Facoltà di Filosofia Julius Evola: la comunità degli Individui Assoluti Relatore: Prof. Luciano De Fiore Correlatore: Prof. Gian Franco Lami Studente: Alessio de Giglio ANNO ACCADEMICO 2008/2009 1 Inroduzione Introduzione Questa è una tesi su Julius Evola. Julius Evola il filosofo proibito, Julius Evola il ghibellino feroce1, Julius Evola il mago Otelma della destra2, Julius Evola il barone nero, Julius Evola il cattivo maestro per antonomasia3, Julius Evola il padre spirituale di una conventicola di esaltati4, Julius Evola il negromante del fascismo5, Julius Evola il razzista totalitario6, il nazista, il satanista, il mago, l’aristocrate, lo kshatriya, il teurgo, l’uomo differenziato, l’uomo della Tradizione, il pittore, il poeta… Julius Evola è morto. Un’aquila divorata dai topi. Resta il ricordo di Julius Evola: la sua opera. Meglio, il suo Opus. Molto lontano, il livore di uomini piccoli piccoli, e troppo vicino, il santino di Evola, l’immaginetta (s)fatta da mani senza stile, senza verità, senza amore. Due realtà parimenti perniciose e ghettizzanti, due facce della stessa impotenza a penetrare il segreto di una esistenza, nell’etimo, straordinaria. Un’esistenza che impone la necessità di una giusta distanza critica, quel doppio sguardo di cui parla Nietzsche, del quale varrebbe forse la pena ricordare l’irridente e inquietante domanda e adeguarla alla s-fortuna critica di Evola: “Sono stato compres(s)o?”, per poi arrendersi alla piattezza in-significante di pillole di pregiudizio confezionate da una vulgata orecchiante. Sarebbe penoso ripercorrere qui la sconcertante serie di malintesi, di traviamenti, di insulti, ma anche di partecipati consensi, di elogi e difese che 1 R. Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1999, p. 42. 2 La graziosa definizione è di Umberto Eco, cfr. G. de Turris, Elogio e difesa di Julius Evola. Il Barone e i terroristi, prefazione di Giorgio Galli, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997, p. 172. 3 Non da oggi, Evola non è amato da molta sbrigativa e ideologica pubblicistica. Ricordiamo, tra i tanti, F. Ferraresi, Perché Evola resta un cattivo maestro, in Corriere della Sera, 24 giugno 1994, p. 21; M. Fraquelli, Il filosofo proibito, Terziaria, Milano, 1994, p. 291; C. Lo Re, La destra eversiva, Solfanelli, Chieti, 1994, p. 102. Su questi giudizi, cfr. G. de Turris, Cattivi maestri, cattivi discepoli, cattivi esegeti, in J. Evola, Cavalcare la tigre. Orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pp. 197206, e anche Attualità di Evola, in Futuro Presente, n. 6, 1995, pp. 149-151. 4 Cfr. J. Evola, Autodifesa, in L’eloquenza 11-12, 1951; ora Fondazione Julius Evola, Roma s.d. (1976). 5 G. Bocca, Il filo nero, Mondadori, Milano 1995, p. 150. 6 Cfr. G. S. Rossi, Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell’antisemitismo spirituale, Rubbettino, Catanzaro, 2007. Cfr. anche F. Jesi, Culture di destra, Garzanti, Milano, 1979, p. 91: “Non basta, infatti, dichiararlo un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita (il che è vero) e così insulso che non vale la pena di dedicargli alcuna attenzione (il che non è vero)”. Tuttavia de Turris rileva che, nonostante le virulente accuse ed i tentativi di sminuirne il valore […], Furio Jesi, con la propria attività ed i propri interessi, implicitamente ha dimostrato l’esatto contrario: riprendendo di volta in volta in mano, quasi fosse un programma studiato a tavolino e a lunga scadenza, praticamente tutti gli autori e le opere di cui Evola si era occupato per fornirne nuove interpretazioni e versioni”, in G. de Turris, Dieci anni dopo…, in Testimonianze su Evola, Edizioni Mediterranee, Roma, 1985, pp. 210-211. 2 Inroduzione hanno sfregiato il volto bifronte di quest’uomo enigmatico, in un’ermeneutica dell’orrore da destra e da sinistra che ha rivelato nei cultori e nei detrattori del caso Evola, la stessa mancanza di obiettività, come capacità di comprendere il proprio “contro”, di compatire. Se esiste un inferno della cultura italiana, Evola è Lucifero. Sul paradiso garrisce barriera bianca. Il vento è stato quello dell’egemonia marxista, ormai (s)finita. Ma all’adunata romantik dell’editoria color pastello, l’eterno escluso geme incompreso7. Davvero Evola è l’inassimilabile par excellence? E sopratutto: chi è Julius Evola? Perché il suo pensiero-realtà riesce a ispirare i più audaci sogni di libertà e a realizzare le cadute più ingloriose? Ha ancora un senso oggi parlare della sua opera oltre la potenza pietrificante del pregiudizio e dell’incultura che, nel quadro di una ignoranza (co)scientemente coltivata, hanno trasformato un grande studioso in una statua da venerare o da distruggere? Ora, il fatto che ambienti culturali di non poco momento non siano alieni, ancora oggi, da pericolosi fraintendimenti riguardo all’opera del pensatore romano, la dice lunga sul destino del pensiero evoliano, anzi, sul suo carattere “destinale” in un’epoca che nel nichilismo gaio ha ri-velato il telos della sua marcia-origine: il disfarsi di Dio quale ierogamia satanica di dissolutezza e dissoluzione. Nell’attesa che tutti si adeguino al sacro principio: “Si smette di odiare allorché si smette di ignorare”, il presente scritto si sforza di ispirarsi a quei pochi che in questi anni hanno cercato di definire le coordinate teoreticoesistenziali di Evola per consegnarlo ad uno studio serio e non a quelli che ne con-fondono i tratti della vita e del pensiero in un orrendo scarabocchio8. Se condanna deve esserci, essa può venire soltanto DOPO la completa ruminazione (Nietzsche) dell’opera totale di questo maestro contemporaneo, la cui ricezione è ancora ben lungi, crediamo, dall’essere compiuta. 7 Sull’interdetto adelphiano riguardo l’opera evoliana, che i “neodestri” si sforzano vanamente di rimuovere, cfr. P. Vassallo, L’ideologia del regresso, M. D’Auria Editore, Napoli, 1996, p. 89: “Un tentativo di escludere l’opera del ‘barone nero’ Julius Evola dall’orizzonte della nuova cultura di destra è in corso su versanti opposti e con argomentazioni all’apparenza contraddittorie. Sul primo fronte, quello aperto dagli antichisti adelphiani e dai loro caudatari neodestri, Evola è guardato dall’alto in baso e censurato, perché si ritiene che il suo pensiero costituisca ostacolo alla diffusione del nuovo tradizionalismo, primitivista e trasgressivo. Evola, infatti, è messo all’indice quale autore sospetto di maschilismo, moralismo romano e gerarchismo. Sull’altro fronte, quello della sinistra custeriana, Evola è invece criminalizzato quale ispiratore dell’estremismo nero. Marco Fraquelli, in una requisitoria staliniana, sostiene addirittura che Evola diede un impianto teoretico al terrorismo di destra”. Cfr. anche Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico, Edizioni Ares, Milano, 1999. 8 Tra gli studiosi che in questi anni hanno studiato e approfondito le tematiche evoliane in un’ottica di studi, anche critica, ma mai preconcetta, ricordiamo P. Di Vona, M. Cacciari, S. Zecchi, M. Freschi, F. Volpi, M. Donà, A. Negri, G. Borghi, C. Bonvechio, G. Sessa e G. F. Lami. 3 Inroduzione Ed è uno spettacolo divertente (da divertere), come può esserlo soltanto il dolore, leggere le parole degli improvvisati critici evoliani, di ieri come di oggi ─ nell’eterno ritorno di una critica che è ormai il ritorno dell’eterno rifiuto ─, critici di una esperienza che li annienterebbe, se solo ne fossero all’altezza, perché esperienza di (una) verità che folgora immediatamente chi è uso a tributar culto alla menzogna. Bisognerebbe farla finita con tenacissimi errori che vorrebbero imprigionare un pensiero della liberazione e della luce. Come colui che mettendosi davanti agli occhi delle lenti scure, pensasse di confutare il sole. Il presente lavoro è dunque un’apologia di Evola e della sua opera? Aliud est laudatio, aliud historia. “Il fatto è che Evola non è stato capito bene, perché non è stato studiato bene”9. Gli entusiasmi e le parallele e altrettanto deprimenti condanne dei suoi lettori occasionali, hanno fabbricato un mostro impresentabile ed incomprensibile: è senza dubbio facile infatti e forse anche remunerativo affrontare esclusivamente la superficie d’un volume impressionante di scritti divenendo il megafono del luogo comune. E’ altresì vero però, che studi di tal fatta non contribuiscono alla ricezione d’una filosofia estrema qual è quella evoliana10. Pensiero abissale che non tollera approcci grossolani e non sufficientemente medi(t)ati: pena il destino di quell’asino che girando attorno a una mola percorse cento miglia; quando fu sciolto si trovò ancora nello stesso posto11. Cercheremo quindi di camminare andando da qualche parte. In questo scritto ci occuperemo della filosofia di Evola, una filosofia della prassi, etica in senso eminente, intendendo ethos nel senso originario di radice, di dimora dell’essere, di quell’appartenenza ad una polis che non si sceglie, e non si scioglie, perché è legge interiore. La visione politica alternativa di Evola dimostrerà così di essere una politica alternativa della visione. Visione non come utopismo, ma come utopia che, declinata interiormente, acquisisce quei caratteri di possibilità e di transitabilità in grado di trasformare Evola in voce della krisis, sismografo della modernità e caso esemplare di sintesi ultranichilistica. Tratteremo questo tema, che occupa un posto essenziale all’interno del quadro teorico evoliano, nell’ultimo capitolo di questa tesi. Un rilevo particolare sarà quindi dato a quella comunità degli Individui Assoluti che costituiscono il telos di una esperienza di pensiero che vede i singoli agire in conformità ad un 9 G. F. Lami, Premessa metodologica, in Delle rovine e oltre. Saggi su Julius Evola, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 9. 10 Il vizio sociologistico di certi studi, la superfetazione dell’elemento razza strappato alla sua dimensione “sapienziale”. Cfr., ad esempio, F. Germinario, Razza del Sangue, razza dello Spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2001. 11 Cfr. I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano, 1999, p. XIV. 4 Inroduzione comune atteggiamento dominante, pur nella differenziata forma della loro volontà. Una comunità di uomini uguali nella perfettibilità del loro animus, la qualità di chi si è liberato dal vincolo naturalistico e conforma la propria vita all’ideale civico platonico e aristotelico. Il pragmatismo trascendentale del filosofo romano non avendo altro scopo che quello di creare una dimensione agonistica tale da far scatenare le personalità ivi coinvolte in una logica di ritrovati virtuismi. Il tutto nel segno di “un’etica capace di farsi bella agli occhi di chi la praticava […], matrice imprescindibile e impronta tradizionale di qualsiasi ‘genialità individuale’ e di qualsiasi ‘creatività espressiva’”12. “Cercate di ricongiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo”. Queste parole di Plotino esplicitano l’essenza partecipativa del progetto evoliano, il nucleo anche metessico della sua tentata attua(lizza)zione dell’esperienza classica della ragione (Voegelin), all’interno di un contesto socio-politico dominato dalla maschera parodistica della Roma imperiale e dalla scissione cristiana tra uomo e Dio. In Evola infatti non si dà trascendenza separata dal mondo, ma l’individuo assoluto è, vuole essere, uno con le forze della natura. Nella valenza platonica della sua opera andrà allora colto il tentativo di restaurazione di una Gestalt aria, ordinante e luminosa, che attraverso un percorso individuale di eccellenza, dominato dall’arbitrio e non dalla licenza, ne prospetti una ricaduta benefica sull’intera realtà comunitaria: “Basta che in un sol punto si riesca realmente a toccare l’essere, perché ciò abbia immense ripercussioni”13. Una filosofia dell’ascesi dunque, che pone in essere una liturgia della potenza, dono di sé e non violenza sugli altri14. Da qui il carattere ferocemente religioso del cammino evoliano, o più propriamente gnos(t)ico, che annulla la distanza tra teologia e filosofia in una metafisica eretta che vuole l’uomo pontifex: colui che regge la forza divina sulla terra, anello di congiunzione tra la città celeste e quella dell’uomo. Esito di un procedere che riconosce solo una trascendenza senza soprannaturalità, che Evola chiamerà “immanente”. Ma si badi: non c’è Dio e la perfezione è solo l’ideale cui tendere, la costituzione della 12 G. F. Lami, Morale laica e pensiero religioso: la guerra come pratica d’iniziazione, negli scritti evoliani su Augustea e La Stampa, in Julius Evola, Augustea (1941-1943), La Stampa (1942-1943), Heliopolis Edizioni di Edizioni del Veliero e Fondazione Julius Evola, Roma, 2006, p. 9. 13 Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 1994, p. 131. 14 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico (1925), Edizioni Mediterranee, Roma, 2006, p. 114: “L’atto creatore, l’atto di potenza ─ che non è atto di desiderio o di violenza, ma atto di dono ─ anziché distruggere il perfetto possesso, lo testimonia e lo riconferma”. 5 Inroduzione persona, maschera del divino. Il superamento del nichilismo nella rivoluzione dei persuasi.15 Prima di arrivare all’analisi di una tale filosofia del perfettibile però, dovremo descriverne le premesse artistico-teoretiche, fondamentali per capire la successiva svolta nel segno della Tradizione, che lungi dall’essere una cesura all’interno di quel che è per noi un sistema dinamico graniticamente conchiuso in sé stesso e possente ─ e per questo da avvicinare con mai eccessive cautele in quanto fragilissimo cristallo dello Spirito ─, è invece l’inveramento impossibile, mai totale perché nel mondo, della giovanile posizione solipsistica evoliana. Ne vedremo le ragioni. Prenderemo pertanto in considerazione, nel primo capitolo, alcuni suoi scritti artistici e, nel secondo capitolo, le opere filosofiche. Opere della cui complessità non potrò che dare una immagine sintetica, ma spero viva, essendo contenute in esse energie poderose che l’uomo smarritosi nel deserto della modernità può utilizzare quale spinta anagogica nella sua corsa verso la libertà. Ancora un punto. La tesi prenderà ad oggetto, in modo funzionale ai suoi scopi espositivi, non solo le opere evoliane, e comunque soprattutto quelle uscite fini alla seconda Grande Guerra, ma anche la corrispondente attività pubblicistica, che lungi dall’essere accessoria e di secondo interesse, è invece strumento prezioso d’analisi e di comprensione, se si vuole, come è auspicabile, costruire una struttura critica resistente. A tal fine abbiamo ritenuto opportuno aprire il nostro lavoro, non solo con una breve biografia di Evola, ma anche ─ e questo è ben più importante ─ con una bibliografia che, necessariamente incompleta, specifica, seguendo il criterio cronologico, i diversi contributi da lui offerti in diversi ambiti alla cultura del suo tempo, con particolare riguardo quindi alla sua attività di giornalista. Ovviamente chi scrive è ben consapevole del periodo storico in cui Evola visse e scrisse dando anche il suo apporto ad un clima politico-culturale irripetibile, il cui esito non ha bisogno di essere ricordato. Questa tesi, nella piena coscienza dei suoi limiti, non vuole quindi sminuire le responsabilità o i meriti di Evola, se tali sono, ma contribuire solo ed esclusivamente alla conoscenza della sua opera, che davvero poco, come si vedrà, ebbe a che spartire con le fantasie ebbre di sterminio di qualche folle del secolo XX. Un secolo che sembra non poter tramontare, le inascoltate lezioni della storia da esso urlate essendo ormai divenute le lesioni d’una vita invivibile. 15 Una rivoluzione che è ritorno all’origine, al risveglio di quel Sé che è libertà. Per iniziare ad essere, con gli altri. Non più Soli/senza cielo/come vetri spezzati da un orrore che urla negli specchi/quando vedendoci non ci riconosciamo. 6 Nota biografica “Ѐ allo stesso tempo tutto vero e tutto campato in aria. C’è qualcosa che si sottrae. Qualcosa di enorme. Dove sta una biografia? Ricordare? Il modo più esatto per dimenticare”. Carmelo Bene La vita di Evola sembra essersi svolta nel segno dell’inconoscibile: non sappiamo quasi nulla, ad esempio, della sua infanzia o della sua adolescenza. Molti i punto oscuri della sua iperbole esistenziale. In quella che a torto viene dai più considerata la sua autobiografia, Il Cammino del Cinabro, e che invece è essenzialmente la descrizione della genesi dei suoi libri, i riferimenti alla sua persona sono ridotti al minimo indispensabile e spesso servono a spiegare proprio quel che dei suoi scritti non è rilevante. Ciò non è né casuale, né tantomeno l’inevitabile portato della sua originale weltanschauung, ma è la signatura metafisica di una ek-sistere consacrato allo Spirito: un ethos che, irriducibile agli attuali parametri mondani, vuole l’uomo come veicolo della Visione, importante essendo l’azione e non chi agisce. Il tutto ovviamente andrebbe compreso sub specie interioritatis. Da qui l’importanza assegnata dal filosofo tradizionale al concetto di impersonalità, che deve in gran parte al taoismo. La vita di Evola insomma è la vita della sua Opera. Un punto fondamentale: “equazione personale”. Così Evola chiama qualcosa che è nello stesso tempo dato naturale e decisione, il quantum e la qualità delle diverse componenti che strutturano la complessa vita interiore dell’uomo. Pensare sentire volere in cui si intrecciano coscienza e azione. Due disposizioni sembrano aver caratterizzato la sua natura. La prima è un impulso alla trascendenza che si manifestò fin dalla primissima gioventù e che ha presto avuto come conseguenza un certo distacco dall’ “umano troppo umano”. Di una simile disposizione, egli non esita a parlare di “residuale ricordo prenatale” e ritiene che solo dopo l’abbandono delle esperienze estetico-filosofiche, essa si sarebbe pienamente manifestata. La seconda è quella che, con termine indù, 7 Nota biografica Evola chiama “da kshatriya”. Questa parola sta per “guerriero” in senso lato, in opposizione ad una natura religioso-sacerdortale o contemplativa, quale quella del brahmâna, e designa quindi un tipo umano pre-disposto all’agire. Con riguardo a questo aspetto della sua natura Evola allude nel Cammino ad una “nascosta eredità” od “oscuro ricordo” che avrebbe avuto come effetto, nella prima parte della sua vita, una non equilibrata affermazione dell’Io. Essa tuttavia, fu la “base esistenziale” per un sentire toto coelo diverso da quello comune, poiché ancorato ad un “diverso mondo”: gerarchico, aristocratico e feudale. Questi brevi cenni possono per ora bastare. L’intento era quello di evidenziare l’autonomia dello sviluppo di Evola che, a suo dire, dovette pochissimo all’ambiente sociale in cui crebbe, a fattori ereditari, all’educazione etc. Per il filosofo romano quindi, che riprende una idea fichtiana, a seconda di quel che si è, si professa una data filosofia e, se occorresse, noi aggiungeremmo: si vive una certa vita. Ecco quella di Evola. Giulio Cesare Andrea Evola, detto Julius, nasce a Roma il 19 maggio del 1898 da Vincenzo e Concetta Mangiapane, in una nobile e cattolica famiglia siciliana di lontana ascendenza spagnola. Nella prima adolescenza, tra studi tecnici e matematici, sviluppa un vivo interesse per le esperienze dell’arte e del pensiero. Dopo i primi romanzi d’avventure si mette in testa di compilare, con un amico, una storia della filosofia a base di sunti. Passa intere giornate in biblioteca in un selvaggio regime di letture. Decisivo l’incontro con Nietzsche, Michelstaedter, Weininger, ma non manca Stirner. Risultato: opposizione al cristianesimo, rivolta contro il mondo borghese e la sua piccola morale di piccoli uomini, contro l’egualitarismo, il democraticismo e il conformismo per l’affermazione di una morale aristocratica incardinata sui valori dell’essere che è a se stesso la propria legge. In piena coerenza con la linea antiborghese da lui perseguita sin da giovane, libero da vincoli professionali, familiari e sentimentali, si rifiuta di prendere la laurea in Ingegneria facendosene un punto d’orgoglio: “Divido il mondo in due categorie: la nobiltà e coloro che hanno una laurea”. 8 Nota biografica Alla vigilia della prima guerra mondiale Giovanni Papini diviene il fulcro della sua insofferenza verso l’Italietta del primo novecento. Riviste come Leonardo, Lacerba e in seguito, La Voce, sono lo strumento di una entusiastica rivolta contro il vecchiume della cultura ufficiale, il servilismo intellettuale e i valori della morale borghese. Evola amplia e rinnova i suoi orizzonti: conosce le correnti straniere del pensiero e dell’arte d’avanguardia, figure di mistici, come Eckart e scritti sapienziali che lo porteranno oltre l’anarchismo individualistico e meramente intellettuale dello stesso Papini, cui non risparmia la feroce critica del suo Cammino, pur riconoscendogli d’esser stato “un apritore di breccia”. L’unico movimento artistico d’avanguardia esistente in questo periodo in Italia è il futurismo. Evola vi aderisce inizialmente, ed ha, con esponenti di esso, rapporti personali: è amico di Balla e conosce Marinetti che alla vigilia della prima guerra mondiale, data la posizione interventista del futurismo duramente avversata da Evola, gli dirà: “Le tue idee sono lontane dalle mie più di quelle di un esquimese”. Dipinge, a partire dal 1915, le prime opere dell’ “idealismo sensoriale”, ma la grezza esaltazione futurista della vita, del sensualismo e della macchina, il chiasso privo di interiorità degli invasati della velocità e dell’istinto, non incontrano il suo gusto. Prende parte alla guerra contro gli Stati imperiali, tra il 1917 e il 1918, ma afferma di combattere spiritualmente a fianco della Germania contro la ipocrita e sentimentale propaganda alleata. Dopo aver frequentato a Torino un corso per allievi ufficiali di artiglieria, viene assegnato a posizioni montane di prima linea, presso Asiago. Evola si innamora, non di una donna ma della montagna: pratica l’alpinismo come esercizio interiore e comincia la sua “ascesi delle vette”. Non si trova impegnato in operazioni militari di rilievo e ciò sembra dispiacergli. Conclusasi nel 1918 la prima fase della sua attività artistica, prende l’avvio il periodo dell’ “astrattismo mistico”, con i suoi “paesaggi interiori” e i contatti con l’ambiente teosofico ed occultistico. Ora è a Roma, dove lavora per il Ministero della Marina, smobilitato ma non congedato dopo l’armistizio. Deve affrontare una grave crisi perché si manifesta intensamente “il congenito impulso alla trascendenza”. Evola s’offre una vita nell’inconsistenza e sente la 9 Nota biografica vanità delle mete che normalmente impegnano gli uomini: si porta con l’aiuto di sostanze stupefacenti verso stati della coscienza in parte staccati dal dominio dei sensi fisici. Al confine della visione allucinata vede l’ombra della follia. Non cede e passa oltre. Ma ormai, come insegnano alcune tradizioni, “è stato morso dalla serpe”: il bisogno di intensità e di assoluto si acuisce. Evola decide di perdersi. Ha ventitré anni e il suo destino sembra essere lo stesso di Weininger e Michelstaedter: lo stesso suicidio, la stessa età. Questa “soluzione problematica” viene evitata “grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione” che lo investe mentre legge un testo del buddhismo delle origini sull’ “estinzione”. In effetti la volontà suicida si estingue quale “ignoranza” opposta alla vera libertà ed Evola sente sorgere in lui una fermezza in grado di resistere a qualsiasi crisi. Nel frattempo, si è imposto come l’unico vero esponente del dadaismo italiano, animatore del movimento tra il 1920 e il 1921, dopo essere stato folgorato dalla lettura del Manifeste dada 1918 di Tristan Tzara, la cui volontà decreta la morte dell’arte. Evola non aspettava altro. Nella disperata coscienza dell’ “esprimere è uccidere”, il barone dada esaurisce la sua esperienza artistica. Nel 1921, l’anno di una e definitiva lettera a Tzara che segna il passaggio all’ “Iperbole”, smette di dipingere e nel 1922 abbandona anche l’attività poetica che, iniziata nel 1916, tras-pone l’immagine nella parola lirica. Fine della “fase artistica” (1915-1922), inizio del cosidetto “periodo filosofico” (1923-1930). Nel 1917-1918, nelle trincee alpine, un Evola diciannovenne aveva già cominciato a scrivere Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, opera conclusa nel 1924, a soli ventisei anni, e apparsa poi presso l’editore Bocca in due tomi: Teoria nel 1927 e Fenomenologia nel 1930, che riscuoteranno l’apprezzamento di Benedetto Croce. I Saggi sull’Idealismo Magico sono del 1925. Ѐ con questi lavori che il filosofo romano attua una critica dell’idealismo classico trascendentale, colpevole di una incompleta immanenza, del quale si propone il superamento realizzativo in un Idealismo magico le cui parole d’ordine sono: Libertà, Volontà e Potenza. E proprio L’uomo come potenza si intitola un testo del 1926 sulla sapienza tantrica, dottrina spirituale conosciuta e pratica da Evola, che con questo lavoro congiunge la fase sistematico-speculativa con quella 10 Nota biografica successiva sul terreno della prassi. Il suo primo libro dedicato alle dottrine orientali è però del 1923, Il Libro della Via e della Virtù, testo esoterico e sapienziale cinese, che Evola traduce e interpreta evidenziandone le affinità con le posizioni dadaiste e accostando inoltre il “Perfetto” taoista al suo Individuo Assoluto. Tra il 1924, l’anno dell’omicidio Matteotti e della crisi del fascismo, e il 1926, scrive sulle maggiori riviste dell’ambiente esoterico e spiritualista: collabora ad Ultra del teosofo Decio Calvari, a Bilychnis della scuola teologica Battista, ad Ignis e ad Atanòr del neopagano e massone Arturo Reghini. Inizia anche a scrivere per quotidiani sia di parte fascista, come L’Impero, che di parte antifascista, come Il Mondo del liberal-democratico Giovanni Amendola. Non mancano intanto le avventure ero(t)iche con le belle donne della Roma bene, tra tutte Sibilla Aleramo (ma sono in pochi in quel periodo a non averci a che fare), che darà voce al proprio rancore d’amante abbandonata nel suo romanzo dal titolo cartesiano Amo, dunque sono, del 1927. Evola è ormai un protagonista della vita culturale e artistica di questi anni ed ha amici di non poco conto tra antifascisti come Croce, Colonna di Cesarò e Tilgher, che lo chiama “il mago dell’idealismo” e inserirà “il barone Giulio Evola” nelle sue frequentazioni epistolari fino a farne un referente esemplare nella sua Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra (Guanda, 1937). Proprio Lo Stato Democratico del Cesarò ospita il primo intervento politico evoliano improntato ad un antifascismo antidemocratico che vede il movimento di Mussolini come una forza contagiata da eccessi populistici e demotici ─ la democrazia per Evola è una truffa, una forma di dispotismo sottile in quanto il popolo non può che essere dominato ─ priva di una base spirituale, violenta e imbevuta d’ un vacuo ideale patriottardo. Ma è prioritario l’impegno esoterico. Dal 1927 al 1929 Evola insiste nella sua straordinaria ri-scoperta e valorizzazione della Tradizione esoterica coordinando il “Gruppo di UR”, composto, tra gli altri, da Reghini, Colazza, Parise, Onofri, Comi e Servadio. Ur (192728), poi Krur (1929), le due riviste mensili di indirizzi per una scienza dell’Io, sono le pubblicazioni di studi iniziatico-esoterici più importanti mai pubblicate nel nostro paese nel XX secolo. Usciranno 11 Nota biografica col titolo di Introduzione alla Magia quale Scienza dell’Io in tre volumi presso l’editore Bocca nel 1955-56. Ѐ appena il caso di rilevare che qui Magia sta per metafisica pratica, tecnica di risveglio interiore e disciplina di elevazione spirituale. Nel 1928 esce Imperialismo Pagano, edito dalla casa editrice massonica Atanòr. Le polemiche velenose che seguirono la pubblicazione del suo libello anticristiano ─ i Patti Lateranensi sono dell’11 febbraio del 1929 ─ gli inimicarono parte delle residue simpatie di cui godeva tra i fascisti e frantumarono il “Gruppo di UR”. Bottai lo aveva già sconfessato ed isolato verso la fine del 1927, preoccupato dalle proteste di parte cattolica. Evola aveva infatti scritto per il suo giornale, Critica fascista, un articola dal titolo Il Fascismo quale volontà d’Impero e il cristianesimo (1927). Ma grazie alla sua amicizia con Farinacci, questo fascista eterodosso mai iscritto al PNF trova rifugio su Il Regime Fascista di Cremona, dove curerà la pagina Diorama filosofico. Problemi e prospettive nell’etica fascista, sul quale scriveranno, dal 1934 al 1943, Guénon, Benn, Spann, Wolfskehl, Günther, Valéry, de Santillana, il principe di Rohan, Himmler, Fanelli e Tilgher. Tra il 1927 e il 1929 ha un carteggio con Giovanni Gentile che lo conosce personalmente e gli riconosce una competenza specialistica nel campo delle scienze ermetiche, competenza che gli permetterà di firmare più “voci” della Enciclopedia Treccani: senza dubbio “Atanor”, forse quelle di “Tabula Smaragdina” e “Pietra Filosofale”. Evola cercò il dialogo con la cultura ufficiale del Regime ma Gentile non scrisse mai riga su di lui. Ugo Spirito invece si pronunciò criticamente sull’Idealismo magico. Ѐ tra il 1925 e il 1933 invece il rapporto epistolare con Benedetto Croce, che in pubblico mai prestò attenzione ad Evola durante il ventennio ma lo riteneva un valido interlocutore culturale, con cui “dialogare” su temi di comune interesse quali, ad esempio, l’opera di Bachofen, la filosofia di Vico e l’ermetismo rinascimentale italiano. Croce parlò dei Saggi sull’Idealismo magico come di “opera ben inquadrata e ragionata con esattezza” e “sponsorizzò” il filosofo romano presso la casa editrice Laterza. Nel 1930, fallita l’opera di rettificazione esoterica all’interno del fascismo, Evola si arrocca ne La Torre, “Foglio di espressioni 12 Nota biografica varie e di Tradizione una”. Tra i collaboratori del periodico, il padre della psicanalisi italiana, Emilio Servadio, che sembra esserne stato uno degli ispiratori, l’ “animatore invisibile” Guido de Giorgio, il poeta Girolamo Comi e René Guénon. Nell’editoriale del primo numero di questa rivista bimensile, baluardo della “visione del mondo” tradizionale nella modernità e in particolare nell’Italia fascista, Evola scrive: “Dei “solitari”, degli “irriducibili” e dei “liberi”, si riuniscono dunque ne “LA TORRE”, non come in un rifugio o nel luogo di una fuga più o meno mistica, ma come in un posto di resistenza (il corsivo è mio), di combattimento e di realismo superiore”. La rivista si scaglia contro i dis-ordini dottrinali del fascismo e contro l’ottuso fanatismo degli squadristi. Nel numero 3 viene definita “aberrante” la politica demografica lanciata dal Regime, che reagisce sequestrandolo. Alla fine la rabbia dei gerarchi e dei gangsters del partito unico ha la meglio: tutte le tipografie di Roma ricevono l’ordine di non stampare La Torre, che cessa di apparire il 15 giugno del 1930 dopo dieci numeri. E dopo che Evola era stato costretto a girare per Roma difeso da una guardia del corpo! Il barone, disgustato, se ne va in montagna. Inizia a scrivere il suo capolavoro, Rivolta contro il volto moderno, mentre cominciano ad uscire opere il cui germe originario aveva già visto la luce su La Torre: La Tradizione ermetica (1931), Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (1932) e, successivamente, Il mistero del Graal (1937): il primo e il terzo tracciano le due vie occidentali al mistero della regalità, rispettivamente la gnosi ermetico-alchemica e la dottrina imperiale ghibellina. Il secondo, oltre ad essere, tra le tante cose, una indagine spietata di sette e conventicole spiritualiste del suo tempo (e di oggi!): superomismo, spiritismo, teosofia, satanismo e vari misticismi, ha il merito di presentare e valutare autori come Meyrink, Kremmerz e Steiner. Nel 1934 viene pubblicato il già citato Rivolta contro il mondo moderno. Un anno più tardi compare l’edizione tedesca accolta con favore dagli ambienti della “rivoluzione conservatrice” e dei circoli aristocratici. Ѐ un imponente studio di morfologia delle civiltà e di metafisica della storia strutturato sul principio-cardine della natura decadente del 13 Nota biografica “mondo moderno”, il mondo profano del divenire, le cui coordinate assiologiche sono date dall’utile e dal tempo, opposto al “mondo tradizionale” dell’essere, che si fonda invece sui valori del sacro e dell’eternità: “due tipi generali, due categorie aprioriche della civiltà”. Piena di risonanza l’entusiastica lettura di Gottfried Benn: “Dopo averlo letto ci si sente trasformati”. Questi anni portano Evola in Germania e in Europa centrale, dove tiene diverse conferenze ed ha incontri decisivi: tra tutti, Corneliu Codreanu, il capo del movimento romeno politico-religioso della “Legione dell’Arcangelo Michele”, che Evola tiene in grande stima, e Mircea Eliade. Le contingenze socio-politiche del tempo sono tali da richiedere una scelta di campo e l’uomo della Tradizione non si tira indietro orientando la sua intensa attività verso aspetti specificamente politici, che si concretizzerà in una sterminata produzione pubblicistica nei più diversi campi della cultura su quotidiani come Il Regime Fascista, Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo d’Italia, La Stampa, Il mattino, e su riviste e periodici come Logos, Ultra, Educazione Fascista, La Nobiltà della Stirpe, Vita Nova, Il Lavoro Fascista, La Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova Antologia, ‘900, Il progresso religioso, Lo Stato, La Vita Italiana, La Difesa della Razza, Rassegna Italiana, Augustea, Bibliografia Fascista, Carattere, Insegnare, Scuola e Cultura, Il Saggiatore ed altri. Nel 1938 la coperta fascista è sempre troppo corta: l’italiano si scopre razzista e si copre di ridicolo. In un paese in cui ariano è al massimo il seguace dell’eresiarca Ario, Evola non si fa cogliere impreparato ed elabora la sua dottrina della razza imperniata sulla tripartizione tradizionale dell’essere umano in corpo (sôma), anima (psyché) e spirito (noûs), corrispondente ai tre stati della razza disposti gerarchicamente nell’uomo: materiale, animico e spirituale. Egli disprezza l’equivoca mistica del sangue nazional-socialista e respinge “recisamente ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica” (De Felice). Il mito del sangue esce nel 1937: è un trattato espositivo dove, “con la massima oggettività”, vengono esposte le dottrine elaborate sul tema della razza e del razzismo negli ultimi secoli. Segue Sintesi di dottrina della razza 14 Nota biografica (1941), ─ il libro ottenne un aperto riconoscimento personale da parte di Mussolini ─ che straccia metaforicamente il Manifesto dei ciarlataneschi adulatori di un’ inesistente razza italiana nel segno della idea, intesa platonicamente come energia formatrice e modello esemplare di condotta contro ogni naturalismo e materialismo. Dello stesso anno “Indirizzi per una educazione razziale”, libretto didattico in cui Evola riassume la concezione classica della “razza dello spirito”. Tre aspetti del problema ebraico, del 1936, è invece la prima “messa a punto” organica sul tema dell’ebraismo. Quando la Germania attacca la Russia (1941), Evola chiede di partire volontario. La risposta giunse quando ormai l’ARMIR veniva ritirata dal fronte. Motivo del ritardo: non era iscritto al PNF. Nel caos nazionale vede la luce La dottrina del risveglio (1943), “saggio sull’ascesi buddhista”, col quale Evola sembra indicare, dato il momento, una via di liberazione interiore. Considerato da alcuni studiosi la migliore esposizione del Canone buddhista pâli, verrà poi tradotto in inglese sotto il patrocinato del più prestigioso centro buddhista esistente, la “Pâli Society”. Dopo l’8 settembre del 1943, raggiunge fortunosamente la Germania. È tra i pochi, insieme a Vittorio Mussolini, Giovanni Preziosi e Roberto Farinacci, ad accogliere Mussolini, appena liberato dalle “truppe speciali” di Otto Skorzeny al Gran Sasso, presso il Quartier Generale di Hitler a Rastenburg. Si schiera al fianco della Repubblica Sociale col fine di “preparare qualcosa che potesse sussistere anche dopo la guerra”, essendo molto lontano, lui “monarchico”, aristocratico e reazionario, da qualsivoglia idea repubblicana o socialista. Presa Roma nel giugno del 1944, fugge in Austria dove svolge, per conto delle SS, un’indagine sulle “forze occulte della sovversione mondiale”. In piena guerra, lo kshatriya aveva seguito una particolare linea di condotta: “non schivare, anzi cercare i pericoli, quasi nel senso di un tacito interrogare la sorte”. Ma la sorte possiede un’ironia che non è quella degli uomini. Evola, che nella sua permanenza a Vienna aveva preso la buona abitudine di passeggiare durante i bombardamenti aerei, resta sepolto sotto le macerie pochi giorni prima dell’arrivo dei Russi nella capitale austriaca. Viene sbalzato, secondo 15 Nota biografica quanto riferisce il suo medico personale “dallo spostamento d’aria provocato da un’esplosione e sbattuto contro una struttura di legno, delle impalcature, che erano in una piazza”: lesione del midollo spinale con conseguente paralisi parziale degli arti inferiori. Nel suo Cammino ─ interrotto solo materialmente ─ dirà: “Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico […] la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo pregiudicata o modificata”. Dopo due anni trascorsi in una clinica austriaca, Evola rientra in Italia nel 1948, a Bologna, dove si tenta invano un’operazione per restituirgli l’uso delle gambe. Sottopone a revisione sue opere giovanile ormai esaurite da tempo, tra cui: Teoria dell’Individuo Assoluto che rielabora pressoché totalmente e che uscirà solo nel dicembre del 1973 e L’Uomo come Potenza che diventa, adeguatamente “ortopedizzato”, Lo Yoga della Potenza (1949). Adatta inoltre i testi apparsi in Ur e Krur nei tre volumi della Introduzione alla magia quale scienza dell’Io che verranno pubblicati nel 1955. Rientra a Roma: sono anni di sofferenza, tra rovine materiali e spirituali. Per i giovani che, nonostante il “crollo generale” leggono i suoi libri, Evola fissa gli 11 punti politico-culturali di Orientamenti (1950). “Non senza relazione con ciò mi trovai coinvolto involontariamente in una comica vicenda”: è il processo dei FAR (Fasci d’azione rivoluzionaria) da cui uscì con una assoluzione piena dopo aver scontato sei mesi di carcere. Difensore di Evola, accusato di apologia e ricostituzione del partito fascista, è il celebre avvocato antifascista Francesco Carnelutti, che lo difende gratuitamente. Il pensatore tradizionale poi pronuncia la sua nota Autodifesa dinanzi alla Corte d’Assise di Roma, dove mette in chiaro la sua posizione ed espone la propria visione del mondo. Evidentemente, commenterà, “nelle bassure attuali, pei più altro non esisteva che l’antitesi fascismo-antifascismo, e non essere democratici, socialisti o comunisti equivaleva automaticamente ad essere ‘fascisti’”. L’opuscolo Orientamenti contiene in nuce le posizioni evoliane successivamente sviluppate dall’autore in tre libri: Gli uomini e le rovine (1953), Metafisica del sesso (1958) e Cavalcare la tigre (1961), rispettivamente sulla dottrina dello Stato, sulle teorie dell’eros e sugli orientamenti esistenziali dell’uomo differenziato in un’epoca di 16 Nota biografica dissoluzione. Seguiranno: un saggio sul pensiero di Jünger, L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger nel 1960, la già più volte citata “autobiografia” spirituale attraverso i suoi libri, Il Cammino del Cinabro nel 1963, un’opera di analisi politica del fascismo da un punto di vista tradizionale, assai critica, Il fascismo visto dalla Destra nel 1964, un volume di saggi di vario argomento, L’arco e la clava nel 1968 e una riedizione ampliata di poesie giovanili dal titolo Raâga Blanda nel 1969. Da non sottacere la riscoperta dell’Evola dada: Enrico Crispolti organizza nel 1963 una mostra dei suoi quadri alla galleria “La Medusa” di Roma. Notevole anche la produzione pubblicistica di questo periodo, limitata ovviamente, visto il clima politico-ideologico del tempo, a quotidiani e riviste non conformisti e di lotta. Tra i primi: Roma e Il Secolo d’Italia, tra i secondi: Meridiano d’Italia, Imperium, Monarchia, Il Ghibellino, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il Conciliatore, L’Italiano, Totalità, Vie della Tradizione, Il Borghese, La Torre, La Destra, Intervento. Una menzione particolare meritano East and West, organo dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente del professore Giuseppe Tucci, e Antaios, rivista internazionale diretta da Mircea Eliade ed Ernst Jünger. Il 1968 vede Evola nei panni dell’anti-Marcuse. Le sue teorie infatti, fino ad allora ignorate o calunniate, vengono riscoperte dalla “contestazione”, non solo a destra, divenendo improvvisamente il punto di riferimento dei delusi dal “materialismo” del filosofo tedesco-americano. Le opere evoliane vengono quindi più volte ristampate conoscendo dal 1968 al 1973 una insperata diffusione, anche all’estero. Fonda e dirige per Le Edizioni Mediterranee dal 1968 al 1974, l’anno della sua morte, la collana “Orizzonti dello Spirito”. Agli inizi degli Anni settanta, la ventennale immobilità dovuta all’incidente di Vienna che oltre alla paralisi degli arti inferiori aveva causato al filosofo romano anche un inizio di cardiopatia, porta a conseguenze fisiche inevitabili. La salute del barone ne risente, non però la sua attività. Subisce vari ricoveri e cade in coma nel 1968. Al suo risveglio domanda: “Come mi sono comportato?”. Ha difficoltà respiratorie ed epatiche ma il suo stile è immutabile e mai smette di lavorare. Dalla metà del 1973 la situazione fisica generale peggiora 17 Nota biografica gravemente. Evola è sereno e considera compiuta la propria missione: “Ho detto tutto. Basta sapermi leggere”. Ѐ lo stesso invito del Nietzsche di Aurora: “Miei pazienti amici […]: imparate a leggermi bene!”. L’11 giugno del 1974, nel primissimo pomeriggio, Evola si fa vestire e condurre alla propria scrivania di fronte alla finestra da cui s’intravede il colle sacro al dio Giano. Reclina il capo e non si muove più. Nel suo testamento olografo, “Roma, 30 gennaio 1970”, aveva disposto che il suo corpo venisse cremato, che non vi fossero esposizioni in chiesa, cortei funebri, interventi di sacerdoti cattolici e “annunci funebri” sui giornali. L’ incinerazione avviene il 10 luglio. Ufficialmente, i resti mortali di Evola sono custoditi nella tomba di famiglia che si trova a Roma, nel cimitero del Verano. In realtà, dormono nelle profondità di un ghiacciaio del Lyskamm nel massiccio del Monte Rosa. Le ceneri furono collocate in due urne futtili di foggia antica, identiche, poi cementate e sigillate. Solo una di esse, quasi vuota, sarà destinata al Verano. L’altra, verrà affidata a Eugenio David ─ guida emerita e antico compagno di cordata del Filosofo, con il quale nel 1930 conquistò la parete nord del Lyskamm orientale (m. 4538) ─ che organizzò, con alcuni seguaci di Evola, l’ascensione ai ghiacciai del Monte Rosa per eseguirne il funerale alpestre: “Io vorrei […] che le mie [ceneri] fossero lanciate dall’alto di una montagna”. Così è stato. 18 Capitolo I Premessa “Sono assai sfortunato, la mia esposizione a Berlino ha avuto molto successo”. J. Evola a T. Tzara Un fascio di versi. Poi, il cielo: “Ma, ancora oggi, per un istante, si è aperta l’eterna volta di 16 piombo oscuro e piagato al puro infinito azzurro” . Il colore dominante delle composizioni evoliane. Lo Spirito, l’infinito – la morte. Evola impugna la rivoltella Dada: gesto ultimativo dell’arte. Cominciò ch’era finita. Il paesaggio interiore si apre su un’agghiacciante congedo. Sconvolta la parentesi futurista dell’idealismo sensoriale, Evola dissolve ogni arte nella coagulazione dell’Io. Vaticinio d’amante nel tremendo incantesimo d’una apocalisse irrappresentabile: “L’arte moderna cadrà ben presto: appunto questo sarà il segno della sua purità […], cadrà più che altro, per essere stata realizzata con un metodo dall’esterno/ per una graduale elevazione dalla malattia su motivi in parte passionali/ anzi che dall’interno/mistico/…”17. Nell’Io che è un autre, veicolo del nulla in cui s’è rivelato il mondo, la forma stessa è consumata come deliquio d’ogni contenuto: “Esprimere è uccidere”18. Ma da un silenzio gravido d’orrore nascerà 16 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica (10 poemi, 4 composizioni, Collection Dada, Zurigo), Roma, 1920, Maglione e Strini, p. 14. 17 Ibid. 18 Ivi, p. 9. 80 Capitolo I la parola dell’Individuo Assoluto: vertigine salvifica sul limitare della perdizione. Come un dio che corre lacerando il niente che l’avvolge. Parentesi futurista Andiamo con ordine. È opportuno infatti ricordare ─ in apertura di questo capitolo dedicato al trapasso evoliano dal periodo cosiddetto artistico a quello filosofico19 ─ che Jules Evola20, prima di approdare al mondo della Tradizione attraverso il processo magico-filosofico dell’Individuo Assoluto, superò il nichilismo nell’astrazione totale dadaista, divenendo in Italia il vero, e per molti aspetti l’unico, protagonista ed animatore del movimento21. Il giovane barone “rappresentò senza dubbio la posizione più rigorosa e più estremista di tutto il dadaismo europeo”, incarnandone la sua vocazione più qualificante ed ironica: la morte dell’arte 22. Tanto che, dopo la sua esperienza poetico-pittorica, cesserà nel ‘21 di fare l’artista23. Vediamone gli inizi allora. Nell’Italietta provinciale, cattolica e borghese del primo novecento, Evola è un alieno24. A guerra terminata, vi ha preso parte tra il 1917 e il 1918, mentre nazionalisti e futuristi s’affrettano a gonfiare il mito della vittoria mutilata, il tenente d’artiglieria Giulio Cesare torna a Roma, ancora inquadrato ufficiale presso lo stato 19 Cfr. Gianfranco de Turris, Introduzione a Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a cura di Elisabetta Valento (con sei illustrazioni), Quaderno di testi evoliani n. 25, Fondazione Julius Evola, 1991, p. 4: “I vari ‘periodi’ della sua attività intellettuale non sono da considerarsi come compartimenti stagni o divisi nettamente, ma sfumano l’uno nell’altro, e già il precedente contiene i germi del seguente”. 20 Così si firmava quando era dadaista. 21 Non solo da un punto di vista tecnico-pittorico ma anche e soprattutto sul piano teorico. Evola ha infatti una capacità di concettualizzazione superiore a quella dei suoi ben più celebrati colleghi di New York, Zurigo, Parigi, Colonia o Monaco. Cfr. Sergio Benvenuto, Dada e la filosofia. Evola e l’essenza del dadaismo, in Dada. L’arte della negazione, Edizioni De Luca, Roma 1994. 22 Giovanni Lista, Tristan Tzara et le dadaisme italien, in Europe 555-556, luglio/agosto 1975. 23 A ventitré anni Evola chiude con la pittura e la poesia. Anticipando così Marcel Duchamp, maestro dell’ironia dada che, nel 1922, dirà addio alla pittura consacrando il suo genio al gioco degli scacchi. Il Barone tuttavia tornerà a dipingere verso la metà degli anni ’60. 24 Per dare un’idea della sua precoce inattualità, o se si vuole, della sua aristocratica sociopatia, si veda la bella e partecipata testimonianza di Jacopo Comin in Testimonianze su Evola, a cura di Gianfranco de Turris, Edizioni Mediterranee, Roma, 1985, che mi permetto di riassumere in una frase ivi contenuta, p. 90: “Ragazzi, lasciatelo stare! Ha diritto ad essere solo” (A. Reghini). 20 Capitolo I maggiore della Marina. Giovanissimo, è già absolutus, sciolto da quel mondo al quale non sembra appartenere. Aveva cominciato a dipingere durante il primo conflitto mondiale, frequentando gli ambienti più estremi dell’avanguardia futurista25: Casa d’Arte Bragaglia, che più tardi aprirà il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, e lo studio di Giacomo Balla ─ di cui fu “praticamente allievo”26 ─ fulcro delle ricerche avanguardiste e centro d’irradiazione dei più svariati interessi culturali27. Sotto questi influssi produrrà le prime opere rientranti nella tendenza che l’autore stesso ha denominato “idealismo sensoriale” (1915-1918), ma abbandonerà presto il movimento marinettiano, abissalmente distante, a parte il lato rivoluzionario, dalla sua nascente estetica uranica28. E proprio il fastidio per il futurismo ─ il suo lato chiassoso ed esibizionistico, la rozza esaltazione dell’istinto e della vita, la febbre nazionalistica, il sensualismo etc. ─ lo abbandonerà rapidamente al greve abbraccio dada. L’avanguardia romana degli anni Dieci e primi Venti è animata da un forte sperimentalismo, una sorta di ecumenismo artistico che vede lo stesso futurismo dialogare, più o meno pacificamente, con le altre tendenze avanguardiste. Ma ciò che ai nostri fini occorre rilevare è la sua componente occulta: si pensi, per fare solo qualche esempio, al “fotodinamismo” di Bragaglia o alle 25 Evola data l’inizio della sua attività pittorica al 1915, presso casa Balla, dove compie l’apprendistato futurista, ma tra quelli conosciuti, i suoi quadri più vecchi risalgono al 1916-1917. Tra gli altri: Paesaggio notturno, 1916c., Five o’clock tea, 1916-1917 e Nel bosco, 1916-1917. 26 Cfr. Enrico Crispolti, Giulio Evola. Retrospettiva di dipinti dal 1918 al 1921, Galleria La Medusa, Roma 1963. 27 Con Evola, altri giovani di talento come Prampolini, Depero, Marchi, i due fratelli Ginanni Corradini si stringono attorno al Maestro. 28 Così Philippe Baillet, nel suo venerante Julius Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni di Ar, 1978, pp. 38-39, definisce l’estetica evoliana, con pertinenti considerazioni che, nonostante la diversa prospettiva, chi scrive si sente di condividere: “[…] abbiamo qualificato «uranica» l’estetica di Evola. Occorre spiegare perché, ma ricordiamo anzitutto che non è evidentemente per caso che Evola ha scelto il prefisso UR per denominare il gruppo di ricerche esoteriche che egli dirigeva verso la fine degli anni 20. Nella mitologia, Urano simboleggia il risveglio del Fuoco Primordiale. Più in generale, l’aggettivo «uranico» si potrà applicare per designare la pura fiamma dello Spirito, che si alimenta di sé stessa e che non brucia. Sul piano spirituale, Urano evoca un impulso irresistibile verso la trascendenza, verso l’incondizionato, impulso che può accompagnarsi alla coscienza acuta e dolorosa della privazione e della sete inseparabili dalla condizione umana. Sul piano psicologico, Urano rinvia all’immagine di una «sovratensione», di una corrente troppo forte che ha bisogno di «passare» a qualunque costo, di un cammino discontinuo, non progressivo, che avanza per crisi successive. Su questi tre piani ─ spirituale, psicologico, estetico ─ Urano è il segno dei figli del Nord […] e della via che è loro propria, la via eroica. Urano definisce e circoscrive così una delle «razze dello spirito» di cui ha parlato Evola”. 21 Capitolo I “compenetrazioni iridescenti” di Balla, segnate da quella cifra alchemica che tanta importanza avrà per Evola29. L’Evola artista muove i suoi primi passi in una Roma magica. Città attraversata dal delirio30 paranormale, psichista e antropoteosofico di Arnaldo Ginna, sua moglie Maria Ginanni, Rosa Rosà, Mario Carli: protagonisti della rivista fiorentina L’Italia futurista (1916-1918)31. È a casa Balla che il giovane pittore conosce Ginna, con il quale entra subito in simpatia, dato il comune interesse per il paesaggio interiore32. La pittrice e poetessa viennese Rosa Rosà, nome d’arte futurista di Edith Von Haynau, è invece tra coloro che (non) collaboreranno alla mai nata Alpenrose, la rivista modernista che Evola prepara nel 1919 e che avrebbe ospitato, tra i tanti, contributi di Balla, Marinetti, De Chirico, Savinio e Arturo Onofri. Ho già accennato alla scarsa sintonia di Evola col futurismo. E presto vi tornerò sopra commentando alcuni suoi scritti teorici. Ora è però il caso di considerare brevemente la prima produzione evoliana dell’idealismo sensoriale, fortemente influenzata dal dinamismo plastico futurista e, in particolare dalla ricerca del suo maestro Balla, “non senza suggestioni di spiritualismi orfici, destinate ad avere in lui successivamente una decantazione in chiave-alchemico-magica”33. Ma perché idealismo sensoriale? Un’estetica, sentire dell’Idea, come idealismo pittorico ─ del senso interno e non dei sensi fisici ─ che contrappone “l’elemento esclusivamente soggettivo al panteismo incosciente e trascendentale del soggetto e dell’oggetto […] ossia lo spirito alla natura e di 29 Evola intitolerà la propria autobiografia spirituale: Il cammino del cinabro, (Vanni Scheiwiller, Milano, 1963). Il cinabro, solfuro di mercurio, in alchimia è la materia prima della pietra filosofale. 30 Dall’etimo deliràre, uscire dal solco o come si usa oggi, dal seminato, dalla dritta via della ragione. Sempre che la ragione non abbia torto. 31 Cfr. Arnaldo Ginna, Brevi note su Evola nel tempo futurista, in Testimonianze su Evola, op. cit., op. cit., p.136: “Evola dipingeva un astrattismo di stato d’animo […] con quel pizzico di sentimento profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si interessava di occultismo traendone […] un succo personale. Non so precisamente definire gli studi e le esperienze di Evola, so soltanto che ciascuno di noi aveva tra le mani i libri di teosofia della Besant e della Blavatsky, e poi le opere di antroposofia di Rudolf Steiner etc.”. 32 Così Evola intitola gran parte dei suoi quadri del periodo dadaista. 33 Carlo Fabrizio Carli, Evola tra futurismo e dadaismo, in Studi Evoliani 1998, Fondazione Julius Evola, Roma, 1999, p. 15. 22 Capitolo I conseguenza la volontà nel sentimento astratto ed egoistico al valore sentimento ed alla sensazione”34. Pochissime sono le opere rimaste di questa produzione e conviene subito dire che l’Evola artista, mostra da subito una personalità talmente forte e complessa, tale da non poter essere definito se non un futurista eterodosso. Opere come Mazzo di fiori, Feste, Fucina – studio di rumori, Five o’clock tea, Sequenza dinamica e l’acquerello Truppe di rincalzo sotto la pioggia, rinviano ad una facoltà interiore che consente la “continuazione astratta dell’oggetto” come creazione. L’oggetto non si trova nell’oggetto stesso ma in un qualcosa che ne è esterno, “rinchiuso in noi”. Si veda sequenza dinamica, “piccolissimo olio su cartone in cui è evidente l’ispirazione agli studi sulla velocità che trovarono in Balla il loro iniziatore”35: linee continue, “traiettorie di energia” (M. Calvesi) che rendono caotica l’immagine. Folate di vento, cielo frastagliato da punte spezzate, nuclei di luce dinamica fissati dall’occhio fisico. “Forme sintetiche astratte dinamiche” (Balla). Non sono gli oggetti a muoversi, ma è l’energia di chi li crea a donar loro una forma in movimento: “La pittura futurista deve differenziarsi da ogni altra esclusivamente in quanto esclude l’oggetto, in quanto è la estrinsecazione di forme puramente astratte e psicologiche, in quanto noi stessi quale spirito siamo gli unici soggetti dei nostri quadri”36. Arte creazione dello spirito dunque, e ricreazione della materia nel laboratorio alchemico ─ la fucina in cui si lavorano i metalli ─ come manipolazione artigianale del colore37: Fucina, studio di rumori, 34 J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, testo inviato a Gino Soggetti, nel 1917, per la rivista La Folgore futurista, fondata in quello stesso anno da Soggetti e da Angelo Rognoni, animatori del gruppo futurista pavese. La rivista venne sospesa dopo appena due numeri a causa della partenza dei redattori per il fronte. Lo scritto di Evola rimase inedito. Successivamente ritrovato e pubblicato da Giovanni Lista in Balla le futuriste, L’age de l’homme, Lausanne, 1984, p. 142. Ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, Fondazione Julius Evola, Roma, 1994, pp. 20-21. 35 Elisabetta Valento, Homo faber. Julius Evola tra arte e alchimia, Fondazione Julius Evola, Roma, 1994, p. 20. 36 J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., in p. 20. 37 Evola utilizzò solo materiali “tradizionali”, semplici: carboncino, inchiostri, acquerelli, colori ad olio e smalti. Si esprime negativamente in Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 19, sull’“introduzione di materiali spuri”. 23 Capitolo I la nostra ultima visione futurista, esposta a Ginevra e a Roma nel 1920. “L’astrazione è qui raggiunta rendendo analogicamente l’esperienza sensibile della realtà”38: il laboratorio del fabbro in cui si ode l’esplosione di colori tra globi astrali provenienti da una dimensione altra, interna. I riferimenti evoliani sono qui presumibilmente due testi del 1913: il manifesto di Carrà La pittura dei suoni, rumori e odori (agosto 1913) e Le analogie plastiche del dinamismo, dove è scritto: “Ormai la realtà esteriore e la conoscenza che ne abbiamo non hanno più alcuna influenza sulla nostra espressività plastica, e, quanto all’azione del ricordo sulla nostra sensibilità, soltanto il ricordo dell’emozione persiste, e non quello della causa che l’ha prodotta. Il ricordo agirà dunque nell’opera come ‘elemento d’intensificazione plastica’”39. Evola scrive: “[…] nel nostro lavorìo psichico, nella memoria non rimangono che i fatti importanti ed eterogenei di un avvenimento: dipinger questo significa unificare questi dati importanti che esistono ed hanno un valore solo presso l’esistenza ed il valore degli altri diversi (IVa dimensione: colore di una forma mentre suona una tromba), ossia porre le forme nuove uniche. E la forma nuova, semplece, spirituale, raffinata, costruibile e quasi architettonica, risolve in uno il problema della comprensibilità esasperato nei grovigli di linee forze, di compenetrazione e di particolari arabeschi introdotti dalla validità delle analisi dei ricordi”40. Ma è il colore, innaturale come può esserlo l’artificio d’un mago, a preannunciare il Manifesto del colore di Balla uscito nel 1918. Caratteristica questa, non solo del quadro in oggetto, ma di quasi tutti quelli che conosciamo: mondo di una immaginazione (imum-ago, agire dall’interno) senza limite. 38 Ivi, p. 23. Gino Severini, Le analogie plastiche del dinamismo, settembre-ottobre 1913. 40 J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 20. 39 24 Capitolo I Evola dada Nel suo Cammino Evola scrive: “In quel periodo giovanile, dato che in Italia come movimento artistico d’avanguardia praticamente esisteva quasi soltanto il futurismo, ebbi rapporti personali con esponenti di esso. In particolare, fui amico, del pittore Giacomo Balla, e conobbi Marinetti. Anche se il mio interesse principale era pei problemi dello spirito e della visione della vita, coltivavo altresì la pittura, una disposizione spontanea al disegno essendosi manifestata in me già da bambino”41. L’arte evoliana ha un fondamento extra-artistico: i suoi quadri e le sue poesie giovanili42 devono essere guardate da una prospettiva filosofica e religiosa che matura in questi anni e che è possibile leggere attraverso i suoi primi scritti teorici, travaglio di uno spirito in divenire: “Ed in effetti l’approccio con l’avanguardia futurista fu più uno scontro di sensibilità che una vera e propria collaborazione”43. Diversamente andarono i rapporti col dadaismo. Mi riferisco alla seconda fase della pittura evoliana che si mostra nel triennio 1918-1921: Astrattismo mistico. Siamo in una dimensione puramente astratta in cui scompare ogni referente figurale. Dimensione introdotta da Balla nel repertorio pittorico futurista ─ sostanzialmente figurale prima e dopo la guerra ─ che segnò per Evola il passaggio al secondo 41 J. Evola, Il cammino del cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1972, p. 17. Il corsivo è nostro. Cfr. Raâga blanda, Composizioni 1916-1922, Vanni Scheiwiller, Milano, 1969. Le poesie sparse di Evola risalgono tutte agli anni tra il ’16 e il ’22. Atteso cinquant’anni prima di essere riunite e pubblicate. Sono in italiano e in francese e, in parte, apparvero su riviste d’avanguardia dell’epoca. I versi di Evola sono lo specchio di un nichilismo gelido, metallico. La testimonianza di una rottura dei sensi alla ricerca di una libertà superiore. Questa diversa dimensione dell’essere è lacerata da illuminazione improvvise, quasi abbandonate alla parola da lontananze cosmiche: “tutti questi cristalli neri sperduti nella notte frammenti caduti di lontani mondi” (i sogni), “hada adarrrrrr – vi son dei samovar e dei motoscafi (hh) sulle terrazze lunari ─ iperbole danza (ore 18 composizione), “mai più mai più valli azzurre – il cielo può attaccarsi alla terra con iperboloidi di miele – per una sigaretta accesa son cadute a fondo tutte le bajadere elettriche di San Francisco” (composizione n. 2), in J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., rispettivamente, p. 15, p. 21 e p. 23. Sulla poesia evoliana, cfr. Sandro Giovannini, Evola tra poesia e arte, in Studi Evoliani 2008, Arktos Editrice, Torino, 2009. 43 Marco Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli anni Trenta, in Delle rovine ed oltre, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 41. 