Facoltà di Filosofia
Julius Evola: la comunità degli Individui Assoluti
Relatore: Prof. Luciano De Fiore
Correlatore: Prof. Gian Franco Lami
Studente: Alessio de Giglio
ANNO ACCADEMICO 2008/2009
1
Inroduzione
Introduzione
Questa è una tesi su Julius Evola.
Julius Evola il filosofo proibito, Julius Evola il ghibellino feroce1, Julius
Evola il mago Otelma della destra2, Julius Evola il barone nero, Julius Evola il
cattivo maestro per antonomasia3, Julius Evola il padre spirituale di una
conventicola di esaltati4, Julius Evola il negromante del fascismo5, Julius Evola
il razzista totalitario6, il nazista, il satanista, il mago, l’aristocrate, lo kshatriya, il
teurgo, l’uomo differenziato, l’uomo della Tradizione, il pittore, il poeta…
Julius Evola è morto. Un’aquila divorata dai topi.
Resta il ricordo di Julius Evola: la sua opera. Meglio, il suo Opus.
Molto lontano, il livore di uomini piccoli piccoli, e troppo vicino, il
santino di Evola, l’immaginetta (s)fatta da mani senza stile, senza verità, senza
amore.
Due realtà parimenti perniciose e ghettizzanti, due facce della stessa
impotenza a penetrare il segreto di una esistenza, nell’etimo, straordinaria.
Un’esistenza che impone la necessità di una giusta distanza critica, quel
doppio sguardo di cui parla Nietzsche, del quale varrebbe forse la pena ricordare
l’irridente e inquietante domanda e adeguarla alla s-fortuna critica di Evola:
“Sono stato compres(s)o?”, per poi arrendersi alla piattezza in-significante di
pillole di pregiudizio confezionate da una vulgata orecchiante.
Sarebbe penoso ripercorrere qui la sconcertante serie di malintesi, di
traviamenti, di insulti, ma anche di partecipati consensi, di elogi e difese che
1
R. Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi,
Milano, 1999, p. 42.
2
La graziosa definizione è di Umberto Eco, cfr. G. de Turris, Elogio e difesa di Julius Evola. Il Barone e i
terroristi, prefazione di Giorgio Galli, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997, p. 172.
3
Non da oggi, Evola non è amato da molta sbrigativa e ideologica pubblicistica. Ricordiamo, tra i tanti, F.
Ferraresi, Perché Evola resta un cattivo maestro, in Corriere della Sera, 24 giugno 1994, p. 21; M. Fraquelli, Il
filosofo proibito, Terziaria, Milano, 1994, p. 291; C. Lo Re, La destra eversiva, Solfanelli, Chieti, 1994, p. 102.
Su questi giudizi, cfr. G. de Turris, Cattivi maestri, cattivi discepoli, cattivi esegeti, in J. Evola, Cavalcare la
tigre. Orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pp. 197206, e anche Attualità di Evola, in Futuro Presente, n. 6, 1995, pp. 149-151.
4
Cfr. J. Evola, Autodifesa, in L’eloquenza 11-12, 1951; ora Fondazione Julius Evola, Roma s.d. (1976).
5
G. Bocca, Il filo nero, Mondadori, Milano 1995, p. 150.
6
Cfr. G. S. Rossi, Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell’antisemitismo spirituale, Rubbettino,
Catanzaro, 2007. Cfr. anche F. Jesi, Culture di destra, Garzanti, Milano, 1979, p. 91: “Non basta, infatti,
dichiararlo un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita (il che è vero) e così insulso che non vale la
pena di dedicargli alcuna attenzione (il che non è vero)”. Tuttavia de Turris rileva che, nonostante le virulente
accuse ed i tentativi di sminuirne il valore […], Furio Jesi, con la propria attività ed i propri interessi,
implicitamente ha dimostrato l’esatto contrario: riprendendo di volta in volta in mano, quasi fosse un programma
studiato a tavolino e a lunga scadenza, praticamente tutti gli autori e le opere di cui Evola si era occupato per
fornirne nuove interpretazioni e versioni”, in G. de Turris, Dieci anni dopo…, in Testimonianze su Evola,
Edizioni Mediterranee, Roma, 1985, pp. 210-211.
2
Inroduzione
hanno sfregiato il volto bifronte di quest’uomo enigmatico, in un’ermeneutica
dell’orrore da destra e da sinistra che ha rivelato nei cultori e nei detrattori del
caso Evola, la stessa mancanza di obiettività, come capacità di comprendere il
proprio “contro”, di compatire.
Se esiste un inferno della cultura italiana, Evola è Lucifero.
Sul paradiso garrisce barriera bianca. Il vento è stato quello dell’egemonia
marxista, ormai (s)finita. Ma all’adunata romantik dell’editoria color pastello,
l’eterno escluso geme incompreso7.
Davvero Evola è l’inassimilabile par excellence?
E
sopratutto: chi è Julius Evola? Perché il suo pensiero-realtà riesce a ispirare i più
audaci sogni di libertà e a realizzare le cadute più ingloriose? Ha ancora un
senso oggi parlare della sua opera oltre la potenza pietrificante del pregiudizio e
dell’incultura che, nel quadro di una ignoranza (co)scientemente coltivata,
hanno trasformato un grande studioso in una statua da venerare o da
distruggere?
Ora, il fatto che ambienti culturali di non poco momento non siano alieni,
ancora oggi, da pericolosi fraintendimenti riguardo all’opera del pensatore
romano, la dice lunga sul destino del pensiero evoliano, anzi, sul suo carattere
“destinale” in un’epoca che nel nichilismo gaio ha ri-velato il telos della sua
marcia-origine: il disfarsi di Dio quale ierogamia satanica di dissolutezza e
dissoluzione.
Nell’attesa che tutti si adeguino al sacro principio: “Si smette
di odiare allorché si smette di ignorare”, il presente scritto si sforza di ispirarsi a
quei pochi che in questi anni hanno cercato di definire le coordinate teoreticoesistenziali di Evola per consegnarlo ad uno studio serio e non a quelli che ne
con-fondono i tratti della vita e del pensiero in un orrendo scarabocchio8. Se
condanna deve esserci, essa può venire soltanto DOPO la completa ruminazione
(Nietzsche) dell’opera totale di questo maestro contemporaneo, la cui ricezione
è ancora ben lungi, crediamo, dall’essere compiuta.
7
Sull’interdetto adelphiano riguardo l’opera evoliana, che i “neodestri” si sforzano vanamente di rimuovere, cfr.
P. Vassallo, L’ideologia del regresso, M. D’Auria Editore, Napoli, 1996, p. 89: “Un tentativo di escludere
l’opera del ‘barone nero’ Julius Evola dall’orizzonte della nuova cultura di destra è in corso su versanti opposti e
con argomentazioni all’apparenza contraddittorie. Sul primo fronte, quello aperto dagli antichisti adelphiani e dai
loro caudatari neodestri, Evola è guardato dall’alto in baso e censurato, perché si ritiene che il suo pensiero
costituisca ostacolo alla diffusione del nuovo tradizionalismo, primitivista e trasgressivo. Evola, infatti, è messo
all’indice quale autore sospetto di maschilismo, moralismo romano e gerarchismo. Sull’altro fronte, quello della
sinistra custeriana, Evola è invece criminalizzato quale ispiratore dell’estremismo nero. Marco Fraquelli, in una
requisitoria staliniana, sostiene addirittura che Evola diede un impianto teoretico al terrorismo di destra”. Cfr.
anche Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico, Edizioni Ares,
Milano, 1999.
8
Tra gli studiosi che in questi anni hanno studiato e approfondito le tematiche evoliane in un’ottica di studi,
anche critica, ma mai preconcetta, ricordiamo P. Di Vona, M. Cacciari, S. Zecchi, M. Freschi, F. Volpi, M.
Donà, A. Negri, G. Borghi, C. Bonvechio, G. Sessa e G. F. Lami.
3
Inroduzione
Ed è uno spettacolo divertente (da divertere), come può esserlo soltanto il
dolore, leggere le parole degli improvvisati critici evoliani, di ieri come di oggi
─ nell’eterno ritorno di una critica che è ormai il ritorno dell’eterno rifiuto ─,
critici di una esperienza che li annienterebbe, se solo ne fossero all’altezza,
perché esperienza di (una) verità che folgora immediatamente chi è uso a
tributar culto alla menzogna.
Bisognerebbe farla finita con tenacissimi errori che vorrebbero
imprigionare un pensiero della liberazione e della luce. Come colui che
mettendosi davanti agli occhi delle lenti scure, pensasse di confutare il sole.
Il presente lavoro è dunque un’apologia di Evola e della sua opera? Aliud
est laudatio, aliud historia. “Il fatto è che Evola non è stato capito bene, perché
non è stato studiato bene”9. Gli entusiasmi e le parallele e altrettanto deprimenti
condanne dei suoi lettori occasionali, hanno fabbricato un mostro impresentabile
ed incomprensibile: è senza dubbio facile infatti e forse anche remunerativo
affrontare esclusivamente la superficie d’un volume impressionante di scritti
divenendo il megafono del luogo comune. E’ altresì vero però, che studi di tal
fatta non contribuiscono alla ricezione d’una filosofia estrema qual è quella
evoliana10. Pensiero abissale che non tollera approcci grossolani e non
sufficientemente medi(t)ati: pena il destino di quell’asino che girando attorno a
una mola percorse cento miglia; quando fu sciolto si trovò ancora nello stesso
posto11. Cercheremo quindi di camminare andando da qualche parte.
In questo scritto ci occuperemo della filosofia di Evola, una filosofia della
prassi, etica in senso eminente, intendendo ethos nel senso originario di radice,
di dimora dell’essere, di quell’appartenenza ad una polis che non si sceglie, e
non si scioglie, perché è legge interiore. La visione politica alternativa di Evola
dimostrerà così di essere una politica alternativa della visione. Visione non come
utopismo, ma come utopia che, declinata interiormente, acquisisce quei caratteri
di possibilità e di transitabilità in grado di trasformare Evola in voce della krisis,
sismografo della modernità e caso esemplare di sintesi ultranichilistica.
Tratteremo questo tema, che occupa un posto essenziale all’interno del
quadro teorico evoliano, nell’ultimo capitolo di questa tesi. Un rilevo particolare
sarà quindi dato a quella comunità degli Individui Assoluti che costituiscono il
telos di una esperienza di pensiero che vede i singoli agire in conformità ad un
9
G. F. Lami, Premessa metodologica, in Delle rovine e oltre. Saggi su Julius Evola, Antonio Pellicani Editore,
Roma, 1995, p. 9.
10
Il vizio sociologistico di certi studi, la superfetazione dell’elemento razza strappato alla sua dimensione
“sapienziale”. Cfr., ad esempio, F. Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito. Julius Evola,
l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
11
Cfr. I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano,
1999, p. XIV.
4
Inroduzione
comune atteggiamento dominante, pur nella differenziata forma della loro
volontà.
Una comunità di uomini uguali nella perfettibilità del loro animus, la
qualità di chi si è liberato dal vincolo naturalistico e conforma la propria vita
all’ideale civico platonico e aristotelico. Il pragmatismo trascendentale del
filosofo romano non avendo altro scopo che quello di creare una dimensione
agonistica tale da far scatenare le personalità ivi coinvolte in una logica di
ritrovati virtuismi. Il tutto nel segno di “un’etica capace di farsi bella agli occhi
di chi la praticava […], matrice imprescindibile e impronta tradizionale di
qualsiasi ‘genialità individuale’ e di qualsiasi ‘creatività espressiva’”12.
“Cercate di ricongiungere il divino che è in voi al divino che è
nell’universo”. Queste parole di Plotino esplicitano l’essenza partecipativa del
progetto evoliano, il nucleo anche metessico della sua tentata attua(lizza)zione
dell’esperienza classica della ragione (Voegelin), all’interno di un contesto
socio-politico dominato dalla maschera parodistica della Roma imperiale e dalla
scissione cristiana tra uomo e Dio. In Evola infatti non si dà trascendenza
separata dal mondo, ma l’individuo assoluto è, vuole essere, uno con le forze
della natura.
Nella valenza platonica della sua opera andrà allora colto il tentativo di
restaurazione di una Gestalt aria, ordinante e luminosa, che attraverso un
percorso individuale di eccellenza, dominato dall’arbitrio e non dalla licenza, ne
prospetti una ricaduta benefica sull’intera realtà comunitaria: “Basta che in un
sol punto si riesca realmente a toccare l’essere, perché ciò abbia immense
ripercussioni”13.
Una filosofia dell’ascesi dunque, che pone in essere una liturgia della
potenza, dono di sé e non violenza sugli altri14. Da qui il carattere ferocemente
religioso del cammino evoliano, o più propriamente gnos(t)ico, che annulla la
distanza tra teologia e filosofia in una metafisica eretta che vuole l’uomo
pontifex: colui che regge la forza divina sulla terra, anello di congiunzione tra la
città celeste e quella dell’uomo. Esito di un procedere che riconosce solo una
trascendenza senza soprannaturalità, che Evola chiamerà “immanente”. Ma si
badi: non c’è Dio e la perfezione è solo l’ideale cui tendere, la costituzione della
12
G. F. Lami, Morale laica e pensiero religioso: la guerra come pratica d’iniziazione, negli scritti evoliani su
Augustea e La Stampa, in Julius Evola, Augustea (1941-1943), La Stampa (1942-1943), Heliopolis Edizioni di
Edizioni del Veliero e Fondazione Julius Evola, Roma, 2006, p. 9.
13
Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 1994, p. 131.
14
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico (1925), Edizioni Mediterranee, Roma, 2006, p. 114: “L’atto creatore,
l’atto di potenza ─ che non è atto di desiderio o di violenza, ma atto di dono ─ anziché distruggere il perfetto
possesso, lo testimonia e lo riconferma”.
5
Inroduzione
persona, maschera del divino. Il superamento del nichilismo nella rivoluzione
dei persuasi.15
Prima di arrivare all’analisi di una tale filosofia del perfettibile però,
dovremo descriverne le premesse artistico-teoretiche, fondamentali per capire la
successiva svolta nel segno della Tradizione, che lungi dall’essere una cesura
all’interno di quel che è per noi un sistema dinamico graniticamente conchiuso
in sé stesso e possente ─ e per questo da avvicinare con mai eccessive cautele in
quanto fragilissimo cristallo dello Spirito ─, è invece l’inveramento impossibile,
mai totale perché nel mondo, della giovanile posizione solipsistica evoliana. Ne
vedremo le ragioni. Prenderemo pertanto in considerazione, nel primo capitolo,
alcuni suoi scritti artistici e, nel secondo capitolo, le opere filosofiche. Opere
della cui complessità non potrò che dare una immagine sintetica, ma spero viva,
essendo contenute in esse energie poderose che l’uomo smarritosi nel deserto
della modernità può utilizzare quale spinta anagogica nella sua corsa verso la
libertà.
Ancora un punto. La tesi prenderà ad oggetto, in modo funzionale ai suoi
scopi espositivi, non solo le opere evoliane, e comunque soprattutto quelle uscite
fini alla seconda Grande Guerra, ma anche la corrispondente attività
pubblicistica, che lungi dall’essere accessoria e di secondo interesse, è invece
strumento prezioso d’analisi e di comprensione, se si vuole, come è auspicabile,
costruire una struttura critica resistente. A tal fine abbiamo ritenuto opportuno
aprire il nostro lavoro, non solo con una breve biografia di Evola, ma anche ─ e
questo è ben più importante ─ con una bibliografia che, necessariamente
incompleta, specifica, seguendo il criterio cronologico, i diversi contributi da lui
offerti in diversi ambiti alla cultura del suo tempo, con particolare riguardo
quindi alla sua attività di giornalista.
Ovviamente chi scrive è ben consapevole del periodo storico in cui Evola
visse e scrisse dando anche il suo apporto ad un clima politico-culturale
irripetibile, il cui esito non ha bisogno di essere ricordato. Questa tesi, nella
piena coscienza dei suoi limiti, non vuole quindi sminuire le responsabilità o i
meriti di Evola, se tali sono, ma contribuire solo ed esclusivamente alla
conoscenza della sua opera, che davvero poco, come si vedrà, ebbe a che
spartire con le fantasie ebbre di sterminio di qualche folle del secolo XX. Un
secolo che sembra non poter tramontare, le inascoltate lezioni della storia da
esso urlate essendo ormai divenute le lesioni d’una vita invivibile.
15
Una rivoluzione che è ritorno all’origine, al risveglio di quel Sé che è libertà. Per iniziare ad essere, con gli
altri. Non più Soli/senza cielo/come vetri spezzati da un orrore che urla negli specchi/quando vedendoci non ci
riconosciamo.
6
Nota biografica
“Ѐ allo stesso tempo tutto vero e tutto campato in aria. C’è qualcosa che si
sottrae. Qualcosa di enorme. Dove sta una biografia? Ricordare? Il modo più
esatto per dimenticare”. Carmelo Bene
La vita di Evola sembra essersi svolta nel segno
dell’inconoscibile: non sappiamo quasi nulla, ad esempio, della sua
infanzia o della sua adolescenza. Molti i punto oscuri della sua
iperbole esistenziale.
In quella che a torto viene dai più considerata la sua
autobiografia, Il Cammino del Cinabro, e che invece è essenzialmente
la descrizione della genesi dei suoi libri, i riferimenti alla sua persona
sono ridotti al minimo indispensabile e spesso servono a spiegare
proprio quel che dei suoi scritti non è rilevante. Ciò non è né casuale,
né tantomeno l’inevitabile portato della sua originale weltanschauung,
ma è la signatura metafisica di una ek-sistere consacrato allo Spirito:
un ethos che, irriducibile agli attuali parametri mondani, vuole l’uomo
come veicolo della Visione, importante essendo l’azione e non chi
agisce. Il tutto ovviamente andrebbe compreso sub specie
interioritatis. Da qui l’importanza assegnata dal filosofo tradizionale
al concetto di impersonalità, che deve in gran parte al taoismo.
La vita di Evola insomma è la vita della sua Opera.
Un punto fondamentale: “equazione personale”. Così Evola
chiama qualcosa che è nello stesso tempo dato naturale e decisione, il
quantum e la qualità delle diverse componenti che strutturano la
complessa vita interiore dell’uomo. Pensare sentire volere in cui si
intrecciano coscienza e azione.
Due disposizioni sembrano aver caratterizzato la sua natura. La
prima è un impulso alla trascendenza che si manifestò fin dalla
primissima gioventù e che ha presto avuto come conseguenza un certo
distacco dall’ “umano troppo umano”. Di una simile disposizione, egli
non esita a parlare di “residuale ricordo prenatale” e ritiene che solo
dopo l’abbandono delle esperienze estetico-filosofiche, essa si sarebbe
pienamente manifestata. La seconda è quella che, con termine indù,
7
Nota biografica
Evola chiama “da kshatriya”. Questa parola sta per “guerriero” in
senso lato, in opposizione ad una natura religioso-sacerdortale o
contemplativa, quale quella del brahmâna, e designa quindi un tipo
umano pre-disposto all’agire. Con riguardo a questo aspetto della sua
natura Evola allude nel Cammino ad una “nascosta eredità” od
“oscuro ricordo” che avrebbe avuto come effetto, nella prima parte
della sua vita, una non equilibrata affermazione dell’Io. Essa tuttavia,
fu la “base esistenziale” per un sentire toto coelo diverso da quello
comune, poiché ancorato ad un “diverso mondo”: gerarchico,
aristocratico e feudale.
Questi brevi cenni possono per ora bastare. L’intento era quello
di evidenziare l’autonomia dello sviluppo di Evola che, a suo dire,
dovette pochissimo all’ambiente sociale in cui crebbe, a fattori
ereditari, all’educazione etc.
Per il filosofo romano quindi, che riprende una idea fichtiana, a
seconda di quel che si è, si professa una data filosofia e, se occorresse,
noi aggiungeremmo: si vive una certa vita. Ecco quella di Evola.
Giulio Cesare Andrea Evola, detto Julius, nasce a Roma il 19
maggio del 1898 da Vincenzo e Concetta Mangiapane, in una nobile e
cattolica famiglia siciliana di lontana ascendenza spagnola.
Nella prima adolescenza, tra studi tecnici e matematici, sviluppa
un vivo interesse per le esperienze dell’arte e del pensiero. Dopo i
primi romanzi d’avventure si mette in testa di compilare, con un
amico, una storia della filosofia a base di sunti. Passa intere giornate
in biblioteca in un selvaggio regime di letture. Decisivo l’incontro con
Nietzsche, Michelstaedter, Weininger, ma non manca Stirner.
Risultato: opposizione al cristianesimo, rivolta contro il mondo
borghese e la sua piccola morale di piccoli uomini, contro
l’egualitarismo, il democraticismo e il conformismo per
l’affermazione di una morale aristocratica incardinata sui valori
dell’essere che è a se stesso la propria legge.
In piena coerenza con la linea antiborghese da lui perseguita sin
da giovane, libero da vincoli professionali, familiari e sentimentali, si
rifiuta di prendere la laurea in Ingegneria facendosene un punto
d’orgoglio: “Divido il mondo in due categorie: la nobiltà e coloro che
hanno una laurea”.
8
Nota biografica
Alla vigilia della prima guerra mondiale Giovanni Papini
diviene il fulcro della sua insofferenza verso l’Italietta del primo
novecento. Riviste come Leonardo, Lacerba e in seguito, La Voce,
sono lo strumento di una entusiastica rivolta contro il vecchiume della
cultura ufficiale, il servilismo intellettuale e i valori della morale
borghese. Evola amplia e rinnova i suoi orizzonti: conosce le correnti
straniere del pensiero e dell’arte d’avanguardia, figure di mistici,
come Eckart e scritti sapienziali che lo porteranno oltre l’anarchismo
individualistico e meramente intellettuale dello stesso Papini, cui non
risparmia la feroce critica del suo Cammino, pur riconoscendogli
d’esser stato “un apritore di breccia”.
L’unico movimento artistico d’avanguardia esistente in questo
periodo in Italia è il futurismo. Evola vi aderisce inizialmente, ed ha,
con esponenti di esso, rapporti personali: è amico di Balla e conosce
Marinetti che alla vigilia della prima guerra mondiale, data la
posizione interventista del futurismo duramente avversata da Evola,
gli dirà: “Le tue idee sono lontane dalle mie più di quelle di un
esquimese”. Dipinge, a partire dal 1915, le prime opere dell’
“idealismo sensoriale”, ma la grezza esaltazione futurista della vita,
del sensualismo e della macchina, il chiasso privo di interiorità degli
invasati della velocità e dell’istinto, non incontrano il suo gusto.
Prende parte alla guerra contro gli Stati imperiali, tra il 1917 e il
1918, ma afferma di combattere spiritualmente a fianco della
Germania contro la ipocrita e sentimentale propaganda alleata. Dopo
aver frequentato a Torino un corso per allievi ufficiali di artiglieria,
viene assegnato a posizioni montane di prima linea, presso Asiago.
Evola si innamora, non di una donna ma della montagna: pratica
l’alpinismo come esercizio interiore e comincia la sua “ascesi delle
vette”. Non si trova impegnato in operazioni militari di rilievo e ciò
sembra dispiacergli.
Conclusasi nel 1918 la prima fase della sua attività artistica,
prende l’avvio il periodo dell’ “astrattismo mistico”, con i suoi
“paesaggi interiori” e i contatti con l’ambiente teosofico ed
occultistico. Ora è a Roma, dove lavora per il Ministero della Marina,
smobilitato ma non congedato dopo l’armistizio. Deve affrontare una
grave crisi perché si manifesta intensamente “il congenito impulso alla
trascendenza”. Evola s’offre una vita nell’inconsistenza e sente la
9
Nota biografica
vanità delle mete che normalmente impegnano gli uomini: si porta con
l’aiuto di sostanze stupefacenti verso stati della coscienza in parte
staccati dal dominio dei sensi fisici. Al confine della visione allucinata
vede l’ombra della follia. Non cede e passa oltre. Ma ormai, come
insegnano alcune tradizioni, “è stato morso dalla serpe”: il bisogno di
intensità e di assoluto si acuisce. Evola decide di perdersi. Ha ventitré
anni e il suo destino sembra essere lo stesso di Weininger e
Michelstaedter: lo stesso suicidio, la stessa età. Questa “soluzione
problematica” viene evitata “grazie a qualcosa di simile ad una
illuminazione” che lo investe mentre legge un testo del buddhismo
delle origini sull’ “estinzione”. In effetti la volontà suicida si estingue
quale “ignoranza” opposta alla vera libertà ed Evola sente sorgere in
lui una fermezza in grado di resistere a qualsiasi crisi. Nel frattempo,
si è imposto come l’unico vero esponente del dadaismo italiano,
animatore del movimento tra il 1920 e il 1921, dopo essere stato
folgorato dalla lettura del Manifeste dada 1918 di Tristan Tzara, la cui
volontà decreta la morte dell’arte. Evola non aspettava altro. Nella disperata coscienza dell’ “esprimere è uccidere”, il barone dada
esaurisce la sua esperienza artistica. Nel 1921, l’anno di una e
definitiva lettera a Tzara che segna il passaggio all’ “Iperbole”, smette
di dipingere e nel 1922 abbandona anche l’attività poetica che, iniziata
nel 1916, tras-pone l’immagine nella parola lirica.
Fine della “fase artistica” (1915-1922), inizio del cosidetto
“periodo filosofico” (1923-1930).
Nel 1917-1918, nelle trincee alpine, un Evola diciannovenne
aveva già cominciato a scrivere Teoria e Fenomenologia
dell’Individuo Assoluto, opera conclusa nel 1924, a soli ventisei anni,
e apparsa poi presso l’editore Bocca in due tomi: Teoria nel 1927 e
Fenomenologia nel 1930, che riscuoteranno l’apprezzamento di
Benedetto Croce. I Saggi sull’Idealismo Magico sono del 1925. Ѐ con
questi lavori che il filosofo romano attua una critica dell’idealismo
classico trascendentale, colpevole di una incompleta immanenza, del
quale si propone il superamento realizzativo in un Idealismo magico le
cui parole d’ordine sono: Libertà, Volontà e Potenza. E proprio
L’uomo come potenza si intitola un testo del 1926 sulla sapienza
tantrica, dottrina spirituale conosciuta e pratica da Evola, che con
questo lavoro congiunge la fase sistematico-speculativa con quella
10
Nota biografica
successiva sul terreno della prassi. Il suo primo libro dedicato alle
dottrine orientali è però del 1923, Il Libro della Via e della Virtù, testo
esoterico e sapienziale cinese, che Evola traduce e interpreta
evidenziandone le affinità con le posizioni dadaiste e accostando
inoltre il “Perfetto” taoista al suo Individuo Assoluto.
Tra il 1924, l’anno dell’omicidio Matteotti e della crisi del
fascismo, e il 1926, scrive sulle maggiori riviste dell’ambiente
esoterico e spiritualista: collabora ad Ultra del teosofo Decio Calvari,
a Bilychnis della scuola teologica Battista, ad Ignis e ad Atanòr del
neopagano e massone Arturo Reghini. Inizia anche a scrivere per
quotidiani sia di parte fascista, come L’Impero, che di parte
antifascista, come Il Mondo del liberal-democratico Giovanni
Amendola.
Non mancano intanto le avventure ero(t)iche con le belle donne
della Roma bene, tra tutte Sibilla Aleramo (ma sono in pochi in quel
periodo a non averci a che fare), che darà voce al proprio rancore
d’amante abbandonata nel suo romanzo dal titolo cartesiano Amo,
dunque sono, del 1927.
Evola è ormai un protagonista della vita culturale e artistica di
questi anni ed ha amici di non poco conto tra antifascisti come Croce,
Colonna di Cesarò e Tilgher, che lo chiama “il mago dell’idealismo” e
inserirà “il barone Giulio Evola” nelle sue frequentazioni epistolari
fino a farne un referente esemplare nella sua Antologia dei filosofi
italiani del dopoguerra (Guanda, 1937). Proprio Lo Stato
Democratico del Cesarò ospita il primo intervento politico evoliano
improntato ad un antifascismo antidemocratico che vede il movimento
di Mussolini come una forza contagiata da eccessi populistici e
demotici ─ la democrazia per Evola è una truffa, una forma di
dispotismo sottile in quanto il popolo non può che essere dominato ─
priva di una base spirituale, violenta e imbevuta d’ un vacuo ideale
patriottardo. Ma è prioritario l’impegno esoterico. Dal 1927 al 1929
Evola insiste nella sua straordinaria ri-scoperta e valorizzazione della
Tradizione esoterica coordinando il “Gruppo di UR”, composto, tra gli
altri, da Reghini, Colazza, Parise, Onofri, Comi e Servadio. Ur (192728), poi Krur (1929), le due riviste mensili di indirizzi per una scienza
dell’Io, sono le pubblicazioni di studi iniziatico-esoterici più
importanti mai pubblicate nel nostro paese nel XX secolo. Usciranno
11
Nota biografica
col titolo di Introduzione alla Magia quale Scienza dell’Io in tre
volumi presso l’editore Bocca nel 1955-56. Ѐ appena il caso di
rilevare che qui Magia sta per metafisica pratica, tecnica di risveglio
interiore e disciplina di elevazione spirituale.
Nel 1928 esce Imperialismo Pagano, edito dalla casa editrice
massonica Atanòr. Le polemiche velenose che seguirono la
pubblicazione del suo libello anticristiano ─ i Patti Lateranensi sono
dell’11 febbraio del 1929 ─ gli inimicarono parte delle residue
simpatie di cui godeva tra i fascisti e frantumarono il “Gruppo di UR”.
Bottai lo aveva già sconfessato ed isolato verso la fine del 1927,
preoccupato dalle proteste di parte cattolica. Evola aveva infatti scritto
per il suo giornale, Critica fascista, un articola dal titolo Il Fascismo
quale volontà d’Impero e il cristianesimo (1927). Ma grazie alla sua
amicizia con Farinacci, questo fascista eterodosso mai iscritto al PNF
trova rifugio su Il Regime Fascista di Cremona, dove curerà la pagina
Diorama filosofico. Problemi e prospettive nell’etica fascista, sul
quale scriveranno, dal 1934 al 1943, Guénon, Benn, Spann,
Wolfskehl, Günther, Valéry, de Santillana, il principe di Rohan,
Himmler, Fanelli e Tilgher.
Tra il 1927 e il 1929 ha un carteggio con Giovanni Gentile che
lo conosce personalmente e gli riconosce una competenza specialistica
nel campo delle scienze ermetiche, competenza che gli permetterà di
firmare più “voci” della Enciclopedia Treccani: senza dubbio
“Atanor”, forse quelle di “Tabula Smaragdina” e “Pietra Filosofale”.
Evola cercò il dialogo con la cultura ufficiale del Regime ma
Gentile non scrisse mai riga su di lui. Ugo Spirito invece si pronunciò
criticamente sull’Idealismo magico.
Ѐ tra il 1925 e il 1933 invece il rapporto epistolare con
Benedetto Croce, che in pubblico mai prestò attenzione ad Evola
durante il ventennio ma lo riteneva un valido interlocutore culturale,
con cui “dialogare” su temi di comune interesse quali, ad esempio,
l’opera di Bachofen, la filosofia di Vico e l’ermetismo rinascimentale
italiano. Croce parlò dei Saggi sull’Idealismo magico come di “opera
ben inquadrata e ragionata con esattezza” e “sponsorizzò” il filosofo
romano presso la casa editrice Laterza.
Nel 1930, fallita l’opera di rettificazione esoterica all’interno
del fascismo, Evola si arrocca ne La Torre, “Foglio di espressioni
12
Nota biografica
varie e di Tradizione una”. Tra i collaboratori del periodico, il padre
della psicanalisi italiana, Emilio Servadio, che sembra esserne stato
uno degli ispiratori, l’ “animatore invisibile” Guido de Giorgio, il
poeta Girolamo Comi e René Guénon.
Nell’editoriale del primo numero di questa rivista bimensile,
baluardo della “visione del mondo” tradizionale nella modernità e in
particolare nell’Italia fascista, Evola scrive: “Dei “solitari”, degli
“irriducibili” e dei “liberi”, si riuniscono dunque ne “LA TORRE”, non
come in un rifugio o nel luogo di una fuga più o meno mistica, ma
come in un posto di resistenza (il corsivo è mio), di combattimento e
di realismo superiore”. La rivista si scaglia contro i dis-ordini
dottrinali del fascismo e contro l’ottuso fanatismo degli squadristi. Nel
numero 3 viene definita “aberrante” la politica demografica lanciata
dal Regime, che reagisce sequestrandolo. Alla fine la rabbia dei
gerarchi e dei gangsters del partito unico ha la meglio: tutte le
tipografie di Roma ricevono l’ordine di non stampare La Torre, che
cessa di apparire il 15 giugno del 1930 dopo dieci numeri. E dopo che
Evola era stato costretto a girare per Roma difeso da una guardia del
corpo!
Il barone, disgustato, se ne va in montagna. Inizia a scrivere il
suo capolavoro, Rivolta contro il volto moderno, mentre cominciano
ad uscire opere il cui germe originario aveva già visto la luce su La
Torre: La Tradizione ermetica (1931), Maschera e volto dello
spiritualismo contemporaneo (1932) e, successivamente, Il mistero
del Graal (1937): il primo e il terzo tracciano le due vie occidentali al
mistero della regalità, rispettivamente la gnosi ermetico-alchemica e la
dottrina imperiale ghibellina. Il secondo, oltre ad essere, tra le tante
cose, una indagine spietata di sette e conventicole spiritualiste del suo
tempo (e di oggi!): superomismo, spiritismo, teosofia, satanismo e vari
misticismi, ha il merito di presentare e valutare autori come Meyrink,
Kremmerz e Steiner.
Nel 1934 viene pubblicato il già citato Rivolta contro il mondo
moderno. Un anno più tardi compare l’edizione tedesca accolta con
favore dagli ambienti della “rivoluzione conservatrice” e dei circoli
aristocratici.
Ѐ un imponente studio di morfologia delle civiltà e di metafisica
della storia strutturato sul principio-cardine della natura decadente del
13
Nota biografica
“mondo moderno”, il mondo profano del divenire, le cui coordinate
assiologiche sono date dall’utile e dal tempo, opposto al “mondo
tradizionale” dell’essere, che si fonda invece sui valori del sacro e
dell’eternità: “due tipi generali, due categorie aprioriche della civiltà”.
Piena di risonanza l’entusiastica lettura di Gottfried Benn:
“Dopo averlo letto ci si sente trasformati”.
Questi anni portano Evola in Germania e in Europa centrale,
dove tiene diverse conferenze ed ha incontri decisivi: tra tutti,
Corneliu Codreanu, il capo del movimento romeno politico-religioso
della “Legione dell’Arcangelo Michele”, che Evola tiene in grande
stima, e Mircea Eliade.
Le contingenze socio-politiche del tempo sono tali da richiedere
una scelta di campo e l’uomo della Tradizione non si tira indietro
orientando la sua intensa attività verso aspetti specificamente politici,
che si concretizzerà in una sterminata produzione pubblicistica nei più
diversi campi della cultura su quotidiani come Il Regime Fascista,
Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo
d’Italia, La Stampa, Il mattino, e su riviste e periodici come Logos,
Ultra, Educazione Fascista, La Nobiltà della Stirpe, Vita Nova, Il
Lavoro Fascista, La Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova
Antologia, ‘900, Il progresso religioso, Lo Stato, La Vita Italiana, La
Difesa della Razza, Rassegna Italiana, Augustea, Bibliografia
Fascista, Carattere, Insegnare, Scuola e Cultura, Il Saggiatore ed
altri.
Nel 1938 la coperta fascista è sempre troppo corta: l’italiano si
scopre razzista e si copre di ridicolo. In un paese in cui ariano è al
massimo il seguace dell’eresiarca Ario, Evola non si fa cogliere
impreparato ed elabora la sua dottrina della razza imperniata sulla
tripartizione tradizionale dell’essere umano in corpo (sôma), anima
(psyché) e spirito (noûs), corrispondente ai tre stati della razza disposti gerarchicamente nell’uomo: materiale, animico e spirituale. Egli
disprezza l’equivoca mistica del sangue nazional-socialista e respinge
“recisamente ogni teorizzazione del razzismo in chiave
esclusivamente biologica” (De Felice). Il mito del sangue esce nel
1937: è un trattato espositivo dove, “con la massima oggettività”,
vengono esposte le dottrine elaborate sul tema della razza e del
razzismo negli ultimi secoli. Segue Sintesi di dottrina della razza
14
Nota biografica
(1941), ─ il libro ottenne un aperto riconoscimento personale da parte
di Mussolini ─ che straccia metaforicamente il Manifesto dei
ciarlataneschi adulatori di un’ inesistente razza italiana nel segno della
idea, intesa platonicamente come energia formatrice e modello
esemplare di condotta contro ogni naturalismo e materialismo. Dello
stesso anno “Indirizzi per una educazione razziale”, libretto didattico
in cui Evola riassume la concezione classica della “razza dello
spirito”. Tre aspetti del problema ebraico, del 1936, è invece la prima
“messa a punto” organica sul tema dell’ebraismo.
Quando la Germania attacca la Russia (1941), Evola chiede di
partire volontario. La risposta giunse quando ormai l’ARMIR veniva
ritirata dal fronte. Motivo del ritardo: non era iscritto al PNF.
Nel caos nazionale vede la luce La dottrina del risveglio (1943),
“saggio sull’ascesi buddhista”, col quale Evola sembra indicare, dato
il momento, una via di liberazione interiore. Considerato da alcuni
studiosi la migliore esposizione del Canone buddhista pâli, verrà poi
tradotto in inglese sotto il patrocinato del più prestigioso centro
buddhista esistente, la “Pâli Society”.
Dopo l’8 settembre del 1943, raggiunge fortunosamente la
Germania. È tra i pochi, insieme a Vittorio Mussolini, Giovanni
Preziosi e Roberto Farinacci, ad accogliere Mussolini, appena liberato
dalle “truppe speciali” di Otto Skorzeny al Gran Sasso, presso il
Quartier Generale di Hitler a Rastenburg. Si schiera al fianco della
Repubblica Sociale col fine di “preparare qualcosa che potesse
sussistere anche dopo la guerra”, essendo molto lontano, lui
“monarchico”, aristocratico e reazionario, da qualsivoglia idea
repubblicana o socialista.
Presa Roma nel giugno del 1944, fugge in Austria dove svolge,
per conto delle SS, un’indagine sulle “forze occulte della sovversione
mondiale”.
In piena guerra, lo kshatriya aveva seguito una particolare linea
di condotta: “non schivare, anzi cercare i pericoli, quasi nel senso di
un tacito interrogare la sorte”. Ma la sorte possiede un’ironia che non
è quella degli uomini. Evola, che nella sua permanenza a Vienna
aveva preso la buona abitudine di passeggiare durante i
bombardamenti aerei, resta sepolto sotto le macerie pochi giorni prima
dell’arrivo dei Russi nella capitale austriaca. Viene sbalzato, secondo
15
Nota biografica
quanto riferisce il suo medico personale “dallo spostamento d’aria
provocato da un’esplosione e sbattuto contro una struttura di legno,
delle impalcature, che erano in una piazza”: lesione del midollo
spinale con conseguente paralisi parziale degli arti inferiori. Nel suo
Cammino ─ interrotto solo materialmente ─ dirà: “Nulla cambiava,
tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico […] la mia
attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo
pregiudicata o modificata”.
Dopo due anni trascorsi in una clinica austriaca, Evola rientra in
Italia nel 1948, a Bologna, dove si tenta invano un’operazione per
restituirgli l’uso delle gambe. Sottopone a revisione sue opere
giovanile ormai esaurite da tempo, tra cui: Teoria dell’Individuo
Assoluto che rielabora pressoché totalmente e che uscirà solo nel
dicembre del 1973 e L’Uomo come Potenza che diventa,
adeguatamente “ortopedizzato”, Lo Yoga della Potenza (1949). Adatta
inoltre i testi apparsi in Ur e Krur nei tre volumi della Introduzione
alla magia quale scienza dell’Io che verranno pubblicati nel 1955.
Rientra a Roma: sono anni di sofferenza, tra rovine materiali e
spirituali. Per i giovani che, nonostante il “crollo generale” leggono i
suoi libri, Evola fissa gli 11 punti politico-culturali di Orientamenti
(1950). “Non senza relazione con ciò mi trovai coinvolto
involontariamente in una comica vicenda”: è il processo dei FAR
(Fasci d’azione rivoluzionaria) da cui uscì con una assoluzione piena
dopo aver scontato sei mesi di carcere. Difensore di Evola, accusato di
apologia e ricostituzione del partito fascista, è il celebre avvocato
antifascista Francesco Carnelutti, che lo difende gratuitamente. Il
pensatore tradizionale poi pronuncia la sua nota Autodifesa dinanzi
alla Corte d’Assise di Roma, dove mette in chiaro la sua posizione ed
espone la propria visione del mondo. Evidentemente, commenterà,
“nelle bassure attuali, pei più altro non esisteva che l’antitesi
fascismo-antifascismo, e non essere democratici, socialisti o comunisti
equivaleva automaticamente ad essere ‘fascisti’”.
L’opuscolo Orientamenti contiene in nuce le posizioni evoliane
successivamente sviluppate dall’autore in tre libri: Gli uomini e le
rovine (1953), Metafisica del sesso (1958) e Cavalcare la tigre
(1961), rispettivamente sulla dottrina dello Stato, sulle teorie dell’eros
e sugli orientamenti esistenziali dell’uomo differenziato in un’epoca di
16
Nota biografica
dissoluzione. Seguiranno: un saggio sul pensiero di Jünger, L’Operaio
nel pensiero di Ernst Jünger nel 1960, la già più volte citata
“autobiografia” spirituale attraverso i suoi libri, Il Cammino del
Cinabro nel 1963, un’opera di analisi politica del fascismo da un
punto di vista tradizionale, assai critica, Il fascismo visto dalla Destra
nel 1964, un volume di saggi di vario argomento, L’arco e la clava nel
1968 e una riedizione ampliata di poesie giovanili dal titolo Raâga
Blanda nel 1969.
Da non sottacere la riscoperta dell’Evola dada: Enrico Crispolti
organizza nel 1963 una mostra dei suoi quadri alla galleria “La
Medusa” di Roma. Notevole anche la produzione pubblicistica di
questo periodo, limitata ovviamente, visto il clima politico-ideologico
del tempo, a quotidiani e riviste non conformisti e di lotta. Tra i primi:
Roma e Il Secolo d’Italia, tra i secondi: Meridiano d’Italia, Imperium,
Monarchia, Il Ghibellino, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il
Conciliatore, L’Italiano, Totalità, Vie della Tradizione, Il Borghese,
La Torre, La Destra, Intervento. Una menzione particolare meritano
East and West, organo dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente
del professore Giuseppe Tucci, e Antaios, rivista internazionale diretta
da Mircea Eliade ed Ernst Jünger.
Il 1968 vede Evola nei panni dell’anti-Marcuse. Le sue teorie
infatti, fino ad allora ignorate o calunniate, vengono riscoperte dalla
“contestazione”, non solo a destra, divenendo improvvisamente il
punto di riferimento dei delusi dal “materialismo” del filosofo
tedesco-americano. Le opere evoliane vengono quindi più volte
ristampate conoscendo dal 1968 al 1973 una insperata diffusione,
anche all’estero.
Fonda e dirige per Le Edizioni Mediterranee dal 1968 al 1974,
l’anno della sua morte, la collana “Orizzonti dello Spirito”.
Agli inizi degli Anni settanta, la ventennale immobilità dovuta
all’incidente di Vienna che oltre alla paralisi degli arti inferiori aveva
causato al filosofo romano anche un inizio di cardiopatia, porta a
conseguenze fisiche inevitabili. La salute del barone ne risente, non
però la sua attività. Subisce vari ricoveri e cade in coma nel 1968. Al
suo risveglio domanda: “Come mi sono comportato?”. Ha difficoltà
respiratorie ed epatiche ma il suo stile è immutabile e mai smette di
lavorare. Dalla metà del 1973 la situazione fisica generale peggiora
17
Nota biografica
gravemente. Evola è sereno e considera compiuta la propria missione:
“Ho detto tutto. Basta sapermi leggere”. Ѐ lo stesso invito del
Nietzsche di Aurora: “Miei pazienti amici […]: imparate a leggermi
bene!”.
L’11 giugno del 1974, nel primissimo pomeriggio, Evola si fa
vestire e condurre alla propria scrivania di fronte alla finestra da cui
s’intravede il colle sacro al dio Giano. Reclina il capo e non si muove
più.
Nel suo testamento olografo, “Roma, 30 gennaio 1970”, aveva
disposto che il suo corpo venisse cremato, che non vi fossero
esposizioni in chiesa, cortei funebri, interventi di sacerdoti cattolici e
“annunci funebri” sui giornali. L’ incinerazione avviene il 10 luglio.
Ufficialmente, i resti mortali di Evola sono custoditi nella
tomba di famiglia che si trova a Roma, nel cimitero del Verano. In
realtà, dormono nelle profondità di un ghiacciaio del Lyskamm nel
massiccio del Monte Rosa. Le ceneri furono collocate in due urne
futtili di foggia antica, identiche, poi cementate e sigillate. Solo una di
esse, quasi vuota, sarà destinata al Verano. L’altra, verrà affidata a
Eugenio David ─ guida emerita e antico compagno di cordata del
Filosofo, con il quale nel 1930 conquistò la parete nord del Lyskamm
orientale (m. 4538) ─ che organizzò, con alcuni seguaci di Evola,
l’ascensione ai ghiacciai del Monte Rosa per eseguirne il funerale
alpestre: “Io vorrei […] che le mie [ceneri] fossero lanciate dall’alto di
una montagna”. Così è stato.
18
Capitolo I
Premessa
“Sono assai sfortunato, la mia esposizione a Berlino ha avuto molto successo”.
J. Evola a T. Tzara
Un fascio di versi. Poi, il cielo:
“Ma, ancora oggi, per un istante, si è aperta l’eterna volta di
16
piombo oscuro e piagato al puro infinito azzurro” .
Il colore dominante delle composizioni evoliane. Lo Spirito,
l’infinito – la morte.
Evola impugna la rivoltella Dada: gesto ultimativo dell’arte.
Cominciò ch’era finita. Il paesaggio interiore si apre su
un’agghiacciante congedo.
Sconvolta la parentesi futurista dell’idealismo sensoriale, Evola
dissolve ogni arte nella coagulazione dell’Io.
Vaticinio d’amante nel tremendo incantesimo d’una apocalisse
irrappresentabile:
“L’arte moderna cadrà ben presto: appunto questo sarà il segno della
sua purità […], cadrà più che altro, per essere stata realizzata con un
metodo dall’esterno/ per una graduale elevazione dalla malattia su
motivi in parte passionali/ anzi che dall’interno/mistico/…”17.
Nell’Io che è un autre, veicolo del nulla in cui s’è rivelato il
mondo, la forma stessa è consumata come deliquio d’ogni contenuto:
“Esprimere è uccidere”18. Ma da un silenzio gravido d’orrore nascerà
16
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica (10 poemi, 4 composizioni, Collection Dada, Zurigo),
Roma, 1920, Maglione e Strini, p. 14.
17
Ibid.
18
Ivi, p. 9.
80
Capitolo I
la parola dell’Individuo Assoluto: vertigine salvifica sul limitare della
perdizione.
Come un dio che corre lacerando il niente che l’avvolge.
Parentesi futurista
Andiamo con ordine. È opportuno infatti ricordare ─ in apertura
di questo capitolo dedicato al trapasso evoliano dal periodo cosiddetto
artistico a quello filosofico19 ─ che Jules Evola20, prima di approdare
al mondo della Tradizione attraverso il processo magico-filosofico
dell’Individuo Assoluto, superò il nichilismo nell’astrazione totale
dadaista, divenendo in Italia il vero, e per molti aspetti l’unico,
protagonista ed animatore del movimento21.
Il giovane barone “rappresentò senza dubbio la posizione più
rigorosa e più estremista di tutto il dadaismo europeo”, incarnandone
la sua vocazione più qualificante ed ironica: la morte dell’arte 22.
Tanto che, dopo la sua esperienza poetico-pittorica, cesserà nel ‘21 di
fare l’artista23. Vediamone gli inizi allora.
Nell’Italietta provinciale, cattolica e borghese del primo
novecento, Evola è un alieno24. A guerra terminata, vi ha preso parte
tra il 1917 e il 1918, mentre nazionalisti e futuristi s’affrettano a
gonfiare il mito della vittoria mutilata, il tenente d’artiglieria Giulio
Cesare torna a Roma, ancora inquadrato ufficiale presso lo stato
19
Cfr. Gianfranco de Turris, Introduzione a Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a
cura di Elisabetta Valento (con sei illustrazioni), Quaderno di testi evoliani n. 25, Fondazione
Julius Evola, 1991, p. 4: “I vari ‘periodi’ della sua attività intellettuale non sono da considerarsi
come compartimenti stagni o divisi nettamente, ma sfumano l’uno nell’altro, e già il precedente
contiene i germi del seguente”.
20
Così si firmava quando era dadaista.
21
Non solo da un punto di vista tecnico-pittorico ma anche e soprattutto sul piano teorico. Evola
ha infatti una capacità di concettualizzazione superiore a quella dei suoi ben più celebrati colleghi
di New York, Zurigo, Parigi, Colonia o Monaco. Cfr. Sergio Benvenuto, Dada e la filosofia. Evola
e l’essenza del dadaismo, in Dada. L’arte della negazione, Edizioni De Luca, Roma 1994.
22
Giovanni Lista, Tristan Tzara et le dadaisme italien, in Europe 555-556, luglio/agosto 1975.
23
A ventitré anni Evola chiude con la pittura e la poesia. Anticipando così Marcel Duchamp,
maestro dell’ironia dada che, nel 1922, dirà addio alla pittura consacrando il suo genio al gioco
degli scacchi. Il Barone tuttavia tornerà a dipingere verso la metà degli anni ’60.
24
Per dare un’idea della sua precoce inattualità, o se si vuole, della sua aristocratica sociopatia, si
veda la bella e partecipata testimonianza di Jacopo Comin in Testimonianze su Evola, a cura di
Gianfranco de Turris, Edizioni Mediterranee, Roma, 1985, che mi permetto di riassumere in una
frase ivi contenuta, p. 90: “Ragazzi, lasciatelo stare! Ha diritto ad essere solo” (A. Reghini).
20
Capitolo I
maggiore della Marina. Giovanissimo, è già absolutus, sciolto da
quel mondo al quale non sembra appartenere. Aveva cominciato a
dipingere durante il primo conflitto mondiale, frequentando gli
ambienti più estremi dell’avanguardia futurista25: Casa d’Arte
Bragaglia, che più tardi aprirà il Teatro Sperimentale degli
Indipendenti, e lo studio di Giacomo Balla ─ di cui fu “praticamente
allievo”26 ─ fulcro delle ricerche avanguardiste e centro d’irradiazione
dei più svariati interessi culturali27. Sotto questi influssi produrrà le
prime opere rientranti nella tendenza che l’autore stesso ha
denominato “idealismo sensoriale” (1915-1918), ma abbandonerà
presto il movimento marinettiano, abissalmente distante, a parte il
lato rivoluzionario, dalla sua nascente estetica uranica28. E proprio il
fastidio per il futurismo ─ il suo lato chiassoso ed esibizionistico, la
rozza esaltazione dell’istinto e della vita, la febbre nazionalistica, il
sensualismo etc. ─ lo abbandonerà rapidamente al greve abbraccio
dada.
L’avanguardia romana degli anni Dieci e primi Venti è
animata da un forte sperimentalismo, una sorta di ecumenismo
artistico che vede lo stesso futurismo dialogare, più o meno
pacificamente, con le altre tendenze avanguardiste. Ma ciò che ai
nostri fini occorre rilevare è la sua componente occulta: si pensi, per
fare solo qualche esempio, al “fotodinamismo” di Bragaglia o alle
25
Evola data l’inizio della sua attività pittorica al 1915, presso casa Balla, dove compie
l’apprendistato futurista, ma tra quelli conosciuti, i suoi quadri più vecchi risalgono al 1916-1917.
Tra gli altri: Paesaggio notturno, 1916c., Five o’clock tea, 1916-1917 e Nel bosco, 1916-1917.
26
Cfr. Enrico Crispolti, Giulio Evola. Retrospettiva di dipinti dal 1918 al 1921, Galleria La
Medusa, Roma 1963.
27
Con Evola, altri giovani di talento come Prampolini, Depero, Marchi, i due fratelli Ginanni
Corradini si stringono attorno al Maestro.
28
Così Philippe Baillet, nel suo venerante Julius Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni di Ar,
1978, pp. 38-39, definisce l’estetica evoliana, con pertinenti considerazioni che, nonostante la
diversa prospettiva, chi scrive si sente di condividere: “[…] abbiamo qualificato «uranica»
l’estetica di Evola. Occorre spiegare perché, ma ricordiamo anzitutto che non è evidentemente per
caso che Evola ha scelto il prefisso UR per denominare il gruppo di ricerche esoteriche che egli
dirigeva verso la fine degli anni 20. Nella mitologia, Urano simboleggia il risveglio del Fuoco
Primordiale. Più in generale, l’aggettivo «uranico» si potrà applicare per designare la pura fiamma
dello Spirito, che si alimenta di sé stessa e che non brucia. Sul piano spirituale, Urano evoca un
impulso irresistibile verso la trascendenza, verso l’incondizionato, impulso che può accompagnarsi
alla coscienza acuta e dolorosa della privazione e della sete inseparabili dalla condizione umana.
Sul piano psicologico, Urano rinvia all’immagine di una «sovratensione», di una corrente troppo
forte che ha bisogno di «passare» a qualunque costo, di un cammino discontinuo, non progressivo,
che avanza per crisi successive. Su questi tre piani ─ spirituale, psicologico, estetico ─ Urano è il
segno dei figli del Nord […] e della via che è loro propria, la via eroica. Urano definisce e
circoscrive così una delle «razze dello spirito» di cui ha parlato Evola”.
21
Capitolo I
“compenetrazioni iridescenti” di Balla, segnate da quella cifra
alchemica che tanta importanza avrà per Evola29.
L’Evola artista muove i suoi primi passi in una Roma magica.
Città attraversata dal delirio30 paranormale, psichista e antropoteosofico di Arnaldo Ginna, sua moglie Maria Ginanni, Rosa Rosà,
Mario Carli: protagonisti della rivista fiorentina L’Italia futurista
(1916-1918)31. È a casa Balla che il giovane pittore conosce Ginna,
con il quale entra subito in simpatia, dato il comune interesse per il
paesaggio interiore32. La pittrice e poetessa viennese Rosa Rosà, nome
d’arte futurista di Edith Von Haynau, è invece tra coloro che (non)
collaboreranno alla mai nata Alpenrose, la rivista modernista che
Evola prepara nel 1919 e che avrebbe ospitato, tra i tanti, contributi di
Balla, Marinetti, De Chirico, Savinio e Arturo Onofri.
Ho già accennato alla scarsa sintonia di Evola col futurismo. E
presto vi tornerò sopra commentando alcuni suoi scritti teorici. Ora è
però il caso di considerare brevemente la prima produzione evoliana
dell’idealismo sensoriale, fortemente influenzata dal dinamismo
plastico futurista e, in particolare dalla ricerca del suo maestro Balla,
“non senza suggestioni di spiritualismi orfici, destinate ad avere in lui
successivamente una decantazione in chiave-alchemico-magica”33.
Ma perché idealismo sensoriale?
Un’estetica, sentire dell’Idea, come idealismo pittorico ─ del
senso interno e non dei sensi fisici ─ che contrappone “l’elemento
esclusivamente soggettivo al panteismo incosciente e trascendentale
del soggetto e dell’oggetto […] ossia lo spirito alla natura e di
29
Evola intitolerà la propria autobiografia spirituale: Il cammino del cinabro, (Vanni Scheiwiller,
Milano, 1963). Il cinabro, solfuro di mercurio, in alchimia è la materia prima della pietra
filosofale.
30
Dall’etimo deliràre, uscire dal solco o come si usa oggi, dal seminato, dalla dritta via della
ragione. Sempre che la ragione non abbia torto.
31
Cfr. Arnaldo Ginna, Brevi note su Evola nel tempo futurista, in Testimonianze su Evola, op. cit.,
op. cit., p.136: “Evola dipingeva un astrattismo di stato d’animo […] con quel pizzico di
sentimento profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si interessava di
occultismo traendone […] un succo personale. Non so precisamente definire gli studi e le
esperienze di Evola, so soltanto che ciascuno di noi aveva tra le mani i libri di teosofia della
Besant e della Blavatsky, e poi le opere di antroposofia di Rudolf Steiner etc.”.
32
Così Evola intitola gran parte dei suoi quadri del periodo dadaista.
33
Carlo Fabrizio Carli, Evola tra futurismo e dadaismo, in Studi Evoliani 1998, Fondazione Julius
Evola, Roma, 1999, p. 15.
22
Capitolo I
conseguenza la volontà nel sentimento astratto ed egoistico al valore
sentimento ed alla sensazione”34.
Pochissime sono le opere rimaste di questa produzione e
conviene subito dire che l’Evola artista, mostra da subito una
personalità talmente forte e complessa, tale da non poter essere
definito se non un futurista eterodosso.
Opere come Mazzo di fiori, Feste, Fucina – studio di rumori,
Five o’clock tea, Sequenza dinamica e l’acquerello Truppe di rincalzo
sotto la pioggia, rinviano ad una facoltà interiore che consente la
“continuazione astratta dell’oggetto” come creazione. L’oggetto non si
trova nell’oggetto stesso ma in un qualcosa che ne è esterno,
“rinchiuso in noi”. Si veda sequenza dinamica, “piccolissimo olio su
cartone in cui è evidente l’ispirazione agli studi sulla velocità che
trovarono in Balla il loro iniziatore”35: linee continue, “traiettorie di
energia” (M. Calvesi) che rendono caotica l’immagine. Folate di
vento, cielo frastagliato da punte spezzate, nuclei di luce dinamica
fissati dall’occhio fisico. “Forme sintetiche astratte dinamiche”
(Balla). Non sono gli oggetti a muoversi, ma è l’energia di chi li crea a
donar loro una forma in movimento:
“La pittura futurista deve differenziarsi da ogni altra esclusivamente
in quanto esclude l’oggetto, in quanto è la estrinsecazione di forme
puramente astratte e psicologiche, in quanto noi stessi quale spirito
siamo gli unici soggetti dei nostri quadri”36.
Arte creazione dello spirito dunque, e ricreazione della materia
nel laboratorio alchemico ─ la fucina in cui si lavorano i metalli ─
come manipolazione artigianale del colore37: Fucina, studio di rumori,
34
J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, testo inviato a Gino Soggetti, nel 1917, per
la rivista La Folgore futurista, fondata in quello stesso anno da Soggetti e da Angelo Rognoni,
animatori del gruppo futurista pavese. La rivista venne sospesa dopo appena due numeri a causa
della partenza dei redattori per il fronte. Lo scritto di Evola rimase inedito. Successivamente
ritrovato e pubblicato da Giovanni Lista in Balla le futuriste, L’age de l’homme, Lausanne, 1984,
p. 142. Ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, Fondazione Julius Evola, Roma, 1994, pp.
20-21.
35
Elisabetta Valento, Homo faber. Julius Evola tra arte e alchimia, Fondazione Julius Evola,
Roma, 1994, p. 20.
36
J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., in p. 20.
37
Evola utilizzò solo materiali “tradizionali”, semplici: carboncino, inchiostri, acquerelli, colori ad
olio e smalti. Si esprime negativamente in Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 19,
sull’“introduzione di materiali spuri”.
23
Capitolo I
la nostra ultima visione futurista, esposta a Ginevra e a Roma nel
1920. “L’astrazione è qui raggiunta rendendo analogicamente
l’esperienza sensibile della realtà”38: il laboratorio del fabbro in cui si
ode l’esplosione di colori tra globi astrali provenienti da una
dimensione altra, interna. I riferimenti evoliani sono qui
presumibilmente due testi del 1913: il manifesto di Carrà La pittura
dei suoni, rumori e odori (agosto 1913) e Le analogie plastiche del
dinamismo, dove è scritto:
“Ormai la realtà esteriore e la conoscenza che ne abbiamo non hanno
più alcuna influenza sulla nostra espressività plastica, e, quanto
all’azione del ricordo sulla nostra sensibilità, soltanto il ricordo
dell’emozione persiste, e non quello della causa che l’ha prodotta. Il
ricordo agirà dunque nell’opera come ‘elemento d’intensificazione
plastica’”39.
Evola scrive:
“[…] nel nostro lavorìo psichico, nella memoria non rimangono che i
fatti importanti ed eterogenei di un avvenimento: dipinger questo
significa unificare questi dati importanti che esistono ed hanno un
valore solo presso l’esistenza ed il valore degli altri diversi (IVa
dimensione: colore di una forma mentre suona una tromba), ossia
porre le forme nuove uniche. E la forma nuova, semplece, spirituale,
raffinata, costruibile e quasi architettonica, risolve in uno il problema
della comprensibilità esasperato nei grovigli di linee forze, di
compenetrazione e di particolari arabeschi introdotti dalla validità
delle analisi dei ricordi”40.
Ma è il colore, innaturale come può esserlo l’artificio d’un
mago, a preannunciare il Manifesto del colore di Balla uscito nel
1918. Caratteristica questa, non solo del quadro in oggetto, ma di
quasi tutti quelli che conosciamo: mondo di una immaginazione
(imum-ago, agire dall’interno) senza limite.
38
Ivi, p. 23.
Gino Severini, Le analogie plastiche del dinamismo, settembre-ottobre 1913.
40
J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 20.
39
24
Capitolo I
Evola dada
Nel suo Cammino Evola scrive:
“In quel periodo giovanile, dato che in Italia come movimento
artistico d’avanguardia praticamente esisteva quasi soltanto il
futurismo, ebbi rapporti personali con esponenti di esso. In
particolare, fui amico, del pittore Giacomo Balla, e conobbi
Marinetti. Anche se il mio interesse principale era pei problemi dello
spirito e della visione della vita, coltivavo altresì la pittura, una
disposizione spontanea al disegno essendosi manifestata in me già da
bambino”41.
L’arte evoliana ha un fondamento extra-artistico: i suoi quadri e
le sue poesie giovanili42 devono essere guardate da una prospettiva
filosofica e religiosa che matura in questi anni e che è possibile
leggere attraverso i suoi primi scritti teorici, travaglio di uno spirito in
divenire: “Ed in effetti l’approccio con l’avanguardia futurista fu più
uno scontro di sensibilità che una vera e propria collaborazione”43.
Diversamente andarono i rapporti col dadaismo. Mi riferisco
alla seconda fase della pittura evoliana che si mostra nel triennio
1918-1921: Astrattismo mistico. Siamo in una dimensione puramente
astratta in cui scompare ogni referente figurale. Dimensione introdotta
da Balla nel repertorio pittorico futurista ─ sostanzialmente figurale
prima e dopo la guerra ─ che segnò per Evola il passaggio al secondo
41
J. Evola, Il cammino del cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1972, p. 17. Il corsivo è nostro.
Cfr. Raâga blanda, Composizioni 1916-1922, Vanni Scheiwiller, Milano, 1969. Le poesie
sparse di Evola risalgono tutte agli anni tra il ’16 e il ’22. Atteso cinquant’anni prima di essere
riunite e pubblicate. Sono in italiano e in francese e, in parte, apparvero su riviste d’avanguardia
dell’epoca. I versi di Evola sono lo specchio di un nichilismo gelido, metallico. La testimonianza
di una rottura dei sensi alla ricerca di una libertà superiore. Questa diversa dimensione dell’essere
è lacerata da illuminazione improvvise, quasi abbandonate alla parola da lontananze cosmiche:
“tutti questi cristalli neri sperduti nella notte frammenti caduti di lontani mondi” (i sogni), “hada
adarrrrrr – vi son dei samovar e dei motoscafi (hh) sulle terrazze lunari ─ iperbole danza (ore 18
composizione), “mai più mai più valli azzurre – il cielo può attaccarsi alla terra con iperboloidi di
miele – per una sigaretta accesa son cadute a fondo tutte le bajadere elettriche di San Francisco”
(composizione n. 2), in J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., rispettivamente, p. 15, p.
21 e p. 23. Sulla poesia evoliana, cfr. Sandro Giovannini, Evola tra poesia e arte, in Studi Evoliani
2008, Arktos Editrice, Torino, 2009.
