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Alphonse de Lamartine
Viaggio in Oriente 1832-1833
(Costantinopoli)
Souvenirs, impressions, pensées et paysages pendant un voyage en Orient,
1832-1833 ou Notes d’un voyageur (Constantinople)
18351
1 Traduzione dal francese e note: © associazione culturale Larici.
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L’impero ottomano nel 1453-1481 (da W.R. Shepherd, The Historical Atlas, 1923).
Vi sono indicati molti dei luoghi nominati da Lamartine.
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MAGGIO
1833
[…] In fondo al golfo non vedo che le stesse colline arrotondate allo
stesso livello, senza rocce, senza anse, né insenature: e Costantinopoli, che
il comandante segna a dito, non è che una città bianca e circoscritta sopra
un gran colle della costa d’Europa. Valeva la pena venire a cercare un
disinganno così lontano? Io non volevo più guardare, tuttavia bordeggiando
ci accostavamo sensibilmente; rademmo il castello delle Sette Torri:
immenso blocco di costruzione severa e grigia del Medioevo, che fiancheggia
sul mare l’angolo delle muraglie greche dell’antica Bisanzio, e arrivammo a
ormeggiare sotto le case di Stambul nel mar di Marmara, tra una folla di
vascelli e di barche tenute, come la nostra, fuori del porto per la violenza
della tramontana. Erano le cinque di sera, il cielo era sereno e il sole
sfolgorante; io cominciavo a vincere lo sdegno per Costantinopoli: le mura
di cinta di questa parte della città pittorescamente fabbricata sulle rovine di
mura antiche e sormontate da giardini, chioschi e casette di legno dipinte di
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rosso, formavano il primo piano del quadro; di sopra, infinite terrazze di
case disposte a poggi, inframezzate da chiome d’aranci e da aguzze e nere
punte di cipressi; più in alto sette od otto grandi moschee coronavano la
collina; e fiancheggiate dai minareti scolpiti a giorno, con le colonnette
moresche, alzavano al cielo le loro cupole dorate, che infiammava il riflesso
del sole: i muri dipinti di azzurro delle moschee, le coperture di piombo
delle cupole che li circondavano, davano loro l’apparenza e la vernice
trasparente di monumenti di porcellana. I cipressi secolari accompagnavano
queste cupole con le immobili e cupe cime, e le case variopinte facevano
brillare la vasta collina di tutti i colori di un giardino in fiore; nessun rumore
saliva dalle vie; nessuna grata delle innumerevoli finestre si apriva; nessun
movimento manifestava l’abitazione di una così gran moltitudine di uomini:
tutto pareva dormisse sotto il cocente sole del giorno; il golfo soltanto,
solcato in ogni senso da vele di ogni forma e grandezza, dava segno di vita.
Ogni istante vedevamo sboccare dal Corno d’oro (imboccatura del Bosforo),
dal vero porto di Costantinopoli, dei vascelli a gonfie vele, che ci passavano
accanto fuggendo verso i Dardanelli, ma non potevamo scorgere l’entrata
del Bosforo, né comprenderne la posizione. Pranziamo sul ponte di fronte a
questo magico spettacolo: dei caicchi turchi2 vengono a interrogarci e a
portarci provvigioni; i battellieri ci dicono che non c’è quasi più peste;
mando le mie lettere alla città; alle sette il signor Truqui, console generale
di Sardegna3, accompagnato dagli ufficiali della sua legazione, viene a
renderci visita e a offrirci ospitalità nella sua casa di Pera, non essendo
possibile trovare alloggio nella città recentemente incendiata; la cortese
cordialità e l’attrazione che ci ispira dal primo momento il signor Truqui ci
spinge ad accettare. Il vento è ancora contrario, i vascelli non possono
levare l’ancora stasera: dormiamo a bordo.
Costantinopoli
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MAGGIO
1833
Alle cinque ero già in piedi sul ponte. Il capitano fa gettare in mare una
lancia, scendo con lui e veleggiamo verso l’imboccatura del Bosforo, lungo le
mura di Costantinopoli lavate dal mare. Dopo mezz’ora di navigazione,
traverso una moltitudine di navi ancorate, tocchiamo le mura del serraglio,
che continuano quelle della città e formano, all’estremità della collina che
sostiene Stambul4, l’angolo che separa il mar di Marmara dal canale del
Bosforo e dal Corno d’oro, come chiamano la gran rada interna di
2 Più propriamente sarebbe “dei marinai di caicchi turchi”. Il caicco, infatti, è la tipica
imbarcazione turca a due alberi.
3 Gaëtan Truqui era console generale e cancelliere di Sua Maestà Sarda a Istanbul dal 1828.
4 Il nome della città, odierna Istanbul, è stato Costantinopoli fino al 1923. Con Stambul (o
Stamboul) si indicava la città entro le mura.
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Costantinopoli. È là che Dio e l’uomo, la natura e l’arte posero o crearono di
concerto il punto di vista più meraviglioso che sguardo umano possa
contemplare sulla terra. Proruppi involontariamente in un’esclamazione, e
dimenticai per sempre il golfo di Napoli e tutti i suoi incanti5: paragonare
qualcosa a questo magnifico e leggiadro insieme sarebbe ingiuriare la
creazione.
Le muraglie che sostengono le terrazze circolari degli immensi giardini del
gran serraglio erano a pochi passi da noi, alla nostra sinistra, separate dal
mare da uno stretto marciapiede di lastroni di pietre, che le onde lavano in
continuazione, e dove la perpetua corrente del Bosforo forma delle piccole
onde mormoranti e cerulee, come le acque del Rodano a Ginevra. Queste
terrazze, che si elevano su lievi pendii fino al palazzo del sultano, di cui
traspaiono le cupole dorate attraverso le cime gigantesche dei platani e dei
cipressi, sono esse pure piantumate a cipressi e platani smisurati, i cui
tronchi soverchiano le mura e i rami, sbucando dai giardini, pendono a picco
sul mare le loro chiome a ombreggiare le barche, e spesso i rematori si
fermano là apposta. A tratti, questi gruppi d’alberi sono interrotti da palazzi,
padiglioni e chioschi, porte scolpite e dorate, che si aprono sul mare, o da
batterie di cannoni di rame e di bronzo dalle forme bizzarre e antiquate. Le
finestre, con le inferriate, di tali palazzi marittimi appartenenti al serraglio
danno sul mare, e attraverso le persiane si vedono luccicare le dorature e le
lucentezze delle volte delle stanze. A ogni passo, eleganti fontane
moresche, incastrate nelle mura del serraglio, cadono dall’alto dei giardini, e
mormorano nelle vasche di marmo, per dissetare i passanti. Alcuni soldati
turchi stanno seduti vicino a quelle fonti, e dei cani senza padrone errano
lungo l’argine; qualcun altro è seduto entro l’enorme imboccatura dei
cannoni. Più la lancia avanzava lungo quelle muraglie e più l’orizzonte ci si
dilatava davanti, la costa dell’Asia si avvicinava e l’imboccatura del Bosforo
cominciava ad apparire, fra colline di un verde cupo e altre opposte che
sembravano vestite di tutti i colori dell’arcobaleno. Là ci fermammo ancora
una volta. La ridente costa dell’Asia, non lontana più di un miglio, si
delineava alla nostra destra con grandi e alte colline, le cui cime aguzze
erano coperte di nere foreste e i pendii di campi circondati da alberi. Le
colline erano disseminate di case dipinte di rosso e i bordi dei burroni
tappezzati di piante verdi e di sicomori, i cui rami si immergevano
nell’acqua. Più lontano, le colline si alzavano ancora, poi declinavano in
spiagge verdeggianti e formavano un promontorio sul quale stava una
grande città. Era Scutari6 con le grandi caserme bianche, simili a un castello
reale, le moschee cinte di minareti risplendenti, le vie e le anse orlate di
case, di bazar, di caicchi, all’ombra delle vigne o dei platani, e con la cupa
foresta di cipressi che copre la città: attraverso i loro rami brillavano, di un
5 Lamartine visitò per la prima volta Napoli nel 1811, ospite di parenti. Nel marzo 1820 fu
nominato ambasciatore di Francia a Napoli, ma rinunciò all’incarico due mesi dopo.
6 Oggi Üsküdar; era un comune soggetto a Istanbul situato nella parte asiatica della città,
all’ingresso meridionale del Bosforo.
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lugubre splendore, gli innumerevoli monumenti bianchi dei cimiteri turchi. Al
di là dalla punta di Scutari, terminata da un isolotto su cui è una cappella
turca che si chiama Sepolcro della Fanciulla, si apriva il Bosforo, che come
un fiume sotterraneo pareva fuggire tra le fosche montagne, i cui fianchi
rocciosi, le rientranze e le sporgenze, le forre, le foreste si rispondevano
dalle due rive, e ai loro piedi si distingueva a perdita d’occhio una serie
ininterrotta di villaggi, di flotte all’ancora o alla vela, di porticcioli
ombreggiati da alberi, di case sparse e di vasti palazzi con i loro roseti sul
mare.
Qualche colpo di remi e arrivammo nel punto preciso del Corno d’oro
dove si gode insieme la vista del Bosforo, del mar di Marmara e dell’intero
porto, o per dire meglio del mare interno di Costantinopoli. Là ci
dimenticammo Marmara, la costa asiatica e il Bosforo per contemplare con
una sola occhiata il bacino del Corno d’oro e le sette città poste sui sette
colli di Costantinopoli, tutti convergenti verso il braccio di mare che forma
quella città unica e incomparabile, che è contemporaneamente città,
campagna, mare, porto, riva di fiume, giardini, montagne boscose, valli
profonde, oceano di case, sciame di navigli e di strade, laghi tranquilli e
incantate solitudini: una vista che un pennello può ritrarre soltanto per
parti, e dove ogni colpo di remi porta l’occhio e l’anima a un aspetto, a
un’impressione differente.
Veleggiammo verso le colline di Galata e di Pera7; il serraglio si
allontanava da noi ma si ingrandiva perché abbracciavamo meglio i vasti
contorni delle sue muraglie e la moltitudine delle pendici, degli alberi, dei
chioschi, dei suoi palazzi. Basterebbe esso solo a formare una grande città.
Il porto si incava sempre più dinanzi a noi; è come un canale tra i pendii
delle montagne ricurve che si sviluppa più avanti. Il porto non assomiglia in
nulla a un porto, è piuttosto un largo fiume come il Tamigi, fiancheggiato da
colline piene di ville e coperto su entrambe le rive da un’interminabile flotta
di vascelli ancorati tra le case. Attraversammo quell’incredibile moltitudine
di vascelli, alcuni ancorati e altri a vela spiegata, indirizzati verso il Bosforo
o il mar Nero o il mar di Marmara. Erano bastimenti di ogni foggia,
grandezza e stendardo: dalla barca turca, con la prua slanciata e alzata
come il rostro delle galee antiche, fino al vascello a tre ponti, con le fiancate
di bronzo sfolgoranti. Gruppi di caicchi turchi, spinti da uno o due rematori
in maniche di seta, e barchette, che servono da vetture nelle vie marittime
di questa città anfibia, circolano tra quelle masse che si incrociano, si urtano
senza rovesciarsi, sgomitano come la folla sulle piazze pubbliche: e stormi
di albatros8, simili a bei piccioni bianchi, si levavano dal mare all’accostarsi
delle barche per posarsi più lontano o farsi cullare dall’onda. Non provai a
contare i vascelli, le navi, i brick, i bastimenti e le barche che dormono o
vogano nelle acque del porto di Costantinopoli, dalla foce del Bosforo e dalla
7 Oggi Beyoğlu.
8 In francese «alabastros».
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punta del serraglio, fino al sobborgo di Eyüp9 e ai deliziosi valloni delle
Acque Dolci10: il Tamigi a Londra non è assolutamente comparabile. Basterà
dire che, indipendentemente dalla flotta turca e dalle navi da guerra
europee, ancorate in mezzo al canale, le due rive del Corno d’oro ne sono
ricoperte in due o tre file per la lunghezza di circa una lega. Non potemmo
che intravedere quelle lunghe file di prue volte verso il mare; il nostro
sguardo si perdeva verso la fine del golfo che sembrava sprofondare nella
terra tra una foresta di alberi. Approdammo ai piedi della città di Pera, non
lontano da una superba caserma di bombardieri, le cui terrazze coperte
erano ingombre di cannoni e carretti. Una mirabile fontana moresca,
costruita in forma di pagoda indiana e il cui marmo scolpito e dipinto con
colori vivaci spiccava come un merletto su uno sfondo di seta, versa le sue
acque in una piccola piazza, interamente occupata da balle di merci, cavalli,
cani randagi e da turchi accoccolati che fumavano all’ombra. I barcaioli dei
caicchi erano seduti in gran numero lungo i parapetti dei moli, aspettando i
loro padroni o sollecitando i passanti. Sono questi una bella razza d’uomini,
il cui vestire accresce la loro bellezza: indossano calzoni bianchi a pieghe
molto larghe, fermati da una cintura di seta cremisi a mezza vita e sul capo
hanno un piccolo berrettino greco, di lana rossa sormontato da una nappa di
seta pendente dietro il capo; il collo e il petto sono nudi, un’ampia camicia
di seta cruda con grandi maniche copre braccia e spalle. I loro caicchi sono
battelli lunghi da venti a trenta piedi11, e larghi da due a tre piedi, di noce
verniciato e lucidi come mogano. La loro prua è aguzza come il ferro di una
lancia e taglia il mare come un coltello. La stretta forma dei caicchi li
renderebbe pericolosi e scomodi per i Franchi che non vi sono abituati,
poiché ad ogni minimo movimento impresso da un piede maldestro si
rovesciano: conviene stare coricati sul fondo come fanno i turchi, badando
che il peso del corpo sia egualmente diviso fra i due lati della barca. Ce ne
sono di diversa grandezza, cosicché possono contenere da uno a quattro od
otto passeggeri, ma tutti hanno uguale forma. Nei porti di Costantinopoli se
ne contano a migliaia, e senza comprendere quelli che, come le carrozze,
sono a disposizione del pubblico a tutte le ore, ogni individuo ne ha uno per
proprio uso e i rematori sono i suoi servi. Ciascun uomo che si muove nella
città per affari è costretto ad attraversare il mare più volte al giorno.
Uscendo da quella piccola piazza, entrammo nelle stradine sporche e
affollate di un bazar di Pera. Escludendo gli abiti, i bazar hanno all’incirca
l’aspetto dei dintorni dei mercati delle nostre città: baracche di legno ove si
friggono dolci e carni per il popolo, negozi di barbiere, venditori di tabacco,
pizzicagnoli, fruttivendoli; c’è una folla frettolosa per le strade di tutti i
costumi e di tutte le lingue d’Oriente, e poi c’è l’abbaiare dei numerosi cani
che riempiono le piazze e i bazar e si rubano a vicenda gli avanzi gettati
9 In francese «Eyoub».
10 Acque Dolci d’Asia o d’Europa sono quelle dei fiumi, che sono percorribili in ogni senso su
piccole imbarcazioni.
11 Il piede francese, o piede regio di Parigi, corrisponde a 0,324839 metri.
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dalle porte. Da lì andammo in una strada lunga, stretta e solitaria, salendo
un ripido pendio sopra la collina di Pera. Le finestre con le inferriate non
lasciavano scorgere nulla dell’interno delle case turche, che sembrano
povere e abbandonate. Di tanto in tanto i verdi rami di un cipresso escono
dalle muraglie grigie e in rovina e svettano immobili verso un cielo
trasparente. Delle colombe bianche e azzurre sono sparse sulle finestre e
sui tetti delle case e riempiono le silenziose vie con il loro melanconico
tubare. Alla sommità di queste vie si distende il bel sobborgo di Pera,
abitato dagli europei, dagli ambasciatori e dai consoli: è un quartiere tutto
sommato simile a una povera cittadina delle nostre province. C’erano già
alcuni bei palazzi di ambasciatori eretti sulle terrazze inclinate di Galata, ma
di essi ora si vedono soltanto colonne a terra, rovine di muri anneriti,
giardini crollati: le fiamme dell’incendio hanno divorato ogni cosa. Pera non
ha né carattere, né originalità, né bellezza: dalle sue contrade non si vede
né il mare, né le colline, né i giardini di Costantinopoli, e bisogna salire in
cima ai tetti per godere del magnifico colpo d’occhio che la natura e l’uomo
l’hanno circondata.
Il signor Truqui ci accolse come figli, la sua casa è grande, elegante e ben
posizionata; egli ha messo tutto a nostra disposizione. Trovammo da lui e
intorno a lui gli alloggi più suntuosi, il cibo più squisito, le premure più
affettuose dell’amicizia, la convivenza più dolce e amabile, che per noi
rimpiazzarono il tappeto o la stuoia del deserto, il pilau12 degli Arabi,
l’asprezza e la durezza della vita marittima. Appena sistemati da lui,
ricevetti una lettera dall’ammiraglio Roussin, ambasciatore di Francia a
Costantinopoli13, in cui ci offriva ospitalità a Therapia14. Questi segni
commoventi di interesse e gentilezza, ricevuti da sconosciuti compatrioti a
mille leghe dalla patria e nell’isolamento e nelle avversità lasciano una
traccia profonda nella memoria del viaggiatore.
21, 22
E
23
MAGGIO
Sbarco dai due brick. Riposo, ricevuto visite dei principali mercanti di
Pera. Giornate passate nella cortesia e intimità del signor Truqui e dei suoi
amici, Corse a Costantinopoli. Veduta generale della città. Visita
all’ambasciatore a Therapia.
23
MAGGIO
Quando si è abbandonata d’un tratto la scena cangiante, tempestosa del
mare, la cabina buia e mobile di un bastimento, l’affaticante rollio delle
onde, quando si sente il piede fermo su una terra amica, quando si è
12 O pilaf, sistema di cottura del riso. Il termine “pilau” è in lingua persiana.
13 Il barone Albin Roussin (1781-1854), ammiraglio della Marina, fu ambasciatore a
Costantinopoli dal 1832 al 1836, poi fu nominato ministro della Marina.
14 Odierna Tarabya, sul lato europeo del Bosforo.
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circondati da uomini, libri, ogni agio della vita e si hanno dinanzi campagne
e boschi per passeggiare e tutta l’esistenza terrena da ripigliare dopo un
lungo disuso, si prova un piacere istintivo e fisico, di cui non se ne può fare
a meno: una terra qualunque, anche la più lontana e selvaggia, è come una
patria ritrovata. È un effetto che ho provato una ventina di volte, anche per
poche ore: una costa sconosciuta e deserta, una roccia protetta dal vento,
un arbusto che offre ombra, un raggio di sole che intiepidisce la sabbia dove
si è seduti, alcune lucertole che si muovono fra le pietre, gli insetti che
ronzano intorno, un uccello spaventato che si avvicina e lancia uno grido
d’allarme, tutte queste cose sono nulla per un uomo che sta sulla terra, ma
rappresentano un mondo per lo stanco navigatore che scende dai flutti. Ma
il brick è là, ondeggiante nel golfo, sul mare in movimento, su cui bisognerà
risalire presto. I marinai sono nei cantieri, occupati a far asciugare o a
riparare le grandi vele lacerate; la barca, che monta e scompare negli
spumeggianti cavalloni formati dalle onde, va e viene di continuo dalla riva
al brick, porta provvigioni a terra o acqua fresca al legno, i mozzi lavano le
loro camicie di tela colorata, il capitano studia il cielo, aspettando che il
vento cambi per richiamare con una cannonata i passeggeri alla loro vita di
miseria, di oscurità e di movimento. Per quanto uno abbia fretta d’arrivare,
fa in segreto dei voti, affinché il vento contrario non cessi così presto,
perché l’evenienza lasci gustare per un giorno ancora quell’intima voluttà
che unisce l’uomo alla terra. Si fa amicizia con la costa, con il lembo di erba
o di arbusti che si estende fra il mare e le rocce, con la sorgente nascosta
sotto le radici di una vecchia quercia, coi licheni, con i piccoli fiori selvatici
che il vento agita costantemente tra le fenditure degli scogli, e che non
rivedremo mai più. Quando il cannone della nave richiama, quando la
bandiera del segnale è issata in punta d’albero e la scialuppa viene a
prendervi, quasi si vorrebbe piangere in questo angolo di mondo senza
nome, dove si sono distese le membra affaticate. Tante volte ho provato
questo innato amore dell’uomo per un ricovero qualunque, solitario,
sconosciuto, su una spiaggia deserta.
Ma qui provo due cose contrarie, una dolce e l’altra penosa. Da una parte
c’è il piacere di essere sulla terraferma, avere un letto che non casca, un
pavimento che non traballa di continuo da un capo all’altro, poter
camminare liberamente, aprire o chiudere le finestre quando mi va, senza
timore che la spuma entri, avere il piacere di sentire il vento che gioca con
le tende e non fa ondeggiare la casa, echeggiare le vele, tentennare gli
alberi e correre i marinai sul ponte con i loro passi assordanti. Ancor di più
ci sono le amichevoli comunicazioni con l’Europa, i viaggiatori, i mercanti, i
giornali, i libri, tutto ciò che mette l’uomo in comunione d’idee e di vita, la
partecipazione al movimento generale delle cose e del pensiero, che ci era
negato da tanto tempo. E più ancora l’ospitalità calda, attenta, serena,
l’amicizia del nostro eccellente ospite Truqui, che sembra così felice di
circondarci di tutte le premure, le gentilezze, i sollievi che può offrirci e che
noi stessi siamo felici di ricevere. Che uomo eccellente! uomo raro, perché
nella mia lunga vita di viaggiatore ho incontrato la stessa ospitalità solo due
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volte. La sua memoria mi sarà dolce e il mio ricordo degli anni di
pellegrinaggio e di pensieri sarà sempre sulle coste dell’Asia e dell’Africa,
dove la sua fortuna lo condanna a finire i propri giorni15.
