Consorzio Culturale del Monfalconese
www.grandeguerra.ccm.it
Proposte per la scuola
7. LA MEMORIA DELLA GUERRA
[a cura di Massimo Palmieri e Angelo Visintin]
APPROFONDIMENTO A
I sacrari di Redipuglia
Afferma Gaston Bouthoul che nell’uomo “si produce a
poco a poco quel ben noto processo della memoria che
consiste nell’abbellire i ricordi e nel lasciare esistere
soltanto quel che in essi c’è di piacevole, di poetico e
di lusinghiero: Bergson ha scritto che c’è, per la
guerra, un meccanismo simile a quello che fa
dimenticare alle donne i dolori del parto” (G.
Bouthoul, Le guerre, Milano 1961). Le radici del
processo di formazione della memoria della guerra
attengono dunque ai campi della fisiologia e della
psicologia.
Redipuglia da visitare in ginocchio e la mente al Cielo (Fototeca
CCM)
Nondimeno, il primo conflitto mondiale alimenta tra i
reduci, nella collettività, nell’opinione pubblica, nelle
nuove generazioni la crescita di un più articolato
sentimento di revisione mentale dell’esperienza
bellica. Da una parte la portata epocale della guerra,
che non trova riscontri nel passato, dall’altra il clima
storico e politico che innalza il valore dell’edificazione
della “coscienza nazionale” e dell’ “educazione
nazionale” delle masse rendono in gran parte nuove le
linee conduttrici del consolidamento della memoria del
conflitto. Le tendenze autoritarie e nazionaliste che
nel dopoguerra si affermano in molti paesi dell’Europa
non fanno che accentuare e rendere istituzionale un
fenomeno in atto.
Le vicende dei sacrari di Redipuglia sembrano
ripercorrere le fasi di un itinerario monumentale,
simbolico e politico che accompagna l’Italia dalle
convulsioni dei governi tardoliberali all’avvento e
rafforzamento di un regime, quello fascista, le cui
velleità conducono ad una concezione “totalitaria”
dello stato.
Il cimitero sul Sant’Elia
La prima necropoli di Redipuglia, edificata subito dopo
il conflitto, esprime uno specifico criterio del ricordo,
fondato sulla vicinanza dell’esperienza bellica e su un
vigoroso rapporto con il contesto del territorio. Il
Cimitero “Invitti della Terza Armata” venne ideato dal
generale Giuseppe Paolini e progettato dal colonnello
Vincenzo Paladini dell’Ufficio COSCG (Cura e onoranze
salme caduti in guerra) con sede a Udine, l’ente che si
occupò anche della realizzazione del manufatto.
L’opera venne terminata nel 1923. La consacrazione
ebbe luogo nella simbolica data del 24 maggio di quello
stesso anno e fu officiata dal vescovo castrense
monsignor Angelo Bartolomasi, alla presenza del Capo
del Governo, Mussolini, e del Duca d’Aosta.
Il complesso raccoglieva ben trentamila salme (oltre
400 di ufficiali), riesumate dai cimiteri di guerra dei
dintorni o disseppellite di recente dal campo di
battaglia. “È il più vasto cimitero di guerra d’Italia e
del mondo”, commentava una pubblicazione dell’epoca
(Il Santuario della Patria. Cimitero militare di
Redipuglia “Invitti della Terza Armata”, Padova 1927).
Il sacrario voleva rappresentare una figurazione
emblematica del sacrificio nazionale, ma si poneva già
come luogo di richiamo per il turismo bellico. La
struttura cimiteriale possedeva una grande originalità
ed offriva un impatto visivo di facile emozione.
Un’altura situata di fronte all’altipiano carsico, il colle
Sant’Elia, era stata modellata con la creazione di sette
balze concentriche – allusione ai gironi del Purgatorio
dantesco – il cui sviluppo raggiungeva una lunghezza
lineare di 22 chilometri. Sette ampi settori circolari
digradavano dalla sommità ed erano separati da larghi
vialoni, anch’essi discendenti a raggiera. La sommità
del poggio, livellata a formare un ampio piazzale,
aveva al centro un obelisco in forma di faro, la cui base
era una cappella votiva.
Le sepolture erano collocate nella struttura
paesaggistica in una maniera tale da riproporre, pur
nella serialità e nell’ordine di un complesso
cimiteriale, la casualità della morte. Scriveva un
opuscolo di quegli anni: “Qui non viali coperti di
ghiaia, non alberi, non fiori, non verde né ombra; ma
l’aspetto sassoso e brullo del Carso, con sterpi e ciuffi
d’erba scolorata, e qualche rado arbusto dai fiorellini
pallidi, come quelli che, nelle assolate pietraie, furono
l’ultima visione dei morenti” (ivi).
Completavano l’artificiale riproduzione del teatro di
combattimento una selva di cimeli, oggetti personali,
suppellettili, brandelli di armi, proietti, confusi tra
istrici e reticolati: “Non, sulle tombe, i consueti
simboli cristiani in legno o in cemento, ma tutti i
cimeli di guerra, diverso l’uno dall’altro” (ivi). Più
della pietas cristiana, una religio guerriera,
testimonianza di sofferenza quotidiana ed anonimo
eroismo, di religiosità intima e minimalista. Ancora:
“Resti e rottami vedi qui raccolti / lungo le tombe, a
nobile ornamento / con industre pensier d’arte rivolti.
/ E appaion sacri come un monumento / la gamella il
Consorzio Culturale del Monfalconese
bidone la marmitta, / comune ordigno ed umile
strumento” (dalla lirica Redipuglia, di Giulio Navone).
Vi era, a questo riguardo, una contiguità semantica con
i tumuli spontanei propri dei cimiteri improvvisati del
periodo di guerra: i soldati onoravano la memoria dei
commilitoni con cumuli di pietre sovrastati da croci
costruite con bossoli, fino spinato ed altri reperti
(Fabi, 1993).