43
Marco Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo
dopoguerra alla metà degli anni Trenta, in Delle rovine ed oltre, Antonio Pellicani Editore, Roma,
1995, p. 41.
42
25
Capitolo I
periodo futurista: quello della “forma nuova” di contro a quello delle
“linee forza” dominato da Boccioni44.
È bene avvertire però che i confini tra le fasi pittoriche evoliane
sono fragili, in quanto momenti-vortice di un processo di maturazione
tecnico-intellettuale e sopratutto spirituale che ha conosciuto forse
estasi ma non stasi.
I temi di Evola Dada: Paesaggi interiori, Astrazioni,
Composizioni, Paesaggi dada, ben sintonizzati con i più acuti vertici
avanguardistici della Mitteleuropa: Arp, Schad, Richter, Itten.
Si concentra in una manciata di anni il suo gesto pittorico:
Roma, personale nel 1920 da Bragaglia, poi Berlino nel 1921 presso
la celebre “Der Sturm” di Erwart Walden. Nello stesso anno la mostra
della trinità dada Evola-Fiozzi-Cantarelli sempre da Bragaglia, nonché
la partecipazione alle tre collettive: la futurista di Milano nel 1919 a
Palazzo Cova, l’internazionale d’arte d’avanguardia a Ginevra nel
1920-1921 e infine il Salon Dada a Parigi nel 1922.
Merita una menzione a parte il grande murale di cinque metri
per tre dipinto da Evola per le “Grotte dell’Augusteo”. A Roma infatti
c’era una sala per concerti molto famosa, che sorgeva su di un antico
anfiteatro romano, l’Augusteo appunto. E qui, in una sala sotterranea,
il pittore futurista Arturo Ciacelli aveva creato un cabaret alla francese
─ luogo preferito di ritrovo di intellettuali ancora alle prime armi
come Curzio Malaparte e Vincenzo Cardarelli ─ che Evola aveva
contribuito a decorare. In questo club artistico si tenne nel maggio del
1921 una manifestazione dadaista, peraltro riservata ai soli invitati che
alla fine ricevettero un piccolo “talismano dada”: la recitazione di un
poema a quattro voci, tre uomini e una giovane donna, che durante la
performance fumavano e bevevano champagne. Come musica di
sottofondo e di accompagnamento: Satie, Schönberg e Strawinsky45.
44
Cfr. J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 19: “Decisamente la pittura
futurista è entrata in un secondo periodo: il primo fu quello di Umbero Boccioni, il secondo,
proprio della nuova generazione, fu iniziato da Giacomo Balla. Il primo periodo di lotta, di ricerca
affannosa, di ‘Sturm und Drang’, il secondo di organizzazione e di selezione: linee forza nel
primo, forma nuova nel secondo. E ancora, ivi, p. 21: “La nuova pittura futurista […] attribuisce
un valore enorme al volere a scapito del solito sentimento da romanticismo più o meno
mascherato: la teoria della forma nuova pone decisamente le basi della pittura idealista e
psicologica”.
45
Cfr. G. Lista, Il Dada in Italia, DIA International, novembre 1983, p. 31: “Evola aveva invitato
a Roma il danzatore russo Vlentin Parnak, l’inventore d’una danza grottesca che parodiava il mito
26
Capitolo I
Il testo declamato era l’opera evoliana La parole obscure du paysage
intérieur. Poème a 4 voix, di cui avrò modo di parlare.
Particolarmente significativa è poi la già citata mostra nell’aprile del
1921, con Fiozzi e Cantarelli presso la Casa d’Arte Bragaglia, che
segnerà una frattura definitiva tra Marinetti e l’esiguo gruppo di
dadaisti italiani. L’intenzione era quella di stupire i convenuti, di
épater le bourgeois come si diceva un tempo, quando ancora
esistevano, e di sfregiare definitivamente il volto modernista del
futurismo nel rogo d’ogni retorica estetica, politica e morale. Al
centro della sala un tabellone con una frase di Tristan Tzara: “Mi
piacerebbe andare a letto col papa. Non capite? Nemmeno noi: che
tristezza…”. In fondo, su di un altro tabellone: “Prima di noi, la
blenorragia; dopo di noi, il diluvio”. Ma su tutti i quadri c’erano delle
piccole scritte del tipo: “Comprate questo quadro, vi supplico: costa
solo 2 franchi e 50”. E poi un bizzarro elenco di simpatie e antipatie
dada, tra cui: “Dada è contro la patria”, “A Dada non piace la Santa
Vergine” e “Dada è contro Dada”. In un simile pandemonio non
stupisce che volassero ortaggi e uova marce, trofei di un’arte sfondata
nell’ironia e nel paradosso.
Che il pubblico non capisse, era il desideratum dadaista per
eccellenza. Quanto alla critica… Irretita dalla folle maschera di questa
arte non si accorse del suo volto celato: la profonda serietà della
fumisteria. Il mistero dietro la mistificazione. Ricordo le parole di un
tragico pagliaccio: “Sembra che siamo giocondi perché siamo
immensamente tristi. Noi siamo seri, conosciamo l’abisso: e per
questo ci difendiamo da ogni serietà”46.
Dada non ha avuto molto seguito in Italia e dopo il ritiro di
Evola non se ne sentì più parlare. Dada non era soltanto arte o peggio
il tentativo di crearne una nuova. Dada era l’opposto del futurismo, e
lo era ferocemente: nessuna civiltà moderna, nessun futuro, nessuna
velocità… NIENTE, se non il riflesso della crisi, punto 0 dei valori47.
della macchina e della tecnologia moderna con lo stesso spirito dei disegni meccanomorfi di
Picabia”. Il Barone firmò col nome dell’artista francese alcuni suoi quadri. Ironia dadaista.
46
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1886, in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi Milano
1964, VIII, pagine 68-69.
47
Cfr. E. Jünger, : “Noi marciamo da lungo tempo verso un magico punto zero, da cui si
allontanerà solo colui che potrà disporre di altre , più invisibili fonti di energia”, citato in Alain de
Benoist, Ernst Jünger: la Figure du Travailleur entre les dieux et les titans, in Nouvelle Ecole n.
27
Capitolo I
Quale possibilità ulteriore per chi avesse avuto l’ardire d’un simile
salto nell’incongruo è presto detto: il suicidio. O tornare indietro,
infinitamente altrove nell’esilio della propria ignavia. Oppure andare
avanti48: è quello che farà Evola. Ma prima è necessario viverne, in
gran parte attraverso le sue stesse parole, la folgorante stagione
dadaista.
Arte come libertà e come egoismo
Evola entra in contatto con il gruppo zurighese nel 1919 grazie
alla rivista Noi49 sulla quale scriverà per poco. In merito a tale
collaborazione scrive a Tzara nel 1919: “avec la plus grande
probabilité, je serais le seul à souvenir les directions abstraitistes, et je
espére que vous voudrez m’aider avec votre collaboration et celle de
vos amis”50.
Su Noi, numero di gennaio del 1920, appare l’articolo L’arte
come libertà e come egoismo, dato come estratto dal saggio Sole della
notte che nell’autunno del 1920, stampato a Roma per i tipi di
Collectio Dada, diverrà Arte astratta. Non cambia solo il titolo, ma il
testo stesso, profondamente influenzato dalla poetica dadaista al quale
l’autore si sente legato da una vera e propria “affinità elettiva”.
La lettura del manifesto dada 1918 di Tzara ha su Evola la forza
di una conversione: esso ha “finalmente e per la prima volta, trovata la
[…] soluzione spirituale” dell’arte nell’arbitrio51. Non c’è necessità,
sopratutto quella di esprimere, ma lusso e capriccio del volere.
Tuttavia “il dadaismo difetta dell’interpretazione mistica”52:
straordinaria lucidità della visione evoliana del dadaismo e pre-eco
40 , settembre-novembre 1983, pag. 11-61, trad. it. Di Marco Tarchi, L'operaio tra gli Dei e i
Titani. Ernst Jünger ‘sismografo’ dell'era della tecnica, Terzavia, Milano, 2000, p. 88.
48
Cfr. F. Kafka, in Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004, p. 21: “Da un certo punto in là non
vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere”.
49
Fondata a Roma nel 1917, diretta da Bino Sanminiatelli ed Entico Prampolini.
50
Cartolina postale manoscritta autografa, Roma, 6/12/1919, tr. it. a cura di Elisabetta Valento:
“[…] con la più grande probabilità, sarò il solo a sostenere le tendenze ‘astrattiste’, e spero che,
appena riceverete i primo numero, vorrete aiutarci con la vostra collaborazione e quella dei vostri
amici”, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a cura di Elisabetta Valento, con 6
illustrazioni, Quaderni di testi evoliani n. 25, Roma, 1991, p. 17.
51
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 13.
52
Ibid., nota 1.
28
Capitolo I
della sua fine. Negazione della negazione nell’inconscio surrealista.
Il barone aderisce al movimento di Tzara in pieno attivismo futurista
(personale casa d’arte Bragaglia gennaio 1920) e mentre Marinetti
promette di pubblicare le sue liriche nelle edizioni futuriste di Poesia.
S’accentuano così il suo isolamento e l’ostruzionismo degli araldi del
futuro, che già tolleravano a stento la sua posizione astrattista confusa
con un mero decorativismo. Lo salva Tzara, conosciuto ancora solo
per lettera53, indirizzandolo verso Bleu, sul cui terzo ed ultimo
numero, siamo nel gennaio 1921, Evola appare con Note per gli
amici54. Concentrato extra-artistico della sua visione che il mago dada
prepara su terreno metafisico e sapienziale saturo di richiami
alchemici, frutto in gran parte dei contatti post-1918 con gli ambienti
antroposofici e teosofici romani. Uno su tutti: Decio Calvari,
presidente della Lega Teosofica Indipendente di Roma, che lo avvia al
tantrismo.
L’adesione al dadaismo dell’agguerrito drappello italiano ruota
attorno a questo sostrato spiritualista ed occultista come al proprio
asse, ma non si deve dimenticare il Manifesto degli artisti radicali del
1919. Quel che unisce i pochi dadaisti italiani è infatti la tendenza
“astratta” delle proprie ricerche, che seppur anticipata da Balla e
dalle sue Compenetrazioni iridescenti (1913), diviene la rivelazione di
un nuovo rapporto tra uomo e ambiente, come ricreazione55 arbitraria
del (suo) mondo ─ esclusivo possesso dell’artista ─ che nega quello
esterno. Si pensi a Picabia e Duchamp, a quell’astrattismo-satira di
una forma mentis utilitaristica in cui s’è specchiata un certo tipo di
produzione artistica.
Note per gli amici è il testo dadaista di Evola, perla del suo stile
metallicamente ebbro, che così principia: “Per noi l’arte è un’altra
cosa”56. Cosa?
53
Evola incontrò Tzara probabilmente una sola volta nell’inverno 1921.
La rivista, fondata da Bacchi, Cantarelli e Fiozzi, mostra sin dal primo numero del luglio 1920
una piena adesione a Dada. Cfr. Elisabetta Valento, Evola fra arte ed antiarte, in Scritti sull’arte
d’avanguardia, op. cit., pp. 11-12: “[…] il testo più compiutamente dadaista, nello spirito e nella
lettera, scritto da Evola. È anche il canto del cigno; egli continuerà l’esperienza dadaista ─ di lì a
pochi mesi ci sarà il ‘Jazz-band Dada ball’ con esposizione a tre (Evola, Fiozzi e Cantarelli) nella
Casa d’Arte Bragaglia, manifestazioni e serate e da ultimo (16 maggio 1921) conferenza dada
all’Università ─ ma solo per concluderla”.
55
Anche e sopratutto come svago, gioco, divertimento.
56
J. Evola, Note per gli amici, pubblicato su Bleu, Mantova, n. 3, gennaio 1921. Ora in J. Evola,
Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 35.
54
29
Capitolo I
Siamo a un passo dal Dada oltre se stesso nel superamento di
tutta l’arte. E già nel 1920 il giovane artista ne intravede l’essenza con
tanto di apocalittica citazione in esordio al suo Arte come libertà e
come egoismo: “Mi son note le opere tue, e come hai fama di vivo, e
sei morto” (Giovanni Ap. 3-1)57. Condanna pietosa del creatore morto
nella creazione. Impotenza dell’uomo che suona anche più crudele se
quest’uomo lo chiamiamo artista. Ammesso che l’impotenza non sia
una in-potenza.
Ci chiamiamo coscienti e profondi, afferma Evola, ma proprio
“quel che vi è di fondamentalmente puro, di originale nell’individuo,
non si conosce non si ha” perché perdiamo la profondità nella
superficie confondendo la veglia e il sonno, o come lui stesso
kantianamente si esprime: “ché la coscienza e la fede del noumeno si
risolve in noi in coscienza e fede del fenomeno”58. La viva corrente
della vita si riversa così nella passione e nella malattia, e “in me l’Io
non è l’Io, ma io-scienza, io-filosofia, io-pratica”59.
L’Io non si possiede e la vita di tutti i giorni,
quell’inconsistenza che i mortali, come li chiama Heidegger, vivono
ogni giorno, “appare estranea ed irreale spoglia, incomprensibile
tumefazione delle mie sfere notturne”60.
Espressioni come “un’altra fiamma, l’individualità”, “fuoco
interno”, “elemento vitale”, rincorrono in questo scritto una tensione
escatologica verso un più che vita che salvi e dissolva la mediocre
prigione di un uomo che vegeta “fra simboli vuoti, schemi pratici,
convenzioni comode d’orientamento”61.
L’ “uomo del mercato” sa, anche se solo inconsciamente, che
la “corrente totale”, la potenza della vita, se posseduta, “gli
scardinerebbe tutte le sue tiepide città, gli distruggerebbe tutti i suoi
ideali ridicoli, i comodi, le voluttuose assenze: lo annienterebbe”,
perché il fuoco che lo rischiara e di cui ha bisogno è piccolo,
addomesticato e artificiale. La “fiamma interiore” giace così
abbandonata ai suoi piedi nella vigliaccheria e nell’indolenza, perché
57
J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, pubblicato su Noi, A. III, n. 1, gennaio 1920, ora
in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 23.
58
Ibid.
59
Ibid.
60
Ibid.
61
Ivi, p. 24.
30
Capitolo I
egli cerca e si nutre di oblio, affogando nel patire “come il bruto nella
carne della sua femmina: disperatamente, voluttuosamente”62.
Sembra di ascoltare Michelstaedter, che avrebbe aggiunto a
queste parole la sua: “[…] finché egli faccia di sé stesso fiamma e
giunga a consistere nell’ultimo presente”63. Ma non è ancora tempo.
“Quel che si teme più al mondo è l’Io”64. Una parola diversa per
la solitudine. La filosofia, come metodo della superficialità
incosciente, non può nulla: “Ci vuol altro!”65. I filosofi presentano
l’Io, vi aspirano ma non riescono ad impugnarlo perché sono
“incatenati dalla coscienza del mercato”. La scienza è vera in quanto è
utile, “ha il vantaggio del rasoio automatico o della macchina da
scrivere”, ma
“L’arte […] o è prodotto di un atto identico di quello di un cane che,
seguendo la forza cieca dell’istinto, monta un altro (naturalezza,
ispirazione); o è frutto di un circolo vizioso di un convenzionalismo
che vuole le forme della volgare pratica: coerenza universale,
staticità; determinazione (umanità, genialità ecc.). D’Io non se ne
parla. Là dove l’arte si salva […] è là dove appare come fatto
egoistico, come espressione freddamente voluta di uno stato interiore
di estraneità, di morte vivente”66.
Ora, Evola intende il sentimento estetico come iniziazione
all’Io, alla “coscienza superiore misconosciuta ed affogata”67. Un’arte
non può divenire spirituale se non supera gradatamente tre limiti:
1) Lo stato della concezione concettuale del mondo che vien
superato o dall’estetica mistica o dall’estetica brutale.
2) Lo stato della spiritualità generica e dell’umanità: “secrezione
sporca di malattia, di vigliaccheria e di femminilità
62
Ibid. Cfr. J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Arktos, Carmagnola, 1989, p. 83: “Così
tutta la vita degli uomini prende il senso di un fuggire dal centro, di una volontà di stordirsi e di
ignorare il fuoco che arde in loro e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall’essere, essi
parlano, si agitano, si cercano, si amano in richiesta reciproca di conferma”.
63
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano, 2007, p. 89.
64
J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, op. cit., p. 24.
65
Ibid. Ci vuole quell’io che è “un altro”. Evola cita Rimbaud in Arte astratta, op. cit., p. 3: “Je est
un autre”.
66
J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, op. cit., p. 25.
67
Ibid.
31
Capitolo I
spirituale68. […] Porre finalmente l’aspiritualità (non proprietà)
delle cose ‘spirituali’, superiori, divine, umane, che si vedranno
irrimediabilmente superate, che si sentiranno secche scorze per
sempre cadute dal vivo tronco”.
3) Lo stato della naturalità dell’espressione. Il sentimento estetico
sarà il “sentimento dell’intima attività”: nessuna necessità
d’espressione. I mezzi espressivi sono utilitari e quindi “validi
solo nel mercato”69.
L’opera d’arte come lusso, capriccio dell’individuo che ha
realizzato sé stesso,
“l’unico, per la prima volta: che ha la vita di tutti i giorni come un
unico spettatore, in platea, ha un immane e pur fragile spettacolo
che, ad un cenno, potrebbe inabissarsi e disciogliersi per sempre
nell’ineffabile gelidità ardente della coscienza superiore”70.
L’individualità dello spettacolo, prima che il sipario si chiuda.
Dissolvenza in nero d’io: Sole della Notte.
È dell’ottobre del 1920 invece la polemica scritta
Decorativismi, in cui il giovane artista risponde al pittore Giovanni
Galli. Questi, in un suo precedente articolo dallo stesso titolo uscito il
mese prima su Griffa!, aveva duramente attaccato la tendenza astratta
che trasforma “il quadro in un complesso di elementi geometrici e
sibillini”, col rischio conseguente di una proletarizzazione dell’arte71.
L’articolo di Evola è notevole, non solo per la risposta alle
questioni sollevate dal suo improvvido critico, ma sopratutto per il
modo in cui illumina la sua visione artistica, che ora possiamo
senz’altro definire spirituale. Oltre gli abiti, il gioco della forma e del
segno, il barone invita a vedere quel che vi può essere di più
importante: “la persona, il nucleo vitale”72.
68
Ibid. Il grassetto nostro.
Ivi, p. 26.
70
Ibid.
71
La lettera di Evola, del 10/10/1920, appare su Griffa!, Perugia, A. I, n. 12, 7 novembre 1920 in
risposta all’articolo del Galli intitolato Decorativismi apparso sul fascicolo precedente, n. 11, 25
settembre 1920, che attaccava duramente le tendenze più o meno astratte in pittura. Ora in J.
Evola, Decorativismi, in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., pp. 27-29.
72
Ivi, p. 28.
69
32
Capitolo I
L’arte diviene sempre più astratta e ghiaccia e questo è lo
stigma della sua superiorità. L’uomo ha superato la passione e la fede
dopo averle vissute all’estremo e andando oltre monismo e dualismo,
al di là della pratica e del sentimento,
“comincia per la prima volta a conoscere ed a possedere l’intimo sé
stesso, la gelidità ardente dell’io che non è l’io, che è al di fuori delle
categorie, che in sé stesso ha fine e causa: der Finsiche: l’unica
verità pura, l’unica necessità pura: libertà. Ma presso ciò, nella
pratica ogni vita è seccata, ogni moto è spento: le stelle muoiono.
Non restano che degli immani e tristi scenari di cartone, inanimi e
deserti, perché quella malattia e quell’incoscienza della superficie
che ne erano la vita illusoria, son calate a fondo, per sempre, come
degli stracci sporchi da un corpo di luce”73.
Ed è arrivato a questo punto che all’individuo, “giovane dio
incomprensibilmente svegliatosi in questa triste metropoli” non resta
che “il gioco (Shiller), […] il capriccio della forma, fra le sue dita
dolcemente ghiacciate”: la nascita di quel che Galli chiama
“decorativismo” non vedendone la profondità disperata, l’“umanità
posseduta fino al delirio dell’ultima sua purezza”.
Dietro giochi di superficie, sragionata saggezza dei segni, c’è
l’abisso che consente l’eco d’“un’altra vita, tanto lontana”. Che cos’è
un’umanità dormiente per l’Uomo che si sveglia? Forse lo stesso della
tecnica: “per noi non è che un vestito e, perciò, da per sé, non esiste”.
Il dialogo tra sordi Galli-Evola ─ tra chi dorme e chi si sveglia? ─ si
chiude con una definizione dell’arte astratta che ben s’accorda con la
imminente svolta evoliana: “L’arte astratta è assoluta ‘egoizzazione’,
trascendenza radicale da ogni base comune, e vuole ‘a priori’, come
riprova pratica di purità e di proprietà, l’assoluta incomprensibilità
delle sue espressioni”74.
73
74
Ibid.
Ivi, 29.
33
Capitolo I
Gehst zu frauzen?
Apriamo qui una parentesi “misogina” a tutta prima gratuita,
ma a parer nostro significativa e sintomatica d’una ben più ampia
concezione evoliana della femminilità, sopratutto spirituale.
Nel gennaio del 1921 Evola scrive sulla rivista di Anton Giulio
Bragaglia, Cronache d’Attualità ─ il periodico più importante dal
punto di vista letterario del dopoguerra e, fino al 1922, il punto di
riferimento più prestigioso delle avanguardie italiane ─ un violento ed
ironico articolo intitolato Gehst zu frauzen? (Vai a donne?), ispirato
alla frase di Nietzsche: “Vai a donne? Non dimenticare la frusta”, che
è stato definito dalla studiosa Elisabetta Valento “un pamphlet che
non tratta d’arte ed è piuttosto una raccolta di aforismi non certo
benevoli e piuttosto scontati sulla donna che palesano l’influenza e la
piena concordanza con le teorie di Otto Weininger, peraltro citato, in
Sesso e carattere (successivamente tradotto da Evola e pubblicato nel
1956 da Bocca)”. Insomma, un articolo di nessun interesse
nell’ambito della teoria dell’arte75. Bene, ma è possibile che nell’ottica
di un’arte e d’un pensiero ─ come quelli presi a soggetto nel presente
studio ─ sempre più intesi quale forma dell’interiorità, dimensione
della solitudine e nucleo vitale autarchico, non abbia posto la persona
che ne viene messa al centro, in questo caso Evola stesso? Non
discutiamo sull’odiosa resa formale di alcune sentenze: “La maternità
è la prova irrefutabile della bestialità della donna”76. Peraltro, se “A
75
In effetti, apparentemente, i soli giudizi artistici di Evola in questo scritto sono: “L’unico genere
di pittura che nella donna posso prendere in considerazione è quella ch’essa fa sul proprio viso” e
“La donna artista richiede uno sforzo di astrazione di cui io, benché abituato alle metafisiche, non
sono assolutamente capace”, in J. Evola, Gehst zu frauen?, ora in J. Evola, Scritti sull’arte
d’avanguardia, op. cit., p. 32.
76
Cfr. J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Ediizoni Mediterranee, Roma, 1998, p. 170: “A tale
riguardo, ci si deve riferire alla teoria, che metafisicamente la generazione animale, fisica, non è
che un surrogato inane della generazione spirituale: il continuarsi della specie, dovuto all’uso del
sesso come potere genesiaco, rappresenta una specie di effimera eternità terrestre, un fac-simile di
continuità nella serie degli individui staccati, mortali, che si succedono nel tempo, continuità che
prende il posto di quella che sarebbe assicurata da una nascita ascendente o verticale, cioè
dall’integrazione metafisica che supera la finitezza dell’individuo condizionato da un corpo
fisico”. Cfr. anche Il mito dell’androgine, in J. Evola, Metafisica del sesso, p. 69: “Nel suo aspetto
più profondo, l’eros incorpora un conato a superare le conseguenze della caduta, ad uscire dal
mondo linizzante della dualità, a ripristinare lo stato primordiale, a superare la condizione di una
esistenzialità duale spezzata e condizionata da «altro». Questo è il suo significato assoluto; questo
è il mistero che si cela in ciò che spinge l’uomo verso la donna, elementarmente, ancor prima di
tutte le condizionalità […] presentate dall’amore umano nelle sue infinite varietà relative ad esseri,
che non sono nemmeno uomini assoluti e donne assolute, ma quasi sottoprodotti dell’uno e
34
Capitolo I
Dada non piace la Santa Vergine”, può forse piacere la donna? O
forse essa è agli occhi di Evola uno dei luoghi privilegiati, in quanto
origine dell’uomo, del nichilismo dadaista e della sua esigenza di
purità77?
L’insistenza evoliana, in questi suoi primi scritti, sulla purezza,
sul disprezzo della carne, dell’utile, della passione, della natura,
sull’estraneità della energia vitale dell’uomo all’incedere cadaverico
del mondo etc., con una bella serie di immagini che sembra presa di
peso dal repertorio gnostico, ci porta infatti a ritenere che il suo odio
della donna, sia più di natura teologica ed esoterica che volgarmente
misogino-fallocratica78. Da qui la possibile valenza spirituale di talune
espressioni troppo nette, che proprio perché tali, consiglierebbero, a
parere di chi scrive, l’opposto “andare per il sottile”. E allora:
“Di due amanti, la vera femmina è l’uomo; perché mentre la donna
come amante fa quel che deve e che non può che fare, l’uomo come
amante (a meno che non finga) deve abdicare alla propria nobiltà,
insozzare la sua unicità freddamente pura: rinunciare a sé stesso;
abbandonarsi: ossia divenir femina: carne e fango”79.
dell’altra. Qui è dunque data la chiave di tutta la metafisica del sesso: «Attraverso la diade, verso
l’unità»”.
77
La pittura di Evola è “alchimia ed allucinazione delle forme astratte”. In alchimia l’elemento
mercuriale (Donna, Madre, Acque) in quanto “volatile”, materia prima dell’opera, si riferisce
propriamente alla donna=causa del mondo del divenire, dell’indifferenziato, del senza-limite. Di
quel desiderio che “uccide la potenza”. Per questo all’adepto è necessaria l’operazione chiamata
“fissaggio del Mercurio” o “Opera al bianco” o ancora “albedo”. Il “fisso” corrisponde al Maschio,
al Figlio, al Fuoco, al Sole. Per Evola è l’Io purificato e potente del suo Individuo Assoluto. In
questa fase, il “fisso” prende il sopravvento, domina e assimila a sé il “volatile”. Cfr. J. Evola, La
Tradizione ermetica (1931), Edizioni Mediterranee, Roma, 1996, p. 149: “Si tratta dell’azione
«fissatrice» che, quasi con la sua sola presenza, l’Oro rinato esercita sulla potenza evocata, la
quale, quando non ha saputo travolgerlo, è sospesa dal suo modo di desiderio e di «vischiosità»,
onde da ogni cosa era attratta e presa (simbolo della «prostituta») e ridotta invece ad «Acqua
permanente»”.
78
Cfr. Otto Weininger, Sesso e carattere (1903), Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, p. 306:
“Vorrei dire addirittura: esiste solo un amore “platonico”. Perché tutto ciò che per il resto vien
detto amore, appartiene al regno dei porci. Esiste un solo amore: è l’amore per Beatrice,
l’adorazione della Madonna. Per il coito c’è la puttana di Babilonia”.
79
J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 31. Il grassetto è nostro. Aldo A. Mola afferma che La
donna come cosa, l’articolo pubblicato da Evola su Ignis, n. I del 1925, la rivista del massone
Reghini, è “uno scritto meno estraneo alla ‘tradizione massonica’ di quanto si possa a tutta prima
ritenere, ove ci si rammenti della pretesa solarità dell’iniziazione massonica quale sacerdozio
virile”, in Evola e la massoneria: alla ricerca della Tradizione perduta, in Delle rovine e oltre
(saggi su Julius Evola), Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 255.
35
Capitolo I
Il calore della donna è respinto, ma donna è appunto passione,
altro, bisogno, esigenza da soddisfare per la bassa virilità dell’uomoercole, la brutalità fisiologica:
“La forma di virilità nell’uomo è l’effeminatezza e la decadenza: la
force, c’est le dernier abrit des faibles et des impuissants. La forza è
una fuga, in fondo un’abbruttimento: mostra una passività, come ogni
elemento naturale. Ercole è il tipo più femineo di uomo”80.
Il ribaltamento di prospettiva è evidente: la forza è debolezza
perché soddisfa un bisogno di carne, come fanno i cani, per riprendere
una sua similitudine. Evola parte sempre da “una quota più alta della
terra”81, dove non ci sono corpi, ma forze impersonali, Io, spirito etc.
Si ricordino gli stracci sporchi che cadono da un corpo di luce:
il suo essere corpo, uomo come gli altri, è sempre mediato
─ l’immediatezza è istintuale e quindi da bestie, da uomini del
mercato ─ dal suo divenire spirito.
La veste dei sensi viene bruciata dalla fiamma interiore, ed ha
un senso solo nell’attesa del compimento. Questo vale per la sua arte
così come per la sua filosofia. Lo vedremo presto. Ma ancora qualche
citazione:
“[Le donne] traggono la loro possibilità di essere unicamente da un
ricatto enorme e sfacciato perpetrato ogni giorno sulla foia dei bruti e
sulla detumescenza cardiaca dei poveri sentimentali tipo Werther:
vale a dire che, come i vermi, vivono solo per la carne marcia”82.
E infine:
“Una donna naturale sarà sempre banale per chiunque abbia un
briciolo di coscienza intellettuale; la più bella donna, nuda, farà
sempre ribrezzo a chiunque nelle vene non abbia sangue di
scaricatore di porto”83.
80
Ibid. Forse per questo si fa chiamare, con vezzo femmineo, anche Jules?
L’espressione è del Cardinal Giuseppe Siri, Chiesa, fedeli, mondo, Lettera pastorale, 1962.
82
Il grassetto è nostro. J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 32.
83
Ivi, p. 33. Cfr. Otto Weininger, Sesso e carattere, op. cit., pp. 307-308: “Si sa che la donna non è
soprattutto bella quando è nuda. […] nessuno può trovare bella la reale donna nuda, già per il solo
81
36
Capitolo I
Qui sono il sentimento, il culto della vita, la torbida adesione al
desiderio ad essere vilipesi, la donna ne è sola l’incarnazione letteraria
sulla bocca di tutti che smania per il bacio e non per la verità. Questo
odia il giovane Evola. La Donna quale Natura ostile, simbolo anche
dell’impotenza degli uomini, e non le donne84. Il rigore oltreumano
dei suoi paesaggi dada non ne è che la cifra artistica: visione
dell’elementare, di un Kosmos preordinato nel e dal senza-tempo in
cui vortici di delirio trasmutano in vertici di irreali geometrie, come
terre inaccessibili all’occhio volgare.
Lo sguardo evoliano è ossessionato dalla purità come valore
metafisico. La sua esigenza di libertà è tutta nello svincolarsi dalla
materia, non per negarla ma per nobilitarla-salvarla: questa è la sottile
deviazione patologica che attraversa in tensione escatologica tutta la
sua opera. Ed è nello stesso tempo il mistero quale fascinoincantesimo della sua prosa anagogica e della sua poesia meta-lirica:
“due occhi immensi si spalancavano un istante finestre ─ ma non
spereremo l’azzurro”85.
motivo, che l’istinto sessuale impedisce quella contemplazione scevra di desiderio che è
presupposto irrinunciabile del giudizio del bello. Ma anche a prescindere da ciò, la donna viva,
completamente nuda, produce l’impressione di un che di incompiuto […] e procura all’osservatore
più pena che piacere”. E ancora, ivi, pp. 308-309: “[…] nessun uomo trova specialmente bello
l’organo genitale femminile, anzi ognuno lo trova brutto. Nature basse potranno essere
particolarmente eccitate alla libidine da questa parte del corpo femminile, tuttavia proprio costoro
la troveranno forse molto piacevole, ma mai bella. Gli uomini completamente dominati dal
bisogno sessuale non hanno nessun senso della bellezza femminile […]”. Sulla misoginia
“gnostica” di Weininger ed Evola, vedi più avanti, nota 233. Ricordiamo infine che sul numero di
febbraio-marzo di Cronache d’Attualità, anno V, nella rubrica I misteri della cabala, a cura di
Anton Giulio Bragaglia, pp. 45-46, leggiamo che Evola “ci prega di comunicare come gli uomini
nudi gli destino ribrezzo quasi come le donne nude. La qualcosa, per lui, è tutto dire. Aggiunge che
è molto desolato di non poter accontentare gli amici che amerebbero ora vederlo pederasta ma fa
sperare che, col tempo, possa anche diventarlo, per vederli contenti”. A gennaio invece, stessa
rivista, stessa rubrica, p. 43, lo stesso Bragaglia ci fa sapere che ad Evola “piace tanto d’esser detto
filosofo” e che “ha formalmente assicurato che il movimento dada prospera sfruttando le donne”.
84
Cfr. J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 2007, p.
116: “L’uomo è tale, in quanto è, di diritto, autoaffermazione, riferimento a sé e possesso del
valore. La sua antitesi è ciò che non sa trovare il valore in sé medesimo, ma lo ha dal riferimento
ad altro, epperò, decadendo dall’affermazione, desidera. Tale è la donna. La sostanza della donna
è, fondamentalmente, etero riferimento, passione: non un essere, ma un negarsi, un chiedere, un
rimettersi e darsi ad altro: tutto un bisogno di non essere per essere”. Ancora, ivi, p. 117: “Tolti gli
elementi proprî all’uomo, il sentimento, la sessualità, la passione e la maternità esauriscono
l’essenza della donna. Ora tutto ciò che ha un senso come momenti subordinati alla categoria
dedotta, preso in sé stesso non rappresenta che bruta natura e impurità, rientra in una vita
passiva, irrazionale ed insufficiente che ancora infinitamente sta sotto al livello della personalità,
anzi rientra nella forma della opzione oggettiva, che qui si pone come un non-valore”. Il grassetto
è nostro.
85
J. Evola, respiro, in Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 18.
37
Capitolo I
Non crediamo d’aver insistito invano su questi aspetti, se quanto
detto, può in parte essere valido. Lasciamo però che Jules chiuda
glacialmente e comicamente i suoi rapporti con il femminino: “Per
me, avere una donna, prendere un tè, passeggiare in una via elegante è
assolutamente la stessa cosa”86.
Esprimere è uccidere
Ho già avuto modo di citare il breve e sfolgorante Note per gli
amici, ma ora è opportuno esaminare questo scritto con maggiore
attenzione per la intensità della sua forma e la lucidità del suo
contenuto. L’incipit è già una fine, o meglio un fine:
“Per noi l’arte è un’altra cosa. Non si tratta di fare il giuoco
dell’umanità […]; non si tratta di fare gli istrioni o gli eroi; non si
tratta di abbandono e di ebbrezza colpevole […]. Siamo fuori.
Tod und Verklarung (morte e trasfigurazione nda)! Noi tutti
siamo dei morti”87.
Con pochi tratti Evola ripercorre le ragioni di una simile
decomposizione attraversandone le fasi in rapporto all’evoluzione del
sentire umano.
La sete insaziabile del Faust di cui abbiamo spremuto sino
all’ultima goccia di sangue tutte le passioni, Wagner e l’esaurimento
nell’eroico dell’elemento universale, Fichte e la risoluzione egoistica
del mondo. Mentre con Nietzsche e Rimbaud “ci siamo devastati
d’umanità”, con Debussy “palpitammo, indicibilmente sparsi sulla
natura, e infine con Berkeley e Kant “vivemmo in sede vitale il
problema della conoscenza”.
Soffrimmo tutte le morti, vivemmo le illusioni di tutte le luci,
nell’esperienza di questa epoca congesta e torturata. Ora tutto ciò
non esiste più. Fuor dalle selve delle corruzioni che ci sventolarono
finchè non fummo che strani fasci di nervi disseccati ─ finiti ─ un
86
87
J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 33.
J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 35.
38
Capitolo I
deserto gelidamente ardente ci possedé, verso la rarefazione solare.
Ora sappiamo che c’era qualcosa d’altro che la nostra ubriachezza
nascondeva, ora sentiamo che sentimento, fede, amore ed umanità
son deboli infinite malattie: tutto quel che è vita e realtà, per gli altri
è caduto giù, per sempre, come una veste sporca, sudata e straccia da
un corpo di luce. E gli uomini che si chiaman vivi, li vediamo morti
fantocci, bruti e mercanti.
Non è pessimismo: si tratta di aver veduto”88.
Evola, con la sua ascesi artistica, getta macchie d’inchiostro
nell’immenso nulla che sembra riconoscere come un dogma (da
dokeo: vedere).
Il pessimismo è morto con gli uomini che si credono vivi
mentre lui ha ritrovato la realtà dell’Io “che è al di fuori della vita di
tutti i giorni”89. Si è svegliato “quel che abbiamo di divino: l’azione
antiumana”. L’uomo che non è più agito ora agisce, “unica realtà”,
risolvendosi nella negazione.
“Da qui l’arte, la nostra arte, come terapeutica dell’individuo. […]
Noi siamo dei distruttori, immorali, disorganizzatori: vogliamo
morte e follia. […] Ed in questo è la nostra saggezza, la nostra pena
di vivere: portare logica e coerenza: disseccare la volontà di vivere,
portare l’arbitrio nell’ordine, disciogliere il concreto nell’astratto, la
fede nel capriccio. […] Nulla ci possiede”90.
C’è del metodo in questa follia: alchimia degli estremi che
rovescia l’altro nel suo contrario per scorgerne la pura radice: il nulla
che “ci possiede”, sovrano centro di indifferenza che a breve vedremo
sorgere da uno sdoppiamento profondo.
“E tutto ciò senza necessità, senza fede; io, sono al di fuori; ogni
elemento sincero rappresenta incoscienza, non –proprietà. Per
capriccio ─ gioco triste ─ arte. Alchimia ed allucinazione delle
88
Ivi, pp. 35-36.
Evola vede la vita comune ed immediata, pur compresa in tutta la sua ricchezza, come un nonessere. Cfr. J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, Bocca, Torino, 1927, p. 65, nota 1: “[Il] vero
essere dei ‘morti’ consiste nel credersi vivi”.
90
J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 36.
89
39
Capitolo I
forme astratte. Noi sappiamo quel che facciamo, ché possediamo la
distruzione, e non la distruzione possiede noi. […] Tutto quel che
facciamo è per noi stessi assolutamente incomprensibile: non
vogliamo nulla. Io sono in malafede [...] E ripongo la mia causa nella
forma senza vita, ripongo la mia causa nel nulla: ‘ich habe meine
Sache auf nicths gestellt’”91.
Io ho riposto la mia causa nel nulla: Stirner filosofo del
dadaismo e il suo Unico, la rappresentazione impossibile della libertà
dell’Io.
La negazione di tutti i valori si trasforma magicamente nel
valore come negazione: è qui che avviene lo sdoppiamento dove io
passionale e mondo pratico diventano spettacolo. Ma al di sopra di
questa realtà di cartone, artefatta dimensione dell’esistenza, c’è “la
possibilità di scancellar tutto nella vita dell’arte astratta, nell’arbitrio,
così, ammalandosi un poco in un capriccio ghiacciato; per non morire:
presso all’altissimo granito bianco della coscienza superiore”92.
Ripercorriamo analiticamente la strada percorsa per cogliere
una svolta fondamentale. Perché se come afferma Evola in Arte
astratta: “L’arte è una: esser puri poeti, puri pittori […]”, è su quel
puri che deve cadere la nostra attenzione93.
Evola in piena conflagrazione mondiale disegna con versi e
colori la sua crisi, ma sempre li accompagna alla riflessione teorica:
impegnato in studi filosofici già da ragazzo, mai li abbandonerà.
La sua stessa opera di poeta e di pittore non è che la forma di
un’originaria decisio (da caedo, il verbo dell’uccidere la vittima
sacrificale con effusione di sangue) tutta filosofica, il sacrificio d’un
giovane appena ventenne alla conoscenza di sé, o del Sé, sull’altare
dell’arte. Già nel 1920 Evola sa che la filosofia non risolve il
problema dell’uomo e si concentra sulle possibilità della poiesis,
dell’azione. Quali?
91
Ibid. Questa è la prima volta che Evola chiama Stirner direttamente in causa nei suoi scritti ed è
anche il solo a parlarne in contesto dadaista. Per Stirner l’Individuo, l’Io, l’Unico è la sola realtà
ed è proprio questa sua negazione radicale di tutti i valori per riporre la causa dell’individuo
nell’individuo stesso che attrasse il giovane filosofo romano. Lo incontreremo ancora.
92
Ivi, p. 37.
93
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 11.
40
Capitolo I
Tendenze di idealismo sensoriale, prima fase non tanto
dell’opera quanto della vita spirituale evoliana, e tendenze di
astrattismo mistico o astrattismo dadaista, seconda fase come
inveramento-superamento della prima, NON su terreno artistico, che si
limita a registrare nel segno pittorico la signatura spirituale, ma in una
dimensione puramente interna, sulla base di una necessità interiore
come il suo paesaggio.
Il sentimento estetico della nuova arte auspicata da Evola prevede il superamento dello “stato della concezione concettuale del
mondo” o per via “astratto-mistica” o attraverso l’ “estetica brutale”
del sensorismo cui si giunge “con un abbandono totale all’elemento
intensivo insito nella sensazione pura”.
Un simile scatenamento permette infatti il disciogliersi
dell’immagine che noi abbiamo del mondo “in un ritmo orgiastico ed
incoerente”. Evola associa tale posizione a “parte del futurismo” 94.
Successivamente in Arte astratta torna l’idealismo dei sensi:
“Nello spirito, agonia del sentimento; nella pratica, traslazione del
centro all’elemento primordiale dei sensi/ idealismo sensoriale/
soggettivismo orgiastico”95.
È il sensorismo futurista agitato dal rimbaudiano déréglement
de tous le sens: legge del poeta-voyant. Idealismo sensoriale è il luogo
d’immersione della coscienza artistica ─ che nella catarsi nichilista s’è
ritrovata come volontà del nulla ─ nell’esasperazione dei sensi.
L’immediatezza della loro vita in un’intensità orgiastica: dionisismo
d’artista per costruire nella follia la sanità trascendentale96. Siamo alla
profezia dell’Uomo-Dio, o al suo ritorno sotto il volto di Dioniso.
Evola scrive: “[…] il tema dell’arte è posto nella realtà pura dei sensi/
idealismo sensoriale”97.
94
J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, p. 25.
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 11.
96
Ivi, p. 6, nota 1: “Novalis: ‘La poesia è la grande arte di costruire la sanità trascendentale. Il
poeta è per questo un medico trascendentale. Il fine dei fini della poesia è l’innalzamento
dell’uomo sopra sé stesso”. Il medico trascendentale di Novalis ci fa pensare al filosofo inteso da
Nietzsche quale “medico della civiltà” (Arzt der Kultur). Il filosofo, se vuole essere veramente
tale, non può che presentarsi come “inattuale”, nel e contro il proprio tempo, che ha bisogno di
essere “guarito”. Non diversamente da Evola, che pensò e agì nel fascismo. Lo vedremo nei
prossimi capitoli.
97
Ivi, p. 12.
95
41
Capitolo I
Dopo Rimbaud e il Marinetti delle parole in libertà, dell’
“ossessione lirica della materia”, abbiamo con Strawinsky e Boccioni
“la soluzione di sanità del problema, abbandonata da Dioniso sino ad
oggi”98. Ma Evola parla di idealismo sensoriale trovandosi di là da
esso, dopo averlo superato, nella seconda fase: astrattismo mistico e
dadaista. Fase diversa perché ulteriore e integrativa per
consapevolezza della finalità trascendentale del processo metaartistico. Ciò non significa che prima del 1918 lo scopo mistico fosse
assente, tutt’altro. Può invece significare che lo scatenamento
sensoriale nel segno di Dioniso si rivolgesse al niente, a qualcosa che
ancora non ha nome, ad un Superiore Incognito.
Vi è qualcosa di più e di diverso in questa seconda fase, quel
“qualcosa di spirituale” a cui “l’arte dei nuovi tempi si era
approssimata” attraversando una selva di distruzioni:
“Lo Sturm und drang si iniziò con un tuffo nel brutale a titolo di
purificazione: dopo di che sarebbe stato possibile rialzarsi verso una
nuova idealità”99.
Purificazione attraverso la distruzione, metodo dell’arte
moderna e di Evola che ne ha vissuto nell’interiorità i rivolgimenti:
simbolismo, analogismo, impressionismo, cubismo, futurismo,
espressionismo e infine la fine: Dada.
Evola si tuffa nella brutalità sensoriale in cerca di purificazione
dal 1915 al 1918: la sua guerra interiore. Ma a partire da quest’anno
qualcosa s’offre in lui maturando una diversa consapevolezza. E
l’Ignoto sembra possedere un nome che non è più quello del futurismo
dionisiaco. C’era un altro metodo infatti che ora è opportuno
ricordare, l’altra possibilità di sfuggire al quotidiano. L’astrazione
totale d’una mistica senza Dio100: “[…] un senso mistico di
98
Ibid.
Ivi, p. 11.
100
Come quella di Bataille, l’Evola di sinistra. Si somigliano non poco, sopratutto nel segno
comunitario. Si tratti di “Individui Assoluti” o di “equazioni” personali, lo Zeitgeist produce frutti
disparati ma segnati da curiosi parallelismi. Anche in Francia, negli stessi tardi anni Trenta in cui
Evola lotta nel fascismo e contro il fascismo per l’affermazione della “visione del mondo”
tradizionale, possiamo inquadrare nella risacca di identici sussulti rivoluzionari il “contrattacco”
che Georges Bataille sferra nel tentativo di sottrarre Nietzsche, il mito e la ritualità ai fascisti.
Costituendo, insieme a Caillois, Klossowski, Leiris ed altri, un essoterico collegio di sociologia
sacra e l’esoterica comunità Acéphale (: fu anche il titolo della loro rivista il cui primo numero uscì
99
42
Capitolo I
contemplazione che trascende ‘metafisicamente’ la determinazione
oggettiva” che consiste nel
“far della pratica spettacolo, oggetto di contemplazione: rendersi
estraneo, disinteressarsi. La personalità va sdoppiata in un io pratico
che agisce per inerzia, e nell’altro io che, apatico spettatore, assiste
senza entusiasmo ad una commedia irreale su cui ad un suo cenno,
può cadere l’immenso sipario di velluto nero. Così il ponte lascia
sotto di sé il passaggio monotono e senza colore della corrente”101.
Fino al 1920 le due vie dell’arte offrono la stessa possibilità di
superamento dell’esperienza volgare verso la nuova coscienza
artistica caratterizzata in senso eminentemente spirituale. Tuttavia il
metodo astratto ed apollineo è successivo e superiore a quello
dionisiaco.
Da notare che l’uno Evola lo chiama spirituale, l’altro invece, il
dionisiaco, antispirituale. Ma l’uno non è il contrario dell’altro,
essendo il metodo di Apollo diversificazione- capovolgimento e nello
stesso tempo sviluppo-progresso di quello di Dioniso: un dionisismo
apollineo, come forma dell’informe o maschera dell’abisso. Ma i
futuri sviluppi vedranno l’arte dadaista come una sorta di
affermazione e punto fermo DOPO la negatività dionisiaca che ha fatto
danzare il sensorismo futurista al ritmo incoerente delle sue
devastazioni. La terra d’Apollo verrà avvistata grazie al dionisiaco
“naufragium feci: bene navigavi”.
Una terra dove l’Ignoto si chiamerà trascendenza immanente.
nel 1936), realizzazione di una “congiura sacra” che sarebbe stata fondata addirittura sul acrificio
umano di una vittima consenziente. Il “vento invernale” auspicato da Caillois, che avrebbe gelato
la società “senile e cadente” salvando solo il “nomade robusto” di una nuova èlite, prelude alla
costituzione di un ordine chiuso, sacro, “la cui missione sarebbe quella di far sorgere in seno al
mondo profano, mondo del servilismo funzionale, il mondo sacro della totalità dell’essere”
(Klossowski). La respingente sintonia tra Evola e Bataille, entrambi vittime-sacerdoti di un sacro
impuro ci sembra evidente, si pensi in particolare al sodalizio magico “Gruppo di Ur” guidato dal
Barone verso la fine degli anni Venti. Ci torneremo. Con una precisazione però: nonostante la
accuse di estetismo prefascista (Benjamin) o di surfascismo, in disperato equilibrio tra “destra “ e
“sinistra”, i membri del Collegio e di Acéphale osservavano, tra varie prescrizioni rituali, il divieto
assoluto di stringere la mano ad un antisemita. Cfr. Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di
Denis Hollier, Bollati Boringhieri, 1991 e Georges Bataille, La congiura sacra, Bollati
Boringhieri, 1997 da riportiamo queste parole: “NOI SIAMO FEROCEMENTE RELIGIOSI e, nella
misura in cui la nostra esistenza è la condanna di tutto ciò che è riconosciuto oggi, una esigenza
interiore vuole che siamo anche imperiosi. Ciò che intraprendiamo è una guerra”. (Ivi, p. 4).
101
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 9.
43
Capitolo I
L’anno della cesura e censura della vita artistica evoliana è il
1921, l’anno in cui il sensorismo diviene astrattismo. Il perché di
questa trasformazione lo troviamo nella stupefacente cerca interiore
del giovane barone che in guerra e negli anni successivi usa droga per
scopi noetici: “esperienze interiori ‘fatte’ con l’aiuto di certe sostanze
che non sono gli stupefacenti più in uso”, che da un lato lo portano a
“forme di coscienza in parte staccate dai sensi fisici” fornendogli dei
“punti di riferimento”, ma dall’altro lato lo conducono spesso “vicino
all’area delle allucinazioni visionarie e forse della pazzia”.
Evola ha ventitré anni, e una crisi esistenziale difficile da
sostenere che prestissimo si traveste da proposito suicida. Ma sarà
solo l’artista a morire. Per quel che riguarda l’esperienza della droga,
egli ammette che se ne servì senza sapere come usarla e soprattutto
perché l’usasse, e che lo spinse una tensione al superamento e alla
conoscenza: una non comune “intrepidezza102 dello spirito”. Dopo gli
anni giovanili non ne fece più uso. Ciò significa che non ne fu
schiavo, ed essi operarono solo come “coadiuvanti esterni” d’una
iniziativa libera e d’una pura volontà spirituale103.
Evola inizia le ‘pratiche’ in piena guerra e in alta montagna a
poche centinaia di metri dal nemico. Di scienze iniziatiche non sapeva
“quasi” nulla. Non sa nemmeno perché inizi. Il suo ricorso alle “acque
corrosive”, ossia a mezzi che nella stragrande maggioranza dei casi
conducono la personalità a forme regressive e alla morte è senza
ragione. Di più, le sostanze cui ricorre destano nel suo organismo
insofferenza e ripulsa.
Non con la conoscenza, ma con la volontà, il coraggio e la
disperazione Evola si apre un varco. Punto di partenza: un disgusto
completo, una metanoia radicale: “Volli portarmi gradatamente a
morire”104. Punto di arrivo: la morte.
102
Evola usa continuamente questa parola-chiave.
J. Evola, Il cammino del cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1973, pp. 19-20.
104
Iagla (uno degli pseudonimi di Evola), Esperienze: la legge degli enti, in Introduzione alla
Magia (1971), volume primo, a cura del “Gruppo di Ur”, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p.
183. Interessanti anche le seguenti considerazioni ivi contenute che, data l’eccezionalità
dell’esperienza evoliana, crediamo sia opportuno riportare nella loro interezza “«Qualcosa» sta in
agguato ad ogni avanzata dell’uomo che si libera: pronto a colpirlo. Dapprima sul piano mentale,
così: alla prime fasi del distacco si ha un arresto del processo di cerebrazione. La mente è
immobilizzata, come in uno stordimento. Subentra poi uno stato speciale, che vorrei chiamare
stato di chiarezza o di evidenza. Esso non conosce più ragionamenti, concetti, dubbi. Non vi sono
dei «problemi», ma dei bisogni profondi, vissuti, di conoscenza, ai quali segue il balenio di una
103
44
Capitolo I
Lo schema di ogni iniziazione: muori e divieni. Che cosa
divenne Evola? Per ora sappiamo cosa non è più: artista, e
cominciamo a sospettare che in fondo, e al fondo della sua anima, non
lo sia mai stato. Non nel senso corrente almeno.
Chi è questo giovane che appena ventenne tras-forma
l’avanguardia più estrema del Novecento, il dadaismo, in ascesi
dell’arte quale mistico percorso di rinascita interiore e dissoluzione di
tutto ciò che nietzscheanamente merita di morire? Egli ci appare sin
da ora un iniziato allo stato selvaggio, il protagonista, per volontà e
destino, d’uno straordinario ed inquietante itinerario nel proibito che
conduce, presso a sbandamenti mistici e sfaldamenti profani,
all’assoluto di un Individuo.
Julius Evola, se qui il suo nome può essere quello di una storia
spirituale paradigmatica dell’intera esperienza di un’epoca, non nasce
pensatore tradizionale o addirittura mago, ma principia e si sviluppa
nella quasi totale estraneità al mondo dell’occulto.
Le conoscenze realizzative che successivamente acquisirà,
spiegano, a lui per primo, certi salti dell’essere, chiariscono
l’accaduto, così come si illumina la notte. E penso alla “notte
dell’anima” o “notte oscura” di alcuni mistici cristiani. Ma non li
determinano. Non c’è inoltre una disciplina nel suo procedere
iniziante verso la luce, ma un senso di voluttà per la dissoluzione. E
stupisce dover constatare che il percorso dell’illuminazione evoliana è
in realtà il frutto d’una tanto mostruosa quanto mistica eterogenesi dei
fini: cerca la fine e trova l’inizio. E spingendo nel nulla la propria vita
per perderla, la ritrova incontrandone l’Io.
evidenza diretta , una idea con carattere di rivelazione, di certezza perentoria, percuotente,
assoluta. Sotto queste illuminazioni, l’anima restava interamente passiva. Pervenni a muoverla.
Allora avvenne come un crollo. Sperimentai l’illusione delle evidenze di prima; vidi che tutto
poteva rivestire tale carattere di evidenza, anche verità opposte, a ciò bastando che l’anima, in
quello stato, se le proponesse. Fu un momento di spavento ─ ed io passai sull’orlo dell’abisso
della follia. La «relatività della verità» è un luogo comune filosofico; e non certo a me, studioso di
filosofia, poteva fare impressione. Ma fra questa, che è una semplice nozione intellettuale, e
quell’esperienza, non si può fare nessun confronto. […] Ritrovai un appoggio: ma esso fu l’azione
al luogo della «verità»”. Si tengano presenti queste parole quando si affronterà la “filosofia”
evoliana. Quanto invece all’“appoggio” di cui parla Evola, noi riteniamo che la Tradizione fu per
lui qualcosa di simile, nel senso di una energia, un sostegno per la visione. Su questo rimandiamo
al capitolo III. Non prima di un’ultima citazione, per noi essenziale: “Il problema, per me, non è
venuto meno col passare degli anni. Comunque, finora mi è stato dato di sostenere la tensione,
spesso spossante, e le ripercussioni dovute a questa situazione esistenziale […]”.
45
Capitolo I
Due punti essenziali da sottolineare nuovamente: queste prove
interiori con l’aiuto di droghe non si svolgono nel dopo ma durante la
guerra. La crisi evoliana quindi si acutizza dopo il 1918 e precipita,
ma esisteva già da tempo. La droga poi è il mezzo scelto da Evola per
perseguire quello stravolgimento dei sensi di cui ho già riferito in
merito alla fase dell’idealismo sensoriale. Per “visitare le interiora
della terra”, per scavare internamente105.
Inconsapevolmente, senza nulla sapere e sperare, Evola pone in
essere tecniche di penetrazione sottile e di rottura che anni dopo
riconoscerà nella via umida dell’ermetismo alchemico: l’uso di “acque
corrosive”, veleni ossia mezzi artificiali anche violenti, al fine di
raggiungere uno status spirituale superiore. Correndo
un
rischio
enorme, con quella leggerezza che hanno solo le tigri che giocano e
giocando sbranano. Ed è proprio questo superamento trasfondente del
giogo del senso nel senso del gioco a liberarlo dalla disperazione, da
quella vita che è un inquieto tendere.
Durante questi esperimenti Evola scopre la sovranità dell’Io, e
invece di precipitare ascende: il fuoco interno non diviene rogo del
corpo ma luce della coscienza. “Sentii il mio “io” sul punto di
sfasciarsi […]. Mi salvò una specie di violenza sacrilega, l’ardire di
una affermazione assoluta”106. L’appoggio che egli trova nella sua
discesa agli inferi è l’azione affermativa e non la verità: in questo
misterioso scarto tra desiderio di morte e realtà di vita ─ la nascita
dell’Io ─ si consuma il sensorismo e avviene il passaggio
all’astrattismo mistico.
Gli scritti del 1920 e del 1921 lo dimostrano chiaramente: l’Io è
distinto dall’io pratico, quotidiano. Ed Evola lo chiama Sole della
105
Cfr. J. Evola, La Tradizione ermetica, op. cit., p. 53: “E questa «via interiore», questa «via
sacra» che parte dalla «pietra nera ieratica» […], da questa «pietra che non è pietra», ma κόσμου
μίμητα («imagine del cosmo»), dal «piombo nostro nero» (simboli varî, da tale punto di vista, per
il corpo umano), e lungo la quale scaturiranno Eroi e Iddii, «cieli» e «pianeti», uomini elementari,
metallici e siderei, è chiusa enigmaticamente nella sigla VITRIOL, così esplicitata da Basilio
Valentino: «Visita Interiora Terrae [Terra = il corpo], Rectificando Invenies Occultum Lapidem».
Cfr. la dotta introduzione di Eugéne Canseliet allo scritto del Frate Basilio Valentino (dell’Ordine
di San Benedetto), Le dodici chiavi de la filosofia, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 23: “Chi
non conosce,tra gli studiosi, il precetto che circoscrive la formula in immagini molto sobrie, la più
piccola spiegazioni delle quali equivarrebbe alla pura e semplice divulgazione? VISITETIS
INTERIORA TERRAE RECTIFICANDO INVENIETIS OCCULTUM LAPIDEM VERAM MEDICINAM: VISITATE
LE VISCERE DELLA TERRA, RETTIFICANDO, TROVERETE LA PIETRA NASCOSTA, VERA MEDICINA”.
106
Iagla (uno degli pseudonimi di Evola), Esperienze: la legge degli enti, in Introduzione alla
Magia (1971), volume primo, op. cit., p. 184. Il grassetto è mio. Viene in mente “la via contro
Dio” di Georges Ivanovič Gurdjieff, vedi più avanti nota 396.
46
Capitolo I
notte, folgore, gelidità ardente, altissimo granito bianco, quel che vi è
di fondamentalmente puro. Insomma, per dirla col suo amato
Rimbaud, l’Io è “un autre”, qualcosa di qualitativamente diverso dal
soggetto quotidiano ma anche da quello dei filosofi, che esiste solo
nella loro testa: “Nella coscienza squallida abbiamo ritrovato la nostra
realtà, l’io che è al di fuori della vita di tutti i giorni”107.
Il velo opaco del mondo si squarcia davanti allo sguardo
mistico dell’Io che non è del mondo, ma Io “aumano”, “apatico
spettatore”. E l’arte di quest’Io Dada è ormai solo “allucinazione e
alchimia delle forme astratte”, lusso, capriccio, malafede e arbitrio.
Un gioco triste per non morire.
È nel 1920, con Arte astratta, il manifesto del dadaismo
esoterico108, che Evola uccide non solo il dadaismo, ma tutta l’arte,
morendo a sé stesso: “L’arte moderna cadrà ben presto: appunto
questo sarà il segno della sua purità”109. Dove purità sta per arte
d’eccezione, arte fuor del tempo, arte non soggetta a corruzione. Arte
dell’impossibile o dell’invisibile che non ha posto nella storia. È arte
pura perché è giunta al “senso dell’Unico” e può quindi chiamarsi
individuale: capace di “porsi nel nulla, freddamente, sotto una volontà
lucidissima”110. L’Io che è un altro parla con la voce della Libertà e
agisce a-umanamente. L’arte perda sé stessa: è la sua purità a privarla
d’ogni significato.
La purità dissolve l’espressione. E Dada muore sprofondando
nell’astratto il silenzio. Il silenzio come l’ultima parola che non si può
dire, perché libera dal bisogno dell’altro che non è Io.
L’Arte astratta è una contraddizione implosa nella sua purezza:
“Non vi è ragione logica nell’esprimere: se lo si fa, si è buffoni”111.
Arte è cosa del mercato, vanità dell’esibizione. Dada cerca e trova
questo avalore come capriccio del suo immotivabile arbitrio. Questa,
107
J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 36.
Per Massimo Cacciari, Evola è “uno degli autori che più profondamente penetra nell’esoterismo
Dada”, in AA.VV. Avanguardia Dada Weimar, ed. Arsenale, Venezia, 1978, p. 22.
109
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 14. Il corsivo è nostro.
110
Ivi, p. 7. È sconcertante la coerenza del salto evoliano: il suo pensiero è sempre il registro d’una
prassi luminosa, affermativa. Conoscenza è sin dall’inizio, e lo sarà fino alla fine, realizzazione.
Cambia solo, nel tempo, il quantum di compattezza dialettica in grado di esprimere a parole un
divenire tutto interiore. L’impressione, sin dalla primissima gioventù, è che Evola diventi sempre
qualcosa d’altro, non da sé, ma del Sé. Quasi fosse immobile nel cambiamento. “Si diventa quel
che si è”, insegnava il suo amico Nietzsche.
111
Ivi, p. 8.
108
47
Capitolo I
lo abbiamo visto, è la posizione di Evola negli anni dal 1919 al 1921:
l’espressione non è il Valore ma una via, fino a quando il Valore non
porterà via dall’espressione.
La libertà e la purità dell’Io, nella dimensione aurorale della sua
potenza, del suo terribile silenzio, prosciugano anche il residuo senso
ludico della comunicazione artistica. Il culto narcisistico d’un io
morto, orrendamente bardato da e per questo mondo112, si spegne e
finisce “come secca e sporca crosta caduta indifferentemente e senza
passione dal tronco vivo”113. L’indifferenza provvidamente evocata da
Dada la sopprime. E Dada muore di indifferenza. Autonegazione della
tradizione dell’arte come tradimento dell’espressione artistica perché
essa è “trasformazione dell’elemento puro in elemento convenzionale
e umano”.
“Esprimere è uccidere. Dunque non si può né si deve dire”114.
Dada libera l’Io nella sua dissoluzione.
Si può dire la libertà? L’astrattismo di Evola sfinisce nel
silenzio: rappresentazione del ni-ente.
Il silenzio non è assenza di parole ma presenza d’una voce
muta. Parola impossibile del silenzio post-dadaista che è al contempo
svuotamento dell’essere, di ciò che quotidianamente pensiamo di
essere (soggetto a/libertà negativa), e essere del vuoto115 (soggetto
112
Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano, 2004, p. 59: “È ridicolo come ti sei bardato
per questo mondo”.
113
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 9. Questa immagine ricorre spesso negli
scritti giovanili di Evola: “La libertà, la proprietà, è un momento mistico di illuminazione: una
grazia: e, appena pensata, appena pronunciata, essa è già cosa morta, cade scorza sporca ed
estranea nella terra dei bruti e dei mercanti” (ivi, p. 6), “Porre finalmente l’aspiritualità delle cose
spirituali: superiori, divine, umane, che si vedranno irrimediabilmente superate e che si sentiranno
sporche croste di malattia cadute per sempre dal puro corpo di luce” (ivi, p.10), “Porre finalmente
l’aspiritualità (non proprietà) delle cose ‘spirituali’, superiori, divine, umane, che si vedranno
irrimediabilmente superate, che si sentiranno secche sporche scorze per sempre cadute dal vivo
tronco” (L’arte come libertà e come egoismo”, op. cit., p. 26), “[…] quella malattia e
quell’incoscienza della superficie […] son calate a fondo, per sempre, come degli stracci sporchi
da un corpo di luce” , (Decorativismi, op. cit., p. 28), “[…] tutto quel che è vita e realtà, per gli
altri è caduto giù, per sempre, come una veste sporca, sudata e straccia da un corpo di luce” (Note
per gli amici, op. cit., p. 35)
114
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 10.