STESSA
DATA
Tuttavia, godute senza quasi accorgersene queste prime delizie del
ritorno a terra, si è tentati di rimpiangere l’incertezza e l’agitazione perpetua
della vita di un vascello, perché il pensiero non ha agio di ripiegarsi su se
stesso e di scandagliare gli abissi di tristezza che la morte ha scavato nel
nostro seno16. Il dolore è sempre presente, ma viene in ogni istante
distratto da qualche pensiero che impedisce al suo peso di essere così
opprimente: il fragore, il movimento che ci ruota intorno, l’aspetto sempre
vario del ponte della nave e del mare, le onde che si gonfiano o si
appianano, il vento che torna, monta o scema, le vele della nave che
bisogna orientare venti volte al giorno, lo spettacolo delle manovre alle quali
bisogna talvolta partecipare durante il cattivo tempo, i mille accidenti di una
giornata o di una notte di tempesta, il rollio, le vele spazzate via, i mobili
spaccati che rotolano sotto coperta, i colpi sordi e irregolari del mare contro
le fragili fiancate della cabina dove si vorrebbe dormire, il passo precipitoso
dei marinai sopra la testa, lo schiamazzare dei polli le cui stie attaccate agli
alberi vengono inondate dal mare, i canti dei galli che per primi avvisano
dell’aurora dopo una notte di tenebre e di burrasca, il fischiare della corda
del loche gettata per misurare la via17, l’aspetto strano, sconosciuto,
bizzarro, selvatico o grazioso di una costa che ieri neppure si sospettava, e
che al levar del sole si rasenta, misurando l’altezza delle montagne, o
segnando a dito le sue città e i suoi villaggi, brillanti come mucchi di neve
tra il nero degli abeti: tutto ciò occupa più o meno l’anima nostra, solleva un
poco il cuore, lascia svaporare il dolore, assopisce il rammarico finché dura il
viaggio. Tutto questo dolore ricade con tutto il suo peso sull’anima non
appena si tocca la riva e il sonno su un tranquillo letto restituisce all’uomo
l’intensità dei suoi sentimenti. Il cuore, non più distratto da cose esterne, si
trova di fronte ai propri sentimenti mutilati, ai propri disperati pensieri e al
suo futuro lontano! Non si sa come sopportare la vecchia vita, la vita
monotona, la vita vacua delle città e della società. Questo è ciò che provo,
al punto da desiderare ora un’eterna navigazione, un viaggio senza fine, con
tutte le sue incertezze e le sue distrazioni, anche le più penose. È questo
che io leggo negli occhi della mia donna, ancor più che nel mio cuore. La
sofferenza di un uomo è nulla rispetto a quella di una donna, di una madre.
15 Gaëtan Truqui era stato appena nominato console generale di Sua Maestà Sarda a Tunisi.
16 I coniugi Lamartine avevano perso la loro unica figlia pochi mesi prima a Beirut.
17 Il loche (o barchetta) era uno un pezzo di legno piatto e leggero a forma di triangolo
isoscele, sulla cui base era applicata una lama di piombo per tenerlo ritto in mare. Ad
esso si legava una fune annodata a intervalli regolari che si faceva scorrere man mano
che la nave avanzava. Dividendo la lunghezza della fune, data dal numero di nodi, per un
tempo determinato (di solito trenta secondi) si otteneva la velocità approssimativa.
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Una donna vive e muore di un solo pensiero, di un solo sentimento: la vita
per una donna è una cosa posseduta, la morte è una cosa perduta. Un
uomo vive di tutto, bene o male; Dio non lo uccide d’un sol colpo.
24
MAGGIO
Mi circondai di giornali e opuscoli giunti di recente dall’Europa e prodigati
dall’ospitalità degli ambasciatori di Francia e Austria. Dopo aver letto tutto il
giorno, mi confermo nelle idee che avevo portate dall’Europa. Vedo che i
fatti marciano in linea con le previsioni politiche, che l’analogia politica,
storica e filosofica assegna al cammino delle cose in questo bel secolo. La
Francia sommossa si tranquillizza18, l’Europa inquieta, ma timida, guarda
con gelosia e sdegno, ma non osa avvicinarsi, sentendo per un profetico
istinto che perderebbe l’equilibrio qualora si muovesse. Io non credetti mai
che dalla rivoluzione di luglio potesse nascere la guerra: era necessario che
la Francia desse retta a consigli insensati per attaccare, e, se non attaccava
la Francia, l’Europa non si sarebbe mai gettata a cuor leggero in un fuoco
rivoluzionario, che avrebbe bruciato chiunque avesse voluto spegnerlo. Il
governo di luglio si è ben meritato in Francia e in Europa per il solo fatto di
aver contenuto l’ardore impaziente e cieco dello spirito bellicoso francese
dopo le tre giornate, altrimenti la Francia e l’Europa sarebbero state
egualmente perdute. Noi non avevamo eserciti, non spirito pubblico, perché
non ce n’è dove non c’è unanimità: la guerra straniera avrebbe trascinato
alla guerra civile nel mezzogiorno e nell’occidente francese, soprattutto alla
persecuzione e alla spoliazione. Nessun governo avrebbe resistito in Francia
allo slancio rivoluzionario del centro; mentre drappelli d’eserciti,
improvvisati da un patriottismo senza guida e senza freno, sarebbero andati
a farsi divorare sulle nostre frontiere dell’est; il mezzogiorno fino a Lione
avrebbe sventolato bandiera bianca; l’occidente fino alla Loira avrebbe
risuscitate le guerriglie della Vandea; le popolazioni industriose di Lione,
Rouen, Parigi, esacerbate dalla miseria, dove la cessazione del lavoro li
avrebbe spinti, si sarebbero riunite verso il centro e in folle indisciplinate
avrebbero rotto sopra Parigi e le frontiere, scegliendosi dei capi di un solo
giorno e imponendo a essi i loro capricci per piani di campagna. La
proprietà, il commercio, l’industria, il credito, tutto sarebbe perito a un
tratto; ci sarebbe voluta la violenza per i prestiti e le imposte. Nascosto
l’oro, morto il credito, la disperazione avrebbe spinto alla resistenza, e la
resistenza al furto, all’omicidio, ai supplizi popolari; una volta entrati nella
via del sangue, non ci sarebbe più stata una via d’uscita se non l’anarchia,
la dittatura o lo smembramento. Ma tutto ciò sarebbe stato più ancora
complicato dai movimenti inaspettati e spontanei in altre parti d’Europa:
Spagna, Italia, Polonia, le rive del Reno, il Belgio, avrebbero preso fuoco
insieme o uno alla volta; tutta l’Europa sarebbe stata strascinata in una
18 Il riferimento è alla rivoluzione del luglio 1830, quando a Parigi fu rovesciato Carlo X,
ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, e sostituito da Luigi Filippo.
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oscillazione di insurrezioni e compressioni, che avrebbe cambiato in ogni
momento lo stato delle cose. Saremmo entrati, mal preparati, in un’altra
guerra dei Trent’anni19. Il genio della civiltà non l’ha voluto, e ciò che doveva
essere è stato. Non si combatterà che dopo essersi preparati al
combattimento, dopo esser stati riconosciuti, numerati, passati in rassegna,
ordinati in battaglia; la lotta sarà regolare, con un risultato preveduto e
certo, non più un parapiglia al buio.
Da lontano si vedono le cose meglio, perché i particolari non chiudono lo
sguardo e gli oggetti si presentano per grandi masse principali. Ecco perché
i profeti e gli oracoli vivevano solitari, staccati dal mondo: erano dei saggi
che studiavano le cose nel loro assieme, e il cui giudizio non veniva turbato
dalle piccole passioni quotidiane. Bisogna che un uomo politico si allontani
spesso dalla scena dove si rappresenta il dramma del suo tempo se vuole
giudicarlo e prevederne lo scioglimento. Predire è possibile solo a Dio, ma
prevedere è possibile all’uomo.
Spesso mi domando dove andrà questo gran movimento di menti e di
fatti che, lasciata la Francia, scuote il mondo intero, e trascina, volente o
nolente, ogni cosa nel suo vortice. Non sono di quelli che in tal movimento
altro non vedono che il movimento stesso, cioè il tumulto e la confusione
delle idee, che credono il mondo morale e politico ridotto alle convulsioni
finali, precedenti la morte e il disfacimento. Questo è, evidentemente, un
doppio movimento di disfacimento e di riordinamento insieme. Lo spirito
creatore edifica via via che il distruttore abbatte, una fede supplisce il vuoto
di un’altra, una forma succede all’altra e, dove il passato crolla, dietro le sue
rovine appare un futuro ben predisposto; il passaggio è lento e aspro come
in ogni transizione in cui le passioni e gli interessi degli uomini devono
combattere camminando, in cui le classi sociali e le diverse nazioni
procedono a passo ineguale; in cui alcuni vogliono ostinatamente
indietreggiare, mentre la moltitudine avanza. C’è confusione, polvere,
rovine, oscurità a tratti, ma in certi momenti il vento solleva quella nuvola di
polvere che nasconde la strada e la meta, e coloro che stanno sull’altura
distinguono il progredire delle colonne, scoprono il terreno del futuro e
vedono il giorno appena spuntato rischiarare vasti orizzonti. Io sento dire
continuamente intorno a me e anche qui: «Gli uomini non hanno più
credenze, tutto è abbandonato alla ragione individuale, non c’è più fede
comune in nulla, né in religione, né in politica, né in socievolezza. Le
credenze e una fede comune sono la molla delle nazioni e se questa molla si
rompe tutto si scompone, c’è un unico mezzo per salvare i popoli: rendere
loro le credenze». Rendere le credenze, risuscitare i dogmi popolari morti
nella coscienza dei popoli, rifare ciò che il tempo disfece, è parola insensata:
è un tentativo di lotta contro la natura e lo spirito delle cose; è un
camminare in senso inverso della Provvidenza e dei fatti, che sono le tracce
dei suoi passi; non si può giungere a una meta se non procedendo nel verso
in cui Dio condusse gli avvenimenti e le idee; il corso del tempo mai
19 La serie di conflitti armati che dilaniarono l’Europa dal 1618 al 1648.
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retrocede, si può dirigersi e dirigere il mondo nell’indomabile sua corrente,
ma non arrestarlo né farlo indietreggiare. Ma è dunque vero che non c’è più
lume nell’intelletto dell’uomo, né credenza comune nello spirito dei popoli,
né fede intima nella coscienza del genere umano? Sono parole che si
ripetono senza averle esaminate: non hanno alcun senso. Se il mondo non
avesse più un’idea comune, una fede, una credenza, non si agiterebbe
tanto: il niente produce niente, mens agitat molem20. Al contrario c’è
un’immensa convinzione, una fede fanatica, una speranza confusa ma
indefinita, un ardente amore, un simbolo comune, benché non ancora
delineato, che spinge, agita, preme, sottrae, condensa, fa gravitare insieme
tutte le menti, tutte le coscienze, tutte le forze morali di quest’epoca:
queste rivoluzioni, questi trambusti, queste cadute d’imperi, questi
movimenti ripetuti e giganteschi di tutti i membri della vecchia Europa,
questo rimbombo in America e in Asia, questo impulso sconsiderato e
irresistibile che imprime, a dispetto delle volontà individuali, tanta
agitazione e tanto accordo alle forze collettive: tutto ciò non è un effetto
senza causa; ogni cosa ha un senso, un senso profondo e nascosto, ma un
senso evidente per l’occhio del filosofo. Questo senso è proprio ciò che voi vi
dolete d’aver perduto, che negate nel mondo di oggi; è un’idea comune, è
una convinzione, è una legge sociale, è una verità che, entrata
involontariamente in tutti gli spiriti, e anche, a sua insaputa, fra il popolo, si
industria a prodursi nei fatti con la forza di una verità divina, cioè con una
forza invincibile. Questa fede è la ragione generale, la parola è il suo
organo, la stampa è il suo apostolo: essa si diffonde nel mondo con
l’infallibilità e l’intensità d’una religione nuova; vuole rifare a sua immagine
le religioni, le civiltà, le società, le legislazioni imperfette o alterate dagli
errori e dalle ignoranze delle età tenebrose che traversarono; vuole
ristabilire, in religione, il Dio uno e perfetto per dogma, la morale eterna per
simbolo, l’adorazione e la carità per culto; in politica, l’umanità al di sopra
della nazionalità; in legislazione, l’uomo eguale all’uomo, l’uomo fratello
dell’uomo; la società come un fraterno scambio di servizi e di reciproci
doveri, ordinata e garantita dalla legge, il cristianesimo legiferato!
Essa lo vuole e lo fa. Voi dite ancora che non c’è credenza, non c’è fede
comune negli uomini d’oggi. Dopo il cristianesimo, giammai una così grande
opera si compì nel mondo con tali deboli mezzi. Una croce e la stampa, ecco
i due strumenti dei due più grandi movimenti civilizzatori del mondo.
25
MAGGIO
Stasera, a un chiaro di splendida luna che si riverberava sul mar di
Marmara e fin sulle linee violette delle nevi eterne dell’Olimpo, sedetti solo
sotto i cipressi della Scala dei Morti21. Questi cipressi, che ombreggiano le
20 “Lo spirito vivifica la materia”, locuzione latina tratta dall’Eneide di Virgilio (VI, 727).
21 Il turco iskele viene tradotto in francese con échelle, scala, ma significa “molo”, “pontile”.
La Scala dei Morti era quindi il punto – esterno alle mura di Galata – dove i turchi
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innumerevoli tombe dei musulmani e scendono dalle alture di Pera sino alla
riva il mare, sono intercalati da sentieri più o meno ripidi, che salgono dal
porto di Costantinopoli alla moschea dei dervisci rotanti22. A quell’ora non
passava anima viva, e ci si poteva credere a cento leghe da una popolosa
città se i mille rumori della sera, portati dal vento, non fossero venuti a
morire tra i rami frementi dei cipressi. Questi suoni, già indeboliti dall’ora
avanzata, le canzoni dei marinai sulle navi, i colpi di remi dei caicchi sulle
onde, i suoni dei barbari strumenti dei bulgari, i tamburi delle caserme e
degli arsenali, le voci delle donne che cantavano per addormentare i bimbi
presso le finestre con le inferriate, i lunghi mormorii delle vie popolose e dei
bazar di Galata, di tanto in tanto il grido dei muezzin dall’alto dei minareti, o
una cannonata, segnale della ritirata, che partendo dalla flotta ferma
all’ingresso del Bosforo, ripercossa dalle sonore moschee e dalle colline,
veniva a riversarsi nel bacino del Corno d’oro e rimbombare sotto i quieti
salici delle Acque Dolci d’Europa, tutti questi rumori, dicevo, si fondevano
talvolta in un ronzio sordo e indistinto e formavano come una musica
armoniosa, dove il rumore degli uomini e la respirazione soffocata d’una
grande città che si addormenta si mescolavano, senza poterli distinguere,
con i rumori della natura, il lontano risuonare delle onde e del vento che
incurvava le aguzze cime dei cipressi. È una delle impressioni più indefinite
e pesanti che un’anima poetica possa sopportare. Tutto si mescola, l’uomo e
Dio, la natura e la società, l’agitazione interiore e il melanconico riposo del
pensiero. Non si sa se si è più coinvolti da questo grande movimento di
esseri animati che gioiscono o soffrono in tale tumulto di voci che si levano,
o dalla pace notturna degli elementi che sussurrano ed elevano l’anima al di
sopra delle città e degli imperi, nella simpatia della natura e di Dio.
Il serraglio, vasta penisola nereggiante di platani e di cipressi, avanzava
fra i due mari sotto i miei occhi. La luna imbiancava i numerosi chioschi e le
vecchie muraglie del palazzo di Amurat23 emergevano, come una rupe, dal
verde cupo dei platani. Avevo sotto gli occhi e nel pensiero tutto il teatro dei
tanti drammi sinistri o gloriosi rappresentati da secoli, drammi che mi
passavano innanzi coi loro personaggi e con le loro tracce di sangue e di
gloria.
Vedevo un’orda sbucare dal Caucaso, cacciata da quell’istinto di
peregrinazione che Dio dà ai popoli conquistatori, come lo diede alle api che
escono dal tronco di un albero per costruire nuovi sciami. Vedo la grande
figura patriarcale di Othman24 in mezzo alle tende e agli armenti, che
imbarcavano le salme da portare nel cimitero di Scutari, sulla costa asiatica.
22 Nota confraternita islamica che pratica la “danza turbinante” come metodo per
raggiungere l’estasi mistica.
23 Amurat o Murad I (1326-1389) fu sultano dal 1359 alla morte. Ampliò i confini in Europa,
sottomettendo quasi tutta la zona dei Balcani e costringendo Bisanzio a pagare tributo, e
organizzò il corpo militare dei giannizzeri.
24 Othman od Osman I (1258-1326) fu il capostipite della dinastia ottomana e primo sultano
dell’impero ottomano. Dinastia e discendenti sono detti “osmanli” (casa di Osman).
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diffonde il suo popolo in Asia Minore, che avanza fino a Bursa25, che muore
fra le braccia dei suoi figli, dicendo ad Orhan 26: «Muoio senza rimpianti
poiché lascio un successore qual tu sei. Vai a propagare la legge divina, il
pensiero di Dio, che è venuto a cercarci dalla Mecca al Caucaso, sii
caritatevole e clemente come lui, perché è così che i principi attraggono
sulla loro nazione le benedizioni di Dio. Non lasciare il mio corpo in questa
terra, che non è per noi che un passaggio, ma deponi la mia spoglia mortale
in Costantinopoli al posto che io stesso mi destino morendo».
Alcuni anni più tardi, Orhan, figlio di Osman, era accampato a Scutari, su
queste stesse colline nereggianti di cipressi. L’imperatore greco
Cantacuzeno27, vinto dalla necessità, gli donò la bella figlia Teodora per
quinta sposa nel suo serraglio. La giovane principessa, al suono degli
strumenti, traversava questo braccio di mare, dove oggi vedo ondeggiare le
navi russe, e andava, come vittima, a immolarsi inutilmente per prolungare
di pochi giorni la vita dell’impero. Ben presto i figli di Orhan si accostano alla
riva, seguiti da alcuni prodi soldati, e in una notte fabbricano tre zattere
tenute a galla da vesciche di bue gonfiate di aria, quindi passano lo stretto
col favore del buio, trovano le sentinelle greche addormentate. Un giovane
paesano, avviandosi sul far del giorno al suo lavoro, incontra degli ottomani
smarriti e indica loro l’ingresso di un sotterraneo che conduce all’interno del
castello, cosicché i Turchi entrano e possiedono una fortezza in Europa.
Quattro regni dopo, Maometto II28 rispondeva agli ambasciatori greci: «Io
non muovo battaglia contro di voi; l’impero di Costantinopoli è limitato dalle
sue mura». Ma Costantinopoli stessa, benché così limitata, toglie il sonno al
sultano e manda a svegliare il suo visir per dirgli: «Ti chiedo Costantinopoli,
con questo pensiero non riesco a prendere sonno: Dio vuole darmi i
Romani». Nella sua brutale impazienza, egli lancia il cavallo tra le onde che
minacciano di inghiottirlo: «Andiamo, dice ai soldati, il giorno dell’ultimo
assalto mi riserbo la città, ma l’oro e le donne sono vostri. Il governo della
mia provincia più vasta andrà a chi salirà per primo sui bastioni». Tutta la
notte la terra e le acque sono rischiarate da innumerevoli fuochi, che
rimpiazzano il giorno, mentre per gli ottomani tarda l’ora della conquista.
Durante l’assedio, sotto la mesta cupola di Santa Sofia, il bravo e
sfortunato Costantino29 veniva, l’ultima sua notte, a pregare il Dio
dell’impero e a comunicarsi tra le lacrime; al sorgere dell’aurora usciva a
cavallo, accompagnato dagli urli e i gemiti della sua famiglia, per andare a
morire da eroe sulla breccia della sua capitale: era il 29 maggio 1453.
Alcune ore più tardi, la scure si conficcava nelle porte di Santa Sofia:
vecchi, donne, fanciulle, monaci e monache gremivano la vasta basilica, di
25 Bursa (anticamente Prusa) fu la capitale dello Stato ottomano dal 1326 al 1365.
26 Orhan I (1284-1359), figlio di Othman, regnò dal 1326.
27 Giovanni VI Cantacuzeno (1292-1383) fu imperatore bizantino fino al 1354 quando abdicò
e si ritirò sul Monte Athos dove diventò monaco con il nome di Giosafà Cristodoulo.
28 Maometto II o Mehmet II (1432-1481), settimo sultano dell’impero ottomano, a soli 21
anni conquistò Costantinopoli (1453).
29 Costantino XI Paleologo (1405-1453), imperatore bizantino dal 1449.
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cui gli atri, le cappelle, le gallerie, i sotterranei, le immense tribune, le
cupole e le piatteforme possono contenere la popolazione di un’intera città;
un ultimo grido si alzò verso il cielo, come la voce del cristianesimo
agonizzante; in pochi istanti sessantamila fra vecchi, donne e fanciulli,
senza distinzione di grado, età e sesso, furono legati per coppia, gli uomini
con corde, le donne con i loro veli o le cinture, e gettati sui vascelli, portati
al campo degli ottomani, insultati, barattati, venduti come bestie. Giammai
lamenti simili furono intesi sulle due rive d’Europa e d’Asia; le donne furono
separate per sempre dai loro sposi, i fanciulli dalle loro madri, e i Turchi, per
strade differenti, spinsero questo bottino vivente da Costantinopoli verso
l’interno dell’Asia. A Costantinopoli il saccheggio continuò per otto ore: poi
Maometto II entrò da porta San Romano attorniato dai suoi visir, i pascià 30 e
le guardie. Smontò davanti al portale di Santa Sofia e colpì con lo yatağan31
un soldato che spaccava gli altari. Egli non volle distruggere nulla, trasformò
la chiesa in moschea e un muezzin salì la prima volta su quella stessa torre
da dove lo sento cantare per chiamare i musulmani alla preghiera e
glorificare, sotto altra forma, il Dio che era adorato alla vigilia. Di là
Maometto II si volse verso il palazzo deserto degli imperatori greci e recitò,
entrando, questi versi persiani: «Il ragno tesse la sua tela nel Palazzo dei
Cesari, la civetta ulula sulla torre di Afrasiyab»32.
Il corpo di Costantino fu ritrovato quel giorno stesso sotto cumuli di
morti. I giannizzeri33 avevano inteso un greco, magnificamente vestito e in
lotta con l’agonia, esclamare: «Non si troverà un cristiano che voglia
togliermi la vita?» e gli avevano mozzato la testa. Due aquile ricamate in
oro sui suoi calzari e le lacrime di alcuni greci fedeli confermarono che quel
guerriero sconosciuto era il prode e infelice Costantino. La sua testa fu
esposta, affinché i vinti non ne dubitassero mai la morte, né sperassero di
vederlo ricomparire; poi fu sepolto con gli onori dovuti al trono, all’eroismo
e alla morte.
Maometto non abusò della vittoria. La tolleranza religiosa dei Turchi si
rivelò già nei suoi primi atti, avendo lasciato ai cristiani le chiese e la libertà
del loro culto pubblico, mantenuto il patriarca greco nelle sue funzioni e
consegnato egli stesso, seduto sul trono, il pastorale e un cavallo
riccamente bardato al monaco Gennadius34. I greci fuggiaschi ripararono in
30 Visir significa “colui che decide” e indica un importante consigliere politico e religioso; il
Gran visir aveva il ruolo di Primo ministro e presiedeva il consiglio imperiale. Pascià, o
paşa, o pasha, era un titolo onorifico dato dal sultano ai principali funzionari di corte e ai
militari che assumevano il governatorato delle province ottomane.
31 Arma bianca simile alla spada, ma con lama ricurva affilata solo sul lato concavo, punta
rinforzata e impugnatura con due valve posteriori per migliorare la presa.
32 Sono versi del poeta persiano Ferdowsi (935-1020). Afrasiyab (o Afrasiab) era un mitico
eroe di Turan (antico nome dell’Asia Centrale), acerrimo nemico dell’Iran.
33 Il corpo militare dei giannizzeri costituiva la fanteria a guardia del sultano ottomano e dei
suoi beni.