Cartolina edita in occasione dell'inaugurazione del cimitero (F.
Todero, Il Carso nei ricordi di Luigi Bartolini in Il Territorio, anno
XVIII, numero 4-5, nuova serie, dicembre 1995, Centro Culturale
Pubblico Polivalente, Ronchi dei Legionari, p.89)
Un trionfo del minimalismo
L’aspetto selvoso, irto, intricato dei residuati, l’arsa
rocciosità dell’altura carsica assurgono a metafora e
fenomenologia della guerra moderna, fatta di casualità
e distruzione, parcellizzazione e sconvolgimento.
Anche le targhe e le epigrafi sulle tombe vogliono
rammentare, attraverso versi caserecci dovuti in gran
parte all’inventiva del maggiore Giannino AntonaTraversi, vero curatore del cimitero, il vissuto bellico
più modesto, le funzioni più umili, l’oggettistica
apparentemente più dimessa, lo sforzo umano e
materiale per la vittoria. In molti casi, gli affetti più
profondi del soldato sono correlati alla virtù del
sacrificio di sé. L’amore filiale per la madre è il
sentimento più evocato: “Mamma, sii forte: deve il
patrio amore tramutare in orgoglio il tuo dolore!”;
“Mamma mi disse: «Và!» ed io l’attendo qua”, è scritto
sulla tomba di due Ignoti.
L’arte è in realtà sopraffatta dagli intenti di
celebrazione: un trionfo di reminiscenze scolastiche, di
pretese letterarie che sanno di provincia. Il
michelangiolesco “Grato m’è il sonno…” ispira una
strofe di ricordo per l’umile ricovero di trincea. Famosi
versi danteschi, opportunamente adattati (“E il Duca non Virgilio, ma Emanuele Filiberto di Savoia - a lui:
«Caron non ti crucciare. Vanno per altra via, per altra
piaggia. Sono i miei Fanti. E più non dimandare!»”)
elogiano l’operato del genio pontieri; e così via, con
richiami ad autori da silloge scolastica, ma anche
all’ingenuo motteggiare del soldato. Una tipologia
poetica semplice, basata sui versi a rima accoppiata.
L’esito letterario si colloca tra la declamazione e la
banalità: detriti pseudo eroici che – è stato notato –
possono risultare persino offensivi ai caduti (Rochat,
www.grandeguerra.ccm.it
1986). Ma è altrettanto vero che i modelli letterari, la
metrica, il registro lessicale rimandano alle
pubblicazioni per ragazzi, ai giornali di trincea, ai
lunari sentenziosi della tradizione rurale, alla
volgarizzazione carducciana e dannunziana. Insomma,
vanno rapportati al contesto di conoscenze e di
riconoscibilità dei ceti scarsamente alfabetizzati (in
questo senso, i versi potevano apparire dotti!). Viene
quindi da pensare si tratti di un disegno comunicativo
molto meno improvvisato ed inefficace di quanto possa
sembrare, le cui finalità anzi bene si allineano agli
aspetti immaginiferi della modificazione del territorio.
Il grande Sacrario
La struttura funeraria del monte Sant’Elia per la sua
stessa conformazione era esposta al deterioramento.
Le spoglie, i cimeli, i residuati bellici subivano l’offesa
delle intemperie. Per ovviare ai danni metereologici,
agli inizi degli Anni Trenta il cimitero era stato al
centro di importanti lavori, all’interno di un progetto
di ristrutturazione: tra l’altro, i muri a secco erano
stati sostituiti da solide costruzioni in pietra, le salme
riconosciute erano state deposte in cassette di eternit,
i nomi erano stati scolpiti per evitare scolorimenti.
Erano soluzioni provvisorie. Si accavallavano nel
frattempo altre esigenze. Innanzitutto si sentiva la
necessità di disciplinare la questione dei numerosi
cimiteri ai piedi del Carso (come il “Filippo Corridoni”
di Sagrado o quello degli Asfissiati di Sdraussina), sul
Vallone o sull’altipiano, traslando le salme in un unico
ossario. Fattore di non minore importanza, il regime
fascista intendeva appropriarsi del culto dei morti della
Grande Guerra e della trasmissione della memoria ai
fini dell’educazione nazionale.
L’intenzione delle autorità fasciste era di trasformare
Redipuglia nel centro nazionale della necrolatria
bellica, ancor più degli altri grandi sacrari che si
stavano allestendo o pianificando, sulla base della
stessa progettualità politica, sui campi di battaglia
“Sacri alla Patria”: il Montello, il Grappa, Oslavia (per
il medio Isonzo).
Il nuovo sacrario di Redipuglia sorse di fronte al
vecchio cimitero. Fu edificato tra il 1936 e il 1938 su
un progetto di Giovanni Greppi, che recuperava nella
monumentalità funeraria l’esperienza architettonica
dell’ultimo decennio. I motivi stilistici dell’enorme
costruzione si ispiravano ad un razionalismo controllato
ed impersonale, che rovesciava compiutamente la
prospettiva vitalistica ed esperienziale propria della
precedente struttura cimiteriale, ridotta poi a parco
della Rimembranza e a silenzioso deposito antiquario.
Sul monte Sei Busi saliva una imponente scalea formata
da 22 gradoni, luogo di sepoltura per i centomila
caduti, una parte dei quali ignoti.
Sulla sommità era posizionata una cappella votiva
sormontata da tre croci. Ai piedi del colle una larga
spianata raccoglieva le urne dei generali della III
Armata morti in battaglia, e, in una posizione isolata e
gerarchicamente rilevata, la monolitica cubatura in
porfido della sepoltura del comandante della grande
unità, Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.
