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Il Patrimonio Culturale italiano, unico al mondo, è costituito da beni archeologici, architettonici, archivistici,
artistici e storici, librari e paesaggistici, nonché dalle diverse attività culturali promosse dallo spettacolo dal
vivo, con riferimento al cinema, al teatro, alla musica, alla danza, allo spettacolo viaggiante e alle tradizioni
popolari.
Il MiBAC, amministra e promuove la conoscenza di questo imponente patrimonio storico, artistico e
culturale di cui è custode con l’obiettivo di salvaguardarlo e valorizzarlo.
Alla Direzione per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione, una delle novità della riforma del 2004, spetta
il compito nodale e impegnativo di attuare la modernizzazione dell’Amministrazione attraverso linee di
indirizzo e interventi operativi basati sulle più nuove e sofisticate tecnologie e su strategie di comunicazione
e marketing.
Nell’ambito di queste attività, la Direzione Generale partecipa annualmente, insieme a tutti gli Istituti centrali
e territoriali, ad una serie di manifestazioni fieristiche che sono un veicolo efficace per diffondere ad un
pubblico differenziato le attività ed i progetti più innovativi realizzati negli ultimi anni ed in corso d’opera.
Tali manifestazioni rappresentano anche un momento molto importante di incontro tra le realtà territoriali,
gli Enti locali, i settori delle imprese ed il privato.
Le fiere a cui partecipare vengono programmate in base alla tipologia delle attività istituzionali del MiBAC
– Tutela, Restauro, Comunicazione – e agli interessi di settore (Monumenti, Archivi, Biblioteche, Patrimonio
Storico-Artistico, Cinema, Teatro, Spettacoli, Paesaggio) che ogni anno si vogliono evidenziare.
Programmazione 2007
22-25 Marzo
FERRARA
Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei beni culturali
21-25 Maggio
ROMA
FORUM P.A. Forum della Pubblica Amministrazione
6-8 Novembre
BOLOGNA
COM.PA Salone Europeo della Comunicazione Pubblica dei servizi al cittadino e alle imprese
9-12 Novembre PARIGI
Salon du Patrimoine Culturel
15-18 Novembre PAESTUM
X Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico
30 Nov-2 Dic.
VENEZIA
XI Salone dei Beni e delle attività culturali
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Direzione Generale per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione
Servizio II - Promozione, Comunicazione e Marketing
Unità Organica I - Comunicazione, Grandi Eventi e Manifestazioni Fieristiche
Tel. 06.6723.2851-2927 - Fax 06.6723.2358
[email protected]
CONSERVAZIONE:
UNA STORIA
FUTURA
SALONE DELL’ARTE DEL RESTAURO
E DELLA CONSERVAZIONE
DEI BENI CULTURALI E AMBIENTALI
Ferrara
22-25 Marzo 2007
Quartiere Fieristico
URP - Ufficio Relazioni con il Pubblico
Tel. 06.6723.2980-2990 - Fax 06.6798.441
[email protected]
www.beniculturali.it
numero verde 800 99 11 99
Edizioni MP MIRABILIA srl
Direzione Generale per l’Innovazione
Tecnologica e la Promozione
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CONSERVAZIONE:
UNA STORIA
FUTURA
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Il programma di partecipazione al
Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione
dei Beni Culturali e Ambientali
Ferrara, 22-25 marzo 2007, è stato organizzato dal:
Servizio II - Comunicazione, Promozione e Marketing
Dirigente ad interim Raffaele Sassano
Il coordinamento generale per la progettazione e realizzazione opuscolo,
materiali grafici e stand, organizzazione convegno e incontri allo stand
è a cura della Unità Organica I
Comunicazione, Grandi Eventi e Manifestazioni Fieristiche
Responsabile Antonella Mosca
con Monica Bartocci, Antonella Corona, Maria Tiziana Natale
Alessandra Rosa, Maria Siciliano, Laura Simionato
Comunicazione multimediale
Alberto Bruni, Renzo De Simone, Francesca Lo Forte, Emilio Volpe
Segreteria Amministrativa
Cristina Brugiotti, Annarita De Gregorio, Mauro De Santis, Loredana Nanni
Laura Petracci, Rosaria Pollina, Silvia Schifini,Teresa Sebastiani
Rapporti con i media
Fernanda Bruno
con Chiara de Angelis
Supporto logistico
Edoardo Cicciotto, Maurizio Scrocca
Supporto operativo allo stand
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia Romagna
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I
l Salone dell’Arte e del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, giunto alla XIV edizione nel 2007 - è il più importante appuntamento nazionale sul tema del Restauro e la Conservazione e
Tutela del Patrimonio culturale, e attribuisce alla città di Ferrara il ruolo di capitale europea nel settore del
Restauro. Il Salone rappresenta un’occasione di confronto positivo con altre realtà istituzionali e private
presenti sul territorio, con le quali il MiBAC intende mantenere vivo un costante e proficuo rapporto di collaborazione.
Questa manifestazione, oltre ad essere un momento significativo per l’approfondimento di tematiche peculiari, è attualmente anche la sede privilegiata per gli operatori del settore, un terreno fertile per trasmettere e
comunicare a tutti la straordinaria ricchezza del Patrimonio culturale italiano di cui il MiBAC è custode.
In materia di restauro e conservazione, infatti, l’esperienza maturata in Italia è diventata un’eccellenza nel settore, grazie anche allo sviluppo di metodologie e tecnologie avanzate che hanno reso il nostro Paese il principale polo internazionale di elaborazione.
Alla fiera vengono presentati i progetti e il lavoro svolto quotidianamente da centinaia di tecnici del restauro e della conservazione, che costituiscono un’impareggiabile risorsa di conoscenza e professionalità riconosciuta e apprezzata.
Il MiBAC partecipa anche quest’anno alla manifestazione con uno stand istituzionale in cui saranno presentati i progetti più innovativi realizzati dagli Istituti di Ricerca operanti nel Restauro (ICR - Istituto Centrale per
il Restauro, CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria e Restauro, ICPL - Istituto Centrale per la Patologia del
Libro, OPD - Opificio delle Pietre Dure, ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione) e dagli
Istituti territoriali coordinati dalle Direzioni Regionali.
Il tema proposto quest’anno - “Conservazione: una storia futura” - mette in evidenza come l’esperienza del
passato, le competenze possedute e le tecnologie utilizzate, siano le basi per la crescita della competitività dell’intera filiera produttiva connessa al patrimonio culturale.
Il restauro rappresenta un ponte tra conservazione e innovazione. Le esperienze acquisite in questo campo
costituiscono un punto di partenza per i progetti futuri, che dovranno tener conto dell’ampiezza e della
complessità dei diversi settori specialistici: dal rilievo alla diagnosi, dal progetto all’intervento, fino alla
manutenzione. Vanno inoltre considerati i prodotti e i materiali tradizionali e innovativi, le attrezzature per il
rilevamento, le strumentazioni elettroniche e apparecchiature di precisione per la diagnostica e il restauro,
i materiali, i prodotti e le apparecchiature per il controllo ambientale, chimico e fisico.
Tali tematiche saranno oggetto di momenti di riflessione, scambio e trasferimento di esperienze e idee ai
quali sono chiamati a partecipare rappresentanti del Ministero, del mondo universitario e politico.
L’attenzione è inoltre puntata sulle problematiche e sulle pratiche attuative riferite al cantiere e agli strumenti, in particolare quelli legati alle nuove tecnologie. Il Salone costituisce inoltre l’occasione per presentare i
risultati della sperimentazione delle nuove tecnologie all’interno del progetto ARTPAST-Applicazione informatica in Rete per la Tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale nelle Aree Sottoutilizzate.
Il MiBAC organizza convegni di particolare rilievo in questa edizione del Salone.
L’Istituto Centrale per la Patologia del Libro organizza:
“Microscopia elettronica a pressione variabile (SEM-VP) e microanalisi (EDS) per la diagnostica, la conservazione ed il restauro dei beni culturali” in cui studiosi dei diversi settori delle scienze applicate ai beni
culturali presentano esempi di applicazioni di questa strumentazione innovativa che permette di accrescere le conoscenze su carta, tessuti, pergamena, metalli, legni, materiali lapidei e sui microrganismi che li
aggrediscono deteriorandoli;
“Segni di storia” e “Pergamene, carte ed altro…Quattro interventi eseguiti presso l’Istituto Centrale per
la Patologia del libro” illustra i numerosi e qualificati progetti di restauro cartaceo.
L’Opificio delle Pietre Dure organizza:
“Nuove ricerche nel campo dei materiali cartacei e membranacei”, espone una serie di ricerche nel
campo della conservazione dei materiali cartacei e dello studio delle tecniche artistiche, recentemente
effettuate presso l’Istituto;
“Quaranta anni dopo (1966-2006). Il restauro dei dipinti su tavola alluvionati” illustra l’intervento di
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restauro sulla Croce di Cimabue e l’innovativo lavoro compiuto sulla Croce di Lippo di Benivieni fino ai più
recenti restauri compiuti, come quello su l’Ultima cena di Giorgio Vasari;
“Il colore ritrovato. Il ritrovamento di pitture murali coperte, imbiancate, nascoste” è dedicato alla “scopritura” come tecnica di conoscenza dell’opera, all’approccio metodologico e ai caratteri teorici della conservazione e del restauro;
“Riflettografia e grandi maestri – 2 - Piero della Francesca. Una mente matematica al lavoro” presenta le ricerche svolte su opere di Piero della Francesca;
“Il restauro della Porta del Paradiso: un cantiere di esperienze e conoscenze” approfondisce le tematiche relative al trattamento dei bronzi dorati e gli studi recenti, scaturiti in corso d’opera, sulla tecnica metallurgica praticata dalla bottega ghibertiana per la creazione di questo capolavoro rinascimentale.
Vari approfondimenti legati alla conservazione e al restauro dei materiali cartacei sono presentati dal Centro
di Fotoriproduzione Legatoria e Restauro degli Archivi di Stato, che affronta temi legati alla “Diagnostica per
la conservazione delle fotografie antiche”, risultato di una collaborazione con il CNR; alla legatura d’archivio e alla ricerca applicata in questo settore, con gli incontri “La legatura d’archivio: un manufatto per la
conservazione”, “Il ruolo dei notai nella manifattura dei volumi pubblici e notarili” e “La ricerca scientifica e la conservazione degli archivi: una storia futura”, in cui si dimostra la necessità di digitalizzare documenti sottoposti ad usura offrendo al pubblico la possibilità di fruire di testi originali in formato digitale evitandone la movimentazione.
“La catalogazione nei suoi recenti esiti di metodologia concertata” è il tema proposto dall’Istituto Centrale
per il Catalogo e la Documentazione, che illustra la necessità di rendere sempre più fluido il trasferimento
dell’informazione nell’ambito di un sistema in cui sia garantita la qualità dei contenuti e dei servizi offerti. Il
progetto è frutto della collaborazione tra MiBAC, Università, Diocesi, Regioni ed Enti locali.
L’Istituto Centrale per il Restauro, con il convegno “La scheda ambientale. Un metodo per monitorare e
conservare le collezioni dei musei” affronta problematiche legate alla conservazione preventiva e al restauro di manufatti.
Verranno inoltre presentate nuove pubblicazioni: la collana di Quaderni dell’Istituto per la Patologia del
Libro; il volume Linee guida per il restauro dei dipinti: dipinti murali, su tela, su tavola dell’Istituto Centrale
per il Restauro, Opificio delle Pietre Dure e DEI-Tipografia del Genio Civile; la collana Interventi e testimonianze dedicata agli interventi di restauro condotti sotto l’alta direzione della Soprintendenza Patrimonio
Storico Artistico ed Etnoantropologico per le province di Firenze, Pistoia e Prato sulle opere alluvionate che
giacevano nei depositi e che sono state ricollocate nelle loro sedi originali.
Di rilievo anche gli incontri tecnici organizzati presso lo stand istituzionale del Ministero, in cui gli Istituti territoriali del MiBAC presentano il restauro di San Pietro in Banchi a Genova e Villa Rosa di Altare in provincia
di Savona, proposto dalla Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggio della Liguria; il restauro degli
oggetti d’arte appartenenti alle collezioni della Reggia di Caserta e di volumi della Biblioteca Palatina della
Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici Storici ed Etnoantropologici per le province
di Caserta e Benevento; il restauro conservativo di una coperta ricamata del Cinquecento, illustrato dalla
Biblioteca Estense Universitaria di Modena; i restauri del Santu Antine di Torralba, del Nuraghe Maiore di
Cheremule e del Nuraghe Alvu in provincia di Sassari proposti dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna.
La manifestazione ospita inoltre la conferenza stampa sulla mostra “Argenti di Calabria” della Soprintendenza
per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Calabria. Infine la Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto con il Museo Nazionale Atesino presenta la mostra “Strada del
tempo”, dedicata all’evoluzione della ceramica, il “fossile guida” nel riconoscimento delle varie civiltà che
si sono succedute in un territorio.
La partecipazione del MiBAC al Salone del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali e
le molteplici attività organizzate ribadiscono, ancora una volta, il ruolo del Ministero incentrato sulla tutela e
sulla conservazione del patrimonio culturale italiano.
Danielle Mazzonis
Sottosegretario ai Beni Culturali
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Conservazione: una storia futura
P
artecipare al Salone dell’Arte del restauro e della conservazione dei beni culturali di Ferrara è
diventato un appuntamento fisso per il Ministero, un appuntamento che fa parte del Piano di
comunicazione annuale ed è uno dei momenti rilevanti dell’attività di promozione.
Non si tratta solo della presenza degli Istituti Centrali, che da sempre a Ferrara hanno presentato
il meglio dell’attività di ricerca e hanno costituito il nucleo di più alto livello del Salone. Non è solo la
qualificata partecipazione di tecnici del Ministero, di direttori di istituti, di laboratori, di musei ai convegni, tavole rotonde e seminari che sono organizzati a Ferrara.
Si tratta soprattutto di presentare e rappresentare un’intera complessa organizzazione pubblica la cui
“ragione sociale” è prevalentemente quella del restauro del patrimonio culturale e che opera direttamente in questo campo: restauro inteso nelle più diverse sfaccettature, dall’approfondimento metodologico alla ricerca applicata, dalla sperimentazione tecnologica alla pratica quotidiana e apparentemente routinaria.
La partecipazione numerosa e ricca di contenuti degli Istituti centrali e territoriali permette di esporre
un vasto spaccato di interventi che riguardano tutti i settori del patrimonio e tutte le tipologie di opere.
L’irripetibilità del restauro, l’unicità di questo processo che corrisponde all’unicità dell’opera, implicano inoltre che in tutti gli interventi, anche in quelli più semplici, è presente una componente, più o
meno elevata, più o meno esplicitata, forse più o meno consapevole di ricerca, di innovazione e di
sperimentazione. È un grande fattore di forza per il Ministero, che si caratterizza in tal modo anche a
livello internazionale con una singolare capacità di coniugare la responsabilità delle politiche nazionali sul patrimonio culturale e sulla cultura in generale con la diretta operatività nella conservazione e nel
restauro di quello stesso patrimonio.
Lo “strato” di ricerca presente in tutti gli interventi di restauro permette peraltro di identificare uno
straordinario laboratorio virtuale su base nazionale in cui si elaborano soluzioni innovative, ma dove
si possono anche definire fabbisogni di tecnologie e di soluzioni non ancora soddisfatti e che quindi possono innescare nei contesti più opportuni (pubblici e privati) virtuosi processi di ricerca
applicata.
In questo laboratorio virtuale si bilanciano tradizione e innovazione, lavoro di squadra e talento individuale, logica e intuizione, dovere e passione, il tutto supportato da una piattaforma di competenze
specialistiche non intercambiabili e di riconosciuta eccellenza.
Si salda così il rapporto patrimonio culturale-tecnologie-innovazione-sviluppo economico in una prospettiva di valorizzazione di tutto il comparto e delle sue potenzialità di crescita.
Il settore economico che orbita intorno al patrimonio culturale e alla cultura in genere presenta tutti i
caratteri positivi di un settore che ha rilevanza e centralità:
- contribuisce in misura consistente al PIL
- cresce con ritmi superiori a quelli medi del PIL
- ha una grande potenzialità di incidere significativamente sull’export
- presenta una qualità degli addetti superiore alla media
- presenta un livello di crescita tecnologica superiore alla media con una notevole propensione a sperimentare e a sviluppare ricerca.
Proprio in questa prospettiva è stato avviato un programma di conoscenza e di sensibilizzazione volto
alla misurazione dell’impatto economico dell’intero settore, alla perimetrazione della filiera produttiva, alla valutazione del potenziale di innovazione.
La finalità è quella di trasformare in scelte coerenti dei decisori pubblici e in analoghi coerenti comportamenti del sistema produttivo il concetto generalmente condiviso ma solo convenzionale che il
Patrimonio Culturale sia una importante componente del sistema economico e un fattore di competitività del “sistema Italia”.
In effetti la qualità e quantità di patrimonio culturale, il sistema di gestione, le modalità e le metodologie di conservazione, di restauro, di valorizzazione e di nuova produzione culturale costituiscono un insieme non separabile di eccellenze del Paese, che ne rafforza l’immagine, la credibilità
e l’affidabilità.
I fatti concreti da realizzare da un lato porteranno più risorse per la conservazione e la gestione del
patrimonio culturale e dall’altro permetteranno di accrescere la sua “produttività”, intesa in senso posi-
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tivo, non economicistico, e non limitata all’impatto sul settore turistico, che anzi in questo contesto
non viene considerato.
Con quasi 600 milioni di investimenti diretti il MiBAC è il maggior investitore del settore del patrimonio culturale e il più importante operatore economico. È anche l’interlocutore più adatto per costruire sinergie istituzionali con i settori della ricerca, dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo della
piccola e media impresa per orientare gli investimenti pubblici nel modo più efficace e questo, naturalmente, con tutti i livelli di governo, centrali e territoriali.
La misura dell’investimento degli altri livelli di governo, delle altre istituzioni e dei privati non è altrettanto definita, i dati sono frammentati e disomogenei. Occorre fare uno sforzo di valutazione e misurazione e, su questo obiettivo, sono state avviate positive azioni sinergiche con l’ISTAT.
Ma quanto “vale” l’indotto? Quali e quanti sono i settori produttivi coinvolti?
È una tematica attualmente oggetto di riflessione da parte dei decisori politici, al cui dibattito apportano contributi essenziali sia gli istituti del MiBAC che gli organismi di governo territoriale e le altre istituzioni pubbliche, nonché il mondo imprenditoriale. Tentativi di dimensionamento si sono sviluppati
soprattutto per stimare le ricadute positive sull’export. Si tratta di approcci di tipo qualitativo, volti a
perimetrare le aree di coinvolgimento piuttosto che a calcolare il reale valore finanziario dei rapporti
bilaterali e multilaterali di cooperazione culturale e dei programmi comuni in cui l’Italia è impegnatissima, sia in ambito comunitario che internazionale: un coinvolgimento di soggetti diversi che ha un
taglio enciclopedico, proprio come enciclopedico è il Salone di Ferrara dove con grande soddisfazione vediamo anche la partecipazione dell’Istituto per il Commercio Estero.
Il Salone dell’arte del restauro di Ferrara è stato assunto dal MiBAC anche come occasione di riflessione, non accademica ma operativa.
Nel Convegno “Conservazione: una storia futura” si coniuga il concetto già espresso del restauro come
fattore di innovazione. Forse le tematiche sembrano ripetitive (c’è sempre la formazione, c’è sempre
la ricerca) ma si tratta di un elemento di continuità, non di povertà concettuale.
Ci sono fondate ragioni per parlare ancora di formazione: è stato finalmente pubblicato il decreto istitutivo delle nuove scuole di specializzazione nel campo dei beni culturali, sono stati completati i lavori istruttori per la realizzazione delle scuole di alta formazione previste dal Codice.
Sono risultati certamente importanti ma non del tutto risolutivi. È quindi più che opportuno parlarne.
La ricerca è il tema dominante, è il taglio dato all’insieme delle manifestazioni del MiBAC a Ferrara.
È stata quindi sollecitata la partecipazione dei massimi organismi nazionali in questo campo, che ne
parleranno insieme agli Istituti di ricerca del MiBAC.
È stato deciso poi di riflettere insieme a soggetti altamente qualificati un aspetto molto critico del fare
restauro, quello connesso al fatto che il restauro fatto dal Ministero è anche un’opera pubblica e quindi entra un processo normato con regole esterne al comparto dei beni culturali.
È un elemento che comporta notevoli complessità gestionali, che contribuisce in modo non irrilevante alla crescita non più tollerata di quelli che una volta si definivano residui passivi ma che oggi chiamiamo più correttamente “giacenze di cassa nelle contabilità speciali” degli istituti.
Insieme ad un focus sul nuovo codice degli appalti si ritiene opportuno che si affronti questo tema
“incandescente” che da un lato determina un giudizio non positivo sulle capacità gestionali degli operatori dall’altra produce danni seri in termini di ritardi nell’esecuzione di piani e programmi: danni al
patrimonio e danni all’economia.
Il quarto tema che si affronta è quello degli “strumenti” del fare restauro.
Si tratta in questo caso di strumenti di conoscenza e di gestione e si tratta di una storia di successi,
anche recentissimi, come quelli ottenuti dal progetto ART PAST e dalle sue derivazioni e moduli. Non
è una storia conclusa, ma i risultati sono straordinari, sia sul piano quantitativo sia per il valore del processo organizzativo e metodologico posto in essere e che ne costituisce un consistente valore aggiunto. Sono risultati che occorre diffondere e disseminare come “buone pratiche” e che vede la partecipazione di numerosi istituti del Ministero.
Antonia Pasqua Recchia
Direttore Generale per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione
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Sommario
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Il CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria e Restauro degli Archivi di Stato
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La ricerca scientifica e la conservazione degli archivi: una storia futura
Gigliola Fioravanti
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Restauro Codici Liturgici Membranacei
Archivio Capitolare di Assisi - Sec. XIV
20
Digital Repository
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Digital Library
22
Restauro Mappa Membranacea del territorio Veronese
Fondo: Scuola Grande S. Maria della Carità
23
Il progetto “Monitoraggio dei depositi degli Archivi di Stato”
24
Lettera autografa di Giuseppe Garibaldi di Comune di Casalbuttano (CR)
25
Il progetto europeo TAPE (Training for Audiovisual preservation-Cultura 2000)
28
L’ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
30
Le nuove frontiere della catalogazione
Maria Rita Sanzi Di Mino
32
L’ICPL - Istituto Centrale per la Patologia del Libro
33
Segni di storia: l’attività di documentazione e di informazione scientifica
dell’Istituto Centrale per la Patologia del Libro
Armida Batori
35
Microscopia elettronica a pressione variabile (SEM-VP) e microanalisi (EDS)
per la diagnostica, la conservazione ed il restauro dei beni culturali
Flavia Pinzari
37
Le Filigrane e la storia. Il Corpus Chartarum Italicarum
Paola F. Munafò
38
La nuova collana dell’ICPL: Quaderni
Carla Casetti Brach
39
Il Restauro librario: una storia per immagini
Rita Carrarini
40
Intervento di restauro sul cod. 28 della Biblioteca Aurelio Saffi di Forlì
Carla Casetti Brach
41
L’intervento di restauro sul manoscritto Ott. lat. 696 della Biblioteca
Apostolica Vaticana
Federico Botti, Maria Luisa Riccardi
42
La pianta prospettica di Venezia di Jacopo de’ Barbari
Maria Speranza Storace
43
Il mistero delle Repentite: recupero di due documenti rinvenuti nella
sepoltura della Madre Badessa nel “Convento delle Repentite” di Palermo
Mariasanta Montanari
44
L’ICR - Istituto Centrale per il Restauro
45
L’immagine e la sua materia - La scheda ambientale
Caterina Bon Valsassina
47
Arte contemporanea in Italia: quale salvaguardia?
Giuseppe Basile
49
Corso di formazione per operatori museali provenienti dal National Museum
of Afghanistan - Kabul
Afghanistan 25/09/2006 - 03/11/2006
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Un restauro da 20 centesimi
Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni
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Linee guida per la redazione dei capitolati speciali d’appalto per il restauro
dei dipinti su tela, su tavola e dei dipinti murali
55
Domus Aurea Neronis
Il restauro della Sala delle Maschere, ambiente n. 114
57
Il restauro della Fontana della Rometta - Villa D’Este a Tivoli
58
La scansione laser tridimensionale: le attività dell’Istituto Centrale per il
Restauro - Rilevamento e documentazione attraverso i sistemi scanner e laser
60
I paramenti liturgici di Castel Sant’Elia. Problemi di conservazione
e di fruizione
Marica Mercalli, Silvia Checchi, Fabio Scala
62
Signa Imperii - Le insegne del potere
64
L’OPD - Opificio delle Pietre Dure
65
Addio a Umberto Baldini
Cristina Acidini Luchinat
69
Il restauro della Croce di Rosano
72
La Scuola di Alta Formazione: corsi in corso e prospettive future
Alessandra Griffo
73
Gli aspetti della conservazione negli Archivi di Stato
Maurizio Fallace
74
La sede: Palazzo Borghi
L’adeguamento funzionale
76
Il Laboratorio di fotoriproduzione, legatoria e restauro
77
Progetti e programmi della Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti
Culturali
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Biblioteca Digitale Italiana - BDI
81
Il progetto Magazzini digitali: prove di sperimentazione
Giovanni Bergamin
84
Gestire e condividere i restauri: una piattaforma in rete
Clara Baracchini
86
La Madonna di Montereale
Chiesa di Santa Maria in Pantanis di Montereale (AQ)
Calcedonio Tropea
89
Il Castello federiciano di Melfi: un restauro per la fruibilità
Antonio Giovannucci
91
L’uso delle nuove tecnologie come strumento di valorizzazione
Maria Rosaria Nappi
92
Reggia di Caserta - Biblioteca
Lavori di consolidamento e restauro del patrimonio librario
93
Lavori di consolidamento e restauro degli arredi mobili del palazzo Reale
di Caserta
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Il Giardino Inglese della Reggia di Caserta: il restauro del Roseto
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La Grotta di S. Biagio Castellammare di Stabia (NA)
Ida Maietta
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Sommario
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La Guglia di S. Domenico a Napoli in Piazza S. Domenico Maggiore
Ida Maietta
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La ricostruzione da trenta frammenti di una tela di Ferdinando Sanfelice
Chiesa di Santa Chiara - Nola
Luciana Arbace
100
Il recupero della Pala d’Altare con la Madonna e Santi e i Misteri del Rosario
in Ottaviano (NA)
Luciana Arbace
101
Castel Capuano: antiche trasformazioni e recenti restauri
Amalia Scielzo
103
Dipinti murali del Sette e Ottocento in Castelcapuano a Napoli e cenni sul
loro restauro (2005-2006)
Annalisa Porzio
105
Restauri in Emilia-Romagna
Paola Monari
107
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le
province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini
108
Restauro dell’affresco della volta e consolidamento delle strutture murarie della
“sala del Tesoro” a palazzo Costabili, cosiddetto di Ludovico il Moro a Ferrara
Andrea Alberti
110
Restauro dei portali lapidei di Palazzo Schifanoia
Andrea Alberti
111
Restauro della facciata dell’Auditorium di Ferrara (ex infermeria dell’antico
Ospedale Sant’Anna)
Andrea Alberti
112
La Scuola per il Restauro del Mosaico a Ravenna
Sezione distaccata della Scuola di Restauro operante presso l’Opificio delle
Pietre Dure di Firenze
113
Il Parco della Pace a Ravenna e i suoi mosaici: l’Arcangelo Michele di Bruno
Saetti e Un Pacifico libero dall’atomica di Margaret L. Coupe
115
Interventi sui mosaici medievali della basilica di San Giovanni Evangelista a
Ravenna
Scuola per il Restauro del Mosaico
Cetty Muscolino
117
La Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini
118
Il coro Ligneo della Basilica di San Francesco a Ferrara
Cenni Storici e Restauro
Gianfranca Rainone
121
Biblioteca Estense Universitaria di Modena
122
Conoscere restaurando: la legatura del “Libro d’ore” del Maestro di Modena
Milena Ricci
125
Archivio di Stato di Modena
126
Restauro del “Registro del fondo giudiziario di Finale Emilia” e di 3 frammenti
di pergamene ebraiche utilizzate come coperta del registro stesso
Maria Antonietta Labellarte, Tamara Cavicchioli, Alberta Paltrinieri
127
Restauro della “pianta topografica del fiume Po e dei ripari fatti costruire per
difesa della terra di Boretto d’ordine di S.A.S di Modena”
Maria Antonietta Labellarte, Tamara Cavicchioli, Alberta Paltrinieri
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La villa rustica dell’acquedotto Randaccio
San Giovanni di Duino
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Museo Nazionale Paleocristiano
131
Il Complesso Paleocristiano di Monastero
133
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio
134
Leonardo Da Vinci - Il cantiere di restauro
136
L’Opus sectile di Porta Marina nel Museo Nazionale dell’Alto Medioevo
137
Villa Giustiniani - Massimo Laterano.
Il restauro della facciata
Andreina Draghi, Massimo Bruno, Cristiana Bigari
140
Restauro del Complesso architettonico della Cattedrale di Anagni
141
Salone dei Corazzieri - Palazzo del Quirinale
143
Aula di Montecitorio - Fregio di G. A. Sartorio
145
La Direzione Regionale
Liliana Pittarello
146
La Guida agli interventi di recupero dell’edilizia diffusa nel Parco Nazionale
delle Cinque Terre
Luisa De Marco, Manuela Salvitti
147
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria
Giorgio Rossini
148
Il restauro della Chiesa di San Pietro e della SS. Immacolata di Banchi detta
anche San Pietro della Porta in Genova
Rita Pizzone, Paola Parodi, Stefano Vassallo
150
Il Museo del Vetro in una villa liberty
Villa Rosa di Altare (SV)
Rossella Scunza
155
Un impegno a tutto campo per i beni culturali: ricerche, progetti e cantieri
Carla Di Francesco
157
Restauri in Piemonte
Mario Turetta
159
Palazzo Chiablese - Torino
Gennaro Napoli, Emanuela Zanda
160
Il restauro del Castello Alfonsino
163
Restauro dei manufatti metallici Scrigno e Gabata
Cattedrale di S. Maria Maggiore, Barletta (BA)
165
Cattedrale di Bisceglie - “Trionfo dell’Eucaristia”, sec. XVIII
166
Dipinto su Tavola “Adorazione dei Pastori” attribuito a Marco Pino, sec. XVI
167
Il restauro dei reperti metallici della Collezione Jatta
168
Restauri e ricerche in Sardegna
Paolo Scarpellini
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La necropoli e la necessità di laboratori per restituire al futuro
i contesti chiusi
Donatella Salvi
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Sommario
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Restauro dei pavimenti a mosaico di epoca romana ed interventi di
valorizzazione del sito archeologico. Il caso del frigidarium delle Terme
Centrali Nora (Pula-CA)
Carlo Tronchetti, Paolo Bernardini, Elena Romoli
176
Scavo e restauro del tempio a pozzo di Funtana Coberta Ballao
Maria Rosaria Manunza
179
Lavori di conservazione e valorizzazione del complesso culturale nuragico
di Sorradile (OR) loc. Su Monte
Vincenzo Santoni, Alessandro Usai, Elena Romoli, Ginetto Bacco
182
Restauro delle tempere murali della Chiesa di San Mauro di Cagliari
Patricia Olivo
185
La Chiesa di Santa Corona a Riola Sardo (OR)
Paolo Margaritella
187
Centro di Restauro e Conservazione di Sassari - Li Punti
Antonietta Boninu
188
Presentazione del volume “A quarant’anni dall’alluvione. Restauri 2002-2006”
Bruno Santi
191
Una nuova, grande Galleria Nazionale per l’Umbria
Vittoria Garibaldi
192
Il restauro e la valorizzazione della Rocca dell’Albornoz di Spoleto
Vittoria Garibaldi
195
Il portale maggiore del Palazzo dei Priori di Perugia: restauro e manutenzione
programmata
Vittoria Garibaldi
199
La Strada del Tempo del Museo Archeologico Nazionale Atestino - Este (PD)
Michele Castelli
200
Museo Nazionale Atestino
201
La strada del tempo presso la “Sala delle colonne”
202
Il CCTPC Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale
205
La memoria e il futuro dei luoghi attraverso la valorizzazione dei beni
culturali: scelte programmatiche e operative della Provincia di Roma
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Il Call Center
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Descrizione attività
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
Anno di fondazione 1963
Direttore
Gigliola Fioravanti
Coordinatore
Cecilia Prosperi
Via Costanza Baudana
Vaccolini, 14
00153 Roma
tel. 06 5800890-5809434
fax 06 5894502
www.archivi.beniculturali.it/cflr
/cflr/.htm
[email protected]
14
Il CFLR ha operato, fino all’attuale riforma entrata in vigore nell’agosto 2004, quale
istituto appartenente ala Direzione Generale per gli Archivi con compiti di studio,
ricerca e sperimentazione nel settore della prevenzione, conservazione e restauro dei beni documentari; strettamente correlata a tali compiti è la funzione di formazione e aggiornamento di coloro che operano negli Istituti di conservazione a
qualunque soggetto essi appartengano. Il patrimonio documentario sottoposto
all’attività dell’Istituto comprende documenti su qualsiasi supporto: pergamena,
carta, sigilli, cuoio, fotografie, formati digitali e audiovisivi. Recentemente è stata
effettuata la sperimentazione sulla deacidificazione di massa, indirizzata in modo
specifico ai documenti sciolti, sull’utilizzo delle microonde ai fini di disinfestazione e disinfezione Tra gli interventi di restauro di maggior rilevanza si segnala una
preziosa documentazione appartenente alla Congregazione della Dottrina per la
Fede e al Pontificio Collegio Irlandese di cui l’Istituto è consulente per la conservazione; i codici liturgici serie “Cantorini” dell’Archivio Capitolare di Assisi, una
mappa membranacea datata sec. XVI del territorio veronese appartenente
all’Archivio di Stato di Venezia (esposta alla mostra sul Mantegna) e una lettera
autografa di G. Garibaldi appartenente al comune di Casalbuttano (CR). Tra i progetti si menziona la partecipazione a TAPE (Training for the Audiovisual
Preservation in Europe), la realizzazione del Digital Repository per documenti su
supporti non tradizionali e la consultazione on line di serie archivistiche digitalizzate per l’Archivio di Stato di Roma e il Pontificio Collegio Irlandese.
Indagini scientifiche di maggior rilievo sono state applicate su disegni del Codice
Resta e su stampe xilografiche del fondo Petrucci dell’Istituto Nazionale per la
Grafica, su fotografie antiche in collaborazione con l’Università la Sapienza e su
dipinti murali cinesi di epoca Ming in collaborazione con il Museo Nazionale di
Arte Orientale.
L’attività formativa ha assunto negli ultimi 4 anni un notevole spessore, questa è
dispiegata non tanto, come nel pregresso, verso coloro che già operano nel settore ma soprattutto nei confronti di giovani laureati o di personale specialistico
attraverso Master, Corsi sperimentali di Alta Formazione, Stage in convenzione con
Istituti Universitari L’attività di aggiornamento viene svolta in stretta connessione
all’attività di studio ricerca e sperimentazione.
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La ricerca scientifica e la conservazione
degli archivi: una storia futura
Gigliola Fioravanti
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
N
egli ultimi decenni la conservazione e l’acquisizione di documentazione
ampiamente articolata per tipologie e per quantità e qualità hanno assunto
un’accelerazione senza precedenti.
A fronte, si presentano numerosi ostacoli che hanno costretto archivi biblioteche,
musei e altre istituzioni a trovare risorse in grado di gestire questa onda crescente.
Le difficoltà sono infatti strettamente legate non solo a quella che viene chiamata
“l’inflazione” cartacea, ma alla varietà dei materiali e alla loro diversificata natura
quanto a supporti, elementi che spingono a ricercare soluzioni alquanto creative.
Un ulteriore elemento di difficoltà viene dalla rivoluzione tecnologica che ha cambiato profondamente le condizioni della memoria collettiva e culturale. Se da un
lato la gestione dei dati diviene sempre più facile, dall’altro la deperibilità dei supporti è una minaccia per la conservazione a lungo termine delle informazioni.
Ci sono poi i problemi dei supporti tradizionali. Se il supporto cartaceo, a motivo
della sua attuale pessima qualità induce in alcuni paesi un complesso compito di
ricerca per l’individuazione delle caratteristiche della carta permanente, oggi la
situazione si è fatta ancora più ardua per la comparsa massiva di supporti “altri”
come nastri, film, video, dischi, documenti elettronici edigitali, etc., già presenti
all’interno di molti istituti preposti alla conservazione della memoria del nostro
tempo. Questi ultimi, poi, si trovano ad affrontare la non facile “missione” di accogliere e soddisfare “clienti – utenti” assai diversi da quelli che solo ieri frequentavano le sale di consultazione, e sempre più, in un domani assai prossimo, affermeranno una domanda di informazione strutturata e non, difficilmente prevedibile.
Nel quadro generale che sto allestendo, va anche detto che, nonostante sopravvivano profonde differenze tra la natura delle raccolte e tra le diverse metodologie di presentare al pubblico i beni che si conservano, strutture diversificate per
la fruizione, tuttavia, archivi, biblioteche e musei condividono una parte non irrilevante delle problematiche sopra accennate.
Tutte le istituzioni, in primo luogo, devono svolgere il difficile esercizio di
bilanciare l’accesso immediato ai beni culturali ora e subito e, al contempo,
salvaguardare i supporti dall’usura e preservarli per i futuri utenti. Sta ai responsabili di ciascun settore fissare l’instabile equilibrio tra accesso e conservazione - tutela.
Sappiamo che sviluppare strategie di conservazione, di tutela e di intervento,
implichi possedere, sviluppare e aggiornare continuamente competenze sulla
tenuta e relativamente al controllo ambientale, sui materiali di condizionamento,
sui trattamenti di restauro a fronte di processi continui di deterioramento cui solo
ora si inizia a indirizzare risorse e progetti nella netta consapevolezza che per
alcune raccolte documentarie, possedute dai Paesi europei, è già scattata l’urgenza e l’allarme di perdita del patrimonio. Solo ora e, spesso sotto la pressione della
perdita imminente, si stanno mettendo a punto misure preventive per rallentare i
processi di deterioramento e si stanno avviando progetti nel settore internazionale in grado di affrontare metodologie di lotta contro quei fattori, quali i microrganismi, in grado se non di risolvere alla radice il problema, almeno di contenerne
gli effetti dannosi e di congelarne l’azione distruttiva nel breve periodo. Uno dei
settori dei progetti che si sono svolti nel campo della disinfestazione, anche in
collaborazione con l’università e la ricerca, e, nel quale sono stati coinvolti alcuni
istituti del Ministero per i beni e le attività culturali, interessati e impegnati nelle
tecnologie della conservazione, ha avuto l’obiettivo di sperimentare, ad esempio,
l’utilità delle atmosfere modificate e dell’anossia o delle microonde per una radi-
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cale azione disinfestante e per arrestare il dilagare di infezioni da microrganismi
che possono colpire varie tipologie documentarie.
Ritengo a questo proposito, sottolineare come i problemi sopracitati, non solo
esigono cospicue risorse finanziarie e una avveduta politica di conservazione attiva, ma soprattutto richiedono competenze scientifiche e tecnologiche che oggi
solo poche, forse pochissime istituzioni, preposte alla tenuta dei beni documentari, posseggono o, quanto meno, sono in grado di avvalersene.
D’altro canto è da pochi anni che la ricerca scientifica ha indirizzato suoi programmi di studio in ambito accademico alle tematiche connesse alla conservazione
del patrimonio culturale di ciascun Paese, tentando la via non facile delle metodologie e della conservazione prima, di intervento non invasivo e, non distruttivo,
poi, quando il bene in esame richiede il ripristino delle sue condizioni iniziali, le
sole che consentono l’accesso e la fruizione del bene. Attualmente in Europa non
sono molti gli scienziati che hanno intrapreso questo percorso e che coltivano
organicamente e continuativamente questo nuovo interesse in stretta relazione
con gli archivi, le biblioteche o i musei. Quando dico “organicamente” voglio dire
che pochi sono i dipartimenti scientifici che hanno avuto o ricercato un rapporto
di collaborazione con gli istituti che conservano il patrimonio culturale, consentendo in tal modo una sicura e valida rispondenza e applicabilità di una ipotesi
alla realtà studiata.
Nello stesso tempo, sono i soggetti, cui è affidata la custodia del patrimonio, che
dovrebbero ricercare e individuare forme di cooperazione continua con il mondo
scientifico, stabilendo in un confronto paritetico quelli che sono i tempi e i modi
di un “dare e avere”.
Ai responsabili della tutela dei beni culturali documentari spetta, infatti stabilire
sempre più frequentemente l’equilibrio tra il momento della protezione dei beni
per il loro utilizzo futuro e la disponibilità degli stessi beni nel presente per un
pubblico sempre più articolato e diversificato.
Io credo che questa sia una sfida che soprattutto oggi noi dobbiamo accettare
più di quanto potesse accadere ieri. Ma se cruciale si presenta la sfida, oggi però
al servizio della “cultural heritage” abbiamo un ampio settore di ricerche dedicate a soluzioni tecnologiche di grande e positiva ricaduta. Un punto fermo sulla
via sopra evocata è la possibilità concreta di avvalerci di nuove conoscenze e di
competenze, che seppure non ancorate a tradizioni remote e consolidate, stanno realizzando una felice sinergia tra mondo delle teorie e realtà pratica.
Forme di collaborazione tra facoltà, dipartimenti di fisica, di chimica e di biologia
e istituti preposti alla filosofia e pratica della conservazione stanno rendendo possibile in Italia, come nel resto del mondo in più di un settore dei beni culturali, la
messa a punto di progetti tesi alla soluzione di questioni e di problemi che sembravano non trovare alternative. Da un lato, la scienza, dall’altro la ricerca applicata a situazioni reali, dove le specifiche competenze del ricercatore accademico si
coniugano con quelle del conservatore, del restauratore e dell’archivista, dove
ognuno apporta un tassello della propria esperienza. Èinfatti ampiamente accolta
la convinzione che per conservare il patrimonio culturale sono essenziali le conoscenze circa la natura e la complessità fisica degli oggetti e dei supporti la cui
tipologia oggi esige profonde competenze di natura chimica, fisica e biologica.
L’integrazione tra le varie discipline scientifiche e di quelle con la cultura e la prassi della conservazione è una conquista recente, frutto anche della cooperazione
tra le istituzioni di vari paesi, cooperazione resa possibile anche dal lancio di molti
programmi della Comunità europea.
Il progresso incessante delle nuove tecnologie e dei nuovi media ha creato una
chance in più per il management delle raccolte documentarie. Digitalizzare i
documenti non solo garantisce un rapido e soddisfacente accesso al patrimonio,
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ma offre al pubblico una leggibilità dei testi originali attraverso copie illimitate. Da
un punto di vista della prevenzione questo implica un indubbio vantaggio che è
quello di impedire il contatto e la movimentazione degli originali, non sottoposti
così ad usura.
Si tratta di un’opzione estremamente attraente per molte istituzioni, che si garantiscono la consultazione del loro patrimonio anche a distanza con Internet.
Ma è proprio la cooperazione internazionale, sebbene abbia realizzato o programmato un notevole numero di progetti, tesi a incrementare il digitale nelle sue
varie applicazioni, che comporta assai più dello “scannerizzare” i documenti. Alla
base di un progetto è vitale individuare i requisiti tecnici, la selezione del materiale, strettamente connesso con gli obiettivi che il progetto di digitazione intende centrare; a ciò va aggiunta anche l’ipotesi del come integrare quelle raccolte al
restante patrimonio, come mantenerlo nel lungo periodo, seguendo gli standard
dei supporti e le regole descrittive condivise. In poche parole, lo scambio tra
esperti di vari paesi circa numerose esperienze già vissute, ha posto in luce che
fondamentale è la informazione sulla direzione verso la quale la digitazione sta
andando, nel momento in cui si vogliono intraprendere iniziative di tale natura. Il
presidente del BundesArchiv, Hartmund Weber, ad esempio, ha ricordato nella
Conferenza internazionale di Dobbiaco (25-29 giugno 2002), come solo una piccola parte della documentazione dovrebbe essere tradotta in digitale, a motivo
dei costi dell’investimento iniziale e del suo mantenimento nel tempo.
Come disse Axel Platte (Unesco) alla CITRA (Conferenza della tavola rotonda degli
archivi) del 1999, svoltasi a Budapest, la soluzione di quei problemi richiede una
strategia internazionale che assicuri la salvaguardia e l’accessibilità delle conoscenze registrate sui supporti non tradizionali. Proseguendo, egli sosteneva che
fosse necessario stabilire dei partenariati a livello mondiale per raccogliere e
potenziare gli sforzi fatti dai responsabili dell’informazione digitale, ovvero gli
archivisti, i bibliotecari, gli esperti e i tecnici operanti nei musei. Lo strumento, egli
suggeriva, poteva essere colto nella creazione di un Blue Shield, in funzione non
solo dei disastri naturali, ma in soccorso della conservazione del digitale, una
nuova alleanza avente per oggetto la tutela e la conservazione dell’informazione
digitale pubblica.
Il Novecento ci ha consegnato, come più volte ho sostenuto, infatti, e continua a
consegnarci archivi di estrema importanza e di cospicua consistenza. Il secolo
appena trascorso ha prodotto un patrimonio librario e archivistico che, da un lato,
corre i maggiori rischi di conservazione e, dall’altro, rappresenta uno degli ambiti
in cui è tangibile la debolezza di una concezione della tutela incentrata semplicemente sull’apposizione di vincoli o di divieti. In quest’ottica gran parte di quel
patrimonio è destinato a scomparire.
Va poi anche ricordato che per lungo tempo, anche nel mio Paese, l’Italia, nel programmare interventi di tutela o di recupero attraverso il restauro, si è quasi sempre
privilegiata la documentazione risalente ai secoli passati; la fragilità e la scarsa
durata della documentazione cartacea novecentesca nonché la rapida obsolescenza di quella connessa a tecniche e strumenti informatici, sono state per lungo
tempo sottovalutate.
Ma accanto a questo va detto anche e, per contrapposto, che a causa dei moderni mezzi di comunicazione che certamente facilitano la ricerca, permettendo uno
scambio di informazione sempre più rapido e spesso in tempo reale, si lasciano
sempre meno tracce tangibili, per cui la sedimentazione di un vero archivio nel
senso tradizionale, è sempre più problematica e comunque più episodica.
Questo per significare che la conservazione dell’informazione e la sua piena fruizione a livello mondiale sono strettamente legate a responsabilità sia d’ordine
morale che finanziario. Buona parte, infatti dei programmi di finanziamento della
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Comunità europea nel corso degli ultimi anni, si è rivolta all’intervento sui beni culturali documentari, favorendo progetti nati non solo dall’individuazione di interessi comuni nei vari Paesi europei, ma caratterizzati da metodologie innovative e dal
concorso di bagagli scientifici e culturali messi insieme in uno spirito di effettiva
cooperazione.
Sotto l’aspetto poi della disseminazione di una cultura della cooperazione e della
realizzazione di sinergie da porre in essere, il Consiglio internazionale degli
Archivi (ICA), può ancora svolgere, come già di fatto ha svolto un ruolo determinante e di stimolo per l’attuazione di progetti coordinati che spingano risorse
umane e economiche mirate a limitare e colmare, se possibile, il divario tecnologico tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo, al fine di sensibilizzare le autorità politiche a dedicare investimenti cospicui alla conservazione e al salvataggio di
buona parte del patrimonio e della memoria di quelle realtà nazionali che non
sono in grado di provvedervi, ma la cui salvaguardia è cruciale non solo per il singolo Paese, ma per la comunità civile di tutto il mondo. Da parte sua l’UNESCO,
con il Registro della Memoria del Mondo “La Memoir du Monde”, ha creduto di
individuare un utile strumento per selezionare ciò che viene visto e vissuto dai vari
Paesi nel mondo come l’essenza della propria identità nazionale.
Sul piano della collaborazione però, credo che soltanto l’ICA potrà esercitare
quella capacità di penetrazione, attraverso la fitta rete di relazioni che nel corso
di oltre cinquant’anni ha intessuto con le amministrazioni archivistiche del nostro
pianeta, essenziale per individuare, se non altro, metodologie idonee ad intervenire sul terreno della prevenzione, della diffusione dell’informazione, della conservazione dei beni documentari. E il modo con cui poter svolgere tali compiti,
credo sia solo quello di mettere sul tappeto dei progetti: si tratta di una parola
chiave che sottolinea un approccio serio a ogni questione; solo sulla base del progetto si può rilevare l’effettiva consistenza di una problematica e le sue dimensioni, i problemi, le entità dei beni da tutelare.
Se, come disse alcuni anni or sono, Trudy Peterson, ex archivista del NARA
(National Archives and Records Administration - USA), la conservazione è un processo da gestire, non un problema da risolvere, questo implica anche porre forte
attenzione su ciò che realmente dovremmo conservare a futura memoria.
Èinfatti ampiamente condivisa la convinzione che la centralità della conservazione nell’ambito della gestione del patrimonio, di una collezione, di una raccolta,
di un archivio, non sono mai stati posti in dubbio per chi intenda il ruolo della
professione nella sua essenza, un’essenza che non si fa ingannare né dalle infatuazioni tecnologiche per un verso, né da un approccio alla conservazione che non
tenga conto della responsabilità di organizzare anche la fruizione per il futuro,
oltre che nel presente, del bene.
In breve, un nodo ineliminabile appare per la conservazione la selezione intelligente di ciò che si vuole mantenere come testimonianza qualificante del nostro
tempo. Aprirei un’altra relazione, se mi addentrassi su questo tema, veramente
drammatico e nevralgico per l’intera questione relativa alla conservazione dei beni
culturali documentari. Voglio solo dire che non bastano le soluzioni tecniche, ma
occorre cultura, consapevolezza del valore di ogni testimonianza e capacità di
giudizio nel momento che si condanna alla distruzione buona parte di ciò che
viene prodotto dal nostro tempo.
Il problema della conservazione, in tutte le sue espressioni, è quello della complessità, dovuta in buona misura alla massa d’informazione prodotta e al fatto che
bisogna anche ricordare che certi tipi di informazione non sono accessibili che
attraverso dei mezzi meccanici: pc, lettori di carte perforate, grammofoni, proiettori, ecc. Questo significa lavorare perché l’informazione registrata sia sempre leggibile nel tempo, attraverso processi emulativi o di continue migrazioni.
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Restauro Codici Liturgici Membranacei
Archivio Capitolare di Assisi - Sec. XIV
l restauro dei codici miniati costituisce, pur nella sua eccezionalità, una pratica
abbastanza frequente per il laboratorio di restauro del Centro che proprio sul
materiale membranaceo ha messo a punto diverse metodologie e tecniche esecutive. I due codici, pervenuti attraverso la Soprintendenza Archivistica per
l’Umbria, si presentavano, oltre che molto sporchi, gravemente danneggiati dall’azione meccanica ed estremamente deboli, in particolar modo, in prossimità
degli angoli inferiori. Il danno, ripetuto su quasi tutte le carte, non è stato causato
dall’assottigliamento dello spessore del supporto ma dalla formazione di microfratture della superficie più esterna dovute al continuo uso dei codici. I codici
sono stati esaminati dal laboratorio di chimica del CFLR che ha sottoposto gli
inchiostri, di natura ferrogallotannica, ad analisi XRF che hanno evidenziato la presenza di rame che, aumentando la capacità corrosiva, ha portato alla perforazione dei supporti. Il restauro è stato finalizzato al recupero, per quanto possibile,
dell’integrità originale con particolare attenzione al consolidamento delle zone
più indebolite oltre che con l’idrossipropilcellulosa anche con rinforzi in pellicola di pergamena. Il restauro dei fogli è terminato mentre è in fase di esecuzione il
recupero delle legature originale. I fogli membranacei saranno sottoposti a ripresa digitale finalizzata a limitare la consultazione diretta dei documenti.
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
I
Analisi chimiche
L. Residori, L. Botti
D. Ruggiero, G. Impagliazzo
Restauratori
A. Di Pietro, S. Di Franco,
L. Nuccetelli, M. Brigazzi
Foto
C. Fiorentini, D. Corciulo
Coordinatore
C. Prosperi
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Digital Repository
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
L
a conservazione del patrimonio digitale che si è formato in questi ultimi anni, sia
con la produzione di edizioni digitali (born digital) su supporti ottici che con
la digitalizzazione delle collezioni di archivi, musei e biblioteche, pone problemi
di grande rilevanza a tutti gli istituti di conservazione e al mondo della ricerca.
Per quanto lo studio dei supporti sia solo un aspetto del problema più complesso della digital preservation riguardante tutti i sistemi di storage, formati, metadati, sistemi di descrizione e di accesso, strategie di migrazione ed emulazione, il
CFLR ha ritenuto che la verifica sulla affidabilità di CD e DVD abbia una funzione
strategica.
Tra i principali motivi che spingono ad un interesse in questo senso ve ne sono tre
di fondamentale importanza: la grande quantità di edizioni digitali di libri e prodotti multimediali su CD e DVD stampati negli istituti di conservazione; l’introduzione della normativa, in corso di perfezionamento, sul deposito legale che produrrà un incremento e un consolidamento della conservazione su supporti ottici
ed, infine, l’interesse di istituti piccoli, professionisti privati e la società che hanno
ormai un manifesto bisogno di soluzioni affidabili e a basso costo per la conservazione dell’informazione digitale prodotta, parte della quale è destinata a fare
parte integrante del patrimonio culturale futuro.
La conservazione su CD-R e DVD-R di questa informazione è quindi destinato a
trovare nel mercato, finora dominato da prodotti a basso costo e bassa qualità,
prodotti qualitativamente migliori e pensati per la conservazione nel tempo.
In questa ottica, il CFLR si è dotato di dispositivi della azienda svedese AudioDev,
che consentono di effettuare test su CD e DVD vergini, registrati e stampati. Questi
strumenti sono nati
per il controllo di qualità sulla produzione commerciale di supporti registrabili o
stampati, sono
al momento i migliori dispositivi disponibili per verificare l’affidabilità attuale dei
supporti e, attuando una adeguata serie di test di invecchiamento artificiale, la loro
affidabilità nel tempo.
Nel 2006, il CFLR ha avviato con Fondazione Rinascimento Digitale, ICPL e la commissione del tavolo tecnico “Aspetti tecnologici della conservazione permanente” del CNIPA un progetto riguardante lo studio e il monitoraggio dei supporti ottici: OPTIMA (Optical Media Analisys).
Il progetto si articola su tre fasi successive con specifici obiettivi ed attività.
I. Definire le modalità di indagine e valutazione per i dischi, definire il campione
per il monitoraggio e la scheda di valutazione per gli utenti partecipanti alla
campagna; definire le condizioni ottimali di conservazione dei dischi.
II. Svolgere un monitoraggio massivo e analizzare i risultati al fine di identificare
eventuali ‘patologie’ ricorrenti.
III. Sviluppare le modalità di un ‘servizio di diagnostica’ presso il CFLR e definire
delle raccomandazioni sulle condizioni ottimali di conservazione e gestione
dei dischi.
In relazione anche ai risultati della ricerca, il CFLR si candida a fornire servizi di storage a istituti di conservazione del patrimonio culturale su base nazionale, sfruttando oltre ai macchinari anzidetti il deposito climatizzato di cui dispone.
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Digital Library
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
N
el 2006, il CFLR ha completato e reso accessibile, tramite la rete Internet
(http://www.cflr.beniculturali.it/Patrimonio/Introduzione.php), una digital
library comprendente le serie archivistiche digitalizzate da o per conto
dell’Archivio di Stato di Roma nell’ambito del Progetto Imago II e dei sui ampliamenti successivi e alla corrispondenza del Pontificio Collegio Irlandese, parte di
un fondo fotografico della British School of Rome, documentazioni fotografica
appartenete all’Archivio Storico della Banca di Roma e la collezione di mappe
cinesi della Società Geografica Italiana,. Contribuisce attivamente al progetto di
applicazione di tecniche GIS in corso di sviluppo da parte di Archivio di Stato di
Roma, Università di Roma Tre, Soprintendenza Archeologica del Comune di Roma.
Inoltre è in corso di attivazione una collaborazione con il CNIPA per la cura e la
realizzazione del progetto AUGUSTO: per la digitalizzazione e la messa on-line
delle pubblicazioni relative le Gazzette Ufficiali storiche.
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Restauro Mappa Membranacea
del territorio Veronese
Fondo: Scuola Grande S. Maria della Carità
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
I
Restauratori
L. Nuccetelli
G. Rava
Foto
C. Fiorentini
D. Corciulo
Coordinatore
C. Prosperi
Disegno a penna su pergamena
con colorazioni ad acquerello
sec. XVI
dimensioni cm 95x105
22
l disegno, composto da 4 sezioni in pergamena incollate per sovrapposizione di
circa cm 1,5 presentava forti ondulazioni e contrazioni dovute al tiraggio, alla
presenza di adesivo e alle variazioni termoigrometriche dell’ambiente di conservazione.
La pianta si presentava di formato irregolare con ripetute lacune seriali nella forma
in quanto dovute a danno subito a mappa arrotolata.
Il restauro ha fatto ricorso all’inumidimento in cella ad ultrasuoni e a tiraggio su
telaio metallico fornito di magneti. Il mending è stato realizzato con la tecnica
della doppia carta giapponese e le suture con pellicola di pergamena.
La distensione del supporto originale ha portato alla luce particolari grafici non
visibili precedentemente per la contrazione del supporto.
Il documento restaurato è stato esposto in occasione della mostra “Andrea
Mantegna e le arti Verona, 1450.1500”.