42 25 Capitolo I periodo futurista: quello della “forma nuova” di contro a quello delle “linee forza” dominato da Boccioni44. È bene avvertire però che i confini tra le fasi pittoriche evoliane sono fragili, in quanto momenti-vortice di un processo di maturazione tecnico-intellettuale e sopratutto spirituale che ha conosciuto forse estasi ma non stasi. I temi di Evola Dada: Paesaggi interiori, Astrazioni, Composizioni, Paesaggi dada, ben sintonizzati con i più acuti vertici avanguardistici della Mitteleuropa: Arp, Schad, Richter, Itten. Si concentra in una manciata di anni il suo gesto pittorico: Roma, personale nel 1920 da Bragaglia, poi Berlino nel 1921 presso la celebre “Der Sturm” di Erwart Walden. Nello stesso anno la mostra della trinità dada Evola-Fiozzi-Cantarelli sempre da Bragaglia, nonché la partecipazione alle tre collettive: la futurista di Milano nel 1919 a Palazzo Cova, l’internazionale d’arte d’avanguardia a Ginevra nel 1920-1921 e infine il Salon Dada a Parigi nel 1922. Merita una menzione a parte il grande murale di cinque metri per tre dipinto da Evola per le “Grotte dell’Augusteo”. A Roma infatti c’era una sala per concerti molto famosa, che sorgeva su di un antico anfiteatro romano, l’Augusteo appunto. E qui, in una sala sotterranea, il pittore futurista Arturo Ciacelli aveva creato un cabaret alla francese ─ luogo preferito di ritrovo di intellettuali ancora alle prime armi come Curzio Malaparte e Vincenzo Cardarelli ─ che Evola aveva contribuito a decorare. In questo club artistico si tenne nel maggio del 1921 una manifestazione dadaista, peraltro riservata ai soli invitati che alla fine ricevettero un piccolo “talismano dada”: la recitazione di un poema a quattro voci, tre uomini e una giovane donna, che durante la performance fumavano e bevevano champagne. Come musica di sottofondo e di accompagnamento: Satie, Schönberg e Strawinsky45. 44 Cfr. J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 19: “Decisamente la pittura futurista è entrata in un secondo periodo: il primo fu quello di Umbero Boccioni, il secondo, proprio della nuova generazione, fu iniziato da Giacomo Balla. Il primo periodo di lotta, di ricerca affannosa, di ‘Sturm und Drang’, il secondo di organizzazione e di selezione: linee forza nel primo, forma nuova nel secondo. E ancora, ivi, p. 21: “La nuova pittura futurista […] attribuisce un valore enorme al volere a scapito del solito sentimento da romanticismo più o meno mascherato: la teoria della forma nuova pone decisamente le basi della pittura idealista e psicologica”. 45 Cfr. G. Lista, Il Dada in Italia, DIA International, novembre 1983, p. 31: “Evola aveva invitato a Roma il danzatore russo Vlentin Parnak, l’inventore d’una danza grottesca che parodiava il mito 26 Capitolo I Il testo declamato era l’opera evoliana La parole obscure du paysage intérieur. Poème a 4 voix, di cui avrò modo di parlare. Particolarmente significativa è poi la già citata mostra nell’aprile del 1921, con Fiozzi e Cantarelli presso la Casa d’Arte Bragaglia, che segnerà una frattura definitiva tra Marinetti e l’esiguo gruppo di dadaisti italiani. L’intenzione era quella di stupire i convenuti, di épater le bourgeois come si diceva un tempo, quando ancora esistevano, e di sfregiare definitivamente il volto modernista del futurismo nel rogo d’ogni retorica estetica, politica e morale. Al centro della sala un tabellone con una frase di Tristan Tzara: “Mi piacerebbe andare a letto col papa. Non capite? Nemmeno noi: che tristezza…”. In fondo, su di un altro tabellone: “Prima di noi, la blenorragia; dopo di noi, il diluvio”. Ma su tutti i quadri c’erano delle piccole scritte del tipo: “Comprate questo quadro, vi supplico: costa solo 2 franchi e 50”. E poi un bizzarro elenco di simpatie e antipatie dada, tra cui: “Dada è contro la patria”, “A Dada non piace la Santa Vergine” e “Dada è contro Dada”. In un simile pandemonio non stupisce che volassero ortaggi e uova marce, trofei di un’arte sfondata nell’ironia e nel paradosso. Che il pubblico non capisse, era il desideratum dadaista per eccellenza. Quanto alla critica… Irretita dalla folle maschera di questa arte non si accorse del suo volto celato: la profonda serietà della fumisteria. Il mistero dietro la mistificazione. Ricordo le parole di un tragico pagliaccio: “Sembra che siamo giocondi perché siamo immensamente tristi. Noi siamo seri, conosciamo l’abisso: e per questo ci difendiamo da ogni serietà”46. Dada non ha avuto molto seguito in Italia e dopo il ritiro di Evola non se ne sentì più parlare. Dada non era soltanto arte o peggio il tentativo di crearne una nuova. Dada era l’opposto del futurismo, e lo era ferocemente: nessuna civiltà moderna, nessun futuro, nessuna velocità… NIENTE, se non il riflesso della crisi, punto 0 dei valori47. della macchina e della tecnologia moderna con lo stesso spirito dei disegni meccanomorfi di Picabia”. Il Barone firmò col nome dell’artista francese alcuni suoi quadri. Ironia dadaista. 46 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1886, in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi Milano 1964, VIII, pagine 68-69. 47 Cfr. E. Jünger, : “Noi marciamo da lungo tempo verso un magico punto zero, da cui si allontanerà solo colui che potrà disporre di altre , più invisibili fonti di energia”, citato in Alain de Benoist, Ernst Jünger: la Figure du Travailleur entre les dieux et les titans, in Nouvelle Ecole n. 27 Capitolo I Quale possibilità ulteriore per chi avesse avuto l’ardire d’un simile salto nell’incongruo è presto detto: il suicidio. O tornare indietro, infinitamente altrove nell’esilio della propria ignavia. Oppure andare avanti48: è quello che farà Evola. Ma prima è necessario viverne, in gran parte attraverso le sue stesse parole, la folgorante stagione dadaista. Arte come libertà e come egoismo Evola entra in contatto con il gruppo zurighese nel 1919 grazie alla rivista Noi49 sulla quale scriverà per poco. In merito a tale collaborazione scrive a Tzara nel 1919: “avec la plus grande probabilité, je serais le seul à souvenir les directions abstraitistes, et je espére que vous voudrez m’aider avec votre collaboration et celle de vos amis”50. Su Noi, numero di gennaio del 1920, appare l’articolo L’arte come libertà e come egoismo, dato come estratto dal saggio Sole della notte che nell’autunno del 1920, stampato a Roma per i tipi di Collectio Dada, diverrà Arte astratta. Non cambia solo il titolo, ma il testo stesso, profondamente influenzato dalla poetica dadaista al quale l’autore si sente legato da una vera e propria “affinità elettiva”. La lettura del manifesto dada 1918 di Tzara ha su Evola la forza di una conversione: esso ha “finalmente e per la prima volta, trovata la […] soluzione spirituale” dell’arte nell’arbitrio51. Non c’è necessità, sopratutto quella di esprimere, ma lusso e capriccio del volere. Tuttavia “il dadaismo difetta dell’interpretazione mistica”52: straordinaria lucidità della visione evoliana del dadaismo e pre-eco 40 , settembre-novembre 1983, pag. 11-61, trad. it. Di Marco Tarchi, L'operaio tra gli Dei e i Titani. Ernst Jünger ‘sismografo’ dell'era della tecnica, Terzavia, Milano, 2000, p. 88. 48 Cfr. F. Kafka, in Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004, p. 21: “Da un certo punto in là non vi è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere”. 49 Fondata a Roma nel 1917, diretta da Bino Sanminiatelli ed Entico Prampolini. 50 Cartolina postale manoscritta autografa, Roma, 6/12/1919, tr. it. a cura di Elisabetta Valento: “[…] con la più grande probabilità, sarò il solo a sostenere le tendenze ‘astrattiste’, e spero che, appena riceverete i primo numero, vorrete aiutarci con la vostra collaborazione e quella dei vostri amici”, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a cura di Elisabetta Valento, con 6 illustrazioni, Quaderni di testi evoliani n. 25, Roma, 1991, p. 17. 51 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 13. 52 Ibid., nota 1. 28 Capitolo I della sua fine. Negazione della negazione nell’inconscio surrealista. Il barone aderisce al movimento di Tzara in pieno attivismo futurista (personale casa d’arte Bragaglia gennaio 1920) e mentre Marinetti promette di pubblicare le sue liriche nelle edizioni futuriste di Poesia. S’accentuano così il suo isolamento e l’ostruzionismo degli araldi del futuro, che già tolleravano a stento la sua posizione astrattista confusa con un mero decorativismo. Lo salva Tzara, conosciuto ancora solo per lettera53, indirizzandolo verso Bleu, sul cui terzo ed ultimo numero, siamo nel gennaio 1921, Evola appare con Note per gli amici54. Concentrato extra-artistico della sua visione che il mago dada prepara su terreno metafisico e sapienziale saturo di richiami alchemici, frutto in gran parte dei contatti post-1918 con gli ambienti antroposofici e teosofici romani. Uno su tutti: Decio Calvari, presidente della Lega Teosofica Indipendente di Roma, che lo avvia al tantrismo. L’adesione al dadaismo dell’agguerrito drappello italiano ruota attorno a questo sostrato spiritualista ed occultista come al proprio asse, ma non si deve dimenticare il Manifesto degli artisti radicali del 1919. Quel che unisce i pochi dadaisti italiani è infatti la tendenza “astratta” delle proprie ricerche, che seppur anticipata da Balla e dalle sue Compenetrazioni iridescenti (1913), diviene la rivelazione di un nuovo rapporto tra uomo e ambiente, come ricreazione55 arbitraria del (suo) mondo ─ esclusivo possesso dell’artista ─ che nega quello esterno. Si pensi a Picabia e Duchamp, a quell’astrattismo-satira di una forma mentis utilitaristica in cui s’è specchiata un certo tipo di produzione artistica. Note per gli amici è il testo dadaista di Evola, perla del suo stile metallicamente ebbro, che così principia: “Per noi l’arte è un’altra cosa”56. Cosa? 53 Evola incontrò Tzara probabilmente una sola volta nell’inverno 1921. La rivista, fondata da Bacchi, Cantarelli e Fiozzi, mostra sin dal primo numero del luglio 1920 una piena adesione a Dada. Cfr. Elisabetta Valento, Evola fra arte ed antiarte, in Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., pp. 11-12: “[…] il testo più compiutamente dadaista, nello spirito e nella lettera, scritto da Evola. È anche il canto del cigno; egli continuerà l’esperienza dadaista ─ di lì a pochi mesi ci sarà il ‘Jazz-band Dada ball’ con esposizione a tre (Evola, Fiozzi e Cantarelli) nella Casa d’Arte Bragaglia, manifestazioni e serate e da ultimo (16 maggio 1921) conferenza dada all’Università ─ ma solo per concluderla”. 55 Anche e sopratutto come svago, gioco, divertimento. 56 J. Evola, Note per gli amici, pubblicato su Bleu, Mantova, n. 3, gennaio 1921. Ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 35. 54 29 Capitolo I Siamo a un passo dal Dada oltre se stesso nel superamento di tutta l’arte. E già nel 1920 il giovane artista ne intravede l’essenza con tanto di apocalittica citazione in esordio al suo Arte come libertà e come egoismo: “Mi son note le opere tue, e come hai fama di vivo, e sei morto” (Giovanni Ap. 3-1)57. Condanna pietosa del creatore morto nella creazione. Impotenza dell’uomo che suona anche più crudele se quest’uomo lo chiamiamo artista. Ammesso che l’impotenza non sia una in-potenza. Ci chiamiamo coscienti e profondi, afferma Evola, ma proprio “quel che vi è di fondamentalmente puro, di originale nell’individuo, non si conosce non si ha” perché perdiamo la profondità nella superficie confondendo la veglia e il sonno, o come lui stesso kantianamente si esprime: “ché la coscienza e la fede del noumeno si risolve in noi in coscienza e fede del fenomeno”58. La viva corrente della vita si riversa così nella passione e nella malattia, e “in me l’Io non è l’Io, ma io-scienza, io-filosofia, io-pratica”59. L’Io non si possiede e la vita di tutti i giorni, quell’inconsistenza che i mortali, come li chiama Heidegger, vivono ogni giorno, “appare estranea ed irreale spoglia, incomprensibile tumefazione delle mie sfere notturne”60. Espressioni come “un’altra fiamma, l’individualità”, “fuoco interno”, “elemento vitale”, rincorrono in questo scritto una tensione escatologica verso un più che vita che salvi e dissolva la mediocre prigione di un uomo che vegeta “fra simboli vuoti, schemi pratici, convenzioni comode d’orientamento”61. L’ “uomo del mercato” sa, anche se solo inconsciamente, che la “corrente totale”, la potenza della vita, se posseduta, “gli scardinerebbe tutte le sue tiepide città, gli distruggerebbe tutti i suoi ideali ridicoli, i comodi, le voluttuose assenze: lo annienterebbe”, perché il fuoco che lo rischiara e di cui ha bisogno è piccolo, addomesticato e artificiale. La “fiamma interiore” giace così abbandonata ai suoi piedi nella vigliaccheria e nell’indolenza, perché 57 J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, pubblicato su Noi, A. III, n. 1, gennaio 1920, ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 23. 58 Ibid. 59 Ibid. 60 Ibid. 61 Ivi, p. 24. 30 Capitolo I egli cerca e si nutre di oblio, affogando nel patire “come il bruto nella carne della sua femmina: disperatamente, voluttuosamente”62. Sembra di ascoltare Michelstaedter, che avrebbe aggiunto a queste parole la sua: “[…] finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente”63. Ma non è ancora tempo. “Quel che si teme più al mondo è l’Io”64. Una parola diversa per la solitudine. La filosofia, come metodo della superficialità incosciente, non può nulla: “Ci vuol altro!”65. I filosofi presentano l’Io, vi aspirano ma non riescono ad impugnarlo perché sono “incatenati dalla coscienza del mercato”. La scienza è vera in quanto è utile, “ha il vantaggio del rasoio automatico o della macchina da scrivere”, ma “L’arte […] o è prodotto di un atto identico di quello di un cane che, seguendo la forza cieca dell’istinto, monta un altro (naturalezza, ispirazione); o è frutto di un circolo vizioso di un convenzionalismo che vuole le forme della volgare pratica: coerenza universale, staticità; determinazione (umanità, genialità ecc.). D’Io non se ne parla. Là dove l’arte si salva […] è là dove appare come fatto egoistico, come espressione freddamente voluta di uno stato interiore di estraneità, di morte vivente”66. Ora, Evola intende il sentimento estetico come iniziazione all’Io, alla “coscienza superiore misconosciuta ed affogata”67. Un’arte non può divenire spirituale se non supera gradatamente tre limiti: 1) Lo stato della concezione concettuale del mondo che vien superato o dall’estetica mistica o dall’estetica brutale. 2) Lo stato della spiritualità generica e dell’umanità: “secrezione sporca di malattia, di vigliaccheria e di femminilità 62 Ibid. Cfr. J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Arktos, Carmagnola, 1989, p. 83: “Così tutta la vita degli uomini prende il senso di un fuggire dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall’essere, essi parlano, si agitano, si cercano, si amano in richiesta reciproca di conferma”. 63 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano, 2007, p. 89. 64 J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, op. cit., p. 24. 65 Ibid. Ci vuole quell’io che è “un altro”. Evola cita Rimbaud in Arte astratta, op. cit., p. 3: “Je est un autre”. 66 J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, op. cit., p. 25. 67 Ibid. 31 Capitolo I spirituale68. […] Porre finalmente l’aspiritualità (non proprietà) delle cose ‘spirituali’, superiori, divine, umane, che si vedranno irrimediabilmente superate, che si sentiranno secche scorze per sempre cadute dal vivo tronco”. 3) Lo stato della naturalità dell’espressione. Il sentimento estetico sarà il “sentimento dell’intima attività”: nessuna necessità d’espressione. I mezzi espressivi sono utilitari e quindi “validi solo nel mercato”69. L’opera d’arte come lusso, capriccio dell’individuo che ha realizzato sé stesso, “l’unico, per la prima volta: che ha la vita di tutti i giorni come un unico spettatore, in platea, ha un immane e pur fragile spettacolo che, ad un cenno, potrebbe inabissarsi e disciogliersi per sempre nell’ineffabile gelidità ardente della coscienza superiore”70. L’individualità dello spettacolo, prima che il sipario si chiuda. Dissolvenza in nero d’io: Sole della Notte. È dell’ottobre del 1920 invece la polemica scritta Decorativismi, in cui il giovane artista risponde al pittore Giovanni Galli. Questi, in un suo precedente articolo dallo stesso titolo uscito il mese prima su Griffa!, aveva duramente attaccato la tendenza astratta che trasforma “il quadro in un complesso di elementi geometrici e sibillini”, col rischio conseguente di una proletarizzazione dell’arte71. L’articolo di Evola è notevole, non solo per la risposta alle questioni sollevate dal suo improvvido critico, ma sopratutto per il modo in cui illumina la sua visione artistica, che ora possiamo senz’altro definire spirituale. Oltre gli abiti, il gioco della forma e del segno, il barone invita a vedere quel che vi può essere di più importante: “la persona, il nucleo vitale”72. 68 Ibid. Il grassetto nostro. Ivi, p. 26. 70 Ibid. 71 La lettera di Evola, del 10/10/1920, appare su Griffa!, Perugia, A. I, n. 12, 7 novembre 1920 in risposta all’articolo del Galli intitolato Decorativismi apparso sul fascicolo precedente, n. 11, 25 settembre 1920, che attaccava duramente le tendenze più o meno astratte in pittura. Ora in J. Evola, Decorativismi, in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., pp. 27-29. 72 Ivi, p. 28. 69 32 Capitolo I L’arte diviene sempre più astratta e ghiaccia e questo è lo stigma della sua superiorità. L’uomo ha superato la passione e la fede dopo averle vissute all’estremo e andando oltre monismo e dualismo, al di là della pratica e del sentimento, “comincia per la prima volta a conoscere ed a possedere l’intimo sé stesso, la gelidità ardente dell’io che non è l’io, che è al di fuori delle categorie, che in sé stesso ha fine e causa: der Finsiche: l’unica verità pura, l’unica necessità pura: libertà. Ma presso ciò, nella pratica ogni vita è seccata, ogni moto è spento: le stelle muoiono. Non restano che degli immani e tristi scenari di cartone, inanimi e deserti, perché quella malattia e quell’incoscienza della superficie che ne erano la vita illusoria, son calate a fondo, per sempre, come degli stracci sporchi da un corpo di luce”73. Ed è arrivato a questo punto che all’individuo, “giovane dio incomprensibilmente svegliatosi in questa triste metropoli” non resta che “il gioco (Shiller), […] il capriccio della forma, fra le sue dita dolcemente ghiacciate”: la nascita di quel che Galli chiama “decorativismo” non vedendone la profondità disperata, l’“umanità posseduta fino al delirio dell’ultima sua purezza”. Dietro giochi di superficie, sragionata saggezza dei segni, c’è l’abisso che consente l’eco d’“un’altra vita, tanto lontana”. Che cos’è un’umanità dormiente per l’Uomo che si sveglia? Forse lo stesso della tecnica: “per noi non è che un vestito e, perciò, da per sé, non esiste”. Il dialogo tra sordi Galli-Evola ─ tra chi dorme e chi si sveglia? ─ si chiude con una definizione dell’arte astratta che ben s’accorda con la imminente svolta evoliana: “L’arte astratta è assoluta ‘egoizzazione’, trascendenza radicale da ogni base comune, e vuole ‘a priori’, come riprova pratica di purità e di proprietà, l’assoluta incomprensibilità delle sue espressioni”74. 73 74 Ibid. Ivi, 29. 33 Capitolo I Gehst zu frauzen? Apriamo qui una parentesi “misogina” a tutta prima gratuita, ma a parer nostro significativa e sintomatica d’una ben più ampia concezione evoliana della femminilità, sopratutto spirituale. Nel gennaio del 1921 Evola scrive sulla rivista di Anton Giulio Bragaglia, Cronache d’Attualità ─ il periodico più importante dal punto di vista letterario del dopoguerra e, fino al 1922, il punto di riferimento più prestigioso delle avanguardie italiane ─ un violento ed ironico articolo intitolato Gehst zu frauzen? (Vai a donne?), ispirato alla frase di Nietzsche: “Vai a donne? Non dimenticare la frusta”, che è stato definito dalla studiosa Elisabetta Valento “un pamphlet che non tratta d’arte ed è piuttosto una raccolta di aforismi non certo benevoli e piuttosto scontati sulla donna che palesano l’influenza e la piena concordanza con le teorie di Otto Weininger, peraltro citato, in Sesso e carattere (successivamente tradotto da Evola e pubblicato nel 1956 da Bocca)”. Insomma, un articolo di nessun interesse nell’ambito della teoria dell’arte75. Bene, ma è possibile che nell’ottica di un’arte e d’un pensiero ─ come quelli presi a soggetto nel presente studio ─ sempre più intesi quale forma dell’interiorità, dimensione della solitudine e nucleo vitale autarchico, non abbia posto la persona che ne viene messa al centro, in questo caso Evola stesso? Non discutiamo sull’odiosa resa formale di alcune sentenze: “La maternità è la prova irrefutabile della bestialità della donna”76. Peraltro, se “A 75 In effetti, apparentemente, i soli giudizi artistici di Evola in questo scritto sono: “L’unico genere di pittura che nella donna posso prendere in considerazione è quella ch’essa fa sul proprio viso” e “La donna artista richiede uno sforzo di astrazione di cui io, benché abituato alle metafisiche, non sono assolutamente capace”, in J. Evola, Gehst zu frauen?, ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 32. 76 Cfr. J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Ediizoni Mediterranee, Roma, 1998, p. 170: “A tale riguardo, ci si deve riferire alla teoria, che metafisicamente la generazione animale, fisica, non è che un surrogato inane della generazione spirituale: il continuarsi della specie, dovuto all’uso del sesso come potere genesiaco, rappresenta una specie di effimera eternità terrestre, un fac-simile di continuità nella serie degli individui staccati, mortali, che si succedono nel tempo, continuità che prende il posto di quella che sarebbe assicurata da una nascita ascendente o verticale, cioè dall’integrazione metafisica che supera la finitezza dell’individuo condizionato da un corpo fisico”. Cfr. anche Il mito dell’androgine, in J. Evola, Metafisica del sesso, p. 69: “Nel suo aspetto più profondo, l’eros incorpora un conato a superare le conseguenze della caduta, ad uscire dal mondo linizzante della dualità, a ripristinare lo stato primordiale, a superare la condizione di una esistenzialità duale spezzata e condizionata da «altro». Questo è il suo significato assoluto; questo è il mistero che si cela in ciò che spinge l’uomo verso la donna, elementarmente, ancor prima di tutte le condizionalità […] presentate dall’amore umano nelle sue infinite varietà relative ad esseri, che non sono nemmeno uomini assoluti e donne assolute, ma quasi sottoprodotti dell’uno e 34 Capitolo I Dada non piace la Santa Vergine”, può forse piacere la donna? O forse essa è agli occhi di Evola uno dei luoghi privilegiati, in quanto origine dell’uomo, del nichilismo dadaista e della sua esigenza di purità77? L’insistenza evoliana, in questi suoi primi scritti, sulla purezza, sul disprezzo della carne, dell’utile, della passione, della natura, sull’estraneità della energia vitale dell’uomo all’incedere cadaverico del mondo etc., con una bella serie di immagini che sembra presa di peso dal repertorio gnostico, ci porta infatti a ritenere che il suo odio della donna, sia più di natura teologica ed esoterica che volgarmente misogino-fallocratica78. Da qui la possibile valenza spirituale di talune espressioni troppo nette, che proprio perché tali, consiglierebbero, a parere di chi scrive, l’opposto “andare per il sottile”. E allora: “Di due amanti, la vera femmina è l’uomo; perché mentre la donna come amante fa quel che deve e che non può che fare, l’uomo come amante (a meno che non finga) deve abdicare alla propria nobiltà, insozzare la sua unicità freddamente pura: rinunciare a sé stesso; abbandonarsi: ossia divenir femina: carne e fango”79. dell’altra. Qui è dunque data la chiave di tutta la metafisica del sesso: «Attraverso la diade, verso l’unità»”. 77 La pittura di Evola è “alchimia ed allucinazione delle forme astratte”. In alchimia l’elemento mercuriale (Donna, Madre, Acque) in quanto “volatile”, materia prima dell’opera, si riferisce propriamente alla donna=causa del mondo del divenire, dell’indifferenziato, del senza-limite. Di quel desiderio che “uccide la potenza”. Per questo all’adepto è necessaria l’operazione chiamata “fissaggio del Mercurio” o “Opera al bianco” o ancora “albedo”. Il “fisso” corrisponde al Maschio, al Figlio, al Fuoco, al Sole. Per Evola è l’Io purificato e potente del suo Individuo Assoluto. In questa fase, il “fisso” prende il sopravvento, domina e assimila a sé il “volatile”. Cfr. J. Evola, La Tradizione ermetica (1931), Edizioni Mediterranee, Roma, 1996, p. 149: “Si tratta dell’azione «fissatrice» che, quasi con la sua sola presenza, l’Oro rinato esercita sulla potenza evocata, la quale, quando non ha saputo travolgerlo, è sospesa dal suo modo di desiderio e di «vischiosità», onde da ogni cosa era attratta e presa (simbolo della «prostituta») e ridotta invece ad «Acqua permanente»”. 78 Cfr. Otto Weininger, Sesso e carattere (1903), Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, p. 306: “Vorrei dire addirittura: esiste solo un amore “platonico”. Perché tutto ciò che per il resto vien detto amore, appartiene al regno dei porci. Esiste un solo amore: è l’amore per Beatrice, l’adorazione della Madonna. Per il coito c’è la puttana di Babilonia”. 79 J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 31. Il grassetto è nostro. Aldo A. Mola afferma che La donna come cosa, l’articolo pubblicato da Evola su Ignis, n. I del 1925, la rivista del massone Reghini, è “uno scritto meno estraneo alla ‘tradizione massonica’ di quanto si possa a tutta prima ritenere, ove ci si rammenti della pretesa solarità dell’iniziazione massonica quale sacerdozio virile”, in Evola e la massoneria: alla ricerca della Tradizione perduta, in Delle rovine e oltre (saggi su Julius Evola), Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 255. 35 Capitolo I Il calore della donna è respinto, ma donna è appunto passione, altro, bisogno, esigenza da soddisfare per la bassa virilità dell’uomoercole, la brutalità fisiologica: “La forma di virilità nell’uomo è l’effeminatezza e la decadenza: la force, c’est le dernier abrit des faibles et des impuissants. La forza è una fuga, in fondo un’abbruttimento: mostra una passività, come ogni elemento naturale. Ercole è il tipo più femineo di uomo”80. Il ribaltamento di prospettiva è evidente: la forza è debolezza perché soddisfa un bisogno di carne, come fanno i cani, per riprendere una sua similitudine. Evola parte sempre da “una quota più alta della terra”81, dove non ci sono corpi, ma forze impersonali, Io, spirito etc. Si ricordino gli stracci sporchi che cadono da un corpo di luce: il suo essere corpo, uomo come gli altri, è sempre mediato ─ l’immediatezza è istintuale e quindi da bestie, da uomini del mercato ─ dal suo divenire spirito. La veste dei sensi viene bruciata dalla fiamma interiore, ed ha un senso solo nell’attesa del compimento. Questo vale per la sua arte così come per la sua filosofia. Lo vedremo presto. Ma ancora qualche citazione: “[Le donne] traggono la loro possibilità di essere unicamente da un ricatto enorme e sfacciato perpetrato ogni giorno sulla foia dei bruti e sulla detumescenza cardiaca dei poveri sentimentali tipo Werther: vale a dire che, come i vermi, vivono solo per la carne marcia”82. E infine: “Una donna naturale sarà sempre banale per chiunque abbia un briciolo di coscienza intellettuale; la più bella donna, nuda, farà sempre ribrezzo a chiunque nelle vene non abbia sangue di scaricatore di porto”83. 80 Ibid. Forse per questo si fa chiamare, con vezzo femmineo, anche Jules? L’espressione è del Cardinal Giuseppe Siri, Chiesa, fedeli, mondo, Lettera pastorale, 1962. 82 Il grassetto è nostro. J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 32. 83 Ivi, p. 33. Cfr. Otto Weininger, Sesso e carattere, op. cit., pp. 307-308: “Si sa che la donna non è soprattutto bella quando è nuda. […] nessuno può trovare bella la reale donna nuda, già per il solo 81 36 Capitolo I Qui sono il sentimento, il culto della vita, la torbida adesione al desiderio ad essere vilipesi, la donna ne è sola l’incarnazione letteraria sulla bocca di tutti che smania per il bacio e non per la verità. Questo odia il giovane Evola. La Donna quale Natura ostile, simbolo anche dell’impotenza degli uomini, e non le donne84. Il rigore oltreumano dei suoi paesaggi dada non ne è che la cifra artistica: visione dell’elementare, di un Kosmos preordinato nel e dal senza-tempo in cui vortici di delirio trasmutano in vertici di irreali geometrie, come terre inaccessibili all’occhio volgare. Lo sguardo evoliano è ossessionato dalla purità come valore metafisico. La sua esigenza di libertà è tutta nello svincolarsi dalla materia, non per negarla ma per nobilitarla-salvarla: questa è la sottile deviazione patologica che attraversa in tensione escatologica tutta la sua opera. Ed è nello stesso tempo il mistero quale fascinoincantesimo della sua prosa anagogica e della sua poesia meta-lirica: “due occhi immensi si spalancavano un istante finestre ─ ma non spereremo l’azzurro”85. motivo, che l’istinto sessuale impedisce quella contemplazione scevra di desiderio che è presupposto irrinunciabile del giudizio del bello. Ma anche a prescindere da ciò, la donna viva, completamente nuda, produce l’impressione di un che di incompiuto […] e procura all’osservatore più pena che piacere”. E ancora, ivi, pp. 308-309: “[…] nessun uomo trova specialmente bello l’organo genitale femminile, anzi ognuno lo trova brutto. Nature basse potranno essere particolarmente eccitate alla libidine da questa parte del corpo femminile, tuttavia proprio costoro la troveranno forse molto piacevole, ma mai bella. Gli uomini completamente dominati dal bisogno sessuale non hanno nessun senso della bellezza femminile […]”. Sulla misoginia “gnostica” di Weininger ed Evola, vedi più avanti, nota 233. Ricordiamo infine che sul numero di febbraio-marzo di Cronache d’Attualità, anno V, nella rubrica I misteri della cabala, a cura di Anton Giulio Bragaglia, pp. 45-46, leggiamo che Evola “ci prega di comunicare come gli uomini nudi gli destino ribrezzo quasi come le donne nude. La qualcosa, per lui, è tutto dire. Aggiunge che è molto desolato di non poter accontentare gli amici che amerebbero ora vederlo pederasta ma fa sperare che, col tempo, possa anche diventarlo, per vederli contenti”. A gennaio invece, stessa rivista, stessa rubrica, p. 43, lo stesso Bragaglia ci fa sapere che ad Evola “piace tanto d’esser detto filosofo” e che “ha formalmente assicurato che il movimento dada prospera sfruttando le donne”. 84 Cfr. J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 2007, p. 116: “L’uomo è tale, in quanto è, di diritto, autoaffermazione, riferimento a sé e possesso del valore. La sua antitesi è ciò che non sa trovare il valore in sé medesimo, ma lo ha dal riferimento ad altro, epperò, decadendo dall’affermazione, desidera. Tale è la donna. La sostanza della donna è, fondamentalmente, etero riferimento, passione: non un essere, ma un negarsi, un chiedere, un rimettersi e darsi ad altro: tutto un bisogno di non essere per essere”. Ancora, ivi, p. 117: “Tolti gli elementi proprî all’uomo, il sentimento, la sessualità, la passione e la maternità esauriscono l’essenza della donna. Ora tutto ciò che ha un senso come momenti subordinati alla categoria dedotta, preso in sé stesso non rappresenta che bruta natura e impurità, rientra in una vita passiva, irrazionale ed insufficiente che ancora infinitamente sta sotto al livello della personalità, anzi rientra nella forma della opzione oggettiva, che qui si pone come un non-valore”. Il grassetto è nostro. 85 J. Evola, respiro, in Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 18. 37 Capitolo I Non crediamo d’aver insistito invano su questi aspetti, se quanto detto, può in parte essere valido. Lasciamo però che Jules chiuda glacialmente e comicamente i suoi rapporti con il femminino: “Per me, avere una donna, prendere un tè, passeggiare in una via elegante è assolutamente la stessa cosa”86. Esprimere è uccidere Ho già avuto modo di citare il breve e sfolgorante Note per gli amici, ma ora è opportuno esaminare questo scritto con maggiore attenzione per la intensità della sua forma e la lucidità del suo contenuto. L’incipit è già una fine, o meglio un fine: “Per noi l’arte è un’altra cosa. Non si tratta di fare il giuoco dell’umanità […]; non si tratta di fare gli istrioni o gli eroi; non si tratta di abbandono e di ebbrezza colpevole […]. Siamo fuori. Tod und Verklarung (morte e trasfigurazione nda)! Noi tutti siamo dei morti”87. Con pochi tratti Evola ripercorre le ragioni di una simile decomposizione attraversandone le fasi in rapporto all’evoluzione del sentire umano. La sete insaziabile del Faust di cui abbiamo spremuto sino all’ultima goccia di sangue tutte le passioni, Wagner e l’esaurimento nell’eroico dell’elemento universale, Fichte e la risoluzione egoistica del mondo. Mentre con Nietzsche e Rimbaud “ci siamo devastati d’umanità”, con Debussy “palpitammo, indicibilmente sparsi sulla natura, e infine con Berkeley e Kant “vivemmo in sede vitale il problema della conoscenza”. Soffrimmo tutte le morti, vivemmo le illusioni di tutte le luci, nell’esperienza di questa epoca congesta e torturata. Ora tutto ciò non esiste più. Fuor dalle selve delle corruzioni che ci sventolarono finchè non fummo che strani fasci di nervi disseccati ─ finiti ─ un 86 87 J. Evola, Gehst zu frauen?, op. cit., p. 33. J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 35. 38 Capitolo I deserto gelidamente ardente ci possedé, verso la rarefazione solare. Ora sappiamo che c’era qualcosa d’altro che la nostra ubriachezza nascondeva, ora sentiamo che sentimento, fede, amore ed umanità son deboli infinite malattie: tutto quel che è vita e realtà, per gli altri è caduto giù, per sempre, come una veste sporca, sudata e straccia da un corpo di luce. E gli uomini che si chiaman vivi, li vediamo morti fantocci, bruti e mercanti. Non è pessimismo: si tratta di aver veduto”88. Evola, con la sua ascesi artistica, getta macchie d’inchiostro nell’immenso nulla che sembra riconoscere come un dogma (da dokeo: vedere). Il pessimismo è morto con gli uomini che si credono vivi mentre lui ha ritrovato la realtà dell’Io “che è al di fuori della vita di tutti i giorni”89. Si è svegliato “quel che abbiamo di divino: l’azione antiumana”. L’uomo che non è più agito ora agisce, “unica realtà”, risolvendosi nella negazione. “Da qui l’arte, la nostra arte, come terapeutica dell’individuo. […] Noi siamo dei distruttori, immorali, disorganizzatori: vogliamo morte e follia. […] Ed in questo è la nostra saggezza, la nostra pena di vivere: portare logica e coerenza: disseccare la volontà di vivere, portare l’arbitrio nell’ordine, disciogliere il concreto nell’astratto, la fede nel capriccio. […] Nulla ci possiede”90. C’è del metodo in questa follia: alchimia degli estremi che rovescia l’altro nel suo contrario per scorgerne la pura radice: il nulla che “ci possiede”, sovrano centro di indifferenza che a breve vedremo sorgere da uno sdoppiamento profondo. “E tutto ciò senza necessità, senza fede; io, sono al di fuori; ogni elemento sincero rappresenta incoscienza, non –proprietà. Per capriccio ─ gioco triste ─ arte. Alchimia ed allucinazione delle 88 Ivi, pp. 35-36. Evola vede la vita comune ed immediata, pur compresa in tutta la sua ricchezza, come un nonessere. Cfr. J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, Bocca, Torino, 1927, p. 65, nota 1: “[Il] vero essere dei ‘morti’ consiste nel credersi vivi”. 90 J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 36. 89 39 Capitolo I forme astratte. Noi sappiamo quel che facciamo, ché possediamo la distruzione, e non la distruzione possiede noi. […] Tutto quel che facciamo è per noi stessi assolutamente incomprensibile: non vogliamo nulla. Io sono in malafede [...] E ripongo la mia causa nella forma senza vita, ripongo la mia causa nel nulla: ‘ich habe meine Sache auf nicths gestellt’”91. Io ho riposto la mia causa nel nulla: Stirner filosofo del dadaismo e il suo Unico, la rappresentazione impossibile della libertà dell’Io. La negazione di tutti i valori si trasforma magicamente nel valore come negazione: è qui che avviene lo sdoppiamento dove io passionale e mondo pratico diventano spettacolo. Ma al di sopra di questa realtà di cartone, artefatta dimensione dell’esistenza, c’è “la possibilità di scancellar tutto nella vita dell’arte astratta, nell’arbitrio, così, ammalandosi un poco in un capriccio ghiacciato; per non morire: presso all’altissimo granito bianco della coscienza superiore”92. Ripercorriamo analiticamente la strada percorsa per cogliere una svolta fondamentale. Perché se come afferma Evola in Arte astratta: “L’arte è una: esser puri poeti, puri pittori […]”, è su quel puri che deve cadere la nostra attenzione93. Evola in piena conflagrazione mondiale disegna con versi e colori la sua crisi, ma sempre li accompagna alla riflessione teorica: impegnato in studi filosofici già da ragazzo, mai li abbandonerà. La sua stessa opera di poeta e di pittore non è che la forma di un’originaria decisio (da caedo, il verbo dell’uccidere la vittima sacrificale con effusione di sangue) tutta filosofica, il sacrificio d’un giovane appena ventenne alla conoscenza di sé, o del Sé, sull’altare dell’arte. Già nel 1920 Evola sa che la filosofia non risolve il problema dell’uomo e si concentra sulle possibilità della poiesis, dell’azione. Quali? 91 Ibid. Questa è la prima volta che Evola chiama Stirner direttamente in causa nei suoi scritti ed è anche il solo a parlarne in contesto dadaista. Per Stirner l’Individuo, l’Io, l’Unico è la sola realtà ed è proprio questa sua negazione radicale di tutti i valori per riporre la causa dell’individuo nell’individuo stesso che attrasse il giovane filosofo romano. Lo incontreremo ancora. 92 Ivi, p. 37. 93 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 11. 40 Capitolo I Tendenze di idealismo sensoriale, prima fase non tanto dell’opera quanto della vita spirituale evoliana, e tendenze di astrattismo mistico o astrattismo dadaista, seconda fase come inveramento-superamento della prima, NON su terreno artistico, che si limita a registrare nel segno pittorico la signatura spirituale, ma in una dimensione puramente interna, sulla base di una necessità interiore come il suo paesaggio. Il sentimento estetico della nuova arte auspicata da Evola prevede il superamento dello “stato della concezione concettuale del mondo” o per via “astratto-mistica” o attraverso l’ “estetica brutale” del sensorismo cui si giunge “con un abbandono totale all’elemento intensivo insito nella sensazione pura”. Un simile scatenamento permette infatti il disciogliersi dell’immagine che noi abbiamo del mondo “in un ritmo orgiastico ed incoerente”. Evola associa tale posizione a “parte del futurismo” 94. Successivamente in Arte astratta torna l’idealismo dei sensi: “Nello spirito, agonia del sentimento; nella pratica, traslazione del centro all’elemento primordiale dei sensi/ idealismo sensoriale/ soggettivismo orgiastico”95. È il sensorismo futurista agitato dal rimbaudiano déréglement de tous le sens: legge del poeta-voyant. Idealismo sensoriale è il luogo d’immersione della coscienza artistica ─ che nella catarsi nichilista s’è ritrovata come volontà del nulla ─ nell’esasperazione dei sensi. L’immediatezza della loro vita in un’intensità orgiastica: dionisismo d’artista per costruire nella follia la sanità trascendentale96. Siamo alla profezia dell’Uomo-Dio, o al suo ritorno sotto il volto di Dioniso. Evola scrive: “[…] il tema dell’arte è posto nella realtà pura dei sensi/ idealismo sensoriale”97. 94 J. Evola, L’arte come libertà e come egoismo, p. 25. J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 11. 96 Ivi, p. 6, nota 1: “Novalis: ‘La poesia è la grande arte di costruire la sanità trascendentale. Il poeta è per questo un medico trascendentale. Il fine dei fini della poesia è l’innalzamento dell’uomo sopra sé stesso”. Il medico trascendentale di Novalis ci fa pensare al filosofo inteso da Nietzsche quale “medico della civiltà” (Arzt der Kultur). Il filosofo, se vuole essere veramente tale, non può che presentarsi come “inattuale”, nel e contro il proprio tempo, che ha bisogno di essere “guarito”. Non diversamente da Evola, che pensò e agì nel fascismo. Lo vedremo nei prossimi capitoli. 97 Ivi, p. 12. 95 41 Capitolo I Dopo Rimbaud e il Marinetti delle parole in libertà, dell’ “ossessione lirica della materia”, abbiamo con Strawinsky e Boccioni “la soluzione di sanità del problema, abbandonata da Dioniso sino ad oggi”98. Ma Evola parla di idealismo sensoriale trovandosi di là da esso, dopo averlo superato, nella seconda fase: astrattismo mistico e dadaista. Fase diversa perché ulteriore e integrativa per consapevolezza della finalità trascendentale del processo metaartistico. Ciò non significa che prima del 1918 lo scopo mistico fosse assente, tutt’altro. Può invece significare che lo scatenamento sensoriale nel segno di Dioniso si rivolgesse al niente, a qualcosa che ancora non ha nome, ad un Superiore Incognito. Vi è qualcosa di più e di diverso in questa seconda fase, quel “qualcosa di spirituale” a cui “l’arte dei nuovi tempi si era approssimata” attraversando una selva di distruzioni: “Lo Sturm und drang si iniziò con un tuffo nel brutale a titolo di purificazione: dopo di che sarebbe stato possibile rialzarsi verso una nuova idealità”99. Purificazione attraverso la distruzione, metodo dell’arte moderna e di Evola che ne ha vissuto nell’interiorità i rivolgimenti: simbolismo, analogismo, impressionismo, cubismo, futurismo, espressionismo e infine la fine: Dada. Evola si tuffa nella brutalità sensoriale in cerca di purificazione dal 1915 al 1918: la sua guerra interiore. Ma a partire da quest’anno qualcosa s’offre in lui maturando una diversa consapevolezza. E l’Ignoto sembra possedere un nome che non è più quello del futurismo dionisiaco. C’era un altro metodo infatti che ora è opportuno ricordare, l’altra possibilità di sfuggire al quotidiano. L’astrazione totale d’una mistica senza Dio100: “[…] un senso mistico di 98 Ibid. Ivi, p. 11. 100 Come quella di Bataille, l’Evola di sinistra. Si somigliano non poco, sopratutto nel segno comunitario. Si tratti di “Individui Assoluti” o di “equazioni” personali, lo Zeitgeist produce frutti disparati ma segnati da curiosi parallelismi. Anche in Francia, negli stessi tardi anni Trenta in cui Evola lotta nel fascismo e contro il fascismo per l’affermazione della “visione del mondo” tradizionale, possiamo inquadrare nella risacca di identici sussulti rivoluzionari il “contrattacco” che Georges Bataille sferra nel tentativo di sottrarre Nietzsche, il mito e la ritualità ai fascisti. Costituendo, insieme a Caillois, Klossowski, Leiris ed altri, un essoterico collegio di sociologia sacra e l’esoterica comunità Acéphale (: fu anche il titolo della loro rivista il cui primo numero uscì 99 42 Capitolo I contemplazione che trascende ‘metafisicamente’ la determinazione oggettiva” che consiste nel “far della pratica spettacolo, oggetto di contemplazione: rendersi estraneo, disinteressarsi. La personalità va sdoppiata in un io pratico che agisce per inerzia, e nell’altro io che, apatico spettatore, assiste senza entusiasmo ad una commedia irreale su cui ad un suo cenno, può cadere l’immenso sipario di velluto nero. Così il ponte lascia sotto di sé il passaggio monotono e senza colore della corrente”101. Fino al 1920 le due vie dell’arte offrono la stessa possibilità di superamento dell’esperienza volgare verso la nuova coscienza artistica caratterizzata in senso eminentemente spirituale. Tuttavia il metodo astratto ed apollineo è successivo e superiore a quello dionisiaco. Da notare che l’uno Evola lo chiama spirituale, l’altro invece, il dionisiaco, antispirituale. Ma l’uno non è il contrario dell’altro, essendo il metodo di Apollo diversificazione- capovolgimento e nello stesso tempo sviluppo-progresso di quello di Dioniso: un dionisismo apollineo, come forma dell’informe o maschera dell’abisso. Ma i futuri sviluppi vedranno l’arte dadaista come una sorta di affermazione e punto fermo DOPO la negatività dionisiaca che ha fatto danzare il sensorismo futurista al ritmo incoerente delle sue devastazioni. La terra d’Apollo verrà avvistata grazie al dionisiaco “naufragium feci: bene navigavi”. Una terra dove l’Ignoto si chiamerà trascendenza immanente. nel 1936), realizzazione di una “congiura sacra” che sarebbe stata fondata addirittura sul acrificio umano di una vittima consenziente. Il “vento invernale” auspicato da Caillois, che avrebbe gelato la società “senile e cadente” salvando solo il “nomade robusto” di una nuova èlite, prelude alla costituzione di un ordine chiuso, sacro, “la cui missione sarebbe quella di far sorgere in seno al mondo profano, mondo del servilismo funzionale, il mondo sacro della totalità dell’essere” (Klossowski). La respingente sintonia tra Evola e Bataille, entrambi vittime-sacerdoti di un sacro impuro ci sembra evidente, si pensi in particolare al sodalizio magico “Gruppo di Ur” guidato dal Barone verso la fine degli anni Venti. Ci torneremo. Con una precisazione però: nonostante la accuse di estetismo prefascista (Benjamin) o di surfascismo, in disperato equilibrio tra “destra “ e “sinistra”, i membri del Collegio e di Acéphale osservavano, tra varie prescrizioni rituali, il divieto assoluto di stringere la mano ad un antisemita. Cfr. Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di Denis Hollier, Bollati Boringhieri, 1991 e Georges Bataille, La congiura sacra, Bollati Boringhieri, 1997 da riportiamo queste parole: “NOI SIAMO FEROCEMENTE RELIGIOSI e, nella misura in cui la nostra esistenza è la condanna di tutto ciò che è riconosciuto oggi, una esigenza interiore vuole che siamo anche imperiosi. Ciò che intraprendiamo è una guerra”. (Ivi, p. 4). 101 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 9. 43 Capitolo I L’anno della cesura e censura della vita artistica evoliana è il 1921, l’anno in cui il sensorismo diviene astrattismo. Il perché di questa trasformazione lo troviamo nella stupefacente cerca interiore del giovane barone che in guerra e negli anni successivi usa droga per scopi noetici: “esperienze interiori ‘fatte’ con l’aiuto di certe sostanze che non sono gli stupefacenti più in uso”, che da un lato lo portano a “forme di coscienza in parte staccate dai sensi fisici” fornendogli dei “punti di riferimento”, ma dall’altro lato lo conducono spesso “vicino all’area delle allucinazioni visionarie e forse della pazzia”. Evola ha ventitré anni, e una crisi esistenziale difficile da sostenere che prestissimo si traveste da proposito suicida. Ma sarà solo l’artista a morire. Per quel che riguarda l’esperienza della droga, egli ammette che se ne servì senza sapere come usarla e soprattutto perché l’usasse, e che lo spinse una tensione al superamento e alla conoscenza: una non comune “intrepidezza102 dello spirito”. Dopo gli anni giovanili non ne fece più uso. Ciò significa che non ne fu schiavo, ed essi operarono solo come “coadiuvanti esterni” d’una iniziativa libera e d’una pura volontà spirituale103. Evola inizia le ‘pratiche’ in piena guerra e in alta montagna a poche centinaia di metri dal nemico. Di scienze iniziatiche non sapeva “quasi” nulla. Non sa nemmeno perché inizi. Il suo ricorso alle “acque corrosive”, ossia a mezzi che nella stragrande maggioranza dei casi conducono la personalità a forme regressive e alla morte è senza ragione. Di più, le sostanze cui ricorre destano nel suo organismo insofferenza e ripulsa. Non con la conoscenza, ma con la volontà, il coraggio e la disperazione Evola si apre un varco. Punto di partenza: un disgusto completo, una metanoia radicale: “Volli portarmi gradatamente a morire”104. Punto di arrivo: la morte. 102 Evola usa continuamente questa parola-chiave. J. Evola, Il cammino del cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1973, pp. 19-20. 104 Iagla (uno degli pseudonimi di Evola), Esperienze: la legge degli enti, in Introduzione alla Magia (1971), volume primo, a cura del “Gruppo di Ur”, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 183. Interessanti anche le seguenti considerazioni ivi contenute che, data l’eccezionalità dell’esperienza evoliana, crediamo sia opportuno riportare nella loro interezza “«Qualcosa» sta in agguato ad ogni avanzata dell’uomo che si libera: pronto a colpirlo. Dapprima sul piano mentale, così: alla prime fasi del distacco si ha un arresto del processo di cerebrazione. La mente è immobilizzata, come in uno stordimento. Subentra poi uno stato speciale, che vorrei chiamare stato di chiarezza o di evidenza. Esso non conosce più ragionamenti, concetti, dubbi. Non vi sono dei «problemi», ma dei bisogni profondi, vissuti, di conoscenza, ai quali segue il balenio di una 103 44 Capitolo I Lo schema di ogni iniziazione: muori e divieni. Che cosa divenne Evola? Per ora sappiamo cosa non è più: artista, e cominciamo a sospettare che in fondo, e al fondo della sua anima, non lo sia mai stato. Non nel senso corrente almeno. Chi è questo giovane che appena ventenne tras-forma l’avanguardia più estrema del Novecento, il dadaismo, in ascesi dell’arte quale mistico percorso di rinascita interiore e dissoluzione di tutto ciò che nietzscheanamente merita di morire? Egli ci appare sin da ora un iniziato allo stato selvaggio, il protagonista, per volontà e destino, d’uno straordinario ed inquietante itinerario nel proibito che conduce, presso a sbandamenti mistici e sfaldamenti profani, all’assoluto di un Individuo. Julius Evola, se qui il suo nome può essere quello di una storia spirituale paradigmatica dell’intera esperienza di un’epoca, non nasce pensatore tradizionale o addirittura mago, ma principia e si sviluppa nella quasi totale estraneità al mondo dell’occulto. Le conoscenze realizzative che successivamente acquisirà, spiegano, a lui per primo, certi salti dell’essere, chiariscono l’accaduto, così come si illumina la notte. E penso alla “notte dell’anima” o “notte oscura” di alcuni mistici cristiani. Ma non li determinano. Non c’è inoltre una disciplina nel suo procedere iniziante verso la luce, ma un senso di voluttà per la dissoluzione. E stupisce dover constatare che il percorso dell’illuminazione evoliana è in realtà il frutto d’una tanto mostruosa quanto mistica eterogenesi dei fini: cerca la fine e trova l’inizio. E spingendo nel nulla la propria vita per perderla, la ritrova incontrandone l’Io. evidenza diretta , una idea con carattere di rivelazione, di certezza perentoria, percuotente, assoluta. Sotto queste illuminazioni, l’anima restava interamente passiva. Pervenni a muoverla. Allora avvenne come un crollo. Sperimentai l’illusione delle evidenze di prima; vidi che tutto poteva rivestire tale carattere di evidenza, anche verità opposte, a ciò bastando che l’anima, in quello stato, se le proponesse. Fu un momento di spavento ─ ed io passai sull’orlo dell’abisso della follia. La «relatività della verità» è un luogo comune filosofico; e non certo a me, studioso di filosofia, poteva fare impressione. Ma fra questa, che è una semplice nozione intellettuale, e quell’esperienza, non si può fare nessun confronto. […] Ritrovai un appoggio: ma esso fu l’azione al luogo della «verità»”. Si tengano presenti queste parole quando si affronterà la “filosofia” evoliana. Quanto invece all’“appoggio” di cui parla Evola, noi riteniamo che la Tradizione fu per lui qualcosa di simile, nel senso di una energia, un sostegno per la visione. Su questo rimandiamo al capitolo III. Non prima di un’ultima citazione, per noi essenziale: “Il problema, per me, non è venuto meno col passare degli anni. Comunque, finora mi è stato dato di sostenere la tensione, spesso spossante, e le ripercussioni dovute a questa situazione esistenziale […]”. 45 Capitolo I Due punti essenziali da sottolineare nuovamente: queste prove interiori con l’aiuto di droghe non si svolgono nel dopo ma durante la guerra. La crisi evoliana quindi si acutizza dopo il 1918 e precipita, ma esisteva già da tempo. La droga poi è il mezzo scelto da Evola per perseguire quello stravolgimento dei sensi di cui ho già riferito in merito alla fase dell’idealismo sensoriale. Per “visitare le interiora della terra”, per scavare internamente105. Inconsapevolmente, senza nulla sapere e sperare, Evola pone in essere tecniche di penetrazione sottile e di rottura che anni dopo riconoscerà nella via umida dell’ermetismo alchemico: l’uso di “acque corrosive”, veleni ossia mezzi artificiali anche violenti, al fine di raggiungere uno status spirituale superiore. Correndo un rischio enorme, con quella leggerezza che hanno solo le tigri che giocano e giocando sbranano. Ed è proprio questo superamento trasfondente del giogo del senso nel senso del gioco a liberarlo dalla disperazione, da quella vita che è un inquieto tendere. Durante questi esperimenti Evola scopre la sovranità dell’Io, e invece di precipitare ascende: il fuoco interno non diviene rogo del corpo ma luce della coscienza. “Sentii il mio “io” sul punto di sfasciarsi […]. Mi salvò una specie di violenza sacrilega, l’ardire di una affermazione assoluta”106. L’appoggio che egli trova nella sua discesa agli inferi è l’azione affermativa e non la verità: in questo misterioso scarto tra desiderio di morte e realtà di vita ─ la nascita dell’Io ─ si consuma il sensorismo e avviene il passaggio all’astrattismo mistico. Gli scritti del 1920 e del 1921 lo dimostrano chiaramente: l’Io è distinto dall’io pratico, quotidiano. Ed Evola lo chiama Sole della 105 Cfr. J. Evola, La Tradizione ermetica, op. cit., p. 53: “E questa «via interiore», questa «via sacra» che parte dalla «pietra nera ieratica» […], da questa «pietra che non è pietra», ma κόσμου μίμητα («imagine del cosmo»), dal «piombo nostro nero» (simboli varî, da tale punto di vista, per il corpo umano), e lungo la quale scaturiranno Eroi e Iddii, «cieli» e «pianeti», uomini elementari, metallici e siderei, è chiusa enigmaticamente nella sigla VITRIOL, così esplicitata da Basilio Valentino: «Visita Interiora Terrae [Terra = il corpo], Rectificando Invenies Occultum Lapidem». Cfr. la dotta introduzione di Eugéne Canseliet allo scritto del Frate Basilio Valentino (dell’Ordine di San Benedetto), Le dodici chiavi de la filosofia, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 23: “Chi non conosce,tra gli studiosi, il precetto che circoscrive la formula in immagini molto sobrie, la più piccola spiegazioni delle quali equivarrebbe alla pura e semplice divulgazione? VISITETIS INTERIORA TERRAE RECTIFICANDO INVENIETIS OCCULTUM LAPIDEM VERAM MEDICINAM: VISITATE LE VISCERE DELLA TERRA, RETTIFICANDO, TROVERETE LA PIETRA NASCOSTA, VERA MEDICINA”. 106 Iagla (uno degli pseudonimi di Evola), Esperienze: la legge degli enti, in Introduzione alla Magia (1971), volume primo, op. cit., p. 184. Il grassetto è mio. Viene in mente “la via contro Dio” di Georges Ivanovič Gurdjieff, vedi più avanti nota 396. 46 Capitolo I notte, folgore, gelidità ardente, altissimo granito bianco, quel che vi è di fondamentalmente puro. Insomma, per dirla col suo amato Rimbaud, l’Io è “un autre”, qualcosa di qualitativamente diverso dal soggetto quotidiano ma anche da quello dei filosofi, che esiste solo nella loro testa: “Nella coscienza squallida abbiamo ritrovato la nostra realtà, l’io che è al di fuori della vita di tutti i giorni”107. Il velo opaco del mondo si squarcia davanti allo sguardo mistico dell’Io che non è del mondo, ma Io “aumano”, “apatico spettatore”. E l’arte di quest’Io Dada è ormai solo “allucinazione e alchimia delle forme astratte”, lusso, capriccio, malafede e arbitrio. Un gioco triste per non morire. È nel 1920, con Arte astratta, il manifesto del dadaismo esoterico108, che Evola uccide non solo il dadaismo, ma tutta l’arte, morendo a sé stesso: “L’arte moderna cadrà ben presto: appunto questo sarà il segno della sua purità”109. Dove purità sta per arte d’eccezione, arte fuor del tempo, arte non soggetta a corruzione. Arte dell’impossibile o dell’invisibile che non ha posto nella storia. È arte pura perché è giunta al “senso dell’Unico” e può quindi chiamarsi individuale: capace di “porsi nel nulla, freddamente, sotto una volontà lucidissima”110. L’Io che è un altro parla con la voce della Libertà e agisce a-umanamente. L’arte perda sé stessa: è la sua purità a privarla d’ogni significato. La purità dissolve l’espressione. E Dada muore sprofondando nell’astratto il silenzio. Il silenzio come l’ultima parola che non si può dire, perché libera dal bisogno dell’altro che non è Io. L’Arte astratta è una contraddizione implosa nella sua purezza: “Non vi è ragione logica nell’esprimere: se lo si fa, si è buffoni”111. Arte è cosa del mercato, vanità dell’esibizione. Dada cerca e trova questo avalore come capriccio del suo immotivabile arbitrio. Questa, 107 J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 36. Per Massimo Cacciari, Evola è “uno degli autori che più profondamente penetra nell’esoterismo Dada”, in AA.VV. Avanguardia Dada Weimar, ed. Arsenale, Venezia, 1978, p. 22. 109 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 14. Il corsivo è nostro. 110 Ivi, p. 7. È sconcertante la coerenza del salto evoliano: il suo pensiero è sempre il registro d’una prassi luminosa, affermativa. Conoscenza è sin dall’inizio, e lo sarà fino alla fine, realizzazione. Cambia solo, nel tempo, il quantum di compattezza dialettica in grado di esprimere a parole un divenire tutto interiore. L’impressione, sin dalla primissima gioventù, è che Evola diventi sempre qualcosa d’altro, non da sé, ma del Sé. Quasi fosse immobile nel cambiamento. “Si diventa quel che si è”, insegnava il suo amico Nietzsche. 111 Ivi, p. 8. 108 47 Capitolo I lo abbiamo visto, è la posizione di Evola negli anni dal 1919 al 1921: l’espressione non è il Valore ma una via, fino a quando il Valore non porterà via dall’espressione. La libertà e la purità dell’Io, nella dimensione aurorale della sua potenza, del suo terribile silenzio, prosciugano anche il residuo senso ludico della comunicazione artistica. Il culto narcisistico d’un io morto, orrendamente bardato da e per questo mondo112, si spegne e finisce “come secca e sporca crosta caduta indifferentemente e senza passione dal tronco vivo”113. L’indifferenza provvidamente evocata da Dada la sopprime. E Dada muore di indifferenza. Autonegazione della tradizione dell’arte come tradimento dell’espressione artistica perché essa è “trasformazione dell’elemento puro in elemento convenzionale e umano”. “Esprimere è uccidere. Dunque non si può né si deve dire”114. Dada libera l’Io nella sua dissoluzione. Si può dire la libertà? L’astrattismo di Evola sfinisce nel silenzio: rappresentazione del ni-ente. Il silenzio non è assenza di parole ma presenza d’una voce muta. Parola impossibile del silenzio post-dadaista che è al contempo svuotamento dell’essere, di ciò che quotidianamente pensiamo di essere (soggetto a/libertà negativa), e essere del vuoto115 (soggetto 112 Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano, 2004, p. 59: “È ridicolo come ti sei bardato per questo mondo”. 113 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 9. Questa immagine ricorre spesso negli scritti giovanili di Evola: “La libertà, la proprietà, è un momento mistico di illuminazione: una grazia: e, appena pensata, appena pronunciata, essa è già cosa morta, cade scorza sporca ed estranea nella terra dei bruti e dei mercanti” (ivi, p. 6), “Porre finalmente l’aspiritualità delle cose spirituali: superiori, divine, umane, che si vedranno irrimediabilmente superate e che si sentiranno sporche croste di malattia cadute per sempre dal puro corpo di luce” (ivi, p.10), “Porre finalmente l’aspiritualità (non proprietà) delle cose ‘spirituali’, superiori, divine, umane, che si vedranno irrimediabilmente superate, che si sentiranno secche sporche scorze per sempre cadute dal vivo tronco” (L’arte come libertà e come egoismo”, op. cit., p. 26), “[…] quella malattia e quell’incoscienza della superficie […] son calate a fondo, per sempre, come degli stracci sporchi da un corpo di luce” , (Decorativismi, op. cit., p. 28), “[…] tutto quel che è vita e realtà, per gli altri è caduto giù, per sempre, come una veste sporca, sudata e straccia da un corpo di luce” (Note per gli amici, op. cit., p. 35) 114 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 10. 115 Cfr. J. Evola, Tao Tê Ching, di Lao-tze (1923), Edizioni Mediterranee, Roma, 2008, p. 45, capitolo XI: “Trenta raggi convergono nel mozzo: ed è nel vuoto del mozzo che riposa l’essenzialità della ruota. I vasi son fatti d’argilla: ma è il vuoto interno che realizza l’essenzialità del vaso. Muri e tetto costituiscono la casa: ma il vuoto interno realizza l’essenzialità della casa. In generale, dall’essere procede l’utilizzabilità, dal non-essere l’essenzialità”. Cfr. anche J. Evola, Il 48 Capitolo I di/libertà positiva). È qui che avviene la revulsione: andando fino in fondo si va a fondo. L’azione aumana capovolge il nichilismo in affermazione. La negazione che si riconosce diventa affermativa. Il nichilista non può arrestarsi alla discorsività patetico-passiva del nulla: deve viverlo. L’artista dada non deve fermarsi all’astrazione della parola ma affermarsi sulla parola col silenzio dell’azione aumana. Non si esce dal mercato, la sensibilità ordinaria, con la debolezza d’una operazione soltanto verbale. Tra il 1920 e il 1921 però l’affermazione dell’arte astratta e il silenzio spietato dell’artista si confondono nel sogno dell’arte superata da un’arte116 affatto particolare: “Pure, soltanto per un’arte sarà possibile il segno dell’esistenza superiore. Ma l’arte è tutta da rifarsi allora […] Un metodo dello spirito […] è ancora tutto da inventarsi; un metodo astratto […] della purità e della libertà”117. I dadaisti secondo Evola soffrono di una imperfezione della coscienza che offusca il loro trionfo sulle categorie e sull’umanità. Hanno incendiato con la loro purità artistica la sfera vitale dell’uomo ma non lo sanno ancora: “Il dadaismo difetta dell’interpretazione mistica”118. Questo è il punto di rottura che fa esclamare ad Evola: “Per noi l’arte è un’altra cosa […]. Siamo fuori. […] Ora sappiamo che c’era qualcosa d’altro che la nostra ubriachezza nascondeva […] Non è pessimismo: si tratta di aver veduto […] E si svegliò in noi ‘quel che abbiamo di divino: l’azione antiumana’ […] Noi sappiamo quel che facciamo, ché possediamo la distruzione, e non la distruzione possiede noi”119. cammino del cinabro, op. cit., p. 30: “L’essenza di tale metafisica io la indicavo nella concezione della Via, del Tao, come processo di un «essere» che si compie, nel realizzare il «non-essere». Il mondo, la creazione, come un fluire eterno e un eterno produrre generato dall’atto atemporale con cui il Principio si distanzia da sé, si «svuota», realizzandosi così in una supersostanzialità (il simbolo del «vuoto»), substrato, base e senso di ogni esistenza: alla stessa guisa che il vuoto del mozzo di una ruota è, di essa, l’essenza, il centro di gravitazione”. 