Evidente ed esplicita era l’allegoria dell’esercito
schierato con i suoi comandanti, come pure l’allusione
Consorzio Culturale del Monfalconese
cristiana dell’ascesa all’empireo: apoteosi della
resurrezione, nella doppia valenza cristiana e
nazionale. Il progetto di Greppi, coadiuvato
nell’impresa dallo scultore Giannino Castiglioni, si
proponeva non a caso di sviluppare il tema “Le anime
dei Caduti salgono al Cielo”. Un modello funebre aereo
e sublimato, ben diverso da quello caotico e terragno
del primo cimitero.
È pure notabile una specifica rilevanza del tema della
sacralità delle frontiere. Al confine orientale il Carso e
il Sacrario, che in esso è incastonato, diventano i
testimoni e i custodi della “più grande Italia” e
marcano la sovranità italiana su queste terre
contrastate.
Un muto esercito di centomila caduti, “vigile e sicura
scolta alle frontiere d’Italia” – come recita l’epigrafe
apposta alla tomba del Duca d’Aosta – sorveglia la
Porta Orientale.
“Presente”
Il sacrario è volutamente privo di elementi
eccessivamente differenzianti o di decorazioni.
L’ambientazione vuole essere ieratica, rarefatta,
alludere all’egualitarismo della morte (peraltro,
sessantamila caduti sono ignoti). Se il cimitero del
Sant’Elia lusingava il reduce con i ricordi vivi del
campo di battaglia e sollecitava le pieghe del ricordo,
ora il mausoleo mussoliniano rispondeva alle
coordinate di gerarchia militare e civile propria dello
stato “totalitario”. Il culto massificato della sepoltura
come riproposta del rapporto capo-folla. Il sacrario,
insomma, celebrava la massa ignota, l’oscura
gregarietà del combattente, ma citando il modello di
stato e società postulati dal regime. L’appropriazione
del mito della grande guerra da parte del fascismo era
visibile nei particolari minuti: fasci littori, un’aquila
imperiale, la cadenza ossessiva del lapidario
“Presente”.
Il Sacrario di Redipuglia (Fototeca CCM)
Anche la simbologia cristiana era piegata, con le sue
implicazioni semantiche e psicologiche, al nuovo
modello monumentale. Non più l’evocazione del CarsoCalvario, non Cristi dolenti, non angeli e Madonne
pietose (come la Pietà e l’Angelo della Carità del
cimitero militare di Aquileia), ma l’essenzialità sobria
e astratta di nude e severe croci, di campane votive,
www.grandeguerra.ccm.it
di sarcofagi di pietra e rilievi bronzei: immagini riflesse
di una guerra non più tanto vicina, vividamente
presente, ma rilanciata in un’atmosfera sacrale,
impersonale e sintetica.
[Angelo Visintin]
APPROFONDIMENTO B
Scritture di guerra
Vite parallele
In questa sezione vengono presentate scritture di
guerra non di autori più o meno noti, ma brani tratti da
diari poco conosciuti dal grande pubblico, scritti da
testimoni che hanno cercato di strutturare in modo
organico le proprie esperienze, accompagnandole con
riflessioni sul loro vissuto.
Le vicende narrate riguardano principalmente il
territorio del fronte del basso Isonzo e due persone che
si sono trovate a vivere la guerra su fronti opposti: don
Carmine Cortese, dapprima in servizio nel reparto di
sanità del 19° Reggimento Fanteria, schierato tra le
falde del San Michele e il Carso, poi assegnato all’8°
Reggimento Alpini – Battaglione “Val Natisone” – e
Virginia Marinaz, crocerossina volontaria presso il
Reserve-Spital des Landeshilfsvereins von roten Kreuze
für Görz und Gradisca.
Come si può immaginare, i diari riflettono punti di vista
particolari: entrambi gli autori non sono militari, ma
persone che mettono al primo posto i sentimenti umani
e la pietà, dettata dalla religione e dalla solidarietà,
senza che ciò implichi il disconoscimento dell’amor di
patria.
Don Carmine Cortese proviene da lontano, dalla
Calabria e più precisamente da Tropea (ora in provincia
di Vibo Valentia), e ha compiuto un lungo percorso che
lo ha portato ad abbracciare la vita sacerdotale.
Fino alla vigilia della Grande Guerra l’assistenza
religiosa alle truppe non era prevista nell’esercito
italiano, perciò i sacerdoti e i seminaristi erano tenuti
al servizio di leva. Solo nel 1915 le autorità militari
disposero l’assegnazione di un cappellano per ogni
reggimento, individuando nella loro presenza un
fattore che avrebbe contribuito alla coesione e alla
disciplina dei reparti.
Don Cortese, dunque, prima di diventare cappellano
deve rispondere alla chiamata alle armi, così che nel
1912 è inviato in Libia, dove fa le prime esperienze
della dura realtà della guerra. Divenuto sacerdote, nel
1915 si trova sul fronte dell’Isonzo e vi rimarrà fino al
’17; trasferito sul fronte trentino, nonostante una
ferita, ritorna accanto ai soldati fino alla rotta di
Caporetto, quando fatto prigioniero viene internato nel
campo di Josephstadt (Boemia) e liberato solo il 24
dicembre del 1918.
L'approccio alla guerra
Dal diario che egli scrive dal fronte dell’Isonzo, (C.
Cortese, Diario di guerra (1916-1917), Rubbettino,
Soneria Mannelli (CZ), 1998), proponiamo alcuni brani,
tralasciando le sue esperienze successive.
Le sue prime note risalgono al 1° gennaio 1916
Consorzio Culturale del Monfalconese
www.grandeguerra.ccm.it
dall'Hermada posto di medicazione di Sdraussina (oggi fiume, che ò varcato per ben sette volte. Sette volte!
Poggio Terza Armata, frazione del Comune di Sagrado): con [sic] una tensione di nervi – con una malinconia
invadente».
Da parte avversa, Virginia Marinaz inizia a stendere il
suo diario qualche giorno prima dello scoppio della
guerra con l’Italia. È probabile che Virginia con la
sorella
avesse cominciato il suo servizio presso
l’ospedale già durante i primi mesi della sua apertura,
quando Gorizia era ancora lontana dai fronti. I passi
citati sono tratti da R. Lepre, Gente dell’Isontino e
Grande Guerra: scritti e testimonianze di protagonisti
(senza altre indicazioni).