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Il progetto
“Monitoraggio dei depositi degli Archivi di Stato”
l deterioramento del materiale documentario conservato nei depositi archivistici
è dovuto a processi che possono determinare alterazioni irreversibili nei supporti. Tra le più importanti cause si possono citare i valori termoigrometrici non idonei, la presenza di inquinanti biologici nell’atmosfera, le condizioni errate di illuminazione e la scarsa ventilazione. Tali condizioni possono favorire lo sviluppo di
agenti biologici quali, in particolare, microrganismi ed insetti. Carenze strutturali
possono inoltre permettere l’ingresso di roditori ed uccelli. Spesso i danni vengono evidenziati quando le infezioni o le infestazioni raggiungono livelli elevati e
solo in questi casi viene richiesto l’intervento di esperti del settore.
Il progetto di monitoraggio, scaturito da un accordo con l’ex Dipartimento Ricerca
Innovazione e Organizzazione e approvato dalla Direzione Generale per gli
Archivi, prevede la programmazione di sopralluoghi tecnici nei depositi degli
Archivi di Stato mai visitati o non ispezionati negli ultimi cinque anni. Lo scopo di
tale monitoraggio è quello di individuare eventuali processi di degrado nella fase
iniziale al fine di prevenire il deterioramento del patrimonio documentario.
Durante il sopralluogo viene adottato un protocollo di intervento che prevede una
sequenza di operazioni finalizzate all’accertamento dello stato di conservazione
della documentazione e delle condizioni ambientali dei depositi per definire le
problematiche esistenti e indicare gli eventuali interventi correttivi, ottimizzando
così le risorse economiche da impegnare.
CFLR - Centro di Fotoriproduzione Legatoria
e Restauro degli Archivi di Stato
I
Laboratorio di Biologia:
responsabile Elena Ruschioni
Gruppo di lavoro
Giuseppe Arruzzolo,
Giovanni Marinucci,
Eugenio Veca
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Restauro lettera autografa di Giuseppe Garibaldi
di Comune di Casalbuttano (CR)
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e Restauro degli Archivi di Stato
L
Restauratori
S. Di Franco
A. Di Pietro
Fotografi
C. Fiorentini
D. Corciulo
Coordinatore
C. Prosperi
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a lettera autografa fu spedita da Giuseppe Garibaldi da Caprera per accogliere
la nomina a presidente onorario della Società di Casalbuttano.
La lettera, scritta con inchiostro ferrogallotannico, evidenzia danni dovuti alla cattiva qualità della carta, ad una diffusa ossidazione con evidenti macchie di collante dovute a strisce di carta che, sul verso, tenevano insieme molti frammenti. Le
colle utilizzate hanno gravemente macchiato il supporto originale cristallizzandolo e rendendolo fragile e trasparente.
Sul recto sono stati incollati una busta da lettera ed un biglietto da visita manoscritto di Benedetto Cairoli. L’estrema fragilità del supporto e la miriade di frammenti hanno consigliato di non rimuovere la busta e il biglietto incollati ma di procedere alla ricollocazione dei frammenti e alla successiva velatura e foderatura sul
verso della lettera. Molto complesse sono risultate le operazioni di distacco delle
numerose strisce di carta poste sul verso per tenere uniti i frammenti
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Il progetto europeo TAPE
(Training for Audiovisual preservation - Cultura 2000)
e sono alquanto noti i patrimoni audiovisivi custoditi nelle grandi istituzioni
europee, dove da tempo, almeno prima della seconda guerra mondiale, sono
state riversate risorse umane e finanziarie per condurle al livello se non di eccellenza, di disponibilità a corrispondere agli obiettivi per le quali erano state poste in
essere, oggi appare urgente la definizione di un quadro della situazione in cui versano le collezioni audiovisive conservate da piccoli e medi archivi, distribuiti in
quasi ogni regione o città, oppure, come patrimoni di “nicchia “da grandi archivi
documentari o da biblioteche di dimensioni ragguardevoli. Si tratta, spesso di entità numericamente non rilevanti, ma di estrema importanza se quei prodotti sono
nati nel contesto di una ricerca scientifica (sociologica, storica, antropologica,
etnologica, etnomusicologica, linguistica, musicale, storia orale, dialettologia,
archeologica, ecc.) per i fini di indagine e di studio, ma in breve trascurati, terminato l’interesse immediato per il quale l’audiovisivo è nato. È a questi segmenti
della memoria visiva e sonora che si rivolge TAPE. Conoscere le dimensioni del
fenomeno, il suo stato di conservazione, l’esistenza o meno di strutture che ne rendano possibile la fruizione, nonché la presenza di un nucleo di persone addette
alla loro comunicazione, sono queste le articolazioni del progetto. La formazione
e le possibili soluzione tecniche affiancate dall’utilizzo delle nuove tecnologie
della comunicazione e della conservazione dovrebbero essere i risultati più concreti che il progetto dovrebbe proporre al termine dei tre anni di svolgimento,
attraverso la produzione di strumenti di facile diffusione e penetrazione tra i non
specialisti. Ma proprio sulla comunicazione e sull’accesso da assicurare nel tempo
a questa fragile realtà che si misura non tanto TAPE, ma altri e più ambiziosi progetti europei quali FIRST, conclusosi nel 2003 con un report e linee guida di grande
interesse. Il primo workpackage, il censimento, conclusosi e attualmente in fase di
elaborazione per ciò che riguarda i risultati, ha voluto significare un tentativo di fare
il punto delle collezioni audiovisive, non solo nei cinque Paese, partner del progetto (Paesi Bassi, Finlandia, Austria, Polonia e Italia), ma in Europa nel suo insieme,
focalizzando l’attenzione sulle istituzioni non specialiste. Il questionario, pertanto,
è stato diffuso in diverse lingue attraverso una mail list su carta, ma anche attraverso liste di discussione e sul web di TAPE. Come si può facilmente supporre, la
bozza di questionario è stato ampiamente discussa tra i partner, utilizzando altri
precedenti censimenti e soprattutto acquisendo i risultati di analoghe operazioni
condotte da PRESTO-Space, dall’UNESCO (attualmente interessata agli archivi
sonori e linguistici dei Paesi non europei), da istituzioni britanniche sulle collezioni possedute da biblioteche di fondazioni accademiche, ecc. Visite esplorative
sono state effettuate all’Imperial War Museum al British Universities Film e Video
Council, British Film Institute, BBC and Meertens Institute, Dalla prima messe di risultati si è potuto penetrare nel quadro delle priorità e dei problemi da affrontare nel
prosieguo, tra cui emerge evidente la necessità di fare una mappatura dei bisogni
della formazione o dell’aggiornamento degli addetti. Il quadro che ne è disceso è
un affresco delle differenti fonti audiovisive che insistono sul continente attraverso
l’elaborazione di un report generale, cui faranno da corollario studi più approfonditi in alcuni settori a cura dei partner. Dalle resultanze del censimento sta scaturendo uno studio sull’accesso a lungo termine alle collezioni audiovisive. In questo
ambito è vitale il riferimento ai prodotti del progetto PRESTO-Space e la cooperazione con IASA, UNESCO, ICA, IFLA, FIAF, FIAT, le associazioni nazionali di archivisti, di biblioteche e di musei, associazioni accademiche, ma anche le associazioni
di storia orale e di tradizioni orali. Il secondo e terzo segmento del progetto, ovvero quelli che definiscono TAPE, riguardano la formazione da realizzarsi con l’alle-
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stimento di workshop a livelli differenti e graduali, pur sempre indirizzati a non
specialisti inseriti in organizzazioni della più varia natura. Faranno da completamento del programma la produzione di materiali didattici di ampia e facile diffusione.
A livello centrale si stanno svolgendo tre corsi internazionali per i tre anni del progetto (settembre 2004-agosto 2007) ad Amsterdam dall’istituto coordinatore del
progetto (European Commision on Preservation and Access – ECPA), corsi che
provvedono a delineare le linee guida da seguire nelle singole realtà nazionali e a
dare slancio ai vari eventi locali secondo una rete di accordi tra i partner, le cui ricadute saranno i contenuti delle linee guida e degli altri materiali che verranno anche
tradotti dalla letteratura specialistica. La finalità più significativa è quella di creare
una rete di esperti e di esperienze che intraprendano iniziative a livello nazionale,
regionale o locale, anche attraverso confronti e discussioni sulla struttura e i contenuti proposti nei corsi di vario livello. In breve, si tratta di presentare e di individuare materiali utili per la formazione e l’aggiornamento. Il cuore di tali iniziative formative dovrà essere l’approccio concreto alla gestione delle collezioni o degli archivi audiovisivi, nell’ambito della quale dovrebbero trovare un’opportuna collocazione la capacità di stabilire le priorità e le progettazioni per la conservazione e la
promozione tramite la tecnologia digitale.
Il workpackage quarto, riguardando gli eventi nazionali, amplia cospicuamente il
panorama delle iniziative, poiché sono chiamati a realizzare manifestazioni, convegni workshop e quant’altro, i Paesi europei che abbiano interesse a valorizzare la
cultura audiovisiva, pur non rientrando nel novero dei partner. Di norma le indicazioni che vengono date in questi casi riguardano temi specifici e di natura essenzialmente tecnica.
Il quinto workpackage è incentrato sui gruppi di ricerca in campo tecnologico con
particolare enfasi sullo storage, la ricerca di soluzioni ottimali a basso-medio
costo. Punto di riferimento è l’Audio Engineering Society and PREMIS (PREservation
Metadata:Implementation Strategies). In questo caso sarà fondamentale individuare e suggerire la letteratura specialistica, da collocare tra i prodotti da realizzare dal
progetto
Questo “pacchetto” è quello che maggiormente qualificherà i risultati del progetto
da acquisire attraverso incontri tra esperti e una ricerca mirata sulla conservazione
a lungo termine degli AV, sui flussi, sui metadata, sugli standard di compressione,
tenendo anche ben presente le ricerche già svolte ad alto livello nel quadro di analoghi progetti quali PRESTO-Space. Nel caso di TAPE l’ambizione è quella di conseguire soluzioni scalari da offrire a piccoli archivi, unitamente a raccomandazioni
di facile esecuzione e a materiali di istruzione di semplice uso. Ma tornando al
tema dello storage la vera difficoltà è quella di proporre soluzioni a basso costo
per i piccoli archivi articolandone i compiti e le responsabilità del personale preposto o in alternativa consigliare l’accesso a soluzioni di alta tecnologia di natura
centralizzata. I condizionamenti di questo settore nascono come è evidente dai
costi, dalla natura della gestione che si vuole realizzare, dai diritti che insistono sul
patrimonio e che possono condurre a restrizione nel loro utilizzo.
Il workflow viene affrontato, inoltre, sotto il punto di vista dei gradi e dei tempi del
processo di conversione, dei suoi aspetti tecnici, del controllo di qualità, dell’uso
intelligente delle risorse, dell’esternalizzazione del lavoro o in sede.
Da questo proviene l’obiettivo di individuare e condividere alcuni modelli e standard
e una metodologia di lavoro per definire il ruolo delle istituzioni locali e centrali.
Il successivo workpadkage ha l’ambizione di individuare e porre conseguentemente l’attenzione, sugli AV utili alla ricerca scientifica, con particolare rilievo,
ambisce a segnalare i patrimoni antropologici, etnomusicologici, dialettologici,
quelli delle lingue a rischio di scomparsa. Ci si propone, in concreto, di indirizzare la comunità scientifica interessata a quelle collezioni poco note, promuovendo
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le misure di tutela e sensibilizzando coloro che ne sono responsabili. Nel contempo, è parte di tale componente, quella di collegare e stabilire connessioni tra le
collezioni o archivi poco noti delle discipline sopra citate con i progetti che riguardano quegli ambiti di ricerca, anche nel tentativo di stabilire una stretta collaborazione tra i ricercatori di settore con coloro che detengono il patrimonio così poco
conosciuto. A tale proposito si è pensato di stabilire un legame di lavoro con il Max
Plank Institute, il quale si occupa di creare strumenti di ricerca per gli archivi audiovisivi digitalizzati. Infine, si vorrebbero dare indicazioni sul come bilanciare e suggerire gli investimenti opportuni nel settore della digitalizzazione di AV e della loro
conservazione nel lungo periodo, senza avere la pretesa di pensare ad una operazione che comprenda l’intero patrimonio.
Concludendo quanto sopra esposto, il “pacchetto” ha il compito di identificare e
le istituzioni preposte alla conservazione di quelle tipologie di archivi e/o collezioni, di illustrare casi ed esempi di buona conservazione di questi materiali, raccogliere informazioni qualificate per la loro presentazione on-line (se possibile),
metadata e strumenti vari e realizzare interviste con i cultori e ricercatori di quelle
discipline al fine di far comprendere il ruolo degli AV nel loro contesto culturale.
Il workpacakage sette è strettamente legato al precedente, poiché si riferisce a
tutte le attività di comunicazione riguardanti la ricerca sopra descritta, con l’ambizione di fornire una sorta di guida ai progetti in atto nel settore della ricerca, nonché di delineare un inventario degli standard per lo storage, la catalogazione e l’indicizzazione dei materiali audiovisivi digitalizzati, linee-guida per disegnare web
di presentazione.
La pubblicazione e la pubblicizzazione del complesso degli esiti di TAPE è il contenuto del workpackage otto. Le attività che lo caratterizzano sono spalmate su
tutta la durata del progetto e consistono nella pubblicazione dello studio completo delle collezioni rilevate in Europa, sia in lingua inglese che in altre tre o quattro
lingue; in pacchetti contenenti materiali per la formazione (/DVD); raccomandazioni per le strategie di conservazione; raccomandazioni per la gestione degli archivi/collezioni audiovisive; presentazione di esempi di applicazioni multimediali
tratte da collezioni meno note; illustrazioni di applicazioni multimediali realizzate
da istituzioni culturali; traduzioni di linee guida e raccomandazioni già esistenti nel
settore, ma riproposte nel nuovo contesto.
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ICCD
Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
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L’ICCD è stato istituito con il D.P.R. n. 805 del 3.12.1975, che ne ha determinato le
funzioni e la struttura operativa in un quadro organico con l’ordinamento e le competenze degli altri Istituti Centrali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali:
Restauro, Catalogo Unico delle Biblioteche, Patologia del Libro.
Compiti
L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione “ICCD” promuove e coordina l’attività esecutiva di catalogazione, curando l’unificazione e la diffusione dei
metodi attraverso: l’elaborazione delle metodologie catalografiche; la predisposizione degli strumenti di controllo per la validazione dei dati; la costituzione e
gestione del Sistema Informativo del Catalogo dei Beni Ambientali, Architettonici,
Archeologici Artistici e Storici, Demoetnoantropologici; la realizzazione di progetti culturali con Istituzioni nazionali e internazionali.
L’ICCD realizza progetti e servizi coerenti con le due fondamentali missioni istituzionali: la Catalogazione e la Documentazione del patrimonio artistico e culturale
nazionale, funzioni correlate tra loro se pure articolate in specifiche esigenze operative.
Nell’ambito della Catalogazione si inquadrano le funzioni di:
- elaborazione di metodologie e sviluppo di strumenti univoci (standard) di
individuazione dei beni ai fini della costituzione del Catalogo Generale del
patrimonio artistico e culturale,
- coordinamento tecnico delle attività degli istituti periferici che catalogano sul
territorio. In tale ambito operano prevalentemente i Servizi tecnici ordinati
secondo gli specifici contenuti disciplinari.
Documentare il patrimonio comporta non solo esigenze di tipo metodologico
per uniformare gli standard in materia di ripresa fotografica e digitalizzazione, ma
anche problematiche specifiche connesse a esigenze di ordine:
- ricerca e catalogazione delle collezioni di fotografia storica
- conservazione e restauro
- ordinamento
- incremento attraverso acquisizioni di collezioni storiche, di autori contemporanei e realizzazione di nuove campagne fotografiche finalizzate
- consultazione da parte di un’utenza esterna
- valorizzazione attraverso la programmazione di eventi e pubblicazioni
- vendita di immagini e pubblicazioni a stampa e multimediali anche attraverso
servizi di e-commerce
- digitalizzazione per la conservazione, la fruizione ampia sulla rete e per il collegamento con gli altri archivi informatici e con SIGEC.
Organizzazione
Direttore
Maria Rita Sanzi Di Mino
Coordinatore
Floriana Sattalini
Via di San Michele, 18
00153 ROMA
tel. 396 585521
fax 396 58332313
www.iccd.beniculturali.it
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L’Istituto si struttura in:
- Segreteria tecnica
- Servizi tecnici
Beni archeologici
Beni architettonici
Beni storico artistici e demo etno antropologici
- Servizio pubblicazioni
- Servizio promozione
- Archivio catalogo
- Servizi informatici
- Fototeca Nazionale
- Museo della Fotografia
- Laboratorio fotografico
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Obiettivi
Obiettivi principali dell’attività dell’Istituto sono:
- l’Informatizzazione di sistemi integrati che investono l’intera Amministrazione
dei beni culturali.
- la Formazione, che l’Istituto ha già consolidato in numerose esperienze in sede
e che sta sviluppando attraverso l’attivazione di programmi di formazione a
distanza in concorso con Università e Istituti di Ricerca. Tale intensa attività, svolta da ICCD nell’ambito delle procedure e delle metodologie di catalogazione,
è scaturita a fronte delle numerose richieste dei diversi enti catalogatori.
- la Consulenza legale per problematiche relative a privacy, diritto d’autore,
tutela e sicurezza dei dati. La rilevanza di queste tematiche cresce con il progressivo incremento di sistemi e di servizi che l’ICCD attiva sul web.
- la Promozione e Comunicazione, tematica di assoluto rilievo nell’ambito della
quale l’Istituto sta definendo una strategia e una adeguata struttura in relazione
alle esigenze di cooperazione con altri enti del settore, di divulgazione dei
contenuti informativi e di predisposizione di servizi all’utenza.
- la Concertazione con altri enti.
- Rapporti con l’Unione Europea, essenziale sia in termini di necessario adeguamento rispetto agli standard tecnici e normativi imposti dall’U.E., sia in termini
di capacità di fruire delle risorse che i Programmi europei rendono disponibili.
- Nuovi modelli di partecipazione Pubblico -Privati, in corso di sperimentazione attraverso attività congiunte volte alla diffusione del patrimonio.
ICCD
Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
- Aerofototeca
- Ufficio Tecnico
- Servizio amministrativo
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Le nuove frontiere della catalogazione
ICCD
Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
Maria Rita Sanzi Di Mino
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A
ll’interno di una Pubblica Amministrazione che innova i propri processi organizzativi parlare di “nuove frontiere” significa in primo luogo impegno a realizzare il progressivo superamento delle barriere che, in vario modo, limitano la circolazione delle informazioni e delle buone pratiche.
Termini ormai abituali come ottimizzazione, riuso, trasparenza, interoperabilità tra
schemi di descrizione (metadata) di diversi sistemi di informazione, sia a livello
nazionale sia a livello internazionale rimandano alla dichiarata volontà di consentire a tutti gli enti pubblici di interagire e di scambiare in maniera regolata i dati e
le informazioni utili alla propria attività.
La cooperazione tra gli Enti si conferma pertanto obiettivo prioritario e si coniuga
con l’impegno a realizzare l’accessibilità agevole e sicura ai contenuti di certificata qualità e ai servizi offerti in rete ai cittadini.
La catalogazione del resto, nei suoi fondamenti, si struttura per realizzare una organizzazione della conoscenza secondo strutturazioni concettuali che sono alla base
dei modi con cui si individua e si conosce il patrimonio artistico e culturale nelle
sue diverse oggettivazioni. Le metodologie di catalogazione, in particolare, hanno
sempre mirato a raccogliere in maniera sistematica oltre i dati anagrafici identificativi dei singoli beni, anche le relazioni che ne connotano e ne specificano l’appartenenza al patrimonio culturale nella sua variegata e ricca composizione.
Il moltiplicato impegno nei confronti della formazione, anche in termini di
e-learning, sostiene l’obiettivo di descrivere i meccanismi metodologici e tecnici
che consentono di gestire il sapere che la catalogazione pone a disposizione
degli operatori e di quanti intendono qualificarsi nel settore.
Per la gestione di queste problematiche le tecnologie rappresentano, quindi, un
supporto sempre più evoluto e adeguato alla complessità della materia; sul
piano organizzativo e riguardo al confronto tecnico scientifico per l’identificazione delle relazioni tra bene e contesto culturale, ha, invece particolarmente contribuito la cooperazione tra enti interni al Ministero e con le altre istituzioni interessate alla catalogazione.
L’azione concertata, ormai prassi abituale, con le Regioni, le Diocesi, le Università,
gli Enti locali come con le Biblioteche e gli Archivi del Ministero, ha consentito di
guardare al bene da più punti di vista aggregando in maniera sistematica le informazioni che aiutano a esercitare le funzioni in carico ai diversi enti e a gestire le
azioni rivolte al complesso dei beni.
Il rapporto con questa varietà di enti, sancito peraltro anche sul piano legislativo,
ha posto ancora più in evidenza le finalità per cui la catalogazione viene svolta e
il supporto che essa può fornire per una visione complessiva e una azione sistematica rivolta al patrimonio culturale.
La catalogazione, infatti, superando la mera sfera cognitiva sperimenta il suo valore e aggiorna le sue metodiche entrando nel processo realizzativo dei programmi
di gestione territoriale, di valorizzazione, di comunicazione e, in questo processo, interviene anche a garanzia della condivisione delle informazioni sul bene.
Con la prospettiva di incrementare il patrimonio conoscitivo con dati derivati dai
processi di tutela, di conservazione e di gestione dei beni l’ICCD, tra l’altro, ha
rivolto la sua attenzione anche alle sperimentazioni, in corso in alcuni ambiti territoriali quale ad esempio la Soprintendenza Archeologica di Ostia, di sistemi di
gestione automatizzata dei depositi museali attraverso l’uso di procedure di etichettatura con tecnologia RFID (Radio Frequency Identification).
L’approccio trasversale alla conoscenza del patrimonio nel suo insieme diviene,
pertanto, elemento determinante per aderire alle esigenze di elaborare e accre-
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scere un linguaggio comune che sia capace di descrivere un patrimonio in continua crescita per il riconoscimento di nuovi valori culturali.
Il confine, peraltro fragile, tra catalogazione e documentazione si assottiglia nel
momento in cui, disponendo di sperimentati supporti metodologici e di piattaforme tecnologiche avanzate, si riesce a tradurre e collocare in un medesimo processo di raccolta e di comunicazione la varietà molteplice delle fonti documentali.
L’ICCD, in sostanza, si impegna a contribuire per il proprio ambito alla preziosa sintesi che la Direzione Generale per l’Innovazione sta realizzando con programmi di
grande impegno per il MiBAC e di sicuro interesse anche per altri enti nazionali e
internazionali, individuando e connettendo l’enorme quantità di informazioni che,
opportunamente sistematizzate e sapientemente veicolate, rappresentano un
positivo contributo alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio culturale
italiano.
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ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
L’Istituto centrale per la patologia del libro è un organismo del Ministero per i beni
e le attività culturali il cui impegno consiste essenzialmente nella ricerca e nell’alta formazione finalizzate alla conoscenza, conservazione e restauro del materiali
librari. L’attività si svolge su cinque fondamentali linee di ricerca: la storia e la tecnologia dei materiali originali, i meccanismi di degrado, la protezione ambientale,
la valorizzazione e la diffusione delle conoscenze relative alla conservazione e al
restauro del libro, la minima invasività nel restauro.
Direttore
Armida Batori
Coordinatori
Assunta Di Febo
Paola F. Munafò
Via Milano 76
00184 Roma
tel. 06 482911
fax 06 4814968
www.patologialibro.beniculturali.it
[email protected]
[email protected]
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Realizzazioni
Organizza stages e seminari. È in via di allestimento la Scuola di alta formazione.
Organizza convegni e conferenze internazionali e dal 2006 pubblica la nuova collana Quaderni. Gli interventi più recenti riguardano il registro notarile di Parente di
Stupio, conservato a La Spezia, l’incisione Prospetto dell’alma città di Roma
(1765) di Giuseppe Agostino Vasi, l’Antifonario (cod. 28), codice membranaceo
del XV secolo, appartenente alla Biblioteca Aurelio Saffi di Forlì, la pianta prospettica di Venezia di Jacopo de’ Barbari, xilografia del 1500 conservata presso la
Fondazione Querini Stampalia di Venezia e il Globo Terrestre manoscritto, realizzato tra il 1819 e il 1829 da Ubaldo Villa, conservato nella Biblioteca Braidense di
Milano. Sta realizzando il Censimento delle legature medievali conservate nelle
biblioteche italiane. Collabora all’organizzazione tecnica e normativa e svolge
un’intensa attività di consulenza per la soluzione dei problemi
della conservazione e del restauro nelle biblioteche statali italiane. Ha affrontato
problematiche complesse ed emergenze drammatiche: dalla campagna di lotta
alle infestazioni termitiche al censimento dei danni causati dai bombardamenti,
dai crolli e dagli incendi, dal recupero del materiale danneggiato con l’alluvione
di Firenze agli interventi sui volumi appartenuti a Cesare Pavese danneggiati dall’esondazione del Tanaro (6 novembre 1994). Presso l’Istituto sono attivi una
Biblioteca specializzata nel settore delle discipline del libro e un Museo recentemente ristrutturato che organizza visite guidate e laboratori didattici.
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Segni di storia: l’attività di documentazione e
di informazione scientifica dell’Istituto Centrale
per la Patologia del Libro
Armida Batori
li ultimi dieci anni hanno visto il Ministero per i beni e le attività culturali investito da una serie di riforme, legislative e strutturali, insieme ad un avvicendamento delle responsabilità dirigenziali, che hanno coinvolto anche l’Istituto per la
patologia del libro, passato dal vecchio Ufficio centrale per i beni librari al
Dipartimento per la ricerca, l’innovazione e l’organizzazione, insieme agli altri istituti che si occupano di conservazione e restauro del patrimonio.
Oggi un altro ancora più importante cambiamento si profila: la nascita imminente
di un Istituto superiore del restauro, che potrebbe incorporare gli istituti preesistenti, dando vita ad un unico polo di eccellenza per facilitare – si afferma – il dialogo, la collaborazione e l’ottimizzazione delle risorse.
In questi anni, pur nel mutare continuo delle ‘forme’, l’Istituto centrale per la patologia del libro ha continuato – e si augura di continuare – a svolgere il proprio
ruolo e a perseguire la propria missione, che è quella di affermare l’importanza
della conservazione e della prevenzione nella generale politica bibliotecaria, e di
praticare e diffondere, avvalendosi delle più avanzate metodologie scientifiche, il
restauro conservativo del libro. Certamente l’Istituto è stato penalizzato dal non
avere una scuola attiva, quale riferimento formativo e di metodo, a partire dal
1987, ma ora si sono create le condizioni perché l’attività formativa possa riprendere nell’ambito dell’applicazione dell’art. 29 del nuovo Codice per i beni culturali ed il paesaggio, che disciplina la formazione dei restauratori e prevede l’attivazione di Scuole di alta formazione presso tutti gli istituti centrali per il restauro
del Ministero.
A fronte di queste novità in Istituto si avverte la necessità di nuovi strumenti per
comunicare gli studi, le ricerche e le esperienze portate avanti nei diversi laboratori; strumenti destinati alla comunità dei bibliotecari e dei conservatori presenti
nelle nostre biblioteche, ai restauratori, agli studenti delle scuole di restauro e
conservazione e, in generale, al mondo della ricerca applicata al restauro.
Per soddisfare questa esigenza abbiamo pensato ad una nuova collana di
‘Quaderni’, inaugurata nel dicembre 2006: le attività di ricerca applicata al restauro troveranno qui uno spazio adeguato assieme alla necessaria documentazione
fotografica. In questi volumi si darà conto, soprattutto, di quei restauri che hanno
posto particolari problemi metodologici o per i quali abbiamo adottato soluzioni che consideriamo innovative. Nostro compito è infatti quello di riproporre casi
esemplari, offrendo percorsi che possono essere variamente seguiti nel vasto
mondo dei professionisti del restauro librario.
Con il medesimo obiettivo di diffusione dell’informazione scientifica e di valorizzazione dei materiali documentari prodotti e/o conservati dall’Istituto, sono stati
avviati anche altri progetti.
Con il progetto ‘Storia e documentazione del restauro librario’, si intende valorizzare e rendere fruibile in rete la documentazione prodotta dall’Istituto nel corso
della sua attività, come fonte per la ricostruzione della storia del restauro librario
in Italia dalla fondazione dell’Istituto ad oggi. I materiali individuati a questo scopo
sono l’archivio fotografico, contenente circa 8000 lastre e 27.000 diapositive, e le
riviste pubblicate dall’ICPL : il “Bollettino dell’Istituto di patologia del libro” (19391991); “CABnewsletter” (1992-2005) e “Quinio” (1999-2001). Per ciascuna delle
diverse tipologie di materiale, il progetto prevede un intervento di catalogazione
e di riproduzione digitale, finalizzato a garantire, oltre che la conservazione dei
documenti originali, l’accesso ai contenuti anche da parte di un’utenza remota.
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
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Contestualmente al trattamento delle fonti è stata avviata la ricerca storica che utilizzerà le fonti medesime e le integrerà con altri materiali di provenienza diversa
(pubblicazioni, testimonianze orali, archivi di biblioteche). Pertanto i prodotti
finali del progetto saranno la nuova versione del sito Internet dell’Istituto – concepita per rendere disponibile, oltre che le informazioni sulle attività in corso nell’ambito dell’ICPL, anche la documentazione pregressa – e la pubblicazione dei
risultati della ricerca sulla storia del restauro librario in Italia in un volume della collana ‘Quaderni’.
Infine, il progetto per l’indicizzazione e la digitalizzazione del ‘Corpus Chartarum
Italicarum’ ci consentirà di rendere pubblico un patrimonio di grande importanza
per gli storici della carta.
Si tratta infatti di una collezione di carte filigranate prodotte in Italia dal XIII al XX
secolo raccolta presso l’Istituto per la patologia del libro nella prima metà degli
anni Quaranta, probabilmente interrotta per l’inizio della seconda guerra mondiale e del tutto sconosciuta agli studiosi. Attraverso la digitalizzazione delle filigrane e la loro pubblicazione nel sito Internet dell’Istituto si intende fornire uno strumento inedito di ricerca sulla storia della carta. La ricerca delle filigrane potrà avvenire attraverso l’indicizzazione effettuata sulla base del repertorio del Briquet; le
immagini, realizzate per trasparenza, potranno essere misurate e confrontate tra
loro e saranno integrate dall’indicazione della loro posizione sul foglio e da una
serie di dati relativi alle caratteristiche della carta: grado di bianco, spessore, permeabilità all’aria e rugosità. Questa iniziativa dell’Istituto si svolge in contatto con
il gruppo di lavoro che – nell’ambito del Progetto Bernstein. The Memory of
Papers, collaborative systems for paper expertise and history, finanziato, da
settembre 2006 a febbraio 2009, dall’eContentplus Program dell’Unione Europea
– intende realizzare una infrastruttura digitale per la storia della carta sulla base
delle immagini che ne evidenziano le caratteristiche. Attualmente sono una trentina le banche dati di filigrane già disponibili in rete o in corso di realizzazione.
Una volta terminata questa prima fase – che vede l’Istituto impegnato su due fronti: la valorizzazione di un patrimonio fino ad oggi inutilizzato e la ricerca scientifica sulle caratteristiche della carta attraverso analisi strumentali rigorosamente non
distruttive – verranno digitalizzate e pubblicate in Internet anche le radiografie
delle filigrane individuate nei volumi manoscritti e a stampa del XV secolo analizzati nel corso della ricerca sulla Carta occidentale nel tardo medioevo (Roma,
2001) realizzata dall’Istituto con il contributo del Consiglio Nazionale delle
Ricerche, nell’ambito del Progetto Finalizzato Beni Culturali.
Iniziative come queste ci consentono, da un lato, di riconfermare la vocazione
scientifica dell’Istituto, impegnato in ricerche con tecnologie avanzate e con proposte di soluzioni innovative, e dall’altro di riaffermare che tale vocazione viene
da lontano, da quel 1938 in cui la lungimiranza e l’ardore pionieristico di Alfonso
Gallo portarono alla fondazione dell’Istituto e alla definizione di un modello che
ha ispirato la creazione di realtà analoghe attive anche in altri paesi.
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Microscopia elettronica a pressione variabile (SEM-VP)
e microanalisi (EDS) per la diagnostica,
la conservazione ed il restauro dei beni culturali
Flavia Pinzari
La carta è un sistema discontinuo ed eterogeneo costituito da fibre di cellulosa e da
altre sostanze che variano secondo i materiali di partenza, le tecniche di produzione e l’epoca di manifattura. L’analisi dell’interazione fra gli organismi responsabili del
deterioramento e gli elementi strutturali organici ed inorganici di cui sono costituiti i
beni cartacei, è fondamentale per la comprensione dei meccanismi d’azione e del
grado di alterazione dei diversi materiali. L’ICPL è attualmente impegnato, nell’ambito di una collaborazione con l’Istituto di Chimica Biomolecolare del CNR (Dr.ssa A.
De Mico) e l’Istituto Nazionale per la Grafica (Dr.ssa G. Pasquariello) nello studio di
un fenomeno singolare, già noto in letteratura per alcune specie fungine, ma mai
descritto prima su un substrato cartaceo. Si tratta della deposizione sulla carta, per
opera di un fungo filamentoso, di ossalato di calcio in diverse forme di idratazione
(Figure 1 e 2). Il fungo durante l’esperimento condotto in vitro su carte-modello ha
disciolto i materiali di carica della carta ed ha prodotto acido ossalico durate il suo
sviluppo. La conferma della natura dei cristalli osservati al SEM si è avuta sia per confronto cristallografico, che per mezzo di saggi colorimetrici utilizzati in patologia clinica nella rilevazione dei calcoli urinari a base di ossalato. I cristalli osservati hanno
forma bipiramidale (weddellite, CaC2O4(2+x)H2O, forma bi-idrata) o talvolta di
drusa formata da elementi monoclini (whewellite, CaC2O4H2O, forma mono-idrata).
Il fenomeno è stato più evidente nei campioni incubati al 100% di umidità relativa e
quindi in corrispondenza di una maggiore crescita del micelio. Eliminando con
opportuni lavaggi il micelio dalla carta è stato anche possibile verificare come i cristalli di ossalato ottenuti siano aderenti alle fibre di cellulosa e che le loro dimensioni risultino maggiori nel punto centrale di sviluppo del fungo e minori nell’area periferica della colonia fungina (Figura 3). I campioni di carta sono stati osservati ed analizzati per mezzo di un microscopio elettronico a scansione accoppiato con una
sonda elettronica per microanalisi (EDS) modello ZEISS LEO con la supervisione
della Dr.ssa Daniela Ferro dell’Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati del
CNR di Roma. Grazie alla tecnologia che permette l’esame al SEM di campioni in
condizioni di basso vuoto, è stato possibile eseguire l’osservazione del materiale
senza la consueta preparazione per metallizzazione. Sono pertanto stati esaminati i
campioni in vivo e descritte le interazioni fra le fibre della carta, i materiali di carica
e le ife fungine in assenza di artefatti dovuti al fissaggio della componente organica.
Lo strumento
Il microscopio elettronico a scansione (SEM) è uno strumento basato sull’interazione di un fascio di elettroni con il campione in esame, che permette di rilevare l’anatomia microscopica delle superfici di campioni organici od inorganici con un elevato potere di risoluzione, permettendo di rilevare particolari fino a pochi
Amstrong. Anche se l’interazione con gli elettroni esige che i campioni siano conduttori, oggi esistono strumenti che operano con una nuova tecnologia dove la
camera in cui viene posto il campione è in basso vuoto (10-750 Pascal) ed i campioni possono essere osservati senza essere prima fissati e metallizzati. In modalità di pressione variabile (VP), il SEM permette di ottenere utili informazioni su materiali di natura diversa senza che essi vengano alterati né da pretrattamenti né da
stress meccanici. Le osservazioni analitiche SEM si ricavano dai segnali rilevati da
opportuni detector che sono di diverso tipo a seconda delle differenti risposte del
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
L’impegno dell’ICPL nella microscopia elettronica a
pressione variabile: un esempio di studio
Laboratorio di Biologia
dell’Istituto centrale per la
patologia del libro
Fra i relatori
Maria Cristina Berardi,
Marina Bicchieri, Valeria Berdini,
Antonella De Mico,
Daniela Ferro, Giulia Galotta,
Maria Rita Giuliani,
Giuseppe Guida, Mariasanta
Montanari, Michela Monti,
Giovanna Pasquariello,
Giovanna Piantanida,
Flavia Pinzari, Ida Anna Rapinesi,
Luciano Residori,
Giancarlo Sidoti, Armida Sodo,
Elisabetta Tondo,
Fabio Talarico, Yeghis Keheyan
Istituto organizzatore
Istituto centrale
per la Patologia del Libro
Coordinamento scientifico
Flavia Pinzari
Istituti partecipanti
Centro Nazionale
delle Ricerche (CNR),
Istituto di Chimica
Biomolecolare,
Istituto per i Materiali
Nanostrutturati,
Centro di Fotoriproduzione,
Legatoria e Restauro
degli Archivi di Stato,
Istituto Centrale per il Restauro,
Istituto Nazionale per la Grafica,
Soprintendenza
Archeologica di Roma
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ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
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campione all’eccitazione elettronica del fascio. I rivelatori di elettroni secondari
(SE) e rivelatori per elettroni “retrodiffusi” (BSD, backscattered electron detector)
permettono di ricostruire un’immagine dell’area scansionata dal pennello elettronico, basata sia sulla tipografia della superficie sia sul numero atomico degli elementi chimici in esso presenti. Ciò rappresenta un avanzamento notevole per l’osservazione della superficie di molti materiali di interesse per i beni culturali. Sempre
sfruttando l’interazione elettrone/materia e raccogliendo i segnali delle emissioni
dei raggi X in energia è possibile accoppiare alle osservazioni in microscopia per
immagini, la microanalisi (EDS) che permette di conoscere la composizione chimica elementare di quanto visualizzato con il SEM.
Il Convegno al Salone di Ferrara
Nell’ambito del Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni
Culturali ed Ambientali di Ferrara, XIV edizione il 24 marzo 2007 nella Sala Marfisa
(ore 9.30-13.00) l’Istituto Centrale per la Patologia del Libro organizza un Convegno
dal titolo: Microscopia elettronica a pressione variabile (SEM-VP) e microanalisi
(EDS) per la diagnostica, la conservazione ed il restauro dei beni culturali.
Nel corso del convegno saranno esposti alcuni casi-studio sulla diagnostica, la conservazione ed il restauro di beni culturali costituiti da differenti materiali, sia organici che inorganici, accomunati tutti dall’essere stati realizzati per mezzo delle nuove
tecniche di microscopia elettronica ed analisi elementare. Studiosi dei diversi settori delle scienze applicate ai beni culturali porteranno esempi di applicazioni di questa strumentazione innovativa e sempre più versatile che permette agli esperti di
risolvere quesiti complessi e di accrescere le conoscenze su carta, tessuti, pergamena, metalli, legni, materiali lapidei, o sui microrganismi che li aggrediscono, deteriorandoli. Parteciperanno esperti di enti ed istituti che si occupano di studi sui beni
culturali e di diagnostica avanzata su materiali di interesse storico-artistico.
Fig. 1 - Osservazione al SEM del campione di carta con
PH neutro e carica a base di carbonato di calcio,
inoculato con Aspergillus terreus. Il campione è stato
osservato senza preparazione per metallizzazione.
È possibile notare i cristalli bipiramidali dell’ossalato
di calcio.
Fig. 3 - Osservazione al SEM, a basso ingrandimento
(128x) del campione di carta con carica a base di
carbonato di calcio, inoculato con Aspergillus terreus ed
incubato al 100% di umidità relativa. Il campione è stato
osservato, dopo l’eliminazione per lavaggio a tampone
delle strutture fungine, senza preparazione per
metallizzazione.
È possibile notare una differente distribuzione e
dimensione dei cristalli di ossalato di calcio nelle zone a
destra ed a sinistra dellimmagine.
Fig. 2 - Osservazione al SEM del campione di carta con
PH neutro e carica a base di carbonato di calcio,
inoculato con Aspergillus terreus. Il campione è stato
osservato senza preparazione per metallizzazione.
È possibile notare i cristalli a drusa dell’ossalato di calcio.
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Le Filigrane e la storia
Il Corpus Chartarum Italicarum
Paola F. Munafò
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
P
resso l’Istituto centrale per la patologia del libro si svolgono ricerche sulla carta utilizzata come supporto dei beni culturali.
Si hanno notizie di studi svolti in questo settore sin dalla fondazione dell’Istituto, nel
1938. In particolare negli articoli di Luciano Moricca sulla collezione Zonghi e in un
articolo sulla collezione Amori di Elena Moneti pubblicati sul «Bollettino del R.
Istituto di Patologia del Libro» all’inizio degli anni Quaranta si fa riferimento ad una
collezione di carte filigranate per molto tempo ignorata dagli studiosi.
Moricca afferma che l’Istituto «va raccogliendo antiche carte italiane di ogni luogo e
ha in animo di pubblicare un Corpus chartarum italicarum, affidandone a me la
cura», Elena Moneti – descrivendo la collezione acquistata dall’Istituto presso il libraio antiquario Pio Amori – nota che «in quattro grandi scatole sono conservate circa
duemilacinquecento carte filigranate, a cominciare dal sec. XIII, divise per simboli,
per città, per nomi di cartai: di tutte le filigrane sono stati presi i lucidi, che sono divisi nello stesso ordine delle carte, e recano un numero di riferimento all’originale.
L’appassionato collezionista ha inoltre trascritto dal Lexicon typographicum del
Fumagalli e da altre pubblicazioni molte notizie concernenti le cartiere italiane, i cartai, le filigrane e la carta, completandole con note bibliografiche: questi appunti sono
ordinati alfabeticamente per città, per nomi di cartai ecc. e conservati insieme ad
alcune pubblicazioni di piccola mole sugli stessi argomenti.»
Di quelle carte si sono perse le tracce fino a quando, qualche tempo fa, nel corso
della revisione della biblioteca preliminare ai lavori di ristrutturazione attualmente in
corso, sono stati rintracciati 35 faldoni contenenti circa 5000 carte filigranate ordinate in singole cartelline sulle quali è stampata l’indicazione Corpus chartarum italicarum. I fogli sembrano tutti prodotti in Italia, tra il XIII e il XX secolo: un arco temporale che rende questa collezione una miniera di informazioni unica e di eccezionale
interesse per ricercatori e conservatori.
Si tratta evidentemente del materiale raccolto da Luciano Moricca. Attraverso il controllo dei documenti dell’archivio storico dell’Istituto e l’analisi approfondita dei faldoni sarà possibile definire meglio la consistenza della raccolta e spiegare quali siano
state (oltre all’acquisto della collezione Amori) le modalità e le fonti di approvvigionamento di Moricca. Forse sarà anche possibile far luce sulle cause che, al tempo del
secondo conflitto mondiale, determinarono l’abbandono dell’attività di raccolta e
l’accantonamento di tutto il materiale.
Servizio per la didattica
dell’Istituto Centrale
per la Patologia del Libro
Il programma degli interventi
Il progetto prevede la ricerca della documentazione relativa al Corpus (e alla collezione Amori di cui è parte integrante) nell’archivio storico dell’Istituto.
Considerato che lo stato di conservazione delle carte è complessivamente buono, gli
interventi conservativi sono limitati alla pulizia della superficie delle carte e alla
sostituzione delle cartelline originali. Sulle nuove camicie, realizzate in materiali idonei alla conservazione, vengono riprodotte tutte le annotazioni di Luciano Moricca.
Nell’ambito della ricerca viene effettuato il riconoscimento della filigrana con la definizione del soggetto (gruppo e sottogruppo) e la sua individuazione sui repertori di
riferimento.
Per ogni carta vengono inoltre effettuate misure strumentali relative allo spessore, alla
permeabilità, alla rugosità e al grado di bianco. Per le prime tre si utilizza il
Multipurpose Paper Tester e per l’ultima un Croma Meter della Minolta.
Infine viene effettuata la riproduzione digitale in trasparenza delle filigrane e viene
predisposto l’accesso on-line alle immagini e alle informazioni della banca dati.
Una carta filigranata
appartenente al Corpus
Chartarum Italicarum conservato
presso l’ Istituto centrale per la
patologia del libro
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La nuova collana dell’ICPL: Quaderni
Carla Casetti Brach
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
N
Laboratorio
per la Conservazione
e il Restauro dell’Istituto
Centrale per la Patologia
del Libro
el mese di dicembre 2006 è uscito il primo numero della nuova collana
“Quaderni” pubblicata da Gangemi. Il volume Libri & carte. Restauri e analisi diagnostiche contiene la descrizione di sei interventi di restauro effettuati negli
ultimi anni presso il Laboratorio per la conservazione e il restauro dell’Istituto centrale per la patologia del libro.
La collana vuole essere lo strumento attraverso il quale l’Istituto darà conto soprattutto di quei restauri che hanno posto particolari problemi metodologici, o per i
quali sono state adottate soluzioni che possono essere considerate innovative, e
dei risultati di ricerche scientifiche svolte presso i suoi Laboratori.
In questo primo “Quaderno” si presenta una serie di interventi realizzati secondo
una tipologia estremamente diversificata: si va da un manoscritto del XIII secolo, il
registro notarile di Parente di Stupio, su carta di origine spagnola presentante il
segno dello zigzag, al Pontificale 492 del Museo Diocesano di Salerno, codice
membranaceo miniato del XIII-XIV secolo, da La prima regina d’Italia, rara edizione del 1901 ad un manifesto di Duilio Cambellotti, fino alla Chinea di papa
Clemente VIII del 1598 e all’incisione Prospetto dell’alma città di Roma di
Giuseppe Agostino Vasi. Le descrizioni degli interventi di restauro sono corredate dai risultati delle indagini non distruttive condotte sui materiali da trattare al fine
anche di individuare, con campioni simulati e invecchiamenti accelerati, i prodotti più idonei da usare per il restauro.
Il fine ultimo che ha guidato il Laboratorio in ogni operazione di restauro è stato
quello di raggiungere l’ambizioso scopo di riunire insieme più finalità: salvare dal
degrado un’opera, ottenere un risultato che non disturbasse il senso estetico e
garantire una conservazione futura, il tutto nel rispetto delle caratteristiche dell’opera.
Attualmente è in preparazione un successivo volume dedicato alla storia del
restauro librario in Italia a partire dal 1938, anno di fondazione dell’Istituto di patologia del libro per iniziativa di Alfonso Gallo. Alla luce dei cambiamenti che si
prospettano nell’organizzazione del MIBAC, in particolare relativamente agli istituti che si occupano di conservazione e restauro del patrimonio, questo lavoro si
propone di offrire un utile strumento per capire le trasformazioni che hanno riguardato questo settore nel corso del tempo.
Il progetto, attraverso lo spoglio dell’Archivio e delle varie pubblicazioni
dell’Istituto, e mediante la raccolta di testimonianze degli “addetti ai lavori”, intende ricostruire l’attività dell’ICPL e l’evoluzione della teoria e della prassi del restauro librario.
Il primo volume della collana “Quaderni” dell’ICPL
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Il Restauro librario: una storia per immagini
Rita Carrarini
biettivi generali del progetto sono il recupero e la valorizzazione dei materiali
documentari prodotti dall’Istituto nel corso della sua attività, come fonti per la
storia del restauro librario in Italia.
I materiali individuati a questo scopo sono:
- L’archivio del Laboratorio per la conservazione e il restauro dell’ICPL, all’interno del
quale è raccolta la documentazione scritta relativa agli interventi di restauro effettuati;
- L’archivio fotografico, che contiene circa 8000 lastre e 27.000 diapositive relative ai
medesimi interventi e, più in generale, alle attività didattiche e di ricerca sviluppate dall’Istituto a partire dalla sua fondazione; Le riviste specializzate pubblicate
dall’ICPL: “Bollettino dell’Istituto di patologia del libro” (1939-1991);
- “CABnewsletter” (1992-2005); “Quinio” (1999-2001).
Per ciascuna delle tre diverse tipologie di materiale, il progetto prevede diversi tipi
di trattamento, finalizzati a garantire, oltre che la conservazione dei documenti originali, l’accesso ai contenuti anche da parte di un’utenza remota. Sarà realizzata pertanto una base dati degli interventi di restauro; le lastre e le diapositive saranno catalogate e riprodotte in formato digitale, così come i saggi e le ricerche contenuti all’interno delle pubblicazioni periodiche.
Per ogni documento digitalizzato saranno prodotte tre immagini:
- la prima (master) sarà destinata esclusivamente alla conservazione effettuata su supporti fuori linea dedicati; la digitalizzazione avverrà ad alta risoluzione (TIFF 6.0 non compresso con risoluzione tra i 1.000 ed i 5.000 ppi - profondità di colore di 24 bit RGB);
- la seconda sarà destinata alla consultazione locale; la digitalizzazione avverrà a
risoluzione medio-alta (JPEG compresso con risoluzione tra i 300 ed i 600 ppi profondità di colore di 24 bit RGB);
- la terza sarà destinata alla consultazione Web; la digitalizzazione avverrà a risoluzione medio-bassa (JPEG compresso con risoluzione tra i 70 ed i 300 ppi - profondità di colore di 24 bit RGB).
La piattaforma applicativa di Enterprise Document Management utilizzata è Galileo,
particolarmente indicata per progetti di questo tipo in cui si richieda un’ampia ed
articolata catalogazione di grandi volumi di documenti.
Il prodotto finale del progetto sarà un portale per la fruizione integrata degli archivi
digitali realizzati, che garantirà l’accesso tramite browser HTML standard e consentirà la profilazione degli utenti, la navigazione nei contenuti, la ricerca e la visualizzazione di dati ed immagini. Nella prima fase del progetto sono stati definiti i modelli
delle schede catalografiche e il thesaurus per l’indicizzazione semantica dei documenti ed è in corso l’analisi di dettaglio per lo sviluppo della piattaforma software. Il
progetto avrà una durata di due anni e il suo completamento nel 2008, in coincidenza con il 70° anniversario della fondazione dell’Istituto centrale per la patologia del
libro, consentirà agli operatori del settore e a quanti seguono un percorso formativo
e di ricerca in questo campo, di disporre di uno strumento innovativo per approfondire la riflessione sull’evoluzione della teoria e della prassi del restauro librario in Italia.
Alfonso Gallo nel 1940
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
O
Servizio
per la documentazione e
l’informazione scientifica
dell’Istituto Centrale
per la Patologia del Libro
Per la realizzazione
del progetto
collaborano con l’ICPL:
SIAV s.p.a.
COPAT soc. coop.
REGESTA EXE s.r.l.
Il laboratorio di restauro dell’Istituto negli anni ’40
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Intervento di restauro sul cod. 28
della Biblioteca Aurelio Saffi di Forlì
Carla Casetti Brach
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
I
l codice 28 della Biblioteca Saffi di Forlì fa parte di un gruppo di trentasei corali, databili tra il XIV e XV secolo, che si conservano nel fondo manoscritto forlivese, di cui ventuno miniati. La maggior parte dei codici non si trovava in buono
stato di conservazione, e fu deciso di affrontare il loro restauro e di affidarlo
all’Istituto centrale per la patologia del libro. Furono scelti due codici con l’intenzione di offrire un esempio di restauro, un’indicazione metodologica che si
potesse poi applicare anche ad altri manoscritti in simile stato di conservazione.
Qui viene illustrato il restauro del cod. 28, più complesso e articolato rispetto al
restauro dell’altro codice scelto, il cod. 25. I danni riguardavano sia la legatura,
quindi coperta e cucitura, sia le carte membranacee. Il manoscritto aveva subito
precedenti interventi di restauro, alcuni dei quali, come ad esempio l’inserimento
di due bande di ferro lungo entrambi i piatti, e l’aggiunta, nel corso del tempo, di
numerosi chiodi avevano causato danni alla struttura. Ma anche l’uso a cui il codice era destinato e un ambiente di conservazione non idoneo lo avevano danneggiato. Il restauro è stato eseguito senza smontaggio del volume, si può quindi definire un restauro “non invasivo”. Il restauro delle carte membranacee, dei piatti e
l’inserimento a intarsio del nuovo dorso è avvenuto dunque a libro cucito. Tutte le
parti non reinserite nel volume sono state conservate in un apposito contenitore
dando loro la stessa posizione che avevano nel volume. Si è cercato dunque di
eseguire un restauro che alterasse solo in minima misura le componenti del manoscritto medievale e anche la scelta dei materiali utilizzati, colle, cuoio, fili e altro,
è stata fatta in un’ottica di rispetto dell’antico manufatto.
Laboratorio
per la Conservazione
e il Restauro dell’Istituto
Centrale per la Patologia
del Libro
L’ Antifonario dopo il restauro
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L’intervento di restauro sul manoscritto Ott. lat. 696
della Biblioteca Apostolica Vaticana
Federico Botti e Maria Luisa Riccardi
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
S
empre più spesso ci si trova ad affrontare il problema del restauro di volumi già
restaurati in modo sbagliato, poco accurato. Oppure, si tratta di intervenire
nuovamente su restauri invecchiati male e precocemente, a volte persino non
necessari. Il caso del manoscritto Ott. lat. 696 della Biblioteca Apostolica Vaticana
è rappresentativo di un precedente restauro molto invasivo che ha lasciato in eredità pesanti conseguenze.
Si è a conoscenza che sono numerose le opere in analoghe condizioni e ci si
rende conto che per “sanare” i danni dovuti a restauri sbagliati ci vuole molto
tempo. Non si può perciò non ricordare a tutti i restauratori quanto sia doveroso
intervenire con tecniche e soprattutto materiali testati e reversibili (specialmente
gli adesivi), per evitare di lasciare, ai futuri conservatori, eredità tanto pesanti e
difficili da gestire.
La fragilità meccanica delle carte e le alterazioni cromatiche dovute sia all’acidità
degli inchiostri, sia all’imbrunimento delle velature eseguite nel XIX secolo, rendevano indispensabile l’intervento di restauro qui descritto.
Esso aveva come obiettivo l’eliminazione delle velature ingiallite e conseguentemente l’opportunità di ridurre quanto più possibile la rigidità delle carte già considerevolmente frantumate, in modo da rendere di nuovo possibile la lettura del
testo e l’uso del volume.
Nell’affrontare il nuovo restauro bisognava dunque tener conto della situazione
prodotta dall’intervento di velatura condotto precedentemente, che aveva interessato entrambi i lati di tutte le carte, rendendo assai più complesso, elaborato e
lungo l’intervento.
Ott. Lat. 696: le carte dopo il restauro
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La pianta prospettica di Venezia di Jacopo de’ Barbari
Maria Speranza Storace
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
L’
opera, una xilografia (1320 x 2750 mm) del 1500 appartenente alla Fondazione
Scientifica Querini Stampalia (Venezia), si trovava in uno stato di conservazione pessimo: era infatti stata divisa durante un precedente restauro e i sei pannelli
originali, foderati con carta pesante, erano stati accostati l’uno all’altro e tenuti
insieme dalla tela di foderatura. La carta originale risultava in molti punti fragilissima e pulverolenta con un diffuso e disomogeoneo imbrunimento che alterava la
leggibilità dell’immagine. Erano presenti, inoltre, numerosi sollevamenti, lacune,
lacerazioni ed erosioni di insetti. L’opera presentava numerose integrazioni in carta
con ritocchi a inchiostro per riprodurre il segno dell’inciso originale.
L’intervento di restauro ha previsto una fase di studio dello stato di conservazione
dell’opera mediante una documentazione grafica e fotografica, la misurazione del
pH, l’identificazione della composizione fibrosa della fodera in carta, della tela e
del tipo di adesivo impiegato per l’applicazione del tessuto di supporto. Si è poi
proceduto allo smontaggio dell’opera dal telaio, alla pulitura a secco del recto e
del verso delle aree in miglior stato di conservazione, al fissaggio dei frammenti e
delle aree sollevate o pulverulente, al distacco a secco delle singole sezioni dalla
tela di foderatura, nonché alla rimozione dell’adesivo mediante impacchi di metilcellulosa. Si è poi proceduto al lavaggio su tavolo a bassa pressione, alla deacidificazione alcolica con propionato di calcio ed al consolidamento delle singole
sezioni mediante l’applicazione a pennello di metilcellulosa in soluzione acquosa al 2%. Al termine del restauro, l’opera è stata collocata su un pannello di cartone alveolare durevole per la conservazione, al quale le sei sezioni dell’opera sono
state fissate per mezzo di falsi margini a bandiera in carta giapponese.
Laboratorio
per la Conservazione
e il Restauro dell’Istituto
Centrale per la Patologia
del Libro
La Pianta di Venezia dopo il restauro
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Il mistero delle Repentite: recupero di due documenti
rinvenuti nella sepoltura della Madre Badessa
nel “Convento delle Repentite” di Palermo
Mariasanta Montanari
ella cripta del Convento di Santa Maria la Grazia di Palermo, noto come
“Convento delle Repentite, è stata rinvenuta la sepoltura della Madre Badessa,
la Reverenda Madre Santa Ignazia di Gesù, vissuta dal 1706 al 1782. All’interno del
sepolcro insieme ai resti della Badessa erano presenti due ampolle di vetro contenenti due documenti, attualmente in corso di restauro presso l’ICPL.
Una volta tolti i tappi, le due carte arrotolate sono state tirate fuori sotto cappa con
la massima cautela ad evitare lacerazioni dei reperti. Con l’ausilio di un microvaporizzatore le carte sono state srotolate e si è proceduto ad effettuare una prima
spolveratura meccanica utilizzando pennelli morbidi: in tal modo si è potuto
costatare la scarsa leggibilità dei due documenti in luce visibile. Ciò ha è reso
necessario l’utilizzo di un sistema di rivelazione tramite fotografia multispettrale
che ha fatto aumentare in modo considerevole il contrasto fra inchiostri e supporto, migliorando sensibilmente la leggibilità delle carte.