116 Ars Regia. Sul significato alchemico della pittura evoliana, cfr. Elisabetta Valento, Homo faber. Julius Evola tra arte e alchimia, op. cit. 117 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 6. 118 Ivi, p. 13, nota 1. 119 J. Evola, Note per gli amici, op. cit., p. 35. 49 Capitolo I Si tratta di aver veduto con gli occhi di Rimabaud, di Stirner, di Eckhart. L’Io è un altro, l’Unico, un nulla indicibile. Non c’è parola che possa ricomporre l’ordine infranto dal silenzio. La riconciliazione è il sogno di chi dorme, inaudita per l’Io separato, e svegliato alla nascita, dal mondo. Varcato il confine quale soglia dell’ordinario, illusorio rappresentarsi d’una realtà subìta dall’uomo, l’uomo stesso diviene unica realtà che agisce. Non si torna indietro. La radice del negativo è il positivo: la mano che uccide è armata da un sì benedicente. Picasso, Carrà, Soffici vengono irrisi da Evola già nel 1920, perché “gente incurabilmente intossicata di umanità”, che vegeta nel transitorio e prospera nella crisi. Così, senza morirne. “Oh, se ne avete pane da mangiare prima di arrivare fin dove noi siamo”120. Il suo rigore è impressionante: che ne è della forma dopo Dada, della possibilità del suo sviluppo? Nulla. La forma è il contenuto d’un superamento che avviene su di un piano che non è più quello dell’arte. Nell’arte stessa fu solo il mezzo per qualcosa d’altro che l’ubriachezza non nasconde più. Tuttavia la positività trovata al fondo del negativo è problematica, ancora ben lungi dall’essere – una soluzione. L’occhio è illuminato ma ancora troppo vicino al fuoco d’una esperienza che ne brucia la comprensione e la sua resa teoretica. Il caos sta partorendo una stella danzante121, eppure il travaglio è oscuro e le distinzioni cardine di tutta l’opera evoliana, benché anticipate dagli scritti del 1920-1921, sono in questi ancora nebulose, immediate: attivo/passivo, mistico/magico, estasi/enstasi etc. Tutto s’è smarrito. Resta l’Io. Ma il suo profilo e quello della morte hanno una spaventosa somiglianza. 120 121 J. Evola, Arte Astratta, posizione teorica, op. cit., p. 14. L’immagine è di Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2003, p. 10. 50 Capitolo I L’Iperbole In Cronache d’Attualità, numero del settembre-ottobre del 1921, è possibile trovare testimonianza del suicidio metafisico122 di Evola, nella rubrica “I misteri della cabala”, dove uno scatenato Bragaglia, direttore della rivista, annota: “Per conto suo, Jules Evola, il pittore romano, dichiara di aver rinunciato all’arte approfondandosi nelle più truculente speculazioni filosofiche123. Altri dicono, invece, che egli studi severamente questa volta, per laurearsi ingegnere. Mi aveva infatti promesso, il giovincello, che per quest’epoca si sarebbe ucciso. Con la rivoltella, egli intendeva sin d’allora. Ha cambiato solo il mezzo, però la parola l’ha mantenuta. Bravo. Et voilà!”124. E poche righe sotto, un altro strale satirico in forma di trafiletto anonimo: “La notizia che G. Evola, si è ritirato dalle cose mondane, abbandonando persino il Dadaismo, telegrafata a Parigi, in America e in Germania, ha scombussolato la mente di T. Tzara e dei suoi compagni. La Galleria di Caucciù di New York, s’è pietrificata dallo spavento! Il circolo degli ‘idioti’ di Monaco, ha corso il rischio di acquistar un po’ di senno, tanto la notizia è di quelle che ‘metton giudizio’ ai più forsennati”. 122 Cfr. la lettera di Evola a Tzara, manoscritta autografa, su due facciate, non datata ma sicuramente scritta pochi giorni prima del 16 maggio del 1921, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), op. cit., p. 38: “Vi scriverò ben presto una lunga lettera con molte cose divertenti. Nondimeno, vi comunico il mio suicidio che avrà luogo tra 2 o 3 mesi”. Cfr. anche la lettera del 2/7/1921, ivi, p. 40: “Mi trovo in un tale stato di spossatezza interiore che il solo fatto di pensare e di prendere la penna richiede uno sforzo del quale spesso non sono io capace. Questo, da qualche settimana. Vivo in un’atonia, in uno stato di stupore immobile, nel quale si gela ogni attività e ogni volontà. È terribilmente dada. Ogni azione mi disgusta: anche la sensazione la sopporto come una malattia, e non ho che il terrore di passare il tempo che ho davanti a me, e del quale non so che fare”. 123 Il grassetto è nostro. 124 Anton Giulio Bragaglia, Cronache d’Attualità, nella rubrica I misteri della cabala, settembreottobre 1921. 51 Capitolo I L’annuncio di morte è quindi di dominio pubblico, visto che oltre agli idioti di Monaco è arrivata anche a quelli d’Italia, che con spirito dada lo irridono, sapendo quanto Evola si prendesse sul serio. In verità, lo abbiamo visto, negli scritti del periodo, il barone non aveva mancato di indicare la morte come via ulteriore e possibilità liberatrice: “immane e pur fragile spettacolo che, ad un cenno, potrebbe inabissarsi e disciogliersi per sempre nell’ineffabile gelidità ardente della coscienza superiore” (Noi). La stessa immagine in Arte astratta, dove basta “un cenno dell’Io spettatore e sulla commedia irreale […] può cadere l’immenso sipario di velluto nero”. E ancora “la possibilità di scancellar tutto nella vita dell’arte astratta, nell’arbitrio, così, ammalandosi un poco in un capriccio ghiacciato; per non morire” (Bleu). La via d’uscita da questa volontà di morte la troviamo teorizzata solo qualche anno più tardi nel saggio sull’arte modernissima del 1925. Ma adesso Evola sa soltanto che le opzioni sono due: prendere atto dell’avvenuta consunzione dell’espressività dell’arte, o tradire la sua purità continuando a illudere la forma. Foto-grafia di questo paesaggio critico, La parole obscure du paysage intérieur (1921): “una specie di documento di un episodio della mia vita”125. È un poema dada, scritto in francese e recitato a quattro voci, che simbolizzano i “quattro elementari” del paesaggio interiore126. L’elemento Ngara è la volontà, l’elemento Lilan il sentimento, Râaga la contemplazione disinteressata e Hhah l’indifferenza mortale. Non sono quattro personaggi ma quattro aspetti simultanei di Evola stesso, e dell’uomo in generale: il quaternario inferiore di cui parlano le dottrine orientali. 125 Lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla fine del ’21, probabilmente a novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), op. cit., p. 44. 126 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 26: “Per un cenno, se la tecnica del poema era quella della poesia e della cosiddetta «alchimia delle parole» […], tuttavia esso aveva anche un contenuto perché vi si descriveva una specie di dramma interiore, la cui chiave era indicata in un detto d’ispirazione gnostica: «Si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la luce». Cfr. anche l’introduzione di J. Evola (datata Roma, marzo 1963) a La parole obscure du paysage intérieur, Poème à 4 voix, con due illustrazioni, Quaderni di testi evoliani, n. 27, Roma, 1992, p. 8: “Il poemetto, a dir vero, è «astratto» solo in certi aspetti del testo, dove ho seguìto la tecnica della composizione o «alchimia» dei puri valori evocativi, e non oggettivi, delle parole e anche di suoni. Per il resto, esso ha un «contenuto» abbastanza preciso, connesso alla situazione di crisi […] e alo conato di superarla”. 52 Capitolo I Questo scritto è una esemplare testimonianza del vissuto e della ricerca del giovane filosofo. Soglia da varcare per accedere, oltre l’umano, a una dimensione superiore dove regna il silenzio dell’Inesprimibile. Nella sostanza è la messa in scena dell’attività pratica dell’io quotidiano, la commedia irreale che può concludersi al cenno dell’Io spettatore. Ma questi è ancora troppo legato all’altro io, alla sofferenza: il distacco non è ancora completamente realizzato così da essere irreale come la commedia. Lilan, il femminino che permette il dolore, è la personificazione dell’“elemento umano e affettivo dell’essere”. Pungolata dalla volontà Ngara, che determina il cammino verso l’astrazione, comincia a cedere prendendo coscienza della propria vanità. Râaga, la componente regale, voce narrante che domina l’intero poema, dapprima ci introduce alla contemplazione di fantastici paesaggi, poi registrando il mutamento avvenuto nel piano inferiore, afferma l’inesorabile e crudele aspirazione al superamento dell’umano. Hhah realizza così “la sua personalità astratta, ossia, la sua mancanza di personalità”127. Il poema si chiude con il grido di Ngara: “Sang en formation d’hyperbole”, seguito dal coro delle altre voci. “Hyperbole!-Hyperbole!”128. Sangue in formazione d’iperbole. La trascendenza che diventa sangue, forma d’infinito. L’iperbole è la libertà, l’attività disinteressata. Dopo, inizia la “via ultima”, il 2° piano Dada: “Ma ciò non appartiene più all’espressione”129. L’io mistico non era sufficiente, perché non interamente e internamente sottratto all’aumano, seppur nella alfa privativa trovas 4 voix, con due illustrazionise conforto. La crisi esistenziale del giovane Evola oscilla paurosamente tra un bisogno insopprimibile d’intensità e un’irriducibile estraneità al mondo. Il nucleo più intimo della persona è lacerato da un doppio, inestricabile impulso: desiderio di annientamento e volontà d’assoluto. Ma è il suo modo di rapportarsi ad essi che è determinante. Scioltosi 127 Lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla fine del ’21, probabilmente a novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), op. cit., p. 46. 128 Ivi, o, 46: “Questa nuova vita, è il regno dell’iperbole, che, come la chiamavano i greci, è ‘Madre, sorella e figlia di se stessa’: è l’attività disinteressata: ossia, la libertà. L’iperbole è “la curva che tende asintoticamente all’infinito”, J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 27. 129 Ibid. 53 Capitolo I dal laccio del divenire, un ostacolo ancora si frappone tra lui e la libertà: l’attaccamento alla vita. Evola decide di morire ma il suo suicidio s’infrange contro lo spettro della rettorica. Leggendo un passo sull’estinzione di un testo buddhista si illumina: la morte non è la raggiunta libertà dalla e della vita. È la libertà ad essere di là da vita e morte, radice dell’essere e del nulla. Se la volontà non è perfettamente pura, desiderare la morte significa essere ancora immersi in quella vita che si vorrebbe lasciare: aspirazione d’una volontà non dominata. Una forma di impotenza che costringe l’io a muoversi in una dimensione necessitata. Se la volontà invece è pura, non appartiene al mondo: chi è già morto non può morire130. Questo improvviso mutamento, racconta Evola nel suo Cammino, fu “qualcosa di simile ad una illuminazione […] il sorgere di una fermezza capace di resistere ad ogni crisi”131: ora è persuaso. Si estinguono insieme, come nebbie al sorgere del sole, i due gemelli della vita impotente: il desiderio di morte e il grande disgusto per la vita (Nietzsche). L’individuo è solo, centro di indifferenza tra la vita e la morte: assoluto. Oltre Dada non c’era un passo ulteriore che portasse di là dalla fine dell’arte, dell’umano. 130 Cfr. lettera a Tzara, manoscritta autografa di nove facciate. Non datata, può essere collocata alla fine del ’21, forse ottobre-novembre, in Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), op. cit., p. 47: “L’unica soluzione, date le premesse, sarebbe il suicidio metafisico, ossia ucciderso non con un mezzo esteriore, ma con un atto di volontà/e sapete che ciò è possibile, che secondo le teoria di Lao-Tze e di Buddha esiste una scuola orientale, Mahayana le cui discipline rendono possibile questa specie di suicidio/. È ciò che penso di fare da qualche mese. Ma questa soluzione perfetta, in quanto scomparendo, ci fa affermare che esiste qualcosa, una necessità qualunque, della quale non possiamo fare a meno; e se è per la libertà che noi abbiamo cominciato, con questa soluzione diciamo, anche se vicini all’indifferenza, che una libertà non esiste, e che la nostra aspirazione non può soddisfarsi che negando se stessa attraverso la morte fisica: ma accanto alla libertà nella morte/ anche ‘vivente’ se volete/resta la macchia oscura della realtà pratica che determinava la nostra umanità e sulla quale non abbiamo alcun potere. Per me, se si vuole ancora vivere, è questa realtà che bisogna risolvere, è questa macchia che dobbiamo cancellare, in quanto solamente l’imperatore ha il diritto di morire o diessere Dada. Per fare ciò, a che scopo? voi mi domandate. Per niente ─ vi rispondo ─ per nessuno scopo: per lo meno, per niente che si ricolleghi all’esterno: come l’attività, per provare una nostra antica nobiltà, ci ha condotto verso uno scopo in basso fino a Dada, così ci guiderà da Dada in alto senza uno scopo, seguendo il cammino dell’iperbole. La necessità disinteressata del seme che si sviluppa in pianta/dal cerchio a Dada/, è necessità stessa che trasformerà la pianta in fiore”.Fare a meno delle cose che non si hanno facile; ma la luce è nel fare a meno delle cose che si hanno: e qui non si tratta solo del campo morale, ma anche del campo fisico: solo un mago può veramente morire. /me lo avete appena detto: vedete adesso quanto la morte mi sia cara, e non più la vita: lo credo bene/”. 131 J. Evola, Il Cammino del cinabro, op. cit., p. 20. 54 Capitolo I Jules Evola li supera entrambi chiudendo il suo cerchio di pittore con spietata coerenza. Dada era arte come distruzione dell’arte. Lascia altri a trastullarsi con le macerie. Qualche anno dopo, ne spiegherà i motivi con grande chiarezza in Saggio sull’arte modernissima. Qui i movimenti d’avanguardia vengono interpretati come diversi aspetti di un unico processo, fortemente dialettizzato, di liberazione dell’arte. Processo di immanenza, di consumazione nichilistica del genio nell’individuo e dell’arte medianico-feminile in arte individuale o positiva, che si compie nell’estetica moderna secondo varie fasi: romanticismo, verismo, simbolismo, analogismo, cubismo, futurismo, espressionismo, dadaismo e arte astratta. “Astratta in quanto non ha più un oggetto propriamente detto […] da comunicare e vivificare, al quale il mezzo espressivo resti subordinato, ciò che essa esprime essendo null’altro che la stessa pura espressività, scandente il ritmo di una pura libertà interiore. L’opera d’arte ha qui un valore semplicemente armonico […] non vuol più dire nulla”132. Il compimento del processo si ha quindi solo con la tendenza più significativa di tutta l’estetica contemporanea, Dada, che nel suo radicalismo realizza l’effettivo spostamento dell’Io a “centro assoluto”. L’opera di Rimbaud aspirava al possesso diretto dell’Io creatore, ma “in concreto non era valsa che a consumare e a far cadere giù la scorza della carne più esteriore onde, con il mondo delle ‘illuminazioni’, di là dall’aria greve della natura e dell’humanitas, si schiuse un etere, in cui l’Io poteva penetrarsi come libero signore”133. Nell’arte postrimbaudiana l’artista non si avvale di questa liberazione per realizzare la sua nuova possibilità di mago creatore, per “realizzare l’Io in centralità”, ma la sfrutta per involversi nell’eccentricità coscienziale di nuovi mondi iper/sovrasensibili. Il dadaismo invece tende al “principio primordiale e incondizionato”, ad abolire quindi quella coscienza che “nell’arte è solo, in quanto è 132 J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, apparso per la prima volta in appendice ai Saggi sull’idealismo magico, Atanòr, Roma-Todi, pp. 179-199. Fu riproposto da Evola nella ristampa del suo poema La parole obscure du paysage intérieur, Scheiwiller, Milano, 1963. Ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., pp. 59-60. Il grassetto è nostro. Abs-tràhere: togliere da, tendere all’essenza, purificare. 133 Ivi, p. 65. 55 Capitolo I già forma o categorizzazione, che si sveglia solo al momento della formazione ─ dell’opera ─ e al momento anteriore o più profondo del formare è assente o passiva”. Viene così posto il problema della libertà contrapponendo ad un “io determinatamente libero”, l’Io come centro, “arbitrarietà o incondizionalità”134. Antitesi consumata in due momenti: negazione ironica della realtà (soluzione negativa o dis-soluzione) che cerca di sciogliere nella pura libertà la determinazione, e coscienza del carattere preoccupato della funzione negatrice dell’Io (soluzione positiva). La negazione è in relazione a ciò che nega, ne dipende. E l’esigenza da cui muove viene contraddetta: negazione della negazione. Ci si muoveva in un circolo ingannevole: l’Io, in quanto polemico, non è veramente libero. Il risultato di questa specchiata consapevolezza è: le vrai Dada est contre Dada. Avviene “il trapasso nel tema dell’indifferenza”135. La coscienza estetica rinuncia all’affermazione violenta del principio incondizionato e, come sospesa “dans la plaine” (: lo spettacolo dell’esperienza reale), assorbe la realtà “avec délice mais sans goût”. Questo movimento illuminante, in cui l’indeterminatoindifferente si scopre in seno al determinato, attua la liberazioneautonomia del principio incondizionato: “La pura libertà attraverso la negazione di sé è pervenuta ad un assoluto essere”136. Ora, la plaine si dà nella totale nudità del proprio dasein (esser là), senza filtro lirico-simbolico. L’Io è quindi quel che di inafferrabile e labile (come acqua direbbe Lao-Tze137) trasmuta in ogni determinazione come potere di dare valore o non valore. E la contraddizione è superata nel fluttuare indicibile degli opposti nella 134 Ibid. Ivi, p. 66. 136 Ibid. 137 A. Watts definisce l’essenza stessa del Tao “la via dell’acqua che scorre” in Il tao dell’acqua che scorre, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1977. Non diversamente per lo Zen, che “è come l’acqua viva che incessantemente si rinnova e zampilla sempre limpida”, T. Deshimaru, in Il vero Zen, Se, Milano 1993, p. 13. Cfr. L’Introduzione di J. Evola alla sua traduzione/commento del Tao Tê Ching, di Lao-tze (1923), p. 38, nota 5: “Si può notar qui di passaggio come delle teorie di Lao Tze si rivelino come i presupposti metafisici ─ talvolta anche consci ─ del più strano e significativo frutto dell’odierna cultura europea, del Dadaismo”. E nella stessa pagina Evola afferma: “Ora si può dire che tutta l’opera di Lao-tze converga in un unico interesse: L’Individuo Assoluto, il Perfetto”. Evola concluse questo suo saggio introduttivo nel settembre del 1922 ad Assisi. 135 56 Capitolo I ‘grande bouche pleine de miele et d’excrément’” che “rivela il possesso dell’incondizionata libertà”138. La perfezione-compimento dell’individuale è realizzata. Quel che conta rilevare di questo processo auto-disvelante è la sua qualità di “stato spirituale” che corrisponde alle ultime realizzazioni dell’arte astratta. Per Evola è assai difficile non solo viverle e penetrarle ma anche solo presentirne il valore, qualora non si sia già realizzato in sé almeno in certo grado, “quella coscienza esteriore e rarefatta” alla quale è giunto chi ne è autore. Il perché è indicato dal filosofo romano con una espressione ermetica che è, a parere di chi scrive, la sintesi di tutto il suo pensiero, con conseguenze tra il tragico e il sarcastico che ricadono su chi se ne faccia interprete dal di fuori : “soltanto il simile 138 J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., pp. 66-67, nota 12. Da qui la differenza-opposizione tra istintività futurista e autarchia dadaista, tra gli irreducibili e inconciliabili assoluti delle due avanguardie: quello dell’immediatezza e quello della mediatezza. Evola riduce il futurismo a bergsonismo mentre riconnette il dadaismo a Stirner, in quanto il suo principio è “l’individuale inteso come assoluto possesso e volontà incondizionata fredda ed arbitraria”, laddove il filosofo francese e il futurismo invece dis-solvono l’individuo “nello slancio della vita universale”. Per il filosofo romano una simile distinzione riflette in sede estetica quella fra idealismo magico “(che in una certa misura corrisponde al dadaismo)” e irrazionalismofuturismo. Cfr. anche A proposito di ‘Dada’, lettera pubblicata su L’Impero, Roma, 20 aprile 1923, dove Evola scrive: Se […] il Dadaismo fosse realmente istintività, intuizione, vitalità e dinamismo primordiale, esso non sarebbe dadaismo, ma futurismo; e sarebbe giustificato il rimprovero di Marinetti, che Dada abbia preso in prestito dal suo movimento le posizioni fondamentali. Ma da quel che precede risulta che il dadaismo è precisamente l’antitesi del futurismo”, ora in J. Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, p. 55. Ancora sul futurismo cfr. Sul dadaismo, pubblicato in Le Cronache d’Italia, inserito nella rubrica di filosofia, a. I, n. 12-13, dicembre 1922 - marzo 1923, pp. 528-532, ora in Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit., p. 47: “[…] l’artista si precipita alfine ─ a soffocare la sua angoscia ─ nella materia, nella natura immediata; e nell’orgia sfrenata in essa ─ nella lotta, nel dinamismo, nell’ ‘ossessione lirica della materia’, nella vertigine dell’intuizione, della velocità e del sesso ─ cerca, rinnovando la soluzione dionisiaca e sciamana, di provare sé a se stesso, come concreto: come tale egli pone il futurismo”, i ‘grandi antecedenti’ del quale per Evola sono, elencati nel seguente ordine: impressionismo, sensismo e orfismo, “non interamente sviluppati nel loro motivo”, ivi in nota 5. “Ma il futurismo ha immanente in sé la sua dissoluzione e il suo superamento; perché se l’Io in esso è pervenuto ad un contenuto, non lo è per un passivo e muto annullamento in un che di estraneo, ma in quanto si è egli stesso identificato con la forza primordiale della natura, in quanto egli stesso è divenuta forza bruta e creativa che supera la sua immediatezza nell’espressione, nello scompiglio e nello strombettìo delle parole in libertà, e che ad ogni istante è insoddisfatta della sua naturalità e sospinta in una furiosa e angosciosa preoccupazione del ‘nuovo’. Così, attraverso la negazione di quella pura interiorità di cui l’analogismo è il mito, l’Io si affaccia, presso alla morte del futurismo e del primitivismo, all’interiorità concreta, alla coscienza che egli è in sé un libero ed assoluto creatore”, ivi, p. 48. L’ ‘istintività bruta’ del futurismo è solo un gradino della ri-conquista del proprio regno da parte della coscienza, la fase d’un processo necessario che ha il suo compimento “solo nel dadaismo come dottrina dell’assoluta astrazione e dell’assoluta libertà”, ibid. 57 Capitolo I può comprendere il simile”139. Gli altri non vedranno che incoerenza e incomprensibilità. Bisogna quindi capire preliminarmente la profonda alterità di piano e di significato raggiunti dall’ultimissima estetica con la coscienza astratta che è “quasi un’altra dimensione dello spirito”. Siamo molto lontani da quella quotidianità pratica e sentimentale che per la quasi totalità degli uomini costituisce il nucleo più intimo e più vero della vita. È una via spirituale dura e dolorosa da percorrere sacrificando l’umano in noi perché la consapevolezza risplenda come bagliore della trascendenza. E infatti Evola indica un punto di paragone “nell’interiorità atona e gelidamente ardente di un Ruysbroeck e di uno Eckhart”140. Una logica diversa da quella di tutti i giorni regge questa 141 sfera dell’esistenza in cui il sogno o il delirio si chiarificano e trasmutano “sino ad una rarefazione solare”. Dietro l’apparenza della follia è vivo il senso della libertà assoluta dell’Io. L’arte astratta è soltanto il velo estetico che nasconde “quella purità informe ed incondizionata, che è la nuda potenza e l’origine di ogni forma e d’ogni ordine”: è autorivelazione142. Il valore artistico è contingente essendo lo spettatore e non l’autore, il creatore dell’opera d’arte. Di conseguenza possiamo dire artistica non una certa opera ma “una certa funzione dell’Io”. A questa stregua l’arte moderna ha il valore “di una vera catartica”143. Il suo valore morale risiede nella capacità di trasfigurare esteticamente ogni determinazione nell’indifferentemente brutto o bello, non appena io lo voglia. L’arte è finalmente valore individuale. Siamo ad un puntolimite: essa non può più procedere se non compiendo la propria dissoluzione. La coscienza moderna in cui s’è affermata l’autonomia individuale è la barriera oltre la quale non v’è che la morte dell’arte. E in verità, nota Evola, dal simbolismo al dadaismo si è avuto a che fare 139 Ivi, p. 67. Ibid. 141 Cfr. J. Evola, Ouverture alla pittura della forma nuova, op. cit., p. 21: “È così. Lo spirito del creatore sarà una sfera su un piano inclinato tenuta ferma da un filo”. Cfr. il breve saggio introduttivo di Paolo Lucentini in Il libro dei ventiquattro filosofi, Adelphi, Milano, 1999, p. 37: “[…] la metafora della sfera raffigura la vita in sé della prima causa, nella sua dialettica di immanenza (ubique) e trascendenza (super et extra ubique), in tutto e al di fuori di tutto”. 142 J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., p. 68. 143 Ivi, p. 70. 140 58 Capitolo I con scuole che sono affatto meta-artistiche o addirittura anti-artistiche, e ciò secondo una “storica necessità” che ha un valore a priori144. Qui avviene il trapasso dall’arte al magismo filosofico. Come l’istinto gradatamente si consuma nella mediazione della ragione e della volontà, così l’arte, “residuo di una vita fatta di spontaneità, anteriore ancora allo stesso principio della persona”, deve scomparire quale categoria superata in un processo spirituale che presso a nuove forme di sviluppo ne porti innanzi la verità. Il gesto del suo scomparire nell’ironia e nella negazione dona all’Io una esperienza piena di significato secondo un ritmo di libertà e positività che segnano i momenti della riconquista interiore come realizzazione magica. Arte moderna è consunzione dell’arte ed il suo valore sta nel rappresentare all’Io il senso di questa realizzazione “in una anticipazione o imagine formale”, in una affermazione nei confini delle parole e dei colori: lo spazio fantastico del soggetto. In questo campo, che pur cade fuori dalla “potenza oggettiva della realtà”, l’Io dada ha potuto sperimentare “il compimento dell’assoluta libertà” con una intensità interiore e vitale sconosciuta all’analoga esperienza compiuta sul sentiero dell’idealismo trascendentale145. In Fenomenologia dell’Individuo Assoluto infatti, qui basti un accenno, Evola farà dell’arte astratta una categoria situata “al limite delle forme, oltre le quali v’è la rivelazione della nuda essenza dell’Io e la possibilità rischiosa di esperienze superrazionali e superindividuali”, mettendola ad un livello superiore a quello della filosofia146. Ora questo tipo di esperienze l’artista147 romano l’ha provato su di sé prima del passaggio all’astrattismo ed anzi proprio queste, se così possiamo dire, ne sono state la causa sottile. L’arte evoliana, sopratutto quella dadaista su cui abbiamo concentrato il nostro sguardo, è quindi immediatamente extra ed antiartistica. Meglio, è soltanto mezzo (artistico) a scopo (elevazione interiore): ricerca di uno status spirituale superiore. Esercizio d’artista come forma ascetica, si badi, priva di finalità, e quindi libera. Puro tendersi dell’azione, come l’arco da cui si scaglierà una freccia assoluta. 144 Ivi, p. 71. Ivi, p. 72. 146 J. Evola, La parole obscure du paysage intérieur, Poème à 4 voix, op. cit., p. 10. 147 In senso alchemico. 145 59 Capitolo I Questo spiega anche perché il dadaismo e l’astrattismo evoliano ─ ma non diverso discorso si deve fare per il suo futurismo ─ siano così sui generis, autonomi. Tanto è vero che ad essi il Barone impresse una direzione e una interpretazione affatto particolari, poiché calibrate sulla propria “‘equazione personale’ già a quel tempo abbastanza definita”. Queste correnti erano ambigue poiché comprendevano una doppia possibilità. Da una parte infatti si rivoltavano furiosamente contro ogni razionalità, forma data e legge orientandosi pericolosamente verso la “vita” e l’irrazionale, “quasi come in un esasperato frenetico bergsonismo”148. Il pericolo qui era evidentemente quello di uno sbocco nel sub-personale: tendenzialità espressa dal primo surrealismo, nel rilievo dato all’inconscio e al subconscio, alla “scrittura automatica”, alla psicanalisi 149, che finì per subire “la suggestione dell’oscuro demonismo dell’arte dei primitivi e dei negri”. Dall’altra parte invece, la possibilità opposta immanente alle stesse esperienze di più spinta avanguardia che corrisposero all’orientamento evoliano. Secondo le formule di A. Huxley150 spesso usate da Evola, ad una direzione di “auto-trascendimento discendente” se ne oppone una di “auto-trascendimento ascendente”. Che vuol dire? Significa semplicemente che l’impulso doveva essere non quello di 148 Che il giovane Evola aveva però esclusivamente riferito a “certo futurismo”. Per una liquidazione spietata da parte di Evola del fenomeno psicanalitico declinato nelle sue diverse scuole, si vedano, tra i molti luoghi della sua opera in cui se ne tratta, Critica della psicanalisi, pp. 63-83, in J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma, 2008 e L’esoterismo – l’inconscio – la psicanalisi, in Introduzione alla Magia (1971), volume terzo, op. cit., pp. 383-407. Cfr. infine J. Evola, Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, p. 41, dove la psicanalisi viene definita “una scienza che, falsa e contaminatrice se applicata all’uomo di altri tempi e di altre civiltà, ha una forza di persuasione quando si tratti dell’uomo moderno traumatizzato”. Tuttavia in Y. De Begnac, Taccuini Mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, 1990, p. 646, leggiamo: “Di Freud mi ha parlato per primo J. Evola. Evola mi fu presentato da Marinetti, prima dell’ottobre 1922. Marinetti era stato il masimo sostenitore della pittura di Evola, al tempo in cui Sprovieri s’era fatto profeta dei pittori moderni. Evola vedeva in Freud lo scopritore di ogni mistero della psiche. Il mondo di Freud, diceva, doveva divenire il mondo vero del pensiero. Questo discorso, lo confesso, lo trovavo e continuo a trovarlo un poco umoristico. Non esistono rivelatori di coscienza, di subconscio, che non siano, in tutto o in parte, coloro che ne sono, volutamente o non, i protagonisti: meglio, gli artefici”. 150 Non lontano da Evola nel concepire, ed usare sostanza stupefacenti come mezzi per aprire “Le porte della percezione” (1954), Mondadori, Milano, 2002. Le droghe, in un simile orientamento, sarebbero gli equivalenti/sostitutivi chimici della grazia. 149 60 Capitolo I “immergersi nella ‘Vita’”, o peggio nel caos dell’elementare, ma quello di “portarsi oltre la ‘Vita’”151. Solo la volontà poteva realizzare la centralità dell’Io rivelando, nello sconvolgimento delle forme e nell’arbitrio più scatenato, la presenza dell’ “Individuo Assoluto” e del suo dominio. E non c’è dubbio che la tendenza di base evoliana fu essenzialmente questa ora accennata. Nelle varie fasi dell’arte modernissima, attraverso il loro movimento, germina quella liberazione che, nel campo estetico, adombra quella da realizzare nel campo speculativo dell’idealismo magico quale superamento dell’idealismo astratto. “Per me Dada è una nuova vita che ho costruito dopo aver distrutto, sempre con coscienza e volontà, un’altra vita, che aveva una direzione completamente sua”. Morta anche questa nuova vita che, come in un cocktail micidiale, aveva mescolato speculazioni truculente, alcool, droghe, filosofi anarchici e suicidi, e sopratutto il disgusto per la società borghese e per i suoi valori152, Evola precipiterà gli eccessi di poeta e di pittore nella sua gnosi filosofica. “Esaurita l’esperienza, andai oltre”153. È quello che faremo anche noi. Non prima però delle seguenti considerazioni conclusive sul rapporto tra Evola e il dadaismo. Resta da dire qualcosa infatti sull’arte pura intesa come “preludio alla magia”, definizione con cui si chiude lo scritto Arte pura, del 1924, che costituisce la sezione seconda del capitolo Epoca della personalità in Fenomenologia dell’Individuo Assoluto154. 151 J. Evola, introduzione a La parole obscure du paysage intérieur, op. cit. p. 9. Cfr. l’intervista di Gianfranco de Turris, pubblicata come Incontro con Julius Evola, su L’Italiano, n. 11, novembre 1970, pp. 812-820, ora in appendice a J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit, p. 221: “In altri tempi Ernst Jünger ebbe a scrivere queste parole, che oggi di certo egli non sottoscriverebbe più, perché anche lui, il combattente pluridecorato, si è normalizzato e rieducato: «Meglio esere un delinquente che un borghese». Naturalmente, è un paradosso. Tuttavia sono parole sul senso ultimo delle quali so dovrebbe riflettere”. 153 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 26. 154 J. Evola, Arte pura, paragrafo 20, sezione seconda, del capitolo Epoca della personalità, in Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, Bocca, Torino, 1930, ora in Julius Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, op. cit, p. 81. 152 61 Capitolo I Rileviamo la concordanza della definizione ora espressa con lo scritto su cui poco sopra abbiamo riferito. In esso Evola si richiama a Novalis affermando che “i poeti in realtà sono ancora ben lungi dall’esagerare abbastanza […] ignorando quali forze sono loro soggette, quali mondi debbano loro obbedire”155. E invita a riaffermare quel senso di auto-affermazione e di liberazione appreso in sede estetica “nella dimensione più profonda della vita reale”. A comprendere, con Lao-Tze, l’arte stessa come “immobile scalpitio o propedeutica (Lehrjahre, diceva Novalis) di un ulteriore slancio”156. Il “regno della ‘grazia’” non si limita alla dimensione estetica: l’individuo può ridurre a sé la trascendenza delle leggi e dei determinismi fisico-fisiologici che in condizioni normali si impongono come qualcosa di cui egli non possiede il principio. Rendere perfetta (: realizzata) la volontà non più nell’ambito dell’arte ma nella vita “significa passare all’idealismo magico”157. La poesia è ora, secondo il suo etimo (poiein), azione. L’opera d’arte del futuro sarà di conseguenza non il capolavoro di chi intenda l’arte materialmente, secondo un criterio ancorato alla produzione artistica in se stessa ma formalmente, come simbolo d’una certa esperienza spirituale. Non più un’opera “perfetta, organica e compiuta” ma un Opus (Ars regia), non più una nuova produzione estetica ma un nuovo modo di vivere la funzione estetica. L’esperienza artistica moderna si è compiuta. Oltre non si può andare. Di là da un’arte come ritorno al passato o superstizione (quod superstat), essa deve divenire auto-creazione: Io158. Il Dadaismo, “il più paradossale frutto della cultura moderna”159, azzera l’arte rendendola tabula rasa o spazio della negazione: cerchio illuminato in cui l’Io possa riconoscersi libero signore. La negazione d’ogni forma e categorizzazione ha una funzione-significato essenziale nel dadaismo. Il suo oggetto non è l’esterno ma l’interno, ossia l’io160. Nella dimensione coscienziale si gioca l’affrontamento di io e mondo, il problema della libertà. Una 155 J. Evola, Sul significato dell’arte modernissima, op. cit., p. 72. Ibid. Il grassetto è nostro. 157 Ivi, p. 73. 158 Ibid. 159 J. Evola, Sul Dadaismo, op. cit., p. 45. 160 Ivi, p. 49, nota 10: “Ribemont-Dessaignes dadaista dice: “Il est difficile de s’echapper d’un prison qui n’a pas de mur”. 156 62 Capitolo I cosa è infatti l’ “Io determinatamente libero” , un’altra è l’ “Io come forma di assoluta indeterminata libertà”161. Il dadaismo è il tentativo di risolvere questa antitesi, di affondare nel niente, ossia nell’informe dell’astrazione, una contraddizione interna. È il tema dell’indifferenza. Indifferenza quale consumazione di due momenti separati dell’io, per scoprirne e bruciarne la specularità: l’Io assoluto come fondamento trascendentale dell’io determinato, sua infinita riserva d’energia che, negandosi nell’Io dato, si dà come indifferenza sovrana. L’essere è al fondo del non essere: si compie nel nulla quale inesauribile arbitrio dell’in-potenza, autarchia162. Come un fiore nasce l’Io, liberamente sulla tomba del dasein. L’arte per Evola è lo strumento di una igiene mentale ed ha nell’economia della sua esperienza di vita e di pensiero, la stessa funzione che nel “periodo speculativo” occupano Stirner e Nietzsche, i numi tutelari del suo genio filosofico: purificazione, apertura d’un varco nella trascendenza immanente all’opera di distruzione della vita che rimanda all’altro da sé. Pittura e poesia allora come rappresentazione d’un compito. Riproduzione nel grembo ferito del divino. Qui la dialettica del mito artistico si arresta in quanto si continua solo in quella dialettica d’ordine superiore che implica lo sviluppo mistico dell’Io, del quale sviluppo la coscienza estetica non è che l’anticipazione parodica o ─ per dirla con Lao Tze ─ l’immobile scalpitio. Ma già nel dadaismo […] appaiono decisi segni di un orientamento mistico: un recente manifesto del Baader accenna ad un avvento celeste; Tzara, in un disegno, oltre l’atonia vasta e stanca di una valle, risolve una croce nel fresco miracolo dello sboccio di 161 Ivi, pp. 49-50. Da sottolineare nuovamente la distanza incolmabile imposta da Evola anche in questo suo articolo tra futurismo/bergsonismo in cui l’individuo si spegne nella durata come mera naturalità e vita universale e dadaismo, che tanto meno ha a che fare con l’attualismo, “ove il principio assoluto dell’Io vien convertito senza residuo nel processo razionalmente determinato di una fantastica esperienza trascendentale. […]. Se Dada è indeterminato, lo è come ciò che è assolutamente e concretamente individuale, come ciò che si realizza come centro principio ed arbitrio d’ogni determinazione: come l’Unico stirneriano”, in Sul Dadaismo, op. cit., p. 51 in nota 15. 162 63 Capitolo I una rosa; e un poema dadista italiano163 segna la fenomenologia dell’individuo astratto con la sapienza della gnostica Pistis Sofia.164 163 La parola oscura del paesaggio interiore, op. cit. J. Evola, Sul Dadaismo, op. cit., p. 51. Cfr. J. Evola, op. cit., Il cammino del cinabro, p. 25: “Conservo una cartolina illustrata da lui inviatami dal Tirolo austriaco il 3 settembre 1921, con un simbolismo significativo: era un paesaggio di valle con una chiusa e con uno sfondo di ghiacciai. Sul campanile a freccia della chiesa, sulla croce, Tzara aveva disegnato, quasi rosicrucianamente, un fiore dischiuso, e sulla vetta più alta dello sfondo, una mano con l’indice rivolto verso il cielo”. I grassetti sono nostri. Una rosa che fiorisce al centro di una croce è l’emblema, cui lo stesso Evola accenna, della “Fama Fraeternitas Rosa Croce”. L’Ordine dei RosaCroce apparve nell’anno 1614 attraverso la pubblicazione di un volume noto con il titolo di ‘Fama Fraternitas’ ma in realtà intitolato ‘Comune e Riforma Generale del Mondo secondo la Fama Fraternitas del Venerabile Ordine dei Rosa Croce’ sottotitolata ‘Messaggio indirizzato a tutti i Re e i Saggi d’Europa’. In questo volume, suddiviso in due parti, si parla di una riunione presenziata dal Dio Apollo e – nella seconda parte – del ruolo della stessa Fama Fraternitas di asse di rinnovamento spirituale e di rinascita per l’intero pianeta. Il presunto fondatore dell’ordine rosacrociano sarebbe stato un certo Christian Rosenkreuz, presentato ai neofiti e agli adepti quale prototipo di uomo perfetto. Cfr. Chymische Hochzeit Christiani Rosenkreuz, Ztner, Strasburgo, 1616, ora in Le nozze chimiche, di Christian Rosenkreuz, Editrice Atanòr, Roma, senza data. Nell’emblema dell’ordine, una croce al cui centro sboccia una rosa, appare anche la massima cristiana INRI la quale però, in questo caso, non dev’essere intesa come ‘Iesus Nazarenus Rex Iudeorum’ bensì nel significato che ad essa attribuivano gli alchimisti cattolici del medioevo: “IGNE NATURA RENOVATUR INTEGRA”, cioè: “LA NATURA SI RINNOVA COL FUOCO”. Il Fuoco in alchimia è “agente di trasmutazione”. Cfr. la lettera di Evola a Tzara dell’ottobre-novembre ’21, op. cit., pp. 47-48: “ Esiste un mito che conoscete bene, suppongo, e la cui importanza sta nel ritrovarsi in tutte le religioni e le filosofie iniziatiche comuni: è che l’uomo è un Dio decaduto; che il compito dell’uomo è di redimersi dalla materia e dal desiderio, per riscattarsi riscattando il dio malato che è in lui: “poiché crea le tenebre, conosce la Luce”. Vi ho detto della forte impressione che la vostra cartolina dal Tirolo mi aveva causato: ecco cosa vuole significare: sulle costruzioni umane/come risultato della conoscenza/una croce: ma sulla croce della sofferenza, risplende il fiore che avete tracciato: dada sorriso inerte; ma al fondo, sulle montagne, una mano indica in alto, il cielo: il sentiero dell’iperbole. Su di un cartoncino, avete indicato tutto ciò che di più elevato esiste sulla saggezza del mondo: in questo piccolo cartoncino siete stato immenso come nessuno lo è mai stato: Buddha, Cristo, Platone, Rosencreutz, Kant, tutto è riassunto in quei due segni che la vostra mano ha tracciato su una banale cartolina”. 164 64 Capitolo II Liberazione dalla filosofia “Fratelli miei, forse sono crudele? Ma io dico: a ciò che sta cadendo si deve dare anche una spinta! Tutto quanto è dell’oggi – cade, e decade: e chi può aver voglia di trattenerlo! Ma io ─ io ‘voglio’ anche dargli una spinta! Conoscete la voluttà, che fa rotolare le pietre in ripide profondità? ─ Questi uomini d’oggi: ma guardate, come rotolano nelle mie profondità”. F. Nietzsche La spinta evoliana lancia altre pietre rotolanti nel gorgo impensabile della filosofia moderna. Einstürzende Neubauten, gli edifici dell’idealismo assoluto, crollano sotto il gesto d’un pensiero che spezza la luce. Pura lubricità, irrisione e cattiveria dovette sembrare nell’orizzonte culturale della sua epoca, l’opera dell’Evola. Fanciullo impertinente che lavora allo strazio d’un edificio teorico costruito su labili fondamenta. E ride davanti al cadavere della madre Gentile tra le macerie di un incompleto immanentismo. Questo, declinato nei modi più diversi, ha risolto l’io empirico nella soggettività trascendentale che lo nientifica quale pura illusione o miracolo della prestidigitazione accademica. L’idea di Hegel , il Dio di Royce o l’Atto puro di Gentile come i succedanei del vecchio ─ o morto? ─ Dio della metafisica teista. Tutti nomi dell’impotenza. Una casa costruita su fondamenta impossibili e quindi invulnerabili è invece il sistema dell’idealismo magico o dottrina della potenza. Mondo invivibile dove regna, in solitudine perfetta, un oscuro e potente Signore: l’Individuo Assoluto165. 165 Cfr. F. Nietzsche: “E piuttosto sedere solo sul proprio monte, come una nera fortezza semidistrutta, meditabondo e in profondo silenzio; in modo che gli stessi uccelli abbiano paura di 126 Capitolo II L’abitare è “una prova di fiducia che il mondo non merita?”166. Per Heidegger: “Esser uomo significa: esser sulla terra come mortale; e cioè: abitare”, e ancora “Abitare […] vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente, (Frye) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura (Schonen)”. Non è questo il luogo per misurare la sintonia tra queste affermazioni dell’ “ultimo sciamano” Heidegger e le concezioni del mago Evola, tuttavia il suggestivo accostamento di questi due giganti ci appare significativa e meritevole di venir indicata. Il “pastore dell’essere” ed il “mago” in un abbraccio che li vuole uniti perché uno è il compito dell’uomo e la sua raison d’être sulla terra: la “cura del mondo”167. Magia e filosofia poste l’una accanto all’altra, separate dalla sublime arroganza della paroletta “e”. Evola ne celebrò le nozze sotto il segno terribile dell’altus: la spaventevole profondità dei suoi cieli teoretici colorati d’azzurro e lacerati dalla potenza d’una prassi oltreumana. Due sentieri che convergono nella conoscenza di sé e dell’“altro”, due parole enigmatiche come l’anelito unico che le accomuna, la gnosi. E vedremo come la Tradizione, epoca ulteriore e definitiva del cammino evoliano, non sia altro che katharsis della ragione, atto terribile di una purificazione compiuta sui frutti di quelle nozze per distruggerne le residue scorie discorsive ed attivarne le valenze sottili, magiche appunto. Tradizione come pharmakós. Un senso di smarrimento avvolge il lettore delle opere evoliane: Unheimlich lo chiamò il genio di Nietzsche/Freud/Heidegger. Quella sorta di spavento che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che è familiare. Come la filosofia, la dimora dell’essere-Uomo: in cammino nel continuo esercizio della virtù. Tra le parole delle idee cui quel silenzio”, citato in Karl Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 8. 166 Cfr. Manlio Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano, 1993, pp. 88-89: IL FILOSOFO: Non ritieni che abitare sia una prova di fiducia che il mondo non merita? IL TEOLOGO: Ogni casa è una chiesa. Il giorno in cui appresi ad abitare appresi a venerare e la schiena mi si curvò dallo sforzo. Via dalle case, via…”. 167 Cfr. Ermete Trismegisto, Asclepio, trad.it., in Discorsi di Ermete Trismegisto. Corpo Ermetico e Asclepio, Tea, Milano, p. 136. 66 Capitolo II porgiamo l’orecchio e le Idee senza parole che orientano la nostra condotta. La parola tedesca Unheimlich ha la sua radice antitetica in heimlich, da Heim, casa, e in heimisch, ossia familiare, abituale. Insomma il Perturbante, ciò che porta angoscia, è un non-familiare, qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico. Qualità, queste, dell’opera d’arte evoliana ma ancor di più quella filosofica, che riceve la sua forza da un eccezionale contenuto e sa spezzare l’incatenamento della familiarità più prossima. Scuotendoci dal sonno dell’io per risvegliarci al reale: la realtà metafisica168. La sua filosofia come inabitabile “dimora filosofale” che attenda un ospite ─ l’“ospite inquietante” di Nietzsche ─ di cui non debba accontentarsi perché non “di passaggio”. Uno che la realizzi inverandola nella sua costitutiva pratica meta-razionale, oltre il veicolo d’un semplice dire incidentato dalla pre-comprensione dell’“umano troppo umano”. Oppure, come Michelstaedter fece “nel migliore dei casi […] una tesi di laurea”, così il giovane barone visse la sua “stagione filosofica”169. Ma resta un che di inesausto in questa sfida della conoscenza che urla la propria insoddisfazione in questi tempi ultimi in cui l’ignavia degli uomini li spinge a più non domandare. Troppo indaffarati ad arredare le loro prigioni senza muri. Parafrasando Bataille: “Per questi ridenti esseri, i signori Evola e Michelstaedter sono in teoria problemi secondari… ma ci sono…”170. 168 Cfr. Ea (uno degli pseudonimi di Evola), Che cosa è la “realtà metafisica”, in Krur 1929, Tilopa Editrice, Roma, 1981, p. 108, dove il filosofo romano spiega che “metafisico” vuol dire: “1) Dal punto di vista oggettivo, è lo stato di un essere non legato alle condizioni spaziali e temporali; 2) Dal punto di vista soggettivo, è l’esperienza che può realizzare una coscienza quando tali condizioni cessino di far parte del suo conoscere. Ad una esperienza del genere, corrisponde quel che, complessivamente, noi intendiamo per «realtà metafisica»”. E più avanti, p. 109: “Ora per quel cangiamento essenziale, per quella trans-formazione effettiva dell’intima natura, che in ogni tempoi e in ogni luogo è stata attribuita al potere e all’atto dell’iniziazione, si può pensare che si verifichi appunto una rimozione della modalità comune del conoscere, che faccia percepire in sede non-corporale, «metafisica», la realtà”. 169 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano, 2007, p. 36. 170 Cfr. Georges Bataille, Su Nietzsche, Se, Milano, 1994, p. 35: “Io vivo, a ben vedere, in mezzo a uomini strani, ai cui occhi, la terra, i suoi casi e l’immenso gioco degli animali, mammiferi, insetti, sono più alla misura dell’illimitato, del perduto, dell’inintelligibile celeste, che di se stessi o delle necessità da cui sono limitati. Per questi ridenti esseri, il signor Nietzsche è in teoria un problema 67 Capitolo II Il cammino del pensiero evoliano è un costruire nell’invisibile che disfa lo spazio del significato per farsi in quello del significante dove la parola se ne sta come sospesa e in attesa del miracolo a venire: l’azione che magicamente le obbedirà. Questo incantesimo prerazionale d’una prosa rigorosamente filosofica rifugge dalla dialettica per realizzarsi nell’alchimia del logos: il flusso incoercibile d’una conoscenza che è esercizio. Oltre l’umano nell’umano. La filosofia evoliana è una filosofia dello spaesamento171 che ci vuole stranieri in questo mondo fino alla sua risoluzione nella potenza dell’Io: potenza di libertà. Pensiero dell’assenza allora, ma nel segno d’una presenza invisibile cui non si può sfuggire perché è in noi quale radice profonda che non gela: la nostra destinazione sovrannaturale. Soglia di questo indicibile, essa può divenire la lichtung di quegli atleti dello spirito allenatisi alla disciplina del “salto”. Una filosofia estrema che si nutre di suggestioni occulte, di pratiche esoteriche, di frequentazioni di veri o presunti indagatori dei mondi sottili e che si orienta in direzione d’un suo superamento perché già in se stessa intimamente altra da qualsivoglia operazione soltanto concettuale, non nei mezzi, che sono rigorosamente scientifici, ma nella risonanza delle sue vocazioni utopiche. Filosofia dell’eccesso che dicendosi s’annienta in quanto sacrificio della logica. Filosofia della liberazione da una libertà soltanto negativa che s’incarna nella vita di tutti quale destino della necessità. Questa è la sua legge: che l’impossibile sia sempre possibile, che la libertà sia libera ─ anche e sopratutto ─ di morire. *** Il sistema filosofico evoliano si compone di tre opere: Saggi sull’idealismo magico, Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assolto e L’uomo come potenza. Il primo è un’anticipazione ed una secondario… ma c’è… Questi uomini, evidentemente, esistono poco… bisogna che lo dica subito”. 171 Nella analitica esistenziale di Heidegger, la condizione in cui si prova più fortemente l’angoscia, in quanto il mondo non appare più come la dimora propria del soggetto umano, del cosiddetto ‘Esserci’. 68 Capitolo II introduzione ad esso, il secondo ─ concepito originariamente come opera unica, poi uscito in volumi separati, rispettivamente nel ’27 e nel ’30 ─ ne è la esposizione rigorosa con i mezzi della ragione discorsiva e il terzo è la sua esplicazione sul terreno della prassi, “completamento tecnico”. Non è di certo possibile ricostruire qui il pensiero evoliano nella totalità e nella complessità delle sue articolazioni. Non è questo, del resto, lo scopo che ci siamo dati. Ci accontenteremo pertanto di delinearne lo scheletro e di fissare alcuni punti essenziali per: 1) saggiarne la qualità teoretica; 2) comprendere la natura dei “superamenti” esistenziali da Evola vissuti con valenza iniziatica al principio (fase artistica) ed alla fine (fase tradizionale) del cosiddetto “periodo speculativo”. Per fare ciò, ci richiameremo ovviamente alle opere dell’Evola maggiore che compongono il sistema ma non trascureremo ─ il senso del nostro lavoro sta anche qui ─ l’Evola minore, nel senso di poco considerato e sottovalutato ma anche nel senso di una ben specifica modalità di lettura o atteggiamento interpretativo. Con questa accortezza metodologica speriamo di evitare il sentiero su cui molti viandanti evoliani si sono smarriti prendendo così un’altra direzione. Cogliamo l’opposizione fra le due. Da una parte si eleva a “maggiore” un pensiero o una dottrina e di un modello di esistenza, di un esempio si fa cultura, d’un evento ─ in questo caso un “evento dell’Io” ─, si fa storia. Con la pretesa di ammirare, o nel migliore di casi, di connotare, si trasforma una persona in un personaggio, un uomo in una statua che schiaccia chi vorrebbe rappresentare disinnescandone la carica. L’innesto del nostro tempo in quello di Evola, delle nostre aspettative nelle sue, delle nostre forze e/o debolezze, non solo speculative, nelle sue e via dicendo, lo rendono incomprensibile e inutilizzabile per noi. In questo modo se ne fa un “maggiore” ma a spese del presente, lo si misura con un metro che non è il suo e lo si riduce ad icona forzata del suo tempo. Resta un Homunculus, l’aborto d’una ermeneutica irresponsabile. 69 Capitolo II Evola va calato nella sua epoca, bisogna capire perché pensò e si comportò in un certo modo, per poter valere ancora qualcosa. Solo così tornerà (forse! Non si dimentichi mai la sua, e la nostra, equazione personale) a disvelare l’attualità del proprio pensiero e a illuminarne il carattere esemplare. Dall’altra parte si può allora concepire l’inverso e sottoporre Evola ad un trattamento di “minorazione” per sprigionare o scatenare il divenire (della sua opera) contro l’essere (una imaginetta, un santino per i devoti del decrepito neo-fascismo), contro la Storia (il fascismo, il progressismo etc.), la vita contro la cultura (del suo e del nostro tempo), il pensiero contro la dottrina (quella della “Tradizione” con la T maiuscola), la grazia o la leggerezza contro il dogma. Nell’Evola giornalista, nella sua produzione pubblicistica, noi avvistiamo una terra libera, poiché in parte misconosciuta e non colonizzata dalla critica, in cui trascorrere momenti di riflessione in grado di chiarire ed in parte superare le acquisizioni del volume, ─ pur centrale nell’economia complessiva del suo farsi pensiero ─ che in quanto tale, se ne sta, nel passare vorticoso delle sue vicende speculative, come masso erratico contro il quale è ormai vano ostinarsi. Più fruttuoso crediamo sia seguire l’Evola anche nelle sue scorribande sui giornali che lo videro in parte protagonista della cultura del suo tempo e che ci danno oggi il polso d’una vita intellettuale in divenire. Accorderemo perciò una particolare attenzione ad alcuni articoli e conferenze evoliane, delle quali ci serviremo come sintesi e fotografie d’un paesaggio teoretico quale base di lancio verso l’assoluto di un Individuo. *** L’individuo e il divenire del mondo è la sintesi del sistema evoliano. Almeno, così il filosofo romano lo presenta nella sua precisazione in apertura del libro edito nel 1926 che raccoglie due sue conferenze: “Pubblico queste due conferenze […] per dare nella sintesi più rapida e diretta il punto su cui gravita l’insieme di ciò che io voglio e che può ritrovarsi, in tutti gli sviluppi e le direzioni di metodo desiderabili, nel 70 Capitolo II sistema delle mie tre opere: “Saggi sull’idealismo magico”, “Teoria dell’Individuo assoluto”, “L’Uomo come Potenza”, al quale sistema potranno dunque servire da filo conduttore”172. La conferenza ─ dal titolo lievemente diverso rispetto all’opera in oggetto ─ L’individuo e il processo del mondo, venne tenuta da Evola nel 1925 presso la sede della “Lega teosofica indipendente” di Roma e preannunciata in un dépliant fuori testo allegato al primo fascicolo (marzo 1925) della rivista Ultra, la “Rivista di studi iniziatici” diretta da Decio Calvari, presidente della “Lega”. Insieme a Lui, tra gli altri, l’antroposofo, cioè steineriano Giovanni Colazza (il “Leo” del successivo Gruppo di Ur), il poeta Arturo Onofri che “dopo una crisi spirituale aveva aderito allo stesso indirizzo, l'orientalista olandese Bernard Jasink e il pittore e «occultista» Raul dal Molin Ferenzona”173. Tutte “personalità aventi un effettivo valore, separabile dalle teorie a cui si appoggiavano”, che il barone definirà “miscugli, dove la parte predominante l’avevano pregiudizi, divagazioni e la deteriore materia fornita da presunte rivelazioni e da una presunta chiaroveggenza”174. Questo breve scritto uscirà poi nuovamente nel 1931 nella rivista tedesca Logos. Al riguardo riportiamo queste parole di Guido Calogero, allievo e collaboratore di Gentile nonché redattore dell’Enciclopedia Italiana: “Quanto all’Evola, opportunamente il Tilgher ha riportato di lui un unico brano, tratto da L’individuo e il divenire del mondo (1926): anche chi non conosce altrimenti il suo pensiero può infatti, da queste pagine, farsene un’idea adeguata. Rileggendole, chi scrive si è convinto una volta di più di non aver sbagliato quando, otto anni fa, preparando l’Italien Heft, composto di scritti di idealisti italiani, della rivista Logos, allora diretta da Richard Kroner, vi inserii, con sorpresa 172 J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1926, Tipografia Luzzatti di Roma, p. 5. Il testo integrale di questa conferenza era già stato pubblicato, con lo stesso titolo, nel fascicolo di dicembre della rivista Ultra, XIX, 1925, 5-6 dicembre, pp. 287-288. 173 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 28. 174 Ibid. 71 Capitolo II di molti, anche un articolo dell’Evola175. Pochi come l’Evola hanno infatti compreso con tanta nettezza come la più moderna soluzione idealistica del problema dell’essere e del conoscere esiga la totale, integrale, incondizionata negazione di ogni “realtà” ed “oggettività” di fronte o in seno alla consapevolezza dell’io, e come quindi nell’invalicabile ambito di tale consapevolezza, quella resistenza e stabilità delle “cose”, che tradizionalmente genera l’idea della loro realtà, non serbi più alcun significato né ontologico né gnoseologico, e possa quindi essere spiegata solo in sede di filosofia della pratica, come ostacolo contrapposto alla volontà, alla potenza, all’azione. Quel che bensì l’Evola non vede, è come tale ostacolo sia poi la base stessa dell’azione, la quale si attua sì tanto più quanto più rimuove quell’ostacolo modificando il reale, ma neppure potrebbe mai attuarsi se esso sempre non ci fosse, a fornirle la base di potenza evitandole di brancolare nel nulla: giacché l’unico significato della “realtà” di fronte all’ “idealità” è appunto questo, di essere ciò che la consapevolezza agente trova in sé come già fatto di fronte a ciò che deve fare, di essere il passato che eternamente e necessariamente si contrappone al futuro in quell’eterno presente che è l’io [l’esperienza mistica dello “ewig nun”, dell’eterno presente – Eckhart, Novalis nda]. Non vedendo questo, l’Evola innalza a ideale dell’azione quello dell’assoluto signoreggiamento e annientamento del “reale”, e sogna un pensarefare umano capace di eliminare o modificare prontamente, così come si muovono le idee nella immaginazione, ogni ostacolo delle cose: donde il suo interesse per la magia, e per tutte quelle forme, più o meno esoteriche, di esercizio della potenza interiore, da cui si possa sperare aiuto per un avvicinamento a un simile ideale, del resto già vagheggiato dall’Uomo finito di Papini. E siccome, poi, nella solipsistica solitudine di questo “individuo assoluto” non interviene mai quella volontà di riconoscere le altrui persone, che appunto, vincendo l’altrimenti invincibile solipsismo, costituisce per ciò stesso l’unico fondamento concreto di ogni morale, così l’io evoliano, distruttore del mondo delle cose, nega insieme anche il mondo degli uomini. S’intende qui come, tra magia e immoralismo, possa essersi 175 J. Evola, Die drei Epochen des Gewissheitsproblem (Le tre epoche del problema della certezza), in Logos (International Zeitschrift für Philosophie der Kultur), XX, Heft 3 (Italien Heft), Tübingen, Dezember 1931, pp. 399-413. La rivista usciva a Tubinga per i tipi di J. C. B. Mohr. 72 Capitolo II perduto in tante sterili e sconcertanti esperienze un ingegno speculativo, che pure aveva così robusto impianto”176. Di non diverso avviso fu anche Tilgher, che ─ ricorda lo stesso Evola ─ “[…] doveva deplorare che ‘mi fossi perduto’, quando lasciai dietro di me le forme speculative, passando in campi in cui, data la sua mentalità intellettualistica, egli non poteva seguirmi” 177. Altre conferenze furono tenute da Evola nel 1925 presso il gruppo teosofico: una in luglio sul Concetto esoterico delle purificazioni, edita poi dalla rivista di studi religiosi Bilychnis178 con il titolo La “Purità” come valore metafisico. L’altra invece, che costituì la seconda parte de L’individuo e il divenire del mondo, ebbe luogo in dicembre su: “Nietzsche e la Sapienza dei Misteri”. Essa comparve dapprima sulla rivista Ignis diretta dal massone Arturo Reghini con il titolo Dioniso179 e successivamente in lingua francese, Par delà Nietzsche, nel secondo volume di 900 (“Cahiers d’Italie et d’Europe”), pubblicazione de “La Voce” edita da Curzio Malaparte e Massimo Bontempelli. Figurò anche nell’antologia tilgheriana dei filosofi italiani contemporanei180 e nel 1973, in versione rielaborata, sulla rivista Vie della Tradizione181, la stessa apparsa sulle ultime Ricognizioni evoliane, uscite pochi mesi prima della sua morte182. Anche dall’aridità di queste scarne indicazioni bio-bibliografiche s’intravede la coerenza dell’opera evoliana come nesso tra ciò che è diverso, vita della contraddizione e nodo dei distinti. 