Il 25 maggio cominciano ad arrivare i primi feriti e
Virginia segnala le prime vittime; in seguito, con
l’intensificarsi delle morti, annota:
«All’ospedale tutto come al solito, molti muoiono, io
non li conto quasi neanche più; per la maggior parte la
morte è l’angelo buono, che li solleva dalle loro
sofferenze. È molto avvilente il pensiero che essi
muoiono lontano dalla loro famiglia, dai loro cari, e
forse nell’ultimo attimo li tormenta la nostalgia per le
guerre, per la loro patria. (…) Si diventa davvero
tristi, quando si pensa che questi eroi sono morti
lontano dai loro cari e giacciono qui completamente
soli. Dio sa, come hanno desiderato ardentemente un
istante prima del trapasso un caro viso conosciuto.
Così è la guerra».
Don Carmine Cortese [C. Cortese, Diario di guerra (1916-1917),
Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1998, p. VIII]
«Primo dell’anno: quanta malinconia in questa
giornata che in altri tempi e in altri luoghi diceva:
“Vita nuova”, “Resurrezione”. E quanta differenza col
primo dell’anno scorso! In questi campi, in queste
colline piene d’insidie permanenti e micidiali, con
questa spada di Damocle che pesa sulla nostra testa di
guerrieri – come si può cominciare l’anno? (…) Con
quale entusiasmo, con quali propositi? Un giorno che
passiamo qua, in questo posto di medicazione, in
questa scatola che basterebbe un 75 per sfondarla, è
un giorno guadagnato – un giorno che abbiamo rubato
alla morte – a questa morte che (…) vigila sulle nostre
teste, oramai stanche di pensare tante sventure, su
questi nostri occhi che tanto sangue rosso hanno visto
scorrere! E pure bisogna per gli interessi della nostra
Patria, perché l’Italia viva, (…) anche spiritualmente,
che noi portiamo pazienza; che soffriamo tutte le
miserie e tutte le sventure: soffrire in silenzio – ecco;
piangere tutte le nostre lacrime in disparte,
aspettando la risurrezione di questa anima oramai
invecchiata. Come abbiamo passato il giorno? Si è
mangiato più o meno. Ma nelle ore p.m. ci è stato
fuoco fuoco fuoco d’artiglieria nemica a Sdraussina e
contorni con pochissimi danni, come à voluto il
Signore. Eppure vivere sotto l’artiglieria, col pensiero
che d’un momento all’altro potesse cadere su questo
posto di medicazione un proiettile micidiale, è un
palpito continuo. (…) Come si sente forte la voce
dell’Isonzo in questa nottata d’inverno! Una voce che
scende nell’anima: quante lacrime e quante amarezze
e quanti eroismi porta seco verso l’adriatico [sic] –
verso l’amarissimo mare. Ma più amarissimo è questo
Estraniazione e monotonia
Come si vede, in entrambi i casi emerge
principalmente il senso di straniamento rispetto alla
normalità della vita: la guerra ha travolto abitudini,
legami consueti, ha sbalestrato i combattenti lontano
dalle loro case, dalle loro famiglie, dai luoghi dove
hanno vissuto da sempre; la nostalgia e la malinconia
dei soldati sono dunque una costante. Tuttavia, sia Don
Cortese sia Virginia Marinaz non mettono in discussione
il dovere di combattere per la patria, soltanto il
pensiero di Dio e la fede possono alleviare le
sofferenze e offrire una qualche consolazione per le
perdite umane e per il tempo che si consuma in questo
stravolgimento della vita. Nel diario della crocerossina
sono forse più accentuati gli elementi che rimandano ai
concetti patriottici di valore e onore, per altro
frequenti in molte scritture di guerra.
Nelle parole di Don Cortese si legge forse una
malinconia derivante dalla visione della guerra come
una parentesi, che esclude la normalità della vita e
impone ritmi e abitudini completamente estranei:
«Domenica oggi? Ma chi ne sapeva nulla! Come la
guerra ci à fatto perdere il senso reale delle cose e
degli avvenimenti! La notte l’ò passata male male
senza poter chiudere occhio…Avevo in me una
preoccupazione che io stesso non so donde venisse:
chiusi a dormire in questa scrofolosa casetta,
risparmiata fino adesso non so come, a dormire non so
come si faccia – e pure le dure necessità della guerra
sono queste – fatalmente queste. E questa giornata,
che la serata di jeri con le sue stelle prometteva
buona, come non è diversa dalle altre, malinconiche,
tristi, insignificanti, stupide - direi».
Anche lo sguardo sul paesaggio è costantemente
annebbiato dal persistere di una cupa tristezza che si
Consorzio Culturale del Monfalconese
distende su tutto ciò che si vede, uomini e cose:
«Fa un tempo magnifico: chiaro il cielo splendido:
lontananze circonfuse di luce. Il Carso, fatale,
terribile, micidiale – tomba di tante giovinezze – è
chiaro, distinto, rossiccio, impervio. S. Michele cova,
con le sue cime, lo sterminio e la sventura. Stasera noi
andremo a rivederlo e a provare le sue lacrime, il suo
boato e ruggito, che uccide e strozza.
E ripasseremo ancora una volta il ponte: quel ponte
che con tremore ò passato, con nelle mani il solito mio
crocifisso e la mia santa Madonna della Romania. Ed
essi mi dovranno aiutare – come nel passato ancora
stasera – questa sera lustre, luccicante di stelle che
oggi promette.
Nei soldati c’è il solito movimento e – scoramenti
soliti – e malinconie dei più vecchi, al solito. O lacrime
e malinconie di guerra… o sensazioni che invecchiate
le giovinezze più floride…o emozioni che rovinate il
cuore dei giovani più magnifici… stasera ritorneremo a
piangere le nostre lacrime sole e amare – fatali
conseguenze di questa guerra sterminatrice.