Piccoli frammenti di carta provenienti dai margini dei fogli arrotolati sono stati analizzati con un microscopio elettronico a scansione EVO 50 XVP, Carl-Zeiss
Electron Microscopy Group ed una sonda elettronica per microanalisi (EDS) Inca
250 (Oxford).
Sono attualmente in corso ulteriori analisi per accertare l’impasto fibroso delle
carte, il loro pH e la presenza di gruppi carbonilici nella carta. I reperti saranno
inoltre sottoposti a spettroscopia RAMAN ed a spettrometria XRF che consentiranno una migliore connotazione dei materiali e daranno ulteriori informazioni sulle
alterazioni molecolari dovute a deterioramento consentendo quindi una scelta
più mirata dei trattamenti di restauro da eseguire.
Il restauro finale comporterà un eventuale trattamento di deacidificazione alcolica
o di riduzione in funzione del risultato delle analisi chimiche, il risarcimento delle
lacune e lo spianamento delle carte. I reperti saranno poi montati su passe-partout
di cartone non acido idoneo alla conservazione.
ICPL
Istituto Centrale per la Patologia del Libro
N
Laboratorio di Biologia
dell’Istituto Centrale per la
Patologia del Libro
Laboratorio Biologia
M. Montanari, F. Pinzari
Laboratorio Chimica
M. Bicchieri, M. Monti,
G. Piantanida, A. Sodo
Laboratorio Conservazione
e Restauro
F. Botti, M. L. Riccardi
Servizio di riproduzione
e diagnostica avanzata
M. Missori
Come si presentavano le boccette all'apertura del sepolcro della Badessa
Università di Palermo
Dipartimento di Biopatologia
e Metodologie biomediche
Direttore
A. Salerno
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Descrizione attività
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
Anno di fondazione 1939
Direttore
Caterina Bon Valsassina
Coordinatore
Donatella Cavezzali
Piazza San Francesco
di Paola, 9
00184 Roma
tel. 06 48896200-48896300
fax 06 4815704
[email protected]
www.icr.beniculturali.it
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L’Istituto Centrale per il Restauro è stato fondato nel 1939 da Cesare Brandi per
rispondere all’esigenza di impostare l’attività di restauro su basi scientifiche e di
unificare le metodologie di intervento sulle opere d’arte e i reperti archeologici.
Come organo tecnico-scientifico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali l’ICR
svolge attività di indirizzo in materia di interventi conservativi e di restauro, promuove e svolge la ricerca scientifica sui processi di deterioramento e sulle metodologie d’intervento, espleta attività di formazione di restauratori di beni culturali, realizza interventi di restauro di particolare complessità su opere di grande
valore, esercita funzioni di consulenza scientifica e tecnica agli organi periferici
del Ministero e agli uffici degli Enti locali competenti in materia di conservazione
e restauro.
Realizzazioni
L’ICR svolge un’attività istituzionale nel campo della tutela, della conservazione e
della formazione nel settore del restauro e della conservazione del patrimonio
culturale in Italia e all’estero; definisce metodologie unificate per la conduzione di
corretti interventi di restauro, documentazione, diagnostica, ricerca scientifica e
tecnologica applicata alla conservazione dei beni culturali; partecipa alla predisposizione di provvedimenti legislativi riguardanti il settore degli appalti di lavori
pubblici sui beni culturali, della formazione dei restauratori e dei loro profili professionali; ha realizzato il Sistema Informativo Territoriale denominato “Carta del
Rischio del patrimonio culturale” per la gestione dei dati tecnici sui fattori di
degrado dei beni culturali; ha inoltre realizzato innumerevoli interventi di studio e
restauro di opere d’arte di preminente valore nazionale e mondiale quali gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e della Cappella Scrovegni a Padova, il
Cenacolo vinciano, la Torre di Pisa, il Satiro Danzante di Mazara del Vallo; ha formato dal 1944 ad oggi molte generazioni di restauratori nelle diverse tipologie di
beni, riconosciuti tra i migliori operatori del settore; adotta programma di aggiornamento per i funzionari tecnico-scientifici del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali e degli enti locali; svolge attività di restauro e consulenza all’estero, su
richiesta di nazioni europee e di altri Paesi del mondo come la Cina, Malta, Egitto,
Giordania, India, Nepal, Iraq, Afghanistan, Siria, Turchia, Argentina, Algeria,
Kosovo. Partecipazione a RESTAURO: 2004, 2005, 2006, 2007
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L’immagine e la sua materia – La scheda ambientale
Caterina Bon Valsassina
opera d’arte, i manufatti artistici invecchiano e con il trascorrere degli anni si
verificano assestamenti, intervengono processi di deterioramento dei materiali che li costituiscono, sia in rapporto alle condizioni ambientali, sia alle modalità di utilizzo.
Il museo, è bene ricordare, tra le sue diverse funzioni, conserva le collezioni, gli
oggetti, sia sotto il profilo spaziale ma anche e soprattutto temporale, cioè a dire
in una dimensione interna del circuito museo, come avviene nel caso di mostre,
depositi a lungo termine, e una dimensione esterna legata prevalentemente alla
durata nel tempo dei materiali, preservandoli fisicamente.
Presupposto della conservazione sono le misure preventive che riguardano le
condizioni ambientali, i sistemi, i materiali usati per esporre le opere od immagazzinarle e infine le modalità con le quali vengono svolte operazioni che possono
provocare danni, come l’imballaggio e il trasporto.
Occorre però valutare il loro stato attuale di conservazione, utilizzando strumenti
adeguati per stabilire un confronto, da una parte tra una condizione che si suppone come originaria, e dall’altra lo stato odierno degli oggetti, in rapporto non
solo ai fattori ineludibili, ma anche a fattori oggettivi, relativi alle caratteristiche dell’ambiente.
Si pone dunque il problema del controllo dei parametri ambientali (microclima,
inquinanti chimici e biologici, eec.), in ambienti espositivi (sale, vetrine, teche,
contenitori chiusi), il cui rilevamento è fondamentale ai fini della salvaguardia
delle opere.
Il sempre maggiore interesse del pubblico verso le proposte culturali dei musei
hanno portato a valutare con maggiore attenzione il problema della conservazione delle collezioni museali anche al fine di limitare gli interventi di restauro. Va
tenuto inoltre presente l’incremento dell’inquinamento atmosferico a cui si è assistito nel secolo scorso e che ancora rappresenta un problema di grande attualità,
anche per ambienti confinati.
A questo proposito l’Atto di Indirizzo sui criteri tecnico scientifici e sugli standard
di funzionamento e sviluppo dei musei (art.150, comma 6, D.L. 112/1998) nella
sezione ambito VI, sottoambito 1, paragrafo 2, definisce in particolare i parametri
ambientali importanti ai fini della conservazione delle opere d’arte: microclima,
livelli di illuminazione, qualità dell’aria.
Il controllo ambientale diviene tanto più importante quanto più le opere d’arte
sono costituite da materiali compositi e sensibili che necessitano di condizioni
ambientali stabili.
Programmare in maniera corretta il controllo ambientale in ambito museotecnico,
significa anche porsi il problema della conservazione di tutto ciò che non vediamo
nelle sale espositive, cioè quel patrimonio di opere e oggetti del museo che si trovano nei depositi, che rappresentano una componente di fondamentale importanza nel progetto generale del museo. Di conseguenza anche nel caso di depositi
devono essere predisposti piani di controllo periodico dello stato di conservazione dei manufatti, di verifica della funzionalità degli impianti di climatizzazione e di
programmazione degli interventi di manutenzione.
La registrazione dei dati può essere eseguita installando negli ambienti degli strumenti fissi e utilizzando la Scheda Ambientale, che evidenzia alcuni parametri
fondamentali di rilevazione, in rapporto al tipo di materiale o di materiali da cui
l’oggetto è costituito.
La scheda ambientale oltre ad avere un ruolo importante nella conservazione preventiva, che tende a mitigare l’inevitabile deterioramento cui gli oggetti sono sot-
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
L’
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toposti e a contenerne i danni, è uno strumento di lavoro pratico nell’ottica della
gestione del museo, sia quando si tratti di rinnovare il museo, ma anche di programmare lo spostamento delle opere, ed inoltre consente di utilizzare personale interno al museo, appositamente formato, ottimizzando le disponibilità economiche.
La scheda ambientale è stata ideata da una équipe tecnico scientifica dell’Istituto
Centrale per il Restauro sulla base dell’esperienza maturata durante la realizzazione del progetto di manutenzione e controllo della Galleria Doria Phamphilj a Roma
ed è stato in seguito sottoposto a verifiche e modifiche nell’ambito di studi e progetti presso diverse istituzioni museali.
La scheda si inserisce nell’ambito della Carta del Rischio e di questa costituisce un
passaggio ulteriore, considerando non più l’edificio Museo nel suo complesso ma
il suo interno.
La scheda ambientale è stata elaborata, con particolare attenzione, da un’équipe
di funzionari tecnico scientifici, Dott.ssa Elisabetta Giani, Dott.ssa Annamaria
Giovagnoli, Dott.ssa Maria Pia Nugari, Dott.ssa Elena Rusconi, Dott.ssa Livia Gordini.
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Arte contemporanea in Italia: quale salvaguardia?
L’attività di conservazione e restauro dei manufatti “artistici” contemporanei non
aveva riscosso fino ad anni recentissimi, nel nostro Paese, quell’interesse che invece da qualche decennio suscitavano nella gente le notizie di interventi su manufatti artistici precontemporanei.
Ciò rifletteva la situazione odierna di quasi marginalità dell’attività “artistica” rispetto alla più generale attività culturale, ma anche la convinzione che i manufatti “artistici” contemporanei, in quanto “nuovi”, non avessero bisogno di interventi di
controllo, manutenzione, conservazione, restauro.
L’infondatezza di tale convinzione veniva dimostrata da casi sempre più numerosi, ma erano ancora troppo rare le occasioni in cui simili informazioni potevano
essere scambiate o, comunque, fatte circolare: tanto che le iniziative di rilievo si
potevano contare sulle dita di una mano.
La pubblicizzazione degli interventi di conservazione e restauro, o anche di semplice manutenzione, dei manufatti artistici contemporanei diventava pertanto
ancora più importante e necessaria di quella riguardante le opere d’arte precontemporanee.
In primo luogo perché ciò avrebbe contribuito a porre le basi di una casistica che
sarebbe risultata certamente più preziosa di quella ormai consolidatasi negli interventi relativi ai manufatti precontemporanei, e poi perché avrebbe consentito di
valutarne la rispondenza ai principi metodologici riconosciuti validi per il restauro delle opere d’arte ed in particolare di dare risposte concrete (cioè verificate
nella risoluzione di concreti problemi operativi) al dilemma teorico della applicabilità o meno della teoria del restauro delle opere d’arte (nei termini formulati da
Cesare Brandi e nelle modalità di attuazione presso l’Istituto Centrale del Restauro)
ai manufatti artistici contemporanei.
In questo ultimissimo periodo si è però cominciato a verificare una vera e propria inversione di tendenza, come stanno a dimostrare svariate iniziative, sia
della Amministrazione statale di tutela (istituzione della DARC, Direzione
Generale per l’architettura e l’arte contemporanea, creazione di una sezione per
il contemporaneo presso la scuola dell’Istituto Centrale del Restauro, intensificazione dell’attività del Laboratorio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna) che
di altre istituzioni pubbliche quali Regioni, Comuni, Università, Musei nonché di
privati, sotto forma di interventi di recupero, conservazione e restauro, di manifestazioni culturali, di attività formative, di pubblicazioni.
L’Associazione Amici di Cesare Brandi, in collaborazione con la DARC, l’ICR, la
GNAM e l’Istituto Beni culturali della Regione Emilia-Romagna, vuole tentare di fare
un primo punto della situazione nell’Incontro di studio Arte contemporanea in
Italia: quale salvaguardia?, il 25 marzo 2007 dalle ore 9.30 alle 13.30 presso la
Sala Castello (1 piano).
Allo scopo sono stati invitati rappresentanti delle realtà più direttamente coinvolte nella gestione e nella salvaguardia dell’arte contemporanea, sia a livello di professionalità (restauratori, artisti, esperti scientifici, filosofi, giuristi, trasportatori,
assicuratori, etc.) che di responsabilità ai vari livelli: non solo in quanto proprietari o detentori a qualsiasi titolo delle opere, ma anche in qualità di titolari dell’attività di tutela, di formazione, di fruizione e, più generalmente, di valorizzazione.
Si tratterà di una rassegna necessariamente (per quello che si è detto prima)
incompleta e parziale ma che avrà raggiunto il suo scopo se sarà servita a sollecitare e agevolare lo scambio di esperienze e soprattutto a enucleare ed evidenziare i problemi più grossi ed urgenti in funzione della migliore conservazione e protezione delle opere d’arte create nei nostri giorni – senza con ciò volere rinuncia-
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Istituto Centrale per il Restauro
Giuseppe Basile
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re all’auspicio che questo appuntamento possa ripetersi negli anni a venire, diventando in tal modo una sorta di osservatorio su ciò che accade nel nostro Paese in
direzione della protezione e della salvaguardia dell’arte contemporanea.
Gibellina Nuova, Piazza del Municipio:
Sculture di Pietro Consagra prima del
restauro
Ruderi di Gibellina Vecchia: Particolare
del Cretto di Alberto Burri attaccato
dalle erbacce
Brufa (Perugia): Arc-en-ciel di Carlo
Lorenzetti, in acciaio cor-ten per
resistere alle intemperie
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Corso di formazione per operatori museali provenienti
dal National Museum of Afghanistan-Kabul
Afghanistan 25/09/2006 - 03/11/2006
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
N
ell’anno 2004, sulla base della stipula di una convenzione tra il Ministero degli
Affari Esteri, Direzione Generale e l’Istituto Centrale, si era svolto in Afghanistan,
presso il Museo Nazionale dell’Afghanistan, a Kabul un corso di formazione intitolato “Formazione di base per operatori nel campo del restauro di manufatti
mobili“ nel periodo dal 23/ 10 - 21/ 12/ 2004.
Il corso mirava a fornire al personale afghano partecipante al training, già operante all’interno del Ministry of the Information and Culture, le informazioni basilari
necessarie per poter operare in modo autonomo, ampliando le proprie conoscenze conservative, su manufatti archeologici conservati nel Museo di Kabul o
provenienti direttamente da scavi recenti o in corso. I corsisti, compreso il personale proveniente dalle province, avevano tutti già in parte lavorato nell’ambito
della conservazione e restauro delle opere d’arte. Il materiale prescelto come
oggetto del corso erano le sculture buddiste di scisto conservate nel Museo, che
erano state oggetto di distruzione sistematica da parte deli Talebani al governo.
Nel complesso, nonostante le difficoltà presentatesi soprattutto per motivi di
ordine pratico, il risultato ottenuto era apparso altamente positivo e tale da garantire una buona base su cui impostare la prosecuzione del lavoro. Grande soddisfazione per l’impostazione dell’iniziativa e per il suo svolgimento è stata mostrata anche da parte afghana. Nel 2005 era stato quindi programmato, con l’indispensabile aiuto dell’Ambasciata d’Italia a Kabul, un corso da tenersi a Roma, presso le
sedi dell’Istituto Centrale per il Restauro, sulla conservazione ed il restauro del
vetro. La scelta di questo materiale era basata sulla sua presenza nella realtà afghana sia in contesti di età classica (vetri dal cd. Tesoro di Begram) sia in contesti più
recenti di età buddista e mussulmana. Al corso svoltosi a Roma presso l’I.C.R. nel
2005 avevano partecipato 6 operatori, selezionati tra quanti del personale del
Museo Nazionale dell’Afghanistan di Kabul avessero già partecipato al corso di
formazione tenuto dall’I.C.R. nel 2004 in Afghanistan. Nell’anno 2006 il successo
delle iniziative portate a termine negli anni precedenti ha portato alla programmazione di un secondo follow-up, da svolgersi in Italia in considerazione dei persistenti problemi di sicurezza dell’Afghanistan. Per assicurare una possibilità di trasmissione delle informazioni e formazione in loco è stata prevista la partecipazione degli stessi operatori che avevano frequentato il corso nel 2005. Si è deciso di
affrontare la problematica dei dipinti murali in corso di scavo e degli stucchi, in
considerazione della ricchezza di queste tipologie di manufatti nella realtà
archeologica dell’Afghanistan. Infatti, pur tenendo conto di qualche diversità di
tipo tecnologico nella realizzazione dei dipinti murali, sembrava opportuno
approfondire il problema di questi reperti nella fase di transizione tra lo scavo e
la successiva presentazione museale, cioè la sequenza corretta dell’intervento di
conservazione nel caso di manufatti fragili ed altamente frammentari per la loro
situazione di rinvenimento. A tal fine sono stati individuati dei frammenti di intonaco dipinto databili al IV sec a.C. provenienti dal Santuario di Armento, località
Serra Lustrante, in Basilicata. Questi intonaci, recuperati con la tecnica del blocco
di terra per non alterare la situazione di giacitura ed i rapporti tra i frammenti, erano
conservati presso i depositi del Museo Archeologico Nazionale della Siritide a
Policoro (Mt). Si è previsto quindi, con la piena collaborazione della
Soprintendenza Archeologica per la Basilicata, competente per territorio, che la
parte pratica del corso si svolgesse presso il Museo Archeologico di Policoro. Per
quanto riguarda gli stucchi si era deciso di operare su materiali provenienti
dall’Afghanistan al fine di azzerare le diversità tecnologiche presentate dai mate-
Responsabile del Progetto
Giovanna De Palma
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riali. Con la collaborazione del Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma e
dell’ISIAO sono stati individuati due manufatti provenienti dagli scavi della missione archeologica italiana a Ghazni in Afghanistan, conservati presso i depositi del
MNAOR. Il corso si è svolto nelle sedi dell’Istituto Centrale per il Restauro in Roma
e presso il Museo Archeologico Nazionale della Siritide a Policoro (Mt). Basandosi
sulle osservazioni fatte nel 2004 e nel 2005, per ottimizzare il lavoro è sembrato
necessario inserire un breve corso preliminare di chimica generale e di biologia
visto che durante il corso del 2004 si era evidenziata la totale mancanza di una
preparazione di base in chimica generale, il che aveva reso molto difficoltoso riuscire a spiegare compiutamente problemi quali le soluzioni o le caratteristiche dei
vari materiali ed il loro utilizzo. Per quanto riguarda le lezioni pratiche s i è cercato di approfondire la conoscenza dei materiali più comunemente usati per il
restauro degli stucchi e dipinti murali, privilegiando il concetto dello strato d’intervento e la sua applicazione nella pratica del restauro al fine di evitare danni alla
materia antica e rendere l’intervento conservativo realmente reversibile. Il problema della lingua è stato risolto facendo ricorso ad un interprete scelto in
Afghanistan dall’Ambasciata Italiana in Afghanistan, un giovane studente di
Chimica presso l’Università di Kabul. La maggioranza dei corsisti, infatti, conosceva scarsamente la lingua inglese. Gli allievi più attenti erano certamente quelli con
un minimo di conoscenze linguistiche che hanno mostrato una grande solidarietà
nei confronti dei loro colleghi ed una grande disponibilità verso i docenti. Le lezioni erano accompagnate dalla consultazione di alcuni libri in inglese messi a disposizione dall’Istituto con l’intenzione di abituare gli operatori afghani a consultare i
testi. Anche per l’allestimento della zona del Laboratorio di Restauro del Museo di
Policoro destinata al progetto i corsisti hanno lavorato in stretta collaborazione
con i docenti, mostrando grande volontà e disponibilità ad apprendere. Lo svolgimento del corso e l’interesse mostrato dai discenti, che si è concretizzato in una
attenta e costante partecipazione, dalla selezione dei vari frammenti alla stesura
del rapporto conservativo finale, ha consentito di valutare il grado di apprendimento dei singoli operatori secondo parametri differenti quali attenzione e partecipazione al corso, comprensione degli aspetti teorici, abilità manuale, capacità
critiche e di innovazione.
Nel complesso si considera il risultato ottenuto altamente positivo e tale da garantire una buona base su cui impostare la prosecuzione del lavoro da parte dei
discenti. Al termine della parte operativa presso il Museo di Policoro è stata organizzata dal dott. Salvatore Bianco, Direttore del Museo, una conferenza di presentazione del progetto e dei risultati ottenuti nel restauro degli intonaci.
Il corso si è concluso con una breve cerimonia durante la quale sono stati consegnati gli attestati di frequenza.
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Un restauro da 20 centesimi
Forme uniche della continuità nello spazio
di Umberto Boccioni
I
n occasione della Notte Bianca 2006, l’Istituto Centrale per il Restauro ha presentato ad un folto pubblico romano il restauro appena ultimato della scultura di
U. Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio. In seguito ad un’accidentale caduta durante l’allestimento di un’esposizione a Bruxelles nel 2004, la scultura aveva infatti riportato danni diffusi, alcuni dei quali irreversibili. Dell’intervento,
e delle indagini scientifiche che lo hanno preceduto, si dà brevemente conto
nelle righe che seguono.
È una delle più celebri e rappresentative del Futurismo italiano e di tutta la scultura
del Novecento, tanto conosciuta da figurare anche sulla moneta dei 20 centesimi.
La fusione, in una lega che dalle indagini recenti è risultata ottone, è stata realizzata nel 1931 presso la Fonderia Chiurazzi di Napoli, su commissione di F. T.
Marinetti, teorico e principale animatore del movimento futurista. A quella data
Boccioni era morto da quindici anni ma gli sopravviveva il gesso originale delle
Forme uniche, modellato nel 1913 e oggi conservato presso il Museu de Arte
Moderna di San Paolo in Brasile. Il gesso faceva parte di un gruppo di circa dodici opere significative andate in gran parte perdute, tutte eseguite tra il 1912 il 1914
con materiali diversi. In quegli anni, infatti, Boccioni si dedicava con passione alla
scultura, ne sperimentava le nuove possibilità espressive formali e materiche
(“Sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa rinnovazione in quest’arte mummificata”) e ne teorizzava i rivoluzionari princìpi nel
Manifesto tecnico della scultura futurista dell’11 aprile 1912. Nello sviluppo della
ricerca sui temi del dinamismo e della simultaneità, l’artista stesso riteneva le
Forme uniche l’espressione più compiuta della sua idea di scultura come compenetrazione dinamica di figura e ambiente “Rovesciamo tutto... e proclamiamo l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa.
Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente.”j.
Della scultura esistono altre fusioni tra le quali una coeva esposta presso il Museum
of Modern Art di New York (MoMA), in una delle sale dedicate al Futurismo.
Lo stato di conservazione
Presso il Laboratorio di conservazione e restauro dei manufatti in metallo e leghe
dell’ICR l’osservazione visiva ravvicinata, condotta con l’ausilio di strumentazioni
ottiche, ha permesso di individuare numerose aree interessate da danni strutturali
derivanti dall’impatto della scultura con il suolo, particolarmente concentrate sul
lato destro, quello direttamente interessato dalla caduta. I danni più significativi si
sono riscontrati sulle forme aggettanti della testa e della spalla: queste deformazioni plastiche sono permanenti ed irreversibili poiché hanno modificato la geometria delle forme e prodotto variazioni nei piani del modellato. Sull’intera superficie sono state inoltre evidenziate fessurazioni di diversa entità, alcune certamente dovute al trauma subito, altre al naturale degrado del materiale costitutivo e alle
particolarità della tecnica esecutiva. Fratture, fessure e cricche causano una
discontinuità della superficie e un danno strutturale, esse infatti incidono sulla
struttura metallica. Rappresentano quindi un fattore di rischio, essendo possibile
il loro progredire nello spessore della fusione in presenza di eventuali sollecitazioni di natura chimico-fisica. Sulla superficie sono state rilevate anche abrasioni,
macchie e graffi. Lo stato di conservazione così rilevato è stato fotografato e restituito graficamente in formato digitale.
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Istituto Centrale per il Restauro
L’opera
Come sempre, il restauro è
il risultato di un lavoro
interdisciplinare;
il caso specifico ha visto
coinvolti:
Giorgio Accardo
fisico
Fabio Aramini
tecnico per la fotometria
Domenico Artioli
tecnico di laboratorio
Vilma Basilissi
restauratore
Roberto Ciabattoni
tecnico per le indagini
radiografiche
e videoendoscopiche
Laura D’Agostino
storico dell’arte
Giuseppe Guida
chimico
Edoardo Loliva
fotografo
Ferdinando Provera
tecnico per il rilievo 3D
Giancarlo Sidoti
chimico
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Le indagini conoscitive
L’opera è stata sottoposta ad una serie di indagini conoscitive preliminari all’intervento conservativo e finalizzate alla valutazione dei danni e alla definizione del
progetto di restauro.
La videoendoscopia ha permesso di ispezionare la superficie interna del getto di
fusione ed è stata utile alla conoscenza della tecnica esecutiva dell’opera, che
risulta fusa per parti successivamente assemblate. La radiografia ha consentito di
valutare quanto e in che modo il danno abbia inciso nell’architettura interna del
materiale (struttura metallica, tasselli di finitura, ecc...). Con un sistema a scansione laser 3D è stato effettuato il rilievo metrico tridimensionale della forma per calcolare la percentuale della superficie interessata dal danno. La spettrofotometria
di fluorescenza ai raggi X (XRF, indagine non distruttiva utile a caratterizzare il
materiale costitutivo di un’opera) ha evidenziato una fusione omogenea e una lega
metallica prossima all’ottone per la presenza del rame come elemento maggioritario e dello zinco, stagno e piombo come alliganti. Sono state inoltre effettuate
misure di spettroscopia infrarossa con trasformata di Fourier (FTIR) che hanno
fornito dati sulla presenza, in superficie, di vernici impiegate in passato come protettivi a base di nitrocellulosa e gommalacca.
Il restauro
L’intervento di restauro ha comportato un’attenta pulitura a pennello dalla polvere
e da altri depositi incoerenti, seguita da una blanda azione chimica con alcool
puro. Tutte le operazioni di pulitura sono state condotte dopo aver eseguito delle
prove preliminari associate a misure fotometriche di riflettanza. Per il risarcimento delle fratture si è impiegato uno stucco a base di resine epossidiche caricate
con colori in polvere, cromaticamente accordato con la superficie metallica originale. Infine, per la protezione della scultura, si è scelta una miscela a base di cera
microcristallina contenente un inibitore di corrosione, seguita da una “spannatura”
manuale con pelle di daino.
Poiché il poligono di base dell’opera è molto stretto, e ciò può essere causa di
instabilità, è attualmente allo studio presso l’ICR una nuova base espositiva completa di due cunei da inserire nelle cavità dei piedi, di cui sono già state eseguite
le impronte interne.
La tecnica esecutiva della scultura, le indagini e tutte le fasi relative all’intervento conservativo e di restauro sono state documentate graficamente e fotograficamente.
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Linee guida per la redazione dei capitolati speciali
d’appalto per il restauro dei dipinti su tela,
su tavola e dei dipinti murali
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
I
l restauro dei beni mobili e delle superfici decorate dei beni architettonici, tra
cui i dipinti su tela, su tavola e i dipinti murali, è un settore di attività che, come
noto, da oltre tredici anni è inserito all’interno della normativa sugli appalti dei
lavori pubblici. Anche l’ultimo testo normativo, il Codice dei Contratti Pubblici
(D.Lgs. 163/2006) ha confermato questa previsione e la conseguente necessità di
specifici Capitolati speciali dedicati al restauro aventi un valore vincolante nell’ambito del procedimento amministrativo di realizzazione dei restauri.
Già Michele Cordaro, compianto Direttore dell’ICR, aveva indicato che la corretta
strada per porre sotto controllo l’esecuzione dei restauri doveva passare per la
determinazione di specifici capitolati, e non a caso promosse e partecipò direttamente alla redazione delle norme che vengono quest’anno pubblicate per la
prima volta nella forma delle “Linee Guida per la redazione dei capitolati speciali d’appalto per il restauro dei dipinti su tela, su tavola e dei dipinti murali”,
grazie alla collaborazione tra Istituto Centrale per il Restauro e Opificio delle pietre Dure, con il contributo dell’A.R.I. e della DEI, Tipografia del Genio Civile.
Le normative esistenti per il restauro dei beni mobili e delle superfici decorate dei
beni architettonici prevedono una procedura amministrativo-burocratica nell’affidamento, per esempio un restauro di un piccolo dipinto su tavola o su tela oppure
anche di una stampa o di un disegno, che, a torto o a ragione, è la stessa che serve
ad appaltare il restauro di un edificio monumentale come il complesso di S. Michele
o il restauro della torre di Pisa. Questa è una condizione che se da un lato ha contribuito a dare maggiori certezze alle procedure e trasparenza agli affidamenti dall’altro non ha potuto fornire, in mancanza di capitolati speciali appositamente dedicati ai beni storico- artistici, uno strumento idoneo per controllare la regolamentazione dell’appalto e quindi le reali modalità di esecuzione dei restauri.
La pubblicazione delle “Linee Guida per la redazione dei capitolati speciali
d’appalto per il restauro dei dipinti su tela, su tavola e dei dipinti murali” colma
quindi un vuoto nella definizione di una normativa tecnica di riferimento per la
conduzione di questi delicati interventi di restauro. Le voci di capitolato pubblicate sono il frutto dei risultati delle commissioni Normal che a partire dal 1993
hanno redatto le norme relative al restauro dei dipinti tela, su tavola e dei dipinti
murali. Come noto il lavoro delle commissioni Normal ha interessato la normalizzazione in molti altri settori delle attività relative alla conservazione e al restauro,
tra cui la diagnostica, il rilievo, la documentazione, e il restauro di molte altre classi di materiali, nell’ottica non tanto di una standardizzazione quanto di una regolamentazione pratica e metodologica dei processi tecnici dei lavori di restauro. È
nostro obiettivo dare veste di stampa anche a questi lavori ampliando, nelle prossime edizioni, l’insieme dei testi pubblicati.
La formulazione delle voci relative al restauro dei dipinti, presentata in questo volume, è stata sottoposta a una fase di sperimentazione nel corso degli ultimi anni
effettuata da parte di esperti, addetti ai lavori, tra cui alcune Soprintendenze, al fine
di accogliere le opportune osservazioni e proposte di miglioramento, in uno sforzo congiunto di chiarimento ed approfondimento metodologico e lessicale.
Nell’articolazione del volume la prima parte è dedicata a una serie di saggi che
chiariscono l’approccio metodologico, a partire dal percorso storico che ha condotto alla redazione dei capitolati, ripercorso da Marco Ciatti e Cristina Danti. A
seguire Gisella Capponi e Donatella Cavezzali descrivono la funzione e il modo di
utilizzazione, all’interno di un progetto di restauro, delle voci dei capitolati e delle
schede tecniche ad esse allegate. Gli aspetti normativi e la specificità degli appal-
Istituto Centrale per il Restauro,
Opificio delle Pietre Dure A.R.I.
e Edizioni DEI
Tipografia del Genio Civile
Hanno curato l’edizione 2007
Gisella Capponi
Donatella Cavezzali
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ti di restauro dei beni storico- artistici sono trattati nel saggio di Pierfrancesco
Ungari, che potrà fornire utili indicazioni per la conduzione degli affidamenti dei
lavori di restauro inquadrati sia in relazione al nuovo “Codice dei Beni Culturali e
del Paesaggio” che alla luce del “Codice dei contratti pubblici”. Alle attività di
conoscenza dell’opera e dei suoi processi di degrado sono dedicati i testi di
Giancarlo Lanterna sulle indagini diagnostiche e di Francesco Sacco sul rilievo e la
documentazione.
La seconda parte del volume è dedicata alla modalità di esecuzione delle diverse fasi dell’intervento di restauro, vero e proprio nucleo dei capitolati, suddivise
in restauro dei dipinti su tavola, su tela e dei dipinti murali. Le tipologie dell’intervento di conservazione, restauro e manutenzione sono state segmentate in unità
minime d’intervento, identificate singolarmente per una loro compiuta ed autonoma definizione. La trattazione delle singole voci di capitolato è stata quindi articolata in:
- descrizione e finalità dell’operazione
- criteri di esecuzione e requisiti dei materiali
- scheda tecnica, studiata come sintesi delle scelte progettuali, per l’individuazione delle professionalità e dei dati tecnici relativi alle modalità di esecuzione dell’operazione stessa (qualifica dell’operatore, tipologia, morfologia, estensione e
localizzazione del degrado, prodotti di restauro scelti, modalità, strumenti e
procedimento di applicazione, dati ambientali, dispositivi di sicurezza, etc.)
Ogni unità d’intervento (ad es. ristabilimento dell’adesione della pellicola pittorica, etc) è descritta quindi sia nella propria specificità di compiti e funzioni che in
relazione alle operazioni preventive (ad es: velinatura, pulitura degli strati superficiali, etc…) in un’articolazione complessiva da cui i progettisti potranno far nascere la metodologia corretta dell’intervento di conservazione nella sua interezza.
Le competenze professionali dei progettisti e la pluridisciplinarietà dell’approccio metodologico restano in ogni caso condizioni indispensabili per dare un
senso compiuto al progetto di restauro, a garanzia della corretta esecuzione dell’intervento sull’opera d’arte.
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Domus Aurea Neronis
Il restauro della Sala delle Maschere, ambiente n.114
Realizzata dall’imperatore Nerone a partire dal 64 d.C. la Domus Aurea venne
successivamente interrata da Traiano. Riscoperta verso la fine del ‘400 la Domus
Aurea e le sue pitture divennero fonte di ispirazione per innumerevoli artisti rinascimentali tra cui Pinturicchio, Raffaello, Giovanni da Udine e molti altri che contribuirono al diffondersi delle grottesche in tutta la pittura occidentale.
La vastità del sito monumentale archeologico e la posizione ipogea, al di sotto dei
resti delle Terme di Traiano e dei giardini di Colle Oppio, hanno reso da sempre
molto complessa la conservazione della Domus Aurea e dei suoi preziosi affreschi, interessati oggi, come noto, da una nuova fase di studi e di interventi di
restauro finalizzati alla messa in sicurezza delle strutture e alla conservazione degli
apparati decorativi, affidata al Commissario straordinario per la sicurezza della
Domus Aurea.
Venti anni di esperienza dell’ICR
per la conservazione in ambienti ipogei
Negli ultimi vent’anni sono stati innumerevoli gli interventi di restauro condotti
nella Domus Aurea e tra questi ricordiamo, oltre a quelli della Soprintendenza
Archeologica di Roma, quelli condotti negli anni ’80 e ’90 dall’ICR per lo studio
delle cause di degrado e per la messa a punto di un progetto sperimentale di
restauro negli ambienti n.114 e 131, sale decorate con splendidi affreschi tra i
meglio conservati della Domus Aurea.
Furono infatti realizzati degli interventi preliminari per il controllo del microclima
interno alle sale, come condizione preliminare al restauro vero e proprio degli affreschi. Gli ambienti vennero chiusi allo scopo di stabilizzare le condizioni termo-igrometriche, umidità relativa e temperatura ambientale, evitando i dannosi scambi con
l’aria esterna, l’aria di Roma, carica di sostanze e gas inquinanti.
Da allora gli studi e le ricerche sperimentali realizzate dall’ICR in altri monumenti
ipogei con superfici affrescate, come la Basilica di S. Clemente a Roma, le tombe
etrusche di Tarquinia, la cripta del Duomo di Anagni, gli affreschi del Sacromonte
di Varallo, hanno consentito di mettere a punto e verificare soluzioni tecnologiche
innovative nel campo dell’illuminazione, e della progettazione a basso impatto
ambientale per la musealizzazione e la fruizione degli spazi.
In generale tutti gli studi dell’ICR sulla conservazione in ambienti ipogei hanno evidenziato l’importanza del mantenimento di alcuni parametri fisici-chimici e biologici fondamentali per la conservazione degli affreschi, in sintesi: valori termo-igrometrici costanti, abbattimento degli inquinanti di origine organica e inorganica,
illuminazione calibrata a basso impatto fotobiologico, fruizione controllata.
Il restauro della Sala delle Maschere
Il restauro condotto dall’ICR a partire dal 2004, in accordo con la Soprintendenza
Archeologica di Roma, ha interessato l’ambiente n. 131 e 114 della Domus Aurea,
denominato “Sala delle Maschere” per i bellissimi affreschi che ne ornano le pareti con architetture prospettiche, maschere e scene di paesaggio.
Parallelamente al restauro degli affreschi l’ICR ha realizzato il rilievo 3D delle sale
con tecnologia Laser scanner, e campagne di monitoraggio ambientale e studio
dell’aerobiologia interna. Verificata la validità dell’impostazione metodologica
degli interventi degli anni ’80, è attualmente in corso di realizzazione la creazione
di un nuovo sistema di confinamento ambientale per il controllo microclimatico e
un nuovo sistema di illuminazione a basso impatto fotobiologico che consenta di
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
Domus Aurea Neronis
Progettazione
e direzione dei lavori
Donatella Cavezzali
Giovanna De Palma
Bruno Mazzone
Direttori operativi
Beatrice Provinciali
Costanza Mora
Giuseppina Fazio
Rocco D’Urso
Rita Batacchi
Esperti scientifici
Maria Pia Nugari
Anna Maria Pietrini
Sandra Ricci
Annamaria Giovagnoli
Elisabetta Giani
Giorgio Accardo
Fabio Aramini
Carlo Cacace
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riaprire le sale, chiuse da vent’anni, al pubblico con un programma di fruizione
controllata.
Al restauro vero e proprio è stata affiancata la realizzazione di una Banca dati per
la gestione dei dati scientifici e la raccolta della documentazione sulle attività
dell’ICR nel sito archeologico, come strumento di studio e divulgazione di carattere scientifico e conservativo. Il data-base è consultabile sulla rete Internet, per
permettere la più ampia diffusione possibile degli studi, delle ricerche fin qui
condotte dall’ICR.
Verso un futuro per la Domus Aurea
A seguito degli interventi di messa in sicurezza della Domus Aurea in corso da
parte del Commissario straordinario nominato dal governo nell’agosto 2006, il sito
monumentale ipogeo, recentemente riaperto in parte al pubblico, potrà essere
visitato assicurando nel contempo le necessarie misure per la conservazione dei
preziosi affreschi.
I risultati delle attività di restauro dell’ICR possono costituire un punto di partenza
per le più appropriate scelte funzionali sviluppate da parte del Commissario straordinario e della Soprintendenza competente nei programmi di tutela e conservazione del monumento in relazione alla fruizione pubblica.
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Il restauro della Fontana della Rometta
Villa D’Este a Tivoli
L
a Fontana detta “della Rometta” o “piccola Roma” fu progettata da Pirro Ligorio
intorno al 1550 su incarico del Cardinale Ippolito d’Este, all’interno della Villa
fatta costruire dal cardinale a Tivoli. La fontana rappresenta in forma allegorica la
città di Roma con percorsi d’acqua e, in una miniatura di fantasia, il Tevere,
l’Aniene, gli Appennini, l’isola Tiberina e alcuni importanti edifici della Roma antica, posti sullo sfondo panoramico della città di Roma.
Il restauro della Fontana è stato progettato e diretto dall’Istituto Centrale per il
Restauro a partire dal 2000 e si è concluso nel settembre 2006. L’intervento di restauro è iniziato con un cantiere didattico al quale hanno partecipato gli allievi della
scuola di alta formazione per il restauro dell’I.C.R., ed è proseguito dal 2003 al 2006
con affidamenti a ditte di restauro specialistico.
Le difficili condizioni di conservazione della Fontana della Rometta sono strettamente legate alla sua conformazione che prevede un continuo fluire di acqua e una rigogliosa vegetazione nelle immediate vicinanze delle sculture. La formazione di alterazioni biologiche (nella forma di licheni, alghe e spessi strati di muschi) è stata facilitata infatti dalla continua presenza di acqua, per esempio sulla barca che rappresenta l’isola Tiberina. A queste si sono aggiunte le gelate invernali che hanno provocato il forte degrado delle malte che costituiscono il modellato di alcuni elementi
come la statua dell’Appennino.
Inoltre nel XVIII secolo più del 50% della quinta architettonica rappresentante i
monumentini di Roma è crollata in seguito al verificarsi di gravi dissesti strutturali causati dalla crescita di radici all’interno del nucleo murario e da protratte infiltrazioni.
Gli interventi di restauro della Fontana della Rometta sono stati finalizzati alla stabilizzazione delle strutture ed al controllo dei fenomeni che hanno portato il monumento al forte degrado precedente i restauri. Si tratta in gran parte di interventi conservativi, finalizzati al consolidamento dei materiali costitutivi, alla riadesione delle
parti pericolanti (intonaci, malte interstiziali e di allettamento dei conci delle murature, parti strutturali delle architetture e delle sculture), alla sigillatura delle vie di
accesso dell’acqua per infiltrazione ed al controllo biologico. La crescita di piante
superiori e di microrganismi biodeteriogeni viene contrastata per mezzo di biocidi
specifici applicati a più riprese. una serie di interventi di consolidamento, quali infiltrazioni di malte idrauliche (che assicurano la riadesione tra intonaci e murature o di
aree frammentate delle sculture) e di stuccature con malte per riempire vuoti tra i
conci o ricostituire piccole parti perdute del modellato delle statue. Piccole integrazione sono state realizzate anche in aree lacunose del paramento murario.
L’accurata pulitura della superficie dai depositi terrosi e biologici consente una
migliore lettura del monumento ed impedisce una ricrescita a breve di piante infestanti e biodeteriogeni. Sul piano estetico la superficie degli intonaci dell’emiciclo
(parte sinistra della fontana) e la superficie molto deteriorata della statua
dell’Appennnino sono state riequilibrate cromaticamente con prodotti a base di
calce e pigmenti minerali.
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
Presentazione del Restauro
Progettazione
e Direzione dei lavori
Gisella Capponi
Donatella Cavezzali
Direttori operativi
Carla Giovannone
Antonella Basile
Agostino Burgarella
Esperti scientifici
Giuseppina Vigliano
Giancarlo Sidoti
Ada Roccardi
Anna Maria Pietrini
Sandra Ricci
Antonella Altieri
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La scansione laser tridimensionale:
le attività dell’Istituto Centrale
per il Restauro-Rilevamento e documentazione
attraverso i sistemi scanner laser
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
T
Ufficio rilevamento e
documentazione
Responsabile
arch. Francesco Sacco
Basilica inferiore
di San Clemente Roma:
rilievo effettuato
dall’arch. Stefano D’Amico
con la collaborazione di
Angelo Rubino
e due stagisti del Ministero
della Cultura della
Repubblica Popolare Cinese:
Zai Paer e Guo Jinlong
Domus Aurea
Sale n. 112, 113, 114, 115, 131:
rilievo effettuato
dall’arch. Stefano D’Amico
con la collaborazione
di Mara Bucci e Angelo Rubino
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ra le varie sezioni in cui si articolano le multi-disciplinari attività dell’ICR l’ufficio
“Rilevamento e documentazione è composto da due sottounità, la prima preposta alla produzione grafica e fotografica, la seconda specificamente destinata al rilevamento ed ai suoi sistemi di rappresentazione. Il campo di applicazione di tale
ultima sottounità copre tutte le possibili esigenze di rilevamento: da quello diretto
al fotogrammetrico, allo stereofotogrammetrico grazie all’utilizzo integrato di attrezzature topografiche, fotografiche e specifici software di elaborazione dati. Nel
corso degli anni l’attività dell’Ufficio ha costantemente accompagnato tutti i cantieri
di restauro dell’Istituto sia in Italia che all’estero con significativi coinvolgimenti in
progetti di cooperazione internazionale in Cina, Egitto, India, Iraq. Recentemente
(Giugno 2006) grazie alla disponibilità dei Fondi Lotto sono stati acquisiti mediante
gara europea anche due sistemi di scansione laser tridimensionale.
Il primo strumento, principalmente destinato ad oggetti vicini, presenta un campo
di azione limitato a 2 metri in grado di garantire elevatissime precisioni (decimi di
millimetro) su oggetti di limitata estensione (statuaria, oggetti di scavo, piccoli
manufatti mobili, dettagli architettonici particolarmente pregiati e non acquisibili
diversamente).
Il secondo strumento, dedicato al rilevamento dell’architettura, ha un campo di
azione fino a 53 metri di distanza dallo strumento e pur con una inevitabile minor
accuratezza rispetto allo strumento precedente, presenta tuttavia una grande
velocità nell’acquisizione di una mole considerevole di dati (sino a 500.000 punti
al secondo). Subito dopo un breve training di formazione sull’utilizzo delle nuove
apparecchiature, si è da subito sviluppata la sperimentazione diretta dei due
sistemi, di cui si da qui una prima breve testimonianza fotografica, attraverso campagne di rilevamento non fini a se stesse ma strettamente funzionali alla quotidiana attività d’ufficio sia dell’Istituto che di altre strutture appartenenti
all’Amministrazione dei Beni e delle Attività Culturali.
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Esperienze recenti di rilevamento mediante scansione laser
Al fine di evidenziare le potenzialità dei nuovi sistemi di rilevamento ed il loro
fondamentale apporto nell’imprescindibile fase dell’acquisizione di tutti i dati
finalizzati ad una conoscenza quanto più possibile esaustiva del manufatto, si
presentano qui due recenti esempi entrambi romani svolti tra la fine del 2006 ed
i primi mesi del 2007: il primo relativo alla Basilica inferiore di San Clemente è stato
effettuato nell’ambito del cantiere attualmente in corso da parte dell’Istituto in collaborazione con la Soprintendenza per i beni archeologici di Roma. Tale cantiere
affronta globalmente il problema conservativo dei dipinti murali presenti nella
Basilica, con interventi anche di risanamento ambientale e strutturale (Direzione
lavori arch. F.Sacco, dott. G. Tamanti).
La seconda esperienza si inserisce all’interno di un più ampio e articolato intervento di messa in sicurezza della Domus Aurea (Commissario Delegato per la messa
in sicurezza della Domus Aurea: Ing. Luciano Marchetti) con la collaborazione
della Soprintendenza per i beni archeologici di Roma. Gli ambienti rilevati (112,
113, 114, 115, 131) si affiancano al più ampio rilevamento generale della zona est
della Domus, eseguito anch’esso con tecnologia laser scanner e costituirà la base
anche di un imminente cantiere dell’Istituto (R.U.P. arch. Donatella Cavezzali).
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I paramenti liturgici di Castel Sant’Elia.
Problemi di conservazione e di fruizione
Marica Mercalli, Silvia Checchi, Fabio Scala
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
La storia
Hanno fatto parte del gruppo
di lavoro nelle diverse fasi del
progetto:
per l’ICR:
Marica Mercalli
(RUP e direttore dei lavori)
Silvia Checchi, Manuela Zarbà
(Lab. restauro manufatti tessili)
Esmeralda Senatore
(Lab. restauro manufatti in
metallo)
Lidia Rissotto
(Lab. restauro cuoio)
Fabio Scala, Elisabetta Giani
(Lab.fisica)
Maria Rita Giuliani
(Lab. biologia)
Giancarlo Sidoti (Lab. chimica)
Gloria Tammeo (architetto)
Stefano D’Amico
(documentazione grafica)
Edoardo Loliva, Paolo Piccioni
(documentazione fotografica)
collaboratori esterni:
Rosalia Varoli Piazza
(ICCROM, storico dell’arte)
Giusy Lally (ricercatrice)
Claudia Kusch (Ditta Arakne,
Roma, restauratrice)
Irene Tomedi (Konservierung
antiker Gewerbe, Bolzano,
restauratrice)
Laura Pace Morino, Emanuela
Pignataro, Giovanna Cisternino
Barbara Santoro
(allieve, Corso di Restauro ICR)
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Il complesso di paramenti liturgici conservato, attualmente, nel Santuario di Santa
Maria ad Rupes a Castel Sant’Elia, presso Nepi (VT), costituisce un importantissimo
insieme di vesti ed oggetti liturgici di epoca medioevale (ventinove tra tonache,
dalmatiche, camici,pianete, mitre e sandali pontificali cui si devono aggiungere un
frammento di tessuto, un altro frammento di antependio ed un cofanetto).
La tradizione locale ritiene che, almeno quelli del nucleo più antico, siano appartenuti ai due santi abati Anastasio e Nonnoso, vissuti a Castel Sant’Elia nel VI secolo e sepolti nella Basilica benedettina di Sant’Elia. Questo culto ha avuto una fondamentale importanza per la salvaguardia delle vesti che furono considerate ‘reliquie’ dei due santi. La maggior parte dei paramenti, conservati per lungo periodo
sotto l’altare maggiore della Basilica, può essere datata entro il 1258, anno in cui i
benedettini lasciarono Castel Sant’Elia. Dopo varie vicissitudini e trasferimenti, le
vesti furono poi riconsegnate alla chiesa di originaria appartenenza. Nel 1951 è
documentato un intervento di restauro a cura della Soprintendenza alla Gallerie di
Roma. Da questa data le vesti furono collocate in tre vetrine in un piccolo ambiente al piano terreno della casa del custode, nel Santuario di Santa Maria ad Rupes.
Nell’estate del 2001 l’Istituto Centrale per il Restauro organizzò un primo cantiere
didattico di ‘pronto intervento’ che aveva come scopo quello della messa in sicurezza dei preziosi paramenti, eliminando le macroscopiche cause di deterioramento costituite dalla loro inadeguata collocazione nelle vetrine realizzate negli
anni ’50. Si capì allora che bisognava mettere a punto un complessivo progetto di
restauro e di manutenzione ed emerse l’esigenza di individuare un nuovo ambiente espositivo per garantire una idonea conservazione degli oggetti e una migliore
fruizione pubblica.
A tal fine si è costituito un gruppo di lavoro che ha coinvolto anche le allieve del
corso di Restauro in manufatti tessili. Due di loro hanno poi incentrato la tesi di
diploma proprio sull’intervento di restauro di due vesti e sulla schedatura conservativa dell’intero complesso. Il comune di Castel Sant’Elia, in collaborazione con
la Soprintendenza PSAE di Roma e del Lazio, ha individuato un ambiente in cui
allestire un piccolo museo e un deposito avente anche la funzione di laboratorio
per le manutenzioni.
L’intervento di restauro
Si è deciso di selezionare due manufatti della stessa tipologia (due pianete) che
si trovavano in condizioni conservative molto differenti. La prima pianeta, in stato
estremamente precario, è realizzata in sciamito di seta giallo-oro e rossa, bordata
sul collo da una fascia in sciamito avana operato raffigurante piccoli animali entro
orbicoli, foderata in lino rosso; l’altra è una pianeta in tela di lino naturale ornata
da uno scollo in tessuto (ad arazzo) in seta e filati metallici, in migliori condizioni
conservative.
Il filo conduttore dell’intervento è stato il rispetto della storia degli oggetti e delle
vicende conservative. Va ricordato che in linea di massima viene tramandato, conservato o riutilizzato ciò che è prezioso per fattura e materiali, mentre questi rari antichi
paramenti sono testimonianza d’uso e adattamento di vesti liturgiche di impiego
ordinario, e per questo ancor più significativi dal punto di vista storico. Inoltre dallo
studio preliminare è risultato evidente che le modifiche subite nel corso del tempo,
comprese le sottrazioni e addizioni di materiale, costituiscono una sorta di ‘valore
aggiunto’, a testimonianza della venerazione di cui i paramenti sono stati oggetto.
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Sui manufatti è stata eseguita la pulitura per la rimozione degli agenti potenzialmente dannosi, quindi il consolidamento a cucito delle zone degradate. Questa
estrema sintesi racchiude in realtà una complessa serie di confronti, scelte, abilità
operative, che sono state necessarie durante tutte la fasi dell’intervento e che
hanno visto attivamente coinvolto il gruppo di lavoro. In particolare la ricerca di
una situazione di equilibrio fra la rimozione degli interventi precedenti e la riproposizione di elementi nuovi, necessari sia alla corretta conservazione che alla
restituzione di leggibilità dei manufatti, è stata estremamente complessa e stimolante.
Le indagini diagnostiche
Le indagini scientifiche sono state rivolte in primo luogo alla comprensione dell’origine delle alterazioni cromatiche (macchie scure) presenti sui alcuni dei manufatti tessili, simili a quelle che si osservano su supporti cartacei, che lasciavano
supporre la presenza del fenomeno definito foxing. Altro campo di applicazione
dell’indagine scientifica è stato lo studio del microclima dell’ambiente nel quale
sono attualmente conservate le vesti (Santuario di Santa Maria ad Rupes) e dell’ambiente, l’ex oratorio di Sant’Anna, in cui sarà allestito il nuovo Museo dei Paramenti
liturgici. Prima di avanzare qualsiasi proposta di intervento abbiamo attivato nell’ambiente in esame, una campagna microclimatica, con rilevamento continuo per
un anno, al fine di definire i parametri ottimali per la conservazione dei manufatti
ed individuare, di conseguenza, le necessarie misure per migliorare la situazione
ambientale, con eliminazione dei principali fattori di danno costituiti da luce, polvere e eccessivo tasso di umidità. Dopo l’intervento conservativo sarà necessario
un controllo sistematico per garantire il mantenimento di condizioni termoigrometriche adeguate.
Sono attualmente allo studio la definizione dei criteri di corretta esposizione dei
manufatti restaurati, il progetto di restauro di altri sei paramenti, l’allestimento del
museo e del deposito in cui saranno collocati e la progettazione di una vetrina ad
atmosfera stabilizzata a sistemi passivi (con l’uso di Art-sorb), con controllo interno del microclima, e dotata di sistema di illuminazione realizzato con l’impiego di
fibre ottiche e con opportuno filtraggio della componente UV della radiazione.
Pianeta in sciamito di seta, XIII sec, Castel Sant’Elia, VT.
Prima dell’intervento di restauro
Pianeta in sciamito di seta, XIII sec, Castel Sant’Elia, VT.
Dopo l’intervento di restauro
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Signa Imperii – Le insegne del potere
Il ritrovamento
Il ritrovamento è avvenuto nelle campagne di scavo del 2005 e del 2006 condotte dall’Università di Roma “La Sapienza” e dirette dalla Prof. Clementina Panella
presso le pendici nord-orientali del Palatino, in un’area del Parco Archeologico
del Palatino data in concessione per scavi e ricerche dal Ministero dei Beni
Culturali al Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Roma.
ICR
Istituto Centrale per il Restauro
Il contesto
L’Intervento conservativo
è stato eseguito
dalla restauratrice dell’ICR
Esmeralda Senatore
In una fossa praticata nella pavimentazione di uno degli ambienti sotterranei,
appartenenti alle sostruzioni di una terrazza, realizzata in età neroniana (ma rimasta in uso fino ad età molto avanzata) per raccordare la pendice palatina con la
valle del Colosseo i manufatti risultavano nascosti, accuratamente impilati e avvolti nel tessuto di seta e lino degli stendardi che li decoravano. I globi di vetro giallo ed il calcedonio facevano probabilmente parte di scettri in legno o altro materiale che non è pervenuto mentre la sfera verde era stata spinta poco più avanti dai
prodotti di corrosione dello scettro a petali di cui faceva parte. Basandosi sui confronti iconografici e sui materiali ceramici ritrovati negli strati immediatamente
adiacenti si è potuto risalire ad un periodo storico che coincide approssimativamente con quello dell’imperatore Massenzio. Tutti i reperti sono in mostra a
Palazzo Massimo alle terme in Roma dal 23 febbraio alla fine di ottobre.
L’intervento conservativo
I Materiali
I reperti sono composti in parti di materiali diversi poi assemblate meccanicamente:
lega di ferro: punte delle lance e delle aste porta stendardi, petali e gambo dello
scettro piccolo; lega di rame: codoli delle lance e delle aste porta stendardi;
fascetta, manico e disco dello scettro piccolo; oro: piccoli frammenti di lamina;
legno: foderi delle lance e delle aste porta stendardi, rivestimento del gambo
dello scettro piccolo; vetro: due sfere gialle ed una verde; calcedonio: una sfera
con foro passante; tessuto: ampi lacerti su tutti i reperti; pelle: alcuni frammenti.
Lacerti di pelle non meglio identificati e piccoli frammenti di oro appartenenti alla
fascetta dello scettro.
Le tecniche
Le parti in lega di ferro sono eseguite mediante battitura e forgiatura da massello,
successivamente polimentate a freddo.
Le parti in lega di rame sono realizzate in due modi:
- la fascetta mediante battitura;
- i codoli delle lance e delle aste porta stendardi, l’impugnatura e il disco dello
scettro piccolo mediante fusione in stampi con la tecnica della cera persa, polimentatati a freddo e lucidati.
Le parti in legno sono realizzate levigando e assemblando i vari elementi fino a formare delle scatole che dovevano proteggere le punte. Le sfere in vetro sono realizzate prelevando il bolo con aste in ferro e rollandolo su piani freddi e lisci. Il
calcedonio è ottenuto da un unico cristallo levigato, lucidato e forato in due
tempi. Il restauro Il trattamento dei reperti è iniziato sullo scavo mediante l’applicazione del consolidante. Dopo l’estrazione dalla terra si è controllato lo stato di
ciascun manufatto, si sono inviati campioni ai laboratori scientifici dell’università.
Le cospicue tracce di tessuto erano presenti grazie alla funzione biocida dei pro-
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dotti di corrosione, il degrado delle parti in lega di rame era particolarmente contenuto, data la maggiore resistenza dell’oricalco, le parti in lega di ferro erano
deformate e danneggiate da perdite di materiale, i loro prodotti di corrosione
erano migrati sugli altri oggetti e nel terreno.