176 G. Calogero, Come ci si orienta nel pensiero contemporaneo? – con un’appendice sulla filosofia italiana del dopoguerra, Biblioteca dei Leonardo, Sansoni, Firenze 1940, pp. 57-59. È curioso come Calogero finisca per ritorcere su Evola quel difetto di “riconoscimento”, imputandogli di cullarsi nel sogno di “un pensare-fare umano capace di eliminare o modificare prontamente, così come si muovono le ideenella immaginazione, ogni ostacolo delle cose”, che è lo stesso difetto di cui Tilgher faceva accusa all’attualismo gentiliano (cfr. A. Tilgher, Lo spaccio del bestione trionfante, 1925). 177 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 61. 178 Fondata nel 1912 ed edita dalla facoltà della scuola teologica battista di Roma, la rivista della “lucerna a due lucignoli” ─ bilychnis ─ cessò le pubblicazioni nell’estate del 1931. Evola vi collaborò dal 1925 al 1931. 179 J. Evola, Dioniso, in Ignis n. 11-12, novembre-dicembre 1925. 180 Cfr. A. Tilgher, Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra, Guanda, Modena 1937. 181 J. Evola, Dioniso e la via della “Mano Sinistra”, in Vie della Tradizione, III, 1973, 10 (aprilegiugno), pp. 53-59. 182 J. Evola, Dioniso e la “Via della Mano Sinistra”, in Ricognizioni: uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, pp. 74-84. 73 Capitolo II Nodo gordiano sciolto dall’azione al servizio del dio. Le rigide categorie fanno a pezzi il corpo del testo evoliano. E, quel che più importa, della sua testimonianza. Le tre epoche dello spirito L’individuo può pervenire al “perfetto compimento di se stesso” attraverso un processo che si sviluppa in tre fasi ─ che si rispecchiano in quelle del problema della conoscenza e della certezza ─ ed ha il proprio motore immobile nella sua volontà trascendentale183. In un primo momento l’Io si vive come sogno non essendo ancora “né un autocoscienza, né un principio autonomo di azione”. Immerso nell’immediato e nell’indistinto della natura non pensa, non parla, non si afferma ma sono le varie potenze e i vari impulsi che pensano, parlano, si affermano in lui. Egli è dunque soltanto un medium, passivo strumento di qualcosa che lo trascende. Tutto è grazia, spontaneità, immediatezza. In questo “stadio originario”, non esistono il problema della certezza e la religione (da religare, ricongiungere) che presuppongono uno stato di separazione non ancora presente. Singolo e tutto, Io e non-Io, natura e spirito sono qui una sola e medesima cosa poiché il singolo non è ancora nato ma in formazione entro il grembo materno, quella vita universale che lo alimenta e lo sostiene. La certezza non costituisce un problema essendo materia di diretta esperienza, qualcosa che si rivela senza mediazione con quell’istantanea sicurezza propria della vita degli istinti. Questo è lo stadio della spontaneità184. Ad esso non ne succede un secondo ma ne può succedere un secondo. La differenza non è di poco momento dato che in essa e per essa si gioca la legittimità del sistema evoliano che ha, può avere nella libertà il suo invulnerabile fondamento. Il processo dell’Io che si svolge da una forma del sapere e dell’essere ad un'altra non dipende da legge alcuna, non è necessario 183 184 J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Arktos, Carmagnola, 1989, p. 33. Ivi, p. 34. 74 Capitolo II ma è in virtù della sua gratuità o leggerezza. Esso è libero, contingente alla intensità che lo muove dall’origine quale gesto dello Spirito. L’origine è il ni-ente: l’abisso della decisione. La volontà trascendentale dell’uomo trasforma il mondo come vuole che sia: contingentismo trascendentale. La libertà dell’Individuo è la sua verità. Non ve n’è un’altra. Ed essa non coincide con la necessità, ma la eccede perché prius indeducibile dell’intero processo. La verità è contingente alla volontà che l’individuo è e non alla volontà che l’individuo ha. Un simile concepimento del mai nato ─ intendiamo la libertà ─ esige non che lo si pensi, ma che lo si attui. Il segreto della filosofia di Evola è un comandamento (im)possibile inscritto nell’azione. Dalla spiegazione al dispiegarsi dell’azione. Dall’arte alla filosofia. Dalla filosofia alla tradizione: un processo che si sviluppa per salti. L’accesso alla “dimora filosofale” è l’azione immateriale, invisibile185. Non si penetra il secretum allungando l’orecchio: si deve agire. Non c’è nulla di più vincolante della libertà. Essa si conosce e si vive solo nella libertà. Essa viene dal niente: è creazione dell’Io, spirito. Nietzsche dubitava che nei serragli la bestia-uomo migliorasse. La libertà che sovrasta il mondo è il serraglio più potente che costringe l’uomo al compimento. La via dello spirito è essenzialmente quella della libertà per cui non ha nessun senso vincolarla ad una legge trascendente da cui essa procederebbe secondo una inconvertibile sequenza di situazioni. Il passaggio da uno stadio all’altro si ha, se si ha, incondizionatamente. Il suo senso è una assoluta affermazione di cui non si deve chiedere una ulteriore ragione. Torniamo alla seconda epoca. Qui la connessione originaria con il tutto viene progressivamente spezzata. E L’Io, strappandosi gradualmente dall’Universale, si volge alla propria autonomia. Ciò che prima 185 Cfr. Introduzione alla Magia, volume primo, op. cit., p. 10: “Tutto quel che poteva dare, il cervello umano l’ha dato. Così in particolare si tratta anche di far divenire il corpo intero uno strumento della coscienza che, superando la limitazione individuale, dovrà penetrare negli strati ove agiscono le forze oscure e profonde di un superiore Io: fino a trovare l’entrata della via che conduce al «palazzo chiuso del re”». 75 Capitolo II all’individuo era intimo e sicuro ora gli diviene impenetrabile e incerto. Sorge il non-Io, la natura. Lasciamo parlare Evola: “E l’esperienza si disperde in una esteriorità e in una particolarità, i cui elementi stanno all’io in un rapporto contingente: è l’oceano sterminato delle forme e degli esseri, della generazione e della corruzione, del divenire e del trasmutare: è la follia indomabile dei fenomeni, la fluttuazione obliqua delle ‘cose che sono e che non sono’. A ciò l’individuo nel primo momento del suo nascere come tale si sveglia; egli si trova dunque trascinato in una vicenda incomprensibile, consumato momento per momento dal vario balenare dei fenomeni e degli impulsi contraddittori in cui la sua sostanza dilacerandosi, egli soffre la morte dell’unità e della certezza di sé. E più l’Io procede nella sua individuale affermazione, più sorge energica contro di lui l’antitesi dell’“altro”, dell’irrazionale e del contingente”186. L’uomo, in un primo momento, vive la lacerazione dell’originario stato di unione ─ il mondo ─ come caduta, come la violenza di una “ingiustizia” primordiale, come illusione, “ignoranza” (avidyâ). Il mondo è ora un luogo di dolore, un non-valore da cui importa solo fuggire. Il giovane filosofo si spiega così, con questa prima reazione, “il senso ed il ‘luogo’ ideale degli atteggiamenti pessimistici ed ascetici propri all’Oriente upanishadico e buddhistico, alla prima cultura greca ed allo stesso cristianesimo primitivo”187. Questa “direzione ascetica”, giacché la modalità contingente con cui il mondo appare è conseguenza necessaria della nascita dell’Io, ha un valore negativo. Quello d’un “trarsi indietro” da parte di una individualità intimamente contraddittoria: non ancora sufficiente alla propria affermazione. “Essa esprime in verità la paura”188. Ma l’affermazione del principio Io è ormai avvenuta. Da qui, vista la impossibilità d’una restaurazione dello stato originario, due risultati: “la dissoluzione” ovvero “il dualismo eleatico o stoico”189. O il mondo si dissolve in un principio indifferenziato che divora ogni realtà concreta o l’uomo è condannato ad un atteggiamento schizofrenico: 186 Ivi, p. 35. Ivi, p. 36. 188 Ibid. 189 Ibid. 187 76 Capitolo II l’irrigidirsi davanti al divenire dei fenomeni di cui non accetta il dover essere pur subendone (: di quest’essere) la violenza. Questa idea di stoicismo è piuttosto decadente, “ellenistica”, alla maniera di un Seneca, o di Marco Aurelio. Una seconda reazione a questa armonia infranta è quella propria alla posizione scientifica. Il tentativo è quello di arginare il caos fenomenico in principi di ordine e in leggi uniformi mediante l’organo discorsivo: concetto e relazione matematica. L’unità di particolare e di universale di cui l’uomo fruiva nello stadio pre-individuale non è più. Il fenomeno particolare sotto una legge generale è ora criterio di certezza. Una certezza in verità precaria poiché per questa via non si può risolvere la natura contingente del rapporto secondo il quale ora le cose si presentano all’io. In primo luogo perché sostituire un fatto ad una legge significa ad una contingenza sostituirne un’altra. In secondo luogo perché il concetto può determinare l’essenza di una cosa, “l’insieme delle note che logicamente la definiscono”, ma non può dedurne e tanto meno produrne l’esistenza, “il fatto nudo del suo ‘esser là’ (dasein) come cosa reale”190. L’Io resta davanti a un “fatto”, ad una contingenza e ad una oscurità fondamentale. Vale a dire ad un qualcosa che essendo così come potrebbe anche essere altrimenti e non dipendendo da lui, non può fondare nessuna certezza. S’impone il dubbio, il cui sviluppo condiziona il procedere dell’individuale verso “la completa affermazione di sé”191. Un tale sviluppo si connette all’“indagine critica intorno al problema del conoscere”192. L’Io infatti, costituendosi principio a sé, è ora “centro distinto di autoriferimento”. Ma, posto il soggetto da una parte e l’oggetto dall’altra, come è possibile intendere la loro congiunzione, quel “singolare mistero” del conoscere? Resta aperta una sola via: negare l’idea della realtà esistente in sé stessa e affermare che la sostanza delle cose consista nel loro venire pensate dall’Io. Il mondo come fenomeno: “una apparizione che è di questo Io e per questo Io”193. 190 Ivi, p. 37. Ivi, p. 38. 192 Ibid. 193 Ivi, p. 39. Cfr. G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cronopio, Napoli, 1997, p. 22: “In Kant fenomeno non significa apparenza, ma apparizione”. 191 77 Capitolo II Senza più appoggi o evidenze naturali, tutto è ora “dubbioso, problematico, contingente” per l’uomo. Egli sa solo che questa è la sua esperienza e queste le leggi e le categorie con le quali è costretto a pensarla. Quale è il fondamento di questo sistema di fenomeni e di categorie fondato su una radicale contingenza, quasi fosse un “episodio fugace, disperso in una incoercibile, imprevedibile vicenda”? È la domanda fondamentale della filosofia. La risposta di Evola: se l’individuo cerca un punto fermo, “soltanto nel suo ‘Io’ può trovarlo”194. Certo, il mondo è una rappresentazione. Ma essa non presuppone forse l’esistenza di un rappresentante? Si può chiamare falsa o illusoria l’esperienza, ma non chi ne sperimenta questa falsità, questa illusione: “Di là dall’obliquità e dalla fluttuazione delle ‘cose che sono e non sono’ vi è dunque una sola certezza: L’Io”195. La conclusione del secondo stadio è questa presa di coscienza, “un possesso” con il quale l’individuo ha una realtà assoluta ed evidente di contro alla mera fatticità del reale, a questo “bruto, irrazionale ‘esser là’”: “Io sono solo ─ il resto è mia rappresentazione”196. Non sono soltanto parole. Ed Evola, “prima di passar oltre”, rivela la necessità di vivere fino in fondo “questo momento critico della storia ideale dell’individuo”. Negare tutto, dubitare di tutto. Soffrire l’irrealtà di ogni realtà, vedere l’oscurità di ogni luce. Distruggere ogni appoggio e negarsi ogni nascondiglio. In breve: realizzare la “grande solitudine”. Non prima di ciò egli è un “essere autonomo ed autocosciente”. 194 Ivi, p. 40. Ibid. 196 Ibid. Il nome di Schopenhauer viene fuori quasi con evidenza in diversi passi che abbiamo fin qui citato. Non è un caso. Evola è infatti un profondo “seguace” di Tilgher, che è, a sua volta, un divoratore di Schopenhauer. Pur ammesso che nella volontà di Evola ci debba essere prevalentemente Stirner (e Nietzsche), ci sembra che il filosofo romano, al tempo giovanissimo, Schopenhauer lo abbia preso col “latte” tilgheriano. 195 78 Capitolo II L’individuo è nel suo strapparsi ad ogni apparente fondamento attraverso la negazione assoluta. Evola cita Stirner: “[…] l’Io non è tutto, ma ciò che distrugge tutto”197. Da qui quel principio tragico che, secondo il buddhismo, rende l’uomo superiore alla natura e agli stessi dei. Ogni esperienza è una mia esperienza. Meglio, la sola realtà di cui possa parlare è quella che si risolve in una mia esperienza: l’autoriferimento (ahamkâra) della metafisica indiana è la “condizione elementare”. Se ripieghiamo questo “principio di autoriferimento” su se stesso, staccandolo così dai contenuti delle sue esperienze, abbiamo: “IO uguale IO, cioè una nuda esperienza, un possesso, qualcosa di semplice e di ineffabile”198. Questa uguaglianza dell’identità è il “punto di centralità pura di cui parlano le Upanishad”. Essa si presuppone di fatto e di diritto a tutte le altre esperienze particolari, che sono un qualcosa che viene dopo, un posterius rispetto a quel “conoscente che non è mai conosciuto”. Non si tratta di semplici nomi o di astrazioni concettuali ─ Io “empirico” o Io “trascendentale”, Io “superiore” o Io “inferiore” ─ ma del mio Io quale “assoluta presenza […] immoltiplicabile”. L’Io è “solo e senza un secondo”199. Fermiamoci un istante davanti alla soglia del solipsismo, “questo spauracchio dei semifilosofi”200. 197 Ivi, p. 41. Ibid. 199 Ivi, p. 42. 200 J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit. Cfr. J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, pp. 179-180: “Dinanzi al solipsismo i filosofi idealisti quasi senza eccezione indietreggiano. Si direbbe che questa dottrina è troppo forte per loro, che essi ne abbiano paura, per cui vengon messe su speculazioni varie per evitarla, anche a costo di contradire i principî-base della loro filosofia. In pochi casi come questo, si palesa l’efficienza di un elemento ateoretico che si lega essenzialmente al fatto che l’idealista come uomo di solito resta un piccolo borghese il quale prova l’orrore del vuoto, che non sa dare un valore indipendente al proprio essere, che può ammettere bensì che «il mondo è la mia rappresentazione», ma non fino al punto di sentirsi solo, di non aver bisogno che altri soggetti, intorno a lui, siano. Del resto, le ragioni con le quali di solito si cerca di evitare il solipsismo non sono tanto d’ordine teoretico, quanto d’ordine morale. Invece proprio per questo, vale a dire per il suo implicare la distruzione di una angoscia e di una insufficienza esistenziali fondamentali, il solipsismo va assunto come premessa nella teoria dell’Individuo assoluto” Cfr. anche J. Evola, Sulle ragioni del solipsismo, L’Idealismo Realistico, Anno II, fasc. 6-7. 15 marzo – 1 aprile, pp. 38-44, ora in J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), a cura di Gian Franco Lami, Antonio Pellicani Editore e Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 73: “Il solipsismo è la dottrina che contesta che si possa coerentemente affermare l’esistenza in sé di qualcosa fuori che l’Io individuale e il suo mondo; in secondo luogo, che in questo mondo stesso vi possa essere qualcosa che abbia uguale dignità di questo unico Io; in terzo luogo, che si possa connettere verità e certezza a quanto ─ 198 79 Capitolo II Ora, Evola ritiene che da questo livello parlare di altri sia una contraddizione in termini. Gli altri Io infatti, essendo altri, non sono Io ma semplicemente dei particolari contenuti nella mia esperienza. Sono degli oggetti, dei conosciuti, al più il concetto di un soggetto e non il soggetto stesso che, in quanto tale, è unico e incomunicabile. Gli “altri” sono i fenomeni particolari del fenomeno totale che è il mondo. Ad esso io mi sveglio quale individuo mentre gli altri continuano a dormire: “ne partecipano la contingenza”. Del loro principio io non ho nessuna certezza. L’Io sta agli altri come la terra ferma al gran mare dell’essere. Per Evola, chi non è giunto a dubitare della realtà degli altri soggetti, a concepirli come “mie rappresentazioni”, non è maturo per il passaggio alla terza epoca “perché non ha ancora perfettamente realizzato la pura essenza dell’individuale”201. Non si può avere certezza di nulla se prima non si è saputo dubitare di tutto. Terza fase. Superamento del negativo. Nel deserto della rappresentazione l’individualità s’alza in piedi. E Oltre l’ordine dell’apparenza in cui sprofonda ogni cosa trae da sé un principio che fissa una nuova realtà: “Questo principio è: LA POTENZA DI DOMINIO. L’Io, infatti, non è una cosa, un ‘dato’, un ‘fatto’, ma, essenzialmente, un centro profondo di volontà e di potenza”202. Come per Fichte, che il filosofo romano qui richiama, il puro porsi dell’Io è il suo “essere”. Questa è la natura di quel punto fermo realizzato nel secondo stadio. Esso “può comunicare la propria consistenza a quel che non ne ha” attraverso la incondizionata potenza dell’individuale. Riassorbendo i diversi gradi di quella realtà che prima non era partecipata dalla volontà dell’Io. E appariva in bruta contingenza, “quasi come in un sogno”. Il criteri della certezza che si impone a questo punto è espresso dal seguente principio: sempre all’interno di un tale mondo ─ non sia condizionato da una assoluta affermazione dell’individuale”. 201 J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 43. 202 Ibid. 80 Capitolo II “Vi è assoluta certezza ─ ed è postulabile realtà ─ soltanto di quelle cose, dell’essere o del non essere dell’essere così o dell’essere altrimenti delle quali l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il principio o la causa; delle altre, solamente nella misura di ciò che in esse soddisfa ad un tale criterio”203. Per sviluppare la posizione della coscienza nel terzo stadio Evola considera “la unica vera obbiezione incontrata dall’idealismo assoluto”: la dottrina che cerca di trasformare in positivo quel lavoro negativo che definisce il secondo stadio. Il mondo non è più inteso come fenomeno o semplice apparizione ma come qualcosa di posto, di creato dall’Io. È chiaro che Evola parla del mondo, come Vico parla della Storia, cioè, dell’unica porzione della realtà di cui è creatore. Pertanto se ora non si parla di rappresentare ma di porre e creare, debbo domandarmi: “Io posso ben ridurre il mondo alla mia rappresentazione, ma fino a che punto posso ridurlo anche alla mia volontà ed alla mia libertà?”204. Siamo ad un punto fondamentale: la differenza tra spontaneità e volontà. La prima si ha laddove l’atto, essendo il possibile identico al reale, “l’atto ha la forma di una inconvertibile compulsione, di un bruto accadere e scatenarsi, ed è passivo, impotente rispetto a sé stesso”. Nella seconda invece vi è una eccedenza del possibile sul reale. Un punto di autarchia, di potestas domina l’atto che è solo uno dei compossibili. Si badi: tanto la spontaneità che la volontà possono dirsi libere. Ma nella spontaneità la libertà è affatto negativa, è semplicemente quella del non impedito, significa “non essere determinato dall’esterno”. Nella volontà invece essa è positiva e significa “assoluta assenza di condizioni” interne ed esterne. Si ha quindi la contingenza o arbitrarietà dell’atto205. Questa importante distinzione non poggia tanto sul concetto quanto “sur un dato immediato di coscienza”: una evidenza interiore che o si ha o non si 203 Ivi, p. 44. Ivi, p. 45. 205 Ivi, p. 46. 204 81 Capitolo II ha. Quando l’idealista assoluto davanti alla realtà afferma esser stato l’Io a porla, si riferisce ad una spontaneità, non ad una volontà. Egli si riferisce a quell’“elementare ‘assenso’ onde ci si accorge” delle cose, ad una attività elementare. Quella con cui le cose vengono percepite, fatte nostre dall’io. Un simile assenso se da una parte è condizione necessaria per ogni realtà, dall’altra è ben lungi dall’esserne anche condizione sufficiente: “Infatti nel rappresentare il reale non è dominato dal possibile”l’Io è passivo rispetto al proprio atto ─ non tanto afferma le cose, quanto piuttosto è come se le cose si affermassero in lui”206. La rappresentazione è qualcosa di mio, che traggo dal mio interno, ma non è me perché non posso offrirla liberamente a me stesso. La realtà che ho davanti è questa realtà, non quella che io voglio. Di conseguenza: “In tanto l’idealista può dire di essere stato lo Io a “porre” la natura, in quanto egli riduce l’Io a natura, cioè in quanto di quell’Io, che è libertà, non sa nulla, o, per meglio dire, fa come se non sapesse nulla, e, con evidente paralogismo, mutua il concetto di Io con quello del principio di spontaneità”207. Posso dire che pongo la natura in quanto spontaneità ma non in quanto Io, “e cioè libertà e dominazione”. Il realista avanza una istanza legittima quando chiede, davanti ad una qualsivoglia contingenza dell’esperienza ─ una tempesta ad esempio ─, se siamo stati noi a porla. L’idealista risponderebbe affermativamente perché per lui “‘porre’ significa rappresentare con ‘libera necessità’”. Per Evola invece, che si riferisce ad un porre comandato dal “principio del dominio e dell’incondizionata libertà”, la tempesta non è posta dall’io. Ha ragione il realista allora, che da questa insufficienza dell’io inferisce ad una causa reale delle rappresentazioni ─ sia essa poi Dio, la materia, il noumeno etc.? Qui sta la svolta: 206 207 Ibid. Ivi, p. 47. 82 Capitolo II “Dire che Io, come Io, cioè come principio sufficiente e libero, non posso riconoscermi come causa incondizionata delle rappresentazioni, non vuole affatto dire che queste rappresentazioni siano causate da “altro” e abbiano per substrato delle cose reali o esistenti in sé stesse, ma vuole semplicemente dire che io sono insufficiente ad una parte della mia attività, la quale è ancora spontaneità, che una tale parte non è ancora MORALIZZATA, che l’Io come libertà in essa soffre una PRIVAZIONE”208. Tutto ciò che resiste alla mia volontà è privazione di questa stessa volontà, non-essere. Il realismo va quindi respinto perché nel suo rifarsi ad un “altro” trasforma l’essere in non-essere e chiama con il nome di realtà solamente la privazione della mia potenza: “un vuoto nel corpo immoltiplicabile della mia attività” o, più semplicemente, l’irreale. In tal modo esso conferma la privazione e se ne fugge. All’atto che domina, possiede, annulla le cose redimendo la privazione, sostituisce l’atto che superstiziosamente (come quel che resta d’un atto insufficiente) dona loro una realtà autonoma209. A noi, questo “non-essere” del realismo parrebbe invece semplicemente un essere non-voluto, una naturalità-spontaneità non ancora consapevole nell’Io, ma non per questo meno “reale”. Il criterio di certezza di questa terza fase ora chiede che “l’Io libero e nudo” dell’individuo affermi il principio dell’idealismo assoluto dicendo: 208 Ivi, 48. Cfr. J. Evola, La filosofia di Adriano Tilgher, in L’Idealismo Realistico, Anno V, fasc. 12, 1 dicembre 1928, pp. 27-34, ora in J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., p.132. “Si tratta di una vera e propria «moralizzazione» dalla quale scaturisce, per prima, l’esperienza della realtà. Interessante e suggestivo, nella teoria di Tilgher, questo punto, che spiega l’ontologia con l’etica. Il senso che le cose siano come cose reali e non come immagini di sogno ─ egli dice ─ non è un «dato», non ci viene da fuori, non è una cosa propria all’indistinta immedesimazione primitiva. Solo quando la coscienza si sveglia e si stacca, solo quando balza in piedi e dice: Io, solo allora nasce il potere di dire: è o non è, ed un reale ed un irreale si differenziano sull’indefinibile stoffa dell’esperienza pura. Reale non è null’altro che ciò in cui l’io proietta quel senso irrefragabile di «essere» che egli ha destato in sé; è ciò, dunque, in cui egli riesce a sentirsi ricongiunto con sé, in cui vede inciso il suo stesso nome, ciò senza di cui, come Io, non sarebbe, onde dice: Deve essere. Allora il mondo non è più mondo: è già un significato, un valore morale. 209 Ivi, p. 48, nota 1: “Naturalmente: le annulla in quanto sono altre, per affermarle invece come gesti di una volontà potente”. 83 Capitolo II “In verità, io stesso son la causa ed il Signor di questo mondo, in cui mi vivo”210. Quando sarà possibile affermare una cosa simile? Quando l’individuo avrà redento “in un corpo di libertà l’oscura passione del mondo” o, più filosoficamente, quando avrà fatto passare la forma della rappresentazione da spontaneità (coincidenza di possibile e reale) a “volontà potente” (eccedenza del possibile sul reale). Evola tiene a precisare come questa trasformazione non sia un mito ma possibilità reale. “Si può dire soltanto che è un compito a cui né cultura, né devozione, né filosofia, né arte, né morale, né nient’altro di ciò che gli uomini chiamano “spiritualità”, può portare il menomo contributo. Quanto alla filosofia, il suo limite è l’idealismo magico, in cui perviene a riconoscere la propria insufficienza e a postulare la realizzazione della potenza come ciò in cui i suoi massimi problemi possono trovare l’unica assoluta loro soluzione”211. In una tale veduta, l’atto di dominio ha un valore cosmico. Il realismo al contrario toglie ogni significato e scopo all’attività, che ha un valore ─ il valore dell’essere ─ solo quando vi è da far reale qualcosa che ancora non lo è. L’‘altro’, “ciò che rispecchia il limite della mia libertà” non è realtà, ma vuoto e negazione da integrare nell’atto dell’Individuo. Il mondo è qualcosa di imperfetto che invoca la propria risoluzione nella libertà: “l’attualità potente dell’Unico” che s’afferma su quanto ne è la privazione212. Se l’altro è reale, tutto è già completo. Viene così meno ogni responsabilità, “giacché i vuoti del mio essere non sono anche vuoti dell’essere in generale: l’‘altro’ […] li riempie”. Nell’altra possibilità invece il mondo è una preghiera rivolta all’io perché questi si realizzi secondo potenza redimendolo dalla privazione e “in ciò lo faccia reale”. Qui, il divenire è per mia 210 Ivi, p. 49. Per la teologia cattolica Satana è “il principe di questo mondo” (per San Giovanni e per San Paolo, il “dio di questo mondo”. 211 Ibid., nota 1. 212 Ivi, p. 50. 84 Capitolo II volontà213. Esso ha “valore cosmico”214. Ma questo si verifica solo se finalmente si ammette una coincidenza “naturale”e non un contrasto tra io e natura-mondo. Torniamo alla posizione realistica. Questa per Evola si fonda sul presupposto dell’inconcepibilità d’una attività limitata. Se un’attività soffre una limitazione deve esserci qualcosa che sia causa di questa limitazione. “Infatti così sta la quistione nel problema della conoscenza”: nelle cose noi dobbiamo distinguere due aspetti. Quanto al primo, esse dipendono dall’attività dell’Io in quanto rappresentate. Il secondo riguarda invece il lato negativo dell’attività individuale, la sua impotenza di “trasmutare la percezione come si vuole”. Il realismo si basa proprio su questo, ossia sul bisogno di spiegare questa limitazione. Insomma, esso “sente il bisogno di spiegare la limitazione con qualcosa di ‘altro’; si riferisce dunque ad una realtà distinta dall’io come causa delle rappresentazioni”215. Un tale presupposto è per Evola contestabile perché vittima della posizione platonica e spinoziana, espressa dal principio: Ciò che è veramente, è l’universale; il particolare da per sé stesso non esiste, cioè: in ciò che esso è, è l’universale, e in ciò che è propriamente particolare non è, è fredda e piatta negazione”216. A questa concezione Evola ne oppone un’altra che, all’opposto, non presupponga al finito e al particolare l’assoluto ma ammetta che “ciò che sta prima sia precisamente il finito e il particolare” intesi come qualcosa di cui l’assoluto sia lo sviluppo in un processo continuo dal meno al più217. Dalla potenza all’atto. L’infinito non è negazione del necessitato ma realizzazione del finito. La differenza tra i due non è qualitativa ma riguarda il quantum di attualità e di essere, il grado della loro intensità. 213 Cfr. F. Nietzsche, frammento 617 de La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 1992, p. 337: “Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza”. Poco sopra Evola ha definito l’atto di domino come “volontà potente”. Cfr. anche il frammento 1037: “Dio è la suprema potenza ─ e basta! Da lei deriva tutto, da lei deriva ‘il mondo’!”, ivi, p. 546. 214 J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 51. 215 Ivi, p. 51. 216 Ivi, p. 52. 217 Ibid. 85 Capitolo II Ebbene, in questa concezione sviluppo, sintesi e divenire non sono un “vuoto nome” perché la spiegazione di quel che viene prima, e a cui inerisce un dato quantum di privazione, “non sta indietro […] bensì avanti”218. Ciò che è incompleto si integra nel processo della “potenza che arde nell’atto”, quindi non vi è da spiegare ma da agire. Il concetto di privazione è relativo. Un determinato elemento è sempre in relazione al valore autarchico e mai privazione in sé. Il passaggio ad un tale valore fa di un elemento positivo o spontaneo, un elemento negativo o “in potenza” rispetto al punto ulteriore. Chi non passa dal piano logico a quello della volontà trova inintellegibile il concetto di privazione. L’idealismo astratto resta così “l’ultima istanza”. Chi vuole può passare oltre grazie ad “un assoluto positivismo”219. Una cosa immaginata ed una reale sono entrambe ugualmente rappresentate. Ma sulla cosa reale la mia attività rappresentativa è impotente: “Vi sono elementi su cui non posso. Questo è tutto”220. E questo tutto non tollera spiegazioni intellettualistiche. Al circolo vizioso della spiegazione Evola oppone il circolo virtuoso dell’azione. Il concetto di “altro” ha il suo fondamento in quello di “impotenza” che è ciò che sta prima. Le cose reali sono i simboli della mia privazione. “È perché sperimento una privazione che chiamo reale una cosa e non viceversa”. Le spiegazioni intellettuali “non ci servono e non ci bastano” non perché si faccia aperta professione di agnosticismo ma perché esse lasciano i fatti così come sono e non trasformano il mio rapporto col mondo. La miseria e la contingenza del finito vengono forse rimosse quando le si voglia spiegare con la materia al posto di Dio o con l’Io trascendentale al posto della materia etc.? Queste sono “cattive e a buon mercato astrazioni”. Non così per l’idealismo magico che esige una spiegazione ─ che Evola strappa al suo etimo: ex-plicare: attuare, rendere perfetto, compiuto ─ essenzialmente diversa: “una spiegazione mediante l’azione, una spiegazione risolutiva”. Dalla potenza all’atto mediante un processo sintetico e creatore. “Questa è la sola, vera spiegazione. Il resto è passatempo”. 218 Ibid. Ivi, p. 53, nota 1. 220 Ivi, p. 54, stessa nota. 219 86 Capitolo II “Noi aspramente combattiamo tutta la rettorica intellettuale e filosofica onde l’uomo si indugia a discorrere intorno alla sua impotenza […] anziché balzare finalmente in piedi, impugnarsi e, ardendola, farsi ciò che in sé è: un Dio, un costruttore del mondo”221. L’Uomo è il grande architetto dell’universo. Se quanto detto appare ragionato con esattezza, resta ben poco da pensare in filosofia. Se L’Io può sperimentarsi immediatamente come energia o principio d’azione che a nulla chiede il proprio essere ─ non esistendo “limite inconvertibile per lo sviluppo del potere” ─ trascendere l’attività imperfetta nel riferimento ad “altro” che la causi è solo l’alibi della paura. “Il sofisma infingardo di colui che […] fugge dall’atto”222. La concezione che ci si presenta infine al terzo stadio è dunque questa: “Un continuum di attività che ha per limiti da una parte la spontaneità, dall’altra la volontà libera. La spontaneità è l’universale, la volontà libera l’individuale. Questi limiti stanno fra loro come potenza ad atto: tutto ciò che nell’esperienza è oggettività, immediatezza, necessità, è, rispetto al punto dell’individuale, il non-essere inerente a ciò che è in potenza ─ e qui si comprenderà forse a che cosa alludessero certi mistici quando parlavano dell’‘oscura passione del mondo’, dell’‘indicibile sofferenza dell’esistenza” in cui il corpo dell’‘Uomo celestiale’ è crocifisso. Di una tale tenebra, di una tale privazione, la libertà è l’atto e la fiamma luminosa; e il mondo diviene […] in e per questa fiamma, cioè soltanto nella misura in cui l’individuo, affermandosi nel punto della potenza e della dominazione, consuma, arde la sua originaria natura, fatta di spontaneità. Da qui un punto fondamentale: solamente nell’‘Individuo assoluto’, solamente nello ‘Autarca’ il mondo diviene reale: la sufficienza che egli si dà a sé stesso dà alla natura un essere, una consistenza, una certezza e una ragione che essa, prima di lui, non possiede già, ma chiede”223. 221 Ivi, p. 56, stessa nota. Ivi, p. 54. 223 Ivi, p. 55-56. Le ragioni d’una citazione così ampia ci sembrano evidenti. E di certo non si spiegano solo con la bellezza incendiaria della prosa di Evola che ha qui concentrato, a tutto beneficio dei suoi non sempre attenti esegeti, il senso ed il valore del suo magismo filosofico. Da 222 87 Capitolo II La natura è cieca. Sarebbe assurdo cercare in essa la verità. Essa è steresis che ha la propria verità e certezza solo quando l’Individuo le ha date a sé: “Il mondo è, soltanto se egli è”. Ed egli da nulla se non dal suo interno può trarre questo essere perché se lo mutuasse da altro non sarebbe più essere (kať aùtos). Se egli non diviene salvatore di sé, “nulla mai potrà salvarlo”224. Spiegazioni, verità non stanno dietro ma avanti e soprattutto non si deducono ma si attuano. L’Individuo è centro assoluto della natura attorno al quale essa gravita: asse di volontà e di potenza. E “come colui che ha in sé stesso il proprio principio, come colui che è ‘ente di possesso’, che è ‘persuaso’, sostiene il peso del mondo”225. In lui e per lui la processione universale ha la sua destinazione, la sua ragione, il suo scopo. Ed un solo imperativo: “SII, fatti Dio, e in ciò fa essere, SALVA il mondo”226. Ora passiamo alle considerazioni svolte da Evola in merito a due importanti problemi: quello dell’essenza e dell’esistenza e quello dell’uno e di molti. Cominciamo dal primo. “Le cose sono essenza ed esistenza”227. L’esse existentiae è opposto all’esse essentiae: con tutta evidenza, osserva kantianamente il filosofo romano, “l’idea di cento talleri e cento talleri reali non sono la stessa cosa”. Principio esplicativo dell’essenza è il concetto. Ma per quanto una cosa possa venir costruita in tutte le note che la delineano nella sua essenzialità, sempre il suo nudo “esser là” ─ così Evola traduce la parola tedesca dasein ─, il fatto che essa sia, costituirà “un punto che non sottovalutare, come abbiamo fatto anche per la “fase artistica”, i numerosi richiami gnosticoescatologici presenti nel testo. Il mondo qui sembra essere il cadavere d’un Uomo-dio che è precipitato negli abissi della materia e che tuttavia conserva in sé l’essere. Da qui la sua funzione cosmica: egli è il salvatore, colui che porta la luce (la parola lucifero etimologicamente non ha un diverso significato). La libertà è la fiamma in cui arde l’Individuo Assoluto illuminando “l’oscura passione del mondo”. Non dubitiamo che per un cattolico, un simile scenario apocalittico possa ricordare più la venuta dell’anticristo che non quella di un dio. Avremo modo di tornare su questo aspetto religioso dell’opera evoliana più avanti. 224 Ivi, p. 57. 225 In ciò l’ottimismo idealistico vizia l’individuo evoliano, che si fa “possessore” del limite dell’impotenza, solo a parole! 226 Ivi, p. 57. 227 Ivi, p. 58. 88 Capitolo II sfugge interamente alla spiegazione razionale”. La cosa è “un alogos” e il principio esplicativo alla sua esistenza è “la volontà o, per meglio dire la potenza”. L’essenza la posso pensare e quindi “costruire” mentre l’esistenza la patisco quale bruto dato che si impone con violenza al mio volere. Ma se la mia volontà avesse potenza creatrice, l’esistenza delle cose oltre il loro concetto sarebbe spiegata: “Essenza ed esistenza hanno dunque per rispettivi principi esplicativi la costruzione ideale per opera del pensiero e la causazione reale per opera della volontà”228. Un punto ancora. Tra essenza ed esistenza “non vi è differenza di natura, ma soltanto di grado”. La realtà è l’atto dell’idea così come l’idea non è che una realtà in potenza. Tra di esse non vi è salto ma progressività. Il pensiero di cento talleri e i cento talleri reali che abbiamo già incontrato e che sappiamo non essere la stessa cosa , non lo sono non qualitativamente ma intensivamente: “i cento talleri reali sono la più profonda, intensa potenza, relativa propriamente all’atto magico, dell’affermazione corrispondente ai cento talleri pensati”229. Il pensiero è potenza e non “l’immagine impersonale di una realtà oggettiva”. Vi sono quindi due esistenze. L’esistenza che è morte, irrealtà e privazione: “quella corrispondente alla spontaneità rappresentativa”, residuo della prima epoca. E l’esistenza che è realtà assoluta: “quella che una volontà elevatasi a potenza può incondizionatamente produrre”. Tra le due, l’ordinaria attività mentale quale primo grado della libertà che può procedere verso la sua perfezione: “Allora da oscura passione e da feroce deserto fatto di privazione, il mondo si farà l’atto steso dell’individuo, ed in ciò sarà redento e persuaso”230. Il teorema evoliano dell’essenza e dell’esistenza si chiude con questo paradossale corollario: “l’errore non è che una verità debole, 228 Ivi, p. 59. Ivi, p. 60. 230 Ivi, p. 61. 229 89 Capitolo II la verità ─ che un errore potente”. L’atto magico – “come mago si potrebbe definire colui che sa suggestionare la stessa natura” ─ può far sì che l’errore e l’illusione divengano, attraverso la potenza dell’Io, verità. E questo vale per qualsiasi campo231. Riguardo invece il rapporto tra ontologia ed etica, reale significa perfettamente voluto e irreale privazione della volontà. Il male è una volontà insufficiente e imperfetta. E niente di diverso è l’errore. Si legga con attenzione questo passo: “Male ed errore sono una sola e medesima cosa nel senso che fondamento comune ad entrambi è l’impotenza. Sono in verità di un fondamentale valore quelle dottrine, attualmente quasi dimenticate, che riponevano il male nella materia, intendendo in questa quel residuo di necessità che resiste all’idea ─ cioè alla libertà ─ e la limita. La materia ─ l’‘altro’ platonico ─ è effettivamente il segno dell’imperfezione dell’atto e, in quanto esistente, si connette a quell’elementare ‘ingiustizia’ di cui Anassimandro, Parmenide ed Empedocle parlano ─ ed è, essenzialmente, il male. Non vi è altro male fuor che la necessità, di cui la materia, la bruta esistenza è la testimonianza; e finché l’Io non potrà fare a meno di avere l’esperienza della materia ─ di questo ‘altro’ di contro ed oltre lui ─ egli sarà imperfetto: cattivo, impuro, irrazionale”232. Evola realizza nel suo sistema la coincidenza di metafisica ed etica. Misura di tutto è la potenza o perfezione dell’atto: “per virtutem et potentiam idem intelligo”233. Il Bene o la virtù è la potenza, la volontà libera di essere e di fare ciò che vuole. Il male è l’impotenza, l’insufficienza e la debolezza. “Il resto è sciocchezza e lo si può lasciare alle donne, ai mistici ed ai poeti”. Quanto alla morale, essa non è più “valore cosmico”. Si è ridotta alla “canonizzazione della deficienza”, della debolezza e della paura. In una parola: dell’immoralità234. 231 Ivi, pp. 61-62. Ivi, p. 62. 233 Ivi, p. 63. 234 Ibid. 232 90 Capitolo II L’Uno e i molti Veniamo ora al secondo dei problemi indicati. Quello dell’uno e dei molti. Poco sopra abbiamo visto che il passaggio della coscienza alla seconda fase implica il solipsismo235: “l’impossibiltà di ammettere coerentemente una molteplicità di soggetti o Io come ultima istanza”. Questo perché l’Io è una certezza immanente immoltiplicabile, “una nuda esperienza che media tutto e che da nulla è mediata”236. Gli “altri” Io al contrario, non sono. Con un gioco di parole che andrebbe preso terribilmente sul serio Evola afferma: “Gli “altri Io” in quanto sono “altri” non sono Io e in quanto sono “Io” non sono altri, ma me stesso”. L’Io solo è, come l’Uno dei Pitagorici, e gli “altri”, come ogni numero, sono solo in virtù di esso che ne è centro di correlazione. La questione fondamentale: come si pone l’Io? Seguendo il criterio di certezza proprio della terza fase Evola risponde: “L’Io è il centro, ciò che comprende tutto e che, lui, da nulla è compreso”237. I vari esseri non hanno una propria realtà ma costituiscono il “‘corpo’ dell’Io”. Questo corpo è però affetto da privazione, non è ancora risolto in perfetta armonia. Non è ancora potenza compiuta. Ecco perché gli “altri” sembrano avere una loro vita, agire indipendentemente da me, resistermi etc. Ma in realtà non esiste altro che il mio Io e gli altri io non sono che “parvenze causate appunto dalla finitudine di questo mio essere, epperò non aventi alcuna realtà in sé stessi, come ‘altri’”238. La finitudine della mia unica coscienza non si spiega con una teoria ma mediante l’atto che la rende assoluta. Il processo di realizzazione dell’Io parte quindi non dai “molti” ma dall’“Uno” in uno stato di insufficienza (parvenza di altri intorno e di contro a lui) all’“Uno” in uno stato di pienezza (parvenza consumata dalla potenza dell’Io in perfetta unità). Dunque, Dio o il soggetto universale non è ancora l’individuo e non è già al suo fianco: 235 Ibid. E in nota 1: “Si può ricordare il detto del Weininger, che ‘il ritrarsi spaventati dinnanzi al solipsismo è l’impotenza di dare un valore indipendente all’essere, l’incapacità ad una solitudine opulenta, il bisogno di cacciarsi nella folla, di scomparire, di tuffarsi nel numero. È viltà”. 236 Ivi, p. 64. 237 Ivi, p. 65. 238 Ibid. 91 Capitolo II “Fra persona e soggetto universale vi è rapporto non di coesistenza e di alterità, bensì di continuità e di progressività. In una parola: la persona è il soggetto universale in potenza, il soggetto universale l’atto della persona”239. Di là dalla sua “in potenza” l’individuo può, nell’atto, esistere come “il soggetto dei soggetti, la monade delle monadi ─ Dio: non prima. Dio non esiste, occorre che l’individuo lo crei, facendosi divino”240. Il principio dell’Io unifica e dona la vita alla materia inorganica trasmutandola in vivente corpo della sua potenza. Arrivati a questo punto, non stupisce che il giovane filosofo sigilli il suo egocentrismo metafisico con una citazione degli Atti apocrifi di Giovanni in cui il Cristo parla del “raccoglimento delle membra dell’ineffabile”, dello “antropos arretos”. Ed io ─ l’Unico ─ innalzo tutte le creature dalla loro coscienza alla mia, perché in essa divengano unità”241. Possiamo ─ come del resto fa lo stesso Evola in chiusura di questo suo intenso scritto ─ raccogliere quanto detto in una estrema sintesi. Punto di partenza: l’universale che costituisce il grado più povero della realtà, terminus a quo. In esso l’essere non si possiede ma è come pura spontaneità. Luce per l’io non ancora nato. Primo momento: oscurità per l’individuale che sprofonda nel mondo dell’apparenza e della rappresentazione. Secondo momento: il dolore della privazione, “indicibile crocifissione nel mondo della necessità”242. Terzo momento. L’individuo vive questa morte come materia della sua potenza: “sorge il fiore terribile dell’Individuo assoluto”243. Punto di arrivo: le cose e gli esseri muoiono nella vertiginosa apoteosi di colui che diviene, spaventevole nella sua 239 Ivi, p. 66. Ivi, pp. 66-67. 241 Ivi, p. 67. 242 Ivi, p. 68. 243 Ibid. 240 92 Capitolo II purità, Signore del Sì e del No e Dominatore dei ‘tre mondi’. E in lui, ente di possesso, ente che “arde e fiammeggia”, il processo dell’universo avrà con il suo atto, la sua consumazione o perfezione finale, terminus ad quem. Qui bisogna intendersi: la perfezione è l’atto della dissoluzione. Meglio: la salvezza si ottiene attraverso la consumazione del mondo, di questo mondo. Ma per Evola non ve n’è un altro. La distruzione gnostica della materia libera la luce in essa imprigionata e la sua liberazione è affermazione-negazione del micro-cosmo. Da qui il monito e serissimo invito: “Sappia dunque l’individuo ciò che fa”244. Questo è “il senso del sistema” che Evola sostiene. Un sistema in cui egli ha fuso ─ con rigore filosofico ─ il problema dell’essere e quello della conoscenza, quello etico e quello magico, rivendicando all’individuo il suo valore. Il suo compito e la sua dignità cosmica: “È ciò che io riconosco come verità, o, per meglio dire, è ciò che io voglio come verità”245. L’importanza di questo scritto del giovane Evola ci appare evidente. Non a caso l’autore l’ha definito come la sua sintesi. In esso troviamo mirabilmente condensati ─ con una poeticità che li rendono, più che pensieri razionali, dei quadri teoretici ─, tutti gli snodi essenziali dell’idealismo magico. Abbiamo per questo pensato di servircene come chiave ermeneutica che consenta l’accesso/comprensione alle opere maggiori, non nella loro completezza, ma negli aspetti che riteniamo più attuali: il problema della liberazione e quello ad essa intimamente connesso del nichilismo. Ora è però opportuno esaminare la conferenza del pensatore romano dedicata a Nietzsche e alla sapienza dei misteri in quanto sarebbe difficile trovare, nel complesso delle sue opere, ma anche al di fuori di esse, una simile esaltazione dell’anomia espressa con un fanatismo (da fanum, tempio) che non dovrebbe lasciar dubbi sull’effettiva consistenza dell’anticristianesimo evoliano. Un 244 245 Ivi, p. 67. Ivi, p. 69. 93 Capitolo II anticristianesimo affatto cristiano246. Ricordiamo che entrambe le conferenze sono del 1925, anno in cui Evola aveva già terminato tutte le opere del suo sistema, anche se solo i Saggi sull’idealismo magico avevano, a quel tempo, visto la luce. Opere che, secondo la nostra valutazione, non sono che la maschera essoterica, e quindi dialettica/razionale/discorsiva ─ in una parola: filosofica ─ d’una esperienza e di un sapere esoterico, e quindi sottile/metarazionale/intuitivo ─ in una parola: magico ─, tradotto in un lingua comprensibile dai tecnici del pensiero del tempo, quella idealistica, al fine di legittimare una fuoriuscita filosofica dalla filosofia. Filosofia come magia in-potenza, magia come atto della filosofia. Queste parole di Bataille ci aiutano ad esprimere quel che pensiamo rispetto all’esigenza filosofica dell’Evola: “Vorrei che il mio atteggiamento fosse esattamente inteso. Innanzi tutto io non parto da nessun presupposto, e nessun presupposto mi sembra più perfetto di una simile assenza. Nulla mi lega a una qualsiasi tradizione particolare. Posso però dire che nutro un qualche interesse per l’occultismo,o per l’esoterismo, in quanto risponde alla nostalgia religiosa, da cui mi distacco in quanto nonostante tutto implica una fede data. Aggiungo che, al di fuori di quelli cristiani, i presupposti occultistici sono ai miei occhi i più fastidiosi, poiché si affermano in un mondo dominato dai principi della scienza, voltando loro deliberatamente le spalle. E finiscono per fare, di colui che li accetta, qualcosa di simile ad un individuo che, pur conoscendo l’esistenza del calcolo, si rifiuti di correggere i suoi errori di addizione. La scienza non mi rende cieco (se lo fossi, non potrei rispondere alle sue esigenze) e neppure mi spaventa il calcolo. Accetto che mi si dica «due più due fanno cinque», ma se qualcuno, con fini ben precisi, si mette a far dei conti con me, rifiuterò la pretesa identità del cinque e 246 Al riguardo facciamo nostre le acquisizioni dell’eccellente studio di P. Di Vona, Esame della filosofia di Evola, in Delle rovine e oltre, op. cit, p. 147: “Sappiamo benissimo che molti estimatori del filosofo romano si sentiranno offesi e dispiaciuti dal nostro aver presentato la filosofia di Evola come spettante ancora al pensiero cristiano, sia pure in una sua esasperata e non comune formulazione. Ma ci si intenda: noi non mettiamo in questione ciò che Evola fu nella coscienza, e ciò che Evola sentì di sé stesso. La questione concerne solamente i principi coi quali costruì la sua filosofia. Sono questi ultimi che per noi sono ancora cristiani, anche se non lo sono tutte le applicazioni e le utilizzazioni fattene da Evola”. L’antropocentrismo cristiano approdato al protestantesimo non può infatti che preludere a Hegel e all’idealismo che Voegelin chiama dello “stregone” ed Evola del “mago”. 94 Capitolo II del due più due. A mio avviso, nessuno è in grado di porre il problema della religione muovendo dalle soluzioni gratuite che l’attuale spirito di rigore rifiuta. Io non sono uomo di scienza, giacché parlo di esperienze interiori e non di oggetti, ma quando parlo di oggetti, lo faccio come gli uomini di scienza, con il rigore necessario”247. Il sistema dell’idealismo magico è l’esposizione rigorosa d’un nuovo modo di contare: quello sub specie interioritatis. Il solo che possa consentire l’addizione magica del “due più due fanno cinque”. Evola è, riguardo al metodo, un positivista ed un logico. Nella sua opera il rigore e la chiarezza della scienza vengono trapiantate sul terreno dell’esperienza interiore, che illumina e dona loro un senso: quello della perfezione dell’Individuo. La filosofia, in questa ottica è ancilla magiae. Ma magia è, secondo la definizione del Bacone, metafisica pratica. E come un filosofo della pratica Evola si presenta con il suo continuo richiamo, fin dallo sconvolgimento dadaista, allo sperimentare, al fare, all’operare: Primum vivere, deinde philosophari. Ma il filosofare è solo un aspetto dell’azione. Meglio, la propedeutica all’agire. E guardato dopo il suo abbandono, a salto compiuto, sarà pensiero dell’illuminazione. Un vecchio barone dirà compiaciuto, pensando alle sue opere giovanili: “Non mi sono mai fatto giocare dal pensiero”248. Dioniso Evola definisce sprezzantemente religioso l’atteggiamento di chi “creda che il mondo sia fondamentalmente retto da un principio di ordine, di armonia e di bontà”249. L’opposto della “mia attuale esperienza”, che mi presenta “un mondo tutt’altro che ordinato e razionale”. Una trascendenza intesa quale fonte di ogni realtà annienta l’Io rimettendolo ad un “altro che me”250. Qualcosa appunto mi trascende e io credo che questo qualcosa esista. 247 Georges Bataille, L’erotismo, Se, Milano, 1997, p. 32. Il grassetto è nostro. J. Evola, Il cammino del cinabro, p. 56. 249 J. Evola, L’Individuo e il divenire del mondo, op. cit., p. 72. 250 Ibid. 248 95 Capitolo II Chi percorre la via di Dioniso invece non ha alcuna “necessità di inventare Dio”251. L’“Io trascendentale”, la “dialettica dello Spirito”, la “legge morale” etc. sono il travestimento del Dio della religione, ossia dell’ottimismo che ammette l’esistenza di un mondo provvidenziale di fianco a questo mondo che è oscurità, irrazionalità e caos. Sono solo paura e consolazione. Il credente, rimettendo ad altro il suo essere, deriva da questa sua “tendenza a scartare” l’obbedienza alla legge morale. Egli rinuncia ad essere libero. Ma una legge, anche se interiore, non smette di essere tale ed esprime, se mai, una necessità più profonda. Ora per Evola, l’“iniziatica”, l’aspirazione esoterico-magica che lo muove, non ha nulla a che fare con “un simile ordine di valori”, con ciò che egli chiama cristianesimo (dogma, provvidenza, trascendenza teistica e grazia): “la religione-tipo, il punto in cui la coscienza religiosa in generale ha definito sé stessa”252. A questa fede “ignava” egli oppone la “Sapienza dei Misteri” (Buddha, Dioniso, Mithra, Ermete): “due direzioni incomunicabili, perpendicolari”. Una simile sapienza gli sembra caratterizzata da “un assoluto positivismo”. Essa è la via “di chi fissa in viso, senza veli” la realtà “nella sua natura tragica a-provvidenziale”, e “non fugge, non vuole il mondo diverso da quello che è, ma lo vuole assolutamente, infinitamente quello che è. Tale è, diciamolo sin d’ora, la via di Dioniso”253. Essa inoltre ha il suo culmine o atto “in una dottrina che qualcuno di vista corta darà forse tentato di chiamare ‘profana’: nella dottrina di Friedrich Nietzsche”254. L’uomo dionisiaco non riconosce diritto morale all’esistenza d’un mondo regolato, giusto, razionale. Egli è potenza che, nel salvare se stesso, salva il mondo quale suo riflesso. Ed Evola si cura di specificare che questa posizione non procede da ateismo ma 251 Ibid. Cfr. anche J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee, 1994, p. 22: “[…] in un testo tardo orfico-pitagorico, oltre alle quattro età indicate da Esiodo e corrispondenti agli yuga indù, viene considerata un’ultima età, messa sotto il segno di Dioniso. Ora, Dioniso anche dagli antichi è stato considerato come un dio simile a Shiva, in uno dei suoi aspetti principali messi in risalto dal tantrismo della Mano Sinistra”. 252 Ivi, p. 73. 253 Ibid., nota 1. 254 Ivi, p. 75. E ancora a p. 90: “[…] troviamo detto ad alta voce in Nietzsche ciò che per millennî non fu udito che da bocca o orecchio nei circoli più chiusi delle più chiuse iniziazioni”. 96 Capitolo II “dall’affermazione che se Dio è ‘ciò che è da sé stesso’, non vi è che un modo di provare Dio ed è: farsi Dio”. Da qui l’inutilità di discorsi sull’assoluto dal livello di una vita che non è tale: quel che importa è “andare avanti, realizzarsi: e quindi, soltanto postulare la possibilità a ciò” col massimo rigore possibile255. Questo è il senso dell’operazione evoliana. “In una parola: quale è il concetto di Dio ─ id, quo majus cogitari non potest?”256. Il vertice della religiosità è “concepire Dio come colui in cui realtà e possibilità, libertà e legge, atto e fatto sono una sola e medesima cosa (‘Ego sum qui sum’)”257. Ma questo non è affatto il punto più alto, anzi è soltanto il terminus a quo. Di contro a colui che semplicemente è (il possibile è identico al reale) sta colui che è libero di essere o di non essere (il possibile eccede e domina il reale): “Io non sono questo, questo non è me, potenza infinita di cui esso non è che creatura contingente”258. Dio è “assoluta libertà”: superiore ed indifferente ad ogni legge o valore. Questo “concetto arbitraristico” di Dio insieme a quello che lo vede come “ipostasi dell’oggetto della nostra volontà” definisce in senso magico la realizzazione iniziatica. Per essa l’uomo ha la “immanente possibilità di attuarsi nell’assoluto”259. Il dualismo della coscienza religiosa stabilisce al contrario una irriducibile alterità fra Io e Dio. La via di chi vuol sottrarsi alla dipendenza non è quella dell’unione, della conoscenza o dell’amore ma quella che sradica, viola ed arde ogni legge realizzando “l’‘assoluta agilità o labilità’ di colui che può tutto260. Evola cita a proposito il termine sanscrito svechchhâchâra: “colui che può fare ciò che vuole”261. Si tratta di uno stadio spirituale, la totale autonomia di là dal bene e dal male, promessa da certi rituali di yoga tantrico connesso al culto di Shiva, l’avatar di Dioniso. Riprendendo un antico mito, il giovane Evola accredita una versione della “caduta” che trae da “un testo kabbalistico”: nell’Eden, il primo uomo non si contentò dell’albero di vita che fluiva in lui, 255 Ivi, p. 74, nota 1. Ivi, p.76. 257 Ibid. 258 Ibid. 259 Ivi, p. 78. 260 Ibid. 261 Ivi, p. 79, nota 1. 256 97 Capitolo II beato e immortale. Volle il dominio della vita, “il superamento dell’essere per il potere dell’essere e del non essere, del Sì e del No”: l’albero del bene e del male. Egli si strappò alla sua originaria innocenza per andare oltre Dio, per superarlo. Ma a quest’atto non fu sufficiente. Lo prese un terrore da cui fu spezzato: “come circuito percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si incrinarono, vennero meno (de-linquere)”262. La colpa, il peccato originale, non sta nell’aver voluto “uccidere Dio” ma nel non esser stati all’altezza d’un tale crimine metafisico. Evola trasforma dunque la tragica scelta della creatura divina in un atto eroico abortito per mancanza d’audacia: “Allora, scatenate da questo terrore, le potenze spirituali che dovevano essere serve immediatamente si precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali”. La potenza sofferta dell’uomo si fece mondo, contingenza la libertà e altro l’identico: “Tale la maledizione scagliata dal Dio ucciso contro colui che fu incapace di assumerne l’eredità”263. Evola pone questo svenimento della potenza sotto il segno di Apollo (“‘apollumi’, verbo greco che vuol dire spegnersi, morire”), il dio della forma264. La volontà che si volge all’esterno per la sua mancanza di tenuta interna, si vive ora esclusivamente come occhio, forma, visione. La conoscenza, in questa ottica, è la realtà di una sconfitta. E forse la possibilità di una sfida ulteriore che dischiuda finalmente “il regno di colui che ─ secondo un detto ermetico ─ è superiore agli stessi dei in quanto con la natura immortale, a cui questi sono astretti, stringe nella sua potenza anche la natura mortale, con l’infinito anche il finito, con l’affermazione anche la negazione, epperò è Spirito, Autarchia”265. Quella in cui viviamo e moriamo è la realtà della paura, “la sua oggettivazione primordiale”. Evola la chiama anche “il demiurgo del mondo oggettivo, il fondamento della categoria dello spazio”. E spazio è “pura forma dell’‘esser fuori’”266. La materia quindi come il frantumarsi del cristallo dello Spirito, come il disgregarsi del suo atto. La degenerazione della volontà abbandona 262 Ivi, p. 80. Ibid. 264 Ivi, p. 89, nota 1. 265 Ivi, pp. 79-80. 266 Ivi, p. 81. 263 98 Capitolo II l’uomo alla necessità: lo toglie all’essere per metterlo al mondo. L’uomo è stato condannato alla prigione del mondo per non aver voluto uccidere Dio. E uccidere Dio significa essere liberi. Ora egli è un “essere dipendente, […] che si appoggia”. Questo suo nuovo status ontologico genera la “categoria del limite”, la solidità e la durezza, anche e sopratutto nel senso di ostilità, delle cose materiali quali “sincope stessa della paura”267. Il limite è il fatto di questa caduta e lo spazio ne è l’atto: “il mondo oggettivo è il nostro ‘grande corpo’ paralizzato ─ congelato o fissato dalla categoria del limite attraverso la paura”268. L’uomo, costretto nello spazio, è alla catena della finalità. Il che conferma la sua dipendenza269. Chi però segua la via di Dioniso non può avere fini in quanto “al di fuori di sé non ha nulla […] da cui trarre norma […] ma buono, vero ecc. si identificano in ciò che egli vuole, solo perché lo vuole”270. E tuttavia questo mondo non è l’ultima istanza. Di là da esso, dalla deficienza dell’autotelos o della ragione centrale vi è la immanente possibilità di operarne la risoluzione. È quella che Evola chiama alchemicamente la “Grande Opera” o, con il Della Riviera, la costruzione del “secondo Albero di Vita”271. Una redenzione da questa gnostica caduta nella materia è allora possibile. Come? La risposta di Evola, seppur declinata filosoficamente, si nutre d’una oscura ed antichissima ribellione, il “non serviam” di Lucifero: 267 Ibid. Ivi, p. 82, nota 1. 269 Si badi: questo non prova che in Evola ci sarebbe una “caduta originaria”. Cfr. una lettera (senza data) di Julius Evola a Tilgher, in Gian Franco Lami, Per una lettura dell’epistolario EvolaTilgher, numero 6, primavera 1995, p. 76: “[…] quel saggio su Dioniso […] ha un valore più d’intuizione e di drammaticità, che non di dottrina; in quantoché nei miei libri è detto chiaramente che il perfetto, a cui si sarebbe venuti meno, nosta dietro, ma avanti, e che il dato originario è la spontaneità, da «moralizzare» trasformandola in volontà, in modo che da un mondo di rappresentazioni necessarie si passi ad un mondo di rappresentazioni magicamente agitabili. Del resto si deve notare che nello stesso saggio su Dioniso, non si parla di una divinità e di una sufficienza iniziali da cui si sia decaduti: l’uomo non è venuto meno alla divinità, ma all’atto con cui ha ucciso la divinità, costituendosi appunto ad individuo, a signore del Sì e del No in opposto alla legge dì identità (=spontaneità) che legava il Dio primitivo. La paura, da cui sorge il mondo oggettivo, è essenzialmente per quest’atto: è il non saper volere a fondo l’atto con cui è stato superato il regno di Dio. Ma, lungi che il ritorno, tutto lo spirito della mia dottrina dice di non venir meno a questo atto, anzi di portarlo a fondo, poiché solo allora l’individuo, quale mago, potrà rientrare in possesso di quei poteri, che nella sua esperienza si scaricarono in forma di esistenze oggettive spazio-temporali”. 270 Ivi, pp. 82-83. 271 Ivi, p. 86. 268 99 Capitolo II “Mediante una volontà che vuole questa caduta sino in fondo, senza terrore e senza sofferenza”272. L’ascesi di Dioniso, il Dio della “grande tradizione delle scienze ermetiche e magiche”, mette “in contatto con l’atrocità originaria di un mondo in cui bene e male […] non hanno alcun senso essendo soltanto potenza, nuda libera potenza”273. Questo si ottiene semplicemente rendendosi “sempre più immorali, capaci di fare qualunque cosa, decisamente, senza paura o rimorso” sulla via di una “immanenza assoluta e sufficiente”274. E vedendo nietzscheanamente “nella crudeltà e nel male la più alta disciplina”275. L’abisso del mondo, dietro il velo apollineo che ne occulta la atrocità originaria, è una voragine senza fondo che l’individuo deve dominare. Osare, squarciare questo velo è l’unico comandamento per “chi voglia veramente scampare dal ‘Dio della Terra’” ─ il Demiurgo276. Chi s’arresta davanti ad un imperativo di tipo etico rimette il proprio limite alla religione (fede in Dio) e non alla teurgia (farsi Dio) essendo ancora un “servo di Apollo”. Quel che gli occorre è invece “scatenarsi”277. “Il delitto (nel senso del tedesco verbrechen ─ ver è rafforzativo di brechen = spezzare) l’atto per eccellenza […] è una necessità per chi anela alla potenza titanica”. Questo atto deve però esser vissuto come “crudeltà di me su me, infrazione della mia legge interiore fondamentale”. Ora tutto è più chiaro: il Dio di cui Evola vuole la 272 Ibid. Ibid. 274 Ivi, p. 89. 