115
Cfr. J. Evola, Tao Tê Ching, di Lao-tze (1923), Edizioni Mediterranee, Roma, 2008, p. 45,
capitolo XI: “Trenta raggi convergono nel mozzo: ed è nel vuoto del mozzo che riposa
l’essenzialità della ruota. I vasi son fatti d’argilla: ma è il vuoto interno che realizza l’essenzialità
del vaso. Muri e tetto costituiscono la casa: ma il vuoto interno realizza l’essenzialità della casa. In
generale, dall’essere procede l’utilizzabilità, dal non-essere l’essenzialità”. Cfr. anche J. Evola, Il
48
Capitolo I
di/libertà positiva). È qui che avviene la revulsione: andando fino in
fondo si va a fondo. L’azione aumana capovolge il nichilismo in
affermazione. La negazione che si riconosce diventa affermativa. Il
nichilista non può arrestarsi alla discorsività patetico-passiva del
nulla: deve viverlo. L’artista dada non deve fermarsi all’astrazione
della parola ma affermarsi sulla parola col silenzio dell’azione
aumana. Non si esce dal mercato, la sensibilità ordinaria, con la
debolezza d’una operazione soltanto verbale. Tra il 1920 e il 1921
però l’affermazione dell’arte astratta e il silenzio spietato dell’artista
si confondono nel sogno dell’arte superata da un’arte116 affatto
particolare:
“Pure, soltanto per un’arte sarà possibile il segno dell’esistenza
superiore. Ma l’arte è tutta da rifarsi allora […] Un metodo dello
spirito […] è ancora tutto da inventarsi; un metodo astratto […] della
purità e della libertà”117.
I dadaisti secondo Evola soffrono di una imperfezione della
coscienza che offusca il loro trionfo sulle categorie e sull’umanità.
Hanno incendiato con la loro purità artistica la sfera vitale dell’uomo
ma non lo sanno ancora: “Il dadaismo difetta dell’interpretazione
mistica”118. Questo è il punto di rottura che fa esclamare ad Evola:
“Per noi l’arte è un’altra cosa […]. Siamo fuori. […] Ora sappiamo che
c’era qualcosa d’altro che la nostra ubriachezza nascondeva […] Non è
pessimismo: si tratta di aver veduto […] E si svegliò in noi ‘quel che
abbiamo di divino: l’azione antiumana’ […] Noi sappiamo quel che
facciamo, ché possediamo la distruzione, e non la distruzione possiede
noi”119.
cammino del cinabro, op. cit., p. 30: “L’essenza di tale metafisica io la indicavo nella concezione
della Via, del Tao, come processo di un «essere» che si compie, nel realizzare il «non-essere». Il
mondo, la creazione, come un fluire eterno e un eterno produrre generato dall’atto atemporale con
cui il Principio si distanzia da sé, si «svuota», realizzandosi così in una supersostanzialità (il
simbolo del «vuoto»), substrato, base e senso di ogni esistenza: alla stessa guisa che il vuoto del
mozzo di una ruota è, di essa, l’essenza, il centro di gravitazione”.
116
Ars Regia. Sul significato alchemico della pittura evoliana, cfr. Elisabetta Valento, Homo faber.
Julius Evola tra arte e alchimia, op. cit.
117
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 6.
118
Ivi, p. 13, nota 1.
119
J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 35.
49
Capitolo I
Si tratta di aver veduto con gli occhi di Rimabaud, di Stirner, di
Eckhart. L’Io è un altro, l’Unico, un nulla indicibile.
Non c’è parola che possa ricomporre l’ordine infranto dal
silenzio. La riconciliazione è il sogno di chi dorme, inaudita per l’Io
separato, e svegliato alla nascita, dal mondo. Varcato il confine quale
soglia dell’ordinario, illusorio rappresentarsi d’una realtà subìta
dall’uomo, l’uomo stesso diviene unica realtà che agisce. Non si torna
indietro. La radice del negativo è il positivo: la mano che uccide è
armata da un sì benedicente. Picasso, Carrà, Soffici vengono irrisi da
Evola già nel 1920, perché “gente incurabilmente intossicata di
umanità”, che vegeta nel transitorio e prospera nella crisi. Così, senza
morirne. “Oh, se ne avete pane da mangiare prima di arrivare fin dove
noi siamo”120.
Il suo rigore è impressionante: che ne è della forma dopo Dada,
della possibilità del suo sviluppo?
Nulla. La forma è il contenuto d’un superamento che avviene su
di un piano che non è più quello dell’arte. Nell’arte stessa fu solo il
mezzo per qualcosa d’altro che l’ubriachezza non nasconde più.
Tuttavia la positività trovata al fondo del negativo è problematica,
ancora ben lungi dall’essere – una soluzione.
L’occhio è illuminato ma ancora troppo vicino al fuoco d’una
esperienza che ne brucia la comprensione e la sua resa teoretica.
Il caos sta partorendo una stella danzante121, eppure il travaglio
è oscuro e le distinzioni cardine di tutta l’opera evoliana, benché
anticipate dagli scritti del 1920-1921, sono in questi ancora nebulose,
immediate: attivo/passivo, mistico/magico, estasi/enstasi etc.
Tutto s’è smarrito. Resta l’Io. Ma il suo profilo e quello della
morte hanno una spaventosa somiglianza.
120
121
J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 14.
L’immagine è di Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2003, p. 10.
50
Capitolo I
L’Iperbole
In Cronache d’Attualità, numero del settembre-ottobre del
1921, è possibile trovare testimonianza del suicidio metafisico122 di
Evola, nella rubrica “I misteri della cabala”, dove uno scatenato
Bragaglia, direttore della rivista, annota:
“Per conto suo, Jules Evola, il pittore romano, dichiara di aver
rinunciato all’arte approfondandosi nelle più truculente
speculazioni filosofiche123. Altri dicono, invece, che egli studi
severamente questa volta, per laurearsi ingegnere. Mi aveva infatti
promesso, il giovincello, che per quest’epoca si sarebbe ucciso. Con
la rivoltella, egli intendeva sin d’allora. Ha cambiato solo il mezzo,
però la parola l’ha mantenuta. Bravo. Et voilà!”124.
E poche righe sotto, un altro strale satirico in forma di trafiletto
anonimo:
“La notizia che G. Evola, si è ritirato dalle cose mondane,
abbandonando persino il Dadaismo, telegrafata a Parigi, in America
e in Germania, ha scombussolato la mente di T. Tzara e dei suoi
compagni. La Galleria di Caucciù di New York, s’è pietrificata dallo
spavento! Il circolo degli ‘idioti’ di Monaco, ha corso il rischio di
acquistar un po’ di senno, tanto la notizia è di quelle che ‘metton
giudizio’ ai più forsennati”.
122
Cfr. la lettera di Evola a Tzara, manoscritta autografa, su due facciate, non datata ma
sicuramente scritta pochi giorni prima del 16 maggio del 1921, in Lettere di Julius Evola a Tristan
Tzara (1919-1923), op. cit., p. 38: “Vi scriverò ben presto una lunga lettera con molte cose
divertenti. Nondimeno, vi comunico il mio suicidio che avrà luogo tra 2 o 3 mesi”. Cfr. anche la
lettera del 2/7/1921, ivi, p. 40: “Mi trovo in un tale stato di spossatezza interiore che il solo fatto di
pensare e di prendere la penna richiede uno sforzo del quale spesso non sono io capace. Questo, da
qualche settimana. Vivo in un’atonia, in uno stato di stupore immobile, nel quale si gela ogni
attività e ogni volontà. È terribilmente dada. Ogni azione mi disgusta: anche la sensazione la
sopporto come una malattia, e non ho che il terrore di passare il tempo che ho davanti a me, e del
quale non so che fare”.
123
Il grassetto è nostro.
124
Anton Giulio Bragaglia, Cronache d’Attualità, nella rubrica I misteri della cabala, settembreottobre 1921.
51
Capitolo I
L’annuncio di morte è quindi di dominio pubblico, visto che
oltre agli idioti di Monaco è arrivata anche a quelli d’Italia, che con
spirito dada lo irridono, sapendo quanto Evola si prendesse sul serio.
In verità, lo abbiamo visto, negli scritti del periodo, il barone non
aveva mancato di indicare la morte come via ulteriore e possibilità
liberatrice: “immane e pur fragile spettacolo che, ad un cenno,
potrebbe inabissarsi e disciogliersi per sempre nell’ineffabile gelidità
ardente della coscienza superiore” (Noi). La stessa immagine in Arte
astratta, dove basta “un cenno dell’Io spettatore e sulla commedia
irreale […] può cadere l’immenso sipario di velluto nero”. E ancora
“la possibilità di scancellar tutto nella vita dell’arte astratta,
nell’arbitrio, così, ammalandosi un poco in un capriccio ghiacciato;
per non morire” (Bleu).
La via d’uscita da questa volontà di morte la troviamo
teorizzata solo qualche anno più tardi nel saggio sull’arte
modernissima del 1925. Ma adesso Evola sa soltanto che le opzioni
sono due: prendere atto dell’avvenuta consunzione dell’espressività
dell’arte, o tradire la sua purità continuando a illudere la forma.
Foto-grafia di questo paesaggio critico, La parole obscure du
paysage intérieur (1921): “una specie di documento di un episodio
della mia vita”125. È un poema dada, scritto in francese e recitato a
quattro voci, che simbolizzano i “quattro elementari” del paesaggio
interiore126. L’elemento Ngara è la volontà, l’elemento Lilan il
sentimento, Râaga la contemplazione disinteressata e Hhah
l’indifferenza mortale. Non sono quattro personaggi ma quattro aspetti
simultanei di Evola stesso, e dell’uomo in generale: il quaternario
inferiore di cui parlano le dottrine orientali.
125
Lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla
fine del ’21, probabilmente a novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923),
op. cit., p. 44.
126
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 26: “Per un cenno, se la tecnica del poema era
quella della poesia e della cosiddetta «alchimia delle parole» […], tuttavia esso aveva anche un
contenuto perché vi si descriveva una specie di dramma interiore, la cui chiave era indicata in un
detto d’ispirazione gnostica: «Si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la
luce». Cfr. anche l’introduzione di J. Evola (datata Roma, marzo 1963) a La parole obscure du
paysage intérieur, Poème à 4 voix, con due illustrazioni, Quaderni di testi evoliani, n. 27, Roma,
1992, p. 8: “Il poemetto, a dir vero, è «astratto» solo in certi aspetti del testo, dove ho seguìto la
tecnica della composizione o «alchimia» dei puri valori evocativi, e non oggettivi, delle parole e
anche di suoni. Per il resto, esso ha un «contenuto» abbastanza preciso, connesso alla situazione di
crisi […] e alo conato di superarla”.
52
Capitolo I
Questo scritto è una esemplare testimonianza del vissuto e della
ricerca del giovane filosofo. Soglia da varcare per accedere, oltre
l’umano, a una dimensione superiore dove regna il silenzio
dell’Inesprimibile.
Nella sostanza è la messa in scena dell’attività pratica dell’io
quotidiano, la commedia irreale che può concludersi al cenno dell’Io
spettatore. Ma questi è ancora troppo legato all’altro io, alla
sofferenza: il distacco non è ancora completamente realizzato così da
essere irreale come la commedia.
Lilan, il femminino che permette il dolore, è la personificazione
dell’“elemento umano e affettivo dell’essere”. Pungolata dalla volontà
Ngara, che determina il cammino verso l’astrazione, comincia a
cedere prendendo coscienza della propria vanità. Râaga, la
componente regale, voce narrante che domina l’intero poema,
dapprima ci introduce alla contemplazione di fantastici paesaggi, poi
registrando il mutamento avvenuto nel piano inferiore, afferma
l’inesorabile e crudele aspirazione al superamento dell’umano. Hhah
realizza così “la sua personalità astratta, ossia, la sua mancanza di
personalità”127. Il poema si chiude con il grido di Ngara: “Sang en
formation d’hyperbole”, seguito dal coro delle altre voci.
“Hyperbole!-Hyperbole!”128. Sangue in formazione d’iperbole. La
trascendenza che diventa sangue, forma d’infinito. L’iperbole è la
libertà, l’attività disinteressata. Dopo, inizia la “via ultima”, il 2°
piano Dada: “Ma ciò non appartiene più all’espressione”129.
L’io mistico non era sufficiente, perché non interamente e
internamente sottratto all’aumano, seppur nella alfa privativa trovas 4
voix, con due illustrazionise conforto.
La crisi esistenziale del giovane Evola oscilla paurosamente tra
un bisogno insopprimibile d’intensità e un’irriducibile estraneità al
mondo. Il nucleo più intimo della persona è lacerato da un doppio,
inestricabile impulso: desiderio di annientamento e volontà d’assoluto.
Ma è il suo modo di rapportarsi ad essi che è determinante. Scioltosi
127
Lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla
fine del ’21, probabilmente a novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923),
op. cit., p. 46.
128
Ivi, o, 46: “Questa nuova vita, è il regno dell’iperbole, che, come la chiamavano i greci, è
‘Madre, sorella e figlia di se stessa’: è l’attività disinteressata: ossia, la libertà. L’iperbole è “la
curva che tende asintoticamente all’infinito”, J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 27.
129
Ibid.
53
Capitolo I
dal laccio del divenire, un ostacolo ancora si frappone tra lui e la
libertà: l’attaccamento alla vita.
Evola decide di morire ma il suo suicidio s’infrange contro lo
spettro della rettorica. Leggendo un passo sull’estinzione di un testo
buddhista si illumina: la morte non è la raggiunta libertà dalla e della
vita. È la libertà ad essere di là da vita e morte, radice dell’essere e del
nulla. Se la volontà non è perfettamente pura, desiderare la morte
significa essere ancora immersi in quella vita che si vorrebbe lasciare:
aspirazione d’una volontà non dominata.
Una forma di impotenza che costringe l’io a muoversi in una
dimensione necessitata. Se la volontà invece è pura, non appartiene al
mondo: chi è già morto non può morire130.
Questo improvviso mutamento, racconta Evola nel suo
Cammino, fu “qualcosa di simile ad una illuminazione […] il sorgere
di una fermezza capace di resistere ad ogni crisi”131: ora è persuaso. Si
estinguono insieme, come nebbie al sorgere del sole, i due gemelli
della vita impotente: il desiderio di morte e il grande disgusto per la
vita (Nietzsche).
L’individuo è solo, centro di indifferenza tra la vita e la morte:
assoluto. Oltre Dada non c’era un passo ulteriore che portasse di là
dalla fine dell’arte, dell’umano.
130
Cfr. lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla
fine del ’21, forse ottobre-novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), op.
cit., p. 47: “L’unica soluzione, date le premesse, sarebbe il suicidio metafisico, ossia ucciderso non
con un mezzo esteriore, ma con un atto di volontà/e sapete che ciò è possibile, che secondo le
teoria di Lao-Tze e di Buddha esiste una scuola orientale, Mahayana le cui discipline rendono
possibile questa specie di suicidio/. È ciò che penso di fare da qualche mese. Ma questa soluzione
perfetta, in quanto scomparendo, ci fa affermare che esiste qualcosa, una necessità qualunque,
della quale non possiamo fare a meno; e se è per la libertà che noi abbiamo cominciato, con questa
soluzione diciamo, anche se vicini all’indifferenza, che una libertà non esiste, e che la nostra
aspirazione non può soddisfarsi che negando se stessa attraverso la morte fisica: ma accanto alla
libertà nella morte/ anche ‘vivente’ se volete/resta la macchia oscura della realtà pratica che
determinava la nostra umanità e sulla quale non abbiamo alcun potere. Per me, se si vuole ancora
vivere, è questa realtà che bisogna risolvere, è questa macchia che dobbiamo cancellare, in quanto
solamente l’imperatore ha il diritto di morire o diessere Dada. Per fare ciò, a che scopo? voi mi
domandate. Per niente ─ vi rispondo ─ per nessuno scopo: per lo meno, per niente che si ricolleghi
all’esterno: come l’attività, per provare una nostra antica nobiltà, ci ha condotto verso uno scopo in
basso fino a Dada, così ci guiderà da Dada in alto senza uno scopo, seguendo il cammino
dell’iperbole. La necessità disinteressata del seme che si sviluppa in pianta/dal cerchio a Dada/, è
necessità stessa che trasformerà la pianta in fiore”.Fare a meno delle cose che non si hanno facile;
ma la luce è nel fare a meno delle cose che si hanno: e qui non si tratta solo del campo morale, ma
anche del campo fisico: solo un mago può veramente morire. /me lo avete appena detto: vedete
adesso quanto la morte mi sia cara, e non più la vita: lo credo bene/”.
131
J. Evola, Il Cammino del cinabro, op. cit., p. 20.
54
Capitolo I
Jules Evola li supera entrambi chiudendo il suo cerchio di
pittore con spietata coerenza. Dada era arte come distruzione dell’arte.
Lascia altri a trastullarsi con le macerie.
Qualche anno dopo, ne spiegherà i motivi con grande chiarezza
in Saggio sull’arte modernissima. Qui i movimenti d’avanguardia
vengono interpretati come diversi aspetti di un unico processo,
fortemente dialettizzato, di liberazione dell’arte. Processo di
immanenza, di consumazione nichilistica del genio nell’individuo e
dell’arte medianico-feminile in arte individuale o positiva, che si
compie nell’estetica moderna secondo varie fasi: romanticismo,
verismo,
simbolismo,
analogismo,
cubismo,
futurismo,
espressionismo, dadaismo e arte astratta. “Astratta in quanto non ha
più un oggetto propriamente detto […] da comunicare e vivificare, al
quale il mezzo espressivo resti subordinato, ciò che essa esprime
essendo null’altro che la stessa pura espressività, scandente il ritmo di
una pura libertà interiore. L’opera d’arte ha qui un valore
semplicemente armonico […] non vuol più dire nulla”132.
Il compimento del processo si ha quindi solo con la tendenza
più significativa di tutta l’estetica contemporanea, Dada, che nel suo
radicalismo realizza l’effettivo spostamento dell’Io a “centro
assoluto”.
L’opera di Rimbaud aspirava al possesso diretto dell’Io
creatore, ma “in concreto non era valsa che a consumare e a far cadere
giù la scorza della carne più esteriore onde, con il mondo delle
‘illuminazioni’, di là dall’aria greve della natura e dell’humanitas, si
schiuse un etere, in cui l’Io poteva penetrarsi come libero signore”133.
Nell’arte postrimbaudiana l’artista non si avvale di questa liberazione
per realizzare la sua nuova possibilità di mago creatore, per
“realizzare l’Io in centralità”, ma la sfrutta per involversi
nell’eccentricità coscienziale di nuovi mondi iper/sovrasensibili.
Il dadaismo invece tende al “principio primordiale e incondizionato”,
ad abolire quindi quella coscienza che “nell’arte è solo, in quanto è
132
J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, apparso per la prima volta in appendice ai
Saggi sull’idealismo magico, Atanòr, Roma-Todi, pp. 179-199. Fu riproposto da Evola nella
ristampa del suo poema La parole obscure du paysage intérieur, Scheiwiller, Milano, 1963. Ora in
J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., pp. 59-60. Il grassetto è nostro. Abs-tràhere:
togliere da, tendere all’essenza, purificare.
133
Ivi, p. 65.
55
Capitolo I
già forma o categorizzazione, che si sveglia solo al momento della
formazione ─ dell’opera ─ e al momento anteriore o più profondo del
formare è assente o passiva”. Viene così posto il problema della
libertà contrapponendo ad un “io determinatamente libero”, l’Io come
centro, “arbitrarietà o incondizionalità”134.
Antitesi consumata in due momenti: negazione ironica della
realtà (soluzione negativa o dis-soluzione) che cerca di sciogliere
nella pura libertà la determinazione, e coscienza del carattere preoccupato della funzione negatrice dell’Io (soluzione positiva).
La negazione è in relazione a ciò che nega, ne dipende. E
l’esigenza da cui muove viene contraddetta: negazione della
negazione. Ci si muoveva in un circolo ingannevole: l’Io, in quanto
polemico, non è veramente libero. Il risultato di questa specchiata
consapevolezza è: le vrai Dada est contre Dada. Avviene “il trapasso
nel tema dell’indifferenza”135.
La coscienza estetica rinuncia all’affermazione violenta del
principio incondizionato e, come sospesa “dans la plaine” (: lo
spettacolo dell’esperienza reale), assorbe la realtà “avec délice mais
sans goût”. Questo movimento illuminante, in cui l’indeterminatoindifferente si scopre in seno al determinato, attua la liberazioneautonomia del principio incondizionato: “La pura libertà attraverso la
negazione di sé è pervenuta ad un assoluto essere”136.
Ora, la plaine si dà nella totale nudità del proprio dasein (esser
là), senza filtro lirico-simbolico. L’Io è quindi quel che di inafferrabile
e labile (come acqua direbbe Lao-Tze137) trasmuta in ogni
determinazione come potere di dare valore o non valore. E la
contraddizione è superata nel fluttuare indicibile degli opposti nella
134
Ibid.
Ivi, p. 66.
136
Ibid.
137
A. Watts definisce l’essenza stessa del Tao “la via dell’acqua che scorre” in Il tao dell’acqua
che scorre, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1977. Non diversamente per lo Zen, che “è come l’acqua
viva che incessantemente si rinnova e zampilla sempre limpida”, T. Deshimaru, in Il vero Zen, Se,
Milano 1993, p. 13. Cfr. L’Introduzione di J. Evola alla sua traduzione/commento del Tao Tê
Ching, di Lao-tze (1923), p. 38, nota 5: “Si può notar qui di passaggio come delle teorie di Lao
Tze si rivelino come i presupposti metafisici ─ talvolta anche consci ─ del più strano e
significativo frutto dell’odierna cultura europea, del Dadaismo”. E nella stessa pagina Evola
afferma: “Ora si può dire che tutta l’opera di Lao-tze converga in un unico interesse: L’Individuo
Assoluto, il Perfetto”. Evola concluse questo suo saggio introduttivo nel settembre del 1922 ad
Assisi.
135
56
Capitolo I
‘grande bouche pleine de miele et d’excrément’” che “rivela il
possesso dell’incondizionata libertà”138.
La perfezione-compimento dell’individuale è realizzata.
Quel che conta rilevare di questo processo auto-disvelante è la
sua qualità di “stato spirituale” che corrisponde alle ultime
realizzazioni dell’arte astratta.
Per Evola è assai difficile non solo viverle e penetrarle ma
anche solo presentirne il valore, qualora non si sia già realizzato in sé
almeno in certo grado, “quella coscienza esteriore e rarefatta” alla
quale è giunto chi ne è autore. Il perché è indicato dal filosofo romano
con una espressione ermetica che è, a parere di chi scrive, la sintesi di
tutto il suo pensiero, con conseguenze tra il tragico e il sarcastico che
ricadono su chi se ne faccia interprete dal di fuori : “soltanto il simile
138
J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., pp. 66-67, nota 12. Da qui la
differenza-opposizione tra istintività futurista e autarchia dadaista, tra gli irreducibili e
inconciliabili assoluti delle due avanguardie: quello dell’immediatezza e quello della mediatezza.
Evola riduce il futurismo a bergsonismo mentre riconnette il dadaismo a Stirner, in quanto il suo
principio è “l’individuale inteso come assoluto possesso e volontà incondizionata fredda ed
arbitraria”, laddove il filosofo francese e il futurismo invece dis-solvono l’individuo “nello slancio
della vita universale”. Per il filosofo romano una simile distinzione riflette in sede estetica quella
fra idealismo magico “(che in una certa misura corrisponde al dadaismo)” e irrazionalismofuturismo. Cfr. anche A proposito di ‘Dada’, lettera pubblicata su L’Impero, Roma, 20 aprile
1923, dove Evola scrive: Se […] il Dadaismo fosse realmente istintività, intuizione, vitalità e
dinamismo primordiale, esso non sarebbe dadaismo, ma futurismo; e sarebbe giustificato il
rimprovero di Marinetti, che Dada abbia preso in prestito dal suo movimento le posizioni
fondamentali. Ma da quel che precede risulta che il dadaismo è precisamente l’antitesi del
futurismo”, ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, p. 55. Ancora sul futurismo cfr. Sul
dadaismo, pubblicato in Le Cronache d’Italia, inserito nella rubrica di filosofia, a. I, n. 12-13,
dicembre 1922 - marzo 1923, pp. 528-532, ora in Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 47:
“[…] l’artista si precipita alfine ─ a soffocare la sua angoscia ─ nella materia, nella natura
immediata; e nell’orgia sfrenata in essa ─ nella lotta, nel dinamismo, nell’ ‘ossessione lirica della
materia’, nella vertigine dell’intuizione, della velocità e del sesso ─ cerca, rinnovando la soluzione
dionisiaca e sciamana, di provare sé a se stesso, come concreto: come tale egli pone il futurismo”, i
‘grandi antecedenti’ del quale per Evola sono, elencati nel seguente ordine: impressionismo,
sensismo e orfismo, “non interamente sviluppati nel loro motivo”, ivi in nota 5. “Ma il futurismo
ha immanente in sé la sua dissoluzione e il suo superamento; perché se l’Io in esso è pervenuto ad
un contenuto, non lo è per un passivo e muto annullamento in un che di estraneo, ma in quanto si è
egli stesso identificato con la forza primordiale della natura, in quanto egli stesso è divenuta forza
bruta e creativa che supera la sua immediatezza nell’espressione, nello scompiglio e nello
strombettìo delle parole in libertà, e che ad ogni istante è insoddisfatta della sua naturalità e
sospinta in una furiosa e angosciosa preoccupazione del ‘nuovo’. Così, attraverso la negazione di
quella pura interiorità di cui l’analogismo è il mito, l’Io si affaccia, presso alla morte del futurismo
e del primitivismo, all’interiorità concreta, alla coscienza che egli è in sé un libero ed assoluto
creatore”, ivi, p. 48. L’ ‘istintività bruta’ del futurismo è solo un gradino della ri-conquista del
proprio regno da parte della coscienza, la fase d’un processo necessario che ha il suo compimento
“solo nel dadaismo come dottrina dell’assoluta astrazione e dell’assoluta libertà”, ibid.
57
Capitolo I
può comprendere il simile”139. Gli altri non vedranno che incoerenza e
incomprensibilità.
Bisogna quindi capire preliminarmente la profonda alterità di
piano e di significato raggiunti dall’ultimissima estetica con la
coscienza astratta che è “quasi un’altra dimensione dello spirito”.
Siamo molto lontani da quella quotidianità pratica e sentimentale che
per la quasi totalità degli uomini costituisce il nucleo più intimo e più
vero della vita. È una via spirituale dura e dolorosa da percorrere
sacrificando l’umano in noi perché la consapevolezza risplenda come
bagliore della trascendenza. E infatti Evola indica un punto di
paragone “nell’interiorità atona e gelidamente ardente di un
Ruysbroeck e di uno Eckhart”140.
Una logica diversa da quella di tutti i giorni regge questa
141
sfera dell’esistenza in cui il sogno o il delirio si chiarificano e
trasmutano “sino ad una rarefazione solare”. Dietro l’apparenza della
follia è vivo il senso della libertà assoluta dell’Io. L’arte astratta è
soltanto il velo estetico che nasconde “quella purità informe ed
incondizionata, che è la nuda potenza e l’origine di ogni forma e
d’ogni ordine”: è autorivelazione142. Il valore artistico è contingente
essendo lo spettatore e non l’autore, il creatore dell’opera d’arte.
Di conseguenza possiamo dire artistica non una certa opera ma
“una certa funzione dell’Io”. A questa stregua l’arte moderna ha il
valore “di una vera catartica”143. Il suo valore morale risiede nella
capacità di trasfigurare esteticamente ogni determinazione
nell’indifferentemente brutto o bello, non appena io lo voglia.
L’arte è finalmente valore individuale. Siamo ad un puntolimite: essa non può più procedere se non compiendo la propria
dissoluzione. La coscienza moderna in cui s’è affermata l’autonomia
individuale è la barriera oltre la quale non v’è che la morte dell’arte. E
in verità, nota Evola, dal simbolismo al dadaismo si è avuto a che fare
139
Ivi, p. 67.
Ibid.
141
Cfr. J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 21: “È così. Lo spirito del
creatore sarà una sfera su un piano inclinato tenuta ferma da un filo”. Cfr. il breve saggio
introduttivo di Paolo Lucentini in Il libro dei ventiquattro filosofi, Adelphi, Milano, 1999, p. 37:
“[…] la metafora della sfera raffigura la vita in sé della prima causa, nella sua dialettica di
immanenza (ubique) e trascendenza (super et extra ubique), in tutto e al di fuori di tutto”.
142
J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., p. 68.
143
Ivi, p. 70.
140
58
Capitolo I
con scuole che sono affatto meta-artistiche o addirittura anti-artistiche,
e ciò secondo una “storica necessità” che ha un valore a priori144.
Qui avviene il trapasso dall’arte al magismo filosofico.
Come l’istinto gradatamente si consuma nella mediazione della
ragione e della volontà, così l’arte, “residuo di una vita fatta di
spontaneità, anteriore ancora allo stesso principio della persona”, deve
scomparire quale categoria superata in un processo spirituale che
presso a nuove forme di sviluppo ne porti innanzi la verità.
Il gesto del suo scomparire nell’ironia e nella negazione dona
all’Io una esperienza piena di significato secondo un ritmo di libertà e
positività che segnano i momenti della riconquista interiore come
realizzazione magica. Arte moderna è consunzione dell’arte ed il suo
valore sta nel rappresentare all’Io il senso di questa realizzazione “in
una anticipazione o imagine formale”, in una affermazione nei confini
delle parole e dei colori: lo spazio fantastico del soggetto. In questo
campo, che pur cade fuori dalla “potenza oggettiva della realtà”, l’Io
dada ha potuto sperimentare “il compimento dell’assoluta libertà” con
una intensità interiore e vitale sconosciuta all’analoga esperienza
compiuta sul sentiero dell’idealismo trascendentale145.
In Fenomenologia dell’Individuo Assoluto infatti, qui basti un
accenno, Evola farà dell’arte astratta una categoria situata “al limite
delle forme, oltre le quali v’è la rivelazione della nuda essenza dell’Io
e la possibilità rischiosa di esperienze superrazionali e
superindividuali”, mettendola ad un livello superiore a quello della
filosofia146. Ora questo tipo di esperienze l’artista147 romano l’ha
provato su di sé prima del passaggio all’astrattismo ed anzi proprio
queste, se così possiamo dire, ne sono state la causa sottile.
L’arte evoliana, sopratutto quella dadaista su cui abbiamo
concentrato il nostro sguardo, è quindi immediatamente extra ed antiartistica. Meglio, è soltanto mezzo (artistico) a scopo (elevazione
interiore): ricerca di uno status spirituale superiore. Esercizio d’artista
come forma ascetica, si badi, priva di finalità, e quindi libera. Puro
tendersi dell’azione, come l’arco da cui si scaglierà una freccia
assoluta.
144
Ivi, p. 71.
Ivi, p. 72.
146
J. Evola, La parole obscure du paysage intérieur, Poème à 4 voix, op. cit., p. 10.
147
In senso alchemico.
145
59
Capitolo I
Questo spiega anche perché il dadaismo e l’astrattismo evoliano
─ ma non diverso discorso si deve fare per il suo futurismo ─ siano
così sui generis, autonomi. Tanto è vero che ad essi il Barone
impresse una direzione e una interpretazione affatto particolari, poiché
calibrate sulla propria “‘equazione personale’ già a quel tempo
abbastanza definita”.
Queste correnti erano ambigue poiché comprendevano una
doppia possibilità. Da una parte infatti si rivoltavano furiosamente
contro ogni razionalità, forma data e legge orientandosi
pericolosamente verso la “vita” e l’irrazionale, “quasi come in un
esasperato frenetico bergsonismo”148. Il pericolo qui era
evidentemente quello di uno sbocco nel sub-personale: tendenzialità
espressa dal primo surrealismo, nel rilievo dato all’inconscio e al subconscio, alla “scrittura automatica”, alla psicanalisi 149, che finì per
subire “la suggestione dell’oscuro demonismo dell’arte dei primitivi e
dei negri”. Dall’altra parte invece, la possibilità opposta immanente
alle stesse esperienze di più spinta avanguardia che corrisposero
all’orientamento evoliano.
Secondo le formule di A. Huxley150 spesso usate da Evola, ad
una direzione di “auto-trascendimento discendente” se ne oppone una
di “auto-trascendimento ascendente”. Che vuol dire? Significa
semplicemente che l’impulso doveva essere non quello di
148
Che il giovane Evola aveva però esclusivamente riferito a “certo futurismo”.
Per una liquidazione spietata da parte di Evola del fenomeno psicanalitico declinato nelle sue
diverse scuole, si vedano, tra i molti luoghi della sua opera in cui se ne tratta, Critica della
psicanalisi, pp. 63-83, in J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni
Mediterranee, Roma, 2008 e L’esoterismo – l’inconscio – la psicanalisi, in Introduzione alla
Magia (1971), volume terzo, op. cit., pp. 383-407. Cfr. infine J. Evola, Cavalcare la tigre,
Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, p. 41, dove la psicanalisi viene definita “una scienza che,
falsa e contaminatrice se applicata all’uomo di altri tempi e di altre civiltà, ha una forza di
persuasione quando si tratti dell’uomo moderno traumatizzato”. Tuttavia in Y. De Begnac,
Taccuini Mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, 1990, p. 646, leggiamo: “Di Freud mi ha
parlato per primo J. Evola. Evola mi fu presentato da Marinetti, prima dell’ottobre 1922. Marinetti
era stato il masimo sostenitore della pittura di Evola, al tempo in cui Sprovieri s’era fatto profeta
dei pittori moderni. Evola vedeva in Freud lo scopritore di ogni mistero della psiche. Il mondo di
Freud, diceva, doveva divenire il mondo vero del pensiero. Questo discorso, lo confesso, lo
trovavo e continuo a trovarlo un poco umoristico. Non esistono rivelatori di coscienza, di
subconscio, che non siano, in tutto o in parte, coloro che ne sono, volutamente o non, i
protagonisti: meglio, gli artefici”.
150
Non lontano da Evola nel concepire, ed usare sostanza stupefacenti come mezzi per aprire “Le
porte della percezione” (1954), Mondadori, Milano, 2002. Le droghe, in un simile orientamento,
sarebbero gli equivalenti/sostitutivi chimici della grazia.
149
60
Capitolo I
“immergersi nella ‘Vita’”, o peggio nel caos dell’elementare, ma
quello di “portarsi oltre la ‘Vita’”151.
Solo la volontà poteva realizzare la centralità dell’Io rivelando,
nello sconvolgimento delle forme e nell’arbitrio più scatenato, la
presenza dell’ “Individuo Assoluto” e del suo dominio. E non c’è
dubbio che la tendenza di base evoliana fu essenzialmente questa ora
accennata.
Nelle varie fasi dell’arte modernissima, attraverso il loro
movimento, germina quella liberazione che, nel campo estetico,
adombra quella da realizzare nel campo speculativo dell’idealismo
magico quale superamento dell’idealismo astratto.
“Per me Dada è una nuova vita che ho costruito dopo aver distrutto,
sempre con coscienza e volontà, un’altra vita, che aveva una
direzione completamente sua”.
Morta anche questa nuova vita che, come in un cocktail
micidiale, aveva mescolato speculazioni truculente, alcool, droghe,
filosofi anarchici e suicidi, e sopratutto il disgusto per la società
borghese e per i suoi valori152, Evola precipiterà gli eccessi di poeta e
di pittore nella sua gnosi filosofica.
“Esaurita l’esperienza, andai oltre”153. È quello che faremo
anche noi. Non prima però delle seguenti considerazioni conclusive
sul rapporto tra Evola e il dadaismo. Resta da dire qualcosa infatti
sull’arte pura intesa come “preludio alla magia”, definizione con cui si
chiude lo scritto Arte pura, del 1924, che costituisce la sezione
seconda del capitolo Epoca della personalità in Fenomenologia
dell’Individuo Assoluto154.
151
J. Evola, introduzione a La parole obscure du paysage intérieur, op. cit. p. 9.
Cfr. l’intervista di Gianfranco de Turris, pubblicata come Incontro con Julius Evola, su
L’Italiano, n. 11, novembre 1970, pp. 812-820, ora in appendice a J. Evola, Cavalcare la tigre, op.
cit, p. 221: “In altri tempi Ernst Jünger ebbe a scrivere queste parole, che oggi di certo egli non
sottoscriverebbe più, perché anche lui, il combattente pluridecorato, si è normalizzato e rieducato:
«Meglio esere un delinquente che un borghese». Naturalmente, è un paradosso. Tuttavia sono
parole sul senso ultimo delle quali so dovrebbe riflettere”.
153
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 26.
154
J. Evola, Arte pura, paragrafo 20, sezione seconda, del capitolo Epoca della personalità, in
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, Bocca, Torino, 1930, ora in Julius Evola, Scritti sull’arte
d’avanguardia, op. cit, p. 81.
152
61
Capitolo I
Rileviamo la concordanza della definizione ora espressa con lo
scritto su cui poco sopra abbiamo riferito. In esso Evola si richiama a
Novalis affermando che “i poeti in realtà sono ancora ben lungi
dall’esagerare abbastanza […] ignorando quali forze sono loro
soggette, quali mondi debbano loro obbedire”155. E invita a
riaffermare quel senso di auto-affermazione e di liberazione appreso
in sede estetica “nella dimensione più profonda della vita reale”. A
comprendere, con Lao-Tze, l’arte stessa come “immobile scalpitio o
propedeutica (Lehrjahre, diceva Novalis) di un ulteriore slancio”156.
Il “regno della ‘grazia’” non si limita alla dimensione estetica:
l’individuo può ridurre a sé la trascendenza delle leggi e dei
determinismi fisico-fisiologici che in condizioni normali si
impongono come qualcosa di cui egli non possiede il principio.
Rendere perfetta (: realizzata) la volontà non più nell’ambito dell’arte
ma nella vita “significa passare all’idealismo magico”157.
La poesia è ora, secondo il suo etimo (poiein), azione. L’opera
d’arte del futuro sarà di conseguenza non il capolavoro di chi intenda
l’arte materialmente, secondo un criterio ancorato alla produzione
artistica in se stessa ma formalmente, come simbolo d’una certa
esperienza spirituale. Non più un’opera “perfetta, organica e
compiuta” ma un Opus (Ars regia), non più una nuova produzione
estetica ma un nuovo modo di vivere la funzione estetica.
L’esperienza artistica moderna si è compiuta. Oltre non si può
andare. Di là da un’arte come ritorno al passato o superstizione (quod
superstat), essa deve divenire auto-creazione: Io158.
Il Dadaismo, “il più paradossale frutto della cultura
moderna”159, azzera l’arte rendendola tabula rasa o spazio della
negazione: cerchio illuminato in cui l’Io possa riconoscersi libero
signore. La negazione d’ogni forma e categorizzazione ha una
funzione-significato essenziale nel dadaismo. Il suo oggetto non è
l’esterno ma l’interno, ossia l’io160. Nella dimensione coscienziale si
gioca l’affrontamento di io e mondo, il problema della libertà. Una
155
J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., p. 72.
Ibid. Il grassetto è nostro.
157
Ivi, p. 73.
158
Ibid.
159
J. Evola, Sul Dadaismo, op. cit., p. 45.
160
Ivi, p. 49, nota 10: “Ribemont-Dessaignes dadaista dice: “Il est difficile de s’echapper d’un
prison qui n’a pas de mur”.
156
62
Capitolo I
cosa è infatti l’ “Io determinatamente libero” , un’altra è l’ “Io come
forma di assoluta indeterminata libertà”161.
Il dadaismo è il tentativo di risolvere questa antitesi, di
affondare nel niente, ossia nell’informe dell’astrazione, una
contraddizione interna. È il tema dell’indifferenza. Indifferenza quale
consumazione di due momenti separati dell’io, per scoprirne e
bruciarne la specularità: l’Io assoluto come fondamento trascendentale
dell’io determinato, sua infinita riserva d’energia che, negandosi
nell’Io dato, si dà come indifferenza sovrana.
L’essere è al fondo del non essere: si compie nel nulla quale
inesauribile arbitrio dell’in-potenza, autarchia162.
Come un fiore nasce l’Io, liberamente sulla tomba del dasein.
L’arte per Evola è lo strumento di una igiene mentale ed ha
nell’economia della sua esperienza di vita e di pensiero, la stessa
funzione che nel “periodo speculativo” occupano Stirner e Nietzsche,
i numi tutelari del suo genio filosofico: purificazione, apertura d’un
varco nella trascendenza immanente all’opera di distruzione della vita
che rimanda all’altro da sé.
Pittura e poesia allora come rappresentazione d’un compito.
Riproduzione nel grembo ferito del divino.
Qui la dialettica del mito artistico si arresta in quanto si continua
solo in quella dialettica d’ordine superiore che implica lo sviluppo
mistico dell’Io, del quale sviluppo la coscienza estetica non è che
l’anticipazione parodica o ─ per dirla con Lao Tze ─ l’immobile
scalpitio. Ma già nel dadaismo […] appaiono decisi segni di un
orientamento mistico: un recente manifesto del Baader accenna ad
un avvento celeste; Tzara, in un disegno, oltre l’atonia vasta e stanca
di una valle, risolve una croce nel fresco miracolo dello sboccio di
161
Ivi, pp. 49-50.
Da sottolineare nuovamente la distanza incolmabile imposta da Evola anche in questo suo
articolo tra futurismo/bergsonismo in cui l’individuo si spegne nella durata come mera naturalità e
vita universale e dadaismo, che tanto meno ha a che fare con l’attualismo, “ove il principio
assoluto dell’Io vien convertito senza residuo nel processo razionalmente determinato di una
fantastica esperienza trascendentale. […]. Se Dada è indeterminato, lo è come ciò che è
assolutamente e concretamente individuale, come ciò che si realizza come centro principio ed
arbitrio d’ogni determinazione: come l’Unico stirneriano”, in Sul Dadaismo, op. cit., p. 51 in nota
15.
162
63
Capitolo I
una rosa; e un poema dadista italiano163 segna la fenomenologia
dell’individuo astratto con la sapienza della gnostica Pistis Sofia.164
163
La parola oscura del paesaggio interiore, op. cit.
J. Evola, Sul Dadaismo, op. cit., p. 51. Cfr. J. Evola, op. cit., Il cammino del cinabro, p. 25:
“Conservo una cartolina illustrata da lui inviatami dal Tirolo austriaco il 3 settembre 1921, con un
simbolismo significativo: era un paesaggio di valle con una chiusa e con uno sfondo di ghiacciai.
Sul campanile a freccia della chiesa, sulla croce, Tzara aveva disegnato, quasi
rosicrucianamente, un fiore dischiuso, e sulla vetta più alta dello sfondo, una mano con l’indice
rivolto verso il cielo”. I grassetti sono nostri. Una rosa che fiorisce al centro di una croce è
l’emblema, cui lo stesso Evola accenna, della “Fama Fraeternitas Rosa Croce”. L’Ordine dei RosaCroce apparve nell’anno 1614 attraverso la pubblicazione di un volume noto con il titolo di ‘Fama
Fraternitas’ ma in realtà intitolato ‘Comune e Riforma Generale del Mondo secondo la Fama
Fraternitas del Venerabile Ordine dei Rosa Croce’ sottotitolata ‘Messaggio indirizzato a tutti i Re e
i Saggi d’Europa’. In questo volume, suddiviso in due parti, si parla di una riunione presenziata dal
Dio Apollo e – nella seconda parte – del ruolo della stessa Fama Fraternitas di asse di
rinnovamento spirituale e di rinascita per l’intero pianeta. Il presunto fondatore dell’ordine
rosacrociano sarebbe stato un certo Christian Rosenkreuz, presentato ai neofiti e agli adepti quale
prototipo di uomo perfetto. Cfr. Chymische Hochzeit Christiani Rosenkreuz, Ztner, Strasburgo,
1616, ora in Le nozze chimiche, di Christian Rosenkreuz, Editrice Atanòr, Roma, senza data.
Nell’emblema dell’ordine, una croce al cui centro sboccia una rosa, appare anche la massima
cristiana INRI la quale però, in questo caso, non dev’essere intesa come ‘Iesus Nazarenus Rex
Iudeorum’ bensì nel significato che ad essa attribuivano gli alchimisti cattolici del medioevo:
“IGNE NATURA RENOVATUR INTEGRA”, cioè: “LA NATURA SI RINNOVA COL FUOCO”. Il Fuoco in
alchimia è “agente di trasmutazione”. Cfr. la lettera di Evola a Tzara dell’ottobre-novembre ’21,
op. cit., pp. 47-48: “ Esiste un mito che conoscete bene, suppongo, e la cui importanza sta nel
ritrovarsi in tutte le religioni e le filosofie iniziatiche comuni: è che l’uomo è un Dio decaduto; che
il compito dell’uomo è di redimersi dalla materia e dal desiderio, per riscattarsi riscattando il dio
malato che è in lui: “poiché crea le tenebre, conosce la Luce”. Vi ho detto della forte impressione
che la vostra cartolina dal Tirolo mi aveva causato: ecco cosa vuole significare: sulle costruzioni
umane/come risultato della conoscenza/una croce: ma sulla croce della sofferenza, risplende il
fiore che avete tracciato: dada sorriso inerte; ma al fondo, sulle montagne, una mano indica in alto,
il cielo: il sentiero dell’iperbole. Su di un cartoncino, avete indicato tutto ciò che di più elevato
esiste sulla saggezza del mondo: in questo piccolo cartoncino siete stato immenso come nessuno lo
è mai stato: Buddha, Cristo, Platone, Rosencreutz, Kant, tutto è riassunto in quei due segni che la
vostra mano ha tracciato su una banale cartolina”.
164
64
Capitolo II
Liberazione dalla filosofia
“Fratelli miei, forse sono crudele? Ma io dico: a ciò che sta cadendo si deve dare anche una spinta!
Tutto quanto è dell’oggi – cade, e decade: e chi può aver voglia di trattenerlo!
Ma io ─ io ‘voglio’ anche dargli una spinta!
Conoscete la voluttà, che fa rotolare le pietre in ripide profondità?
─ Questi uomini d’oggi: ma guardate, come rotolano nelle mie profondità”.
F. Nietzsche
La spinta evoliana lancia altre pietre rotolanti nel gorgo
impensabile della filosofia moderna.
Einstürzende Neubauten, gli edifici dell’idealismo assoluto,
crollano sotto il gesto d’un pensiero che spezza la luce.
Pura lubricità, irrisione e cattiveria dovette sembrare
nell’orizzonte culturale della sua epoca, l’opera dell’Evola. Fanciullo
impertinente che lavora allo strazio d’un edificio teorico costruito su
labili fondamenta. E ride davanti al cadavere della madre Gentile tra le
macerie di un incompleto immanentismo. Questo, declinato nei modi
più diversi, ha risolto l’io empirico nella soggettività trascendentale
che lo nientifica quale pura illusione o miracolo della prestidigitazione
accademica.
L’idea di Hegel , il Dio di Royce o l’Atto puro di Gentile come i
succedanei del vecchio ─ o morto? ─ Dio della metafisica teista.
Tutti nomi dell’impotenza.
Una casa costruita su fondamenta impossibili e quindi
invulnerabili è invece il sistema dell’idealismo magico o dottrina della
potenza. Mondo invivibile dove regna, in solitudine perfetta, un
oscuro e potente Signore: l’Individuo Assoluto165.
165
Cfr. F. Nietzsche: “E piuttosto sedere solo sul proprio monte, come una nera fortezza
semidistrutta, meditabondo e in profondo silenzio; in modo che gli stessi uccelli abbiano paura di
126
Capitolo II
L’abitare è “una prova di fiducia che il mondo non merita?”166.
Per Heidegger: “Esser uomo significa: esser sulla terra come mortale;
e cioè: abitare”, e ancora “Abitare […] vuol dire: rimanere nella
protezione entro ciò che ci è parente, (Frye) e che ha cura di ogni cosa
nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver
cura (Schonen)”.
Non è questo il luogo per misurare la sintonia tra queste
affermazioni dell’ “ultimo sciamano” Heidegger e le concezioni del
mago Evola, tuttavia il suggestivo accostamento di questi due giganti
ci appare significativa e meritevole di venir indicata. Il “pastore
dell’essere” ed il “mago” in un abbraccio che li vuole uniti perché uno
è il compito dell’uomo e la sua raison d’être sulla terra: la “cura del
mondo”167.
Magia e filosofia poste l’una accanto all’altra, separate dalla
sublime arroganza della paroletta “e”.
Evola ne celebrò le nozze sotto il segno terribile dell’altus: la
spaventevole profondità dei suoi cieli teoretici colorati d’azzurro e
lacerati dalla potenza d’una prassi oltreumana. Due sentieri che
convergono nella conoscenza di sé e dell’“altro”, due parole
enigmatiche come l’anelito unico che le accomuna, la gnosi.
E vedremo come la Tradizione, epoca ulteriore e definitiva del
cammino evoliano, non sia altro che katharsis della ragione, atto
terribile di una purificazione compiuta sui frutti di quelle nozze per
distruggerne le residue scorie discorsive ed attivarne le valenze sottili,
magiche appunto.
Tradizione come pharmakós.
Un senso di smarrimento avvolge il lettore delle opere evoliane:
Unheimlich lo chiamò il genio di Nietzsche/Freud/Heidegger. Quella
sorta di spavento che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò
che è familiare. Come la filosofia, la dimora dell’essere-Uomo: in
cammino nel continuo esercizio della virtù. Tra le parole delle idee cui
quel silenzio”, citato in Karl Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Editori Laterza, Roma-Bari,
2003, p. 8.
166
Cfr. Manlio Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano, 1993, pp. 88-89: IL FILOSOFO:
Non ritieni che abitare sia una prova di fiducia che il mondo non merita? IL TEOLOGO: Ogni casa è
una chiesa. Il giorno in cui appresi ad abitare appresi a venerare e la schiena mi si curvò dallo
sforzo. Via dalle case, via…”.
167
Cfr. Ermete Trismegisto, Asclepio, trad.it., in Discorsi di Ermete Trismegisto. Corpo Ermetico
e Asclepio, Tea, Milano, p. 136.
66
Capitolo II
porgiamo l’orecchio e le Idee senza parole che orientano la nostra
condotta.
La parola tedesca Unheimlich ha la sua radice antitetica in
heimlich, da Heim, casa, e in heimisch, ossia familiare, abituale.
Insomma il Perturbante, ciò che porta angoscia, è un non-familiare,
qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà
cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico. Qualità, queste,
dell’opera d’arte evoliana ma ancor di più quella filosofica, che riceve
la sua forza da un eccezionale contenuto e sa spezzare l’incatenamento
della familiarità più prossima. Scuotendoci dal sonno dell’io per
risvegliarci al reale: la realtà metafisica168.
La sua filosofia come inabitabile “dimora filosofale” che
attenda un ospite ─ l’“ospite inquietante” di Nietzsche ─ di cui non
debba accontentarsi perché non “di passaggio”. Uno che la realizzi
inverandola nella sua costitutiva pratica meta-razionale, oltre il
veicolo d’un semplice dire incidentato dalla pre-comprensione
dell’“umano troppo umano”. Oppure, come Michelstaedter fece “nel
migliore dei casi […] una tesi di laurea”, così il giovane barone visse
la sua “stagione filosofica”169.
Ma resta un che di inesausto in questa sfida della conoscenza
che urla la propria insoddisfazione in questi tempi ultimi in cui
l’ignavia degli uomini li spinge a più non domandare. Troppo
indaffarati ad arredare le loro prigioni senza muri.
Parafrasando Bataille: “Per questi ridenti esseri, i signori Evola
e Michelstaedter sono in teoria problemi secondari… ma ci
sono…”170.
168
Cfr. Ea (uno degli pseudonimi di Evola), Che cosa è la “realtà metafisica”, in Krur 1929,
Tilopa Editrice, Roma, 1981, p. 108, dove il filosofo romano spiega che “metafisico” vuol dire:
“1) Dal punto di vista oggettivo, è lo stato di un essere non legato alle condizioni spaziali e
temporali; 2) Dal punto di vista soggettivo, è l’esperienza che può realizzare una coscienza quando
tali condizioni cessino di far parte del suo conoscere. Ad una esperienza del genere, corrisponde
quel che, complessivamente, noi intendiamo per «realtà metafisica»”. E più avanti, p. 109: “Ora
per quel cangiamento essenziale, per quella trans-formazione effettiva dell’intima natura, che in
ogni tempoi e in ogni luogo è stata attribuita al potere e all’atto dell’iniziazione, si può pensare che
si verifichi appunto una rimozione della modalità comune del conoscere, che faccia percepire in
sede non-corporale, «metafisica», la realtà”.
169
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano, 2007, p. 36.
170
Cfr. Georges Bataille, Su Nietzsche, Se, Milano, 1994, p. 35: “Io vivo, a ben vedere, in mezzo a
uomini strani, ai cui occhi, la terra, i suoi casi e l’immenso gioco degli animali, mammiferi, insetti,
sono più alla misura dell’illimitato, del perduto, dell’inintelligibile celeste, che di se stessi o delle
necessità da cui sono limitati. Per questi ridenti esseri, il signor Nietzsche è in teoria un problema
67
Capitolo II
Il cammino del pensiero evoliano è un costruire nell’invisibile
che disfa lo spazio del significato per farsi in quello del significante
dove la parola se ne sta come sospesa e in attesa del miracolo a venire:
l’azione che magicamente le obbedirà. Questo incantesimo prerazionale d’una prosa rigorosamente filosofica rifugge dalla dialettica
per realizzarsi nell’alchimia del logos: il flusso incoercibile d’una
conoscenza che è esercizio. Oltre l’umano nell’umano.
La filosofia evoliana è una filosofia dello spaesamento171 che ci
vuole stranieri in questo mondo fino alla sua risoluzione nella potenza
dell’Io: potenza di libertà.
Pensiero dell’assenza allora, ma nel segno d’una presenza
invisibile cui non si può sfuggire perché è in noi quale radice profonda
che non gela: la nostra destinazione sovrannaturale. Soglia di questo
indicibile, essa può divenire la lichtung di quegli atleti dello spirito
allenatisi alla disciplina del “salto”.
Una filosofia estrema che si nutre di suggestioni occulte, di
pratiche esoteriche, di frequentazioni di veri o presunti indagatori dei
mondi sottili e che si orienta in direzione d’un suo superamento
perché già in se stessa intimamente altra da qualsivoglia operazione
soltanto concettuale, non nei mezzi, che sono rigorosamente
scientifici, ma nella risonanza delle sue vocazioni utopiche.
Filosofia dell’eccesso che dicendosi s’annienta in quanto
sacrificio della logica. Filosofia della liberazione da una libertà
soltanto negativa che s’incarna nella vita di tutti quale destino della
necessità.
Questa è la sua legge: che l’impossibile sia sempre possibile,
che la libertà sia libera ─ anche e sopratutto ─ di morire.
***
Il sistema filosofico evoliano si compone di tre opere: Saggi
sull’idealismo magico, Teoria e Fenomenologia dell’Individuo
Assolto e L’uomo come potenza. Il primo è un’anticipazione ed una
secondario… ma c’è… Questi uomini, evidentemente, esistono poco… bisogna che lo dica
subito”.
171
Nella analitica esistenziale di Heidegger, la condizione in cui si prova più fortemente
l’angoscia, in quanto il mondo non appare più come la dimora propria del soggetto umano, del
cosiddetto ‘Esserci’.
68
Capitolo II
introduzione ad esso, il secondo ─ concepito originariamente come
opera unica, poi uscito in volumi separati, rispettivamente nel ’27 e
nel ’30 ─ ne è la esposizione rigorosa con i mezzi della ragione
discorsiva e il terzo è la sua esplicazione sul terreno della prassi,
“completamento tecnico”.
Non è di certo possibile ricostruire qui il pensiero evoliano nella
totalità e nella complessità delle sue articolazioni. Non è questo, del
resto, lo scopo che ci siamo dati. Ci accontenteremo pertanto di
delinearne lo scheletro e di fissare alcuni punti essenziali per:
1) saggiarne la qualità teoretica;
2) comprendere la natura dei “superamenti” esistenziali da
Evola vissuti con valenza iniziatica al principio (fase artistica) ed alla
fine (fase tradizionale) del cosiddetto “periodo speculativo”.
Per fare ciò, ci richiameremo ovviamente alle opere dell’Evola
maggiore che compongono il sistema ma non trascureremo ─ il senso
del nostro lavoro sta anche qui ─ l’Evola minore, nel senso di poco
considerato e sottovalutato ma anche nel senso di una ben specifica
modalità di lettura o atteggiamento interpretativo.
Con questa accortezza metodologica speriamo di evitare il
sentiero su cui molti viandanti evoliani si sono smarriti prendendo così
un’altra direzione.
Cogliamo l’opposizione fra le due.
Da una parte si eleva a “maggiore” un pensiero o una dottrina e
di un modello di esistenza, di un esempio si fa cultura, d’un evento ─
in questo caso un “evento dell’Io” ─, si fa storia. Con la pretesa di
ammirare, o nel migliore di casi, di connotare, si trasforma una
persona in un personaggio, un uomo in una statua che schiaccia chi
vorrebbe rappresentare disinnescandone la carica. L’innesto del nostro
tempo in quello di Evola, delle nostre aspettative nelle sue, delle
nostre forze e/o debolezze, non solo speculative, nelle sue e via
dicendo, lo rendono incomprensibile e inutilizzabile per noi.
In questo modo se ne fa un “maggiore” ma a spese del presente,
lo si misura con un metro che non è il suo e lo si riduce ad icona
forzata del suo tempo. Resta un Homunculus, l’aborto d’una
ermeneutica irresponsabile.
69
Capitolo II
Evola va calato nella sua epoca, bisogna capire perché pensò e
si comportò in un certo modo, per poter valere ancora qualcosa. Solo
così tornerà (forse! Non si dimentichi mai la sua, e la nostra,
equazione personale) a disvelare l’attualità del proprio pensiero e a
illuminarne il carattere esemplare.
Dall’altra parte si può allora concepire l’inverso e sottoporre
Evola ad un trattamento di “minorazione” per sprigionare o scatenare
il divenire (della sua opera) contro l’essere (una imaginetta, un santino
per i devoti del decrepito neo-fascismo), contro la Storia (il fascismo,
il progressismo etc.), la vita contro la cultura (del suo e del nostro
tempo), il pensiero contro la dottrina (quella della “Tradizione” con la
T maiuscola), la grazia o la leggerezza contro il dogma.
Nell’Evola giornalista, nella sua produzione pubblicistica, noi
avvistiamo una terra libera, poiché in parte misconosciuta e non
colonizzata dalla critica, in cui trascorrere momenti di riflessione in
grado di chiarire ed in parte superare le acquisizioni del volume, ─ pur
centrale nell’economia complessiva del suo farsi pensiero ─ che in
quanto tale, se ne sta, nel passare vorticoso delle sue vicende
speculative, come masso erratico contro il quale è ormai vano
ostinarsi. Più fruttuoso crediamo sia seguire l’Evola anche nelle sue
scorribande sui giornali che lo videro in parte protagonista della
cultura del suo tempo e che ci danno oggi il polso d’una vita
intellettuale in divenire. Accorderemo
perciò
una
particolare
attenzione ad alcuni articoli e conferenze evoliane, delle quali ci
serviremo come sintesi e fotografie d’un paesaggio teoretico quale
base di lancio verso l’assoluto di un Individuo.
***
L’individuo e il divenire del mondo è la sintesi del sistema
evoliano. Almeno, così il filosofo romano lo presenta nella sua
precisazione in apertura del libro edito nel 1926 che raccoglie due sue
conferenze:
“Pubblico queste due conferenze […] per dare nella sintesi più rapida
e diretta il punto su cui gravita l’insieme di ciò che io voglio e che può
ritrovarsi, in tutti gli sviluppi e le direzioni di metodo desiderabili, nel
70
Capitolo II
sistema delle mie tre opere: “Saggi sull’idealismo magico”, “Teoria
dell’Individuo assoluto”, “L’Uomo come Potenza”, al quale sistema
potranno dunque servire da filo conduttore”172.
La conferenza ─ dal titolo lievemente diverso rispetto all’opera
in oggetto ─ L’individuo e il processo del mondo, venne tenuta da
Evola nel 1925 presso la sede della “Lega teosofica indipendente” di
Roma e preannunciata in un dépliant fuori testo allegato al primo
fascicolo (marzo 1925) della rivista Ultra, la “Rivista di studi
iniziatici” diretta da Decio Calvari, presidente della “Lega”. Insieme a
Lui, tra gli altri, l’antroposofo, cioè steineriano Giovanni Colazza (il
“Leo” del successivo Gruppo di Ur), il poeta Arturo Onofri che “dopo
una crisi spirituale aveva aderito allo stesso indirizzo, l'orientalista
olandese Bernard Jasink e il pittore e «occultista» Raul dal Molin
Ferenzona”173. Tutte “personalità aventi un effettivo valore, separabile
dalle teorie a cui si appoggiavano”, che il barone definirà “miscugli,
dove la parte predominante l’avevano pregiudizi, divagazioni e la
deteriore materia fornita da presunte rivelazioni e da una presunta
chiaroveggenza”174.
Questo breve scritto uscirà poi nuovamente nel 1931 nella
rivista tedesca Logos. Al riguardo riportiamo queste parole di Guido
Calogero, allievo e collaboratore di Gentile nonché redattore
dell’Enciclopedia Italiana:
“Quanto all’Evola, opportunamente il Tilgher ha riportato di lui un
unico brano, tratto da L’individuo e il divenire del mondo (1926):
anche chi non conosce altrimenti il suo pensiero può infatti, da queste
pagine, farsene un’idea adeguata. Rileggendole, chi scrive si è
convinto una volta di più di non aver sbagliato quando, otto anni fa,
preparando l’Italien Heft, composto di scritti di idealisti italiani, della
rivista Logos, allora diretta da Richard Kroner, vi inserii, con sorpresa
172
J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1926,
Tipografia Luzzatti di Roma, p. 5. Il testo integrale di questa conferenza era già stato pubblicato,
con lo stesso titolo, nel fascicolo di dicembre della rivista Ultra, XIX, 1925, 5-6 dicembre, pp.
287-288.
173
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 28.
174
Ibid.
71
Capitolo II
di molti, anche un articolo dell’Evola175. Pochi come l’Evola hanno
infatti compreso con tanta nettezza come la più moderna soluzione
idealistica del problema dell’essere e del conoscere esiga la totale,
integrale, incondizionata negazione di ogni “realtà” ed “oggettività” di
fronte o in seno alla consapevolezza dell’io, e come quindi
nell’invalicabile ambito di tale consapevolezza, quella resistenza e
stabilità delle “cose”, che tradizionalmente genera l’idea della loro
realtà, non serbi più alcun significato né ontologico né gnoseologico, e
possa quindi essere spiegata solo in sede di filosofia della pratica,
come ostacolo contrapposto alla volontà, alla potenza, all’azione. Quel
che bensì l’Evola non vede, è come tale ostacolo sia poi la base stessa
dell’azione, la quale si attua sì tanto più quanto più rimuove
quell’ostacolo modificando il reale, ma neppure potrebbe mai attuarsi
se esso sempre non ci fosse, a fornirle la base di potenza evitandole di
brancolare nel nulla: giacché l’unico significato della “realtà” di fronte
all’ “idealità” è appunto questo, di essere ciò che la consapevolezza
agente trova in sé come già fatto di fronte a ciò che deve fare, di essere
il passato che eternamente e necessariamente si contrappone al futuro
in quell’eterno presente che è l’io [l’esperienza mistica dello “ewig
nun”, dell’eterno presente – Eckhart, Novalis nda]. Non vedendo
questo, l’Evola innalza a ideale dell’azione quello dell’assoluto
signoreggiamento e annientamento del “reale”, e sogna un pensarefare umano capace di eliminare o modificare prontamente, così come
si muovono le idee nella immaginazione, ogni ostacolo delle cose:
donde il suo interesse per la magia, e per tutte quelle forme, più o
meno esoteriche, di esercizio della potenza interiore, da cui si possa
sperare aiuto per un avvicinamento a un simile ideale, del resto già
vagheggiato dall’Uomo finito di Papini. E siccome, poi, nella
solipsistica solitudine di questo “individuo assoluto” non interviene
mai quella volontà di riconoscere le altrui persone, che appunto,
vincendo l’altrimenti invincibile solipsismo, costituisce per ciò stesso
l’unico fondamento concreto di ogni morale, così l’io evoliano,
distruttore del mondo delle cose, nega insieme anche il mondo degli
uomini. S’intende qui come, tra magia e immoralismo, possa essersi
175
J. Evola, Die drei Epochen des Gewissheitsproblem (Le tre epoche del problema della
certezza), in Logos (International Zeitschrift für Philosophie der Kultur), XX, Heft 3 (Italien Heft),
Tübingen, Dezember 1931, pp. 399-413. La rivista usciva a Tubinga per i tipi di J. C. B. Mohr.