34 Gennadius Scholarius o Gennadio II (1400-1473 ca.) fu nominato il I giugno 1453
patriarca di Costantinopoli in quanto pubblicamente contrario all’Occidente cattolico. Ciò
garantiva a Maometto II la fedeltà dei Greci.
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Italia, dove portarono il gusto delle dispute teologiche, della filosofia e delle
lettere. Così la fiamma estinta a Costantinopoli gettò le sue scintille al di là
dal Mediterraneo e si ravvivò a Firenze e a Roma. Durante i trent’anni di un
regno che fu una continua conquista, Maometto II aggiunse all’impero
duecento città e dodici regni. Morì in mezzo ai trionfi e ricevette il titolo di
Maometto il Grande. La sua memoria sorvola ancora sugli ultimi anni del
popolo che egli trapiantò in Europa, e che fra poco ne riporterà in Asia la
tomba. Questo principe aveva il colore di un tataro35, il viso pulito, gli occhi
incavati, lo sguardo penetrante e sempre esercitò tutte le virtù e tutti i
delitti che la politica gli comandò.
Bayezid II36, il Luigi XI degli Ottomani, fa gettare i suoi figli in mare, ma
lui stesso, cacciato dal trono da Selim37, fugge con le donne e i tesori e
muore per il veleno propinatogli dal figlio. Selim, per tutta risposta al visir
che gli chiedeva dove convenisse collocare le sue tende, lo fa strangolare. Il
successore del visir fa la stessa domanda e gli tocca la stessa sorte. Un
terzo, senza nulla domandare, fa sistemare le tende ai quattro punti
dell’universo, e quando Selim chiede dove sia il campo, gli risponde il visir:
«Dappertutto: i tuoi soldati ti seguiranno ovunque tu volgerai le armi».
«Ecco, disse il terribile sultano, come si deve servirmi». È lui che conquistò
l’Egitto e che, salito su un magnifico trono eretto in riva al Nilo, si fa
condurre tutta la razza degli oppressori di quel bel paese, fa massacrare
sotto i suoi occhi ventimila mamelucchi38 e gettarne i cadaveri nel fiume.
Tutto ciò senza crudeltà personale, ma per quel sentimento di fatalismo che
ha chi crede nella propria missione e, per compiacere la volontà di Dio, di
cui si sente strumento, guarda il mondo come una sua conquista e gli
uomini come polvere dei suoi piedi. Quella stessa mano, intrisa di sangue di
tante migliaia di uomini, scriveva versi pieni di rassegnazione, di dolcezza e
di filosofia. Esiste ancora il pezzo di marmo bianco su cui scrisse queste
sentenze: «Tutto viene da Dio; a suo piacere egli ci dà o ci ricusa quel che
gli domandiamo. Se qualcuno sulla terra potesse qualche cosa per se
stesso, sarebbe eguale a Dio». E più sotto: «Selim, servitore dei poveri, ha
composti e scritti questi versi». Conquistatore della Persia, muore
comandando al suo visir dei pii rimborsi alle famiglie persiane rovinate dalla
guerra. La sua tomba è collocata a fianco di quella di Maometto II con un
orgoglioso epitaffio: «In questo giorno il sultano Selim è passato al regno
eterno, lasciando l’impero del mondo a Solimano»39.
35 In francese «tartare», derivato dal latino tartarus, barbaro, termine usato per gli asiatici
dagli scrittori sette-ottocenteschi in senso spregiativo. Tataro è la dizione esatta derivata
da Tatarlar, nome di popolazioni mongoliche.
36 In francese «Bajazet». Bayezid II (1447-1512) fu sultano dal 1481.
37 Selim I (1465-1520) costrinse il padre, Bayezid II, ad abdicare e nel 1512 salì al trono
ottomano dopo aver sterminato i fratelli e ogni possibile successore.
38 Erano gli schiavi al servizio dei califfi abbasidi impiegati nell’amministrazione e
nell’esercito.
39 Solimano I (1494–1566), figlio di Selim I, fu sultano dal 1520 portando l’impero ottomano
al massimo fulgore, perciò fu detto “il Magnifico”.
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Da qui vedo brillare fra le cupole delle moschee la scintillante cupola della
moschea di Solimano, una delle più belle di Costantinopoli. Egli aveva
perduto il primogenito, Maometto, avuto dalla celebre Rosselana40, e questa
moschea è una toccante testimonianza del dolore del sultano41. Per onorare
la memoria del bambino, egli liberò una folla di schiavi dei due sessi,
volendo così associare della simpatia al proprio dolore.
Ben presto i dintorni della moschea diventarono la scena di un terribile
dramma. Solimano, eccitato contro Mustafa, un figlio avuto da un’altra
donna, fa venire il mufti42, e gli domanda: «Quale pena merita Zair, schiavo
di un mercante di questa città che gli ha affidato, causa un viaggio, la sua
sposa, i suoi figli, i suoi tesori e Zair gli ha rovinato gli affari, ha tentato di
sedurre la moglie e ha calunniato i bambini? Quale pena merita lo schiavo
Zair?» «Lo schiavo Zair merita la morte, rispose il mufti, gloria a Dio!»
Solimano, armato di questa risposta, manda Mustafa nel suo campo. Egli
arriva accompagnato da Zeangir, un figlio di Rosselana, il quale, anziché
partecipare all’odio di sua madre, nutre per Mustafa, suo fratello, la più
tenera amicizia. Giunto alla tenda di Solimano, Mustafa viene disarmato.
Egli avanza da solo nel primo recinto, dove regnano un cupo silenzio e una
totale solitudine. Quattro muti gli si slanciano contro e tentano di
strangolarlo. Mustafa si difende ed è sul punto di scappare e chiamare in
aiuto l’esercito che l’adora, quando Solimano stesso, che stava guardando la
lotta dei muti contro suo figlio, alza un lembo della tenda e lancia loro
un’occhiata furibonda. A questo punto i muti ripigliano vigore, e riescono a
strozzare il giovane principe, il cui corpo viene esposto sopra un tappeto,
davanti alla tenda del sultano. Zeangir muore di disperazione sul corpo del
fratello, e l’esercito atterrito contempla l’implacabile vendetta di una donna,
cui l’amore ha sottomesso lo sventurato Solimano. Mustafa aveva un figlio
di dieci anni: l’ordine della sua morte è richiesto al sultano da Rosselana. Un
messaggero segreto è incaricato di eludere la vigilanza della madre del
fanciullo. Si immagina un pretesto per condurli in una casa di campagna
poco lontano da Bursa. Il giovane sultano precedeva a cavallo la lettiga della
principessa. La lettiga si spezza, il principe corre avanti, seguito dall’eunuco
incaricato di ucciderlo. Appena entrato in casa, l’eunuco lo ferma sulla soglia
e gli presenta il laccio: «Il sultano vuole che moriate all’istante», gli dice.
«Quest’ordine mi è sacro come quello di Dio», risponde il fanciullo e
presenta la testa al carnefice. La madre arriva e trova il corpo ancora
palpitante di suo figlio sulla soglia. L’insensata passione di Solimano per
Rosselana riempie il serraglio di molti delitti, mai visti tanti nella reggia di
40 Rosselana (vero nome: Khurrem; 1505-1558 ca.), di origine slava, era molto bella e
diventò la favorita di Solimano, al quale dette tre figli (uno dei quali fu Selim II) e sul
quale esercitò un grande influsso. È soggetto di numerose leggende.
41 Lamartine si riferisce non alla famosa moschea di Solimano (Süleymaniye Camii) ma alla
moschea Şehzade (Şehzade Camii, “moschea del principe”), situata nel distretto di Fatih.
Entrambe furono realizzate dall’architetto imperiale Sinān (1489-1588) di origine greca.
42 Esperto delle leggi musulmane.
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Argo43.
Le Sette Torri mi ricordano la morte del primo sultano, immolato dai
giannizzeri44. Osman, da loro trascinato in questo castello, cade due giorni
dopo sotto i colpi del visir Daud, il quale è in seguito condotto egli pure alle
Sette Torri, e strappatogli il turbante, lo fanno bere alla stessa fontana dove
si era dissetato Osman, e lo strangolano nella stessa camera in cui egli
aveva strangolato il suo signore. Un aga45 dei giannizzeri, uno di quelli che
avevano rivolto la mano su Osman, viene abbattuto. Finché non fu abolito
quel corpo, quando un ufficiale chiamava il sessantacinquesimo aga, un
altro ufficiale rispondeva: «Che la voce di questo aga perisca! Che la voce di
questo aga si annienti per sempre!»
I giannizzeri, pentiti dell’assassinio di Osman, depongono Mustafa e
vanno a cercare in ginocchio al serraglio un fanciullo di dodici anni per dargli
l’impero. Vestito con un abito di tela d’argento e il turbante imperiale in
capo, seduto su un trono portatile, il giovane viene alzato sulle spalle da
quattro ufficiali dei giannizzeri che lo portano come imperatore in mezzo al
suo popolo. Questi fu Amurat IV, degno del trono su cui, avanti negli anni, lo
tolsero la ribellione e il pentimento46.
Qui finiscono i giorni di gloria dell’impero ottomano. La legge di Solimano,
che ordinava che i figli del sultano restassero prigionieri nel serraglio fra gli
eunuchi e le donne, snervò il sangue di Osman e gettò l’impero in preda agli
intrighi degli eunuchi e delle rivolte dei giannizzeri. Di tanto in tanto spicca
qualche bel carattere, ma è senza forza, perché abituato presto a essere
senza volontà. Checché se ne dica in Europa, è evidente che l’impero è
morto, e che un eroe non potrebbe che rendergli un’apparenza di vita.
Il serraglio, già abbandonato da Mahmud47, non è più che uno splendido
sepolcro, ma la sua storia segreta quanto sarebbe drammatica e
commovente se le mura potessero raccontarla!
Una delle più gravi e più dolci figure di questo misterioso dramma è
quello dell’infelice Selim48, il quale, deposto e imprigionato nel serraglio per
non aver voluto versare il sangue dei suoi nipoti, divenne istitutore
dell’odierno sultano, Mahmud. Selim era filosofo e poeta: era stato re, e re
43 Probabile riferimento al mitico Byzas, re di Argo, fondatore di Bisanzio.
44 Il complesso delle Sette Torri (o Yedikule) è una fortezza, più volte ricostruita, l’ultima
delle quali da Maometto II. In una torre era la prigione. Nel 1622, il sultano Osman II
(anch’egli detto in francese «Othman») fu detronizzato e subì l’esecuzione capitale
all’interno della fortezza a opera dei giannizzeri.
45 In francese «ada». Gli aga erano i capitani, o generali, dei giannizzeri, mentre Ada era
un’antica provincia mongola tra il Mar Caspio e la Palude Meotide (Mar d’Avov).
46 Amurat o, meglio, Murad IV (1612-1640) fu sultano dell’impero ottomano dal 1623 al
quale ridette splendore con energia e autorità. Sul letto di morte ordinò di uccidere il
fratello Ibrahim I, ritenendolo incapace, ma l’ordine non fu eseguito e il governo di
Ibrahim (dal 1640 al 1648) è ricordato come il peggiore di tutta la storia dell’impero.
47 Mahmud I (1696-1754), sultano dell’impero ottomano dal 1730.
48 Selim III (1761-1808), figlio di Mustafa III, fu sultano dell’impero ottomano dal 1789 al
1807, quando una rivolta dei giannizzeri, che seguì la guerra franco-russa che indebolì gli
ottomani, lo detronizzò. Gli successe Mustafa IV, che fu ucciso dal fratello Mahmud II
(1785-1839), di cui Lamartine parla diffusamente più avanti.
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doveva diventare l’allievo. Durante questa lunga prigionia dei due principi,
Mahmud, stizzito per la negligenza di uno schiavo, lo schiaffeggiò: «Ah,
Mahmud, gli disse Selim, quando tu sarai passato per la fornace del mondo,
non monterai sulle furie così. Quando avrai sofferto quanto me, compatirai
le sofferenze altrui, anche quelli di uno schiavo».
La sorte di Selim fu infelice fino all’estremo. Mustafa Bayrakdar49, uno dei
suoi fedeli pascià, armato per la causa di Selim, arriva fino a Costantinopoli,
e si presenta alle porte del serraglio. Il sultano Mustafa s’addormenta fra le
voluttà ed era proprio in quel momento in uno dei suoi chioschi sul Bosforo.
I bostangi50 difendono le entrate e il sultano rientra nel serraglio. Mentre
Bayrakdar sfondava con l’artiglieria la porta, domandando gli fosse reso il
suo padrone Selim, quel principe sfortunato cade sotto il pugnale del kislaraga51 e dei suoi eunuchi. Il sultano Mustafa fa gettare il cadavere di Selim
davanti a Bayrakdar, che gli si precipita sopra e lo copre di lacrime e di baci.
Si cerca Mahmud nascosto nel serraglio, temendo che Mustafa abbia ucciso
anche l’ultima goccia del sangue di Osman, ma lo trovano infine rimpiattato
sotto gli avvolgimenti del tappeto, in un buio cantone del serraglio. Mahmud
crede che lo cerchino per sacrificarlo e invece viene posto sul trono, e
Bayrakdar si prostra davanti a lui. Le teste dei partigiani di Mustafa sono
esposte sulle mura; le sue donne sono cucite in sacchi di cuoio e gettate in
mare. Tuttavia, pochi giorni dopo, Costantinopoli diventa un campo di
battaglia. I giannizzeri si rivoltano contro Bayrakdar richiedendo per sultano
Mustafa, che la clemenza di Mahmud aveva risparmiato. Il serraglio viene
assediato e l’incendio divora mezza Stambul. Gli amici di Mahmud gli
chiedono la morte di suo padre52 Mustafa, il solo che può salvare il sultano e
loro: la sentenza gli resta sulle labbra mentre si copre il capo con uno scialle
e si getta su un sofà. Profittano di questo silenzio per strangolare Mustafa.
Così Mahmud, rimasto ultimo e unico erede di Osman, diventava inviolabile
e sacro per qualunque fazione. Bayrakdar aveva trovato la morte nelle
fiamme combattendo intorno al serraglio, e Mahmud cominciò il suo regno53.
La piazza dell’Atmeidan54, che da qui nereggia dietro le bianche mura del
serraglio, testimonia il più grande atto del regno di quel principe:
l’abolizione dei giannizzeri. Questa misura, che poteva solo ringiovanire e
ravvivare l’impero, non produsse che una delle scene più sanguinose e
49 Mustafa Bayrakdar (1775-1808), figlio di un giannizzero, era comandante dell’esercito dal
1806.
50 Le guardie imperiali.
51 Titolo dell’eunuco nero, che aveva la supervisione del palazzo del sultano.
52 Fratello, non padre. Mustafa IV e Mahmud II erano fratellastri, entrambi figli del sultano
Abdul Hamid I (1774-1789) e cugini di Selim III.
53 La morte di Mustafa Bayrakdar è di pochi mesi posteriore alla salita al trono di Mahmud
II. Infatti quest’ultimo lo nominò Gran visir e Bayrakdar, dopo aver fatto assassinare i
nemici del sultano, cominciò un’opera di modernizzazione e occidentalizzazione
dell’impero. Riformato l’esercito e la marina, stava per riordinare il corpo dei giannizzeri
ma Mahmud, temendo un contraccolpo politico, lo fermò. L’arroganza di Bayrakdar
provocò comunque un’insurrezione e Bayrakdar morì in un’esplosione.
54 O dell’Ippodromo.
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lugubri che un impero abbia nei suoi annali. Essa è scritta ancora su tutti i
monumenti dell’Atmeidan in rovina e nelle tracce delle palle di cannone e
degli incendi. Mahmud la preparò da fine politico e la eseguì da eroe. Un
accidente determinò l’ultima rivolta.
Avendo un ufficiale egiziano colpito un soldato turco, i giannizzeri
rovesciano le loro pentole in segno di sommossa55: il sultano, istruito e
pronto a tutto, che stava coi suoi principali consiglieri in un giardino a
Beşiktaş56, sul Bosforo, accorre al serraglio e impugna lo stendardo sacro di
Maometto. Il mufti e gli ulema57, riuniti intorno allo stendardo, pronunciano
l’abolizione dei giannizzeri. Le truppe regolari e i fedeli musulmani si
armano e accorrono alla chiamata del sultano, il quale avanza a cavallo alla
testa delle truppe del serraglio. I giannizzeri, riuniti sull’Atmeidan, lo
rispettano ed egli attraversa più volte la loro calca ammutinata, rischiando
mille morti, animato da quel coraggio soprannaturale che ispira una
risoluzione decisiva: quel giorno doveva esser l’ultimo della sua vita o il
primo della sua liberazione e potenza. I giannizzeri, sordi alla sua voce, si
rifiutano di disubbidire ai loro aga; accorrono da tutti i punti della capitale in
numero di quarantamila. Le truppe fedeli al sultano, i cannonieri e i bostangi
occupano gli sbocchi delle vie vicine all’Ippodromo. Quando il sultano ordina
il fuoco, i cannonieri esitano, ma un ufficiale risoluto, Kara-Djehennem58,
corre a un cannone, spara una pistolettata sulla miccia e uccide,
mitragliandoli, i primi gruppi di giannizzeri. Questi si ritirano; il cannone tira
in ogni direzione; il fuoco divora le caserme; migliaia di persone prigioniere
in tale angusto spazio periscono sotto le mura crollate, sotto la mitraglia e
nelle fiamme: l’esecuzione comincia e non si arresta finché non rimane
nemmeno un giannizzero. Centoventimila uomini, nella sola capitale,
arruolati in quel corpo, restano preda del furore del popolo e del sultano. Le
acque del Bosforo trascinano i loro cadaveri verso il mar di Marmara. I
restanti vengono confinati in Asia Minore e muoiono per via: l’impero è
liberato. Il sultano, più assoluto di qualunque altro principe, non ha più che
degli schiavi obbedienti; può a suo piacere rigenerare l’impero, ma è troppo
tardi: il suo genio non è pari all’altezza del suo coraggio. L’ora della rovina
dell’impero ottomano è scoccata e assomiglia all’impero greco:
Costantinopoli attende nuovi decreti del destino. Vedo da qui la flotta russa,
come il campo ondeggiante di Maometto II, stringere ogni giorno di più la
città e il porto; distinguo i fuochi dei bivacchi dei Calmucchi sulle colline
asiatiche. I Greci ritornano sotto il nome e l’abito dei Russi e la Provvidenza
sa il giorno in cui un ultimo assalto, dato da questi alle mura di
Costantinopoli, che oggi forma tutto l’impero, coprirà di fuoco e fumo e di
rovine questa fulgida città, che sotto i miei occhi dorme il suo ultimo sonno.
Il migliore panorama su Costantinopoli è dall’alto del belvedere costruito
55 “Rovesciar le pentole” è un modo di dire orientale per indicare l’inizio di una rivoluzione.
56 In francese «Beschiktasch».
57 Gli ulema sono i sapienti musulmani sui temi religiosi.
58 Era il capo dell’artiglieria dell’impero ottomano. Il suo nome significa “Inferno nero”.
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dal signor Truqui sopra il tetto della sua casa, ove noi alberghiamo. Il
belvedere si affaccia su tutte le colline di Pera, di Galata e sui versanti
intorno al porto verso le Acque Dolci. È ciò che vede un’aquila volando sopra
Costantinopoli e il suo mare; l’Europa, l’Asia, l’ingresso del Bosforo, il mar di
Marmara si guardano in una sola volta; tutta la città è ai vostri piedi. Se si
potesse guardare d’un colpo la terra, è da qua che bisognerebbe
contemplarla. Ogni volta che la guardo, e lo faccio più volte al giorno e vi
passo delle serate intere, non comprendo come mai nessuno dei tanti
viaggiatori che hanno visitato Costantinopoli abbia sentito lo stesso bagliore
che questa scena dà ai miei occhi e alla mia anima, come nessuno l’abbia
descritta. Sarà che la parola non ha né spazio, né orizzonte, né colori, e che
il solo linguaggio dell’occhio è la pittura? Ma la stessa pittura non ha reso
tutto ciò, solo linee morte, scene tronche, colori senza vita. Non le
innumerevoli gradazione e varietà di queste tinte secondo il cielo e l’ora,
non l’insieme armonioso e la colossale grandezza delle linee, non i
movimenti, le fughe e gli slanci di così diversi orizzonti, non il movimento di
queste vele sui tre mari, non il mormorio di vita di tali popolazioni sulle rive,
non le cannonate che tuonano partendo dai vascelli, non i padiglioni che si
mostrano e si nascondano tra i loro alberi, non la calca dei caicchi, non il
riverbero vaporoso delle cupole, delle moschee, dei minareti nel mare: tutto
questo dov’è? Proviamoci di nuovo.
Le colline di Galata, di Pera e tre o quattro altre declinano dai miei piedi
al mare, coperte di città di differenti colori, le une hanno case dipinte di
rosso sangue, le altre di nero con una folla di cupole azzurre che
interrompono queste tinte scure; fra ogni cupola si slanciano alcune
macchie verdeggianti formate dai platani, i fichi, i cipressi dei giardinetti
contigui a ciascuna casa. Alcuni grandi spazi vuoti, tra le case, sono campi
coltivati e giardini dove si vedono le donne turche coperte di veli neri che
giocano con i loro bambini e le schiave. Stormi di colombi e di piccioni
bianchi volano nell’aria blu sopra i giardini e sui tetti, e si distinguono, come
fiori bianchi che ondeggiano al vento, dall’azzurro del mare che fa da
sfondo. Si distinguono le vie che serpeggiano discendendo verso il mare,
come burroni, e più in basso il movimento della gente nei bazar, ravvolta in
un velo di fumo leggero e trasparente. Tali città o quartieri di città sono
separati gli uni dagli altri da promontori di vegetali coronati di palazzi di
legno dipinto e di chioschi di ogni colore, o da gole profonde dove lo
sguardo si perde alla base delle colline ove si vedono soltanto la cima
aguzza dei cipressi e gli splendenti minareti. Giunto al mare, l’occhio si
perde sulla sua superficie blu in mezzo a un dedalo di bastimenti all’ancora
o alla vela. I caicchi, come uccelli acquatici che nuotano in gruppo o da soli
sul canale, si incrociano in tutti i sensi, andando dall’Europa all’Asia, o da
Pera alla punta del serraglio. Alcune grandi navi da guerra passano a vele
spiegate, giungendo dal Bosforo, salutando il serraglio con una bordata, il
loro fumo li avvolge per un attimo come ali grigie, per poi uscirne con il
bianco brillante delle loro tele, e doppiano, apparentemente toccandoli, gli
alti cipressi e i possenti platani del grande giardino del sultano, per entrare
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nel mar di Marmara. All’ingresso del Bosforo stanno altre trenta o quaranta
navi da guerra: è l’intera flotta del sultano, che con le sue masse immense
getta ombra sulle acque verso terra; se ne vedono interamente solo cinque
o sei, poiché la collina e gli alberi nascondano le altre, compresi gli alti
fianchi, gli alberi e i pennoni, che sembrano intrecciati ai cipressi, formando
un viale circolare che si perde verso il fondo del Bosforo. Là le montagne
della costa opposta o della riva dell’Asia formano lo sfondo del quadro: esse
si innalzano più alte e più verdi di quelle della riva europea, fitti boschi le
coronano e scivolano nelle gole che le scavano. Sulle loro groppe, coltivate a
giardini, ci sono chioschi solitari, gallerie, villaggi e piccole moschee,
attorniati tutti da cortine di alberi ad alto fusto. Le loro anse sono piene di
bastimenti, caicchi a remi, piccole barche a vela. La grande città di Scutari
si estende ai loro piedi su un ampio slargo, dominata dalle loro cime
ombreggianti e cinta di una nera foresta di cipressi. Un fila ininterrotta di
barche cariche di soldati asiatici, di cavalli o di agricoltori greci, che portano
i loro ortaggi a Costantinopoli, è stazionata tra Scutari e Galata e si apre
ogni tanto per lasciare il passo a un’altra fila di navi più grandi che sboccano
sul mar di Marmara.