Cerco d’incoraggiare – cerco di dire una parola a tutti.
Ma la malinconia vela ancora la faccia di tutti. (…)
E ci avviamo. È il funerale che avanza. Dove sono le
canzoni, i versi, i motteggi di cui parlano tanti
stravaganti giornalisti?».
Pure sull’altro fronte la situazione, altrettanto
drammatica per le orribili ferite riportate dai soldati,
per le sofferenze patite e le numerosi morti, diviene
progressivamente monotona, poiché nulla si sblocca e
spesso chi si trova al fronte è risucchiato in un clima di
noia e di ripetitività:
«La giornata trascorre in modo monotono come le
precedenti; si dimentica che si è in guerra, solo il
vuoto e il silenzio della città ce lo ricorda. E sempre la
stessa cosa violenti combattimenti interrotti da pause
silenziose. (…). Non naturale, è la quiete prima della
tempesta».
In entrambi i diari, insomma, si manifesta chiaramente
la percezione dell’ eccezionalità del tempo trascorso al
fronte, di una sospensione che impone agli uomini di
trascurare le loro normali attività, i loro interessi e
affetti per lasciarsi trascinare dal fiume ineluttabile
delle vicende belliche, che spesso sembra non portare
a nessuna meta, continuando semplicemente a scorrere
con il suo seguito di sofferenza e di senso di vanità,
che si insinua sempre più nell’animo dei combattenti.
Probabilmente la scrittura, privata o indirizzata a un
qualche possibile pubblico futuro, risponde all’esigenza
di sottrarsi a questo senso di esclusione dalla vita, di
riflettere sulla condizione propria e altrui, di cercare
di dare senso ai mesi e agli anni che passano. Ci si
aggrappa ai valori che hanno animato l'intervento nella
guerra, e, in generale, al sentimento di lealtà verso la
patria e il proprio paese, nonostante che questi valori,
durante lo svolgimento delle vicende belliche, vadano
sempre più rivelandosi insufficienti a giustificare la
carneficina in atto. Altri appigli iniziano così
gradualmente a farsi strada, tra questi l’attaccamento
solidale ai compagni di reparto, che a poco a poco si
trasforma in spirito di corpo - piuttosto distante da
quello militaresco postulato dai comandi - in spirito di
condivisione, determinato dal comune destino di
www.grandeguerra.ccm.it
sottomissione a ordini che provengono dall’alto, non
compresi pienamente negli scopi o, ancor peggio,
subiti e accompagnati da effetti disastrosi per la vita
stessa dei soldati.
La guerra, il sangue
Anche i diari di entrambi i nostri narratori sottolineano
come progressivamente gli animi si assuefacciano a
quegli
orrori,
inizialmente
assolutamente
insopportabili:
«Si lavora alla baracchetta e lavoriamo all’Ufficio
informazioni. Ma, nel frattempo, dobbiamo fuggire
spesso nella buca, perché si tira terribilmente verso le
tre sulle seconde linee nostre (…): un paio di granate
scoppiano a Sdraussina davanti alla fontana,
massacrando, massacrando tre soldati del 20° e
qualche altro del genio. Ne estremo uno [= porgo ad
uno di essi l’estrema unzione, N.d.C.], moribondo: il
mio cuore non reggerebbe più allo spettacolo
sanguinoso degli altri due, ma mi faccio coraggio: è il
mio apostolato. Sono due toscani e padri di famiglia. Il
sangue corre – la carne fuma – i lamenti si
moltiplicano, le gambe sono un ammasso di
lacerazioni. Oh Gesù, Gesù, Gesù da loro la forza di
resistere – Però credo che non arriveranno nemmeno a
Sagrato. Ma vale tutto S. Michele, tutta Gorizia, tutta
Trieste davanti al massacro d’una vita, d’un’esistenza,
davanti al sangue giovane di questi padri di famiglia?
Dio mio, che barbarie, che controsenso della vita –
questa guerra. Ma perché gli uomini si dilaniano, (…)
mentre siamo tutti fratelli – perché, mentre il Signore
fa levare il suo sole su tutti ugualmente? Mentre tutti
fummo redenti col medesimo sangue divino di G.
Cristo? Di chi è mai la colpa? – Della superbia umana».
Per il sacerdote è evidente il controsenso
rappresentato dalla guerra rispetto al fatto che tutti gli
uomini sono figli di Dio e perciò fratelli; tanto più
orribile gli appare, quindi, la strage quotidianamente
compiuta. Ma ciò non impedisce a Don Cortese di
compiere con disciplina il proprio dovere. Non la
contesta l’obbedienza, pur consapevole della sua
influenza sulla valutazione degli avvenimenti.
Virginia Marinaz, trovandosi ad assistere le vittime dei
combattimenti, ha modo di constatare non solo le
sofferenze e le mutilazioni fisiche, ma anche gli
sconvolgimenti
psicologici
prodotti
dalla
partecipazione ai combattimenti e dalle ferite:
«È triste per i nostri poveri malati, che tremano ad
ogni sparo, e in particolare per quei tre che in seguito
all’esplosione di una granata soffrono di trauma
cranico. Loro non sono ancora convinti di essere liberi,
ma credono di essere prigionieri degli italiani».
Di fronte alle sofferenze che quotidianamente si
presentano agli occhi della crocerossina, essa non può
che constatare amaramente:
«Tutti i letti sono occupati, si vede sangue
dappertutto. Chirurghi e infermiere lavorano giorno e
notte. (…) I feriti sono molti e hanno un aspetto
terribile. Di qualcuno si vedono poi soltanto brandelli
pendenti di carne e di sangue. Uno piange, quell’altro
si lamenta, il terzo implora aiuto. E si deve rimanere
qui accanto a loro impotenti».