72
Capitolo II
perduto in tante sterili e sconcertanti esperienze un ingegno
speculativo, che pure aveva così robusto impianto”176.
Di non diverso avviso fu anche Tilgher, che ─ ricorda lo stesso
Evola ─ “[…] doveva deplorare che ‘mi fossi perduto’, quando lasciai
dietro di me le forme speculative, passando in campi in cui, data la
sua mentalità intellettualistica, egli non poteva seguirmi” 177.
Altre conferenze furono tenute da Evola nel 1925 presso il
gruppo teosofico: una in luglio sul Concetto esoterico delle
purificazioni, edita poi dalla rivista di studi religiosi Bilychnis178 con il
titolo La “Purità” come valore metafisico. L’altra invece, che costituì
la seconda parte de L’individuo e il divenire del mondo, ebbe luogo
in dicembre su: “Nietzsche e la Sapienza dei Misteri”. Essa comparve
dapprima sulla rivista Ignis diretta dal massone Arturo Reghini con il
titolo Dioniso179 e successivamente in lingua francese, Par delà
Nietzsche, nel secondo volume di 900 (“Cahiers d’Italie et
d’Europe”), pubblicazione de “La Voce” edita da Curzio Malaparte e
Massimo Bontempelli. Figurò anche nell’antologia tilgheriana dei
filosofi italiani contemporanei180 e nel 1973, in versione rielaborata,
sulla rivista Vie della Tradizione181, la stessa apparsa sulle ultime
Ricognizioni evoliane, uscite pochi mesi prima della sua morte182.
Anche
dall’aridità
di
queste
scarne
indicazioni
bio-bibliografiche s’intravede la coerenza dell’opera evoliana come
nesso tra ciò che è diverso, vita della contraddizione e nodo dei
distinti.
176
G. Calogero, Come ci si orienta nel pensiero contemporaneo? – con un’appendice sulla
filosofia italiana del dopoguerra, Biblioteca dei Leonardo, Sansoni, Firenze 1940, pp. 57-59. È
curioso come Calogero finisca per ritorcere su Evola quel difetto di “riconoscimento”,
imputandogli di cullarsi nel sogno di “un pensare-fare umano capace di eliminare o modificare
prontamente, così come si muovono le ideenella immaginazione, ogni ostacolo delle cose”, che è
lo stesso difetto di cui Tilgher faceva accusa all’attualismo gentiliano (cfr. A. Tilgher, Lo spaccio
del bestione trionfante, 1925).
177
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 61.
178
Fondata nel 1912 ed edita dalla facoltà della scuola teologica battista di Roma, la rivista della
“lucerna a due lucignoli” ─ bilychnis ─ cessò le pubblicazioni nell’estate del 1931. Evola vi
collaborò dal 1925 al 1931.
179
J. Evola, Dioniso, in Ignis n. 11-12, novembre-dicembre 1925.
180
Cfr. A. Tilgher, Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra, Guanda, Modena 1937.
181
J. Evola, Dioniso e la via della “Mano Sinistra”, in Vie della Tradizione, III, 1973, 10 (aprilegiugno), pp. 53-59.
182
J. Evola, Dioniso e la “Via della Mano Sinistra”, in Ricognizioni: uomini e problemi, Edizioni
Mediterranee, Roma 1974, pp. 74-84.
73
Capitolo II
Nodo gordiano sciolto dall’azione al servizio del dio.
Le rigide categorie fanno a pezzi il corpo del testo evoliano. E,
quel che più importa, della sua testimonianza.
Le tre epoche dello spirito
L’individuo può pervenire al “perfetto compimento di se
stesso” attraverso un processo che si sviluppa in tre fasi ─ che si
rispecchiano in quelle del problema della conoscenza e della certezza
─ ed ha il proprio motore immobile nella sua volontà
trascendentale183.
In un primo momento l’Io si vive come sogno non essendo
ancora “né un autocoscienza, né un principio autonomo di azione”.
Immerso nell’immediato e nell’indistinto della natura non pensa, non
parla, non si afferma ma sono le varie potenze e i vari impulsi che
pensano, parlano, si affermano in lui. Egli è dunque soltanto un
medium, passivo strumento di qualcosa che lo trascende. Tutto è
grazia, spontaneità, immediatezza. In questo “stadio originario”, non
esistono il problema della certezza e la religione (da religare,
ricongiungere) che presuppongono uno stato di separazione non
ancora presente. Singolo e tutto, Io e non-Io, natura e spirito sono qui
una sola e medesima cosa poiché il singolo non è ancora nato ma in
formazione entro il grembo materno, quella vita universale che lo
alimenta e lo sostiene. La certezza non costituisce un problema
essendo materia di diretta esperienza, qualcosa che si rivela senza
mediazione con quell’istantanea sicurezza propria della vita degli
istinti. Questo è lo stadio della spontaneità184.
Ad esso non ne succede un secondo ma ne può succedere un
secondo. La differenza non è di poco momento dato che in essa e per
essa si gioca la legittimità del sistema evoliano che ha, può avere nella
libertà il suo invulnerabile fondamento.
Il processo dell’Io che si svolge da una forma del sapere e
dell’essere ad un'altra non dipende da legge alcuna, non è necessario
183
184
J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Arktos, Carmagnola, 1989, p. 33.
Ivi, p. 34.
74
Capitolo II
ma è in virtù della sua gratuità o leggerezza. Esso è libero, contingente
alla intensità che lo muove dall’origine quale gesto dello Spirito.
L’origine è il ni-ente: l’abisso della decisione.
La volontà trascendentale dell’uomo trasforma il mondo come
vuole che sia: contingentismo trascendentale. La libertà dell’Individuo
è la sua verità. Non ve n’è un’altra. Ed essa non coincide con la
necessità, ma la eccede perché prius indeducibile dell’intero processo.
La verità è contingente alla volontà che l’individuo è e non alla
volontà che l’individuo ha. Un simile concepimento del mai nato ─
intendiamo la libertà ─ esige non che lo si pensi, ma che lo si attui.
Il segreto della filosofia di Evola è un comandamento
(im)possibile inscritto nell’azione. Dalla spiegazione al dispiegarsi
dell’azione. Dall’arte alla filosofia. Dalla filosofia alla tradizione: un
processo che si sviluppa per salti. L’accesso alla “dimora filosofale” è
l’azione immateriale, invisibile185.
Non si penetra il secretum allungando l’orecchio: si deve agire.
Non c’è nulla di più vincolante della libertà. Essa si conosce e si
vive solo nella libertà. Essa viene dal niente: è creazione dell’Io,
spirito.
Nietzsche dubitava che nei serragli la bestia-uomo migliorasse.
La libertà che sovrasta il mondo è il serraglio più potente che costringe l’uomo al compimento.
La via dello spirito è essenzialmente quella della libertà per cui
non ha nessun senso vincolarla ad una legge trascendente da cui essa
procederebbe secondo una inconvertibile sequenza di situazioni. Il
passaggio da uno stadio all’altro si ha, se si ha, incondizionatamente.
Il suo senso è una assoluta affermazione di cui non si deve chiedere
una ulteriore ragione.
Torniamo alla seconda epoca.
Qui la connessione originaria con il tutto viene
progressivamente spezzata. E L’Io, strappandosi gradualmente
dall’Universale, si volge alla propria autonomia. Ciò che prima
185
Cfr. Introduzione alla Magia, volume primo, op. cit., p. 10: “Tutto quel che poteva dare, il
cervello umano l’ha dato. Così in particolare si tratta anche di far divenire il corpo intero uno
strumento della coscienza che, superando la limitazione individuale, dovrà penetrare negli strati
ove agiscono le forze oscure e profonde di un superiore Io: fino a trovare l’entrata della via che
conduce al «palazzo chiuso del re”».
75
Capitolo II
all’individuo era intimo e sicuro ora gli diviene impenetrabile e
incerto. Sorge il non-Io, la natura. Lasciamo parlare Evola:
“E l’esperienza si disperde in una esteriorità e in una particolarità, i cui
elementi stanno all’io in un rapporto contingente: è l’oceano
sterminato delle forme e degli esseri, della generazione e della
corruzione, del divenire e del trasmutare: è la follia indomabile dei
fenomeni, la fluttuazione obliqua delle ‘cose che sono e che non sono’.
A ciò l’individuo nel primo momento del suo nascere come tale si
sveglia; egli si trova dunque trascinato in una vicenda incomprensibile,
consumato momento per momento dal vario balenare dei fenomeni e
degli impulsi contraddittori in cui la sua sostanza dilacerandosi, egli
soffre la morte dell’unità e della certezza di sé. E più l’Io procede nella
sua individuale affermazione, più sorge energica contro di lui l’antitesi
dell’“altro”, dell’irrazionale e del contingente”186.
L’uomo, in un primo momento, vive la lacerazione
dell’originario stato di unione ─ il mondo ─ come caduta, come la
violenza di una “ingiustizia” primordiale, come illusione, “ignoranza”
(avidyâ). Il mondo è ora un luogo di dolore, un non-valore da cui
importa solo fuggire. Il giovane filosofo si spiega così, con questa
prima reazione, “il senso ed il ‘luogo’ ideale degli atteggiamenti
pessimistici ed ascetici propri all’Oriente upanishadico e buddhistico,
alla prima cultura greca ed allo stesso cristianesimo primitivo”187.
Questa “direzione ascetica”, giacché la modalità contingente
con cui il mondo appare è conseguenza necessaria della nascita
dell’Io, ha un valore negativo. Quello d’un “trarsi indietro” da parte di
una individualità intimamente contraddittoria: non ancora sufficiente
alla propria affermazione. “Essa esprime in verità la paura”188. Ma
l’affermazione del principio Io è ormai avvenuta. Da qui, vista la
impossibilità d’una restaurazione dello stato originario, due risultati:
“la dissoluzione” ovvero “il dualismo eleatico o stoico”189. O il mondo
si dissolve in un principio indifferenziato che divora ogni realtà
concreta o l’uomo è condannato ad un atteggiamento schizofrenico:
186
Ivi, p. 35.
Ivi, p. 36.
188
Ibid.
189
Ibid.
187
76
Capitolo II
l’irrigidirsi davanti al divenire dei fenomeni di cui non accetta il dover
essere pur subendone (: di quest’essere) la violenza. Questa idea di
stoicismo è piuttosto decadente, “ellenistica”, alla maniera di un
Seneca, o di Marco Aurelio.
Una seconda reazione a questa armonia infranta è quella propria
alla posizione scientifica. Il tentativo è quello di arginare il caos
fenomenico in principi di ordine e in leggi uniformi mediante l’organo
discorsivo: concetto e relazione matematica. L’unità di particolare e di
universale di cui l’uomo fruiva nello stadio pre-individuale non è più.
Il fenomeno particolare sotto una legge generale è ora criterio di
certezza. Una certezza in verità precaria poiché per questa via non si
può risolvere la natura contingente del rapporto secondo il quale ora le
cose si presentano all’io. In primo luogo perché sostituire un fatto ad
una legge significa ad una contingenza sostituirne un’altra. In secondo
luogo perché il concetto può determinare l’essenza di una cosa,
“l’insieme delle note che logicamente la definiscono”, ma non può
dedurne e tanto meno produrne l’esistenza, “il fatto nudo del suo
‘esser là’ (dasein) come cosa reale”190.
L’Io resta davanti a un “fatto”, ad una contingenza e ad una
oscurità fondamentale. Vale a dire ad un qualcosa che essendo così
come potrebbe anche essere altrimenti e non dipendendo da lui, non
può fondare nessuna certezza. S’impone il dubbio, il cui sviluppo
condiziona il procedere dell’individuale verso “la completa
affermazione di sé”191.
Un tale sviluppo si connette all’“indagine critica intorno al
problema del conoscere”192. L’Io infatti, costituendosi principio a sé,
è ora “centro distinto di autoriferimento”. Ma, posto il soggetto da una
parte e l’oggetto dall’altra, come è possibile intendere la loro
congiunzione, quel “singolare mistero” del conoscere? Resta aperta
una sola via: negare l’idea della realtà esistente in sé stessa e
affermare che la sostanza delle cose consista nel loro venire pensate
dall’Io. Il mondo come fenomeno: “una apparizione che è di questo Io
e per questo Io”193.
190
Ivi, p. 37.
Ivi, p. 38.
192
Ibid.
193
Ivi, p. 39. Cfr. G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli, 1997, p. 22: “In Kant
fenomeno non significa apparenza, ma apparizione”.
191
77
Capitolo II
Senza più appoggi o evidenze naturali, tutto è ora “dubbioso,
problematico, contingente” per l’uomo. Egli sa solo che questa è la
sua esperienza e queste le leggi e le categorie con le quali è costretto a
pensarla.
Quale è il fondamento di questo sistema di fenomeni e di
categorie fondato su una radicale contingenza, quasi fosse un
“episodio fugace, disperso in una incoercibile, imprevedibile
vicenda”? È la domanda fondamentale della filosofia.
La risposta di Evola: se l’individuo cerca un punto fermo,
“soltanto nel suo ‘Io’ può trovarlo”194.
Certo, il mondo è una rappresentazione. Ma essa non
presuppone forse l’esistenza di un rappresentante? Si può chiamare
falsa o illusoria l’esperienza, ma non chi ne sperimenta questa falsità,
questa illusione:
“Di là dall’obliquità e dalla fluttuazione delle ‘cose che sono e non
sono’ vi è dunque una sola certezza: L’Io”195.
La conclusione del secondo stadio è questa presa di coscienza,
“un possesso” con il quale l’individuo ha una realtà assoluta ed
evidente di contro alla mera fatticità del reale, a questo “bruto,
irrazionale ‘esser là’”:
“Io sono solo ─ il resto è mia rappresentazione”196.
Non sono soltanto parole. Ed Evola, “prima di passar oltre”,
rivela la necessità di vivere fino in fondo “questo momento critico
della storia ideale dell’individuo”.
Negare tutto, dubitare di tutto. Soffrire l’irrealtà di ogni realtà,
vedere l’oscurità di ogni luce. Distruggere ogni appoggio e negarsi
ogni nascondiglio. In breve: realizzare la “grande solitudine”. Non
prima di ciò egli è un “essere autonomo ed autocosciente”.
194
Ivi, p. 40.
Ibid.
196
Ibid. Il nome di Schopenhauer viene fuori quasi con evidenza in diversi passi che abbiamo fin
qui citato. Non è un caso. Evola è infatti un profondo “seguace” di Tilgher, che è, a sua volta, un
divoratore di Schopenhauer. Pur ammesso che nella volontà di Evola ci debba essere
prevalentemente Stirner (e Nietzsche), ci sembra che il filosofo romano, al tempo giovanissimo,
Schopenhauer lo abbia preso col “latte” tilgheriano.
195
78
Capitolo II
L’individuo è nel suo strapparsi ad ogni apparente fondamento
attraverso la negazione assoluta. Evola cita Stirner: “[…] l’Io non è
tutto, ma ciò che distrugge tutto”197. Da qui quel principio tragico che,
secondo il buddhismo, rende l’uomo superiore alla natura e agli stessi
dei.
Ogni esperienza è una mia esperienza. Meglio, la sola realtà di
cui possa parlare è quella che si risolve in una mia esperienza:
l’autoriferimento (ahamkâra) della metafisica indiana è la
“condizione elementare”. Se ripieghiamo questo “principio di
autoriferimento” su se stesso, staccandolo così dai contenuti delle sue
esperienze, abbiamo: “IO uguale IO, cioè una nuda esperienza, un
possesso, qualcosa di semplice e di ineffabile”198. Questa uguaglianza
dell’identità è il “punto di centralità pura di cui parlano le Upanishad”.
Essa si presuppone di fatto e di diritto a tutte le altre esperienze
particolari, che sono un qualcosa che viene dopo, un posterius rispetto
a quel “conoscente che non è mai conosciuto”. Non si tratta di
semplici nomi o di astrazioni concettuali ─ Io “empirico” o Io
“trascendentale”, Io “superiore” o Io “inferiore” ─ ma del mio Io
quale “assoluta presenza […] immoltiplicabile”. L’Io è “solo e senza
un secondo”199.
Fermiamoci un istante davanti alla soglia del solipsismo,
“questo spauracchio dei semifilosofi”200.
197
Ivi, p. 41.
Ibid.
199
Ivi, p. 42.
200
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit. Cfr. J. Evola, Teoria dell’Individuo
Assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, pp. 179-180: “Dinanzi al solipsismo i filosofi
idealisti quasi senza eccezione indietreggiano. Si direbbe che questa dottrina è troppo forte per
loro, che essi ne abbiano paura, per cui vengon messe su speculazioni varie per evitarla, anche a
costo di contradire i principî-base della loro filosofia. In pochi casi come questo, si palesa
l’efficienza di un elemento ateoretico che si lega essenzialmente al fatto che l’idealista come uomo
di solito resta un piccolo borghese il quale prova l’orrore del vuoto, che non sa dare un valore
indipendente al proprio essere, che può ammettere bensì che «il mondo è la mia rappresentazione»,
ma non fino al punto di sentirsi solo, di non aver bisogno che altri soggetti, intorno a lui, siano.
Del resto, le ragioni con le quali di solito si cerca di evitare il solipsismo non sono tanto d’ordine
teoretico, quanto d’ordine morale. Invece proprio per questo, vale a dire per il suo implicare la
distruzione di una angoscia e di una insufficienza esistenziali fondamentali, il solipsismo va
assunto come premessa nella teoria dell’Individuo assoluto” Cfr. anche J. Evola, Sulle ragioni del
solipsismo, L’Idealismo Realistico, Anno II, fasc. 6-7. 15 marzo – 1 aprile, pp. 38-44, ora in J.
Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), a cura di Gian Franco Lami, Antonio Pellicani Editore
e Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 73: “Il solipsismo è la dottrina che contesta che si
possa coerentemente affermare l’esistenza in sé di qualcosa fuori che l’Io individuale e il suo
mondo; in secondo luogo, che in questo mondo stesso vi possa essere qualcosa che abbia uguale
dignità di questo unico Io; in terzo luogo, che si possa connettere verità e certezza a quanto ─
198
79
Capitolo II
Ora, Evola ritiene che da questo livello parlare di altri sia una
contraddizione in termini. Gli altri Io infatti, essendo altri, non sono
Io ma semplicemente dei particolari contenuti nella mia esperienza.
Sono degli oggetti, dei conosciuti, al più il concetto di un soggetto e
non il soggetto stesso che, in quanto tale, è unico e incomunicabile.
Gli “altri” sono i fenomeni particolari del fenomeno totale che è il
mondo. Ad esso io mi sveglio quale individuo mentre gli altri
continuano a dormire: “ne partecipano la contingenza”. Del loro
principio io non ho nessuna certezza. L’Io sta agli altri come la terra
ferma al gran mare dell’essere. Per Evola, chi non è giunto a dubitare
della realtà degli altri soggetti, a concepirli come “mie
rappresentazioni”, non è maturo per il passaggio alla terza epoca
“perché non ha ancora perfettamente realizzato la pura essenza
dell’individuale”201. Non si può avere certezza di nulla se prima non si
è saputo dubitare di tutto.
Terza fase. Superamento del negativo. Nel deserto della
rappresentazione l’individualità s’alza in piedi. E Oltre l’ordine
dell’apparenza in cui sprofonda ogni cosa trae da sé un principio che
fissa una nuova realtà:
“Questo principio è: LA POTENZA DI DOMINIO. L’Io, infatti, non è
una cosa, un ‘dato’, un ‘fatto’, ma, essenzialmente, un centro profondo
di volontà e di potenza”202.
Come per Fichte, che il filosofo romano qui richiama, il puro
porsi dell’Io è il suo “essere”.
Questa è la natura di quel punto fermo realizzato nel secondo
stadio. Esso “può comunicare la propria consistenza a quel che non ne
ha” attraverso la incondizionata potenza dell’individuale.
Riassorbendo i diversi gradi di quella realtà che prima non era
partecipata dalla volontà dell’Io. E appariva in bruta contingenza,
“quasi come in un sogno”. Il criteri della certezza che si impone a
questo punto è espresso dal seguente principio:
sempre all’interno di un tale mondo ─ non sia condizionato da una assoluta affermazione
dell’individuale”.
201
J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 43.
202
Ibid.
80
Capitolo II
“Vi è assoluta certezza ─ ed è postulabile realtà ─ soltanto di quelle
cose, dell’essere o del non essere dell’essere così o dell’essere
altrimenti delle quali l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il principio
o la causa; delle altre, solamente nella misura di ciò che in esse
soddisfa ad un tale criterio”203.
Per sviluppare la posizione della coscienza nel terzo stadio
Evola considera “la unica vera obbiezione incontrata dall’idealismo
assoluto”: la dottrina che cerca di trasformare in positivo quel lavoro
negativo che definisce il secondo stadio. Il mondo non è più inteso
come fenomeno o semplice apparizione ma come qualcosa di posto, di
creato dall’Io. È chiaro che Evola parla del mondo, come Vico parla
della Storia, cioè, dell’unica porzione della realtà di cui è creatore.
Pertanto se ora non si parla di rappresentare ma di porre e creare,
debbo domandarmi:
“Io posso ben ridurre il mondo alla mia rappresentazione, ma fino a
che punto posso ridurlo anche alla mia volontà ed alla mia
libertà?”204.
Siamo ad un punto fondamentale: la differenza tra spontaneità e
volontà. La prima si ha laddove l’atto, essendo il possibile identico al
reale, “l’atto ha la forma di una inconvertibile compulsione, di un
bruto accadere e scatenarsi, ed è passivo, impotente rispetto a sé
stesso”. Nella seconda invece vi è una eccedenza del possibile sul
reale. Un punto di autarchia, di potestas domina l’atto che è solo uno
dei compossibili. Si badi: tanto la spontaneità che la volontà possono
dirsi libere. Ma nella spontaneità la libertà è affatto negativa, è
semplicemente quella del non impedito, significa “non essere
determinato dall’esterno”. Nella volontà invece essa è positiva e
significa “assoluta assenza di condizioni” interne ed esterne. Si ha
quindi la contingenza o arbitrarietà dell’atto205. Questa importante
distinzione non poggia tanto sul concetto quanto “sur un dato
immediato di coscienza”: una evidenza interiore che o si ha o non si
203
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 45.
205
Ivi, p. 46.
204
81
Capitolo II
ha. Quando l’idealista assoluto davanti alla realtà afferma esser stato
l’Io a porla, si riferisce ad una spontaneità, non ad una volontà. Egli si
riferisce a quell’“elementare ‘assenso’ onde ci si accorge” delle cose,
ad una attività elementare. Quella con cui le cose vengono percepite,
fatte nostre dall’io. Un simile assenso se da una parte è condizione
necessaria per ogni realtà, dall’altra è ben lungi dall’esserne anche
condizione sufficiente:
“Infatti nel rappresentare il reale non è dominato dal possibile”l’Io è
passivo rispetto al proprio atto ─ non tanto afferma le cose, quanto
piuttosto è come se le cose si affermassero in lui”206.
La rappresentazione è qualcosa di mio, che traggo dal mio
interno, ma non è me perché non posso offrirla liberamente a me
stesso. La realtà che ho davanti è questa realtà, non quella che io
voglio. Di conseguenza:
“In tanto l’idealista può dire di essere stato lo Io a “porre” la natura,
in quanto egli riduce l’Io a natura, cioè in quanto di quell’Io, che è
libertà, non sa nulla, o, per meglio dire, fa come se non sapesse nulla,
e, con evidente paralogismo, mutua il concetto di Io con quello del
principio di spontaneità”207.
Posso dire che pongo la natura in quanto spontaneità ma non in
quanto Io, “e cioè libertà e dominazione”. Il realista avanza una
istanza legittima quando chiede, davanti ad una qualsivoglia
contingenza dell’esperienza ─ una tempesta ad esempio ─, se siamo
stati noi a porla. L’idealista risponderebbe affermativamente perché
per lui “‘porre’ significa rappresentare con ‘libera necessità’”. Per
Evola invece, che si riferisce ad un porre comandato dal “principio del
dominio e dell’incondizionata libertà”, la tempesta non è posta dall’io.
Ha ragione il realista allora, che da questa insufficienza dell’io
inferisce ad una causa reale delle rappresentazioni ─ sia essa poi Dio,
la materia, il noumeno etc.?
Qui sta la svolta:
206
207
Ibid.
Ivi, p. 47.
82
Capitolo II
“Dire che Io, come Io, cioè come principio sufficiente e libero, non
posso riconoscermi come causa incondizionata delle rappresentazioni,
non vuole affatto dire che queste rappresentazioni siano causate da
“altro” e abbiano per substrato delle cose reali o esistenti in sé stesse,
ma vuole semplicemente dire che io sono insufficiente ad una parte
della mia attività, la quale è ancora spontaneità, che una tale parte non
è ancora MORALIZZATA, che l’Io come libertà in essa soffre una
PRIVAZIONE”208.
Tutto ciò che resiste alla mia volontà è privazione di questa
stessa volontà, non-essere. Il realismo va quindi respinto perché nel
suo rifarsi ad un “altro” trasforma l’essere in non-essere e chiama con
il nome di realtà solamente la privazione della mia potenza: “un vuoto
nel corpo immoltiplicabile della mia attività” o, più semplicemente,
l’irreale. In tal modo esso conferma la privazione e se ne fugge.
All’atto che domina, possiede, annulla le cose redimendo la
privazione, sostituisce l’atto che superstiziosamente (come quel che
resta d’un atto insufficiente) dona loro una realtà autonoma209. A noi,
questo “non-essere” del realismo parrebbe invece semplicemente un
essere non-voluto, una naturalità-spontaneità non ancora consapevole
nell’Io, ma non per questo meno “reale”.
Il criterio di certezza di questa terza fase ora chiede che “l’Io
libero e nudo” dell’individuo affermi il principio dell’idealismo
assoluto dicendo:
208
Ivi, 48. Cfr. J. Evola, La filosofia di Adriano Tilgher, in L’Idealismo Realistico, Anno V, fasc.
12, 1 dicembre 1928, pp. 27-34, ora in J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit.,
p.132. “Si tratta di una vera e propria «moralizzazione» dalla quale scaturisce, per prima,
l’esperienza della realtà. Interessante e suggestivo, nella teoria di Tilgher, questo punto, che spiega
l’ontologia con l’etica. Il senso che le cose siano come cose reali e non come immagini di sogno ─
egli dice ─ non è un «dato», non ci viene da fuori, non è una cosa propria all’indistinta
immedesimazione primitiva. Solo quando la coscienza si sveglia e si stacca, solo quando balza in
piedi e dice: Io, solo allora nasce il potere di dire: è o non è, ed un reale ed un irreale si
differenziano sull’indefinibile stoffa dell’esperienza pura. Reale non è null’altro che ciò in cui l’io
proietta quel senso irrefragabile di «essere» che egli ha destato in sé; è ciò, dunque, in cui egli
riesce a sentirsi ricongiunto con sé, in cui vede inciso il suo stesso nome, ciò senza di cui, come Io,
non sarebbe, onde dice: Deve essere. Allora il mondo non è più mondo: è già un significato, un
valore morale.
209
Ivi, p. 48, nota 1: “Naturalmente: le annulla in quanto sono altre, per affermarle invece come
gesti di una volontà potente”.
83
Capitolo II
“In verità, io stesso son la causa ed il Signor di questo mondo, in cui
mi vivo”210.
Quando sarà possibile affermare una cosa simile?
Quando l’individuo avrà redento “in un corpo di libertà l’oscura
passione del mondo” o, più filosoficamente, quando avrà fatto passare
la forma della rappresentazione da spontaneità (coincidenza di
possibile e reale) a “volontà potente” (eccedenza del possibile sul
reale). Evola tiene a precisare come questa trasformazione non sia un
mito ma possibilità reale.
“Si può dire soltanto che è un compito a cui né cultura, né devozione,
né filosofia, né arte, né morale, né nient’altro di ciò che gli uomini
chiamano “spiritualità”, può portare il menomo contributo. Quanto alla
filosofia, il suo limite è l’idealismo magico, in cui perviene a
riconoscere la propria insufficienza e a postulare la realizzazione della
potenza come ciò in cui i suoi massimi problemi possono trovare
l’unica assoluta loro soluzione”211.
In una tale veduta, l’atto di dominio ha un valore cosmico. Il
realismo al contrario toglie ogni significato e scopo all’attività, che ha
un valore ─ il valore dell’essere ─ solo quando vi è da far reale
qualcosa che ancora non lo è. L’‘altro’, “ciò che rispecchia il limite
della mia libertà” non è realtà, ma vuoto e negazione da integrare
nell’atto dell’Individuo. Il mondo è qualcosa di imperfetto che invoca
la propria risoluzione nella libertà: “l’attualità potente dell’Unico” che
s’afferma su quanto ne è la privazione212. Se l’altro è reale, tutto è già
completo. Viene così meno ogni responsabilità, “giacché i vuoti del
mio essere non sono anche vuoti dell’essere in generale: l’‘altro’ […]
li riempie”. Nell’altra possibilità invece il mondo è una preghiera
rivolta all’io perché questi si realizzi secondo potenza redimendolo
dalla privazione e “in ciò lo faccia reale”. Qui, il divenire è per mia
210
Ivi, p. 49. Per la teologia cattolica Satana è “il principe di questo mondo” (per San Giovanni e
per San Paolo, il “dio di questo mondo”.
211
Ibid., nota 1.
212
Ivi, p. 50.
84
Capitolo II
volontà213. Esso ha “valore cosmico”214. Ma questo si verifica solo se
finalmente si ammette una coincidenza “naturale”e non un contrasto
tra io e natura-mondo.
Torniamo alla posizione realistica. Questa per Evola si fonda
sul presupposto dell’inconcepibilità d’una attività limitata. Se
un’attività soffre una limitazione deve esserci qualcosa che sia causa
di questa limitazione. “Infatti così sta la quistione nel problema della
conoscenza”: nelle cose noi dobbiamo distinguere due aspetti. Quanto
al primo, esse dipendono dall’attività dell’Io in quanto rappresentate.
Il secondo riguarda invece il lato negativo dell’attività individuale, la
sua impotenza di “trasmutare la percezione come si vuole”. Il
realismo si basa proprio su questo, ossia sul bisogno di spiegare
questa limitazione. Insomma, esso “sente il bisogno di spiegare la
limitazione con qualcosa di ‘altro’; si riferisce dunque ad una realtà
distinta dall’io come causa delle rappresentazioni”215. Un tale
presupposto è per Evola contestabile perché vittima della posizione
platonica e spinoziana, espressa dal principio:
Ciò che è veramente, è l’universale; il particolare da per sé stesso non
esiste, cioè: in ciò che esso è, è l’universale, e in ciò che è
propriamente particolare non è, è fredda e piatta negazione”216.
A questa concezione Evola ne oppone un’altra che, all’opposto,
non presupponga al finito e al particolare l’assoluto ma ammetta che
“ciò che sta prima sia precisamente il finito e il particolare” intesi
come qualcosa di cui l’assoluto sia lo sviluppo in un processo
continuo dal meno al più217. Dalla potenza all’atto.
L’infinito non è negazione del necessitato ma realizzazione del
finito. La differenza tra i due non è qualitativa ma riguarda il quantum
di attualità e di essere, il grado della loro intensità.
213
Cfr. F. Nietzsche, frammento 617 de La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 1992, p. 337:
“Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza”. Poco
sopra Evola ha definito l’atto di domino come “volontà potente”. Cfr. anche il frammento 1037:
“Dio è la suprema potenza ─ e basta! Da lei deriva tutto, da lei deriva ‘il mondo’!”, ivi, p. 546.
214
J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 51.
215
Ivi, p. 51.
216
Ivi, p. 52.
217
Ibid.
85
Capitolo II
Ebbene, in questa concezione sviluppo, sintesi e divenire non
sono un “vuoto nome” perché la spiegazione di quel che viene prima,
e a cui inerisce un dato quantum di privazione, “non sta indietro […]
bensì avanti”218. Ciò che è incompleto si integra nel processo della
“potenza che arde nell’atto”, quindi non vi è da spiegare ma da agire.
Il concetto di privazione è relativo. Un determinato elemento è
sempre in relazione al valore autarchico e mai privazione in sé. Il
passaggio ad un tale valore fa di un elemento positivo o spontaneo, un
elemento negativo o “in potenza” rispetto al punto ulteriore. Chi non
passa dal piano logico a quello della volontà trova inintellegibile il
concetto di privazione. L’idealismo astratto resta così “l’ultima
istanza”. Chi vuole può passare oltre grazie ad “un assoluto
positivismo”219.
Una cosa immaginata ed una reale sono entrambe ugualmente
rappresentate. Ma sulla cosa reale la mia attività rappresentativa è
impotente: “Vi sono elementi su cui non posso. Questo è tutto”220. E
questo tutto non tollera spiegazioni intellettualistiche. Al circolo
vizioso della spiegazione Evola oppone il circolo virtuoso dell’azione.
Il concetto di “altro” ha il suo fondamento in quello di “impotenza”
che è ciò che sta prima. Le cose reali sono i simboli della mia
privazione. “È perché sperimento una privazione che chiamo reale una
cosa e non viceversa”. Le spiegazioni intellettuali “non ci servono e
non ci bastano” non perché si faccia aperta professione di
agnosticismo ma perché esse lasciano i fatti così come sono e non
trasformano il mio rapporto col mondo. La miseria e la contingenza
del finito vengono forse rimosse quando le si voglia spiegare con la
materia al posto di Dio o con l’Io trascendentale al posto della materia
etc.? Queste sono “cattive e a buon mercato astrazioni”. Non così per
l’idealismo magico che esige una spiegazione ─ che Evola strappa al
suo etimo: ex-plicare: attuare, rendere perfetto, compiuto ─
essenzialmente diversa: “una spiegazione mediante l’azione, una
spiegazione risolutiva”. Dalla potenza all’atto mediante un processo
sintetico e creatore. “Questa è la sola, vera spiegazione. Il resto è
passatempo”.
218
Ibid.
Ivi, p. 53, nota 1.
220
Ivi, p. 54, stessa nota.
219
86
Capitolo II
“Noi aspramente combattiamo tutta la rettorica intellettuale e filosofica
onde l’uomo si indugia a discorrere intorno alla sua impotenza […]
anziché balzare finalmente in piedi, impugnarsi e, ardendola, farsi ciò
che in sé è: un Dio, un costruttore del mondo”221.
L’Uomo è il grande architetto dell’universo.
Se quanto detto appare ragionato con esattezza, resta ben poco
da pensare in filosofia. Se L’Io può sperimentarsi immediatamente
come energia o principio d’azione che a nulla chiede il proprio essere
─ non esistendo “limite inconvertibile per lo sviluppo del potere” ─
trascendere l’attività imperfetta nel riferimento ad “altro” che la causi
è solo l’alibi della paura. “Il sofisma infingardo di colui che […]
fugge dall’atto”222. La concezione che ci si presenta infine al terzo
stadio è dunque questa:
“Un continuum di attività che ha per limiti da una parte la spontaneità,
dall’altra la volontà libera. La spontaneità è l’universale, la volontà
libera l’individuale. Questi limiti stanno fra loro come potenza ad atto:
tutto ciò che nell’esperienza è oggettività, immediatezza, necessità, è,
rispetto al punto dell’individuale, il non-essere inerente a ciò che è in
potenza ─ e qui si comprenderà forse a che cosa alludessero certi
mistici
quando
parlavano
dell’‘oscura
passione
del
mondo’,
dell’‘indicibile sofferenza dell’esistenza” in cui il corpo dell’‘Uomo
celestiale’ è crocifisso. Di una tale tenebra, di una tale privazione, la
libertà è l’atto e la fiamma luminosa; e il mondo diviene […] in e per
questa fiamma, cioè soltanto nella misura in cui l’individuo,
affermandosi nel punto della potenza e della dominazione, consuma,
arde la sua originaria natura, fatta di spontaneità. Da qui un punto
fondamentale: solamente nell’‘Individuo assoluto’, solamente nello
‘Autarca’ il mondo diviene reale: la sufficienza che egli si dà a sé
stesso dà alla natura un essere, una consistenza, una certezza e una
ragione che essa, prima di lui, non possiede già, ma chiede”223.
221
Ivi, p. 56, stessa nota.
Ivi, p. 54.
223
Ivi, p. 55-56. Le ragioni d’una citazione così ampia ci sembrano evidenti. E di certo non si
spiegano solo con la bellezza incendiaria della prosa di Evola che ha qui concentrato, a tutto
beneficio dei suoi non sempre attenti esegeti, il senso ed il valore del suo magismo filosofico. Da
222
87
Capitolo II
La natura è cieca. Sarebbe assurdo cercare in essa la verità. Essa
è steresis che ha la propria verità e certezza solo quando l’Individuo le
ha date a sé: “Il mondo è, soltanto se egli è”. Ed egli da nulla se non
dal suo interno può trarre questo essere perché se lo mutuasse da altro
non sarebbe più essere (kať aùtos). Se egli non diviene salvatore di sé,
“nulla mai potrà salvarlo”224.
Spiegazioni, verità non stanno dietro ma avanti e soprattutto
non si deducono ma si attuano. L’Individuo è centro assoluto della
natura attorno al quale essa gravita: asse di volontà e di potenza.
E “come colui che ha in sé stesso il proprio principio, come colui che
è ‘ente di possesso’, che è ‘persuaso’, sostiene il peso del mondo”225.
In lui e per lui la processione universale ha la sua destinazione, la sua
ragione, il suo scopo. Ed un solo imperativo:
“SII, fatti Dio, e in ciò fa essere, SALVA il mondo”226.
Ora passiamo alle considerazioni svolte da Evola in merito a
due importanti problemi: quello dell’essenza e dell’esistenza e quello
dell’uno e di molti. Cominciamo dal primo.
“Le cose sono essenza ed esistenza”227. L’esse existentiae è
opposto all’esse essentiae: con tutta evidenza, osserva kantianamente
il filosofo romano, “l’idea di cento talleri e cento talleri reali non sono
la stessa cosa”.
Principio esplicativo dell’essenza è il concetto. Ma per quanto
una cosa possa venir costruita in tutte le note che la delineano nella
sua essenzialità, sempre il suo nudo “esser là” ─ così Evola traduce la
parola tedesca dasein ─, il fatto che essa sia, costituirà “un punto che
non sottovalutare, come abbiamo fatto anche per la “fase artistica”, i numerosi richiami gnosticoescatologici presenti nel testo. Il mondo qui sembra essere il cadavere d’un Uomo-dio che è
precipitato negli abissi della materia e che tuttavia conserva in sé l’essere. Da qui la sua funzione
cosmica: egli è il salvatore, colui che porta la luce (la parola lucifero etimologicamente non ha un
diverso significato). La libertà è la fiamma in cui arde l’Individuo Assoluto illuminando “l’oscura
passione del mondo”. Non dubitiamo che per un cattolico, un simile scenario apocalittico possa
ricordare più la venuta dell’anticristo che non quella di un dio. Avremo modo di tornare su questo
aspetto religioso dell’opera evoliana più avanti.
224
Ivi, p. 57.
225
In ciò l’ottimismo idealistico vizia l’individuo evoliano, che si fa “possessore” del limite
dell’impotenza, solo a parole!
226
Ivi, p. 57.
227
Ivi, p. 58.
88
Capitolo II
sfugge interamente alla spiegazione razionale”. La cosa è “un alogos”
e il principio esplicativo alla sua esistenza è “la volontà o, per meglio
dire la potenza”. L’essenza la posso pensare e quindi “costruire”
mentre l’esistenza la patisco quale bruto dato che si impone con
violenza al mio volere. Ma se la mia volontà avesse potenza creatrice,
l’esistenza delle cose oltre il loro concetto sarebbe spiegata:
“Essenza ed esistenza hanno dunque per rispettivi principi esplicativi
la costruzione ideale per opera del pensiero e la causazione reale per
opera della volontà”228.
Un punto ancora. Tra essenza ed esistenza “non vi è differenza
di natura, ma soltanto di grado”. La realtà è l’atto dell’idea così come
l’idea non è che una realtà in potenza. Tra di esse non vi è salto ma
progressività. Il pensiero di cento talleri e i cento talleri reali che
abbiamo già incontrato e che sappiamo non essere la stessa cosa , non
lo sono non qualitativamente ma intensivamente: “i cento talleri reali
sono la più profonda, intensa potenza, relativa propriamente all’atto
magico, dell’affermazione corrispondente ai cento talleri pensati”229.
Il pensiero è potenza e non “l’immagine impersonale di una realtà
oggettiva”. Vi sono quindi due esistenze. L’esistenza che è morte,
irrealtà e privazione: “quella corrispondente alla spontaneità
rappresentativa”, residuo della prima epoca. E l’esistenza che è realtà
assoluta: “quella che una volontà elevatasi a potenza può
incondizionatamente produrre”. Tra le due, l’ordinaria attività mentale
quale primo grado della libertà che può procedere verso la sua
perfezione:
“Allora da oscura passione e da feroce deserto fatto di privazione, il
mondo si farà l’atto steso dell’individuo, ed in ciò sarà redento e
persuaso”230.
Il teorema evoliano dell’essenza e dell’esistenza si chiude con
questo paradossale corollario: “l’errore non è che una verità debole,
228
Ivi, p. 59.
Ivi, p. 60.
230
Ivi, p. 61.
229
89
Capitolo II
la verità ─ che un errore potente”. L’atto magico – “come mago si
potrebbe definire colui che sa suggestionare la stessa natura” ─ può
far sì che l’errore e l’illusione divengano, attraverso la potenza dell’Io,
verità. E questo vale per qualsiasi campo231.
Riguardo invece il rapporto tra ontologia ed etica, reale
significa perfettamente voluto e irreale privazione della volontà.
Il male è una volontà insufficiente e imperfetta. E niente di diverso è
l’errore. Si legga con attenzione questo passo:
“Male ed errore sono una sola e medesima cosa nel senso che
fondamento comune ad entrambi è l’impotenza. Sono in verità di un
fondamentale valore quelle dottrine, attualmente quasi dimenticate,
che riponevano il male nella materia, intendendo in questa quel
residuo di necessità che resiste all’idea ─ cioè alla libertà ─ e la limita.
La materia ─ l’‘altro’ platonico ─ è effettivamente il segno
dell’imperfezione dell’atto e, in quanto esistente, si connette a
quell’elementare ‘ingiustizia’ di cui Anassimandro, Parmenide ed
Empedocle parlano ─ ed è, essenzialmente, il male. Non vi è altro
male fuor che la necessità, di cui la materia, la bruta esistenza è la
testimonianza; e finché l’Io non potrà fare a meno di avere
l’esperienza della materia ─ di questo ‘altro’ di contro ed oltre lui ─
egli sarà imperfetto: cattivo, impuro, irrazionale”232.
Evola realizza nel suo sistema la coincidenza di metafisica ed
etica. Misura di tutto è la potenza o perfezione dell’atto: “per virtutem
et potentiam idem intelligo”233. Il Bene o la virtù è la potenza, la
volontà libera di essere e di fare ciò che vuole. Il male è l’impotenza,
l’insufficienza e la debolezza. “Il resto è sciocchezza e lo si può
lasciare alle donne, ai mistici ed ai poeti”.
Quanto alla morale, essa non è più “valore cosmico”. Si è
ridotta alla “canonizzazione della deficienza”, della debolezza e della
paura. In una parola: dell’immoralità234.
231
Ivi, pp. 61-62.
Ivi, p. 62.
233
Ivi, p. 63.
234
Ibid.
232
90
Capitolo II
L’Uno e i molti
Veniamo ora al secondo dei problemi indicati. Quello dell’uno
e dei molti. Poco sopra abbiamo visto che il passaggio della coscienza
alla seconda fase implica il solipsismo235: “l’impossibiltà di
ammettere coerentemente una molteplicità di soggetti o Io come
ultima istanza”. Questo perché l’Io è una certezza immanente
immoltiplicabile, “una nuda esperienza che media tutto e che da nulla
è mediata”236. Gli “altri” Io al contrario, non sono. Con un gioco di
parole che andrebbe preso terribilmente sul serio Evola afferma: “Gli
“altri Io” in quanto sono “altri” non sono Io e in quanto sono “Io” non
sono altri, ma me stesso”. L’Io solo è, come l’Uno dei Pitagorici, e gli
“altri”, come ogni numero, sono solo in virtù di esso che ne è centro di
correlazione.
La questione fondamentale: come si pone l’Io?
Seguendo il criterio di certezza proprio della terza fase Evola
risponde: “L’Io è il centro, ciò che comprende tutto e che, lui, da nulla
è compreso”237. I vari esseri non hanno una propria realtà ma
costituiscono il “‘corpo’ dell’Io”. Questo corpo è però affetto da
privazione, non è ancora risolto in perfetta armonia. Non è ancora
potenza compiuta. Ecco perché gli “altri” sembrano avere una loro
vita, agire indipendentemente da me, resistermi etc. Ma in realtà non
esiste altro che il mio Io e gli altri io non sono che “parvenze causate
appunto dalla finitudine di questo mio essere, epperò non aventi
alcuna realtà in sé stessi, come ‘altri’”238.
La finitudine della mia unica coscienza non si spiega con una
teoria ma mediante l’atto che la rende assoluta. Il processo di
realizzazione dell’Io parte quindi non dai “molti” ma dall’“Uno” in
uno stato di insufficienza (parvenza di altri intorno e di contro a lui)
all’“Uno” in uno stato di pienezza (parvenza consumata dalla potenza
dell’Io in perfetta unità). Dunque, Dio o il soggetto universale non è
ancora l’individuo e non è già al suo fianco:
235
Ibid. E in nota 1: “Si può ricordare il detto del Weininger, che ‘il ritrarsi spaventati dinnanzi al
solipsismo è l’impotenza di dare un valore indipendente all’essere, l’incapacità ad una solitudine
opulenta, il bisogno di cacciarsi nella folla, di scomparire, di tuffarsi nel numero. È viltà”.
236
Ivi, p. 64.
237
Ivi, p. 65.
238
Ibid.
91
Capitolo II
“Fra persona e soggetto universale vi è rapporto non di coesistenza e
di alterità, bensì di continuità e di progressività. In una parola: la
persona è il soggetto universale in potenza, il soggetto universale l’atto
della persona”239.
Di là dalla sua “in potenza” l’individuo può, nell’atto, esistere
come “il soggetto dei soggetti, la monade delle monadi ─ Dio: non
prima. Dio non esiste, occorre che l’individuo lo crei, facendosi
divino”240.
Il principio dell’Io unifica e dona la vita alla materia inorganica
trasmutandola in vivente corpo della sua potenza.
Arrivati a questo punto, non stupisce che il giovane filosofo
sigilli il suo egocentrismo metafisico con una citazione degli Atti
apocrifi di Giovanni in cui il Cristo parla del “raccoglimento delle
membra dell’ineffabile”, dello “antropos arretos”.
Ed io ─ l’Unico ─ innalzo tutte le creature dalla loro coscienza alla
mia, perché in essa divengano unità”241.
Possiamo ─ come del resto fa lo stesso Evola in chiusura di
questo suo intenso scritto ─ raccogliere quanto detto in una estrema
sintesi.
Punto di partenza: l’universale che costituisce il grado più
povero della realtà, terminus a quo. In esso l’essere non si possiede
ma è come pura spontaneità. Luce per l’io non ancora nato. Primo
momento: oscurità per l’individuale che sprofonda nel mondo
dell’apparenza e della rappresentazione. Secondo momento: il dolore
della privazione, “indicibile crocifissione nel mondo della
necessità”242. Terzo momento. L’individuo vive questa morte come
materia della sua potenza: “sorge il fiore terribile dell’Individuo
assoluto”243. Punto di arrivo: le cose e gli esseri muoiono nella
vertiginosa apoteosi di colui che diviene, spaventevole nella sua
239
Ivi, p. 66.
Ivi, pp. 66-67.
241
Ivi, p. 67.
242
Ivi, p. 68.
243
Ibid.
240
92
Capitolo II
purità, Signore del Sì e del No e Dominatore dei ‘tre mondi’. E in lui,
ente di possesso, ente che “arde e fiammeggia”, il processo
dell’universo avrà con il suo atto, la sua consumazione o perfezione
finale, terminus ad quem.
Qui bisogna intendersi: la perfezione è l’atto della dissoluzione.
Meglio: la salvezza si ottiene attraverso la consumazione del mondo,
di questo mondo. Ma per Evola non ve n’è un altro. La distruzione
gnostica della materia libera la luce in essa imprigionata e la sua
liberazione è affermazione-negazione del micro-cosmo. Da qui il
monito e serissimo invito: “Sappia dunque l’individuo ciò che fa”244.
Questo è “il senso del sistema” che Evola sostiene.
Un sistema in cui egli ha fuso ─ con rigore filosofico ─ il
problema dell’essere e quello della conoscenza, quello etico e quello
magico, rivendicando all’individuo il suo valore.
Il suo compito e la sua dignità cosmica:
“È ciò che io riconosco come verità, o, per meglio dire, è ciò che io
voglio come verità”245.
L’importanza di questo scritto del giovane Evola ci appare
evidente. Non a caso l’autore l’ha definito come la sua sintesi. In esso
troviamo mirabilmente condensati ─ con una poeticità che li rendono,
più che pensieri razionali, dei quadri teoretici ─, tutti gli snodi
essenziali dell’idealismo magico. Abbiamo per questo pensato di
servircene
come
chiave
ermeneutica
che
consenta
l’accesso/comprensione alle opere maggiori, non nella loro
completezza, ma negli aspetti che riteniamo più attuali: il problema
della liberazione e quello ad essa intimamente connesso del
nichilismo. Ora è però opportuno esaminare la conferenza del
pensatore romano dedicata a Nietzsche e alla sapienza dei misteri in
quanto sarebbe difficile trovare, nel complesso delle sue opere, ma
anche al di fuori di esse, una simile esaltazione dell’anomia espressa
con un fanatismo (da fanum, tempio) che non dovrebbe lasciar dubbi
sull’effettiva consistenza dell’anticristianesimo evoliano. Un
244
245
Ivi, p. 67.
Ivi, p. 69.
93
Capitolo II
anticristianesimo affatto cristiano246. Ricordiamo che entrambe le
conferenze sono del 1925, anno in cui Evola aveva già terminato tutte
le opere del suo sistema, anche se solo i Saggi sull’idealismo magico
avevano, a quel tempo, visto la luce. Opere che, secondo la nostra
valutazione, non sono che la maschera essoterica, e quindi
dialettica/razionale/discorsiva ─ in una parola: filosofica ─ d’una
esperienza e di un sapere esoterico, e quindi sottile/metarazionale/intuitivo ─ in una parola: magico ─, tradotto in un lingua
comprensibile dai tecnici del pensiero del tempo, quella idealistica, al
fine di legittimare una fuoriuscita filosofica dalla filosofia. Filosofia
come magia in-potenza, magia come atto della filosofia. Queste
parole di Bataille ci aiutano ad esprimere quel che pensiamo rispetto
all’esigenza filosofica dell’Evola:
“Vorrei che il mio atteggiamento fosse esattamente inteso.
Innanzi tutto io non parto da nessun presupposto, e nessun presupposto
mi sembra più perfetto di una simile assenza. Nulla mi lega a una
qualsiasi tradizione particolare. Posso però dire che nutro un qualche
interesse per l’occultismo,o per l’esoterismo, in quanto risponde alla
nostalgia religiosa, da cui mi distacco in quanto nonostante tutto
implica una fede data. Aggiungo che, al di fuori di quelli cristiani, i
presupposti occultistici sono ai miei occhi i più fastidiosi, poiché si
affermano in un mondo dominato dai principi della scienza, voltando
loro deliberatamente le spalle. E finiscono per fare, di colui che li
accetta, qualcosa di simile ad un individuo che, pur conoscendo
l’esistenza del calcolo, si rifiuti di correggere i suoi errori di addizione.
La scienza non mi rende cieco (se lo fossi, non potrei rispondere alle
sue esigenze) e neppure mi spaventa il calcolo. Accetto che mi si dica
«due più due fanno cinque», ma se qualcuno, con fini ben precisi, si
mette a far dei conti con me, rifiuterò la pretesa identità del cinque e
246
Al riguardo facciamo nostre le acquisizioni dell’eccellente studio di P. Di Vona, Esame della
filosofia di Evola, in Delle rovine e oltre, op. cit, p. 147: “Sappiamo benissimo che molti
estimatori del filosofo romano si sentiranno offesi e dispiaciuti dal nostro aver presentato la
filosofia di Evola come spettante ancora al pensiero cristiano, sia pure in una sua esasperata e non
comune formulazione. Ma ci si intenda: noi non mettiamo in questione ciò che Evola fu nella
coscienza, e ciò che Evola sentì di sé stesso. La questione concerne solamente i principi coi quali
costruì la sua filosofia. Sono questi ultimi che per noi sono ancora cristiani, anche se non lo sono
tutte le applicazioni e le utilizzazioni fattene da Evola”. L’antropocentrismo cristiano approdato al
protestantesimo non può infatti che preludere a Hegel e all’idealismo che Voegelin chiama dello
“stregone” ed Evola del “mago”.
94
Capitolo II
del due più due. A mio avviso, nessuno è in grado di porre il problema
della religione muovendo dalle soluzioni gratuite che l’attuale spirito
di rigore rifiuta. Io non sono uomo di scienza, giacché parlo di
esperienze interiori e non di oggetti, ma quando parlo di oggetti, lo
faccio come gli uomini di scienza, con il rigore necessario”247.
Il sistema dell’idealismo magico è l’esposizione rigorosa d’un
nuovo modo di contare: quello sub specie interioritatis. Il solo che
possa consentire l’addizione magica del “due più due fanno cinque”.
Evola è, riguardo al metodo, un positivista ed un logico. Nella
sua opera il rigore e la chiarezza della scienza vengono trapiantate sul
terreno dell’esperienza interiore, che illumina e dona loro un senso:
quello della perfezione dell’Individuo. La filosofia, in questa ottica è
ancilla magiae. Ma magia è, secondo la definizione del Bacone,
metafisica pratica. E come un filosofo della pratica Evola si presenta
con il suo continuo richiamo, fin dallo sconvolgimento dadaista, allo
sperimentare, al fare, all’operare: Primum vivere, deinde philosophari.
Ma il filosofare è solo un aspetto dell’azione. Meglio, la propedeutica
all’agire. E guardato dopo il suo abbandono, a salto compiuto, sarà
pensiero dell’illuminazione.
Un vecchio barone dirà compiaciuto, pensando alle sue opere
giovanili: “Non mi sono mai fatto giocare dal pensiero”248.
Dioniso
Evola definisce sprezzantemente religioso l’atteggiamento di
chi “creda che il mondo sia fondamentalmente retto da un principio di
ordine, di armonia e di bontà”249. L’opposto della “mia attuale
esperienza”, che mi presenta “un mondo tutt’altro che ordinato e
razionale”. Una trascendenza intesa quale fonte di ogni realtà annienta
l’Io rimettendolo ad un “altro che me”250. Qualcosa appunto mi
trascende e io credo che questo qualcosa esista.
247
Georges Bataille, L’erotismo, Se, Milano, 1997, p. 32. Il grassetto è nostro.
J. Evola, Il cammino del cinabro, p. 56.
249
J. Evola, L’Individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 72.
250
Ibid.
248
95
Capitolo II
Chi percorre la via di Dioniso invece non ha alcuna “necessità
di inventare Dio”251.
L’“Io trascendentale”, la “dialettica dello Spirito”, la “legge
morale” etc. sono il travestimento del Dio della religione, ossia
dell’ottimismo che ammette l’esistenza di un mondo provvidenziale di
fianco a questo mondo che è oscurità, irrazionalità e caos. Sono solo
paura e consolazione. Il credente, rimettendo ad altro il suo essere,
deriva da questa sua “tendenza a scartare” l’obbedienza alla legge
morale. Egli rinuncia ad essere libero. Ma una legge, anche se
interiore, non smette di essere tale ed esprime, se mai, una necessità
più profonda.
Ora per Evola, l’“iniziatica”, l’aspirazione esoterico-magica che
lo muove, non ha nulla a che fare con “un simile ordine di valori”, con
ciò che egli chiama cristianesimo (dogma, provvidenza, trascendenza
teistica e grazia): “la religione-tipo, il punto in cui la coscienza
religiosa in generale ha definito sé stessa”252.
A questa fede “ignava” egli oppone la “Sapienza dei Misteri”
(Buddha, Dioniso, Mithra, Ermete): “due direzioni incomunicabili,
perpendicolari”. Una simile sapienza gli sembra caratterizzata da “un
assoluto positivismo”. Essa è la via “di chi fissa in viso, senza veli” la
realtà “nella sua natura tragica a-provvidenziale”, e “non fugge, non
vuole il mondo diverso da quello che è, ma lo vuole assolutamente,
infinitamente quello che è. Tale è, diciamolo sin d’ora, la via di
Dioniso”253. Essa inoltre ha il suo culmine o atto “in una dottrina che
qualcuno di vista corta darà forse tentato di chiamare ‘profana’: nella
dottrina di Friedrich Nietzsche”254.
L’uomo dionisiaco non riconosce diritto morale all’esistenza
d’un mondo regolato, giusto, razionale. Egli è potenza che, nel salvare
se stesso, salva il mondo quale suo riflesso. Ed Evola si cura di
specificare che questa posizione non procede da ateismo ma
251
Ibid. Cfr. anche J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee, 1994, p. 22: “[…] in
un testo tardo orfico-pitagorico, oltre alle quattro età indicate da Esiodo e corrispondenti agli yuga
indù, viene considerata un’ultima età, messa sotto il segno di Dioniso. Ora, Dioniso anche dagli
antichi è stato considerato come un dio simile a Shiva, in uno dei suoi aspetti principali messi in
risalto dal tantrismo della Mano Sinistra”.
252
Ivi, p. 73.
253
Ibid., nota 1.
254
Ivi, p. 75. E ancora a p. 90: “[…] troviamo detto ad alta voce in Nietzsche ciò che per millennî
non fu udito che da bocca o orecchio nei circoli più chiusi delle più chiuse iniziazioni”.
96
Capitolo II
“dall’affermazione che se Dio è ‘ciò che è da sé stesso’, non vi è che
un modo di provare Dio ed è: farsi Dio”. Da qui l’inutilità di discorsi
sull’assoluto dal livello di una vita che non è tale: quel che importa è
“andare avanti, realizzarsi: e quindi, soltanto postulare la possibilità a
ciò” col massimo rigore possibile255. Questo è il senso dell’operazione
evoliana.
“In una parola: quale è il concetto di Dio ─ id, quo majus
cogitari non potest?”256. Il vertice della religiosità è “concepire Dio
come colui in cui realtà e possibilità, libertà e legge, atto e fatto sono
una sola e medesima cosa (‘Ego sum qui sum’)”257. Ma questo non è
affatto il punto più alto, anzi è soltanto il terminus a quo. Di contro a
colui che semplicemente è (il possibile è identico al reale) sta colui
che è libero di essere o di non essere (il possibile eccede e domina il
reale): “Io non sono questo, questo non è me, potenza infinita di cui
esso non è che creatura contingente”258.
Dio è “assoluta libertà”: superiore ed indifferente ad ogni legge
o valore. Questo “concetto arbitraristico” di Dio insieme a quello che
lo vede come “ipostasi dell’oggetto della nostra volontà” definisce in
senso magico la realizzazione iniziatica. Per essa l’uomo ha la
“immanente possibilità di attuarsi nell’assoluto”259. Il dualismo della
coscienza religiosa stabilisce al contrario una irriducibile alterità fra Io
e Dio. La via di chi vuol sottrarsi alla dipendenza non è quella
dell’unione, della conoscenza o dell’amore ma quella che sradica,
viola ed arde ogni legge realizzando “l’‘assoluta agilità o labilità’ di
colui che può tutto260. Evola cita a proposito il termine sanscrito
svechchhâchâra: “colui che può fare ciò che vuole”261. Si tratta di uno
stadio spirituale, la totale autonomia di là dal bene e dal male,
promessa da certi rituali di yoga tantrico connesso al culto di Shiva,
l’avatar di Dioniso.
Riprendendo un antico mito, il giovane Evola accredita una
versione della “caduta” che trae da “un testo kabbalistico”: nell’Eden,
il primo uomo non si contentò dell’albero di vita che fluiva in lui,
255
Ivi, p. 74, nota 1.
Ivi, p.76.
257
Ibid.
258
Ibid.
259
Ivi, p. 78.
260
Ibid.
261
Ivi, p. 79, nota 1.
256
97
Capitolo II
beato e immortale. Volle il dominio della vita, “il superamento
dell’essere per il potere dell’essere e del non essere, del Sì e del No”:
l’albero del bene e del male. Egli si strappò alla sua originaria
innocenza per andare oltre Dio, per superarlo. Ma a quest’atto non fu
sufficiente. Lo prese un terrore da cui fu spezzato: “come circuito
percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si incrinarono,
vennero meno (de-linquere)”262.
La colpa, il peccato originale, non sta nell’aver voluto “uccidere
Dio” ma nel non esser stati all’altezza d’un tale crimine metafisico.
Evola trasforma dunque la tragica scelta della creatura divina in un
atto eroico abortito per mancanza d’audacia: “Allora, scatenate da
questo terrore, le potenze spirituali che dovevano essere serve
immediatamente si precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze
oggettive autonome, fatali”. La potenza sofferta dell’uomo si fece
mondo, contingenza la libertà e altro l’identico: “Tale la maledizione
scagliata dal Dio ucciso contro colui che fu incapace di assumerne
l’eredità”263.
Evola pone questo svenimento della potenza sotto il segno di
Apollo (“‘apollumi’, verbo greco che vuol dire spegnersi, morire”), il
dio della forma264. La volontà che si volge all’esterno per la sua
mancanza di tenuta interna, si vive ora esclusivamente come occhio,
forma, visione. La conoscenza, in questa ottica, è la realtà di una
sconfitta. E forse la possibilità di una sfida ulteriore che dischiuda
finalmente “il regno di colui che ─ secondo un detto ermetico ─ è
superiore agli stessi dei in quanto con la natura immortale, a cui questi
sono astretti, stringe nella sua potenza anche la natura mortale, con
l’infinito anche il finito, con l’affermazione anche la negazione,
epperò è Spirito, Autarchia”265. Quella in cui viviamo e moriamo è la
realtà della paura, “la sua oggettivazione primordiale”. Evola la
chiama anche “il demiurgo del mondo oggettivo, il fondamento della
categoria dello spazio”. E spazio è “pura forma dell’‘esser fuori’”266.
La materia quindi come il frantumarsi del cristallo dello Spirito, come
il disgregarsi del suo atto. La degenerazione della volontà abbandona
262
Ivi, p. 80.
Ibid.
264
Ivi, p. 89, nota 1.
265
Ivi, pp. 79-80.
266
Ivi, p. 81.
263
98
Capitolo II
l’uomo alla necessità: lo toglie all’essere per metterlo al mondo.
L’uomo è stato condannato alla prigione del mondo per non aver
voluto uccidere Dio. E uccidere Dio significa essere liberi. Ora egli è
un “essere dipendente, […] che si appoggia”. Questo suo nuovo status
ontologico genera la “categoria del limite”, la solidità e la durezza,
anche e sopratutto nel senso di ostilità, delle cose materiali quali
“sincope stessa della paura”267. Il limite è il fatto di questa caduta e lo
spazio ne è l’atto: “il mondo oggettivo è il nostro ‘grande corpo’
paralizzato ─ congelato o fissato dalla categoria del limite attraverso
la paura”268. L’uomo, costretto nello spazio, è alla catena della finalità.
Il che conferma la sua dipendenza269. Chi però segua la via di Dioniso
non può avere fini in quanto “al di fuori di sé non ha nulla […] da cui
trarre norma […] ma buono, vero ecc. si identificano in ciò che egli
vuole, solo perché lo vuole”270. E tuttavia questo mondo non è
l’ultima istanza. Di là da esso, dalla deficienza dell’autotelos o della
ragione centrale vi è la immanente possibilità di operarne la
risoluzione. È quella che Evola chiama alchemicamente la “Grande
Opera” o, con il Della Riviera, la costruzione del “secondo Albero di
Vita”271.