Ritornando alla costa europea, ma dall’altro lato del canale del Corno
d’oro, la prima cosa che l’occhio incontra, dopo il blu del bacino, è la punta
del serraglio. È il sito più maestoso, più variato, magnifico e selvaggio
insieme, che pittore possa cercare. La punta del serraglio avanza come un
promontorio o come un mantello disteso fra i tre mari, di fronte all’Asia.
Esso, partendo dalla porta del serraglio, sul mar di Marmara e terminando al
gran chiosco del sultano, di faccia a Pera, può essere di tre quarti di lega di
circonferenza: è un triangolo la cui base è il palazzo o lo stesso serraglio, la
punta si tuffa nel mare e il suo lato dà sul più grande porto interno o canale
di Costantinopoli. Dal punto dove mi trovo, lo si domina per intero. C’è una
foresta di alberi giganteschi, i cui tronchi escono, come colonne, dalle mura
e dalle terrazze del recinto ed estendono i loro rami sui chioschi, sulle
batterie e sui vascelli in mare. Queste foreste, di un verde scuro e lucido, si
alternano a prati verdi, aiuole, balaustrate, scale di marmo, cupole d’oro o
di piombo, minareti anche più sottili gli alberi delle navi, alle grandi cupole
dei palazzi, delle moschee e dei chioschi che circondano questi giardini: è
una vista che può essere paragonata a quella offerta dalle terrazze, dai
pendii e dal palazzo di Saint Cloud, quando li si guarda dalle rive opposte
della Senna o dalle colline di Meudon, ma questi siti campestri sono
circondati su tre lati dal mare, e dominati sul quarto lato dalle cupole delle
numerose moschee e da un oceano di case e strade che costituiscono la
vera Costantinopoli o città di Stambul. La moschea di Santa Sofia, il San
Pietro della Roma d’Oriente, alza la sua cupola massiccia e gigantesca al di
sopra e vicino alla cerchia delle mura perimetrali del serraglio. Santa Sofia è
una collina informe di pietre accumulate e sormontate da una cupola che
brilla al sole come un mare di piombo. Più lontano sorgono le moschee più
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moderne di Ahmed, di Bayezid, di Solimano59 che si slanciano nel cielo con i
loro minareti intervallati da gallerie moresche e accompagnati da cipressi, il
cui fusto è pari a quello dei minareti e il loro scuro fogliame fa da contrasto
alla splendente luminosità degli edifici. In cima alla schiacciata collina di
Stambul si aprono, fra le mura delle case e i corpi dei minareti, una o due
colline antiche annerite dagli incendi e bronzee dal tempo: sono i resti
dell’antica Bisanzio, in piedi sul luogo dell’Ippodromo o Atmeidan. Là sono
anche i grandi profili dei numerosi palazzi del sultano o dei visir; il Divano,
con la Porta che ha dato nome all’impero60, è in questo gruppo di edifici. Più
in alto e ritagliata nell’azzurro del cielo, una splendida moschea corona la
collina affacciandosi sui due mari: la sua cupola d’oro, colpita dai raggi del
sole, sembra riverberare un incendio, e la trasparenza della sua volta e delle
sue mura, sormontate da aeree gallerie, le dona l’apparenza di un
monumento d’argento o di porcellana bluastra. L’orizzonte su questo lato
finisce lì, e lo sguardo scende su altri due grandi colline, ricoperte, senza
interruzione, di moschee, palazzi, case dipinte fino al porto, dove il mare
diminuisce insensibilmente di larghezza e si perde alla vista sotto gli alberi
nel vallone arcadico delle Acque Dolci d’Europa. Se l’occhio rimonta il
canale, vaga sopra gli alberi raggruppati al bordo della Scala dei Morti
dell’arsenale e sotto le foreste di cipressi che coprono i lati di
Costantinopoli; si vede la Torre di Galata, costruita dai Genovesi61, uscire
come il pennone di un naviglio, sopra un oceano di tetti di case, e
biancheggiare fra Galata e Pera come un enorme piolo fra due città; poi
l’occhio torna infine a riposarsi sul tranquillo bacino del Bosforo, incerto fra
Europa e Asia. Questo è il materiale del quadro. Ma se aggiungete a questi
principali tratti di cui si compone l’immensa cornice che lo circonda e lo
stacca dal cielo e dal mare, le linee nere delle montagne d’Asia, i bassi e
vaporosi orizzonti del golfo di Nicomedia62, le creste dell’Olimpo di Bursa che
appaiono dietro il serraglio, al di là del mar di Marmara, e distendono le loro
nevi come nuvole bianche nel firmamento; se voi aggiungete a questo
insieme maestoso la grazia e il color indefinito degli innumerevoli
particolari; se voi vi immaginate con il pensiero gli effetti variati del cielo,
del vento, delle ore del giorno sul mare e sulla città; se voi osservate i
vascelli mercantili staccarsi, come voli d’uccelli di mare, dalla cima delle
59 In francese: «d’Achmet, de Bajazet, de Soliman, de Sultanié». La moschea di Ahmed I
(sultano dal 1603 al 1617) o di Sultanahmet (cioè Sultan Ahmet) è la Moschea Blu,
costruita alla fine del Cinquecento. La moschea di Bayezid II (sultano dal 1481 al 1512) fu
eretta nei primi anni del Cinquecento presso le rovine del Foro di Teodosio. La moschea di
Solimano fu edificata sul sesto colle nel 1550-1557. Della moschea di «Sultaniè» non si
hanno informazioni certe.
60 Il Divano (o Dīwān) era il consiglio supremo dell’impero. La “Porta” era l’accesso al
palazzo del Gran visir, il luogo dove il sultano teneva la cerimonia di benvenuto per gli
ambasciatori stranieri. Per estensione, con “la Porta” si prese a indicare, soprattutto in
Occidente, l’intera città di Costantinopoli o anche l’impero ottomano.
61 Fu costruita nel 1348 da alcuni coloni della Repubblica di Genova come torre di una cinta
di fortificazioni.
62 Oggi Izmit.
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nere foreste del serraglio, scendere in mezzo al canale e incunearsi
lentamente nel Bosforo formando gruppi sempre nuovi; se i raggi del sole
vanno a rasentare le vette degli alberi e dei minareti e a infuocare, come
riverberi di un incendio, le rosse mura di Scutari e di Stambul; se il vento,
che rinfresca o che rende il mar di Marmara piatto come un lago di piombo
fuso, o increspa leggermente le acque del Bosforo, sembra stendere le
maglie risplendenti di un’ampia rete d’argento; se il fumo dei battelli a
vapore si alza e gira tra le grandi vele tremule dei vascelli o delle fregate del
sultano; se la cannonata della preghiera rimbomba, dall’eco prolungata, dal
ponte dei bastimenti della flotta fin sotto i cipressi del Campo dei Morti; se
gli innumerevoli rumori delle sette città e delle migliaia d’edifizi si levano a
sbuffi dalla città e dal mare e vi arrivano, portati dalla brezza, anche dove
voi siete; se pensate che questo cielo è quasi sempre così profondo e puro,
che questo mare e questi porti naturali sono sempre tranquilli e sicuri, che
ogni casa di queste lunghe coste è un’ansa dove in ogni tempo la nave può
ancorare sotto le finestre, dove si fabbricano e si varano vascelli a tre ponti
sotto l’ombra stessa dei platani della riva; se vi ricordate di essere a
Costantinopoli, in questa città regina dell’Europa e dell’Asia, nel punto
preciso dove due parti del mondo vennero volta a volta o a combattersi o ad
abbracciarsi; se la notte vi sorprende in questa contemplazione di cui
l’occhio non è mai sazio; se i fari di Galata, del serraglio, di Scutari e le
lampade delle alte poppe dei vascelli si accendono; se le stelle spiccano
poco a poco, una alla volta o in gruppi dal blu del firmamento e avvolgono
le nere cime della costa dell’Asia, le vette nevose dell’Olimpo, le isole dei
Principi nel mar di Marmara, la fosca area del serraglio, le colline di Stambul
e i tre mari, come di un velo blu tempestato di perle dove tutta questa
natura sembra nuotare; se il chiarore più dolce del firmamento dove sorge
la luna nascente lascia abbastanza luce per vedere le grandi masse del
quadro ammorbidendo o cancellando dettagli: voi avete il più magnifico e il
più delizioso spettacolo che occhio umano possa cogliere, è un’ebbrezza
degli sguardi che si comunica al pensiero, è lo spettacolo di cui io godo tutti
i giorni e tutte le notti da un mese.
L’ambasciatore di Francia mi aveva proposto di accompagnarlo nella visita
che tutti gli ambasciatori arrivati di fresco hanno il diritto di fare a Santa
Sofia, così mi trovai alle otto di stamane a una porta di Stambul che dà sul
mare, dietro le mura del serraglio. Uno dei principali ufficiali di Sua Altezza
ci aspettava sulla riva e ci condusse dapprima nella sua casa, dove aveva
fatto apparecchiare la colazione. Molte erano le stanze elegantemente
decorate, ma senza altri mobili oltre ai divani, addossati alle finestre che
guardano sul mar di Marmara, e alle pipe. La colazione era disposta
all’europea; solo i piatti erano nazionali, molti e studiati, ma tutti nuovi per
noi. Dopo colazione, le nostre dame andarono a visitare le donne del
colonnello turco, chiuse quel giorno in un appartamento inferiore, giacché
l’harem, o appartamento delle donne, era quello dove eravamo stati
ricevuti. Noi tutti ci eravamo muniti di babbucce di marocchino giallo da
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calzare nella moschea, altrimenti avremmo dovuto togliere gli stivali e
camminare scalzi. Entrammo nell’anticorte della moschea di Santa Sofia, in
mezzo a un drappello di guardie che allontanavano la folla accorsa a
vederci. I volti degli osmanli sembravano preoccupati e infelici, perché gli
zelanti musulmani considerano l’introduzione dei cristiani come una
profanazione dei loro santuari. Dietro noi fu chiusa la porta della moschea.
La grande basilica di Santa Sofia, fabbricata da Costantino63, è uno dei
più vasti edifici che il genio della religione cristiana ha fatto sorgere dalla
terra, ma si percepisce, dalla barbarie dell’arte che presiedette a questa
massa di pietra, che essa fu l’opera di un tempo di corruzione e decadenza.
È la memoria confusa e grossolana di un gusto che non c’è più; è l’abbozzo
informe di un’arte che si sperimenta. Il tempio è preceduto da un lungo e
largo peristilio coperto e chiuso come quello di San Pietro a Roma. Colonne
di granito di prodigiosa elevazione, ma incassate nelle muraglie, separano il
vestibolo dall’atrio. Una gran porta apre sull’interno. Il recinto della chiesa è
decorato sui lati da superbe colonne di porfido, di granito egiziano e di
marmi preziosi, ma questa colonne di grossezza, proporzione e ordini
diversi sono in tutta evidenza degli avanzi tolti da altri templi, e qui piazzati
senza simmetria e senza gusto, come i barbari costruiscono una casupola
con i ruderi di un palazzo. Giganteschi piloni murati grossolanamente,
sorreggono un’alta cupola come quella di San Pietro e di effetto almeno
altrettanto maestoso. La cupola, un tempo rivestita di mosaici su tutta la
volta, fu intonacata quando Maometto II convertì Santa Sofia in moschea.
Alcuni calcinacci ora sono caduti e lasciano intravedere l’antica decorazione
cristiana. Delle gallerie circolari, addossate a vaste tribune, corrono attorno
alla basilica là dove nasce la volta. Da quel punto l’aspetto dell’edificio è
bello: vasto, oscuro, senza ornamenti, con le sue volte squarciate e le
colonne imbrunite: assomiglia all’interno di un sepolcro colossale, le cui
reliquie siano state disperse. Ispira sgomento, silenzio, meditazione sulla
instabilità delle opere dell’uomo, il quale fabbrica per delle idee che crede
eterne, e poi delle idee successive, con un libro o una sciabola in mano,
vengono volta a volta ad abitare o demolire i monumenti. Allo stato attuale,
Santa Sofia assomiglia a un gran caravanserraglio di Dio. Ecco le colonne
del tempio di Efeso, ecco le immagini degli apostoli con le loro aureole d’oro
sotto la volta che guardano le lampade sospese dell’imam64. Uscendo da
Santa Sofia andammo a visitare le sette moschee principali di
Costantinopoli: sono meno vaste, ma infinitamente più belle. Si capisce che
il maomettismo aveva un’arte propria, conforme alla luminosa semplicità
della sua idea, quando elevò questi templi semplici, regolari, splendidi senza
63 Le origini più antiche della basilica non sono note. Si suppone che fu eretta da Costantino
il Grande e ricostruita dopo un crollo da Costanzo II, ma fu distrutta in un incendio. Nel
415 sorse al suo posto una chiesa voluta da Teodosio II, che bruciò durante la rivolta di
Nika, scoppiata nel 532 contro l’imperatore Giustiniano I, il quale decise di ricostruirla più
maestosa delle precedenti. Essa fu solennemente inaugurata il 27 dicembre 537: è questa
la basilica sopravvissuta fino a noi.
64 In francese «iman».
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ombre per i suoi misteri, senza altari per le sue vittime. Queste moschee si
somigliano una all’altra, eccetto che nell’ampiezza e nel colore; sono
precedute da grandi corti cinte di chiostri, ove sono le scuole e gli alloggi
degli imam. Superbi alberi ombreggiano le corti e numerose fontane
diffondono il mormorio e la voluttuosa freschezza delle loro acque. Dei
minareti di stupendo lavoro si rizzano come quattro aerei confini ai quattro
angoli della moschea, sovrastando le cupole; piccole gallerie circolari, con
un parapetto di pietra traforata come un pizzo circondano a diverse altezze
il fusto leggero dei minareti: là si piazza, a diverse ore del giorno, il muezzin
a gridare l’ora, e chiamare la città al pensiero costante del maomettano, il
pensiero di Dio. Un portico aperto sui giardini e le corti, rialzato di alcuni
gradini, conduce alla porta del tempio. Questo è un atrio quadrato o
rotondo, sormontato da una cupola impostata su eleganti piloni, o belle
colonne scanalate, a una delle quali è appoggiato un pulpito. Il fregio è
formato da versetti del Corano, scritti sul muro in caratteri ornati, e i muri
sono dipinti ad arabeschi. Da un pilastro all’altro traversano la moschea fili
di ferro, che sostengono moltissime luci, uova di struzzo sospese65, mazzi di
spighe o di fiori. Il pavimento è coperto di stuoie di giunco e di suntuosi
tappeti. L’effetto è semplice e grandioso. Non è un tempio dove abita un
Dio, è una casa di preghiera e di contemplazione, in cui gli uomini si
raccolgono per adorare il Dio unico e universale. Quel che si chiama culto
non esiste nella loro religione. Maometto predicò a barbare popolazioni,
presso le quali i culti nascondevano il Dio. I riti sono semplici: una festa
annuale, delle abluzioni e la preghiera alle cinque divisioni del giorno: è
tutto. Non esistono altri dogmi se non la credenza in un Dio creatore e
compensatore; le immagini sono abolite, per paura che non tentino la
debole immaginazione umana e non convertano la memoria in colpevole
adorazione; non ci sono sacerdoti, o almeno ogni fedele può adempiere le
funzioni. Il corpo sacerdotale si formò solo più tardi e per corruzione. Ogni
qualvolta entrai nelle moschee, trovai pochi turchi accosciati o seduti sui
tappeti, pregando con tutti i segni esteriori del fervore e dell’intera estasi
dello spirito.
Nella corte della moschea di Bayezid vedo la tomba vuota di Costantino:
è un’urna di porfido di prodigiosa grandezza, capace di venti eroi, che è
evidentemente dell’epoca greca, forse rubata anch’essa dai templi di Diana
a Efeso. I secoli si imprestano i loro templi come le tombe, e se li
restituiscono vuoti. Ove giacciono le ossa di Costantino? I Turchi hanno
racchiuso il suo sepolcro in un chiosco e non lo lasciano profanare. Le tombe
dei Sultani e delle loro famiglie sorgono nei giardini delle moschee da loro
erette, sotto chioschi di marmo ombreggiati da alberi e profumati di fiori;
zampilli d’acqua mormorano vicino o entro il chiosco e il culto della memoria
è immortale tra i musulmani, giacché non sono mai passato davanti a
65 Considerato il germe della Creazione, l’uovo è simbolo di vita e di risurrezione in tutte le
religioni. La scelta dello struzzo sembra derivi dal particolare odore emanato dalle uova
che tiene lontano ragni e insetti, che in quelle regioni possono essere velenosi.
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queste tombe senza trovare mazzi di fiori freschi, deposti sulla porta o sulle
finestre di questi numerosi monumenti.
Percorsi il canale del Bosforo da Costantinopoli all’imboccatura del mar
Nero e voglio schizzare qualche tratto di questa natura incantata. Non
credevo che il cielo, la terra, il mare, l’uomo potessero generare di concerto
scene così incantevoli. Lo specchio trasparente del cielo o del mare può solo
vederli e rifletterli per intero. La mia immaginazione li vede e li conserva
così, ma la mia memoria non può che guardarli e tracciare pochi dettagli in
successione. Si scrivono dunque veduta per veduta, capo per capo, ansa per
ansa, colpo di remo per colpo di remo, ma ci vorrebbero degli anni a un
pittore per rendere una sola delle rive del Bosforo. Che cosa si può dire in
poche parole?
Condotto da quattro rematori arnauti66, in uno di quei lunghi caicchi che
fendono il mare come pesci, m’imbarcai alle sette di mattina sotto un cielo
puro e un fulgido sole. Un interprete, accucciato nella barca tra me e i
rematori, mi indicava nomi e cose. Costeggiammo dapprima la riva, con la
sua caserma di artiglieria, della città di Tophane che si eleva a gradoni di
case, dipinte come mazzi di fiori, raggruppate intorno alla moschea di
marmo e finisce sotto gli alti cipressi del gran Campo dei Morti di Pera che
formano una cortina di legno scuro che sembra chiudere le colline di questa
costa. Scivolammo traverso una folla di bastimenti all’ancora e di caicchi che
riconducevano a Costantinopoli gli ufficiali del serraglio, i ministri e i loro
kiaia67, e le famiglie di Armeni richiamati dall’ora al loro banchi. Questi
Armeni sono una razza d’uomini superbi, nobilmente e semplicemente
vestiti di un turbante nero e una lunga vesta blu annodata al corpo con uno
scialle di cachemire bianco; la loro fisionomia è atletica, i tratti intelligenti
ma comuni, la carnagione rubiconda, gli occhi cerulei, la barba bionda. Sono
gli svizzeri dell’Oriente: laboriosi, pacifici, regolati come loro, ma come loro
calcolatori e ingordi, offrendo la loro abilità nei traffici al sultano e ai Turchi;
in loro non c’è eroismo o bellicosità, solo il genio del commercio che fanno
sotto qualunque padrone. Sono i cristiani che più simpatizzano con i Turchi;
essi prosperano ed accumulano le ricchezze trascurate dai Turchi e sfuggite
ai Greci e agli Ebrei: qui tutto è in loro mani. Essi sono i dragomanni68 di
tutti i pascià e i visir. Le loro donne, i cui lineamenti sono puri ma più
delicati, ricordano la calma bellezza delle inglesi o delle montanare svizzere,
innamorano a vederle, così come i fanciulli. I caicchi ne sono pieni, essi
portano dalle case di campagna dei panieri di fiori disposti sulla prua.
Cominciammo ad aggirare la punta di Tophane e a scivolare all’ombra dei
grossi vascelli da guerra della flotta ottomana, galleggianti sulla costa
europea: sembra che queste enormi masse domano su un lago. I marinari,
vestiti come soldati turchi, di rosso o di blu, stanno negligentemente
66 Erano cosiddetti gli albanesi al servizio degli ottomani.
67 Luogotenenti.
68 In origine erano gli intermediari tra Franchi e Musulmani.
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appoggiati alle sartie o nuotano intorno alla chiglia. Dei barconi carichi di
soldati vanno e vengono dalla terra alle navi, ed eleganti scialuppe, guidate
da venti rematori, passano come frecce accanto a noi. L’ammiraglio Tahir
Pascià e i suoi ufficiali sono vestiti di una redingote bruna, coperti dai fez,
grandi berretti di lana rossa, che calcano sulla fronte e sugli occhi, quasi
vergognosi d’aver deposto il nobile e grazioso turbante. Questi uomini
hanno l’aria malinconica e rassegnata, fumano lunghe pipe all’ombra.
Laggiù c’è una trentina di bastimenti da guerra di bella costruzione e tutti
paiono pronti ad alzare la vela, ma non ci sono né ufficiali, né marinai, e
quella magnifica flotta è nulla più che una decorazione del Bosforo. Mentre il
sultano la contempla dal suo chiosco di Beylerbeyi, situato dirimpetto, sulla
costa d’Asia, le due o tre fregate d’Ibrahim Pascià69 possiedono in pace il
Mediterraneo, e le barche di Samo padroneggiano l’arcipelago. A pochi passi
da questi vascelli, sulla riva d’Europa dove mi trovo, scivolo sotto le finestre
di uno lungo e magnifico palazzo del sultano, ora disabitato. Assomiglia a un
palazzo di anfibi: le onde del Bosforo, per poco che si alzino per il vento,
rasentano le finestre e gettano la schiuma negli appartamenti del piano
terreno, si cammina con i piedi a mollo nell’acqua; delle porte con inferriate
offrono l’ingresso al mare fino alle corti e ai giardini. Là sono le rimesse per
i caicchi e i bagni per le sultane, che possono nuotare nel mare aprendo le
persiane dei loro salotti. Dietro queste vie marittime, i giardini di arbusti,
rose e gigli si elevano su gradoni successivi che reggono terrazze e chioschi
dorati. I prati fioriti si perdono nel vasto bosco di querce, allori e platani,
che copre i pendii e si alza seguendo le rocce fino in cima della collina. Gli
appartamenti del sultano sono aperti e io vedo attraverso le finestre le
sontuose modanature dorate dei soffitti, i lampadari di cristallo, i divani e i
tendaggi di seta. Gli alloggi dell’harem sono chiusi da spessi reticolati di
legno finemente intagliato. Subito dopo questo palazzo comincia una serie
ininterrotta di palazzi, case e giardini dei principali favoriti o del pascià o dei
ministri del Gran Signore70: tutti dormono verso il mare, come per
respirarne la frescura. Le finestre sono aperte; i padroni sono seduti su
divani, nelle vaste sale sfolgoranti di oro e di seta, fumano, discorrono,
bevono sorbetti e ci guardano passare. Le loro camere si aprono sulle
terrazze a gradoni, ridenti di pampini, arbusti e fiori. Numerosi schiavi, in
ricchi costumi, stanno generalmente seduti sui gradini dello scalone bagnati
dal mare; e i caicchi, con i rematori, sono ai piedi dello scalone, pronti a
ricevere e portare i padroni alle loro dimore. Ovunque gli harem formano
un’ala un po’ separata, da giardini o cortili, dagli appartamenti degli uomini
e sono chiusi da reticolati. Riesco solo a scorgere talvolta la testa di un bel
bambino quando egli si aggrappa alle aperture del reticolato, intrecciato con
fiori rampicanti, per guardare il mare o il candido braccio di una donna
69 Ibrāhīm Pascià (1789-1848), generale egiziano, era figlio adottivo di Mehmet Ali (17691849) che governava l’Egitto.
70 Gran Signore, Gran Turco, Sultano dei Sultani, Sovrano della Casa di Osman, Khan dei
Khan indicano tutti l’imperatore ottomano o sultano.