Per il cappellano la vita al fronte e la guerra fanno
Consorzio Culturale del Monfalconese
emergere le contraddizioni dell’animo umano:
«Vita di guerra…12 mesi di guerra – 12 mesi di guerra
cruda, persistente, micidiale – come dritti dritti,
taglienti, lampanti, con tutte le vostre sfumature di
dolori, di tristezze nella memoria, nella mia sempre
desta memoria! Quante vicende, quante variazioni,
quante lacrime, quante poche gioie, in questi mesi…A
questo tempo sarei dovuto diventare inebetito: la
memoria dei corpi squarciati, delle fronti rotte, dei
petti lacerati, dei visi trasformati, delle lacrime
fredde, raccolte, asciugate sulle guancie fredde degli
agonizzanti avrebbero dovuto dissecarmi tutte le vene
del sentimento mio misterioso, scuro, enigmatico
cuore. Ma esso è rimasto integro, intatto, reso però
più sensibile più amaramente sensibile. Che mistero in
questo mio muscolo, che labirinto intricato: fatto per
vedere morire placidamente l’uomo sul letto della sua
casa, tra un lungo rimpianto di squilla, à subito l’onta
della carneficina e dell’odio fraterno e à recitato le
ultime preghiere tra il rombare dei cannoni. Ironia
amara amara amara – vita cruda, da omicida, da
macello!…E l’Europa manda nei suoi diversi macelli i
suoi figliuoli. Almeno per questa nostra cara Italia
questo martirio fecondi la vittoria, faccia sbocciare la
gloria!…
Le sorelle Virginia ed Enrica Marinaz, infermiere volontarie della
Croce Rossa [M. Masau Dan, A. Delneri (catalogo a cura di) Provincia di Gorizia, 8-9 agosto 1916 La prese di Gorizia. Immagini,
documenti, memorie, Edizioni della Laguna , Mariano del Friuli 1990,
p.51]
Anche oggi ò benedetto morti: sono tre (…) – e tutti
fracassati nella parte più nobile, più bella – la testa!».
Continua: «E i feriti vengono: e il sangue cola. L’aria è
triste; accenna sempre a piovere: sembra che la
giustizia divina ad ogni barbarie umana risponda col
basta! (sottolineato nell’originale). (…) E non si dorme.
A tutti bisogna dire una parola – un conforto. Ne
www.grandeguerra.ccm.it
estremo due che mi muoiono nel posto di medicazione
– vittime sante, vittime nobilissime, vittime
indimenticabili – gli altri sono più o meno gravi. Viene,
da Romans, un battaglione del 47° come rinforzo: si
mette al cavalcavia. Il secondo delle cave si porta al
valloncello e alle prime linee – transito micidiale per
la pioggia delle granate austriache. Ma i feriti non
tutti possono venire a questo posto di medicazione:
preferiscono stare lassù, non fasciati anziché trovare
la morte per via».
Natura snaturata
I resoconti, naturalmente, non possono non riguardare
anche l’ambiente nel quale si svolgono le vicende
narrate, ma qui le prospettive dei due narratori in
parte divergono: mentre Virginia Marinaz guarda con
occhi triste lo sconvolgimento della terra in cui è
abituata a vivere, Don Cortese, che viene da lontano e
ha altre origini, pur constatando le distruzioni e la
presenza della morte, coglie la serenità e la bellezza
della natura e l’inevitabile contrasto tra gli elementi
del paesaggio.
Scrive la Marinaz: «Lunedì di Pentecoste. Il silenzio
delle campane ci annuncia lo stato di guerra; ora è
qui, la guerra terribile e temuta. I nostri bei pacifici
paesi risuonano al tuono dei cannoni e agli spari della
fucileria. La popolazione è molto abbattuta, tutto è in
agitazione, tutto, trema e piange. (…) La città
[Gorizia] è immersa in un silenzio mortale, il tram
elettrico non corre più; nessun rumore, tranne quello
che fanno le truppe o le automobili militari mentre
passano marciando; regna una calma inquietante».
Annota invece Don Cortese: «Il solo che veglia è il
monte santo [sulla cui sommità si trova un santuario
dedicato alla Madonna, N.d.C.], a fianco a noi, in
lontananza su Gorizia, con i suoi osservatorii potenti.
Bianco si delinea sulle cime. Mentre un tempo era
asilo di conforto e di pace, mentre a quest’ora l’anno
scorso, vi risuonavano le note gravi della liturgia della
quaresima e le sue campane, per i monti e per i piani,
diffondevano la nota religiosa, oggi rammenta, forse,
le artiglierie nemiche, che gittano nella vallata, da S.
Lorenzo a Podgora, la morte e lo sterminio. E più
indietro c’è la neve, i monti eterni e bianchi, una
bianchezza che fa bene all’anima e sulla quale
l’occhio, abituato a vedere tanto rosso di sangue, si
posa tanto volentieri. E si snodano giocondamente,
sempre bianchi, sempre solenni, fino a che si perdono
nelle lontananze, al di là di Udine…Farra, invece, dal
campanile smussato, dalle casettine distaccate, varie,
mezze rovinate, pare voglia ridere, tanto s’intona con
l’armonia della natura e par che stenda il suo braccio
di casette bianche fino alla cittaduzza di Gradisca che
specchia il suo convento intatto sul fiume. (…) E tutti,
dal piccolo fantaccino, sentiamo quest’onda, questa
luce, questa musica, questa gamma di colori, che è in
contatto con la guerra, con il carnaio di questi giorni».
Lo stile dei due autori è diverso. Il linguaggio del
cappellano risulta infatti articolato, ampio, a volte
colto, tuttavia, il suo scrivere non sembra destinato al
pubblico, appare piuttosto una sorta di promemoria
personale, con cui conservare le frequenti riflessioni di
carattere religioso e umano.
