E N A R I O
I MENU FANNO LA STORIA
DI
noto che a tavola, oltre a mangiare, si fa politica e si fondano religioni. Il cristianesimo sarebbe stato soltanto un movimento
d’opinione senza l’Ultima cena e la
Rivoluzione francese è sovente ricordata con la “brioche” della regina
Maria Antonietta, vale a dire con la
crosta di certe preparazioni di cucina. Alimenta ancor oggi una battuta
che ella mai pronunciò e con la quale avrebbe preteso sfamare il popolo
che chiedeva pane. Un cibo, per dirla in soldini, si fissa meglio nella memoria che un’idea, un passaggio storico, un mistero teologico. Non a caso Ulisse nel VII canto dell’“Odissea”
afferma: “Niente è più cane del ventre odioso, / che costringe per forza
a ricordarsi di lui”.
Facendo tesoro di queste parole,
notiamo che la tavola aiuta a ricostruire anche parte della nostra storia
nazionale. Ce ne siamo accorti con
le manifestazioni per i cinquant’anni
dell’Accademia Italiana della Cucina,
fondata nel 1953 da Orio Vergani e
da un gruppo di intellettuali e amici
- tra cui c’erano Dino Buzzati e Arnoldo Mondadori - per salvaguardare l’identità dei cibi e dei sapori del
Belpaese. Vergani, seguendo il Giro
d’Italia, intuì che le cucine regionali
stavano diventando un ricordo. Lanciava pertanto un “grido di dolore”
contro l’omologazione recata dal dopoguerra. Insomma, una battaglia
della cotoletta contro la carne in scatola, della pasta fatta con amore di
massaia contro quella prodotta con
ingredienti improbabili, dell’olio che
conteneva la civiltà greca contro
quello che cominciava a sembrare
un lubrificante.
Risparmiamo al lettore i dettagli
È
ARMANDO TORNO
Relatore al convegno internazionale dell’Accademia e
illustre opinionista del “Corriere della Sera”, Armando
Torno ha scritto per il quotidiano milanese un saggio,
pubblicato a piena pagina,
con questo titolo “A tavola si
fondano Stati e religioni. Ecco la storia raccontata dai
menu”. Della mostra del Castello Sforzesco, scrive tra
l’altro l’Autore con efficace
similitudine: “Queste liste
delle vivande non sono un
semplice elenco ma una pellicola su cui è rimasta impressa una società con vezzi,
gusti, esigenze”. Nella stessa
pagina Ermanno Paccagnini illustra l’etimologia della
parola menu.
delle celebrazioni, discorsi, auspici,
sospiri e quel che un tale anniversario sa evocare. Vorremmo soltanto
suggerirgli di approfittare di una di
queste iniziative, ovvero la mostra
storica sui menu apertasi ieri, 17 giugno, nella Sala del tesoro della Biblioteca trivulziana (al Castello Sforzesco di Milano). Qualche centinaio
di pezzi, ottenuti mescolando alcune
rarità della raccolta “Bertarelli” (ne
possiede diecimila) e l’ingente tesoro del collezionista Maurizio Campiverdi (ne conserva circa sessantaduemila). L’elenco delle portate vi
farà venire l’acquolina in bocca, ma
soprattutto riflettere sui riti e sull’estetica del cibo.
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C’è, dicevamo, un po’ di storia d’Italia in queste vetrine. La conservatrice della “Bertarelli”, Giovanna Mori, ci apre il menu per l’inaugurazione della “Litoranea” in Libia, alla
presenza di Mussolini, del 15 marzo
1937. Leggiamolo insieme. “Caviale
Malossol e fegato d’oca” fanno da
antipasti, segue un “ristretto imperiale”. Tocca poi a una “spigola fredda
Mare nostrum” con salsa maionese,
quindi ai “capponi di Monza Pastorella” con “carciofi all’indigena e piselli tripolini”. Si chiude con un dessert di carattere fascista: “bombe
Faccetta nera” (è il dolce); quindi si
amalgama il colpo con “pasticceria
assortita”, infine frutta e caffè.