Le operazioni di restauro hanno interessato le parti in lega di ferro mediante l’eliminazione della corrosione attiva, la conversione dei prodotti di corrosione, il
consolidamento, le integrazioni mediante resina epossidica caricata e opportunamente colorata; particolare attenzione è stata riservata ai frammenti di legno ancora aderenti.
Sulle parti in lega di rame sono stati prima eliminati i prodotti di corrosione attiva
poi si è cercato di recuperare e conservare i lacerti di tessuto. Le operazioni si
sono concluse mediante la disidratazione e il consolidamento.
La difficoltà maggiore dell’intervento, trattandosi di un rinvenimento unico nel suo
genere, è derivata dalla necessità di conservare tutti i materiali presenti.
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L’Opificio delle Pietre Dure, fondato nel 1588, deve il suo nome alla secolare attività di lavorazione delle pietre dure per la Corte Granducale della Toscana.
Oggi è uno degli Istituti Centrali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
addetti alla conservazione e al restauro delle opere d’arte.
Compiti
OPD
Opificio delle Pietre Dure
Il restauro operativo, suddiviso in settori sulla base delle tipologie dei manufatti,
ivi compresa la sperimentazione.
La ricerca scientifica e tecnologica su materiali, tecniche e metodologie, compresa la sperimentazione a fini d’innovazione per quanto attiene la conservazione del
patrimonio culturale.
L’attività di consulenza scientifica e tecnica.
La trasmissione delle conoscenze tramite l’attività formativa e informativa. La cura del
Museo che conserva la memoria dell’antica manifattura.
Organizzazione
L’Opificio è uno dei più grandi laboratori operativi d’Europa. Ha un organico di
circa 130 unità tra storici d’arte, restauratori, esperti scientifici, addetti di laboratorio, tecnici, impiegati, personale amministrativo ed ausiliario.
È strutturato in:
- Dodici Laboratori di Conservazione e Restauro: arazzi; bronzi e armi antiche;
dipinti su tela e tavola; materiali archeologici; materiali cartacei e membranacei;
materiali ceramici e plastici; materiali lapidei; mosaico e glittica; oreficerie; pitture murali; sculture lignee policrome; tessuti.
- Laboratorio scientifico con competenze di tipo Chimico, Fisico e Biologico.
- Laboratorio di Climatologia e Conservazione preventiva.
- Scuola di Alta Formazione che comprende la sezione distaccata di Ravenna
- Museo
- Biblioteca specializzata
- Archivio fotografico e documentario.
- Archivio Storico.
- Ufficio per la Promozione Culturale.
Obiettivi
La progettazione e l’esecuzione di interventi di restauro settoriali o inter-settoriali,
per la conservazione del patrimonio culturale.
L’avanzamento della ricerca scientifica e tecnologica e delle sue applicazioni al
campo del restauro.
Il funzionamento ottimale della Scuola di Alta Formazione, in attuazione delle
norme esistenti, così da conferire agli allievi un’adeguata preparazione tanto teorica quanto pratica.
La conservazione, l’interpretazione, l’esposizione e la valorizzazione delle collezioni di pertinenza del Museo.
Il trasferimento delle conoscenze alla comunità degli addetti ai lavori e al pubblico generale, quindi con modalità sia specialistiche, sia divulgative.
L’attività dell’Istituto, in forma di operatività e consulenze tecnico-scientifiche, si
rivolge, dietro richiesta, a tutti i beni di interesse storico-artistico sottoposti alla
tutela pubblica.
Direttore
Cristina Acidini Luchinat
Coordinatore
Fabio Bertelli
Via degli Alfani, 78
50121 Firenze
tel. 055 26511
fax 055 287123
[email protected]
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Addio a Umberto Baldini
Cristina Acidini Luchinat
a scomparsa di Umberto Baldini, nella notte tra il 15 e il 16 agosto 2006, lascia
un vuoto ingente nella cultura italiana e internazionale, lascia Firenze priva di uno
dei grandi protagonisti della sua storia del secondo Novecento, e lascia tutti noi
dell’Opificio delle Pietre Dure non solo profondamente addolorati, ma un po’ più
soli di fronte alla nostra missione, affascinante quanto impegnativa, della conservazione delle opere d’arte contro i danni prodotti dal tempo, dalla natura, dall’uomo. Umberto Baldini è stato molto di più di uno dei Soprintendenti che hanno
guidato l’Opificio in passato: è stato in effetti il “padre” dell’Opificio moderno, il
creatore dell’attuale realtà istituzionale e metodologica dell’Istituto.
Le tappe della sua vita professionale, che ripercorro in sintesi estrema specie a
beneficio dei più giovani, mostrano la sua completa e appassionata dedizione a
due filoni di studio e di operatività, la storia dell’arte e il restauro.
Nato a Pitigliano nel 1922, si era laureato in Storia dell’Arte alla grande scuola di
Mario Salmi ed era entrato nel 1949 nella Soprintendenza fiorentina come
Ispettore. In uno dei suoi ultimi scritti, che abbiamo avuto il piacere di ospitare
negli atti del convegno “Ugo Procacci a cento anni dalla nascita” (marzo 2005,
atti pubblicati per i tipi di Edifir nel 2006), Baldini ricordava che già nel 1948 aveva
iniziato a operare presso la Soprintendenza ch’era allora alle Gallerie di Firenze
come una sorta di “ispettore in prova” volontario, e che nell’anno successivo era
stato Procacci stesso ad invitarlo a collaborare con lui nel Gabinetto di Restauro,
allora nella sede della Vecchia Posta agli Uffizi. Questo primo incarico in realtà
avrebbe segnato tutta la sua vita: con il successivo passaggio di Procacci a
Soprintendente, Baldini divenne Direttore del laboratorio, ruolo che in varie forme
mantenne fino al 1983, dopo averne rivoluzionato la struttura e potenziato il ruolo,
e avere consegnato al mondo dei beni culturali e alla città di Firenze una delle più
efficaci istituzioni operanti per il restauro delle opere d’arte, la ricerca scientifica
collegata, la formazione.
Fu Baldini, insieme con Procacci, a far da guida nell’emergenza dell’alluvione del
4 novembre 1966. L’immensità del disastro (che a quarant’anni di distanza non
cessa di rivelarsi mentre ne stiamo portando a termine, non senza fatica, il definitivo risarcimento) è stata descritta da molti in molte sedi, ma lascio la parola a
Baldini allorché, nel comunicare alla “Commissione Restauri Opere d’Arte” presso
il Ministero il programma dei lavori ai dipinti ricoverati nella Limonaia, non solo
inquadrava lucidamente i danni e i possibili rimedi, ma sottolineava l’unicità della
situazione: “Non si tratta di opere che hanno bisogno di operazioni normali ma si
tratta di opere che hanno subito, rispondendo in vario modo, un danno eccezionale e che non ha dati sicuri di esperienza” (Relazione del 27 febbraio 1967,
pubblicata negli atti del convegno Ugo Procacci a cento anni dalla nascita
[2005], Firenze 2006, p. 121; e cfr. anche U. Baldini, I problemi del restauro, in
Rapporto sui danni al patrimonio artistico e culturale: Firenze, 4 novembre
1966, Firenze 1967, pp. 63-66).
In quei giorni, in quei mesi, l’esperienza inesistente si stava costruendo, ed è tuttora patrimonio, nonché elemento d’identità caratterizzante nel profondo,
dell’Opificio odierno.
Come spesso accade a Firenze e non solo, l’energia, la determinazione, la competenza di tanti al servizio di un solo scopo – risollevarsi a testa alta e ridare alla città
il ruolo che il mondo le riconosce – col tempo seppero trarre, da un fatto profondamente negativo, opportunità e risultati. Baldini fu protagonista di quella lunga
fase di recupero di un patrimonio devastato che diede frutti in termini di opere
restaurate, espansione delle conoscenze scientifiche, crescita metodologica, con-
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Opificio delle Pietre Dure
L
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divisione e visibilità internazionale delle tematiche del restauro. Nel 1972 la grande
mostra “Firenze Restaura” dava conto dei recuperi compiuti nel lustro appena trascorso dall’alluvione, prodigiosi per qualità e quantità, entro la più vasta cornice
dell’attività dei restauratori di Stato. Per la prima volta il grande pubblico si sentì
attratto e coinvolto, affluendo da altre città e regioni per accostarsi a quello che
apparve il “miracolo” compiuto a Firenze da squadre di esperti locali e stranieri,
nonostante che nell’introduzione alla Guida alla mostra i curatori, lo stesso Baldini
e Paolo Dal Poggetto, raccomandassero di non voler legare all’esposizione “neppure come intenzione lontana, alcun potere taumaturgico o tantomeno cattedratico”
(Firenze restaura. Il laboratorio nel suo quarantennio, Firenze 1972, p. 9).
In realtà la mostra e la sua Guida, come con modestia fu definito il catalogo, si
proposero come una pietra miliare nel restauro italiano e internazionale, cogliendo dall’intensa operosità del passato remoto e recente, cito ancora una volta,
“quei motivi che, al di là di una mera cronaca da consuntivo, possano servire a
fare una storia di problemi, di impostazioni, di tecnica come di teoria”. A quel
punto, nel mondo del restauro fiorentino si erano individuati luoghi e competenze; si erano stabilite alleanze, come quella destinata a crescere e a diversificarsi
con l’universo della ricerca scientifica; si era profilata con chiarezza la necessità
di potenziare e regolare la formazione dei restauratori.
Nel frattempo, molto era accaduto anche sul piano istituzionale: quel piano di
organizzazione normativo-amministrativa degli organi, cui spesso il cittadino guarda con fastidio liquidando indistintamente tutto coll’epiteto ormai assimilabile a
un insulto di “burocrazia”, laddove si ha invece a che fare con strumenti di formidabile potenza che, ben usati, possono cambiare in meglio il corso delle cose e
le vite delle persone. Un padiglione della Fortezza da Basso, di proprietà demaniale in consegna al Genio militare, era stato assegnato alla Soprintendenza fiorentina affinché, trasferitevi le opere dal ricovero provvisorio della Limonaia di Boboli
(dove Paolo VI aveva reso visita al Crocifisso di Cimabue) fosse trasformato in un
Gabinetto di Restauri, del quale Baldini fu nominato direttore con la piena responsabilità del restauro di quadri, affreschi e sculture policrome, come da Ordine di
Servizio di Ugo Procacci del 4 gennaio 1968. Poco più di due anni dopo Baldini
passava a dirigere l’Opificio delle Pietre Dure (con disposizione del ministro
Misasi del 3 novembre 1970) e di fatto assumeva la guida congiunta dei due grandi centri esistenti in Firenze per la cura e la conservazione delle opere d’arte: quello della Soprintendenza e quello dell’antico Opificio che, nato dall’insieme dei
laboratori della corte prima medicea e poi lorenese e sabauda, si era“riconvertito” al restauro dopo l’Unità d’Italia, sfruttando le conoscenze acquisite e l’abilità
artigianale delle maestranze per destinarle non più alla produzione, bensì alla
conservazione di commessi di pietre dure, mosaici, sculture e arredi in materiale
lapideo, in sintonia con una esigenza di restaurare le opere del passato che si
veniva affermando in Italia e in Europa. Grazie alla sua lucidità di visione e alla sua
instancabile energia Baldini, investito di un mandato pieno e completo, riuscì in
quella che poteva apparire una sfida invincibile, ovvero far riconoscere a livello
normativo l’esistenza di un “nuovo” istituto specializzato nella conservazione,
autonomo dalla Soprintendenza, con competenza nazionale: nuovo e insieme
antico, con caratteri di centralità eppure locale per le sue radici fiorentine, deuteragonista su una scena in cui dal 1939 si era affermato l’Istituto Centrale per il
Restauro di Roma. La creazione del Ministero per i Beni Culturali, compiuta tra la
fine del 1974 e gli inizi del 1975, voluta dal fiorentino Giovanni Spadolini che ne
fu il primo ministro, fu l’occasione per realizzare quello che sembrava una sogno.
Bastarono a ciò due righe in una legge, la L. 44/75, che definiva “l’antico opificio
mediceo delle Pietre Dure, quale istituto specializzato per il restauro delle
opere d’arte operante sull’intero territorio nazionale” (art. 11), e una conferma
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nel successivo D.P.R. del 3 dicembre 1975 n. 805 sull’Organizzazione del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali (art. 23). Una Scuola di Restauro divenne attiva dal 1978-79.
Furono operazioni di grande respiro, ma irte di difficoltà e avversate da più parti,
che Baldini seppe condurre in porto con la sua consueta energia ed efficacia.
Se l’Istituto odierno è noto e stimato per l’operatività d’eccellenza, se la ricerca
scientifica si è sviluppata al suo interno ed è in rete con centri internazionali, se la
sua Scuola dopo il riconoscimento di Alta Formazione ha ottenuto l’equipollenza
del titolo di diploma con la laurea magistrale quinquennale a ciclo unico (ed è un
risultato conseguito solo nel marzo 2006, dopo il lungo e defatigante impegno di
chi mi ha preceduto), tutto questo si deve alla lungimiranza di Baldini, che pose
le condizioni per una crescita dell’Istituto ben al di là dei confini locali, sia pure
ancora in assenza di quell’autonomia che egli stesso vedeva necessaria, e richiedeva, già dagli anni ‘70. Se i Medici di fatto crearono l’Opificio, e i Lorena e Savoia
lo mantennero consegnandolo allo Stato Italiano come manifattura pubblica, fu
Baldini a conferirgli l’identità odierna. Certo – per amor di contesto storico – erano
anche gli anni che Baldini stesso poteva rievocare come quelli in cui l’Opificio,
guida indiscussa della salvezza delle opere devastate dall’alluvione, “giustamente
fu difeso a viso aperto dalla città” (Firenze 10 anni dopo, in “Atti del Convegno
sul Restauro delle Opere d’Arte” (1976), Firenze 1981, I, p.19). A onor del vero
le sorti di quell’Opificio sono state difese dalla città, all’occorrenza, in analoghi
termini di fierezza dantesca.
Nel 1983 Baldini fu chiamato a dirigere l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma,
pressoché in coincidenza con la seconda grande mostra sul restauro da lui curata a Firenze, “Metodo e Scienza. Operatività e ricerca nel restauro” (1982-83),
che esponeva le opere restaurate alla luce dei principi guida cui si ispiravano lui
e i suoi: il rigore metodologico di scelte basate su una chiara teoria del restauro,
la centralità dell’approccio scientifico come supporto della conoscenza, l’unità di
metodo. Se nella mostra del 1972 il Cristo del Cimabue era stato simbolo di tragedia e di riscatto ma anche sublime campo di sperimentazione per la messa a
punto di teorie e pratiche di reintegrazione delle lacune in pittura nei noti termini
di “astrazione” e “selezione” (con affinamenti e sviluppi della teoria di Cesare
Brandi), nella mostra del 1982 dominò la presenza della Primavera del Botticelli,
mirabilmente ricondotta alla sicurezza conservativa e al godimento estetico.
Da Roma, Baldini continuò a rivolgere le sue attenzioni alle cose di Firenze e in particolare al cantiere di restauro della Cappella Brancacci con le pitture murali di
Masaccio, Masolino, Filippino Lippi.
L’età “della pensione” (1987) lo trovò in piena attività e gli permise di dedicarsi alle
due istituzioni da lui personalmente e appassionatamente guidate: l’Università
Internazionale dell’Arte, creata da Carlo Ludovico Ragghianti sottogli auspici della
Regione Toscana per avviare al restauro studenti anche stranieri, e la Fondazione
Horne, responsabile del mirabile Museo omonimo, che era stato uno degli interessi del suo predecessore Ugo Procacci. Sul versante del restauro, proseguì il suo
importante ruolo nell’ambito dei progetti finalizzati per i beni culturali del C.N.R.
E a proposito del C.N.R., col quale Baldini stabilì una fruttuosa collaborazione, mi
pare giusto ricordare come egli provvedesse a una vicinanza fisica tra le due istituzioni, assegnando al Centro guidato da Franco Piacenti la palazzina, dalla struttura di antica casa-torre, adiacente all’Opificio in Via degli Alfani. Al termine di un
lungo ciclo di trasferimenti dei centri e istituti scientifici dal centro storico fiorentino al Polo Scientifico di Sesto, il Centro lasciò l’edificio e, anche grazie al determinante interessamento di Paolo Blasi che mi è qui caro ringraziare, esso tornò
disponibile per l’Opificio ed è ora pronto a ospitare uffici e aule per la Scuola,
una delle quali è intitolata a Umberto Baldini.
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Non è qui possibile fornire una bibliografia completa degli scritti di Baldini, sebbene sia questo un obiettivo che ritengo doveroso proporsi e raggiungere. Nel
lungo elenco dei suoi scritti troveremmo titoli fondamentali su artisti della grande
stagione creativa fiorentina come Masaccio, Beato Angelico, Michelangelo: scritti
di uno storico dell’arte finissimo, e che sapeva mettere le sue esperienze ravvicinate sulle opere d’arte al servizio di perspicaci esegesi. Uno dei suoi ultimi interventi ha riguardato appunto il grande Michelangelo, nel presentare al Museo
Horne un Crocifisso ligneo che potrebbe rinviare al suo periodo giovanile.
Ma solo per ricordarlo come autore di scritti sul restauro, a un aurorale Il restauro
in “Antichità viva” del 1966 (n. 6, pp. 24-32) seguirono titoli fondamentali e tra essi
Teoria del restauro e unità di metodologia in due volumi, Firenze 1978 e 1981,
ristampato nel 1995.
È dunque un onore, oltre che un motivo d’affettuoso rimpianto, sentirsi eredi di
Umberto Baldini quale autentico protagonista della scena italiana del restauro
dopo Cesare Brandi. E se ci mancheranno la sua presenza e il suo consiglio (dei
quali è stato generoso, con gli antichi colleghi e con me, fino all’ultimo), ci piacerà pensarlo come sempre partecipe dei nostri problemi di esistenza e ormai di
sopravvivenza, in un peggioramento di quelle condizioni di ristrettezza progressiva che a un certo punto lo indussero a chiedersi: dobbiamo chiudere bottega?
Nel momento in cui concludo questo editoriale mi si annuncia come imminente
l’incarico di Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino, e mentre questa posizione impegnativa e prestigiosa mi propone una sfida che sono onorata di accettare, è il momento di dedicare qualche istante di riflessione ai sei anni trascorsi
all’Opificio. A guardarmi indietro vedo con piacere le molte cose fatte e le molte
mete raggiunte (questa rivista ne ha dato puntualmente conto e continuerà a farlo),
dalla sfera sensibile più concreta dove sta l’ascensore di Via degli Alfani all’ambito normativo più istituzionale dove si colloca l’ottenuta equipollenza del titolo di
diploma della Scuola di Alta Formazione alla laurea magistrale quinquennale a
ciclo unico. Vedo una compagine di colleghi umanamente e professionalmente
eccezionali e una rete di rapporti dal locale al globale, come si usa dire, di palese eccellenza. E tuttavia l’antico Opificio, traghettato alla contemporaneità dai
miei predecessori, nel suo proiettarsi verso il futuro rivela fragilità e punti critici. Se
fosse una creatura viva, e a me così talvolta piace pensarlo, andrebbe amorosamente nutrito e protetto, piuttosto che sottoposto a processi di “ottimizzazione”
e “razionalizzazione” che rischiano di alterarne l’inimitabile identità; quel tratto
che appartiene a Firenze e in egual misura al mondo, e che proprio Baldini seppe
intendere, valorizzare e difendere.
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Il restauro della Croce di Rosano
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Opificio delle Pietre Dure
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Opificio ha recentemente ultimato il complesso restauro della Croce dipinta
appartenente al Monastero di Rosano e databile al secolo XII, opera che rappresenta uno dei più antichi testi pittorici dell’arte italiana.
L’intervento di restauro è stato contrassegnato da una serie di interessanti scoperte che hanno consentito di gettare nuova luce sull’opera, sul suo significato e sulla
particolare tecnica artistica impiegata. Questo restauro si colloca, infatti, all’interno di un più ampio progetto di studio sulla tecnica della pittura su tavola in un
secolo così lontano, iniziato con il restauro della Croce di Maestro Guglielmo di
Sarzana (datata 1138), che fin da un primo esame appariva molto diversa da quella più conosciuta nelle opere dei secoli successivi, e continuato poi attraverso il
restauro della Madonna di Santa Maria Maggiore di Firenze e lo studio comparato
dell’arte pisana del XII e XIII secolo, in occasione della mostra Cimabue a Pisa
del 2004. È infatti evidente quanto sia non corretto ricercare nei dipinti di questo
secolo XII i parametri tecnici più noti, ma successivi, quelli cioè della pittura giottesca (così come codificati dal Libro dell’Arte di Cennino Cennini): in assenza di
una precisa trattatistica sulla pittura del XII secolo, risulta quindi particolarmente
importante lo studio diretto dei testi materiali. L’intervento di restauro sulla Croce
di Rosano, quindi, ha avuto una doppia valenza: di conservazione del prezioso
dipinto e di studio delle sue caratteristiche tecniche.
Una particolarità di questo restauro che fin dall’inizio si è rivelata importantissima e
anche affascinante dal punto di vista storico è stato l’aver scoperto che l’opera non
aveva mai subito prima un vero e proprio restauro (solo interventi di adeguamento dimensionale) e dunque presentava assolutamente integra su tutta la superficie pittorica la vernice originale, cosa invero assai rara, coperta solo da strati di
sporco e depositi atmosferici e da una vernice più recente, probabilmente seicentesca. Probabilmente questo ultimo strato risale infatti all’epoca in cui la Croce
venne resecata in alto e in basso, privandola tra l’altro del titulus crucis e verosimilmente di un tabellone con storia dipinta superiore, per necessità interenti un suo
spostamento di collocazione: i documenti dell’epoca, infatti, la citano al di sotto
di un organo, nella controfacciata della chiesa. Nella stessa occasione venne
aggiunta anche una cornice intagliata e dorata, inchiodata e incollata sulla superficie pittorica perimetralmente, che copriva parte della raffigurazione pittorica, che
originariamente arrivava infatti fino al bordo estremo, (e infatti nel corso del restauro non si sono trovate tracce che attestassero la presenza di alcuna cornice originale). Il supporto è costruito con solide assi di castagno, l’essenza legnosa usato
di prevalenza nelle opere toscane del secolo XII. Pur essendo in buone condizioni come materia, esso mostrava gravi segni di cedimento strutturale, nella giunzione principale dell’incastro tra il corpo verticale ed il braccio orizzontale, e nel raccordo tra tavolato e traverse, ormai quasi del tutto staccate dal supporto stesso. È
stato perciò necessario un complesso lavoro di riadesione delle parti e di risanamento delle zone degradate, previa separazione degli elementi costitutivi al fine
anche di rimuovere lo sporco accumulatosi negli spazi interni. La protezione dall’attacco di insetti xilofagi e un generale consolidamento della parte esterna del
legno hanno completato l’intervento sul supporto.
La pulitura della pellicola pittorica ha rivelato molte particolarità tecniche, a
cominciare dalla struttura degli strati preparatori: questi sono costituiti da un doppio strato di una tela assai sottile, e varie stesure, assai sottili e a granulometria molto
fine, del gesso (che si è rivelato essere anidro e legato con gomma vegetale anziché con colla animale come di consueto). La doratura a guazzo è applicata senza
lo strato sottostante a base di bolo; la materia pittorica è molto sottile, i pigmenti
stesi con scarso corpo e con forti analogie con la tecnica coeva della miniatura.
L’intervento di restauro è stato
diretto da Marco Ciatti e Cecilia
Frosinini ed è stato coordinato
ed eseguito da Roberto
Bellucci
(coadiuvato per la parte
pittorica da Francesca Bettini,
Linda Lucarelli, Salvatore
Meccio, Kyoko Nakahara);
il restauro del supporto ligneo
si deve a Ciro Castelli, Mauro
Parri e Andrea Santacesaria
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Tutte queste scoperte sono state rese possibile da un’importante campagna diagnostica di indagine condotta sia dal Laboratorio scientifico dell’OPD, sia da una
serie di collaborazioni con altri Istituti di ricerca (ENEA, IFAC-CNR, INOA, INFN,
ecc.).
È stata inoltre scoperta una cavità nascosta nel braccio verticale della croce che
ospitava una reliquia, un frammento di osso e una piccola croce in pietra, di forma
simile a quella che i crociati riportavano dalla Terra Santa.
E forse proprio in relazione al ritorno di un crociato illustre l’opera venne commissionata. Si pensa infatti che un evento plausibile, anche per motivi di ordine cronologico, sia quello della monacazione nel 1130, di Sofia dell’illustre famiglia dei
grandi feudatari toscani dei Conti Guidi che in quella data, il 25 marzo, prese il
velo giovanissima nel monastero di Rosano, che poi era destinata a reggere come
badessa. La sua monacazione che coincise con la solenne consacrazione della
nuova chiesa, e una ricchissima dotazione devoluta al monastero da parte dei
Conti Guidi. La giovane Sofia era orfana del padre, il temibile Guido Guerra, già
alleato di Matilde di Canossa, morto probabilmente in seguito a malattia contratta
in Terra Santa dov’era stato crociato. È quindi possibile che la reliquia e la piccola croce ritrovate all’interno della Croce, fossero il pegno di un ex-voto o comunque il ricordo del padre della committente.
E certo una accentuazione iconologica relativa al Sepolcro è presente nelle storie
che circondano il Christus Triumphans di Rosano. Ben cinque sono le storie post
mortem, essendone due sole dedicate alla passione vera e propria, contrariamente a quanto avviene nelle altre Croci dipinte; tre sono scene funerarie vere e proprie e una racconta di un altro sepolcro, quello del Limbo, destinato ai patriarchi.
La scelta principale del restauro è stata basata sulla ovvia considerazione della
straordinaria importanza della Croce quale documento artistico e materico di
un così lontano periodo storico, dalla quale abbiamo derivato due considerazioni: la volontà di rendere leggibile con la maggior chiarezza possibile questo
documento, eliminando le trasformazioni successive (cornice e nuova vernice), e
la decisione di ridurre al minimo indispensabile la fase di reintegrazione delle
lacune, soprattutto di quelle perimetrali, per alterare il meno possibile la sua
autenticità e non appesantire il dipinto con la nostra materia moderna. Molto delicata è stata la fase della pulitura che ha previsto di conservare la vernice antica, a
base di gomma vegetale, ma di assottigliarla leggermente per compensare il forte
fenomeno di alterazione e di inscurimento al quale essa era andata incontro col
tempo: scelta che ha cercato di far convivere dialetticamente i due opposti valori del rispetto della materia originale e del ristabilimento della sua funzione, che
era quella di esaltare la pittura e non certo di renderla quasi invisibile.
Le novità dal punto di vista storico artistico dovranno essere attentamente valuta-
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te dagli studiosi, ma sembrano evidenti alcune prime riflessioni: la totale assenza
di influssi bizantini e la presenza di un linguaggio occidentale e romanico; la
volontà descrittiva quasi “realistica” di alcuni dettagli; la resa plastica di luci e di
ombre, sia pur nel generale schematismo, di alcuni dettagli del carnato, come, per
esempio, nelle gambe.
L’intera operazione è stata seguita con la fattiva partecipazione dal Monastero di
Rosano che ha seguito tutte le fasi più significative e le scelte di volta in volta
assunte.
D’intesa con la competente Soprintendenza per il PSAE, l’Opificio ha fornito una
consulenza anche sulle più opportune modalità di ricollocazione al fine di assicurare il rispetto dei più opportuni criteri di conservazione preventiva.
L’intervento di restauro è stato agevolato dal generoso contributo del Banco Desio
s.p.a., che ha messo a disposizione delle risorse aggiuntive che hanno reso possibile una più veloce conclusione dei lavori.
Gli studi e le ricerche compiute sulle Croce di Rosano saranno oggetto di un volume della collana “Problemi di Conservazione e Restauro” di questo Opificio che
sarà pubblicato nella prossima primavera e che sarà presentato all’interno di una
apposita giornata di studio.
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La Scuola di Alta Formazione:
corsi in corso e prospettive future
Alessandra Griffo
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Opificio delle Pietre Dure
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Opificio delle Pietre Dure di Firenze ha, per legge, tra i propri compiti istituzionali, quello di provvedere alla formazione di restauratori. Al suo interno opera
quindi una Scuola di Alta Formazione, attualmente articolata in un percorso quadriennale e secondo specializzazioni che fanno capo ai settori di restauro in cui è
organizzato l’istituto stesso e cioè dipinti mobili, dipinti murali, scultura lignea, tessili, materiali cartacei e membranacei, mosaico e commesso, lapidei, bronzi e armi
antiche, materiali ceramici e plastici, oreficeria e arazzi. Dal 2004 è stata riconosciuta quale sezione distaccata della sede fiorentina la Scuola per il Restauro del
Mosaico, gestita dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di
Ravenna, attiva dal 1984 e strettamente legata al cospicuo patrimonio musivo locale.
Il Decreto Legislativo 156 del marzo 2006, correttivo e integrativo al Codice dei
Beni Culturali e del Paesaggio, ha aperto una nuova fase. Il riconoscimento dell’equipollenza del titolo rilasciato dalle Scuole del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali con quello delle lauree magistrali offerte dalle Università ha infatti innescato un processo di riorganizzazione.
Si prevede la stesura di un nuovo regolamento e soprattutto la definizione di una
nuova struttura di corsi modulati su cinque anni e finalizzati ad aree specialistiche
più ampie che pur approfondendo le già presenti competenze teoriche di natura umanistica e scientifica non tradiscano la vocazione eminentemente pratica e
applicativa della scuola.
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Gli aspetti della conservazione negli Archivi di Stato
Compito primario dell’Amministrazione archivistica è quello di assicurare la conservazione dell’immenso patrimonio documentario esistente nel nostro Paese. È ormai
consolidata, nella comunità degli archivisti, un’accezione ampia e dinamica di questo termine, inteso come insieme delle operazioni che assicurano la tutela, la salvaguardia e la fruizione del “bene archivio”. Tra queste si collocano, a pieno titolo, i
numerosi interventi di recupero delle sedi di Istituti archivistici, spesso costituiti da
straordinari complessi architettonici, che sono stati portati a termine di recente con
notevole impegno di risorse finanziarie ed umane. Il risultato è la “restituzione” a
grandi e piccoli centri urbani di edifici monumentali che si configurano come straordinario contesto per la conservazione dei documenti; le sedi degli Archivi di
Stato di Genova e Ferrara ne costituiscono solo un esempio.
L’amministrazione degli Archivi di Stato dispone anche di un articolato servizio di
tecnologia archivistica, con Sezioni di fotoriproduzione e Laboratori di legatoria e
restauropresso numerosi Archivi di Stato (Torino, Venezia, Bologna, Firenze,
Napoli, Palermo, Cagliari, per citare solo i più importanti).
Le Sezioni hanno compiti operativi in favore degli Archivi presso cui sono istituite
e dei vicini istituti archivistici, sia per ciò che attiene all’attività interna degli istituti
stessi (microfilm di sicurezza, di sostituzione, di completamento, ecc.), sia per far
fronte alle richieste di fotocopie e di microfilm da parte degli utenti. Tutti gli
Archivi di Stato e le Soprintendenze archivistiche dispongono di apparecchi di
riproduzione; diversi Istituti hanno potenziato il settore con l’acquisizione di
apparecchiature per la riproduzione digitale.
Per quanto riguarda in particolare il restauro, trasformatosi da “pratica artigiana” in
vera e propria disciplina a livello universitario, numerosi sono gli interventi che
vengono effettuati sia sul materiale conservato negli Archivi di Stato, che su quello vigilato dalle Soprintendenze, appartenente ad enti e a privati (in un solo anno
sono stati finanziati ben 34 interventi su materiale archivistico statale e 33 su quello non statale).
Tra le attività volte alla conservazione dei documenti, ha assunto particolare rilievo quella svolta dal Laboratorio di fotoriproduzione, legatoria e restauro
dell’Archivio di Stato di Rieti che dal luglio 2002, per incarico della Direzione
Generale, è divenuto il fornitore preferenziale degli Istituti Archivistici.
Archivio di Stato di Genova
Direzione Generale degli Archivi
Maurizio Fallace
Referente Promozione
e Comunicazione
Marina Giannetto
Direttore Generale
Maurizio Fallace
Via Gaeta, 8/a
00185 Roma
[email protected]
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La sede: Palazzo Borghi
L’adeguamento funzionale
Archivio di Stato di Ferrara
Direzione Generale degli Archivi
L’
Direttore
Antonietta Folchi
Corso della Giovecca, 146
44100 Ferrara
tel. 0532 206668
fax 0532 207858
[email protected]
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Archivio di Stato di Ferrara, istituito con d.m. 15 novembre 1955, conserva
documentazione di uffici statali, di enti pubblici e di privati ricadenti nella circoscrizione dell’attuale provincia. Vi si custodisce anche la parte di archivio
comunale di Antico Regime che, insieme agli atti notarili, agli archivi del Luogo pio
degli esposti, dell’arcispedale Sant’Anna, della famiglia Bentivoglio d’Aragona,
recentemente acquistato dalla Amministrazione archivistica, costituisce la parte
più consistente e rilevante di tutto il patrimonio conservato. I circa settantamila
pezzi, di cui oltre tremila pergamene, coprono un arco cronologico di nove secoli, a partire dall’XI, con antecedenti del sec. X.
L’edificio si trova nella zona centrale della città non molto lontano dal Castello
Estense Ha sede in un complesso denominato Palazzo Borghi, costituito da tre
corpi di fabbrica risalenti a epoche successive. Il Palazzo, già di proprietà della
Provincia di Ferrara, è stato recentemente acquistato dall’Amministrazione archivistica. La parte più antica, cinquecentesca, affaccia su Corso della Giovecca e insieme agli altri due corpi, posti alle spalle, delimita il cortile interno. L’uno fu costruito ex novo verso la metà degli anni ’60 per ospitare il pozzo deposito principale,
l’altro, di epoca ottocentesca, è stato in anni più recenti dalla Provincia che lo ha
utilizzato per l’allocazione di alcuni uffici fino al 1998.
L’analisi dello stato funzionale e della situazione in rapporto alle normative di sicurezza ha evidenziato la necessità e l’urgenza di rilevanti interventi di adeguamento
riguardanti in modo specifico gli allestimenti dei depositi archivistici, gli impianti
speciali di sicurezza a servizio degli stessi, e pertanto non competenti alla proprietà, ma all’Amministrazione archivistica. L’analisi ha anche evidenziato come lo spazio disponibile, corrispondente alla porzione in affitto, fosse insufficiente a garantire la funzionalità attuale e futura dell’Istituto, stante la necessità di disporre di consistenti nuovi spazi di deposito, di uffici, della sezione catasto (con deposito e
consultazione), della biblioteca nonché di servizi generali e laboratori.
Pertanto, al fine di tutelare, valorizzare e rendere maggiormente fruibile l’ingente
patrimonio documentario cittadino già esistente e in vista degli incrementi futuri,
è stato da tempo predisposto a cura della Direzione generale per gli archivi un
progetto generale di ristrutturazione e di adeguamento dell’immobile che prevede l’estensione degli spazi di pertinenza dell’Archivio a tutto il complesso architettonico. Il progetto consentirà di raddoppiare l’attuale capacità dei depositi,
assicurando nello stesso tempo una funzionalità notevolmente elevata sia per
quanto riguarda l’organizzazione degli uffici che dei servizi diretti al pubblico.
Nel quinquennio 2000-2005 sono stati realizzati rilevanti interventi di adeguamento che hanno riguardato:
1 - la bonifica dei locali a piano terra dell’ala storica da cui sono stati ricavati nuovi
depositi archivistici per una ricettività di duemila metri lineari di scaffalatura;
nuovi servizi igienici, nuova scala, a norma, di collegamento con il primo tra il
primo piano;
2 - l’allestimento degli impianti di sicurezza e di servizio nei nuovi locali a piano
terra adibiti a deposito;
3 - l’allestimento degli impianti di sicurezza e di servizio nel corpo di fabbrica
prospiciente Via Coramari;
4 - il consolidamento e restauro dello scalone monumentale;.
5 - la realizzazione degli impianti di sicurezza nei locali di deposito ricavati nel
sottotetto dell’ala Coramari.
A completamento dei lavori di recupero e di adeguamento alle norme di sicurezza è previsto l’intervento di ristrutturazione funzionale del pozzo deposito princi-
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pale. L’Amministrazione è già in possesso del progetto definitivo ed esecutivo che
include la realizzazione di solai, impianti di servizio e di sicurezza e l’installazione di scaffalature compatte, con il duplice obiettivo di rendere più razionale la
conservazione del materiale e più organica la connessione con l’ala storica. Ma
l’obiettivo è anche quello di valorizzare attraverso il restauro, gli importanti elementi storico-architettonici del complesso edilizio.
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Il Laboratorio di fotoriproduzione, legatoria e restauro
Archivio di Stato di Rieti
Direzione Generale degli Archivi
I
Responsabile del progetto
Irma Paola Tascini
Responsabili tecnici
Angelina Aniballi
Orlandino Santarelli
Personale tecnico
Giuseppina Bigioni
Giuseppina De Luca
Luciana De Luca
Giuseppina Marella
Direttore
Irma Paola Tascini
Viale L. Canali, 7
02100 Rieti
tel. 0746 204297
fax 0746 481991
www.asrieti.it
[email protected]
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l laboratorio di fotoriproduzione, legatoria e restauro dell’Archivio di Stato di
Rieti è stato istituito nel 1970. Particolare sviluppo, nell’ambito della conservazione, ha avuto il settore della cartotecnica.
Nel corso degli anni il laboratorio ha notevolmente accresciuto la sua attività,
acquisendo attrezzature all’avanguardia per la realizzazione dei contenitori
necessari alla conservazione permanente del materiale documentario.
Dal luglio 2002, per incarico della Direzione Generale per gli Archivi, il laboratorio è divenuto il fornitore preferenziale degli Istituti Archivistici, realizzando
per gli stessi diverse tipologie di contenitori, prodotti con materiali che rispondono ai requisiti chimici e tecnici indicati dalla normativa vigente in materia di
conservazione dei documenti.
Le risorse umane impiegate e le macchine di cui dispone il laboratorio, consentono la produzione annua di circa 100.000 contenitori di diverse tipologie e misure, permettendo in tal modo di soddisfare in tempi utili la maggior parte delle
richieste che pervengono.
La produzione di contenitori è stata estesa anche ad altre amministrazioni pubbliche, che, secondo quanto previsto dal codice dei beni culturali, versano un contributo all’Archivio di Stato per le forniture richieste.
Il laboratorio dell’Archivio comprende, inoltre, una sezione per il restauro ed una
per la fotoriproduzione. Quest’ultima è stata di recente ampliata con la dotazione di attrezzature per la riproduzione digitale.
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La Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali (DGBLIC) del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali svolge funzioni e compiti in materia di biblioteche
pubbliche statali, di servizi bibliografici e bibliotecari nazionali, di istituti culturali, di promozione del libro e della lettura (art. 12, comma 1 del DPR 173/2004).
Al fine di valorizzare e rendere fruibile il patrimonio culturale posseduto da
biblioteche, archivi e altre istituzioni culturali italiane, sono stati sviluppati programmi e progetti realizzati attraverso l’uso delle più avanzate tecnologie informatiche e telematiche: il Servizio Bibliotecario Nazionale – SBN; la Biblioteca Digitale
Italiana – BDI; il portale Internet Culturale; il sito Italia Pianeta Libro.
Il Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), attivo dal 1992 e in continua espansione, è stato promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la cooperazione delle Regioni e del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
e coordinato dall'Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane
e per le informazioni bibliografiche (ICCU).
Il catalogo SBN è consultabile attraverso l’OPAC (Online Public Access Catalogue)
delle biblioteche Italiane, cui aderiscono 2.994 biblioteche pubbliche statali, universitarie, ecclesiastiche, di enti locali, di archivi, di conservatori, di istituti di ricerca e di cultura. Nel 2000 è stata realizzata la versione dell’OPAC SBN denominata
SBN OnLine che permette la ricerca anche su altri cataloghi di biblioteche italiane
e straniere che utilizzano lo standard Z39.50.
SBN offre l’opportunità di ricercare i documenti per tipologia, utilizzando specifici canali quali: libro antico, libro moderno, musica, periodici, materiale grafico
e cartografia, per un totale complessivo di circa 50.000.000 localizzazioni.
È stata realizzata recentemente una evoluzione strutturale dell’Indice SBN
(Indice2) che ha comportato un rinnovamento tecnologico dell’hardware e del
software (con il passaggio su piattaforma UNIX, l’utilizzo di XML e l’adozione
dello standard UNICODE), l’apertura a sistemi gestionali non SBN e, soprattutto, la
razionalizzazione e ristrutturazione delle diverse basi dati esistenti (moderno,
antico e musica) in un'unica banca dati integrata.
La base dati dell'Indice SBN è consultabile in Internet, 24 ore su 24, agli indirizzi:
http://opac.sbn.it, http://sbnonline.sbn.it e http://www.internetculturale.it/, e tramite il Gateway Z39.50 della Library of Congress.
Ulteriori informazioni sulla struttura SBN sono reperibili sul sito dell’ICCU
(www.iccu.sbn.it)
Direzione Generale per i Beni Librari
e gli Istituti Culturali
Progetti e programmi della Direzione Generale
per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
Testo a cura di:
Adriana Martinoli
Direttore
Luciano Scala
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
tel. 06 36216300
fax 06 3216437
[email protected]
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Biblioteca Digitale Italiana – BDI
Direzione Generale per i Beni Librari
e gli Istituti Culturali
I
l programma Biblioteca Digitale Italiana (BDI), promosso dalla Direzione Generale per
i Beni Librari e gli Istituti Culturali, è una piattaforma di iniziative integrate nell’ambito
delle collezioni del patrimonio culturale. Il coordinamento è affidato a un Comitato
Guida (composto da rappresentanti delle biblioteche statali e regionali, dei musei,
dell’università, della ricerca) con il compito di definire le linee guida del programma,
fissandone i principi fondamentali e delineando il quadro di riferimento culturale e
scientifico entro cui collocare le iniziative esistenti ed avviare quelle nuove.
Negli anni di attività (dal 2001 a oggi), sono stati conclusi numerosi progetti di
digitalizzazione che hanno riguardato, in particolare, tre aree tematiche: musicale,
storico-letteraria e scientifica.
In riferimento all’area musicale sono stati digitalizzati oltre 12.000 documenti tra
i quali si possono citare le seguenti collezioni:
- la collezione della Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, che
raccoglie oltre un milione di immagini digitali. Contiene oltre 3.500 volumi
manoscritti e numerose partiture autografe di compositori quali Rossini, Bellini,
Donizetti, Verdi, Cimarosa, Paisiello e Pergolesi;
- gli autografi di Pierluigi da Palestrina conservati presso l’Archivio musicale del
Capitolo Lateranense di Roma;
- i Codici miniati medioevali della congregazione di S. Domenico di Perugia
custoditi presso la Biblioteca Augusta di Perugia;
- il Fondo manoscritti musicali che comprende volumi di musica sacra corale dal
’500 all’800 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma;
- le partiture di Alessandro Stradella (Biblioteca Estense di Modena);
- gli autografi di Antonio Vivaldi (Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino);
- i fondi Contarini e Canal, nonché il corpus di sonate per clavicembalo di
Domenico Scarlatti (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia);
- il Fondo Clementina Sala dell’Accademia Filarmonica Romana;
- gli autografi di Gaetano Donizetti e di Giovanni Simon Mayr (Civica Biblioteca
Mai di Bergamo);
- i manoscritti liturgici del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica e della
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna;
- i manoscritti musicali di pregio della Biblioteca del Conservatorio Cherubini di
Firenze;
- L’Archivio storico Ricordi, il più importante archivio privato musicale in Italia, che
conserva una variegata documentazione (manoscritti autografi, partiture, materiale teatrale, foto, lettere etc…) relativa a personalità come Verdi e Puccini;
- La principale collezione pubblica italiana di documentazione sonora ed audiovisiva della Discoteca di Stato – Museo dell’Audiovisivo;
- La fortuna di Verdi: ricezione e cultura musicale attraverso la stampa e i periodici coevi (Casa della musica – Parma);
- Progetto Giacomo Puccini: dagli anni di formazione ai primi traguardi attraverso
le fonti musicali e documentarie lucchesi (Istituto musicale Boccherini – Lucca).
L’area storico-letteraria comprende:
- la completa riproduzione della collana “Scrittori d’Italia” creata da Benedetto
Croce nel 1910, edita da Laterza. Si tratta di 179 opere letterarie in 288 volumi
con 135.000 immagini scansionate;
- la Biblioteca Italiana, con digitalizzazione di 1.600 opere dalle origini della letteratura all’inizio del XX secolo;
- corpus sulla Lingua italiana che comprende testi digitalizzati dal XVI secolo al
XIX secolo (Accademia della Crusca);
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- Viaggi nel testo. Ipertesti sulla vita di scrittori famosi: Dante, Petrarca, Manzoni e
altri;
- 67 pubblicazioni periodiche storiche antecedenti il 1860 (Biblioteca Nazionale
Centrale di Roma e Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea e la
Biblioteca Universitaria di Pisa);
- database dei periodici storici (Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte) 115
periodici specializzati per ca. 900.000 scansioni;
- completa digitalizzazione della collezione Muratori (S.I.S.M.E.L.);
- Inventario delle biblioteche medioevali italiane (S.I.S.M.E.L.).
Le collezioni digitalizzate e disponibili che rientrano nell’area scientifica sono:
- Galileo//thek@ è un progetto che offrirà la biblioteca digitale tematica della collezione galileiana per un totale di 70.000 pagine (Istituto e Museo della Storia
della Scienza di Firenze);
- Itinerari scientifici in Toscana: 18 itinerari geografici e 2 biografie. (Regione
Toscana e IMSS di Firenze);
- Testi matematici – Promosso dalla Biblioteca Digitale della Scienza Italiana con
il contributo della Biblioteca Europea di informazione e Cultura di Milano;
- nuovo itinerario tematico di Leonardo da Vinci (Regione Toscana e IMSS di
Firenze).
Sono inoltre in fase di avanzamento significativi sviluppi tecnologici e nuove aree
tematiche che riguardano:
- lo sviluppo di applicazioni di sistemi multimediali che presentano unità semantiche (testuali e materiale multimediale) sul web, con più modalità di accesso
(Pinakes);
- ReMI – Rete della Musica Italiana, progetto, da realizzarsi con il contributo tecnico-scientifico del Laboratorio di Informatica Musicale dell’Università di
Milano, volto alla conservazione dei contenuti musicali (partiture, libretti, materiale epistolare, bozzetti, fotografie di scena, etc.) e alla fruizione integrata dei
supporti informativi (manoscritti, edizioni a stampa, audio e video);
- Percorsi 3D – (Regione Emilia Romagna e provincia di Ravenna): la passeggiata
virtuale all'interno degli spazi si simula utilizzando mouse e tastiera, attraverso
l'utilizzo delle nuove tecnologie applicate ai Beni Culturali;
- la digitalizzazione del materiale cartografico (Biblioteca Marciana di Venezia);
- un percorso enogastronomico nelle regioni d'Italia.
Nell’ambito della conservazione della memoria digitale, la Direzione Generale per
i Beni Librari e gli Istituti Culturali collabora nell’azione coordinata, sotto la guida
della Commissione Europea, relativa al progetto “Digital preservation Europe”
(DPE) www.digitalpreservationeurope.eu
Il Portale Internet Culturale
Nato dal progetto “Biblioteca Digitale Italiana e Network Turistico Culturale”
(BDI&NTC), approvato e cofinanziato dal Comitato dei Ministri per la Società
dell’Informazione (CMSI) nel marzo del 2003, rende fruibili i risultati delle attività
nell’ambito della digitalizzazione e offre l’accesso integrato alle risorse digitali e
tradizionali di biblioteche, archivi e altre istituzioni culturali italiane, oltre a informazioni relative alle attività, ai progetti, alle collezioni e ai contenuti digitalizzati.
Al momento attuale le immagini digitali acquisite e disponibili dalle pagine di
Internet Culturale sono 9.350.000 di cui 6.850.000 relative ai cataloghi storici e
2.500.000 relative alle aree tematiche su menzionate. A marzo 2006 è stato rilasciato in forma sperimentale un servizio di e-commerce che consente l’acquisto
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on-line di un primo nucleo di oggetti digitali messi a disposizione da alcune istituzioni culturali italiane.
La Ricerca Bibliografica è disponibile attraverso canali specifici relativi a: Libro
Antico, Libro Moderno, Musica, Grafica e Cartografia. La ricerca nei Cataloghi storici digitalizzati consente la consultazione di 215 cataloghi storici conservati in 35
biblioteche pubbliche. La raccolta comprende cataloghi a volume e a scheda di
diversa tipologia (alfabetici per autore e titoli, topografici, sistematici, misti) oltre
ai cataloghi generali. Nella collezione sono inoltre presenti alcuni cataloghi di
materiali speciali (manoscritti, carte geografiche, stampe, musica scritta) e di singoli fondi o raccolte.
Sui Cataloghi speciali è possibile effettuare una ricerca tematica sulle basi dati relative al Censimento delle Edizioni italiane del XVI secolo (Edit16), alla Bibliografia
dei manoscritti in alfabeto latino conservati in Italia (Bibman), al Censimento dei
manoscritti delle biblioteche italiane (Manus), e al Progetto di censimento, descrizione e riproduzione digitale dei palinsesti greci (Rinascimento Virtuale). Il modulo Altri Cataloghi permette la ricerca simultanea su Cataloghi italiani e stranieri conformi allo standard Z39.50.
I documenti digitalizzati sono ricercabili attraverso le sezioni Collezioni Digitali
(con una descrizioni dei principali fondi) e Contenuti Digitali (che premette di
interrogare i repository e la banca dati digitale).
Il portale permette, attraverso i suoi Percorsi Culturali, di accedere alla versione
digitale di mostre (Mostre), a ipertesti (Viaggi nel Testo), a itinerari che coniugano
contenuti culturali nel territorio (Itinerari Turistico-Culturali) fino a veri e propri viaggi tridimensionali all’interno di ambienti virtuali (Percorsi 3D).
Italia Pianeta Libro
Creato nel maggio 2005, il sito web Italia Pianeta http://www.ilpianetalibro.it, è un
osservatorio sull’editoria e sulla lettura in Italia. Comprende banche dati di case
editrici, libri del mese, riviste di cultura, la versione on-line dei periodici Libri e
Riviste d’Italia e Accademie & Biblioteche d’Italia, laboratori di lettura per le scuole e numerose altre informazioni sul mondo del libro.
All'interno del sito si trova "Ottobre piovono libri", un panorama d'insieme sulla
prima importante campagna di promozione della lettura, che ha coinvolto nel
2006 oltre 250 “luoghi della lettura” dei Comuni italiani.
Siti web di riferimento
- Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali-DGBLIC:
http://www.librari.beniculturali.it
- Internet Culturale:
http://www.internetculturale.it
- ICCU:
www.iccu.sbn.it
- Biblioteche pubbliche statali:
http://www.bibliotechepubbliche.it
- Istituti culturali:
http://www.istituticulturali.it
- Comitati Nazionali per le celebrazioni e le manifestazioni culturali:
http://www.comitatinazionali.it
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Q
uando si parla di conservazione delle risorse digitali nel lungo periodo,
l’aspetto organizzativo (definizione di infrastrutture, ruoli e responsabilità) è
sicuramente un tema decisivo. Dal punto di vista delle istituzioni della memoria la
conservazione delle risorse digitali può essere vista come un servizio pubblico
fornito da depositi digitali accreditati (trusted digital repositories) [TDR 2002].
Per servizio pubblico si intende proprio quel servizio che – ritenuto essenziale e
strategico da una determinata comunità – è accessibile indipendentemente dalle
possibilità economiche del fruitore. Per depositi digitali accreditati si fa riferimento a standard per la certificazione di affidabilità.
Il servizio pubblico di conservazione delle risorse digitali ha lo scopo di assicurare nel lungo periodo per le risorse digitali depositate [definizione basata su LYNCH
2000, OAIS 2002, KUNZE 2005]:
- la vitalità (viability): le sequenze di bit che compongono i file sono intatte (ogni
risorsa depositata può essere rappresentata da uno o più file);
- la traducibilità da parte di un elaboratore (renderability): un determinato hardware e un determinato software sono in grado di gestire le risorge digitali
depositate, come ad esempio visualizzare a video un documento in formato
PDF;
- l'autenticità delle risorse depositate: intesa come documentazione della identità e della integrità;
- la fruibilità da parte delle comunità di riferimento. Ad esempio il deposito
rende possibili servizi quali quelli proposti dal modello FRBR: trovare, identificare, selezionare, ottenere una risorsa digitale (o un insieme di risorse)
In molti casi le risorse digitali per essere depositate dovranno essere convertite in
formati controllabili e gestibili nel tempo dal servizio di deposito. Da un lato infatti il servizio di deposito non può accettare formati che sono sconosciuti o protetti (si pensi ad esempio ai file protetti da DRM), dall’altro per certe tipi di risorse il
servizio pubblico potrebbe definire regole per l’accettabilità dei formati. Ad
esempio, nel caso del web profondo (deep web) le risorse digitali che il servizio
pubblico di deposito prende in consegna non sono necessariamente identiche (a
livello di bit) a quelle che si presentano nella realtà. Le risorse digitali appartenenti al web profondo sono di solito memorizzate in database relazionali e i contenuti vengono pubblicati dinamicamente a seguito della compilazione da parte di
un utente dei campi di un modulo di richiesta. In questo caso il servizio pubblico potrebbe accettare solo risorse digitali esportate dai database in un formato
standard.
Un contributo al primo obiettivo – la vitalità (viability) delle risorse acquisite – è
offerto dal progetto Magazzini digitali – finanziato nel 2006 dalla Fondazione
Rinascimento Digitale e dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – che si propone di realizzare una sperimentazione di archiviazione per un ammontare di dati
ritenuto significativo (10 terabyte). Il nome del progetto richiama i magazzini librari delle biblioteche nazionali che acquisiscono le pubblicazioni attraverso il
deposito legale. Per molti aspetti i magazzini digitali sono paragonabili a quelli
analogici:
- le risorse digitali devono essere conservate a lungo termine;
- le risorse digitali si incrementano per aggiunta (come un libro dopo l’altro sullo
scaffale): la cancellazione o la modifica di una risorsa non è una opzione prevista;
- è impossibile prevedere con che frequenza una risorsa digitale sarà usata: probabilmente molte risorse saranno raramente usate e qualcuna non lo sarà mai.
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Giovanni Bergamin
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
Il progetto Magazzini digitali: prove di sperimentazione
Direttore
Antonia Ida Fontana
P.zza Cavalleggeri, 1
50122 Firenze
tel. 055 249191
fax 055 2342482
[email protected]
www.bncf.firenze.sbn.it
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L’architettura del progetto è ispirata a due grandi archivi di risorse digitali esistenti: Google e Internet Archive. Per il primo si fa qui riferimento all’intervento presentato da un gruppo di ricercatori di Google al Convegno sui sistemi operativi
SOSP’03 dal titolo The Google file system [GFS 2003]. Per il secondo si fa riferimento al forum sul Petabox iniziato nel 2004 ma ancora attivo sul sito web di Internet
Archive [IA 2004].
Sia Google che Internet Archive partono dalla considerazione che nel mondo dei
sistemi informatici il malfunzionamento non è l’eccezione, ma la regola. Il rischio
di perdere i dati può essere affrontato tramite la ridondanza (più copie dello stesso file su macchine differenti e localizzate in luoghi differenti) e la facile sostituibilità dei componenti hardware. Il componente più adatto a questo scopo è proprio il personal computer: poco costoso, facilmente sostituibile e soprattutto non
dipendente da un particolare fornitore hardware o software. Oggi un comune
personal computer casalingo può arrivare ad archiviare fino a 4 TB (4 dischi da
1000 GB) con tecnologia SATA (ovvero proprio quella oggi più diffusa).
Il progetto Magazzini digitali sta sperimentando concretamente questa soluzione:
- 10 personal computer (di tipo industriale montati su rack, ognuno di quali dotato di 4 dischi SATA da 500 GB) sono stati installati secondo il principio dell’architettura multisito: 5 alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e 5 alla
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma;
- sulle macchine è stato installato un sistema operativo con codice sorgente aperto (open source) ovvero una comune distribuzione Linux (Fedora Core 5);
- la replica dei dati di base su software open source (rsync): per evitare particolari dipendenze (per esempio da dispositivi di controllo dei dischi) non viene
fatto uso di tecnologie RAID;
- è previsto anche un terzo sito che utilizza – per aumentare la sicurezza complessiva del sistema – una tecnologia del tutto differente dai primi due siti: si
tratta di una copia dei dati su nastri magnetici del tipo LTO Ultrium3. Il sito ha le
funzioni tipiche dell’archivio nascosto (dark archive [BL 2005]) ovvero di quell’archivio da usare solo nei casi di emergenza;
- in pratica per ogni file l’architettura complessiva prevede cinque copie: attraverso rsync i dati sono replicati sia all’interno dello stesso sito su macchine differenti, sia nei differenti siti (due copie a Firenze, due a Roma e una nel dark archive).
Questa architettura si presenta come “scalabile” (la capacità di archiviazione può
essere facilmente incrementata senza particolari vincoli compreso quello di
acquisire nuovo hardware dallo stesso fornitore del precedente) e di facile manutenzione (non sono richieste particolari specializzazioni, sono sufficienti tecnici
che conoscono il funzionamento di un personal computer).
Le evoluzioni del progetto Magazzini digitali previste nel 2007 si occuperanno di
ulteriori aspetti della conservazione delle risorse digitali a partire dal secondo
obiettivo – la traducibilità (renderability) da parte di un elaboratore cercando di
mettere insieme le soluzioni tecnologiche che in questo campo cominciano a
essere disponibili (il riferimento è alle strategie di emulazione e migrazione principalmente).