Consorzio Culturale del Monfalconese
Nella Marinaz, invece, oltre all’evidente buona
competenza linguistica (il testo originario è in lingua
tedesca), si coglie una particolare attenzione a
mantenere la scrittura fedele alle notazioni come
erano state redatte sul momento, seppur contenenti
delle trascuratezze dovute probabilmente alla fretta e
alla mancata rilettura di quanto scritto.
La fabbrica della morte
Ciò che accomuna, invece, i due narratori è la
meraviglia di fronte ai nuovi mezzi utilizzati da
entrambi gli eserciti. Non va, infatti, dimenticato che
la Grande Guerra è anche il primo conflitto moderno in
senso stretto, in cui vengono impiegati su vasta scala le
nuove tecnologie e i nuovi mezzi tecnici che l’industria
mette a disposizione dei paesi belligeranti.
Dal diario della Marinaz:
«Dalla veranda della nostra abitazione vedevamo le
bombe illuminati che rischiaravano tutto il campo, poi
gli shrapnel e le granate che esplodevano sul monte
Calvario. (…) Alle 3 siamo andati con un automobile
accompagnate dal nostro capitano medico a Valvociana
per visitare il treno dell’Ordine di Malta. Il treno è
veramente magnifico e contiene tutte le comodità
immaginabili, che si possono desiderare.
Però la cosa più interessante di tutte è il cosiddetto
“Dietro-il-fronte”, del quale non ci si può fare proprio
nessuna idea se non lo si è visto.
Una confusione di tende, cavalli, manzi, vagoni per le
munizioni, cannoni, vagone per i viveri, un brulichio di
soldati e malati: sul terreno aperto c’è un ospedale da
campo improvvisato, dove ai feriti vengono cambiate
le bende, prima di essere caricati sul treno. (…) Il
viaggio è interessantissimo, si possono vedere le
trincee, molti reticolati e altre fortificazioni vengono
preparate per respingere un eventuale avanzata da
parte del nemico.
Ma ciò che è più interessante di tutto, è un cannone
da 38 cm. che viene trascinato sulla superficie da circa
200 operai».
Il treno affascina evidentemente la crocerossina, che vi
dedica ancora altre righe: «Anche questa giornata
appartiene a quelle memorabili, noi abbiamo visitato
un treno corazzato, un privilegio, che non viene
concesso a tutti. In compagnia del signor primario alle
5 del pomeriggio andammo fino al tunnel di
Castagnevizza [oggi in Slovenia, nei pressi di Gorizia,
N.d.C.], dove durante il giorno si fermava il treno.
È magnifico, alla prima occhiata fa pensare a una
gigantesca tartaruga. Si compone di 4 vagoni e alla
locomotiva; i vagoni non hanno nessuna finestra, ma
delle fessure, dalle quali durante la battaglia
spuntano mitragliatrici e bocche di cannoni.
Attraverso una piccola porticina si giunge all’interno;
due vagoni hanno quattro, due sei mitragliatrici e due
cannoni a tiro rapido prodotto dalla Skoda; un cannone
automatico occupa l’ultimo vagone. Di sopra sul tetto
si apre una finestrella per aprire il fuoco contro gli
aeroplani. Naturalmente è tutto molto scomodo e
anche il servizio è faticosissimo ma per la guerra un
treno simile offre grossi vantaggi».
Anche Don Cortese nota le novità che la guerra
presenta:
www.grandeguerra.ccm.it
«Il nemico oggi sul Nad Logen e sulle posizioni del 20°
davanti alla strada di Loevika si sbizzarrisce con tiri
numerosi di grosse granate e shrapnel: Che intenzioni
à? Il 20° à vari feriti e ancora qualche morto! Nelle
prime ore di notte c’è in giro un aeroplano: si sente
benissimo il rumore del motore. Si smorzano tutti i
lumi: i battaglioni del 9° e 10° e del 29° attendati
alle falde occidentali del Nad Logen fanno segni col
fischietto per smorzare le candele. A furia di fischiare
si vanno smorzando mano mano. E’ nostro, è loro?
Dove andrà?».
Non si può non fare caso a come gli uomini facciano
presto ad adattarsi alle necessità imposte dalle nuove
armi: si impara presto a spegnere le luci, a farsi
invisibili agli occhi che d’alto possono scovare
chiunque, non si sta a investigare se il velivolo sia
nemico o meno, ci si affretta a nascondersi nel buio e a
mettersi al riparo, tanto più che il rombo degli aerei
incute spavento perché non si sa quali siano le
conseguenze della loro presenza:
«Nella serata passa un aeroplano nemico: à forse
tirato delle bombe. Il fatto è che son caduti colpi
nelle nostre vicinanze e noi siamo fuggiti da tavola».
Certo, la guerra è sempre spaventosa, ma a renderla
ancor più terrificante è l’uso delle armi di distruzione.
Ancora Don Cortese:
«Mattinata di operazioni di guerra questa: grande
lancio delle nostre grosse bombarde per rompere i
reticolati, sconvolgere trincee, per far la via alla
fanteria che domani deve avanzare. Spettacolo
terrificante - per rumori e per fumo. La loro
artiglieria tira con grossi calibri, cercherebbe scoprire
dove sono impostate le bombarde.
A Cotici, verso mezzogiorno, tirano cinque granate di
grosso calibro – di 280 certo. Tirano nelle nostre
vicinanze. Momenti indescrivibili. Il Santo e il Sabotino
sono dietro una cortina rossiccia di fumo. Il vento è
favorevole al nemico: porta il fumo verso il Vallone
prima e verso S. Michele poi: ci appanna il bersaglio
mettendosi davanti alle batterie».