Una redenzione da questa gnostica caduta nella materia è allora
possibile. Come? La risposta di Evola, seppur declinata
filosoficamente, si nutre d’una oscura ed antichissima ribellione, il
“non serviam” di Lucifero:
267
Ibid.
Ivi, p. 82, nota 1.
269
Si badi: questo non prova che in Evola ci sarebbe una “caduta originaria”. Cfr. una lettera
(senza data) di Julius Evola a Tilgher, in Gian Franco Lami, Per una lettura dell’epistolario EvolaTilgher, numero 6, primavera 1995, p. 76: “[…] quel saggio su Dioniso […] ha un valore più
d’intuizione e di drammaticità, che non di dottrina; in quantoché nei miei libri è detto chiaramente
che il perfetto, a cui si sarebbe venuti meno, nosta dietro, ma avanti, e che il dato originario è la
spontaneità, da «moralizzare» trasformandola in volontà, in modo che da un mondo di
rappresentazioni necessarie si passi ad un mondo di rappresentazioni magicamente agitabili. Del
resto si deve notare che nello stesso saggio su Dioniso, non si parla di una divinità e di una
sufficienza iniziali da cui si sia decaduti: l’uomo non è venuto meno alla divinità, ma all’atto con
cui ha ucciso la divinità, costituendosi appunto ad individuo, a signore del Sì e del No in opposto
alla legge dì identità (=spontaneità) che legava il Dio primitivo. La paura, da cui sorge il mondo
oggettivo, è essenzialmente per quest’atto: è il non saper volere a fondo l’atto con cui è stato
superato il regno di Dio. Ma, lungi che il ritorno, tutto lo spirito della mia dottrina dice di non
venir meno a questo atto, anzi di portarlo a fondo, poiché solo allora l’individuo, quale mago,
potrà rientrare in possesso di quei poteri, che nella sua esperienza si scaricarono in forma di
esistenze oggettive spazio-temporali”.
270
Ivi, pp. 82-83.
271
Ivi, p. 86.
268
99
Capitolo II
“Mediante una volontà che vuole questa caduta sino in fondo, senza
terrore e senza sofferenza”272.
L’ascesi di Dioniso, il Dio della “grande tradizione delle
scienze ermetiche e magiche”, mette “in contatto con l’atrocità
originaria di un mondo in cui bene e male […] non hanno alcun senso
essendo soltanto potenza, nuda libera potenza”273. Questo si ottiene
semplicemente rendendosi “sempre più immorali, capaci di fare
qualunque cosa, decisamente, senza paura o rimorso” sulla via di una
“immanenza assoluta e sufficiente”274. E vedendo nietzscheanamente
“nella crudeltà e nel male la più alta disciplina”275.
L’abisso del mondo, dietro il velo apollineo che ne occulta la
atrocità originaria, è una voragine senza fondo che l’individuo deve
dominare. Osare, squarciare questo velo è l’unico comandamento per
“chi voglia veramente scampare dal ‘Dio della Terra’” ─ il
Demiurgo276.
Chi s’arresta davanti ad un imperativo di tipo etico rimette il
proprio limite alla religione (fede in Dio) e non alla teurgia (farsi Dio)
essendo ancora un “servo di Apollo”. Quel che gli occorre è invece
“scatenarsi”277.
“Il delitto (nel senso del tedesco verbrechen ─ ver è rafforzativo
di brechen = spezzare) l’atto per eccellenza […] è una necessità per
chi anela alla potenza titanica”. Questo atto deve però esser vissuto
come “crudeltà di me su me, infrazione della mia legge interiore
fondamentale”. Ora tutto è più chiaro: il Dio di cui Evola vuole la
272
Ibid.
Ibid.
274
Ivi, p. 89.
275
Ivi, pp. 89-90.
276
Ivi, p. 86.
277
Ivi, p. 90. Ci permettiamo anche qui di mettere in risalto la simpatia di Evola e Bataille. Una
occulta affinità che, se adeguatamente indagata, siamo certi riserverebbe spiacevoli sorprese a chi
tende a incasellare i pensatori a destra o a sinistra pur di togliersi il fastidio di comprenderli nella
loro incollocabile complessità. Cfr. L’amicizia dell’uomo e delle bestia in L’aldilà del sacro,
Guida editori, 2000: “Essere, nel senso forte, non vuol dire in effetti contemplare (passivamente) e
neppure agire (non liberamente ma in vista di effetti ulteriori), ma precisamente: scatenarsi”.
Ovviamente non dimentichiamo che la prospettiva batailleana è molto diversa da quella evoliana,
tuttavia, specie in questo suo periodo giovanile, l’infatuazione dionisiaca di Evola ricorda non
poche espressioni del Bataille, come quella che abbiamo appena riportato. Dioniso, che Kérenyi
definisce “l’Archetipo della vita indistruttibile”, è il “Dio scatenante” per eccellenza.
273
100
Capitolo II
morte è il Dio della morale, il Dio in noi ossia la coscienza, la legge
morale. Essa è l’oggetto di una auto-crudeltà metafisica che non
s’arresta nemmeno di fronte al suicidio: “Dioniso si rivela nei
momenti di crisi e di crollo delle leggi, nei momenti di colpa: è allora
che, squarciato il velo apollineo, l’uomo gioca la partita della sua
eterna perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte”278. Per
divenire “non Dio, ma il Signore, il superatore di Dio”279.
Come per Nietzsche “Un Dio che venisse sulla terra non
potrebbe fare altro che torti ─ prendere su di sé la colpa e non la pena:
questo solo sarebbe veramente divino”280, così per Evola “una colpa
attiva, positiva, voluta, una colpa che ‘tiene fermo’, non è più da
uomini, è da dei”281. Da qui il senso occulto del rito sacrificale: il
sacrificatore uccide la vittima e nella vittima la stessa divinità perché,
attraverso l’atto terribile e sacrilego, in lui e nella sua comunità passi
l’assoluto. Ed Evola insiste su questo punto ricordando la necessaria
purezza e innocenza del sacrificato oltre al fatto che nei misteri
mitriaci “la capacità di uccidere o, almeno di assistere impassibile ad
un omicidio costituiva una prova”282.
Il metodo iniziatico non è vana contemplazione ma la
trasformazione dell’Io a centro di potenza autosufficiente. Non
soffrire l’impotenza ma volere la potenza. Possiamo chiamarla:
tecnica dell’eccesso.
Ora, la terribile libertà cui il filosofo invita porta il nome di
Dioniso. E il Dioniso di Evola è identico all’Anomos, a colui che è
senza legge. Il suo scritto mostra inequivocabilmente a quale orrore
l’uomo vada incontro superando Dio nel mistero terribile dell’iniquità.
Si badi: Evola non ha mai predicato l’anarchia o l’inebetimento
criminale delle masse. Egli ha sempre aborrito il disordine interiore e
quello sociale che ne è il temibile effetto. Evola è un pensatore
romano il cui asse spirituale è la virilità olimpica. L’accesso
dionisiaco di cui si fa banditore in questo suo infiammato scritto è per
278
Ivi, pp. 90-91. Evola pensa qui, e lo cita espressamente, a Kirilloff e alla sua “nuova e terribile
libertà” suicida. Cfr. anche F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2006, p.
209: “Ride ora il mondo, l’orrendo velario si squarcia, sono giunte le nozze per luce e tenebra
[…]”.
279
Ivi, p. 95.
280
F. Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano, 2004, pp. 25-26.
281
Ivi, p. 91.
282
Ivi p. 92, nota 2.
101
Capitolo II
pochi spiriti forti e deve essere inteso sub specie interioritatis. Non a
caso egli usa la parola sanscrita “vira” che significa eroe. Inoltre parla,
sulla scia dei suoi studi taoisti, di “compito positivo, […] chirurgico”,
di “agire senza agire, giungere senza movimento, prendere senza tatto,
ecc. Si tratta di modi di sensazione e di attività pura, svincolata,
compiti di particolari discipline occulte”283. Storicamente penserà
invece ad un ordine sacro che raccolga intorno a sé gli uomini-argine
della decadenza ─ la comunità degli Individui Assoluti ─ ed al cui
centro risplenda un inconcusso simbolo di superiorità spirituale e
dominatrice. Ordine che in nessun modo può essere assimilato al
fascismo, al nazismo o ad altre marionettistiche gerarchie della
impotenza, perché formato “dall’alto e verso l’alto” e in grado di
riflettere sui “molti” la luce virtuosa della sua essenza metafisica.
Tratteremo di questo nel secondo capitolo. Quanto al
dionisismo evoliano, esso è una posizione giovanile assai moderata
con gli anni ma mai rinnegata284. Ma quel che qui vorremmo rilevare è
che, di là dalle immagini drammatizzate in cui Evola mostra il
problema della liberazione positiva dell’individuo, essa è il fulcro
della sua tanto ebbra quanto rigorosa dimostrazione filosofica.
L’uomo è spogliato di tutte le sue vesti discorsive, di tutti gli orpelli
sofistici e degli auto-inganni della ragione per lasciarlo solo davanti
alla nudità dell’Io. Il giovane filosofo sa che nulla può convincerci ad
essere se prima non si è. Dopo, qualsiasi ragione potrà essere la
nostra285. Il nichilismo efferato di Evola è al servizio dell’Uomo quale
strumento di una pulizia intellettuale che non tollera limite. Il
problematicismo critico è momento essenziale della sua costruzione
283
Ivi, p. 94.
Cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 65: “[…] la via dionisiaca fu una via mistérica e
[…] può essere definita da una formula che già usammo: un vivere portato ad una particolare
intensità il quale sbocca, si capovolge e si libera in un più-che-vita, grazie ad una rottura
ontologica di livello”. Evola qui, riconoscendo l’“assurdità dell’antitesi” stabilita da Nietzsche tra
Apollo e Dioniso, parlerà di “apollinismo dionisiaco”.
285
Il fondo di questa dimensione autarchica è da rintracciare in Stirner, apprezzato da Evola per la
brutale lezione di realismo che inchioda l’uomo al possesso concreto del proprio Io. Al riguardo, le
parole di Carl Schmitt sono fondamentali anche per meglio illuminare la posizione evoliana:
“A considerarlo nell’insieme, Stirner è orribile, sguaiato, millantatore, smargiasso, un goliarda,
uno studente degenerato, uno zotico, un egomane, evidentemente uno psicopatico grave. Uno che a
voce alta e sgradevole va gracchiando: «Io sono io, nulla mi importa oltre me stesso». I suoi
sofismi verbali sono insopportabili. L’eccentricità avvolta in fumo di sigaro della sua bohéme da
osteria è nauseante. Eppure Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è un oggetto di
pensiero”, in Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano, 2005, pp. 31-32.
284
102
Capitolo II
teorica in quanto nello stesso tempo punto di partenza e di arrivo nel
labirinto del pensiero. Nella “Grande Opera” evoliana, filosofia e
magia, teoria e pratica, pensiero critico e sapere tradizionale sono gli
estremi com-possibili della originaria decisio. Ma essa è sempre. Ci
sono due livelli trascendentali della coscienza. Nessuno dei due viene
necessariamente prima. Il principio è ciò che all’uomo manca quale
atto non imposto dalla cogenza argomentativa. Il prima e il dopo
dipendono dall’inversione di polarità, dalla capacità di revulsione,
dalla metanoia, dal salto. Il resto ─ se tutto rimane quello che (non) è,
e non quello che Io voglio ─, è soltanto parola. Se già Heidegger
ammoniva che non è importante uscire dal circolo quanto starci dentro
nella maniera giusta, Evola si spinge oltre. E fa delirare il circolo della
ragione trasformando il suo insensato divenire in traiettoria iperbolica:
contingentismo trascendentale. Il sistema evoliano è invulnerabile
perché il suo centro è vuoto. Non si confonda il vuoto con la
mancanza. Il vuoto può riempirsi di qualsiasi cosa. Il vuoto, o il niente è la possibilità inesauribile, la libertà di essere e di non essere, la
creazione: atto dello spirito286. Come non si può colpire il vuoto così
non si può confutare il sistema evoliano. A queste breve osservazioni
che ora svilupperemo, vogliamo però aggiungerne un’ultima. Questo
straordinario punto di forza del sistema è infatti anche la sua ferita.
L’onnipotenza della libertà esige la possibilità della sua morte.
Dio è sempre appeso alla sua croce.
La purità come valore metafisico
Evola ricorre spesso nei suoi scritti giovanili alla parola purità
con la forza di una invincibile ossessione. Ma già Platone ammoniva:
“A chi è impuro non è lecito toccare cosa pura”. Cosa è impuro per
Evola e perché a dispetto del suo apparente immoralismo usa
espressioni così cariche di valore assiologico?
286
Cfr. J. Evola, La tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma, 1996, p. 202: “Tutto ciò
costituisce uno spazio vuoto, che tuttavia potrebbe anche non esser vuoto. Dietro le quinte della
coscienza degli uomini e della loro storia, là dove lo sguardo fisico non giunge e il dubbio non osa
portarsi, può esservi qualcuno”.
103
Capitolo II
L’equivoco da risolvere: Evola non è affatto un immoralista.
Proprio il contrario è vero ed una simile affermazione si origina da
uno slittamento. Il punto è che, data la sua particolare personalità e le
tecniche realizzative seguite, egli ritiene la morale corrente immorale
in quanto conserva l’uomo nella sua debolezza e lo inchioda al suo
limite: questa vita terrena di cui egli si pasce chiamando “io” il morto
riflesso che la realtà proietta su di lui. Il bene è il male perché è quel
che tiene gli individui separati, perché fa sì che si ami negli altri la
propria insufficienza. Il male, il disprezzo della separazione e l’amore
per l’Unico, quell’Io di cui gli “altri” non sono che momenti della mia
in-potenza, è in realtà bene.
Il male è la materia, il bene è la sua risoluzione nell’atto
spirituale dell’Io che la redime. Il mondo è corrotto sino a quando non
diviene puro: il mio mondo. Ecco perché Evola sembra l’araldo della
violenza e del disprezzo del prossimo se lo si guarda con l’occhio
tarato della “moralina”. Noi riteniamo invece che non vi sia posizione
più morale di questa. Essa è di una purezza insostenibile, e proprio qui
sta il problema. Il “prossimo” di Evola è l’Io. Ed Io non posso amare
quel che ancora non sono.
Il punto del solipsismo è di una importanza vitale.
Tutto ciò che corrisponde all’eccesso ─ all’esuberanza delle
forze ─, che viene portato ad un massimo d’intensità è bene. Tutto
quel che arricchisce la condizione soltanto umana, che la consola e ne
impedisce l’elevazione è male. Di più. La morale non può avere un
fondamento assoluto e non è unica. L’unico fondamento assoluto è
l’Io e prenderne coscienza, realizzarlo, è il compito. A questo scopo
molte morali sono possibili e utili, chiamiamole pure vie. Esse sono
strumentali, possono e devono essere consapevolmente usate come
discipline interiori, finché servano. La morale dionisiaca di cui poca
sopra abbiamo riferito, è una di queste287. La dissoluzione infatti, ma
anche la dissolutezza, sono un vizio solo per chi non può
permettersele. La domanda che Evola pone è l’inaggirabile sentenza
del nostra destino: tu, che sei?, il cui implacabile corollario è: tu, che
287
Cfr. Krur 1929, op. cit., pp. 116-117: “La via dei dominatori non è che uno dei raggi che
partono dal centro; e trae il suo significato dall’esistenza di molte altre vie che egualmente si
irradiano dall’origine, ove si scopre la libertà come legge suprema del tutto, come
giustificazione della doppia via, di luce e di tenebra, uranica e tellurica”. Il grassetto è nostro.
104
Capitolo II
puoi?, per scoprirne poi, nel nostro farci unici, la doppia identità. E la
sola risposta: Io.
Prendiamo ad esame un suo scritto intitolato: Della ‘purità’
come valore metafisico.
In due modi opposti l’uomo può cercare di rapportarsi alla
divinità superando la miseria e la contingenza del suo essere nel
mondo. Nel primo Dio è distinto dall’uomo, quindi il loro rapporto è
quello estrinseco proprio alla fede, alla religione devozionale.
Nell’altro vi è tra di essi una “ideale continuità” e il senso del loro
rapporto sta in una identificazione reale: l’uomo si fa Dio. Come nella
mistica e nell’esoterica. Queste due vie sono opposte perché l’una
mantiene lo stato umano di esistenza sia pure presso alla fede in una
legge superiore. L’altra pretende invece di trasformare un tale stato
“fatto di morte e di oscurità” in vita divina288. Il concetto di
purificazione può di conseguenza, in relazione a questa differenza,
essere realizzato in due modi distinti. Ad Evola qui interessa
esclusivamente la “dottrina esotèrica della purificazione”, le cui fonti
egli connette, con una certa disinvoltura, essenzialmente all’Oriente:
scuole tantriche e diramazioni magico-alchemiche del taoismo e del
mahâyâna, ma anche alla misteriosofia greca e alla filosofia
presocratica. Oltre che in elementi del neoplatonismo e in certa
mistica cristiana, “di là da formulazioni affatto distinte presenti nelle
tradizioni kabbalistiche, ermetiche e rosicruciane”289. Una simile
grossolanità non si spiega solo con lo spazio ristretto di un articolo ma
con due importanti considerazioni. In primo luogo “per la grande
difficoltà di giustificare con freddi riferimenti culturali quel che in
tanto si comprende, in quanto un dato atteggiamento interiore
permette di leggere fra riga e riga”290. In secondo luogo perché
“importa dare detta dottrina nella sua essenza logico-metafisica, onde
essa costituisce qualcosa di per sé stante, di indipendente dalle
credenze, dalle opinioni e dai vari elementi empirici che possono
averla incorporata”291. Ebbene qui, siamo al giugno del 1925, Evola
288
J. Evola, Della ‘purità’ come valore metafisico, apparso su ‘Bilychnis’, anno XIV, fasc. VI,
Roma, giugno, 1925, vol. XXV, pp. 353-365, ora in I saggi di Bilychnis, Edizioni di Ar, Padova,
1987, p. 24.
289
Ivi, pp. 24-25.
290
Ivi, p. 25.
291
Ibid.
105
Capitolo II
ha già ─ con buona pace di chi semplicemente ne fa un discepolo, sia
pure eterodosso, di René Guénon ─ individuato con chiarezza il
nucleo di quel concetto di Tradizione cui approderà fra qualche anno,
certo anche grazie alla conoscenza dello studioso francese. Inoltre è
chiaro che non si può barattare l’esperienza vivente dello spirito con
l’aridità di riferimenti bibliografici che hanno un senso solo nella
pratica del pensiero.
In ambito esoterico “il concetto di purificazione non ha
assolutamente nulla di moralistico”. Esso ha “valore metafisico” ed
Evola parla di “nuda positività” rimettendosi al significato letterale
del termine292:
“Impuro […] va detto ciò che non è soltanto se stesso e da se stesso
(kath’autò), ma che un «altro» contamina”293.
Dove c’è l’“altro” vi è impurità perché esso “altera l’essere e lo
rende impuro”. La natura dell’altro “che può alterare l’unità” è
aristotelicamente stéresis, privazione: non essere. Evola cita un passo
di Eckart che anche noi, data la sua importanza, riportiamo per intero:
“Poniamo che si prenda un carbone ardente e lo si metta sulla mia
mano. Se io dicessi che è il carbone che mi brucia la mano, avrei
assai torto. Se devo veramente indicare ciò che mi brucia, debbo
invece dire: è il «nulla» che mi brucia! Poiché il carbone ha qualcosa
in sé, che la mia mano non ha! Appunto questo «nulla» mi brucia. Se
la mia mano, invece, avesse in sé tutto ciò che il carbone è e
produce, essa possederebbe interamente la natura del fuoco: e allora
quand’anche prendessi tutto il fuoco che mai ha bruciato e lo ponessi
sulla mia mano, esso non potrebbe più farmi danno»294.
L’essere sufficiente alla totalità della vita non ha un altro contro
di sé. Evola immagina ed invoca un essere sigillato nella propria
292
Non ci sembra di poco conto segnalare che, lo abbiamo visto a sufficienza, per Evola la nudità
ha un valore essenziale. Essa sta per “senza orpelli”, minimo, semplice, aristocratico,
essenzializzato: astratto. Crediamo se ne possa accostare il significato a quel “principio dorico del
«nulla di troppo»” di cui il barone parla in Cavalcare la tigre, op. cit., p. 104.
293
J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 25.
294
Ibid.
106
Capitolo II
impenetrabilità. Un essere incorrotto che, “chiuso in una intangibile
unità, […]vi si riposerebbe e vi si compiacerebbe, amandosi solo e
creando per questo amore solitario tutto ciò che crea”: una sorta di
onanismo metafisico295. Se l’unità sia altera, “un nulla viene
ammesso” e di contro al tautòn (l’identico) sorge l’éteron (l’altro)296.
Da notare che per Evola non può innescarsi dialettica alcuna con
l’altro da me: il processo è interno all’essere ma la totalità dell’essere
è l’Io. Ed Io non mi riconosco negli altri se non nell’autoreferenzialità
della mia “in-potenza” che li contiene. Io non posso amare che me
stesso! Il sistema evoliano condanna l’Individuo ad una solitudine
terribile una volta che Egli abbia risolto l’altro nel Sé. E però, a questo
stadio, ormai non c’è che (il) niente: “«Io non sono nulla: posso
tutto», questo è effettivamente il «Nome» vero dello spirito,
dell’Individuo Assoluto”297.
Dio non crea l’uomo. L’uomo crea Dio specchiandosi
nell’abisso della propria libertà. La libertà di cercarsi vanamente
nell’altro o di trovarsi in se stessi298. Ora, questo altro, ben lungi
dall’essere reale, è semplicemente “il simbolo di quella deficienza che
si è ingenerata nell’essere”299. La sua sostanza vive della corruzione
295
Il grasseto è nostro. L’espressione non sembri offensiva. Ce ne serviamo solo perché crediamo
rappresenti icasticamente l’eccesso ontologico evoliano che raggiungerà un più equilibrato punto
di espressione quando, calandosi nella storia, sarà il centro di una visione politico-tradizionale a
misura d’Uomo. Siamo infatti persuasi che esclusivamente nella sfera etica, e quindi politica, il
pensiero del pensatore romano possa manifestare la sua forza anche teoretica. Le opere filosofiche
giovanili hanno un carattere propedeutico e nella loro autoreferenzialità, in quanto specchio d’una
esperienza spirituale unica, non si lasciano avvicinare prima di averne tradotta storicamente
l’astrazione. Esse sono fredde, pura theoria d’una ascesa solitaria. Come la scalata d’una vetta
alpina.
296
Ibid.
297
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto, Mediterranee, Roma, 1998, p. 132.
298
E infatti la conferenza su “Nietzsche e la sapienza dei misteri”, che ripercorre il cammino
trascendentale della coscienza verso il compimento di sé, verso il valore, si chiude con ‘l’essere
che è ciò che vuole’ e che “presso deserti e soli di atrocità può infine lasciar fiorire bontà, ordine,
amore, come l’eccesso ultimo, come la violazione ─ e, in ciò ─ l’affermazione suprema di Dioniso
─ della sua terribile natura”, in L’Individuo e il divenire del mondo, op. cit. p. 95. Questo passo è
di una inquietante ironia: la creazione non è buona in se stessa, può divenire tale solo in virtù del
terribile arbitrio dionisiaco e, sopratutto, dopo la dissoluzione del mondo nel corpo di potenza del
Dio. Egli ora può creare a suo piacimento anche bontà, ordine ed amore. Il mondo (sarà) come un
esercizio della potenza. L’Uomo-dio lo dis-integra nella sua libertà. Tutto quel che esiste deve
morire ─ poiché corrotto, impuro ─ per vivere. L’innocenza, la vera vita appartiene al possibile.
Metafisicamente crediamo si possa definire la posizione evoliana anche come una fuga in avanti.
(Ma pur sempre verso l’Origine!). A patto di non dimenticare l’assoluta contingenza del processo.
Questo nostro giudizio è infatti il parto d’un pensiero lento che, come tale, non è preso dal vortice
dell’individuale. Esso ha il semplice valore di una testimonianza resa in ginocchio davanti al bivio:
i due livelli trascendentali della coscienza. Evola la definirebbe forse ignava.
299
J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 25.
107
Capitolo II
della vita perfetta. Vuol dire che esso sussiste in quanto e finché
nell’essere o nell’Io permane lo stato di privazione e d’imperfezione.
Il senso del purificare sta allora nel “portare la vita al livello di
un’esistenza sufficiente, di un possesso, di un’autarchia, ardendo
l’oscura privazione di cui essa, nel punto dell’esistenza finita ed
individuale, è intrisa e soffre la violenza”300. Il concetto di atto puro si
mutua con quello aristotelico di atto imperfetto:
“impuro si dirà dunque l’atto di quelle potenze che non giungono da
sé all’attualità, ma a ciò sono bisognose del concorso di «altro»” 301.
Ma per comprendere appieno il senso dell’esigenza della
purificazione deve essere chiaro che:
“l’atto impuro (o imperfetto) non risolve la deficienza dell’agente
che apparentemente ─ esso in realtà la riconferma”302.
Per esemplificare lo stato di colui che chiede ad “altro” la
propria vita non avendola in se stesso (tó autárkes), Evola s’affida alle
parole del Cristo: “Chiunque beve di questa acqua avrà ancor sete; ma
chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà giammai in eterno sete;
anzi l’acqua che io gli darò diverrà in lui una fonte di acqua saliente in
vita eterna”303. L’uomo ha sete e finché beve continuerà ad averne. Il
bere conferma questo suo bisogno. Ed egli gode della sua privazione
fuggendo da quell’atto puro (acqua eterna) per cui ogni privazione
sarebbe vinta. L’atto impuro è “una fuga dalla vita perfetta; per esso
l’individuo non consiste ma cede”304. Questo è il senso generale della
dottrina esoterica del puro e dell’impuro.
Quanto alle sue particolari applicazioni, Evola ne indica cinque:
purificazione della mente, della volontà, della parola, del respiro e
dell’atto generativo.
L’impurità della mente riguarda il carattere passivo della
percezione. Dal punto di vista empirico essa è un ricevere
300
Ivi, p. 26.
Ibid.
302
Ibid.
303
Ibid. (Giovanni, IV, 13-14).
304
Ibid.
301
108
Capitolo II
(empfinden). Il suo moto è dall’esterno verso l’interno. L’Io subisce
quindi la coercizione dell’oggetto sensibile ed il sentire è un patire
secondo il tempo ed il luogo. La purificazione comprende due fasi. La
prima ─ che Evola assimila alla massima della kàtarsis platonica:
«Staccare gli occhi e, in generale, l’anima, dalle cose sensibili» ─ “si
rimette al dominio delle potenze dei sensi, alla capacità di staccare la
mente dagli oggetti esterni, di ripiegarla su se stessa e fissarla a
volontà”305. L’esigenza da realizzare è chiara: liberare le facoltà
percettive incatenate dagli oggetti e renderle intere, non alterate, pure.
Le tappe di questo processo son quelle indicate da Patanjali, il
fondatore della Scuola del Raya Yoga, uno dei quattro Yoga di base.
Una via “su cui, in ogni caso, solamente per una energia interna
eccezionale si può sperare di procedere”306:
a)
b)
c)
d)
Pratyâhâra o dominio delle impressioni;
Dhâranâ o concentrazione sull’oggetto;
Dhyâna o assorbimento su un oggetto prodotto dalla mente;
Samâdhi o eliminazione dell’oggetto mentale e congiunzione
della mente con la sua sola nuda potenza.
Questa è solo la fase negativa. La purità della mente non si
risolve nella sua capacità di distacco bensì nella potenza dell’Io che si
crea la propria percezione. Ad un tipo di percezione passiva se ne
sostituisce così una attiva e positiva, che non riceve l’oggetto
dall’esterno ma lo produce dall’interno: “Tale è la virtù
dell’aristotelico noûs poietikós, dell’«intelletto intuitivo» degli
scolastici, di Kant e di Shelling”307. Si badi: non si tratta di due facoltà
giustapposte ma della trasformazione o risoluzione del percepire
materiale in quello positivo. In riguardo alle fasi di una tale via, Evola
rimanda espressamente ai Saggi sull’idealismo magico limitandosi
qui, come “semplice suggestione”, a riferire sulla cosidetta
“conoscenza sopranormale”. Diversamente da quella “normale”, che è
centripeta e dipende ─ dal punto di vista fisiologico ─, dagli organi
fisici, la conoscenza sopranormale procede verso l’esterno. Il suo
305
Ivi, p. 27
Ibid.
307
Ivi, p. 28.
306
109
Capitolo II
punto di partenza è “l’appercezione interiore” che successivamente si
traduce “in termini di percezione fisica ed anche in imagini, secondo
un decorso centrifugo analogo a quello dei processi allucinatorî”.
Questa seconda modalità del conoscere è in gran parte libera da
condizioni spazio-temporali e fisiologiche e “tende a partecipare della
natura di un principio onnicosciente”308.
Passiamo alla volontà. La sua impurità consiste
nell’“eteronomia”: “nel suo venire determinata da altro che da sé”309.
Qui Evola se la prende con l’“estraversione imperante” nella
cultura occidentale per cui si sarebbe irradicato il pregiudizio che ogni
azione debba avere la sua “ragione sufficiente”. Un’azione è impura
quando non trae la propria iniziativa da sé ma da un motivo, ragione
etc., in breve quando è voluta da altro. È l’azione secondo desiderio
degli orientali: sakâmakarma. Il senso della catarsi della volontà si
connette all’opposto a questo principio: “la ragione sufficiente di una
affermazione può essere l’affermazione stessa”310. Si tratta di un atto
di pura volontà creatrice. Ancora un passo dell’Eckhart:
“Da questo più profondo principio tu devi agire le tue opere, senza
un perché. Io lo affermo decisamente: finché operi le tue opere per il
regno dei cieli, per Dio o per la tua santità, epperò spinto da altro
(von aussen her), fino allora tu non sarai realmente nel giusto… Se
chiedi ad un vero uomo, ad un uomo che agisce nel suo profondo:
‘Perché operi tutte le tue opere?’ egli ti risponderà giusto solamente
se dirà: ‘Non agisco, che per l’azione stessa’”311.
Qui la purificazione investe tutte le coppie di opposti. Essa è
purità nel senso di assoluta autonomia e possesso di sé. Tutto quel che
incatena la volontà dell’uomo, fosse anche Dio, è impuro. La
necessità è quindi quella di lavarsi, denudarsi, mondarsi di tutto ─
Áfele pánta: “ridurre la volontà alla sua nuda essenza”312. Giunti a
tanto, tutto diviene egualmente puro, non prima!, così come
l’individuo che abbia realizzato il suo Io, è l’Unico: l’assoluta purezza
308
Ibid.
Ibid.
310
Ivi, p.29.
311
Ibid.
312
Ibid.
309
110
Capitolo II
dell’individuale. Il puro non è l’essenza delle cose ma un modo di
viverle contrassegnato da autonomia e autarchia. Come si vede, tutto
dipende dalla potenza dell’Io: l’uguale trae l’uguale.
Per portare a compimento questa esigenza è richiesta “una
particolarmente sottile disciplina”:
“occorre fare per principio non ciò che piace, ma ciò che costa,
prendere per principio sempre la linea di maggior resistenza e, con
questo, rendere sempre più forte e pura la volontà, sempre più
energico il possesso di sé”313.
Questa dura disciplina cristallizza l’essere interiore in una sorta
di paralisi, di afasia assoluta. Una tale esperienza è il segno della
purificazione perché attraverso essa l’individuo conosce quanto poco
ciò che chiamava sua azione era veramente sua, e lui non un autore
ma un fantoccio, un medium sventolato da forze straniere. Saper
trovare un sopravanzo di forza per conquistarsi un principio di vita
superiore di là da finitudine e contingenza. Questa è la porta per
accedere ad un più alto compimento che investe il dominio delle
restanti purificazioni. Quanto ad esse basti dire ciò che segue.
Per la purificazione della parola Evola si riferisce alla dottrina
indiana dei mantra:
“I mantra sarebbero […] i nomi dei ḍevatâ, ossia i vari corpi di
potenza che reggono il processo produttivo delle cose; e, viceversa, i
devata sarebbero i significati trascendentali, che i mantra
incorporano e fanno folgorare”314.
Questi mantra soddisfano l’esigenza della purificazione della
parola in quanto portano l’Io da quella lingua che è facoltà evocativa
di semplici immagini soggettive a quell’altra lingua che è potenza di
evocare le cose stesse, alla lingua cioè che dà le cose nelle loro cause,
essendo identica al sovrannaturale processo produttivo di esse.
Svegliare un mantra significa “evocare, rigenerare, rendere in atto la
313
314
Ivi, p. 30.
Ivi, p. 32.
111
Capitolo II
funzione sottile del Verbo ad esso relativa”315. Una vera e propria
identificazione reale dell’Io con i principi individuanti le cose.
Abbiamo visto che un atto è imperfetto quando non giunge da
sé all’attualità. Atto impuro par excellance è dunque l’atto generativo,
“e la donna si può dire che in via trascendentale non è altro che il
simbolo dell’impotenza dell’Io a darsi da sé un corpo”316.
In questo particolare dominio che senso ha la purificazione?
Questo tipo di atto non risolve l’insufficienza di colui che
agisce ma la riconferma ─ si ricordi l’esempio dell’acqua, qui peraltro
Evola cita nuovamente il Cristo. Se l’Io continuerà a chiedere alla
donna la condizione per l’atto generativo, così come chiedeva
all’acqua la condizione per soddisfare la sua sete, egli resterà nella
privazione e nella impurità. Se l’altro è premessa, non potrà non
essere anche soluzione: la diade, l’altro da me, sia esso l’acqua o la
donna etc., si riaffermerà. Ed io continuerò a bere e a de-generare. In
quest’ultimo caso la mia sarà una eterogenerazione (un figlio), donde
il destino della morte. Quel che dona la vita al figlio uccide il padre:
l’Unico diventa il singolo, un mortale. L’atto impuro trafigge
d’insufficienza la vita e spinge la ruota eterna della nascita e della
rinascita che tanto misera appare agli occhi dell’Evola317.
315
Ivi, p. 33.
Ivi, p. 34.
317
Ibid. Nella nota 8 a fine pagina Evola cita “i noti frammenti non canonici riportati da
CLEMENTE ALESS. (Strom., III, 9, 63, segg.; III, 13, 92): «Avendo appropriatamente il Signore
accennato al compimento finale, Salomè disse: ‘Fino a quando gli uomini moriranno?’. Rispose il
Signore: ‘Finché voi donne genererete’. E soggiungendo essa: ‘Ben feci dunque a non partorire’…
Il Signore ribattè: ‘Mangia di ogni erba, ma di quella che ha l’amaritudine [della morte] non
mangiare’. E quando Salomè domandò quando sarebbero palesi le cose che chiedeva, il Signore
disse: ‘Quando la veste d’obbrobrio [il corpo] sarà calpestata e quando i due divengano uno e
l’uomo con la donna né uomo né donna’». Stessa citazione di Otto Weininger in Sesso e carattere,
Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, p. 449: “[…] la questione femminile durerà finché esistono
due sessi e non terminerà prima della questione umana. In questo senso Cristo parlò a Salomè,
secondo quanto attesta Clemente, Padre della Chiesa, senza l’attenuante ottimistica che Paolo e
Lutero troveranno più tardi per il sesso: la morte esisterà finché le donne partoriranno, e la verità
non sarà contemplata prima che due siano uno, prima che uomo e donna non siano divenuti un
solo terzo essere, né uomo né donna”. Evola nel dopoguerra tradurrà per la prima volta in italiano
l’opera dello studioso ebreo, il cui nome compare per la prima volta in Gehst zu Frauen, di cui ci
siamo già occupati, e che rivela una affinità impressionante con Weininger. Ripetiamolo: non nel
senso di una volgare misoginia ma in quello della “unicità” dell’Uomo che si dissolve versandosi
nella donna intesa quale natura. Per Evola, insieme a Rimbaud, Nietzsche e Michelstaedter,
Weininger annuncia la rivoluzione dell’io: il Genie che indica la via all’Individuo Assoluto.
Gemelli solitari nella “grandezza raccapricciante” dell’Ich-Ereignis. Vogliamo infine ricordare, a
sigillo di questo breve cenno sull’aspetto spiritualmente maschile dell’opera evoliana che si
tradurrà successivamente nell’opera Metafisica del sesso, un passo tratto da Introduzione alla
magia, volume secondo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 348. Evola riporta qualche riga
316
112
Capitolo II
La “originaria potenza” al fondo dell’individuo che vuole la vita
è, a livello dell’esistenza normale, estrovertita. Essa è desiderio,
“guardar fuori” (bhairmukhî), e versandosi nell’altro (la donna)
degenera quale affermazione del figlio. Il “conato di continuità” non è
quello dell’individuo “ma quello della specie”: l’uomo “mortale,
eternamente assetato ed eternamente deluso”.
Questa impurità poi non è che quella del corpo fisico. Esso è il
quantum di passione e di privazione nell’Io e in ciò deve intendersi
imperfetto. Ora, “una tale zona di privazione nell’Io è il fondamento
trascendentale della donna, giacché […] nella donna si esprime
precisamente il correlativo dell’atto generativo in quanto
imperfetto”318. La “Grande Opera” realizza invece nell’eterna
autogenesi dell’Individuo un “corpo fatto di libertà”. Il presupposto
della “dottrina del corpo immortale o cosmico”, che si trova “in quasi
tutte le religioni” è il seguente: la corporeità è quanto di passivo c’è
nello spirito, la sua “in potenza”. Non un principio distinto ma il
virtuale, l’inespresso che costituisce una stérema, uno stato di
privazione. Come ombra della luce. La liberazione allora non può
essere il distacco dal corpo ma la risoluzione del corpo.
“Qui purificazione significa appunto realizzare in funzione di
potenza in atto ciò che come corpo (materiale) viene vissuto in
funzione di passione ─ e tale è la ‘costruzione del corpo immortale’:
‘corpo immortale’ o ‘corpo di risurrezione, ‘corpo fatto di spirito’,
corpo apparente’ […] o ‘di fiamma’319.
del romanzo di Meyrink L’Angelo della finestra d’Occidente, tradotto in italiano da Evola per la
prima volta e uscito presso l’editore Bocca nel 1949. Il tema è quello dell’“azione di una forza
feminile nemica” che ostacola e devia la vocazione magica di chi tende alla realizzazione
iniziatica. Ci sembra di notevole interesse: “Il mezzo per redimere il mondo e per distruggere il
demiurgo non è il tradimento proprio a chi si abbandona all’eros animalmente procreatore, bensì
solo l’odio dell’un sesso verso l’altro, odio che, del resto, costituisce lo stesso mistero della
sessualità. L’attrazione che ogni uomo volgare è disposto a subire da parte del sesso opposto e che
egli, con lo spregevole abbellimento d’una menzogna chiama amore, è il deprecabile espediente di
cui si serve il demiurgo per tenere in vita l’eterna plebe della natura […]. L’amore priva sia
l’uomo che la donna del sacro principio della loro individualità precipitandoli entrambi nella
vertigine di una unione dopo la quale per la creatura non vi è altro risveglio se non il rinascere in
quel mondo inferiore donde essa proviene e dove essa sempre ritornerà”.
318
Ivi, p. 35.
319
Ivi, pp. 35-36. Nella nota 10 in fondo alla p. 36 Evola rimanda a Plotino: “Del corpo fatto di
fiamma non terrestre, sufficiente a sé medesima, non bisognosa di alimento alcuno, fatta di pura
attività, parla PLOTINO, Enn., II, I, 5-7-8”. Cfr. anche il fondamentale “PLOTINO/MASSIME DI
SAGGEZZA PAGANA” in Krur 1929, Tilopa Editrice, Roma, 1981, pp. 129-139, dove Evola
riporta e commenta alcune massime del filosofo neoplatonico. Qui vogliamo segnalare il seguente
113
Capitolo II
L’impurità del corpo materiale è risolta nell’attività perfetta,
pura, sufficiente: “la legge di vita e di morte è vinta”. Ora esso è
“corpo cosmico” perché pienamente identificato con i principî
metafisici ossia le “divinità” (devatâ) che reggono la natura.
L’impurità dell’atto generativo è causa dell’esistenza mortale. Il
corpo in quanto tale rappresenta questa esistenza fatta d’oscurità e
privazione. Per costruire il corpo d’immortalità quale purità suprema
occorrerà allora “una conversione della forza di generazione”320. E qui
Evola accenna al kundalinî-yoga dei çakti-tantra che ci consente di
affrontare la “purificazione del respiro”.
Kundalinî è la forza generatrice che giace al fondo della
corporeità. Essa è la radice della unità individuale dell’uomo: “il
Logos (çabdabrahman) nel corpo”321. Nell’uomo normale però questa
forza è volta ad altro, è impura ed estrovertita: potenza di generazione
animale. Si tratta quindi di staccarla da questa direzione e possederla.
In tal modo essa riacquista la sua vera natura e “si fa lo strumento per
la riaffermazione dell’Io su tutti quei principî che reggono il suo
essere fisico, biologico e mentale e che prima cadevano fuori dalla sua
potenza”322. Una simile conversione della Kundalinî può operarla il
prâna. Per gli Orientali esso è “la forza di vita connessa al respiro”323.
Nella metafisica che si connette a questo tipo di disciplina il
mantra HAMSAH esprime il senso della creazione nella simultaneità
passo: “Le sensazioni sono le visioni dell’anima addormentata. Tutto ciò che dell’anima è del
corpo, dorme. Uscir dal corpo, è il risveglio vero. Cambiare esistenza con un corpo, è passare da
un sonno ad un altro sonno, da un letto ad un altro letto. Destarsi veramente, è abbandonare il
mondo dei corpi (III, VI, 6)”. Il commento Di Evola: “Come la materialità è lo stato di deliquio
dello spirito, così realtà di sonno è ogni realtà che ci appare a mezzo dei sensi materiali. Non si
interpreti però spazialmente l’uscir dal corpo e l’abbandonare il mondo dei corpi: si tratta
essenzialmente di un cambiamento di stato, della reintegrazione totale della «natura intellettuale
priva di sonno». E questa è la vera realizzazione iniziatica e metafisica. Con singolare efficacia
Plotino assimila il cangiar di corpo al passar da un letto a d un altro. Quand’anche avesse una
consistenza, la dottrina della reincarnazione non potrebbe esser meglio stigmatizzata, come da
parte dell’iniziato della paganità. Una forma è equivalente ad un’altra nel «ciclo delle nascite»
rispetto al centro, che è un punto distante egualmente da ogni punto della circonferenza. La
realizzazione metafisica è una frattura nella serie degli stati condizionati: uno spalancamento
sopra una direzione radicalmente eterogenea. Non la si raggiunge seguendo come che sia la scia
delle nature che «fuggono», quelle che inseguono un termine, che esse hanno fuori di sé stesse: lo
scorrere del mondo dei corpi”, Ivi pp. 137-138.
320
J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 36
321
Ibid.
322
Ivi, p. 37.
323
Ibid.
114
Capitolo II
dell’inspiro HAM e dell’espiro SAH, “l’atto di pura, demiurgica
creatività”. Questo mantra “ha il senso di quella eterna, semplice
folgorazione, sintesi di essere e di non-essere (sadâsat) in cui
l’Assoluto fruisce di un puro rivelarsi o darsi a se medesimo”. Lo
yoghin con particolari discipline (prânâyâma) ferma la fluttuazione di
quella vita che nel suo corpo “va e viene in un inspiro e in un espiro
alternati, […] in una contingenza che riflette quella suprema del primo
inspiro del nascituro e dell’ultimo espiro del morente”. Una tale
concentrazione di potenza “sveglia” Kundalinî che, non più dominata
dalla brama, si media in se stessa fluendo “verso l’alto” (ûrdhvaretas).
La generazione animale o etero generazione cede a quella spirituale o
autoctisi324. Kundalinî ora è attività pura che investe progressivamente
i vari centri sottili realizzando “nell’Io un rapporto di identità e di
possesso con quelle potenze spirituali che, presso allo stato di
privazione e alla oscurità del corpo, gli si opponevano come natura
fisica”. Al limite di questo processo vi è la liberazione suprema
(paramukti). L’Io è Signore delle leggi di vita e di morte:
saccidânanda, ossia “attualità cosciente (cit) e, in quanto perfetta
(sat), beata (ȃnanda)”325.
Evola conclude questi cenni su “una delle più importanti
dottrine iniziatiche” con un tono di sfida che crediamo sia importante
segnalare. Egli se la prende con l’atteggiamento limitato di chi è
chiuso “in assai ristretti orizzonti”, con coloro che tacciano di
misterioso o di occulto quel che non riescono a penetrare e che
intorbidano, come i polpi, con pregiudizi e deformazioni d’ogni tipo.
L’iniziatica ha invece per il giovane filosofo romano un contenuto
intellegibile e valido che procede “da un concetto dell’uomo ─ di
questo en sarchî peripolôn theós ─ del suo valore e del suo compito,
elevato e grandioso quanto pochi altri”326. Sulla reale possibilità di
questa via Evola non ha dubbi. E rimanda qui alle ultime conquiste
della metapsichica. Ma non è questo il punto, visto che “una quantità
di cose ci sono impossibili soltanto perché noi crediamo che siano
tali; e che la via dello spirito è tale, che essa non esiste per chi non
vuole camminare”327.
324
Ibid.
Ivi, p. 38.
326
Ibid.
327
Ibid.
325
115
Capitolo II
Siamo alla metà degli anni Venti, al limite dal distacco artistico
evoliano e al principio del confronto con la cultura filosofica del suo
tempo. È, per dirla con Klossowski, il passaggio “dallo speculare allo
speculativo”. Evola individua nella filosofia lo strumento ed il
linguaggio adeguato per misurarsi con la ragione.
La scelta è contingente e sacrifica parzialmente il suo stile. E lo
stile, per Evola, come per Benn, è superiore alla verità. Intendiamoci.
Dopo l’esperienza della guerra, lo abbiamo visto, Evola si nutre di
suggestioni non di certo filosofiche, almeno nel senso classico del
termine, mutuate dai salotti buoni dell’occultismo. Nello spazio d’un
mattino sorge il metodo filosofico e al contempo tramonta
nell’intolleranza per un indirizzo di studi che presto prenderà ben altre
strade.
Quel che Evola strappa alla filosofia è un prestito divulgativo
che investe la forma d’un dire oltre. Regolati definitivamente i conti
con la “tronfia retorica” del suo tempo, il barone non tornerà più
indietro. Ciò che lo muove in questo momento è la convinzione di
poter superare l’attualismo gentiliano, viziato a suo dire da una
impotenza gnoseologica, nel suo idealismo magico.
Evola vuole integrare l’idealismo con due principi che ne
superino il carattere astratto e compromissorio: il principio della
libertà assoluta e il principio della potenza. La lotta è tra “mistico” o
gnoseologico e “magico” o trascendentale e si svolge sul terreno della
prassi.
Inizio e cosa ultima
Evola vuole la propria filosofia insieme come inizio e cosa
ultima. Essa è descrizione di un processo: teorica di un dio e sua
fenomenologia. Il dio è l’Individuo Assoluto. Il superamento
dell’umano è al tempo stesso il superamento di una filosofia
dell’uomo. Passaggio dalla teoria alla prassi: uomo come potenza328. Il
328
Cfr. L’uomo come potenza, Edizioni Mediterranee, Roma, 1988. Non ci sembra casuale che
questo libro, sin dal titolo esprime la vocazione totalitaria alla libertà dell’Individuo Assoluto,
magica figura del nichilismo attivo. Sulla scia dell’Unico stirneriano, del Superuomo Nietzscheano
e del Persuaso di Michelstaedter. Con esiti altri ma nella stessa dimensione autosufficiente e
affermativa. Al riguardo, ci appare significativo il paragrafo II, sezione I del volume citato che ha
116
Capitolo II
metodo evoliano è filosofico. Come azione (phílo) che si riverbera sul
suo oggetto (sophía). Azione d’amore (philéin). La verità in Evola è
un determinare attivo, mai data una volta per tutte, ma conquistata nel
suo farsi. Nella coniunctio ermetica con la volontà che imprime ad
essa la sua forma: volontà di potenza. In ciò non vi è nulla di
necessario. I buchi neri del linguaggio fomentano l’equivoco. La vita
dell’uomo è questo equivoco. Diremmo forse meglio se parlassimo di
una volontà che lascia essere le cose329. L’atto evoliano è senza pietà
per il mondo. Ma la sua è la violenza del dono. Come si sia potuto
prendere questo poeta dell’azione per un criminale del pensiero è cosa
che riguarda l’equivoco di cui sopra. A noi con gli occhi pieni di
stupore non resta che accoglierne la testimonianza. La fine della
filosofia in una filosofia della fine. Il pensiero vivente d’una traditio
come il gioco terribile della virtus tra le rovine della storia. Nostalgia
d’un tempo immemoriale strappato al divenire. Epistéme chiamarono i
greci la difesa contro l’insensato vanire dell’ente. Con questo nome
sorge la filosofia. Noi lo traduciamo con scienza. Così come
traduciamo alétheia con verità. Di là dai tradimenti dell’etimo, la
preposizione “epí” significa “su” e “stéme” è forma sostantivale del
verbo “hístamai”, “sto”, “sono stabile”, “sono fermo”. Epistemica
allora è quella capacità di “stare in piedi”, magari tra le rovine, come
voleva il nostro. Imporsi sulla e attraverso la negazione. In una parola:
restare e restaurare. Difendere l’uomo dalla minaccia di tutto quel che,
in primis et ante omnia in lui stesso, è labile, sfuggente, mortale.
Mantenersi nella saldezza dell’‘evento dell’Io’ (Weininger) ─ questo
saldo significato del mondo ─ è il modo per evocare, far discendere
dall’alto la struttura stabile dell’essere. Proiezione “meravigliosa” per
i chiamati al servizio del dio. Evola la dirà tradizionale. E nella misura
in cui se ne comprenda l’essenza, essa è prima di tutto tradizione
filosofica. Il rimedio ordinante dell’uomo. Epistéme è il contenuto
come titolo “libertà come negazione del mondo e libertà come affermazione del mondo”. Sintesi
emblematica dell’intero percorso evoliano, dove è detto che l’affermazione sorge da “una
concezione tragica ed eroica della vita, da un principio attivistico di potenza. […] la luce è libertà
in atto”, Ivi, p. 28.
329
Cfr. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 267: “Noi non
pensiamo ancora in modo abbastanza deciso l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non
come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire,
invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare
qualcosa nella pienezza della sua essenza […]. Dunque può essere portato a compimento in senso
proprio solo ciò che già è”.
117
Capitolo II
della verità e la verità, alétheia, è la ri-velazione della scienza. La
verità è il disvelamento di quel che “sta sopra” quale invincibile
evidenza. Questa evidenza in Evola è il risultato del valore o perfetto
compimento di sé: co-scienza. Chiedere il senso è cosa antica. Ed il
barone torna a quell’origine che lo smemoramento moderno ha
relegato negli alibi del non-sapere. Ai sapienti: “filosofi
sovrumani”330. A quel pensiero che regge la terra. Pensiero della
responsabilità331. La vanità del suo cammino è tutta in questa inaudita
pretesa: übergang332. Nella soluzione di un passaggio all’infinito.
Evola cita in Cavalcare la tigre un antico detto taoista. Forse
l’epitaffio dell’Occidente. Con certezza una glossa indispensabile ─ o
impensabile? ─ in margine all’idealismo magico: “L’infinitamente
lontano è il ritorno”333. Se la filosofia di Evola è soltanto astrazione,
allora la nostra amicizia con lui è un orribile inganno. E chi lo legge
senza mettersi in gioco continua a corrompere, nella sua persona, un
corrotto.
Abbiamo più volte parlato di passaggio, superamento, processo.
Il fulcro ne è l’attimo. Quel momento in cui la teoria esige la pratica.
L’accesso, il varco, la salvezza dell’incedere evoliano è nel valore
330
Cfr. Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2009.
Cfr. Stefano Zecchi, Evola, o una filosofia della responsabilità contro il nichilismo, in
Cavalcare la tigre, op. cit., p. 17: “Indubbiamente, c’è la condanna del presente che lascia
ascoltare, come tema di fondo, la nostalgia del passato: tuttavia è forte e decisa la tentazione di un
pensiero e di un’azione che resiste, che cerca il riscatto, che elabora il pensiero della
responsabilità. Il pensiero della responsabilità: credo sia questo il modo migliore per definire in
una formula (con tutti i limiti che essa comporta, ma con implicite chiarificazioni) la filosofia di
Evola. Assunzione di una responsabilità teoretica che, dopo aver diagnosticato il fenomeno di
crisi, ristabilisce il contatto con una dimensione dell’essere liberato dal soggettivismo finalistico e
teistico”. Di Zecchi si vedano anche Cavalcare la crisi, in Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su
Julius Evola, a cura di Marco Iacona, Controcorrente, Napoli, 2008, pp. 359-362 e La questione
della crisi: Evola e Spengler, in Julius Evola, un pensiero per la fine del millennio, Fondazione
Julius Evola, Roma, 2001, pp. 133-136.
332
Cfr. Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, Spirali, 1988, p. 14: “Andare oltre, andare oltre!
Übergehen, übergehen! Si può, anzi, si deve andare oltre. È un chiodo fisso del giovane […]
Evola, quello di ‘superare’ l’idealismo attualistico, di opporre all’idealismo un ‘transidealismo’”.
L’Opus evoliano è un’esegesi attiva, entusiasticamente inquietante, del prefisso “super”.
333
J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 113. L’origine della filosofia, in quanto Ur-sprung, è il
salto che la ricongiunge al suo ek-sistere. L’uscir fuori dall’abisso del proprio liberante
(s)fondamento: salto d’origine o balzo originario. La filosofia rende possibile un reale
avanzamento del sapere. E come affermava Hegel: “ogni andare avanti è in realtà un tornare
indietro al vero, al fondamento”. Niente si dà direttamente come origine ma qualcosa si origina.
Nel romanzo iniziatico del Novalis, Enrico di Ofterdingen (trad. it. Mondadori, Milano, 1999, p.
158), alla domanda finale di Enrico, ansioso di sapere quale sia la meta del proprio viaggio, Cyana
risponde: “Sempre verso casa”.
331
118
Capitolo II
irriducibile dell’iperbole334. Esso ha il carattere tremendo del gioco335.
E non è a sproposito che un improvvido ma acuto critico del filosofo
romano parlò di “una colossale beffa fatta a quel mondo che l’Evola si
appresta a dominare e ad assoggettare al suo arbitrio”336.
Beffa e serissimo invito.
La critica evoliana è lo sfondamento inesorabile della filosofia
che culmina nell’idealismo trascendentale e si conclude con
l’idealismo magico. “Di là da questo non vi è più nulla da fare in
filosofia”337. L’intento del barone ha la sfrontatezza della sua giovane
età e la carica eversiva d’un nichilismo che si fa sistema: “far fare, con
la presente opera, quest’ultimo passo alla speculazione occidentale, sì
che essa si approssimi al punto oltre il quale senza un ‘salto
qualitativo’ ─ per usare questa espressione del Kierkegaard ─ non si
può andare”338. La filosofia, al margine estremo della tensione,
s’affaccia sul proprio nulla. Il limite del trascendentale. Oltre, c’è solo
il salto. Ed una dialettica del salto è quella che anima la devastazione
evoliana del Logos. Formale, corretta, chirurgica. Una operazione che
conclude la fatalità d’una tradizione di pensiero, quella idealistica, che
nasce e muore della sua vocazione critica. La scepsi corrosiva di
Evola è la nemesi di questa vocazione. La sua risposta si pretende
positiva, affermativa, forte. Non c’è ombra di debolezza in questa
elevazione a vita della filosofia. Non esiste il pensiero debole.
Esistono ─ ma davvero poi? ─ solo pensatori deboli. Pensiero è atto,
334
Cfr. Roberto Melchionda, Il volto di Dioniso, Basaia Editore, Roma, 1984, p. 20: “La radicalità
in filosofia è per Evola il valore massimo e irrinunciabile; è il fine stesso del filosofare
(yperbole=l’andare oltre. La sua filosofia introduce in un mondo dominato da questo genere di
iperbolico, dal fuori misura, dalla «magia dell’estremo». Interessanti al riguardo anche le
osservazioni di Giovanni Sessa in Filosofia della liberazione e impero interiore: l’utopia evoliana
in Studi Evoliani 2008, op. cit.: “Credo che se mi si chiedesse di trovare un simbolo,
un’espressione sintetica in grado di significare l’esperienza esistenziale e speculativa di Julius
Evola, non esiterei a indicare l’iperbole. È, infatti, la tensione iperbolica, già utilizzata da Carlo
Michelstaedter, nelle pagine pervase di giovinezza spirituale della sua [opera] La persuasione e la
rettorica, vero antecedente del pensiero evoliano”.
335
J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 188: “[…] ciò
che è tragedia e serietà per gli uomini non può non assumere un carattere di comedia e di giuoco
agli occhi di un Dio. In effetti, la concezione dell’intera manifestazione universale come un giuoco
divino ─ lîlâ ─ appartiene a sistemi di grande levatura metafisica […].
336
Ugo Spirito, Rassegna di studi sull’idealismo attuale, IV, in Giornale critico della filosofia
italiana, XVII, 2, marzo 1927, pp. 144-150; poi in L’idealismo italiano e i suoi critici, Vallechi,
Firenze 1930, p. 205; ora in appendice a J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, Edizioni
Mediterranee, Roma, 2006, pp. 189-197. La citazione è a p. 197.
337
J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, op. cit., p. VII.
338
J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, op. cit., pp. 20-21.
119
Capitolo II
potenza, vita. La necessità che lo costrinse al sistema è quella di chi
deve comunicare. Scelse il linguaggio dell’idealismo.
L’incomprensione fatale che ne seguì è nella forza delle cose.
“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”339.
L’Uomo è gettato ai confini del doppio regno nichilistico:
schiavo o sovrano, attivo o passivo. Nella originaria decisio arde e si
consuma la cuspide trascendentale: via dell’Io o dell’Individuo oppure
via dell’Altro o dell’Oggetto. Si badi. Solo la prima è conclusione e
superamento. La seconda è una morte eterna. Quel che è una vita non
consacrata all’eccedersi. In termini filosofici: l’infinità del processo
ermeneutico. Non conclusione ma esaurimento. Coazione a ripetere
sotto l’egida del nulla. La necessità è contingente alla qualità della
decisione. La decisione è libera.
La deduzione storica dell’idealismo
Evola porta a compimento il tema critico-gnoseologico
dell’idealismo classico. E il problema della conoscenza diviene
“necessità storica”.
Il pensatore romano, pur dall’interno dell’idealismo, e
accettando l’assunto hegeliano secondo il quale “[…] ogni filosofia, lo
voglia o no, sia idealismo, sì che quando pone sé stessa come un nonidealismo è solamente un idealismo non interamente consapevole di
sé”, aspira nondimeno a una maggiore radicalità340. Il suo idealismo
magico si presenta come risultato positivo d’uno svolgimento storico
coerente. Esso integra e definisce le più avanzate posizioni della
speculazione d’Occidente come anelli di un’unica aurea catena. Ma
non si confonda l’inevitabilità d’un tale destino con quello della
necessità. Il principio fondamentale dell’idealismo è l’assoluta,
incondizionata autodeterminazione. La libertà è necessaria soltanto
nel momento in cui sceglie di realizzarsi. L’idealità del tempo non ha
un primo e un dopo. Non il passato quindi condiziona il presente ma
al contrario il presente condiziona il passato. Il passato infatti è
339
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino,
1979, p. 82.
340
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1998), op. cit., p. 20.
120
Capitolo II
presente solo nell’atto meta-temporale. Ed esso vuole la storia come il
darsi della libertà: “La deduzione storica è sempre qualcosa che viene
dopo [...], e la sua necessità non è che il fenomeno della libertà che la
determina incondizionatamente”341. La storia è la creazione dell’Io.
Da questa premessa, la necessità storica dell’idealismo magico è
allora
“la sintesi di un dialettismo, in cui la tesi è il razionalismo
della filosofia romantica il quale […] generò l’antitesi del
materialismo e del positivismo. Per la consumazione delle tesi
nell’antitesi la vuota idealità si andò riempiendo di un contenuto
concreto onde, al termine della sinistra hegeliana (Stirner e
Nietzsche), dette nascita alla affermazione dell’individuo reale nel
valore dell’incondizionato”342.
Dalla idealizzazione del reale alla realizzazione dell’ideale.
Teoria
dell’Individuo
Assoluto,
Idealismo
magico,
sperimentalismo, pragmatismo, contingentismo trascendentale,
positivismo assoluto, dottrina della potenza, idealismo realistico etc.:
tutti nomi della liberazione. Le forme di un presa della coscienza
storica da parte d’un Occidente faccia a faccia con la sua miseria.
Evola spinge per un progresso ultimo della ragione che eviti la
bancarotta della filosofia, “un pietiner sur place, un dare indietro o un
bizantineggiare”, o ancora “un mero opinare schiavo della
contingenza del momento”343.
La filosofia del suo tempo presentava tratti crepuscolari le cui
avvisaglie Evola comprese come annuncio d’un età, quella
dell’Acquario, in cui presto sarebbero annegati gli sprovveduti
pesciolini dediti al mondo dell’occulto o invischiati in fenomeni di
seconda religiosità. E questo può spiegare in parte anche l’intento
della sua operazione tecnico-filosofica animata da un valore
pedagogico non trascurabile. Tanto più che Evola aveva frequentato il
341
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 110.
Ibid.
343
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. VII. Cfr. anche J. Evola, Teoria
dell’Individuo Assoluto (1998), op. cit., p. 21: “E non andando avanti, nel campo della filosofia
non vi è che un segnare il passo, un bizantineggiare e un ricadere, per un allentarsi della tensione e
un affievolirsi del coraggio interiore, in posizioni di compromesso o già superate”.
342
121
Capitolo II
mondo occultista e conosceva il terreno esotico e profumato d’oriente
dei cosiddetti teosofi anglo-indiani. Ambienti la cui deplorevole
confusione dottrinale aveva già al tempo stigmatizzato e sulla cui
pericolosità per tutta la vita non si stancò di ammonire344. Il declino
della filosofia lasciava spazio a forme di reazione al mondo a carattere
pratico, che avrebbero potuto andare sia in direzione ascendente,
quella che Evola indica e segue, sia in direzione discendente. La
direzione di certo occultismo quale regressione nel sub-personale o
quella della tecnica quale “impianto” della modernità. Evola paventa
questa doppia involuzione ed educa al die Anstrengung des Begriffs,
alla fatica del concetto. Egli risveglia il rigore teoretico dal torpore
mistico cui s’erano assuefatti gli indolenti adoratori dell’atto
gentiliano. Un atto che non era tale, poiché passivo, astratto ─ dalla
vita.
Questo dono d’intensità alla filosofia del suo e del nostro tempo
non deve essere dimenticato perché la rinnova quale scienza
dell’(Individuo) assoluto e ne disciplina il culto. Al limite, la potenza
del pensiero critico, la sua più intima ratio, è gia il suo trascendersi
nella conclusione. Evola ne asseconda il gesto del superamento in una
uscita pratica dalla filosofia.
La via dell’Altro, la via che non conclude ma include il darsi
perpetuo dell’interrogare, è la parodia della risposta absoluta. Una
morte eterna non è l’immortalità. Una cattiva infinità che danna alla
ruota eterna dell’esserci non è l’eterno ritorno dell’identico.
Le due vie si danno entrambe hic et nunc. Esse sono uguali
nella loro compossibilità345. Tuttavia una è la decisione. La volontà di
una simile impostazione del problema idealistico lascia trapelare un
ottimismo che non va confinato nel ristretto ambito dell’entusiasmo o
344
La difesa della personalità è il nucleo irriducibile della filosofia assoluta dell’Evola. Cfr.
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma, 2008, p. 45:
“Qui ci si deve riferire alla personalità in senso proprio. Il contatto con lo «spirituale» e
l’affioramento di esso possono rappresentare un rischio fondamentale per l’uomo, nel senso che
possono avere per effetto una menomazione della sua unità interiore, di quell’appartenere a sé, di
quel suo potere di presenza chiara a sé e di chiara visione e di azione autonoma che definiscono
appunto l’essenza della personalità”.