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quando apre o chiude una persiana.
I palazzi e le case sono tutti di legno, ma lavorati molto riccamente con
cornicioni, gallerie, balaustrate innumerevoli, e tutti sono immersi
nell’ombra di grandi alberi, piante rampicanti, boschetti di gelsomini e rose.
Tutti sono bagnati dalla corrente del Bosforo e hanno cortili dove l’acqua del
mare penetra e si reintegra, e dove si riparano i caicchi.
Il Bosforo è così profondo che voghiamo vicinissimi alla terra per inspirare
il profumo dei fiori e far godere, a noi e ai rematori, l’ombra degli alberi. Le
navi più grosse corrono anch’esse rasenti alla riva, tanto che spesso un
pennone di un brick o di un vascello si impiglia fra i rami di una pianta o nei
tralicci di una vite o anche nelle persiane di una finestra trascinando via
rami o pezzi di case. Queste case sono separate le une dalle altre soltanto
da gruppi d’alberi posti su alcuni corpi sporgenti o in qualche angolo
roccioso coperto di muschio ed edera, che scendono dalle colline e si
prolungano di qualche metro in mare. Di tanto in tanto, c’è un’ansa più
profonda e più incavata tra due colline separate dal letto vuoto di un
torrente o di un ruscello. Allora un villaggio si stende sulle piane rive di
questi golfi, con le belle fontane moresche, la moschea dalla cupola d’oro o
azzurra e il leggero minareto che confonde la sua cima con quella dei
platani. Le casette dipinte si ergono ad anfiteatro sulle due coste e sul
fondo, con le loro facciate e i loro chioschi di mille colori, mentre in cima alle
colline stanno grandi ville fiancheggiate da giardini terrazzati e gruppi di
abeti frondosi. A piedi di queste ville è una spiaggia o un argine di granito,
largo solo pochi passi. Le spiagge sono piantumate a sicomori, vigne,
gelsomini e formano dei pergolati fino al mare, dove i caicchi si riparano. Là
sono all’ancora numerose imbarcazioni usate per il commercio
internazionale e si trovano di fronte ai magazzini stessi dell’armatore, e
spesso il ponte delle barche e le finestre della casa dell’armatore sono unite
da un ponte. Una moltitudine di fanciulli e di venditori di legumi, datteri e
frutta circola sugli argini: è il bazar del villaggio e del Bosforo. Dei marinai
di ogni abito e lingua stanno raggruppati in mezzo agli osmanli, che fumano
accosciati sui loro tappeti, presso la fontana, attorno ai platani. Alcune
vedute dei villaggi di Lucerna o di Interlaken possono dare un’idea della
grazia e del pittoresco che caratterizzano le baie del Bosforo. È impossibile
non fermarsi a rimirare un momento questi porti, città, villaggi del primo
tratto di costa europea, lungo circa due o tre leghe. Questi panorami si
fanno più vari procedendo per il canale, dove il paesaggio assume un
carattere più campestre per la maggior altezza delle colline e l’addensarsi
delle foreste. Qui non parlo che della costa d’Europa, poiché dell’asiatica,
molto più bella, ne parlerò al ritorno, ma non bisogna dimenticare, per
farsene un’immagine esatta, che essa è solo a poche remate da me, che
navigando si è spesso più vicini all’una o all’altra per tenersi in mezzo alla
corrente dove il canale si restringe e si incurva, e che le stesse scene che
dipingo in Europa deliziano lo sguardo ogni volta che si posa sulla costa
asiatica. Ma, ritornando alla riva che sto descrivendo, segue un luogo dove il
Bosforo s’incunea come un largo e rapido fiume tra due promontori rocciosi
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che scendono a picco dalle montagne da cui partono; il canale che si forma
sembra chiuso ma poi d’un tratto, man mano che si avanza e voltando il
capo europeo, si allarga in un lago che porta alle due città di Therapia e di
Büyükada71. Sui due promontori rocciosi, ricoperti di alberi e fitti cespugli,
sorgono delle fortificazioni in rovina e delle enormi torri bianche nel fine stile
del Medioevo, quello dei famosi castelli d’Europa e dell’Asia, dove Maometto
II assediò e minacciò per lungo tempo Costantinopoli prima di penetrarvi.
Le fortificazioni si alzano, come due fantasmi bianchi, in mezzo al nero dei
pini e dei cipressi, come per fermare l’accesso a chi proviene dai due mari.
Le loro torri e torrette sospese sui vascelli a vele spiegate, i lunghi rami di
edera pendenti, come mantelli di guerrieri, sui muri semidiroccati, le rocce
grigie che li supportano, i cui angoli escono dalla foresta che le avviluppa, le
grandi ombre che arrivano sull’acqua ne fanno uno dei punti più
caratteristici del Bosforo. È là che il Bosforo perde il suo aspetto
esclusivamente grazioso, per assumerne uno fra il grazioso e il sublime.
Cimiteri turchi sono sparsi ai loro piedi e i turbanti scolpiti in marmo bianco
emergono qua e là dai cespi di fogliame bagnati dai flutti. Felici i turchi! Essi
riposano sempre nei siti da loro prediletti, all’ombra dell’arbusto che
amavano, in riva alla corrente, il cui mormorio li deliziava, visitati dalle
colombe che essi, da vivi, nutrivano, imbalsamati dai fiori da loro piantati!
Se non possiedono la terra durante la vita, la possiedono dopo la morte, e
non si abbandonano i resti di coloro che si sono amati in quelle strade dove
l’orrore respinge il culto e la pietà dei ricordi.
Oltre i castelli, il Bosforo si allarga, le montagne dell’Europa e dell’Asia si
alzano più aspre e deserte; solo le rive del mare sono disseminate qui e là
di casette bianche e di piccole moschee rustiche posate su qualche rialto
presso una fontana o sotto un platano. Il villaggio di Therapia, dove abitano
gli ambasciatori di Francia e di Inghilterra, costeggia la riva un po’ più
lontano; le alte foreste che lo dominano gettano la loro ombra sulle terrazze
e i prati dei due palazzi; piccole valli serpeggianti fra le rocce segnano i
limiti delle due potenze. Due fregate, inglese e francese, ancorate nel canale
in faccia a ciascun palazzo, non aspettano che un cenno degli ambasciatori
per portare alle flotte del Mediterraneo i messaggi di guerra o di pace.
Büyükada, bella città in fondo al golfo formato dal Bosforo nel punto in cui si
piega per perdersi nel mar Nero, si presenta come una cortina di palazzi e
ville sulle pendici di due montagne scure. Una bella riva separa i giardini e
le case dal mare. La flotta russa, composta di cinque vascelli, tre fregate e
due battelli a vapore, sta innanzi alle terrazze del palazzo della Russia e
forma una città sulle acque, di fronte alle deliziose ombre di Büyükada. Le
barchette che trasportano gli ordini da un vascello all’altro; le imbarcazioni
che vanno a recuperare l’acqua per le fontane o portano i malati sul lido; i
panfili dei giovani ufficiali, che lottano come cavalli da corsa, le cui vele,
curvate dal vento, si infradiciano nelle onde; i colpi di cannone che
risuonano nelle profondità delle vallate asiatiche annunciando le nuove navi
71 In francese «Buyukdéré».
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che sboccano dal mar Nero; un campo russo sistemato sui pendii bruciati
della montagna dei Giganti72 di fronte alla flotta; i bei prati di Büyükada,
sulla sinistra, con il meraviglioso gruppo di platani, di cui uno solo
ombreggerebbe un intero reggimento; le magnifiche foreste dei palazzi di
Russia e Austria, che dentellano la cima delle colline; una moltitudine di
case eleganti e ornate di balconi che si affacciano sulle spiagge e le loro
rose e i loro lillà scendono come festoni dai davanzali; gli armeni con i loro
figli, che continuamente arrivano o partono sui loro caicchi ricolmi di rami e
fiori; il braccio del Bosforo più scuro e più stretto che si comincia a scoprire,
esteso verso l’orizzonte nebuloso del mar Nero; altre catene montuose,
interamente sguarnite di villaggi e case, che si alzano fino alle nuvole con le
loro nere foreste, come temibili confini, tra le burrasche del mare e la
magnifica serenità dei mari di Costantinopoli; due castelli fortificati, uno di
fronte all’altro, su ciascuna costa, che coronano con le loro batterie, le loro
torri e le loro merlature le avanzate alture dei due scuri promontori; poi,
infine, una doppia linea di rocce chiazzate di foreste che va a morire nelle
acque blu del mar Nero: ecco il colpo d’occhio su Büyükada. Aggiungete il
perpetuo passaggio di una fila di vascelli che vengono a Costantinopoli o
escono dal canale, secondo che il vento soffi da nord o da sud; questi
vascelli sono qualche volta così numerosi che un giorno, ritornando nel mio
caicco, ne contai circa duecento in meno di un’ora. Essi navigano per
gruppi, come gli uccelli che migrano per il clima; se il vento varia, corrono
velocemente da una riva all’altra, virando sotto le finestre o gli alberi
dell’Asia o dell’Europa; se la brezza rinfresca si ancorano in una delle
innumerevoli insenature oppure alla punta del piccolo capo del Bosforo; si
coprono di nuovo di vele un momento dopo. Ogni minuto, il paesaggio,
vivificato e modificato da questi gruppi di bastimenti alla vela o all’ancora e
per le diverse posizioni che essi assumono lungo la terra, cambia d’aspetto
e fa del Bosforo un caleidoscopio meraviglioso.
Arrivato a Büyükada, presi albergo in una bella casa sulla riva, offertaci
questa pure dal signor Truqui, dove passeremo d’estate.
STESSA
DATA
Sembra che, dopo la descrizione di questo tratto del Bosforo, la natura
non possa più superarsi e che nessun paesaggio possa sorpassare quello di
cui i miei occhi si sono riempiti. Ma tornando questa sera a Costantinopoli
lungo la costa dell’Asia, ho trovata quest’ultima mille volte più bella della
costa europea. La costa d’Asia quasi nulla deve all’uomo, è tutta opera della
natura. Non ci sono né Büyükada, né Therapia, né palazzi di ambasciatori,
né ville di armeni e di franchi; non ci sono che montagne separate da gole e
72 In francese “la montagne du Géant”. Sono così denominati diversi massicci in Europa e in
Asia (nella Turchia asiatica corrispondono alla catena montuosa del Tauro), caratterizzati
tutti dall’altezza e dalle forti pendenze. Un’antica leggenda che le accomuna racconta che
furono plasmate dai Titani agli albori del mondo.
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piccoli valloni tappezzati di prati che crescono alla base delle rocce, ruscelli
serpeggianti, spumosi torrenti, foreste sospese sui pendii che scendono fino
ai numerosi golfi della costa: una varietà di forme, di tinte, di fogliame e di
vegetazione che il pennello di un pittore di paesaggi non potrebbe neppure
inventare. Ci sono alcune casette isolate di barcaioli o di giardinieri turchi
sparpagliate sulle spiagge, o poste sul colmo d’una collina selvosa, o
raggruppate sul pendio delle rupi dove la corrente si frange in onde blu
come il cielo della notte; alcune vele bianche di pescatori che entrano nelle
profonde insenature e che si vedono scivolare da un platano all’altro, come
una tela asciutta che le lavandaie ripiegano; innumerevoli stormi di uccelli
bianchi, che stanno asciugandosi sul lembo dei prati; delle aquile che
dall’alto delle montagne planano sul mare; baie misteriose interamente
racchiuse da massi e tronchi d’albero giganteschi, i cui rami carichi di nuvole
di foglie si incurvano sulle onde e formano dei pergolati sul mare dove i
caicchi si riparano. Uno o due villaggi nascosti nell’ombra di queste baie,
con i giardini sugli spazi verdi retrostanti e gruppi di alberi ai piedi delle
rocce, con le loro barche che dondolano sulle dolci onde presso la loro
porta, con nugoli di colombi sul loro tetto, le donne e i bambini alle finestre,
i vecchi seduti sotto il platano alla base del minareto, i lavoratori che
tornano dai campi nei loro caicchi, altri che riempiono le barche di fasci
verdi di mirto o di erica in fiore per farli seccare e bruciare durante
l’inverno… Nascosti, i caicchi, dietro i mucchi di vegetazione rampicante, che
debordano e s’inzuppano nell’acqua, non si vede né la barca né il rematore,
e si crede di vedere un brandello di spiaggia che la corrente ha separato
dalla terra e che galleggiando a caso nel mare, con il suo fogliame verde e i
suoi fiori ancora profumati. La sponda offre questo panorama fino al castello
di Maometto II, il quale, anche su questo lato, sembra chiudere il Bosforo
come un lago svizzero. Poi la natura cambia aspetto: i crinali delle colline
diventano meno aspri e le loro strette valli si fanno più dolci; i villaggi
asiatici si stendono più ricchi e affollati; le Acque Dolci d’Asia, come
chiamano una piccola e affascinante valle ombreggiata da alberi e cosparsa
di chioschi e fontane moresche, appaiono alla vista; un gran numero di
vetture di Costantinopoli, specie di gabbie di legno dorato sopra quattro
ruote trascinate da due buoi, sono sparse sui prati dove escono le donne
turche velate, che a gruppi siedono sotto gli alberi o in riva al mare con i
figli e le schiave nere; più lontano siedono drappelli di uomini fumando la
pipa o bevendo caffè. La varietà di colori dei vestiti degli uomini e dei
fanciulli e il colore bruno dell’uniforme velo delle donne formano sotto questi
alberi il mosaico più bizzarro di tinte che incanti l’occhio. I buoi e i bufali da
stalla ruminano nelle praterie; cavalli arabi bardati in seta e oro scalpitano
vicino ai caicchi, che approdano in folla pieni di armene e di ebree che senza
velo si siedono sull’erba alla sponda del ruscello, formando una catena di
donne e fanciulle in abiti e atteggiamenti diversi, alcune di rara bellezza,
rilevata anche dalla varietà delle acconciature e dei vestiti. Là vidi spesso un
gran numero di donne turche degli harem senza velo: sono quasi tutte di
statura piccola, molto pallide, con occhi tristi e aspetto gracile e malaticcio.
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In generale, il clima di Costantinopoli, malgrado tutte le condizioni di
apparente salubrità, mi pare malsano, né le donne meritano quel vanto di
bellezza che godono, solo le armene e alle giudee mi sono apparse belle. Ma
quanta differenza ancora tra queste e le arabe, e più ancora all’indescrivibile
fascino delle greche di Siria e dell’Asia Minore! Un po’ più in là, in riva al
Bosforo, si eleva il magnifico palazzo nuovo, abitato ora dal Gran Signore.
Beylerbeyi è un edificio di gusto italiano, mescolato a reminiscenze indiane
e moresche: un immenso aggregato di case a più piani, con ali e giardini
interni, grandi platee di rose innaffiate da getti d’acqua si stendono dietro ai
fabbricati, fra la montagna e il palazzo, una stretta lastricata di granito
separa le finestre dal mare. Passai lentamente sotto il palazzo, dove sotto il
marmo e l’oro vegliano tante cure e tanti sgomenti, e scorsi il Gran Signore
seduto su un divano in un chiosco sul mare: Ahmet Pascià, uno dei giovani
suoi favoriti, gli stava in piedi di fianco. Il sultano, visto il nostro abito
europeo, ci additò ad Ahmet Pascià come per domandargli chi fossimo. Io
salutai all’orientale il padrone dell’Asia e lui mi rese graziosamente il saluto.
Tutte le persiane erano aperte, lasciando intravedere le sontuose
decorazioni di questo magnifico e delizioso palazzo. L’ala abitata dalle
donne, ossia l’harem, era chiusa: essa è immensa, ma io ignoro il numero di
donne che vi abitano. Alla porta del palazzo sul mare stavano due caicchi,
con ventiquattro rematori ciascuno, dorati e degni del più squisito gusto
europeo e della magnificenza orientale. La prua di uno di essi, che sporge
almeno venticinque piedi, era formata da un cigno d’oro con le ali spiegate,
che sembrava strascinare la barca d’oro sulle onde; un padiglione di seta
retto da colonne d’oro formava la poppa, e ricchi scialli di cachemire
componevano il sedile per il sultano. La prua dell’altro caicco era una freccia
d’oro impennata, che pareva volesse scoccare dall’arco sul mare. Mi fermai
per molto tempo, fuori della vista del sultano, a contemplare i giardini e il
palazzo: ogni cosa pare disposta con perfetto gusto. Non conosco reggia in
Europa che offra tanta magnificenza e incanto, tutto sembra uscito dalle
mani di un artista per purezza e splendore. I tetti dei palazzi sono coperti di
balaustrate dorate e i comignoli, che in Europa deturpano le linee di tutti gli
edifici pubblici, sono colonne dorate e scanalate, i cui eleganti capitelli
aggiungono decorazione a questa dimora. Mi piace questo principe, che ha
passato l’infanzia nell’oscurità delle prigioni del serraglio dove fu minacciato
ogni giorno di morte, educato nella sventura dal saggio e sfortunato Selim e
buttato sul trono dopo la morte di suo fratello, che ha covato per quindici
anni nel silenzio il pensiero di affrancare l’impero e di restaurare l’islamismo
distruggendo i giannizzeri, eseguendo ciò con l’eroismo e la calma della
fatalità, sfidando continuamente il suo popolo per rigenerarlo; ardito e
impassibile nel pericolo; dolce e misericordioso quando può consultare il suo
cuore, ma senza appoggio intorno a sé, senza strumenti per eseguire il
bene che medita; mal conosciuto dal suo popolo, tradito dal pascià, rovinato
dai vicini, abbandonato dalla fortuna, senza la quale l’uomo non può nulla;
che assiste in piedi alla rovina del proprio trono e imperio; che si abbandona
infine a se stesso; che si affretta a usare nelle voluttà del Bosforo la sua
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porzione d’esistenza e l’ombra della sua sovranità. Uomo di buoni desideri e
dritta volontà, ma uomo di genio insufficiente e di troppo fievole volontà,
simile in questo a quell’ultimo fra gli imperatori greci di cui egli occupa il
seggio e di cui pare che rappresenti il destino; degno di un altro popolo e di
un miglior tempo, e capace almeno di morire da eroe. Una giorno fu un
grande uomo. La storia non ha pagine da comparare a quella della
distruzione dei giannizzeri: è la rivoluzione più fortemente meditata ed
eroicamente compiuta, di cui io conosca esempio. Mahmud firmò questa
pagina, ma perché essa è unica? Il più difficile era fatto, i tiranni dell’impero
abbattuto, non ci voleva che volontà e progresso per vivificare l’impero
civilizzandolo, ma Mahmud s’è fermato. Sarà che il genio è più raro ancora
dell’eroismo?
Dopo il palazzo di Beylerbeyi, la costa dell’Asia torna boscosa e solitaria
fino a Scutari, che brilla, come un giardino di rose, all’estremità di un capo,
all’entrata del mar di Marmara. Dirimpetto, si presenta la punta
verdeggiante del serraglio, e fra la costa d’Europa, coronata dalle tre sue
città dipinte, e la costa di Stambul, sfolgorante di cupole e minareti, si apre
l’immenso porto di Costantinopoli, dove le navi, ancorate sulle due rive, non
lasciano che un largo passaggio ai caicchi. Io scivolo, attraverso questo
labirinto di edifici, come la gondola veneziana sotto l’ombra dei palazzi, e
sbarco presso la Scala dei Morti, sotto un viale di cipressi.
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MAGGIO
Stamattina un giovane costantinopolitano mi portò al mercato degli
schiavi.
Traversate le lunghe strade di Stambul, costeggiamo le mura del vecchio
serraglio, e passato per numerosi magnifici bazar ingombri di immensa folla
di compratori e mercanti, siamo saliti, per strette vie, fino a una piazza
fangosa sulla quale si apre la porta di un altro bazar. Grazie all’abito turco
che portavamo e il parlare della mia guida, ci hanno lasciato entrare nel
mercato di uomini. Quanto c’è stato bisogno di tempo e di successive
rivelazioni alla ragione dell’uomo prima che la forza cessasse di essere un
diritto ai suoi occhi e la schiavitù diventasse un delitto e una bestemmia al
suo intelletto! Quale progresso! e quanti non ne promette! Quante cose, di
cui ora non siamo scandalizzati e che saranno imperdonabili delitti agli occhi
dei nostri discendenti! A ciò pensavo entrando nel bazar, ove si vende la
vita, l’anima, il corpo, la libertà altrui, al modo che noi vendiamo il bue o il
cavallo, e dove si crede di essere legittimi proprietari di ciò che così è stato
comprato! Quante legittimità di questa natura, di cui non ci rendiamo conto!
Eppure son tali, perché non si può domandare all’uomo più di quello che egli
sa. Le sue convinzioni sono sue verità, non ne possiede altre. Dio solo le ha
tutte per sé, e a noi le distribuisce a misura delle nostre intelligenze
progressive.