La certificazione dei Magazzini digitali è inoltre prevista come parte essenziale del
progetto. In questo contesto la certificazione è quel processo che permette di
verificare che l’infrastruttura complessiva sia in grado di rispondere al terzo e al
quarto obiettivo (autenticità e fruibilità).
Il punto di partenza sarà il documento Audit checklist [RLG 2005] del RLG che prevede la verifica degli aspetti che seguono:
- aspetti istituzionali e organizzativi;
- funzioni, processi e procedure;
- comunità di riferimento e uso dell’informazione;
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- tecnologie e infrastruttura tecnologica (questo punto equivale alla certificazione della sicurezza dei sistemi informatici prevista dalla norma ISO 27001-2005
che si propone di specificare i requisiti Information Security Management
System).
Se l’accesso alla memoria digitale della società è un servizio pubblico che le istituzioni della memoria sono oggi chiamate ad offrire, il successo di questo servizio non dipenderà solo dalla disponibilità di strumenti tecnologici, ma anche e
soprattutto da adeguate soluzioni organizzative. Il servizio pubblico di conservazione delle risorse digitali non è un servizio centralizzato, ma il risultato di una
forte cooperazione tra le istituzioni della memoria.
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Gestire e condividere i restauri: una piattaforma in rete
Clara Baracchini
Direzione Generale per l’Innovazione
Tecnologica e la Promozione
S
Art Past
direttore dei lavori
Clara Baracchini
vice Soprintendente per i beni
architettonici e il paesaggio
e per il patrimonio storico
artistico ed etnoantropologico
per le province di Pisa
e Livorno
Direttore Generale
Antonia Pasqua Recchia
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
tel. 06 67232960
fax 06 67232897
[email protected]
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i sta concludendo il progetto ARTPAST (applicazione informatica in rete per la
tutela del patrimonio artistico e storico), di responsabilità della Direzione
Generale per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione, che si proponeva di
approfondire la conoscenza, e facilitare la condivisione, del patrimonio culturale:
tutte le soprintendenze sono dunque state chiamate a digitalizzare le schede catalografiche che lo descrivono come le foto che lo raffigurano, popolando così il
Sistema Generale del Catalogo, e a verificare e sperimentare il Sistema Informativo
degli Uffici Esportazione, sviluppato negli anni precedenti per impulso della
Direzione Generale per il Patrimonio Storico e Artistico. Ma il progetto ha affrontato anche il problema di come strutturare e informatizzare la documentazione di
restauro, nella consapevolezza che è ormai tempo di riconoscere a questa attività,
essenziale per una corretta tutela, lo status di attività istituzionale e di disciplina
autonoma, in grado di dare doverosa e trasparente informazione sugli interventi
effettuati e di supportare la progettazione e il monitoraggio di quelli in corso. In
presenza di un affinamento teorico e metodologico, ma in assenza di un adeguato strumento tecnologico, si è proposto alle Soprintendenze di avviare, a titolo
sperimentale, una prima strutturazione della documentazione in loro possesso, utilizzando due SW sviluppati in Toscana da due giovani società (Liberologico e
MBIgroup), sulla base di una analisi dei requisiti effettuata dalla Soprintendenza e
dall’Università degli Studi di Pisa e supportata dalla consulenza della Scuola
Normale Superiore. Nel corso dei lavori, abbiamo riscontrato che effettivamente le
Soprintendenze erano alla ricerca di strumenti che fossero loro di supporto per la
gestione degli archivi storici e correnti, contenenti lettere, schede di catalogo storiche, pratiche di importazione ed esportazione, perizie e relazioni di interventi di
restauro (talora solo previsti o proposti ma non realizzati né autorizzati), fotografie
che spesso risultavano essere la sola testimonianza di un restauro, ed altro materiale archivistico, riguardante la storia della tutela delle opere in generale. L’attenzione
era spesso concentrata soprattutto sulla documentazione relativa ai restauri, con
l’intento di strutturare ed inserire tutte le informazioni utili per la progettazione di
un futuro intervento, ricorrendo anche, in assenza o in penuria di documentazione
scritta, a quella raccolta negli archivi fotografici. A queste caratteristiche rispondeva già in buona parte il sistema informativo AR.I.S.T.O.S. (ARchivio Informatico per
la Storia della Tutela degli Oggetti Storico artistici), nato nel 2001, come applicazione stand alone, con l’obiettivo di modellare, all’interno di un progetto di ricerca sulla storia della tutela, i contenuti tratti da un complesso insieme di documenti custoditi negli archivi della Soprintendenza di Pisa, e divenuto poi uno strumento web-based dedicato all’organizzazione e alla gestione delle informazione relative alla storia della tutela concepita in tutti i suoi diversi aspetti, anche se con un
peculiare interesse per la storia del restauro e della catalogazione. Per un anno il SW
è stato utilizzato dalle Soprintendenze, piegandolo alla differenziata casistica da
loro proposta: catalogazione degli archivi di restauro, per accertare quanto meno
consistenza e natura delle opere restaurate, catalogazione storica e analitica delle
fasi di restauro, esplorazione dei modi in cui una fotografia può parlare ed esplicare un intervento, recupero della memoria di un territorio o di uno specifico aspetto della tutela. Ne è nata una preziosa analisi sul campo che ha consentito di affinare in corso d’opera caratteristiche e funzionalità del Sistema Informativo sotto
test. Ma le Soprintendenze cercavano anche uno strumento per gestire la documentazione amministrativa e tecnica dei restauri in corso, per ottimizzare il flusso e
l’organizzazione dei dati fin dal loro nascere, organizzandoli e condividendoli in
rete tra tutti gli addetti (storici, architetti, restauratori, analisti, archivisti), per agevo-
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lare la valutazione preventiva di un intervento, in termini di metodi, di tempi e di
costi, il monitoraggio dell’avanzamento dei lavori, la stesura dell’ormai obbligatorio per legge piano di manutenzione. La possibilità di avere in rete un sistema capace di geo-riferire su di una immagine fedele e misurabile dell’oggetto d’intervento
un complesso data-base, proposta da SICaR (Sistema Informativo per la documentazione georeferenziata di Cantieri di Restauro), di fatto un GIS web-based, sembrava aderire a tali richieste. Nato all’interno di un progetto finanziato dalla Regione
Toscana (OPTOCANTIERI) come sviluppo in rete dell’esperienza di AKIRA GIS, un
sistema sviluppato sotto il controllo e la responsabilità di Gisella Capponi nell’ambito del restauro dei paramenti della Torre di Pisa, SICaR consente infatti di incrociare le informazioni di carattere tecnico prodotte durante il restauro (metodi,
materiali e strumenti usati nell’intervento, analisi chimiche, fisiche, petrografiche,
indagini sul degrado e su interventi precedenti, sulla struttura materiale e sulle tecniche esecutive) con i dati (testuali, iconografici, video, ecc.) relativi alla conoscenza del bene e alla sua storia, mettendo in grado gli operatori non solo di riferirli ad
una rappresentazione vettoriale dell’oggetto ma anche di mappare direttamente su
un’immagine misurabile di esso. Il sistema permette infatti agli operatori di inserire
i dati, strutturati in apposite schede, unendoli alla porzione della rappresentazione
digitale cui si riferiscono – e di farlo direttamente dalla loro postazione di lavoro
(sia essa un laboratorio o l’impalcatura di un cantiere). La ricerca, assai agevole,
garantisce un accesso trasversale e incrociato a tutte le categorie di dati gestiti –
informazioni geometriche, raster, documenti testuali, ipertesti (HTML) o testi semistrutturati (XML). Anche per SICaR è stata effettuata una lunga sperimentazione,
prima verificandone la capacità di contenere e comunicare interventi già eseguiti,
poi testandolo su alcuni cantieri in corso di progettazione: il lavoro ha anche in
questo caso fatto emergere la richiesta di nuove, più specifiche funzionalità che si
stanno valutando assieme anche al Centro di Restauro di Venaria Reale, al
Politecnico di Milano, alle Università di Siena e di Udine. Per fare il punto della situazione e stimolare una riflessione collettiva sull’argomento, è stato inserito nel convegno che, come tutti gli anni, il nostro Ministero organizza al Salone del Restauro
di Ferrara, un seminario dal titolo “Il cantiere di restauro: strumenti di supporto”.
Infatti, nella fase conclusiva del progetto ARTPAST, la sperimentazione, attuata e
positivamente conclusasi per quanto attiene le prestazioni tecnologiche dei SW
proposti, si sta fortificando grazie ad una attenta revisione dell’impalcatura metodologica e della adeguatezza del lessico, affidata dalla Direzione Generale
all’Istituto Centrale del Restauro –passo indispensabile per mettere stabilmente a
disposizione degli organi periferici del Ministero strumenti corretti ed utili ad
adempiere al dovere istituzionale di creare una piattaforma in rete che consenta a
tutti di costruire insieme, ognuno per le proprie competenze, la storia e il futuro
della tutela del nostro patrimonio.
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La Madonna di Montereale
Chiesa di Santa Maria in Pantanis di Montereale (AQ)
Calcedonio Tropea
Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico dell’Abruzzo
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Abruzzo
L
L’opera è stata oggetto
di analisi nell’ambito
del progetto Art Past,
per l’informatizzazione
dell’archivio dei restauri
e la georeferenziazione
degli interventi stessi.
Direttore dei lavori
Calcedonio Tropea
Direttore
Roberto Di Paola
Via Portici di San Bernardino, 3
67100 L’Aquila
tel. 0862 487244
fax 0862 420882
Coordinatore
Paola Carfagnini
Soprintendente
Anna Imponente
Coordinatore
Paola Carfagnini
Via Ottaviano Colecchi, 52
L’Aquila
tel. 0862 633478
fax 0862 633436
[email protected]
86
a Tavola della Madonna di Montereale occupa un posto di assoluta rilevanza, nell’ambito del patrimonio storico artistico abruzzese, per la eccezionale qualità dei
valori formali e coloristici che la contraddistinguono. Opera di straordinaria suggestione, veneratissima dal popolo di Montereale, piccolo centro montano, sito in
prossimità del capoluogo, fu protagonista di una singolare vicenda conservativa, a
partire dal settembre del 1958, allorquando il Soprintendente Raffaello Delogu, avendone ravvisato il gran pregio ed il pessimo stato di conservazione, ne dispose il prelievo ed il trasferimento all’Istituto Centrale del Restauro di Roma. Ma l’operazione fu
impedita dalla fermissima, corale opposizione dei fedeli, talmente irreducibile ed
ostinata, da scoraggiare ineluttabilmente ogni altro tentativo in tal senso, che venne
puntualmente reiterato da tutti, o quasi, i Soprintendenti che si avvicendarono nella
direzione dell’ufficio, sì da conferire alla questione lo spessore di un caso di rilevanza inusitata, che oltrepassava i confini regionali. La tavola veniva addirittura custodita,
a turno, nelle abitazioni dei vari membri della locale Confraternita della Madonna in
pantanis, con continui spostamenti che ne rendevano assai ardua l’individuazione.
Infine, si fece ricorso ad un singolare e risolutivo espediente: il dipinto, ormai ridotta
ai minimi termini, fu ricoverato nel conventino di S. Leonardo, residenza di Suore di
clausura e come tale inviolabile e inaccessibile. Questa situazione, apparentemente
senza sbocco, fu finalmente superata, grazie all’accorta opera di sesibilizzazione e
di mediazione svolta dal Soprintendente Renzo Mancini, il quale, con l’aiuto
dell’Arcivescovo dell’Aquila, riuscì a convincere la Confraternita ad acconsentire al
restauro ed alla esposizione dell’opera nel Museo, garantendone la disponibilità per
la celebrazione della solenne festa del 15 di agosto. Essa fu quindi sottoposta, in
loco, ad una serie di interventi preliminari che ne consentisssero lo spostamento e, di
seguito, trasferita presso l’Istituto Centrale del Restauro, il 19 di agosto del 1982.
Prima del restauro l’opera era appesantita da varie aggiunte ed orpelli: il tondo con il
volto nimbato della Vergine era adorno di due testine lignee di angeli settecenteschi;
una passamaneria dorata correva lungo il bordo; un drappo rosso copriva pietosamente la vistosa lacuna nella zona inferiore; due corone metalliche erano applicate
sulle teste della Madonna e del Bambino; una lamina di ottone, infine, rivestiva il tergo
della tavola.
Essa era interessata da numerosi attacchi di insetti xilofagi e da estese fessurazioni,
oltre che da un generale stato di sollevamento degli strati preparatori.
Gravi danni erano stati provocati dall’inserzione di chiodi, per l’apposizione di offerte e banconote, secondo un inveterata quanto improvvida tradizione locale, causa di
abrasioni e cadute di colore, innumerevoli.
Abbondanti ridipinture erano state eseguite nelle campiture di
fondo e nella veste del Bambino
nonché in corrispondenza dei
nimbi, nella dipintura in basso a
finto porfido e nella fascia decorativa di contorno. Lungo i bordi
del manto erano presenti stuccature e ritocchi.
In generale, l’intera superficie era
rivestita da uno strato di vernice
ossidata e da un velo di materia
untuosa oltre che da numerose
sgocciolature di cera.
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Il restauro fu dunque eseguito nell’anno 1982, per conto della
Soprintendenza, da Pietro dalla Nave, del Consorzio C.A.R.M.A., nei locali
dell’ Istituto Centrale per il Restauro di Roma, per poter usufruire di un supporto tecnologico e scientifico di livello ottimale. Dopo aver rimosso le sovrastrutture non originali, evidenziando una leggera imbarcatura della tavola, si è
proceduto alla doppia disinfestazione in camera a gas con bromuro di metile ed al consolidamento da tergo del supporto ligneo, con diverse applicazioni di Paraloid B72, diluito al 2 - 3 %, in tricloroetano. Lungo tutte le fessurazioni presenti sono stati praticati solchi a V, risarciti con cunei di 6/ 8 cm.,
in legno stagionato della stessa essenza. Tutta la struttura è stata rafforzata con
cinque traversine scorrevoli, formate da due piattine di alluminio sovrapposte, applicate con “gattelli” lignei fissati a colla, in modo da ottenere un “effetto a balestra”, capace di assorbire le flessioni del legno, senza inibirne i movimenti naturali.
Per ottenere una perfetta connessione tra il tondo e il corpo della tavola ed
evitare possibili oscillazioni, sono stati realizzati due ponticelli, sagomati a
misura, per il cui fissaggio, con viti a brucola, sono stati utilizzati i fori preesistenti, entro i quali sono stati inseriti dei nottolini in ottone per l’alloggiamento delle viti.
Si è poi proceduto al risanamento dei difetti di adesione degli strati preparatori e della pellicola pittorica, con iniezioni di Gelvatol 40/ 20, diluito in acqua
e alcool etilico al 10%, nonchè alla pulitura del colore, eseguita sulla base di
tests di solubilità e preceduta da una serie di analisi stratigrafiche dei vari pigmenti che, fra l’altro, hanno confermato che l’azzurro del manto della
Madonna venne realizzato con lapislazzuli.
È stata recuperata la cromia del manto verde del Bambino e della base, dipinta ad imitazione del porfido.
Sebbene non originali, essendo stata esclusa dagli esami al Pinacoscopio ed
ai raggi U.V. la presenza di uno strato di colore sottostante, le zone corrispondenti alla fascia decorative di contorno ed ai piedi della Vergine non sono
state rimosse.
Le ridipinture dei nimbi sono state asportate a bisturi e con dimetilformammide e acetato di amile.
I chiodi infissi più profondamente nel legno non sono stati estratti, per evitare cadute di colore.
Le stuccature con gesso di Bologna e colla di coniglio sono state limitate alle
lacune di minime entità, facilmente reintegrabili; per le lacune più estese, si è
preferito lasciare a vista la tela sottostante, la quale, dall’analisi microscopica,
è risultata essere di lino.
Le abrasioni del colore sono state velate ad acquerello ed è stato uniformato
il tono delle lacune e della preparazione.
Su tutta la superficie della tavola, infine, è stato applicato un velo di vernis à
retoucher.
Lo slancio ascensionale della nobilissima figurazione, qualificata dai raffinati
linearismi dei panneggi e dall’ ovale perfetto del volto della Vergine, che si
risolve nel ben calibrato inserimento del nimbo, la sontuosa pregnanza di un
colore prezioso, esaltato al massimo grado dall’uso del lapislazzulo, l’opulenza di un apparato decorativo, falcidiato dal tempo, ma che doveva essere in
origine di straordinaria ricchezza, sono tutti fattori che concorrono all’unisono, in mirabile sintesi, a determinare il livello qualitativo di assoluta eccellenza dell’opera ed a conferirle un carisma inusuale, di forte impatto emotivo,
che traspare con evidenza, inducendo nel riguardante un senso di mistica,
reverente soggezione.
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La Tavola di Montereale si apparenta, insieme ad una nutrita serie di altre consimili, pregevolissime produzioni, presenti in area calabro campana, culminanti nella Madonna amalfitana di S.Maria de flumine, ora al Museo di
Capodimonte, assegnata allo scorcio del XIII secolo, ad un altrettanto consistente gruppo di opere pugliesi che trovano il loro capostipite nella splendida icona conservata nell’episcopio di Andria, ritenuta degli inizi del secolo e
autorevolmente riferita al vivace ambito di cultura messinese, di cui sarebbero parte anche le Madonne Khan e Hamilton della Galleria Nazionale di
Washington ed in cui si attua una intensa apertura, in direzione del continente, che coinvolge “apporti fiorentini, pre o pra-coppeschi, trapassati anche
alla Madonna di Montevergine, che il Bologna ha precisato in direzione della
Madonna già Gerli, ricondotta al pittore fiorentino noto come Maestro di
S.Leonino a Panzano”.
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Il Castello federiciano di Melfi:
un restauro per la fruibilità
Antonio Giovannucci
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Basilicata
L
a Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Basilicata, nel coordinare le attività delle tre Soprintendenze di settore – per i Beni Archeologici,
per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il Patrimonio Storico Artistico ed
Etnoantropologico – ha dedicato particolare attenzione alle attività di restauro, in
quanto elemento fondamentale per la tutela del patrimonio e la sua conservazione, oltre che base essenziale e indifferibile per le azioni di promozione e valorizzazione.
Le attività di restauro vengono condotte sul territorio regionale in piena sinergia
con gli Istituti del Ministero e con gli Enti locali fin dalla fase di programmazione
degli interventi, nell’intento di coniugare le oggettive e indifferibili esigenze di
tutela con le imprescindibili aspettative delle comunità locali.
In tale ottica si pone uno degli interventi che hanno in maggior misura qualificato
le attività del 2006: il restauro del Castello di Melfi, che rappresenta il risultato di
una lunga attività finalizzata al recupero dell’intero complesso, le cui sale ospitano il Museo Archeologico Nazionale del Melfese “Massimo Pallottino” e che, quindi, compendia in sé alcune tra la più rappresentative evidenze culturali della
regione.
Il Castello di Melfi costituisce uno degli esempi più rilevanti di architettura fortificata della Basilicata. Numerosi interventi realizzati in epoche diverse restituiscono
oggi alla collettività un suggestivo complesso, circondato da un ampio fossato e
da una possente fortificazione, nel cui interno si susseguono edifici e cortili.
Il nucleo più antico fu edificato dai Normanni agli inizi del XII secolo ed è rappresentato dal corpo centrale, a pianta quadrata con torri angolari. Il castello fu particolarmente amato da Federico II di Svevia, che ne fece un centro di studi e da
questa sede promulgò nel 1231 le Constitutiones Augustales, primo testo di
leggi scritte dell’età medievale, redatto da Pier delle Vigne e Riccardo da Capua,
note appunto come Constitutiones Melfitanae. Il feudo di Melfi passò nel corso
dei secoli ai d’Angiò e ai Caracciolo e il castello, oggetto di numerose ristrutturazioni, fu dimora di re e di papi, sede di parlamenti e di concili. Gli ultimi feudatari, i Principi Doria, lo donarono nel 1952 allo stato Italiano.
Il complesso è stato interessato da interventi di restauro fin dagli anni ’50 del secolo scorso, ma solo di recente consistenti finanziamenti, destinati al suo recupero
strutturale e funzionale, hanno consentito di impostare un piano di interventi più
razionale e organico che ha permesso il recupero dell’intero corpo centrale e la
riapertura al pubblico, in un allestimento rinnovato, del Museo.
L’azione è stata indirizzata alla conservazione di tutte le evidenze strutturali del
complesso, attraverso un paziente lavoro di lettura e individuazione delle tracce
del passato, in maniera da rendere pienamente leggibile il nuovo intervento
rispetto alla struttura esistente e trasmettere, per quanto possibile, l’immagine del
monumento e della sua storia.
La struttura si presentava, ovviamente, già fortemente modificata dalle numerose
azioni condotte attraverso i secoli, in misura dei rifacimenti e delle ristrutturazioni
realizzate per adattare il complesso alle diverse esigenze di carattere militare,
amministrativo o residenziale di volta in volta individuate dai proprietari del
castello. Rispettare e conservare le tipologie costruttive, gli elementi architettonici
e decorativi, così come adeguare gli ambienti alla nuova destinazione d’uso del
corpo centrale (Museo archeologico) ha rappresentato una sfida da vincere per
restituire il monumento nella sua integrità, arricchendolo con le preziose collezioni archeologiche che custodisce. La necessità di non creare ulteriori anomalie e di
Direttore Regionale
Antonio Giovannucci
Coordinatore
Elvira Pica
Corso XVIII Agosto 1860, 84
85100 Potenza
tel. 0971 328111
fax 0971 328220
[email protected]
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ripristinare le spazialità preesistenti ha determinato le scelte operate per migliorare la fruibilità di tutto il monumento, rispettandone nel contempo l’impianto originario.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Oggi il Castello di Melfi vive come monumento e come museo, presentando nel suo complesso una sintesi degli eloquenti
valori storici e artistici che ha rappresentato nel tempo. L’operazione è stata possibile grazie ad una proficua collaborazione delle Soprintendenze di settore, che
hanno creduto e credono nella possibilità di mettere in evidenza le valenze architettoniche e storiche del monumento anche attraverso l’apertura al pubblico delle
sale e la presentazione delle testimonianze archeologiche e storiche dell’area
nella sua interezza.
Il Museo Archeologico ha attinto nuova linfa dal rinnovato allestimento, inaugurato ad aprile 2006, e presenta il Melfese nella sua complessità archeologica, quale
testimonianza storica di un antico crocevia tra area campana, dauna e ionica, illustrandone la centralità nel quadro delle relazioni tra le genti insediate in Italia meridionale dal VII al IV secolo a. C. Non solo: alcune sale del Museo sono dedicate
ad un particolare momento di vita del castello, utilizzato dai Principi Doria per
brevi soggiorni stagionali in occasione delle battute di caccia. Una serie di quindici tele con soggetto venatorio e il telero raffigurante lo Stato di Melfi sono oggi
esposte nelle “sale Doria”, a documentare come il castello, sorto per esigenze di
tutela e controllo del territorio, abbia attraversato i secoli offrendosi quale prezioso custode della cultura e della storia.
Melfi - Castello
Melfi - Castello
Sale del museo
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L’uso delle nuove tecnologie
come strumento di valorizzazione
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Caserta e Benevento
La Direzione Regionale della Campania partecipa a Ferrara al colloquio
Conservazione: una storia futura che presenta un primo saggio dei risultati dei
progetti AR.I.S.T.O.S (ARchivio Informatizzato per la Storia della Tutela delle
Opere Storico-artistiche e SICAR) in atto a livello nazionale con la Direzione
dalla dottoressa Baracchini Soprintendenza BAP e PSAE per le province di
Pisa, Livorno.
La realizzazione del progetto ARISTOS nelle Soprintendenza BAPPSAE di
Avellino e Salerno (Dottoressa Maddalena Picone) di Caserta e Benevento
(Dottoressa Luciana Pascucci) e di Napoli e provincia (Dottoressa Angela
Carro), ha avuto come obiettivo quello di mettere in comune soprattutto fonti
relative al territorio al fine di individuare le linee della tutela nell‘ambito regionale. La scelta dei funzionari di riferimento e responsabili degli archivi storici
e correnti degli uffici ha avuto, l’importante significato di promuovere la conoscenza della storia della tutela delle località periferiche. Il sisma del 1980 ha
segnato per molti aspetti la storia della tutela nella regione Campania e determinando una inversione di tendenza rispetto al passato.
La costituzione delle Soprintendenze periferiche, avvenuta immediatamente
dopo l’evento sismico, che ha dato l’avvio a nuove campagne di restauro e
catalogazione che hanno ampliato molto la conoscenza e la valorizzazione
del territorio.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
Maria Rosaria Nappi
www.artecard.it
Direttore regionale:
Stefano De Caro
Coordinatore
Maria Rosaria Nappi
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
tel. 081 24643211
fax 081 7645305
Soprintendente ad interim
Enrico Guglielmo
Palazzo Reale, Via Douhet
81100 Caserta
tel. 0823 277111
fax 0823 354516
www.reggiadicaserta.org
[email protected]
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Reggia di Caserta - Biblioteca
Lavori di consolidamento e restauro del patrimonio librario
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Caserta e Benevento
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
L
Progettista e direttore
dei lavori
Maria Rosaria Iacono
Collaboratore al progetto
e alla direzione dei lavori
Ferdinando Creta
Responsabile unico
del procedimento
Giovanna Petrenga
Ditta esecutrice
Studio P. Crisostomi s.r.l.
Esercizio finanziario 2006,
resti 2003
92
a Biblioteca Palatina, già prevista nel progetto vanvitelliano della Reggia di Caserta,
si è formata lentamente nel tempo, caratterizzandosi attraverso i gusti e la cultura
di chi ne ha avuto cura, senza tralasciare i problemi di depauperamento o smembramento legati alle vicende storiche che hanno interessato il Palazzo. La Biblioteca, ricchissima sia sotto l’aspetto contenutistico che sotto il profilo del pregio bibliografico, possiede fondi librari di circa 14.000 volumi e una rilevante sezione di manoscritti, sistemati in scaffali lignei d’epoca. Tra i volumi più interessanti emerge una raccolta di edizioni bodoniane di gran pregio, alcune rilegature molto particolari in stile
francese, che tra l’altro si ricollegano al periodo murattiano, e una vasta produzione
editoriale e di stampa napoletana, la maggior parte realizzata dal legatore partenopeo Angelo Trani, “fornitore della Real Casa” all’epoca di Ferdinando IV di Borbone.
Ed ancora una sezione esclusiva di carte geografiche del 1700 e 1800 che rappresentano il mondo antico, secondo le ricostruzioni degli storici, i continenti e le nazioni
moderne. Una raccolta di libretti d’opera e di melodrammi, che ebbero luogo a
Napoli presso il teatro San Carlo, completa questa biblioteca sotto l’aspetto degli
interessi per le arti, arricchita da un fondo epistolario con oltre 1600 lettere autografe
di Luigi Vanvitelli, ritrovato casualmente nel 1954 da Mons. Ruffini nella Chiesa di San
Giovanni dei Fiorentini di Roma, poi acquistato dalla Stato italiano e quindi assegnato alla biblioteca casertana. La condizione conservativa di tutto questo patrimonio
appariva al limite della tenuta: l’aggressione del tempo attraverso agenti fisici (luce,
calore, umidità) ed agenti chimici (inquinanti atmosferici) e biologici (insetti e microrganismi) avevano prodotto seri danni: in certi casi, si rischiava che gli stessi assumessero il carattere dell’irreversibilità. Il rinnovato interesse, la pressante domanda di consultazione e di conoscenza di questo straordinario patrimonio librario e documentario poneva alla Soprintendenza di Caserta l’obbligo di una perfetta conservazione e
di una efficace valorizzazione. Pertanto, un opportuno intervento conservativo è stato
ritenuto urgente ed inderogabile. Si è quindi ritenuto necessario intervenire attraverso una metodologia che consentisse, da un lato, il recupero dei manufatti dal punto
di vista tecnico materico, dall’altro la pianificazione di un’azione manutentiva adeguata, e che nello stesso tempo rispondesse a giusti criteri conservativi e di valorizzazione.
Restauro
Considerata la immediata lettura dei danni, non è stata ritenuta necessaria la preliminare indagine diagnostica, mentre urgente è apparso l’intervento di disinfezione e
disinfestazione, la spolveratura e la pulitura a secco, la deacidificazione locale di
buona parte delle carte, la reintegrazione degli strappi e delle piccole lacune. Gli
interventi più sostanziosi sono stati eseguiti sulle coperte; in alcuni casi è stato sufficiente un piccolo intervento strutturale e reintegrativo; in altri è stato necessario rinverdire e consolidare il supporto della legatura con reintegrazione delle lacune e
adeguamento cromatico; ed
ancora lo smontaggio provvisorio della coperta, la rindorsatura
del blocco delle carte e distacco provvisorio dei risguardi,
consolidamento e riaggancio
delle cuciture; in pochi casi è
stata confezionata una nuova
legatura uguale all’originale o
contenitori bivalve.
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Lavori di consolidamento e restauro degli arredi mobili
del palazzo Reale di Caserta
Il restauro
Il restauro dei manufatti lignei (cassettoni, vasi reggicandela, canapè, torciere, consolle con specchiere, comodini, tavolo, consolle, tavoli lavabo, divani ad angolo,
dormeuse, cassettoni, serie di sgabelli, pancheserie di poltroncine) si è rivelato piuttosto complesso dato lo stato di degrado degli oggetti. L’aggressione del tempo
attraverso agenti fisici (luce, calore, umidità) ed agenti chimici (inquinanti atmosferici) e biologici (insetti e microrganismi) e lesioni meccaniche avevano prodotto seri
danni, in certi casi, si rischiava che gli stessi assumessero il carattere dell’irreversibilità. L’intervento conservativo ha previsto la disinfestazione della struttura lignea; il
suo consolidamento per recuperare le necessarie proprietà meccaniche; la pulitura
della superficie lignee dallo sporco e dalle incrostazioni, dai deposti incoerenti e
dalle vecchie cornici sovrapposte; reintegrazioni delle parti mancanti con pezzi di
legno della stessa essenza. Rifacimento dei pezzi mancanti alla struttura di sostegno
e sistemazione statica del manufatto. Ripresentazione estetica del manufatto
mediante reintegrazione pittorica, ove necessario, ridoratura e lucidatura o protezione finale.
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Caserta e Benevento
seguito dell’accordo tra l’Amministrazione comunale di Caserta e la
Soprintendenza BAPPSAE di Caserta alcuni arredi della Reggia di Caserta sono
stati trasferiti nelle sale dell’Appartamento reale del complesso settecentesco del
Belvedere di San Leucio, previo un importante intervento conservativo realizzato con
il contributo dell’Amministrazione comunale casertana, proprietaria dell’immobile.
Gli arredi selezionati sono parte degli oggetti d’arte conservati nei depositi della reggia casertana. Si tratta di mobili di fabbricazione napoletana datati tra il XVIII e XIX
secolo, giunti a Caserta in epoche diverse anche da altre residenze borboniche.
Pertanto, non costituivano in origine gli arredi dell’appartamento reale di Caserta e
sono da decenni conservati nei depositi della reggia. Considerando il loro cattivo
stato di conservazione e la difficoltà di pubblica fruizione degli oggetti si è ritenuto
opportuno contribuire al riallestimento dell’appartamento Reale del complesso leuciano, attualmente restaurato nelle decorazioni, ma completamente privo del mobilio originario. La scelta degli arredi ha tenuto conto degli inventari ottocenteschi che
descrivevano gli oggetti contenuti nelle sale dell’appartamento in modo che, pur non
identificabili per numero d’inventario, corrispondono alle tipologie descritte.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
A
Progettista
Anna Maria Romano
Direttore dei lavori
Giovanna Petrenga
Collaboratore al progetto
e alla direzione dei lavori
Ferdinando Creta
Responsabile unico del
procedimento
Agostino Tenca
Ditta esecutrice
Coo.Be.C.
Cooperativa Beni Culturali Spoleto
Committenza
Comune di Caserta
Fondi Regione Campania
legge449/98
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Il Giardino Inglese della Reggia di Caserta:
il restauro del Roseto
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Caserta e Benevento
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
P
Progettista
Francesco Canestrini
Responsabile unico
del procedimento
Anna Capuano
Direzione lavori
Francesco Canestrini
Collaboratori
C.T. Vincenzo Carbone
A.T. Gaetano Tozzi
Ditta esecutrice
Eurogiardinaggio
Nicola Misto s.r.l.
POR Campania 2000-2006
Asse II Mis. 2.1
94
er il ripristino delle collezioni botaniche in piena terra si è fatto riferimento
all’analisi storica che ha ricostruito tutte le fasi di realizzazione del giardino,
consultando tutta la documentazione di archivio esistente. Di tale documentazione fanno parte i cataloghi delle piante in vendita, dal 1803 al 1870, che consentono di conoscere tutta la vegetazione che arricchiva il giardino e che costituiscono, quindi, un punto di riferimento sicuro per la messa a dimora di nuovi esemplari e per definire il restauro botanico.
In particolare la consultazione di testi del Terracciano, insigne botanico, direttore
del Giardino durante la seconda metà del XIX secolo, ha consentito di comprendere quale siano le piante da reintrodurre e dove esse fossero collocate.
La descrizione elaborata dal Terracciano in Cenno intorno al giardino botanico
della real casa in Caserta, con pianta topografica (Caserta 1876), rappresenta,
infatti, il vero punto di riferimento per l’attività di restauro e di recupero della complessa identità del sito.
Nel documento si ritrovano tutte le caratteristiche del giardino, dalla passeggiata tra le rarità botaniche, alla descrizione di ambienti per lo studio e l’acclimazione delle piante, all’attività di produzione e vendita.
Il restauro del Roseto
La necessità di ricomporre l’identità del giardino ha suggerito di restaurare alcune componenti essenziali descritte dal Terracciano, ma successivamente eliminate per far posto ad altre funzioni o per incuria.
Alcuni restauri sono stati già completati, quali la Scuola Botanica e le Serre, altri
sono attualmente in corso come il restauro del Roseto e delle serre o delle collezioni botaniche in piena terra ed in vaso.
La planimetria che accompagna gli scritti del Terracciano, localizza l’antico roseto
nell’area attualmente occupata da una serra moderna realizzata negli anni 1982-83,
struttura che ha completamente ignorato ed occultato l’assetto precedente.
La decisione di riproporre l’antico roseto borbonico nasce dalla necessità di ridare completezza alle collezioni del giardino ripristinando gli spazi dedicati alle
rose, secondo la sistemazione desumibile dal disegno del famoso botanico.
Tale definizione è stata confrontata con le sistemazioni ottocentesche di analoghe
collezioni esistenti presso le altre residenze reali europee, ed in particolare con il
disegno delle aiuole di rose presenti presso il Real Orto Botanico di Madrid.
Il progetto prevede, pertanto, la realizzazione di aiuole che ricordano l’antico
disegno basato su forme circolari ed ellittiche, delimitate da materiali tradizionalmente usati nel giardino, quali cordoli in materiali vulcanici e calpestii in taglime
tufaceo misto a calce e pozzolana, realizzati seguendo le antiche lavorazioni
descritte nel capitolato speciale per i Giardini Storici.
La collezione di rose sarà, inoltre, messa a dimora nel rispetto dello studio elaborato dalla dott.ssa Paola Lanzara e dal giardiniere Giulio De Fiore e dalle specialiste del vivaio di rose antiche, Le rose di Posillipo, che, consultando gli elenchi di
archivio, hanno aggiornato le antiche nomenclature, riuscendo a individuare molte
rose, reperibili in differenti aree geografiche.
Lo studio specialistico, in possesso della Soprintendenza, elenca anche le carattestiche e le differenti varietà delle rose ritrovate: noisette, gallica, moscata, ed i
luoghi in cui è possibile reperirle.
In base a tale studio ed ai portamenti delle differenti cultivar sono state progettate le aiuole e gli spazi da destinare ad ogni varietà.
A corona della collezione storica sono stati, inoltre, predisposti ulteriori spazi in
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grado di ospitare varietà più recenti ma di notevole interesse botanico, che testimoniano l’evoluzione e la modifica della forma originaria della rosa, a partire dagli
esemplari storici.
Il restauro dell’antico roseto, oltre ad avere un forte interesse scientifico, contribuirà a potenziare il valore didattico del giardino ed a incrementare il collezionismo
botanico, mediante la diffusione e commercializzazione futura di nuove piante
originate da quelle nuovamente messe a dimora a Caserta.
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La Grotta di S. Biagio Castellammare di Stabia (NA)
Ida Maietta
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
Notizie storiche
Progettazione e direzione
interventi strutturali e impianti
Aldo Imer
Progettazione e direzione
interventi sui beni artistici e
storici
Ida Maietta
Finanziamento
Fondi del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali
Programma ordinario
anno finanziario 2005
Soprintendente
Enrico Guglielmo
Piazza del Plebiscito, 1
80100 Napoli
tel. 081 5808111
fax 081 403561
[email protected]
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La grotta di S. Biagio ai piedi della collina di Varano, è monumento di grande interesse storico, artistico e archeologico, più volte utilizzato nei secoli e poi abbandonato.
La struttura consiste in una serie di ambienti scavati nel tufo in epoca romana e poi
decorati con affreschi raffiguranti santi a figura intera e in clipei, dall’epoca paleocristiana al Trecento.
La decorazione ad affresco quale ci appare oggi non appartiene ad un unico
periodo ed ad un unico ciclo decorativo, ma sembra potersi distinguere in fasi
diverse, che in alcuni punti vengono addirittura a sovrapporsi.
In generale sembra di poter riassumere, sulla scorta di precedenti studi, le decorazioni nelle fasi seguenti: la più antica, risalente al V secolo d.C., la seconda
databile tra il VII e l’VIII secolo, una successiva del IX secolo, ed una meglio conservata dell’XI-XII secolo, mentre ai lati dell’ingresso vi sono riquadri con santi
databili al XIV secolo.
Lavori
I lavori di restauro, attualmente in corso, hanno un carattere di urgenza in relazione al grave stato di conservazione dell’intero manufatto e rivestono una funzione
propedeutica ad una successiva fase di restauro definitivo delle superfici. Le procedure dell’intervento sono mirate ad una diretta conoscenza della materia attraverso test applicativi ed indagini diagnostiche di tipo clinico, strumentale e chimico-fisico. L’intervento viene condotto dal restauratore Umberto Piezzo, sotto la
direzione tecnico – scientifica della Soprintendenza per i B.A.P.P.S.A.E.
Il supporto scientifico e di ricerca vede coinvolti il dipartimento di Ingegneria dei
materiali e della produzione dell’Università di Napoli e L’Istituto dei materiali compositi e biomedici del CNR. L’impresa Vitello è incaricata dell’impiantistica e degli
interventi strutturali.
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La Guglia di S. Domenico a Napoli in Piazza
S.Domenico Maggiore
Ida Maietta
Lavori
I lavori di restauro, iniziati nel novembre 2005 e completati nel giugno 2006, sono
stati sponsorizzati dalla Associazione Incontri Napoletani con il contributo di
Regione, Provincia e Comune ed il sostegno dell’Istituto Banco di Napoli –
Fondazione, e sono stati eseguiti, sotto la direzione tecnico – scientifica della
Soprintendenza per i B.A.P.P.S.A.E., dalla ditta “Giovanna Izzo Restauri” di
Massimiliano Sampaolesi. Per l’occasione è stata pubblicato un libro – edito in italiano ed inglese – che illustra le diverse fasi di restauro e le tecniche di intervento,
a cura di Patrizia Giordano. (Edizioni Altrastampa).
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
La guglia intitolata a San Domenico, eretta per volontà del popolo napoletano e
dei Domenicani come ex voto per la fine dell’epidemia di peste del 1656, fu iniziata nel 1658 su disegno di Francesco Antonio Picchiatti, proseguita tra il 1665 e
il 1666 da Cosimo Fanzago e da Lorenzo Vaccaro tra il 1679 e il 1680 e compiuta
nel 1737 da Domenico Antonio Vaccaro.
Costituita da un corpo unico di pietre e calce rivestito da lastre di marmo con elementi intagliati e scolpiti, la guglia mostrava tipici fenomeni di degrado dei materiali costitutivi dovuti principalmente ad agenti atmosferici, e talvolta antropici,
nonché dall’inquinamento dei gas di scarico degli autoveicoli.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
Notizie storiche
Funzionario Responsabile
Ida Maietta
Sponsor
Associazione Incontri
Napoletani
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La ricostruzione da trenta frammenti
di una tela di Ferdinando Sanfelice
Chiesa di Santa Chiara – Nola
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
Luciana Arbace
Progettista e direttore dei lavori
Luciana Arbace
Soprintendenza BAP-PSAE
di Napoli e provincia
con la collaborazione di
Daniela Giordano
Impresa (CORESART di N. Leto)
Intervento di Somma Urgenza
da PO 2006
e Fondi del FEC
(Ministero dell’Interno, FEC)
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A
seguito del terremoto del 1980 è crollato il soffitto della Chiesa di Santa Chiara
di Nola. Al centro del cassettonato ligneo, una sfarzosa scenografia barocca
progettata dall’architetto Ferdinando Sanfelice verso il 1720, era collocata una
ridondante composizione raffigurante L’Immacolata in gloria al cospetto della
Trinità e San Michele arcangelo mentre scaccia gli angeli ribelli, assieme a due
ovali più piccoli.
Alcuni anni dopo, in occasione di un intervento strutturale alla chiesa post-terremoto, i lacerti di tali opere vennero raccolti e trasferiti in un deposito.
La storia conservativa più recente del dipinto, considerato irreparabilmente perduto negli successivi studi sulla pittura napoletana, ha avuto inizio con una Somma
Urgenza nel maggio 2005, finanziata con i fondi ordinari ministeriali, resosi necessaria quando si è constatato un preoccupante accelerarsi del degrado, con la
decomposizione delle fibre e dei tessuti causata dagli insetti xilofagi, parallela alla
formazione di muffe, provocate dal ristagno dell’umidità intrinseca ai manufatti
stessi e alle concrezioni sul rovescio.
Sicché, la prima azione di generale ‘salvataggio’ (di questa e di altre opere custodite nello stesso deposito) è consistita in una accurata ricognizione, nella disinfestazione di tutti gli elementi lignei e dei tessuti aggrediti da attacchi biologici, nella
rimozione delle polveri dalla superficie e nella successiva velinatura protettiva
delle superfici a rischio caduta del colore. Per non interrompere l’azione di tutela, sollecitato il Ministero dell’Interno, proprietario della Chiesa di Santa Chiara, è
stata finanziata la messa in sicurezza, dei dipinti più compromessi, in primis quello grande firmato Sanfelice.
La tela aveva subito danni di natura meccanica, ovvero estesi strappi della tela,
ridotta in innumerevoli frammenti, e di natura chimico-fisica, avendo sopportato
in conseguenza dell’abbandono sul pavimento, tra i detriti, la formazione di strati melmosi, ormai solidificati.
In un laboratorio appositamente allestito in uno spazio molto vasto, delicatamente rimossi dai cartoni, i brandelli di tela, ripiegati o accartocciati, sono stati riaperti, trattenuti sui lembi da spilli. Velinati con carta giapponese e colla di coniglio, si
è avuta di non causare ulteriori danni e lacerazioni del supporto con conseguente perdita della superficie pittorica in coincidenza delle innumerevoli grinze e
piegature. Operando sul retro dei frammenti, questi sono stati liberati dai depositi melmosi e ripianati con l’aiuto del vapore. Gli elementi ricomponibili sono stati
assemblati con fasce di velatino di garza e adesivo, realizzando in parallelo un
dettagliato rilievo. La fotografia del dipinto, realizzata nel 1979 a conclusione di
un precedente intervento di restauro, è stata di grande aiuto per identificare la
posizione dei vari frammenti, da quelli di grandi dimensione fino ai numerosi tasselli di pochi centimetri quadrati.
Il risultato di tale operazione è stato incoraggiante. Si era conservata la quasi totalità della superficie e la pellicola pittorica presentava una conservazione tale da permettere le successive operazioni conservative, tanto complesse quanto delicate.
Anche perché oltre i danni causati dal crollo occorreva eliminare anche la deformazione subita dalla tela lungo l’asse centrale e longitudinale, il cosiddetto spanciamento.
Per poter procedere nella ricomposizione complessiva, ciascun elemento è stato
poi identificato con il medesimo numero, da usare poi in maniera speculare,
riportato sul lucido del rilievo con l’aiuto di un adesivo di carta. Inoltre per far
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combaciare al millimetro i lembi laceri dei frammenti e non provocare interruzioni al disegno e alle pennellate, nei punti strategici sono stati indicati gli attacchi
con micro tasselli di colore reversibile.
Rigirato il puzzle, è cominciato l’assemblaggio definitivo delle varie parti, dall’alto
verso il basso, risolvendo contemporaneamente ogni trauma subito dal supporto.
Occorreva a seconda dei casi, con l’aiuto del vapore, far ripianare la superficie o
far riassorbire le ondulazioni nella trama della tela fino al ripristino della morfologia originaria. A questo punto è stata effettuata la prima foderatura utilizzando un
tessuto-non tessuto a fibra di vetro, quale strato d’intervento, con la specifica funzione di tenere insieme tutti i singoli elementi ricomposti. Prima del secondo rifodero con procedimento tradizionale, rigirata la tela ricomposta, è stata ritrovata
l’esatta collocazione di alcuni inserti di tela dipinta indicativi forse di un primo
restauro ottocentesco. Oltre a salvaguardare la memoria storica di un antico intervento, ciò ha contribuito a limitare ulteriormente le lacune, compensate con intarsi di tela grezza.
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Il recupero della Pala d’Altare con la Madonna e Santi
e i Misteri del Rosario in Ottaviano (NA)
Luciana Arbace
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
I
Progettista e Direttore dei Lavori
Luciana Arbace
Soprintendenza BAP-PSAE
di Napoli e provincia
Intervento di Somma Urgenza
con Fondi del FEC
Impresa
Laboratorio di Restauro di
U. Maggio, S. Nani, B. Cerrina
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n un angolo del chiostro del ex-Monastero del SS. Rosario, che oggi ospita un
plesso scolastico, dietro alcuni grandi armadi, è stata ritrovata una grande tavola
lignea, talmente degradata da apparire quasi illeggibile, a causa di circa due secoli di cattiva conservazione. Può ritenersi, difatti, che l’opera sia stata rimossa verso
il 1837, quando, ormai soppresso il convento domenicano con l’editto murattiano, il tempio viene affidato alla Congregazione dei Sacramentisti.
Effettuati in più punti alcuni microscopici saggi di pulitura si è compreso che si
trattava proprio dell’originaria Pala dell’altare maggiore della Chiesa, che era stata
fondata nel 1578, inglobando l’antica cappella di San Nicola, grazie al generoso
contributo di Don Bernardetto e Donna Giulia de’ Medici di Ottajano.
Sondata l’opportunità o meno di un intervento di recupero, l’opera è stata sottoposta ad un capillare intervento conservativo, che ha comportato anche il completo risanamento del rovescio, assemblato in maniera inadeguata. Sconnesse, deformate e imbarcate, le assi, avendo perso in molti punti gli originari inserti a coda di
rondine, erano state rinforzate da una precaria struttura con pali di castagno.
Dopo la spolveratura preliminare, la velinatura, la disinfestazione e il consolidamento della pellicola pittorica, l’intera superficie pittorica è stata sottoposta ad
una meticolosa pulitura che ha gradualmente restituito evidenza alla composizione, poi stuccata e integrata a rigatino o puntinato a seconda dei casi.
Malgrado si lamenti la perdita di una parte della superficie pittorica nei Misteri
della fascia in basso, alquanto lacunosi, e l’alterazione dei pigmenti cromatici, il
risultato è assai apprezzabile ed anzi permette di formulare l’ipotesi che la grande tavola sia stata eseguita verso il 1580 da Cornelis Smet, un artista fiammingo attivo a Napoli dal 1574 alla scomparsa, nell’ottobre del 1591.
Il maestro era molto apprezzato per la capacità di coniugare la precisione dei
fiamminghi – qui evidente soprattutto nell’accurata definizione della preziosa tiara
del Papa Pio V, in basso a sinistra – con una maniera garbata in linea con il dettato tridentino, che diventa tuttavia più guizzante e nervosa soprattutto nelle storie
di piccolo formato.
Notevole anche per la presenza degli illustri committenti raffigurati alle spalle di
San Domenico e Santa Caterina, la grande tavola rappresenta un tassello importante della storia della comunità di Ottaviano, la quale scriveva, proprio in quegli
anni, il testo di una pagina di assoluto prestigio.
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Castel Capuano: antiche trasformazioni e recenti restauri
Amalia Scielzo
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
edificio che per oltre cinque secoli si identifica nella città di Napoli con il
“Tribunale”, sebbene le austere facciate tardo ottocentesche non lo palesino, ha
origini antiche, in parte ancora da indagare ed accertare. Gli studiosi concordano
sulla presenza in questo luogo di una rocca normanna, posta a cavallo delle antiche mura, e poi di un fortilizio svevo, in posizione senza dubbio strategica di difesa del settore orientale della città. Il luogo in cui sorge il castello, infatti, era particolarmente esposto perché pianeggiante e rivolto verso le principali direttrici di
collegamento ai vicini centri di Aversa e Capua. Il ruolo di rinforzo del settore orientale delle mura, in una posizione così importante, ha fatto anche ipotizzare la presenza, in questo luogo, di un nucleo più antico collegato al sistema difensivo della
Napoli greco-romana, in prossimità dello sbocco del decumano maggiore.
Restaurato da Carlo I d’Angiò, l’edificio era tra le residenze reali ed in età aragonese,
una volta incluso completamente all’interno della nuova cinta muraria, il castello perse
definitivamente la funzione militare difensiva. Tuttavia, la struttura quadrangolare del
maniero federiciano, difeso lungo il perimetro esterno da un fossato, non subì significative modifiche nemmeno in occasione della complessiva ristrutturazione come
sede delle carceri e del Palazzo di Giustizia, voluta dal viceré Pedro de Toledo. Le
piante di Napoli del Theti del 1560 e di Dupérac Lafréry del 1566 sembrano, infatti,
indicare che i lavori di adattamento a sede del Tribunale, eseguiti tra il 1537 ed il 1545
dagli architetti Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa, non hanno stravolto la tipologia a castrum: impianto quadrangolare con torri rettilinee angolari a pianta quadrata, rappresentate anche nella Tavola Strozzi (1487 ca.) con un attico merlato aggettante. L’impianto generale dell’edificio non subisce consistenti modifiche fino alla
radicale trasformazione con ampliamento, avviata con il progetto del Riegler tra il
1858 e il 1861; lavori proseguiti, con alcune modifiche al progetto iniziale, dopo
l’unità d’Italia, negli anni successivi al 1885 e continuati fino ai primi decenni del secolo scorso, con la definitiva realizzazione, sul lato sud-est del corpo di fabbrica che
completa il perimetro quadrangolare ed il conseguente adeguamento delle facciate.
Lo stato della fabbrica precedente ai lavori di trasformazione, desumibile dai rilievi
allegati al progetto del Riegler, conferma la permanenza, sui prospetti esterni, dei
caratteri dell’antico maniero che convivono con le tracce inconfondibili della residenza reale angioina e aragonese, nonostante l’edificio fosse già da più di tre secoli
destinato a sede del Tribunale. Da quanto brevemente descritto appare evidente
come il Castello di Capuana sia, fra i grandi edifici storici della città, quello che ha
più di ogni altro subito trasformazioni, a causa di mutate destinazioni, ampliamenti e
restauri. Gli interventi eseguiti dal dopoguerra fino agli anni ’90 hanno, però, alterato
sensibilmente l’aspetto del monumento nel tentativo di adeguare la struttura alle sempre più pressanti esigenze giudiziarie. Un primo programma preliminare di interventi di restauro del Castel Capuano è stato redatto nel 1997 dalla Soprintendenza in collaborazione con i tecnici dell’Ufficio Speciale per la gestione e manutenzione degli
immobili giudiziari, all’indomani del trasferimento del settore penale al Centro
Direzionale. Il programma prevedeva l’eliminazione di tutte le superfetazioni realizzate nell’immobile storico negli ultimi decenni. Ma la riorganizzazione degli uffici giudiziari del settore civile – tuttora ancora presente in Castel Capuano – con la continua
necessità di spazi per le esigenze logistiche di funzionamento, ha consentito solo in
parte l’attuazione del programma dei lavori. Un’attenta analisi del rilievo planimetrico
dell’edificio attuale alle varie quote – elaborato dalla Soprintendenza agli inizi degli
anni ’90, insieme ad una prima ricerca iconografica ed archivistica – ha indicato tracce eloquenti della permanenza di interi corpi di fabbrica appartenenti a strutture
murarie più antiche, che risultano inglobate nella fabbrica attuale, fornendo indica-
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e Paesaggistici della Campania
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zioni per il progetto di recupero e valorizzazione delle testimonianze storiche ed
artistiche, allo stato attuale prevalentemente nascoste. Tra gli interventi già eseguiti
dalla Soprintendenza, oltre ai restauri delle superfici decorate dei saloni di rappresentanza, va segnalato il restauro del cortile del Vaglio, tra i più antichi del Castello,
con la rimozione dei corpi di fabbrica aggiunti per la creazione di un’aula di udienza. È stato inoltre demolito, a cura dell’Amministrazione Comunale proprietaria dell’area, l’edificio “ex uffici G.I.P”, ingombrante ed antiestetica superfetazione costruita
quasi in adiacenza al prospetto meridionale dell’edificio, del tutto avulsa dal contesto architettonico ed urbano. Sarà opportuno, quanto prima, provvedere al ripristino
dello stato originario del piazzale, con l’eliminazione del parcheggio a raso, considerata l’accertata possibilità di ubicare uno spazio di sosta per i veicoli, ad esclusivo
servizio dell’edificio, nel volume sottostante lo stesso piazzale. Il lavoro che la
Soprintendenza ha sin qui svolto e si propone di proseguire, nasce dalla ferma convinzione che sia oggi non solo possibile ma sicuramente ormai non più eludibile far
emergere, attraverso sistematici interventi di restauro, tutti gli aspetti e gli elementi
architettonici ed artistici che connotano l’edificio finalmente quale monumento – non
già come mero contenitore di funzioni – in cui si addensa una parte significativa della
cultura della città di Napoli. Attualmente – con finanziamento del Provveditorato
regionale alle Opere Pubbliche della Campania – sono in corso interventi urgenti di
restauro statico alla copertura a capriate lignee della Biblioteca degli avvocati, al
primo piano, mentre è imminente l’avvio dei lavori di restauro della facciata Nord.
Quest’ultimo consentirà, pur conservando l’unitarietà del prospetto conferita dall’intervento ottocentesco, di ricercare ed evidenziare le tracce della fabbrica più antica.
Dopo il definitivo trasferimento anche del settore civile al Centro Direzionale, la
Soprintendenza, infatti, con gli interventi già programmati e con quelli da programmare per gli anni futuri, in pieno accordo con la Presidenza della Corte d’Appello ed
il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, intende promuovere la prosecuzione delle
opere di restauro, assicurando la permanenza di quelle attività e funzioni giudiziarie,
che consentano di preservare le profonde radici storiche e le tradizioni secolari dell’amministrazione della giustizia nella città di Napoli. A tale scopo andranno individuate quelle destinazioni d’uso culturali e di rappresentanza, compatibili con le finalità di valorizzazione delle caratteristiche architettoniche ed artistiche dell’edificio,
per restituire alla città, mediante un attento restauro, la preziosa testimonianza di
un’architettura civile ricca di stratificazioni storiche L’intervento, grazie ai restauri in
corso alla Porta Capuana ed alla vicina chiesa di S. Caterina a Formiello permetterà
anche una riqualificazione definitiva di un’area cittadina ricchissima di evocazioni
storiche e di monumenti.
CASTELCAPUANO – Prospetto occidentale secondo
il progetto del 1858 dell’architetto Giovanni Riegler
da G. Petroni, Castelcapuano ridotto a Palazzo
di Giustizia, Napoli 1861
CASTELCAPUANO – Prospetto occidentale secondo il
progetto del 1858 dell’architetto Giovanni Riegler da
G. Petroni, Castelcapuano ridotto a Palazzo di Giustizia,
Napoli 1861CASTELCAPUANO – “Stato antico del lato
a mezzogiorno come trovasi nel 1858 ” da G. Petroni,
Castelcapuano ridotto a Palazzo di Giustizia, Napoli 1861
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CASTELCAPUANO – Prospetto principale, stato attuale
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Dipinti murali del Sette e Ottocento in Castelcapuano
a Napoli e cenni sul loro restauro (2005-2006)
Annalisa Porzio
Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
di Napoli e provincia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
L
a struttura di grandi cameroni quattrocenteschi si conserva nell’impianto del
Salone della Corte d’Appello detto anche Salone dei Busti e del contiguo
Saloncino dei Busti al piano nobile di Castelcapuano. Salita la scala di piperno,
un portale dalla cornice a fregio dorico introduce nell’immenso ambiente, un
tempo Tribunale della Sommaria. Qui la committenza borbonica, interessata
come già quella vicereale a qualificare in senso iconografico gli spazi del castello, trasformato in Palazzo di Giustizia, applica una partitura decorativa di gusto
tardo – rocaille, animata da figure allegoriche.
Al di sopra di una pannellatura lignea, le pareti sono scompartite da riquadri
modanati alternati ad aperture prospettiche, con colonne trompe l’oeil, sulle quali
poggiano le rappresentazioni delle dodici province del Regno di Napoli: Lucania,
Irpinia, Piceno, Campania, Vestinia, Marsia, Frentania, Daunia, Peucezia, Japigia,
Bruzia Ulteriore e Citeriore, figure femminili con stemmi e simboli.