345
Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit, p. 48: “Così passai a difendere la concezione di
una libertà assoluta, anteriore in un certo modo, a sé stessa (quale libertà realizzata), di una libertà
come puro arbitrio che poteva scegliere incondizionatamente sia sé stessa, sia il contrario, ossia la
negazione di sé stessa. E ciò equivaleva a dire che all’Io doveva essere aperta sia la via del
«valore» […], sia quella del non valore, al titolo di due opzioni compossibili”.
122
Capitolo II
dell’immaturità del giovane filosofo346. Esso mostra la sua
consapevolezza di trovarsi in una (possibile) svolta epocale nella e
della storia del pensiero: “Sarà questione di tempo, ma la nostra
cultura, di là dalle crisi che attraversa, dovrà accorgersi di ciò”347. Il
problema gnoseologico è insieme problema ontologico: la modalità
della conoscenza è la modalità dell’essere. La filosofia o visione del
mondo di un uomo dipende dalla persona che è. Non si tratta di criteri
astratti, ma di posizione ontologico-esistenziale. Ogni uomo è una
filosofia. Queste parole del Fichte hanno per Evola un valore
particolare:
“Quale filosofia si scelga, dipende da qual uomo si è: perché un
sistema filosofico non è un morto utensile domestico, che possiamo
deporre o prendere a capriccio, ma è animata dall’animo dell’uomo
che la possiede. Un carattere fiacco per natura, o infiacchito o
immiserito da vassallaggio spirituale, non si innalzerà mai
all’idealismo”348.
E spiegano perché la sua scelta sia in piena sintonia con la sua
“equazione personale”: impulso alla trascendenza e natura da
kshatriya. Il tempo del pensiero evoliano è quello lacerato dalla
Grande Guerra. Egli pensa e pratica una filosofia nuova perché nuovo
è l’uomo che deve rinascere, come la fenice, dalla ecatombe
mondiale. Ascoltiamo l’incipit dei Saggi sull’Idealismo magico349,
l’introduzione all’intero corpus delle opere filosofiche:
“Che la civiltà occidentale traversi oggi un periodo di crisi, è una
cosa
che
risulta
evidente
anche
per
una
considerazione
superficiale”[…]. È anche, ad un dipresso, egualmente chiaro che la
crisi attuale supera di gran lunga ogni altra che sia dato riscontrare
346
Evola a venticinque anni riteneva di aver esaurito il proprio compito in campo filosofico.
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. VII.
348
J. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza (1797). Cfr. J. Evola, Il cammino del
cinabro, op. cit, p. 11: “Fichte ebbe a dire che a seconda di quel che si è, si professa una data
filosofia”.
349
Cfr. Franco Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo
magico, op. cit. p. 13: “A lungo trascurati, essi sono invece decisivi per capire la transizione del
giovane Evola dalle esperienze artistiche della prima fase all’elaborazione di una sua originale
concezione filosofica, che qualche anno più tardi approderà al pensiero della Tradizione […]”.
347
123
Capitolo II
nel passato: e ciò, per il fatto stesso del dispiegamento dello spirito
moderno in nuovi, molteplici rami nei quali però oggi, pressoché in
egual misura, è presente il momento critico: esso trasmuta dalla
coscienza razionale a quella religiosa, dall’arte all’economia, dalle
scienze della natura all’etica. In tutti questi campi egualmente gli
antichi principî barcollano, le antiche certezze non soddisfano più e
il calore della critica e della negazione a mala pena riesce a
nascondere un senso generale d’insufficienza e di disagio”350.
La diagnosi evoliana è quella del nichilismo. La sua posizione
di fronte ad esso è attiva e pratica: filosofica. La comprensione della
crisi è in potenza il suo superamento. E il fatto che Evola usi la parola
crisi è significativo. Krisis etimologicamente ha il senso di una
discriminazione, di una decisione. Essa separa (Kríno) una maniera di
essere dall’altra e significa più specialmente il cambiamento
improvviso che sopravviene nel corso di una malattia da cui si decide
la guarigione o la morte. La crisi è il momento riflessivo d’un mondo
ebbro di devastazione. Un mondo che ha già lasciato dietro di sé il
“crepuscolo degli dei” e che ha fatto dello stesso crepuscolo un idolo
cui sacrificare milioni di uomini. Deve essere chiaro che Evola affida
alla risoluzione magica della filosofia la sua vocazione spirituale e
insieme la speranza d’un umanità nuova. Il carattere di questi suoi
primi e ultimi scritti ha un qualcosa di apocalittico. Egli da giovane
non ha mai voluto diventare un dotto, e tanto meno un professore,
come pensava Guénon351. La sua opera ha da subito, dal periodo
cosiddetto artistico, un valore palingenetico, ben espresso dalle
seguenti parole che strappiamo ad una intenso articolo pubblicato dal
barone sul periodico L’Idealismo Realistico:
“L’idealismo moderno si può definire così: un’esigenza profonda
verso un’assoluta autorealizzazione […]. l’idealismo astratto […]
trapasserà in un idealismo màgico o realistico che, volgendo
350
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 27.
Lettera di René Guénon a Guido De Giorgio del 15 agosto 1927, in René Guénon, 23 lettrere a
Guido DE GIORGIO, Edizioni Ḥaḍra, ?: “[…] in ogni caso, se potete avere qualche influenza su
Evola, sarebbe davvero una buona cosa: lo ritengo intelligente, ma pieno di pregiudizi di tutti i
tipi; penso, in ogni caso, che ambisca ad un posto nell’Università, e questo può anche
condizionarlo per più versi”.
351
124
Capitolo II
l’individuo concreto a farsi sufficiente ai princîpi di incondizionata
libertà e di potenza còsmica, potrà forse schiudere una nuova,
inaudita era nella storia dello spirito”352.
Tilgher e con lui Calogero si rammaricarono che Evola si fosse
perduto abbandonando la filosofia. Evola si rammaricò che loro non si
fossero trovati restando filosofi, e ghignò tutto il suo sprezzo e la sua
malcelata delusione nei confronti dei professori di filosofia, “piccolo
borghesi, professionisti del pensiero speculativo” che non poterono ─
ma volevano? ─ seguirlo353. Ci sia permessa l’ironia: anche armati di
una potente fantasia non è semplice immaginare Giovanni Gentile con
indosso i paramenti magici. E come è stato notato, solo con una
“curiosa nonchalance” Armando Carlini poteva scrivere che “ come
tutti sanno quanti seguono l’opera infaticabile di questo scrittore, egli
è per un rinnovamento della magia e per il ritorno non al
cattolicesimo, né ad altra religione, ma alla visione ellenico-classica
della vita”354. L’intento di Evola era chiaro. E per questo le sue opere
filosofiche non ricevettero un’adeguata attenzione critica, di là dalle
fuggevoli recensioni degli “addetti ai lavori” che pur non mancarono.
Il problema era che un simile intento era squalificato alla sorgente a
causa della sua essenza spirituale. Evola non era in cerca di
apprezzamenti o di un posto all’Università. Viandante solitario, dai
più non gradito e temuto, era forse in cerca di amici, compagni di un
itinerario nel proibito e forse anche di sodali, non di colleghi
accademici.
Non per nulla fu proprio Adriano Tilgher, nome di spicco tra gli
ambienti nobili della cultura, ad essergli il più vicino. E Tilgher era il
352
J. Evola, L’idealismo della insufficienza, in L’Idealismo Realistico, Anno I, fasc. 2 (15
dicembre 1924), pp. [11]-18, ora in L’Idealismo Realistico (1924-1928), a cura di Gian Franco
Lami, Antonio Pellicani Editore e Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 46. Il grassetto è
nostro.
353
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit, p. 60.
354
A. Carlini, rec. a Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., in
Vita Nova, luglio 1932, ora in Julius Evola, Vita Nova (1925-1933), a cura di Gian Franco Lami,
Edizioni Settimo Sigillo e Fondazione Julius Evola, Roma, 1999, p. 267. Cfr. J. Evola, Maschera e
volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., p. 184: “Nella visione classica della vita
«dèmoni» e «dèi» avevano il loro posto ─ il mondo veniva cioè considerato nella sua totalità
comprendente sia il subnaturale, sia il sovrannaturale […]. In pari tempo, come forse in
nessun’altra civiltà, era vivo il senso della personalità come forza, forma, principio, valore,
còmpito. Essa conosceva l’invisibile, ma al suo centro celebrava l’ideale della «cultura», cioè della
formazione spirituale, della enucleazione quasi di vive e compiute opere d’arte”.
125
Capitolo II
filosofo accademico ostile al fascismo e nemico dell’idealismo
gentiliano. Questa filosofia evoliana che sorge e tramonta nello spazio
di un mattino si presenta di fronte alla cultura ufficiale come una
barbara incursione in territorio straniero. Non per dire no e sparire
indignata, ma come fase di una evoluzione, di un processo vivente di
elevazione interiore e al contempo sua descrizione, possibilità
affermativa per sé e per gli altri. Essa è il preludio dell’azione:
“Per una quantità di elementi, che qui non posso esporre, la
pubblicazione dell’opera principale mi rappresenta qualcosa di
effettivamente importante, giacché, nell’ordine di quel che mi sono
imposto, essa è la condizione per potermi più liberamente ed
interamente volgere a ciò di cui l’insieme della mia dottrina
teoreticamente esposta non è che l’astratto schema”355.
Teoria e fenomenologia dell’Individuo
condensazione di un trapasso. Il libro della vita.
Assoluto
è
la
***
Idealismo magico. L’espressione è del poeta Friedrich Leopold
von Hardenberg, detto Novalis, cui Evola ispira il proprio dinamismo
dell’azione. L’ascendenza è chiaramente quella dell’idealismo
tedesco. La realtà è il prodotto dell’Io che la domina in virtù della sua
volontà trascendentale. Individuo Assoluto come creatore della totalità
dell’essere. Ma più che il poeta romantico, “nella cui idealità magica
permangono residui di «oggettività» non completamente risolti nella
spontaneità autopoietica dello spirito”356, è Ficthe il filosofo idealista
tedesco cui Evola si può accostare con maggior profitto, nella
concezione di una identità quale attività originaria pura (Tathandlung)
in grado di porre al contempo Io e non-Io. Tuttavia il pensiero
evoliano è in un rapporto imprescindibile con la filosofia gentiliana.
Una vicinanza incolmabile che consentirà ad Evola di abbeverarsi alla
fonte dell’atto puro ─ che risolve ogni determinazione oggettiva o
355
Lettera di Julius Evola a Benedetto Croce del 13 aprile 1925
F. Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo magico, op.
cit. p. 14.
356
126
Capitolo II
“pensato”, nella sua attività o “pensante” ─ e allo stesso tempo di
maledirla in quanto acqua che non toglie la sete ma che la riconferma.
Insomma, l’adesione evoliana al principio che anima qualsivoglia
posizione idealistica, ben sintetizzata dalla formula del Berkeley: esse
est percipi, è fuori discussione. Discutibile è invece, di là dalla
genealogia d’un pensiero che non esita a dichiarare quella idealistica
l’unica vera tradizione filosofica357, l’esito della decisione evoliana. E
la trasmutazione operativa che viene compiuta sul corpo di questa
stessa tradizione. Evola infatti sconvolge il problema del Principio
attraversandolo teo-logicamente. La sua linea di azione contemplativa
è quella, fra gli altri, di Eckhart, Cusano, Schelling. Una vena occulta,
diciamo pure “minore”, che si offre con pre-potenza al suo sistema.
Con la prepotenza della liberazione, télos della sua vita filosofica. Egli
sviluppa il Principio Io in modo critico e certamente originale, ma
sopratutto originario. L’impostazione classica dell’idealismo seppur
declinata alla Gentile non riduce il suo pensiero a semplice episodio di
“quelle che si son dette le ‘cronache di filosofia italiana’ del nostro
secolo e, precisamente, in quelle degli ultimi anni Venti e dei primi
anni Trenta”358. Non v’è più manifesta incomprensione del
cominciamento evoliano di quella segnalata da queste poche parole.
Esse infatti paralizzano ab origine il cammino del filosofo romano
nella gabbia della rivolta anti-gentiliana. Il suo pensiero non è reattivo
ma affermativo ed in questa affermazione arde le scorie dialettiche ed
apparenti d’un potere o di un porre essenzialmente astratto. Se la
meraviglia per cui le cose sono nella brutalità della loro “semplice
presenza” deve essere strappata all’impenetrabile per farne libertà,
autodeterminazione ed autarchia, possiamo capire perché sin dal suo
inizio, l’idealismo magico determina l’Io, lo vuole non
gnoseologicamente quale astratto soggetto di conoscenza (idealismo
classico e attualismo) ma quale individuo reale, concreto il cui atto è
potenza. Individuo Assoluto è il minimo del dato (in-dividuo, non
ulteriormente divisibile, semplicità potente) nel massimo dell’intensità
(ab-soluto, sciolto da qualsiasi contingenza, libero)359. La dottrina
357
Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. I.
Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, op. cit., p.13.
359
Cfr. Franco Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo
magico, op. cit. p. 14: “«Individuo Assoluto» è il concetto che Evola sceglie per rappresentare tutta
la potenza e la concretezza del principio dell’Io, imprimendogli il massimo grado di intensità”.
358
127
Capitolo II
della liberazione dell’Evola non è processo o espediente meramente
speculativo. Essa è devastazione pura del mondo che assiste e coopera alla propria annihilatio.
Sono tre le prove iniziatiche sul cammino del cinabro:
1) La “prova del fuoco”. Rimozione d’ogni vincolo. Il
principio stirneriano “Ich habe meine Sache auf nichts
gestellt” è qui regola d’azione e forma di vita.
2) La “prova della sofferenza”. Assunzione della negazione e
stoico “trionfo della volontà” sull’essere.
3) La “prova dell’amore”. Amor fati, consistere non più
nell’astratta negazione di sé, ma in quella che è l’esistenza
in sé della cosa come oggetto incondizionato. Il wei wu wei
taoista.
Da capire: “nella disciplina, l’atto non vale per la sua materia,
sì per la sua forma”360. L’oggetto delle “disposizioni d’animo” che
abbiamo appena sintetizzato è pretesto e posterius. L’idealismo
magico usa la morale come mezzo. Essa non è mai ─ un fine. E vale
in quanto “per essa la volontà possa potenziare la propria
affermazione e mediazione”361. Il fine della volontà è nella volontà:
autonomia. Ma la volontà dell’Individuo Assoluto non “vuole” alla
maniera occidentale. Il duro e il forte sono i modi della morte: “nulla
più dell’acqua, dice Lao Tze, è cedevole e secondante, ma, nello
stesso tempo, nulla meglio di lei sa vincere il forte e il rigido: essa è
indomabile perché a tutto adattantesi”362. Acqua di vita. Dare per
possedere, cedere per dominare ─ morire per vivere.
360
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 91.
Ibid., nota 12.
362
Ivi, p. 90. Cfr. anche J. Evola, Il libro della via e della virtù (di Lao-Tze), Edizioni
Mediterranee, Roma, 2008, Roma, p. 67, cap. LXXVIII: “Non vi è al mondo nulla di più debole e
cedevole dell’acqua, ma nello stesso tempo non vi è nulla che la superi nel vincere il forte ed il
rigido. Essa è indomabile perché a tutto adattantesi. Così il debole trionfa sul forte, il flessibile
trionfa sul rigido: questa verità è chiara, ma nessuno agisce conformemente ad essa. Perciò il
Perfetto dice: ─ Colui che riceve in sé gli obbrobri del mondo ne è la provvidenza; colui che riceve
in sé le sventure del mondo ne è il Signore. ─ Questa è la verità nascosta”. Da sottolineare anche la
nota 48 a fine pagina in cui Evola afferma che in quel “riceve in sé le sventure del mondo” (: sta,
letteralmente, per “regno”) è “svelata (in funzione di valore individuale) la logicità trascendentale
della missione soteriologica del Cristo.
361
128
Capitolo II
L’Io che s’alza in piedi al termine di questa catarsi della
potenza, l’Io che si libera dall’io non è il cogito cartesiano o il coagito michelstaedteriano363. Non è il soggetto trascendentale come
astratta facoltà del pensare ma l’Io assoluto, centro di potenza,
attualità, evidenza e correlazione. Io sono, dunque penso.
L’Io è l’Io.
Immoltiplicabile, conchiuso, perfetto. Solo.
Il presupposto gnoseologico dell’idealismo magico è l’Io. Si
conosce quel che si è. La teoria della conoscenza è praxis.
“Il punto dell’autarchia è quello della penetrazione, in luce e
possesso perfetto, di quel mistero che si tende dietro all’atto di
autocoscienza di chi ha sé stesso secondo necessità, ché tale
autocoscienza […] è lampada che illumina solo dinnanzi a sé, ma
dietro lascia la più profonda tenebra”364.
La conoscenza è l’atto con cui l’Io si proietta negli altri esseri.
Trasferimento dell’interiorità da un individuazione in un’altra: “intusire”. Il “guardar dentro” della visione. “Tale è lo stadio di intuizione o
di coscienza cosmica”365.
Io non posso ammettere una pluralità di soggetti aventi la mia
stessa realtà o dignità metafisica. “La nuda e immanente certezza” che
chiamo Io non è con-divisibile. In-dividuale, appunto. Assoluta
mediazione non mediata da altro perché l’altro, non essendo
centralità, è qualcosa di mediato. Quindi non è l’Io che, unico, lo
condiziona: potenza e presupposto d’ogni mediazione. L’altro è
elemento periferico del mio centro, oggetto particolare della mia
esperienza. Esso non ha una sua realtà se non obliandomi come
subiectum, suo centro di posizione. Come per i Pitagorici, “ogni
numero è tale in virtù dell’Uno”366. La coscienza non è un punto
statico ma ammette gradi di intensità. Essa può passare da “coscienza
individuata” a “coscienza individuante” sperimentandosi negli altri
363
Cfr. Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 102: “Ma se pensare vuol
dire agitare concetti, che appena per questa attività devono divenire conoscenza: io sono sempre
vuoto nel presente e la cura del futuro dove io fingo il mio scopo mi toglie tutto il mio essere.
Cogito=non-entia coagito, ergo non sum.
364
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., pp. 100-101.
365
Ivi, p. 100.
366
Ivi, p. 101.
129
Capitolo II
“soggetti”. Da qui il senso del “noi” iniziatico367. Il punto della sintesi
organica perfetta non è dato ma raggiunto dalla mia “in potenza”
nell’atto. Dalla privazione alla perfezione. Dio è il nome d’una
salvezza ai confini del possibile. “Come se l’insieme degli esseri a cui
la mia esperienza è legata e che mi resistono fosse una materia
inorganica, che chiede alla mia potenza l’unità, il punto che la farà
vita, persuasione”368. Il processo è sintetico. Centro della dottrina:
progresso da privazione a sufficienza nell’atto che la realizza.
L’impulso che Evola scorge al fondo dell’idealismo trascendentale è
“magico” perché intenzione di dominio. Quel che manca è
l’integrazione pratica di questo conato affermativo, senza la quale
esso resta superstiziosamente a guisa di relitto abbandonato sul
fondamento irrazionale dell’idealismo. Irrazionale sta per nonrealizzato. Questo significa semplicemente che “sono un Nietzsche,
un Weininger, un Michelstaedter a dare il senso a un Descartes, a un
Berkeley, a un Kant e a un Fichte”369. E spiega perché l’edificio
teorico sia destinato a saltare per aria se non è costruito su fondamenta
invisibili. Quelle di un sapere che è sapio, il gusto incomunicabile
della realizzazione. Forma o stile della vita. Lavoro su di sé.
Evola porta l’idealismo a compimento nella coerenza della sua
decisione. Decisione che è negazione immanente ai due capisaldi
dell’idealismo. Il primo: oggetto inseparabile dal soggetto (Il reale è
mio). Il secondo: soggetto come attività mediatrice (libertà del
soggetto). Soggettività ed oggettività convergono verso un
immanentismo assoluto. Ma nell’idealismo arrivato all’estremo della
sua pensabilità Evola scorge il limite. L’idealismo riduce l’oggetto a
posizione dell’Io in quanto risolve l’Io stesso nell’oggetto. “Ond’è che
il senso dell’idealistico: ‘l’Io pone il non-Io’ è in realtà: ‘la natura
pone se stessa’ o , più semplicemente: ‘un mondo è (ist da)’”370. L’Io
si esaurisce in una “coscienza di fenomeni”. Il mondo, la vuota forma
fenomenica invade la sostanza dell’essere individuale. Identificazione
nella inesausta generazione degli enti. Immersione nell’universale:
“una specie di passivo misticismo che in concreto si identifica con un
367
Ivi, p. 102.
Ibid.
369
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 38.
370
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 125.
368
130
Capitolo II
assoluto, stupefatto fenomenismo”371. Nell’universale si specchia e si
smarrisce l’individuo.
L’idealismo non regge alla sua stessa critica. E l’esigenza della
pratica del pensiero ne viola la perfezione formale rivelando
l’antinomia che lo struttura. Il suo ordine è chiuso alla vita.
L’idealismo deve superare se stesso poiché al suo termine ha scoperto
la contingenza della (sua) verità: “la contingenza dell’assoluto
speculativo” che incrina la credibilità della conoscenza372.
Il non-senso che ne deriva abbatte la certezza gnoseologica.
Definire con certezza la propria impotenza è la krisis. Possibilità del
capovolgimento nichilistico: «La philosophie, c’est la réflexion
aboutissant à reconnaître sa propre insuffisance et la necessité d’une
action absolue partant du dedans»373.
Dal nulla “oltre la linea”374.
Quello stesso nulla da cui Jacobi si ritraeva scandalizzato
scrivendo a Fichte nel 1799:
“In verità, mio caro Fichte, non deve infastidirmi se Lei, o
chicchessia, vuole chiamare ‘chimerismo’ quello che io
contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo.
[…] una tale scelta ha […] l’uomo, questa sola: o il niente o un Dio.
Se sceglie il niente, egli fa di sé Dio, il che significa che egli fa di
Dio un fantasma, poiché è impossibile se non vi è un Dio, che
l’uomo e quello che lo circonda non siano dei puri fantasmi. Ripeto:
o Dio esiste, ed è fuori di me, un essere vivo, per sé sussistente,
oppure io sono Dio. Non vi è una terza possibilità”375.
Evola non si ritrae invece davanti al nulla. Si ritrae nel nulla
come occasione. L’esito nichilistico dell’idealismo trascendentale può
essere il nuovo cominciamento. La filosofia evoliana nasce nel
deserto. Dove un occhio aperto alla potenza dell’Io vede crollare il
371
Ivi, p. 121.
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 146.
373
J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 27: «La filosofia è la riflessione che conduce
a riconoscere la propria insufficienza e la necessità di un’azione assoluta che parta dall’interno».
374
Cfr. Ernst Jünger – Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 2004.
375
Fr. H. Jacobi, Werke, G. Fleischer, Leipzig, vol. III, 1816, p. 44; da: "Jacobi an Fichte",
apparso per la prima volta nell'autunno 1799. Citazione tratta da Pierandrea Amato, Lo sguardo sul
nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo, Mimesis, 2001, pp. 15-16.
372
131
Capitolo II
valore. Ma la contemplazione della disfatta è vertigine nichilistica che
annuncia un’oasi oltre la disperazione. Alla voluttà della forma
perfetta soltanto nell’astrazione succede la diffidenza e l’odio d’un
pensiero che non mantiene le sue premesse.
L’idealismo è lo stesso del nichilismo. L’identità è ambigua.
Dipende dall’occhio credere all’illusione ottica per cui dove non si
vede niente, non c’è niente. La differenza procede dall’esistenza. Una
teoria vale l’altra.
Ed Evola sceglie la “grande solitudine” iniettando nel rigore
teoretico dell’idealismo classico che ha dato al problema della
conoscenza un esito positivo insuperabile, il sacrificio di uomini che
hanno dato al problema della esistenza un esito negativo irreversibile.
Gentile e Nietzsche. In una sola parola: Evola.
Il nichilismo in Evola presuppone l’arte in cui folgora l’evento
autarchico. Essa è già esperienza totalitaria d’una negazione radicale.
Il passo successivo è nella descrizione di questo evento: theôría di un
ab-soluto che si vincola alla liberazione.
Si badi. Il posto della filosofia è sin dall’inizio vagante perché
già occupato dall’Io. La descrizione dialettica di uno scatenamento è
un tornare indietro o un riconoscersi nel vortice. La riflessione del
precipitare attivamente nella vita. Ma dopo che l’essenziale si è
realizzato. Altrimenti Evola non potrebbe avere l’evidenza dello
scacco di ogni filosofia così come ha avuto quello di ogni arte.
E infatti:
“Ciò che viene realizzato al termine della categoria filosofica come
‘Io trascendentale’ è il principio attuale dell’esperienza oggettiva in
genere, v.d. il pensante di ogni pensare. Ora il pensante in quanto
tale non può essere oggetto di una costruzione o mediazione, v.d. di
un concetto propriamente detto. Quel pensante, che può essere dato
da un concetto, è la negazione del pensante ─ non il pensante stesso,
ma un pensato ─ il che contradice il principio della identità di forma
e contenuto che pur dovrebbe comandare il termine della categoria:
o, meglio, nel punto in cui il concetto pone davvero il pensante, esso
consuma la propria formazione discorsiva e spinge il centro in ciò
che, come potenza di ogni pensare ─ epperò anche di quello donde
può procedere la fissazione del concetto stesso del pensante ─ non
132
Capitolo II
può venire mai pensato, epperò cade fuori da qualunque
determinazione filosofica pur restando inevitabilmente postulato da
ognuna di esse. Così il concetto dell’Io trascendentale segna un
punto di crisi: da una parte esso deve venire affermato
filosoficamente ─ esso è la conclusione, il πέλος, su cui gravita
l’intero sviluppo del criterio di verità, esso è il principio della
perfetta risoluzione metafisica; ma questa affermazione o nega il
proprio oggetto e, dilacerata da una interna contradizione, si trova
impotente dinnanzi al proprio problema e a quello della filosofia in
generale; ovvero, se si adegua alla sua aspirazione più profonda,
nell’atto stesso di realizzarsi cessa di essere una affermazione
filosofica”376.
Idealismo magico è lo spazio di una sintesi di categoricità e
assolutezza. La filosofia ha un nucleo di irriducibilità oggettiva che
rende critica la sua espressione. Che non è mai espressione
dell’assoluto: “donde una fatale immanenza della nota di categoricità
e di universalità in qualunque giudizio speculativo in quanto è tale”377.
La visione fenomenologica evoliana s’apre su questa dialettica
bloccata di categoricità del momento filosofico che lo apparenta alla
scienza, e di assolutezza. Di quella tensione all’assoluto che è
liberazione dalla filosofia verso l’individuale. Qui risiede il
differenziale di potenza tra e scienza e filosofia che “resta dunque
fissata come la categoria nella quale un mondo contingente viene
intellettualmente assunto sub specie aeternitatis”378. Il suo destino
ineliminabile è quello di dar per contenuto dell’immutabile e
dell’eterno l’inafferrabile e il trasmutante. L’esito della filosofia è la
resa incondizionata alla sua impossibile vocazione: “Si può dire
‘veritas filia temporibus’, ma questa stessa è una verità che viene
messa fuori dal tempo”379. Il Sollen quale dovere della verità non può
darsi come assoluto. Se per Nietzsche la morale si supera per la
veracità che ne costituisce l’essenza, così per Evola la filosofia si
divora nella sua fondante aporeticità. L’assoluto categorico è il nodo
inestricabile che può sciogliersi nell’Individuo assoluto. E questo, al
376
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., pp. 153-154.
Ivi, p. 146.
378
Ivi, p. 145.
379
Ivi, p. 146.
377
133
Capitolo II
fondo della sua impraticabilità, è il cammino che si crea nel
percorrerlo. Caduco è quel che si dispiega nelle varie dottrine, siano
esse la filosofia della contingenza, la dottrina scettica, relativistica o
del divenire dialettico etc., e che sembra intrinsecamente evidente. Per
il concetto stesso della filosofia che deve rivestire d’assoluto la nuda
contingenza. E imprimere al divenire il carattere dell’essere. Dare
forma all’informe. Ordinare il caos. L’“in potenza” assoluta della
filosofia è la rivolta del contingente che la apre alla ricerca inesausta.
L’assoluto, nell’ottica critica è miraggio, conclusione sempre a venire:
“Ogni concetto, logica e sistema, materialiter ha sempre un valore
ipotetico, poiché il principium individuationis, la potenza profonda
che determina e afferma la varia realtà metafisica, è sempre il
principio della persona, v.d. un che di contingente, un particolare
tratto da una compossibilità”380.
Nel passaggio dal momento formale a quello materiale si
scopre che l’assoluto ha bisogno di un corpo, “e questo soltanto la
personalità può offrirglielo381”. Bene, ma questa incarnazione si attua
su un altro piano che non quello meramente filosofico. La qualità
contingente d’ogni possibile speculare abbatte la praticabilità della
meta:
“[…] se di là dallo scetticismo empiristico, vittorioso di un realismo
ingenuamente dogmatico, un idealismo trascendentale o critico rende
intellegibile e fondato un sistema dell’oggettività, tale idealismo da
un punto di vista ulteriore risulta un realismo trascendentale ed è
travolto da un contingentismo trascendentale”382.
L’accesso ad una dimora trans-filosofica è così spalancato.
“Via dell’Individuo Assoluto” o “teoria della libertà”.
380
Ibid.
Ibid.
382
Ivi, p. 147
381
134
Capitolo II
Filosofia della liberazione
“Non si può restare sempre sulle vette.
Bisogna ridiscendere. A che pro allora?
Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto”.
R. Daumal
“Quota neutra del Cimone 1917 – Roma 1924”383.
Al termine di Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto
si respira un’aria delle altitudini, un’aria forte.
Come al termine di una ascesa:
“Bisogna essere fatti per quell’aria, altrimenti non è piccolo il
rischio di raffreddarvisi. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa
─ ma come giacciono tranquille nella luce tutte le cose! Come si
respira liberamente! Quante cose sentiamo sotto di noi! La filosofia,
come l’ho compresa e vissuta fino ad oggi, è la vita volontaria tra i
ghiacci e le cime”384.
Sono parole di Nietzsche. Potrebbero essere di Evola, un uomo
che “preferisce batter da solo o quasi, la montagna, e tentarne le cime
più d’assalto, se così si può dire, che non per lenta, assicurata e
metodica conquista”385. Ascesa come ascesi.
Tra il 1917 e il 1918 Evola si trova vicino ad Asiago, assegnato
a posizioni montane di prima linea. Qualche anno dopo, firmerà su Ur
con lo pseudonimo di Iagla, questo ricordo personale:
“[…] un ricordo che non mi si cancellerà mai, quello di una notte di
guerra. Ero molto lontano, nel distacco lucente. L’allarme, ad un
tratto. Mi riafferro. Sono in piedi. Sono sulla linea delle batterie. Che
cosa allora si scatenò dal profondo, che cosa mi resse, che cosa mi
383
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 237.
Nietzsche, Ecce homo, Tascabili Economici Newton, Roma, 1993, p. 29.
385
J. Evola, Meditazioni delle vette. Scritti sulla montagna 1927-1959, Edizioni Mediterranee,
Roma, 2003, p. 119.
384
135
Capitolo II
portò miracolosamente in ore d’inferno, che cosa agì nella lucidità
soprannaturale di ogni gesto, di ogni pensiero, di ogni ordine, dei
sensi che afferravano ogni percezione prima della percezione (e
«caso» sia pur stato il restare illeso rimanendo in piedi ─ sentivo che
potevo restarvi ─ con granate che mi scoppiavano a passi) ─ non lo
saprei mai dire. Ma che cosa potevano essere gli dei omerici
immortali discesi in seno alle sorti epiche degli uomini, allora
certamente lo adombrai; e seppi ciò che non sanno, gli uomini, nel
loro misero parlare sugli idoli”386.
Il tenente d’artiglieria inizia ad elaborare “nelle tricee alpine” il
suo Teoria e fenomenologia dell’Individuo Assoluto. In piena guerra e
a stagione avanguardista non ancora esaurita. A conferma di quanto
sia fuorviante ridurre il flusso del suo pensiero e della sua vita in
periodi chiusi in se stessi. Non è solo questo però il motivo della
nostra epica citazione. Essa infatti, oltre che permetterci di insistere
sulla continuità ideale delle dimostrazioni evoliane ─ rese con una
estrema varietà dei codici espressivi che ne strutturano la coerenza di
fondo ─, ci offre un indizio importante per cogliere il significato della
sua soluzione filosofica. O della sua via filosofica alla realizzazione
dell’uomo. Una filosofia da intendersi quale formazione e non come
informazione. Stile di vita che forma l’animus. Esercizio filosofico
che scolpisce una “grande salute”. Come quella che può donare solo la
presenza del sacro nell’uomo. Trascendenza immanente. Questo è il
senso autentico della filosofia antica, che Evola chiamerebbe
“tradizionale”387. Il punto è la trasformazione dell’individuale nella
vita. Strappiamo qualche parola da una sua poco conosciuta lettera:
“Mi appare un po’ singolare il tuo bisogno non solo di parlare della
tua ‘conversione’, ma perfino di esplicare un amorevole…
proselitismo. Nei miei riguardi, per la ‘conversione’ che importa, per
quella che è un fatto indelebile di essenza, e non di sentimento o di
fede religiosa, sto a posto ─ esattamente ─ da tredici anni. Per l’altra
386
Ur, Rivista di indirizzi per una scienza dell’Io, anno II (1928), numero I, Tilopa Editrice,
ristampa anastatica, Roma, 1980, p. 136.
387
Sul pensiero antico come altissimo esercizio spirituale e sull’idea complessiva dell’universo
derivante dalla decisione di vivere la filosofia in comunità, cfr. Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia
antica, Einaudi, 1998.
136
Capitolo II
‘conversione’, nulla sarebbe più facile: basterebbe ‘limitare’ e
‘velare’”388.
Ebbene, a parte il tono informale che dona a queste parole un
fascino particolare cui il lettore devoto del “Maestro della Tradizione”
non è abituato (delizioso quello “sto a posto”, come si trattasse
dell’analisi del sangue ─ e in un certo senso…), la lettera è rivelatrice
per due motivi. In primo luogo la data: Vienna, 10 gennaio 1935.
Evola ha già pubblicato tutte le sue opere filosofiche e, tra le altre, il
fondamentale Rivolta contro il mondo moderno.
Inizio del 1935. Se sottraiamo quei “tredici anni” di cui parla il
Barone abbiamo il 1922 o meglio, la fine del 1921. L’anno in cui
“smisi bruscamente ogni attività in quel dominio in margine all’arte
e, dopo un punto morto, portai l’impulso che lo aveva suscitata su
altri piani, senza però deflettere. Subentrarono così nuove fasi,
intimamente concatenate, al di fuori del dominio estetico. A questa
stregua, non vi è nulla che io senta di dover rinnegare. Si tratta di
collocare ogni cosa nel suo giusto posto”389.
Secondo motivo. Quella “conversione che importa, […] che è
un fatto indelebile di essenza” è la nascita dell’Io. Nel superamento
della fase artistica in quella filosofica crediamo di aver dato le
coordinate di questo aurorale trapasso. Ora importa collocarlo in un
sistema energetico che faccia della liberazione la sua
“presupposizione» originaria390. L’origine, il farsi inizio della filosofia
evoliana ha nell’Io la sua epoca. L’accesso teoretico al mondo del
388
Cfr. Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), a cura di Gianfranco de Turris,
Quaderno n° 21, Fondazione Evola, Roma, 1987, p. 17.
389
J. Evola, La parole obscure du paysage interieur. Poème à 4 voix con due illustrazioni,
Quaderno n° 27, Fondazione Evola, Roma, 1992, p. 8. Il grassetto è nostro.
390
Sulla “libertà” quale (s)fondamento del pensiero evoliano Cfr. Massimo Donà, Un pensiero
della libertà. Julius Evola: filosofia e magia al cospetto dell’impossibile, in J. Evola,
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 13: “Introdurre un’opera come la
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto ─ una delle tappe fondamentali del percorso filosofico di
Julius Evola ─ obbliga a chiarire in primis quello che costituisce forse «il presupposto»
fondamentale di tutta la speculazione di un così grande pensatore, per troppo tempo rimosso dalla
cultura italiana. Il fatto è che la sua prospettiva speculativa muove davvero tutta intera da un unico
principio, indipendentemente dal quale, riteniamo, tutto il complesso e rigoroso sistema costruito
dal filosofo romano non sarebbe stato in alcun modo possibile”. Vedasi inoltre l’agile libretto di
Giovanni Damiano, La filosofia della libertà in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova, 1998.
137
Capitolo II
valore passa per l’esistenza, per quel principio-Io o potenza
dell’individuale che è origine. Il valore in quanto ursprung è
presupposto o risultato del processo? Il problema è quello del
cominciamento del sistema evoliano. Definiamo il valore che
introduce la Teoria. Questo principio risolutivo che Evola anticipa
quale compito o presuppone compiuto ha una essenza ambigua e se ne
sta come sospeso sulla propria identità. Esso è teoreticamente un
risultato ma esistenzialmente o intensivamente, una volontà d’inizio.
In ordine al problema della certezza è lo stato-limite oltre cui
non c’è un criterio ulteriore. Lo stato o concetto di valore è definito
“dalla relazione assoluta fra il nudo principio dell’Io e quanto,
nell’esperienza o coscienza dell’Io, è distinto da siffatto principio. Se
si designa tale distinto come essere, il valore resta definito come la
forma in cui la relazione fra Io ed essere si presenta come
incondizionata, come qualcosa che non ammette una ulteriore
mediazione”391.
L’essere invece è “al limite ideale del suo concetto”, quel che
nell’esperienza si dà come semplice presenza, puro fatto: “un
«esserci» (Da-sein) indipendentemente dalla potenza dell’Io e da una
qualsiasi relazione con un significato”. Il valore può allora definirsi
come la risoluzione di una tale in-condizionatezza dell’essere nell’Io
ossia la mediazione soggettiva di questa. La natura del valore e
dell’essere “è essenzialmente formale”392. Per “forma” dobbiamo
intendere il modo o funzione secondo la quale una determinata
esperienza o determinazione della coscienza viene vissuta dall’Io.
“Essere e valore […] contrassegnano sostanzialmente dei livelli dello
spirito”393. Il valore poi, può al limite essere inteso come “la completa
risoluzione di ciò che è «materia» (la determinatezza di un dato
contenuto dell’esperienza) in ciò che è «forma»” 394. La relazione che
definisce il valore è assoluta e richiede che la totalità di una data
qualificazione dell’esperienza venga interamente consumata in un
391
J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto, Mediterranee, Roma, 1998, p. 25.
Ibid.
393
Ivi, 25-26.
394
Ivi, p. 26.
392
138
Capitolo II
“lampeggiamento dello spirito”395. Evola considera tre aspetti della
sua essenza: il momento del comprendere, l’esperienza del possesso o
del puro dominio e un possibile aspetto della volontà che è volontà di
se stessa, pura, assoluta determinazione. Questi tre fenomeni
comunicano nella loro “in-potenza”, in quanto l’oggetto è “ancora in
un certo modo distinto dalla relazione che lo riprende”, di giungere al
valore: la perfetta riduzione all’identico396. Esso appare come
riduzione
dell’incondizionatezza
privativa
=
riduzione
dell’incondizionato dell’essere, all’incondizionatezza positiva =
riduzione all’incondizionato dell’Io. Siamo in quel che Evola
denomina “piano dell’assoluta certezza” o “stato di giustizia”, che ha
come presupposto essenziale il “principio della libertà”. E ad esso non
si giunge che in grazia di una spontaneità assoluta: un movimento
interiore che procede da pura iniziativa. Vogliamo chiamarlo un salto
dell’essere397.
Evola si riferisce all’esperienza comune. In essa, quel che si
impone necessariamente all’uomo, la sua forma ossia il modo in cui
viene vissuto, dipende da lui, dalla sua libera iniziativa: “l’Io è
estrema istanza a se stesso”, senza scuse e appoggi 398. Il punto del
valore è quello di una superiore potenza. Ma nella nostra esperienza
non c’è nulla che non incorpori già il valore, che non ne partecipi la
potenza, sia pure presso ad un momento di “privazione”: “[…] la
partecipazione al valore è la condizione trascendentale per la
possibilità di ogni certezza e conoscenza”399.
La “categoria” che si affaccia nel valore supera agli occhi di
Evola sia l’incompletezza formale di quella kantiana che quella
completamente formale dell’idealismo assoluto post-kantiano. Se per
filosofo si intende, con Simmel, “colui che possiede un organo di
reazione per la totalità dell’essere”, allora l’Individuo Assoluto è colui
che sposta il proprio centro al livello del valore400. Da qui l’affinità
con le forma più alte di ascesi in cui “si tratta appunto di una presa di
posizione vivente di fronte a tutta la vita”401.
395
Ibid.
Ivi, p. 27.
397
Ibid.
398
Ivi, p. 28.
399
Ibid.
400
Ibid.
401
Ivi, p. 29.
396
139
Capitolo II
Merita una considerazione particolare il problema del valore
colto nel suo sorgere. La semplice esistenza, la vita passiva può essere
una soluzione in quanto l’esserci contiene il criterio della validità.
Essa appare da un lato come negazione del problema: rispetto alla
relazione incondizionata che la definisce l’Io è determinativamente
assente. Dall’altro lato però non è detto che questa assenza sia
originaria, potendo essa riflettere un significato particolare in cui la
relazione può essere assunta. Si presenta dunque “sul limite del puro
dato esistenziale” quell’ambiguità cui più sopra abbiamo accennato.
Essa è significativa poiché rivela che il sorgere del problema del
valore costituisce un “inizio assoluto” in quanto non è posto presso
all’essere. Se lo fosse, lo stesso essere non sarebbe più posto. Esso
apparirebbe non come un antecedente ma come “possibilità di valore”.
Ebbene, il non-porsi del problema non è un problema. Problematica è
la possibilità che esso si ponga. La questione si risolve quindi solo col
rinvio ad
“un atto di assoluta libertà, […] un atto, di cui non tanto si può,
quanto non si deve chiedere una ulteriore ragione, perché tutte le
ragioni non vengono che dopo”402.
Evola parla di un “moto doppio”. L’Io è infatti nello stesso
tempo “liberato dal mondo” e “centro di responsabilità universale”403.
Posta la volontà di valore, ogni condizionalità è sospesa e la forma
gravita di diritto sull’Io. Ogni materia deve sublimarsi fino a completa
trasparenza.
Abbiamo insistito su questa introduzione del valore seguendo
quasi pedissequamente il testo evoliano perché senza questa chiave
l’accesso al sistema è precluso. La situazione è paradossale ed il genio
di Evola ha reso formalmente la sostanza della vita in una circolarità
senza scampo. L’accesso infatti è la decisione. La volontà del valore è
causa e fine del processo quale atto immediato che ha la sua origine
nel principio dell’Io. Ma il valore non può porsi che come premessa
non necessaria e quindi solo come risultato logico se non è
immediatamente voluto. Tanto è vero che il discorso del pensatore
402
403
Ibid.
Ibid.
140
Capitolo II
romano si sviluppa dallo “stato empirico di esistenza” ed arriva dopo
al valore che pure l’ha introdotto. Questa sua obliqua presenza
dipende dall’essenza del discorso filosofico che deve cominciare in
una zona neutra in cui il valore non è né presupposto e né risultato. In
sintesi: non è ma può essere. La posizione che apre la Teoria, e in
questa apertura tradisce la filosofia come astrattezza, è quella della
vita.
L’inizio è una domanda senza risposta. Nel passaggio dal nonvalore al valore il cominciamento è una coscienza dilacerata che
rispecchia il valore della condizione umana o stato della coscienza
empirica:
“in essa una violenza congiunge in un punto, di là dal quale non si
può risalire, l’essere di diritto e l’essere di fatto, il valore e il nonvalore, l’assoluto e il finito, la libertà e la necessità. In essa la
coscienza
è
assolutamente
ambigua,
oscillazione,
tensione,
antiteticità: ciò in cui le riluce la vita è anche ciò per cui soffre la
morte. Questo è il fatto, l’ὅτι elementare ─ il primo «essere» da
risolvere in «valore»”404.
La Teoria dell’Evola è risoluzione dell’essere in valore che può
iniziare senza mediazione alcuna.
L’evento dell’Io accade. La soluzione è già nella posizione del
problema. Il cominciamento è attraversato da una doppia possibilità.
L’inizio si trae da se stesso quale metanoia, salto, risveglio. Esso si
gioca nella realtà della coscienza empirica. L’idealismo magico nasce
nel valore della nuda esistenza ove s’affaccia l’incondizionato.
Il salto è attività libera. E si compie nella vita.
La ricerca del principio conduce dunque al niente. A quel
sorgere della libertà che non è mai data una volta per tutte. La filosofia
evoliana non è infatti una filosofia della libertà quanto piuttosto una
filosofia della liberazione. La distinzione è importante. La
libertà
non si riduce ad ente, non è oggettivabile ed in quanto tale,
inesauribile. Di là dalla semplice presenza di quel che è, essa non
tanto è nel mondo ma si fa mondo con-tenendo l’affermazione e la
404
Ivi, p. 58.
141
Capitolo II
negazione quali compossibilità. L’idealismo magico è un processo
dinamico in cui l’Io si libera affermando libertà e necessita come i due
volti d’una stessa identità. La possibilità assoluta. La libertà evoliana è
libera in senso eminente soltanto perché la sua caduta è sempre
possibile. Dio è onnipotente attraverso la ferita. La libertà è il
momento di un processo che non finisce mai e proprio questa tensione
dinamica è il motore dell’opera evoliana. Se la libertà fosse uno stato,
una condizione da acquisire una volta per tutte non sarebbe libera.
Liberazione allora da qualsiasi vincolo, sempre oltre: l’illusione,
l’errore, la menzogna. In questo essere libera anche da se stessa la
libertà coincide col momento ri-velativo della nostra coscienza aperta
al mondo. E non incatenata alla relazione cartesiana tra soggetto e
oggetto. L’inesauribilità della libertà non è fondante ed ultimativa.
Una leggerezza carica di responsabilità la anima e la spinge sempre al
limite della propria differenza: a farsi impossibile. Una odissea è
questo suo ritornare nell’infinitamente altro della sua origine. Inizio
innocente sempre sul punto di delirare. Insondabile destino che
“lascia essere” e non violenta mai le cose nella sua inesausta capacità
di attrazione e repulsione, nel suo traboccante “distacco”405.
Un baratro di luce.
Non è stata sufficientemente valutata dalla critica la portata e la
fragilità di questo nodo metafisico che scioglie il luogo della libertà
(Io) nella sua liberazione (assoluto). L’Io decide di dispiegarsi nella
libertà in cui il dato empirico era da sempre ac-caduto. Nella
progressione dal meno (privazione) al più (dominazione) non si tratta
però d’una linearità-necessità che potenzia l’Io. Il salto dell’essere
conduce liberamente l’Individuo ai confini della propria integrità, lo
risolve nell’amore di tutto quel che è. Il processo è sommamente
rischioso perché mai garantito. Non è detto che l’Individuo possa
405
Cfr. J. L. Nancy, L’‘etica originaria’ di Heidegger, Cronopio, Napoli, 1996, p. 15: “[…] il
lasciar essere non è una passività, ma è appunto, l’agire stesso”. La decisione della libertà. Sul
carattere non violento dell’azione attiva propugnata dall’Evola, misconosciuta da molti suoi critici
di ieri e di oggi: “Volere una cosa per sé stessi, è lasciar prendere l’Io dall’oggetto della volizione
e rinunciare quindi a priori ad averlo realmente. Del pari, l’azione violenta ed appassionata contro
delle cose testimonia che esse hanno a priori per l’Io una realtà e, a dir vero, proprio come antitesi,
e non riesce quindi a superare l’antitesi, ma solo a esasperarla e riconfermarla e a negare il piano
dell’assoluta autodeterminazione. Violentando le cose, si va in realtà a violentare solo l’Io, poiché
ciò implica sbalzare l’Io fuori dal punto che non ha nulla di contro a sé. Il principio fondamentale
della magica è che per avere realmente una cosa, occorre volerla non per l’Io ma per sé stessa,
ossia amarla”, in J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 89.
142
Capitolo II
sopportare la tensione della libertà. Se di fondamento si può parlare, la
libertà del sistema evoliano è tale solo nella sua sempre possibile
assenza, deriva, sfaldamento. L’Individuo Assoluto è il nome di una
conquista continua: un dio che corre lacerando il niente che l’avvolge.
L’equivoco fomentato da chi ritiene Evola un filosofo della violenza e
della sopraffazione non esiste. Tuttavia va compreso in quanto rientra
fatalmente nelle maglie d’una ermeneutica dell’essere. Già Nietzsche
insegnava: l’uguale trae l’uguale. Più chiaramente: la rilevanza
teoretica data da Evola al concetto di libertà non è unidirezionale, ma
può essere attraversata in due sensi, quindi anche non attraversata.
Insistere su un solo lato significa mutilare la libertà. Credere poi
che uno di essi significhi violenza o “dominio” significa non
comprendere che l’Individuo è spietato con se stesso perché solo in se
stesso può raggiungere, capire e, si badi!, aiutare gli altri. Il processo è
realizzativo, positivo ed in questo suo procedere si occulta il negativo.
La possibilità del non essere è reale e potente quanto l’altra.
Ogni uomo è solo davanti al bivio della rettorica e della persuasione.
Ed è solo ancor più se decide di percorrere la via individuale. L’altra,
si fa vivere. L’Individuo Assoluto nella sua continua sottrazione al
limite è sempre proiettato verso il mondo: sovrano dell’eccesso. Egli è
quanto di meno conciliato e soddisfatto si possa immaginare. Perché
della stessa morte ha fatto dimora di libertà406.
Il coraggio dell’Uomo che Evola vuole al centro della sua
visione e attraverso i cui occhi vede la liberazione è quello
dell’assoluto. E solo per questo il suo sistema è stra-ordinario ed infondato. L’idealismo è l’impeccabile rovina della forma che Evola
applica all’esistenza. E si fa magico nel coronamento ultra-razionale
(non irrazionale!) della vuota astrattezza. Si libera così della “ragione”
e consolida la posizione autarchica.
Il principio da cui filosoficamente Evola muove ─ ma è un
principio fecondato dal ritorno ad un sapere altro che già da
giovanissimo lo aveva prepotentemente informato ─ è l’esito
idealistico della filosofia moderna. Esito infausto perché fermo ad una
glorificazione puramente formale o cerebrale del valore trascendentale
406
Cfr. F. Nietzsche, Il canto dei sepolcri, in Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2003 p.
128: “Sì, tu sei ancora in grado di spezzare tutti i sepolcri per me: salve a te, mia volontà! E solo
dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni”.
143
Capitolo II
dell’Io. Il filosofo romano distrugge gli ingranaggi di una meccanica
della necessità che dopo la grande rivoluzione kantiana aveva
costretto la relazione dell’essere e del pensiero nella loro reciprocità
dialettica. E successivamente lo aveva inabissato nella perfetta
gratuità di un Geist assoluto. Il delirio logico in cui affondava la
natura del nuovo Io imprigionava così il suo conato manifestativo
nella possibilità negativa di quel che sarebbe potuto anche non essere.
Evola comprende questa stessa possibilità e ne fa il motore di una
indipendenza assoluta, perché sciolta irrimediabilmente da quel che
deve essere. L’arbitrio della potenza è questa liberazione.
Impossibilità per i limiti di una teoria della conoscenza e per questo
abbandonata nei lidi in cui la vita si lascia “riflettere”. Da qui la
poiesis magica ed il divenire fattivo del gesto pensante che nel sistema
evoliano è energia.
Teoria è un libro agitato da suoni metallici: gli scontri di una
logica ferrea contro il muro del volere.
Evola sa che l’Io è esperienza raccolta dal pensiero quando il
tempo sospende il proprio essere estatico-funzionale per divenire
attimo immenso ─ disvelato nella immanenza totalitaria. Pura libertà
o potenza dell’Io. Se la manifestazione obbedisse ad un destino
superiore che divora tutte le possibilità, la libertà sarebbe uguale alla
necessità. E dovrebbe dirsi e darsi esclusivamente nella forma di un
riconoscimento di quel che è già stato. Uno “stupefatto
fenomenismo”. La datità dell’ente sarebbe libera… di essere quello
che è! Se si desse una eccedenza del possibile sul reale invece, l’Io
potrebbe nietzscheanamente “volere al contrario”. La liberazione è
anche sottrazione del tempo quale immobilità dell’Io che prostituisce
al presente passato avvenire il suo compimento. Il dinamismo pratico
della posizione evoliana al contrario è sempre caccia all’eternità,
insoddisfatta tensione al limite.
L’eterno presente di una ascesi dell’azione.
La libertà non è il nome di una vana illusione garantita dalla
speculazione sull’Io. Insomma Evola esige la perfetta libertà dell’Io
post-idealistico tradita dalle sue stesse premesse. L’esigenza è
legittima e teoreticamente ineccepibile. Tuttavia in forza di questa sua
radicalità s’espone come deliberato invito al fraintendimento.
Totalitario è forse lo stesso di totalitarista?
144
Capitolo II
Evola tenta davvero l’impossibile: sottrarre la libertà alla catena
della necessità e redimerla nell’illimitato arbitrio dell’Individuo407.
O la libertà è la liberazione dell’Io, o essa non è. Il che significa: o l’io
si libera o resta una irriducibile aporia il cui svolgimento è reso dalla
filosofia evoliana con una partecipazione tale da farsi evento. E per
qualcuno forse, eventualità. L’Io come accadimento originario nella
libertà può essere nello stesso tempo auto-toglimento, revoca e
rinuncia. La possibilità del secondo sentiero, la via dominata
dall’“altro”. Questione di vocazione o “natura propria”. Tuttavia è
chiara la decisione evoliana. E questo spiega il carattere ermetico
della sua filosofia letteralmente invasa dalle dottrine realizzative
d’Oriente e d’Occidente e impregnata d’una qualità iniziatica che non
lascia scampo ai suoi stanchi epigoni408. Una domanda infatti: quali
sono le condizioni soggettive ed oggettive della filosofia evoliana?
Ma forse il barone non ha insistito a sufficienza sulla irripetibilità
della sua esperienza e sull’unicità della sua via (e)soterica. E allora
siamo alla funzione rigeneratrice, palingenetica ed affermativa di un
sapere che ostinatamente s’insinua tra le pieghe di un tempo in vena di
declino. Una epoca cui Evola apporta il suo contributo pontificale. Un
tonificante per rinvigorire le membra dell’Occidente piagate dal
devozionismo passivismo a-teismo, sia esso poi quello più
schiettamente filosofico o quello di una tradizione iniziatica
sacerdotale abortita nel culto particolare ─ non doveva essere
cattolico? ─ di una potenza mondana provvidenzialmente adeguatasi
al secolo. Il guardare indietro della sua filosofia non è la triste
rammemorazione del paradiso perduto: malinconia al tramonto della
civiltà trafitta dai raggi aurei del satya yuga. No! È la visione di quel
407
Cfr. U. Spirito, L’idealismo italiano ed i suoi critici, Le Monnier, Firenze, 1930, p. 197: “Per
Evola […] la vera libertà si identifica con l’arbitrio, col principio sufficiente di una legislazione
assolutamente arbitraria. Libero è veramente quell’uomo che con un atto assolutamente primo può
negare tutto e affermare tutto, l’essere e il non essere”.
408
Cfr. Massimo Scaligero (Dallo Yoga ai Rosacroce, 1, 32) citato da Pio Filippani-Ronconi,
Julius Evola: per una impersonalità attiva, in Julius Evola, un pensiero per la fine del millennio
(Atti del convegno di Milano, 27-28 novembre 1998), Fondazione Julius Evola, Roma, 2001, p.
17: “capii che di Evola non ce ne poteva essere che uno solo valido e non delle copie: tutto il suo
insegnamento, il suo Yoga, il suo Tantrismo, il suo ‘Grande Veicolo’ presuppongono la qualità
interiore originaria, la magia immaginativa, che per il cercatore moderno è un punto d’arrivo […]
Essendo la cosciena immaginativa la condizione per la coscienza magica, l’arte del discepolo è
ritrovare dietro il pensiero riflesso la luce immaginativa […] laddove il suo pensiero coincideva
con il proprio contenuto ideale, ivi di volta in volta, si accendeva la intuizione della Realtà, come
interiorità del medesimo processo pensante”.
145
Capitolo II
che siamo (stati) e che non vogliamo più essere. Ancora più
importante: che possiamo ancora essere. Una sfida alla viltà degli
abitanti dell’“impianto” (Ge-Stell) moderno che prestissimo rivelerà la
sua orribile fisionomia. Forse proprio in virtù del suo “pathos della
distanza”, Evola sembra sempre avere una gran fretta, e talvolta la sua
immobilità spirituale o fermezza interiore sembra vacillare. Una sorta
di rincorsa alla decadenza, quasi avesse il presentimento di un evento
prodigioso imminente.
Oltre ogni astratta e concreta opposizione ─ la vista di quel che
siamo in quanto uno ─, Evola scaglia la sua filosofia come tentativo o
forse tentazione. Affinché la capacità attrattiva della virtus aduni
intorno a sé i vocati al ricordo. Quello della nostra doppia natura
tutt’altro che irreparabile o condannata alla lacerazione. Per non
parlare di oltremondani destini di tortura o di metafisica beatitudine.
L’uomo è qui ed ora e non vuole essere salvato ─ se non da se
stesso. E lo spazio del nostro distanziamento dal vero dura l’istante
della decisione. Spirito è il “principio profondo dell’individuo” che
può sempre ri-trattare la libertà “non appena lo si voglia e in quanto lo
si voglia”409. Il percorso è sempre reversibile non solo perché
possibilità di un altrimenti ma anche e soprattutto come l’altrimenti
impossibile che quel che già è non sia ancora.
Sul fondo della libertà giace una impossibile possibilità:
“A chi dunque chiedesse se per avventura, si pretenda che i varî
gradi, che verranno determinati, siano proprio le tappe necessarie ed
inconvertibili dello spirito, si risponderebbe naturalmente: Sì e no. S
ì a posteriori, in quanto in essi si esprime una affermazione assoluta
dell’individuale, la quale non ne ha altre di contro a sé che come
errore o come momenti in essa riprendibili, dato che ciò appunto egli
vuole come verità. No in quanto il valore di individualità
dell’affermazione che, solo, secondo gli esposti principî, può
garantire l’assoluta certezza e l’inconvertibilità sia di quei gradi che
della specifica lor concatenazione, implica che nel livello più
profondo dell’affermazione stessa sia attuale la persuasione che se
409
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 45.
146
Capitolo II
essa è così, può anche, non appena lo si voglia e in quanto lo si
voglia, essere altrimenti”410.
Affermazione e negazione si danno insieme nel tempo in cui le
cose che accadono potrebbero non essere ancora accadute. Non vi è
resa al dato nel necessario dispiegarsi del fenomenico: destino della
libertà o decisione custodita nelle profondità dell’Io. Eccedenza della
volontà.
Evola è nemico dell’universale indifferenziato:
“tutte quelle direzioni di sviluppo tendenti a sciogliere come che sia
il nucleo dell’individualità in un ‘universale’, in un principio
superiore indifferenziato ─ come in certe mistiche e in certe correnti
iniziatiche occidentali ─ facendo cadere il momento della
distinzione, sono da dirsi regressive, degenerative, volgenti non ad
un sovrumano, ma ad un preumano ─ al mondo della qualità”411.
La tradizione esoterico-magica cui espressamente si richiama
collegando ad essa il proprio sforzo di elevazione, rifugge con
violenza dalla estatica contemplazione del vero e da una fede rivelata
esclusivamente dalla compattezza del sentimento che la ispira412.
L’universale ha senso solo se “assunto dall’Io per l’assoluta sua
purificazione”413.
Dopo la “Grande Solitudine” in cui l’Io ha “saputo gittar via
tutto” portandosi alla disperazione, l’esperienza del Fuoco vede l’Io,
per il puro amore della contraddizione e della negazione, tenersi
fermo nell’incendio di quel che costituiva la sua vita.
410
Ivi, pp. 44-45.
Ivi, p. 183.
412
Cfr. J. Evola, La Dottrina del Risveglio, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pp. 95-96:
“L’essenziale […] è il metter l’uomo di fronte alla inattenuata conoscenza di se stesso e di tutto ciò
che è condizionato, per chiedergli: «Puoi dire: questo sono io? Puoi veramente identificarti con
questo? È questo che tu vuoi?». Tale è il punto della decisione fondamentale, tale è la pietra di
prova per la distinzione degli ‘esseri nobili’ da quelli volgari, è qui che si separano le essenze, è
così che si definiscono le vocazioni. La prova, nel buddhismo, ha dei gradi: dalle forme più
immediate di esperienza il discepolo è condotto a stadi superiori, ad orizzonti soprasensibili, al
tutto, a mondi celesti, per rinnovare la domanda: Questo sei tu? Puoi identificarti con ciò? Puoi
esaurirti in ciò? È ciò tutto quello che vuoi? L’essere nobile finisce col rispondere sempre di no.
Allora si ha il rivolgimento, la revulsione. Per questo, egli lascia la casa, rinuncia al mondo e
prende la via dell’ascesi”.
413
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 184.
411
147
Capitolo II
Dal dilaceramento si integra. Nella distruzione si crea Signore
del fuoco:
“nell’indeterminazione delle cose e delle leggi che vengono meno
all’impeto selvaggio egli celebra il valore dell’autarchia”414.
Qui l’Io si è, secondo l’espressione alchemica, lavato nelle
Acque (: “la potenza strumentale «feminile» ─ che in sé è dinamicità
pura, caotica, scatenata ─ del supremo principio «maschile»”) che gli
hanno donato durezza e infrangibilità: “disciolto, cioè liberato e
integrato nel principio dell’originaria indeterminazione”415. Ma è
soltanto una fase preliminare che consente all’Io di farsi “ente di
agilità”. Dopo, potrà negare questa stessa negazione sotto l’imperio
d’una volontà superiore: l’amore o “soffrire attivo”. Questo Io, ormai
“fuoco purificato” è in perfetta armonia col ritmo dell’essere perché fa
sue le cose mediante l’amore, com-prendendole.
Si può realmente dominare soltanto dopo aver amato in un
rapporto di identità:
“Così: mentre nell’«esperienza del fuoco» l’Io traeva la superiorità
dalla potenza, qui volgerà a trarre la potenza dalla superiorità, e
questa dell’ [dall’] esasperata durezza di un soffrire, di un rinunciare,
di un sacrificarsi là dove tutta una forza mostruosa tenderebbe invece
all’affermazione”416.
Il Fuoco diviene Luce. Questa intrepidezza del soffrire si vuole
come “una dedizione che non chiede nulla”: l’elemento dell’atto
perfetto che è nel vuoto di un dono inesauribile. L’Amore qui è “un
soffrire attivo, purificato, intrepido ─ un soffrire che si dà a sé stesso;
è, d’altra parte, l’elemento di un atto perfetto, dell’atto per eccellenza,
ché tale è l’atto di colui che sa assolutamentre abolirsi, nulla riferire a
sé”417. Il dire sì alla vita. La dipendenza dell’azione negativa è risolta
nella “freschezza” che è “libertà dall’Io e libertà delle cose”. Il dato è
ora atto di una superiore libertà senza appoggi, relazioni:
414
Ivi, pp. 183-184.
Ivi, p. 184.
416
Ivi, p. 191.
417
Ivi, p. 190.
415
148
Capitolo II
“Questa azione liberata discioglie dunque dal piano in cui il mondo
particolare non è che nella forma di un puro, esteriore apparire, o
esserci, del suo caput mortuum fenomenico-ideale; genera un
organo, una possibilità in cui possono venire evocate le più profonde
potenze che stan sotto quel mondo stesso”418.
L’Io è tutto poiché “nulla è, che non sia per l’Io”. Ed egli è
assoluto o libero solo perché scioglie ogni fissità vivendo l’infinito
come la sua più intima natura. Da qui la calma trionfale che sta al
fondo dell’animo autarchico quale “signore interiore” di un mondo da
cui si libera e che è nello stesso tempo liberazione.
Ecco perché fatichiamo a capire come si possa definire
“vitalistico” il pensiero evoliano, se per vitalismo si intende il vano
agitarsi in preda all’angoscia inconoscibile, che peraltro Evola non
esitava a riconoscere in buona parte della cosiddetta filosofia
dell’esistenza419.