E il giorno seguente:
«Contrariamente a quanto dicevo jeri – questa mattina
abbiamo la pioggia e la nebbia [siamo nei primi giorni
dell’ottobre del 1916, N.d.C.]: una pioggerella fine,
lenta, penetrante, fredda, una nebbia fitta,
invadente, cinerea, dilagante Vallone (sic), e
altipiano. Già il Santo e il Sabotino e tutta quella
parte di vallata goriziana che si scorgeva da quì (sic),
è scomparsa: è scomparso il Nad Logen: appena il
Brestovic mostra tenuemente il suo cocuzzetto
sonnecchiante – Verso Sinistra – Cotici e poi S. Michele,
e la gobba di San Martino sono completi nell’ombra
cinerea e malinconica. (…) Ma il fuoco è ricominciato
lo stesso – impressionante: di artiglieria e di
bombarde. Queste nostre bombarde danno un suono
nuovo, differente da quello che dà lo scoppio della
granata. E’ lacerante e terribile! Il fuoco però è più
violento dalla parte di Monfalcone – fino da jeri sera.
Anche l’artiglieria nemica tira di qua e di là – ma
anch’essa che fare se il bersaglio è coperto? Qualche
colpo cade nella strada di Devetake, qualche altro giù
nella vallata. Anche il nostro 280 tira qualche colpo:
la nostra baracca – trema, è scossa dalle fondamenta».
Consorzio Culturale del Monfalconese
Le operazioni proseguono e il lettore seguendo le
vicende esposte nel diario si accorge che quanto più il
tempo passa, tanto maggiore è la frequenza con cui
Don Cortese ricorre al termine “spaventoso” fino a
giungere alla seguente considerazione:
«Dovrei usarne di più terribili se il vocabolario di
questo mio cervello stanco ne avesse: bisogna esserci
tra questa musica infernale!…E quelli che sono in
prima linea? E gli austriaci? Non debbono esserci;
altrimenti bisognerebbe ammettere l’impossibile: un
organismo affatto impressionabile, un organismo
anormale, una cocciutaggine che va fino alla pazzia.
Speriamo quindi per il bene di tutti siano fuggiti. E
dove? Nelle seconde linee? E ritorneremo al medesimo
punto! Sprecare tanto materiale e stroncare tante
giovinezze per una linea più o meno – non vale la
pena».
Epiloghi
All’inizio del nuovo anno Don Cortese lascerà il reparto
per raggiungere il battaglione alpino “Val Natisone” a
Treviso, dove rimarrà fino all’estate del 1917, quando,
ferito in zona di operazioni, verrà ricoverato
all’ospedale di Cremona, per tornare poi in prima linea
rimanendovi fino alla ritirata di Caporetto.
L’altra nostra testimone, Virginia Marinaz, presterà
servizio da crocerossina, anche nella seconda guerra
mondiale, meritandosi, assieme alla sorella Enrica,
numerose onorificenze da parte della Croce Rossa, dal
governo austriaco e da quello italiano.
A conclusione di questo contributo riportiamo le parole
di Virginia Marinaz scritte in procinto di lasciare la sua
città, caduta in mano italiana:
«Cosa ne è della nostra città. Ovunque macerie e
pietre sulle strade, dei cavalli morti sono distesi qui e
non possono essere portati via. Si vede a stento della
gente e quelli che si vedono sembrano degli spettri.
Noi stesse possiamo appena reggerci in piedi, tanto
queste ore terribili ci hanno spossato. Dopo le 11
vogliamo andare ancora in via vetturini (sic) per avere
informazioni su una famiglia di nostra conoscenza.
Noi corriamo, così come siamo, in abito da casa,
mentre dappertutto ancora esplode. Velocemente
facciamo la visita e corriamo a casa. Dietro di noi
esplode ancora tutto terribilmente e siamo appena
arrivati in Via Rastello che la Piazza Grande è piena di
pesanti nuvole nere. Ci bombardano con granate da 28
cm. Dappertutto scoppi, ovunque cadono calcinacci e
pietre sulla strada. La nostra fine è vicina. Un po’
prima delle12 vengono fatti saltare tutti i ponti, i
nemici sono vicini alla periferia della città. (…) È stato
tutto inutile. Siamo nelle mani del nemico».
Infine, la famiglia Marinaz deve partire:
«Nessuna persona, che non abbia vissuto una
situazione simile, può comprendere cosa significa:
dover lasciare in questo modo la propria casa, la casa
alla quale sono legati molti ricordi belli e tristi, la
casa, dove rimangono dei ricordi così preziosi, ricordi
che ha conservato dall’infanzia con devozione. Io
credevo si spezzasse il cuore quando salutai per
l’ultima volta la mia stanza. (…) Come noi fuggivano
anche molti altri. Povera gente, che cercava di
mettere in salvo i suoi tesori: materassi, coperte,
www.grandeguerra.ccm.it
pentole addirittura maialini e polli vivi in un
variopinto miscuglio caricato su carriole, accanto a cui
si trascinavano dei bambini scalzi che piangevano. (…)
Da quel momento in poi non avevamo più nessuna
patria, nessuna casa. La nostalgia per Gorizia ci
abbatteva, il solo pensiero di poter essere nelle
vicinanze di questa amata città ci alleggeriva il
cuore».
Virginia ritornerà a Gorizia dopo Caporetto, ma lo
spettacolo della città sarà ancor più terribile di quello
che aveva lasciato:
«Das ist die Umgebung der Stadt, welche früher als
Rosenstadt bezeichnet wurde, als die Schmuckstadt, in
Gartenanlagen überall bekannt. Wird sie nochmals
auƒblühen?».
(«Questi sono i dintorni della città che in passato
veniva indicata come la città delle rose, come la città
famosa ovunque per i suoi giardini. Rifiorirà ancora?»).
[Massimo Palmieri]
Riferimenti bibliografici :
- R. Lepre, Gente dell’Isontino e Grande Guerra: scritti e
testimonianze di protagonisti (senza altre indicazioni)
- C. Cortese, Diario di guerra (1916-1917), Rubbettino, Soneria
Mannelli (CZ) 1998.
Scarica

scarica il pdf - Grande Guerra - Consorzio Culturale del Monfalconese