Secondo la guida di Giuseppe Sigismondo, del 1788, la decorazione sarebbe
opera, nel 1770, di Antonio Cacciapuoti, Francesco de Ritiis e Vincenzo Bruno
detto l’Abate, i due ultimi autori delle prospettive architettoniche. Ragione di questa rappresentazione di territori è nella funzione dell’ambiente come sede della
Regia Camera della Sommaria, nella quale si dibattevano le controversie giuridiche
su diritti e rendite feudali.
Conserva il suo nome la Cappella della Sommaria che si apre sulla parete destra
del salone, affrescata da Pedro Roviale intorno al 1548, e riportata alla luce sotto
uno scialbo solo con il restauro ottocentesco.
Sulla parete ovest, tra le finestre, era stata risparmiata ai tempi di Ferdinando IV
Borbone la lunga lapide con i Diritti delli mastrodatti, vero e proprio regolamento e tariffario degli scambi che si svolgevano nel Salone, e forse solo nel XIX secolo, al momento delle trasformazioni strutturali dell’edificio, furono sistemati sulla
parete nord, al di sopra delle porte, gli stemmi marmorei intagliati che risalgono al
periodo vicereale, con tutta evidenza spoglio di parti demolite.
Il completamento del Salone con una volta in stile neosettecentesco, durante i
restauri del Riegler (1858), ha le caratteristiche di un intervento di tipo storicistico,
descritto nei dettagli dalla storiografia contemporanea (Petroni 1861). La volta a
botte incannucciata è raccordata alle pareti da una finta balaustra architettonica,
con mensoloni e trafori attraverso i quali compaiono aperture di cielo, puttini e
ghirlande, e che a sua volta rimanda, unificandoli, a tre ‘sfondati’ quadrangolari,
che compongono un’unica allegoria: Il Regno della Giustizia che, proteggendo
l’Innocenza e l’Onestà, perseguitando i Vizi e i Delitti, fa rifiorire sulla terra la
Pace e la Civiltà. Al centro, La Giustizia, con le Tavole del Diritto ed il motto:
HONESTE VIVITE/ALTERUM NON LAEDITE/SUUM CUIQUE TRIBUITE; in alto, I Vizi e
la Frode cacciati via dalla Forza della Giustizia, in basso, la Pace e i Commerci
che prosperano grazie alla Giustizia.
Per ragioni legate alle dimensioni stesse del Salone, rapportate alle misure dei
finanziamenti, ed al funzionamento di Castelcapuano come Palazzo di Giustizia,
che ne impediva chiusure prolungate, la decorazione è stata restaurata in tempi
diversi. Prima il soffitto, dipinto su intonaco a tecnica mista, e danneggiato da infiltrazioni d’acqua e da crolli dovuti al terremoto del novembre 1980, fu restaurato
negli anni Novanta, in un intervento che riguardò anche il supporto, ma lasciò lacunose larghe zone di superficie pittorica perduta. Poi sono state restaurate le pareti sud ed est, anch’esse dipinte in tecnica mista, a mezzo fresco e tempera, e
ripassate in restauri otto e novecenteschi.
Progetto e direzione dei lavori
Amalia Scielzo e Annalisa Porzio
Responsabile unico del
procedimento
Amalia Scielzo
Ditta esecutrice A.T.I.
Sergio Salvati - Olimpo srl
Roma
Fondi MiBAC
programma ordinario
anno finanziario 2005
e Ministero Infrastrutture e
Trasporti programma
annuale 2005
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Infine, l’intervento recente che presentiamo, sulle pareti sud e ovest, – dove colature d’acqua, fori di chiodi,distacchi e decoesione sia degli strati preparatori che
della pellicola pittorica, hanno richiesto oltre a consolidamento e pulitura, un
impegnativo lavoro di velature pittoriche, – e sul soffitto. Il restauro è stato condotto dal consorzio Salvati Olimpo di Roma. La volta presentava delle lacune
amplissime in tono neutro chiaro, che risultavano fortemente disturbanti per l’insieme della decorazione, comunicando un effetto di incombente crollo. Di fronte ad un ‘opera che era nata come restauro ottocentesco ad integrazione delle
pareti, si è inteso recuperare innanzitutto le partiture ornamentali, ritessendo la
composizione in una cornice con tre riquadri. Inoltre, avendo a disposizione le
foto d’archivio anteriori al terremoto, si è scelto di procedere, nel riquadro centrale, a completare – con la proiezione di diapositive a sostegno del profilo disegnativo – alcuni particolari che risultavano frammentari, contrassegnando le zone
di rifacimento con un sottile ‘nastro’, a stento percettibile a distanza, con la data
dell’intervento attuale.
Il risultato d’unità d’insieme dell’ambiente, del quale si è ricomposta la scenografia
ed il decoro monumentale, conforta sulla opportunità delle procedure adottate.
Il restauro degli affreschi del Saloncino adiacente ha sanato una lunga condizione di degrado, soprattutto negli angoli corrispondenti alla parete esterna, dilavati
da infiltrazioni piovane. Si tratta di un ciclo dipinto a mezzo fresco, su intonaco
umido, nel quale si leggono le incisioni preparatorie.
Gli studi riferiscono a questo interno i documenti di pagamento dell’Archivio
Storico del Banco di Napoli, intestati a Carlo Amalfi e Giovan Battista Natali nel 1752
e nel 1754, perciò ai tempi di Carlo di Borbone. Figurista il primo, famoso scenografo il secondo, applicano una formula compostiva analoga alle decorazioni dello
Scalone e della Prima anticamera della Reggia di Portici, con ariose quadrature
architettoniche su cui poggiano figure allegoriche. Il programma iconografico è affine a quello del perduto Salone del Sacro Regio Consiglio nello stesso
Castelcapuano, sorta di Tribunale di Appello, nel quale la presenza in immagine
della massima autorità, il re in persona, esclude ulteriori gradi di giudizio. Sulla
parete di fondo, elevato su finto basamento si staglia il simulacro di Carlo di
Borbone a cavallo dipinto a finto bronzo e accompagnato dalle Allegorie della
Carità e della Pace. Le altre figure alludono alla Sapienza, allo Studio e alla
Conoscenza della tradizione giuridica, necessarie per esprimere il giudizio.
Una pulitura generale, tanto dai restauri degli anni Trenta del Novecento, quanto
dalle ripassature con vernici sintetiche degli anni Settanta e Ottanta, scuritesi nel
tempo, evitando ulteriori integrazioni e velature, ha rimesso in luce, nel Saloncino,
la delicatezza dei colori della pittura rocaille, con colonnati aerei dai toni rosati e
panneggi delle figure lievemente cangianti, oltre alla qualità sottile delle fisionomie, che restituiscono il contesto e l’immagine visiva del Tribunale napoletano settecentesco.
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Restauri in Emilia-Romagna
Paola Monari
esare Brandi definì “restauro” qualsiasi intervento adatto a tutelare e a trasmettere
integralmente al futuro le opere d’interesse storico, artistico ed ambientale, senza
cancellare in esse le tracce del passaggio nel tempo.
Più recentemente, Giovanni Carbonara ha detto che “nel trattare di patrimonio storico, architettonico o archeologico, è necessario fare subito riferimento alle questioni connesse tanto alla sua conservazione e trasmissione al futuro, quanto alla
sua valorizzazione” e ha sottolineato che il “modo per consentire tali risultati è l’intervento di restauro, inteso nella sua accezione più ampia, vale a dire anche di
restauro ‘integrato’, aperto alle ragioni della fruizione e del riuso, alle componenti urbanistiche e territoriali, a quelle ecologiche e ambientali”. Egli indica il restauro
come il mezzo più adeguato per raggiungere la conservazione, premessa indispensabile anche alla successiva trasmissione al futuro e alla valorizzazione
E proprio in questo senso, in Emilia-Romagna, Soprintendenze, Archivi e Biblioteche
statali stanno attuando interventi di restauro sui beni nei territori di loro competenza,
siano essi edifici monumentali, arredi, opere d’arte, codici o libri antichi. Impegnarsi
per la valorizzazione del patrimonio storico e artistico è infatti una scelta vincente,
qualunque sia lo sviluppo che attende il nostro Paese.
A Ferrara
Nel cinquecentesco palazzo Costabili, altrimenti detto di Ludovico il Moro, sede del
Museo Archeologico Nazionale, il restauro dell’affresco della volta e il consolidamento delle strutture murarie della ‘sala del Tesoro’ rientra nel più ampio progetto finalizzato alla maggiore e migliore fruizione del Museo da parte del pubblico. Con tale progetto, incluso nei finanziamenti Lotto 2004-2006, la Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici dell’Emilia Romagna, con la collaborazione della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le Province di Ravenna,
Ferrara, Forlì/Cesena e Rimini e delle Istituzioni pubbliche di Ferrara, si è prefissa l’obiettivo di valorizzare il palazzo, una signorile residenza progettata da Biagio Rossetti intorno al 1500. Al di là del valore architettonico e artistico, l’edificio rappresenta anche un
documento che, attraverso vicissitudini e trasformazioni subite nel corso dei secoli,
racconta brani di storia della città e le prime azioni dell’Italia unita in difesa del patrimonio: dall’inserimento dell’edificio nella lista dei monumenti importanti della città
(1870), all’acquisto da parte dello Stato (1920), al restauro, che terminò con l’apertura del Museo di Spina nel 1935, condotto prima da Luigi Corsini, poi da Carlo
Calzecchi Onesti, soprintendenti che diressero nei primi decenni di attività l’Ufficio
Regionale per la Conservazione dei Monumenti dell’Emilia-Romagna istituito nel 1891.
Nel palazzo Schifanoia, l’intervento sui portali lapidei, operato su un precedente
intervento di 25 anni addietro, si può definire “un caso di restauro del restauro,
occasione anche di studio sulla durata ed efficacia di procedimenti e metodologie in quegli anni adottate”. L’operazione rientra nell’attività di valorizzazione di un
edificio del 1385, voluto da Alberto V D’Este come luogo di svago (“schiva la noia”),
di primaria importanza per la storia dell’architettura e della pittura ferrarese del 1400
(affreschi del “Salone dei Mesi” e stucchi della “Sala delle Virtù”) e ospita dal 1898 il
Museo Civico di Arte Antica.
Nell’ex infermeria dell’Ospedale di Sant’Anna, il restauro dell’antica facciata
dell’Auditorium del Conservatorio G. Frescobaldi (ex Ospedale S. Anna), che dà
sulla Piazzetta S. Anna, ha consentito di compiere un passo in avanti nella strategia di
valorizzazione di un centro nodale di grande interesse architettonico della città,
come quello rappresentato dall’Auditorium che prevede anche la pedonalizzazione
dell’area circostante che potrà essere utilizzata come luogo per iniziative pubbliche.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
C
Direttore Regionale
Maddalena Ragni
Coordinatore
Paola Monari
Via Sant’Isaia, 20
40123 Bologna
tel. 051 3307011
fax 051 3397077
[email protected]
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Nella basilica di San Francesco, commissionata nel 1494 a Biagio Rossetti dal Duca
Ercole I d’Este e ampiamente manomessa nei rifacimenti effettuati dopo il terremoto
del 1570, è stato da poco concluso il restauro del coro ligneo. L’intervento fa parte
di un più ampio progetto di conservazione e valorizzazione (Protocollo d’intesa
sugli interventi per il recupero degli edifici di culto progettati o realizzati dall’architetto Biagio Rossetti presenti nella città di Ferrara) che ha finora porato alla realizzazione del restauro pittorico e della struttura lignea del Trittico monumentale collocato dietro l’altar maggiore e del restauro architettonico dell’intera zona absidale e
della facciata del transetto sud.
A Ravenna
Nel Parco della Pace, spazio verde e al tempo stesso vero e proprio museo all’aperto, creato valorizzando e rendendo fruibile ai cittadini un’area comunale di 8.000 mq
nella seconda metà degli anni Ottanta, sono state raccolte, su idea di Giulio Carlo
Argan, opere d’arte realizzate a mosaico da autori contemporanei, tutte dedicate al
tema della pace e dell’amicizia fra i popoli. In poco più di un decennio, il degrado,
non sempre derivante da cause naturali, non ha risparmiato i mosaici. Per contrastare
il processo di deterioramento, è stato condotto, nel 2001, un monitoraggio delle singole opere che ha indotto ad avviare, nel 2005, un programma di restauro e manutenzione costante. I primi interventi hanno interessato l’Arcangelo Michele, opera di
Bruno Saetti, donata al Parco dalla famiglia dopo la morte dell’artista, e Un Pacifico
libero dall’atomica realizzata da Margaret L. Coupe.
Nella basilica di San Giovanni Evangelista, che la leggenda vuole eretta nel V secolo d.C. da Galla Placidia in seguito a un voto espresso durante una tempesta in mare,
è stato realizzato un intervento di consolidamento mirato al recupero dei valori estetici di alcuni frammenti, esposti sulle pareti interne, del pavimento del 1213 che rappresentava temi derivati dai romanzi cortesi dell’epoca, animali fantastici ed eroi
delle crociate. L’operazione ha contribuito alla valorizzazione della basilica, interessata da varie trasformazioni nel corso dei secoli e gravemente mutilata dai bombardamenti aerei del 1944.
A Modena
Il restauro del Libro d’Ore del Maestro di Modena, manoscritto membr. del sec.
XIV (1391) conservato presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena –
Collezione di Tommaso Obizzi del Catajo, ha avuto come obiettivo la restituzione
dell’ultimo abito rivestito dal prezioso Officio senza cancellarne i segni del tempo. La
riproduzione in facsimile del Codice, realizzata dalla casa editrice Il Bulino Edizioni
d’Arte di Modena, ha reso nuovamente accessibile agli studiosi un documento da
tempo escluso dalla consultazione. Nel commentario al facsimile, inoltre, a futura
memoria dell’intervento, sono descritte tutte le fasi del restauro della coperta.
Importanti dal punto di vista della fruizione e della valorizzazione, oltre che dal
punto di vista storico e culturale, sono gli interventi di restauro attuati dall’Archivio di
Stato di Modena sul Registro del Fondo Giudiziario di Finale Emilia, e sulla
Pianta topografica del fiume Po e dei ripari fatti costruire per la difesa della
terra di Boretto d’ordine di S.A.S. di Modena.
Il Registro, è un importante documento dell’’Archivio Giudiziario di Finale Emilia,
particolarmente ricco di frammenti membranacei di codici antichi. Esso rappresenta
anche una testimonianza dell’attività dei librai locali che spesso riciclavano codici
latini ed ebraici inutilizzati per farne copertine di volumi e registri.
La Mappa, disegnata nel 1700, illustra con particolare attenzione le opere di difesa
idraulica delle rive del Po comprese fra Brescello e Gualtieri per la parte Estense e fra
Viadana e Pomponesco per la parte mantovana.
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Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
La Soprintendenza per i Beni architettonici e per il Paesaggio per le Province di
Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini fu la prima ad essere istituita in Italia con
Regio Decreto n. 946 del 2.12.1897. Il suo primo direttore fu Corrado Ricci, che
poi diventerà Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti. L’attività della struttura
abbraccia un ventaglio assai ampio. Il principale profilo è rappresentato dall’azione di tutela sia ambientale che architettonica sul complesso territorio di competenza, caratterizzato da ambienti naturalistici di eccezionale interesse, da centri
storici e singoli monumenti di altissimo valore storico-artistico. I servizi interni alla
Soprintendenza sono: una biblioteca specializzata, l’archivio storico dei documenti e dei disegni, l’archivio fotografico ed un laboratorio di restauro. Altri rilevanti settori sono l’attività didattica del Museo Nazionale di Ravenna e di Casa
Romei a Ferrara. Con Decreto Ministeriale del 27.02.2004 è stata riconosciuta,
quale sezione distaccata della Scuola di Restauro dell’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze, la Scuola per il Restauro del Mosaico, già operante da due decenni per
la formazione di restauratori altamente specializzati. Inoltre fanno capo alla
Soprintendenza il complesso abbaziale di Pomposa con il Museo Pomposiano a
Codigoro, Casa Romei a Ferrara, il Museo Nazionale di Ravenna (che ospita reperti dalla preistoria, all’antichità classica, all’epoca altomedievale e moderna), gli
edifici tardo antichi e bizantini di Ravenna (il Mausoleo di Teoderico, il Battistero
degli Arcani, la Basilica di S. Apollinare in Classe), il cosiddetto Palazzo di
Teoderico e la Casa Natale di Giovanni Pascoli in provincia di Forlì-Cesena.
Dipendente dalla Soprintendenza di Ravenna è anche il Centro Operativo di
Ferrara istituito con D.M. 1.7.1991 a tutela del patrimonio storico artistico della
città.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
La Soprintendenza per i Beni architettonici e per
il Paesaggio per le Province di Ravenna, Ferrara,
Forlì-Cesena e Rimini
Centro operativo di Ferrara
Il Centro operativo di Ferrara è stato istituito con Decreto del Ministro per i Beni
Culturali del 1 luglio 1991, attesa l’importanza storico-artistica della Città di Ferrara
e del suo vasto territorio circostante, ed al fine di garantire in tale area una più attiva presenza della Soprintendenza per i Beni architettonici e per il paesaggio.
Nello svolgimento dei propri compiti istituzionali, è ormai consolidata la reciproca collaborazione tra il Centro operativo e le altre Soprintendenze competenti per
territorio: per i Beni archeologici e per i Beni artistici, storici e etnoantropologici;
in particolare con gli Istituti presenti nella città di Ferrara: il Museo archeologico
nazionale, situato a Palazzo Costabili cosiddetto di “Ludovico il Moro” e la
Pinacoteca Nazionale ospitata a Palazzo dei Diamanti.
Oltre a interventi di restauro eseguiti con finanziamenti ordinari e straordinari del
Ministero, il Centro Operativo garantisce la propria fattiva collaborazione per la
realizzazione di interventi promossi da soggetti esterni. Particolarmente proficua
ed efficace per la salvaguardia del patrimonio storico-artistico ferrarese, si è dimostrato in questi anni il rapporto con la Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, in
essa comprendendo anche la gestione delle analoghe finalità delle Fondazioni
“Lascito Niccolini” e “Magnoni Trotti”.
Si illustrano succintamente di seguito tre interventi di particolarmente significativi
di restauro condotti nel corso del 2006, e realizzati proprio grazie al contributo
finanziario delle Fondazioni sopra citate.
Centro operativo di Ferrara
Via Praisolo, 1
44100 Ferrara
tel. 0532 240341
fax 0532 212267
[email protected]
Direttore
Andrea Alberti
Soprintendente
Giorgio Cozzolino
Via San Vitale, 17
48100 Ravenna
tel. 0544 34424
fax 0544 37391
[email protected]
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Restauro dell’affresco della volta e consolidamento
delle strutture murarie della “sala del Tesoro” a palazzo
Costabili, cosiddetto di Ludovico il Moro a Ferrara
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Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
Andrea Alberti
L’
oggetto del restauro è la Sala del Tesoro o Sala Costabiliana, facente parte del
Palazzo Costabili, più comunemente conosciuto come Palazzo Ludovico il
Moro. Infatti mentre la tradizione attribuisce la commissione a Ludovico il Moro, è
più probabile che sia stato Antonio Costabili, ambasciatore estense a Milano, a
conferire a Biagio Rossetti l’incarico di progettare questo edificio come abitazione
propria e della sua famiglia. Il palazzo fu costruito nella zona della città interessata
dall’ampliamento dell’Addizione di Borso. Alla decorazione delle sale contribuirono pittori quali il Garofalo e l’Ortolano.
Nel 1503 fu interrotta la costruzione del palazzo, che non fu mai completato e che
subì successivamente un profondo decadimento, accentuato nel 1860 con la
disposizione comunale di destinare parte del complesso a panificio e magazzino
per l’esercito. Nel 1870 Luigi Napoleone Cittadella, in qualità di membro e segretario della Commissione di belle arti di Ferrara, nella relazione per l’inserimento
dell’edificio nella lista dei monumenti importanti della città descrive lo stato di
fatto della sala del Tesoro :“Una camera al piano terra è dipinta nella soffitta e
nelle lunette da Benvenuto Tisi da Garofalo: ma purtroppo la stanza è ad uso
di legnaia o deposito.”
La sala del Tesoro, o Sala Costabiliana, a pianta rettangolare, presenta un soffitto voltato, raccordato alle pareti verticali per mezzo di 18 piccole lunette con relative
vele e pennacchi. La stanza è impreziosita sia nella volta che nelle lunette da pitture murali attribuite al Garofano; l’esecuzione del soffitto si può datare fra il 15031506, mentre la realizzazione delle lunette monocrome si possono far risalire al
1517. Nel centro della volta si trova un rosone ligneo attorno a cui si sviluppa una
decorazione pittorica, che crea l’illusione di una cupola, collegata per mezzo di
quattro costoloni a una balaustra dalla quale si affacciano uomini e animali. La
decorazione termina sulle pareti verticali con le 18 lunette monocromatiche.
Già nel 1878 la volta della sala risulta puntellata con due travi, testimoniando la
presenza di un già accentuato degrado strutturale.
Passato il palazzo al demanio statale, negli anni 1922-23 iniziano dei lavori di
restauro, diretti dall’architetto Corsini della Soprintendenza ai Monumenti, che
avevano lo scopo di ripristinare l’assetto statico degli elementi murari di supporto ai dipinti. La volta affrescata presentava infatti, lesioni soprattutto negli angoli
della parete sud-ovest, causate da un muro tramezzo situato al piano superiore.
La demolizione del muro e l’alleggerimento della volta dal materiale di riempimento hanno caratterizzato la prima fase dell’intervento, successivamente in
seguito si sono collocate due travi di ferro necessarie ad una nuova distribuzione
dei carichi. Inoltre, come sostegno nelle aree maggiormente degradate, sono state
inserite delle centine di ferro ancorate alle travi e passanti per lo spessore della
muratura della volta. Per quanto riguardo la superficie pittorica sono stati eseguite
la stuccatura e la ripresa delle lesioni con malta a base cementizia; per ancorare la
pellicola alla muratura sono state utilizzate riparelle di rame.
Una decina di anni dopo, vengono eseguiti altri restauri sulle superfici pittoriche.
Per quanto riguarda la sala del Tesoro, purtroppo però non si hanno notizie sulle
metodologie di restauro utilizzate.
Purtroppo il degrado è progredito nel tempo; sia per la parte strutturale sia per le
superfici pittoriche. Dopo un primo intervento di restauro delle lunette e di studio
sulle cause dei dissesti statici, eseguiti nel 1994 ma con monitoraggio protratto nel
tempo, il progetto di consolidamento, ha preso in esame il processo distorsivo di
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due setti murari al piano primo, i quali gravano sulla volta e non presentano corrispondenza al piano terra. Nel restauro strutturale, eseguito nel 2006, si è attuato il
consolidamento dei setti murari per evitare sollecitazioni nella volta a padiglione.
Le superfici pittoriche della volta presentavano patologie di degrado dovute in
primo luogo al normale trascorrere del tempo; fin da un a prima analisi a vista
emergevano la perdita di coesione dei pigmenti e uno strato di deposito superficiale con conseguente alterazione cromatica. Inoltre erano evidenti sia integrazioni pittoriche che risarcimenti incongrui di lesioni effettuate nei restauri precedenti. Le aree adiacenti alle pareti sud e ovest apparivano quelle maggiormente
degradate in quanto soggette a sollecitazioni statiche da parte delle strutture
sovrastanti. L’intervento di restauro, condotto anch’esso nel 2006 in contiguità con
le opere di consolidamento strutturale, in primo luogo ha restituito una nuova adesione dell’intonaco al supporto murario attraverso iniezioni in profondità. Delicate
operazioni di pulitura e mirate integrazioni pittoriche hanno consentito di recuperare l’integrità del racconto decorativo, riportando alla pubblica fruizione la luminosità di questo brano di vita cortese, con i visi perfettamente definiti dal
Garofano dei personaggi che si affacciano dalla balaustra, contornati da animali
esotici e da arredi preziosi come tappeti e strumenti musicali.
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Restauro dei portali lapidei di Palazzo Schifanoia
Andrea Alberti
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Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
I
l palazzo Schifanoia, “delizia” di svago della corte Estense, venne edificato in fasi
successive; a partire dal primo nucleo nel 1385 fino alle grandi modifiche del
duca Borso nel 1465, nel corso delle quali vengono realizzate la sopraelevazione
di un piano della fabbrica (per ricavare l’appartamento ducale con il famoso salone d’Onore o “dei Mesi”) e, in facciata, il portale lapideo a tutta altezza, il tutto
esempio di straordinaria integrazione tra pittori, scultori ed architetti.
All’estremità opposta della facciata viene aperto un altro ingresso voltato a tutto
sesto e decorato con una ghiera in cotto, sostituita nel 1885 da un portale lapideo
realizzato in pietra d’Istria proveniente dal Convento di San Domenico.
Il portale principale, realizzato in pietra d’Istria è voltato a tutto sesto e disposto
su due ordini; nella parte inferiore presenta paraste scolpite con motivi e simbologie legate alla cultura rinascimentale, mentre l’ordine superiore si caratterizza per
la presenza di un grande stemma, sul quale erano scolpiti stemmi Estensi (scalpellati in epoche successive); originariamente il portale era inserito in un prospetto
dipinto ad affresco con motivi geometrici a finti marmi.
Il restauro dei portali lapidei di Palazzo Schifanoia eseguito nel 2006 e che ha visto
la collaborazione tra la Soprintendenza ed il Comune di Ferrara, è intervenuto a
circa venticinque anni di distanza da un altro intervento; può pertanto definirsi un
caso di “restauro del restauro”, occasione anche di studio sulla durata ed efficacia di procedimenti e metodologie in quegli anni adottate.
La superficie del portale principale appariva polverosa ed annerita, soprattutto
nella parte inferiore, a causa di croste nere che coprivano residui di policromia e
dorature rinvenuti nella fase conoscitiva che ha preceduto l’intervento vero e proprio. L’annerimento riguardava la maggior parte degli elementi caratterizzanti il
portale: fregi con le corrispondenti cornici, capitelli, paraste (sia frontali, sia gli stipiti del portale) e il sottarco.
Considerando lo stato conservativo si è scelto di operare con un sistema di pulitura misto: con puliture chimiche e apparecchiatura laser.
Gli interventi hanno seguito così un processo diversificato in risposta alle problematiche riscontrate, permettendo una
lettura più nitida delle superfici e dei
modellati.
Altro intervento pittorico è stato eseguito in corrispondenza dello scudo
dove le velature hanno aumentato
l’impatto visivo delle tracce di policromia rinvenute e dei simboli araldici
scalpellati.
Gli stessi criteri metodologici ed operativi sono stati applicati anche nell’intervento sul portale minore diversificando il processo in risposta alle specifiche problematiche di degrado.
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Restauro della facciata dell’Auditorium di Ferrara
(ex infermeria dell’antico Ospedale Sant’Anna)
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
I
l fronte dell’Auditorium del conservatorio di Ferrara, antico ingresso all’infermeria dell’ex ospedale Sant’Anna, è frutto di diverse stratificazioni: il prospetto a
timpano è quattrocentesco, il protiro risale al Rinascimento, la loggia lunga è settecentesca mentre il portichetto a est appartiene all’intervento, connotato da rilevanti esempi di architettura novecentista, operato sull’intero quartiere nel 1937.
Le condizioni di conservazione del prospetto erano, prima dei lavori, molto precarie: anni di incuria, utilizzo a parcheggio della piazza antistante avevano causato un degrado non solo delle superfici e dei materiali ma anche dell’immagine
stessa del monumento.
L’obiettivo del restauro è stato di restituire la leggibilità del fronte e delle sue stratificazioni, agendo sulla materia degradata e sulle cromie delle parti costituenti il
manufatto.
Particolare attenzione è stata dedicata al restauro conservativo dei cotti decorativi del portale quattrocentesco e della cornice del timpano: la pulitura chimica e
meccanica è stata modulata in modo da mantenere lacerti di finiture precedenti,
ove ancora visibili.
Il progetto di restauro ha trovato un elemento di interpretazione nel ripristino del
trattamento di finitura delle logge fiancheggianti il protiro, anche per rafforzare la
leggibilità delle diverse epoche costruttive.
Il restauro, oltre a garantire la conservazione del bene architettonico, ha ridato
decoro ad una parte significativa e suggestiva della città dopo anni di abbandono
e degrado, contribuendo agli impegni in atto di recupero dell’intorno urbano e di
auspicata imminente riapertura della sala dell’Auditorium e della “cella del Tasso”.
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Andrea Alberti
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Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
La Scuola per il Restauro del Mosaico a Ravenna
Sezione distaccata della Scuola di Restauro operante
presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Coordinatrice Didattica
Cetty Muscolino
Scuola per il Restauro
del Mosaico a Ravenna
Via S. Vitale, 17
48100 Ravenna
tel. 0544 34424
fax 0544 37391
sbapra.scuola@benicultu
rali.it
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L
a Scuola per il Restauro del Mosaico, gestita dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna, riconosciuta quale sezione distaccata della Scuola di Restauro operante presso l’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze (D.M. 27 febbraio 2004), è attiva dal 1984.
Strettamente legata all’esistenza di un cospicuo patrimonio musivo, la Scuola è
testimonianza di un momento storico particolarmente colto e raffinato che si è tradotto successivamente in una nutrita tradizione culturale. Questa premessa ha
dato così origine alla creazione e all’incremento di metodologie legate alla
Scienza della Conservazione della tecnica musiva.
Nel corso del quadriennio, in cui si alternano fasi di preparazione teorica presso
le sedi dell’Istituto, ad intense attività pratiche svolte nei cantieri scuola operanti
direttamente sul patrimonio artistico regionale, la Scuola si propone di creare
operatori che possano fare affidamento su una formazione aggiornata e specializzata e che, tenendo conto delle tecnologie e delle metodologie elaborate sull’esperienze di laboratori e di istituti di ricerca, si pongano all’avanguardia nel segmento della conservazione e della salvaguardia del mosaico.
La formazione degli allievi (italiani e stranieri) all’interno dei diversi laboratori (in
cui si realizzano lavorazioni ed interventi su mosaici, lapidei, stucchi e tarsie) è
articolata in un percorso metodologico strutturato attraverso specifici ambiti di cui
le ricerche storiche preliminari (mirate all’individuazione di dati archivistici e
bibliografici), la ricerca scientifica (per determinare le peculiarità materiche e le
eventuali cause di degrado), l’indagine fotografica e documentale (come attestazione e monitoraggio degli stati di fatto), ne costituiscono il nucleo fondamentale. Inoltre, l’applicazione di tecniche di rilevamento digitalizzate alle superfici
musive consente una più puntuale analisi degli aspetti materici e cromatici.
Il corpo docenti della Scuola è costituito da personale tecnico-scientifico della
Soprintendenza di Ravenna, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, delle
Soprintendenze Archeologiche per l’Emilia-Romagna e per la Toscana, da professionisti esterni e da restauratori altamente specializzati.
La Scuola svolge inoltre attività di restauro e consulenza in Italia e all’estero.
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Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
I
l Parco della Pace a Ravenna costituisce una singolare esposizione permanente di
opere musive di artisti contemporanei provenienti da diverse nazioni. Sulla base
di un progetto dello storico e critico d’arte Giulio Carlo Argan a partire dal 1984
sono state realizzate e collocate nel parco creazioni artistiche ispirate al tema
della pace.
Nel 2001 la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna,
allarmata per l’aggravarsi delle condizioni dei mosaici, ha condotto, attraverso una
équipe tecnico-scientifica della Scuola per il Restauro del Mosaico da lei gestita,
un accurato monitoraggio delle opere musive corredato da una campagna fotografica e da schede tecniche relative allo stato di conservazione di ogni singola
opera.
Grazie all’Accordo di Collaborazione fra il Comune di Ravenna, ente proprietario
dei mosaici, e la Soprintendenza, si è avviato un programma di restauro e manutenzione, per cui il Comune ha destinato i finanziamenti derivanti da Lottomatica.
Il primo mosaico oggetto dell’intervento è stato l’Arcangelo Michele che l’artista
Bruno Saetti aveva destinato al suo ovile, trasformato poi in cappella familiare, nell’abitazione di Montepiano in Toscana. L’opera fu trasferita a Ravenna dopo l’improvvisa morte dell’autore avvenuta nel 1984, per donazione della famiglia Saetti.
Venne collocata nel Parco della Pace nel 1987 ancorata ad un muro in cemento
armato rivestito di pietre che riprende le fattezze del muro dove si trovava originariamente. Dall’indagine del 2001 a quella condotta nuovamente nel 2005 è
emerso un ulteriore e sensibile aggravamento delle condizioni conservative. Il cattivo stato di conservazione lo si deve essenzialmente alla complessa storia dell’opera che vedeva la sua originaria destinazione in un luogo chiuso, protetto dagli
agenti atmosferici. Il trasferimento in uno spazio all’aperto ha generato successivamente tutte le problematiche di alterazione e degrado che oggi si riscontrano,
essendo stata utilizzata una tecnica di posa in opera non propriamente idonea.
Inoltre, le vicissitudini relative alla realizzazione definitiva dell’opera hanno comportato numerosi interventi da quelli dell’artista, nei suoi vari ripensamenti, a quelli eseguiti durante il trasferimento ed il montaggio a Ravenna.
Il mosaico, infatti, fu scomposto in sezioni e rimontato dalle maestranze ravennati su un supporto di cemento armato e argilla espansa tramite una malta che doveva garantire l’ancoraggio tra il massetto di base e la malta di allettamento delle tessere. Tutto il corpo del mosaico fu poi collegato ad una muratura – imitante il muro
dell’edificio di Montepiano – con perni in ferro. Fra le morfologie di degrado,
individuate sulla base delle Raccomandazioni NorMal disponibili in materia, sono
stati individuati i Distacchi, evidenti nel piano di contatto tra il massetto di supporto e quello di allettamento delle tessere, in cui si presentano anche fenomeni
di Disgregazione, Deposito Superficiale e Fratturazione; le Lacune, che presentano fenomeni di caduta in parte delle tessere musive, in parte della malta di allettamento mettendo così in luce il massetto di supporto; le Mancanze provocate
da caduta e perdita totale di parti. In queste zone è evidente la presenza di una
rete metallica, in parte ossidata, inserita all’interno del massetto di supporto. La
continua esposizione del manufatto agli agenti atmosferici ha inoltre contribuito
alla formazione di una Patina Biologica, nonché all’ossidazione dei perni di ancoraggio. Per quanto riguarda l’intervento di restauro, questo ha previsto innanzitutto il preconsolidamento delle parti in equilibrio precario, in maniera tale da poter
effettuare le successive fasi di intervento, consistenti in: trattamento biocida; pulitura; consolidamento del supporto cementizio, dell’armatura in ferro e dei perni
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Il Parco della Pace a Ravenna e i suoi mosaici:
l’Arcangelo Michele di Bruno Saetti
e Un Pacifico libero dall’atomica di Margaret L. Coupe
Direttore dei Lavori
Cetty Muscolino
Direttore tecnico di cantiere
(Arcangelo Michele)
Rest. Claudia Tedeschi
Direttore tecnico di cantiere
(Un Pacifico libero
dell’atomica)
Restauratore
Ermanno Carbonara
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di ancoraggio. Infine, dopo studi ed approfondite ricerche fotografiche e d’archivio, si è passati alle integrazioni delle lacune.
Contemporaneamente si è proceduto alla manutenzione del mosaico di Margaret
L. Coupe.
Per il Parco della Pace di Ravenna la Coupe compose un mosaico dal titolo Un
Pacifico libero dall’atomica.
L’opera presentava uno stato di conservazione discreto, le cui problematiche
riscontrate riguardavano sia gli aspetti strutturali (degrado delle strutture in cemento armato) che di superficie (degrado delle tessere di ceramica invetriata, lacune).
Fra le morfologie di degrado sono state riscontrate, oltre a quelle tipiche dei
manufatti esposti all’aperto, degrado biologico, fessurazioni, aumento della porosità, ecc., anche quelle riguardanti la presenza di materiali desueti per un manufatto musivo (ceramiche invetriate con la tecnica craquelè) che ci ha posto di
fronte all’interpretazione di specifiche problematiche di deterioramento.
L’intervento di restauro è stato condotto effettuando le seguenti fasi operative: trattamento lichenicida; preconsolidamento; pulitura; consolidamento dei distacchi
tra gli strati cementizi; risanamento della struttura del manufatto musivo; ritocco
interstiziale e integrazione delle tessere mancanti.
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Interventi sui mosaici medievali della basilica
di San Giovanni Evangelista a Ravenna
Scuola per il Restauro del Mosaico
a Scuola per il Restauro del Mosaico sezione distaccata dell’Opificio delle Pietre
Dure di Firenze, dal 2000 sta conducendo interventi di restauro ai lacerti musivi
medievali della basilica di San Giovanni Evangelista a Ravenna. Gli interventi sono
inseriti nel programma dell’attività di laboratorio e di restauro e sono compiuti, di
anno in anno, dagli allievi del II corso, supportati dal docente di laboratorio.
Il restauro riguarda nello specifico le sezioni musive appartenenti alla quota pavimentale medievale della basilica, datate al 1213, rinvenute nella seconda metà del
Settecento, che raffigurano scene di vario genere: da episodi della IV crociata alle
figure del bestiario, dalle scene di amore cortese fino ai riquadri con motivi vegetali.
A seguito del ritrovamento avvenuto nel 1763 e dunque, all’asportazione dalla
sede pavimentale e allo smembramento della ripartizione iconografica originale, i
mosaici furono murati nel pastoforio nord della basilica stessa (cappella di San
Bartolomeo), per poi, con i restauri del 1919-20, essere asportati dalle pareti, inseriti in telai di legno e rinforzati con supporti di cemento armato. I mosaici furono
così disposti sulle pareti della navata nord come beni mobili ancorati alla muratura con dei supporti metallici.
Dopo il disastroso crollo della metà ovest della basilica, causato dallo scoppio di
una bomba durante la seconda Guerra Mondiale, i lavori di restauro si concentrarono sulla ricostruzione dell’edificio e sugli scavi archeologici che portarono alla
scoperta di nuovi tratti pavimentali. In tale occasione i mosaici non subirono interventi significativi; solo nel 1988 cinque frammenti furono oggetto di un restauro
condotto dalla Scuola per il Restauro del Mosaico, che procedette alla sostituzione dei supporti in cemento armato, compromessi dall’ossidazione dei ferri.
Con il restauro odierno si è deciso di intraprendere una linea metodologica di minimo impatto possibile sullo stato complessivo dei manufatti musivi, giunti a noi già
fortemente intaccati dai restauri precedenti.
Come premessa alle fasi operative è stata effettuata un’analisi complessiva dei
mosaici con la redazione di tavole tematiche, sulle quali sono state registrate informazioni che comprendevano i dati sullo stato di conservazione, le manomissioni
delle tessiture originali, la classificazione dei materiali musivi, ecc. In questa fase
di indagine è stata rivolta particolare attenzione alle problematiche più specifiche
legate allo stato dei supporti. Appurato che questi ultimi non mettevano a rischio
i materiali originali e al fine di evitare ulteriori interventi traumatici su manufatti già
compromessi nei caratteri di originalità dai restauri precedenti, si è ritenuta inopportuna la loro rimozione.
Ci si è limitati ad eseguire operazioni di consolidamento superficiale del tessellato, concentrandosi maggiormente sul recupero dei valori estetici delle opere
musive attraverso puliture, stuccature e trattamento delle lacune.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
L
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini
Cetty Muscolino
Direttore dei lavori
Cetty Muscolino
Direttore tecnico di cantiere
Rest. Ermanno Carbonara
L’intervento di restauro
La superficie musiva dei lacerti era coperta da un deposito di colore grigiastro che
impediva una corretta percezione dei valori cromatici. Il deposito era formato da
particellato atmosferico incoerente e da una patina compatta e coesa, costituita da
vecchi trattamenti protettivi a base di cera. Lungo le zone perimetrali del tessellato
e in corrispondenza di vecchie integrazioni, molte tessere erano ricoperte da
incrostazioni di cemento, dovute alla scarsa perizia avuta nei lavori passati.
Si è quindi deciso di procedere con una pulitura generalizzata delle superfici tra-
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mite impacchi di soluzioni saline e tensioattivi, supportate da polpa di carta. Il
livello di pulitura ottenuto si è rivelato soddisfacente per quanto riguarda le zone
realizzate in materiale lapideo, sia naturale che artificiale (cotto), mentre nelle parti
di tessellato realizzate in pasta vitrea (principalmente le figure), l’impacco è stato
ripetuto prolungando il tempo di applicazione.
Le incrostazioni di cemento sono state asportate meccanicamente con bisturi,
punteruoli e vibroincisori.
Alcune tessere mobili, individuate con una preventiva verifica puntuale del loro
stato di adesione, sono state assicurate nuovamente al supporto tramite microinfiltrazioni di resina acrilica a bassa concentrazione.
Oltre ai depositi supeficiali e alle patine dei vecchi trattamenti, la lettura della tessitura era compromessa dalla presenza di rasature interstiziali in malta cementizia,
che alteravano la percezione formale e cromatica del rapporto tra interstizi e tessere.
In questo caso per evitare di danneggiare il tessellato e di portare alla luce un sottofondo interstiziale estremamente irregolare e disgregato, si è preferito non ricorrere ad un’eliminazione indiscriminata del cemento, ma si è agito esclusivamente
nelle zone ove era necessario attenuarne l’invasività. Sulle rasature non rimosse si
è proceduto pittoricamente con una tonalizzazione del colore grigio del cemento, con un colore affine alla malta interstiziale originale.
Il cemento utilizzato lungo i bordi dei lacerti come collegamento fra il perimetro
del tessellato e il telaio in legno, è stato scialbato con una pittura a calce pigmentata. Il colore è stato applicato come una campitura omogenea sulla superficie
dell’intonaco ed è stato risolto, come una sintesi dei caratteri cromatici complessivi del tessellato.
Le lacune di piccola entità interne al mosaico sono state integrate con la tecnica
della malta incisa e tonalizzate ad acquerello.
Infine, i telai di legno che incorniciano le sezioni sono stati puliti meccanicamente prima di applicare un trattamento protettivo.
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La Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di
Bologna ha competenza nel territorio che comprende le provincie di Bologna,
Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini.
Nei suoi compiti istituzionali rientrano la tutela, la catalogazione e l’individuazione di beni mobili, la regolamentazione dell’esportazione di opere d’arte e di collezioni, il restauro e la valorizzazione dei beni mobili.
Annovera inoltre diversificate attività culturali e di scambio, finalizzate all’organizzazione di mostre ed eventi in collaborazione con altri istituti e musei nazionali e
stranieri, nonché con soggetti privati.
Afferiscono alla Soprintendenza quattro sedi museali e le relative attività didattiche ad esse connesse:
- Pinacoteca Nazionale di Bologna
- Pinacoteca Nazionale di Ferrara
- Museo di Palazzo Pepoli Campogrande in Bologna
- Museo dell’Arte Neoclassica in Faenza
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
La Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico
ed Etnoantropologico per le province di Bologna,
Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini
Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini
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Soprintendente
Lorenza Mochi Onori
Via Belle Arti, 56
40126 Bologna
tel. 051 4209411
fax 051 251368
[email protected]
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Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
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Fondi ordinari
Soprintendenza PSAE
di Bologna con contributo
della Fondazione CA.RI.FE di
Ferrara
Progetto e Direzione Lavori
Gianfranca Rainone
Esecuzione Lavori
Restauro del coro ligneo
Laboratorio di restauro Andrea
Fedeli Firenze
Disinfestazione in atmosfera
controllata ditta BIblion srl
Roma
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Il coro Ligneo della Basilica di San Francesco a Ferrara.
Cenni Storici e Restauro
Gianfranca Rainone
L
a Basilica dedicata a San Francesco d’Assisi in Ferrara ha origini antichissime, i
primi documenti noti citano l’antico convento entro le mura della città nel 1243.
Per secoli l’edificio è stato oggetto di molteplici modificazioni, demolizioni e
ricostruzioni, accompagnate dai conseguenti mutamenti interni dovuti al susseguirsi delle piccole fabbriche destinate alla costruzione ed alla trasformazione di
cappelle votive e sepolcrali che, con i loro ornamenti, decori e opere d’arte pittorica e scultorica, hanno riunito un ricco e svariato patrimonio storico artistico.
Nel corso del tempo questo patrimonio è stato oggetto di cessione da parte dei
frati per finanziare le costose opere di restauro e mantenimento.
Cenni storici del edificio e del coro
Le fonti storiche citano la realizzazione di una edificazione del 1341 previa demolizione del corpo di fabbrica medievale precedente. La presenza di un coro
ligneo composto da 40 stalli, eseguito da maestro Arduino da Biasio intagliatore
di legno, viene documentata nella chiesa gotica.
(I documenti dei notai Lodovico Emiliani e Rainiero Iacobelli, datati 24 dicembre 1428 e 21 agosto 1431, danno una dettagliata descrizione del lavoro d’intaglio, distinguendo per ogni elemento l’essenza legnosa da impiegare: composto da 40 stalli, M. Arduino costruì un coro con buon legname secco e ben
stagionato. La pedana fu realizzata con grosse assi di abete. Di abete erano
anche le sedute e gli inginocchiatoi, questi ultimi bordati con cornici di acero;
i braccioli in noce erano grossi come quelli del coro del Duomo di Ferrara; le
spalliere in acero con ampie cornici in noce. Era previsto secondo i documenti un cornicione di coronamento traforato con ornamenti floreali. M. Arduino
doveva realizzare anche un baldacchino d’entrata, simile a quello della cappella del coro della chiesa di S. Francesco a Bologna, e 6 maestosi leggii. Nel
suo compenso erano inclusi il cibo, le bevande e l’alloggio per 4 lavoranti. Per
una somma aggiuntiva gli era stata commissionata anche una immagine
dell’Annunziata in cima all’ultimo stallo con frontespizio ornato da foglie, fiori e
pilastrelli. Nel contratto erano previste inoltre alcune clausole particolari: una
prevedeva che in caso di peste M. Arduino non dovesse lavorare in Ferrara;
un altra che M. Arduino non avrebbe dovuto impegnarsi a fare altro lavoro
prima d’aver ultimato il coro, mentre i frati non potevano affidare l’opera ad
altra persona finché M. Arduino fosse rimasto in vita).
Di questo magnifico coro purtroppo non si hanno più notizie dopo la demolizione dell’antica chiesa avvenuta nel 1494-95.
La radicale e definitiva trasformazione dell’edificio inizia il 3 agosto del 1495 ad
opera dell’architetto ducale Biagio Rossetti, che riprende ed elabora lo schema
architettonico di Leon Battista Alberti, conferendo all’edificio l’immagine che oggi
vediamo. Si hanno notizie di ulteriori lavori di abbellimenti e restauri negli anni
seguenti, ma nel 1570 un grande terremoto arrecò ingenti danni all’edificio. Da
questo momento l’opera del francescano Padre Agostino Righino, tenuto in molta
considerazione dai duca di Ferrara, è di fondamentale importanza per i lavori di
restauro nella chiesa e specialmente per quelli eseguiti nella zona absidale. Fonti
storiche riportano che Padre Agostino Righino fece costruire “dalle fondamenta
fino alla sommità” la Cappella Maggiore”(abside), perché “la chiesa arrivava insino
alli scalini di essa cappella, e non più oltre”. A lui si deve la nuova costruzione
della balaustra in marmo, il nuovo altar maggiore (zona transetto), il magnifico
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coro ligneo e la trasformazione della grande pala d’altare nel Trittico Monumentale
(con i dipinti di Domenico Monio).
Il nuovo coro ligneo
Le fonti d’archivio note ad oggi, non forniscono una descrizione dettagliata del
nuovo coro di 100 stalli, fatto eseguire da Padre Agostino Righino, (vedi stemma
inciso in foto) e attribuito a Lamberto da Fiandra. La complessa struttura, interamente in legno di noce – utilizzato anche per le parti meno visibili come le sedute – “abbraccia” quasi tutto il catino absidale con un semicerchio profondo 5.5 m
e alto 3,80 m intorno ad esso. Articolata in tre ordini di sedute, va semplificandosi dall’alto verso il basso, anche dal punto di vista decorativo. Il coro, dalle linee
semplici ed austere non presenta tarsie lignee ed é diviso in 4 settori; due a destra
e due a sinistra dell’abside, simmetrici rispetto allo stallo principale centrale. Gli
unici elementi decorativi presenti sono concentrati sul secondo e terzo ordine di
sedute. Un ampia fascia modanata di coronamento chiude l’intera struttura alternando pinnacoli e semicerchi intagliati con motivi vegetali.
Sulla base delle descrizioni dei documenti storici prima citati, relativamente al
numero degli stalli di entrambe le strutture – 40 per il coro della chiesa gotica e
100 per quella della fine dell’500 – possono agevolmente dedursi elementi di
riflessioni inerenti la maggiore ampiezza dimensionale dell’edificio rossettiano,
impianto, che successivamente al terremoto del 1570, veniva ancora ingrandito
con l’aggiunta del catino absidale.
Anche se ad oggi non si dispone di notizie puntuali emerse da fonti d’archivio per
le modifiche avvenute, è ipotizzabile che il coro ligneo sia stato oggetto di tagli e
trasformazioni strutturali, con smontaggio e ricomposizione anche recenti, probabilmente in occasione dei lavori strutturali del tetto e delle fondamenta, svolti a partire dal 1849 alla zona absidale ed il transetto, (creazione della nuova sagrestia, rifacimento dell’arellato e di parte delle centine del catino del coro, rinforzi alle fondamenta ed interventi decorativi sulle lesene e catino). Nello smontaggio eseguito per
i recenti lavori di restauro, si è osservato che il terzo ordine di stalli era sprovvisto
della sua struttura portante e risultava appoggiato direttamente contro la parete
curva dell’abside (operazione realizzata unendo gli stalli in corpi modulari di tre elementi ciascuno, attraverso assi trasversali (sul nuovo assetto modulare di tre elementi è stato condotto lo smontaggio finalizzato al nostro restauro), compariva
inoltre una anomala struttura di sostegno del 2° e 1° ordine di stalli eseguita con travetti di legno di abete mal tagliati e posati grossolanamente. Ulteriori difformità
costruttive con trasformazioni di elementi si presentavano anche sugli schienali,
sedute e inginocchiatoi.
Si è riscontrato inoltre una riduzione dello sviluppo lineare del coro sul catino
absidale, con eliminazione di sei stalli, tre sul lato destro e tre sul sinistro, conseguentemente all’apertura delle due porte laterali a ridosso del transetto, di cui una
per accedere alla nuova sagrestia. Il taglio si evince dal grossolano tamponamento posto sul fianco della struttura a gradoni e dall’inserimento di un traverso di
chiusura ad “S” (paratia di legno) posto tra la seduta e l’inginocchiatoio.
Interventi di restauro
Il coro evidenziava un pessimo stato di conservazione. Gli insetti xilofagi ancora
attivi, avevano distrutto irreparabilmente la struttura della pedana, realizzata in
legno di abete. Ultimato lo smontaggio, è stata realizzata con teli di polietilene
una “camera chiusa” per consentire la disinfestazione con gas atossici, con il sistema ad atmosfera controllata. Il trattamento disinfestante, durato 25 giorni é stato
eseguito all’interno della chiesa, sul transetto.
Ultimata l’operazione di disinfestazione, il coro è stato trasportato al laboratorio
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di restauro dove si sono susseguite le fasi di pulitura e di consolidamento.
È stata ricostruita interamente con legno di abete la pedana di appoggio e la struttura portante del 3° ordine di stalli. Successivamente al riassemblaggio si è proceduto ad un trattamento finale protettivo a cera.
Fotografie
Soprintendenza PASE di Bologna,
realizzate da Paolo Zappaterra e Gianfranca Rainone
Bibliografia consultata:
“La Basilica di San Francesco a Ferrara, itinerario storico-artistico”
di Padre Gino M. Canotti.
Edizioni SIGLA effe. Genova 1958.
“Memorie Storiche-Monumentali-Artistiche del Tempio di San Francesco”
di Cittadella Luigi Napoleone.
Ferrara 1867.
“La chiesa di S.Francesco a Ferrara: storia e restauri”.
Ricerca archivistica condotta
per la Soprintendenza BAP di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini a cura di:
Arch. Rita Fabbri, Arch. Valeria Casali e Giuliana Marcolini. Cartella testi. Ferrara 2004
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Biblioteca Estense Universitaria di Modena
La Biblioteca Estense Universitaria di Modena è una delle biblioteche di conservazione più antiche: nasce come collezione privata dei signori di Ferrara alla fine del
XIV secolo e raggiunge il massimo splendore artistico nel secolo XV con Leonello,
Borso ed Ercole I d’Este e, nel sec. XVI, con Alfonso I e Alfonso II.
In forza della devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio, nel 1598, la biblioteca
segue il duca Cesare I nel suo trasferimento a Modena, trovando spazi propri all’interno del Palazzo Ducale (oggi Accademia Militare).
Raggiunge fama europea sotto la guida di bibliotecari d’eccezione, primo fra tutti
Lodovico Antonio Muratori; nel 1764 Francesco III apre al pubblico la Ducal libreria, che riceve nuova linfa sotto la presidenza di Girolamo Tiraboschi, attraverso le
acquisizioni dalle congregazioni religiose soppresse, iniziate nel 1770 e proseguite fino al 1810.
Nel 1861 passa al Governo Italiano con la denominazione di R. Biblioteca
Estense.
Trasferita nel 1880 al secondo piano del Palazzo dei Musei, dove trovasi tuttora,
dal 1995 è stata unificata alla Biblioteca Universitaria, potenziando i servizi al pubblico.
Il patrimonio, in continuo incremento anche grazie a lasciti e donazioni, ammonta a 11024 volumi manoscritti, 157961 documenti, 1662 incunaboli, 15.966 cinquecentine, 549719 volumi a stampa, 4232 titoli di periodici e consistente materiale fotografico, audiovisivo e multimediale.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
Biblioteca Estense Universitaria di Modena
Direttore
Aurelio Aghemo
Piazzale S. Agostino, 337
411000 Modena
tel. 059 222248
fax 059 230195
[email protected]
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Conoscere restaurando:
la legatura del “Libro d’ore” del Maestro di Modena
Milena Ricci
Biblioteca Estense Universitaria di Modena
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
D
Direttore dei lavori
Milena Ricci
Restauro
Pierangelo Faggioli
(Antica Legatoria Gozzi.
Modena)
Angela Lusvarghi
Cristina Lusvarghi
Ivana Micheletti
(Laboratorio RT- Restauro
Tessile. Albinea, RE)
Sponsor
Mauro Bini
(Il Bulino Edizioni d’Arte.
Modena)
Ms Lat. 842 = alfa.R.7.3
Officium Beatae Mariae Virginis
Ms. membr., sec. XIV (1391),
mm. 210x155, cc. I,272
Scrittura gotica libraria
Miniatura lombarda
Modena, Biblioteca Estense
Universitaria
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alla collezione di Tommaso Obizzi del Catajo (donazione testamentaria del
1803).
Lo splendido codice miniato dal Maestro del libro d’ore di Modena reca una elegantissima legatura posteriore alla redazione dell’Officiolo (fine sec. XIV), che l’ultimo restauro del 2005-6 ha studiato e recuperato, perseguendo come obiettivo
la restituzione dell’ultimo abito rivestito dal libro.
In occasione della riproduzione del codice per l’edizione facsimilare, grazie alla
sponsorizzazione della casa editrice e alla perizia dei restauratori, che hanno allestito un piccolo laboratorio in loco, è stata restituita al prezioso Officio sua forma
esteriore, senza cancellare i segni lasciati dal tempo, evitando che l’usura e la
manipolazione ne accelerassero fatalmente la fine, nonostante il libro fosse già
escluso dalla consultazione.
L’intervento diretto è stato preceduto da una progettazione preliminare e da analisi scientifiche sui materiali, in accordo con i principi del restauro conservativo e
minimamamente invasivo, alla luce degll’insegnamento brandiano, con il conforto
delle esperienze presentate dall’ICPL e del CFR di Roma nel corso degli anni.
Pertanto il momento della riparazione della legatura del Libro d’ore non è stato
fine a se stesso, ma è divenuto mezzo per approfondire e modificare le scarse
conoscenze sull’esemplare, grazie all’avvio di una indagine trasversale e pluridisciplinare, afferente non solo alla storia del codice ma anche delle sue componenti materiali, nella tradizione dell’archeologia del libro.
La raffinata coperta in raso di seta cremisi, ricamata a punto pittura con la tecnica
dell’oro velato, a punto vapore e punto piatto, non si deve infatti alle preferenze
del committente, ma al gusto e alla sensibilità degli ultimi possessori.
Molto probabilmente, a ciclo pittorico concluso, dopo il 1391, le disadorne assi
di legno poste a protezione delle carte membranacee furono ricoperte con finissimo tessuto impreziosito da ricami floreali, analogamente a quanto avveniva per
i coevi codici di lusso milanesi, legati con il concorso di orafi e argentieri.
Contemporaneamente fu compiuta la rifilatura dei fogli, completata dalla doratura e cesellatura, in accordo con la sontuosità dell’apparato decorativo, perfettamente rispondente alla volontà del committente, Balzerino da Pusterla, cavaliere
della corte viscontea, strettamente legato all’ambiente monastico lombardo e alla
chiesa di Roma, raffigurato come orante all’interno del suo libro di preghiere.
Non essendo stato possibile, per l’esiguità dei campioni prelevabili, l’approfondimento diagnostico al radiocarbonio, ed essendo risultata rovinosa la perdita
delle informazioni potenzialmente deducibili a causa della sovrapposizione dei
passati interventi di restauro, il problema della manifattura e datazione dell’attuale legatura, nonostante il restauro conoscitivo, deve considerarsi ancora aperto a
nuovi contributi.