Il fremito, il fervore, la sete, la brama, il patetico incatenamento
alla forza della vita etc. non ci sembrano in nessun modo costituire il
nucleo di questa apologia della fermezza interiore. Tanto più che la
stessa valenza titanica di certe formule esperienziali si dà come
miccia, accensione di un particolare status interno, strumentale
all’alzarsi in piedi, al possedersi, al consistere senza sforzo, con
gratuità, leggerezza, “freschezza”.
Lo spirituale non può essere faticoso, muscolare, violento.
Questo deve essere chiaro. Ed Evola ha detto e scritto su questo parole
di una solarità accecante.
Qui basti un esempio:
“La violenza titanica e distruttiva, pur costituendo una fase
necessaria ─ ché da essa è inizialmente eccitato il Fuoco interno,
destato il senso dell’indomabilità audace e della superiorità ─ non
saprebbe in sé stessa giungere all’ordine di una vera dominazione.
Dinnanzi a questa, essa rappresenta piuttosto un negativo. Infatti la
potenza vera non può avere nemici, non può lottare, non può avere
418
419
Ibid.
Cfr. J. Evola, Il vicolo cieco dell’esistenzialismo, in Cavalcare la tigre, op. cit., pp. 77-96.
149
Capitolo II
alcun «contro». Con la lotta, l’intolleranza e la violenza si conferma
invece uno stato di particolarità, un agitarsi incatenati allo stesso
livello di ciò che si nega: una volontà che è così assurdo possa farsi
signora del tutto, quanto una mano dell’intero organismo: qui l’Io
non è ancora libero dalle cose, conferma che esse possono resistere,
e tanto più, per quanto più, soffrendole, vuole negarle ─ testimonia
dunque una impotenza, un rapporto estrinseco e dipendente: in
fondo, con la usa stessa temerità dà segno di paura. Chi veramente
può non lotta, non distrugge, non ha bisogno di violenza. Egli si
impone direttamente, senza azione, mediante la sua interiore
individuale superiorità rispetto a ciò a cui egli comanda”420.
Il “dominio” di cui parla Evola non annienta le cose, l’“altro” o
non sarebbe tale. Più semplicemente ne risolve il carattere di antitesi,
di correlazione, di “contro” ─ diabolus è l’ostacolo, l’objectum, ciò
che contrasta, che resiste, che testimonia dunque una attività
imperfetta, quindi alterata, impura ─ e dunque le organizza
interiormente in una libertà che non lede la diversità e l’autonomia
degli esseri ma li prolunga soltanto, facendo dell’Io la loro
dimensione occulta: una radice sottile, una forza invisibile che agisce
dal “dentro” delle cose421. Già qui, in questo concetto dell’amore si
riesce a presentire il vero “luogo” della magia “che ancora non è
precisamente quello della presente esperienza”422.
420
Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 191. Il grassetto è nostro. E ancora, ivi, p.
217: “Ma il nodo tagliato non è nodo sciolto, anzi il tagliare è un riconfermare l’insufficienza, il
dualismo. Che non resti alcun residuo, alcun dualismo, nulla che io non possa assumere ─ ciò
chiede invece uno «stato di giustizia». La stessa riduzione delle «acque», allora, non saprebbe più
essere che uno stadio provvisorio. Il ridurre, il lottare, il trasformare come che sia, non implica
forse, alla fine, una non-sicurezza, una paura? un dubbio nello stato di assoluto potere? Lo stesso
dominio, in quella forma immediata nella quale è apparso, non smaschera forse, in fondo,
preoccupazione?, bisogno di prova, un volere la persuasione anziché essere persuasione? un atto
dunque a cui il valore non è possesso attuale, qualità immanente, sibbene trascendenza, e
dipendenza?”.
421
Cfr. Edmondo Dodsworth, Sull’‘Individuo Assoluto’. (LA TRADIZIONE E L’IMPERO), in
Regime Corporativo, Anno XVIII – N. 10-11, Ott.-Nov. 1939, XVIII, p. 546: “In breve esiste
un’organizzazione metafisica della libertà.
422
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 191. Cfr. J. Evola, Il cammino del
cinabro, op. cit., p. 48: “Né mancava uno sfondo escatologico: la natura, quale «privazione», nonessere; il punto del realizzarsi dell’Individuo Assoluto come quello in cui essa è redenta e passa
nello stato di un essere assoluto, racchiudente il suo principio e la sua fine (la «consumazione
finale», l’ekpurosis). […] in quella [:la via] dell’Individuo Assoluto, io non posso isolarmi in
un’astratta sufficienza, contrapponendo l’Io come valore al non-valore del mondo, a cui nego una
realtà, ma che tuttavia esiste. Posto da me (anche se non come volontà libera ma come
«spontaneità»), del mondo io sono responsabile. Se non devo essere dilacerato nel nucleo
150
Capitolo II
Amore è sacrificio (render sacro), l’atto con cui il dio si
abbandona, nel senso di una sicurezza assoluta convertita in dono: “il
non volere la liberazione dal mondo ma il mondo come liberazione
[…], tale è il senso del Dio che si crocifigge al «legno del mondo»,
che sacrificandovisi tutto e uccidendovi il «regno dei cieli», lo redime
e si purifica ─ si avvia alla spaventevole purezza dell’assoluta
giustizia”423.
Il tono fortemente drammatizzato di tali espressioni non
inganni. Si tratta, come Evola ha cura di evidenziare, non di
sentimenti, di fervore mistico-devozionale, di passivismo teistico o di
eccessi poetici etc:
“[…] queste sono esperienze metafisiche, non umane, del tutto
trascendenti il mondo sentimentale”424.
Quando Evola parla di “corpo magico” o “corpo di libertà” o
“corpo immortale” o ancora riferendosi alla gnosi ellenistica di “corpo
radiante o di fiamma” etc. non si deve pensare ad un corpo particolare
vivente fra altri condannati alla mortalità, ma ad un corpo in cui ciò
che è «materia» è risolto in forma di attività:
“Si tratta […] essenzialmente di funzioni, e di funzioni, che
trascendono ogni particolarità. Il «corpo immortale» è come la
possibilità di infiniti corpi: vi è la moltitudine stessa dei corpi
profondo del mio essere, esso deve esser risolto nel «valore». Si ripresentava quasi la concezione
gnostico-manichea dell’Uno cosmico crocifisso nel mondo come senso dell’esser-nel-mondo, ma
senza né dualismo né pessimismo, un circolo chiuso che non ammette scuse o fughe. L’Io stoico e
l’unico di Stirner dovevano passare nella forma dell’atto puro aristotelico, risolutore del mondo
della necessità e della vita mista a non vita”. I grassetti sono nostri. A proposito del carattere
“stoico” della dottrina evoliano, cfr. Alfonso Piscitelli, Socrate, Marco Aurelio & Julius Evola.
Intervista con Piero Di Vona, in Futuro Presente, numero 6, primavera 1995 p. 127: “[…] un libro
come Cavalcare la tigre è di evidente ispirazione stoica. Dal confronto con certi testi come il
Manuale di Epitteto o i Ricordi di Marco Aurelio le analogie saltano all’occhio. «Cavalcare la
tigre» nel nostro tempo è un’opera che presenta un’omologia con quella che nel mondo antico
poteva essere la dottrina degli stoici… è un «breviario per coloro che non credono». Sta bene,
tuttavia si ricordino queste parole del giovane Evola: “[…] lo stoicismo, cioè la vita di colui che
non sa dare un corpo alla propria fermezza e che però, dovendo in ogni caso agire a causa del
correlativo del mondo della riflessione, soffre in ogni azione una contradizione e una violenza”, in
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit, p. 185.
423
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 218.
424
Ibid.
151
Capitolo II
compresa nel punto immortale di una funzione creativamente libera
in cui essi sono immediate mante uno”425.
Tre sono i mondi, o come le chiama hegelianamente Evola, le
“epoche” della sua rivoluzione (revòlvere) fenomenologica.
Il processo si caratterizza per la contingenza di questi tre
momenti, sempre liberi, che non si trovano nel loro antecedente ma
hanno la loro ragione di essere nell’atto dell’Io: Epoca della
spontaneità, Epoca della personalità ed Epoca dell’Individuo o della
potenza426. In esse l’atto passa dapprima dalla “formazione oggettiva
della soggettività” per cui le cose sono nella forma del loro apparire,
quasi come disciogliesse l’oggettivo “nella forma di assoluta
esperienza, di autoaffezione, di puro sentirsi. È la categoria della
qualità o sensazione originaria”427. Ed è il mondo della spontaneità
primigenia. Il momento ulteriore restaura l’oggettività e presso al
secondo momento “la libertà diviene un distinto formale”: l’Io si vive
come altro rispetto ad una immagine non più astrattamente universale
ma contenutisticamente determinata. È il mondo della personalità e
del pensiero riflesso. Infine l’Io si distingue secondo una concretezza
che trae “dal non-essere del mondo formale, che ormai riprende ogni
realtà, una esistenza incondizionata, magica, onde ogni in-sé,
immediatamente come tale, realizzi ed esprima la potenza e la natura
dell’assoluto per-sé”428. È il mondo del superuomo.
La compiuta sintesi permette di superare lo stato puramente
umano nella possibilità dialettica di un terzo movimento che varca “la
soglia del mondo delle scienze ermetiche e magiche”429.
Un simile ordine ultra-razionale, l’Io non lo va ad accogliere
dall’altro quasi fosse una grazia che come l’insperato vien da sé.
L’Io se lo crea.
La via (methòdos) si dispiega nel percorrerla.
425
Ivi, p. 221.
Ivi, p. 52.
427
Ivi, 57.
428
Ivi, p. 181.
429
Ivi, p. 187.
426
152
Capitolo II
Senza dubbio
“[…] deve restare ben fermo che la nostra «filosofia» che non finisce
in sé stessa ─ convergendo tutta in una specie di postulazione di una
azione ─ così pure […] non comincia in sé stessa. Nei suoi elementi
essenziali ciò che esponiamo non è il semplice prodotto della
speculazione soggettiva di un filosofo moderno, sì invece la
trasposizione intellettuale di certe dottrine tradizionali, primordiali,
non soggette ─ in un certo senso ─ al divenire. Chi abbia il punto di
vista della razionalità come l’ultima istanza, deve naturalmente
ritenere ciò come non detto, considerarci sotto il puro riguardo
filosofico, e non curarsi di dove ciò cui eventualmente può assentire,
lo conduca”430.
È altresì certo però che la filosofia evoliana può risolvere
l’enigma dell’esistenza soltanto partendo da una assoluta, sufficiente
affermazione. “Verità e filosofia come potenza”431. E torniamo al
valore, a questo “salto creativo di un atto di pura libertà”432.
Se in Teoria Evola ha delineato i principî generali di una
dottrina della potenza che assume ed integra la posizione idealistica
riaffermano il concetto dell’Io come pura libertà e come immanenza
assoluta, in Fenomenologia lo spazio è totalmente occupato
dall’opzione positiva. Essa infatti è l’unica di cui sia possibile seguire
il processo. Dominio e dipendenza, possibilità affermativa e
possibilità negativa, sono contingenti. La via dominata dall’“altro”
conduce però presso ad una assoluta indeterminabilità perché l’Io sta
rispetto al proprio principio in rapporto di dipendenza. Nell’altro caso
invece la contingenza è affatto positiva e l’Io si appropria di una libera
potenza di determinare. È così possibile “un sistema definito, assoluto,
inequivocabile di forme ─ un sistema assolutamente certo, appunto
430
Ivi, p. 37. E nella prefazione originaria del libro, ivi, p. 40: “Noi consideriamo l’umanità in
senso totale come una fra le tante possibili condizioni dell’esistenza individuale, per nulla
privilegiata rispetto alle altre […]. Noi abbiamo restituito alla condizione umana il senso di
episodio, di una possibilità; due grandi epoche ─ da noi denominate epoca della ‘spontaneità’ e
epoca della ‘dominazione’ ─ nella nostra fenomenologia si stendono come materia di esperienze
possibili e come modi possibili di essere, di qua e di là dell’‘uomo’”.
431
Ivi, p. 45.
432
Ivi, p. 46.
153
Capitolo II
perché è l’Io che ne determinerà, in funzione di dominio, il principio e
la struttura”433. Non è possibile una fenomenologia dell’“altro”.
Ma non è possibile nemmeno una impossibilità ancora più
grave:
“[…] qualsiasi ‘Visione del Mondo’ che si voglia ispirata al verbo
evoliano deve venire dedotta dall’esperienza vivente, lo anubhava,
della disciplina, il sȃdhana dei suoi esercizi, non certo
dall’esposizione più o meno ordinata dei suoi principi teorici. La
realtà cui Evola tende è di natura apofatica, non cerca un sistema di
pensieri che la giustificano. A meno che non si tratti di un ‘pensiero
puro’ omorgonico al suo apparire, la cui realtà risieda nel movimento
per cui si manifesta, non nella ‘cosa’ per cui si è manifestato. Allora
il pensiero si fa POTENZA, çakti”434.
Quando la filosofia magica di Evola si attua, cessa di essere
quello che non ha mai voluto essere: una posizione mentale.
La differenza tra un atto di potenza, positivo e libero e un atto
che è per il suo oggetto o materia e quindi “altro” dalla potenza,
bramoso e dipendente, non abbisogna, crediamo, di essere
maggiormente delucidata. Ci sembra invece opportuna una
chiarificazione ulteriore della “dialettica” evoliana.
Evola muta dal pensatore francese Octave Hamelin il metodo
sintetico con il quale dà al divenire essere del suo Individuo un ritmo
dialettico435. Questo ritmo è toto coelo diverso da quello hegeliano in
quanto per esso il particolare non è l’opposto dell’essere, qualcosa di
contraddittorio e di negativo distrutto dal procedere di una dialettica
dal carattere aggressivo. Nessun progresso, ma una “negazione della
negazione”, uno spegnersi del particolare nell’assoluto indeterminato.
L’universalità costituisce per una dialettica hegeliana pensata a fondo
un punto di arrivo. L’Hamelin la intende invece come punto di
partenza. Come il grado più povero della realtà che mediante uno
sviluppo sintetico dal più semplice al più complesso, da privazione a
433
Ivi, p. 43.
Pio Filippani-Ronconi, Julius Evola: per una impersonalità attiva, in Julius Evola, un pensiero
per la fine del millennio, op. cit., p. 19.
435
Cfr. J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., pp. 127-132 e J. Evola, Fenomenologia
dell’Individuo Assoluto, op. cit., pp. 47-53.
434
154
Capitolo II
gradi sempre più intensi di attualità, tende a possedersi nella
perfezione dell’individuale. L’assoluto comprende gerarchicamente e
domina in una sintesi superiore i varî gradi di determinazione, non li
esclude o contraddice. Evola fa suo questo “neo-aristotelismo”
dell’Hamelin e oppone la sua dialettica sintetica a quella hegeliana,
dialettica di «contradittori» e non di «contrari». Il particolare quale
tesi o punto di partenza, seppure incompletamente, è già essere di
contro al quale l’antitesi non sarà né negazione né contraddizione ma
completamento. Trapassando in essa “la tesi perviene, secondo una
continuità di composizione, ad un più alto grado di perfezione”436.
Nello sforzo del possedersi il particolare determina quel che gli
manca, in esso si definisce e tende ad integrarsi. La sintesi è così una
più vasta possibilità di potenza. Particolarità o tesi è infatti
indifferenza di possibile e reale. L’antitesi, possibilità che sfugge alla
potenza. Il processo consisterà allora nel riprendere organizzare e
dominare la spontaneità scatenata dal momento tetico: punto
dell’assoluta individuazione. Il carattere positivo di questa dialettica è
nella sua sinteticità che non nega o esclude la tesi ma la comprende.
L’essere supremo è l’individuale che si realizza attraverso una
dialettica dei distinti. Essa si basa sul principio di relazione per la
quale non vi è nulla di intellegibile che non sia in relazione a qualcosa
che da esso sia distinto. La priorità della libertà è così affermata
contro Hegel sulle varie categorie che costituiscono il corpo agile
dello spirito. Un corpo con cui l’Io in quanto libertà si unisce
dominando l’intero processo. Tuttavia Evola nota che qualora non si
riconosca l’arbitrio quale fondo dell’intero processo non c’è modo di
esorcizzare l’automatismo di una pura ragione senza soggetto. Una
libertà che fosse prodotta necessariamente ─ “la libertà deve essere”
di Fichte ─ non sarebbe tale. S’impone allora l’assoluta contingenza
come principio originario rispetto al quale la libertà realizzata dal
processo della relazione sia una tra le possibili opzioni. In questo
modo è possibile conciliare il principio di una eterna sintesi e il
principio dello sviluppo progressivo: la coscienza immobile (Shiva) e
la potenza dinamica (Shakti) nell’assoluta unità (Brahman). Centro
dell’idealismo magico quale gesto autarchico di libertà e possesso.
436
J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 48.
155
Capitolo II
Evola spezza il circolo dei contrari trovando una via d’uscita
non nella collisione degli opposti “entro cui si muovono i sensi, il
desiderio e la ragione” ma nel superamento iniziatico di ogni
confliggente concettualità437. L’abbandono della irrazionalità sottesa
da ogni pro-cedere argomentativo come inesausta irresponsabilità
dell’Io si radica nell’origine della pura iniziativa intesa al dominio di
sé. E nel principio dell’analogia trova e vede l’esistenza
dell’oggettività astrattamente esterna a noi. Oltre il rassicurante
riduzionismo esoterico e l’universalismo disperato della scienza che
costringono la vita ad orbitare eccentricamente molto lontano dalla
potenza dell’Io.
Riuscire a vedersi, riconoscersi ed impugnarsi per ridare al
vivere il seno di un ristabilirsi nella protezione del senso evocato
dall’agire umano. La scommessa di Evola è molto lontana dal
pessimismo, dallo scetticismo o dal fatalismo: presenze fantasmatiche
d’una vacanza tutta interiore che attende di risolversi in luce della
coscienza. Un entusiasmo intollerabile abita le pagine della sua
filosofia. La Tradizione è il monumento edificato dalla libertà. Il
tempio di quegli Unici condannati all’assoluto positivo dal ricordo
continuo di immagini di potenza e di bellezza:
“È questa l’inaudita parola: niente dove andare, niente da aspettare,
niente da temere, niente da chiedere. Tu stesso, TALE QUALE
SEI, sei l’eternità, sei il Signore degli dèi, l’Eone degli eoni ─ tutto
in tutto, composto di tutti i poteri. Un solo istante che sapessi
fulmineamente assumerti tutto ─ in questo tuo essere fatto di metallo
e di piaghe, di gloria e di tenebra, di ebbrezza e di morte ─ un solo
istante che sapessi
ESSERE
─
ESSERE SOLTANTO ─
assolutamente, identicamente, infinitamente ─ e l’universo tutto,
risolto, avamperebbe nell’estremo apice, nella liberazione suprema
dell’Individuo assoluto”438.
437
Ivi, p. 197.
Ivi, p. 234. Il grassetto è nostro. Cfr. Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri
dialoghi, Adelphi, Milano, 2003, p. 81: “[…] La tua ultima parola è stata «morte» ─ e la tua bocca
s’è riaperta per dir «ma», ─ con quella dicevi di non aver più nulla da chiedere ─ ed ora riparli per
chiedere un appoggio, per chiedere una via. Ma non c’è appoggio, ma non c’è via ─ non c’è
niente da aspettare, niente da temere ─ né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via. ─”. Il
grassetto è nostro.
438
156
Capitolo III
Individuo Assoluto e Tradizione
Echeggiano le purpuree maledizioni
della fame nell’oscurità marcente,
le nere spade della menzogna,
quasi sbattesse un portale di bronzo.
G. Trakl
L’impegno filosofico di Evola, o la sua traduzione d’una
elevazione interiore in un linguaggio di tipo tecnico-filosofico, il
modulo espressivo ideale per confrontarsi con la comunità scientifica,
veicola il superamento della stessa filosofia nella pura prassi
spirituale. La metà degli anni ’20 è il limite creativo in cui,
compiendosi, si esaurisce il pathos del suo pensiero ed egli si avvicina
alle sideree lontananze del mondo della, e sia pure con la T maiuscola,
Tradizione.
Evola ─ ben lungi dall’aver fatto della traditio il culto che
anche alcuni suoi discepoli in perpetua trasferta dal “Maestro”
Guénon hanno tributato alla verità una e indiscutibile, oggetto d’uno
sfrenato dogmatizzare ben peggiore di quello cattolico crudemente
avversato dallo stesso barone ─ ha sempre scritto con la minuscola la
parola “tradizione” nelle prime due edizioni della sua opera assiale:
Rivolta contro il mondo moderno439. Solo dal 1969 infatti passerà alla
439
Condividiamo queste parole di Massimo Scaligero, Testimonianze su Evola, op. cit., pp. 187188 e ne facciamo il centro del nostro tentativo d’analisi dell’opera evoliana, meglio della sua
operatività: “Rimane l’enigma della personalità interiore di Evola e del suo rapporto con la
Tradizione. In verità, la forma tradizionale, non riesce a dissimulare la potente spinta
antitradizionale del suo sistema di pensiero: se si osserva, Evola si serve dell’elemento tradizionale
per costruire il proprio cosmo spirituale: assolutamente personale. Egli usa il valore della
Tradizione quale aristocratica pietra di paragone, ossia come contrapposizione al mondo moderno:
sembra proporre un ritorno alla Tradizione, ma in realtà egli vuole qualcosa che non è la
Tradizione, anzi è positivamente contro. E questo è ciò che può riconoscersi importante in Evola.
218
Capitolo III
grafia maiuscola adottata per la prima volta nel 1961 con Cavalcare la
tigre e che prima di allora, aveva usato occasionalmente.
Riprenderemo più avanti il discorso su questa scelta e sui suoi motivi.
Ora torniamo alla questione del linguaggio. E lo facciamo riferendoci
ancora, prima che a volumi di gran peso e importanza nell’economia
complessiva di questo pensiero vivente, alla produzione “minore” in
cui il filosofo romano spesso precisa e definisce, quando non supera,
le acquisizioni delle sue tesi principali. È sulla rivista di Vittore
Marchi, L’Idealismo Realistico, che Evola riflette severamente sulla
idoneità dell’astratto tramite filosofico a comunicare il messaggio
iniziatico. E lo fa grazie all’incontro-scontro col Guénon. Occasione
ne è la recensione evoliana dell’opera del pensatore francese L’uomo e
il suo divenire secondo il Vêdantâ proprio su questo periodico
d’ispirazione mazziniana e dalle pronunciate simpatie massoniche.
Evola vi collaborerà dalla fine del 1924, l’anno in cui è stata terminata
la Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, al dicembre del
1928, l’anno di pubblicazione di Imperialismo pagano, il testo che
segna la calata nella storia dell’Individuo e che dovremo trattare con
particolare riguardo. L’articolo è del dicembre del 1925. Prima di
analizzarlo, giacché è di grande interesse, seguiamo brevemente in
questi anni di svolta l’attività del suo autore. L’esperienza con il
centro di teosofia è già iniziata ed Evola scrive da qualche tempo sulle
riviste più importanti dell’ambiente spiritualista. Collabora infatti ad
Atànor ed Ignis, le riviste iniziatiche del neopagano Arturo Reghini,
33° grado della massoneria di Rito Scozzese di Piazza del Gesù a
Roma, che amava definirsi il “Vicario di Satana”, ad Ultra del
“teosofo” Decio Calvari e alla rivista della scuola teologica battista di
Roma Bilychnis. La sua firma appare inoltre su quotidiani sia fascisti
come L’Impero che antifascisti come Sereno o Il Mondo, la testata del
liberal-democratico Giovanni Amendola che inquadra la posizione
evoliana dei primi anni Venti in questo modo:
Guénon è nella Tradizione, Evola ne esce di continuo, pur appellandosi ad essa: ma è un
contrapposto, un tema dialettico, un habitus cogitandi […] è evidente l’imperiosa autorità di un
pensiero che fa obbedire tutto a un’intima personale visione, a un’individuale, determinata
«volontà di potenza»: in definitiva, ad un impulso di libertà che subordina tutto all’affermazione di
sé”.
158
Capitolo III
“Il propagandista più acceso del dadaismo era un giovane professore,
Evola, amico della contessa Piccardi da tempo legata a mia madre e
rimasta vedova di uno scrittore siciliano caduto in guerra, Vincenzo
Piccardi. Evola divenne più tardi fanatico razzista e sostenitore del
nazismo. Mi era già antipatico, freddo e maleducato. Non
comprendevo la differenza tra futurismo e dadaismo, ma consideravo
i futuristi come Anton Giulio Bragaglia e i suoi amici sempre cortesi,
cordiali e allegri più simpatici”440.
Abbandoniamo Amendola ─ e abbandoniamo anche i suoi
irreali ricordi: Evola (professore?) fanatico razzista e sostenitore del
nazismo! ─ ai suoi simpatici amici futuristi e occupiamoci
dell’antipatico filosofo-dada. Nel dicembre del 1925 egli scrive sulla
pagine del quindicinale Lo Stato Democratico diretto dal duca
Giovanni Colonna di Cesarò, ministro delle poste nel primo governo
Mussolini e in seguito (giugno-novembre 1930) animatore del
movimento antifascista italiano di orientamento liberal-conservatore
“Alleanza Nazionale per la Libertà”.
Evola pubblica il suo primo articolo su questa rivista nel 1925.
È uno scritto importante in quanto proiezione politica della sua
dottrina dell’Individuo Assoluto. Il titolo è Stato, Potenza, Libertà e
conviene dedicargli la nostra attenzione:
“[…] sarà adeguato al valore iniziale soltanto colui che possa cessare
di essere una forza tra tante altre in quel sistema dinamico, che è
l’unità sociale, per passare invece al livello di colui che,
interiormente superiore alla totalità, va lui stesso a determinare la
forma e la legge di una tale unità: vedi il capo dello stato, in quanto
legislatore e dominatore. Circa la legislazione, essa per ipotesi non
avrà altro fondamento che la volontà di chi la pone: perciò essa
dovrà connettersi inseparabilmente al principio di potenza”441.
440
Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, Milano, 1976, p. 55. Cfr. Marco Rossi, L’avanguardia
che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli
anni Trenta, in Storia contemporanea, dicembre 1991, ora in Delle rovine ed oltre. Saggi su Julius
Evola, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 80.
441
J. Evola, Stato, Potenza, Libertà, in Lo Stato Democratico, I, 7, 1° maggio 1925, p. 3.
159
Capitolo III
Il principio della potenza agisce senza agire (Lao-Tze), come il
motore immobile (Aristotele) e “si impone direttamente, in virtù della
sua intenzione, individuale superiorità a ciò che egli comanda” 442. Il
fascismo ha il carattere di una impotente violenza: non possiede un
crisma spirituale superiore:
“Ciò posto, che in relazione a quel che potrebbe essere il tipo del
dominatore e dello stato conforme al principio dell’assoluta libertà,
quello che il recente movimento politico ha fatto affiorire in Italia sia
una semplice caricatura, una grottesca parodia, può risultare ad
ognuno chiaro. Quel principio di interiore, profonda, individuale
affermazione che, solo, potrebbe fondarlo, vi è totalmente
assente”443.
Esso non ha una radice culturale e spirituale e s’appoggia al
mito patriottico per occultare la propria insufficienza:
“Se la marcia su Roma si fosse dichiarata non come riscossa per la
salvazione dell’Italia dallo sfacelo, bensì nudamente come il
tentativo di un partito di soppiantare altri più deboli ed incerti, essa o
sarebbe riuscita con ben altre difficoltà, o non sarebbe riuscita
affatto. Del pari il riferimento al nome della patria, all’amore e
devozione per essa che si ripete in ogni occasione fino alla nausea ha
notoriamente servito per salvare una quantità di situazioni. Da ciò un
compromesso ─ epperò una insufficienza ─ fondamentale”444.
Il movimento delle camicie nere accusa una strutturale
debolezza di spirito che si traduce in pericoloso compromesso
politico. Evola ne riconosce la superiorità solo nell’abile gestione
delle forze sociali in tensione. Forze esterne, controllate a fatica da
Mussolini e dai suoi gregari con l’aiuto della violenza.
442
Ivi, p. 4.
Ibid.
444
Ibid.
443
160
Capitolo III
Il sintomo della debolezza spirituale:
“I capi del partito dominante ormai non possono mettere insieme
dieci parole senza sentire il bisogno di far sapere che essi hanno la
forza e senza sfidare su un tale terreno gli oppositori […] chi
veramente può, evita di esibire la sua potenza, non ne parla, ma l’usa
direttamente là dove occorre”445.
Il secondo articolo dell’Evola ospite del Di Cesarò è invece
dedicato ad una spietata critica della democrazia, pubblicata sul
numero del 15 agosto. Interessante la nota redazionale, a firma del
Duca, che lo precede:
“[…] ospitiamo volentieri lo scritto dell’Evola, sia perché, non
essendo egli fascista, il suo scritto dimostra come anche i postulati
dell’antidemocrazia
non debbono menomamente condurre alle
conclusioni del fascismo; ma soprattutto perché, convinti, come
siamo, che prima condizione per qualsiasi forma di vita politica sana
sia la creazione nella coscienza dei cittadini di un sostrato filosofico
sul quale si fondino le convinzioni politiche e sociali. Reputiamo
utile al progresso nazionale, e alla stessa causa della Democrazia,
qualunque dibattito o polemica che agiti i problemi in un’aura di
coltura”446.
Per Evola l’ottimismo evoluzionistico non ha fondamento
alcuno e non può essere la base dell’idea democratica, le masse
essendo sempre eguali, irrazionali, affette da “passività femminile”,
instabile complesso di passioni. Il possibile passaggio a un “grado
superiore di individuazione” non può che aver esito di dominio
aristocratico. Esso si incarna nel “Signore dell’Umanità”. Con tutta
evidenza, per il pensatore romano, critico ─ come pochi del suo
tempo (pochissimi!) ─ del plebeismo fascista o della sua “spregevole
mollezza”, l’unico principio legittimo secondo valori spirituali e
trascendenti è quello “qualitativo”. La massa è, per la sua stessa
natura, passiva. Il suo principio è quello “quantitativo” ed Evola arriva
445
446
Ivi, pp. 4-5.
Premessa a firma N.d.D, in Lo Stato Democratico, I, 15, 15 agosto 1925, p. 5.
161
Capitolo III
a riconoscere nella stessa ideologia democratica il “miglior strumento
attraverso cui si può riuscire a sottomettere la massa”: straordinaria
previsione del “totalitarismo della dissoluzione” (Del Noce) e
dell’ordine del nichilismo gaio prima ancora della dissoluzione del
totalitarismo. Insomma, quello di Evola è un duplice no: al fascismo e
alla democrazia: “Per carità! Non essere democratici ed essere fascista
sono due cose diverse!”447. E allora?
“Determinare una nuova cultura, vivificare una coscienza il cui
principio sia il significato, lo spirito, ecco ciò che veramente
importa. Non ci si accusi di astrattismo platonizzante, quasi che ciò
che è spirituale stia fuori da ciò che è materiale e invece non lo
comprende ed elevi in sé”448.
Sulla prima pagina dell’ultimo numero del 31 dicembre 1925,
prima che la censura fascista ne decretasse la soppressione, Evola
critica duramente il regime indicando nell’ambiente dell’intellettualità
antifascista ed in quello dell’occultismo il terreno adatto a “propiziare
la luce di qualcosa di più alto e di più puro che non sia la vicenda
meschina, torbida, dilacerata in cui la vita politica nell’ultimo periodo
si è sommersa”449. Egli pensa dunque ad un “gruppo spirituale” in
grado di risolvere iniziaticamente il problema politico, e lo individua
nell’antifascismo spiritualista:
“Sono le opposizioni che piuttosto potrebbero raccogliere l’appello:
se ciò che esse veramente vogliono non è la supremazia di un
particolare partito su un altro; se comprendono che non si tratta
ormai più di tornare a forme vecchie e ad idee superate bensì di
determinare qualcosa di nuovo; se comprendono inoltre che questo
rinnovamento non è possibile quando non si vadano a considerare i
problemi politici, sociali, economici e materiali da un punto che,
esso, non sia né politico, né sociale, né economico, né materiale, ma
superiore a tutto ciò ─ se questa è la loro più profonda, pur se non
447
Ivi, p. 10.
Ivi, pp. 10-11.
449
Cfr. J. Evola, Per un rinnovamento dell’idea politica, in Lo Stato Democratico, I, 24, 31
dicembre 1925, p. 3.
448
162
Capitolo III
sempre espressa, aspirazione; esse all’evidenza che qui si è abbonata
difficilmente potrebbero non aderire […]”450.
Evola offre una “soluzione magica”, solidale in questo con
l’idea di élite spirituale del Guénon, conosciuto per il tramite del
“pitagorico” Reghini che indirizzò l’attenzione del giovane filosofo
sull’opera del francese intorno al 1924/1925, stando alla data dei
primi contatti epistolari tra i due. Opera che diede un centro, più
formale che non di sostanza (: spirituale), alla “visione del mondo” del
filosofo romano451. Il loro rapporto peraltro non conobbe mai una
intesa completa essendo le loro divergenze, sul piano dei rapporti
dottrinari, inconciliabili. La visione (éidomai) evoliana è unica e
irriducibile alle molte vie, e tra di esse quella guénoniana, che l’hanno
nutrita e ne hanno consentito le espressioni. Tuttavia il giovane
filosofo uscirà dal primo confronto con quel che chiamerà “maestro
senza pari della nostra epoca”452 con una coscienza potenziata della
propria forza e quindi, del suo limite453.
Nella recensione Evola rivendica lo spirito attivo della
tradizione occidentale:
“Infatti lo spirito occidentale è specificamente caratterizzato dalla
libera iniziativa, dall’affermazione, dal valore dell’individualità, da
una concezione tragica della vita, da una volontà di potenza e di
azione ─ elementi, questi, che se potrebbero essere il riflesso sul
piano umano, esteriore, del superiore valore magico, pertanto
stridono di contro a chi voglia invece il mondo universalistico,
impersonale e immobile dell’‘intellettualismo’ metafisico” 454.
E lo fa contro quella che ritiene una “mentalità che potremmo
chiamare razionalistica”, quella di un Guénon infatuato d’Oriente. I
due sono su piani diversi e a lungo saranno destinati a non incontrarsi,
450
Ibid.
J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 90: “l’opera del Guénon mi aiutò a centrare su di
un piano più adeguato l’intero mondo delle mie idee”.
452
Ibid.
453
J. Evola, Il cammino del cinabro, op., p. 90: “Ebbi perfino a scrivere una critica contro il libro
del Guénon sul Vedânta (sulla rivista Idealismo realistico), alla quale Guénon replicò, entrambi
muovendoci evidentemente su due piani diversi”.
454
J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 91.
451
163
Capitolo III
anche a causa dello loro “equazioni personali” e di conseguenza, delle
loro vie di elezione alla stessa “realtà metafisica”: l’una guerriera e
l’altra contemplativa. Il doppio sguardo del “Tradizionalismo
integrale”455. Ma non è ancora tempo di conciliazione. Né mai lo sarà.
Intanto al “molto giovane” Evola non riesce di capire, o lo capisce
forse fin troppo bene, la differenza di livello su cui si pone il francese:
conoscenza metafisica e non filosofia profana: “[…] in noi quel che
sta prima è una certa «realizzazione» e, soltanto dopo, come veste, un
certo sistema logicamente inteliigibile. Ma quand’anche fosse, ogni
espressione in quanto tale è tenuta alla prova del fuoco del logos”456.
La veste filosofica è per Evola requisito primario di intelligibilità e
chiarezza della tradizione spirituale d’Occidente come la meditazione
e la contemplazione mistica sono prerogativa di quella orientale. Nella
sua concezione, le due opposte tradizioni rappresentano il “finito”,
nella sua esigenza più alta di realizzazione, quale libertà in atto.
Primario è l’aspetto fattivo, eroico del sentire divino nella
consapevolezza che “se l’uomo non si fa salvatore di se stesso, nulla
mai potrà salvarlo”457. Il problema di Evola non è nella dimensione
tutta orientale della immobile meditazione, che pure inserisce nella
prospettiva di una etero-salvazione in netto contrasto con la natura
455
Cfr. Piero Di Vona, Il pensiero tradizionale e la molteplicità delle forme religiose, tratto da
Tellus – rivista di geofilosofia, n. 17, 1996, che così definisce il cosiddetto “pensiero tradizionale”:
“corrente di idee del nostro secolo che è rappresentata da un gruppo di scrittori i quali, in varia
misura, e sotto diversi aspetti, si richiamano all’opera di René Guénon (Blois 1886 – Il Cairo
1951). L’idea principale di questa forma di pensiero è l’unità trascendente delle religioni ─
peraltro il titolo di un libro Frithjof Schuon (De l’Unité transcendante des Religions, 1948), amico
di Titus Burckhardt e collaboratore con Guénon della rivista Études Traditionnelles ─ e delle
forme, con le quali per le più diverse vie l’uomo entra in rapporto con il divino. Tale idea, non fu
affatto propria del solo Guénon, come lo stesso Di Vona riconosce, ma fu molto diffusa tra i
principali rappresentanti dell’occultismo del secolo Ventesimo e di quello precedente. In sostanza,
esiste una verità che trasumana e deifica chi la possiede. Essa fu data ad un legislatore primordiale
che la trasmise all’umanità in uno stato chiamato “età dell’oro o dell’essere”. Questo legislatore è
“Il Re del mondo”, l’intelligenza cosmica che regge il nostro mondo. L’età dell’ora sta in un’epoca
a noi interiore, non è una realtà futura. Da qui l’altra idea cardine di questa visione tradizionale: la
decadenza, nel corso della quale l’umanità percorse il ciclo regressivo raffigurato, secondo lo
schema esiodeo tanto caro allo stesso Evola, con l’età dell’argento, del ferro e del bronzo. Durante
questo regresso il centro che custodisce la verità primordiale si occultò per la comune umanità ma
non per un numero (sempre minore) di persone cui essa venne trasmessa per vie esotericoiniziatiche. A partire da questa epoca di occultamento si introdusse nelle religioni la distinzione tra
il nucleo esoterico (nascosto e riservato ai pochi) e la forma essoterica (aperta a tutti). Ci
torneremo.
456
J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., p. 93.
457
Ivi, p. 101.
164
Capitolo III
dominante rinvenuta al fondo del suo Occidente458. Ma è quello di una
insensata unilateralità, diretta discendente del presupposto
dogmaticamente intollerante che vuole l’Oriente sola àncora di
salvezza del suo fratello degenerato. E da questa ottica, Evola ha
gioco facile nel rilevare la “tendenza dogmatica e autoritaria” del
Guénon459. Egli, nella sua lunga rettifica intitolata “A proposito di
metafisica indiana”, rivolta sul suo giovane interlocutore l’accusa di
razionalismo che crede (non) giustificata dalla piena incomprensione
di cosa significhi “intellettualità pura”460. Tra reciproci sospetti si
consuma una polemica rivelatrice del confine tra una filosofia non
ancora abbandonata per il suo virtuoso rigore (Evola) ed una
metafisica che si vuole purissima poiché trincerata nella propria
indicibilità (Guénon). La posizione di Evola è indubbiamente ancora
ambigua ma solo perché fissa su una necessità di tipo pedagogicodivulgativo e quindi essoterica, che fa onore alla “serietà scientifica,
disciplina, volontà, consapevolezza” anche di una conoscenza
d’ordine superiore:
“o si resta nell’ambito iniziatico, ovvero si parla. Ma se si parla, si è
tenuti a parlare correttamente, ossia: a rispettare le esigenze logiche,
a far vedere che l’oggetto della realizzazione metafisica sia pure per
accidente dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei
problemi, che nell’ambito puramente umano e discorsivo sono
destinati a rimanere puramente tali”461.
Stante che “per noi filosofico significa qualcosa che ‘si presenta
in modo intellegibile e giustificato’”462. Da notare che Evola non
458
Lo stesso oriente è da Evola, in questo momento della sua opera, guardato con l’occhio (sia
pure il terzo) occidentale. In un’opera quale L’uomo come potenza, op. cit., le pratiche del
Buddhismo sono commiste a quelle misteriche. La teoria sviluppata dal Barone affolla simboli
dell’umana “rigenerazione”, senza troppo rispettare le differenze sociali e culturali dei due
modelli, artcolando una serie impressionante di analogie colte sulle vette realizzative di entrambi
gli emisferi. Il tutto nel segno di una “metafisica dell’assoluta particolarità” incardinata sul valore
trascendente del principio di personalità.
459
J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., p. 92.
460
L’Idealismo Realistico (1924-1928), Anno III, fasc. 9-10 (1-15 maggio 1926), pp. [18] -26, ora
in J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., pp. 105-110, cui segue la breve controreplica evoliana da p. 110 a 113.
461
Ivi, p. 112.
462
Ibid. Ricordiamo che qui Evola definisce razionalistico “ogni atteggiamento che crede a leggi
esistenti in e da se stesse, in principi che sono quello che sono, inconvertibilmente; che intende il
165
Capitolo III
recederà mai da questa posizione. E già tre anni dopo su Ur, Sul
sapienziale e l’eroico, tornerà sul “razionalismo” di Guénon e dopo
averne richiamato la propria definizione precisandone “il senso, che
conformemente all’uso filosofico moderno” gli è stata attribuita, dirà:
“il che ─ speriamo ─ ovvierà una certa sorpresa già manifestata dal
Guénon (cfr. L’Idealismo realistico 1926, n. 9-10, p. 18) rispetto a
giudizi del genere. Nel suo Erreur Spirite (Paris-1923) egli afferma
ripetutamente che il criterio dell’impossibile per lui è il logicamente
assurdo (e non viceversa), e che non è all’esperienza, cioè alla realtà
di fatto, ma alla deduzione a priori da un insieme di «principî», che
si deve chiedere il vero criterio. In ciò vi è sin troppo per giustificare
l’accusa di «razionalismo»463.
Non basta. Un anno dopo, sulle colonne di Krur, Evola rincara
il colpo con l’articolo Autorità spirituale e potere temporale, dove
respinge “in blocco” la tesi guénoniana espressa dal francese in un
libro dallo stesso titolo uscito a Parigi nel 1929. Il punctum dolens è
sempre quella tradizione (attiva, guerriera) a cui l’Occidente deve il
suo spirito, e che Guénon s’ostina a non riconoscere che nella sua
involuzione. Non ci sembra di insistere invano su questo punto: “Il
nodo dell’errore, sta nell’incomprensione per la spiritualità che può
essere portata da una «tradizione dei guerrieri» ─ regale o imperiale; e
nella conseguente possibilità di quest’ultima al «potere temporale»,
alle funzioni amministrative, giuridiche e militari (p.32)464. Evola
rifiuta la premessa del Guénon che è “errata e inaccettabile” in quanto
monopolizza il potere spirituale a favore della casta sacerdotale
quando invece lo stato di dominazione eroico-magico raggiunge lo
stesso vertice metafisico cui volgono le vie orientate dai simboli
sacerdotali del sacro. In breve il francese avrebbe una “sensibilità
alquanto scarsa” per la superiore realtà della regalità che può
trascendere in sé entrambe le funzioni.
mondo come qualcosa in cui tutto ciò che è contingenza, tensione, oscurità, arbitrio,
indeterminabilità non ha alcun posto”.
463
Ur, Rivista di indirizzi per una scienza dell’Io, anno II (1928), numero I, Tilopa Editrice,
ristampa anastatica, Roma, 1980, p. Ur 1928 p. 334.
464
Krur 1929, Tilopa Editrice, Roma, 1981, p. 334. Il numero della pagine si riferisce al testo del
Guénon commentato da Evola.
166
Capitolo III
E qui un altro siluro:
“[…] il che non è senza relazione con una sua personale
comprensione staremmo per dire logicistica, di certe nozioni
soprarazionali. Che cosa sono, difatti, «quei principii, che sono le
essenze eterne ed immutabili contenute nella permanente attualità
dell’Intelletto divino» (p.22), principii, i quali fornirebbero la
«conoscenza per eccellenza» (p.45), e costituirebbero il fulcro della
«dottrina tradizionale» e dell’«ortodossia», conservata e trasmessa
dalle caste sacerdotali (p.33) e fondamento dell’autorità assoluta di
queste? Invero, in tutto ciò ci sembra di vedere molto più religione e
sin razionalismo, che non metafisica”465.
Come si vede, il problema non è soltanto formale poiché di là
da questioni talvolta puerilmente capziose attinenti ad un piano
meramente terminologico o di definizione, investe il piano della
comunicazione sottile. Non è quindi un caso, crediamo, che Evola, in
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, abbia inserito il
nome di Guénon all’ultimo posto della sua trattazione gerarchica
dell’iniziatica. A meno di non spiegare la lontananza, talvolta abissale,
tra i due sopratutto in merito alla realizzazione spirituale e alla magia,
con la teoria di un Guénon concentrato esclusivamente sull’aspetto
dottrinario della Tradizione. Non interessato quindi a fornire direttive
pratiche di iniziazione. Il che ci pare, ad essere prudenti, quantomeno
semplicistico. Anche se non privo di solidi appoggi. Lo stesso Evola
infatti, sul terzo volume di Introduzione alla Magia, Sui limiti della
«regolarità» iniziatica, afferma che
“Nei libri del Guénon, purtroppo, non si trova nulla circa quel che
può essere una disciplina attiva di preparazione, la quale, in certi
casi, può condurre perfino senza soluzioni di continuità alla stessa
illuminazione: allo stesso modo che il Guénon nulla indica, come
discipline concrete quanto all’opera di attualizzazione che
dell’«iniziato virtuale» fa un iniziato vero e, alla fine, un adepto. […]
465
Krur 1929, op. cit., p. 335.
167
Capitolo III
il dominio del Guénon è quello della semplice dottrina, laddove a noi
interessa essenzialmente quello della pratica”466.
E come se non bastasse più avanti il tono evoliano s’avvolge di
maliziosa ironia descrivendo la situazione del discepolo guénoniano:
“[…] e chi legge il Guénon si trova un po’ nella situazione di chi oda
dire che cosa bella sia il possedere una certa affascinante ragazza
ma, nel punto di chiedere dove essa sia, essendosi eccitato, abbia per
risposta il silenzio ovvero un: «Non è affar nostro»467.
Il Guénon fu per Evola un alleato nella pars destruens del
proprio compito: la critica del mondo moderno da una prospettiva
altra e alta: da qui la Tradizione quale faro che illumini l’oscurità
della decadenza occidentale per un ritorno alle sue origini. Quanto alla
iniziazione, Guénon non fu di nessun aiuto, anzi, le sue teoria al
riguardo non incontrarono mai il favore di Evola. Vogliamo infine
ricordare che sulla rivista la Destra nell’articolo René Guénon e il
«tradizionalismo integrale» (aprile 1973) ─ Evola muore l’11 giugno
del 1974 ─ il filosofo romano, oltre a tornare sulle sue critiche di cui
abbiamo già dato brevemente conto, afferma:
spesso quel che il Guénon presenta come una «metafisica» in un
senso speciale trascendente, a parte la terminologia, in fondo poco si
differenzia da quel che ha tale nome nella storia della filosofia
profana occidentale e spesso si esaurisce in astrazioni piuttosto
tediose468.
Da non sottacere che Evola in Ancora delle due civiltà indica
gli autori che seguono l’indirizzo tradizionale469. E che per lui sono,
oltre ovviamente al Guénon ─ che “è stato considerato come il
propugnatore del Tradizionalismo integrale” e che “viene considerato
un maestro e un capo-scuola” ─, F. Schuon, R. Burckhardt e se stesso.
466
Introduzione alla magia, volume terzo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 170.
Ivi, p. 173.
468
J. Evola, I testi di Totalità, Il Borghese, la Destra, a cura di Roberto Melchionda, Edizioni di
Ar, Padova, 2003, p. 130.
469
J. Evola, I testi di Totalità, Il Borghese, la Destra, op. cit., p. 60.
467
168
Capitolo III
Ora, tranne il barone, questi scrittori sono tutti musulmani. Il
francese poi, “si islamizzò ad oltranza. Stabilitosi in Egitto, aveva
ricevuto il nome di sheikh Abdel Wahîd Yasba ed anche la
cittadinanza egiziana. In seconde nozze, sposò un’araba”470.
Il concetto di “Tradizione”, formulato già molto prima del
Guénon, è stato fabbricato in Occidente da europei convertiti alla
religione islamica. Henri Corbin ha protestato contro questa idea di
tradizione una e primordiale, contro «la rigidité immutable d’une
certaine “tradition” dont l’idée a été costruite de nos jours en
Occident»471. Una idea costruita dunque, e non originaria, “idea
dell’Occidente contemporaneo e nient’affatto l’eredità di una
venerabile antichità anteriore alla stessa preistoria”472. Stando al
rapporto tra i due studiosi, condividiamo queste parole di Giano
Accame: “Evola prende da Guénon quel che gli serve e lascia cadere
il resto”473. Sempre in Maschera e volto dello spiritualismo
contemporaneo, un libro eccezionale per il suo ed il nostro tempo
devastato da fenomeni di “seconda religiosità”, per non dire
luciferici474, il barone valuta positivamente l’operato di maghi e
“maestri spirituali” che il Guénon consigliava di fuggire come la
peste: Kremmerz, Meyrink, Crowley, Gurdjieff etc.475 Bisognerebbe
470
Ivi, p. 130.
Henri Corbin, L’Homme de lumière dans le Soufisme iranien, Éditions Présence, Sisteron,
1971, p. 117. Citato in P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova,
2000, p. 102.
472
Ibid.
473
Cfr. Giano Accame, Evola e la contestazione: da Totalità al Borghese, in Studi Evoliani 2008,
Arktos Editrice, Torino, 2009.
474
Cfr. J. Evola, Gerarchia tradizionale e umanismo moderno, in La Torre. Foglio di espressioni
varie e di tradizione una, n. 4, 1930, ora in J. Evola, La Torre, Società Editrice Il Falco, Milano,
1977, pp. 148-149: “Così le varie ideologie, le nuovissime «religioni» […], sono antesignane nella
cultura contemporanea di un ultimo periodo, risolutivo. […]. Oggi si può dir di vivere
precisamente nel periodo di transizione, che preludia all’ultima fase: nel punto di passaggio fra
l’epoca luciferina (ché tale si può chiamare l’epoca in cui imperò il mito dell’«uomo» e della
onnipotente costruzione umana) e l’epoca demonica. Dalle «terre immobili», dalle «terre-vertici»
suggellate di silenzio e di intangibilità, appare questo mondo che barcolla nella sua orbita, che
volge a sciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi ove non è più nessuna
luce, fuori da quella sinistra accesa nell’incandescenza della sua caduta”.
475
Ad Aleister Crowley, che amava farsi chiamare “La Grande Bestia 666”, Evola dedica ampio
spazio anche nel terzo volume di Introduzione alla magia, op. cit., riproducendo alcuni passai
tradotti di un testo del mago inglese, il Liber Aleph, the Book of Wisdom or Folly, che al tempo
(1953) esisteva solo manoscritto. Su Ivanovjc Gurdjieff, che ha definito “la via dello sviluppo
delle possibilità nascoste una via contro la natura, contro Dio” (Cfr. P. D. Ouspensky, Frammenti
di un insegnamento sconosciuto, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1976, p. 56),
vogliamo riportare le parole dell’alchimista Eugène Canseliet. Quanto l’alchimia fosse importante
per Evola non è qui il caso di sottolineare e qualcosa a riguardo abbiamo già detto e diremo. Ora ci
471
169
Capitolo III
quindi evitare di piegare la dottrina evoliana su quella del francese o
peggio incorporarla senza troppo distinguo nella comune etichetta del
“Tradizionalismo integrale”.
Se è vero che
“[…] la decadenza regna oggi nel mondo occidentale. Reagire contro
di essa con il richiamo a tutto ciò che si leghi ad una tradizione
metafisica, è il primo passo. Ma, di là da esso, non è alla visione
sacerdotale, sì a quella guerriera ed imperiale, ed al filo dell’occulta
sapienza che come «Arte Regia» vi si connette e che in seno allo
stesso Occidente si è perpetuata ─ che bisogna chiedere i simboli
della nostra affermazione e della nostra liberazione. E se per quanto
riguarda il primo punto, noi ci diciamo amici e collaboratori di René
Guénon, per quanto riguarda il secondo ci diciamo suoi decisi
avversarî”476.
Evola cambierà senz’altro registro abbandonando il linguaggio
filosofico a favore di quello simbolico, allusivo, meta-razione e
mitopoietico più adeguato a trasmettere il senso della realizzazione
spirituale in cui consiste l’energia della Tradizione. Tuttavia, il senso
della sua operazione filosofica condotta spietatamente sul cadavere
sembra opportuno evidenziare la radicale eterodossia dei riferimenti spirituali dell’iniziato romano.
Questa citazione, in parte forse, ce lo consente : “Le stesse seduzioni che si presentano
all’alchimista nel suo piccolo mondo votato all’ineluttabile distruzione investono a livello del
pianeta gli uomini, prima del cataclisma ciclico e rigeneratore: ‘Perché si leveranno falsi cristi e
falsi profeti, che faranno prodigi e miracoli per sedurre, se fosse possibile, gli stessi eletti’.
L’ammonimento del Cristo certamente non è vano. Ciò di cui parla si è già verificato in passato e
ha ancora più valore più questo mezzo secolo (Canseliet scrive nel 1956 NdA), in cui la vicinanza
della grande tribolazione incrementa il manifestarsi di mentori taumaturghi e messia ispirati. Fra
questi risplende, come modello affatto speciale, George Ivanovitch Gurdjeff, senza che sia
possibile decidere chi la vince ─ per la risolutezza spinta sino al parossismo ─ tra lui e i suoi
discepoli, cioè tra lo spietato e freddo dispotismo e la sottomissione generosa e appassionata. Ed è
proprio questo che più commuove: il dramma profondo di queste buone volontà cui è promesso
tutto e che si offrono con tanto ardore, in pura perdita e spesso sino alla disperazione. Si legga su
questo argomento immensamente pietoso il libro magistrale e giustiziere di Louis Pauwels, giunto
al momento opportuno come una necessità salutare, davvero sconvolgente nella sua onesta
obiettività: Monsier Gurdjieff, Edition du Seuil, 1954”, in Frate Basilio Valentino (dell’Ordine di
San Benedetto), Le dodici chiavi de la filosofia, op. cit., p. 115, nota 3. Ricordo infine che
dobbiamo sempre a Louis Pauwels, questa volta in coppia con Jacques Bergier (Cfr. Il mattino del
maghi, Mondadori, Milano, 1963) la definizioni del nazional-socialismo quale “divisioni corazzate
+René Guénon”, ossia pensiero magico + scienza tecnica, “formula che deve aver fatto sobbalzare
per indignazione nella tomba le ossa di questo eminente esponente del pensiero tradizionale e delle
discipline esoteriche” (J. Evola, Hitler e le società segrete, sulla rivista Il Conciliatore, ottobre
1971).
476
Krur (1929), op. cit., pp. 342-343.
170
Capitolo III
della modernità lo accompagnerà sempre, quale dimostrazione e
descrizione logica di un sonno in attesa di risveglio. Da qui la
presenza su una rivista di “Magia quale scienza dell’Io”, di alcune
pagine strappate alla Fenomenologia. Nello specifico, quelle relative
ai punti-limite dell’esperienza magica corrispondenti ai “simboli del
‘Signore del vortice’ e dell’‘Individuo assoluto’”477. A conferma della
centralità della filosofia nel magico cammino evoliano. Il fatto che
l’abbia dovuta lasciare indietro e che sia stata rinchiuso in una fase di
limitato spessore cronologico ma straordinariamente intenso e
creativo nulla toglie al suo valore. Era un gradino e l’ha salito. A ciò
servono i gradini, che non ci sembra debbano essere per questo
rinnegati o scambiati per qualcosa d’altro478. Il valore, dicevamo, di
una radice invisibile che sempre ha continuato a nutrire il tradere
evoliano.
Lo stesso Evola rivendica una precisa omologia tra Individuo
Assoluto e uomo compiuto della Tradizione. Come se il superamento
tradizionale avesse immunizzato il procedere della volontà in territori
altri dalla ragione umana garantendogli una base irrinunciabile grazie
al quale fosse possibile un tipo, un eroe dal ben definito rango
ontologico già predeterminato filosoficamente e quindi legittimo da
un punto di vista scientifico. Un eroe il cui status fosse nello stesso
tempo differenziato ed in grado di differenziare, quale magnete d’una
vocazione oltreumana, gli altri unici disposti a crescere attraverso la
gerarchia dei gradi di luce. La volontà che trascende (“andare oltre
innalzandosi”) l’individuo innalzandolo ai valori della personalità. E
già nel solipsismo (assorbito dalla lezione stirneriano-weiningeriana)
477
Così le presenta Evola: “Noi qui abbiamo già attraversate le possibilità di esperienza comprese
in un’Epoca della spontaneità o dell’essere, epoca di una universalità cosmica impersonale,
sognante o demonicamente assorta in forze di natura; abbiamo anche attraversate le possibilità di
esperienza comprese in un’Epoca della riflessione o della personalità, epoca in cui la libertà e
l’autocoscienza individuata e affermativa sono pagate con un principio di finitudine, di paralisi e
di esteriorità rispetto alle forze delle cose; siamo infine entrati nel mondo superpersonale e magico
di un’Epoca della dominazione, e di là dalle varie esperienze di «purificazione», di là dalle varie
apparizioni e dalle varie trasmutazioni di una esperienza che non è più quella fisica o intellettuale,
siamo entrati nel cuore stesso del mondo metafisico, là dove l’evocazione ridesta le energie
primordiali degli eoni, contro le quali l’Io resiste e lotta, sino a giungere a penetrare nel loro
«nome» a ad impadronirsi del loro «segno», Il Signore del Vortice e l’Individuo Assoluto, in Krur
(1929), op. cit., p. 368.
478
F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994, p. 37: “Erano
gradini per me, li ho saliti ─ a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi
riposarmi su di loro…”.
171
Capitolo III
è tutta concentrata l’edificazione di una nuova dimora dello spirito
come cittadella del bene comune che si sviluppa in livello progressivi
di potenza autosufficiente. Una struttura gerarchica interiore che si
espande all’esterno e fonda, illumina, organizza una comunità di vita
pervasa dalla virtù: passi di un ascendere vorticoso.
L’Individuo assoluto e l’uomo compiuto della tradizione, come
del resto l’uomo differenziato di Cavalcare la tigre, sono lo stesso
schiaffo al moderno nel segno della forma interiore. Il coraggio della
solitudine è il gesto magico che raduna per affinità gli altri individui
assoluti che dirigono eroicamente il divenire. L’uomo è tale solo
all’interno dell’Io: specchio della propria responsabilità. Essere Io è
l’unico modo di essere anche per l’altro. L’unico modo di conoscere
l’altro.
O il solipsismo non è un agone?
L’altro, nella sua omologia a questo centro di potenza, sa
riconoscersi anche inferiore nel sacrificio ad una più alta realizzazione
di sé. Da qui il legame tra gerarchia e autorità su di un piano che è
politico solo in quanto è morale. In questa visione, che tende a non
spezzare i periodi evoliani ma a farne le stazioni di un viaggio e i
momenti di una dimostrazione nonché le parti di un organismo,
Teoria e fenomenologia dell’Individuo assoluto più che un libro di
filosofia è un compito metafilosofico. Il fatto che esso sia presentato
attraverso adeguati coefficienti rappresentativi non è il lusso di un
veggente ospite della realtà “umana troppo umana”. È il suo punto di
forza poiché da essa (di)parte. Ed è un unicum nel panorama
tradizionalista dove sembra che spiegare le proprie ragioni, per quanto
superumane, sia un torto all’onnipotente ed una concessione alla plebe
senz’anima. Giacché l’anima non è di tutti ma è di quei pochi, l’élite
degli iniziati, che se la possono fabbricare. Evola tuttavia ha l’audacia
di fare aperta professione di elitarismo.
Un elitarismo morale di grande fascino. Ed infatti una volta
rimesso tutto alla libertà dell’Io, anche la morale, non più eteronoma,
è una decisione. L’Io che ha infranto ogni legge che uso farà della sua
libertà?
Il problema sollevato dal sistema fiosofico evoliano è risolto da
Rivolta contro il mondo moderno. Essi stanno tra loro come il solve e
il coagula dell’apoftegma ermetico-alchemico.
172
Capitolo III
La domanda posta poco sopra in realtà è un assurdo
inconcepibile. Impossibile prevedere gli effetti di un atto che è senza
legge alcuna in quanto libero. Quindi?
La Tradizione è la libertà479.
Il cuore della forza metafisica che regge i destini del mondo.
L’energia che attraversa la storia e determina la vita degli uomini
informando le diverse tradizioni. Ordine metafisico della libertà.
L’Io ha allora tutto distrutto per tutto creare. Ed oltre il velo
dell’umano che ha superato se stesso risplende una figura sacra.
Per Evola esiste, non è mito ma realtà, una via che trasmuta
l’uomo in un essere onnipossente. Quindi, uno stato sovrumano cui
questa via conduce. Egli afferma l’esistenza di una tradizione
millenaria le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Rivolta è l’ordito spirituale che rappresenta, ri-componendoli in
una mirabile sintesi, i frammenti di questa verità. L’Uomo come
potenza e la Tradizione ermetica sono le vie pratiche per
ricongiungersi a questo centro.
La rivolta è il ritorno (revolvere) all’origine attraverso un
morfologia della storia che indica i gradi attraverso i quali l’uomo ha
voluto fuggire dalla sua libertà e, soprattutto, la stato spirituale
originario da cui è decaduto quale stato dell’essere. Contro il mondo
moderno per una sempre possibile risalita alle sorgenti del divino.
Sintesi dinamica delle misure (sta per valori) di una reale opposizione
alla decadenza e visione meta-politica che illumina la via di una nuova
sacralità terrena. Una civiltà ordinata dall’alto e verso l’alto:
tradizionale.
Rivolta ha un valore conclusivo rispetto a tutte le opere fin qui
elencate perché summa energizzante di esse. Sigillo trascendentale
dell’operare umano.
Opera religiosa.
Quel che tutto congiunge, in questa apparente distanza dei piani
d’azione e di riflessione, è la figura dell’Individuo Assoluto quale
funzione (non è un uomo!) cosmica: Uomo come Potenza, yogin,
Filosofo del Fuoco, Re divino etc. La curva degli scritti evoliani è
iperbolica! Che Evola non abbia rigorosamente tracciato la linea che
479
Ma la libertà è un processo!
173
Capitolo III
unisce i suoi punti di luce e di potenza non può stupire in quanto essa
non è data ma può essere realizzata. Essa si forma, non ci stancheremo
di ripeterlo, man mano che la si percorre.
L’equazione Individuo assoluto=Re divino è una equazione di
libertà. Davvero non è necessaria la sua comprensione.
Tutt’altro:
«Come il pesce non potrebbe vivere abbandonando gli abissi
tenebrosi, così l’uomo volgare non conosca l’arma di questa
sapienza del Signore»480.
L’identità degli Individui Assoluti*
L’identità della differenza tradizionale stabilisce, tra gli uomini
chiamati al risveglio della loro natura individua, una connessione
interna in base alla quale il simile attrae il simile e chiama diverso
l’impotenza a riconoscersi nell’Uno481. Gli uomini della Tradizione
sono uguali nella tensione divina che li muove ma diversi quanto al
livello di realizzazione della propria volontà.
La comunità che Evola vede al fondo della sua speculazione è
una società iniziatica. I diversi si compattano nell’omologia del segno
alto che li rende riconoscibili e li confonde come parti di un tutto
differenziato nell’anima del singolo. Eticamente formato per essere
solo in quanto co-operatore di una vita qualitativamente comune e
ordinata al bene. Comunismo aristocratico.
480
Cfr. J. Evola, Tao tê ching, di Lao-tze, op. cit., cap. XXXVI, p. 53.