275 Ivi, pp. 89-90. 276 Ivi, p. 86. 277 Ivi, p. 90. Ci permettiamo anche qui di mettere in risalto la simpatia di Evola e Bataille. Una occulta affinità che, se adeguatamente indagata, siamo certi riserverebbe spiacevoli sorprese a chi tende a incasellare i pensatori a destra o a sinistra pur di togliersi il fastidio di comprenderli nella loro incollocabile complessità. Cfr. L’amicizia dell’uomo e delle bestia in L’aldilà del sacro, Guida editori, 2000: “Essere, nel senso forte, non vuol dire in effetti contemplare (passivamente) e neppure agire (non liberamente ma in vista di effetti ulteriori), ma precisamente: scatenarsi”. Ovviamente non dimentichiamo che la prospettiva batailleana è molto diversa da quella evoliana, tuttavia, specie in questo suo periodo giovanile, l’infatuazione dionisiaca di Evola ricorda non poche espressioni del Bataille, come quella che abbiamo appena riportato. Dioniso, che Kérenyi definisce “l’Archetipo della vita indistruttibile”, è il “Dio scatenante” per eccellenza. 273 100 Capitolo II morte è il Dio della morale, il Dio in noi ossia la coscienza, la legge morale. Essa è l’oggetto di una auto-crudeltà metafisica che non s’arresta nemmeno di fronte al suicidio: “Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo delle leggi, nei momenti di colpa: è allora che, squarciato il velo apollineo, l’uomo gioca la partita della sua eterna perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte”278. Per divenire “non Dio, ma il Signore, il superatore di Dio”279. Come per Nietzsche “Un Dio che venisse sulla terra non potrebbe fare altro che torti ─ prendere su di sé la colpa e non la pena: questo solo sarebbe veramente divino”280, così per Evola “una colpa attiva, positiva, voluta, una colpa che ‘tiene fermo’, non è più da uomini, è da dei”281. Da qui il senso occulto del rito sacrificale: il sacrificatore uccide la vittima e nella vittima la stessa divinità perché, attraverso l’atto terribile e sacrilego, in lui e nella sua comunità passi l’assoluto. Ed Evola insiste su questo punto ricordando la necessaria purezza e innocenza del sacrificato oltre al fatto che nei misteri mitriaci “la capacità di uccidere o, almeno di assistere impassibile ad un omicidio costituiva una prova”282. Il metodo iniziatico non è vana contemplazione ma la trasformazione dell’Io a centro di potenza autosufficiente. Non soffrire l’impotenza ma volere la potenza. Possiamo chiamarla: tecnica dell’eccesso. Ora, la terribile libertà cui il filosofo invita porta il nome di Dioniso. E il Dioniso di Evola è identico all’Anomos, a colui che è senza legge. Il suo scritto mostra inequivocabilmente a quale orrore l’uomo vada incontro superando Dio nel mistero terribile dell’iniquità. Si badi: Evola non ha mai predicato l’anarchia o l’inebetimento criminale delle masse. Egli ha sempre aborrito il disordine interiore e quello sociale che ne è il temibile effetto. Evola è un pensatore romano il cui asse spirituale è la virilità olimpica. L’accesso dionisiaco di cui si fa banditore in questo suo infiammato scritto è per 278 Ivi, pp. 90-91. Evola pensa qui, e lo cita espressamente, a Kirilloff e alla sua “nuova e terribile libertà” suicida. Cfr. anche F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2006, p. 209: “Ride ora il mondo, l’orrendo velario si squarcia, sono giunte le nozze per luce e tenebra […]”. 279 Ivi, p. 95. 280 F. Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano, 2004, pp. 25-26. 281 Ivi, p. 91. 282 Ivi p. 92, nota 2. 101 Capitolo II pochi spiriti forti e deve essere inteso sub specie interioritatis. Non a caso egli usa la parola sanscrita “vira” che significa eroe. Inoltre parla, sulla scia dei suoi studi taoisti, di “compito positivo, […] chirurgico”, di “agire senza agire, giungere senza movimento, prendere senza tatto, ecc. Si tratta di modi di sensazione e di attività pura, svincolata, compiti di particolari discipline occulte”283. Storicamente penserà invece ad un ordine sacro che raccolga intorno a sé gli uomini-argine della decadenza ─ la comunità degli Individui Assoluti ─ ed al cui centro risplenda un inconcusso simbolo di superiorità spirituale e dominatrice. Ordine che in nessun modo può essere assimilato al fascismo, al nazismo o ad altre marionettistiche gerarchie della impotenza, perché formato “dall’alto e verso l’alto” e in grado di riflettere sui “molti” la luce virtuosa della sua essenza metafisica. Tratteremo di questo nel secondo capitolo. Quanto al dionisismo evoliano, esso è una posizione giovanile assai moderata con gli anni ma mai rinnegata284. Ma quel che qui vorremmo rilevare è che, di là dalle immagini drammatizzate in cui Evola mostra il problema della liberazione positiva dell’individuo, essa è il fulcro della sua tanto ebbra quanto rigorosa dimostrazione filosofica. L’uomo è spogliato di tutte le sue vesti discorsive, di tutti gli orpelli sofistici e degli auto-inganni della ragione per lasciarlo solo davanti alla nudità dell’Io. Il giovane filosofo sa che nulla può convincerci ad essere se prima non si è. Dopo, qualsiasi ragione potrà essere la nostra285. Il nichilismo efferato di Evola è al servizio dell’Uomo quale strumento di una pulizia intellettuale che non tollera limite. Il problematicismo critico è momento essenziale della sua costruzione 283 Ivi, p. 94. Cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 65: “[…] la via dionisiaca fu una via mistérica e […] può essere definita da una formula che già usammo: un vivere portato ad una particolare intensità il quale sbocca, si capovolge e si libera in un più-che-vita, grazie ad una rottura ontologica di livello”. Evola qui, riconoscendo l’“assurdità dell’antitesi” stabilita da Nietzsche tra Apollo e Dioniso, parlerà di “apollinismo dionisiaco”. 285 Il fondo di questa dimensione autarchica è da rintracciare in Stirner, apprezzato da Evola per la brutale lezione di realismo che inchioda l’uomo al possesso concreto del proprio Io. Al riguardo, le parole di Carl Schmitt sono fondamentali anche per meglio illuminare la posizione evoliana: “A considerarlo nell’insieme, Stirner è orribile, sguaiato, millantatore, smargiasso, un goliarda, uno studente degenerato, uno zotico, un egomane, evidentemente uno psicopatico grave. Uno che a voce alta e sgradevole va gracchiando: «Io sono io, nulla mi importa oltre me stesso». I suoi sofismi verbali sono insopportabili. L’eccentricità avvolta in fumo di sigaro della sua bohéme da osteria è nauseante. Eppure Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è un oggetto di pensiero”, in Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano, 2005, pp. 31-32. 284 102 Capitolo II teorica in quanto nello stesso tempo punto di partenza e di arrivo nel labirinto del pensiero. Nella “Grande Opera” evoliana, filosofia e magia, teoria e pratica, pensiero critico e sapere tradizionale sono gli estremi com-possibili della originaria decisio. Ma essa è sempre. Ci sono due livelli trascendentali della coscienza. Nessuno dei due viene necessariamente prima. Il principio è ciò che all’uomo manca quale atto non imposto dalla cogenza argomentativa. Il prima e il dopo dipendono dall’inversione di polarità, dalla capacità di revulsione, dalla metanoia, dal salto. Il resto ─ se tutto rimane quello che (non) è, e non quello che Io voglio ─, è soltanto parola. Se già Heidegger ammoniva che non è importante uscire dal circolo quanto starci dentro nella maniera giusta, Evola si spinge oltre. E fa delirare il circolo della ragione trasformando il suo insensato divenire in traiettoria iperbolica: contingentismo trascendentale. Il sistema evoliano è invulnerabile perché il suo centro è vuoto. Non si confonda il vuoto con la mancanza. Il vuoto può riempirsi di qualsiasi cosa. Il vuoto, o il niente è la possibilità inesauribile, la libertà di essere e di non essere, la creazione: atto dello spirito286. Come non si può colpire il vuoto così non si può confutare il sistema evoliano. A queste breve osservazioni che ora svilupperemo, vogliamo però aggiungerne un’ultima. Questo straordinario punto di forza del sistema è infatti anche la sua ferita. L’onnipotenza della libertà esige la possibilità della sua morte. Dio è sempre appeso alla sua croce. La purità come valore metafisico Evola ricorre spesso nei suoi scritti giovanili alla parola purità con la forza di una invincibile ossessione. Ma già Platone ammoniva: “A chi è impuro non è lecito toccare cosa pura”. Cosa è impuro per Evola e perché a dispetto del suo apparente immoralismo usa espressioni così cariche di valore assiologico? 286 Cfr. J. Evola, La tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma, 1996, p. 202: “Tutto ciò costituisce uno spazio vuoto, che tuttavia potrebbe anche non esser vuoto. Dietro le quinte della coscienza degli uomini e della loro storia, là dove lo sguardo fisico non giunge e il dubbio non osa portarsi, può esservi qualcuno”. 103 Capitolo II L’equivoco da risolvere: Evola non è affatto un immoralista. Proprio il contrario è vero ed una simile affermazione si origina da uno slittamento. Il punto è che, data la sua particolare personalità e le tecniche realizzative seguite, egli ritiene la morale corrente immorale in quanto conserva l’uomo nella sua debolezza e lo inchioda al suo limite: questa vita terrena di cui egli si pasce chiamando “io” il morto riflesso che la realtà proietta su di lui. Il bene è il male perché è quel che tiene gli individui separati, perché fa sì che si ami negli altri la propria insufficienza. Il male, il disprezzo della separazione e l’amore per l’Unico, quell’Io di cui gli “altri” non sono che momenti della mia in-potenza, è in realtà bene. Il male è la materia, il bene è la sua risoluzione nell’atto spirituale dell’Io che la redime. Il mondo è corrotto sino a quando non diviene puro: il mio mondo. Ecco perché Evola sembra l’araldo della violenza e del disprezzo del prossimo se lo si guarda con l’occhio tarato della “moralina”. Noi riteniamo invece che non vi sia posizione più morale di questa. Essa è di una purezza insostenibile, e proprio qui sta il problema. Il “prossimo” di Evola è l’Io. Ed Io non posso amare quel che ancora non sono. Il punto del solipsismo è di una importanza vitale. Tutto ciò che corrisponde all’eccesso ─ all’esuberanza delle forze ─, che viene portato ad un massimo d’intensità è bene. Tutto quel che arricchisce la condizione soltanto umana, che la consola e ne impedisce l’elevazione è male. Di più. La morale non può avere un fondamento assoluto e non è unica. L’unico fondamento assoluto è l’Io e prenderne coscienza, realizzarlo, è il compito. A questo scopo molte morali sono possibili e utili, chiamiamole pure vie. Esse sono strumentali, possono e devono essere consapevolmente usate come discipline interiori, finché servano. La morale dionisiaca di cui poca sopra abbiamo riferito, è una di queste287. La dissoluzione infatti, ma anche la dissolutezza, sono un vizio solo per chi non può permettersele. La domanda che Evola pone è l’inaggirabile sentenza del nostra destino: tu, che sei?, il cui implacabile corollario è: tu, che 287 Cfr. Krur 1929, op. cit., pp. 116-117: “La via dei dominatori non è che uno dei raggi che partono dal centro; e trae il suo significato dall’esistenza di molte altre vie che egualmente si irradiano dall’origine, ove si scopre la libertà come legge suprema del tutto, come giustificazione della doppia via, di luce e di tenebra, uranica e tellurica”. Il grassetto è nostro. 104 Capitolo II puoi?, per scoprirne poi, nel nostro farci unici, la doppia identità. E la sola risposta: Io. Prendiamo ad esame un suo scritto intitolato: Della ‘purità’ come valore metafisico. In due modi opposti l’uomo può cercare di rapportarsi alla divinità superando la miseria e la contingenza del suo essere nel mondo. Nel primo Dio è distinto dall’uomo, quindi il loro rapporto è quello estrinseco proprio alla fede, alla religione devozionale. Nell’altro vi è tra di essi una “ideale continuità” e il senso del loro rapporto sta in una identificazione reale: l’uomo si fa Dio. Come nella mistica e nell’esoterica. Queste due vie sono opposte perché l’una mantiene lo stato umano di esistenza sia pure presso alla fede in una legge superiore. L’altra pretende invece di trasformare un tale stato “fatto di morte e di oscurità” in vita divina288. Il concetto di purificazione può di conseguenza, in relazione a questa differenza, essere realizzato in due modi distinti. Ad Evola qui interessa esclusivamente la “dottrina esotèrica della purificazione”, le cui fonti egli connette, con una certa disinvoltura, essenzialmente all’Oriente: scuole tantriche e diramazioni magico-alchemiche del taoismo e del mahâyâna, ma anche alla misteriosofia greca e alla filosofia presocratica. Oltre che in elementi del neoplatonismo e in certa mistica cristiana, “di là da formulazioni affatto distinte presenti nelle tradizioni kabbalistiche, ermetiche e rosicruciane”289. Una simile grossolanità non si spiega solo con lo spazio ristretto di un articolo ma con due importanti considerazioni. In primo luogo “per la grande difficoltà di giustificare con freddi riferimenti culturali quel che in tanto si comprende, in quanto un dato atteggiamento interiore permette di leggere fra riga e riga”290. In secondo luogo perché “importa dare detta dottrina nella sua essenza logico-metafisica, onde essa costituisce qualcosa di per sé stante, di indipendente dalle credenze, dalle opinioni e dai vari elementi empirici che possono averla incorporata”291. Ebbene qui, siamo al giugno del 1925, Evola 288 J. Evola, Della ‘purità’ come valore metafisico, apparso su ‘Bilychnis’, anno XIV, fasc. VI, Roma, giugno, 1925, vol. XXV, pp. 353-365, ora in I saggi di Bilychnis, Edizioni di Ar, Padova, 1987, p. 24. 289 Ivi, pp. 24-25. 290 Ivi, p. 25. 291 Ibid. 105 Capitolo II ha già ─ con buona pace di chi semplicemente ne fa un discepolo, sia pure eterodosso, di René Guénon ─ individuato con chiarezza il nucleo di quel concetto di Tradizione cui approderà fra qualche anno, certo anche grazie alla conoscenza dello studioso francese. Inoltre è chiaro che non si può barattare l’esperienza vivente dello spirito con l’aridità di riferimenti bibliografici che hanno un senso solo nella pratica del pensiero. In ambito esoterico “il concetto di purificazione non ha assolutamente nulla di moralistico”. Esso ha “valore metafisico” ed Evola parla di “nuda positività” rimettendosi al significato letterale del termine292: “Impuro […] va detto ciò che non è soltanto se stesso e da se stesso (kath’autò), ma che un «altro» contamina”293. Dove c’è l’“altro” vi è impurità perché esso “altera l’essere e lo rende impuro”. La natura dell’altro “che può alterare l’unità” è aristotelicamente stéresis, privazione: non essere. Evola cita un passo di Eckart che anche noi, data la sua importanza, riportiamo per intero: “Poniamo che si prenda un carbone ardente e lo si metta sulla mia mano. Se io dicessi che è il carbone che mi brucia la mano, avrei assai torto. Se devo veramente indicare ciò che mi brucia, debbo invece dire: è il «nulla» che mi brucia! Poiché il carbone ha qualcosa in sé, che la mia mano non ha! Appunto questo «nulla» mi brucia. Se la mia mano, invece, avesse in sé tutto ciò che il carbone è e produce, essa possederebbe interamente la natura del fuoco: e allora quand’anche prendessi tutto il fuoco che mai ha bruciato e lo ponessi sulla mia mano, esso non potrebbe più farmi danno»294. L’essere sufficiente alla totalità della vita non ha un altro contro di sé. Evola immagina ed invoca un essere sigillato nella propria 292 Non ci sembra di poco conto segnalare che, lo abbiamo visto a sufficienza, per Evola la nudità ha un valore essenziale. Essa sta per “senza orpelli”, minimo, semplice, aristocratico, essenzializzato: astratto. Crediamo se ne possa accostare il significato a quel “principio dorico del «nulla di troppo»” di cui il barone parla in Cavalcare la tigre, op. cit., p. 104. 293 J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 25. 294 Ibid. 106 Capitolo II impenetrabilità. Un essere incorrotto che, “chiuso in una intangibile unità, […]vi si riposerebbe e vi si compiacerebbe, amandosi solo e creando per questo amore solitario tutto ciò che crea”: una sorta di onanismo metafisico295. Se l’unità sia altera, “un nulla viene ammesso” e di contro al tautòn (l’identico) sorge l’éteron (l’altro)296. Da notare che per Evola non può innescarsi dialettica alcuna con l’altro da me: il processo è interno all’essere ma la totalità dell’essere è l’Io. Ed Io non mi riconosco negli altri se non nell’autoreferenzialità della mia “in-potenza” che li contiene. Io non posso amare che me stesso! Il sistema evoliano condanna l’Individuo ad una solitudine terribile una volta che Egli abbia risolto l’altro nel Sé. E però, a questo stadio, ormai non c’è che (il) niente: “«Io non sono nulla: posso tutto», questo è effettivamente il «Nome» vero dello spirito, dell’Individuo Assoluto”297. Dio non crea l’uomo. L’uomo crea Dio specchiandosi nell’abisso della propria libertà. La libertà di cercarsi vanamente nell’altro o di trovarsi in se stessi298. Ora, questo altro, ben lungi dall’essere reale, è semplicemente “il simbolo di quella deficienza che si è ingenerata nell’essere”299. La sua sostanza vive della corruzione 295 Il grasseto è nostro. L’espressione non sembri offensiva. Ce ne serviamo solo perché crediamo rappresenti icasticamente l’eccesso ontologico evoliano che raggiungerà un più equilibrato punto di espressione quando, calandosi nella storia, sarà il centro di una visione politico-tradizionale a misura d’Uomo. Siamo infatti persuasi che esclusivamente nella sfera etica, e quindi politica, il pensiero del pensatore romano possa manifestare la sua forza anche teoretica. Le opere filosofiche giovanili hanno un carattere propedeutico e nella loro autoreferenzialità, in quanto specchio d’una esperienza spirituale unica, non si lasciano avvicinare prima di averne tradotta storicamente l’astrazione. Esse sono fredde, pura theoria d’una ascesa solitaria. Come la scalata d’una vetta alpina. 296 Ibid. 297 J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto, Mediterranee, Roma, 1998, p. 132. 298 E infatti la conferenza su “Nietzsche e la sapienza dei misteri”, che ripercorre il cammino trascendentale della coscienza verso il compimento di sé, verso il valore, si chiude con ‘l’essere che è ciò che vuole’ e che “presso deserti e soli di atrocità può infine lasciar fiorire bontà, ordine, amore, come l’eccesso ultimo, come la violazione ─ e, in ciò ─ l’affermazione suprema di Dioniso ─ della sua terribile natura”, in L’Individuo e il divenire del mondo, op. cit. p. 95. Questo passo è di una inquietante ironia: la creazione non è buona in se stessa, può divenire tale solo in virtù del terribile arbitrio dionisiaco e, sopratutto, dopo la dissoluzione del mondo nel corpo di potenza del Dio. Egli ora può creare a suo piacimento anche bontà, ordine ed amore. Il mondo (sarà) come un esercizio della potenza. L’Uomo-dio lo dis-integra nella sua libertà. Tutto quel che esiste deve morire ─ poiché corrotto, impuro ─ per vivere. L’innocenza, la vera vita appartiene al possibile. Metafisicamente crediamo si possa definire la posizione evoliana anche come una fuga in avanti. (Ma pur sempre verso l’Origine!). A patto di non dimenticare l’assoluta contingenza del processo. Questo nostro giudizio è infatti il parto d’un pensiero lento che, come tale, non è preso dal vortice dell’individuale. Esso ha il semplice valore di una testimonianza resa in ginocchio davanti al bivio: i due livelli trascendentali della coscienza. Evola la definirebbe forse ignava. 299 J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 25. 107 Capitolo II della vita perfetta. Vuol dire che esso sussiste in quanto e finché nell’essere o nell’Io permane lo stato di privazione e d’imperfezione. Il senso del purificare sta allora nel “portare la vita al livello di un’esistenza sufficiente, di un possesso, di un’autarchia, ardendo l’oscura privazione di cui essa, nel punto dell’esistenza finita ed individuale, è intrisa e soffre la violenza”300. Il concetto di atto puro si mutua con quello aristotelico di atto imperfetto: “impuro si dirà dunque l’atto di quelle potenze che non giungono da sé all’attualità, ma a ciò sono bisognose del concorso di «altro»” 301. Ma per comprendere appieno il senso dell’esigenza della purificazione deve essere chiaro che: “l’atto impuro (o imperfetto) non risolve la deficienza dell’agente che apparentemente ─ esso in realtà la riconferma”302. Per esemplificare lo stato di colui che chiede ad “altro” la propria vita non avendola in se stesso (tó autárkes), Evola s’affida alle parole del Cristo: “Chiunque beve di questa acqua avrà ancor sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà giammai in eterno sete; anzi l’acqua che io gli darò diverrà in lui una fonte di acqua saliente in vita eterna”303. L’uomo ha sete e finché beve continuerà ad averne. Il bere conferma questo suo bisogno. Ed egli gode della sua privazione fuggendo da quell’atto puro (acqua eterna) per cui ogni privazione sarebbe vinta. L’atto impuro è “una fuga dalla vita perfetta; per esso l’individuo non consiste ma cede”304. Questo è il senso generale della dottrina esoterica del puro e dell’impuro. Quanto alle sue particolari applicazioni, Evola ne indica cinque: purificazione della mente, della volontà, della parola, del respiro e dell’atto generativo. L’impurità della mente riguarda il carattere passivo della percezione. Dal punto di vista empirico essa è un ricevere 300 Ivi, p. 26. Ibid. 302 Ibid. 303 Ibid. (Giovanni, IV, 13-14). 304 Ibid. 301 108 Capitolo II (empfinden). Il suo moto è dall’esterno verso l’interno. L’Io subisce quindi la coercizione dell’oggetto sensibile ed il sentire è un patire secondo il tempo ed il luogo. La purificazione comprende due fasi. La prima ─ che Evola assimila alla massima della kàtarsis platonica: «Staccare gli occhi e, in generale, l’anima, dalle cose sensibili» ─ “si rimette al dominio delle potenze dei sensi, alla capacità di staccare la mente dagli oggetti esterni, di ripiegarla su se stessa e fissarla a volontà”305. L’esigenza da realizzare è chiara: liberare le facoltà percettive incatenate dagli oggetti e renderle intere, non alterate, pure. Le tappe di questo processo son quelle indicate da Patanjali, il fondatore della Scuola del Raya Yoga, uno dei quattro Yoga di base. Una via “su cui, in ogni caso, solamente per una energia interna eccezionale si può sperare di procedere”306: a) b) c) d) Pratyâhâra o dominio delle impressioni; Dhâranâ o concentrazione sull’oggetto; Dhyâna o assorbimento su un oggetto prodotto dalla mente; Samâdhi o eliminazione dell’oggetto mentale e congiunzione della mente con la sua sola nuda potenza. Questa è solo la fase negativa. La purità della mente non si risolve nella sua capacità di distacco bensì nella potenza dell’Io che si crea la propria percezione. Ad un tipo di percezione passiva se ne sostituisce così una attiva e positiva, che non riceve l’oggetto dall’esterno ma lo produce dall’interno: “Tale è la virtù dell’aristotelico noûs poietikós, dell’«intelletto intuitivo» degli scolastici, di Kant e di Shelling”307. Si badi: non si tratta di due facoltà giustapposte ma della trasformazione o risoluzione del percepire materiale in quello positivo. In riguardo alle fasi di una tale via, Evola rimanda espressamente ai Saggi sull’idealismo magico limitandosi qui, come “semplice suggestione”, a riferire sulla cosidetta “conoscenza sopranormale”. Diversamente da quella “normale”, che è centripeta e dipende ─ dal punto di vista fisiologico ─, dagli organi fisici, la conoscenza sopranormale procede verso l’esterno. Il suo 305 Ivi, p. 27 Ibid. 307 Ivi, p. 28. 306 109 Capitolo II punto di partenza è “l’appercezione interiore” che successivamente si traduce “in termini di percezione fisica ed anche in imagini, secondo un decorso centrifugo analogo a quello dei processi allucinatorî”. Questa seconda modalità del conoscere è in gran parte libera da condizioni spazio-temporali e fisiologiche e “tende a partecipare della natura di un principio onnicosciente”308. Passiamo alla volontà. La sua impurità consiste nell’“eteronomia”: “nel suo venire determinata da altro che da sé”309. Qui Evola se la prende con l’“estraversione imperante” nella cultura occidentale per cui si sarebbe irradicato il pregiudizio che ogni azione debba avere la sua “ragione sufficiente”. Un’azione è impura quando non trae la propria iniziativa da sé ma da un motivo, ragione etc., in breve quando è voluta da altro. È l’azione secondo desiderio degli orientali: sakâmakarma. Il senso della catarsi della volontà si connette all’opposto a questo principio: “la ragione sufficiente di una affermazione può essere l’affermazione stessa”310. Si tratta di un atto di pura volontà creatrice. Ancora un passo dell’Eckhart: “Da questo più profondo principio tu devi agire le tue opere, senza un perché. Io lo affermo decisamente: finché operi le tue opere per il regno dei cieli, per Dio o per la tua santità, epperò spinto da altro (von aussen her), fino allora tu non sarai realmente nel giusto… Se chiedi ad un vero uomo, ad un uomo che agisce nel suo profondo: ‘Perché operi tutte le tue opere?’ egli ti risponderà giusto solamente se dirà: ‘Non agisco, che per l’azione stessa’”311. Qui la purificazione investe tutte le coppie di opposti. Essa è purità nel senso di assoluta autonomia e possesso di sé. Tutto quel che incatena la volontà dell’uomo, fosse anche Dio, è impuro. La necessità è quindi quella di lavarsi, denudarsi, mondarsi di tutto ─ Áfele pánta: “ridurre la volontà alla sua nuda essenza”312. Giunti a tanto, tutto diviene egualmente puro, non prima!, così come l’individuo che abbia realizzato il suo Io, è l’Unico: l’assoluta purezza 308 Ibid. Ibid. 310 Ivi, p.29. 311 Ibid. 312 Ibid. 309 110 Capitolo II dell’individuale. Il puro non è l’essenza delle cose ma un modo di viverle contrassegnato da autonomia e autarchia. Come si vede, tutto dipende dalla potenza dell’Io: l’uguale trae l’uguale. Per portare a compimento questa esigenza è richiesta “una particolarmente sottile disciplina”: “occorre fare per principio non ciò che piace, ma ciò che costa, prendere per principio sempre la linea di maggior resistenza e, con questo, rendere sempre più forte e pura la volontà, sempre più energico il possesso di sé”313. Questa dura disciplina cristallizza l’essere interiore in una sorta di paralisi, di afasia assoluta. Una tale esperienza è il segno della purificazione perché attraverso essa l’individuo conosce quanto poco ciò che chiamava sua azione era veramente sua, e lui non un autore ma un fantoccio, un medium sventolato da forze straniere. Saper trovare un sopravanzo di forza per conquistarsi un principio di vita superiore di là da finitudine e contingenza. Questa è la porta per accedere ad un più alto compimento che investe il dominio delle restanti purificazioni. Quanto ad esse basti dire ciò che segue. Per la purificazione della parola Evola si riferisce alla dottrina indiana dei mantra: “I mantra sarebbero […] i nomi dei ḍevatâ, ossia i vari corpi di potenza che reggono il processo produttivo delle cose; e, viceversa, i devata sarebbero i significati trascendentali, che i mantra incorporano e fanno folgorare”314. Questi mantra soddisfano l’esigenza della purificazione della parola in quanto portano l’Io da quella lingua che è facoltà evocativa di semplici immagini soggettive a quell’altra lingua che è potenza di evocare le cose stesse, alla lingua cioè che dà le cose nelle loro cause, essendo identica al sovrannaturale processo produttivo di esse. Svegliare un mantra significa “evocare, rigenerare, rendere in atto la 313 314 Ivi, p. 30. Ivi, p. 32. 111 Capitolo II funzione sottile del Verbo ad esso relativa”315. Una vera e propria identificazione reale dell’Io con i principi individuanti le cose. Abbiamo visto che un atto è imperfetto quando non giunge da sé all’attualità. Atto impuro par excellance è dunque l’atto generativo, “e la donna si può dire che in via trascendentale non è altro che il simbolo dell’impotenza dell’Io a darsi da sé un corpo”316. In questo particolare dominio che senso ha la purificazione? Questo tipo di atto non risolve l’insufficienza di colui che agisce ma la riconferma ─ si ricordi l’esempio dell’acqua, qui peraltro Evola cita nuovamente il Cristo. Se l’Io continuerà a chiedere alla donna la condizione per l’atto generativo, così come chiedeva all’acqua la condizione per soddisfare la sua sete, egli resterà nella privazione e nella impurità. Se l’altro è premessa, non potrà non essere anche soluzione: la diade, l’altro da me, sia esso l’acqua o la donna etc., si riaffermerà. Ed io continuerò a bere e a de-generare. In quest’ultimo caso la mia sarà una eterogenerazione (un figlio), donde il destino della morte. Quel che dona la vita al figlio uccide il padre: l’Unico diventa il singolo, un mortale. L’atto impuro trafigge d’insufficienza la vita e spinge la ruota eterna della nascita e della rinascita che tanto misera appare agli occhi dell’Evola317. 315 Ivi, p. 33. Ivi, p. 34. 317 Ibid. Nella nota 8 a fine pagina Evola cita “i noti frammenti non canonici riportati da CLEMENTE ALESS. (Strom., III, 9, 63, segg.; III, 13, 92): «Avendo appropriatamente il Signore accennato al compimento finale, Salomè disse: ‘Fino a quando gli uomini moriranno?’. Rispose il Signore: ‘Finché voi donne genererete’. E soggiungendo essa: ‘Ben feci dunque a non partorire’… Il Signore ribattè: ‘Mangia di ogni erba, ma di quella che ha l’amaritudine [della morte] non mangiare’. E quando Salomè domandò quando sarebbero palesi le cose che chiedeva, il Signore disse: ‘Quando la veste d’obbrobrio [il corpo] sarà calpestata e quando i due divengano uno e l’uomo con la donna né uomo né donna’». Stessa citazione di Otto Weininger in Sesso e carattere, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, p. 449: “[…] la questione femminile durerà finché esistono due sessi e non terminerà prima della questione umana. In questo senso Cristo parlò a Salomè, secondo quanto attesta Clemente, Padre della Chiesa, senza l’attenuante ottimistica che Paolo e Lutero troveranno più tardi per il sesso: la morte esisterà finché le donne partoriranno, e la verità non sarà contemplata prima che due siano uno, prima che uomo e donna non siano divenuti un solo terzo essere, né uomo né donna”. Evola nel dopoguerra tradurrà per la prima volta in italiano l’opera dello studioso ebreo, il cui nome compare per la prima volta in Gehst zu Frauen, di cui ci siamo già occupati, e che rivela una affinità impressionante con Weininger. Ripetiamolo: non nel senso di una volgare misoginia ma in quello della “unicità” dell’Uomo che si dissolve versandosi nella donna intesa quale natura. Per Evola, insieme a Rimbaud, Nietzsche e Michelstaedter, Weininger annuncia la rivoluzione dell’io: il Genie che indica la via all’Individuo Assoluto. Gemelli solitari nella “grandezza raccapricciante” dell’Ich-Ereignis. Vogliamo infine ricordare, a sigillo di questo breve cenno sull’aspetto spiritualmente maschile dell’opera evoliana che si tradurrà successivamente nell’opera Metafisica del sesso, un passo tratto da Introduzione alla magia, volume secondo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 348. Evola riporta qualche riga 316 112 Capitolo II La “originaria potenza” al fondo dell’individuo che vuole la vita è, a livello dell’esistenza normale, estrovertita. Essa è desiderio, “guardar fuori” (bhairmukhî), e versandosi nell’altro (la donna) degenera quale affermazione del figlio. Il “conato di continuità” non è quello dell’individuo “ma quello della specie”: l’uomo “mortale, eternamente assetato ed eternamente deluso”. Questa impurità poi non è che quella del corpo fisico. Esso è il quantum di passione e di privazione nell’Io e in ciò deve intendersi imperfetto. Ora, “una tale zona di privazione nell’Io è il fondamento trascendentale della donna, giacché […] nella donna si esprime precisamente il correlativo dell’atto generativo in quanto imperfetto”318. La “Grande Opera” realizza invece nell’eterna autogenesi dell’Individuo un “corpo fatto di libertà”. Il presupposto della “dottrina del corpo immortale o cosmico”, che si trova “in quasi tutte le religioni” è il seguente: la corporeità è quanto di passivo c’è nello spirito, la sua “in potenza”. Non un principio distinto ma il virtuale, l’inespresso che costituisce una stérema, uno stato di privazione. Come ombra della luce. La liberazione allora non può essere il distacco dal corpo ma la risoluzione del corpo. “Qui purificazione significa appunto realizzare in funzione di potenza in atto ciò che come corpo (materiale) viene vissuto in funzione di passione ─ e tale è la ‘costruzione del corpo immortale’: ‘corpo immortale’ o ‘corpo di risurrezione, ‘corpo fatto di spirito’, corpo apparente’ […] o ‘di fiamma’319. del romanzo di Meyrink L’Angelo della finestra d’Occidente, tradotto in italiano da Evola per la prima volta e uscito presso l’editore Bocca nel 1949. Il tema è quello dell’“azione di una forza feminile nemica” che ostacola e devia la vocazione magica di chi tende alla realizzazione iniziatica. Ci sembra di notevole interesse: “Il mezzo per redimere il mondo e per distruggere il demiurgo non è il tradimento proprio a chi si abbandona all’eros animalmente procreatore, bensì solo l’odio dell’un sesso verso l’altro, odio che, del resto, costituisce lo stesso mistero della sessualità. L’attrazione che ogni uomo volgare è disposto a subire da parte del sesso opposto e che egli, con lo spregevole abbellimento d’una menzogna chiama amore, è il deprecabile espediente di cui si serve il demiurgo per tenere in vita l’eterna plebe della natura […]. L’amore priva sia l’uomo che la donna del sacro principio della loro individualità precipitandoli entrambi nella vertigine di una unione dopo la quale per la creatura non vi è altro risveglio se non il rinascere in quel mondo inferiore donde essa proviene e dove essa sempre ritornerà”. 318 Ivi, p. 35. 319 Ivi, pp. 35-36. Nella nota 10 in fondo alla p. 36 Evola rimanda a Plotino: “Del corpo fatto di fiamma non terrestre, sufficiente a sé medesima, non bisognosa di alimento alcuno, fatta di pura attività, parla PLOTINO, Enn., II, I, 5-7-8”. Cfr. anche il fondamentale “PLOTINO/MASSIME DI SAGGEZZA PAGANA” in Krur 1929, Tilopa Editrice, Roma, 1981, pp. 129-139, dove Evola riporta e commenta alcune massime del filosofo neoplatonico. Qui vogliamo segnalare il seguente 113 Capitolo II L’impurità del corpo materiale è risolta nell’attività perfetta, pura, sufficiente: “la legge di vita e di morte è vinta”. Ora esso è “corpo cosmico” perché pienamente identificato con i principî metafisici ossia le “divinità” (devatâ) che reggono la natura. L’impurità dell’atto generativo è causa dell’esistenza mortale. Il corpo in quanto tale rappresenta questa esistenza fatta d’oscurità e privazione. Per costruire il corpo d’immortalità quale purità suprema occorrerà allora “una conversione della forza di generazione”320. E qui Evola accenna al kundalinî-yoga dei çakti-tantra che ci consente di affrontare la “purificazione del respiro”. Kundalinî è la forza generatrice che giace al fondo della corporeità. Essa è la radice della unità individuale dell’uomo: “il Logos (çabdabrahman) nel corpo”321. Nell’uomo normale però questa forza è volta ad altro, è impura ed estrovertita: potenza di generazione animale. Si tratta quindi di staccarla da questa direzione e possederla. In tal modo essa riacquista la sua vera natura e “si fa lo strumento per la riaffermazione dell’Io su tutti quei principî che reggono il suo essere fisico, biologico e mentale e che prima cadevano fuori dalla sua potenza”322. Una simile conversione della Kundalinî può operarla il prâna. Per gli Orientali esso è “la forza di vita connessa al respiro”323. Nella metafisica che si connette a questo tipo di disciplina il mantra HAMSAH esprime il senso della creazione nella simultaneità passo: “Le sensazioni sono le visioni dell’anima addormentata. Tutto ciò che dell’anima è del corpo, dorme. Uscir dal corpo, è il risveglio vero. Cambiare esistenza con un corpo, è passare da un sonno ad un altro sonno, da un letto ad un altro letto. Destarsi veramente, è abbandonare il mondo dei corpi (III, VI, 6)”. Il commento Di Evola: “Come la materialità è lo stato di deliquio dello spirito, così realtà di sonno è ogni realtà che ci appare a mezzo dei sensi materiali. Non si interpreti però spazialmente l’uscir dal corpo e l’abbandonare il mondo dei corpi: si tratta essenzialmente di un cambiamento di stato, della reintegrazione totale della «natura intellettuale priva di sonno». E questa è la vera realizzazione iniziatica e metafisica. Con singolare efficacia Plotino assimila il cangiar di corpo al passar da un letto a d un altro. Quand’anche avesse una consistenza, la dottrina della reincarnazione non potrebbe esser meglio stigmatizzata, come da parte dell’iniziato della paganità. Una forma è equivalente ad un’altra nel «ciclo delle nascite» rispetto al centro, che è un punto distante egualmente da ogni punto della circonferenza. La realizzazione metafisica è una frattura nella serie degli stati condizionati: uno spalancamento sopra una direzione radicalmente eterogenea. Non la si raggiunge seguendo come che sia la scia delle nature che «fuggono», quelle che inseguono un termine, che esse hanno fuori di sé stesse: lo scorrere del mondo dei corpi”, Ivi pp. 137-138. 320 J. Evola, I saggi di Bilychnis, op. cit., p. 36 321 Ibid. 322 Ivi, p. 37. 323 Ibid. 114 Capitolo II dell’inspiro HAM e dell’espiro SAH, “l’atto di pura, demiurgica creatività”. Questo mantra “ha il senso di quella eterna, semplice folgorazione, sintesi di essere e di non-essere (sadâsat) in cui l’Assoluto fruisce di un puro rivelarsi o darsi a se medesimo”. Lo yoghin con particolari discipline (prânâyâma) ferma la fluttuazione di quella vita che nel suo corpo “va e viene in un inspiro e in un espiro alternati, […] in una contingenza che riflette quella suprema del primo inspiro del nascituro e dell’ultimo espiro del morente”. Una tale concentrazione di potenza “sveglia” Kundalinî che, non più dominata dalla brama, si media in se stessa fluendo “verso l’alto” (ûrdhvaretas). La generazione animale o etero generazione cede a quella spirituale o autoctisi324. Kundalinî ora è attività pura che investe progressivamente i vari centri sottili realizzando “nell’Io un rapporto di identità e di possesso con quelle potenze spirituali che, presso allo stato di privazione e alla oscurità del corpo, gli si opponevano come natura fisica”. Al limite di questo processo vi è la liberazione suprema (paramukti). L’Io è Signore delle leggi di vita e di morte: saccidânanda, ossia “attualità cosciente (cit) e, in quanto perfetta (sat), beata (ȃnanda)”325. Evola conclude questi cenni su “una delle più importanti dottrine iniziatiche” con un tono di sfida che crediamo sia importante segnalare. Egli se la prende con l’atteggiamento limitato di chi è chiuso “in assai ristretti orizzonti”, con coloro che tacciano di misterioso o di occulto quel che non riescono a penetrare e che intorbidano, come i polpi, con pregiudizi e deformazioni d’ogni tipo. L’iniziatica ha invece per il giovane filosofo romano un contenuto intellegibile e valido che procede “da un concetto dell’uomo ─ di questo en sarchî peripolôn theós ─ del suo valore e del suo compito, elevato e grandioso quanto pochi altri”326. Sulla reale possibilità di questa via Evola non ha dubbi. E rimanda qui alle ultime conquiste della metapsichica. Ma non è questo il punto, visto che “una quantità di cose ci sono impossibili soltanto perché noi crediamo che siano tali; e che la via dello spirito è tale, che essa non esiste per chi non vuole camminare”327. 324 Ibid. Ivi, p. 38. 326 Ibid. 327 Ibid. 325 115 Capitolo II Siamo alla metà degli anni Venti, al limite dal distacco artistico evoliano e al principio del confronto con la cultura filosofica del suo tempo. È, per dirla con Klossowski, il passaggio “dallo speculare allo speculativo”. Evola individua nella filosofia lo strumento ed il linguaggio adeguato per misurarsi con la ragione. La scelta è contingente e sacrifica parzialmente il suo stile. E lo stile, per Evola, come per Benn, è superiore alla verità. Intendiamoci. Dopo l’esperienza della guerra, lo abbiamo visto, Evola si nutre di suggestioni non di certo filosofiche, almeno nel senso classico del termine, mutuate dai salotti buoni dell’occultismo. Nello spazio d’un mattino sorge il metodo filosofico e al contempo tramonta nell’intolleranza per un indirizzo di studi che presto prenderà ben altre strade. Quel che Evola strappa alla filosofia è un prestito divulgativo che investe la forma d’un dire oltre. Regolati definitivamente i conti con la “tronfia retorica” del suo tempo, il barone non tornerà più indietro. Ciò che lo muove in questo momento è la convinzione di poter superare l’attualismo gentiliano, viziato a suo dire da una impotenza gnoseologica, nel suo idealismo magico. Evola vuole integrare l’idealismo con due principi che ne superino il carattere astratto e compromissorio: il principio della libertà assoluta e il principio della potenza. La lotta è tra “mistico” o gnoseologico e “magico” o trascendentale e si svolge sul terreno della prassi. Inizio e cosa ultima Evola vuole la propria filosofia insieme come inizio e cosa ultima. Essa è descrizione di un processo: teorica di un dio e sua fenomenologia. Il dio è l’Individuo Assoluto. Il superamento dell’umano è al tempo stesso il superamento di una filosofia dell’uomo. Passaggio dalla teoria alla prassi: uomo come potenza328. Il 328 Cfr. L’uomo come potenza, Edizioni Mediterranee, Roma, 1988. Non ci sembra casuale che questo libro, sin dal titolo esprime la vocazione totalitaria alla libertà dell’Individuo Assoluto, magica figura del nichilismo attivo. Sulla scia dell’Unico stirneriano, del Superuomo Nietzscheano e del Persuaso di Michelstaedter. Con esiti altri ma nella stessa dimensione autosufficiente e affermativa. Al riguardo, ci appare significativo il paragrafo II, sezione I del volume citato che ha 116 Capitolo II metodo evoliano è filosofico. Come azione (phílo) che si riverbera sul suo oggetto (sophía). Azione d’amore (philéin). La verità in Evola è un determinare attivo, mai data una volta per tutte, ma conquistata nel suo farsi. Nella coniunctio ermetica con la volontà che imprime ad essa la sua forma: volontà di potenza. In ciò non vi è nulla di necessario. I buchi neri del linguaggio fomentano l’equivoco. La vita dell’uomo è questo equivoco. Diremmo forse meglio se parlassimo di una volontà che lascia essere le cose329. L’atto evoliano è senza pietà per il mondo. Ma la sua è la violenza del dono. Come si sia potuto prendere questo poeta dell’azione per un criminale del pensiero è cosa che riguarda l’equivoco di cui sopra. A noi con gli occhi pieni di stupore non resta che accoglierne la testimonianza. La fine della filosofia in una filosofia della fine. Il pensiero vivente d’una traditio come il gioco terribile della virtus tra le rovine della storia. Nostalgia d’un tempo immemoriale strappato al divenire. Epistéme chiamarono i greci la difesa contro l’insensato vanire dell’ente. Con questo nome sorge la filosofia. Noi lo traduciamo con scienza. Così come traduciamo alétheia con verità. Di là dai tradimenti dell’etimo, la preposizione “epí” significa “su” e “stéme” è forma sostantivale del verbo “hístamai”, “sto”, “sono stabile”, “sono fermo”. Epistemica allora è quella capacità di “stare in piedi”, magari tra le rovine, come voleva il nostro. Imporsi sulla e attraverso la negazione. In una parola: restare e restaurare. Difendere l’uomo dalla minaccia di tutto quel che, in primis et ante omnia in lui stesso, è labile, sfuggente, mortale. Mantenersi nella saldezza dell’‘evento dell’Io’ (Weininger) ─ questo saldo significato del mondo ─ è il modo per evocare, far discendere dall’alto la struttura stabile dell’essere. Proiezione “meravigliosa” per i chiamati al servizio del dio. Evola la dirà tradizionale. E nella misura in cui se ne comprenda l’essenza, essa è prima di tutto tradizione filosofica. Il rimedio ordinante dell’uomo. Epistéme è il contenuto come titolo “libertà come negazione del mondo e libertà come affermazione del mondo”. Sintesi emblematica dell’intero percorso evoliano, dove è detto che l’affermazione sorge da “una concezione tragica ed eroica della vita, da un principio attivistico di potenza. […] la luce è libertà in atto”, Ivi, p. 28. 329 Cfr. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 267: “Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza deciso l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza […]. Dunque può essere portato a compimento in senso proprio solo ciò che già è”. 117 Capitolo II della verità e la verità, alétheia, è la ri-velazione della scienza. La verità è il disvelamento di quel che “sta sopra” quale invincibile evidenza. Questa evidenza in Evola è il risultato del valore o perfetto compimento di sé: co-scienza. Chiedere il senso è cosa antica. Ed il barone torna a quell’origine che lo smemoramento moderno ha relegato negli alibi del non-sapere. Ai sapienti: “filosofi sovrumani”330. A quel pensiero che regge la terra. Pensiero della responsabilità331. La vanità del suo cammino è tutta in questa inaudita pretesa: übergang332. Nella soluzione di un passaggio all’infinito. Evola cita in Cavalcare la tigre un antico detto taoista. Forse l’epitaffio dell’Occidente. Con certezza una glossa indispensabile ─ o impensabile? ─ in margine all’idealismo magico: “L’infinitamente lontano è il ritorno”333. Se la filosofia di Evola è soltanto astrazione, allora la nostra amicizia con lui è un orribile inganno. E chi lo legge senza mettersi in gioco continua a corrompere, nella sua persona, un corrotto. Abbiamo più volte parlato di passaggio, superamento, processo. Il fulcro ne è l’attimo. Quel momento in cui la teoria esige la pratica. L’accesso, il varco, la salvezza dell’incedere evoliano è nel valore 330 Cfr. Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2009. Cfr. Stefano Zecchi, Evola, o una filosofia della responsabilità contro il nichilismo, in Cavalcare la tigre, op. cit., p. 17: “Indubbiamente, c’è la condanna del presente che lascia ascoltare, come tema di fondo, la nostalgia del passato: tuttavia è forte e decisa la tentazione di un pensiero e di un’azione che resiste, che cerca il riscatto, che elabora il pensiero della responsabilità. Il pensiero della responsabilità: credo sia questo il modo migliore per definire in una formula (con tutti i limiti che essa comporta, ma con implicite chiarificazioni) la filosofia di Evola. Assunzione di una responsabilità teoretica che, dopo aver diagnosticato il fenomeno di crisi, ristabilisce il contatto con una dimensione dell’essere liberato dal soggettivismo finalistico e teistico”. Di Zecchi si vedano anche Cavalcare la crisi, in Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola, a cura di Marco Iacona, Controcorrente, Napoli, 2008, pp. 359-362 e La questione della crisi: Evola e Spengler, in Julius Evola, un pensiero per la fine del millennio, Fondazione Julius Evola, Roma, 2001, pp. 133-136. 332 Cfr. Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, Spirali, 1988, p. 14: “Andare oltre, andare oltre! Übergehen, übergehen! Si può, anzi, si deve andare oltre. È un chiodo fisso del giovane […] Evola, quello di ‘superare’ l’idealismo attualistico, di opporre all’idealismo un ‘transidealismo’”. L’Opus evoliano è un’esegesi attiva, entusiasticamente inquietante, del prefisso “super”. 333 J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 113. L’origine della filosofia, in quanto Ur-sprung, è il salto che la ricongiunge al suo ek-sistere. L’uscir fuori dall’abisso del proprio liberante (s)fondamento: salto d’origine o balzo originario. La filosofia rende possibile un reale avanzamento del sapere. E come affermava Hegel: “ogni andare avanti è in realtà un tornare indietro al vero, al fondamento”. Niente si dà direttamente come origine ma qualcosa si origina. Nel romanzo iniziatico del Novalis, Enrico di Ofterdingen (trad. it. Mondadori, Milano, 1999, p. 158), alla domanda finale di Enrico, ansioso di sapere quale sia la meta del proprio viaggio, Cyana risponde: “Sempre verso casa”. 331 118 Capitolo II irriducibile dell’iperbole334. Esso ha il carattere tremendo del gioco335. E non è a sproposito che un improvvido ma acuto critico del filosofo romano parlò di “una colossale beffa fatta a quel mondo che l’Evola si appresta a dominare e ad assoggettare al suo arbitrio”336. Beffa e serissimo invito. La critica evoliana è lo sfondamento inesorabile della filosofia che culmina nell’idealismo trascendentale e si conclude con l’idealismo magico. “Di là da questo non vi è più nulla da fare in filosofia”337. L’intento del barone ha la sfrontatezza della sua giovane età e la carica eversiva d’un nichilismo che si fa sistema: “far fare, con la presente opera, quest’ultimo passo alla speculazione occidentale, sì che essa si approssimi al punto oltre il quale senza un ‘salto qualitativo’ ─ per usare questa espressione del Kierkegaard ─ non si può andare”338. La filosofia, al margine estremo della tensione, s’affaccia sul proprio nulla. Il limite del trascendentale. Oltre, c’è solo il salto. Ed una dialettica del salto è quella che anima la devastazione evoliana del Logos. Formale, corretta, chirurgica. Una operazione che conclude la fatalità d’una tradizione di pensiero, quella idealistica, che nasce e muore della sua vocazione critica. La scepsi corrosiva di Evola è la nemesi di questa vocazione. La sua risposta si pretende positiva, affermativa, forte. Non c’è ombra di debolezza in questa elevazione a vita della filosofia. Non esiste il pensiero debole. Esistono ─ ma davvero poi? ─ solo pensatori deboli. Pensiero è atto, 334 Cfr. Roberto Melchionda, Il volto di Dioniso, Basaia Editore, Roma, 1984, p. 20: “La radicalità in filosofia è per Evola il valore massimo e irrinunciabile; è il fine stesso del filosofare (yperbole=l’andare oltre. La sua filosofia introduce in un mondo dominato da questo genere di iperbolico, dal fuori misura, dalla «magia dell’estremo». Interessanti al riguardo anche le osservazioni di Giovanni Sessa in Filosofia della liberazione e impero interiore: l’utopia evoliana in Studi Evoliani 2008, op. cit.: “Credo che se mi si chiedesse di trovare un simbolo, un’espressione sintetica in grado di significare l’esperienza esistenziale e speculativa di Julius Evola, non esiterei a indicare l’iperbole. È, infatti, la tensione iperbolica, già utilizzata da Carlo Michelstaedter, nelle pagine pervase di giovinezza spirituale della sua [opera] La persuasione e la rettorica, vero antecedente del pensiero evoliano”. 335 J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 188: “[…] ciò che è tragedia e serietà per gli uomini non può non assumere un carattere di comedia e di giuoco agli occhi di un Dio. In effetti, la concezione dell’intera manifestazione universale come un giuoco divino ─ lîlâ ─ appartiene a sistemi di grande levatura metafisica […]. 336 Ugo Spirito, Rassegna di studi sull’idealismo attuale, IV, in Giornale critico della filosofia italiana, XVII, 2, marzo 1927, pp. 144-150; poi in L’idealismo italiano e i suoi critici, Vallechi, Firenze 1930, p. 205; ora in appendice a J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, Edizioni Mediterranee, Roma, 2006, pp. 189-197. La citazione è a p. 197. 337 J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, op. cit., p. VII. 338 J. Evola, Teoria dell’Individuo assoluto, op. cit., pp. 20-21. 119 Capitolo II potenza, vita. La necessità che lo costrinse al sistema è quella di chi deve comunicare. Scelse il linguaggio dell’idealismo. L’incomprensione fatale che ne seguì è nella forza delle cose. “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”339. L’Uomo è gettato ai confini del doppio regno nichilistico: schiavo o sovrano, attivo o passivo. Nella originaria decisio arde e si consuma la cuspide trascendentale: via dell’Io o dell’Individuo oppure via dell’Altro o dell’Oggetto. Si badi. Solo la prima è conclusione e superamento. La seconda è una morte eterna. Quel che è una vita non consacrata all’eccedersi. In termini filosofici: l’infinità del processo ermeneutico. Non conclusione ma esaurimento. Coazione a ripetere sotto l’egida del nulla. La necessità è contingente alla qualità della decisione. La decisione è libera. La deduzione storica dell’idealismo Evola porta a compimento il tema critico-gnoseologico dell’idealismo classico. E il problema della conoscenza diviene “necessità storica”. Il pensatore romano, pur dall’interno dell’idealismo, e accettando l’assunto hegeliano secondo il quale “[…] ogni filosofia, lo voglia o no, sia idealismo, sì che quando pone sé stessa come un nonidealismo è solamente un idealismo non interamente consapevole di sé”, aspira nondimeno a una maggiore radicalità340. Il suo idealismo magico si presenta come risultato positivo d’uno svolgimento storico coerente. Esso integra e definisce le più avanzate posizioni della speculazione d’Occidente come anelli di un’unica aurea catena. Ma non si confonda l’inevitabilità d’un tale destino con quello della necessità. Il principio fondamentale dell’idealismo è l’assoluta, incondizionata autodeterminazione. La libertà è necessaria soltanto nel momento in cui sceglie di realizzarsi. L’idealità del tempo non ha un primo e un dopo. Non il passato quindi condiziona il presente ma al contrario il presente condiziona il passato. Il passato infatti è 339 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1979, p. 82. 340 J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1998), op. cit., p. 20. 120 Capitolo II presente solo nell’atto meta-temporale. Ed esso vuole la storia come il darsi della libertà: “La deduzione storica è sempre qualcosa che viene dopo [...], e la sua necessità non è che il fenomeno della libertà che la determina incondizionatamente”341. La storia è la creazione dell’Io. Da questa premessa, la necessità storica dell’idealismo magico è allora “la sintesi di un dialettismo, in cui la tesi è il razionalismo della filosofia romantica il quale […] generò l’antitesi del materialismo e del positivismo. Per la consumazione delle tesi nell’antitesi la vuota idealità si andò riempiendo di un contenuto concreto onde, al termine della sinistra hegeliana (Stirner e Nietzsche), dette nascita alla affermazione dell’individuo reale nel valore dell’incondizionato”342. Dalla idealizzazione del reale alla realizzazione dell’ideale. Teoria dell’Individuo Assoluto, Idealismo magico, sperimentalismo, pragmatismo, contingentismo trascendentale, positivismo assoluto, dottrina della potenza, idealismo realistico etc.: tutti nomi della liberazione. Le forme di un presa della coscienza storica da parte d’un Occidente faccia a faccia con la sua miseria. Evola spinge per un progresso ultimo della ragione che eviti la bancarotta della filosofia, “un pietiner sur place, un dare indietro o un bizantineggiare”, o ancora “un mero opinare schiavo della contingenza del momento”343. La filosofia del suo tempo presentava tratti crepuscolari le cui avvisaglie Evola comprese come annuncio d’un età, quella dell’Acquario, in cui presto sarebbero annegati gli sprovveduti pesciolini dediti al mondo dell’occulto o invischiati in fenomeni di seconda religiosità. E questo può spiegare in parte anche l’intento della sua operazione tecnico-filosofica animata da un valore pedagogico non trascurabile. Tanto più che Evola aveva frequentato il 341 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 110. Ibid. 343 J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. VII. Cfr. anche J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1998), op. cit., p. 21: “E non andando avanti, nel campo della filosofia non vi è che un segnare il passo, un bizantineggiare e un ricadere, per un allentarsi della tensione e un affievolirsi del coraggio interiore, in posizioni di compromesso o già superate”. 342 121 Capitolo II mondo occultista e conosceva il terreno esotico e profumato d’oriente dei cosiddetti teosofi anglo-indiani. Ambienti la cui deplorevole confusione dottrinale aveva già al tempo stigmatizzato e sulla cui pericolosità per tutta la vita non si stancò di ammonire344. Il declino della filosofia lasciava spazio a forme di reazione al mondo a carattere pratico, che avrebbero potuto andare sia in direzione ascendente, quella che Evola indica e segue, sia in direzione discendente. La direzione di certo occultismo quale regressione nel sub-personale o quella della tecnica quale “impianto” della modernità. Evola paventa questa doppia involuzione ed educa al die Anstrengung des Begriffs, alla fatica del concetto. Egli risveglia il rigore teoretico dal torpore mistico cui s’erano assuefatti gli indolenti adoratori dell’atto gentiliano. Un atto che non era tale, poiché passivo, astratto ─ dalla vita. Questo dono d’intensità alla filosofia del suo e del nostro tempo non deve essere dimenticato perché la rinnova quale scienza dell’(Individuo) assoluto e ne disciplina il culto. Al limite, la potenza del pensiero critico, la sua più intima ratio, è gia il suo trascendersi nella conclusione. Evola ne asseconda il gesto del superamento in una uscita pratica dalla filosofia. La via dell’Altro, la via che non conclude ma include il darsi perpetuo dell’interrogare, è la parodia della risposta absoluta. Una morte eterna non è l’immortalità. Una cattiva infinità che danna alla ruota eterna dell’esserci non è l’eterno ritorno dell’identico. Le due vie si danno entrambe hic et nunc. Esse sono uguali nella loro compossibilità345. Tuttavia una è la decisione. La volontà di una simile impostazione del problema idealistico lascia trapelare un ottimismo che non va confinato nel ristretto ambito dell’entusiasmo o 344 La difesa della personalità è il nucleo irriducibile della filosofia assoluta dell’Evola. Cfr. Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma, 2008, p. 45: “Qui ci si deve riferire alla personalità in senso proprio. Il contatto con lo «spirituale» e l’affioramento di esso possono rappresentare un rischio fondamentale per l’uomo, nel senso che possono avere per effetto una menomazione della sua unità interiore, di quell’appartenere a sé, di quel suo potere di presenza chiara a sé e di chiara visione e di azione autonoma che definiscono appunto l’essenza della personalità”. 345 Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit, p. 48: “Così passai a difendere la concezione di una libertà assoluta, anteriore in un certo modo, a sé stessa (quale libertà realizzata), di una libertà come puro arbitrio che poteva scegliere incondizionatamente sia sé stessa, sia il contrario, ossia la negazione di sé stessa. E ciò equivaleva a dire che all’Io doveva essere aperta sia la via del «valore» […], sia quella del non valore, al titolo di due opzioni compossibili”. 122 Capitolo II dell’immaturità del giovane filosofo346. Esso mostra la sua consapevolezza di trovarsi in una (possibile) svolta epocale nella e della storia del pensiero: “Sarà questione di tempo, ma la nostra cultura, di là dalle crisi che attraversa, dovrà accorgersi di ciò”347. Il problema gnoseologico è insieme problema ontologico: la modalità della conoscenza è la modalità dell’essere. La filosofia o visione del mondo di un uomo dipende dalla persona che è. Non si tratta di criteri astratti, ma di posizione ontologico-esistenziale. Ogni uomo è una filosofia. Queste parole del Fichte hanno per Evola un valore particolare: “Quale filosofia si scelga, dipende da qual uomo si è: perché un sistema filosofico non è un morto utensile domestico, che possiamo deporre o prendere a capriccio, ma è animata dall’animo dell’uomo che la possiede. Un carattere fiacco per natura, o infiacchito o immiserito da vassallaggio spirituale, non si innalzerà mai all’idealismo”348. E spiegano perché la sua scelta sia in piena sintonia con la sua “equazione personale”: impulso alla trascendenza e natura da kshatriya. Il tempo del pensiero evoliano è quello lacerato dalla Grande Guerra. Egli pensa e pratica una filosofia nuova perché nuovo è l’uomo che deve rinascere, come la fenice, dalla ecatombe mondiale. Ascoltiamo l’incipit dei Saggi sull’Idealismo magico349, l’introduzione all’intero corpus delle opere filosofiche: “Che la civiltà occidentale traversi oggi un periodo di crisi, è una cosa che risulta evidente anche per una considerazione superficiale”[…]. È anche, ad un dipresso, egualmente chiaro che la crisi attuale supera di gran lunga ogni altra che sia dato riscontrare 346 Evola a venticinque anni riteneva di aver esaurito il proprio compito in campo filosofico. J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. VII. 348 J. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza (1797). Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit, p. 11: “Fichte ebbe a dire che a seconda di quel che si è, si professa una data filosofia”. 349 Cfr. Franco Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo magico, op. cit. p. 13: “A lungo trascurati, essi sono invece decisivi per capire la transizione del giovane Evola dalle esperienze artistiche della prima fase all’elaborazione di una sua originale concezione filosofica, che qualche anno più tardi approderà al pensiero della Tradizione […]”. 