I due tondi centrali del piatto anteriore e posteriore, rispettivamente il primo con
l’immagine della Vergine e il secondo con lo stemma araldico, riportati sul tessuto serico, non appartengono infatti allo stesso milieu culturale del restante apparato decorativo a bordure e ghirlande, che risulta di gusto più tardo e di manifattura sette/ottocentesca.
L’esame autoptico dell’intera legatura, supportato da lenti e contafili e da un piccolo microscopio digitale, ha consentito di cogliere, attraverso la comparazione
dei diversi materiali tessili presenti, il complesso percorso di rifacimenti e giustapposizioni subiti dalla legatura lungo i secoli, e di ascrivere ragionevolmente i due
medaglioni all’inizio del secolo XVI.
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Probabilmente essi furono ritagliati da una legatura precedente, eseguita non per
il committente ma per il successivo possessore del codice, legato alla famiglia
veneziana dei Bembo, che volle personalizzare il libro acquisito sovrapponendo
il prorio blasone con il capriolo e il leone rampante allo stemma originariamente
dipinto nel bas de page della carta incipitaria.
Tuttavia, se si supera la pretesa della forzata ricostruzione dell’unità originaria e si
analizzano i reperti nella loro stratificazione storica, si possono comunque ottenere indizi insperati che, confortati dall’analisi dei materiali, permettono un nuova
lettura del reimpiego sia sotto il profilo storico e artistico che sotto il profilo tecnico scientifico.
Le indagini preliminari al restauro hanno ricondotto al riconoscimento di almeno
tre interventi sulla struttura originaria della legatura del codice, di cui l’ultimo è
quello degli anni 60-63 del sec. XX.
In occasione di questo rifacimento la legatura fu realizzata utilizzando un bellissimo velluto di seta, probabilmente in tessuto di recupero, che fu incollato ai piatti di legno con vinavil, impiegato anche per i dorsi dei fascicoli, con inserimento
di carta in corrispondenza della cerniera.
La cucitura fu eseguita dopo grecaggio, per consentire il riutilizzo dei fori originali, con filo di canapa tinto; il capitello, probabilmente settecentesco, fu incollato
al dorso.
Verosimilmente vennero rifatte le controguardie con seta moer color crema e
aggiunte le guardie in pergamena, secondo la tendenza della legatoria d’arte di
quegli anni.
Il sistema impiegato per il restauro, oggi non condivisibile per la sua aggressività,
fu però scelto in quanto l’unico in grado di mantenere la leggibilità della cesellatura dei tagli dorati e la consultabilità.
L’intervento di restauro del 2005-2006 è stato improntato alla minore invasività
possibile, pur avendo come obiettivo quello di assicurare al codice il mantenimento della funzionalità della legatura, in occasione di aperture del tutto eccezionali.
Ha escluso lo smontaggio del corpo del libro, che non necessitava di alcun intervento di restauro e che anzi, dallo scioglimento dei fascicoli e dalla loro ricomposizione, comunque avrebbe subito un trauma sia a livello strutturale che estetico,
considerata la cesellatura dei tagli a stento salvata dal restauro del 1963.
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Dopo la digitalizzazione delle carte, preceduta dalla messa in sicurezza dell’esemplare da parte del restauratore del libro, è iniziata l’opera delle restauratrici
del tessuto: è stata praticata una pulizia della coperta, tramite una reticella protettiva del raso, e alleggerite le macchie del vinavil con soluzione alcoolica.
Sono stati assicurati i piatti al dorso, dopo la rimozione di brandelli di cucitura non
più funzionali, e restaurati i bordi danneggiati dei piatti, rivestiti con l’applicazione di due veli di seta di Lione, appositamente tinta in due tonalità, avvalendosi
dell’inserimento di una pellicola termoadesiva tra le parti e della delicata applicazione del termocauterio.
Le operazioni sono state perfezionate con consolidamento a cucito dei ricami sollevati e delle applicazioni, ricollocando in posizione corretta i cordoncini storti o
pendenti, tranne i cordoncini argentati delimitanti i medaglioni centrali, in quanto
già riapplicati nel precedente rifacimento e pertanto storicizzati nella loro collocazione.
Le varie fasi dell’intervento, per il momento conoscitivo che hanno rappresentato,
sono state inserite nel commentario al facsimile del Libro d’ore e hanno acquisito
valenza storica nel contesto in cui oggi a buon diritto figurano.
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Archivio di Stato di Modena
Archivio di Stato di Modena
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
L’
Archivio di Stato di Modena, attualmente diretto dalla Dott.sa Euride Fregni, è
un Istituto periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, fondato nel
1862, deputato all’ordinamento, inventariazione, conservazione, fotoriproduzione, restauro e gestione di materiale archivistico.
L’Istituto conserva un patrimonio documentario dal secolo VIII fino ai giorni nostri,
particolarmente ricco per quanto riguarda il periodo dal sec. XV al XVIII, costituito da materiale cartaceo (oltre 160000 pezzi) e pergamenaceo (circa 17000 pergamene).
L’Archivio è inoltre sede di una Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica.
Direttore
Euride Fregni
Corso Cavour, 21
41100 Modena
tel. 059 230549
fax 059 244240
[email protected]
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Restauro del “Registro del fondo giudiziario
di Finale Emilia” e di 3 frammenti di pergamene
ebraiche utilizzate come coperta del registro stesso
Maria Antonietta Labellarte, Tamara Cavicchioli, Alberta Paltrinieri
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l lavoro attuato sul “Registro del fondo Giudiziario di Finale Emilia” e di tre frammenti di pergamene ebraiche utilizzate come coperta dello stesso registro,
esemplificativo di un intervento complesso sia per l’eterogeneità dei materiali utilizzati che per la loro diversa valenza dal punto di vista storico-culturale.
Il registro facente parte dell’Archivio Giudiziario di Finale Emilia, pervenuto
all’A.S.MO. nel periodo direttamente successivo all’Unità d’Italia, contiene le difese nelle cause dell’Ufficio del Finale dal 1652 al 1659. Il fondo sopracitato risulta
particolarmente ricco di frammenti membranacei di codici antichi, perché a Finale
deve essere esistita una concentrazione straordinaria di codici latini ed ebraici
scartati e riciclati dai librai locali che li utilizzavano per farne copertine di registri
e volumi. L’esemplare in questione è uno di questi.
Archivio di Stato di Modena
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
I
Stato di conservazione
Il registro, composto da 304 carte, presenta una coperta formata da tre frammenti ebraici membranacei e una legatura molto deteriorata sia nella cucitura che nella
coperta; i supporti cartacei sono lacunosi soprattutto nella mediazione grafica.
L’inchiostro metallogallico, in molti casi trasmigrato recto-verso, ha provocato perforazioni ai supporti cartacei a causa dell’acidità presente in esso. La cucitura si
presenta curva al contrario deformando totalmente il documento.
Soluzioni progettate
- Numerazione delle carte, scucitura, pulizia a secco, distacco coperta;
- Lavaggio con relativa deacidificazione, restauro con velature parziali e totali dei
supporti cartacei;
- Distacco dei tre frammenti di pergamena adesi al cartoncino che fa da coperta,
pulitura degli stessi e loro restauro completo;
- Ricomposizione fascicoli e relativa cucitura su 3 nervi di pelle allumata;
- Esecuzione di una coperta di pergamena ex novo semifloscia inserendo, per
rinforzo, cartoni durevoli su piatti e dorso, nervi di cucitura passanti sui piatti e
patta di chiusura come da originale.
- Condizionamento e collocazione dei tre frammenti di pergamene ebraiche
insieme ad altri documenti di stessa natura.
Pure se le prescrizioni tecniche indicano il recupero della vecchia coperta, in questo caso si è deciso di procedere all’allestimento di una coperta ex-novo fedele
all’originale, facendo salve le esigenze di conservazione e fruizione, in quanto si
è voluto dare ai frammenti ebraici una giusta collocazione storica.
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Restauro della “pianta topografica del fiume Po
e dei ripari fatti costruire per difesa della terra
di Boretto d’ordine di S.A.S di Modena”
Maria Antonietta Labellarte, Tamara Cavicchioli, Alberta Paltrinieri
Stato di conservazione
La mappa si presenta molto sporca e infragilita dalle piegature della vecchia conservazione. Nella parte superiore è presente una grossa lacuna estesa su tutto il
lato e sulla stessa è stato eseguito un vecchio restauro con una carta da recupero.
Archivio di Stato di Modena
l lavoro attuato sulla Pianta topografica del fiume Po e dei ripari fatti costruire per
la difesa della terra di Boretto d’ordine di S.A.S. di Modena, evidenzia in modo
particolare la rimozione di un vecchio restauro e l’urgenza di dare una maggiore
consistenza alla mappa.
La mappa, su supporto cartaceo, intitolata “Pianta topografica del fiume Po e dei
ripari fatti costruire per difesa della terra di Boretto d’ordine di S.A.S. di Modona”
è stata disegnata nel 1700 dal matematico bolognese Giangioseffo Mazzoni ingegnere per Sua Maestà Cesarea nello stato di Milano. Il disegno è in scala di 1000
passi geometrici (dimensioni cm 61 x 97) ed è eseguita con tratto a penna su carta
filigranata. Si tratta di una carta molto dettagliata delle rive di Po comprese tra la
fortezza di Brescello e Gualtieri per la parte estense e Viadana e Pomponesco per
la parte mantovana. La mappa presta particolare attenzione alle opere di difesa
idraulica, evidenziate dalle spiegazioni del disegno sulla sinistra e da un interessante dettaglio raffigurante la “veduta in grande d’un riparo e modo di construerlo”. La rappresentazione è impreziosita da un elegante fregio che la incornicia,
all’interno del quale è disegnata la rosa dei venti (nord in alto) e lo stemma del
Duca Estense.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
I
Soluzioni progettate
-
Spolveratura;
Lavaggio con distacco del vecchio restauro;
Spianamento;
Restauro completo con foderatura della mappa;
Spianamento finale.
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La villa rustica dell’acquedotto Randaccio
San Giovanni di Duino
Soprintendenza Archeologica del Friuli Venezia Giulia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia
N
el parco dell’acquedotto Triestino sono state condotte tre campagne di scavo
(1988, 1990, 1991), che hanno portato alla luce una serie di vani appartenenti
ad un edificio di età romana. La presenza di una falda acquifera che ricopriva
periodicamente tale sito ha reso necessaria una serie di opere per consentire la
canalizzazione delle acque. Ciò ha permesso di procedere al restauro e alla valorizzazione del sito.
L’edificio era sviluppato su una superficie molto vasta e seguiva in parte la naturale pendenza del terreno con un orientamento N65° W-65°E. Del complesso si
sono riconosciuti 40 vani, su una superficie totale di oltre 1330 mq, non ne risulta
la delimitazione.
Esso è costruito su tre livelli, con vani parzialmente incassati nella roccia di base e
circoscritti da muri in conci calcarei legati da malta; a causa della morfologia del
terreno e delle modalità costruttive – nonché di quelle di abbandono e distruzione, che sembrano essere state graduali – la sua conservazione e leggibilità non
sono uniformi: nella fascia più alta sono conservati solo muri a livello fondazionale e non i pavimenti, in quella bassa le strutture sono in parte sommerse dall’acqua di falda, alimentata anche dalle sorgenti carsiche che vengono incanalate nell’acquedotto.
Una lettura delle strutture e delle loro sovrapposizioni ha permesso di distinguere quattro fasi principali: la più antica è caratterizzata da vani di piccole dimensioni, forse pertinenti al settore rustico, come indicherebbero i pavimenti in cocciopesto ed un grosso dolio interrato; essa si data ancora in epoca repubblicana
(inizi I sec. a.C.).
In età augustea vengono costruiti i primi pavimenti a mosaico bianco delimitato da
fasce nere con decorazione a crocette e soglie con motivi geometrici e a mura di
città; vengono modificati e parzialmente rifatti in fase successiva (fine I inizi II sec.
d.C. come evidenziato dal pavimento a decorazione geometrica a motivi a stelle
e losanghe.
Nella terza fase viene anche effettuato un ampliamento, con l’aggiunta dell’ala occidentale, che comprende tra l’altro un vano a suspensurae.
Alcuni vani risultano abbandonati già alla fine del II sec. d.C., altri, con pavimenti
in cotto sono databili alla metà del III sec. d.C.; più in generale ad epoca tarda è
ascrivibile la probabile riconversione del complesso a fini produttivi, con l’inserzione di alcune vasche e focolari; l’uso dell’edificio è comunque proseguito fino
ad epoca costantiniana, cui rimanda una moneta trovata in loco.
Il complesso così individuato può avere assolto nelle sue varie fasi tanto la funzione
di villa – caratterizzata dalla compresenza di pars dominica e pars rustica – quanto il ruolo di mansio, connessa al percorso Aquileia – Tergeste, identificato sul terreno e dalle fonti antiche quali la tabula Peutingeriana e l’itinerarium Antonini.
Il restauro
Direttore Regionale
Ugo Soragno
Coordinatore
Claudio Barberi
Soprintendente
Fulvia Loschiavo
Piazza della Libertà 7
34132 Trieste
tel. 040 4194711
fax 040 43634
[email protected]
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Nel mese di settembre del 2006 si è concluso il restauro dei mosaici di questa
villa.
L’intervento si proponeva di bloccare il degrado che aveva colpito i mosaici dopo
diversi anni dall’impianto nel loro luogo originale di collocazione e dopo il restauro avvenuto a fine scavo archeologico.
Già anni precedenti si era intervenuto con una pulizia sommaria dei pavimenti
musivi collocati all’aperto e che presentavano, oltre al deposito di fogliame e terriccio, anche la crescita di flora di vario tipo, non solo sulla struttura muraria ma
anche fra le tessere musive.
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Quest’anno invece, viste le numerose richieste per poter visitare il sito, il degrado
ambientale e soprattutto l’illeggibilità dei disegni musivi, si è intervenuti con una
pulizia più approfondita.
Il pavimento si presentava coperto da un deposito superficiale costituito da
muschi, terriccio e microrganismi con azione biologica notevole che aveva annerito la superficie impedendo di distinguere le tessere bianche da quelle nere.
Il restauro precedente aveva sistemato il pavimento musivo su soletta di cemento
con integrazioni a livello con malta e coccio pesto.
Gli sbalzi di temperatura (gelo e disgelo) e la posizione dei pavimenti vicino alle
acque dell’acquedotto che subiscono nell’arco della giornata e delle stagioni
variazioni di livello e che vanno a sommergere alcuni di essi, hanno fatto si che si
formassero delle spaccature, dei sollevamenti e alcuni distacchi delle malte e
delle tessere che si presentavano sfaldate; in queste spaccature si sono formati
depositi di terriccio che ha favorito la crescita di piante di ogni tipo.
Il lavoro è iniziato con la pulizia del sito dal fogliame e dai muschi mediante diserbante (glifosate, usato anche dai tecnici dell’acquedotto triestino) e meccanicamente asportando anche tutte le malte distaccate; quindi sono stati fatti dei saggi
di pulitura con biocidi (Desogen e Biotin N) che sono risultati validi solo ad alte
concentrazioni.
Si è quindi scelto di proseguire nella pulitura solo utilizzando una macchina a
vapore e spazzole in quanto il sito, trovandosi nel territorio dell’acquedotto e a
contatto coi canali che vanno al mare, sarebbe stato fonte di inquinamento da
complessi organometallici difficilmente biodegradabili che avrebbero apportato
grossi problemi ecologici.
Il lavoro è stato completato con risarciture a malta sia sui muri delle stanze, sia sul
pavimento imitando il cocciopesto già usato nel primo restauro. Per il consolidameto delle tessere musive è stato spennellato silicato d’etile.
La collocazione del sito in un’area boschiva, e l’elevata umidità della zona, richiede interventi di manutenzione costante e periodica per il ripetersi delle condizioni di degrado.
Direttore dei lavori
Franca Maselli Scotti
Restauro
Antonella Crisma
Luisa Zubelli Quaia
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Museo Nazionale Paleocristiano
Museo Archeologico Nazionale di Aquileia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia
N
Direttore dei lavori
Franca Maselli Scotti
Intervento di restauro
ditta EDILRESTAURI
con Gruppo SAPIO
Restauratore conservatore
direttore Antonella Crisma
Assistente restauratore
Daniele Pasini
Direttore
Franca Maselli Scotti
Via Roma, 1
33051 Udine
tel. 0431 91016
fax 0431 919537
www.aquileia.it/
archeologico@museoarcheo.
aquileia.it
130
ella zona nord-orientale di Aquileia, nei pressi del porto fluviale, sorge nella
prima metà del V sec. una basilica cristiana di forma rettangolare (58 metri di
lunghezza e 19 di larghezza) caratterizzata da pavimenti musivi con iscrizioni, sia
in greco che in latino, che ricordano i personaggi che parteciparono alla costruzione del pavimento. L’edificio venne inglobato in un complesso monastico femminile dell’ordine di S. Benedetto; esso, intitolato a Santa Maria e detto extra
muros (cioè fuori le mura urbiche), divenne nel corso del tempo “il monastero”
per antonomasia.
Il complesso venne venduto ai privati a seguito delle disposizioni di Giuseppe II,
imperatore d’Austria; ciò determinò, a partire dal 1787, e tanto più dal 1852, una
serie di lavori di trasformazione delle strutture dell’ex complesso monastico, con
profonde modifiche degli ambienti finalizzate a specifiche esigenze agricole.
In particolare, l’edificio già sede della chiesa delle Benedettine venne usato per la
vinificazione.
Proprio qui avvennero nel 1895 le prime scoperte archeologiche: scavi per la realizzazione di una cantina portarono in luce mosaici policromi ed un’abside. I muri
laterali sono conservati in altezza da uno a tre metri. Davanti all’edificio si apriva
una piazza lastricata: i fedeli, giungendo alla basilica, entravano nel nartece, nel
quale erano collocate alcune tombe, poi, attraverso le tre porte che si aprivano
nella facciata, passavano nello spazio interno, a navata unica. Il presbiterio, era
recintato da balaustre; la basilica terminava con un’abside poligonale poco profonda, chiusa entro un ambiente rettangolare secondo la caratteristica degli edifici cristiani dell’alto Adriatico, in particolare aquileiesi.
Il mosaico pavimentale è ad orditura geometrica costituita da una doppia serie di
sei riquadri, separati al centro da un lungo corridoio, ricalcato dalla moderna passerella. Si ripetono ottagoni, cerchi, quadrati, elementi rettilinei e curvilinei: non vi
è traccia di motivi figurati. A distanze regolari sono inserite iscrizioni, in latino e
greco, La chiesa dovette subire rilevanti danni nell’episodio attiliano del 18 luglio
452 d.C, come dimostrerebbero i lavori di ristrutturazione eseguiti. L’aula venne
divisa in tre navate per mezzo di sei coppie di pilastri, alcuni inseriti nel mosaico.
Si stese quindi un nuovo pavimento, posto ad un livello più alto dell’originale di
circa 40 centimetri; dei lacerti rimasti, dopo lo strappo e la ricollocazione sul muro
di fondo, sono rimasti visibili quelli più antichi. L’edificio sacro ebbe un’ulteriore
sistemazione, segnata da colonne sostenenti archi e da una pavimentazione in
lastroni di pietra, all’inizio del IX secolo, quando venne adibito a chiesa per le
monache del cenobio benedettino.
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Il Complesso Paleocristiano di Monastero
Museo Archeologico Nazionale di Aquileia
Il complesso archeologico costituito dai resti delle basiliche paleocristiane di
Monastero, si presenta come unità caratterizzata da due situazioni ambientali particolari:
a - è inscritto nel perimetro delle mura dell’ottocentesco edificio adibito alla vinificazione, e quindi gode di protezione contro le aggressioni atmosferiche;
b - si trova ad un piano notevolmente inferiore al livello degli edifici attuali ed al
piano di campagna, con fondazioni e sottofondazioni che rimangono immerse, per gran parte dell’anno, nell’acqua delle falde freatiche superficiali.
Di conseguenza le strutture antiche si trovano in un microclima particolare, con
umidità elevatissime in ogni periodo dell’anno, dovuta alla continua risalita dell’acqua per capillarità e alla conseguente evaporazione in ambiente chiuso.
Considerata l’impossibilità di isolare le strutture murarie dalla falda acquifera è
necessario prevedere, ad intervalli regolari, la rimozione dei carbonati deposti
dall’acqua e delle formazioni di colonie di microrganismi biodeteriogeni.
È necessario, inoltre, eliminare residui di stuccature in materiale composito (leganti ed inerti di varia granulometria, residui di precedenti trattamenti di restauro).
La periodicità degli interventi di manutenzione, l’esecuzione degli stessi in
ambiente chiuso, la presenza di acque di falda, l’opportunità di non chiudere
completamente il sito alla visita durante i lavori, sono le ragioni che hanno spinto
la direzione scrivente a considerare l’utilizzo di una tecnica di pulitura che unisse
efficacia dell’intervento a rapidità, economicità e rispetto per l’ambiente.
La tecnologia “ICE CLEAN”*, registrata dal gruppo “SAPIO”, mutuata e opportunamente modificata dai procedimenti industriali di criosabbiatura, risponde efficacemente alle esigenze sopra descritte.
Nuova è l’adozione di questa tecnologia su materiale musivo, dissimile nella natura dei suoi componenti.
Una volta predisposte le varie unità operative secondo le esigenze di lavoro previste, si sono potuti avviare i primi test di messa a regime delle varie componenti:
pressione dell’aria, dosaggio dei pellet e scelta della grammatura di questi ultimi.
Le prime prove sono state realizzate lungo le superfici relative ai sarcofagi, composti da materiale lapideo compatto diffusamente interessato da colonie di
microrganismi vegetali e da residui di stuccature in materiale composito.
Come da programma le prove dovevano individuare la capacità o meno del sistema di ottenere un livello di pulitura rispettoso dei supporti sui quali veniva impiegato, ottimizzando le rese (quantità di CO2 impiegata e tempi di utilizzo).
Pertanto sono stati considerati alcuni parametri, alcuni legati direttamente all’analisi di un futuro utilizzo della tecnologia:
- tempo totale (utilizzo reale e propedeutico alle fasi);
- pressioni di esercizio;
- quantità di materiale impiegato;
Il primo aspetto che risulta evidente è il calo drastico della temperatura pochi
istanti dopo l’applicazione della tecnologia. Tale fenomeno è alla base stessa del
sistema di pulitura che grazie a questo abbassamento dello stato termico infragilisce i depositi che vengono più facilmente rimossi dall’azione meccanica del
getto d’aria.
Ciò ha posto negli operatori il lecito interrogativo se questo possa determinare
degli effetti collaterali dannosi sulla struttura stessa dei materiali e, proprio per
poterlo verificare con maggiore precisione, sono state prelevate 2 tessere (una
sottoposta ad intervento di criosabbiatura, l’altra no) al fine di esaminarle e confrontarle in laboratorio.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia
Il problema conservativo - prove di pulitura
* La tecnologia ICE
CLEAN è stata oggetto
di sperimentazione
presso questo Istituto. A
partire dal 2001
si possiede documentazione scientifica.
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Le superfici mosaicate, infatti, risultano in certi elementi (alcune tipologie di tessere in cotto) più fragili ed aggredibili.
L’operatore pertanto deve lavorare ad una pressione di esercizio inferiore che sui
calcari, e ad una distanza maggiore per poter dosare e controllare ulteriormente il
flusso.
Le stesse malte ed impasti di stuccatura e/o le incrostazioni calcaree presenti sui
sarcofagi, risultano puliti dagli attacchi biodeteriogeni, ma assolutamente intatti
nella materia.
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a Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio anche quest’anno aderisce al Salone dell’Arte del Restauro di Ferrara promuovendo gli
interventi degli Istituti Territoriali e il restauro della statua di Leonardo da Vinci, realizzata dallo scultore Assen PeiKov nel 1960 per l’Aereoporto di Fiumicino.
Si tratta di restauri che riguardano i diversi settori di competenza rappresentativi
delle metodologie applicate a manufatti sostanzialmente diversi per epoca e
materia.
Verrà presentato il recupero dell’Opus sectile che ornava la sala di rappresentanza
di una domus monumentale fuori Porta Marina ad Ostia, considerato l’unico esemplare di decorazione in opus sectile quasi integralmente recuperato e datato alla
fine del IV sec. d.C. grazie al rinvenimento di una moneta di bronzo di Massimo
(383-388 d.C.) nella malta di allettamento di uno dei pannelli recuperati.
L’opera è attualmente esposta nel Museo nazionale dell’Alto Medioevo all’EUR.
Altrettanto importanti gli interventi architettonici, rappresentativi dell’attività delle
due Soprintendenze competenti del Lazio e di Roma.
I recuperi riguardano Villa Giustiniani-Massimo in Laterano e il Complesso della
Cattedrale di Anagni.
I lavori di restauro della facciata principale della Villa sono attualmente in corso.
Sono stati recuperati tutti i rilievi della facciata ed i busti in marmo alcuni dei quali
di origine archeologica ed altri del XVII sec.
Per quanto riguarda il Complesso di Anagni si tratta di un articolato ciclo di opere
che per circa un decennio hanno interessato il sito declinandosi tra manutenzione e restauro tra conservazione e valorizzazione.
La Soprintendenza per i Beni storico-artistici del Lazio parteciperà con gli interventi più significativi realizzati negli ultimi anni ed ancora in corso. Si tratta
dell’Aristide Sartorio di Montecitorio e dei due cicli di affreschi di San Giovanni a
Porta Latina e Santa Maria Sopra Minerva e del recupero della tela del Caravaggio
Odescalchi.
Infine la Direzione Regionale presenta il restauro della statua di Leonardo da Vinci
di Fiumicino con la collaborazione scientifica della dott.ssa Anna Imponente. La
statua è collocata all’interno dell’area aeroportuale ed emergeva un grave stato di
degrado dovuto non solo allo strato di polveri, grassi, fumi e particellato atmosferico ma anche all’ossido di carbonio del traffico veicolare.
Il recupero è anche un’occasione per riportare l’attenzione sull’artista PeiKov che
ebbe un periodo di grande notorietà ed apprezzamento critico tra gli anni ‘40 e
‘50 rappresentante di quella colonia di artisti stranieri a Roma che avevano casastudio nella notissima Via Margutta.
A conclusione dell’intervento una mostra illustrerà il restauro e l’occasione di
Ferrara rappresenta un’anteprima significativa.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
L
Direttore Regionale
Luciano Marchetti
Coordinatore
Anna Maria Romano
Piazza di Porta Portese, 1
00153 Roma
tel. 06 584351
fax 06 5810700
[email protected]
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Leonardo Da Vinci - Il cantiere di restauro
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Obiettivi del restauro
Direttore dei lavori
Annamaria Romano
Direzione scientifica
Anna Imponente
Progettazione
dell’intervento di restauro
Anna Imponente,
Cecilia Bartoli
Collaboratori alla direzione
lavori
Roberto Angelini
Impresa esecutrice
Bartoli restauro e ricerca s.r.l Roma
tel. 06 6875562
fax 06 68199318
[email protected]
Sponsor
Armosia - Roma
Tempi
cantiere iniziato nel maggio del
2006 ed attualmente in fase di
ultimazione
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Il presente restauro si pone come un’occasione per riportare l’attenzione e valorizzare un artista che ebbe un periodo di grande notorietà ed apprezzamento critico, in particolare intorno agli anni ‘40 e ’50.
E’ una prima occasione per riprendere in considerazione la sua opera che, nel
momento in cui l’arte puntava verso l’astrattismo e la sperimentazione di tecniche
nuove recupera i temi e le forme classiche, in particolare in opere come il
Leonardo dell’Aeroporto o la Minerva dell’Università di Bari. Vero e proprio ritorno alla statuaria classica e rinascimentale.
L’intervento e le tecniche di restauro
L’intervento di restauro di tipo conservativo, dopo la rimozione degli strati superficiali di sporco e le pesanti ossidazioni, è riuscito a recuperare il livello originale
del metallo conservando tuttavia la sottile patina del tempo grazie alla scelta di
solventi e metodologie idonee.
La scultura si presentava in un grave stato di degrado.
Su tutta la superficie si era depositato uno strato di polveri, grassi, fumi e particellato atmosferico. Era presente in certa misura anche l’ossido di carbonio dovuto
al transito veicolare.
Particolarmente esteso è il problema delle ossidazioni che interessano ampie
zone della scultura delimitate, in alcuni casi, dal dilavamento nelle parti più esposte e in cui l'acqua tende a convogliarsi ed in altri casi dai blocchi di fusione dell’opera.
Nei punti di fusione sono presenti fessurazioni profonde.
Lungo le fessurazioni e le connessure dei vari elementi in materiale lapideo del
basamento hanno trovato alloggio piante e vegetazione tra cui muffe licheni,
muschi e piante superiori.
Il basamento in travertino non è l’originale dell’opera ma quello collocato dopo uno
spostamento della scultura in un’altra area dell’aeroporto rispetto a quella iniziale.
L’intervento di restauro si può suddividere in diverse fasi che si possono così riassumere:
- Operazioni preliminari al consolidamento e alla pulitura.
- Operazioni di pulitura meccanica e pulitura chimica.
Trattamenti inibitori di corrosione.
- Operazioni di consolidamento
- Intervento di reintegrazione.
- Intervento di protezione di tutte le superfici.
Il restauro della grande scultura è affiancato da una campagna di indagini conoscitive e diagnostiche che servono a segnalare lo stato di conservazione del manufatto e a dare le indicazioni su materiali e tecniche di esecuzione.
L’intervento è anche corredato da documentazione grafica e fotografica ai fini del
rilievo dello stato di conservazione, delle tecniche di esecuzione, degli interventi precedenti.
La statua di Leonardo da Vinci
La scultura di Leonardo è l’opera più grande che l’artista abbia realizzato.
La statua raffigura il grande artista del Rinascimento italiano in piedi con una mano
indica il cielo e nell’altra sostiene una delle sue più interessanti invenzioni relative
a gli studi sul volo, la vite aerea.
Fu commissionata nel 1957 dal Ministero dei Lavori Pubblici (Ministro Togni), è
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stata inaugurata nell’estate del 1960 dall’allora presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi.
Eseguita in bronzo, con basamento in travertino, presso la fonderia Michelucci di
Pistoia per un’altezza di nove metri.
Al momento della sua collocazione la statua si trovava in una posizione di grande
evidenza e di accoglienza dei viaggiatori, in seguito, con le necessità di ampliamento dell’aeroporto, l’opera è stata spostata più volte perdendo la sua centralità.
ASSEN PEIKOV
Nato a Sofia il 28 giugno 1908, Assen Peikov si è diplomato presso l’Accademia
di Belle Arti di Sofia nel 1937 con medaglia d’oro.
Nel 1938 si stabilisce a Roma dove prende studio a Via Margutta, 54.
A Roma frequenta il mondo artistico e culturale dell’epoca che condivide con il
fratello Ilia, pittore. Li accomuna la frequentazione e l’amicizia con De Chirico,
Savinio, Guttuso, Fazzini, Maccari, Barilli.
Nel corso della sua carriera scolpisce più di 1250 ritratti di personalità politiche,
artistiche, religiose di tutto il mondo.
In Italia realizza 16 monumenti di considerevoli dimensioni fra cui la Minerva
nell’Università degli Studi di Bari, la Previdenza nell’Istituto di Previdenza Sociale
di Bologna e la grande statua di Leonardo da Vinci dell’Aeroporto Leonardo da
Vinci di Roma - Fiumicino.
Le sue opere si trovano in musei e collezioni private in Italia, alla Galleria di Arte
Moderna di Roma, in Bulgaria, in Francia, in Gran Bretagna, Belgio, Svizzera, Stati
Uniti, Brasile, Argentina, Messico, India, Afghanistan.
Assen Peikov muore improvvisamente nel suo studio di Via Margutta il 25 settembre del 1973.
La Mostra
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
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Contestualmente al restauro della scultura di Assen Peikov dedicata nel 1960 a
Leonardo da Vinci, si intende presentare in un idoneo spazio espositivo degli
Aeroporti di Roma una mostra articolata che: illustri il lavoro di restauro svolto, si
colleghi attraverso i bozzetti, i disegni dell’artista e altri materiali originali anche
documentari, alla realizzazione dell’opera.
Questa mostra si configura anche come l’occasione per presentare più in generale il lavoro di Assen Peikov che, nel clima astrattista del secondo dopoguerra, si è
espresso con una figuratività semplificata e robusta. Notoriamente apprezzato
all’epoca e poi quasi dimenticato dalla critica (il suo studio di Via Margutta è conservato e posto sotto tutela) è autore di altre importanti opere pubbliche realizzate su scala monumentale in alcune città italiane
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L’Opus sectile di Porta Marina nel Museo Nazionale
dell’Alto Medioevo
Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Descrizione
Museo Nazionale dell’Alto
Medioevo
Viale Lincoln n.3 - 00144 Roma
Direttore
Margherita Bedello
tel. 06 54228199
fax 06 54228130
e-mail: medioevo.ostia@arti.
beniculturali.it
Soprintendente ad interim
Alessandro Bedini
Angelo Pellegrino
Margherita Bedello
Viale Lincoln, 3
00144 Roma
tel. 06 54228199
fax 06 54228130
www.itnw.roma.it/ostia/scavi
medioevo.ostia@arti.
beniculturali.it
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Lo straordinario monumento ostiense, noto nella letteratura archeologica fin dagli
anni della scoperta avvenuta nel 1959, non è mai stato esposto nella sua interezza. Si tratta dell’unico esemplare di decorazione in opus sectile tardoantico quasi
completamente recuperato.
Dallo scorso mese di novembre è possibile visitare, nel Museo Nazionale dell'Alto
Medioevo di Roma, la straordinaria decorazione a intarsio di marmi colorati (opus
sectile) che ornava la sala di rappresentanza di una domus monumentale fuori
Porta Marina a Ostia, puntualmente datata alla fine del IV secolo d.C. per il fortunato rinvenimento di una moneta di bronzo di Massimo (383-388 d.C.) nella malta
di allettamento di uno dei pannelli con leone.
La grande aula (m.7,45 x 6,70) con l’esedra quadrangolare sulla parete di fondo
(m.6,00 x 3,90) è completamente rivestita di marmi policromi con specchiature
geometriche, fregi floreali, gruppi di animali in lotta. L’effetto generale è enfatizzato dal grande pavimento (circa mq.32) in opus sectile di marmi preziosi (giallo
antico, serpentino, porfido rosso e pavonazzetto), decorato con motivi a stelle,
ottagoni e cerchi combinati con sontuosa eleganza.
In sorprendente contrasto, l’esedra di fondo è interamente ricoperta da una decorazione geometrica, sempre in opus sectile di marmo, con motivi a scacchiera
minuta in basso e con falso prospetto architettonico nella parte alta. Sul soffitto si
deve immaginare il mosaico di pasta vitrea verde-azzurro con tralci di vite ricoperti d’oro, recuperato solo in piccola parte a causa del crollo dell’edificio ed
esposto accanto all’aula.
La sontuosa decorazione dell’aula trova confronto in rivestimenti a intarsio marmoreo, purtroppo frammentari, rinvenuti in tutte le regioni mediterranee, per i quali
l’opus sectile ostiense costituisce un riferimento obbligato.
Introduce la visita dell’aula una sezione didattica con pannelli che raccontano la
storia della scoperta e dei restauri antichi e recenti, il programma decorativo dell’aula e i suoi collegamenti con analoghe decorazioni di età tardoantica. Una campionatura di marmi con la mappa delle cave di provenienza illustra i materiali
costitutivi dell’opus sectile.
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Villa Giustiniani - Massimo in Laterano.
Il restauro della facciata
Andreina Draghi, Massimo Bruno, Cristiana Bigari
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per il Comune di Roma
La villa Giustiniani Massimo in Laterano fu di proprietà dell’illustre famiglia
Giustiniani dal XVII sec.e fu ceduta ai Massimo nel XIX sec.; dal 1947 ospita la sede
della Delegazione dei Padri Francescani in Terra Santa. L’edificio costituisce un
documento importante della pittura Nazarena a Roma: gli affreschi dipinti nelle
sale raffigurano episodi tratti dai poemi nazionali della Letteratura Italiana (La
Divina Commedia e La Gerusalemme Liberata). Il ciclo di affreschi fu commissionato a J.F. Overbeck e a P. Cornelius ai quali, successivamente, si aggiunsero J.
Schnorr, Von Carolsfeld, P. Veit e J.A. Kock (1819-1827 c.ca).
La villa presenta su tutte e quattro le facciate rilievi marmorei e stucchi merito della
famiglia Giustiniani che nel XVII sec fece apporre sulle superfici architettoniche
reperti archeologici di diversa datazione e provenienza: busti clamidati con teste
ritratto maschili e frammenti di fronti di sarcofagi. Alcuni rilievi sono pertinenti ad
un unico sarcofago, altri sono il risultato dell’unione di due o più scene assemblate insieme, tanto che non è sempre facile identificare nell’iconografia attuale il
mito che illustrava il nucleo originale dell’opera.
Al momento della collocazione sulle quattro facciate della villa dei rilievi in
marmo di provenienza archeologica, nel XVII sec furono aggiunte decorazioni in
stucco comprendenti cornici circolari con elementi floreali, festoni con uccelli,
una grande aquila tra mensole con foglie d’acanto ed un cornicione nel sotto
tetto, con metope decorate con alternanza di torri ed aquile. In alcuni casi figure
in stucco completano le estremità dei rilievi in marmo: probabilmente sono state
aggiunte per integrare la narrazione dei fregi antichi, in seguito alla perdita di parti
del fronte del sarcofago da cui provengono.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Descrizione delle opere
Stato di conservazione delle opere
Gli stucchi di Villa Massimo si presentavano mal conservati dal momento che
dimostravano gravi processi di deterioramento sulla superficie esterna, nella struttura portante e nei sistemi di ancoraggio alla muratura. L’armatura interna dei rilievi
più aggettanti costituita da diversi elementi in ferro, risultava completamente ossidata; tale processo aveva determinato la fratturazione della malta pozzolanica
interna e la conseguente perdita di parti di modellato degli stucchi. La finitura
superficiale in “marmorino” romano e la coloritura originale degli stucchi risultavano generalmente perdute, erose e dilavate dalla pioggia battente.
La diversa datazione e provenienza degli antichi rilievi marmorei e le diverse
vicende conservative di cui sono stati oggetto nei secoli, prima di giungere nella
loro sede attuale sulle facciate di villa Massimo, avevano determinato diversi stati
di conservazione dei manufatti.
I reperti archeologici presentavano gravissime forme di degrado: il materiale costitutivo era compromesso al punto che la conservazione del marmo interferiva con
la leggibilità dell’iconografia delle opere, resa ancor più difficoltosa dai numerosi
rimaneggiamenti subiti nel tempo, con inserimento di inserti o giustapposizioni di
parti provenienti da diversi sarcofagi, come denuncia la presenza di diverse tipologie di marmo in uno stesso rilievo.
Su tutti i marmi erano presenti numerose croste nere, localizzate prevalentemente
nelle parti meno aggettanti del modellato; nei sottosquadri e nelle zone dei fondi
più protette dal dilavamento le croste nere aumentavano di spessore, fino ad
assumere l’aspetto dendritico.
Lì dove le croste nere dure e fragili risultavano fratturate o distaccate spontanea-
Restauro della facciata
principale comprendente
busti, rilievi marmorei, stucchi
decorativi, intonaci e
tinteggiature
Imprese esecutrici
per i lavori di restauro
RES Consorzio Restauratori
Lavori edili
impresa I.C.E.S.A. s.r.l.
Direzione lavori restauro edile:
Responsabile del
procedimento
Massimo Bruno
Direzione lavori restauro
artistico
Andreina Draghi, Daniela
Candilio
Assistente alla direzione lavori
Gerardo Favoccia
Pesponsabile sicurezza
Claudio Bulgarini
Proprietà (dal 1947)
Delegazione Padri Francescani
di Terra Santa
Soprintendente
Federica Galloni
Via di San Michele, 17
00153 Roma
tel. 06 588951
fax 06 5883340
[email protected]
www.ambienterm.arti.beniculturali.it
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mente dal substrato lapideo, lasciavano a vista il marmo interno disgregato e polverulento a causa dei processi di solfatazione.
Le parti scultoree con maggior rilievo sottoposte ad erosione eolica, ad abrasione
di polveri sospese nell’aria e al ruscellamento della pioggia dilavante, si presentavano prive di croste nere, ma gravemente lacunose, mancanti della finitura originale a causa del grave processo di erosione. In molte di queste parti si evidenziava il fenomeno della “degradazione differenziale”, ovvero era visibile l’eterogeneità della composizione e della struttura del materiale lapideo. L’asportazione del
materiale costitutivo dalle superfici più esposte ne ha determinato l’abrasione dei
rilievi e la perdita di tutti i particolari decorativi o dei segni della lavorazione originale della pietra. Lo stato di conservazione del marmo di provenienza archeologica rende immediatamente individuabili tutti gli elementi lapidei inseriti successivamente negli interventi di restauro, come integrazioni alle parti mancanti del
modellato. Tali aggiunte si distinguono per la presenza dei segni di lavorazione
della pietra, per la diversa granulometria del marmo e per i piccoli perni in bronzo utilizzati per l’ancoraggio.
Le documentazione grafica finalizzata all’esatta individuazione dei fenomeni di
degrado presenti sulle opere dimostra la presenza di numerose fessure, fratture,
scagliature del marmo e le lacune del modellato.
Interventi di Restauro
Le gravi condizioni conservative dei marmi e degli stucchi hanno reso impellente
la verifica della stabilità e dell’ancoraggio di tutte le parti scultoree, per scongiurarne la caduta. Le numerose fratture presenti nel materiale costitutivo, soprattutto
in corrispondenza di perni in ferro ossidati, hanno imposto un lavoro preliminare
di pronto intervento sulle opere. Tutte le parti fessurate o mobili sono state velinate con garze di cotone e resina acrilica, per permettere l’infiltrazione a siringa di
malte idrauliche per restauro e perni in vetro resina o acciaio inox.
Le numerose zone erose dei marmi, che presentavano gravi fenomeni di disgregazione e polverizzazione del materiale costitutivo sono state consolidate con silicato d’etile, (Phase Plus 5035) applicato a pennello in fasi successive, fino ad
imbibizione del marmo.
Il preconsolidamento ha permesso di procedere con l’intervento di pulitura, per
la rimozione delle numerose croste nere, con compresse di polpa di carta e
sepiolite con soluzioni saline basiche e tensioattivi, lì dove le condizioni conservative del marmo lo hanno reso possibile. Sulla maggior parte delle superfici lapidee si è preferito l’impiego di procedere di pulitura meno invasive, nel rispetto
delle problematiche conservative dei marmi al di sotto delle croste nere; è stato
impiegato pertanto il sistema laser SFR, con lunghezza d’onda di 1064 nm, modello Laser Smart Clean II, garantendo una pulitura selettiva, basata sul differente
assorbimento ottico, per l’ablazione delle croste nere nel rispetto del substrato e
della sua patina.
Le fessure e le piccole lacune reintegrabili sono state stuccate con malta composta da grassello di calce e polveri di marmo opportunamente selezionate, nella
granulometria e colore simile al materiale costitutivo originale. Sulle superfici lapidee è stato applicato un protettivo idrorepellente il Rhodorsil H224 della Rhone
Poulenc.
Gli studi condotti per l’identificazione della cromia originale degli stucchi e degli
intonaci, per mezzo di stratigrafie eseguite manualmente a bisturi ed analisi microchimiche su sezioni stratigrafiche, hanno permesso di constatare che la finitura pittorica delle superfici era stata realizzata con tinta a calce e pigmenti naturali: ocra
gialla.
Il reperimento di un documento storico, comprovante l’originale cromia del villi-
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no Massimo-Giustiniani da parte del Prof. Padre Piccirillo, (una delle pitture murali presenti nelle sale di palazzo Massimo alle Colonne in Roma illustranti i possedimenti della omonima famiglia, identificata dalla scritta nel cartiglio come la
“Lateranensis Maximorum villa”) ha rafforzato le ipotesi formulate in base alle indicazioni delle analisi scientifiche e al ritrovamento della finitura originale degli stucchi meglio conservati, permettendo la reintegrazione cromatica delle superfici
nella versione originale.
La reintegrazione degli stucchi e la tinteggiatura degli intonaci è stata eseguita con
grassello di calce ben stagionato e pigmenti naturali, differenziando le modanature architettoniche in aggetto e le specchiature di fondo mediante una leggera variazione della quantità di ocra gialla per ottenere tonalità più chiare o più intense.
Conclusioni
L’intervento di restauro da poco conclusosi costituisce un’importante opportunità
per lo studio dei manufatti artistici di provenienza archeologica. Sono state rilevate e documentate tutte le parti aggiunte per individuare il nucleo originale di ogni
singola fronte di sarcofago o rilievo, in modo da stabilire la differenza tra le parti
di modellato originale re-inserite e quelle realizzate ex novo nei vecchi interventi
conservativi.
La documentazione prodotta dal restauro e la conoscenza delle gravi condizioni
conservative daranno alla D.L. l’opportunità di acquisire nuovi elementi per lo studio delle opere in oggetto, ma soprattutto per elaborare un progetto di restauro
completo, mirato alla conservazione di tutti i reperti archeologici conservati sulle
facciate di Villa Massimo- Giustiniani.
La visione ravvicinata dei rilievi per mezzo del ponteggio ha permesso infatti di
valutare con esattezza l’entità delle forme di degrado che interessano le opere; ha
dato modo di verificare l’urgenza dell’intervento di restauro per la messa in sicurezza di parti in pericolo di caduta e per il consolidamento di superfici continuamente esposte all’erosione eolica e al dilavamento, a causa della loro collocazione esterna, esposte ai fenomeni ambientali e all’inquinamento del traffico urbano.
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Restauro del Complesso architettonico
della Cattedrale di Anagni
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e per il Paesaggio del Lazio
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Obiettivi del Restauro
Responsabile di zona
Giorgio Calandri
Progettista e direttore dei lavori
Amedeo Malatesta
Collaborazione tecnica
geom. Marcello Bruni
Impresa costruttrice
Alessandri s.r.l - Roma
Tempi
cantieri iniziati nel marzo
del 1999 e completati
a giugno 2006
Soprintendente
Costantino Centroni
Via Cavalletti, 2
00186 Roma
tel 06 696241
fax 06 69941234
[email protected]
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La Cattedrale di Anagni, monumento simbolo di una civiltà che ancora oggi testimonia la grandezza di un periodo storico, costituisce un importante fulcro di irradiazione sul territorio di valori ed interessi collegati. E’ importante considerare
queste situazioni particolari che sono scaturite dagli importanti interventi di restauro e valorizzazione di siti monumentali, come nel caso qui trattato, che esulano
dalla realtà locale vuoi per densità di interessi, vuoi per molteplicità di interrelazioni con il contesto territoriale.
La maglia urbanistica che si stringe attorno alla Cattedrale può essere ricucita in un
percorso che si snoda all’interno di questa parte importante della struttura urbana
costituitasi nel Medioevo ad Anagni, essenzialmente per iniziativa papale e
soprattutto ad opera di Bonifacio VIII.
A seguito degli importanti lavori di restauro, effettuati nel corso di questo ultimo
decennio e che hanno interessato tutto il complesso della Cattedrale, si aprono
nuove prospettive: la “fabbrica” è emersa come realtà unitaria, indivisibile, un
microcosmo, anche museologico, complesso e di prestigio.
La dimensione de estensione degli interventi effettuati, la rilevanza delle risorse
investite, la singolarità degli esiti in termini di conoscenza e valore aggiunto in relazione al compendio, connotano una condizione di novità e straordinarietà che
può essere messa a confronto soltanto con quella dell’analogo momento configuratosi in conseguenza dei restauri eseguiti alla fine degli anni ’30.
Il filo conduttore di tutto l’iter progettuale del Complesso è stato quello di creare
un itinerario museale che avesse una propria organicità, una logica semplice e
lineare che potesse dare al visitatore, al termine del percorso, articolato tra spazi
interni ed esterni, un’idea ben precisa degli eventi storici, artistici, politici accaduti nei secoli all’interno delle sue mura oltre ad un quadro completo delle ricchezze di cui l’organismo ne è prezioso contenitore.
Fulcro di tutto l’intervento è stato senza dubbio il restauro sia degli esterni che
degli interni del tempio nonché le indagini archeologiche eseguite nell’immediato intorno dello stesso Tempio con la riacquisizione e la valorizzazione dell’oggetto architettonico antico con l’immagine che della Cattedrale giunge oggi ai
nostri occhi: un luogo duecentesco che gli eventi storico-artistici succedutisi nei
secoli avevano profondamente segnato.
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Salone dei Corazzieri – Palazzo del Quirinale
Soprintendenza per il Patrimonio Storico,
Artistico ed Etnoantropologico del Lazio
L’intervento di restauro nella Sala dei Corazzieri ha avuto inizio a settembre del
2005 con il rilevamento dei dati necessari per il rilievo fotogrammetrico del soffitto e delle tavole grafiche delle pareti, per garantire la restituzione in formato digitale della tecnica d’esecuzione. In contemporanea è stata effettuata una campagna fotografica delle pareti e del soffitto. L’intervento di maggior impatto visivo
riguarda la messa in luce della cornice originale seicentesca,che è stata ampiamente documentata con un numero cospicuo di foto generali e di dettaglio.
L’intervento è stato preceduto da un’estesa ed approfondita ricerca storica, artistica e tecnica, arricchita da prove e campionature, svolte dai restauratori Antonella
Zari e Carlo Giantomassi per la Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico del Lazio, che ha portato allo sviluppo di un preciso e dettagliato progetto di restauro.
I lavori sono stati eseguiti sotto le indicazioni e la sorveglianza della
Soprintendente dott.ssa Rossella Vodret. Il Quirinale, committente del restauro,
grazie al continuo e concreto sostegno da parte del Prof. Luis Godart ha monitorato e seguito continuamente il lavoro.
L’intervento ha interessato una superficie dipinta di circa 972 mq. Le opere di consolidamento dell’intonaco, di fissaggio della pellicola pittorica e di stuccatura
sono stati eseguiti su tutta la superficie decorata, mentre l’intervento di pulitura e
d’integrazione pittorica si è differenziato per il fregio seicentesco figurativo di
circa mq 500, partendo dalla quota ml 11 fino all’attaccatura del soffitto ligneo a
ml 14,8. La superficie originale ritrovata, immediatamente superiore ai pannelli di
finto marmo è di circa 100 mq complessivi. La pulitura a secco ed il restauro pittorico della fascia ottocentesca di stemmi e simboli regionali è stata eseguita su
una superficie di circa 360mq.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Descrizione dell’intervento
Linee guida del restauro
Il deposito incoerente è stato rimosso su tutta la superficie con pennellesse morbide e microaspiratori. L’effetto generale della pellicola pittorica, a tratti lucido e
cupo, è stato migliorato con una leggera pulitura ad acqua, tramite l’applicazione
di un foglio di carta giapponese interposto, per evitare ogni interferenza con la
pellicola pittorica originale. Il consolidamento in profondità, per fare aderire l’intonaco al supporto murario e garantire l’adesione tra gli strati, è stato eseguito con
iniezioni di una malta premiscelata specifica (PLM-A) diluita in proporzione con
l’acqua. Laddove il distacco è risultato minimo, è stata utilizzata una resina acrilica in emulsione al 30%. Le stuccature preesistenti eseguite male o fessurate sono
state rimosse e sostituite. Tutte le grandi fatturazioni verticali, le fessure diffuse e le
lacune presenti sulle quattro pareti sono state stuccate con una malta composta
di una parte di carbonato di calce idraulica e tre parti di un misto di polvere di
marmo, sabbia di fiume fine e carbonato di calcio idrata. Questo composto è
stato miscelato in cantiere per poter ottenere una malta simile per colore e granulometria all’originale. L’integrazione pittorica delle lacune è stata eseguita con
colori ad acquarello con il metodo del tratteggio, invece le abrasioni o integrazioni pittoriche alterate con il sistema a cosiddetto a velatura.
Linee guida del restauro
La rimozione della ridipintura a tempera della cornice presente su tutto il perimetro della sala è stata eseguita con un metodo messo a punto in precedenza - su
di un foglio di carta giapponese è stata applicata a pennello una soluzione di carbonato d’ammonio, la quale è stata lasciata agire per circa 15 min. con il substra-
Soprintendente
Rossella Vodret
Piazza S. Marco, 49
00153 Roma
tel. 06 6967421
fax 06 69674210
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to – fatto ciò la rimozione eseguita in seguito con acqua e spugne naturali è risultata molto facilitata. La rifinitura della pulitura si è svolta poi a bisturi. Inoltre alcuni panneggi, con estese zone di pellicola pittorica sollevata, sono stati fissati localmente mediante l’uso di siringhe con resina acrilica in emulsione. L’integrazione
pittorica è stata compiuta con colori ad acquarello a velatura e sulle stuccature
mediante il metodo a tratteggio. Dovendo ritrovare una continuità pittorica con la
decorazione sottostante, sono stati coperti i triglifi e i pennacchi della decorazione a tempera con una pittura a base di calce.
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Aula di Montecitorio – Fregio di G. A. Sartorio
I
Conversione di San Paolo
olio su tavola; 237 x 189 cm
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio
Roma, Palazzo Odescalchi
Soprintendenza per il Patrimonio Stoico Artistico ed Etnoantropologico del Lazio
La Conversione di San Paolo della collezione Odescalchi realizzata su tavola di
cipresso è stata commissionata a Caravaggio, assieme al suo pendant raffigurante
la Crocifissione di San Pietro oggi disperso, da mons. Tiberio Cerasi, Tesoriere
Generale della Camera Apostolica, nel settembre del 1600. I due dipinti erano
destinati a ornare la cappella che lo stesso aveva acquistato dai padri agostiniani
di S. Maria del Popolo nel luglio dello stesso anno. Alla morte del committente,
avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1601, i lavori della cappella non erano
ancora terminati e le tavole, sebbene saldate il 10 novembre del 1601
dall’Ospedale della Consolazione - erede universale del Cerasi -, rimangono presso il pittore a disposizione degli esecutori testamentari. Dopo tre anni e mezzo, il
1 maggio 1605, i dipinti del Caravaggio che vengono collocati nella cappella non
sono questi, bensì le due versioni tuttora esposte raffiguranti lo stesso soggetto ma
realizzate su tela.
A questo punto nasce l’enigma: perché mai le due tavole vennero sostituite?
Una possibile spiegazione, stranamente non riportata dalle altre fonti secentesche, la fornisce Giovanni Baglione (1642) scrivendo che le due prime versioni su
tavola “non piacquero al padrone (e) se li prese il card. Sannesio”. Ciononostante
restano ancora insoluti interrogativi importanti ed essenziali circa le motivazioni e
l’autore di tale rifiuto, ovvero il Cerasi oppure i responsabili dell’ospedale della
Consolazione suoi eredi, nonché quando il Caravaggio eseguì le nuove versioni.
Per cercare una soluzione a uno dei più intricati “gialli” della storia dell’arte del
Seicento romano qualche inedita riflessione viene dal nuovo contesto architetto-
Soprintendenza per il Patrimonio Storico,
Artistico ed Etnoantropologico del Lazio
I pannelli sono alti m. 3,75 ed hanno una larghezza variabile che va da un minimo
di m.2,00 a un massimo di m. 2,61. I pannelli del lato della Presidenza sono piani,
mentre quelli dell’emiciclo presentano una leggera curvatura.
La lunghezza totale dell’intero fregio è di m. 105.
La tecnica utilizzata da Sartorio per dipingere il fregio è a base di cera ed olio, con
una serie di variabili in corso d’opera, che attualmente sono oggetto di indagini
scientifiche.
Il restauro tutt’ora in corso ha avuto inizio nell’ Agosto 2006 con la rimozione delle
tele dall’Aula ed avrà temine nel mese di Agosto 2007 con la ricollocazione delle
opere nella loro sede originale.
L’intervento di restauro consiste nel ripristino dell’elasticità del supporto in tela e
nel risarcimento della mancanza di adesione tra supporto, preparazione e strati
pittorici (consolidamento), oltre alle consuete operazioni di pulitura e reintegrazione.
Per l’intervento di consolidamento dei pannelli curvi dell’emiciclo sono state progettate specifiche attrezzature, realizzate all’uopo come prototipo.
Cappella Cerasi – Santa Maria del Popolo – Conversione di San Paolo di
Caravaggio
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
l fregio di Sartorio è composto da 50 pannelli in tela, affiancati e uniti l’uno all’altro per mezzo di perni inseriti nello spessore dei telai. I dipinti formano un unico
nastro di pittura inserito tra le finestre sotto il velario ed il giro di arcate che incorniciano le tribune dell’Aula di Montecitorio.
Responsabile unico
del procedimento
Luciano Marchetti
Progetto e Direzione Lavori
per il restauro Architettonico
Paola Santilli
Collaboratore
Massimo Pluchino
Progetto e Direzione Lavori per
il restauro Storico Artistico
Rossella Vodret
Direttore operativo
per il restauro
Storico Artistico
Claudi Tempesta
Collaboratore
Maurizio Occhetti
Restauratore
Alessandra Montedoro
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Restauro a cura di
Valeria Merlini e Daniela Storti
Indagini diagnostiche
a cura di Claudio Falcucci
con la collaborazione
dell’Istituto Nazionale di Ottica
Applicata di Lecce, della
Facoltà di Agraria dell’Università
della Tuscia e del Centro di
Datazione e Diagnostica
dell’Università di Lecce
Alta sorveglianza dei lavori
Rossella Vodret
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nico della cappella progettato dal Maderno, che aveva stravolto quello iniziale, e
al quale mal si sarebbero adattati i due dipinti su tavola. È evidente che, rispetto
alla tavola Odescalchi, la disposizione delle figure nel dipinto su tela suggerisce
un punto di vista molto ravvicinato. Ciò è ottenuto ingrandendo le figure - san
Paolo a terra, il cavallo - distanziandole tra loro, e “schiacciando” la prospettiva.