Il linguaggio è ben diverso in un
menu per un lauto pasto dell’erede
al trono Umberto, che il 3 luglio
1927 a Salsomaggiore può degustare: “bocconcini di dama, aligusta del
Tirreno all’orientale, lombatine di vitello con primizie, pollanca rosa di
maggio, insalata siciliana, timballo
di frutta alla zaratina, torta ideale”. I
vini concedono la giusta strizzata
d’occhio al Piemonte: “Soave Bertani, Brolio Ricasoli stravecchio, Gran
spumante Cinzano, Cordial Campari,
Salsolino Colombo”. È, tra l’altro, un
menu raro personalizzato in ceramica dal celebre artigiano Meandri.
Queste liste di vivande non sono
un semplice elenco ma una pellicola
su cui è rimasta impressa una società, con vezzi, gusti, esigenze. Da
allora le mode sono cambiate e osservando, per esempio, i menu del
1970 con i disegni di Renato Guttuso
(per “Cicolella” di Foggia o per “Piperno” di Roma) ci si rende conto
che essi registrano la pasta o i carciofi come si desideravano in quel
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momento. Del resto, dal fascismo a
oggi i valori si sono capovolti. Per
fare un esempio, basterà notare
quanto scrive Carlo Levi in “Cristo si
è fermato a Eboli”, allorché la contadina gli lava la schiena: “Quanto sei
bello, diceva, quanto sei grasso”. La
battuta si riferiva alla metà degli anni
Trenta. Oggi, invece, è invalso l’uso
di fare i complimenti a chi ha perso
peso.
Ma, per allargare i casi, diremo
che ci è capitato l’opuscolo di presentazione del “Buondì” risalente alla metà degli anni Cinquanta. Il
compilatore consigliava alle mamme
di far mangiare il nuovo prodotto ai
bimbi per il suo potere nutrizionale
ottenuto con burro, zucchero e altro.
Oggi un comitato salutista potrebbe
chiederne l’arresto.
Quando nasceva l’Accademia i
tempi in cucina non erano ansiosi.
Ai giorni nostri buona parte degli
italiani non ha nemmeno lo spazio
per il pranzo e ripiega sul panino;
un pollo cresceva da zero a tre chilogrammi in 5-6 mesi e ora in 48-56
giorni chiude il suo nascere-ingrassare-morire, sovente con l’“aiuto”
degli antibiotici e di altro che non è
il caso di specificare.
Insomma, questa istituzione ha ancora molto lavoro da svolgere, an-
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che se alcuni obiettivi sono cambiati.
I menu ci aiutano a capire che a tavola non c’è una verità eterna e che
un cibo chiamato con lo stesso nome muta sapore nel tempo. Nel 1850
il filosofo Ludwig Feuerbach poteva
asserire che “l’uomo è ciò che mangia”, oggi dovremmo tradurlo così:
“L’uomo è ciò che crede di mangiare”. O forse è meglio correggere di
più, date le fisime delle diete: “L’uomo crede di essere quello che spera
di mangiare”. E tra i verbi “credere”
e “sperare” c’è la religione della nostra tavola.
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COME NACQUE IL MENU
Parola sempre poco amata dai nostri linguisti, menu è spiegata nel
1877 dal dizionario di Fanfani-Arlìa come “lista dei cibi disponibili in
un ristorante o serviti in un pranzo”. Nel 1886 per Rigatini è ancora
un neologismo cui preferire “lista”. Ci ride invece Panzini, suggerendo
di scriverlo addirittura “menu”. Ma Arlìa resta categorico: “I nostri
sciupalingua ricorrono al francese per la voce indicante quel fogliolino
colorato e vagamente stampato, su cui son indicate le vivande ed i vini
che saranno portati in tavola, non sapendo che i nostri vecchi lo dicevano «lista» o «minuta». Dunque possiamo servirci di «minuta» e di «lista» e mandare «monsieur Menu» a’ suoi posti”. Ma non è poi così male tornare all’etimologia: perché il vocabolario accademico del 1718
spiega Monsieur Menu come “liste détaillée des mets dont se compose
un repas” (lista dettagliata dei cibi di cui si compone un pasto): sostantivazione dell’aggettivo indicante “minuto”, “dettagliato”. È poi
comico che tocchi al Murger delle “Scènes de la vie de Bohème”
(1851), ove mangiare è un’avventura, parlare di “carte sur la quelle
le menu est inscrit” (carta sulla quale è scritto il menu).
Avventura per avventura, come non sorridere pensando che spetta a
Verne passare dalla carta al contenuto, al menu come “repas”? Lo fa
nel 1868. Con “I figli del capitano Grant”. (Ermanno Paccagnini)
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