347 123 Capitolo II nel passato: e ciò, per il fatto stesso del dispiegamento dello spirito moderno in nuovi, molteplici rami nei quali però oggi, pressoché in egual misura, è presente il momento critico: esso trasmuta dalla coscienza razionale a quella religiosa, dall’arte all’economia, dalle scienze della natura all’etica. In tutti questi campi egualmente gli antichi principî barcollano, le antiche certezze non soddisfano più e il calore della critica e della negazione a mala pena riesce a nascondere un senso generale d’insufficienza e di disagio”350. La diagnosi evoliana è quella del nichilismo. La sua posizione di fronte ad esso è attiva e pratica: filosofica. La comprensione della crisi è in potenza il suo superamento. E il fatto che Evola usi la parola crisi è significativo. Krisis etimologicamente ha il senso di una discriminazione, di una decisione. Essa separa (Kríno) una maniera di essere dall’altra e significa più specialmente il cambiamento improvviso che sopravviene nel corso di una malattia da cui si decide la guarigione o la morte. La crisi è il momento riflessivo d’un mondo ebbro di devastazione. Un mondo che ha già lasciato dietro di sé il “crepuscolo degli dei” e che ha fatto dello stesso crepuscolo un idolo cui sacrificare milioni di uomini. Deve essere chiaro che Evola affida alla risoluzione magica della filosofia la sua vocazione spirituale e insieme la speranza d’un umanità nuova. Il carattere di questi suoi primi e ultimi scritti ha un qualcosa di apocalittico. Egli da giovane non ha mai voluto diventare un dotto, e tanto meno un professore, come pensava Guénon351. La sua opera ha da subito, dal periodo cosiddetto artistico, un valore palingenetico, ben espresso dalle seguenti parole che strappiamo ad una intenso articolo pubblicato dal barone sul periodico L’Idealismo Realistico: “L’idealismo moderno si può definire così: un’esigenza profonda verso un’assoluta autorealizzazione […]. l’idealismo astratto […] trapasserà in un idealismo màgico o realistico che, volgendo 350 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 27. Lettera di René Guénon a Guido De Giorgio del 15 agosto 1927, in René Guénon, 23 lettrere a Guido DE GIORGIO, Edizioni Ḥaḍra, ?: “[…] in ogni caso, se potete avere qualche influenza su Evola, sarebbe davvero una buona cosa: lo ritengo intelligente, ma pieno di pregiudizi di tutti i tipi; penso, in ogni caso, che ambisca ad un posto nell’Università, e questo può anche condizionarlo per più versi”. 351 124 Capitolo II l’individuo concreto a farsi sufficiente ai princîpi di incondizionata libertà e di potenza còsmica, potrà forse schiudere una nuova, inaudita era nella storia dello spirito”352. Tilgher e con lui Calogero si rammaricarono che Evola si fosse perduto abbandonando la filosofia. Evola si rammaricò che loro non si fossero trovati restando filosofi, e ghignò tutto il suo sprezzo e la sua malcelata delusione nei confronti dei professori di filosofia, “piccolo borghesi, professionisti del pensiero speculativo” che non poterono ─ ma volevano? ─ seguirlo353. Ci sia permessa l’ironia: anche armati di una potente fantasia non è semplice immaginare Giovanni Gentile con indosso i paramenti magici. E come è stato notato, solo con una “curiosa nonchalance” Armando Carlini poteva scrivere che “ come tutti sanno quanti seguono l’opera infaticabile di questo scrittore, egli è per un rinnovamento della magia e per il ritorno non al cattolicesimo, né ad altra religione, ma alla visione ellenico-classica della vita”354. L’intento di Evola era chiaro. E per questo le sue opere filosofiche non ricevettero un’adeguata attenzione critica, di là dalle fuggevoli recensioni degli “addetti ai lavori” che pur non mancarono. Il problema era che un simile intento era squalificato alla sorgente a causa della sua essenza spirituale. Evola non era in cerca di apprezzamenti o di un posto all’Università. Viandante solitario, dai più non gradito e temuto, era forse in cerca di amici, compagni di un itinerario nel proibito e forse anche di sodali, non di colleghi accademici. Non per nulla fu proprio Adriano Tilgher, nome di spicco tra gli ambienti nobili della cultura, ad essergli il più vicino. E Tilgher era il 352 J. Evola, L’idealismo della insufficienza, in L’Idealismo Realistico, Anno I, fasc. 2 (15 dicembre 1924), pp. [11]-18, ora in L’Idealismo Realistico (1924-1928), a cura di Gian Franco Lami, Antonio Pellicani Editore e Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 46. Il grassetto è nostro. 353 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit, p. 60. 354 A. Carlini, rec. a Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., in Vita Nova, luglio 1932, ora in Julius Evola, Vita Nova (1925-1933), a cura di Gian Franco Lami, Edizioni Settimo Sigillo e Fondazione Julius Evola, Roma, 1999, p. 267. Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., p. 184: “Nella visione classica della vita «dèmoni» e «dèi» avevano il loro posto ─ il mondo veniva cioè considerato nella sua totalità comprendente sia il subnaturale, sia il sovrannaturale […]. In pari tempo, come forse in nessun’altra civiltà, era vivo il senso della personalità come forza, forma, principio, valore, còmpito. Essa conosceva l’invisibile, ma al suo centro celebrava l’ideale della «cultura», cioè della formazione spirituale, della enucleazione quasi di vive e compiute opere d’arte”. 125 Capitolo II filosofo accademico ostile al fascismo e nemico dell’idealismo gentiliano. Questa filosofia evoliana che sorge e tramonta nello spazio di un mattino si presenta di fronte alla cultura ufficiale come una barbara incursione in territorio straniero. Non per dire no e sparire indignata, ma come fase di una evoluzione, di un processo vivente di elevazione interiore e al contempo sua descrizione, possibilità affermativa per sé e per gli altri. Essa è il preludio dell’azione: “Per una quantità di elementi, che qui non posso esporre, la pubblicazione dell’opera principale mi rappresenta qualcosa di effettivamente importante, giacché, nell’ordine di quel che mi sono imposto, essa è la condizione per potermi più liberamente ed interamente volgere a ciò di cui l’insieme della mia dottrina teoreticamente esposta non è che l’astratto schema”355. Teoria e fenomenologia dell’Individuo condensazione di un trapasso. Il libro della vita. Assoluto è la *** Idealismo magico. L’espressione è del poeta Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis, cui Evola ispira il proprio dinamismo dell’azione. L’ascendenza è chiaramente quella dell’idealismo tedesco. La realtà è il prodotto dell’Io che la domina in virtù della sua volontà trascendentale. Individuo Assoluto come creatore della totalità dell’essere. Ma più che il poeta romantico, “nella cui idealità magica permangono residui di «oggettività» non completamente risolti nella spontaneità autopoietica dello spirito”356, è Ficthe il filosofo idealista tedesco cui Evola si può accostare con maggior profitto, nella concezione di una identità quale attività originaria pura (Tathandlung) in grado di porre al contempo Io e non-Io. Tuttavia il pensiero evoliano è in un rapporto imprescindibile con la filosofia gentiliana. Una vicinanza incolmabile che consentirà ad Evola di abbeverarsi alla fonte dell’atto puro ─ che risolve ogni determinazione oggettiva o 355 Lettera di Julius Evola a Benedetto Croce del 13 aprile 1925 F. Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo magico, op. cit. p. 14. 356 126 Capitolo II “pensato”, nella sua attività o “pensante” ─ e allo stesso tempo di maledirla in quanto acqua che non toglie la sete ma che la riconferma. Insomma, l’adesione evoliana al principio che anima qualsivoglia posizione idealistica, ben sintetizzata dalla formula del Berkeley: esse est percipi, è fuori discussione. Discutibile è invece, di là dalla genealogia d’un pensiero che non esita a dichiarare quella idealistica l’unica vera tradizione filosofica357, l’esito della decisione evoliana. E la trasmutazione operativa che viene compiuta sul corpo di questa stessa tradizione. Evola infatti sconvolge il problema del Principio attraversandolo teo-logicamente. La sua linea di azione contemplativa è quella, fra gli altri, di Eckhart, Cusano, Schelling. Una vena occulta, diciamo pure “minore”, che si offre con pre-potenza al suo sistema. Con la prepotenza della liberazione, télos della sua vita filosofica. Egli sviluppa il Principio Io in modo critico e certamente originale, ma sopratutto originario. L’impostazione classica dell’idealismo seppur declinata alla Gentile non riduce il suo pensiero a semplice episodio di “quelle che si son dette le ‘cronache di filosofia italiana’ del nostro secolo e, precisamente, in quelle degli ultimi anni Venti e dei primi anni Trenta”358. Non v’è più manifesta incomprensione del cominciamento evoliano di quella segnalata da queste poche parole. Esse infatti paralizzano ab origine il cammino del filosofo romano nella gabbia della rivolta anti-gentiliana. Il suo pensiero non è reattivo ma affermativo ed in questa affermazione arde le scorie dialettiche ed apparenti d’un potere o di un porre essenzialmente astratto. Se la meraviglia per cui le cose sono nella brutalità della loro “semplice presenza” deve essere strappata all’impenetrabile per farne libertà, autodeterminazione ed autarchia, possiamo capire perché sin dal suo inizio, l’idealismo magico determina l’Io, lo vuole non gnoseologicamente quale astratto soggetto di conoscenza (idealismo classico e attualismo) ma quale individuo reale, concreto il cui atto è potenza. Individuo Assoluto è il minimo del dato (in-dividuo, non ulteriormente divisibile, semplicità potente) nel massimo dell’intensità (ab-soluto, sciolto da qualsiasi contingenza, libero)359. La dottrina 357 Teoria dell’Individuo Assoluto (1927), op. cit., p. I. Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, op. cit., p.13. 359 Cfr. Franco Volpi, L’idealismo dimenticato del giovane Julius Evola, in Saggi sull’Idealismo magico, op. cit. p. 14: “«Individuo Assoluto» è il concetto che Evola sceglie per rappresentare tutta la potenza e la concretezza del principio dell’Io, imprimendogli il massimo grado di intensità”. 358 127 Capitolo II della liberazione dell’Evola non è processo o espediente meramente speculativo. Essa è devastazione pura del mondo che assiste e coopera alla propria annihilatio. Sono tre le prove iniziatiche sul cammino del cinabro: 1) La “prova del fuoco”. Rimozione d’ogni vincolo. Il principio stirneriano “Ich habe meine Sache auf nichts gestellt” è qui regola d’azione e forma di vita. 2) La “prova della sofferenza”. Assunzione della negazione e stoico “trionfo della volontà” sull’essere. 3) La “prova dell’amore”. Amor fati, consistere non più nell’astratta negazione di sé, ma in quella che è l’esistenza in sé della cosa come oggetto incondizionato. Il wei wu wei taoista. Da capire: “nella disciplina, l’atto non vale per la sua materia, sì per la sua forma”360. L’oggetto delle “disposizioni d’animo” che abbiamo appena sintetizzato è pretesto e posterius. L’idealismo magico usa la morale come mezzo. Essa non è mai ─ un fine. E vale in quanto “per essa la volontà possa potenziare la propria affermazione e mediazione”361. Il fine della volontà è nella volontà: autonomia. Ma la volontà dell’Individuo Assoluto non “vuole” alla maniera occidentale. Il duro e il forte sono i modi della morte: “nulla più dell’acqua, dice Lao Tze, è cedevole e secondante, ma, nello stesso tempo, nulla meglio di lei sa vincere il forte e il rigido: essa è indomabile perché a tutto adattantesi”362. Acqua di vita. Dare per possedere, cedere per dominare ─ morire per vivere. 360 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 91. Ibid., nota 12. 362 Ivi, p. 90. Cfr. anche J. Evola, Il libro della via e della virtù (di Lao-Tze), Edizioni Mediterranee, Roma, 2008, Roma, p. 67, cap. LXXVIII: “Non vi è al mondo nulla di più debole e cedevole dell’acqua, ma nello stesso tempo non vi è nulla che la superi nel vincere il forte ed il rigido. Essa è indomabile perché a tutto adattantesi. Così il debole trionfa sul forte, il flessibile trionfa sul rigido: questa verità è chiara, ma nessuno agisce conformemente ad essa. Perciò il Perfetto dice: ─ Colui che riceve in sé gli obbrobri del mondo ne è la provvidenza; colui che riceve in sé le sventure del mondo ne è il Signore. ─ Questa è la verità nascosta”. Da sottolineare anche la nota 48 a fine pagina in cui Evola afferma che in quel “riceve in sé le sventure del mondo” (: sta, letteralmente, per “regno”) è “svelata (in funzione di valore individuale) la logicità trascendentale della missione soteriologica del Cristo. 361 128 Capitolo II L’Io che s’alza in piedi al termine di questa catarsi della potenza, l’Io che si libera dall’io non è il cogito cartesiano o il coagito michelstaedteriano363. Non è il soggetto trascendentale come astratta facoltà del pensare ma l’Io assoluto, centro di potenza, attualità, evidenza e correlazione. Io sono, dunque penso. L’Io è l’Io. Immoltiplicabile, conchiuso, perfetto. Solo. Il presupposto gnoseologico dell’idealismo magico è l’Io. Si conosce quel che si è. La teoria della conoscenza è praxis. “Il punto dell’autarchia è quello della penetrazione, in luce e possesso perfetto, di quel mistero che si tende dietro all’atto di autocoscienza di chi ha sé stesso secondo necessità, ché tale autocoscienza […] è lampada che illumina solo dinnanzi a sé, ma dietro lascia la più profonda tenebra”364. La conoscenza è l’atto con cui l’Io si proietta negli altri esseri. Trasferimento dell’interiorità da un individuazione in un’altra: “intusire”. Il “guardar dentro” della visione. “Tale è lo stadio di intuizione o di coscienza cosmica”365. Io non posso ammettere una pluralità di soggetti aventi la mia stessa realtà o dignità metafisica. “La nuda e immanente certezza” che chiamo Io non è con-divisibile. In-dividuale, appunto. Assoluta mediazione non mediata da altro perché l’altro, non essendo centralità, è qualcosa di mediato. Quindi non è l’Io che, unico, lo condiziona: potenza e presupposto d’ogni mediazione. L’altro è elemento periferico del mio centro, oggetto particolare della mia esperienza. Esso non ha una sua realtà se non obliandomi come subiectum, suo centro di posizione. Come per i Pitagorici, “ogni numero è tale in virtù dell’Uno”366. La coscienza non è un punto statico ma ammette gradi di intensità. Essa può passare da “coscienza individuata” a “coscienza individuante” sperimentandosi negli altri 363 Cfr. Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 102: “Ma se pensare vuol dire agitare concetti, che appena per questa attività devono divenire conoscenza: io sono sempre vuoto nel presente e la cura del futuro dove io fingo il mio scopo mi toglie tutto il mio essere. Cogito=non-entia coagito, ergo non sum. 364 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., pp. 100-101. 365 Ivi, p. 100. 366 Ivi, p. 101. 129 Capitolo II “soggetti”. Da qui il senso del “noi” iniziatico367. Il punto della sintesi organica perfetta non è dato ma raggiunto dalla mia “in potenza” nell’atto. Dalla privazione alla perfezione. Dio è il nome d’una salvezza ai confini del possibile. “Come se l’insieme degli esseri a cui la mia esperienza è legata e che mi resistono fosse una materia inorganica, che chiede alla mia potenza l’unità, il punto che la farà vita, persuasione”368. Il processo è sintetico. Centro della dottrina: progresso da privazione a sufficienza nell’atto che la realizza. L’impulso che Evola scorge al fondo dell’idealismo trascendentale è “magico” perché intenzione di dominio. Quel che manca è l’integrazione pratica di questo conato affermativo, senza la quale esso resta superstiziosamente a guisa di relitto abbandonato sul fondamento irrazionale dell’idealismo. Irrazionale sta per nonrealizzato. Questo significa semplicemente che “sono un Nietzsche, un Weininger, un Michelstaedter a dare il senso a un Descartes, a un Berkeley, a un Kant e a un Fichte”369. E spiega perché l’edificio teorico sia destinato a saltare per aria se non è costruito su fondamenta invisibili. Quelle di un sapere che è sapio, il gusto incomunicabile della realizzazione. Forma o stile della vita. Lavoro su di sé. Evola porta l’idealismo a compimento nella coerenza della sua decisione. Decisione che è negazione immanente ai due capisaldi dell’idealismo. Il primo: oggetto inseparabile dal soggetto (Il reale è mio). Il secondo: soggetto come attività mediatrice (libertà del soggetto). Soggettività ed oggettività convergono verso un immanentismo assoluto. Ma nell’idealismo arrivato all’estremo della sua pensabilità Evola scorge il limite. L’idealismo riduce l’oggetto a posizione dell’Io in quanto risolve l’Io stesso nell’oggetto. “Ond’è che il senso dell’idealistico: ‘l’Io pone il non-Io’ è in realtà: ‘la natura pone se stessa’ o , più semplicemente: ‘un mondo è (ist da)’”370. L’Io si esaurisce in una “coscienza di fenomeni”. Il mondo, la vuota forma fenomenica invade la sostanza dell’essere individuale. Identificazione nella inesausta generazione degli enti. Immersione nell’universale: “una specie di passivo misticismo che in concreto si identifica con un 367 Ivi, p. 102. Ibid. 369 J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 38. 370 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 125. 368 130 Capitolo II assoluto, stupefatto fenomenismo”371. Nell’universale si specchia e si smarrisce l’individuo. L’idealismo non regge alla sua stessa critica. E l’esigenza della pratica del pensiero ne viola la perfezione formale rivelando l’antinomia che lo struttura. Il suo ordine è chiuso alla vita. L’idealismo deve superare se stesso poiché al suo termine ha scoperto la contingenza della (sua) verità: “la contingenza dell’assoluto speculativo” che incrina la credibilità della conoscenza372. Il non-senso che ne deriva abbatte la certezza gnoseologica. Definire con certezza la propria impotenza è la krisis. Possibilità del capovolgimento nichilistico: «La philosophie, c’est la réflexion aboutissant à reconnaître sa propre insuffisance et la necessité d’une action absolue partant du dedans»373. Dal nulla “oltre la linea”374. Quello stesso nulla da cui Jacobi si ritraeva scandalizzato scrivendo a Fichte nel 1799: “In verità, mio caro Fichte, non deve infastidirmi se Lei, o chicchessia, vuole chiamare ‘chimerismo’ quello che io contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo. […] una tale scelta ha […] l’uomo, questa sola: o il niente o un Dio. Se sceglie il niente, egli fa di sé Dio, il che significa che egli fa di Dio un fantasma, poiché è impossibile se non vi è un Dio, che l’uomo e quello che lo circonda non siano dei puri fantasmi. Ripeto: o Dio esiste, ed è fuori di me, un essere vivo, per sé sussistente, oppure io sono Dio. Non vi è una terza possibilità”375. Evola non si ritrae invece davanti al nulla. Si ritrae nel nulla come occasione. L’esito nichilistico dell’idealismo trascendentale può essere il nuovo cominciamento. La filosofia evoliana nasce nel deserto. Dove un occhio aperto alla potenza dell’Io vede crollare il 371 Ivi, p. 121. J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 146. 373 J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 27: «La filosofia è la riflessione che conduce a riconoscere la propria insufficienza e la necessità di un’azione assoluta che parta dall’interno». 374 Cfr. Ernst Jünger – Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 2004. 375 Fr. H. Jacobi, Werke, G. Fleischer, Leipzig, vol. III, 1816, p. 44; da: "Jacobi an Fichte", apparso per la prima volta nell'autunno 1799. Citazione tratta da Pierandrea Amato, Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo, Mimesis, 2001, pp. 15-16. 372 131 Capitolo II valore. Ma la contemplazione della disfatta è vertigine nichilistica che annuncia un’oasi oltre la disperazione. Alla voluttà della forma perfetta soltanto nell’astrazione succede la diffidenza e l’odio d’un pensiero che non mantiene le sue premesse. L’idealismo è lo stesso del nichilismo. L’identità è ambigua. Dipende dall’occhio credere all’illusione ottica per cui dove non si vede niente, non c’è niente. La differenza procede dall’esistenza. Una teoria vale l’altra. Ed Evola sceglie la “grande solitudine” iniettando nel rigore teoretico dell’idealismo classico che ha dato al problema della conoscenza un esito positivo insuperabile, il sacrificio di uomini che hanno dato al problema della esistenza un esito negativo irreversibile. Gentile e Nietzsche. In una sola parola: Evola. Il nichilismo in Evola presuppone l’arte in cui folgora l’evento autarchico. Essa è già esperienza totalitaria d’una negazione radicale. Il passo successivo è nella descrizione di questo evento: theôría di un ab-soluto che si vincola alla liberazione. Si badi. Il posto della filosofia è sin dall’inizio vagante perché già occupato dall’Io. La descrizione dialettica di uno scatenamento è un tornare indietro o un riconoscersi nel vortice. La riflessione del precipitare attivamente nella vita. Ma dopo che l’essenziale si è realizzato. Altrimenti Evola non potrebbe avere l’evidenza dello scacco di ogni filosofia così come ha avuto quello di ogni arte. E infatti: “Ciò che viene realizzato al termine della categoria filosofica come ‘Io trascendentale’ è il principio attuale dell’esperienza oggettiva in genere, v.d. il pensante di ogni pensare. Ora il pensante in quanto tale non può essere oggetto di una costruzione o mediazione, v.d. di un concetto propriamente detto. Quel pensante, che può essere dato da un concetto, è la negazione del pensante ─ non il pensante stesso, ma un pensato ─ il che contradice il principio della identità di forma e contenuto che pur dovrebbe comandare il termine della categoria: o, meglio, nel punto in cui il concetto pone davvero il pensante, esso consuma la propria formazione discorsiva e spinge il centro in ciò che, come potenza di ogni pensare ─ epperò anche di quello donde può procedere la fissazione del concetto stesso del pensante ─ non 132 Capitolo II può venire mai pensato, epperò cade fuori da qualunque determinazione filosofica pur restando inevitabilmente postulato da ognuna di esse. Così il concetto dell’Io trascendentale segna un punto di crisi: da una parte esso deve venire affermato filosoficamente ─ esso è la conclusione, il πέλος, su cui gravita l’intero sviluppo del criterio di verità, esso è il principio della perfetta risoluzione metafisica; ma questa affermazione o nega il proprio oggetto e, dilacerata da una interna contradizione, si trova impotente dinnanzi al proprio problema e a quello della filosofia in generale; ovvero, se si adegua alla sua aspirazione più profonda, nell’atto stesso di realizzarsi cessa di essere una affermazione filosofica”376. Idealismo magico è lo spazio di una sintesi di categoricità e assolutezza. La filosofia ha un nucleo di irriducibilità oggettiva che rende critica la sua espressione. Che non è mai espressione dell’assoluto: “donde una fatale immanenza della nota di categoricità e di universalità in qualunque giudizio speculativo in quanto è tale”377. La visione fenomenologica evoliana s’apre su questa dialettica bloccata di categoricità del momento filosofico che lo apparenta alla scienza, e di assolutezza. Di quella tensione all’assoluto che è liberazione dalla filosofia verso l’individuale. Qui risiede il differenziale di potenza tra e scienza e filosofia che “resta dunque fissata come la categoria nella quale un mondo contingente viene intellettualmente assunto sub specie aeternitatis”378. Il suo destino ineliminabile è quello di dar per contenuto dell’immutabile e dell’eterno l’inafferrabile e il trasmutante. L’esito della filosofia è la resa incondizionata alla sua impossibile vocazione: “Si può dire ‘veritas filia temporibus’, ma questa stessa è una verità che viene messa fuori dal tempo”379. Il Sollen quale dovere della verità non può darsi come assoluto. Se per Nietzsche la morale si supera per la veracità che ne costituisce l’essenza, così per Evola la filosofia si divora nella sua fondante aporeticità. L’assoluto categorico è il nodo inestricabile che può sciogliersi nell’Individuo assoluto. E questo, al 376 J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., pp. 153-154. Ivi, p. 146. 378 Ivi, p. 145. 379 Ivi, p. 146. 377 133 Capitolo II fondo della sua impraticabilità, è il cammino che si crea nel percorrerlo. Caduco è quel che si dispiega nelle varie dottrine, siano esse la filosofia della contingenza, la dottrina scettica, relativistica o del divenire dialettico etc., e che sembra intrinsecamente evidente. Per il concetto stesso della filosofia che deve rivestire d’assoluto la nuda contingenza. E imprimere al divenire il carattere dell’essere. Dare forma all’informe. Ordinare il caos. L’“in potenza” assoluta della filosofia è la rivolta del contingente che la apre alla ricerca inesausta. L’assoluto, nell’ottica critica è miraggio, conclusione sempre a venire: “Ogni concetto, logica e sistema, materialiter ha sempre un valore ipotetico, poiché il principium individuationis, la potenza profonda che determina e afferma la varia realtà metafisica, è sempre il principio della persona, v.d. un che di contingente, un particolare tratto da una compossibilità”380. Nel passaggio dal momento formale a quello materiale si scopre che l’assoluto ha bisogno di un corpo, “e questo soltanto la personalità può offrirglielo381”. Bene, ma questa incarnazione si attua su un altro piano che non quello meramente filosofico. La qualità contingente d’ogni possibile speculare abbatte la praticabilità della meta: “[…] se di là dallo scetticismo empiristico, vittorioso di un realismo ingenuamente dogmatico, un idealismo trascendentale o critico rende intellegibile e fondato un sistema dell’oggettività, tale idealismo da un punto di vista ulteriore risulta un realismo trascendentale ed è travolto da un contingentismo trascendentale”382. L’accesso ad una dimora trans-filosofica è così spalancato. “Via dell’Individuo Assoluto” o “teoria della libertà”. 380 Ibid. Ibid. 382 Ivi, p. 147 381 134 Capitolo II Filosofia della liberazione “Non si può restare sempre sulle vette. Bisogna ridiscendere. A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto”. R. Daumal “Quota neutra del Cimone 1917 – Roma 1924”383. Al termine di Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto si respira un’aria delle altitudini, un’aria forte. Come al termine di una ascesa: “Bisogna essere fatti per quell’aria, altrimenti non è piccolo il rischio di raffreddarvisi. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa ─ ma come giacciono tranquille nella luce tutte le cose! Come si respira liberamente! Quante cose sentiamo sotto di noi! La filosofia, come l’ho compresa e vissuta fino ad oggi, è la vita volontaria tra i ghiacci e le cime”384. Sono parole di Nietzsche. Potrebbero essere di Evola, un uomo che “preferisce batter da solo o quasi, la montagna, e tentarne le cime più d’assalto, se così si può dire, che non per lenta, assicurata e metodica conquista”385. Ascesa come ascesi. Tra il 1917 e il 1918 Evola si trova vicino ad Asiago, assegnato a posizioni montane di prima linea. Qualche anno dopo, firmerà su Ur con lo pseudonimo di Iagla, questo ricordo personale: “[…] un ricordo che non mi si cancellerà mai, quello di una notte di guerra. Ero molto lontano, nel distacco lucente. L’allarme, ad un tratto. Mi riafferro. Sono in piedi. Sono sulla linea delle batterie. Che cosa allora si scatenò dal profondo, che cosa mi resse, che cosa mi 383 J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 237. Nietzsche, Ecce homo, Tascabili Economici Newton, Roma, 1993, p. 29. 385 J. Evola, Meditazioni delle vette. Scritti sulla montagna 1927-1959, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003, p. 119. 384 135 Capitolo II portò miracolosamente in ore d’inferno, che cosa agì nella lucidità soprannaturale di ogni gesto, di ogni pensiero, di ogni ordine, dei sensi che afferravano ogni percezione prima della percezione (e «caso» sia pur stato il restare illeso rimanendo in piedi ─ sentivo che potevo restarvi ─ con granate che mi scoppiavano a passi) ─ non lo saprei mai dire. Ma che cosa potevano essere gli dei omerici immortali discesi in seno alle sorti epiche degli uomini, allora certamente lo adombrai; e seppi ciò che non sanno, gli uomini, nel loro misero parlare sugli idoli”386. Il tenente d’artiglieria inizia ad elaborare “nelle tricee alpine” il suo Teoria e fenomenologia dell’Individuo Assoluto. In piena guerra e a stagione avanguardista non ancora esaurita. A conferma di quanto sia fuorviante ridurre il flusso del suo pensiero e della sua vita in periodi chiusi in se stessi. Non è solo questo però il motivo della nostra epica citazione. Essa infatti, oltre che permetterci di insistere sulla continuità ideale delle dimostrazioni evoliane ─ rese con una estrema varietà dei codici espressivi che ne strutturano la coerenza di fondo ─, ci offre un indizio importante per cogliere il significato della sua soluzione filosofica. O della sua via filosofica alla realizzazione dell’uomo. Una filosofia da intendersi quale formazione e non come informazione. Stile di vita che forma l’animus. Esercizio filosofico che scolpisce una “grande salute”. Come quella che può donare solo la presenza del sacro nell’uomo. Trascendenza immanente. Questo è il senso autentico della filosofia antica, che Evola chiamerebbe “tradizionale”387. Il punto è la trasformazione dell’individuale nella vita. Strappiamo qualche parola da una sua poco conosciuta lettera: “Mi appare un po’ singolare il tuo bisogno non solo di parlare della tua ‘conversione’, ma perfino di esplicare un amorevole… proselitismo. Nei miei riguardi, per la ‘conversione’ che importa, per quella che è un fatto indelebile di essenza, e non di sentimento o di fede religiosa, sto a posto ─ esattamente ─ da tredici anni. Per l’altra 386 Ur, Rivista di indirizzi per una scienza dell’Io, anno II (1928), numero I, Tilopa Editrice, ristampa anastatica, Roma, 1980, p. 136. 387 Sul pensiero antico come altissimo esercizio spirituale e sull’idea complessiva dell’universo derivante dalla decisione di vivere la filosofia in comunità, cfr. Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, 1998. 136 Capitolo II ‘conversione’, nulla sarebbe più facile: basterebbe ‘limitare’ e ‘velare’”388. Ebbene, a parte il tono informale che dona a queste parole un fascino particolare cui il lettore devoto del “Maestro della Tradizione” non è abituato (delizioso quello “sto a posto”, come si trattasse dell’analisi del sangue ─ e in un certo senso…), la lettera è rivelatrice per due motivi. In primo luogo la data: Vienna, 10 gennaio 1935. Evola ha già pubblicato tutte le sue opere filosofiche e, tra le altre, il fondamentale Rivolta contro il mondo moderno. Inizio del 1935. Se sottraiamo quei “tredici anni” di cui parla il Barone abbiamo il 1922 o meglio, la fine del 1921. L’anno in cui “smisi bruscamente ogni attività in quel dominio in margine all’arte e, dopo un punto morto, portai l’impulso che lo aveva suscitata su altri piani, senza però deflettere. Subentrarono così nuove fasi, intimamente concatenate, al di fuori del dominio estetico. A questa stregua, non vi è nulla che io senta di dover rinnegare. Si tratta di collocare ogni cosa nel suo giusto posto”389. Secondo motivo. Quella “conversione che importa, […] che è un fatto indelebile di essenza” è la nascita dell’Io. Nel superamento della fase artistica in quella filosofica crediamo di aver dato le coordinate di questo aurorale trapasso. Ora importa collocarlo in un sistema energetico che faccia della liberazione la sua “presupposizione» originaria390. L’origine, il farsi inizio della filosofia evoliana ha nell’Io la sua epoca. L’accesso teoretico al mondo del 388 Cfr. Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), a cura di Gianfranco de Turris, Quaderno n° 21, Fondazione Evola, Roma, 1987, p. 17. 389 J. Evola, La parole obscure du paysage interieur. Poème à 4 voix con due illustrazioni, Quaderno n° 27, Fondazione Evola, Roma, 1992, p. 8. Il grassetto è nostro. 390 Sulla “libertà” quale (s)fondamento del pensiero evoliano Cfr. Massimo Donà, Un pensiero della libertà. Julius Evola: filosofia e magia al cospetto dell’impossibile, in J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 13: “Introdurre un’opera come la Fenomenologia dell’Individuo Assoluto ─ una delle tappe fondamentali del percorso filosofico di Julius Evola ─ obbliga a chiarire in primis quello che costituisce forse «il presupposto» fondamentale di tutta la speculazione di un così grande pensatore, per troppo tempo rimosso dalla cultura italiana. Il fatto è che la sua prospettiva speculativa muove davvero tutta intera da un unico principio, indipendentemente dal quale, riteniamo, tutto il complesso e rigoroso sistema costruito dal filosofo romano non sarebbe stato in alcun modo possibile”. Vedasi inoltre l’agile libretto di Giovanni Damiano, La filosofia della libertà in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova, 1998. 137 Capitolo II valore passa per l’esistenza, per quel principio-Io o potenza dell’individuale che è origine. Il valore in quanto ursprung è presupposto o risultato del processo? Il problema è quello del cominciamento del sistema evoliano. Definiamo il valore che introduce la Teoria. Questo principio risolutivo che Evola anticipa quale compito o presuppone compiuto ha una essenza ambigua e se ne sta come sospeso sulla propria identità. Esso è teoreticamente un risultato ma esistenzialmente o intensivamente, una volontà d’inizio. In ordine al problema della certezza è lo stato-limite oltre cui non c’è un criterio ulteriore. Lo stato o concetto di valore è definito “dalla relazione assoluta fra il nudo principio dell’Io e quanto, nell’esperienza o coscienza dell’Io, è distinto da siffatto principio. Se si designa tale distinto come essere, il valore resta definito come la forma in cui la relazione fra Io ed essere si presenta come incondizionata, come qualcosa che non ammette una ulteriore mediazione”391. L’essere invece è “al limite ideale del suo concetto”, quel che nell’esperienza si dà come semplice presenza, puro fatto: “un «esserci» (Da-sein) indipendentemente dalla potenza dell’Io e da una qualsiasi relazione con un significato”. Il valore può allora definirsi come la risoluzione di una tale in-condizionatezza dell’essere nell’Io ossia la mediazione soggettiva di questa. La natura del valore e dell’essere “è essenzialmente formale”392. Per “forma” dobbiamo intendere il modo o funzione secondo la quale una determinata esperienza o determinazione della coscienza viene vissuta dall’Io. “Essere e valore […] contrassegnano sostanzialmente dei livelli dello spirito”393. Il valore poi, può al limite essere inteso come “la completa risoluzione di ciò che è «materia» (la determinatezza di un dato contenuto dell’esperienza) in ciò che è «forma»” 394. La relazione che definisce il valore è assoluta e richiede che la totalità di una data qualificazione dell’esperienza venga interamente consumata in un 391 J. Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto, Mediterranee, Roma, 1998, p. 25. Ibid. 393 Ivi, 25-26. 394 Ivi, p. 26. 392 138 Capitolo II “lampeggiamento dello spirito”395. Evola considera tre aspetti della sua essenza: il momento del comprendere, l’esperienza del possesso o del puro dominio e un possibile aspetto della volontà che è volontà di se stessa, pura, assoluta determinazione. Questi tre fenomeni comunicano nella loro “in-potenza”, in quanto l’oggetto è “ancora in un certo modo distinto dalla relazione che lo riprende”, di giungere al valore: la perfetta riduzione all’identico396. Esso appare come riduzione dell’incondizionatezza privativa = riduzione dell’incondizionato dell’essere, all’incondizionatezza positiva = riduzione all’incondizionato dell’Io. Siamo in quel che Evola denomina “piano dell’assoluta certezza” o “stato di giustizia”, che ha come presupposto essenziale il “principio della libertà”. E ad esso non si giunge che in grazia di una spontaneità assoluta: un movimento interiore che procede da pura iniziativa. Vogliamo chiamarlo un salto dell’essere397. Evola si riferisce all’esperienza comune. In essa, quel che si impone necessariamente all’uomo, la sua forma ossia il modo in cui viene vissuto, dipende da lui, dalla sua libera iniziativa: “l’Io è estrema istanza a se stesso”, senza scuse e appoggi 398. Il punto del valore è quello di una superiore potenza. Ma nella nostra esperienza non c’è nulla che non incorpori già il valore, che non ne partecipi la potenza, sia pure presso ad un momento di “privazione”: “[…] la partecipazione al valore è la condizione trascendentale per la possibilità di ogni certezza e conoscenza”399. La “categoria” che si affaccia nel valore supera agli occhi di Evola sia l’incompletezza formale di quella kantiana che quella completamente formale dell’idealismo assoluto post-kantiano. Se per filosofo si intende, con Simmel, “colui che possiede un organo di reazione per la totalità dell’essere”, allora l’Individuo Assoluto è colui che sposta il proprio centro al livello del valore400. Da qui l’affinità con le forma più alte di ascesi in cui “si tratta appunto di una presa di posizione vivente di fronte a tutta la vita”401. 395 Ibid. Ivi, p. 27. 397 Ibid. 398 Ivi, p. 28. 399 Ibid. 400 Ibid. 401 Ivi, p. 29. 396 139 Capitolo II Merita una considerazione particolare il problema del valore colto nel suo sorgere. La semplice esistenza, la vita passiva può essere una soluzione in quanto l’esserci contiene il criterio della validità. Essa appare da un lato come negazione del problema: rispetto alla relazione incondizionata che la definisce l’Io è determinativamente assente. Dall’altro lato però non è detto che questa assenza sia originaria, potendo essa riflettere un significato particolare in cui la relazione può essere assunta. Si presenta dunque “sul limite del puro dato esistenziale” quell’ambiguità cui più sopra abbiamo accennato. Essa è significativa poiché rivela che il sorgere del problema del valore costituisce un “inizio assoluto” in quanto non è posto presso all’essere. Se lo fosse, lo stesso essere non sarebbe più posto. Esso apparirebbe non come un antecedente ma come “possibilità di valore”. Ebbene, il non-porsi del problema non è un problema. Problematica è la possibilità che esso si ponga. La questione si risolve quindi solo col rinvio ad “un atto di assoluta libertà, […] un atto, di cui non tanto si può, quanto non si deve chiedere una ulteriore ragione, perché tutte le ragioni non vengono che dopo”402. Evola parla di un “moto doppio”. L’Io è infatti nello stesso tempo “liberato dal mondo” e “centro di responsabilità universale”403. Posta la volontà di valore, ogni condizionalità è sospesa e la forma gravita di diritto sull’Io. Ogni materia deve sublimarsi fino a completa trasparenza. Abbiamo insistito su questa introduzione del valore seguendo quasi pedissequamente il testo evoliano perché senza questa chiave l’accesso al sistema è precluso. La situazione è paradossale ed il genio di Evola ha reso formalmente la sostanza della vita in una circolarità senza scampo. L’accesso infatti è la decisione. La volontà del valore è causa e fine del processo quale atto immediato che ha la sua origine nel principio dell’Io. Ma il valore non può porsi che come premessa non necessaria e quindi solo come risultato logico se non è immediatamente voluto. Tanto è vero che il discorso del pensatore 402 403 Ibid. Ibid. 140 Capitolo II romano si sviluppa dallo “stato empirico di esistenza” ed arriva dopo al valore che pure l’ha introdotto. Questa sua obliqua presenza dipende dall’essenza del discorso filosofico che deve cominciare in una zona neutra in cui il valore non è né presupposto e né risultato. In sintesi: non è ma può essere. La posizione che apre la Teoria, e in questa apertura tradisce la filosofia come astrattezza, è quella della vita. L’inizio è una domanda senza risposta. Nel passaggio dal nonvalore al valore il cominciamento è una coscienza dilacerata che rispecchia il valore della condizione umana o stato della coscienza empirica: “in essa una violenza congiunge in un punto, di là dal quale non si può risalire, l’essere di diritto e l’essere di fatto, il valore e il nonvalore, l’assoluto e il finito, la libertà e la necessità. In essa la coscienza è assolutamente ambigua, oscillazione, tensione, antiteticità: ciò in cui le riluce la vita è anche ciò per cui soffre la morte. Questo è il fatto, l’ὅτι elementare ─ il primo «essere» da risolvere in «valore»”404. La Teoria dell’Evola è risoluzione dell’essere in valore che può iniziare senza mediazione alcuna. L’evento dell’Io accade. La soluzione è già nella posizione del problema. Il cominciamento è attraversato da una doppia possibilità. L’inizio si trae da se stesso quale metanoia, salto, risveglio. Esso si gioca nella realtà della coscienza empirica. L’idealismo magico nasce nel valore della nuda esistenza ove s’affaccia l’incondizionato. Il salto è attività libera. E si compie nella vita. La ricerca del principio conduce dunque al niente. A quel sorgere della libertà che non è mai data una volta per tutte. La filosofia evoliana non è infatti una filosofia della libertà quanto piuttosto una filosofia della liberazione. La distinzione è importante. La libertà non si riduce ad ente, non è oggettivabile ed in quanto tale, inesauribile. Di là dalla semplice presenza di quel che è, essa non tanto è nel mondo ma si fa mondo con-tenendo l’affermazione e la 404 Ivi, p. 58. 141 Capitolo II negazione quali compossibilità. L’idealismo magico è un processo dinamico in cui l’Io si libera affermando libertà e necessita come i due volti d’una stessa identità. La possibilità assoluta. La libertà evoliana è libera in senso eminente soltanto perché la sua caduta è sempre possibile. Dio è onnipotente attraverso la ferita. La libertà è il momento di un processo che non finisce mai e proprio questa tensione dinamica è il motore dell’opera evoliana. Se la libertà fosse uno stato, una condizione da acquisire una volta per tutte non sarebbe libera. Liberazione allora da qualsiasi vincolo, sempre oltre: l’illusione, l’errore, la menzogna. In questo essere libera anche da se stessa la libertà coincide col momento ri-velativo della nostra coscienza aperta al mondo. E non incatenata alla relazione cartesiana tra soggetto e oggetto. L’inesauribilità della libertà non è fondante ed ultimativa. Una leggerezza carica di responsabilità la anima e la spinge sempre al limite della propria differenza: a farsi impossibile. Una odissea è questo suo ritornare nell’infinitamente altro della sua origine. Inizio innocente sempre sul punto di delirare. Insondabile destino che “lascia essere” e non violenta mai le cose nella sua inesausta capacità di attrazione e repulsione, nel suo traboccante “distacco”405. Un baratro di luce. Non è stata sufficientemente valutata dalla critica la portata e la fragilità di questo nodo metafisico che scioglie il luogo della libertà (Io) nella sua liberazione (assoluto). L’Io decide di dispiegarsi nella libertà in cui il dato empirico era da sempre ac-caduto. Nella progressione dal meno (privazione) al più (dominazione) non si tratta però d’una linearità-necessità che potenzia l’Io. Il salto dell’essere conduce liberamente l’Individuo ai confini della propria integrità, lo risolve nell’amore di tutto quel che è. Il processo è sommamente rischioso perché mai garantito. Non è detto che l’Individuo possa 405 Cfr. J. L. Nancy, L’‘etica originaria’ di Heidegger, Cronopio, Napoli, 1996, p. 15: “[…] il lasciar essere non è una passività, ma è appunto, l’agire stesso”. La decisione della libertà. Sul carattere non violento dell’azione attiva propugnata dall’Evola, misconosciuta da molti suoi critici di ieri e di oggi: “Volere una cosa per sé stessi, è lasciar prendere l’Io dall’oggetto della volizione e rinunciare quindi a priori ad averlo realmente. Del pari, l’azione violenta ed appassionata contro delle cose testimonia che esse hanno a priori per l’Io una realtà e, a dir vero, proprio come antitesi, e non riesce quindi a superare l’antitesi, ma solo a esasperarla e riconfermarla e a negare il piano dell’assoluta autodeterminazione. Violentando le cose, si va in realtà a violentare solo l’Io, poiché ciò implica sbalzare l’Io fuori dal punto che non ha nulla di contro a sé. Il principio fondamentale della magica è che per avere realmente una cosa, occorre volerla non per l’Io ma per sé stessa, ossia amarla”, in J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., p. 89. 142 Capitolo II sopportare la tensione della libertà. Se di fondamento si può parlare, la libertà del sistema evoliano è tale solo nella sua sempre possibile assenza, deriva, sfaldamento. L’Individuo Assoluto è il nome di una conquista continua: un dio che corre lacerando il niente che l’avvolge. L’equivoco fomentato da chi ritiene Evola un filosofo della violenza e della sopraffazione non esiste. Tuttavia va compreso in quanto rientra fatalmente nelle maglie d’una ermeneutica dell’essere. Già Nietzsche insegnava: l’uguale trae l’uguale. Più chiaramente: la rilevanza teoretica data da Evola al concetto di libertà non è unidirezionale, ma può essere attraversata in due sensi, quindi anche non attraversata. Insistere su un solo lato significa mutilare la libertà. Credere poi che uno di essi significhi violenza o “dominio” significa non comprendere che l’Individuo è spietato con se stesso perché solo in se stesso può raggiungere, capire e, si badi!, aiutare gli altri. Il processo è realizzativo, positivo ed in questo suo procedere si occulta il negativo. La possibilità del non essere è reale e potente quanto l’altra. Ogni uomo è solo davanti al bivio della rettorica e della persuasione. Ed è solo ancor più se decide di percorrere la via individuale. L’altra, si fa vivere. L’Individuo Assoluto nella sua continua sottrazione al limite è sempre proiettato verso il mondo: sovrano dell’eccesso. Egli è quanto di meno conciliato e soddisfatto si possa immaginare. Perché della stessa morte ha fatto dimora di libertà406. Il coraggio dell’Uomo che Evola vuole al centro della sua visione e attraverso i cui occhi vede la liberazione è quello dell’assoluto. E solo per questo il suo sistema è stra-ordinario ed infondato. L’idealismo è l’impeccabile rovina della forma che Evola applica all’esistenza. E si fa magico nel coronamento ultra-razionale (non irrazionale!) della vuota astrattezza. Si libera così della “ragione” e consolida la posizione autarchica. Il principio da cui filosoficamente Evola muove ─ ma è un principio fecondato dal ritorno ad un sapere altro che già da giovanissimo lo aveva prepotentemente informato ─ è l’esito idealistico della filosofia moderna. Esito infausto perché fermo ad una glorificazione puramente formale o cerebrale del valore trascendentale 406 Cfr. F. Nietzsche, Il canto dei sepolcri, in Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2003 p. 128: “Sì, tu sei ancora in grado di spezzare tutti i sepolcri per me: salve a te, mia volontà! E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni”. 143 Capitolo II dell’Io. Il filosofo romano distrugge gli ingranaggi di una meccanica della necessità che dopo la grande rivoluzione kantiana aveva costretto la relazione dell’essere e del pensiero nella loro reciprocità dialettica. E successivamente lo aveva inabissato nella perfetta gratuità di un Geist assoluto. Il delirio logico in cui affondava la natura del nuovo Io imprigionava così il suo conato manifestativo nella possibilità negativa di quel che sarebbe potuto anche non essere. Evola comprende questa stessa possibilità e ne fa il motore di una indipendenza assoluta, perché sciolta irrimediabilmente da quel che deve essere. L’arbitrio della potenza è questa liberazione. Impossibilità per i limiti di una teoria della conoscenza e per questo abbandonata nei lidi in cui la vita si lascia “riflettere”. Da qui la poiesis magica ed il divenire fattivo del gesto pensante che nel sistema evoliano è energia. Teoria è un libro agitato da suoni metallici: gli scontri di una logica ferrea contro il muro del volere. Evola sa che l’Io è esperienza raccolta dal pensiero quando il tempo sospende il proprio essere estatico-funzionale per divenire attimo immenso ─ disvelato nella immanenza totalitaria. Pura libertà o potenza dell’Io. Se la manifestazione obbedisse ad un destino superiore che divora tutte le possibilità, la libertà sarebbe uguale alla necessità. E dovrebbe dirsi e darsi esclusivamente nella forma di un riconoscimento di quel che è già stato. Uno “stupefatto fenomenismo”. La datità dell’ente sarebbe libera… di essere quello che è! Se si desse una eccedenza del possibile sul reale invece, l’Io potrebbe nietzscheanamente “volere al contrario”. La liberazione è anche sottrazione del tempo quale immobilità dell’Io che prostituisce al presente passato avvenire il suo compimento. Il dinamismo pratico della posizione evoliana al contrario è sempre caccia all’eternità, insoddisfatta tensione al limite. L’eterno presente di una ascesi dell’azione. La libertà non è il nome di una vana illusione garantita dalla speculazione sull’Io. Insomma Evola esige la perfetta libertà dell’Io post-idealistico tradita dalle sue stesse premesse. L’esigenza è legittima e teoreticamente ineccepibile. Tuttavia in forza di questa sua radicalità s’espone come deliberato invito al fraintendimento. Totalitario è forse lo stesso di totalitarista? 144 Capitolo II Evola tenta davvero l’impossibile: sottrarre la libertà alla catena della necessità e redimerla nell’illimitato arbitrio dell’Individuo407. O la libertà è la liberazione dell’Io, o essa non è. Il che significa: o l’io si libera o resta una irriducibile aporia il cui svolgimento è reso dalla filosofia evoliana con una partecipazione tale da farsi evento. E per qualcuno forse, eventualità. L’Io come accadimento originario nella libertà può essere nello stesso tempo auto-toglimento, revoca e rinuncia. La possibilità del secondo sentiero, la via dominata dall’“altro”. Questione di vocazione o “natura propria”. Tuttavia è chiara la decisione evoliana. E questo spiega il carattere ermetico della sua filosofia letteralmente invasa dalle dottrine realizzative d’Oriente e d’Occidente e impregnata d’una qualità iniziatica che non lascia scampo ai suoi stanchi epigoni408. Una domanda infatti: quali sono le condizioni soggettive ed oggettive della filosofia evoliana? Ma forse il barone non ha insistito a sufficienza sulla irripetibilità della sua esperienza e sull’unicità della sua via (e)soterica. E allora siamo alla funzione rigeneratrice, palingenetica ed affermativa di un sapere che ostinatamente s’insinua tra le pieghe di un tempo in vena di declino. Una epoca cui Evola apporta il suo contributo pontificale. Un tonificante per rinvigorire le membra dell’Occidente piagate dal devozionismo passivismo a-teismo, sia esso poi quello più schiettamente filosofico o quello di una tradizione iniziatica sacerdotale abortita nel culto particolare ─ non doveva essere cattolico? ─ di una potenza mondana provvidenzialmente adeguatasi al secolo. Il guardare indietro della sua filosofia non è la triste rammemorazione del paradiso perduto: malinconia al tramonto della civiltà trafitta dai raggi aurei del satya yuga. No! È la visione di quel 407 Cfr. U. Spirito, L’idealismo italiano ed i suoi critici, Le Monnier, Firenze, 1930, p. 197: “Per Evola […] la vera libertà si identifica con l’arbitrio, col principio sufficiente di una legislazione assolutamente arbitraria. Libero è veramente quell’uomo che con un atto assolutamente primo può negare tutto e affermare tutto, l’essere e il non essere”. 408 Cfr. Massimo Scaligero (Dallo Yoga ai Rosacroce, 1, 32) citato da Pio Filippani-Ronconi, Julius Evola: per una impersonalità attiva, in Julius Evola, un pensiero per la fine del millennio (Atti del convegno di Milano, 27-28 novembre 1998), Fondazione Julius Evola, Roma, 2001, p. 17: “capii che di Evola non ce ne poteva essere che uno solo valido e non delle copie: tutto il suo insegnamento, il suo Yoga, il suo Tantrismo, il suo ‘Grande Veicolo’ presuppongono la qualità interiore originaria, la magia immaginativa, che per il cercatore moderno è un punto d’arrivo […] Essendo la cosciena immaginativa la condizione per la coscienza magica, l’arte del discepolo è ritrovare dietro il pensiero riflesso la luce immaginativa […] laddove il suo pensiero coincideva con il proprio contenuto ideale, ivi di volta in volta, si accendeva la intuizione della Realtà, come interiorità del medesimo processo pensante”. 145 Capitolo II che siamo (stati) e che non vogliamo più essere. Ancora più importante: che possiamo ancora essere. Una sfida alla viltà degli abitanti dell’“impianto” (Ge-Stell) moderno che prestissimo rivelerà la sua orribile fisionomia. Forse proprio in virtù del suo “pathos della distanza”, Evola sembra sempre avere una gran fretta, e talvolta la sua immobilità spirituale o fermezza interiore sembra vacillare. Una sorta di rincorsa alla decadenza, quasi avesse il presentimento di un evento prodigioso imminente. Oltre ogni astratta e concreta opposizione ─ la vista di quel che siamo in quanto uno ─, Evola scaglia la sua filosofia come tentativo o forse tentazione. Affinché la capacità attrattiva della virtus aduni intorno a sé i vocati al ricordo. Quello della nostra doppia natura tutt’altro che irreparabile o condannata alla lacerazione. Per non parlare di oltremondani destini di tortura o di metafisica beatitudine. L’uomo è qui ed ora e non vuole essere salvato ─ se non da se stesso. E lo spazio del nostro distanziamento dal vero dura l’istante della decisione. Spirito è il “principio profondo dell’individuo” che può sempre ri-trattare la libertà “non appena lo si voglia e in quanto lo si voglia”409. Il percorso è sempre reversibile non solo perché possibilità di un altrimenti ma anche e soprattutto come l’altrimenti impossibile che quel che già è non sia ancora. Sul fondo della libertà giace una impossibile possibilità: “A chi dunque chiedesse se per avventura, si pretenda che i varî gradi, che verranno determinati, siano proprio le tappe necessarie ed inconvertibili dello spirito, si risponderebbe naturalmente: Sì e no. S ì a posteriori, in quanto in essi si esprime una affermazione assoluta dell’individuale, la quale non ne ha altre di contro a sé che come errore o come momenti in essa riprendibili, dato che ciò appunto egli vuole come verità. No in quanto il valore di individualità dell’affermazione che, solo, secondo gli esposti principî, può garantire l’assoluta certezza e l’inconvertibilità sia di quei gradi che della specifica lor concatenazione, implica che nel livello più profondo dell’affermazione stessa sia attuale la persuasione che se 409 Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 45. 146 Capitolo II essa è così, può anche, non appena lo si voglia e in quanto lo si voglia, essere altrimenti”410. Affermazione e negazione si danno insieme nel tempo in cui le cose che accadono potrebbero non essere ancora accadute. Non vi è resa al dato nel necessario dispiegarsi del fenomenico: destino della libertà o decisione custodita nelle profondità dell’Io. Eccedenza della volontà. Evola è nemico dell’universale indifferenziato: “tutte quelle direzioni di sviluppo tendenti a sciogliere come che sia il nucleo dell’individualità in un ‘universale’, in un principio superiore indifferenziato ─ come in certe mistiche e in certe correnti iniziatiche occidentali ─ facendo cadere il momento della distinzione, sono da dirsi regressive, degenerative, volgenti non ad un sovrumano, ma ad un preumano ─ al mondo della qualità”411. La tradizione esoterico-magica cui espressamente si richiama collegando ad essa il proprio sforzo di elevazione, rifugge con violenza dalla estatica contemplazione del vero e da una fede rivelata esclusivamente dalla compattezza del sentimento che la ispira412. L’universale ha senso solo se “assunto dall’Io per l’assoluta sua purificazione”413. Dopo la “Grande Solitudine” in cui l’Io ha “saputo gittar via tutto” portandosi alla disperazione, l’esperienza del Fuoco vede l’Io, per il puro amore della contraddizione e della negazione, tenersi fermo nell’incendio di quel che costituiva la sua vita. 410 Ivi, pp. 44-45. Ivi, p. 183. 412 Cfr. J. Evola, La Dottrina del Risveglio, Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, pp. 95-96: “L’essenziale […] è il metter l’uomo di fronte alla inattenuata conoscenza di se stesso e di tutto ciò che è condizionato, per chiedergli: «Puoi dire: questo sono io? Puoi veramente identificarti con questo? È questo che tu vuoi?». Tale è il punto della decisione fondamentale, tale è la pietra di prova per la distinzione degli ‘esseri nobili’ da quelli volgari, è qui che si separano le essenze, è così che si definiscono le vocazioni. La prova, nel buddhismo, ha dei gradi: dalle forme più immediate di esperienza il discepolo è condotto a stadi superiori, ad orizzonti soprasensibili, al tutto, a mondi celesti, per rinnovare la domanda: Questo sei tu? Puoi identificarti con ciò? Puoi esaurirti in ciò? È ciò tutto quello che vuoi? L’essere nobile finisce col rispondere sempre di no. Allora si ha il rivolgimento, la revulsione. Per questo, egli lascia la casa, rinuncia al mondo e prende la via dell’ascesi”. 413 Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 184. 411 147 Capitolo II Dal dilaceramento si integra. Nella distruzione si crea Signore del fuoco: “nell’indeterminazione delle cose e delle leggi che vengono meno all’impeto selvaggio egli celebra il valore dell’autarchia”414. Qui l’Io si è, secondo l’espressione alchemica, lavato nelle Acque (: “la potenza strumentale «feminile» ─ che in sé è dinamicità pura, caotica, scatenata ─ del supremo principio «maschile»”) che gli hanno donato durezza e infrangibilità: “disciolto, cioè liberato e integrato nel principio dell’originaria indeterminazione”415. Ma è soltanto una fase preliminare che consente all’Io di farsi “ente di agilità”. Dopo, potrà negare questa stessa negazione sotto l’imperio d’una volontà superiore: l’amore o “soffrire attivo”. Questo Io, ormai “fuoco purificato” è in perfetta armonia col ritmo dell’essere perché fa sue le cose mediante l’amore, com-prendendole. Si può realmente dominare soltanto dopo aver amato in un rapporto di identità: “Così: mentre nell’«esperienza del fuoco» l’Io traeva la superiorità dalla potenza, qui volgerà a trarre la potenza dalla superiorità, e questa dell’ [dall’] esasperata durezza di un soffrire, di un rinunciare, di un sacrificarsi là dove tutta una forza mostruosa tenderebbe invece all’affermazione”416. Il Fuoco diviene Luce. Questa intrepidezza del soffrire si vuole come “una dedizione che non chiede nulla”: l’elemento dell’atto perfetto che è nel vuoto di un dono inesauribile. L’Amore qui è “un soffrire attivo, purificato, intrepido ─ un soffrire che si dà a sé stesso; è, d’altra parte, l’elemento di un atto perfetto, dell’atto per eccellenza, ché tale è l’atto di colui che sa assolutamentre abolirsi, nulla riferire a sé”417. Il dire sì alla vita. La dipendenza dell’azione negativa è risolta nella “freschezza” che è “libertà dall’Io e libertà delle cose”. Il dato è ora atto di una superiore libertà senza appoggi, relazioni: 414 Ivi, pp. 183-184. Ivi, p. 184. 416 Ivi, p. 191. 417 Ivi, p. 190. 415 148 Capitolo II “Questa azione liberata discioglie dunque dal piano in cui il mondo particolare non è che nella forma di un puro, esteriore apparire, o esserci, del suo caput mortuum fenomenico-ideale; genera un organo, una possibilità in cui possono venire evocate le più profonde potenze che stan sotto quel mondo stesso”418. L’Io è tutto poiché “nulla è, che non sia per l’Io”. Ed egli è assoluto o libero solo perché scioglie ogni fissità vivendo l’infinito come la sua più intima natura. Da qui la calma trionfale che sta al fondo dell’animo autarchico quale “signore interiore” di un mondo da cui si libera e che è nello stesso tempo liberazione. Ecco perché fatichiamo a capire come si possa definire “vitalistico” il pensiero evoliano, se per vitalismo si intende il vano agitarsi in preda all’angoscia inconoscibile, che peraltro Evola non esitava a riconoscere in buona parte della cosiddetta filosofia dell’esistenza419. Il fremito, il fervore, la sete, la brama, il patetico incatenamento alla forza della vita etc. non ci sembrano in nessun modo costituire il nucleo di questa apologia della fermezza interiore. Tanto più che la stessa valenza titanica di certe formule esperienziali si dà come miccia, accensione di un particolare status interno, strumentale all’alzarsi in piedi, al possedersi, al consistere senza sforzo, con gratuità, leggerezza, “freschezza”. Lo spirituale non può essere faticoso, muscolare, violento. Questo deve essere chiaro. Ed Evola ha detto e scritto su questo parole di una solarità accecante. Qui basti un esempio: “La violenza titanica e distruttiva, pur costituendo una fase necessaria ─ ché da essa è inizialmente eccitato il Fuoco interno, destato il senso dell’indomabilità audace e della superiorità ─ non saprebbe in sé stessa giungere all’ordine di una vera dominazione. Dinnanzi a questa, essa rappresenta piuttosto un negativo. Infatti la potenza vera non può avere nemici, non può lottare, non può avere 418 419 Ibid. Cfr. J. Evola, Il vicolo cieco dell’esistenzialismo, in Cavalcare la tigre, op. cit., pp. 77-96. 