Il mercato degli schiavi è un ampio cortile scoperchiato e attorniato da un
portico sormontato da un tetto. Sotto questo portico, circondato verso corte
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da un muro alto fino al petto, si aprono delle porte che danno nelle camere
dove i mercanti tengono gli schiavi, e che restano aperte affinché i clienti
possano vedere, passeggiando, gli schiavi. Uomini e donne, che non portano
il velo, sono tenuti in stanze separate. Oltre agli schiavi chiusi in queste
basse camere, ce ne sono molti gruppi nella galleria, sotto il portico e nella
corte. Abbiamo cominciato ad aggirarci tra questi ultimi. Il gruppo più
notevole era formato da dodici o quindici fanciulle abissine, addossate una
all’altra come antiche cariatidi che sorreggono sulle teste un vaso; esse
formavano un circolo con i volti rivolti agli spettatori. Quei visi erano in
generale di gran bellezza: occhi a mandorla, naso aquilino, labbra sottili,
contorno ovale e delicato delle guance, lunghi capelli neri e lucenti come ali
di corvo. L’espressione triste, meditabonda e languida della fisionomia rende
le abissine, nonostante il color rame, una delle razze femminili più
ammirevoli; alte ed esili di taglia, come i fusti delle palme del loro bel
paese, e atteggiano graziosamente le braccia. Queste fanciulle non avevano
per vestito che una lunga camicia di tela grossolana e giallognola e
portavano alle gambe cerchietti di perle di vetro azzurro. Accosciate sui
talloni, immobili, con la testa appoggiata al dorso delle mani o sulle
ginocchia, ci guardavano con occhi molto dolci e tristi, come quelli della
capra o dell’agnello che la paesana trascina per la corda e mercanteggia alle
fiere dei nostri villaggi. Talvolta si dicevano una parola e sorridevano. Una
recava un bambino tra le braccia e piangeva perché il mercante voleva
venderlo senza di lei a un rivenditore di ragazzi. Poco lontano da quel
gruppo, c’erano sette od otto negri, fra gli otto e i dodici anni, vestiti benino
e apparentemente robusti e in salute, che si trastullavano con un gioco
d’Oriente a sassolini, che si combinano in differenti modi entro piccole
buche scavate nella sabbia73; intanto che i mercanti e rivenditori giravano
intorno ai ragazzi, prendendo ora l’uno ora l’altro per il braccio,
esaminandolo con attenzione da capo a piedi, palpandolo, facendogli
mostrare i denti, per conoscerne l’età e la salute; dopo di che il ragazzo,
distratto un momento dai suoi giochi, si affrettava a tornarvi. Passai quindi
sotto i portici coperti, affollati di schiavi e compratori. I turchi che fanno
questo commercio, superbamente vestiti di pellicce imbottite, con una lunga
pipa in mano, passeggiavano fra i gruppi, con un viso inquieto e
preoccupato, spiando con occhio geloso il minimo sguardo gettato all’interno
dei loro magazzini di uomini e donne, ma credendoci arabi o egiziani non
osarono interderci l’ingresso alle camere. Venditori ambulanti di dolcetti e
frutta secca percorrevano la galleria, vendendo agli schiavi qualche
mangereccia. Io feci scivolare molte piastre nella mano di uno di quei
venditori, affinché distribuisse il suo cesto a uno stuolo di fanciulli negri, che
se lo divorarono.
Distinsi una povera negra di diciotto o vent’anni, notevolmente bella, ma
d’una bellezza dura e scontenta. Sedeva sopra un banco della galleria, col
viso scoperto e riccamente vestita, fra una dozzina di altre negre cenciose,
73 È il mancala.
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esposte in vendita a poco prezzo, e reggeva sulle ginocchia un bellissimo
bambino di tre o quattro anni, magnificamente vestito anch’esso. Questo
fanciullo, mulatto, aveva i lineamenti più nobili, la bocca più graziosa, gli
occhi più intelligenti e fieri che sia possibile immaginare. Giocai con lui e gli
diedi dei dolcetti e dei confetti, ma sua madre, strappadoglieli di mano, li
buttò stizzosamente per terra. Ella teneva il viso abbassato e piangeva; io
credetti che fosse per paura di essere venduta separatamente dal figlio, e,
toccato della sua sventura, pregai il signor Morlach, la mia guida, di
comprarla col bambino per mio conto: non avrei separato mai madre e
figlio. Ci rivolgemmo al sensale che conosceva Morlach e che cominciò a
trattare con il proprietario della bella schiava e del bambino. In un primo
momento, il proprietario sembrava deciso a venderli e la donna si mise a
piangere più forte stringendosi al collo il figlio. Ma la trattativa, quando
sembrò andare in porto nonostante l’alto prezzo richiesto, non era che una
finzione e il mercante ci confessò che la donna era la schiava di un ricco
turco, di cui il bambino era figlio, ma essendo lei di carattere troppo fiero e
indomabile all’interno dell’harem, era stata portata al bazar, con l’ordine
segreto di non venderla, per correggerla e umiliarla. Quando un turco non è
contento, la minaccia più comune, spesso attuata, è di mandare la donna al
bazar. Seguitammo poi per un gran numero di camere, ciascuna con quattro
o cinque donne quasi tutte nere e brutte, ma in apparenza sane: la
maggioranza sembrava indifferente alla propria situazione, anzi esse
sollecitavano i compratori, conversavano e ridevano fra loro, criticavano
coloro che le mercanteggiavano. Una o due piangevano, si nascondevano in
un cantone e a gran malincuore ritornavano a mettersi in vista o a sedersi
insieme alle altre. Ne vedemmo condurre via molte, che se ne andavano
contente con il turco compratore, prendendo il loro piccolo fagotto e
coprendosi il viso con i veli bianchi. Fummo testimoni di due o tre atti di
misericordia, che la carità cristiana invidierebbe a quella dei buoni
musulmani. Alcuni turchi comprarono delle vecchie schiave ributtate dalla
casa dei padroni per l’età e le malattie. Domandammo: a che mai potevano
essere utili quelle povere donne? Per piacere a Dio, ci rispose il sensale, e la
guida Morlach mi spiegò che molti musulmani mandavano a comprare al
mercato dei poveri schiavi infermi da nutrire per carità nelle loro case. Lo
spirito di Dio non abbandona mai gli uomini.
Le ultime camere che visitammo erano socchiuse, e battibeccammo un
po’ per poter entrare. In ciascuna non c’era che una schiava, custodita da
una donna: erano giovani e belle circasse appena arrivate dal loro paese.
Vestivano di bianco e possedevano un’eleganza e una civetteria notevole. I
loro bei lineamenti non mostravano né dispiacere né meraviglia, ma una
sdegnosa indifferenza. Queste belle schiave bianche della Georgia e della
Circassia74 sono diventate estremamente rare dopo che le greche non
popolano più i serragli e la Russia ne ha interdetto il commercio. Tuttavia le
famiglie georgiane allevano sempre le loro figlie per questo vergognoso
74 Regione storica del Caucaso.
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mercato, le quali sono condotte via di contrabbando dai sensali. Ognuna di
queste belle creature vale fino a dodici o ventimila piastre (da tre a
cinquemila franchi), mentre le negre di bellezza ordinaria non si vendono
che a cinque o seicento franchi, e le più belle da mille a milleduecento, ma
in Arabia e in Siria se ne potrebbero avere per cinque o seicento piastre,
vale a dire da centocinquanta a duecento franchi. Una fra quelle georgiane
era di una bellezza perfetta: lineamenti delicati e sensibili, occhi dolci e
pensosi, pelle di bianchezza e splendore meravigliosi. Ma la fisionomia delle
donne di quel paese è lontana assai dall’incanto e dalla purezza delle arabe:
si sente il settentrione nelle loro figure. Ella fu venduta, sotto i nostri occhi,
per l’harem di un giovane pascià di Costantinopoli. Uscimmo col cuore
straziato e gli occhi umidi da questa scena, che si rinnova ogni giorno e a
ogni ora nelle città d’Oriente, e tornammo meditabondi al bazar di Stambul.
Ecco che cosa sono le legislazioni immobili! Esse consacrano le barbarie dei
secoli, e danno diritto di legittimità e di antichità a qualunque delitto. I
fanatici del passato sono colpevoli e funesti all’umanità non meno che i
fanatici dell’avvenire. Quelli immolano gli uomini alla loro ignoranza e ai loro
ricordi, questi alle speranze e alla precipitazione. Se l’uomo facesse,
pensasse, credesse ciò che facevano, pensavano, credevano i suoi padri, il
genere umano sarebbe ancora nel feticismo e nella schiavitù. La ragione è il
sole dell’umanità; è l’infallibile e perpetua rivelazione delle leggi divine
applicabili alle società. Per seguirla conviene camminare, sotto pena di
restare nel male e nelle tenebre, ma non conviene precorrerla, sotto pena di
cadere nei precipizi. Comprendere il passato senza rimpiangerlo, tollerare il
presente migliorandolo, sperare l’avvenire preparandolo, questa è la legge
degli uomini saggi e delle istituzioni benefiche. Il peccato contro lo Spirito
Santo è questa lotta di certuni contro il miglioramento delle cose, e
l’egoistico e stupido sforzo per ritenere indietro il mondo morale e sociale,
che Dio e la natura spingono continuamente innanzi. Il passato è il sepolcro
dell’umanità trascorsa; bisogna rispettarlo, ma non chiudersi in esso e
volervi vivere.
I grandi bazar di differenti merci, e principalmente quello delle droghe,
sono lunghe ed ampie gallerie a volta, con marciapiedi e botteghe piene di
ogni sorta di oggetti: armi, finimenti per cavalli, bigiotteria, commestibili,
pellami, scialli delle Indie e della Persia, stoffe dell’Europa, tappeti di
Damasco e di Caramania75, essenze e profumi di Costantinopoli, narghilè e
pipe di ogni forma e magnificenza, ambra e coralli lavorati alla maniera
orientale per fumare il tumbach76, banchi di tabacco sminuzzato o piegato
come fogli di carta gialla, negozi di dolci appetitosi per forma e varietà; bei
magazzini di confetturieri con un’incredibile varietà di confetti, frutta candita
e zuccherini di ogni genere, drogherie da dove esala un profumo che
impregna tutti i bazar, mantelli arabi tessuti d’oro e di pelo di capra, veli di
donna ricamati con lustrini d’argento e d’oro: in mezzo a tutto ciò una folla
75 Provincia interna della Turchia asiatica.
76 Foglie di arnica essiccate.
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immensa, che si rinnova senza sosta, di turchi a piedi, con la pipa in bocca o
in mano seguiti da schiavi, di donne velate accompagnate da negre con dei
bei piccini al collo, di pascià a cavallo che a piccolo passo traversano la folla
accalcata e silenziosa, di carrozze turche, chiuse con graticci dorati e
condotte al passo da cocchieri dalla lunga barba bianca, ricolme di donne,
che di tanto in tanto si fermano per comperare alle botteghe de merciai:
così si mostrano tutti questi bazar. Allineati in fila coprirebbero molte leghe
di lunghezza e, poiché attraversandoli bisogna continuamente spingersi e i
giudei vi si recano a vendere le vesti degli appestati, sono il veicolo più
efficace del contagio. La peste è scoppiata in questi giorni a Pera con cinque
o sei morti, per cui attraversammo con inquietudine questa folla, che
domani può decimarsi.
18
GIUGNO
Giorni passati nella nostra solitudine di Büyükada, avendo sotto gli occhi
il Bosforo e il mar Nero; studio, letture. Alla sera corse in caicco a
Costantinopoli, a Belgrado e nelle incomparabili sue foreste, alla costa
d’Asia, all’imboccatura dell’Eusino77, alla valle delle rose, situata dietro le
montagne di Büyükada. Torno sovente in questa deliziosa valle irrigata da
una fonte, dove i turchi vengono a inebriarsi d’acqua, di fresco, del profumo
delle rose, e dei canti del bulbul o usignolo. Sulla fontana sorgono cinque
alberi immensi, alla cui ombra è un caffè fatto di frasche; al di là la valle,
stringendosi, conduce a un pendio dove due laghetti artificiali, creati con
l’acqua che esce dalla fontana, dormono sotto le ampie volte dei platani. La
sera gli armeni vi siedono con le loro famiglie e cenano. Gruppi deliziosi
stanno intorno ai tronchi con le ragazze che danzano insieme: sono i piaceri
decenti e silenziosi degli orientali. Si vede che l’intimo pensiero gode in se
stesso: essi sentono la natura meglio di noi. In nessun altro luogo l’albero e
la fonte hanno adoratori più sinceri, e c’è simpatia profonda tra le loro
anime e le bellezze della terra, del mare e del cielo. Quando torno la sera da
Costantinopoli in caicco e costeggio la riva d’Europa, al chiaro di luna, c’è
una catena, lunga una lega, di donne, ragazze e bambini seduti silenziosi in
gruppi sull’orlo della lastricata di granito, o sui parapetti dei giardini,
passando ore deliziose a contemplare il mare, i boschi, la luna, e a respirare
la calma notturna. Il nostro popolo non sente più nulla di queste naturali
voluttà, esso ha logorato le sue sensazioni, perciò ha bisogno di piaceri
fittizi e solo il vizio lo può commuovere. Per esso, la natura parla in modo
troppo alto per essere compresa e adorata se non dai visionari e dai poeti.
Miserabili ai quali la voce di Dio nelle sue opere, la natura, l’amore, la
contemplazione silenziosa sono sufficienti.
A Büyükada e a Therapia trovo molte persone di mia conoscenza fra i
russi e i diplomatici: il conte Orlov; il signor Butenev, ambasciatore della
Russia a Costantinopoli e uomo di fascino e morale, filosofo e uomo di
77 Ponto Eusino era l’antico nome greco al Mar Nero.
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stato; il barone Stürmer, internunzio d’Austria, che mi ricolma di bontà 78.
Sono questi i nuovi politici europei. Ora il punto importante sta qui: i Russi
accampati in Asia ed ancorati sotto le nostre finestre, si ritireranno? Io non
ne dubito. Non si ha fretta di pigliare una preda che non può sfuggire. Il
conte Orlov mi fece leggere ieri una missiva dell’imperatore Nicola, il cui
senso era: «Mio caro Orlov, quando la Provvidenza collocò un uomo a capo
di quaranta milioni di uomini, lo fece perché egli desse, dal più alto luogo al
mondo, esempio della probità e della fedeltà alla sua parola. Quest’uomo
sono io. Voglio essere degno della missione ricevuta da Dio. Appena
spianate le difficoltà tra Ibrahim e il Gran Signore, non attendete un giorno,
riconducetemi la mia flotta e il mio esercito»79.
Ecco un linguaggio nobile davvero, una situazione ben afferrata, una
generosità feconda. Costantinopoli non può scappare e la necessità vi
ricondurrà i Russi, che la probità politica ne allontana un momento.
20
GIUGNO
Qui conobbi un uomo amabile e distinto, uno di quelli più forti della loro
sventura e che sfruttano l’onda, destinata ad affogarli, per tornare a riva: il
signor Calosso, un ufficiale piemontese. Compromesso come tanti altri suoi
compagni, nella velleità della rivoluzione militare del Piemonte nel 1820,
proscritto come altri, senza asilo né simpatie in altro luogo, venne in
Turchia. Si presentò al sultano per formare la cavalleria, gli entrò in gran
favore diventandone l’ispiratore militare. Probo, abile e riservato, egli seppe
amministrare tale favore che poteva essergli pericoloso ed esporlo troppo
all’invidia, e la sua modestia e cordialità piacquero ai pascià della Corte e ai
ministri del Divano: si fece amici dappertutto e seppe conservarli come li
aveva acquistati. Il sultano lo elevò in dignità senza chiedergli di abiurare la
patria né il culto. Ora è chiamato Rustem bey da tutti i turchi, per i Franchi
è un compatriota cortese80. A me offrì tutto ciò che la sua familiarità con il
78 Aleksej Fëdorovič Orlov (Orloff) (1786-1861), uomo politico russo, già ambasciatore a
Costantinopoli, nel 1833 negoziò con i Turchi il Trattato di Unkiar-Skelessi (1833).
Apollinarij Petrovič Butenev (Boutanieff) (1787-1866), ambasciatore e ministro
plenipotenziario della Russia presso la Porta fino al 1842. Bartholomäus Stürmer (de
Sturmer) (1787-1863), nativo di Costantinopoli, diventò diplomatico e statista austriaco
nominato ufficialmente internunzio d’Austria a Costantinopoli nel 1834, carica che tenne
fino al 1850.
79 Si fa riferimento al periodo che portò al Trattato di Unkiar-Skelessi (o Hünkiar-Iskelesi).
L’Egitto di Mehmet Ali si rivoltò contro il sultano per strappargli il controllo della Siria e
suo figlio, Ibrahim, sconfisse i Turchi, occupò la Siria e marciò verso Costantinopoli. Le
potenze internazionali, soprattutto i Russi, sostennero i Turchi nel timore che l’Egitto
potesse sconvolgere gli equilibri dell’area balcanica e del Mediterraneo orientale. Con il
trattato di Kuhtaya, Mehmet Ali ottenne il controllo della Siria in cambio della formale
sottomissione al sultano. A sua volta, come contropartita, lo zar fece firmare ai Turchi il
Trattato di Unkiar-Skelessi (1833) che di fatto poneva l’impero ottomano sotto la
protezione della Russia e garantiva che per otto anni lo Stretto dei Dardanelli venisse
chiuso, in caso di conflitto, alle navi da guerra straniere ostili alla Russia.
80 Giovanni Timoteo Calosso nacque a Chivasso nel 1789 e nel 1806 si arruolò nell’esercito
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Divano poteva ottenere: l’accesso ovunque, l’amicizia di alcuni ufficiali, tutte
le informazioni richieste e, tramite suo, potei vedere in lungo e in largo il
serraglio, anche là dove nessuno poté entrare dopo lady Worthley
Montague81. Cercheremo domani di penetrare in quello spazio misterioso,
che non conosce nemmeno lui, ma dove ha ufficiali amici che ci guideranno.
Cominciammo dal far visita a Namuk Pascià, uno dei giovani favoriti del
Gran Signore, che mi aveva invitato a colazione nella sua caserma di Scutari
e mi aveva messo a disposizione i suoi cavalli per visitare le montagne
d’Asia. Namuk Pascià era quel giorno di servizio al palazzo del sultano a
Beylerbeyi sulle rive del Bosforo. Ivi sbarcati, grazie al grado e il favore di
Rustem bey ci lasciarono passare le porte ed esaminare i dintorni della
dimora del Gran Signore. Il sultano si disponeva ad andare alla piccola
moschea di un villaggio europeo al di là dal Bosforo, di fronte a Beylerbeyi; i
suoi caicchi superbamente addobbati stavano legati lungo l’argine del
palazzo, e i suoi stupendi cavalli arabi erano tenuti pronti nella corte dai
palafrenieri82, perché il sultano li montasse nel traversare i giardini.
Entrammo in un’ala del palazzo, divisa dal corpo principale, ove dimorano i
pascià, gli ufficiali di servizio e lo stato maggiore del palazzo. Traversammo
alcune ampie sale, per le quali circolava una folla di militari, di impiegati, di
schiavi; ogni cosa era in movimento come in un ministero o in una reggia
d’Europa in giorno di cerimonia. L’interno di questo palazzo non aveva
magnifici addobbi: divani, tappeti, muri affrescati e specchi erano il solo
ornamento. L’abbandono dei turchi dei loro costumi orientali, il turbante, la
pelliccia, i pantaloni larghi, la cintura e il caffettano d’oro, per uno squallido
vestire europeo, mal tagliato e peggio indossato, ha tramutato l’aspetto
grave e solenne di questo popolo in una meschina parodia dei Franchi. La
stella di diamante che brilla sul petto dei pascià e dei visir è l’unica
decorazione che li distingue e che ricorda l’antica loro magnificenza. Fummo
condotti attraverso molte sale piene di gente, fino a un piccolo salone
affacciato sui giardini esterni del palazzo del Gran Signore. Là ci raggiunse
Namuk Pascià, sedette con noi, ci fece portare pipa e rinfreschi, ci presentò
molti giovani pascià che come lui avevano il favore del padrone. Dei
colonnelli di Nisam83 o delle truppe regolari della Guardia, si unirono a noi e
parteciparono alla conversazione. Namuk Pascià, recentemente tornato dalla
sua ambasciata a Pietroburgo, parlava spedito il francese, aveva le maniere,
francese, dove stette fino al 1815 quando passò nell’esercito sardo prendendo parte ai
moti italiani del 1821. Esiliato, peregrinò fino al 1827 quando, appena giunto a
Costantinopoli, fu prescelto dal sultano come capo-istruttore della cavalleria col nome di
Rustem āghā fino al dicembre dell’anno successivo quando fu elevato alla dignità di bey.
Non si conosce la data della sua morte.
81 Mary Wortley Montagu (1689-1762), moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli,
dove stette dal 1716 al 1718, raccontò gli usi e costumi orientali in forma di minuziose
lettere, pubblicate postume col titolo Turkish Embassy Letters.
82 In francese «saïs», ma sarebbe «sayis». Saïs è sia nome proprio di persona che il nome
greco della città egiziana di Sa el Haggar.
83 Uno dei visir del sultano.
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studiate dai Russi, di un elegante diplomatico europeo, e mi parve spiritoso
e fino. Khalil Pascià, allora capitan-pascià che poi sposò la figlia del sultano,
parla anch’egli bene il francese. Ahmet Pascià è un altro giovane ed
elegante osmanli che somiglia a un europeo. Nel palazzo nulla richiamava
una corte asiatica, se non gli schiavi neri, gli eunuchi, le finestre con le
inferriate degli harem, le belle ombre e le cerulee acque del Bosforo, sulle
quali cascavano i nostri sguardi quando vagavano sui giardini. Parlammo
con discrezione e franchezza dello stato dei negoziati tra Egitto, Europa e
Turchia, dei progressi fatti e da fare dai Turchi nella tattica, nella
legislazione e nella politica delle diverse potenze, relativamente alla Turchia.