*Ci appoggeremo in questa fase della nostra dimostrazione, oltre che ai più conosciuti volumi a stampa, soprattutto ai
moltissimi articoli che Evola pubblicò sin dalla metà degli anni Venti, su riviste come Vita Nova, L’Idealismo Realistico, Il
Lavoro d’Italia, ma anche, successivamente, su Lo Stato, Augustea, La Stampa, Il Lavoro Fascista e Carattere etc., per
meglio inquadrare la visione dell’uomo evoliano e la vocazione politica che lo costituisce. Questo nostro atteggiamento
metodologico, lo abbiamo già chiarito, non è operazione di retroguardia culturale ma vera e propria necessità. Arriviamo
infatti ad affermare, senza eccessive cautele, che chiunque non abbia letto anche (almeno in parte) la sterminata produzione
pubblicistica di questo controverso pensatore, non dovrebbe sentirsi autorizzato a parlarne o a scriverne. La necessità da
noi appena evocata non essendo altro che quella della contestualizzazione e di uno studio comparativo e filologicamente
corretto. Studi condotti spavaldamente senza questi due pre-requisiti essenziali confermano, oggi più che mai, a più di
trenta anni dalla morte del filosofo romano, il modesto livello ermeneutico della critica, specificamente di quella filosofica,
cui questo nostro lavoro si sforza, sia pure indegnamente, di non appartenere.
481
Cfr. J. Evola, La spiritualità pagana nel medioevo «cattolico», in Vita Nova, I, luglio 1932, ora
in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 152: “Il simile incontra dunque il simile. Il simile
risveglia e integra il simile”.
174
Capitolo III
L’energia che trapassa i corpi di questi uomini-cristallo è la
potenza della virtù che li forma ruotandoli come figure attorno ad un
centro di luce. L’animus pre-dominante sull’anima482. Specchio di una
purezza scorta sul fondo dell’agire.
Che cos’è la Tradizione483?
Una domanda che è già una risposta “al di là del bene e del
male”. Lo stesso Nietzsche non domandò, o non rispose,
482
Il mens prevale sull’aspetto patologico della corporeità come l’animus sull’anima. Questa,
strettamente correlata al termine animale, indica ciò che è sub-personale, promiscuo. L’animus è,
al contrario, la qualità dell’uomo che si è liberato del vincolo naturalistico. Non l’uomo-bestia
(anthropos), relegato nella pura naturalità ma l’uomo virile, differenziato (aner). La distanza, da
noi già ripetutamente indicata, di questa filosofia della coscienza e dell’ordine da quella vitalistica
(Bergson, Klages etc.) ci appare evidente. Cfr. J. Evola, Animus e anima, La Stampa, 2 luglio
1943, ora in J. Evola, Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), Heliopolis Edizioni e
Fondazione Julius Evola, Roma, 2006, p. 163: “Se sia l’animus, sia l’anima non sono da
confondere con la realtà grossolana del corpo, sussistono tuttavia fra l’uno e l’altra dei precisi
rapporti gerarchici: in ogni uomo degno davvero di questo nome, è l’animus, è il nous il principio
sovrano; l’anima resta, di fronte ad esso, qualcosa di puramente terrestre, di passivo, di fuggente,
come fuggente è lo stesso soffio vitale del corpo, ad essa significativamente connesso da
espressioni come animam emittere, animam enspirare per ‘morire’”.
483
Tra i moltissimi luoghi dell’opera evoliana in cui si parla di “Tradizione” segnaliamo, per
chiarezza e semplicità, Che cosa è la «Tradizione», apparso in Il Conciliatore, giugno 1971, ora in
J. Evola, L’Arco e la Clava, Edizioni Mediterranee, Roma 2000. In particolare pp. 225-226: “Si
possono distinguere due aspetti della Tradizione, l’uno riferendosi ad una metafisica della storia e
ad una morfologia della civiltà, il secondo ad una interpretazione «esoterica», ossia secondo la
dimensione in profondità, del vario materiale tradizionale. […] Per quel che riguarda il dominio
storico , la Tradizione va riportata a quel che si potrebbe chiamare una trascendenza immanente. Si
tratta dell’idea ricorrente, che una forza dall’alto abbia agito nell’una o nell’altra area o nell’uno o
nell’altro ciclo storico, in modo che valori spirituali e superindividuali costituissero l’asse e il
supremo punto di riferimento per l’organizzazione generale, la formazione e la giustificazione di
ogni realtà e attività subordinata e semplicemente umana. Questa forza è una presenza che si
trasmette, e questa trasmissione, corroborata proprio dal carattere, sopraelevato rispetto alle
contingenze storiche, di detta forza costituiva appunto la Tradizione. Naturalmente la Tradizione
presa in questo senso è portata da chi sta al vertice delle corrispondenti gerarchie, o da una élite, e
nelle sue forme più originarie e complete non vi è separazione tra potere temporale e autorità
spirituale, la seconda essendo anzi, in via di principio, il fondamento, la legittimazione e il crisma
della prima. […]. Per il secondo aspetto della Tradizione, bisogna rifarsi al piano dottrinale, e qui
il punto di riferimento è ciò che si può chiamare l’unità trascendente riposta delle varie tradizioni.
Quello che è stato chiamato il «metodo tradizionale» consiste nello scoprire una unità o
corrispondenza essenziale di simboli, di forme, di miti, di dogmi, di discipline di là
dall’espressione di là dalle espressioni varie che i corrispondenti contenuti di significato possono
assumere nelle singole tradizioni storiche.[…]. La facoltà richiesta è […] quella che si potrebbe
chiamare «intuizione intellettuale» o «spirituale», intuitio intellectualis, e chi ha una sensibilità
adeguata si accorge subito se essa è, o no, in opera, in quanto ne deriva, per una certa virtù
illuminante, inesistente nei ravvicinamenti estrinseci e stentati propri alla indagine profana e
anche a coloro che vorrebbero fare i tradizionalisti senza una qualche effettiva radice nella
Tradizione”. Il grassetto è nostro. Cfr. inoltre l’intervista ad Evola di Gianfranco de Turris,
pubblicata come La vera «contestazione» è a Destra: L’uomo di vetta: (sette domande a Julius
Evola), su Il Conciliatore n. 1, Milano, 15 gennaio 1970, pp. 16-19, ora in J. Evola, Cavalcare la
tigre, op. cit. p. 214: “Debbo per prima cosa ricordare che quando io parlo di Tradizione mi
riferisco a qualcosa di assai più originario, vasto e in attenuato di tutto ciò che correntemente viene
considerato come tradizionale. È molto importante tener presente questo. In fondo, ciò che indico
sono «linee di vetta», sulle quali solo a pochi è dato mantenersi”.
175
Capitolo III
diversamente: “Che cosa è aristocratico?”484. Chi lo sa, si riconosce
nella Tradizione, in questa aristocrazia degli spiriti (e non dello
Spirito), mediante una partecipazione che si fa evento. Estetica pura.
Il sentire di appartenere “a quella patria, che da nessun nemico potrà
mai essere né occupata né distrutta”485.
Catarsi di un momento immoto, senza tempo, come quelle
immagini che senza pudore Evola proietta, strappandole alla storia,
nelle coscienze degli Individui. Come se bastasse per ridestarli alla
loro più intima natura, addormentati tra le rovine del mondo.
Una appartenenza nella Visione. Per ricordarsi, finalmente
vedendo: “Tat Tvam Asi”486. Oltre coloro che discutono perché non
posseggono la virtù487. Questo è il silenzio terribile della Tradizione.
Vogliamo dire: il suo ascolto.
Gli uomini di cui Evola auspica l’avvento, quegli uomini in
grado di rettificare gli eccessi demotici e quindi totalitaristi del
fascismo-parodia della Roma imperiale, sono modelli di esistenza
nella e della Tradizione. Figure di un teatro che mette in scena il
confronto virtuoso dei suoi unici protagonisti. Da qui l’importanza
della equazione personale dello stesso Evola, la sua immagine, il suo
484
È la domanda finale con cui F. Nietzsche intrappola il lettore nell’ultimo capitolo del suo Al di
là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2006. Riportiamo alcune parole di Giorgio Colli dalla sua
introduzione al volume. Ci sembrano estremamente pertinenti anche riguardo all’aristocratico
Evola: “L’istinto del distacco, ecco, forse è questa la radice dell’aristocratico. Il dividersi, il
contrapporsi a tutto quanto sta intorno, nel pensiero, nell’azione, il tenersi fuori, lontano, separato.
Questo sembra il pathos sotterraneo che sta alla base di tutte le configurazioni del gusto
aristocratico” (Ivi, XIII). In piena sintonia con la definizione evoliana di apoliteia: “Apolitia è la
distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi «valori»; è il non accettare di essere
legati ad essa per un qualche vincolo spirituale o morale”, in J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit.,
p. 152.
485
J. Evola, Orientamenti, edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1994.
486
Cfr. J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 95: “Così si è
potuto dire che «coloro che abbracciano chi è iniziato al supremo Brahman non fanno che
abbracciare se stessi» e nel rito viene sussurrata, fra l’altro, la grande parola della Upanishad: «Tu
sei questo (tat tvam asi)», aggiungendo: «Pensa: ‘Io sono Lui’, ‘Lui è i me’. Libero da ogni
attaccamento (nir-mana = dal senso di riferimento all’individuo, in inglese mineness) e dal senso
dell’Io (nir-ahamkȃra), va come desideri, essendo mosso dalla tua vera natura”.
487
J. Evola, Tao tê ching, di Lao-tze, op. cit., cap. LXXXI, p. 68: “L’uomo che ha la Virtù non
discute; l’uomo che discute non ha la Virtù”. Evola cita queste parole di Lao-Tze anche in Rivolta
contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1993 , p. 12, nota 7, cui rimanda dopo
aver affermato: “Le verità che possono far comprendere il mondo della tradizione non sono quelle
che si «imparano» e che si «discutono». Esse sono, o no sono. Ci si può solo ricordare di esse, e
ciò avviene quando ci si sia liberati dalle ostruzioni che le varie costruzioni umane […]
rappresentano; quando si abbia dunque suscitata la capacità di vedere da quel punto di vista nonumano, che è lo stesso punto di vista tradizionale”.
176
Capitolo III
“specifico” e, nello stesso tempo, il suo avvertimento dai più
frettolosamente trascurato.
Si tratta di schemi di vita irriducibili all’individualismo
moderno488. Di paradigmi esistenziali scolpiti in tensione ascetica
sulla via di una esperienza personale incomunicabile. Evola è uno
scienziato dell’azione. Un filosofo politico che sulla scia della trinità
classica Socrate-Platone-Aristotele ridona alla fisionomia del cittadino
quel vigore e quella freschezza smarritisi nella disintegrazione
cristiana dello spirito ecumenico antico.
Progresso dell’origine. La cultura evoliana è quella della
individualità/personalità tutta incardinata su di un elemento
qualitativo che dovrebbe coinvolgere le spiritualità degli altri sulla via
della liberazione. Senza obbligo e senza costrizione a meno che questi
stessi non siano voluti come forme di una disciplina interiore. Una
etica che fa bello chi la esercita (componente ascetico-iniziatica).
Questa è la strada, il metodo della filosofia fortemente antidogmatica percorsa dall’Evola.
Il sentiero è comune ed è quello di un tradere quale
disvelamento nella competizione. Da qui anche la razza come
occasione, soprattutto ─ non sembri audace ─ di dialogo e di crescita
interiore per ovviare alle storture di una contingenza politica
barbaricamente estranea alla retta via di una ragione pratica. Tutta
presa invece da una scrittura biologica che vergasse le regole di una
appartenenza razziale differenziata in base a criteri zoologici.
488
Cfr. J. Evola, Sulle premesse di un “antibolscevismo positivo”, in Lo Stato, gennaio 1937, ora in
J. Evola, Lo Stato (1934-1943), Fondazione Julius Evola, Roma, 1995, pp. 172-173, dove Evola
afferma “la più netta distinzione fra personalità e individualità. L’individualità è la contraffazione
materialistica e secolarizzata della personalità. La personalità è l’uomo che vale anzitutto in
funzione dello spirito, poi di una tradizione, infine di una sua specifica qualità, di un suo specifico
onore, di una sua classe o casta. […]. L’individualismo è sorto a vita attraverso la negazione della
tradizione e della realtà sovrannaturale”. Ancora, tra i molti luoghi dell’opera evoliana a
disposizione e a difesa della persona, La concezione “antiromano-razzista” del diritto ivi, pp. 8485: “Solo quando, per azione di un interno superamento, di interna emancipazione e di interna
formazione ─ azione che si compendia nel concetto classico di cultura ─ il singolo trascende il
dato immediato del sangue, come pure della sensibilità e dell’istinto, aprendosi a interessi di
carattere superiore, solo allora egli divine persona, partecipa ad un ordine più alto, virtualmente
universale (cioè non antinazionale ma supernazionale) al quale, fra l’altro, appartiene il dominio
del diritto secondo la sua concezione tradizionale e spirituale. Cfr. anche J. Evola, Cavalcare la
tigre, op. cit., p. 104: “[…] l’uomo differenziato […] attivando la dimensione della trascendenza in
sé, bruciando le scorie dell’individualità, […] può enucleare la persona assoluta”. Infine, J. Evola,
Gli uomini e le rovine, Edizioni Mediterranee, 2002, p. 83: “La persona è l’individuo differenziato
mediante la qualità, con un suo volto, una sua natura propria, una serie di attributi che lo fanno sé
stesso e lo distinguono da ogni altro; che dunque lo rendono fondamentalmente diseguale”.
177
Capitolo III
L’accenno a questa tematica che esploderemo nel paragrafo seguente,
ci consente qui di marcare l’insistenza con cui Evola descrive
l’attitudine che gli è propria e che si sforza di irraggiare intorno a sé in
quella notte in cui tutte le camicie sono nere.
Quel che attira la sua attenzione, la figura su cui sempre si
sofferma è l’eroe nella sua funzione pontificale, di costruttore di vie:
“Non vuol saperne di speculazioni, di scritture, di testi. Ostenta
perfino una iconoclastia. Vuole essere essenzialmente un sistema di
realizzazione spirituale. Non disserta su verità trascendenti, ma
indica le vie per sperimentarle direttamente. Donde uno stile di
taciturnità e di estrema semplificazione”489.
La prospettiva evoliana non si consegna alla realtà
differenziandola esclusivamente a livello negativo, concettuale. Essa
la scioglie nel suo esito solipsistico per poi affermarla nel
consolidamento di una esistenza ideale. Visione positiva di una
accelerazione atemporale ─ nel piano simbolico-intuitivo in cui si
colloca ─ dove la volontà sovrasta la ragione e agire significa reazione incrollabile al dubbio tragico di ogni conoscenza soltanto
discorsiva e storica. Atto eroico. Il divenire continuo del superamento
è dominante. Tensione estatica d’ogni voluto e d’ogni pensato nella
pienezza dello spirito. Mai doma, irrefrenabile, sempre avanti la
sostanza divorata dall’atto creativo. La perfezione di un attimo in un
sistema energetico di inaudita potenza che sempre mette in
discussione, rompe gli equilibri, spazza via la certezza del rapporto tra
gli uomini e le cose. Evola chiama sovrano questo flusso incoercibile
della vita ma rifugge dal vitalismo in quanto crede possibile
possederne la forza, farsi padroni della potenza organizzandola nelle
strutture coscienziali dello spirito tradizionale. Ordine dal caos. Luce
apollinea sulle tenebre della devastazione dionisiaca. E su tutto, il
disprezzo per il sostare vegetativo, da bestiame bovino, davanti al
pascolo delle furie distruttrici.
489
J. Evola, La religione del samurai, apparso su Augustea il 1° marzo 1942, ora in J. Evola,
Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), op. cit., p. 66. Il grassetto è nostro.
178
Capitolo III
Tutta l’energia di Evola è in direzione di una spinta:
“Non è possibile esporre in poche righe ciò che noi, dal punto di
vista “tradizionale”, riteniamo essere germe per un rinnovamento
spirituale. Per quanto oggi non se ne sappia più nulla, esistono
egualmente nella storia delle leggi cicliche. Al punto in cui l’Europa
è giunta dopo secoli di deviazione “umanistica”, riteniamo che, per
avere un nuovo principio, bisogna augurarsi che si giunga alla fine
quanto prima, ossia che il ciclo si compia sino alle sue ultime
conseguenze. In molte reazioni, siamo perciò inclinati a vedere dei
crampi che prolungano l’agonia, valgono solo a ritardare la
soluzione, onde costituiscono un fattore più negativo che non
positivo. Positivo, ci sembra invece tutto ciò che porti appunto i temi
caratteristici del ciclo moderno sino in fondo, con una intrepidezza ─
per così dire ─ disperata. Allora dinanzi all’alternativa, potrà forse
prodursi un risveglio”490.
Il pragmatismo evoliano si fa qui eutanasia metafisica. Non c’è
pessimismo. Solo una lucida disperazione. Il tonico di un
esistenzialismo positivo che rifugge dalla pavida tolleranza del
realismo come dalle ingenue consolazioni dell’intellettualismo. A quel
che sta cadendo si deve dare una spinta. Pietà tradizionale. Non c’è
niente di immutabile. L’ordine del nichilismo cova il gesto mortale
che lo soppianterà nell’aurora di un nuovo ciclo. L’abbraccio di una
esistenza insieme umana e divina, fondamento ideale di uno Stato
interiore:
“da cogliere non più per sensi o categorie razionali, sibbene per
l’immediatezza di una intuizione amante, di un atto che trascende la
limitazione della mia individualità e facendomi comunicare con
l’essere trascendente, radice della mia radice, in questa suprema
interiorità mi fa comprendere interiormente le cose non come sono
490
J. Evola, Risposta all’inchiesta sulla nuova generazione, ne Il Saggiatore, III, n. 19, marzo
1932, citato da Gian Franco Lami nella sua introduzione a L’Idealismo Realistico, op. cit., p. 29.
Apparso anche su L’Indipendente delle idee, supplemento culturale della domenica del
L’Indipendente, 6 novembre 2006.
179
Capitolo III
per me ma come sono in se stesse, cioè come sono in funzione della
potenza o mente divina che le ha prodotte”491.
La metafisica per Evola è “ordine di assoluta concretezza”
voluto dall’uomo. Visione antidualistica, anticristiana, aristocratica il
cui occhio è l’autosufficienza dell’Uomo. Magia operativa: “[…]
occorre avere la forza di prendere in blocco tutto ciò che si è, che si
sente e si pensa e crede quali uomini, metterlo da parte, dire Basta, e
andare avanti; occorre cioè portarsi alla disperazione, creare una
situazione in cui non resti più che una alternativa: o vincere o
scomparire”492. Non c’è altra possibilità per questa morale eroicopagana fanaticamente sostenuta da un ultra-fascista mai iscritto al
P.N.F. Abbandonata la filosofia alla sua inadeguatezza comunicativa,
il simbolo entra nella sua dimora tradizionale. La dimora del mito, che
“non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia” 493.
Qui Evola scopre il valore morale della Tradizione, immagine di un
uomo eretto. Il valore esistenziale della metafisica, punto di
congiunzione tra la terra e il cielo, tra l’alto e il basso, tra immanenza
e trascendenza. La possibilità di risalire i momenti della storia
attraverso i gradi della umana civiltà in bilico tra Nord e Sud. I due
regni: l’uno della qualità, l’altro della quantità con i rispettivi ordini e
conseguenti legittimazioni simboliche negli spazi e nei tempi più
diversi. E la volontà di un recupero metafisico, quell’etica pagana che
può di nuovo irrompere nel flusso storico e ri-configurare l’ideale
imperiale. L’Impero come soluzione politica. L’ordinatio ad unum
quale presenza dell’alto nel mondo, dove le diversità sono le vie di
un’unica affermazione di pace e di giustizia. La concezione
tradizionale di Evola è una concezione dinamica, “romana” in quanto
consente la manifestazione del potere divino nella dimensione storica.
Gli dei romani si “incarnano” nel tempo e la loro rivelazione è
qualcosa di legato a determinati momenti “‘fatidici’, originali,
irripetibili”. Olimpico è il carattere di quell’azione che folgora la
491
Dualismo cristiano e dionisismo nella filosofia mistica di P. Zanfrognini, in L’Idealismo
realistico, n. 13-14, 1-15 luglio 1926, ora in J. Evola, L’Idealismo realistico, op. cit., p. 124.
492
Ivi, p. 127. Cfr. ancora Georges Bataille, La congiura sacra, op. cit., p. 5: “Segretamente o no,
è necessario trasformarsi o cessare di esistere”. Vedi inoltre Introduzione alla Magia, volume
primo, op. cit., p. 8: “Trasformarsi ─ questa è la premessa della conoscenza superiore”.
493
Ernst Jünger, Trattato del Ribelle (titolo originale: Der Waldgang), Adelphi, Milano, 1994,
p. 54.
180
Capitolo III
storia riempiendo il mondo di luce: “Diritto e idea politica, in Roma
soprattutto nelle origini ebbero una radice spirituale, la quale rimanda
proprio all’ideale olimpici e antinaturalistico, alla simbolica sovranità
della luce che, fra le genti arie, costituì sempre un motivo
fondamentale”494. Questa sovranità luminosa si manifesta infatti in
quei comportamenti che contraddistinguono i portatori dell’idea
divina la cui funzione è quella insieme di guida e di accrescimento
morale nella città.
Tradizione evoliana
Il cristianesimo per Evola è il nemico par excellence.
Dogmatismo semitico imposto al mondo ariano dei romani. Sul finire
del 1927, il barone sostiene una posizione che prenderà, l’anno
successivo, la forma di uno dei suoi più importanti, e sottovalutati,
scritti: Imperialismo pagano. Arturo Reghini ne è uno dei massimi
ispiratori ed è anche il responsabile dello scisma che porterà alla
cessazione del “Gruppo di Ur”. Questo sodalizio si era costituito agli
inizi del 1927 col fine di esporre metodi, discipline e tecniche di
quella tradizione “[…] adombrata da simboli scari, miti e riti, le cui
origini si perdono in tempi primordiali, ora come scritti allegorici,
misteri ed iniziazioni, come teurgia, yoga o alta magia e, nei tempi più
recenti, come sapienza segreta di correnti sotterranei affiorate qua e là
fra le trame della storia occidentale, fino agli Ermetisti e ai
Rosacroce”495. Evola, nel suo libello del 1928, afferma l’irriducibile
contraddizione tra l’ideale imperiale e quello cristiano e il fallimento
del compromesso tra questi due ideali tentato dal cattolicesimo fino
all’età dell’Umanesimo. Critica la modernità progressista,
democratica e ugualitaria. Propone una individualità eroica,
aristocratica e autarchica. Sostiene recisamente il superamento della
concezione legalistica dello “Stato” e di quella collettivistica di
“Popolo”. Infine consacra i valori della tradizione, conoscenza
salvifica e, quel che più conta, selettiva. Deve essere chiara la
494
Augustea, Esplorazioni nella romanità delle origini, 16 novembre 1942, ora in J. Evola,
Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), op. cit., p. 79.
495
Introduzione alla magia, volume primo, op. cit., p. 9.
181
Capitolo III
differenza dell’individuo evoliano, il suo essere romano e pagano
sulla via di una elevazione opposta al cristianesimo/cattolicesimo.
Il mondo tradizionale non conosce trascendenza separata da
immanenza ma, in una larvata forma di progressismo che “guarda
indietro”, rifugge da ogni soluzione “dualistica”. Evola ricorda
(riporta al cuore) il carattere sacrale di una realtà integralmente
spirituale sui confini del processo di secolarizzazione. Un uomo eroe
che si muove in una natura magica: visione antinichilistica del
nichilismo.
Gli occhi sono quelli della volontà di potenza.
Metafisica eretta sulle rovine della modernità. Vivere la
trascendenza nei giorni che muoiono. Guardare in faccia il dio nella
prossimità di una distanza incolmabile. Questa capacità aumana,
confine del limite che infrange, nello stesso rifiuto, ogni forma di
dogmatismo, ritrova la tradizione nella libertà assoluta dell’Individuo.
L’eroismo della vita nella vita nega tutto quel che compromette
l’onore del gesto superiore compattando quegli uomini capaci
d’incarnare l’attributo divino. Comunità degli uguali che obbediscono
solo alla legge dell’autarchia.
Il pensiero evoliano è religioso. Chiamiamolo pure divino.
Senza Dio.
Stato spirituale
Evola si è sempre rivolto al singolo. Il suo pensiero politico è
tutto nella capacità dell’individuo di trascendersi. Il limite è quello di
una consapevolezza progressiva. Come la potenza che cresce.
Metafisica del superamento tutta terrena. Superamento della
metafisica allora. O trascendenza immanente. Gli uomini della
comunità persuasa portano la forza divina in terra. Il percorso di
liberazione giunge a compimento, si perfeziona nella dimensione
politica secondo i ritmi tradizionali che segnano la vita di un carattere
indelebile. Una vita da vivere contemplando in tensione scatenata ─
dall’illusione del desiderio che uccide la potenza.
182
Capitolo III
La contemplazione disvela lo spirito di una esistenza consacrata
alla veglia, alla luce della coscienza, alla sacralità dell’atto. Filosofia
del perfettibile. Nella storia che è pratica di vita in elevazione.
La morale evoliana, la sua spinta religiosa e la necessità di
confrontarsi col fascismo, è agone e conseguente agonia del suo
pensiero e della sua azione nel fascismo. Nessuna etica civile o
confessionale animava lo slancio utopico di questo cittadino virtuoso.
Non potere ma potenza. Piano di realizzazione verticale.
Ascesi, autosufficienza, autarchia. Eroe, asceta politico o
guerriero nichilista. Ancora: Individuo Assoluto, uomo compiuto della
tradizione. Anarchico di Destra. Tipo differenziato. Potremmo
continuare a lungo. Sempre la stessa vocazione interiore. E all’esterno
il gracchiare feroce dell’incomprensione, parimenti violenta sia
durante il fascismo che durante l’antifascismo496.
Oltre la superficie della piattezza orizzontale quale vita in
declino. Possesso materiale, utilitarismo. Da despota o da bestia:
l’imporsi sulle cose non appartiene alla superiorità spirituale.
Civiltà è creazione. Non civilizzazione. Tuttavia l’esempio
ampliava i confini della luce e propiziava il risveglio delle anime
assonnate. Mobilitazione delle masse quale esercito dei sonnambuli.
Evola urlava ai “pochi”. In pieno mercato. Forse è questa la radice del
fraintendimento che trascina verso il basso gli incapaci del “salto”. E
della triste sequela dei suoi cattivi discepoli. Monocolo di massa.
Quello evoliano era un messaggio di una semplicità disarmata e di
disarmante purezza e veicolava una idea dell’uomo e del suo “essere”
totalitaria. Irrimediabilmente e provvidenzialmente distante dal
totalitarismo idealistico-romantico di marca germanica. Filosofia
trascendentale, immanente all’individuo. E non immanentismo. La
trascendenza evoliana non è l’altro dalla vita ma l’altro della vita: il
496
Si pensi solo al caso della rivista La Torre, fondata e diretta da Evola nel 1930 e dopo pochi
mesi barbaramente censurata dal Regime. Ricordiamo che il Barone, per un certo periodo, dovette
perfino uscire “per mia difesa, con una piccola guardia del corpo (costituita da altri fascisti,
simpatizzanti)”, come lui stesso racconta ne Il cammino del cinabro, op. cit., p. 101. Cfr. anche
Massimo Scaligero, Testimonianze su Evola, op. cit., p. 181: “Conobbi Evola in un momento in
cui tutti ─ o quasi ─ prudentemente si allontanavano da lui: si era rivelato, mediante La Torre, il
più audace contestatore dell’ideale di cultura del Regime. Nonostante che intorno a lui, per tale
motivo, si creasse una sorta di vuoto, egli continuava imperterrito ad attaccare”. E ancora, ivi, p.
183: “Gli facevo compagnia con un gruppo di amici maneschi trasteverini, da me mobilitati,
quando egli rischiava di essere di nuovo aggredito, in occasione delle diverse cause che aveva in
tribunale per querele e strascichi di querele”.
183
Capitolo III
suo più alto inverarsi nella prassi degli uomini che, accordata al
divino, ha carattere luminoso, “olimpico”. Lo spirito è hic et nunc,
nella sua trasversalità celeste (: occulta) e terrena. È nel sangue
iperbolico dell’uomo. Forma d’infinito nella sua valenza di veicolo
iperfisico che sola consente la superiore realizzazione della persona.
Assoluta quando è sciolta dal mondo degli uomini ma in connessione
energetica, essenziale con esso perché scelta umana e divina insieme.
Realtà metafisica. Ecco le due nature nell’uomo e il problema della
“razza”. Problema eminentemente spirituale, religioso. Evola è un
uomo del suo tempo, e nel suo tempo volle vivere. Il fascismo e il
nazismo furono soltanto la base di partenza verso l’altrove della storia
che si chiama Roma497. L’antichità classica risolve l’enigma dello
sradicamento moderno de-ciso dal cristianesimo. L’obiettivo non è
una restaurazione degenerata. Lo stesso cristianesimo infatti sovvertì
il cosmo tradizionale parodiato dal fascismo nel marmo bianco della
sua impura monumentalità. L’operazione evoliana ha un senso solo
perché azzardata sul limite della decadenza. Unire lo sradicamento
cristiano, la libertà totale che spezzò le radici della polis nell’animo
dell’uomo e la luce olimpica del “dio in noi”, la saldezza interiore di
un uomo in costante contatto con la forza delle cose. La struttura
originaria che presiede al mutamento. Quella di Evola è la purità
sognante di una conquista dell’origine nel deserto. La scelta di una
morte trionfale in questa stessa vita per non soccombere alla melodia
497
Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., pp. 328-329: “In Roma si incarna
l’idea della virilità dominatrice. Essa si manifesta nella dottrina dello Stato, dell’auctoritas e
dell’imperium: lo Stato, nel segno delle divinità olimpiche […], non disgiunto nelle origini, da
quel «mistero» iniziatico della regalità ─ adytum et initia regis ─ che fu dichiarato inaccessibile
all’uomo comune; l’imperium, nel senso anzitutto specifico ─ non egemonico e territoriale ─ di
potere, di forza mistica e temibile del comando, posseduta non solo dai capi politici […], ma anche
dal patrizio e dal capo-famiglia”. Cfr. anche J. Evola, Romanità, germanicità e la «Luce del
Nord»: Il significato di Roma per lo spirito «olimpico» germanico, in Rassegna italiana,
novembre 1942, ora in J. Evola, Romanità, germanicità e la «Luce del Nord», L’Arco e la Clava,
Edizioni Mediterranee, Roma, 200, p. 145, dove Evola chiarisce quale “romanità” sia il suo punto
di riferimento: “Troppo spesso di Roma ci si è fatta, in Italia, una idea astratta, una reminiscenza
umanistica, un oggetto di retorica. L’essenza primordiale di Roma troppo spesso è stata trascurata
─ di quella Roma che è un mistero augusto delle origini, di quella Roma che contenne e sempre
conterrà una forza evocatoria, di quella Roma che non è un puro concetto storico o una struttura
giuridica secolare bensì un ordine dove non vigono semplici valori umani, ma anche regnano
potenze, figure divine e dominazioni: un mondo di tensioni metafisiche, un mondo solare,
élitismo, realtà olimpica e eroica, ordine, luce, pura virilità, pura azione. Vicino a tutto questo,
l’idea dello Stato, dell’Imperium”. Questa è la romanità che per noi rappresenta un valore, ed essa
[…] va considerata [...] come una rinascenza , come il raffiorare per vie misteriose di un retaggio
primordiale”.
184
Capitolo III
nichilista di un concerto di automi. Da qui la furia divulgativa della
sua comunicazione “alta”: “Non possiamo limitarci a riconoscere il
vero e il buono ai piani alti, mentre in cantina stanno scorticando vivi i
nostri confratelli”498. La prosa immaginifica di Evola, la sua filosofia
poetica preludia jüngerianamente al “passaggio al bosco”, preparando
il terreno al rivolgimento e alla caduta dei titani moderni che hanno
stretto con la tecnica un patto micidiale. Il segreto del linguaggio
evoliano, sempre teso, potrebbe essere proprio qui. Nella volontà di
aiutare gli uomini del suo tempo a decifrare le immagini sul fondo
della caverna. Non lottando invano contro le tenebre, ma accendendo
la luce nelle loro coscienze. Maieutica interiore. E quadri a-storici
arbitrariamente ingranditi o rimpiccioliti in grado di eccitare le menti.
Tutto doveva essere tentato pur di non perdere anche un solo grumo di
presenza a sé stessi, di sufficienza, di drittura. Onore e fedeltà, non
(solo) al Duce dunque, ma al proprio mandato trascendentale, di là da
qualsiasi strumentalizzazione totalitaristica dell’universo spirituale
pre-moderno che, per Evola come per lo stesso Guénon, specie nel
nazional-socialismo assunse la fisionomia di una vera e propria
contraffazione della “sapienza originaria”499. Pensiamo soprattutto
all’uso del simbolo primordiale dello Swastika: la Hakenkreuz o croce
ansata, rappresentazione del “fuoco ardente per virtù propria, e del
sole che nasce”, poi oscurato da drammatiche involuzioni razziste500.
Il patrimonio ordinante della tradizione è fatto di energia canalizzata
498
Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, op. cit., pp. 52-53. Crediamo che questo giudizio jüngeriano
condensi le ragioni della scelta di Evola a favore (e contro!) il fascismo. La drammatica
contingenza in cui visse dettò, con la forza terribile che ha solo la fatidicità dell’evento
(meta)storico, le ragioni del suo “cameratismo” in vista di una nuova stagione di luce e di potenza,
cui il movimento di Mussolinini avrebbe potuto offrire il proprio contributo virtuoso. Ingenuità
politica o fede tradizionale o ancora il groviglio di un fascio di tensioni metafisiche in imminente
precipitazione sul destino degli uomini. Non è nostra intenzione dare qui una risposta. Certo è che
la figura del pensatore romano appare esemplare testimonianza, accanto a quella di C. Schmitt, di
un tempo che non consentì, agli uomini, la fuga dalle proprie responsabilità. Da una parte e
dall’altra. Julius Evola come “epimeteo pagano”?
499
Cfr. J. Evola, Lo Stato (1934-1943), op. cit., p. 117: “E noi potremmo perfino mostrare che
sinistre devastazioni i nuovi fervorosi apostoli della razza nordica hanno operato con
interpretazioni de formatrici e infette dei pregiudizi più moderni proprio nelle stesse antiche
tradizioni mitologiche e eroiche nordiche degli Edda, di cui essi mostrano dunque di esser i primi a
non capir nulla”.
500
Cfr. René Guénon, L’idée du Centre dans les traditions antiques, Regnabit, maggio 1926, ora
in René Guénon, L’idea del Centro nelle tradizioni antiche, Simboli della scienza sacra, Adelphi,
Milano, 1997, p. 70, nota 8: “Non alludiamo qui all’uso del tutto artificiale dello swastika, in
particolare da parte di taluni gruppi politici tedeschi, che ne hanno fatto con totale arbitrio un
segno di antisemitismo, con il pretesto che tale emblema sarebbe proprio della presunta ‘razza
ariana’; questa è pura fantasia”.
185
Capitolo III
attraverso le vie dell’agire e non del sapere. Per chi non abbia il senso
di quanto vasto ed inattenuato sia il riferimento metafisico del
pensatore romano, riesce difficile sfuggire al sospetto che la
tradizione in Evola sia tale solo nella potenza mitopoietica dei suoi
simboli ordinanti. Come sintesi, utopia. Mentre da un punto di vista
storico o storicamente determinato essa (si) rivela una struttura debole
─ a dispetto della sua icastica pre-potenza ─ derivata, costruita,
sincretistica, di giustapposizioni delle diverse tradizioni sotto il
cappuccio della “cosa una”. Scorgiamo qui allora la differenza tra
filosofia e tradizione. Nella strategia comunicativa che verso la fine
degli anni Venti reclama un fervore cui il rigore della dimostrazione
filosofica non poteva offrire l’entusiasmo desiderato, strozzato dalla
sintesi dialettica. Dimostrazione che aveva il fine precipuo di sfuggire
al delirio irrazionale per radicarsi nel superamento della ragione.
Esame di coscienza. Il passo successivo non fu l’abbandono della
filosofia ma la trasformazione del mondo. Bisognava cambiare le
cose. Quel che poteva esser detto, Evola lo espresse filosoficamente
come il velo dialettico del compimento. Come magia della parole,
gesto iniziatico che (di)mostra l’invisibile nella forma (gestalt).
Filosofia pre-moderna ancorata alla vita. Abbandono del mito ad una
tecnicità discorsiva intesa quale auto-iniziazione, ultima maschera e
incredula sollecitazione all’ascolto. Prima di rivoltarsi contro il
mondo moderno. Ma filosofia anche come rifugio, caverna del mito
(Platone), per aver fissato il sole. E quindi: aletheia, nonnascondimento della luce e ritirata in attesa degli altri Sé: i simili, gli
uguali, gli unici in grado di ardere nel fuoco dell’azione conforme
all’ordine divino, fuori e dentro l’uomo, la parola impossibile della
Tradizione. Al fondo di quell’Io che stirnerianamente si prende ma
non si apprende. O in quella superficiale svolta cosiddetta
tradizionale: esorcismo della ragione per fuggirne l’essenza demonica.
Non crediamo infatti vada sottaciuto il carattere improvviso, non
sufficientemente meditato e mediato, del processo, sia pure iniziatico,
con cui Evola si accasa in Tradizione. La velocità del trapasso tradisce
una situazione di emergenza. Come se nel crollo generale Evola
cercasse un sostegno, anche solo la suggestione di un asse incrollabile
cui appoggiare la fluidita della sua “visione del mondo”. Una scena in
cui calare quella potenza dell’individuo, quell’irriducibile flusso di
186
Capitolo III
libertà irrigiditosi nella maschera solipsistica, che tanto aveva colpito i
più avvertiti critici del suo tempo, sconcertati da un simile
impressionante segnale di disarmo della ragione.
Tradizione è visione del gesto pensante o sovvenire dell’azione.
Penso al francese “se souvenir”, ricordarsi e alla sua omofonia con
sous-venir (venir sotto) ma anche a subvenir (giovare, sopperire) e al
latino subvenire, composto di sub, sotto, e venire: quasi andar sotto
per fare spalla, aiutare. Il passato tradizionale “vien sotto” all’uomo
per farsi ricordare, per guidare: aiutarne il gesto luminoso. Il nuovo
senso dell’azione, del presente, è radicato nel passato che sov-viene.
“Civiltà tradizionale” non è cosa morta, solidificata. Essa ha la
funzione di guida dell’eterno presente. Come un faro che indica la via
del ritorno all’origine. Rivoluzione ultramoderna. Crediamo si radichi
in questa dimensione l’urgenza che folgora Evola e lo spinge ad
immettere nel circuito storico quell’immensa circolazione di energia
che è la Tradizione. Quasi fosse il contenitore spirituale
dell’elevazione interiore, l’insieme di tecniche, culti, vie, immagini
etc. che permettono la creazione e la consistenza di un terzo potere tra
cielo e terra appartenente all’essere integrale dell’uomo. Il sovrano
interiore capace di reggere il mondo: “La «tradizione» in senso
metafisico e concreto ─ ormai lo abbiamo ripetuto a sazietà ─ non è
nulla più che la presenza di [...] realizzazioni superiori al titolo di una
continuità stabilità attraverso le generazioni da una catena di
individualità superiori”501. Si badi a quella fascinosa endiadi tutta da
chiarire: “metafisico e concreto”! Una continuità incalzante di
realizzazioni spirituali che formano il “cordone dorato” della
tradizione. Questa la universalità del tradere cui Evola si richiama e
questo il carattere pratico-esperienziale che, rispettivamente e
paradossalmente collocano Evola tra i “cattolici” (ripetiamolo:
paradossalmente) e, quel che più conta ai fini della dimostrazione che
andiamo tentando, a “sinistra” dell’idealismo 502.
501
J. Evola, Autorità spirituale e potere temporale, in Krur (1929), op. cit., p. 335.
Cfr., Gian Franco Lami, Prassi e tradizione, in Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius
Evola, op. cit., p.167: “Vorrei che fosse definitivamente chiara la ragione per cui insisto
sull’aspetto ‘pratico’ della filosofia evoliana. Dal mio punto di vista, il pensiero idealista italiano
ha vissuto, nel primo quarto del secolo scorso, un periodo altamente critico, nel quale si è andata
proiettando una crisi generazionale, tra mentalità di tipo conservatore e mentalità di tipo
rivoluzionario. Ci fu, insomma, un idealismo del tipo ‘giustificazionista’ (dove inserire lo
storicismo crociano) e un idealismo del tipo ‘giustizialista’ (dove inserirei il pragmatismo
502
187
Capitolo III
Si faccia attenzione alle seguenti distinzioni:
“Sono i due poli primordiali della vita spirituale, che danno luogo a
due verità, a due caste, a due tradizioni, a due culture, l’una
sacerdotale, l’altra imperiale. E nell’una, la contemplazione domina
sull’azione, nell’altra l’azione domina sulla contemplazione; nell’una
la trascendenza eccede l’immanenza, nell’altra le due cose sono
coestensive e strette in un unico nodo; nell’una l’accento del valore
cede nella remissione all’universale, nell’altra esso cade
nell’affermazione dell’individuale; per l’una il “tipo” è il santo,
l’asceta, il mistico o il devoto, per l’altra esso è l’aristocrate, il duce,
l’eroe e, in un certo aspetto, il mago; nell’una la suprema autorità
spirituale spetta al pontefice, nell’altra essa spetta invece al Re o
all’Imperatore; e le coppie di simili opposizioni, potrebbero essere
moltiplicate a volontà”503.
La tradizione metafisica per Evola è questa. E queste sono le
fondamenta invisibili del suo edificio ordinante. Conformare la
propria esistenza a tali coordinate significava allora darsi al sacrificio
della propria dimensione meramente vegetativa. Per sfidare il limite
umano, soprattutto l’indolenza dell’abitudine che conserva la vita
senza accrescerla e la crassa soddisfazione degli impulsi più
immediati, incarnando un ideale di grandezza e di saldezza interiore.
In primis et ante omnia super-storico e meta-politico. La tradizione
significa che “felice” è solo chi agisce, chi compie il proprio dovere.
Si deve assolutamente capire che non c’è Individuo Assoluto, icona
della libertà da una parte e poi, successivamente alla cosiddetta
tilgheriano). Evola si connoterebbe in questo secondo ambito, che, per un certo verso conserva la
sua radice più nascosta in un dato hegelismo ‘di sinistra’, e precisamente feuerbachiano, tramite il
quale la realtà non si sarebbe più soltanto contemplata, ma si sarebbe dovuta ‘cambiare’. Ecco,
penso che buona parte delle simpatie suscitate da Evola in ambienti anarco-rivoluzionari provenga
da questa radice nascosta, (la medesima) che gli valse, in circostanze particolari della sua vita,
l’epiteto di ‘comunista’”. Cfr. anche Aleksander Dughin, Julius Evola e il tradizionalismo russo,
in La Nazione Eurasia, 11 giugno 1974-11 giugno 2004. Trentennale evoliano, Anno I, Numero
speciale 1, giugno 2004, p. 16: “Indubbiamente, nell’insieme dei suoi scritti è molto saliente ciò
che si potrebbe tentare di chiamare la ‘sinistra’ del messaggio evoliano. L’anticonformismo totale
verso la realtà moderna occidentale, la contestazione radicale dei valori borghesi avvicinano Evola
a certe branche della sinistra. Questo fenomeno non è la manifestazione della sua natura personale.
Vi è qui un lati sintomatico estremamente importante”.
503
Cfr. J. Evola, Autorità religiosa e autorità temporale, in Vita Nova, n. 12, 1929, ora in J. Evola,
Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 79.
188
Capitolo III
“svolta tradizionalista”, l’uomo della tradizione intesa come legge
necessaria cui obbedire. La libertà, questo asylum ignorantiae della
filosofia, un (non) concetto spesso usato in maniera fideistica, ha in
Evola un valore assoluto: pratico, positivo e selettivo. Essa infatti,
lungi dall’essere la libertà negativa del non-infrenato, una forma
larvata di prigionia, è forma, stile, legge. La tradizione, non ingessata
nel dogma, è la possibilità inesauribile che l’opus si compia. Anche e
soprattutto tra le rovine. Il carattere dinamico della tradizione evoliana
lo lasciamo chiarire da questo splendido verso di Michelstaedter:
“Argìa sarà il tuo porto di’ energheias”.
Tradizione è nello stesso tempo, e fuori del tempo, forza in
potenza non ancora manifestata e forza in atto: azione efficace. Se la
tradizione non viene agita, essa non è. Va dunque sottolineato ancora
una volta il carattere eversivo, antidogmatico ed eracliteo della
filosofia della tradizione evoliana. Una visione che mette in rapporto
due diversi tipi di azione: moderna e tradizionale. Ora, la loro
opposizione non è cronologica. Non è quella di un prima e di un poi
che arresterebbero la libertà degli individui tra le maglie del tempochronos: ciclicità dei piani metafisici che sovrastano le epoche
storiche. La lotta tra le due, tra il mondo del sacro e quello della
decadenza, è simultanea e si combatte nel senza-tempo. Guerra
metafisica504. Storia e tradizione sono i due estremi tra cui si di-batte il
cuore dell’uomo. In cielo e sulla terra l’opposizione è reale. Ecco
perché Evola irrideva Guénon definendolo “allergico alla politica”505.
Ma la politica per Evola riguarda il destino della polis, la dimora
dell’essere, l’agire degli uomini. Da qui il suo impegno straordinario
per non far naufragare quanto di buono egli si sforzò di vedere nel
fascismo, nei presupposti virtuosi di questo movimento. E
l’attenzione, quasi ossessiva, ai destini del suo amato Occidente.
L’azione è il segno vitale della contrapposizione, luogo della
decisio e del conflitto. Rivoltarsi contro il mondo moderno significa
allora far dialogare i due volti dell’azione e le due nature dell’uomo:
504
Cfr. J. Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, 1996, p. 203: “«Voi non siete qui
per combattere con cose, ma con déi», fu già detto da Böhme”.
505
Cfr. J. Evola, René Guénon e il «tradizionalismo integrale», ne I testi di Totalità, Il Borghese,
la Destra, op. cit., p. 132: “Il Guénon era allergico per tutto ciò che è politica in senso stretto
[…]”.
189
Capitolo III
“Vi è un ordine fisico e vi è un ordine metafisico. Vi è la natura
mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore
dell’«essere» e vi è quella infera del «divenire». Più in generale: vi è
un visibile e un tangibile e, prima di là da esso, vi è un invisibile e un
non tangibile quale sovramondo, principio e vita vera. Dovunque nel
mondo della Tradizione, in Oriente o in Occidente, in una forma o
nell’altra, è stata sempre presente questa conoscenza come un asse
incrollabile al quale tutto il resto era ordinato. Si dice conoscenza e
non «teoria»506.
E ancora un frammento eracliteo spesso ricordato da Evola:
“Un uomo è un dio mortale e, un dio, un uomo immortale”507.
Dalla tradizone alla storia e dalla storia alla tradizione. Una
scala su cui sale e scende questo uomo-divino capace delle
realizzazioni spirituali più alte, tali da far violenza allo stesso cielo, e
delle degradazioni più basse. Quella su cui Evola insiste in molti
luoghi della sua opera e che qui vogliamo ricordare, è l’aver ridotto la
ragion d’essere dell’uomo su questa terra ─ la reintegrazione nello
status spirituale celeste, originario ─, alla triste fatuità del divenuto
scimmia.
Filosofia dunque anche come testimonianza, e tradizione anche
come, non suoni scandaloso, fede. La stessa che può divenire atto
magico:
“Bisogna sentire in se stessi l’evidenza, che di là da questa vita
terrestre vi è una più alta vita, perché solo chi così sente possiede
una forza infrangibile e in travolgibile, solo costui sarà capace di uno
slancio assoluto ─ mentre quando questo manchi, lo sfidare la morte
e il porre in non conto la propria vita è possibile solo in momenti
sporadici di esaltazione o nello scatenamento di forze irrazionali:
non vi è disciplina che possa giustificarsi, nel singolo, con un
significato superiore ed autonomo”508.
506
J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., p. 19.
J. Evola, Gerarchia tradizionale e umanismo moderno, ne La Torre, op. cit., p. 108.
508
J. Evola, Orientamenti, p. 51.
507
190
Capitolo III
Quasi non avesse senso la vita, non meritasse di vivere se non
all’altezza della morte, in un regime di disciplinata tensione
all’autosuperamento. Ferrea, autonoma, libera. La tradizione è il culto
del limite, la soluzione della propria equazione personale (suum
unicuique tribuere), l’obbedienza alla legge interiore (egemonikon) e,
nel caso, esteriore. In questa ottica anche costringersi all’obbedienza
in una struttura gerarchicamente ordinata poteva essere prova di
libertà:
“Platone ebbe a dire che coloro che non hanno un signore in sé stessi
è bene che, almeno, lo abbiano al difuori di sé stessi. Ebbene, a ciò
che è stato vantato come la ‘liberazione’ dell’uno o dell’altro popolo,
messo al posto, talvolta perfino con la violenza, (come dopo la
guerra mondiale), col ‘progresso democratico’ eliminando ogni
principio di sovranità e di vera autorità, e ogni ordinamento dall’alto,
oggi fa riscontro in un numero rilevante di individui una
‘liberazione’ che significa l’eliminazione di qualsiasi ‘forma’
interna, di ogni carattere, di ogni drittura: in una parola, il declino o
la carenza nel singolo di quel potere centrale pel quale abbiamo
ricordato la suggestiva denominazione classica di egemonikòn. Ciò,
non solo nei riguardi puramente etici, ma nel campo stesso dei
comportamenti più correnti, della psicologia individuale, della
struttura esistenziale. Il risultato è il diffondersi di un tipo labile e
informe ─ di quella che si può ben definire la razza dell’uomo
sfuggente”509.
Interessanti al riguardo anche questa parole di Nietzsche:
“Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho udito anche parlare
di obbedienza. Ogni essere vivente è un essere che obbedisce. E, in
secondo luogo, si comanda a colui che non sa obbedire a se stesso.
Questa è la specie della vita. Infine è questa la terza cosa che ho
udito: comandare è più difficile che obbedire. […] Che cosa induce
l’essere vivente a obbedire e comandare e a esercitare l’obbedienza
509
J. Evola, La «razza dell’uomo sfuggente», in Roma, 3 febbraio 1951, ora in J. Evola, L’arco e
la clava, op. cit., pp. 15-16.
191
Capitolo III
anche nel comando? […] Ogni volta che ho trovato un essere
vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà
di potenza di colui che serve ho trovato la volontà di essere
padrone”510.
Lo Stato di Evola si specchia nell’antropologia del singolo
individuo, come per Platone (dottrina dell’anima) e per Aristotele
(politica macrocosmo dell’etica). La Tradizione è quindi forma di un
altrove assoluto nel senso di uno spazio a-temporale nel cuore
dell’uomo. È una visione dell’essere davanti agli occhi interiori che
obbliga, per la potenza della libertà, ad incarnare, ad essere questa
visione. Non come fictio imaginationis, ma come una realtà
metafisica. Tuttavia è impossibile riconoscere il suo volto originario
se l’individuo non ha attivato in sé la dimensione della trascendenza
come per una rottura esistenziale, decondizionalizzante, di livello,
trapasso ontologico o metabolé. Insomma, senza un cambiamento di
polarità non si sarebbe potuto, e non si può, assumere il contenuto del
percorso esemplare di Evola: “la corsa senza quartiere alla riscoperta
di una metafisica ‘immanente’”, secondo l’eccellente espressione di
Lami511. In caso contrario, la tradizione sarà, nel migliore dei casi,
l’enigma inesorabile scolpito nella pietra della propria, più o meno
dotta, ignoranza. L’assunzione di un contenuto spirituale su di un
piano meramente discorsivo. “Che il sapiente non turbi con la sua
sapienza la mente di coloro che non sanno”512. La sottile deviazione
dell’operare evoliano e gran parte della sua sconcertante
incomprensione è forse nella trasgressione di questo aureo
insegnamento. La speranza che una crisi interiore portasse nuovi
“unici” nelle fila della sua militia spirituale, a difesa di una città
sprovvista delle mura di cinta: l’Idea. Consapevole che qualsiasi
realizzazione soltanto terrena mai avrebbe spezzato il limite umano e
consentito la liberazione del “mondo come potenza”. E viene da
chiedersi, con Lami, “se egli sia stato davvero così abile, nella
costruzione del suo metodo, e così raffinato, nella sua esposizione,
510
F. Nietzsche, Della vittoria su se stessi, in Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 130.
Gian Franco Lami, Julius Evola e le idee di Vita Nova, in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op.
cit., p. 42.
512
J. Evola, Sul concetto di iniziazione: Überdas Initiatische, in Antaios, 1965, ora ne L’Arco e la
Clava, op. cit., p. 109.
511
192
Capitolo III
(tanto) da far intendere ─ dopo aver inteso ─ l’incipienza del “puntolimite” di una “metafisica della tradizione”, a ogni passo del suo
ragionamento”513. Evola vede i pericoli di una civiltà quantitativa,
omologante e cosmopolita e risponde con una dottrina imperniata
sull’autoformazione dell’individuo. Per il riscatto della sua sensibilità
dalle “leggi della natura”, contro ogni materialismo. Per una
spiritualità superiore alla passione e alle forze cieche dell’istinto:
“Questa autoformazione non vuol dire certo ‘antinatura’, ma vuol
dire affinamento, selezione, formazione della materia immediata data
dalla natura e trasmessasi attraverso l’eredità biologica e etnica
(razza); è uno stile dato alla natura, il quale per conservarsi richiede
una doppia condizione: che sia presente, sana e pura, quella materia
─ ma inoltre e soprattutto che sia mantenuta quella tensione
spirituale, che elevò tale materia fino a una data forma”514.
La vera comunità è quella dello spirito, nell’unione di anima e
corpo fortificata da una eroica abnegazione (cavalleria, feudalesimo).
Una comunità in cui è il valore a distribuire il potere. Evola insegue
nei primordi dell’età aurea un prestigio, un esempio che illumini,
formi un’atmosfera, cristallizzi uno stile di vita, desti forme speciali di
sensibilità e dia il tono ad una società nuova. Nuova perché è sempre:
“Potrebbesi perciò pensare ad una specie di Ordine, secondo il
significato virile e ascetico che questo termine ebbe nella civiltà
ghibellina medievale. Ma ancor meglio potrebbesi pensare alla più
antiche società arie e indo-arie, ove si sa che l’élite non era in alcun
modo organizzata materialmente, ove essa non traeva la sua autorità
dal rappresentare un qualunque potere tangibile o un dato principio
astratto, ma pur manteneva ben fermo il suo rango e dava il tono alla
corrispondente civiltà per mezzo di un’influenza diretta promanante
dalla sua essenza”515.
513
Ibid.
Cfr. J. Evola, Stirpe e spiritualità, in Vita Nova, n. 7, 1931, ora in Julius Evola, Vita Nova
(1925-1933), op. cit., p. 113.
515
J. Evola, Sull’essenza e la funziona attuale dello spirito aristocratico, in Lo Stato, ottobre 1941,
ora in J. Evola, Lo Stato (1934-1943), p. 387.
514
193
Capitolo III
Il rapporto politico che fa della giustizia il suo asse subordina
l’autorità alla verità. Una simile priorità tiene il popolo lontano dal
collettivismo e non rende irrazionale il riconoscimento del capo e
della sua funzione di comando. Il potere è reale solo quando ha una
legittimazione superiore. Un processo sapienziale permette la crescita
della personalità in senso trascendente. La figura culmine di questa
filosofia del perfettibile è l’eroe “integrato nello spirito, capace in pari
tempo di essere ‘tradizionale’ come ‘direzione’, come atteggiamento
intimo”516. Il riferimento ovviamente era l’archetipo del “cittadinoclassico”, centro della comunità spirituale ed etica superiore allo Stato
in quanto esso “ha un valore solo al titolo di un intermediario che
permette al singolo di partecipare a questa comunità”517.
L’opposizione evoliana al nazionalismo che lo stesso Nietzsche
definiva “da bestie cornute” è totale perché sostanziale negazione
della dignità personale, che per Evola ─ da qui alcune sue tanto
improvvise quanto contingenti sterzate cattoliche ─ ha un valore
sacro:
“La difesa della personalità umana ─ compito, prima di realizzare il
quale ogni vera aspirazione “spirituale” manca del suo primo
presupposto ─ varrà qui come il principio direttivo fondamentale.
Chi sa vedere, e separare dall’essenziale l’accessorio, potrà però
facilmente riconoscere che fra i due punti di vista non vi è
contraddizione”518.
Al fondo dell’agire, nel solco della tradizione: unione di spirito
e volontà, perfetta coerenza tra interno ed esterno, un Individuo
forgiato dal carattere e dalla dignità. Nulla di ideologico, di costruito,
nessuna sovrastruttura burocratica o sistema della masse ma
l’affermazione di quella “forma originaria” che Evola scopre nel
filone centrale della tradizione occidentale.
Una rivoluzione permanente di vita e di realtà.
516
J. Evola, Il problema “europeo” al convegno “Volta”, in Vita Nova, dicembre 1932, ora in J.
Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 174.
517
Ivi, p. 175.
518
Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, op. cit., p. 35.
194
Capitolo III
La Comunità degli Individui Assoluti, la loro realtà sopranazionale, è politica, etica, spirituale. Questa realtà eroico-magica che
Evola esprime con forza, con la stessa forza è fraintesa o giudicata
delirante da chi, al tempo, non conosceva altri sentieri oltre quelli, dal
barone trasmutati in una magica confusione, già ben conosciuti della
filosofia e della fede519. Ma la sua operazione di chiarimento era in
questi anni appena agli esordi e la soluzione di una realtà “superiore
ad ogni particolare confessione religiosa, ad ogni ipotesi filosofica, ad
ogni limitazione moralistica” appariva irrazionale, utopicamente
romantica, impercorribile520. Si trattava infatti di un potenziamento
sovrannaturale della coscienza individua che rivoltasse la spiritualità
contro le tipologie del moderno, sotto le insegne della romanità e
dell’impero. Non si dimentichi l’approfondimento instancabile
dell’opera ermetico-alchemica, contestualmente al progressivo
distacco da teosofia, antroposofia, occultismo, spiritismo etc. Quel che
s’agita in Evola è un fermento rivoluzionario irriducibile
all’improvvisato contesto cultural-fascista cui tenta, quasi fosse una
missione, di dare un Ordine. Egli sapeva infatti che l’episodio
mussoliniano mai, senza una rettificazione metafisica, avrebbe potuto
illuminare una nuova era della storia dello spirito. Per questo il
pensatore romano si abbandona ad un eccesso di rigore, specie nei
519
La Chiesa non concesse mai ad Evola, e tuttora non gli concede, un posto diverso da quello che
lungamente occupò sulle pagine dell’Osservatore Romano, sotto il titolo Spropositi e aberrazioni!
Nel 1927 Evola scrive sulla rivista Critica Fascista di Bottai un articolo intitolato Il fascismo
quale volontà d’impero e il cristianesimo, 15 dicembre 1927 (pp. 463-464) in cui dichiara “la netta
incompatibilità della visione imperiale della vita con qualunque forma di cristianesimo; in
particolare, dichiariamo l’impossibilità di identificare come che sia tradizione romana e tradizione
cattolica (ivi, p. 463). Ricordiamo che idee del genere erano state già presentate dal massone
Reghini già nel 1913 e nel 1924. L’Osservatore Romano del 30 dicembre 1927, paventando una
svolta religioso-pagana del fascismo, reagisce con una durissima condanna dell’articolo, definito
“una sfida blasfema” ai cattolici italiani. Chiede inoltre una sconfessione pubblica e le ragioni per
cui il sottosegretario di Stato al ministero delle Comunicazioni, Giuseppe Bottai avesse concesso
una simile, inaccettabile ospitalità: “Ma noi crediamo che sono non tanto dal campo nostro, quanto
da quello cui si rivolge e donde pure è partita la costante dichiarazione di comprensione e di
rispetto per la Religione Cattolica, patrimonio inalienabile e inoppugnabile della patria e del
popolo, debba essere, non solo confutato ─ e sarebbe forse superfluo per la noiosa ripetizione di
risibili errori, per la rievocazione ritrita di pregiudizi settari e di concezioni cristiane e
anticattoliche proprie di un pensiero e di uno stile prettamente massonico ─ ma soprattutto
sconfessato. Per lo meno è giusto chiedere un giudizio esplicito alla Direzione della Rivista, circa
l’ospitalità concessa a tali teorie, senza riserve e confutazioni di sorta: la traduzione cioè del suo
silenzio in qualche cosa di esplicito, di positivo, di responsabile (articolo non firmato, Spropositi e
aberrazioni, in Osservatore Romano, 30 dicembre 1927).
520
A. Carlini, rec. a J. Evola, Maschera e volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., in Vita
Nova, luglio 1932, ora in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., pp. 268.
195
Capitolo III
confronti del cristianesimo, durante il periodo della sua attrazione
fascista, cosciente come era della possibilità di un passaggio epocale
imminente. E sempre per questo, dopo la guerra, si distaccherà dalla
dimensione propriamente politica per concentrarsi su quella morale,
sul linguaggio simbolico, sul recupero del mito e della tradizione.
Quasi fosse crollato un mondo intero insieme ai suoi uomini più
rappresentativi. Per il teorico di un organicismo totalitario come era
Evola, non poteva non essere evidente il difetto di amalgama
spirituale proprio del regime italiano e su questo ripetutamente, specie
nelle sue scorribande pubblicistiche, richiamò l’attenzione. Rendersi
conto di quel che si era, vederselo davanti ai propri occhi, raffigurato
con la vividezza delle immagini più luminose e spietate insieme, era il
primo passo perché si giungesse ad affondare la debolezza della
vecchia città, la “feminile” mollezza fascista, e a fondare la città
nuova sulle rovine della società moderna. Non senza prima aver scelto
tra una “linea regale”, guerriera e attiva, e una “linea sacerdotale”,
contemplativa e ascetica. Di là dall’una o dall’altra via di
realizzazione, soltanto l’esclusione dall’umanità e dalla dignità su un
piano di idee niente affatto libero e consapevole:
“[…] occorre lavorare per una cultura, nel senso classico di
creazione di «tipi», di forme superiori di individualità, compiute
incarnazioni di un ideale. E l’ideale, a nostro parere, deve essere
tratto dalla tradizione eroica nella forma che ci è più nostra e più
prossima: in quella imperiale che Roma incarnò”521.
Evola indicava una strada pratica che lasciava dietro di sé il
senso del peccato ed il mito della caduta per marciare in direzione di
una idea-forza opposta e positiva, il senso dell’autosufficienza,
dell’orgoglio e della potenza: il mito dell’ascesa, verso l’altezza di
una coscienza in grado di congiungere politica e morale. Una
idealità/spiritualità senza misura, di dimensioni cosmiche,
tradizionale. Come guida attraverso la storia, nella volontà di
assumere e superare la contraddizione cristiana. Ma si doveva
cominciare dall’uomo, da questa personalità umana immersa
521
J. Evola, Autorità religiosa e autorità temporale, in Vita Nova, dicembre 1929, ora in Julius
Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit. p. 81.
196
Capitolo III
nell’esperienza del mondo fisico e della natura. Qui soltanto era
l’origine delle idee e la possibilità del loro sviluppo. Il cuore della
cultura pagana consentiva questo recupero della divina essenza
dell’uomo e in pari tempo condannava come sub-personale, inconscia,
qualsiasi attività non fosse svolta in stato di veglia, con una coscienza
desta. Che strappasse la rete di sonno che culla l’esistenza.
Esser svegli è tutto.
Il cittadino evoliano è l’uomo virtuoso che si rende
riconoscibile ai suoi simili nell’azione eroica. Essa è lo stigma di una
centralità spirituale che, come un magnete, attira la vocazione
all’autosuperamento degli “unici”.
Nell’agone immortalante di uno Stato interiore:
Ed allora resta da compiere un ultimo gran passo: sbarazzarsi della
superstizione della ‘patria’ e della ‘nazione’, larvati e tenaci
residui dell’impersonalismo democratico. Il Dominatore spostando
progressivamente il centro di influenza dall’astratto dell’idea al
concreto della propria realtà di individuo, alla fine abolirà la stessa
idea di patria, cesserà di appoggiarsi ad essa, la immanentizzerà e
non lascerà che sé , come centro sufficiente di ogni responsabilità e
di ogni valore, che può dire: «La nazione, lo Stato sono Io»522.
522
J. Evola, Imperialismo pagano, Edizioni di Ar, Padova, 1996, p. 49.
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Julius Evola: la comunità degli Individui Assoluti