149 Capitolo II alcun «contro». Con la lotta, l’intolleranza e la violenza si conferma invece uno stato di particolarità, un agitarsi incatenati allo stesso livello di ciò che si nega: una volontà che è così assurdo possa farsi signora del tutto, quanto una mano dell’intero organismo: qui l’Io non è ancora libero dalle cose, conferma che esse possono resistere, e tanto più, per quanto più, soffrendole, vuole negarle ─ testimonia dunque una impotenza, un rapporto estrinseco e dipendente: in fondo, con la usa stessa temerità dà segno di paura. Chi veramente può non lotta, non distrugge, non ha bisogno di violenza. Egli si impone direttamente, senza azione, mediante la sua interiore individuale superiorità rispetto a ciò a cui egli comanda”420. Il “dominio” di cui parla Evola non annienta le cose, l’“altro” o non sarebbe tale. Più semplicemente ne risolve il carattere di antitesi, di correlazione, di “contro” ─ diabolus è l’ostacolo, l’objectum, ciò che contrasta, che resiste, che testimonia dunque una attività imperfetta, quindi alterata, impura ─ e dunque le organizza interiormente in una libertà che non lede la diversità e l’autonomia degli esseri ma li prolunga soltanto, facendo dell’Io la loro dimensione occulta: una radice sottile, una forza invisibile che agisce dal “dentro” delle cose421. Già qui, in questo concetto dell’amore si riesce a presentire il vero “luogo” della magia “che ancora non è precisamente quello della presente esperienza”422. 420 Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 191. Il grassetto è nostro. E ancora, ivi, p. 217: “Ma il nodo tagliato non è nodo sciolto, anzi il tagliare è un riconfermare l’insufficienza, il dualismo. Che non resti alcun residuo, alcun dualismo, nulla che io non possa assumere ─ ciò chiede invece uno «stato di giustizia». La stessa riduzione delle «acque», allora, non saprebbe più essere che uno stadio provvisorio. Il ridurre, il lottare, il trasformare come che sia, non implica forse, alla fine, una non-sicurezza, una paura? un dubbio nello stato di assoluto potere? Lo stesso dominio, in quella forma immediata nella quale è apparso, non smaschera forse, in fondo, preoccupazione?, bisogno di prova, un volere la persuasione anziché essere persuasione? un atto dunque a cui il valore non è possesso attuale, qualità immanente, sibbene trascendenza, e dipendenza?”. 421 Cfr. Edmondo Dodsworth, Sull’‘Individuo Assoluto’. (LA TRADIZIONE E L’IMPERO), in Regime Corporativo, Anno XVIII – N. 10-11, Ott.-Nov. 1939, XVIII, p. 546: “In breve esiste un’organizzazione metafisica della libertà. 422 J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 191. Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 48: “Né mancava uno sfondo escatologico: la natura, quale «privazione», nonessere; il punto del realizzarsi dell’Individuo Assoluto come quello in cui essa è redenta e passa nello stato di un essere assoluto, racchiudente il suo principio e la sua fine (la «consumazione finale», l’ekpurosis). […] in quella [:la via] dell’Individuo Assoluto, io non posso isolarmi in un’astratta sufficienza, contrapponendo l’Io come valore al non-valore del mondo, a cui nego una realtà, ma che tuttavia esiste. Posto da me (anche se non come volontà libera ma come «spontaneità»), del mondo io sono responsabile. Se non devo essere dilacerato nel nucleo 150 Capitolo II Amore è sacrificio (render sacro), l’atto con cui il dio si abbandona, nel senso di una sicurezza assoluta convertita in dono: “il non volere la liberazione dal mondo ma il mondo come liberazione […], tale è il senso del Dio che si crocifigge al «legno del mondo», che sacrificandovisi tutto e uccidendovi il «regno dei cieli», lo redime e si purifica ─ si avvia alla spaventevole purezza dell’assoluta giustizia”423. Il tono fortemente drammatizzato di tali espressioni non inganni. Si tratta, come Evola ha cura di evidenziare, non di sentimenti, di fervore mistico-devozionale, di passivismo teistico o di eccessi poetici etc: “[…] queste sono esperienze metafisiche, non umane, del tutto trascendenti il mondo sentimentale”424. Quando Evola parla di “corpo magico” o “corpo di libertà” o “corpo immortale” o ancora riferendosi alla gnosi ellenistica di “corpo radiante o di fiamma” etc. non si deve pensare ad un corpo particolare vivente fra altri condannati alla mortalità, ma ad un corpo in cui ciò che è «materia» è risolto in forma di attività: “Si tratta […] essenzialmente di funzioni, e di funzioni, che trascendono ogni particolarità. Il «corpo immortale» è come la possibilità di infiniti corpi: vi è la moltitudine stessa dei corpi profondo del mio essere, esso deve esser risolto nel «valore». Si ripresentava quasi la concezione gnostico-manichea dell’Uno cosmico crocifisso nel mondo come senso dell’esser-nel-mondo, ma senza né dualismo né pessimismo, un circolo chiuso che non ammette scuse o fughe. L’Io stoico e l’unico di Stirner dovevano passare nella forma dell’atto puro aristotelico, risolutore del mondo della necessità e della vita mista a non vita”. I grassetti sono nostri. A proposito del carattere “stoico” della dottrina evoliano, cfr. Alfonso Piscitelli, Socrate, Marco Aurelio & Julius Evola. Intervista con Piero Di Vona, in Futuro Presente, numero 6, primavera 1995 p. 127: “[…] un libro come Cavalcare la tigre è di evidente ispirazione stoica. Dal confronto con certi testi come il Manuale di Epitteto o i Ricordi di Marco Aurelio le analogie saltano all’occhio. «Cavalcare la tigre» nel nostro tempo è un’opera che presenta un’omologia con quella che nel mondo antico poteva essere la dottrina degli stoici… è un «breviario per coloro che non credono». Sta bene, tuttavia si ricordino queste parole del giovane Evola: “[…] lo stoicismo, cioè la vita di colui che non sa dare un corpo alla propria fermezza e che però, dovendo in ogni caso agire a causa del correlativo del mondo della riflessione, soffre in ogni azione una contradizione e una violenza”, in J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit, p. 185. 423 J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 218. 424 Ibid. 151 Capitolo II compresa nel punto immortale di una funzione creativamente libera in cui essi sono immediate mante uno”425. Tre sono i mondi, o come le chiama hegelianamente Evola, le “epoche” della sua rivoluzione (revòlvere) fenomenologica. Il processo si caratterizza per la contingenza di questi tre momenti, sempre liberi, che non si trovano nel loro antecedente ma hanno la loro ragione di essere nell’atto dell’Io: Epoca della spontaneità, Epoca della personalità ed Epoca dell’Individuo o della potenza426. In esse l’atto passa dapprima dalla “formazione oggettiva della soggettività” per cui le cose sono nella forma del loro apparire, quasi come disciogliesse l’oggettivo “nella forma di assoluta esperienza, di autoaffezione, di puro sentirsi. È la categoria della qualità o sensazione originaria”427. Ed è il mondo della spontaneità primigenia. Il momento ulteriore restaura l’oggettività e presso al secondo momento “la libertà diviene un distinto formale”: l’Io si vive come altro rispetto ad una immagine non più astrattamente universale ma contenutisticamente determinata. È il mondo della personalità e del pensiero riflesso. Infine l’Io si distingue secondo una concretezza che trae “dal non-essere del mondo formale, che ormai riprende ogni realtà, una esistenza incondizionata, magica, onde ogni in-sé, immediatamente come tale, realizzi ed esprima la potenza e la natura dell’assoluto per-sé”428. È il mondo del superuomo. La compiuta sintesi permette di superare lo stato puramente umano nella possibilità dialettica di un terzo movimento che varca “la soglia del mondo delle scienze ermetiche e magiche”429. Un simile ordine ultra-razionale, l’Io non lo va ad accogliere dall’altro quasi fosse una grazia che come l’insperato vien da sé. L’Io se lo crea. La via (methòdos) si dispiega nel percorrerla. 425 Ivi, p. 221. Ivi, p. 52. 427 Ivi, 57. 428 Ivi, p. 181. 429 Ivi, p. 187. 426 152 Capitolo II Senza dubbio “[…] deve restare ben fermo che la nostra «filosofia» che non finisce in sé stessa ─ convergendo tutta in una specie di postulazione di una azione ─ così pure […] non comincia in sé stessa. Nei suoi elementi essenziali ciò che esponiamo non è il semplice prodotto della speculazione soggettiva di un filosofo moderno, sì invece la trasposizione intellettuale di certe dottrine tradizionali, primordiali, non soggette ─ in un certo senso ─ al divenire. Chi abbia il punto di vista della razionalità come l’ultima istanza, deve naturalmente ritenere ciò come non detto, considerarci sotto il puro riguardo filosofico, e non curarsi di dove ciò cui eventualmente può assentire, lo conduca”430. È altresì certo però che la filosofia evoliana può risolvere l’enigma dell’esistenza soltanto partendo da una assoluta, sufficiente affermazione. “Verità e filosofia come potenza”431. E torniamo al valore, a questo “salto creativo di un atto di pura libertà”432. Se in Teoria Evola ha delineato i principî generali di una dottrina della potenza che assume ed integra la posizione idealistica riaffermano il concetto dell’Io come pura libertà e come immanenza assoluta, in Fenomenologia lo spazio è totalmente occupato dall’opzione positiva. Essa infatti è l’unica di cui sia possibile seguire il processo. Dominio e dipendenza, possibilità affermativa e possibilità negativa, sono contingenti. La via dominata dall’“altro” conduce però presso ad una assoluta indeterminabilità perché l’Io sta rispetto al proprio principio in rapporto di dipendenza. Nell’altro caso invece la contingenza è affatto positiva e l’Io si appropria di una libera potenza di determinare. È così possibile “un sistema definito, assoluto, inequivocabile di forme ─ un sistema assolutamente certo, appunto 430 Ivi, p. 37. E nella prefazione originaria del libro, ivi, p. 40: “Noi consideriamo l’umanità in senso totale come una fra le tante possibili condizioni dell’esistenza individuale, per nulla privilegiata rispetto alle altre […]. Noi abbiamo restituito alla condizione umana il senso di episodio, di una possibilità; due grandi epoche ─ da noi denominate epoca della ‘spontaneità’ e epoca della ‘dominazione’ ─ nella nostra fenomenologia si stendono come materia di esperienze possibili e come modi possibili di essere, di qua e di là dell’‘uomo’”. 431 Ivi, p. 45. 432 Ivi, p. 46. 153 Capitolo II perché è l’Io che ne determinerà, in funzione di dominio, il principio e la struttura”433. Non è possibile una fenomenologia dell’“altro”. Ma non è possibile nemmeno una impossibilità ancora più grave: “[…] qualsiasi ‘Visione del Mondo’ che si voglia ispirata al verbo evoliano deve venire dedotta dall’esperienza vivente, lo anubhava, della disciplina, il sȃdhana dei suoi esercizi, non certo dall’esposizione più o meno ordinata dei suoi principi teorici. La realtà cui Evola tende è di natura apofatica, non cerca un sistema di pensieri che la giustificano. A meno che non si tratti di un ‘pensiero puro’ omorgonico al suo apparire, la cui realtà risieda nel movimento per cui si manifesta, non nella ‘cosa’ per cui si è manifestato. Allora il pensiero si fa POTENZA, çakti”434. Quando la filosofia magica di Evola si attua, cessa di essere quello che non ha mai voluto essere: una posizione mentale. La differenza tra un atto di potenza, positivo e libero e un atto che è per il suo oggetto o materia e quindi “altro” dalla potenza, bramoso e dipendente, non abbisogna, crediamo, di essere maggiormente delucidata. Ci sembra invece opportuna una chiarificazione ulteriore della “dialettica” evoliana. Evola muta dal pensatore francese Octave Hamelin il metodo sintetico con il quale dà al divenire essere del suo Individuo un ritmo dialettico435. Questo ritmo è toto coelo diverso da quello hegeliano in quanto per esso il particolare non è l’opposto dell’essere, qualcosa di contraddittorio e di negativo distrutto dal procedere di una dialettica dal carattere aggressivo. Nessun progresso, ma una “negazione della negazione”, uno spegnersi del particolare nell’assoluto indeterminato. L’universalità costituisce per una dialettica hegeliana pensata a fondo un punto di arrivo. L’Hamelin la intende invece come punto di partenza. Come il grado più povero della realtà che mediante uno sviluppo sintetico dal più semplice al più complesso, da privazione a 433 Ivi, p. 43. Pio Filippani-Ronconi, Julius Evola: per una impersonalità attiva, in Julius Evola, un pensiero per la fine del millennio, op. cit., p. 19. 435 Cfr. J. Evola, Saggi sull’Idealismo magico, op. cit., pp. 127-132 e J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., pp. 47-53. 434 154 Capitolo II gradi sempre più intensi di attualità, tende a possedersi nella perfezione dell’individuale. L’assoluto comprende gerarchicamente e domina in una sintesi superiore i varî gradi di determinazione, non li esclude o contraddice. Evola fa suo questo “neo-aristotelismo” dell’Hamelin e oppone la sua dialettica sintetica a quella hegeliana, dialettica di «contradittori» e non di «contrari». Il particolare quale tesi o punto di partenza, seppure incompletamente, è già essere di contro al quale l’antitesi non sarà né negazione né contraddizione ma completamento. Trapassando in essa “la tesi perviene, secondo una continuità di composizione, ad un più alto grado di perfezione”436. Nello sforzo del possedersi il particolare determina quel che gli manca, in esso si definisce e tende ad integrarsi. La sintesi è così una più vasta possibilità di potenza. Particolarità o tesi è infatti indifferenza di possibile e reale. L’antitesi, possibilità che sfugge alla potenza. Il processo consisterà allora nel riprendere organizzare e dominare la spontaneità scatenata dal momento tetico: punto dell’assoluta individuazione. Il carattere positivo di questa dialettica è nella sua sinteticità che non nega o esclude la tesi ma la comprende. L’essere supremo è l’individuale che si realizza attraverso una dialettica dei distinti. Essa si basa sul principio di relazione per la quale non vi è nulla di intellegibile che non sia in relazione a qualcosa che da esso sia distinto. La priorità della libertà è così affermata contro Hegel sulle varie categorie che costituiscono il corpo agile dello spirito. Un corpo con cui l’Io in quanto libertà si unisce dominando l’intero processo. Tuttavia Evola nota che qualora non si riconosca l’arbitrio quale fondo dell’intero processo non c’è modo di esorcizzare l’automatismo di una pura ragione senza soggetto. Una libertà che fosse prodotta necessariamente ─ “la libertà deve essere” di Fichte ─ non sarebbe tale. S’impone allora l’assoluta contingenza come principio originario rispetto al quale la libertà realizzata dal processo della relazione sia una tra le possibili opzioni. In questo modo è possibile conciliare il principio di una eterna sintesi e il principio dello sviluppo progressivo: la coscienza immobile (Shiva) e la potenza dinamica (Shakti) nell’assoluta unità (Brahman). Centro dell’idealismo magico quale gesto autarchico di libertà e possesso. 436 J. Evola, Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, op. cit., p. 48. 155 Capitolo II Evola spezza il circolo dei contrari trovando una via d’uscita non nella collisione degli opposti “entro cui si muovono i sensi, il desiderio e la ragione” ma nel superamento iniziatico di ogni confliggente concettualità437. L’abbandono della irrazionalità sottesa da ogni pro-cedere argomentativo come inesausta irresponsabilità dell’Io si radica nell’origine della pura iniziativa intesa al dominio di sé. E nel principio dell’analogia trova e vede l’esistenza dell’oggettività astrattamente esterna a noi. Oltre il rassicurante riduzionismo esoterico e l’universalismo disperato della scienza che costringono la vita ad orbitare eccentricamente molto lontano dalla potenza dell’Io. Riuscire a vedersi, riconoscersi ed impugnarsi per ridare al vivere il seno di un ristabilirsi nella protezione del senso evocato dall’agire umano. La scommessa di Evola è molto lontana dal pessimismo, dallo scetticismo o dal fatalismo: presenze fantasmatiche d’una vacanza tutta interiore che attende di risolversi in luce della coscienza. Un entusiasmo intollerabile abita le pagine della sua filosofia. La Tradizione è il monumento edificato dalla libertà. Il tempio di quegli Unici condannati all’assoluto positivo dal ricordo continuo di immagini di potenza e di bellezza: “È questa l’inaudita parola: niente dove andare, niente da aspettare, niente da temere, niente da chiedere. Tu stesso, TALE QUALE SEI, sei l’eternità, sei il Signore degli dèi, l’Eone degli eoni ─ tutto in tutto, composto di tutti i poteri. Un solo istante che sapessi fulmineamente assumerti tutto ─ in questo tuo essere fatto di metallo e di piaghe, di gloria e di tenebra, di ebbrezza e di morte ─ un solo istante che sapessi ESSERE ─ ESSERE SOLTANTO ─ assolutamente, identicamente, infinitamente ─ e l’universo tutto, risolto, avamperebbe nell’estremo apice, nella liberazione suprema dell’Individuo assoluto”438. 437 Ivi, p. 197. Ivi, p. 234. Il grassetto è nostro. Cfr. Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Adelphi, Milano, 2003, p. 81: “[…] La tua ultima parola è stata «morte» ─ e la tua bocca s’è riaperta per dir «ma», ─ con quella dicevi di non aver più nulla da chiedere ─ ed ora riparli per chiedere un appoggio, per chiedere una via. Ma non c’è appoggio, ma non c’è via ─ non c’è niente da aspettare, niente da temere ─ né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via. ─”. Il grassetto è nostro. 438 156 Capitolo III Individuo Assoluto e Tradizione Echeggiano le purpuree maledizioni della fame nell’oscurità marcente, le nere spade della menzogna, quasi sbattesse un portale di bronzo. G. Trakl L’impegno filosofico di Evola, o la sua traduzione d’una elevazione interiore in un linguaggio di tipo tecnico-filosofico, il modulo espressivo ideale per confrontarsi con la comunità scientifica, veicola il superamento della stessa filosofia nella pura prassi spirituale. La metà degli anni ’20 è il limite creativo in cui, compiendosi, si esaurisce il pathos del suo pensiero ed egli si avvicina alle sideree lontananze del mondo della, e sia pure con la T maiuscola, Tradizione. Evola ─ ben lungi dall’aver fatto della traditio il culto che anche alcuni suoi discepoli in perpetua trasferta dal “Maestro” Guénon hanno tributato alla verità una e indiscutibile, oggetto d’uno sfrenato dogmatizzare ben peggiore di quello cattolico crudemente avversato dallo stesso barone ─ ha sempre scritto con la minuscola la parola “tradizione” nelle prime due edizioni della sua opera assiale: Rivolta contro il mondo moderno439. Solo dal 1969 infatti passerà alla 439 Condividiamo queste parole di Massimo Scaligero, Testimonianze su Evola, op. cit., pp. 187188 e ne facciamo il centro del nostro tentativo d’analisi dell’opera evoliana, meglio della sua operatività: “Rimane l’enigma della personalità interiore di Evola e del suo rapporto con la Tradizione. In verità, la forma tradizionale, non riesce a dissimulare la potente spinta antitradizionale del suo sistema di pensiero: se si osserva, Evola si serve dell’elemento tradizionale per costruire il proprio cosmo spirituale: assolutamente personale. Egli usa il valore della Tradizione quale aristocratica pietra di paragone, ossia come contrapposizione al mondo moderno: sembra proporre un ritorno alla Tradizione, ma in realtà egli vuole qualcosa che non è la Tradizione, anzi è positivamente contro. E questo è ciò che può riconoscersi importante in Evola. 218 Capitolo III grafia maiuscola adottata per la prima volta nel 1961 con Cavalcare la tigre e che prima di allora, aveva usato occasionalmente. Riprenderemo più avanti il discorso su questa scelta e sui suoi motivi. Ora torniamo alla questione del linguaggio. E lo facciamo riferendoci ancora, prima che a volumi di gran peso e importanza nell’economia complessiva di questo pensiero vivente, alla produzione “minore” in cui il filosofo romano spesso precisa e definisce, quando non supera, le acquisizioni delle sue tesi principali. È sulla rivista di Vittore Marchi, L’Idealismo Realistico, che Evola riflette severamente sulla idoneità dell’astratto tramite filosofico a comunicare il messaggio iniziatico. E lo fa grazie all’incontro-scontro col Guénon. Occasione ne è la recensione evoliana dell’opera del pensatore francese L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdantâ proprio su questo periodico d’ispirazione mazziniana e dalle pronunciate simpatie massoniche. Evola vi collaborerà dalla fine del 1924, l’anno in cui è stata terminata la Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto, al dicembre del 1928, l’anno di pubblicazione di Imperialismo pagano, il testo che segna la calata nella storia dell’Individuo e che dovremo trattare con particolare riguardo. L’articolo è del dicembre del 1925. Prima di analizzarlo, giacché è di grande interesse, seguiamo brevemente in questi anni di svolta l’attività del suo autore. L’esperienza con il centro di teosofia è già iniziata ed Evola scrive da qualche tempo sulle riviste più importanti dell’ambiente spiritualista. Collabora infatti ad Atànor ed Ignis, le riviste iniziatiche del neopagano Arturo Reghini, 33° grado della massoneria di Rito Scozzese di Piazza del Gesù a Roma, che amava definirsi il “Vicario di Satana”, ad Ultra del “teosofo” Decio Calvari e alla rivista della scuola teologica battista di Roma Bilychnis. La sua firma appare inoltre su quotidiani sia fascisti come L’Impero che antifascisti come Sereno o Il Mondo, la testata del liberal-democratico Giovanni Amendola che inquadra la posizione evoliana dei primi anni Venti in questo modo: Guénon è nella Tradizione, Evola ne esce di continuo, pur appellandosi ad essa: ma è un contrapposto, un tema dialettico, un habitus cogitandi […] è evidente l’imperiosa autorità di un pensiero che fa obbedire tutto a un’intima personale visione, a un’individuale, determinata «volontà di potenza»: in definitiva, ad un impulso di libertà che subordina tutto all’affermazione di sé”. 158 Capitolo III “Il propagandista più acceso del dadaismo era un giovane professore, Evola, amico della contessa Piccardi da tempo legata a mia madre e rimasta vedova di uno scrittore siciliano caduto in guerra, Vincenzo Piccardi. Evola divenne più tardi fanatico razzista e sostenitore del nazismo. Mi era già antipatico, freddo e maleducato. Non comprendevo la differenza tra futurismo e dadaismo, ma consideravo i futuristi come Anton Giulio Bragaglia e i suoi amici sempre cortesi, cordiali e allegri più simpatici”440. Abbandoniamo Amendola ─ e abbandoniamo anche i suoi irreali ricordi: Evola (professore?) fanatico razzista e sostenitore del nazismo! ─ ai suoi simpatici amici futuristi e occupiamoci dell’antipatico filosofo-dada. Nel dicembre del 1925 egli scrive sulla pagine del quindicinale Lo Stato Democratico diretto dal duca Giovanni Colonna di Cesarò, ministro delle poste nel primo governo Mussolini e in seguito (giugno-novembre 1930) animatore del movimento antifascista italiano di orientamento liberal-conservatore “Alleanza Nazionale per la Libertà”. Evola pubblica il suo primo articolo su questa rivista nel 1925. È uno scritto importante in quanto proiezione politica della sua dottrina dell’Individuo Assoluto. Il titolo è Stato, Potenza, Libertà e conviene dedicargli la nostra attenzione: “[…] sarà adeguato al valore iniziale soltanto colui che possa cessare di essere una forza tra tante altre in quel sistema dinamico, che è l’unità sociale, per passare invece al livello di colui che, interiormente superiore alla totalità, va lui stesso a determinare la forma e la legge di una tale unità: vedi il capo dello stato, in quanto legislatore e dominatore. Circa la legislazione, essa per ipotesi non avrà altro fondamento che la volontà di chi la pone: perciò essa dovrà connettersi inseparabilmente al principio di potenza”441. 440 Cfr. G. Amendola, Una scelta di vita, Milano, 1976, p. 55. Cfr. Marco Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli anni Trenta, in Storia contemporanea, dicembre 1991, ora in Delle rovine ed oltre. Saggi su Julius Evola, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1995, p. 80. 441 J. Evola, Stato, Potenza, Libertà, in Lo Stato Democratico, I, 7, 1° maggio 1925, p. 3. 159 Capitolo III Il principio della potenza agisce senza agire (Lao-Tze), come il motore immobile (Aristotele) e “si impone direttamente, in virtù della sua intenzione, individuale superiorità a ciò che egli comanda” 442. Il fascismo ha il carattere di una impotente violenza: non possiede un crisma spirituale superiore: “Ciò posto, che in relazione a quel che potrebbe essere il tipo del dominatore e dello stato conforme al principio dell’assoluta libertà, quello che il recente movimento politico ha fatto affiorire in Italia sia una semplice caricatura, una grottesca parodia, può risultare ad ognuno chiaro. Quel principio di interiore, profonda, individuale affermazione che, solo, potrebbe fondarlo, vi è totalmente assente”443. Esso non ha una radice culturale e spirituale e s’appoggia al mito patriottico per occultare la propria insufficienza: “Se la marcia su Roma si fosse dichiarata non come riscossa per la salvazione dell’Italia dallo sfacelo, bensì nudamente come il tentativo di un partito di soppiantare altri più deboli ed incerti, essa o sarebbe riuscita con ben altre difficoltà, o non sarebbe riuscita affatto. Del pari il riferimento al nome della patria, all’amore e devozione per essa che si ripete in ogni occasione fino alla nausea ha notoriamente servito per salvare una quantità di situazioni. Da ciò un compromesso ─ epperò una insufficienza ─ fondamentale”444. Il movimento delle camicie nere accusa una strutturale debolezza di spirito che si traduce in pericoloso compromesso politico. Evola ne riconosce la superiorità solo nell’abile gestione delle forze sociali in tensione. Forze esterne, controllate a fatica da Mussolini e dai suoi gregari con l’aiuto della violenza. 442 Ivi, p. 4. Ibid. 444 Ibid. 443 160 Capitolo III Il sintomo della debolezza spirituale: “I capi del partito dominante ormai non possono mettere insieme dieci parole senza sentire il bisogno di far sapere che essi hanno la forza e senza sfidare su un tale terreno gli oppositori […] chi veramente può, evita di esibire la sua potenza, non ne parla, ma l’usa direttamente là dove occorre”445. Il secondo articolo dell’Evola ospite del Di Cesarò è invece dedicato ad una spietata critica della democrazia, pubblicata sul numero del 15 agosto. Interessante la nota redazionale, a firma del Duca, che lo precede: “[…] ospitiamo volentieri lo scritto dell’Evola, sia perché, non essendo egli fascista, il suo scritto dimostra come anche i postulati dell’antidemocrazia non debbono menomamente condurre alle conclusioni del fascismo; ma soprattutto perché, convinti, come siamo, che prima condizione per qualsiasi forma di vita politica sana sia la creazione nella coscienza dei cittadini di un sostrato filosofico sul quale si fondino le convinzioni politiche e sociali. Reputiamo utile al progresso nazionale, e alla stessa causa della Democrazia, qualunque dibattito o polemica che agiti i problemi in un’aura di coltura”446. Per Evola l’ottimismo evoluzionistico non ha fondamento alcuno e non può essere la base dell’idea democratica, le masse essendo sempre eguali, irrazionali, affette da “passività femminile”, instabile complesso di passioni. Il possibile passaggio a un “grado superiore di individuazione” non può che aver esito di dominio aristocratico. Esso si incarna nel “Signore dell’Umanità”. Con tutta evidenza, per il pensatore romano, critico ─ come pochi del suo tempo (pochissimi!) ─ del plebeismo fascista o della sua “spregevole mollezza”, l’unico principio legittimo secondo valori spirituali e trascendenti è quello “qualitativo”. La massa è, per la sua stessa natura, passiva. Il suo principio è quello “quantitativo” ed Evola arriva 445 446 Ivi, pp. 4-5. Premessa a firma N.d.D, in Lo Stato Democratico, I, 15, 15 agosto 1925, p. 5. 161 Capitolo III a riconoscere nella stessa ideologia democratica il “miglior strumento attraverso cui si può riuscire a sottomettere la massa”: straordinaria previsione del “totalitarismo della dissoluzione” (Del Noce) e dell’ordine del nichilismo gaio prima ancora della dissoluzione del totalitarismo. Insomma, quello di Evola è un duplice no: al fascismo e alla democrazia: “Per carità! Non essere democratici ed essere fascista sono due cose diverse!”447. E allora? “Determinare una nuova cultura, vivificare una coscienza il cui principio sia il significato, lo spirito, ecco ciò che veramente importa. Non ci si accusi di astrattismo platonizzante, quasi che ciò che è spirituale stia fuori da ciò che è materiale e invece non lo comprende ed elevi in sé”448. Sulla prima pagina dell’ultimo numero del 31 dicembre 1925, prima che la censura fascista ne decretasse la soppressione, Evola critica duramente il regime indicando nell’ambiente dell’intellettualità antifascista ed in quello dell’occultismo il terreno adatto a “propiziare la luce di qualcosa di più alto e di più puro che non sia la vicenda meschina, torbida, dilacerata in cui la vita politica nell’ultimo periodo si è sommersa”449. Egli pensa dunque ad un “gruppo spirituale” in grado di risolvere iniziaticamente il problema politico, e lo individua nell’antifascismo spiritualista: “Sono le opposizioni che piuttosto potrebbero raccogliere l’appello: se ciò che esse veramente vogliono non è la supremazia di un particolare partito su un altro; se comprendono che non si tratta ormai più di tornare a forme vecchie e ad idee superate bensì di determinare qualcosa di nuovo; se comprendono inoltre che questo rinnovamento non è possibile quando non si vadano a considerare i problemi politici, sociali, economici e materiali da un punto che, esso, non sia né politico, né sociale, né economico, né materiale, ma superiore a tutto ciò ─ se questa è la loro più profonda, pur se non 447 Ivi, p. 10. Ivi, pp. 10-11. 449 Cfr. J. Evola, Per un rinnovamento dell’idea politica, in Lo Stato Democratico, I, 24, 31 dicembre 1925, p. 3. 448 162 Capitolo III sempre espressa, aspirazione; esse all’evidenza che qui si è abbonata difficilmente potrebbero non aderire […]”450. Evola offre una “soluzione magica”, solidale in questo con l’idea di élite spirituale del Guénon, conosciuto per il tramite del “pitagorico” Reghini che indirizzò l’attenzione del giovane filosofo sull’opera del francese intorno al 1924/1925, stando alla data dei primi contatti epistolari tra i due. Opera che diede un centro, più formale che non di sostanza (: spirituale), alla “visione del mondo” del filosofo romano451. Il loro rapporto peraltro non conobbe mai una intesa completa essendo le loro divergenze, sul piano dei rapporti dottrinari, inconciliabili. La visione (éidomai) evoliana è unica e irriducibile alle molte vie, e tra di esse quella guénoniana, che l’hanno nutrita e ne hanno consentito le espressioni. Tuttavia il giovane filosofo uscirà dal primo confronto con quel che chiamerà “maestro senza pari della nostra epoca”452 con una coscienza potenziata della propria forza e quindi, del suo limite453. Nella recensione Evola rivendica lo spirito attivo della tradizione occidentale: “Infatti lo spirito occidentale è specificamente caratterizzato dalla libera iniziativa, dall’affermazione, dal valore dell’individualità, da una concezione tragica della vita, da una volontà di potenza e di azione ─ elementi, questi, che se potrebbero essere il riflesso sul piano umano, esteriore, del superiore valore magico, pertanto stridono di contro a chi voglia invece il mondo universalistico, impersonale e immobile dell’‘intellettualismo’ metafisico” 454. E lo fa contro quella che ritiene una “mentalità che potremmo chiamare razionalistica”, quella di un Guénon infatuato d’Oriente. I due sono su piani diversi e a lungo saranno destinati a non incontrarsi, 450 Ibid. J. Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 90: “l’opera del Guénon mi aiutò a centrare su di un piano più adeguato l’intero mondo delle mie idee”. 452 Ibid. 453 J. Evola, Il cammino del cinabro, op., p. 90: “Ebbi perfino a scrivere una critica contro il libro del Guénon sul Vedânta (sulla rivista Idealismo realistico), alla quale Guénon replicò, entrambi muovendoci evidentemente su due piani diversi”. 454 J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), Fondazione Julius Evola, Roma, 1997, p. 91. 451 163 Capitolo III anche a causa dello loro “equazioni personali” e di conseguenza, delle loro vie di elezione alla stessa “realtà metafisica”: l’una guerriera e l’altra contemplativa. Il doppio sguardo del “Tradizionalismo integrale”455. Ma non è ancora tempo di conciliazione. Né mai lo sarà. Intanto al “molto giovane” Evola non riesce di capire, o lo capisce forse fin troppo bene, la differenza di livello su cui si pone il francese: conoscenza metafisica e non filosofia profana: “[…] in noi quel che sta prima è una certa «realizzazione» e, soltanto dopo, come veste, un certo sistema logicamente inteliigibile. Ma quand’anche fosse, ogni espressione in quanto tale è tenuta alla prova del fuoco del logos”456. La veste filosofica è per Evola requisito primario di intelligibilità e chiarezza della tradizione spirituale d’Occidente come la meditazione e la contemplazione mistica sono prerogativa di quella orientale. Nella sua concezione, le due opposte tradizioni rappresentano il “finito”, nella sua esigenza più alta di realizzazione, quale libertà in atto. Primario è l’aspetto fattivo, eroico del sentire divino nella consapevolezza che “se l’uomo non si fa salvatore di se stesso, nulla mai potrà salvarlo”457. Il problema di Evola non è nella dimensione tutta orientale della immobile meditazione, che pure inserisce nella prospettiva di una etero-salvazione in netto contrasto con la natura 455 Cfr. Piero Di Vona, Il pensiero tradizionale e la molteplicità delle forme religiose, tratto da Tellus – rivista di geofilosofia, n. 17, 1996, che così definisce il cosiddetto “pensiero tradizionale”: “corrente di idee del nostro secolo che è rappresentata da un gruppo di scrittori i quali, in varia misura, e sotto diversi aspetti, si richiamano all’opera di René Guénon (Blois 1886 – Il Cairo 1951). L’idea principale di questa forma di pensiero è l’unità trascendente delle religioni ─ peraltro il titolo di un libro Frithjof Schuon (De l’Unité transcendante des Religions, 1948), amico di Titus Burckhardt e collaboratore con Guénon della rivista Études Traditionnelles ─ e delle forme, con le quali per le più diverse vie l’uomo entra in rapporto con il divino. Tale idea, non fu affatto propria del solo Guénon, come lo stesso Di Vona riconosce, ma fu molto diffusa tra i principali rappresentanti dell’occultismo del secolo Ventesimo e di quello precedente. In sostanza, esiste una verità che trasumana e deifica chi la possiede. Essa fu data ad un legislatore primordiale che la trasmise all’umanità in uno stato chiamato “età dell’oro o dell’essere”. Questo legislatore è “Il Re del mondo”, l’intelligenza cosmica che regge il nostro mondo. L’età dell’ora sta in un’epoca a noi interiore, non è una realtà futura. Da qui l’altra idea cardine di questa visione tradizionale: la decadenza, nel corso della quale l’umanità percorse il ciclo regressivo raffigurato, secondo lo schema esiodeo tanto caro allo stesso Evola, con l’età dell’argento, del ferro e del bronzo. Durante questo regresso il centro che custodisce la verità primordiale si occultò per la comune umanità ma non per un numero (sempre minore) di persone cui essa venne trasmessa per vie esotericoiniziatiche. A partire da questa epoca di occultamento si introdusse nelle religioni la distinzione tra il nucleo esoterico (nascosto e riservato ai pochi) e la forma essoterica (aperta a tutti). Ci torneremo. 456 J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., p. 93. 457 Ivi, p. 101. 164 Capitolo III dominante rinvenuta al fondo del suo Occidente458. Ma è quello di una insensata unilateralità, diretta discendente del presupposto dogmaticamente intollerante che vuole l’Oriente sola àncora di salvezza del suo fratello degenerato. E da questa ottica, Evola ha gioco facile nel rilevare la “tendenza dogmatica e autoritaria” del Guénon459. Egli, nella sua lunga rettifica intitolata “A proposito di metafisica indiana”, rivolta sul suo giovane interlocutore l’accusa di razionalismo che crede (non) giustificata dalla piena incomprensione di cosa significhi “intellettualità pura”460. Tra reciproci sospetti si consuma una polemica rivelatrice del confine tra una filosofia non ancora abbandonata per il suo virtuoso rigore (Evola) ed una metafisica che si vuole purissima poiché trincerata nella propria indicibilità (Guénon). La posizione di Evola è indubbiamente ancora ambigua ma solo perché fissa su una necessità di tipo pedagogicodivulgativo e quindi essoterica, che fa onore alla “serietà scientifica, disciplina, volontà, consapevolezza” anche di una conoscenza d’ordine superiore: “o si resta nell’ambito iniziatico, ovvero si parla. Ma se si parla, si è tenuti a parlare correttamente, ossia: a rispettare le esigenze logiche, a far vedere che l’oggetto della realizzazione metafisica sia pure per accidente dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei problemi, che nell’ambito puramente umano e discorsivo sono destinati a rimanere puramente tali”461. Stante che “per noi filosofico significa qualcosa che ‘si presenta in modo intellegibile e giustificato’”462. Da notare che Evola non 458 Lo stesso oriente è da Evola, in questo momento della sua opera, guardato con l’occhio (sia pure il terzo) occidentale. In un’opera quale L’uomo come potenza, op. cit., le pratiche del Buddhismo sono commiste a quelle misteriche. La teoria sviluppata dal Barone affolla simboli dell’umana “rigenerazione”, senza troppo rispettare le differenze sociali e culturali dei due modelli, artcolando una serie impressionante di analogie colte sulle vette realizzative di entrambi gli emisferi. Il tutto nel segno di una “metafisica dell’assoluta particolarità” incardinata sul valore trascendente del principio di personalità. 459 J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., p. 92. 460 L’Idealismo Realistico (1924-1928), Anno III, fasc. 9-10 (1-15 maggio 1926), pp. [18] -26, ora in J. Evola, L’Idealismo Realistico (1924-1928), op. cit., pp. 105-110, cui segue la breve controreplica evoliana da p. 110 a 113. 461 Ivi, p. 112. 462 Ibid. Ricordiamo che qui Evola definisce razionalistico “ogni atteggiamento che crede a leggi esistenti in e da se stesse, in principi che sono quello che sono, inconvertibilmente; che intende il 165 Capitolo III recederà mai da questa posizione. E già tre anni dopo su Ur, Sul sapienziale e l’eroico, tornerà sul “razionalismo” di Guénon e dopo averne richiamato la propria definizione precisandone “il senso, che conformemente all’uso filosofico moderno” gli è stata attribuita, dirà: “il che ─ speriamo ─ ovvierà una certa sorpresa già manifestata dal Guénon (cfr. L’Idealismo realistico 1926, n. 9-10, p. 18) rispetto a giudizi del genere. Nel suo Erreur Spirite (Paris-1923) egli afferma ripetutamente che il criterio dell’impossibile per lui è il logicamente assurdo (e non viceversa), e che non è all’esperienza, cioè alla realtà di fatto, ma alla deduzione a priori da un insieme di «principî», che si deve chiedere il vero criterio. In ciò vi è sin troppo per giustificare l’accusa di «razionalismo»463. Non basta. Un anno dopo, sulle colonne di Krur, Evola rincara il colpo con l’articolo Autorità spirituale e potere temporale, dove respinge “in blocco” la tesi guénoniana espressa dal francese in un libro dallo stesso titolo uscito a Parigi nel 1929. Il punctum dolens è sempre quella tradizione (attiva, guerriera) a cui l’Occidente deve il suo spirito, e che Guénon s’ostina a non riconoscere che nella sua involuzione. Non ci sembra di insistere invano su questo punto: “Il nodo dell’errore, sta nell’incomprensione per la spiritualità che può essere portata da una «tradizione dei guerrieri» ─ regale o imperiale; e nella conseguente possibilità di quest’ultima al «potere temporale», alle funzioni amministrative, giuridiche e militari (p.32)464. Evola rifiuta la premessa del Guénon che è “errata e inaccettabile” in quanto monopolizza il potere spirituale a favore della casta sacerdotale quando invece lo stato di dominazione eroico-magico raggiunge lo stesso vertice metafisico cui volgono le vie orientate dai simboli sacerdotali del sacro. In breve il francese avrebbe una “sensibilità alquanto scarsa” per la superiore realtà della regalità che può trascendere in sé entrambe le funzioni. mondo come qualcosa in cui tutto ciò che è contingenza, tensione, oscurità, arbitrio, indeterminabilità non ha alcun posto”. 463 Ur, Rivista di indirizzi per una scienza dell’Io, anno II (1928), numero I, Tilopa Editrice, ristampa anastatica, Roma, 1980, p. Ur 1928 p. 334. 464 Krur 1929, Tilopa Editrice, Roma, 1981, p. 334. Il numero della pagine si riferisce al testo del Guénon commentato da Evola. 166 Capitolo III E qui un altro siluro: “[…] il che non è senza relazione con una sua personale comprensione staremmo per dire logicistica, di certe nozioni soprarazionali. Che cosa sono, difatti, «quei principii, che sono le essenze eterne ed immutabili contenute nella permanente attualità dell’Intelletto divino» (p.22), principii, i quali fornirebbero la «conoscenza per eccellenza» (p.45), e costituirebbero il fulcro della «dottrina tradizionale» e dell’«ortodossia», conservata e trasmessa dalle caste sacerdotali (p.33) e fondamento dell’autorità assoluta di queste? Invero, in tutto ciò ci sembra di vedere molto più religione e sin razionalismo, che non metafisica”465. Come si vede, il problema non è soltanto formale poiché di là da questioni talvolta puerilmente capziose attinenti ad un piano meramente terminologico o di definizione, investe il piano della comunicazione sottile. Non è quindi un caso, crediamo, che Evola, in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, abbia inserito il nome di Guénon all’ultimo posto della sua trattazione gerarchica dell’iniziatica. A meno di non spiegare la lontananza, talvolta abissale, tra i due sopratutto in merito alla realizzazione spirituale e alla magia, con la teoria di un Guénon concentrato esclusivamente sull’aspetto dottrinario della Tradizione. Non interessato quindi a fornire direttive pratiche di iniziazione. Il che ci pare, ad essere prudenti, quantomeno semplicistico. Anche se non privo di solidi appoggi. Lo stesso Evola infatti, sul terzo volume di Introduzione alla Magia, Sui limiti della «regolarità» iniziatica, afferma che “Nei libri del Guénon, purtroppo, non si trova nulla circa quel che può essere una disciplina attiva di preparazione, la quale, in certi casi, può condurre perfino senza soluzioni di continuità alla stessa illuminazione: allo stesso modo che il Guénon nulla indica, come discipline concrete quanto all’opera di attualizzazione che dell’«iniziato virtuale» fa un iniziato vero e, alla fine, un adepto. […] 465 Krur 1929, op. cit., p. 335. 167 Capitolo III il dominio del Guénon è quello della semplice dottrina, laddove a noi interessa essenzialmente quello della pratica”466. E come se non bastasse più avanti il tono evoliano s’avvolge di maliziosa ironia descrivendo la situazione del discepolo guénoniano: “[…] e chi legge il Guénon si trova un po’ nella situazione di chi oda dire che cosa bella sia il possedere una certa affascinante ragazza ma, nel punto di chiedere dove essa sia, essendosi eccitato, abbia per risposta il silenzio ovvero un: «Non è affar nostro»467. Il Guénon fu per Evola un alleato nella pars destruens del proprio compito: la critica del mondo moderno da una prospettiva altra e alta: da qui la Tradizione quale faro che illumini l’oscurità della decadenza occidentale per un ritorno alle sue origini. Quanto alla iniziazione, Guénon non fu di nessun aiuto, anzi, le sue teoria al riguardo non incontrarono mai il favore di Evola. Vogliamo infine ricordare che sulla rivista la Destra nell’articolo René Guénon e il «tradizionalismo integrale» (aprile 1973) ─ Evola muore l’11 giugno del 1974 ─ il filosofo romano, oltre a tornare sulle sue critiche di cui abbiamo già dato brevemente conto, afferma: spesso quel che il Guénon presenta come una «metafisica» in un senso speciale trascendente, a parte la terminologia, in fondo poco si differenzia da quel che ha tale nome nella storia della filosofia profana occidentale e spesso si esaurisce in astrazioni piuttosto tediose468. Da non sottacere che Evola in Ancora delle due civiltà indica gli autori che seguono l’indirizzo tradizionale469. E che per lui sono, oltre ovviamente al Guénon ─ che “è stato considerato come il propugnatore del Tradizionalismo integrale” e che “viene considerato un maestro e un capo-scuola” ─, F. Schuon, R. Burckhardt e se stesso. 466 Introduzione alla magia, volume terzo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 170. Ivi, p. 173. 468 J. Evola, I testi di Totalità, Il Borghese, la Destra, a cura di Roberto Melchionda, Edizioni di Ar, Padova, 2003, p. 130. 469 J. Evola, I testi di Totalità, Il Borghese, la Destra, op. cit., p. 60. 467 168 Capitolo III Ora, tranne il barone, questi scrittori sono tutti musulmani. Il francese poi, “si islamizzò ad oltranza. Stabilitosi in Egitto, aveva ricevuto il nome di sheikh Abdel Wahîd Yasba ed anche la cittadinanza egiziana. In seconde nozze, sposò un’araba”470. Il concetto di “Tradizione”, formulato già molto prima del Guénon, è stato fabbricato in Occidente da europei convertiti alla religione islamica. Henri Corbin ha protestato contro questa idea di tradizione una e primordiale, contro «la rigidité immutable d’une certaine “tradition” dont l’idée a été costruite de nos jours en Occident»471. Una idea costruita dunque, e non originaria, “idea dell’Occidente contemporaneo e nient’affatto l’eredità di una venerabile antichità anteriore alla stessa preistoria”472. Stando al rapporto tra i due studiosi, condividiamo queste parole di Giano Accame: “Evola prende da Guénon quel che gli serve e lascia cadere il resto”473. Sempre in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, un libro eccezionale per il suo ed il nostro tempo devastato da fenomeni di “seconda religiosità”, per non dire luciferici474, il barone valuta positivamente l’operato di maghi e “maestri spirituali” che il Guénon consigliava di fuggire come la peste: Kremmerz, Meyrink, Crowley, Gurdjieff etc.475 Bisognerebbe 470 Ivi, p. 130. Henri Corbin, L’Homme de lumière dans le Soufisme iranien, Éditions Présence, Sisteron, 1971, p. 117. Citato in P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova, 2000, p. 102. 472 Ibid. 473 Cfr. Giano Accame, Evola e la contestazione: da Totalità al Borghese, in Studi Evoliani 2008, Arktos Editrice, Torino, 2009. 474 Cfr. J. Evola, Gerarchia tradizionale e umanismo moderno, in La Torre. Foglio di espressioni varie e di tradizione una, n. 4, 1930, ora in J. Evola, La Torre, Società Editrice Il Falco, Milano, 1977, pp. 148-149: “Così le varie ideologie, le nuovissime «religioni» […], sono antesignane nella cultura contemporanea di un ultimo periodo, risolutivo. […]. Oggi si può dir di vivere precisamente nel periodo di transizione, che preludia all’ultima fase: nel punto di passaggio fra l’epoca luciferina (ché tale si può chiamare l’epoca in cui imperò il mito dell’«uomo» e della onnipotente costruzione umana) e l’epoca demonica. Dalle «terre immobili», dalle «terre-vertici» suggellate di silenzio e di intangibilità, appare questo mondo che barcolla nella sua orbita, che volge a sciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi ove non è più nessuna luce, fuori da quella sinistra accesa nell’incandescenza della sua caduta”. 475 Ad Aleister Crowley, che amava farsi chiamare “La Grande Bestia 666”, Evola dedica ampio spazio anche nel terzo volume di Introduzione alla magia, op. cit., riproducendo alcuni passai tradotti di un testo del mago inglese, il Liber Aleph, the Book of Wisdom or Folly, che al tempo (1953) esisteva solo manoscritto. Su Ivanovjc Gurdjieff, che ha definito “la via dello sviluppo delle possibilità nascoste una via contro la natura, contro Dio” (Cfr. P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1976, p. 56), vogliamo riportare le parole dell’alchimista Eugène Canseliet. Quanto l’alchimia fosse importante per Evola non è qui il caso di sottolineare e qualcosa a riguardo abbiamo già detto e diremo. Ora ci 471 169 Capitolo III quindi evitare di piegare la dottrina evoliana su quella del francese o peggio incorporarla senza troppo distinguo nella comune etichetta del “Tradizionalismo integrale”. Se è vero che “[…] la decadenza regna oggi nel mondo occidentale. Reagire contro di essa con il richiamo a tutto ciò che si leghi ad una tradizione metafisica, è il primo passo. Ma, di là da esso, non è alla visione sacerdotale, sì a quella guerriera ed imperiale, ed al filo dell’occulta sapienza che come «Arte Regia» vi si connette e che in seno allo stesso Occidente si è perpetuata ─ che bisogna chiedere i simboli della nostra affermazione e della nostra liberazione. E se per quanto riguarda il primo punto, noi ci diciamo amici e collaboratori di René Guénon, per quanto riguarda il secondo ci diciamo suoi decisi avversarî”476. Evola cambierà senz’altro registro abbandonando il linguaggio filosofico a favore di quello simbolico, allusivo, meta-razione e mitopoietico più adeguato a trasmettere il senso della realizzazione spirituale in cui consiste l’energia della Tradizione. Tuttavia, il senso della sua operazione filosofica condotta spietatamente sul cadavere sembra opportuno evidenziare la radicale eterodossia dei riferimenti spirituali dell’iniziato romano. Questa citazione, in parte forse, ce lo consente : “Le stesse seduzioni che si presentano all’alchimista nel suo piccolo mondo votato all’ineluttabile distruzione investono a livello del pianeta gli uomini, prima del cataclisma ciclico e rigeneratore: ‘Perché si leveranno falsi cristi e falsi profeti, che faranno prodigi e miracoli per sedurre, se fosse possibile, gli stessi eletti’. L’ammonimento del Cristo certamente non è vano. Ciò di cui parla si è già verificato in passato e ha ancora più valore più questo mezzo secolo (Canseliet scrive nel 1956 NdA), in cui la vicinanza della grande tribolazione incrementa il manifestarsi di mentori taumaturghi e messia ispirati. Fra questi risplende, come modello affatto speciale, George Ivanovitch Gurdjeff, senza che sia possibile decidere chi la vince ─ per la risolutezza spinta sino al parossismo ─ tra lui e i suoi discepoli, cioè tra lo spietato e freddo dispotismo e la sottomissione generosa e appassionata. Ed è proprio questo che più commuove: il dramma profondo di queste buone volontà cui è promesso tutto e che si offrono con tanto ardore, in pura perdita e spesso sino alla disperazione. Si legga su questo argomento immensamente pietoso il libro magistrale e giustiziere di Louis Pauwels, giunto al momento opportuno come una necessità salutare, davvero sconvolgente nella sua onesta obiettività: Monsier Gurdjieff, Edition du Seuil, 1954”, in Frate Basilio Valentino (dell’Ordine di San Benedetto), Le dodici chiavi de la filosofia, op. cit., p. 115, nota 3. Ricordo infine che dobbiamo sempre a Louis Pauwels, questa volta in coppia con Jacques Bergier (Cfr. Il mattino del maghi, Mondadori, Milano, 1963) la definizioni del nazional-socialismo quale “divisioni corazzate +René Guénon”, ossia pensiero magico + scienza tecnica, “formula che deve aver fatto sobbalzare per indignazione nella tomba le ossa di questo eminente esponente del pensiero tradizionale e delle discipline esoteriche” (J. Evola, Hitler e le società segrete, sulla rivista Il Conciliatore, ottobre 1971). 476 Krur (1929), op. cit., pp. 342-343. 170 Capitolo III della modernità lo accompagnerà sempre, quale dimostrazione e descrizione logica di un sonno in attesa di risveglio. Da qui la presenza su una rivista di “Magia quale scienza dell’Io”, di alcune pagine strappate alla Fenomenologia. Nello specifico, quelle relative ai punti-limite dell’esperienza magica corrispondenti ai “simboli del ‘Signore del vortice’ e dell’‘Individuo assoluto’”477. A conferma della centralità della filosofia nel magico cammino evoliano. Il fatto che l’abbia dovuta lasciare indietro e che sia stata rinchiuso in una fase di limitato spessore cronologico ma straordinariamente intenso e creativo nulla toglie al suo valore. Era un gradino e l’ha salito. A ciò servono i gradini, che non ci sembra debbano essere per questo rinnegati o scambiati per qualcosa d’altro478. Il valore, dicevamo, di una radice invisibile che sempre ha continuato a nutrire il tradere evoliano. Lo stesso Evola rivendica una precisa omologia tra Individuo Assoluto e uomo compiuto della Tradizione. Come se il superamento tradizionale avesse immunizzato il procedere della volontà in territori altri dalla ragione umana garantendogli una base irrinunciabile grazie al quale fosse possibile un tipo, un eroe dal ben definito rango ontologico già predeterminato filosoficamente e quindi legittimo da un punto di vista scientifico. Un eroe il cui status fosse nello stesso tempo differenziato ed in grado di differenziare, quale magnete d’una vocazione oltreumana, gli altri unici disposti a crescere attraverso la gerarchia dei gradi di luce. La volontà che trascende (“andare oltre innalzandosi”) l’individuo innalzandolo ai valori della personalità. E già nel solipsismo (assorbito dalla lezione stirneriano-weiningeriana) 477 Così le presenta Evola: “Noi qui abbiamo già attraversate le possibilità di esperienza comprese in un’Epoca della spontaneità o dell’essere, epoca di una universalità cosmica impersonale, sognante o demonicamente assorta in forze di natura; abbiamo anche attraversate le possibilità di esperienza comprese in un’Epoca della riflessione o della personalità, epoca in cui la libertà e l’autocoscienza individuata e affermativa sono pagate con un principio di finitudine, di paralisi e di esteriorità rispetto alle forze delle cose; siamo infine entrati nel mondo superpersonale e magico di un’Epoca della dominazione, e di là dalle varie esperienze di «purificazione», di là dalle varie apparizioni e dalle varie trasmutazioni di una esperienza che non è più quella fisica o intellettuale, siamo entrati nel cuore stesso del mondo metafisico, là dove l’evocazione ridesta le energie primordiali degli eoni, contro le quali l’Io resiste e lotta, sino a giungere a penetrare nel loro «nome» a ad impadronirsi del loro «segno», Il Signore del Vortice e l’Individuo Assoluto, in Krur (1929), op. cit., p. 368. 478 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Tascabili Economici Newton, Roma, 1994, p. 37: “Erano gradini per me, li ho saliti ─ a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi riposarmi su di loro…”. 171 Capitolo III è tutta concentrata l’edificazione di una nuova dimora dello spirito come cittadella del bene comune che si sviluppa in livello progressivi di potenza autosufficiente. Una struttura gerarchica interiore che si espande all’esterno e fonda, illumina, organizza una comunità di vita pervasa dalla virtù: passi di un ascendere vorticoso. L’Individuo assoluto e l’uomo compiuto della tradizione, come del resto l’uomo differenziato di Cavalcare la tigre, sono lo stesso schiaffo al moderno nel segno della forma interiore. Il coraggio della solitudine è il gesto magico che raduna per affinità gli altri individui assoluti che dirigono eroicamente il divenire. L’uomo è tale solo all’interno dell’Io: specchio della propria responsabilità. Essere Io è l’unico modo di essere anche per l’altro. L’unico modo di conoscere l’altro. O il solipsismo non è un agone? L’altro, nella sua omologia a questo centro di potenza, sa riconoscersi anche inferiore nel sacrificio ad una più alta realizzazione di sé. Da qui il legame tra gerarchia e autorità su di un piano che è politico solo in quanto è morale. In questa visione, che tende a non spezzare i periodi evoliani ma a farne le stazioni di un viaggio e i momenti di una dimostrazione nonché le parti di un organismo, Teoria e fenomenologia dell’Individuo assoluto più che un libro di filosofia è un compito metafilosofico. Il fatto che esso sia presentato attraverso adeguati coefficienti rappresentativi non è il lusso di un veggente ospite della realtà “umana troppo umana”. È il suo punto di forza poiché da essa (di)parte. Ed è un unicum nel panorama tradizionalista dove sembra che spiegare le proprie ragioni, per quanto superumane, sia un torto all’onnipotente ed una concessione alla plebe senz’anima. Giacché l’anima non è di tutti ma è di quei pochi, l’élite degli iniziati, che se la possono fabbricare. Evola tuttavia ha l’audacia di fare aperta professione di elitarismo. Un elitarismo morale di grande fascino. Ed infatti una volta rimesso tutto alla libertà dell’Io, anche la morale, non più eteronoma, è una decisione. L’Io che ha infranto ogni legge che uso farà della sua libertà? Il problema sollevato dal sistema fiosofico evoliano è risolto da Rivolta contro il mondo moderno. Essi stanno tra loro come il solve e il coagula dell’apoftegma ermetico-alchemico. 172 Capitolo III La domanda posta poco sopra in realtà è un assurdo inconcepibile. Impossibile prevedere gli effetti di un atto che è senza legge alcuna in quanto libero. Quindi? La Tradizione è la libertà479. Il cuore della forza metafisica che regge i destini del mondo. L’energia che attraversa la storia e determina la vita degli uomini informando le diverse tradizioni. Ordine metafisico della libertà. L’Io ha allora tutto distrutto per tutto creare. Ed oltre il velo dell’umano che ha superato se stesso risplende una figura sacra. Per Evola esiste, non è mito ma realtà, una via che trasmuta l’uomo in un essere onnipossente. Quindi, uno stato sovrumano cui questa via conduce. Egli afferma l’esistenza di una tradizione millenaria le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Rivolta è l’ordito spirituale che rappresenta, ri-componendoli in una mirabile sintesi, i frammenti di questa verità. L’Uomo come potenza e la Tradizione ermetica sono le vie pratiche per ricongiungersi a questo centro. La rivolta è il ritorno (revolvere) all’origine attraverso un morfologia della storia che indica i gradi attraverso i quali l’uomo ha voluto fuggire dalla sua libertà e, soprattutto, la stato spirituale originario da cui è decaduto quale stato dell’essere. Contro il mondo moderno per una sempre possibile risalita alle sorgenti del divino. Sintesi dinamica delle misure (sta per valori) di una reale opposizione alla decadenza e visione meta-politica che illumina la via di una nuova sacralità terrena. Una civiltà ordinata dall’alto e verso l’alto: tradizionale. Rivolta ha un valore conclusivo rispetto a tutte le opere fin qui elencate perché summa energizzante di esse. Sigillo trascendentale dell’operare umano. Opera religiosa. Quel che tutto congiunge, in questa apparente distanza dei piani d’azione e di riflessione, è la figura dell’Individuo Assoluto quale funzione (non è un uomo!) cosmica: Uomo come Potenza, yogin, Filosofo del Fuoco, Re divino etc. La curva degli scritti evoliani è iperbolica! Che Evola non abbia rigorosamente tracciato la linea che 479 Ma la libertà è un processo! 173 Capitolo III unisce i suoi punti di luce e di potenza non può stupire in quanto essa non è data ma può essere realizzata. Essa si forma, non ci stancheremo di ripeterlo, man mano che la si percorre. L’equazione Individuo assoluto=Re divino è una equazione di libertà. Davvero non è necessaria la sua comprensione. Tutt’altro: «Come il pesce non potrebbe vivere abbandonando gli abissi tenebrosi, così l’uomo volgare non conosca l’arma di questa sapienza del Signore»480. L’identità degli Individui Assoluti* L’identità della differenza tradizionale stabilisce, tra gli uomini chiamati al risveglio della loro natura individua, una connessione interna in base alla quale il simile attrae il simile e chiama diverso l’impotenza a riconoscersi nell’Uno481. Gli uomini della Tradizione sono uguali nella tensione divina che li muove ma diversi quanto al livello di realizzazione della propria volontà. La comunità che Evola vede al fondo della sua speculazione è una società iniziatica. I diversi si compattano nell’omologia del segno alto che li rende riconoscibili e li confonde come parti di un tutto differenziato nell’anima del singolo. Eticamente formato per essere solo in quanto co-operatore di una vita qualitativamente comune e ordinata al bene. Comunismo aristocratico. 480 Cfr. J. Evola, Tao tê ching, di Lao-tze, op. cit., cap. XXXVI, p. 53. *Ci appoggeremo in questa fase della nostra dimostrazione, oltre che ai più conosciuti volumi a stampa, soprattutto ai moltissimi articoli che Evola pubblicò sin dalla metà degli anni Venti, su riviste come Vita Nova, L’Idealismo Realistico, Il Lavoro d’Italia, ma anche, successivamente, su Lo Stato, Augustea, La Stampa, Il Lavoro Fascista e Carattere etc., per meglio inquadrare la visione dell’uomo evoliano e la vocazione politica che lo costituisce. Questo nostro atteggiamento metodologico, lo abbiamo già chiarito, non è operazione di retroguardia culturale ma vera e propria necessità. Arriviamo infatti ad affermare, senza eccessive cautele, che chiunque non abbia letto anche (almeno in parte) la sterminata produzione pubblicistica di questo controverso pensatore, non dovrebbe sentirsi autorizzato a parlarne o a scriverne. La necessità da noi appena evocata non essendo altro che quella della contestualizzazione e di uno studio comparativo e filologicamente corretto. Studi condotti spavaldamente senza questi due pre-requisiti essenziali confermano, oggi più che mai, a più di trenta anni dalla morte del filosofo romano, il modesto livello ermeneutico della critica, specificamente di quella filosofica, cui questo nostro lavoro si sforza, sia pure indegnamente, di non appartenere. 481 Cfr. J. Evola, La spiritualità pagana nel medioevo «cattolico», in Vita Nova, I, luglio 1932, ora in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 152: “Il simile incontra dunque il simile. Il simile risveglia e integra il simile”. 