Niente nei nostri discorsi avrebbe indicato che discorrevamo di quelli che si
chiamano barbari con dei barbari, e che l’orecchio dello stesso Gran
Signore, di questa ombra di Allah, poteva esser ferito dal mormorio dei
nostri ragionamenti. Essi non sarebbero stati né meno intimi, né meno
profondi, né meno elegantemente sostenuti a Londra o a Vienna. Questi
giovani, bramosi di cognizioni e di progressi, parlavano della loro situazione
e di se stessi con nobile modestia. Avvicinandosi l’ora della preghiera, ci
congedammo per primi dai nostri ospiti, rimandando a un altro momento la
richiesta di essere presentati al sultano. Namuk Pascià ci affidò a un
colonnello della Guardia imperiale, e lo incaricò di dirigerci e introdurci nel
gran cortile della moschea, dove il sultano sarebbe passato. Passammo il
Bosforo e fummo portati sulla gradinata che dà alla porta della piccola
moschea. Dopo pochi minuti sentimmo rimbombare i cannoni della flotta e
dei castelli, i quali annunciano alla capitale, ogni venerdì, che il sultano va
alla moschea, e vedemmo i due caicchi imperiali spiccare dalla costa d’Asia
e fendere il Bosforo come saette. Nessuno sfoggio di cavalli o di cocchi può
paragonarsi al lusso orientale di questi caicchi dorati, le cui prue sporgono,
come aquile d’oro, venti piedi avanti, mentre i ventiquattro rematori alzando
e abbassando a un colpo i lunghi remi, imitano il battere di due grandi ali,
sollevando ogni volta un velo di spuma che avvolge i fianchi del caicco. Poi
vedemmo il padiglione di seta, oro e piume, le cui tende ripiegate lasciano
vedere il Gran Signore seduto sopra un trono di cachemire, con a piedi i
pascià e gli ammiragli. Toccata riva, egli balzò fuori con leggerezza,
appoggiando le mani sull’aquila di Ahmet e di Namuk Pascià. La musica
della sua guardia, raccolta davanti a noi sulla piazza della moschea,
proruppe dalle fanfare, ed egli avanzò rapidamente fra due ali di ufficiali e
spettatori. Mahmud è un uomo di quarantacinque anni, statura media ma
andamento elegante e nobile, dolci occhi blu, tinta bruna, bocca graziosa ed
espressiva; barba nera lucida come ebano che gli scende folta sul petto: è,
quest’ultimo, l’unico resto della moda nazionale, che egli abbia conservato,
perché per il rimanente, tranne per il cappello, potrebbe essere scambiato
per europeo. Portava pantaloni e stivali, una redingote bruna con il colletto
ricamato con diamanti, un berrettino di lana rossa sormontato da una
ghianda di pietre preziose. La sua camminata era a strappi e lo sguardo
inquieto, segno che qualcosa di grave lo preoccupava non poco. Parlava con
forza e commozione ai pascià che lo accompagnavano; quando fu vicino a
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noi, presso la porta, rallentò il passo e ci gettò un’occhiata benevola; inclinò
leggermente il capo, comandò a Namuk Pascià di prendere la supplica che
una turca velata gli tendeva ed entrò nella moschea. Non vi restò che venti
minuti e durante quel tempo la banda militare eseguì pezzi d’opera di
Mozart e di Rossini. Uscì poi col viso più aperto e sereno, salutò a destra e
sinistra, si avviò gravemente al mare e, sorridendo, balzò nella sua barca,
che in un batter d’occhi fu sulla riva asiatica, e lo vedemmo entrare nei
giardini di Beylerbeyi. Non si può guardare Mahmud senza esserne toccati e
far voti segreti per un principe i cui lineamenti rivelano una maschia vigoria
e una profonda sensibilità. Ma ahimè! questi voti ricascano sul cuore quando
si pensa al fosco avvenire che l’attende. Se fosse un vero grand’uomo,
cambierebbe il suo destino, e vincerebbe la fatalità che l’avvolge. C’è tempo
ancora: finché un popolo non è morto, c’è in esso, c’è nella sua religione e
nella sua nazionalità un principio d’energia e di risurrezione che un genio
abile e forte può fecondare, sommuovere, rigenerare, e condurre a una
gloriosa trasformazione; ma Mahmud non è un grand’uomo che per il cuore.
Intrepido a combattere e morire, la molla della sua volontà si fiacca quando
bisogna operare e regnare. Qualunque sarà la sua sorte84, la storia lo
compiangerà e onorerà. Egli ha tentato grandi cose: comprese che il suo
popolo suo sarebbe morto se non lo trasformava, e diede di falce sui rami
morti. Se non è capace di dare il succo e la vita a ciò che resta del tronco
sano e vigoroso, la colpa è sua? Io penso di sì. Quel che restava da fare era
un nulla rispetto alla distruzione dei giannizzeri: niente opponeva resistenza
in Turchia e l’Europa timida e cieca lo favoriva con la sua vigliacca inerzia.
Dei bei momenti sono stati perduti e gli anni sono passati. L’audace Ibrahim
volse a suo favore l’impopolarità del sultano. La Russia fu accettata come
protettrice: e questa protezione vergognosa d’un nemico naturale contro lo
schiavo ribellato indignò l’islamismo. A Mahmud non resta altro che il suo
coraggio personale. Attorniato da cortigiani e traditori, una sommossa può
rovesciarlo dal trono e gettare l’impero in un’anarchia finale. La Turchia è
attaccata alla vita di Mahmud; lui e l’impero finiranno lo stesso giorno.
Grande e fatale destino di un principe che strascina con sé le due più belle
metà dell’Europa e dell’Asia!
21
GIUGNO
Alle undici approdammo alla scala del vecchio serraglio ed entrammo
nelle vie che lo recingono. Passando, visitai il Divano della Porta, un vasto
palazzo dove risiede il Gran visir e si discute la politica dell’impero: è
notevole soltanto per l’impressione delle scene di cui questo luogo fu il
teatro, nulla nel carattere dell’edificio ne ricorda i drammi sanguinosi. È un
gran palazzo in legno dipinto, con una scala esterna, coperto da una gronda
tagliata a festoni a modo di India e Cina; le sale sono nude, con stuoie in
terra. Di là scendemmo nella piazza, dove la spaventevole porta del
84 Mahmud II morì di tubercolosi nel 1839.
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serraglio si aperse tante volte per vomitare le teste insanguinate dei visir o
anche dei sultani. Noi la passammo senza ostacolo potendo chiunque
entrare nella prima corte del serraglio, la quale, piantumata di begli alberi,
scende sulla sinistra verso una magnifica zecca moderna, senza alcun
carattere orientale. Gli armeni, responsabili della moneta, ci ricevettero e
apersero le cassette dov’erano chiusi i gioielli che fanno fabbricare pel
serraglio: una pioggia di perle e diamanti, ricchezze povere, che rovinano
un impero! Quando uno Stato si civilizza, queste rappresentazioni ideali
della ricchezza si cambiano in ricchezza reale e produttiva, terreni e credito.
Vi resto poco: entriamo nell’ultima corte del serraglio, inaccessibile a tutti
eccetto gli impiegati del serraglio e gli ambasciatori nel giorno che vengono
ricevuti. È cinta da molte ali di palazzi, da chioschi, separati gli uni dagli
altri, dagli alloggi degli eunuchi, delle guardie, degli schiavi. Fontane e alberi
diffondono fresco e ombra. Giunti alla terza porta, i soldati di guardia sotto
la volta si rifiutarono ostinatamente di lasciarci entrare. Per quanto Rustem
bey si fosse fatto riconoscere dall’ufficiale turco che comandava, il quale
oppose la sua consegna e gli disse che ci avrebbe rimesso la testa se mi
lasciava passare. Mortificati tornavamo indietro, quando ci si accostò il
kesnedar, o gran tesoriere, che tornando dalla zecca, entrava nel serraglio
dove alloggia. Amico di Rustem bey, l’avvicinò e, informato della causa del
nostro impaccio, ci disse di seguirlo e ci introdusse senza alcuna difficoltà
nella corte degli icoglan85. Questa corte, meno vasta della prima, è
composta da molti palazzotti a forma di chioschi, con tetti molto bassi, che
sporgono sette od otto piedi, sostenuti da colonnette o pilastrini moreschi di
legno intagliato e variopinto. Le corti e i giardini, irregolarmente formati
negli interstizi dei chioschi distribuiti, sono irregolarmente disseminati di
alberi bellissimi e molto vecchi, i cui rami ricascano sopra gli edifici
avvolgendo tetti e terrazze. L’ala destra di queste fabbriche è per le cucine,
immense, di cui i numerosi camini e i muri esterni affumicati denunciano la
destinazione. Per farsi un’idea della grandezza di questa edificio, basti
sapere che il sultano dà da mangiare a tutte le persone addette alla corte e
al palazzo, ossia ad almeno diecimila commensali ogni giorno. Poco più
avanti delle cucine, è un bel palazzotto cinto da una galleria o portico al
piano terreno, dove stanno gli icoglan, o paggi del serraglio, e dove il Gran
Signore fa allevare e istruire i figli delle famiglie della sua corte e i giovani
schiavi destinati agli impieghi del serraglio o dell’impero. Questo palazzo,
dove un tempo vi abitavano gli stessi sultani, è decorato, dentro e fuori, con
una profusione di intagli, di sculture e di rilievi dorati, non senza buon
gusto. I soffitti sono anch’essi ricchi, quanto quelli dei più bei palazzi d’Italia
e di Francia, e i pavimenti sono a mosaico. È ripartito in più sale di
grandezza quasi eguale, ingombre a destra e a sinistra di nicchie e di sedili
in legno intagliato, tipo gli stalli, meglio lavorati, dei cori delle nostre antiche
cattedrali. Ognuna di queste sale è la camera di un icoglan e ha sul fondo
85 L’icoglan, dal turco iç oğlan, è un giovane ufficiale della guardia del palazzo del sultano,
detto anche “paggio”.
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una pedana, dove egli ripiega cuscini e tappeti e dove appende o chiude i
vestiti in un baule di legno dorato. Sopra questi stalli scorre una specie di
tribuna, sporgente, ornata e decorata, e divisa al modo stesso, che chiude
altrettante sedie quante la sala sottostante. Tutto è illuminato da cupole e
piccole finestre poste alla sommità dell’edificio. I giovani icoglan, che erano
tutti vecchi allievi di Rustem bey, lo ricevettero con una viva dimostrazione
di gioia e d’affetto, come un padre per lungo tempo atteso. Il buon cuore di
questi ragazzi lo toccò fino alle lagrime, e io stesso era commosso da questi
segni così spontanei e franchi d’affetto e riconoscenza: gli stringevano la
mano, baciavano le falde della sua palandrana.
«Rustem bey! Rustem bey!» gridavano gli uni agli altri, e tutti gli
correvano incontro palpitanti, arrossendo per l’emozione e il piacere.
«Perché ci avete abbandonato per così tanto tempo?» soggiungevano. «Voi
siete nostro padre, languiamo senza di voi. Tutto quello che sappiamo lo
dobbiamo a voi. Allah e il sultano vi mandarono per farci uomini, mentre
non eravamo che schiavi e figli di schiavi. Il nome degli Osmanli era
un’ingiuria, uno scherno in Europa: ora sapremo difenderlo e onorarlo. Ma
dite al sultano che vi rimandi qui, noi non studiamo più, ci struggiamo di
tedio e di tristezza». Cinque o sei giovani, d’aspetto dolce, franco,
intelligente e pregevole, ci presero per mano, guidandoci dappertutto.
Quindi ci ricondussero nella sala di ricreazione, che è un chiosco cinto di
fontane, che sgorgano dai muri in vasche di marmo; dei divani sono disposti
intorno; una scala, nascosta nello spessore del muro, conduce agli uffici,
dove molti schiavi, agli ordini degli icoglan, tengono sempre pronto il fuoco
per le pipe, il caffè, i gelati, l’acqua e il ghiaccio. C’è ogni sorta di giochi e
molti si divertivano agli scacchi. Ci fecero portare sorbetti e gelati, e coricati
sul divano discorremmo a lungo dei loro studi e dei progressi, della politica
europea, del destino dell’impero. Ne parlavano a meraviglia, fremevano di
indignazione per il loro stato attuale, e facevano voti per i successi del
sultano nelle innovazioni intraprese. Non ho mai visto un tale ardore per la
rigenerazione di un paese, quanto quello che infiammava gli occhi e le
parole di questi giovani: i giovani italiani, quando si parla di indipendenza e
di lumi, non palpitano come costoro. Le loro figura irraggiano mentre
parliamo con loro. I più anziani potevano avere venti-ventidue anni, i più
giovani dodici o tredici. Eccetto l’ospizio militare degli orfani della marina a
Greenwich, non ho mai veduto persone più ammirabili di alcuni fra questi
ragazzi. Non volevano più lasciarci partire e ci accompagnarono fin dov’era
loro permesso, in tutti i giardini, le corti e i chioschi intorno. Uno o due di
loro erano in lacrime al momento di lasciare Rustem bey. Intanto il kesnedar
aveva dato ordine agli eunuchi ed ai guardiani dei giardini e dei palazzi di
lasciarci girare ovunque desiderassimo. In fondo alla corte, un po’ più in là
del palazzo degli icoglan, un altro grande edificio ci chiudeva la vista e il
passaggio ed era quello ove abitano gli stessi sultani: esso è recitato, come
i chioschi e i palazzi appena visitati, da una galleria formata dall’aggetto dei
tetti, sopra la quale si aprono le innumerevoli porte e finestre degli alloggi.
Il palazzo non ha che il piano terreno. Entrammo nelle grandi sale che
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servono da vestibolo e danno accesso a varie camere; il vestibolo ha forma
regolare, ma è un labirinto con pilastri che sorreggono tetti e soffitti e
creano vasti androni circolari di servizio agli alloggi. Pilastri, solai, muri,
tutto è di legno dipinto e scolpito con ornamenti moreschi. Le porte delle
camere imperiali erano aperte; ne vedemmo molte ed erano tutte
abbastanza simili tra loro per disposizione e decorazione dei soffitti a stucchi
e dorature. Delle cupole di legno o di marmo, arabescate e traforate, dei
divani spaziosi e bassi presso le pareti, nessun altro mobile né sedile,
soltanto tappeti, stuoie e cuscini. Le finestre, alte mezzo piede dal
pavimento, erano aperte e si affacciano sulle corti, sulle gallerie e sui
giardini: è tutto. Dal lato opposto a quello per il quale eravamo entrati,
domina una piattaforma a terrazza di pietra, pavimentata con lastre di
marmo. Un bel chiosco, dove il sultano riceve gli ambasciatori, è separato
dal palazzo di alcune tese86, elevato alcuni piedi sopra la piattaforma e
somigliante a una cappelletta moresca. Un divano lo riempie, delle finestre
circolari lo circondano: il panorama di Costantinopoli, del porto, del mar di
Marmara e del Bosforo che vi si gode è libero e stupendo. Fontane di marmo
sgorgano sotto la galleria aperta fra questo chiosco e il palazzo, che è una
deliziosa passeggiata: gli arbusti e le rose dei piccoli giardini che coprono i
terrazzini inferiori si arrampicano sulle balaustre e ricoprono il palazzo.
Alcuni pannelli, di marmo o di legno, sono sospesi alle pareti e
rappresentano vedute della Mecca e di Medina che guardai con curiosità:
sono come piani senza prospettiva, perfettamente conformi a ciò che Ali
bey87 riferisce della Mecca, della Kaaba e della disposizione dei diversi
monumenti sacri della città santa: ciò prova che questo viaggiatore li vide
realmente. Infatti, quello che racconta sulla galleria circolare che circonda
l’area delle diverse moschee è attestato da questi pannelli. Si vede anche
questo portico che ricorda quello di San Pietro a Roma.
Seguendo la piattaforma del palazzo a sinistra, si arriva, per uno stretto
balcone sostenuto da un’alta terrazza, all’harem o palazzo delle sultane. Era
chiuso, né vi restava che un piccolo numero di odalische. Non ci
avvicinammo a questo luogo interdetto alla vista; vedemmo solamente le
finestre con le inferriate e i deliziosi balconi anch’essi chiusi da tralicci e
persiane intrecciate di fiori, dove le donne passano le giornate a
contemplare i giardini, la città e il mare. Attorno a noi era una moltitudine di
aiuole circondate da muri di marmo irrorati con getti d’acqua, e coltivate
con cura e simmetria con tutti i tipi di fiori profumati e con arbusti. Questi
giardini, ai quali si accede scendendo delle scale, comunicano tra loro e
hanno talvolta degli eleganti chioschi dove le donne e i bambini dell’harem
passeggiano e godono la natura.
Eravamo giunti dove il serraglio comincia a ridiscendere verso il porto e il
86 Al tempo di questo scritto, la tesa francese era pari a 2 metri.
87 Ali Bey al-Abbasi, forse identificato in Domingo Badia y Leblich (1766-1818), era un
esploratore spagnolo che fu testimone della conquista della Mecca nel 1807 e descrisse il
Nord Africa e la Turchia.
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mar di Marmara. È il posto più elevato di questo sito unico al mondo e da lì
l’occhio domina tutte le colline e i mari di Costantinopoli: ci fermammo a
lungo per goderne. È l’inverso della vista che ho descritto dall’alto del
belvedere di Pera. Nel tempo che eravamo sulla terrazza del palazzo, era
suonata l’ora del pasto, così vedemmo passare un gran numero di schiavi
che portavano sul capo dei grandi vassoi di stagno con i pasti degli ufficiali,
degli impiegati, degli eunuchi e delle donne del serraglio. Assistemmo a
molti di questi pasti, consistenti in pilau, volatili, cubè (pallottole di riso e
carne tritata arrostita entro un pampino), gallette di pane e una brocca
d’acqua. Dovunque lo schiavo si imbatteva nel padrone, lì apparecchiava, a
volte in un angolo di una stanza del palazzo, a volte sulla terrazza coperta,
a volte nei giardini sotto gli alberi vicino a un getto d’acqua.
Il kesnedar venne a cercarci e ci condusse nel chiosco dove alloggia, di
fronte al tesoro del serraglio. Questo tesoro, dove si sono seppellite le
incalcolabili ricchezze dalla creazione dell’impero in poi, è una gran fabbrica
di pietra, preceduta da un portico aperto. L’edificio è ben poco elevato da
terra; basse sono le porte e le camere sotterranee. Grandi bauli di legno
dipinti di rosso contengono monete d’oro e d’argento, da cui si toglie ogni
anno una certa somma per le occorrenze dell’impero. Non domandammo di
entrare, ma dicono che, oltre ai contanti, racchiuda mucchi di perle e
diamanti88; cosa verosimile, attesa l’usanza dei sultani di deporne sempre, e
non trarne che nelle massime necessità dello Stato. Ma essendo il valore
delle pietre meramente convenzionale, se il Gran Signore volesse venderle,
ne diminuirebbe il prezzo per la profusione che spargerebbe in commercio,
cosicché questa risorsa che pare immensa per le sue finanze, è quasi nulla.
Il kesnedar, persona schietta e spiritosa, mi introdusse nel suo
appartamento. Vi trovai, per la prima volta in Turchia, un po’ del lusso e
delle comodità francesi: i divani erano alti e coperti di cuscini di seta,
c’erano tavoli e scansie di legno intorno alla camera, su cui stavano registri,
libri, carte geografiche e un mappamondo. Ci offrì dei dolci e parlammo
delle arti e delle scienze d’Europa, paragonandole allo stato delle cognizioni
umane nell’impero ottomano. Il kesnedar mi apparve piuttosto istruito e
spregiudicato quanto un europeo. Capiva tutto: desiderava il successo di
Mahmud nei suoi tentativi di miglioramento, ma, essendo vecchio e avendo
passato la vita in impieghi confidenziali nel serraglio sotto quattro sultani,
non mostrava grandi speranze e se ne rassegnava filosoficamente.
Conduceva una vita solitaria e tranquilla nel fondo del serraglio
abbandonato. Mi interrogò a lungo su tutto: filosofia, religione, poesia, fede
in Europa, regimi nei diversi stati, sia monarchici che repubblicani, politica,
tattica, e tutto egli esaminò con una rettitudine di mente, una tempestività
e un senso di riflessione che mi mostrarono a sufficienza che avevo a che
fare con uno degli uomini più illustri dell’impero. Mi portò una palla e il
mappamondo e volle che gli spiegassi il movimento dei corpi celesti e le
divisioni della terra. Prese nota di tutto e sembrava contento. Mi pregò di
88 Oggi visionabili nel museo del Palazzo Topkapi.
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accettare di cenare con lui e di trascorrere là la notte. Con gran difficoltà
resistemmo alle sue suppliche, e non potei esimermi dal dire che mia moglie
e i miei amici si sarebbero molto preoccupati non vedendomi tornare. Mi
disse: «In effetti voi siete il primo franco che sia mai entrato e questa è una
ragione per cui siete trattati da amico. Il sultano è grande e Allah è per
tutti!» Ci accompagnò fino alle scalinate interne che scendevano dalla
piattaforma del palazzo del sultano, attraverso il dedalo dei giardinetti
dell’harem, di cui ho già parlato, e ci affidò alla cura di un capo dei bostangi,
che ci portò, di chiosco in chiosco, di aiuola in aiuola, tutte coperte di fiori e
cosparse di fontane, fino alla porta di un’alta muraglia che separa i palazzi
interni del serraglio dai grandi giardini esterni. Là ci trovammo ai piedi di
enormi platani che si elevano a più di cento piedi d’altezza contro i muri e i
balconi dell’harem. Questi alberi formano una foresta e dei gruppi
intervallati da prati verdi, più lontano ci sono alberi da frutto e grandi orti
coltivati da schiavi negri, che hanno le loro capanne sotto gli alberi, e irrigati
da ruscelli. Poco lontano dall’harem è un antico e magnifico palazzo di
Bayezid abbandonato ai gufi e alle lucertole: è di pietra e di una mirabile
architettura araba. Lo si restaurerebbe facilmente e varrebbe più di tutto il
serraglio, ma la tradizione lo dice popolato di maligni spiriti e giammai un
osmanlo vi penetrerebbe. Appena soli, passai sotto uno o due archi
sotterranei di questo bel palazzo, ingombro di detriti e pietre. Potei vedere i
muri e le scale e mi sembrarono egregiamente lavorati. Da lì, vicino a una
delle porte delle mura del serraglio, tornammo indietro, sempre sotto un
bosco di platani, sicomori e cipressi tra i più grandi che abbia mai visto, e
facemmo il giro dei giardini esterni.
Giungemmo in riva al mar di Marmara, ove sono due o tre palazzi
stupendi, abitati dai sultani in estate, i cui alloggi danno sulla corrente del
canale e sono rinfrescati di continuo dalla brezza. Più in là, su colline erbose
si trovano piccole moschee, chioschi e vasche d’acqua dai bordi di marmo e
ombreggiati da alberi giganteschi. Ci sedemmo tra i fiori e i getti d’acqua
mormoranti, con le alte mura del serraglio dietro di noi e, davanti, un
erboso pendio che finiva in mare. Tra il mare e noi c’era una cortina di
cipressi e di platani, che circondano le mura di cinta, attraverso la quale
apparivano i flutti del mar di Marmara, le isole dei principi, i vascelli alla
vela, Scutari imporporata dai raggi del sole al tramonto, le cime dorate delle
montagne dei Giganti e quelle nevose dei monti di Frigia: un quadro divino.
Tale è l’interno di questa misteriosa dimora, la più bella del mondo: teatro di
tanti drammi sanguinosi, dove l’impero ottomano nacque e crebbe, ma dove
non vuole morire, giacché Mahmud, uccisi i giannizzeri, non l’abita più.
Uomo di costumi dolci e voluttuosi, lo ripugnano queste macchie di sangue
del suo regno. Fors’anche non vi si trova sicuro in mezzo alla fanatica
popolazione di Stambul, e preferisce avere un piede sull’Asia e uno sulla
flotta, nei trenta palazzi delle rive del Bosforo. La caratteristica generale di
questa mirabile dimora non è la grandezza, né la comodità, né la
magnificenza, essendo tanti padiglioni di legno dorati e traforati, ma
rispecchia il carattere del popolo turco: intelligenza e amore della natura.