174 Capitolo III L’energia che trapassa i corpi di questi uomini-cristallo è la potenza della virtù che li forma ruotandoli come figure attorno ad un centro di luce. L’animus pre-dominante sull’anima482. Specchio di una purezza scorta sul fondo dell’agire. Che cos’è la Tradizione483? Una domanda che è già una risposta “al di là del bene e del male”. Lo stesso Nietzsche non domandò, o non rispose, 482 Il mens prevale sull’aspetto patologico della corporeità come l’animus sull’anima. Questa, strettamente correlata al termine animale, indica ciò che è sub-personale, promiscuo. L’animus è, al contrario, la qualità dell’uomo che si è liberato del vincolo naturalistico. Non l’uomo-bestia (anthropos), relegato nella pura naturalità ma l’uomo virile, differenziato (aner). La distanza, da noi già ripetutamente indicata, di questa filosofia della coscienza e dell’ordine da quella vitalistica (Bergson, Klages etc.) ci appare evidente. Cfr. J. Evola, Animus e anima, La Stampa, 2 luglio 1943, ora in J. Evola, Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), Heliopolis Edizioni e Fondazione Julius Evola, Roma, 2006, p. 163: “Se sia l’animus, sia l’anima non sono da confondere con la realtà grossolana del corpo, sussistono tuttavia fra l’uno e l’altra dei precisi rapporti gerarchici: in ogni uomo degno davvero di questo nome, è l’animus, è il nous il principio sovrano; l’anima resta, di fronte ad esso, qualcosa di puramente terrestre, di passivo, di fuggente, come fuggente è lo stesso soffio vitale del corpo, ad essa significativamente connesso da espressioni come animam emittere, animam enspirare per ‘morire’”. 483 Tra i moltissimi luoghi dell’opera evoliana in cui si parla di “Tradizione” segnaliamo, per chiarezza e semplicità, Che cosa è la «Tradizione», apparso in Il Conciliatore, giugno 1971, ora in J. Evola, L’Arco e la Clava, Edizioni Mediterranee, Roma 2000. In particolare pp. 225-226: “Si possono distinguere due aspetti della Tradizione, l’uno riferendosi ad una metafisica della storia e ad una morfologia della civiltà, il secondo ad una interpretazione «esoterica», ossia secondo la dimensione in profondità, del vario materiale tradizionale. […] Per quel che riguarda il dominio storico , la Tradizione va riportata a quel che si potrebbe chiamare una trascendenza immanente. Si tratta dell’idea ricorrente, che una forza dall’alto abbia agito nell’una o nell’altra area o nell’uno o nell’altro ciclo storico, in modo che valori spirituali e superindividuali costituissero l’asse e il supremo punto di riferimento per l’organizzazione generale, la formazione e la giustificazione di ogni realtà e attività subordinata e semplicemente umana. Questa forza è una presenza che si trasmette, e questa trasmissione, corroborata proprio dal carattere, sopraelevato rispetto alle contingenze storiche, di detta forza costituiva appunto la Tradizione. Naturalmente la Tradizione presa in questo senso è portata da chi sta al vertice delle corrispondenti gerarchie, o da una élite, e nelle sue forme più originarie e complete non vi è separazione tra potere temporale e autorità spirituale, la seconda essendo anzi, in via di principio, il fondamento, la legittimazione e il crisma della prima. […]. Per il secondo aspetto della Tradizione, bisogna rifarsi al piano dottrinale, e qui il punto di riferimento è ciò che si può chiamare l’unità trascendente riposta delle varie tradizioni. Quello che è stato chiamato il «metodo tradizionale» consiste nello scoprire una unità o corrispondenza essenziale di simboli, di forme, di miti, di dogmi, di discipline di là dall’espressione di là dalle espressioni varie che i corrispondenti contenuti di significato possono assumere nelle singole tradizioni storiche.[…]. La facoltà richiesta è […] quella che si potrebbe chiamare «intuizione intellettuale» o «spirituale», intuitio intellectualis, e chi ha una sensibilità adeguata si accorge subito se essa è, o no, in opera, in quanto ne deriva, per una certa virtù illuminante, inesistente nei ravvicinamenti estrinseci e stentati propri alla indagine profana e anche a coloro che vorrebbero fare i tradizionalisti senza una qualche effettiva radice nella Tradizione”. Il grassetto è nostro. Cfr. inoltre l’intervista ad Evola di Gianfranco de Turris, pubblicata come La vera «contestazione» è a Destra: L’uomo di vetta: (sette domande a Julius Evola), su Il Conciliatore n. 1, Milano, 15 gennaio 1970, pp. 16-19, ora in J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit. p. 214: “Debbo per prima cosa ricordare che quando io parlo di Tradizione mi riferisco a qualcosa di assai più originario, vasto e in attenuato di tutto ciò che correntemente viene considerato come tradizionale. È molto importante tener presente questo. In fondo, ciò che indico sono «linee di vetta», sulle quali solo a pochi è dato mantenersi”. 175 Capitolo III diversamente: “Che cosa è aristocratico?”484. Chi lo sa, si riconosce nella Tradizione, in questa aristocrazia degli spiriti (e non dello Spirito), mediante una partecipazione che si fa evento. Estetica pura. Il sentire di appartenere “a quella patria, che da nessun nemico potrà mai essere né occupata né distrutta”485. Catarsi di un momento immoto, senza tempo, come quelle immagini che senza pudore Evola proietta, strappandole alla storia, nelle coscienze degli Individui. Come se bastasse per ridestarli alla loro più intima natura, addormentati tra le rovine del mondo. Una appartenenza nella Visione. Per ricordarsi, finalmente vedendo: “Tat Tvam Asi”486. Oltre coloro che discutono perché non posseggono la virtù487. Questo è il silenzio terribile della Tradizione. Vogliamo dire: il suo ascolto. Gli uomini di cui Evola auspica l’avvento, quegli uomini in grado di rettificare gli eccessi demotici e quindi totalitaristi del fascismo-parodia della Roma imperiale, sono modelli di esistenza nella e della Tradizione. Figure di un teatro che mette in scena il confronto virtuoso dei suoi unici protagonisti. Da qui l’importanza della equazione personale dello stesso Evola, la sua immagine, il suo 484 È la domanda finale con cui F. Nietzsche intrappola il lettore nell’ultimo capitolo del suo Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2006. Riportiamo alcune parole di Giorgio Colli dalla sua introduzione al volume. Ci sembrano estremamente pertinenti anche riguardo all’aristocratico Evola: “L’istinto del distacco, ecco, forse è questa la radice dell’aristocratico. Il dividersi, il contrapporsi a tutto quanto sta intorno, nel pensiero, nell’azione, il tenersi fuori, lontano, separato. Questo sembra il pathos sotterraneo che sta alla base di tutte le configurazioni del gusto aristocratico” (Ivi, XIII). In piena sintonia con la definizione evoliana di apoliteia: “Apolitia è la distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi «valori»; è il non accettare di essere legati ad essa per un qualche vincolo spirituale o morale”, in J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 152. 485 J. Evola, Orientamenti, edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1994. 486 Cfr. J. Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee, Roma, 1998, p. 95: “Così si è potuto dire che «coloro che abbracciano chi è iniziato al supremo Brahman non fanno che abbracciare se stessi» e nel rito viene sussurrata, fra l’altro, la grande parola della Upanishad: «Tu sei questo (tat tvam asi)», aggiungendo: «Pensa: ‘Io sono Lui’, ‘Lui è i me’. Libero da ogni attaccamento (nir-mana = dal senso di riferimento all’individuo, in inglese mineness) e dal senso dell’Io (nir-ahamkȃra), va come desideri, essendo mosso dalla tua vera natura”. 487 J. Evola, Tao tê ching, di Lao-tze, op. cit., cap. LXXXI, p. 68: “L’uomo che ha la Virtù non discute; l’uomo che discute non ha la Virtù”. Evola cita queste parole di Lao-Tze anche in Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1993 , p. 12, nota 7, cui rimanda dopo aver affermato: “Le verità che possono far comprendere il mondo della tradizione non sono quelle che si «imparano» e che si «discutono». Esse sono, o no sono. Ci si può solo ricordare di esse, e ciò avviene quando ci si sia liberati dalle ostruzioni che le varie costruzioni umane […] rappresentano; quando si abbia dunque suscitata la capacità di vedere da quel punto di vista nonumano, che è lo stesso punto di vista tradizionale”. 176 Capitolo III “specifico” e, nello stesso tempo, il suo avvertimento dai più frettolosamente trascurato. Si tratta di schemi di vita irriducibili all’individualismo moderno488. Di paradigmi esistenziali scolpiti in tensione ascetica sulla via di una esperienza personale incomunicabile. Evola è uno scienziato dell’azione. Un filosofo politico che sulla scia della trinità classica Socrate-Platone-Aristotele ridona alla fisionomia del cittadino quel vigore e quella freschezza smarritisi nella disintegrazione cristiana dello spirito ecumenico antico. Progresso dell’origine. La cultura evoliana è quella della individualità/personalità tutta incardinata su di un elemento qualitativo che dovrebbe coinvolgere le spiritualità degli altri sulla via della liberazione. Senza obbligo e senza costrizione a meno che questi stessi non siano voluti come forme di una disciplina interiore. Una etica che fa bello chi la esercita (componente ascetico-iniziatica). Questa è la strada, il metodo della filosofia fortemente antidogmatica percorsa dall’Evola. Il sentiero è comune ed è quello di un tradere quale disvelamento nella competizione. Da qui anche la razza come occasione, soprattutto ─ non sembri audace ─ di dialogo e di crescita interiore per ovviare alle storture di una contingenza politica barbaricamente estranea alla retta via di una ragione pratica. Tutta presa invece da una scrittura biologica che vergasse le regole di una appartenenza razziale differenziata in base a criteri zoologici. 488 Cfr. J. Evola, Sulle premesse di un “antibolscevismo positivo”, in Lo Stato, gennaio 1937, ora in J. Evola, Lo Stato (1934-1943), Fondazione Julius Evola, Roma, 1995, pp. 172-173, dove Evola afferma “la più netta distinzione fra personalità e individualità. L’individualità è la contraffazione materialistica e secolarizzata della personalità. La personalità è l’uomo che vale anzitutto in funzione dello spirito, poi di una tradizione, infine di una sua specifica qualità, di un suo specifico onore, di una sua classe o casta. […]. L’individualismo è sorto a vita attraverso la negazione della tradizione e della realtà sovrannaturale”. Ancora, tra i molti luoghi dell’opera evoliana a disposizione e a difesa della persona, La concezione “antiromano-razzista” del diritto ivi, pp. 8485: “Solo quando, per azione di un interno superamento, di interna emancipazione e di interna formazione ─ azione che si compendia nel concetto classico di cultura ─ il singolo trascende il dato immediato del sangue, come pure della sensibilità e dell’istinto, aprendosi a interessi di carattere superiore, solo allora egli divine persona, partecipa ad un ordine più alto, virtualmente universale (cioè non antinazionale ma supernazionale) al quale, fra l’altro, appartiene il dominio del diritto secondo la sua concezione tradizionale e spirituale. Cfr. anche J. Evola, Cavalcare la tigre, op. cit., p. 104: “[…] l’uomo differenziato […] attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, […] può enucleare la persona assoluta”. Infine, J. Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni Mediterranee, 2002, p. 83: “La persona è l’individuo differenziato mediante la qualità, con un suo volto, una sua natura propria, una serie di attributi che lo fanno sé stesso e lo distinguono da ogni altro; che dunque lo rendono fondamentalmente diseguale”. 177 Capitolo III L’accenno a questa tematica che esploderemo nel paragrafo seguente, ci consente qui di marcare l’insistenza con cui Evola descrive l’attitudine che gli è propria e che si sforza di irraggiare intorno a sé in quella notte in cui tutte le camicie sono nere. Quel che attira la sua attenzione, la figura su cui sempre si sofferma è l’eroe nella sua funzione pontificale, di costruttore di vie: “Non vuol saperne di speculazioni, di scritture, di testi. Ostenta perfino una iconoclastia. Vuole essere essenzialmente un sistema di realizzazione spirituale. Non disserta su verità trascendenti, ma indica le vie per sperimentarle direttamente. Donde uno stile di taciturnità e di estrema semplificazione”489. La prospettiva evoliana non si consegna alla realtà differenziandola esclusivamente a livello negativo, concettuale. Essa la scioglie nel suo esito solipsistico per poi affermarla nel consolidamento di una esistenza ideale. Visione positiva di una accelerazione atemporale ─ nel piano simbolico-intuitivo in cui si colloca ─ dove la volontà sovrasta la ragione e agire significa reazione incrollabile al dubbio tragico di ogni conoscenza soltanto discorsiva e storica. Atto eroico. Il divenire continuo del superamento è dominante. Tensione estatica d’ogni voluto e d’ogni pensato nella pienezza dello spirito. Mai doma, irrefrenabile, sempre avanti la sostanza divorata dall’atto creativo. La perfezione di un attimo in un sistema energetico di inaudita potenza che sempre mette in discussione, rompe gli equilibri, spazza via la certezza del rapporto tra gli uomini e le cose. Evola chiama sovrano questo flusso incoercibile della vita ma rifugge dal vitalismo in quanto crede possibile possederne la forza, farsi padroni della potenza organizzandola nelle strutture coscienziali dello spirito tradizionale. Ordine dal caos. Luce apollinea sulle tenebre della devastazione dionisiaca. E su tutto, il disprezzo per il sostare vegetativo, da bestiame bovino, davanti al pascolo delle furie distruttrici. 489 J. Evola, La religione del samurai, apparso su Augustea il 1° marzo 1942, ora in J. Evola, Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), op. cit., p. 66. Il grassetto è nostro. 178 Capitolo III Tutta l’energia di Evola è in direzione di una spinta: “Non è possibile esporre in poche righe ciò che noi, dal punto di vista “tradizionale”, riteniamo essere germe per un rinnovamento spirituale. Per quanto oggi non se ne sappia più nulla, esistono egualmente nella storia delle leggi cicliche. Al punto in cui l’Europa è giunta dopo secoli di deviazione “umanistica”, riteniamo che, per avere un nuovo principio, bisogna augurarsi che si giunga alla fine quanto prima, ossia che il ciclo si compia sino alle sue ultime conseguenze. In molte reazioni, siamo perciò inclinati a vedere dei crampi che prolungano l’agonia, valgono solo a ritardare la soluzione, onde costituiscono un fattore più negativo che non positivo. Positivo, ci sembra invece tutto ciò che porti appunto i temi caratteristici del ciclo moderno sino in fondo, con una intrepidezza ─ per così dire ─ disperata. Allora dinanzi all’alternativa, potrà forse prodursi un risveglio”490. Il pragmatismo evoliano si fa qui eutanasia metafisica. Non c’è pessimismo. Solo una lucida disperazione. Il tonico di un esistenzialismo positivo che rifugge dalla pavida tolleranza del realismo come dalle ingenue consolazioni dell’intellettualismo. A quel che sta cadendo si deve dare una spinta. Pietà tradizionale. Non c’è niente di immutabile. L’ordine del nichilismo cova il gesto mortale che lo soppianterà nell’aurora di un nuovo ciclo. L’abbraccio di una esistenza insieme umana e divina, fondamento ideale di uno Stato interiore: “da cogliere non più per sensi o categorie razionali, sibbene per l’immediatezza di una intuizione amante, di un atto che trascende la limitazione della mia individualità e facendomi comunicare con l’essere trascendente, radice della mia radice, in questa suprema interiorità mi fa comprendere interiormente le cose non come sono 490 J. Evola, Risposta all’inchiesta sulla nuova generazione, ne Il Saggiatore, III, n. 19, marzo 1932, citato da Gian Franco Lami nella sua introduzione a L’Idealismo Realistico, op. cit., p. 29. Apparso anche su L’Indipendente delle idee, supplemento culturale della domenica del L’Indipendente, 6 novembre 2006. 179 Capitolo III per me ma come sono in se stesse, cioè come sono in funzione della potenza o mente divina che le ha prodotte”491. La metafisica per Evola è “ordine di assoluta concretezza” voluto dall’uomo. Visione antidualistica, anticristiana, aristocratica il cui occhio è l’autosufficienza dell’Uomo. Magia operativa: “[…] occorre avere la forza di prendere in blocco tutto ciò che si è, che si sente e si pensa e crede quali uomini, metterlo da parte, dire Basta, e andare avanti; occorre cioè portarsi alla disperazione, creare una situazione in cui non resti più che una alternativa: o vincere o scomparire”492. Non c’è altra possibilità per questa morale eroicopagana fanaticamente sostenuta da un ultra-fascista mai iscritto al P.N.F. Abbandonata la filosofia alla sua inadeguatezza comunicativa, il simbolo entra nella sua dimora tradizionale. La dimora del mito, che “non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia” 493. Qui Evola scopre il valore morale della Tradizione, immagine di un uomo eretto. Il valore esistenziale della metafisica, punto di congiunzione tra la terra e il cielo, tra l’alto e il basso, tra immanenza e trascendenza. La possibilità di risalire i momenti della storia attraverso i gradi della umana civiltà in bilico tra Nord e Sud. I due regni: l’uno della qualità, l’altro della quantità con i rispettivi ordini e conseguenti legittimazioni simboliche negli spazi e nei tempi più diversi. E la volontà di un recupero metafisico, quell’etica pagana che può di nuovo irrompere nel flusso storico e ri-configurare l’ideale imperiale. L’Impero come soluzione politica. L’ordinatio ad unum quale presenza dell’alto nel mondo, dove le diversità sono le vie di un’unica affermazione di pace e di giustizia. La concezione tradizionale di Evola è una concezione dinamica, “romana” in quanto consente la manifestazione del potere divino nella dimensione storica. Gli dei romani si “incarnano” nel tempo e la loro rivelazione è qualcosa di legato a determinati momenti “‘fatidici’, originali, irripetibili”. Olimpico è il carattere di quell’azione che folgora la 491 Dualismo cristiano e dionisismo nella filosofia mistica di P. Zanfrognini, in L’Idealismo realistico, n. 13-14, 1-15 luglio 1926, ora in J. Evola, L’Idealismo realistico, op. cit., p. 124. 492 Ivi, p. 127. Cfr. ancora Georges Bataille, La congiura sacra, op. cit., p. 5: “Segretamente o no, è necessario trasformarsi o cessare di esistere”. Vedi inoltre Introduzione alla Magia, volume primo, op. cit., p. 8: “Trasformarsi ─ questa è la premessa della conoscenza superiore”. 493 Ernst Jünger, Trattato del Ribelle (titolo originale: Der Waldgang), Adelphi, Milano, 1994, p. 54. 180 Capitolo III storia riempiendo il mondo di luce: “Diritto e idea politica, in Roma soprattutto nelle origini ebbero una radice spirituale, la quale rimanda proprio all’ideale olimpici e antinaturalistico, alla simbolica sovranità della luce che, fra le genti arie, costituì sempre un motivo fondamentale”494. Questa sovranità luminosa si manifesta infatti in quei comportamenti che contraddistinguono i portatori dell’idea divina la cui funzione è quella insieme di guida e di accrescimento morale nella città. Tradizione evoliana Il cristianesimo per Evola è il nemico par excellence. Dogmatismo semitico imposto al mondo ariano dei romani. Sul finire del 1927, il barone sostiene una posizione che prenderà, l’anno successivo, la forma di uno dei suoi più importanti, e sottovalutati, scritti: Imperialismo pagano. Arturo Reghini ne è uno dei massimi ispiratori ed è anche il responsabile dello scisma che porterà alla cessazione del “Gruppo di Ur”. Questo sodalizio si era costituito agli inizi del 1927 col fine di esporre metodi, discipline e tecniche di quella tradizione “[…] adombrata da simboli scari, miti e riti, le cui origini si perdono in tempi primordiali, ora come scritti allegorici, misteri ed iniziazioni, come teurgia, yoga o alta magia e, nei tempi più recenti, come sapienza segreta di correnti sotterranei affiorate qua e là fra le trame della storia occidentale, fino agli Ermetisti e ai Rosacroce”495. Evola, nel suo libello del 1928, afferma l’irriducibile contraddizione tra l’ideale imperiale e quello cristiano e il fallimento del compromesso tra questi due ideali tentato dal cattolicesimo fino all’età dell’Umanesimo. Critica la modernità progressista, democratica e ugualitaria. Propone una individualità eroica, aristocratica e autarchica. Sostiene recisamente il superamento della concezione legalistica dello “Stato” e di quella collettivistica di “Popolo”. Infine consacra i valori della tradizione, conoscenza salvifica e, quel che più conta, selettiva. Deve essere chiara la 494 Augustea, Esplorazioni nella romanità delle origini, 16 novembre 1942, ora in J. Evola, Augustea (1942-1943) – La Stampa (1942-1943), op. cit., p. 79. 495 Introduzione alla magia, volume primo, op. cit., p. 9. 181 Capitolo III differenza dell’individuo evoliano, il suo essere romano e pagano sulla via di una elevazione opposta al cristianesimo/cattolicesimo. Il mondo tradizionale non conosce trascendenza separata da immanenza ma, in una larvata forma di progressismo che “guarda indietro”, rifugge da ogni soluzione “dualistica”. Evola ricorda (riporta al cuore) il carattere sacrale di una realtà integralmente spirituale sui confini del processo di secolarizzazione. Un uomo eroe che si muove in una natura magica: visione antinichilistica del nichilismo. Gli occhi sono quelli della volontà di potenza. Metafisica eretta sulle rovine della modernità. Vivere la trascendenza nei giorni che muoiono. Guardare in faccia il dio nella prossimità di una distanza incolmabile. Questa capacità aumana, confine del limite che infrange, nello stesso rifiuto, ogni forma di dogmatismo, ritrova la tradizione nella libertà assoluta dell’Individuo. L’eroismo della vita nella vita nega tutto quel che compromette l’onore del gesto superiore compattando quegli uomini capaci d’incarnare l’attributo divino. Comunità degli uguali che obbediscono solo alla legge dell’autarchia. Il pensiero evoliano è religioso. Chiamiamolo pure divino. Senza Dio. Stato spirituale Evola si è sempre rivolto al singolo. Il suo pensiero politico è tutto nella capacità dell’individuo di trascendersi. Il limite è quello di una consapevolezza progressiva. Come la potenza che cresce. Metafisica del superamento tutta terrena. Superamento della metafisica allora. O trascendenza immanente. Gli uomini della comunità persuasa portano la forza divina in terra. Il percorso di liberazione giunge a compimento, si perfeziona nella dimensione politica secondo i ritmi tradizionali che segnano la vita di un carattere indelebile. Una vita da vivere contemplando in tensione scatenata ─ dall’illusione del desiderio che uccide la potenza. 182 Capitolo III La contemplazione disvela lo spirito di una esistenza consacrata alla veglia, alla luce della coscienza, alla sacralità dell’atto. Filosofia del perfettibile. Nella storia che è pratica di vita in elevazione. La morale evoliana, la sua spinta religiosa e la necessità di confrontarsi col fascismo, è agone e conseguente agonia del suo pensiero e della sua azione nel fascismo. Nessuna etica civile o confessionale animava lo slancio utopico di questo cittadino virtuoso. Non potere ma potenza. Piano di realizzazione verticale. Ascesi, autosufficienza, autarchia. Eroe, asceta politico o guerriero nichilista. Ancora: Individuo Assoluto, uomo compiuto della tradizione. Anarchico di Destra. Tipo differenziato. Potremmo continuare a lungo. Sempre la stessa vocazione interiore. E all’esterno il gracchiare feroce dell’incomprensione, parimenti violenta sia durante il fascismo che durante l’antifascismo496. Oltre la superficie della piattezza orizzontale quale vita in declino. Possesso materiale, utilitarismo. Da despota o da bestia: l’imporsi sulle cose non appartiene alla superiorità spirituale. Civiltà è creazione. Non civilizzazione. Tuttavia l’esempio ampliava i confini della luce e propiziava il risveglio delle anime assonnate. Mobilitazione delle masse quale esercito dei sonnambuli. Evola urlava ai “pochi”. In pieno mercato. Forse è questa la radice del fraintendimento che trascina verso il basso gli incapaci del “salto”. E della triste sequela dei suoi cattivi discepoli. Monocolo di massa. Quello evoliano era un messaggio di una semplicità disarmata e di disarmante purezza e veicolava una idea dell’uomo e del suo “essere” totalitaria. Irrimediabilmente e provvidenzialmente distante dal totalitarismo idealistico-romantico di marca germanica. Filosofia trascendentale, immanente all’individuo. E non immanentismo. La trascendenza evoliana non è l’altro dalla vita ma l’altro della vita: il 496 Si pensi solo al caso della rivista La Torre, fondata e diretta da Evola nel 1930 e dopo pochi mesi barbaramente censurata dal Regime. Ricordiamo che il Barone, per un certo periodo, dovette perfino uscire “per mia difesa, con una piccola guardia del corpo (costituita da altri fascisti, simpatizzanti)”, come lui stesso racconta ne Il cammino del cinabro, op. cit., p. 101. Cfr. anche Massimo Scaligero, Testimonianze su Evola, op. cit., p. 181: “Conobbi Evola in un momento in cui tutti ─ o quasi ─ prudentemente si allontanavano da lui: si era rivelato, mediante La Torre, il più audace contestatore dell’ideale di cultura del Regime. Nonostante che intorno a lui, per tale motivo, si creasse una sorta di vuoto, egli continuava imperterrito ad attaccare”. E ancora, ivi, p. 183: “Gli facevo compagnia con un gruppo di amici maneschi trasteverini, da me mobilitati, quando egli rischiava di essere di nuovo aggredito, in occasione delle diverse cause che aveva in tribunale per querele e strascichi di querele”. 183 Capitolo III suo più alto inverarsi nella prassi degli uomini che, accordata al divino, ha carattere luminoso, “olimpico”. Lo spirito è hic et nunc, nella sua trasversalità celeste (: occulta) e terrena. È nel sangue iperbolico dell’uomo. Forma d’infinito nella sua valenza di veicolo iperfisico che sola consente la superiore realizzazione della persona. Assoluta quando è sciolta dal mondo degli uomini ma in connessione energetica, essenziale con esso perché scelta umana e divina insieme. Realtà metafisica. Ecco le due nature nell’uomo e il problema della “razza”. Problema eminentemente spirituale, religioso. Evola è un uomo del suo tempo, e nel suo tempo volle vivere. Il fascismo e il nazismo furono soltanto la base di partenza verso l’altrove della storia che si chiama Roma497. L’antichità classica risolve l’enigma dello sradicamento moderno de-ciso dal cristianesimo. L’obiettivo non è una restaurazione degenerata. Lo stesso cristianesimo infatti sovvertì il cosmo tradizionale parodiato dal fascismo nel marmo bianco della sua impura monumentalità. L’operazione evoliana ha un senso solo perché azzardata sul limite della decadenza. Unire lo sradicamento cristiano, la libertà totale che spezzò le radici della polis nell’animo dell’uomo e la luce olimpica del “dio in noi”, la saldezza interiore di un uomo in costante contatto con la forza delle cose. La struttura originaria che presiede al mutamento. Quella di Evola è la purità sognante di una conquista dell’origine nel deserto. La scelta di una morte trionfale in questa stessa vita per non soccombere alla melodia 497 Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., pp. 328-329: “In Roma si incarna l’idea della virilità dominatrice. Essa si manifesta nella dottrina dello Stato, dell’auctoritas e dell’imperium: lo Stato, nel segno delle divinità olimpiche […], non disgiunto nelle origini, da quel «mistero» iniziatico della regalità ─ adytum et initia regis ─ che fu dichiarato inaccessibile all’uomo comune; l’imperium, nel senso anzitutto specifico ─ non egemonico e territoriale ─ di potere, di forza mistica e temibile del comando, posseduta non solo dai capi politici […], ma anche dal patrizio e dal capo-famiglia”. Cfr. anche J. Evola, Romanità, germanicità e la «Luce del Nord»: Il significato di Roma per lo spirito «olimpico» germanico, in Rassegna italiana, novembre 1942, ora in J. Evola, Romanità, germanicità e la «Luce del Nord», L’Arco e la Clava, Edizioni Mediterranee, Roma, 200, p. 145, dove Evola chiarisce quale “romanità” sia il suo punto di riferimento: “Troppo spesso di Roma ci si è fatta, in Italia, una idea astratta, una reminiscenza umanistica, un oggetto di retorica. L’essenza primordiale di Roma troppo spesso è stata trascurata ─ di quella Roma che è un mistero augusto delle origini, di quella Roma che contenne e sempre conterrà una forza evocatoria, di quella Roma che non è un puro concetto storico o una struttura giuridica secolare bensì un ordine dove non vigono semplici valori umani, ma anche regnano potenze, figure divine e dominazioni: un mondo di tensioni metafisiche, un mondo solare, élitismo, realtà olimpica e eroica, ordine, luce, pura virilità, pura azione. Vicino a tutto questo, l’idea dello Stato, dell’Imperium”. Questa è la romanità che per noi rappresenta un valore, ed essa […] va considerata [...] come una rinascenza , come il raffiorare per vie misteriose di un retaggio primordiale”. 184 Capitolo III nichilista di un concerto di automi. Da qui la furia divulgativa della sua comunicazione “alta”: “Non possiamo limitarci a riconoscere il vero e il buono ai piani alti, mentre in cantina stanno scorticando vivi i nostri confratelli”498. La prosa immaginifica di Evola, la sua filosofia poetica preludia jüngerianamente al “passaggio al bosco”, preparando il terreno al rivolgimento e alla caduta dei titani moderni che hanno stretto con la tecnica un patto micidiale. Il segreto del linguaggio evoliano, sempre teso, potrebbe essere proprio qui. Nella volontà di aiutare gli uomini del suo tempo a decifrare le immagini sul fondo della caverna. Non lottando invano contro le tenebre, ma accendendo la luce nelle loro coscienze. Maieutica interiore. E quadri a-storici arbitrariamente ingranditi o rimpiccioliti in grado di eccitare le menti. Tutto doveva essere tentato pur di non perdere anche un solo grumo di presenza a sé stessi, di sufficienza, di drittura. Onore e fedeltà, non (solo) al Duce dunque, ma al proprio mandato trascendentale, di là da qualsiasi strumentalizzazione totalitaristica dell’universo spirituale pre-moderno che, per Evola come per lo stesso Guénon, specie nel nazional-socialismo assunse la fisionomia di una vera e propria contraffazione della “sapienza originaria”499. Pensiamo soprattutto all’uso del simbolo primordiale dello Swastika: la Hakenkreuz o croce ansata, rappresentazione del “fuoco ardente per virtù propria, e del sole che nasce”, poi oscurato da drammatiche involuzioni razziste500. Il patrimonio ordinante della tradizione è fatto di energia canalizzata 498 Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, op. cit., pp. 52-53. Crediamo che questo giudizio jüngeriano condensi le ragioni della scelta di Evola a favore (e contro!) il fascismo. La drammatica contingenza in cui visse dettò, con la forza terribile che ha solo la fatidicità dell’evento (meta)storico, le ragioni del suo “cameratismo” in vista di una nuova stagione di luce e di potenza, cui il movimento di Mussolinini avrebbe potuto offrire il proprio contributo virtuoso. Ingenuità politica o fede tradizionale o ancora il groviglio di un fascio di tensioni metafisiche in imminente precipitazione sul destino degli uomini. Non è nostra intenzione dare qui una risposta. Certo è che la figura del pensatore romano appare esemplare testimonianza, accanto a quella di C. Schmitt, di un tempo che non consentì, agli uomini, la fuga dalle proprie responsabilità. Da una parte e dall’altra. Julius Evola come “epimeteo pagano”? 499 Cfr. J. Evola, Lo Stato (1934-1943), op. cit., p. 117: “E noi potremmo perfino mostrare che sinistre devastazioni i nuovi fervorosi apostoli della razza nordica hanno operato con interpretazioni de formatrici e infette dei pregiudizi più moderni proprio nelle stesse antiche tradizioni mitologiche e eroiche nordiche degli Edda, di cui essi mostrano dunque di esser i primi a non capir nulla”. 500 Cfr. René Guénon, L’idée du Centre dans les traditions antiques, Regnabit, maggio 1926, ora in René Guénon, L’idea del Centro nelle tradizioni antiche, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano, 1997, p. 70, nota 8: “Non alludiamo qui all’uso del tutto artificiale dello swastika, in particolare da parte di taluni gruppi politici tedeschi, che ne hanno fatto con totale arbitrio un segno di antisemitismo, con il pretesto che tale emblema sarebbe proprio della presunta ‘razza ariana’; questa è pura fantasia”. 185 Capitolo III attraverso le vie dell’agire e non del sapere. Per chi non abbia il senso di quanto vasto ed inattenuato sia il riferimento metafisico del pensatore romano, riesce difficile sfuggire al sospetto che la tradizione in Evola sia tale solo nella potenza mitopoietica dei suoi simboli ordinanti. Come sintesi, utopia. Mentre da un punto di vista storico o storicamente determinato essa (si) rivela una struttura debole ─ a dispetto della sua icastica pre-potenza ─ derivata, costruita, sincretistica, di giustapposizioni delle diverse tradizioni sotto il cappuccio della “cosa una”. Scorgiamo qui allora la differenza tra filosofia e tradizione. Nella strategia comunicativa che verso la fine degli anni Venti reclama un fervore cui il rigore della dimostrazione filosofica non poteva offrire l’entusiasmo desiderato, strozzato dalla sintesi dialettica. Dimostrazione che aveva il fine precipuo di sfuggire al delirio irrazionale per radicarsi nel superamento della ragione. Esame di coscienza. Il passo successivo non fu l’abbandono della filosofia ma la trasformazione del mondo. Bisognava cambiare le cose. Quel che poteva esser detto, Evola lo espresse filosoficamente come il velo dialettico del compimento. Come magia della parole, gesto iniziatico che (di)mostra l’invisibile nella forma (gestalt). Filosofia pre-moderna ancorata alla vita. Abbandono del mito ad una tecnicità discorsiva intesa quale auto-iniziazione, ultima maschera e incredula sollecitazione all’ascolto. Prima di rivoltarsi contro il mondo moderno. Ma filosofia anche come rifugio, caverna del mito (Platone), per aver fissato il sole. E quindi: aletheia, nonnascondimento della luce e ritirata in attesa degli altri Sé: i simili, gli uguali, gli unici in grado di ardere nel fuoco dell’azione conforme all’ordine divino, fuori e dentro l’uomo, la parola impossibile della Tradizione. Al fondo di quell’Io che stirnerianamente si prende ma non si apprende. O in quella superficiale svolta cosiddetta tradizionale: esorcismo della ragione per fuggirne l’essenza demonica. Non crediamo infatti vada sottaciuto il carattere improvviso, non sufficientemente meditato e mediato, del processo, sia pure iniziatico, con cui Evola si accasa in Tradizione. La velocità del trapasso tradisce una situazione di emergenza. Come se nel crollo generale Evola cercasse un sostegno, anche solo la suggestione di un asse incrollabile cui appoggiare la fluidita della sua “visione del mondo”. Una scena in cui calare quella potenza dell’individuo, quell’irriducibile flusso di 186 Capitolo III libertà irrigiditosi nella maschera solipsistica, che tanto aveva colpito i più avvertiti critici del suo tempo, sconcertati da un simile impressionante segnale di disarmo della ragione. Tradizione è visione del gesto pensante o sovvenire dell’azione. Penso al francese “se souvenir”, ricordarsi e alla sua omofonia con sous-venir (venir sotto) ma anche a subvenir (giovare, sopperire) e al latino subvenire, composto di sub, sotto, e venire: quasi andar sotto per fare spalla, aiutare. Il passato tradizionale “vien sotto” all’uomo per farsi ricordare, per guidare: aiutarne il gesto luminoso. Il nuovo senso dell’azione, del presente, è radicato nel passato che sov-viene. “Civiltà tradizionale” non è cosa morta, solidificata. Essa ha la funzione di guida dell’eterno presente. Come un faro che indica la via del ritorno all’origine. Rivoluzione ultramoderna. Crediamo si radichi in questa dimensione l’urgenza che folgora Evola e lo spinge ad immettere nel circuito storico quell’immensa circolazione di energia che è la Tradizione. Quasi fosse il contenitore spirituale dell’elevazione interiore, l’insieme di tecniche, culti, vie, immagini etc. che permettono la creazione e la consistenza di un terzo potere tra cielo e terra appartenente all’essere integrale dell’uomo. Il sovrano interiore capace di reggere il mondo: “La «tradizione» in senso metafisico e concreto ─ ormai lo abbiamo ripetuto a sazietà ─ non è nulla più che la presenza di [...] realizzazioni superiori al titolo di una continuità stabilità attraverso le generazioni da una catena di individualità superiori”501. Si badi a quella fascinosa endiadi tutta da chiarire: “metafisico e concreto”! Una continuità incalzante di realizzazioni spirituali che formano il “cordone dorato” della tradizione. Questa la universalità del tradere cui Evola si richiama e questo il carattere pratico-esperienziale che, rispettivamente e paradossalmente collocano Evola tra i “cattolici” (ripetiamolo: paradossalmente) e, quel che più conta ai fini della dimostrazione che andiamo tentando, a “sinistra” dell’idealismo 502. 501 J. Evola, Autorità spirituale e potere temporale, in Krur (1929), op. cit., p. 335. Cfr., Gian Franco Lami, Prassi e tradizione, in Il Maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola, op. cit., p.167: “Vorrei che fosse definitivamente chiara la ragione per cui insisto sull’aspetto ‘pratico’ della filosofia evoliana. Dal mio punto di vista, il pensiero idealista italiano ha vissuto, nel primo quarto del secolo scorso, un periodo altamente critico, nel quale si è andata proiettando una crisi generazionale, tra mentalità di tipo conservatore e mentalità di tipo rivoluzionario. Ci fu, insomma, un idealismo del tipo ‘giustificazionista’ (dove inserire lo storicismo crociano) e un idealismo del tipo ‘giustizialista’ (dove inserirei il pragmatismo 502 187 Capitolo III Si faccia attenzione alle seguenti distinzioni: “Sono i due poli primordiali della vita spirituale, che danno luogo a due verità, a due caste, a due tradizioni, a due culture, l’una sacerdotale, l’altra imperiale. E nell’una, la contemplazione domina sull’azione, nell’altra l’azione domina sulla contemplazione; nell’una la trascendenza eccede l’immanenza, nell’altra le due cose sono coestensive e strette in un unico nodo; nell’una l’accento del valore cede nella remissione all’universale, nell’altra esso cade nell’affermazione dell’individuale; per l’una il “tipo” è il santo, l’asceta, il mistico o il devoto, per l’altra esso è l’aristocrate, il duce, l’eroe e, in un certo aspetto, il mago; nell’una la suprema autorità spirituale spetta al pontefice, nell’altra essa spetta invece al Re o all’Imperatore; e le coppie di simili opposizioni, potrebbero essere moltiplicate a volontà”503. La tradizione metafisica per Evola è questa. E queste sono le fondamenta invisibili del suo edificio ordinante. Conformare la propria esistenza a tali coordinate significava allora darsi al sacrificio della propria dimensione meramente vegetativa. Per sfidare il limite umano, soprattutto l’indolenza dell’abitudine che conserva la vita senza accrescerla e la crassa soddisfazione degli impulsi più immediati, incarnando un ideale di grandezza e di saldezza interiore. In primis et ante omnia super-storico e meta-politico. La tradizione significa che “felice” è solo chi agisce, chi compie il proprio dovere. Si deve assolutamente capire che non c’è Individuo Assoluto, icona della libertà da una parte e poi, successivamente alla cosiddetta tilgheriano). Evola si connoterebbe in questo secondo ambito, che, per un certo verso conserva la sua radice più nascosta in un dato hegelismo ‘di sinistra’, e precisamente feuerbachiano, tramite il quale la realtà non si sarebbe più soltanto contemplata, ma si sarebbe dovuta ‘cambiare’. Ecco, penso che buona parte delle simpatie suscitate da Evola in ambienti anarco-rivoluzionari provenga da questa radice nascosta, (la medesima) che gli valse, in circostanze particolari della sua vita, l’epiteto di ‘comunista’”. Cfr. anche Aleksander Dughin, Julius Evola e il tradizionalismo russo, in La Nazione Eurasia, 11 giugno 1974-11 giugno 2004. Trentennale evoliano, Anno I, Numero speciale 1, giugno 2004, p. 16: “Indubbiamente, nell’insieme dei suoi scritti è molto saliente ciò che si potrebbe tentare di chiamare la ‘sinistra’ del messaggio evoliano. L’anticonformismo totale verso la realtà moderna occidentale, la contestazione radicale dei valori borghesi avvicinano Evola a certe branche della sinistra. Questo fenomeno non è la manifestazione della sua natura personale. Vi è qui un lati sintomatico estremamente importante”. 503 Cfr. J. Evola, Autorità religiosa e autorità temporale, in Vita Nova, n. 12, 1929, ora in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 79. 188 Capitolo III “svolta tradizionalista”, l’uomo della tradizione intesa come legge necessaria cui obbedire. La libertà, questo asylum ignorantiae della filosofia, un (non) concetto spesso usato in maniera fideistica, ha in Evola un valore assoluto: pratico, positivo e selettivo. Essa infatti, lungi dall’essere la libertà negativa del non-infrenato, una forma larvata di prigionia, è forma, stile, legge. La tradizione, non ingessata nel dogma, è la possibilità inesauribile che l’opus si compia. Anche e soprattutto tra le rovine. Il carattere dinamico della tradizione evoliana lo lasciamo chiarire da questo splendido verso di Michelstaedter: “Argìa sarà il tuo porto di’ energheias”. Tradizione è nello stesso tempo, e fuori del tempo, forza in potenza non ancora manifestata e forza in atto: azione efficace. Se la tradizione non viene agita, essa non è. Va dunque sottolineato ancora una volta il carattere eversivo, antidogmatico ed eracliteo della filosofia della tradizione evoliana. Una visione che mette in rapporto due diversi tipi di azione: moderna e tradizionale. Ora, la loro opposizione non è cronologica. Non è quella di un prima e di un poi che arresterebbero la libertà degli individui tra le maglie del tempochronos: ciclicità dei piani metafisici che sovrastano le epoche storiche. La lotta tra le due, tra il mondo del sacro e quello della decadenza, è simultanea e si combatte nel senza-tempo. Guerra metafisica504. Storia e tradizione sono i due estremi tra cui si di-batte il cuore dell’uomo. In cielo e sulla terra l’opposizione è reale. Ecco perché Evola irrideva Guénon definendolo “allergico alla politica”505. Ma la politica per Evola riguarda il destino della polis, la dimora dell’essere, l’agire degli uomini. Da qui il suo impegno straordinario per non far naufragare quanto di buono egli si sforzò di vedere nel fascismo, nei presupposti virtuosi di questo movimento. E l’attenzione, quasi ossessiva, ai destini del suo amato Occidente. L’azione è il segno vitale della contrapposizione, luogo della decisio e del conflitto. Rivoltarsi contro il mondo moderno significa allora far dialogare i due volti dell’azione e le due nature dell’uomo: 504 Cfr. J. Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, 1996, p. 203: “«Voi non siete qui per combattere con cose, ma con déi», fu già detto da Böhme”. 505 Cfr. J. Evola, René Guénon e il «tradizionalismo integrale», ne I testi di Totalità, Il Borghese, la Destra, op. cit., p. 132: “Il Guénon era allergico per tutto ciò che è politica in senso stretto […]”. 189 Capitolo III “Vi è un ordine fisico e vi è un ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore dell’«essere» e vi è quella infera del «divenire». Più in generale: vi è un visibile e un tangibile e, prima di là da esso, vi è un invisibile e un non tangibile quale sovramondo, principio e vita vera. Dovunque nel mondo della Tradizione, in Oriente o in Occidente, in una forma o nell’altra, è stata sempre presente questa conoscenza come un asse incrollabile al quale tutto il resto era ordinato. Si dice conoscenza e non «teoria»506. E ancora un frammento eracliteo spesso ricordato da Evola: “Un uomo è un dio mortale e, un dio, un uomo immortale”507. Dalla tradizone alla storia e dalla storia alla tradizione. Una scala su cui sale e scende questo uomo-divino capace delle realizzazioni spirituali più alte, tali da far violenza allo stesso cielo, e delle degradazioni più basse. Quella su cui Evola insiste in molti luoghi della sua opera e che qui vogliamo ricordare, è l’aver ridotto la ragion d’essere dell’uomo su questa terra ─ la reintegrazione nello status spirituale celeste, originario ─, alla triste fatuità del divenuto scimmia. Filosofia dunque anche come testimonianza, e tradizione anche come, non suoni scandaloso, fede. La stessa che può divenire atto magico: “Bisogna sentire in se stessi l’evidenza, che di là da questa vita terrestre vi è una più alta vita, perché solo chi così sente possiede una forza infrangibile e in travolgibile, solo costui sarà capace di uno slancio assoluto ─ mentre quando questo manchi, lo sfidare la morte e il porre in non conto la propria vita è possibile solo in momenti sporadici di esaltazione o nello scatenamento di forze irrazionali: non vi è disciplina che possa giustificarsi, nel singolo, con un significato superiore ed autonomo”508. 506 J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., p. 19. J. Evola, Gerarchia tradizionale e umanismo moderno, ne La Torre, op. cit., p. 108. 508 J. Evola, Orientamenti, p. 51. 507 190 Capitolo III Quasi non avesse senso la vita, non meritasse di vivere se non all’altezza della morte, in un regime di disciplinata tensione all’autosuperamento. Ferrea, autonoma, libera. La tradizione è il culto del limite, la soluzione della propria equazione personale (suum unicuique tribuere), l’obbedienza alla legge interiore (egemonikon) e, nel caso, esteriore. In questa ottica anche costringersi all’obbedienza in una struttura gerarchicamente ordinata poteva essere prova di libertà: “Platone ebbe a dire che coloro che non hanno un signore in sé stessi è bene che, almeno, lo abbiano al difuori di sé stessi. Ebbene, a ciò che è stato vantato come la ‘liberazione’ dell’uno o dell’altro popolo, messo al posto, talvolta perfino con la violenza, (come dopo la guerra mondiale), col ‘progresso democratico’ eliminando ogni principio di sovranità e di vera autorità, e ogni ordinamento dall’alto, oggi fa riscontro in un numero rilevante di individui una ‘liberazione’ che significa l’eliminazione di qualsiasi ‘forma’ interna, di ogni carattere, di ogni drittura: in una parola, il declino o la carenza nel singolo di quel potere centrale pel quale abbiamo ricordato la suggestiva denominazione classica di egemonikòn. Ciò, non solo nei riguardi puramente etici, ma nel campo stesso dei comportamenti più correnti, della psicologia individuale, della struttura esistenziale. Il risultato è il diffondersi di un tipo labile e informe ─ di quella che si può ben definire la razza dell’uomo sfuggente”509. Interessanti al riguardo anche questa parole di Nietzsche: “Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho udito anche parlare di obbedienza. Ogni essere vivente è un essere che obbedisce. E, in secondo luogo, si comanda a colui che non sa obbedire a se stesso. Questa è la specie della vita. Infine è questa la terza cosa che ho udito: comandare è più difficile che obbedire. […] Che cosa induce l’essere vivente a obbedire e comandare e a esercitare l’obbedienza 509 J. Evola, La «razza dell’uomo sfuggente», in Roma, 3 febbraio 1951, ora in J. Evola, L’arco e la clava, op. cit., pp. 15-16. 191 Capitolo III anche nel comando? […] Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di potenza di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone”510. Lo Stato di Evola si specchia nell’antropologia del singolo individuo, come per Platone (dottrina dell’anima) e per Aristotele (politica macrocosmo dell’etica). La Tradizione è quindi forma di un altrove assoluto nel senso di uno spazio a-temporale nel cuore dell’uomo. È una visione dell’essere davanti agli occhi interiori che obbliga, per la potenza della libertà, ad incarnare, ad essere questa visione. Non come fictio imaginationis, ma come una realtà metafisica. Tuttavia è impossibile riconoscere il suo volto originario se l’individuo non ha attivato in sé la dimensione della trascendenza come per una rottura esistenziale, decondizionalizzante, di livello, trapasso ontologico o metabolé. Insomma, senza un cambiamento di polarità non si sarebbe potuto, e non si può, assumere il contenuto del percorso esemplare di Evola: “la corsa senza quartiere alla riscoperta di una metafisica ‘immanente’”, secondo l’eccellente espressione di Lami511. In caso contrario, la tradizione sarà, nel migliore dei casi, l’enigma inesorabile scolpito nella pietra della propria, più o meno dotta, ignoranza. L’assunzione di un contenuto spirituale su di un piano meramente discorsivo. “Che il sapiente non turbi con la sua sapienza la mente di coloro che non sanno”512. La sottile deviazione dell’operare evoliano e gran parte della sua sconcertante incomprensione è forse nella trasgressione di questo aureo insegnamento. La speranza che una crisi interiore portasse nuovi “unici” nelle fila della sua militia spirituale, a difesa di una città sprovvista delle mura di cinta: l’Idea. Consapevole che qualsiasi realizzazione soltanto terrena mai avrebbe spezzato il limite umano e consentito la liberazione del “mondo come potenza”. E viene da chiedersi, con Lami, “se egli sia stato davvero così abile, nella costruzione del suo metodo, e così raffinato, nella sua esposizione, 510 F. Nietzsche, Della vittoria su se stessi, in Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 130. Gian Franco Lami, Julius Evola e le idee di Vita Nova, in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 42. 512 J. Evola, Sul concetto di iniziazione: Überdas Initiatische, in Antaios, 1965, ora ne L’Arco e la Clava, op. cit., p. 109. 511 192 Capitolo III (tanto) da far intendere ─ dopo aver inteso ─ l’incipienza del “puntolimite” di una “metafisica della tradizione”, a ogni passo del suo ragionamento”513. Evola vede i pericoli di una civiltà quantitativa, omologante e cosmopolita e risponde con una dottrina imperniata sull’autoformazione dell’individuo. Per il riscatto della sua sensibilità dalle “leggi della natura”, contro ogni materialismo. Per una spiritualità superiore alla passione e alle forze cieche dell’istinto: “Questa autoformazione non vuol dire certo ‘antinatura’, ma vuol dire affinamento, selezione, formazione della materia immediata data dalla natura e trasmessasi attraverso l’eredità biologica e etnica (razza); è uno stile dato alla natura, il quale per conservarsi richiede una doppia condizione: che sia presente, sana e pura, quella materia ─ ma inoltre e soprattutto che sia mantenuta quella tensione spirituale, che elevò tale materia fino a una data forma”514. La vera comunità è quella dello spirito, nell’unione di anima e corpo fortificata da una eroica abnegazione (cavalleria, feudalesimo). Una comunità in cui è il valore a distribuire il potere. Evola insegue nei primordi dell’età aurea un prestigio, un esempio che illumini, formi un’atmosfera, cristallizzi uno stile di vita, desti forme speciali di sensibilità e dia il tono ad una società nuova. Nuova perché è sempre: “Potrebbesi perciò pensare ad una specie di Ordine, secondo il significato virile e ascetico che questo termine ebbe nella civiltà ghibellina medievale. Ma ancor meglio potrebbesi pensare alla più antiche società arie e indo-arie, ove si sa che l’élite non era in alcun modo organizzata materialmente, ove essa non traeva la sua autorità dal rappresentare un qualunque potere tangibile o un dato principio astratto, ma pur manteneva ben fermo il suo rango e dava il tono alla corrispondente civiltà per mezzo di un’influenza diretta promanante dalla sua essenza”515. 513 Ibid. Cfr. J. Evola, Stirpe e spiritualità, in Vita Nova, n. 7, 1931, ora in Julius Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 113. 515 J. Evola, Sull’essenza e la funziona attuale dello spirito aristocratico, in Lo Stato, ottobre 1941, ora in J. Evola, Lo Stato (1934-1943), p. 387. 514 193 Capitolo III Il rapporto politico che fa della giustizia il suo asse subordina l’autorità alla verità. Una simile priorità tiene il popolo lontano dal collettivismo e non rende irrazionale il riconoscimento del capo e della sua funzione di comando. Il potere è reale solo quando ha una legittimazione superiore. Un processo sapienziale permette la crescita della personalità in senso trascendente. La figura culmine di questa filosofia del perfettibile è l’eroe “integrato nello spirito, capace in pari tempo di essere ‘tradizionale’ come ‘direzione’, come atteggiamento intimo”516. Il riferimento ovviamente era l’archetipo del “cittadinoclassico”, centro della comunità spirituale ed etica superiore allo Stato in quanto esso “ha un valore solo al titolo di un intermediario che permette al singolo di partecipare a questa comunità”517. L’opposizione evoliana al nazionalismo che lo stesso Nietzsche definiva “da bestie cornute” è totale perché sostanziale negazione della dignità personale, che per Evola ─ da qui alcune sue tanto improvvise quanto contingenti sterzate cattoliche ─ ha un valore sacro: “La difesa della personalità umana ─ compito, prima di realizzare il quale ogni vera aspirazione “spirituale” manca del suo primo presupposto ─ varrà qui come il principio direttivo fondamentale. Chi sa vedere, e separare dall’essenziale l’accessorio, potrà però facilmente riconoscere che fra i due punti di vista non vi è contraddizione”518. Al fondo dell’agire, nel solco della tradizione: unione di spirito e volontà, perfetta coerenza tra interno ed esterno, un Individuo forgiato dal carattere e dalla dignità. Nulla di ideologico, di costruito, nessuna sovrastruttura burocratica o sistema della masse ma l’affermazione di quella “forma originaria” che Evola scopre nel filone centrale della tradizione occidentale. Una rivoluzione permanente di vita e di realtà. 516 J. Evola, Il problema “europeo” al convegno “Volta”, in Vita Nova, dicembre 1932, ora in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., p. 174. 517 Ivi, p. 175. 518 Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, op. cit., p. 35. 194 Capitolo III La Comunità degli Individui Assoluti, la loro realtà sopranazionale, è politica, etica, spirituale. Questa realtà eroico-magica che Evola esprime con forza, con la stessa forza è fraintesa o giudicata delirante da chi, al tempo, non conosceva altri sentieri oltre quelli, dal barone trasmutati in una magica confusione, già ben conosciuti della filosofia e della fede519. Ma la sua operazione di chiarimento era in questi anni appena agli esordi e la soluzione di una realtà “superiore ad ogni particolare confessione religiosa, ad ogni ipotesi filosofica, ad ogni limitazione moralistica” appariva irrazionale, utopicamente romantica, impercorribile520. Si trattava infatti di un potenziamento sovrannaturale della coscienza individua che rivoltasse la spiritualità contro le tipologie del moderno, sotto le insegne della romanità e dell’impero. Non si dimentichi l’approfondimento instancabile dell’opera ermetico-alchemica, contestualmente al progressivo distacco da teosofia, antroposofia, occultismo, spiritismo etc. Quel che s’agita in Evola è un fermento rivoluzionario irriducibile all’improvvisato contesto cultural-fascista cui tenta, quasi fosse una missione, di dare un Ordine. Egli sapeva infatti che l’episodio mussoliniano mai, senza una rettificazione metafisica, avrebbe potuto illuminare una nuova era della storia dello spirito. Per questo il pensatore romano si abbandona ad un eccesso di rigore, specie nei 519 La Chiesa non concesse mai ad Evola, e tuttora non gli concede, un posto diverso da quello che lungamente occupò sulle pagine dell’Osservatore Romano, sotto il titolo Spropositi e aberrazioni! Nel 1927 Evola scrive sulla rivista Critica Fascista di Bottai un articolo intitolato Il fascismo quale volontà d’impero e il cristianesimo, 15 dicembre 1927 (pp. 463-464) in cui dichiara “la netta incompatibilità della visione imperiale della vita con qualunque forma di cristianesimo; in particolare, dichiariamo l’impossibilità di identificare come che sia tradizione romana e tradizione cattolica (ivi, p. 463). Ricordiamo che idee del genere erano state già presentate dal massone Reghini già nel 1913 e nel 1924. L’Osservatore Romano del 30 dicembre 1927, paventando una svolta religioso-pagana del fascismo, reagisce con una durissima condanna dell’articolo, definito “una sfida blasfema” ai cattolici italiani. Chiede inoltre una sconfessione pubblica e le ragioni per cui il sottosegretario di Stato al ministero delle Comunicazioni, Giuseppe Bottai avesse concesso una simile, inaccettabile ospitalità: “Ma noi crediamo che sono non tanto dal campo nostro, quanto da quello cui si rivolge e donde pure è partita la costante dichiarazione di comprensione e di rispetto per la Religione Cattolica, patrimonio inalienabile e inoppugnabile della patria e del popolo, debba essere, non solo confutato ─ e sarebbe forse superfluo per la noiosa ripetizione di risibili errori, per la rievocazione ritrita di pregiudizi settari e di concezioni cristiane e anticattoliche proprie di un pensiero e di uno stile prettamente massonico ─ ma soprattutto sconfessato. Per lo meno è giusto chiedere un giudizio esplicito alla Direzione della Rivista, circa l’ospitalità concessa a tali teorie, senza riserve e confutazioni di sorta: la traduzione cioè del suo silenzio in qualche cosa di esplicito, di positivo, di responsabile (articolo non firmato, Spropositi e aberrazioni, in Osservatore Romano, 30 dicembre 1927). 520 A. Carlini, rec. a J. Evola, Maschera e volto dello spiritualimo contemporaneo, op. cit., in Vita Nova, luglio 1932, ora in J. Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit., pp. 268. 195 Capitolo III confronti del cristianesimo, durante il periodo della sua attrazione fascista, cosciente come era della possibilità di un passaggio epocale imminente. E sempre per questo, dopo la guerra, si distaccherà dalla dimensione propriamente politica per concentrarsi su quella morale, sul linguaggio simbolico, sul recupero del mito e della tradizione. Quasi fosse crollato un mondo intero insieme ai suoi uomini più rappresentativi. Per il teorico di un organicismo totalitario come era Evola, non poteva non essere evidente il difetto di amalgama spirituale proprio del regime italiano e su questo ripetutamente, specie nelle sue scorribande pubblicistiche, richiamò l’attenzione. Rendersi conto di quel che si era, vederselo davanti ai propri occhi, raffigurato con la vividezza delle immagini più luminose e spietate insieme, era il primo passo perché si giungesse ad affondare la debolezza della vecchia città, la “feminile” mollezza fascista, e a fondare la città nuova sulle rovine della società moderna. Non senza prima aver scelto tra una “linea regale”, guerriera e attiva, e una “linea sacerdotale”, contemplativa e ascetica. Di là dall’una o dall’altra via di realizzazione, soltanto l’esclusione dall’umanità e dalla dignità su un piano di idee niente affatto libero e consapevole: “[…] occorre lavorare per una cultura, nel senso classico di creazione di «tipi», di forme superiori di individualità, compiute incarnazioni di un ideale. E l’ideale, a nostro parere, deve essere tratto dalla tradizione eroica nella forma che ci è più nostra e più prossima: in quella imperiale che Roma incarnò”521. Evola indicava una strada pratica che lasciava dietro di sé il senso del peccato ed il mito della caduta per marciare in direzione di una idea-forza opposta e positiva, il senso dell’autosufficienza, dell’orgoglio e della potenza: il mito dell’ascesa, verso l’altezza di una coscienza in grado di congiungere politica e morale. Una idealità/spiritualità senza misura, di dimensioni cosmiche, tradizionale. Come guida attraverso la storia, nella volontà di assumere e superare la contraddizione cristiana. Ma si doveva cominciare dall’uomo, da questa personalità umana immersa 521 J. Evola, Autorità religiosa e autorità temporale, in Vita Nova, dicembre 1929, ora in Julius Evola, Vita Nova (1925-1933), op. cit. p. 81. 196 Capitolo III nell’esperienza del mondo fisico e della natura. Qui soltanto era l’origine delle idee e la possibilità del loro sviluppo. Il cuore della cultura pagana consentiva questo recupero della divina essenza dell’uomo e in pari tempo condannava come sub-personale, inconscia, qualsiasi attività non fosse svolta in stato di veglia, con una coscienza desta. Che strappasse la rete di sonno che culla l’esistenza. Esser svegli è tutto. Il cittadino evoliano è l’uomo virtuoso che si rende riconoscibile ai suoi simili nell’azione eroica. Essa è lo stigma di una centralità spirituale che, come un magnete, attira la vocazione all’autosuperamento degli “unici”. Nell’agone immortalante di uno Stato interiore: Ed allora resta da compiere un ultimo gran passo: sbarazzarsi della superstizione della ‘patria’ e della ‘nazione’, larvati e tenaci residui dell’impersonalismo democratico. Il Dominatore spostando progressivamente il centro di influenza dall’astratto dell’idea al concreto della propria realtà di individuo, alla fine abolirà la stessa idea di patria, cesserà di appoggiarsi ad essa, la immanentizzerà e non lascerà che sé , come centro sufficiente di ogni responsabilità e di ogni valore, che può dire: «La nazione, lo Stato sono Io»522. 522 J. Evola, Imperialismo pagano, Edizioni di Ar, Padova, 1996, p. 49. 197 Bibliografia Opere di Julius Evola (1920) Arte Astratta, posizione teorica (10 poemi, 4 composizioni, “Collection Dada”, Zurigo), Roma, 1920. (1921) La parole obscure du paysage intérieur, Roma, 1992. (1925) Saggi sull’idealismo magico, Roma, 2006. (1926) L’individuo e il divenire del mondo, Carmagnola, 1989. 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