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Quest’istinto per i bei siti, i mari sfolgoranti, le ombre, le fonti, gli orizzonti
immensi, limitati dalle cime innevate delle montagne, è l’istinto
predominante di questa popolazione, in cui si ravvisa la memoria di un
popolo pastore e agricoltore, che ama richiamare la propria origine e i cui
gusti sono semplici ed istintivi. Tale popolo collocò il palazzo dei suoi
padroni, il capo della città imperiale, sul pendio della più bella collina che
abbia l’impero e forse tutto il mondo. Questo palazzo non ha né il lusso
interiore, né le misteriose voluttà di un palazzo d’Europa, ma solo vasti
giardini, dove liberi ed eterni crescono gli alberi come in una foresta
vergine, dove le acque mormorano, dove tubano le colombe; le camere
forate di finestre sempre aperte, le terrazze librate sopra i giardini e sul
mare, i chioschi coi reticolati dove i sultani, seduti dietro le persiane,
possono godere e la solitudine e l’incantevole aspetto del Bosforo. Così è
dappertutto in Turchia. Padrone e popolo, grandi e piccoli, non hanno che un
bisogno, che un sentimento, nella scelta e nella distribuzione delle loro
dimore: far gioire gli occhi sulla vista di un bell’orizzonte, oppure, se la
situazione e la povertà delle loro case non lo permette, avere almeno un
albero, degli uccelli, un montone, delle colombe in un angolo di terra
attorno alla loro casupola. Perciò, dovunque è un sito elevato, sublime e
grazioso collocano una moschea, un santone, una capanna. Non c’è un sito
del Bosforo, un colle, un golfo ridente della costa d’Asia e d’Europa dove un
pascià o un visir non abbia fabbricato una villa e un giardino. Sedersi
all’ombra, di fronte a un magnifico orizzonte, sotto bei rami frondosi, una
fontana vicino, la campagna o il mare sotto gli occhi, e là passare le ore e i
giorni nell’inerzia di una contemplazione vaga e inarticolata, tale è la vita
del musulmano; ciò spiega la scelta e la disposizione delle loro dimore e
anche perché questo popolo rimanga inattivo e silenzioso finché le passioni
non lo sollevino, e gli rendano il natio vigore, che lascia dormire dentro se
stesso senza però perderlo mai. Non è loquace come l’arabo, non fa gran
conto dei piaceri dell’amor proprio e della società, quelli della natura gli
sono sufficienti: egli sogna, medita e prega. È un popolo di filosofi, che trae
ogni cosa dalla natura e rapporta tutto a Dio. Dio è continuamente nel suo
pensiero e nella sua bocca, non come un’idea sterile, ma come una realtà
palpabile, evidente, pratica. La sua virtù è la perpetua adorazione della
volontà divina, il suo dogma la fatalità. Con questa fede si conquista il
mondo, e lo si perde con la stessa facilità, con la stessa calma.
Usciti dalla porta che dà sul porto, entro nel bel chiosco sull’argine, dove
il Sultano viene a sedersi quando le sue flotte, partendo o tornando da una
spedizione, salutano il loro signore.
22
GIUGNO
Due miei amici mi lasciano e partono per l’Europa; io resto solo a
Büyükada con la mia donna e il signor Capmas.
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25
GIUGNO
Passati due giorni a Belgrado, villaggio in mezzo all’omonima foresta, a
quattro leghe da Costantinopoli: è una foresta immensa di querce, che
copre alcune colline situate fra il Bosforo e il mar di Marmara, a pari
distanza fra i due, e si prolunga quasi ininterrotta sino ai Balcani. È un sito
assai selvaggio e tanto grazioso quanto nessun bosco d’Inghilterra, con il
suo bel villaggio greco costruito in un largo vallone in mezzo alla foresta,
prati arcadici, un fiume che scorre sotto le querce, magnifici laghi artificiali
scavati nel bacino delle alte colline per alimentare le fontane di
Costantinopoli. Ricevemmo ospitalità dai signori Aléon, banchieri francesi a
Costantinopoli da generazioni che hanno una deliziosa villa a Büyükada e un
casino di caccia nel villaggio di Belgrado. È una bella famiglia, dove
l’eleganza dei costumi, l’elevazione dei sentimenti, la cultura e lo spirito
sono associati alla grazia e alla semplicità affettuosa dell’Oriente. A
Costantinopoli trovo un’altra compagnia francese nel signor Salzani, fratello
del mio banchiere a Smirne, uomo buono, di cuore e di spirito, che ci tratta
come amici e connazionali. In generale la società franca a Costantinopoli,
composta di ufficiali, ambasciate, consolati, famiglie di dragomanni e di
negozianti d’ogni nazione europea, è molto superiore alla fama che gode.
Costituita in piccole città, essa ha di queste i difetti, i pettegolezzi, le gelosie
irritanti, ma ha probità, istruzione, eleganza, ospitalità graziosa e cordiale
per ogni straniero. Sono informati sull’Europa come a Vienna e Parigi;
partecipano fortemente al movimento vitale che agita l’Occidente; ci sono
uomini di merito, e donne graziose e di elevate virtù. Ho visto qualche
circolo a Pera, a Therapia e a Büyükada, che avrebbe potuto far credere di
trovarsi in una delle più belle sale delle maggiori città d’Europa, quando non
si fossero gettati gli occhi sul Bosforo, o sul Corno d’oro, a piedi dei giardini,
tra il fogliame.
29
GIUGNO
Corsa alle Acque Dolci d’Europa. In fondo al porto di Costantinopoli, le
colline di Eyüp e quelle su cui sono Pera e Galata, si avvicinano
insensibilmente, non lasciando che un braccio di mare fra le due rive. A
sinistra si distende il sobborgo di Eyüp con la sua moschea, dove i sultani,
quando salgono al trono, vanno a cingere la spada di Maometto, sacra di
sangue, consacrazione della forza, religione del dispotismo musulmano89. La
89 La moschea di Eyüp è ritenuta, dopo la Mecca e Gerusalemme, il terzo luogo sacro ai
pellegrini islamici, perché vi è sepolto il portabandiera e braccio destro del profeta
Maometto, Eyüp-ül-Ensârî-Halit Bin Zeyd, ucciso durante il primo assedio di Costantinopoli
da parte degli Arabi nel 669. Durante la conquista della città (1453), si racconta che
Mahmud II sognò il luogo dove era stato sepolto Eyüp e, in effetti, fu trovata la tomba,
sopra la quale fu costruita la moschea. Qui, ogni volta che saliva al trono un sultano, si
svolgeva la cerimonia del conferimento della spada e il nuovo eletto si cingeva della spada
di Osman, simbolo del califfato.
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moschea sovrasta graziosamente le case dipinte del sobborgo, e la cima dei
suoi minareti si confonde all’orizzonte con le alte muraglie greche diroccate
di Costantinopoli. In riva al canale, un bel palazzo delle sultane è lambito
dalle onde, al cui livello sono le finestre, mentre le folte chiome degli alberi
del giardino dominano il tetto e si riflettono nel mare. Di là il mare non è più
che un fiume tra due tappeti erbosi e tra colline, giardini e selve. Alcuni
pastori bulgari suonano la zampogna, seduti sulle rocce, custodendo branchi
di cavalli e di capre. Infine il fiume non è più che un ruscello, di cui i remi
dei caicchi toccano le due rive, e dove radici di superbi olmi, crescendo tra
esse, impacciano la navigazione. Un’ampia prateria ombreggiata da platani
si estende a destra, mentre a sinistra sono dossi boscosi e verdeggianti; in
fondo l’occhio si perde fra colonnati vasti e irregolari di alberi, che
ombreggiano il ruscello e serpeggiano con esso. Così finisce il bel porto di
Costantinopoli, così finisce il vasto, bello e tempestoso Mediterraneo. Vi
arenate in un’ansa ombrosa, in fondo a un golfo di vegetazione, sopra un
banco d’erba e di fiori, lontano dal rumore e dal movimento del mare e della
città. Oh, quanto finirebbe bene una vita d’uomo che terminasse così! Tale
esito Dio conceda ai miei amici che oggi si affannano e brillano nella mischia
cittadina! Silenzio dopo il fragore, dolce oscurità dopo il gran giorno, riposo
dopo l’agitazione: un nido di ombra e solitudine per riflettere sulla vita
passata e morire in pace e in amicizia con la natura e gli uomini. Per quanto
mi riguarda, io più non faccio voti, neanche di chiedere questo: la mia
solitudine non sarà né così bella, né così dolce.
Smontato dal caicco, seguii il ruscello fino a un chiosco che biancheggia
tra gli alberi. A ogni tronco vedo un gruppo di donne turche e armene,
attorniate da bei bambini che giocano sull’erba, prendere il loro pasto
all’ombra. Dei cavalli dalle selle superbamente bardate, e degli arabà,
carrozze di Costantinopoli tirate da buoi, stanno disperse sul prato. Il
chiosco è preceduto e circondato da un canale e da specchi d’acqua, dove
nuotano i cigni. I giardini sono piccoli, ma tutto il tappeto erboso è un
giardino. In questo luogo va spesso d’estate l’attuale sultano, perché
piaceva alla sua odalisca favorita. L’amore aveva trovato posto nel suo
cuore dopo la carneficina dell’Atmeidan e, tra le sensualità dell’harem, la
bella odalisca morì qui. Da allora Mahmud ha abbandonato questo bel luogo,
ma spesso, si dice, va a visitare la tomba dell’odalisca. Giornata passata in
fondo alla vallata, all’ombra degli alberi. Versi scritti a V…
3
LUGLIO
Mi sono imbarcato stamattina per Costantinopoli, ho risalito il Bosforo,
sono entrato nel mar di Marmara e, dopo aver seguite per due ore le mura
esterne che separano Stambul da questo mare, sono sceso ai piedi del
castello delle Sette Torri. Non avevamo né teskeré90, né guida. I soldati
turchi, dopo molte difficoltà, ci lasciarono entrare nella prima corte di quel
90 Passaporto.
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castello di sangue, dove i sultani detronizzati erano trascinati dalla plebaglia
e aspettavano la morte, che non tarda mai quando il popolo è insieme
giudice e boia. Sei o sette teste d’imperatori decapitati ruzzolarono per i
gradini di questa scala; migliaia di teste meno illustri coprirono i merli di
questa torre. Il guardiano si rifiuta di farci entrare, ma poi va a chiedere
ordini al comandante del castello. Nel frattempo, si socchiude la porta di
una sala bassa e a volta nella torre orientale. Faccio qualche passo, sento
un ruggito che fa vibrare la volta e mi trovo faccia a faccia con un superbo
leone incatenato che si slancia sopra un bel levriero che mi seguiva e che a
malapena riesce a scappare e a rifugiarsi tra le mie gambe. Mi ritrassi e
chiusi la porta. Il guardiano venne a dirci che ci avrebbe rimesso la testa se
noi avessimo proceduto oltre, perciò uscii da una porta delle antiche mura
che scende nella campagna. Le mura di Costantinopoli nascono al castello
delle Sette Torri, sul mar di Marmara, e si stendono fino alla sommità delle
colline che coprono il sobborgo di Eyüp verso l’estremità del porto, alle
Acque Dolci d’Europa, cingendo così tutta l’antica città degli imperatori
greci, e la città di Stambul degli imperatori turchi dal solo lato del triangolo
non protetto dal mare. Da questo lato niente proteggerebbe la città, se non
i pendii insensibili delle sue colline che muoiono in una bella piana coltivata.
Là fu eretto la triplice fila di mura che respinse tanti assalti, e dietro la
quale il miserabile impero greco si credette a lungo sicuro. Quelle mirabili
mura sussistono tuttora e sono, dopo il Partenone e Baalbek, le più
maestose rovine che attestino il posto di un impero. Stamattina le ho
seguite all’esterno. Si tratta di terrazzamenti in pietra, da cinquanta a
sessanta piedi d’altezza, e talvolta da quindici a venti piedi di larghezza,
rivestiti di pietra da taglio di un bel colore grigio chiaro e spesso
interamente bianco, e appena lavorato con lo scalpello. Sono separati da
fossati, ricolmi di detriti e rigogliosi vegetali, dove gli alberi e i rampicanti
hanno messo radici da secoli, forniscono uno specchio impenetrabile. C’è
una foresta vergine di trenta o quaranta piedi di larghezza, piena di nidi di
uccelli e abitata da rettili. A volte essa nasconde completamente le pareti
laterali e le torri quadrate che la fiancheggiavano oppure non permette di
vedere che i crinali elevati. Sovente la muraglia riappare in tutta l’altezza e
riverbera, con un bagliore dorato, i raggi del sole. È merlata e in alto, dalle
brecce di tutte le forme, scende la vegetazione come nei canaloni di
montagna, e va a confondersi con quella dei fossati, e la vite e l’edera
formano cordoni, capitelli e volute. Qua e là dentro le torri, tra le pietre e la
polvere, fa capolino un platano o un cipresso che intreccia le proprie radici
attraverso le fessure del piedistallo. Il peso dei rami e delle foglie, l’aria e il
vento, che continuamente spira sugli alberi, fanno inclinare i loro tronchi
verso mezzogiorno, cosicché essi pendono come alberi sradicati con il loro
gran carico di nidi e di uccelli. Ogni tre o quattrocento metri troviamo una
delle torri accoppiate, una magnifica costruzione, con le enormi volte di una
porta o di un arco antico tra le torri. La maggior parte di queste porte sono
oggi murate e la vegetazione, che ha invaso tutto, muri, porte, mura
merlate, torrette, forma in ogni recesso i più bizzarri e begli accoppiamenti
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con le rovine e le opere dell’uomo. Ci sono fasci di edera che scendono dalla
sommità delle torri, come pieghe di un ampio mantello; ci sono le liane che
formano dei ponti verdi che si inarcano per cinquanta piedi da un arco
all’altro; ci sono tappeti di violacciocche disseminati sui muri perpendicolari
che il vento fa oscillare senza sosta come ondate di fiori; ci sono migliaia di
arbusti formanti degli spazi punteggiati di foglie e di colori diversi. Da là
escono nuvole di uccelli quando si lancia un sasso contro quel muro verde o
nel profondo delle macchie che sono alla loro base. Abbiamo visto anche un
numero notevole di aquile che là trovano rifugio, vivono nelle torri, volano
tutto il giorno al sole sopra i nidi, nutrono i piccoli e così via.
LUGLIO
Sempre la stessa vita solitaria a Büyükada, e la sera sul mare e nella
valle delle rose. Visite del signor Truqui tutte le settimane. Solo i cuori buoni
posseggono la virtù che consola, Dio ha dato loro una cosa unica che è
miracolosa per le ferite incurabile del cuore: la simpatia.
Ieri il conte Orlov, comandante della flotta e dell’esercito russo e
ambasciatore straordinario della Russia presso la Porta, ha celebrato il suo
successo e la sua partenza con una festa militare sul Bosforo dedicata al
sultano. I giardini dell’ambasciata russa a Büyükada coprono i pendii
boscosi di una montagna che chiude il golfo, e di cui il mare bagna la base.
Dalle terrazze del palazzo si gode la vista del Bosforo nel suo doppio corso
verso Costantinopoli e verso il mar Nero. Tutto il giorno il cannone della
flotta russa, ancorata a piedi dei giardini, davanti alle nostre finestre, ha
rimbombato ogni minuto, e gli alberi pavesati si confondevano con la
verdura delle grandi piante delle due rive. Sin dal mattino il mare fu coperto
di piccole barche e caicchi, che portavano da Costantinopoli quindici o
ventimila spettatori, i quali si sparsero nei chioschi, sulle praterie, per le
rocce dei dintorni. Molti restarono nei caicchi, che pieni di donne giudee,
turche e armene, vestite di colori sgargianti, ondeggiavano come mazzi di
fiori qua e là sul mare. Il campo russo, sul pendio della montagna del
Gigante, a mezza lega lontano dalla flotta, spicca con le sue tende bianche e
azzurre sopra la cupa vegetazione e gli arsi pendii della montagna. La sera,
i giardini dell’ambasciata russa erano illuminati con migliaia di lampade
appese a tutti i rami di quei boschi. I vascelli, illuminati anch’essi sugli
alberi, i pennoni, le sartie, somigliavano a navi da fuoco il cui incendio fa
esplodere le batterie. Le loro fiancate vomitavano torrenti di lampi, e
l’accampamento delle truppe da sbarco, rischiarato da grandi falò sulle cime
e le eminenze delle montagne d’Asia, si rifletteva in tracce luminose nel
mare, e spandeva i chiarori di un incendio sull’immenso lido del Bosforo. Il
Gran Signore arrivò, in questa splendida notte, sopra una barca a vapore
per godere lo spettacolo sotto le terrazze del palazzo di Russia. Si mostrò
sopra coperta, circondato dai visir e dai pascià favoriti, ma rimase discosto
avendo mandato il Gran visir a partecipare alla cena del conte Orlov.
Immense tavole, disposte sotto i lunghi filari di platani, e altre, nascoste in
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tutti i boschetti dei giardini, erano coperte d’oro e d’argento, riflettendo il
chiarore delle piante illuminate. All’ora più buia, poco dopo il levarsi della
luna, un fuoco d’artificio, portato sull’acque in zattere, in mezzo al Bosforo e
a uguale distanza dai tre mari, fu lanciato e sparse una luce sanguigna sulle
montagne, sulla flotta e sull’innumerevole folla di spettatori che affollava i
caicchi. Mai sguardo d’uomo potrà cogliere uno spettacolo migliore:
sembrava che la notte avesse squarciato la volta del cielo mostrando
l’angolo di un mondo incantato, con gli elementi, le montagne, i mari e i
cieli di forma e colori sconosciuti, e migliaia d’ombre vaporose e fuggitive
ondeggianti sopra onde di luce e di fuoco. Poi tutto fu silenzio e notte. I
lampioni, come spenti dal vento, disparvero da tutti gli appigli e dagli alberi
delle navi estinti; la luna spuntò da un vallone sopra le montagne
diffondendo la propria luce più dolce e mostrò, come su uno sfondo di perle,
le enormi masse nere e gli spettri sezionati degli alberi, dei pennoni e delle
sartie delle navi. Il sovrano ripartì sul suo brick a vapore, la cui colonna di
fumo restò appesa sul mare, e scomparve in silenzio come un’ombra venuta
ad assistere alla rovina dell’impero.
Non era Sardanapalo, che col suo rogo illuminava le rovine del trono
crollato91. Era l’assassinio d’un impero traballante, costretto a chiedere ai
suoi nemici appoggio e protezione contro uno schiavo ribellatosi e obbligato
ad assistere alla loro gloria e alla propria umiliazione. Che cosa potevano
pensare i vecchi osmanli vedendo le luci del campo dei barbari cristiani, e le
faville dei loro fuochi di gioia scoppiettare sulle montagne sacre dell’Asia,
ricascare sulla cupola delle moschee e riflettersi fino sulle mura dell’antico
serraglio? Che cosa pensava Mahmud stesso sotto l’affettato sorriso delle
sue labbra? Quale serpente gli rodeva il cuore? Ah! Egli aveva dentro
qualcosa di così profondamente triste da spezzargli il cuore e che, secondo
me, avrebbe dovuto bastare a rendergli l’eroismo per i rimorsi. E c’era
anche un non so che di consolante per il pensiero del filosofo che riconosce
la Provvidenza e ama gli uomini. Era questo andamento del tempo e delle
cose che faceva cadere in rovina un impero immenso, ostacolo
all’incivilimento di mezzo Oriente, e che passo passo riconduceva verso
questi bei paesi razze d’uomini meno logorate, dominazioni più umane e
religioni più progressive.
LUGLIO
Oggi pranzai dal barone Stürmer con il principe reale di Baviera92, che è
tornato dalla Grecia e si ferma alcun giorni a Costantinopoli. Questo giovane
principe, avido d’istruzione, e abbastanza assennato per dimenticare in
apparenza il trono che l’attende, cerca di trattenersi con uomini che non
91 Lo scrittore latino Ampelio (III o IV secolo) scrisse che Sardanapalo, ultimo re degli Assiri
(VII secolo a.C.), perse il trono a causa degli eccessivi piaceri e della lussuria, quindi si
avvelenò e appiccò il fuoco al proprio palazzo tra le cui fiamme morì. Tuttavia gli storici
sono propensi a credere che esistessero due Sardanapolo, il lussurioso e l’incendiario.
92 Massimiliano II (1811-1864), re di Baviera dal 1848.
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hanno interesse ad adularlo e forma se stesso ascoltandoli. Egli discorre
bene. «Il re mio fratello93, mi disse, esita ancora sulla scelta della città
capitale. Desidererei sentire il vostro parere». «La città capitale della
Grecia, risposi, è data dalla natura stessa dell’evento che la ricostruì. La
Grecia è una risurrezione: quando si risuscita conviene rinascere con la
propria forma e il proprio nome, con la propria individualità completa. Atene
con le sue rovine e memorie è segno della rinascita della Grecia. Conviene
quindi che essa rinasca ad Atene, o essa non sarà più ciò che è oggi, – un
povero volgo disperso sulle rupi del Peloponneso e delle isole».
LUGLIO
La flotta e l’esercito dei Russi partono. Ora sanno la via e hanno abituato
gli occhi dei Turchi a vederli. Il Bosforo rimane deserto e inanimato.
I miei cavalli arabi arrivano dall’Asia Minore. Tedmor, il più bello e focoso,
è morto in Magnesia, quasi al termine del percorso. I palafrenieri l’hanno
pianto e ancora piangono raccontando la sua fine. Esso era stato ammirato
in tutte le città della Caramania che aveva attraversato. Gli altri cavalli sono
così gracili e affaticati che avrebbero bisogno di un mese di riposo per poter
fare il viaggio dalla Turchia europea alla Germania. Così vendo i due più belli
al signor Butanev per l’imperatore di Russia, e gli altri tre a persone di
Costantinopoli. Rimpiangerò sempre Tedmor e Saida.
Mi sono appena accordato con i turchi di Stambul e di Eyüp, proprietari di
carrozze che portano le donne nelle strade di Costantinopoli, mi noleggiano
cinque arabà, ciascuno tirato da quattro cavalli, per condurre a Belgrado94,
in venticinque giorni di marcia, me, la mia donna, il signor Capmas, i
domestici e i bagagli. Affitto due tatari per guidare la carovana, dei
moukres95, ossia i conduttori di muli, per trasportare i letti, la cucina, le
scatole di libri eccetera, e infine sei cavalli da sella per noi, se le strade non
permetteranno di usare gli arabà. Il costo di tutto ciò è di circa quattromila
franchi. Verrà anche un eccellente interprete con noi. La partenza è fissata
per il 23 luglio.
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LUGLIO
Partito stanotte alle due da Costantinopoli. I cavalli e gli equipaggi ci
aspettano nel sobborgo di Eyüp, presso un piccola piazza non lontano da
una fontana ombreggiata da platani e vicino ai un caffè turco. Una piccola
folla si raduna per salutarci, ma senza insultarci né rubarci: la probità è una
virtù sulle strade della Turchia, ma è meno comune nei palazzi. I turchi,
seduti sotto gli alberi fuori del caffè, e i bambini ci aiutano a caricare gli
93 Ottone I di Grecia (1815-1867), principe di Baviera e primo re di Grecia nel 1832, ai sensi
della convenzione di Londra.
94 Belgrado, ora capitale della Serbia, era allora sotto il dominio della Casa d’Asburgo.
95 In francese.
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arabà e i cavalli, a raccogliere qualche oggetto o a segnalare una
dimenticanza.
Ci mettiamo in marcia, a cavallo, al levar del sole, traversando le lunghe
vie solitarie e montuose che vanno dal sobborgo di Eyüp alle muraglie
greche di Stambul. Usciamo dalle mura sopra un’altura nuda e deserta,
dominata da una superba caserma. […]
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