Tanto per rendere l’idea, mentre il dipinto Odescalchi appare simile a una fotografia ottenuta con un obiettivo 50mm a 6-7 metri di distanza dal gruppo fotografato, l’effetto ottenuto nella tela successiva corrisponde a una fotografia eseguita
con grandangolo a un metro e mezzo di distanza. Tale cambiamento potrebbe
essere spiegato non solo come una diversa scelta stilistica, per ottenere maggiore
drammaticità proiettando lo spettatore all’interno della scena, ma anche come un
adattamento alle condizioni di fruizione del quadro all’interno della cappella
Cerasi, che effettivamente, date le sue dimensioni e considerata la collocazione
del dipinto, costringe l’osservatore a una visione ravvicinata.
Tale ipotesi suggerirebbe che le versioni oggi presenti nella cappella Cerasi di S.
Maria del Popolo siano state realizzate dopo che Caravaggio poté tener conto dei
lavori architettonici completati sulla cappella per volontà testamentaria del proprietario, spostando quindi in avanti di qualche anno la datazione dei due dipinti su tela. In tal modo apparirebbe anche assai più comprensibile quella distanza
stilistica tra le due opere, entrambe eccelse ma espressione di linguaggi diversi,
che già notata dagli studiosi emerge oggi con maggior prepotenza alla luce del
restauro della tavola Odescalchi.
Il restauro ha rilevato il sostanziale buono stato di conservazione del dipinto,
costituito da sette assi di cipresso giuntate orizzontalmente ma con la superficie
pittorica offuscata da una vernice organica che alterava la lettura dei valori cromatici originali, dei rapporti chiaroscurali e della complessa sequenza dei piani. Oltre
a ciò ha messo in evidenza l’ingrandimento dei bordi che modificano di 14,5 cm
in altezza e 14,5 cm in larghezza le dimensioni originali che così risultano prossime a quelle della tela col medesimos oggetto ora nella Cappella Cerasi.
Di grande interesse è stata la campagna di indagini scientifiche condotta durante
l’intervento, tra cui la radiografia, la riflettografia IR, l’analisi di fluorescenza dei
raggi X associata alla colorimetria, la documentazione in luce radente, la macrofotografia, la microfotografia, le riprese della fluorescenza indotta da radiazioni UV,
l’indagine dendrocronologica e di radiodatazione del supporto. Queste indagini
hanno fornito un contributo essenziale per la conoscenza della tecnica esecutiva
del dipinto, dal tipo di legno utilizzato per il supporto ai criteri che ne hanno guidato la selezione, dalla composizione ed il colore degli strati preparatori alla ricostruzione delle prime fasi di impostazione della composizione, dalla stesura pittorica ai numerosi pentimenti che la caratterizzano.
La preparazione per struttura e materiali segna una forte continuità con quella di
molte tavole cinquecentesche, ma viene utilizzata “a risparmio” come consueto
per il Merisi. Il ruolo determinante delle incisioni come riferimento per l’impostazione della composizione da parte de pittore trova un’ennesima conferma, così
come la presenza di modifiche e pentimenti, segnale forte di un modus operandi che non prevede una grafica preparatoria esterna al dipinto.
L’intervento realizzato nel 2006 è un esempio di sinergia tra Stato e Privati, scaturito dalla collaborazione tra l’organo preposto alla tutela dei beni culturali e il proprietario dell’opera che lo ha finanziato. Gli importanti emersi per la lettura dell’opera, qui brevemente sintetizzati, sono stati proposti al pubblico in una mostra
tenutasi nel novembre del 2006 nella Cappella Cerasi di S. Maria del Popolo di
Roma nella quale per la prima volta sono state messe a confronto entrambe le versioni della Conversione di san Paolo dipinte dal Caravaggio.
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La Direzione Regionale
Liliana Pittarello
uest’anno la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria
presenta al Salone due interventi di restauro/manutenzione su beni architettonici, di cui si veda la presentazione del Soprintendente SBAPL, e la Guida agli
interventi di recupero dell’edilizia diffusa nel Parco Nazionale delle Cinque Terre,
appena pubblicata e curata dalla Direzione regionale e dal Dipartimento DSA
dell’Università di Genova.
La pratica della manutenzione infatti è centrale non solo per la salvaguardia dei
‘monumenti’ ma anche del territorio e dell’edilizia storica minuta. La Guida integra
gli studi e gli strumenti di gestione del territorio avviati dall’Ente Parco, dal Piano
del Parco al “Manuale per il recupero dei muretti a secco”.
L’elaborazione della Guida ha costituito un laboratorio di collaborazione interistituzionale di grande interesse: ha infatti coinvolto direttamente nel lavoro funzionari della Direzione Regionale, delle Soprintendenze per i beni archeologici ed
architettonici e paesaggio e della Regione Liguria, e docenti dell’Università di
Genova.
Inoltre, grazie a un accordo promosso dall’allora Soprintendenza Regionale, l’Ente
Parco si è impegnato a recepire le linee guida negli strumenti normativi che governeranno le trasformazioni edilizie nel Parco e ad incentivarne l’applicazione.
La Guida, nata come strumento per la gestione quotidiana delle trasformazioni
edilizie di un paesaggio riconosciuto dall’UNESCO di eccezionale valore, costituisce in realtà anche un’esperienza esportabile in altre realtà territoriali.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
Q
Direttore Regionale
Liliana Pittarello
Coordinatore
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
tel. 010 2488016
fax 010 2465 532
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La Guida agli interventi di recupero dell’edilizia
diffusa nel Parco Nazionale delle Cinque Terre
Luisa De Marco, Manuela Salvitti
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
L
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a Guida, finanziata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nell’ambito della
programmazione triennale 2001-2003 Fondi Lotto, è stata elaborata da un gruppo misto di lavoro, che include funzionari delle soprintendenze competenti e
della Regione Liguria e i proff. S. F. Musso e G. Franco, mediante un contratto di
ricerca con il Dipartimento DSA della Facoltà di Architettura di Genova per la ricognizione sull’edilizia rurale del Parco, sui suoi problemi di degrado/dissesto e
obsolescenza tecnologica e per la redazione concreta della Guida. La Guida nasce
con l’intento di rispondere ai problemi dell’edilizia rurale del Parco: da un lato,
l’abbandono, che comporta la cessazione di ogni manutenzione e il rapido decadimento delle costruzioni e del sistema dei terrazzamenti, e dall’altro, l’adattamento a nuove esigenze abitative con tecniche e materiali non compatibili o con soluzioni architettoniche estranee al carattere dei luoghi e spesso di modesta qualità
edilizia e costruttiva. Questi luoghi, per la fama che hanno acquisito nell’ultima
decade, sono soggetti a pressioni di trasformazione ancora più alte che in passato
e il costruito rurale rischia di perdere la sua identità costruttiva e paesaggistica. La
guida esplicita i criteri di valutazione con i quali gli organi preposti alla tutela
(Soprintendenza e Regione) hanno esercitato il controllo per il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche e propone una panoramica di soluzioni tecniche tradizionali e innovative per superare i problemi di degrado fisico e di obsolescenza
funzionale degli edifici, conservandone l’identità costruttiva. La guida inoltre suggerisce un approccio metodologico basato sulla conoscenza preliminare delle
caratteristiche, dei problemi di stabilità e degrado degli edifici per rendere efficaci i risultati delle opere di recupero. La redazione della guida è stata preceduta da
un’analisi svolta a due livelli: la consistenza fisica degli edifici e le esigenze di adeguamento per l’uso contemporaneo, sulla base dei progetti già realizzati nell’area.
L’indagine sul campo ha considerato la localizzazione degli edifici e il rapporto
con il sito, la morfologia, i materiali e le tecniche costruttive, le forme di degrado e
di dissesto, le deficienze impiantistiche, mettendo in evidenza i caratteri del
costruito rurale tradizionale delle Cinque Terre. L’analisi dei progetti di recupero
degli edifici rurali, presentati negli anni precedenti e conservati nell’archivio della
Soprintendenza BAP Liguria, ha consentito di individuare le esigenze di adeguamento più diffuse, e i più comuni rischi per la salvaguardia del patrimonio rurale
provenienti dalle pressioni di trasformazione. Le linee guida sono state dunque
impostate in modo che rispondessero alla situazione locale. Al contempo, attraverso la selezione e la illustrazione di alcuni esempi “critici” di edifici trasformati
recentemente che hanno, con gradi diversi, snaturato le preesistenze e il paesaggio, si è cercato di stimolare le capacità di osservazione e la sensibilità del lettore
verso le specificità costruttive e paesaggistiche del costruito rurale tradizionale. La
guida intende anche svolgere un ruolo di sensibilizzazione dei professionisti, cui
essa è principalmente rivolta, degli amministratori e degli abitanti che aumenti l’attenzione verso il patrimonio rurale
del Parco e la consapevolezza
che l’efficacia della tutela è il frutto dell’assunzione di responsabilità da parte di tutti i soggetti che a
vario titolo operano sul territorio.
La Guida è stata pubblicata per i
tipi di Marsilio, Venezia nel
dicembre 2006.
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La Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio della Liguria
Giorgio Rossini
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio della Liguria
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
T
ra i numerosi esempi di restauro curati dalla nostra Soprintendenza in questi ultimi
anni, abbiamo scelto due casi da porre all’attenzione del pubblico presente alla
Fiera del Restauro di Ferrara 2007.
Si tratta di una chiesa di fine Cinquecento, ubicata nel cuore del centro antico di
Genova, e di una villa Liberty adagiata sulle colline dell’entroterra savonese.
La chiesa San Pietro in Banchi è un piccolo esempio di architettura manierista, le cui
superfici interne sono ricoperte di pregevoli marmi, stucchi ed affreschi ad opera dei
maggiori artisti operanti a Genova tra Cinque e Seicento. Come molti edifici del centro storico genovese, la chiesa subì gravi danni durante l’ultimo conflitto mondiale.
L’intervento effettuato, curato dall’ingegnere Rita Pizzone, ha comportato vari lotti
diluiti in oltre dieci anni di finanziamenti che hanno riguardato tanto la facciata dipinta quanto le superfici decorate interne. Esso ha rappresentato un caso particolare di
restauro. Si è trattato, infatti, di operare su superfici parzialmente ricostruite nel dopoguerra. Come sempre, in questi casi, l’intervento, meglio spiegato nei contributi critici dei curatori stessi, ha dovuto mediare tra la cromia originaria, luminosa e brillante,
ritrovata durante i restauri, e quella riproposta negli interventi postbellici, sorda e
opaca, esemplata sulla base delle superfici preesistenti, non ancora trattate.
Il secondo esempio riguarda Villa Rosa di Altare, pregevole documento di architettura Liberty dell’inizio del Novecento.
L’edificio, fino al 1992 di proprietà privata ed in stato di desolante abbandono, è
stato acquisito dallo Stato per destinarlo a sede di un Museo Nazionale dell’Arte
Vetraria, particolarmente praticata ad Altare fin dal Medio Evo. Le difficoltà a reperire le risorse finanziarie ed umane necessarie all’istituzione di un museo statale, indussero ad individuare una gestione diretta da parte dell’ente locale. Così le due amministrazioni interessate, Ministero e Comune, si adoperarono per concludere l’operazione di recupero e valorizzazione della villa: il Ministero si sarebbe fatto carico degli
oneri per il restauro, l’amministrazione comunale si sarebbe impegnata per la valorizzazione dell’edificio, promuovendo l’istituzione del Museo a dimensione locale.
Il materiale esposto in mostra rappresenta parte di una pubblicazione in corso di
stampa, curata dall’architetto Rossella Scunza, progettista principale e direttore dei
lavori. Esso vuole fornire una doverosa informazione di sintesi del lavoro svolto in
questi anni, in cui sono maturate molte esperienze per la nostra attività di tutela. In
particolare, nel caso in esame, si è trattato di un intervento di novità, sia per l’oggetto trattato, un immobile di datazione recente, eseguito con materiali e tecniche che
si discostano da quelle tradizionali, sia per le difficoltà di collocare gli impianti tecnici, invasivi ma indispensabili per le funzioni museali.
Sento pertanto il dovere di ringraziare quanti hanno contribuito al recupero ed alla
valorizzazione di questi due esempi pregevoli del patrimonio culturale della nostra
regione: dai progettisti ed i loro collaboratori, all’intera struttura della nostra
Soprintendenza, che ha collaborato, spesso in forma anonima, alla felice conclusione delle operazioni.
Soprintendente
Giorgio Rossini
Via Balbi, 10
16126 Genova
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fax 010 2461937
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Il restauro della Chiesa di San Pietro
e della SS. Immacolata di Banchi
detta anche San Pietro della Porta in Genova
Rita Pizzone, Paola Parodi, Stefano Vassallo
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio della Liguria
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
L
Soprintendente
Giorgio Rossini
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a chiesa di San Pietro della Porta fu fondata, a ridosso di varco delle mura del IX
secolo, nell’anno 862. Nella piazza antistante nel XII secolo vi aveva già sede
uno dei tre grandi Mercati della città, quello del grano. Nel 1348 diviene parrocchia in forma di collegiata col titolo di prepositura. Nel 1398, in una delle frequenti risse fra guelfi e ghibellini, fu distrutta da un incendio che danneggiò anche i
Banchi dei mercanti.
Soltanto nel 1568 il Senato decretò la ricostruzione della Chiesa e furono demolite le rovine di quella medievale. I lavori sono però interrotti a causa di lungaggini
negli espropri e per la peste del 1579.
Terminata la pestilenza, nel 1581 fu decretata dal Senato la costruzione della
nuova chiesa in onore di Maria Immacolata in ringraziamento per la fine dell’epidemia, conservando però anche l’antico titolo per non privare della sua connotazione più antica la piazza e l’ambiente urbanistico che le gravitava intorno.
L’incarico della progettazione e direzione dei lavori andò all’architetto camerale in
carica, che era Andrea Ceresola detto il Vannone, affiancato da Giovanni Ponzello
i quali si ispirarono alla alessiana Santa Maria di Carignano. La nuova chiesa ebbe
orientamento diverso da quella medievale che era est ovest con la facciata verso
il mare, essa fu ruotata di circa 90 gradi per affacciare il prospetto principale sulla
piazza e per sfruttare meglio l’esiguo lotto disponibile.
Il rivestimento interno con architetture e statue marmoree fu realizzato dagli scultori Taddeo Carlone e Daniele Casella; gli stucchi sono invece opera di Marcello
Sparzo da Urbino, che li realizzò a partire dal 1585. La chiesa fu poi arricchita nel
seicento dagli affreschi di Andrea Ansaldo, Giovanni Battista Baiardo, e Paolo
Gerolamo Piola che decorarono rispettivamente la Cappella della Immacolata, la
Facciata e i peducci della cupola. Altri dipinti sono opera di Andrea Semino,
Benedetto Brandimarte e dei fratelli Calvi. I paramenti esterni della chiesa non furono mai completati
Nel XVIII secolo fu rifatta la decorazione della volta della navata centrale e di parte
della cupola. Nel 1854, nel corso di un generale restauro della chiesa, Giuseppe
Isola realizzò gli affreschi della cappella di Santa Chiara.
Nel 1913 la chiesa è chiusa al culto perché dichiarata pericolante e il titolo di parrocchia è definitivamente trasferito, nel 1940, nella chiesa di Santa Teresa e San
Pietro in Albaro, dove è rimasto il Presepio di Giovanni Battista Paggi.
Il 30 settembre 1942 la chiesa di San Pietro è quindi affidata ai Padri Missionari
della Consolata di Torino per farne un centro di propaganda missionaria.
Nell’incursione aerea del 15 novembre 1942 è distrutta la facciata coi due campaniletti e la volta della navata.
Subito dopo la guerra, nell’ottobre 1945, iniziano i lavori di restauro della chiesa
curati dai Padri Missionari con finanziamenti della Soprintendenza ai Monumenti,
del Genio Civile e con l’aiuto di privati. L’11 giugno 1946 è aperta al culto la cripta, e nel 1952 è riaperta al culto la chiesa superiore. I lavori si concludono nel
1959.
Nel 1982 i Padri Missionari lasciano la Chiesa che nel 1986, dopo una temporanea
chiusura, è riaperta al pubblico e al culto grazie al contributo dei volontari del
“Centro Banchi”.
I primi interventi moderni della chiesa risalgono agli anni 80 del ‘900’ quando si
pone mano al restauro e rifacimento degli intonaci esterni e delle coperture, passando poi al restauro della facciata. Nel 2002 inizia il restauro dell’interno, distri-
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buito in tre successivi lotti, concluso nel 2006. In tale intervento sono stati restaurati gli stucchi delle volte e della cupola, lavoro che ha principalmente comportato l’eliminazione delle ridipinture e il ripristino delle coloriture sei settecentesche.
I dipinti murali sono state anch’essi restaurati eliminando improprie aggiunte e ridipinture, e quindi consolidati reintegrati pittoricamente.
Il paramento marmoreo, costituito da una complessa architettura, con paraste
capitelli altari nicchie con statue, è stato ripulito da una spessa patina risalente ai
restauri nel dopoguerra. Problematico è stato il trattamento di tutte le parti aggiunte o rifatte negli anni 50 del 900 che sono state in parte mantenute e in parte eliminate. Sono state restaurate le porte lignee mentre la amministrazione ecclesiastica ha provveduto al nuovo impianto di illuminazione.
Il lavoro è stato accompagnato da una campagna diagnostica per la determinazione delle cause di degrado e delle caratteristiche delle materie originali e dei
restauri antichi e moderni. È inoltre prevista una pubblicazione che illustrerà in
maniera esauriente la storia del monumento e i restauri effettuati negli ultimi 50
anni.
Dati tecnici amministrativi dei cantieri di restauro degli ultimi 20 anni.
Perizia n° 58/1989 del 13/12/1998 di Euro 154.937,10. A.F. 1989 Fondi Ordinari Ex Cap. 8112.
Impresa esecutrice: Co.Me.Ci. di Genova.
Perizia n° 15/1992 del 25/09/1992 di Euro 22.724,10. A.F. 1993 Fondi Ordinari Ex Cap. 8103.
Impresa esecutrice: Co.Me.Ci. di Genova.
Perizia n° 16/1992 del 03/06/1992 di Euro 77.468,53. A.F. 1992 Fondi Ordinari Ex Cap. 8100.
Impresa esecutrice: Co.Me.Ci. di Genova.
Perizia n° 26/1995 del 11/10/1995 di Euro 154.937,07. A.F. 1995 Fondi 8 per mille. Ex Cap. 8103.
Impresa esecutrice: Gioia Barbara e Giorgio di Torino.
Perizia n° 08/1997 del 26/03/1997 di Euro 77.468,53. A.F. 1997 Fondi Ordinari. Ex Cap. 2102.
Impresa esecutrice: Gioia Barbara e Giorgio di Torino.
Perizia n° 27/2000 del 28/02/2002 di Euro 154.937,07. A.F. 2001 Fondi Ordinari Ex Cap. 7704.
Impresa esecutrice: A.T.I. Restauro e Conservazione Opere d’Arte di Genova.
Perizia n° 16/2003 del 14/04/2005 di Euro 210.000,00. A.F. 2004 Fondi Ordinari Ex Cap. 8312.
Impresa esecutrice: Novaria Restauri di Novara.
Perizia n° 10/2004 del 14/04/2005 di Euro 60.000,00. A.F. 2004 Fondi Ordinari Ex Cap. 8312.
Impresa esecutrice: Co.Me.Ci. di Genova.
Progettista e Direttore dei Lavori Ing. Rita Pizzone, assistenti Rossella Eseguiti, Paola Parodi, Stefano Vassallo.
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Il Museo del Vetro in una villa liberty
Villa Rosa di Altare (SV)
Rossella Scunza
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio della Liguria
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
L
a cittadina di Altare, sita immediatamente oltre il colle di Cadibona, all’imbocco della valle Bormida e pertanto vicinissima al confine con il Piemonte, è nota
per la lavorazione del vetro che fin dal XVI secolo ha rappresentato la principale
attività e la più importante risorsa economica della zona.
Nel periodo compreso tra la metà del XIX secolo e i primi trent’anni del secolo
scorso, Altare visse una stagione particolarmente florida dal punto di vista economico, grazie alla buona crescita commerciale delle sue aziende vetrarie ed in particolare della Società Artistico Vetraria, nata nel 1856, che a partire dal 1890 acquisì via via aree sempre più estese per ampliare i suoi stabilimenti.
A tale progresso economico si accompagna uno sviluppo della vita culturale, particolarmente significativo, considerate le modeste dimensioni della cittadina e la
marginalità della sua posizione geografica rispetto ai grandi centri urbani e ai flussi turistici della riviera.
Venne fondata in quegli anni la Società Filodrammatica che crebbe al punto da
farsi costruire, intorno al 1905, un teatro la cui progettazione venne affidata, con
tutta probabilità, all’architetto torinese Gottardo Gussoni, interprete raffinato ed
attento del gusto liberty di derivazione austriaca.
Il teatro è andato distrutto, ma è rimasta una testimonianza fotografica sufficiente
a dare un’idea dell’importanza attribuita all’edificio.
A questo periodo risale la realizzazione di diversi edifici, di notevole qualità
architettonica, che hanno come riferimento le diverse tendenze in voga che vanno
da un gusto ancora eclettico a quello liberty che si è affermato con forza attraverso l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Torino del 1902.
La costruzione di Villa Rosa, ultimata tra il 1905 e il 1906, si inserisce in questo
clima culturale: il committente Monsignor Bertolotti volle destinarla ad abitazione
della sorella Rosalia e ne affidò la progettazione all’architetto Nicolò Campora di
Savona, uno dei progettisti più attivi ed aperti alle nuove tendenze dell’architettura internazionale.
Negli anni la villa non subì trasformazioni d’uso, né di proprietà e pertanto, pur
essendo sottoposta ad alcuni interventi di consolidamento ed ammodernamento,
conserva ancora oggi le caratteristiche tipologiche e decorative originali.
Lo Stato, su richiesta della Soprintendenza e dell’Amministrazione Comunale, ne
dispose l’acquisto nel 1992 finalizzandolo alla realizzazione di un Museo dell’Arte
Vetraria; l’anno successivo prese avvio l’intervento di restauro che ha riguardato
innanzitutto i tetti e i prospetti decorati.
Si sono realizzati poi i consolidamenti interni e gli impianti necessari ad ospitare
la sede del nuovo museo per procedere infine al restauro degli interni e del giardino.
Appena ultimati i lavori, il comune, che ha preso in consegna la villa, vi ha trasferito il museo dell’Arte Vetraria aprendolo al pubblico e promuovendo mostre e
iniziative culturali di qualità.
Il restauro degli esterni
Soprintendente
Giorgio Rossini
Via Balbi, 10
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tel. 010 27101
fax 010 2461937
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L’edificio versava in stato di abbandono ormai da una decina d’anni pertanto le
condizioni di degrado dei tetti e delle facciate erano piuttosto gravi: si è quindi
iniziato l’intervento di restauro dalla copertura, per bloccare le infiltrazioni che
avevano già provocato crolli parziali degli intonaci dei controsoffitti interni, proseguendo poi con le facciate decorate con un ricco apparato di stucchi a rilievo
e con elementi in pietra.
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Materiali
Non è stato possibile individuare l’impresa o le maestranze che hanno realizzato
l’edificio poiché tale lavoro non risulta negli archivi disponibili delle imprese storiche della zona e perché il progettista, a quanto risulta dai documenti di archivio,
messi gentilmente a disposizione dai discendenti, non ha seguito i lavori di esecuzione: di conseguenza le informazioni sono state acquisite dalla conoscenza
diretta del manufatto tramite verifiche in situ ed analisi di laboratorio.
La costruzione, dal punto di vista strutturale, è sostanzialmente di tipo tradizionale: le murature sono portanti, in pietra e mattone e gli orizzontamenti hanno struttura lignea, come il tetto. In alcune zone sono state rinvenute catene o travi in ferro
con funzione di rinforzo delle murature.
Gli intonaci contengono una piccola percentuale di cemento e gli stucchi sono in
parte realizzati in opera, utilizzando mattoni ancorati con grappe o chiodi in ferro
per gli sporti maggiori, in parte prefabbricati.
Gli elementi lapidei sono in pietra di Dego, un’arenaria della zona dalla caratteristica colorazione grigia tendente al verde oliva, che presentava diffusi rigonfiamenti, esfoliazioni con distacco di materiale e polverizzazioni. Le caratteristiche
del degrado sono quelle comuni a tutte le arenarie, aggravate qui dal clima che
denota la zona: umidità molto elevata, inverni molto freddi e nevosi e una conseguente situazione di variazioni continue della temperatura al di sopra e al di sotto
dello zero che accelerano i fenomeni degenerativi.
Le finestre e le persiane sono in legno, le ringhiere in ferro, con motivi a “colpo di
frusta” o a foglie, come i cancelli d’ingresso; anche la recinzione originale era in
ferro, sostituita durante la guerra da elementi in legno.
Il giardino è suddiviso semplicemente in grandi aiuole, il cui perimetro è definito
da elementi prefabbricati in cemento, e ingentilito da un puttino su piedestallo, in
cemento e ferro, incorniciato da un piccolo “bersò” o pergolato a cupola.
Analisi
Sono state svolte le analisi stratigrafiche, al microscopio e chimiche di rito sui
materiali per analizzarne la composizione, le cause di degrado e per accertare le
cromie originali degli intonaci.
Con le verifiche in situ si è potuta accertare la realizzazione di un intervento di consolidamento della torretta che ha comportato anche la modifica dei prospetti.
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Interventi
Gli intonaci sono stati, dove possibile, consolidati con microchiodature: sulla
parte alta della facciata nord e sugli spigoli adiacenti, sia a causa del ridotto spessore dell’intonaco originario, sia a causa del degrado, l’intonaco è stato sostituito
con un impasto la cui composizione ricalcava quella dell’intonaco originario.
Molto impegnativo, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, è stato il
lavoro di ripresa delle modanature realizzate in opera che si presentavano maggiormente deteriorate rispetto a quelle prefabbricate: anche in questo caso si è
consolidato con microchiodature, provvedendo poi a ricostruire sulla base dei
rilievi in scala 1:1 delle tracce rimaste le porzioni di decorazione plastica perduta o non più recuperabile.
Il lavoro condotto sugli elementi lapidei ha comportato innanzitutto l’individuazione di un prodotto per il consolidamento che fornisse garanzie circa l’efficacia,
considerate le condizioni di degrado e il clima della zona e la non alterazione del
colore della pietra.
A questo scopo sono state fatte prove in
laboratorio con diversi prodotti in cui
sono stati immersi diversi campioni di
pietra; identificato il prodotto idoneo si è
proceduto ad una pulitura superficiale a
cui sono seguite varie applicazioni di prodotti disinfestanti. È stato quindi eseguito
il consolidamento, l’incollaggio e la riadesione delle scaglie di maggiori dimensioni
e la stuccatura delle lesioni con malta di
calce e polvere di pietra.
Si sono rilevati interventi a scopo protettivo e di consolidamento attuati nel corso
del novecento: alcuni elementi in pietra presentavano infatti incamiciature di
cemento semplice, come su una mensola del balcone: in questo caso la rimozione dello strato cementizio, che doveva servire da protettivo, ha messo in evidenza una decorazione plastica realizzata in origine sulla pietra. Altri, come le colonne del portico d’ingresso e dei bow-window, al di sotto dello strato cementizio
presentavano anche un “consolidamento” realizzato mediante l’avvolgimento a
spirale, per tutta l’altezza della colonna, di un filo di ferro.
Il filo di ferro è stato asportato ovunque poiché induceva ulteriore degrado alla
pietra stessa e le colonne sono state consolidate secondo le modalità già messe
a punto. In tre casi l’asportazione dell’incamiciatura ha evidenziato un degradoche ha ridotto le dimensioni delle colonne ad una sezione tale da non garantire
più la sua stabilità, né, tanto meno, la sua capacità portante.
Le ricerche subito avviate hanno chiarito
che non esistevano più cave della pietra
originale e che l’unica esistente in
Piemonte che produceva un materiale
simile non era in grado di fornire elementi
della pezzatura necessaria: si è deciso
pertanto di sostituire le tre colonne con
altrettanti elementi in cemento armato la
cui superficie è stata intonacata con un
impasto addizionato con polvere di pietra, in modo da renderli simili agli originali.
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Il restauro degli interni
Successivamente ai lavori esterni si è provveduto a predisporre il progetto di massima dell’allestimento del nuovo Museo, realizzato dall’arch. Guido Rosato della
Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici della Liguria, in modo da definire il
progetto degli impianti la cui realizzazione doveva necessariamente precedere il
restauro degli interni.
Naturalmente l’inserimento delle dotazioni impiantistiche necessarie non è stato
indolore (si è dovuto creare, ad esempio, un vano ascensore che si è potuto ricavare in corrispondenza della colonna dei bagni, gia modificati nella seconda metà
del novecento), ma la struttura tipologica della villa si adatta meglio di tante altre
a questo tipo di esigenze.
Una degli aspetti peculiari dello stile liberty è quello della stretta complementarietà tra l’impostazione architettonica e funzionale dell’edificio e il suo apparato
decorativo, il suo mobilio e le sue supellettili.
Poiché all’acquisto della villa da parte dello Stato tutto l’arredo mobile era già
stato asportato, si è lavorato su tutti gli elementi originari, fortunatamente ancora
molti, presenti nella villa cercando di sistematizzare una ricerca che intrecciasse
dati storici e d’archivio con i risulati delle analisi chimico-fisiche allo scopo di
restituire, per quanto possibile, l’immagine complessiva della villa.
Materiali
La villa offre al suo interno un apparato decorativo, ben conservato, di una ricchezza e di una varietà davvero notevoli: pitture murali, diversificate per ogni
vano, a motivi floreali o a nastro a cui, solo nella scala di servizio, si sovrappongono in epoca successiva decorazioni di tipo geometrico a stampino; in altre stanze si vedevano le tracce di una tappezzeria.
Sui soffitti delle scale e degli spazi di distribuzione si trovano stucchi in gesso
dipinti o dorati, mentre nelle stanze alla decorazione dipinta si affiancano sul soffitto stucchi a ghirlande, fiori e trecce in cartapesta dipinta e dorata.
Al piano rialzato, negli spazi d’ingresso, le pareti sono fasciate da un’elegante e
sobria “boiserie” intagliata con motivi floreali; nella sala che doveva essere destinata al pranzo o al soggiorno vi è una nicchia rettangolare occupata da un camino, con soprastante specchiera, circondato anch’esso da una “boiserie”che si articola con cassapanche destinate alla seduta.
Le vetrate dipinte della zona di rappresentanza si alternano con i vetri decorati
con vetrofanie di carta dipinta applicate su finestre e porte di tutta la villa, su cui
sono rappresentati ora i classici soggetti floreali nello stile più libero, ora soggetti
che riportano alla tradizione medievale.
I pavimenti, come la regola dell’epoca impone, sono in graniglia, con motivi che
riprendono le decorazioni dei soffitti, negli spazi di distribuzione mentre negli
spazi privati sono in legno a palchetto.
Ogni particolare si armonizza allo spazio e quindi anche la ferramenta in ottone di
porte e finestre è ispirata alla decorazione floreale, come i caloriferi che, a seconda delle stanze, mutano decoro e colore o, ancora, le stufe in ceramica del tipo
“franclina”, anch’esse con decorazione a rilievo di tipo fitomorfo ed infine le ringhiere in ferro dipinto e dorato.
Analisi
Preventivamente all’intervento di restauro sono state realizzate delle schede relative a ciascun materiale che contengono:
- Classificazione del tipo di decorazione
- Identificazione stilistica dei tipi anche in relazione ai manuali e ai campionari
offerti dalle riviste dell’epoca
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- Fotografie
- Relazione descrittiva
- Osservazioni sulle tecniche esecutive
- Descrizione dello stato di conservazione
- Bibliografia
Con l’avvio dei lavori queste prime indagini di tipo teorico-descrittivo sono state
arricchite con analisi chimiche e sezioni sottili dei campioni dei diversi materiali e
con le prove in situ, sia stratigrafiche che di pulitura sulle varie superfici.
Interventi
Il restauro delle “boiseries” e del camino: sulle prime si è potuto lavorare lasciandole in situ e le loro condizioni di manutenzione erano buone; il secondo è stato
invece completamente smontato perché le vecchie infiltrazioni d’acqua provenienti dal tetto avevano ammalorato alcuni elementi strutturali ed alcuni incastri
che sono stati sostituiti o ricostruiti.
I pavimenti in legno, che al primo ed al secondo piano erano stati asportati (con
modalità simili allo “distacco” d’affresco nella speranza di poterli recuperare) per
consentire gli interventi di consolidamento ai solai necessari per l’adeguamento ai
carichi delle sale di esposizione, sono stati riutilizzati solo al primo piano, mentre
al secondo sono stati realizzati nuovi pavimenti utilizzando essenze, elementi e
disegno uguali agli originali. L’asportazione ha provocato infatti, in alcuni casi,
un’alterazione interna dei singoli elementi e quindi una deformazione irriducibile;
a ciò si aggiunga che il sistema di fissaggio bidirezionale a lamelle di ferro di ogni
elemento ha reso particolarmente difficoltoso anche lo smontaggio e il rimontaggio successivo.
I dipinti murali erano piuttosto ben conservati al secondo piano, dove infatti si
sono fatte solo limitate integrazioni ad acquerello, mentre al primo piano le lacune erano più consistenti: poiché le tracce rimaste in evidenza o trovate a seguito
degli interventi di discialbo consentivano una ricostruzione completa del decoro,
questo è stato riproposto adottando tinte più accese per le porzioni nuove in
modo da renderle riconoscibili. Si è ritenuto, alla luce degli studi fatti, che tale
operazione fosse necessaria per restituire alla villa quell’unitarietà tipologica e
decorativa a cui all’origine era improntata.
Si sono poi pulite, consolidate e integrate cromaticamente, in alcune parti molto
limitate, le vetrate, sia quelle dipinte che quelle con vetrofanie, che presentavano,
per fortuna solo in parte, venature e rotture: in questi casi si è applicata una pellicola che garantisca la coesione dei pezzi o, nel caso di una fascia dipinta di maggiore spessore e soggetta a maggiori sollecitazioni, l’interposizione della vetrata
tra due lastre di policarbonato molto sottile.
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Un impegno a tutto campo per i beni culturali:
ricerche, progetti e cantieri
Carla Di Francesco
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia
L
a Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia è direttamente impegnata in alcuni rilevanti progetti che hanno come finalità il restauro
e la rifunzionalizzazione di beni di primaria importanza nel panorama del patrimonio lombardo.
Tra i progetti significativi uno riguarda il monumentale Palazzo Arese Litta che, con la
sua elegante facciata rivolta su Corso Magenta, il suo sontuoso portale, il solenne
scalone d’onore, gli splendidi affreschi dell’appartamento nobile, i cortili interni ed
il grande giardino, è senz’altro tra i più rappresentativi e ben conservati esempi di
barocchetto lombardo, stile che si diffonde a Milano e dintorni a partire dal secondo decennio del Settecento.
Nonostante l’attuale aspetto settecentesco, il nucleo originario del complesso venne
però costruito tra il 1642 e il 1648 dall’architetto Francesco Maria Richini per il conte
Bartolomeo Arese, già allora uno degli uomini più influenti di Milano. Arese venne
nominato nel 1660 Presidente del Senato e il suo palazzo divenne uno dei principali punti di riferimento per la vita sociale e politica della città.
Del nucleo principale di Richini si conserva, oltre all’impianto generale, il vasto cortile d’onore, un quadriportico su colonne di granito binate.
A metà del Settecento il palazzo passò in proprietà alla famiglia Litta che commissionò gli interventi principali per trasformare l’austero edificio richiniano nello splendido palazzo attuale: dalla costruzione dello scenografico scalone a forbice, alla
decorazione pittorica, affidata al pittore Giovanni Antonio Cucchi a cui si aggiunge,
sucessivamente, anche Martin Knoller, alla realizzazione della peculiare facciata
capricciosa, nella quale spiccano le due statue a tutto tondo che fiancheggiano il
portale e sostengono lo stemma dei Litta.
Venduto all’asta nel 1873 in seguito ad un dissesto finanziario della famiglia Litta, il
palazzo venne rilevato dalla Società Ferroviaria Alta Italia per passare poi alle
Ferrovie Italiane, diventando quindi proprietà del Demanio dello stato, ramo ferrovie. Nel 1996, uscito dalle disponibilità delle Ferrovie, rientrò completamente nel
patrimonio indisponibile dello Stato.
Recentemente una parte del complesso, di minor pregio storico architettonico, è
stata alienata dal demanio e confermata nella destinazione ad uso uffici.
La porzione più ampia e preziosa del complesso monumentale di Palazzo Litta,
dichiarato di eccezionale interesse culturale e sottoposto alla legislazione di tutela,
è stata data in consegna al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che ne ha previsto l’utilizzo a sede degli Uffici della Direzione per i Beni culturali e paesaggistici
della Lombardia, della Soprintendenza per il patrimonio storico artistico e etnoantropologico, della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di
Milano e della Soprintendenza Archivistica. Inoltre, nei sontuosi spazi di Palazzo
Litta, troveranno adeguata collocazione anche le biblioteche e gli archivi degli Istituti
del MiBAC, strutture già oggi aperte al pubblico e frequentate da studiosi, ma che
potranno essere potenziate e finalmente integrate per una migliore ed efficiente utilizzazione.
All’interno di Palazzo Litta a due passi dal Cenacolo e dal complesso di S. Maria
delle Grazie, s’intende riservare un’attenzione particolare a Leonardo, per il quale è
allo studio uno spazio dedicato a progetti di divulgazione scientifica e di didattica.
Inoltre il progetto prevede che l’appartamento nobile al primo piano, arricchito
dalle decorazioni di Cucchi (la famosa Sala degli Specchi), ospiti uno spazio con
“vocazione museale” e venga utilizzato non solo per le attività ministeriali, ma per
mostre, convegni, seminari con aperture al pubblico.
Direttore Regionale
Carla Di Francesco
Coordinatore
Cristina Ambrosini
Corso Magenta, 24
20123 Milano
tel. 02 802941
fax 02 80294232
[email protected]
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A sua volta, anche il bellissimo giardino costituisce, nel progetto del MiBAC, una interessante opportunità di nuovi utilizzi pubblici nel centro di una città carente di spazi
verdi come Milano.
All’interno del complesso trova già da tempo sede il Teatro Litta, che utilizza per le
sue attività culturali anche il teatrino settecentesco affacciato sul cortile dell’Orologio.
La presenza del MiBAC e l’impegno progettuale, tecnico e scientifico della Direzione
Regionale nel complesso demaniale garantiranno la trasformazione di uno dei più
importanti edifici storici di Milano oltre che nel baluardo della tutela dei beni culturali anche in una vera e propria “Cittadella della Cultura”, centro di irradiazione della
conoscenza e dei saperi, mediante l’integrazione degli spazi, dei servizi e delle attività tecniche scientifiche ed amministrative che qui avranno luogo e troveranno sede.
Il secondo progetto della Direzione Regionale ha come protagonista il complesso
basilicale di Lomello (Pavia), tra i più rilevanti a scala nazionale e internazionale. Sorge
su un sito pluristratificato che presenta strutture edilizie sviluppatesi in tempi diversi
includendo ampliamenti, ricostruzioni ed opere strutturali realizzate nel corso di
interventi di restauro dello scorso secolo. È, in sintesi, un palinsesto di storia insediativa, abitato sin dalla romanità: un complesso architettonico dotato di una ampia stratigrafia degli alzati che si chiude con i restauri di Gino Chierici negli anni ’40 del XX
secolo. Lo stato di conservazione dell’intero complesso risulta alquanto precario e
necessita di interventi strutturali e di restauro urgenti.
Il progetto di consolidamento e di restauro del complesso architettonico ha carattere interdisciplinare e coinvolge svariate professionalità sia tecniche (architetti e restauratori per le diverse fasi di progettazione e direzione lavori di ambito architettonico,
archeologi per i previsti scavi stratigrafici, storici dell’arte per gli apparati decorativi)
sia amministrative (per le procedure di affidamento lavori), nonché Istituti di ricerca
e Laboratori di diagnostica. In quanto progetto d’intervento globale può costituire,
pertanto, un modello operativo per interventi similari in ambito nazionale.
Il “cantiere di studio e restauro conservativo” attivo sul ciclo decorativo degli stucchi
della parete della Basilica di Lomello è coordinato dalla Direzione Regionale e coinvolge tutte le Soprintendenze di settore, l’Università del Piemonte Orientale – Istituto
di Storia dell’Arte e il Centro Interdisciplinare per lo Studio e la Conservazione dei
Beni Culturali (CENISCO), il Comune e la Parrocchia dei SS.Maria e Michele di Lomello.
Sono inoltre attualmente in corso indagini diagnostiche su decorazioni in stucco conservate presso chiese e musei della Lombardia e dell’Emilia Romagna per attuare i
necessari confronti di tecniche esecutive e dei bacini di approvvigionamento delle
materia prima (Milano S. Ambrogio, Civate al Monte, Vigolo Marchese presso
Piacenza, ecc.), nonché sulla circolazione di possibili modelli di riferimento per l’artigiano produttore.
La collaborazione in essere con diversi enti ed istituti di ricerca ha già permesso di
avviare una serie di attività di valorizzazione che possono assumere la funzione di
volano per altre iniziative: formazione universitaria nei settori della diagnostica applicata all’architettura e ai materiali, didattica, promozione e valorizzazione, indagini e
scavi archeologici da
connettere ad eventuali
interventi di restauro
della basilica, in relazione al progetto di deumidificazione delle murature e di canalizzazione
delle acque, che prevedono saggi sul deposito
archeologico.
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Restauri in Piemonte
Il restauro rappresenta una delle priorità culturali del nostro Paese, ricco di
testimonianze d’arte e di storia. Ogni generazione ha, infatti, il compito di trasmettere al meglio il patrimonio che ha a sua volta ricevuto, poiché proprio in
quel patto tacito tra le generazioni è dato il senso di un’identità culturale.
Al chiaro principio fa riscontro, però, la complessità di una pratica quotidiana con la quale professionisti e aziende affrontano un quadro problematico
dai contorni spesso sfumati e mutevoli. Per essere in grado di interpretare in
modo corretto le tracce lasciate dal passato bisogna esserne attenti e instancabili studiosi, ma è anche necessario, attraverso lo studio, recuperare saperi
e consuetudini di lavoro che trovavano nell’oggetto da restaurare il proprio
fulcro, come è necessario saper condividere al meglio i risultati del proprio
lavoro. L’attività del restauro è, perciò, in una corretta conservazione con il
recupero delle condizioni materiali e fisiche della testimonianza, ma essa si
esplica anche attraverso il richiamo alle abilità che quelle condizioni seppero
produrre, nella trasmissione nel tempo delle conoscenze e del lavoro.
È questa, forse, la maggior sfida che ci è posta: se, infatti, la conoscenza
scientifica avanza permettendoci diagnosi sempre più accurate e dettagliate,
se possiamo utilizzare strumentazioni e metodologie di analisi di grande efficacia e se, infine, le informazioni di cui oggi disponiamo sono per ogni intervento enormemente maggiori rispetto a quelle che avremmo potuto immaginare solo qualche decennio fa, rimane ancora molto da fare nel recupero
delle abilità e delle lavorazioni che oggi non sempre trovano sufficienti ragioni d’essere nella produzione industriale. Al restauro occorrono le competenze dell’ebanista, del doratore, dello stuccatore, e ancora di altri artigiani e
artefici, oltre che, naturalmente, delle più ovvie competenze del restauratore.
Ecco quindi che l’attività del restauro diviene il campo di un confronto serrato e costante che assume valore culturale, ma anche sociale ed economico.
Le ragioni della valorizzazione e della promozione del patrimonio artistico
trovano l’humus necessario in quel confronto.
In Piemonte, negli ultimi anni con sempre maggiore convinzione sono state
investite risorse ed energie nel recupero di un vasto patrimonio che ha contribuito a ridisegnare l’identità stessa di un territorio, attirando su di esso l’attenzione del turismo. Il restauro, insieme a una rinnovata politica di gestione e di
promozione, è stato la leva con la quale una simile impegnativa impresa si è
andata realizzando. Sono proprio in questi giorni nuovamente visitabili nuove
ampie porzioni del Palazzo Reale, mentre Palazzo Chiablese è tornato ad
aprirsi alla città. Già lo scorso anno, dopo dieci anni di restauri, riapriva Villa
della Regina, mentre la magnifica cancellata di Piazzetta Reale restituiva nuovamente dignità a un luogo pubblico di grande prestigio, così come accadeva con Palazzo Carignano, in una delle piazze storiche più significative. Non è
possibile elencare la grande quantità di arredi, dipinti, tappezzerie e suppellettili che insieme agli edifici che le contengono sono state oggetto di cura e
di restauro. Un capitolo a sé meriterebbe, poi, l’importante e imponente
restauro della Cappella della Sindone grazie al quale, utilizzando avanzate
metodologie di indagine e di lavoro, ci è stato possibile conservare una delle
più alte testimonianze della nostra architettura.
Uscendo dall’ambito cittadino e torinese, non si può non far cenno alle altre
dimore sabaude, patrimonio dell’umanità, molte delle quali negli ultimi due
anni sono state riaperte e rese visitabili. Qui, l’impegno che ci siamo perciò
dati è, insieme alla necessaria e irrinunciabile conservazione, quello della
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Mario Turetta
Direttore Regionale
Mario Turetta
Coordinatore
Emanuela Zanda
Piazza S. Giovanni, 2
10122 Torino
tel. 011 5220411
fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali.it
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amministrazione e sollecitazione di funzioni molteplici. Venaria, per citare un
esempio noto, ospiterà nuovamente mostre e manifestazioni culturali, ma già
da due anni è attivo il Centro di Conservazione e Restauro, che si propone
come un terzo polo nella formazione d’eccellenza dopo Roma e Firenze.
Il Centro occupa oltre 8.000 mq delle ex Scuderie e del Maneggio Alfieriani
con aule, laboratori e spazi per la ricerca e la diagnostica dotati di tecnologie
avanzate.
La realizzazione del centro è stata possibile, grazie al diretto coinvolgimento
in prima persona di tutti i soggetti interessati alla gestione dei beni culturali nel
territorio: la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, il Comune di Torino,
l’Università degli studi di Torino, il Politecnico di Torino, la Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo, la Fondazione CRT.
Un progetto altrettanto significativo è quello dei Mestieri Reali attraverso il
quale, grazie alla Fondazione CRT, l’esperienza dei restauri presso le
Residenze Sabaude contribuisce a formare professionalità e specializzazioni
nel campo dell’analisi e della conoscenza, della ricerca storica, del restauro,
dell’attività edile e artigianale di eccellenza. Il fine è di formare professionalità capaci di utilizzare strumenti e metodologie applicate ai cantieri di restauro architettonico e artistico, in un’ottica di forte innovazione.
Altri progetti, che coniugano gli aspetti della conservazione e del restauro con
la verifica di attività di sviluppo e recupero di competenze adatte, coinvolgono ancora il Castello di Racconigi con il suo parco e il Castello di Agliè.
Il connettere discipline, pratiche e tradizioni di lavoro, anche artigianale, ci
sembra dunque non solo una strada obbligata, imboccata con decisione, ma
anche il modo migliore per riuscire a ritrovare l’equilibrio tra il conoscere e il
fare che caratterizza ogni buona azione di restauro.
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Palazzo Chiablese - Torino
Gennaro Napoli, Emanuela Zanda
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e per il Paesaggio del Piemonte
l Palazzo Chiablese, cerniera tra la Torino barocca ed il quadrilatero romano,
non era noto al pubblico se non come sede “storica” delle Soprintendenze.
A cavallo di un passaggio poco visibile, Palazzo Chiablese offre da un lato una
quinta alla piazzetta Reale e dall’altro prospetta su Piazza San Giovanni, occupando l’intero isolato fino alla chiesa di San Lorenzo.
Il Palazzo, nato su precedenti torri e case-forti medievali, è capolavoro di
Benedetto Alfieri, e fu la residenza preferita del re Carlo Felice: la sua importanza
quale sede ducale e di rappresentanza si legge nelle severe facciate che prospettano Piazza del Duomo e Piazzetta Reale e nell’imponenza dell’androne e dello
scalone d’onore, oltre che nelle splendide sale del piano nobile.
I lavori di restauro hanno cambiato radicalmente la fisionomia consueta del Palazzo
e comportato notevoli modifiche nella destinazione degli spazi. L’androne è stato
completamente ripulito negli elementi lapidei e sono stati ripristinati gli intonaci; la
biblioteca, prima ospitata al piano nobile, verrà trasferita al piano terreno e riorganizzata quale servizio al pubblico e di accoglienza per gli studiosi.
L’adeguamento impiantistico del palazzo ha comportato notevoli lavori nel cortile, dalla caratteristica pavimentazione a campi in acciottolato bianco e nero contornati da lastre di pietra di Luserna. Attualmente tutti gli elementi sono stati restaurati e ripristinati, arricchiti da una fontana sotto il loggiato, dove l’elemento decorativo peculiare è una spettacolare glicine storica.
Dell’androne monumentale sono stati ripristinati gli intonaci e restaurati gli elementi lapidei, in cui sono stati riconosciuti tre diversi litotipi.
Lo scalone presenta caratteristiche architettoniche molto peculiari, e tipiche dell’architettura di Benedetto Alfieri, prospettando con ampie finestre da un lato su
Piazza San Giovanni e dall’altro direttamente sulle sale interne. Ai restauri architettonici si sono accompagnati i restauri degli oggetti mobili e degli apparati decorativi, compresi i lampadari, i rosoni e la ventola, consentendo anche un corretto
riallestimento delle sale e degli altri spazi
A seguito dei restauri anche Palazzo Chiablese sarà inserito tra le sedi di eventi e
manifestazioni, ferma restando la funzione di ospitare la Direzione per i Beni
Culturali e Paesaggistici del Piemonte e le Soprintendenze: quindi non un museo,
ma un luogo attivo di scambio di conoscenze ed esperienze tra il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali ed il pubblico.
I lavori, eseguiti grazie al finanziamento del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali con i proventi del gioco del lotto sul triennio 2004-2006, con il sostegno
della Compagnia di San Paolo di Torino, concludono una fase importante aprendo altre prospettive. Con i lavori già in programmazione si eseguiranno i recuperi
al secondo piano, consentendo i successivi restauri del piano nobile.
Ulteriore aspetto è quello della globale valorizzazione con i confinanti edifici del
“Polo Reale”, già riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco in un sistema
museale tra i più vasti ed articolati d’Europa.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
I
Soprintendente
Francesco Pernice
Piazza S. Giovanni, 2
10122 Torino
tel. 011 4361332
fax 011 4361484
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Il restauro del Castello Alfonsino
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e
per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Lecce Brindisi e Taranto
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Puglia
D
Direttore dei Lavori
Augusto Ressa
Direttore Regionale
Ruggero Martines
Strada dei Dottula, isolato 49
70122 Bari
tel. 080 5285111
fax 080 5281114
[email protected]
Coordinatore
Emilia Simone
Soprintendente ad interim per i
Beni Architettonici e per il
Paesaggio e per il Patrimonio
Storico Artistico ed
Etnoantropologico
per le province di Lecce
Brindisi e Taranto
Attilio Maurano
Via Foscarini, 2/B
73100 Lecce
tel. 0832 305081
fax 0832 241046
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el complesso fortificato denominato Castello Alfonsino e Forte a Mare, che
sorge su un’isola di un piccolo arcipelago all’imboccatura del porto di Brindisi,
si hanno notizie a partire dal 1481, all’indomani della battaglia di Otranto.
Il sistema difensivo messo a punto dagli aragonesi per contrastare la minaccia
turca, determinò la scelta di trasformare Brindisi nel principale presidio militare del
Regno.
Potenziato il Castello detto “di terra”, di epoca sveva, Alfonso I d’Aragona decise
quindi di fortificare l’isola di S.Andrea, costruendovi un castello per difendere il
porto e la città, inglobando i resti di una preesistente struttura angioina.
Costruito direttamente sul banco di roccia con murature in calcarenite locale in
conci e pietrame legati con bolo, il castello presenta una pianta trapezia con ai vertici due bastioni pentagonali e un torrione circolare, impostati su muri a scarpa marcati all’esterno da cornici toriche.
Gli ambienti interni si articolano intorno ad una corte rettangolare sopraelevata
rispetto al livello del mare, dalla quale si dipartono le rampe che conducono alle
ampie gallerie del piano terra ed ai camminamenti in quota sui quali si aprono
anche gli accessi ai saloni di rappresentanza disposti su due livelli.
Il Forte fu costruito a partire dal 1554 per volere di Filippo d’Austria e fu completato in circa cinquantacinque anni (1554-1609) sotto la direzione di Giulio Cesare
Falco, cavaliere dell’Ordine di Malta e più volte Capitano Generale contro i Turchi.
Quest’ultima struttura, denominata Forte a Mare o Opera a Corno, definisce un
poderoso antemurale con funzione di recinto dell’isola intermedia, isolata dalla
prima nel 1598 attraverso la realizzazione di un canale (canale angioino), entro cui
erano disposti gli alloggi delle truppe e delle guarnigioni.
Le mura dell’Opera a Corno si sviluppano in pianta in forma di trapezio allungato
con il lato minore rivolto verso una darsena quadrangolare, straordinaria corte
d’acqua chiusa a Sud dal castello. I lati maggiori sono inframmezzati da due
bastioni poligonali, di S.Pedro e di S.Maria. Il fronte settentrionale è munito ai vertici di bastioni pentagonali, di Tramontana a ponente, e della Intavolata a levante.
A lavori ultimati Castello e Forte, arricchiti con l’inserimento di monumentali portali sormontati da stemmi scolpiti, furono denominati dagli Spagnoli “Isla Fortalera
que abre el Puerto Grande”.
Con il trattato di Utrecht e di Radstadt Il complesso fu affidato nel 1715 ai tedeschi, poi espugnato e conquistato dai Rivoluzionari francesi e finalmente, nel
1815, riannesso al patrimonio del Regno di Napoli e destinato a lazzaretto.
Segue una lunga fase di declino riscattato a fine ‘800 quando Brindisi diviene una
base navale di primissimo piano ed il Forte a Mare diventa presidio della R.Marina,
destinato,allo scoppio della Grande Guerra, a deposito di torpedini e dei realtivi
detonatori. Le truppe troveranno alloggio nell’Opera a Corno.
Dalla seconda metà del secolo scorso il complesso ha subito un lento declino
per il graduale abbandono del presidio da parte dei militari. La mancanza di
opere manutentive ha determinato fra il 1974 e il 1977 una serie di crolli culminati,nel 1979 nella perdita di una ampia parte dell’“Almazer de palbora” (Bastione
poligonale di Nord Ovest) e della “Iglesia del Puerto viecho”e, nel1980, nel crollo di un consistente settore del camminamento di ronda fra la Porta Reale e
l’Opera a Corno.
Nel 1984 avviene la dismissione del complesso che viene formalmente preso in
consegna dal Demanio dello Stato, che lo affida alla Soprintendenza per i Beni
Architettonici, Paesaggistici e Storico Artistici della Puglia.
A partire dal 1981 la Soprintendenza ha attuato diffusi interventi mirati ad arginare i fenomeni di degrado che determinano il distacco di materiale lapideo dalle
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murature esposte all’azione demolitrice del mare. In attesa di definire la destinazione d’uso del complesso monumentale,è stato attuato un sistematico programma di restauro conservativo del Castello con l’obiettivo di consentire la lettura, nel
rispetto delle stratificazioni storiche, dell’originario impianto alterato dalle manomissioni apportate negli ultimi due secoli, ed avviato il recupero dell’Opera a
Corno.
A seguito di finanziamento derivante dal Programma triennale Lotto 2004/2006, la
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia (Direttore Prof.
Arch. Ruggero Martines) ha appaltato i lavori tutt’ora in corso di esecuzione per i
quali è previsto il completamento entro giugno 2008.
Detti ultimi lavori riguardano principalmente le mura dell’Opera a Corno interessate da estesi sgrottamenti dovuti alla perdita di coesione delle malte per l’effetto
combinato del vento e dello spry marino, specie lungo i tratti esposti verso il mare
aperto. In particolare l’intervento in corso ha riguardato la parziale ricostruzione
del bastione di S.Maria scompaginato a seguito di un recente crollo. Si è pertanto operato il ripristino della originaria sagoma partendo dai monconi murari ancora integri, riutilizzando il materiale di crollo accumulato al piede del bastione, previa accurata cernita. In analogia con la tecnica costruttiva delle cortine e degli ulteriori bastioni, sono stati riproposti i corsi dei conci, integrata la cornice torica a
chiusura della muratura a scarpa, dimensionati i conci di carparo di integrazione
per la costruzione dei cantonali. La rimozione dello strato di terreno sul piano di
copertura ha messo in luce l’originaria pavimentazione in basole calcaree che sarà
sottoposta ad intervento di restauro, con integrazione delle lacune con materiale
identico. I piani inclinati delle cannoniere, liberati dalla vegetazione infestante
saranno protetti con uno strato di cocciopesto, come in originale.
L’intervento in corso ha interessato anche il bastione di Tramontana e
dell’Intavolata che lungo i lati corti con affaccio sul canale angioino presentavano
estesi sgrottamenti,con distruzione del paramento esterno e di parte del nucleo.
La condizione di degrado appariva accentuata dalla presenza di rigogliosa vegetazione infestante, il cui apparato radicale ha contribuito in maniera rilevante a
scalzare i conci del paramento lapideo esterno e a determinare la rotazione verso
l’esterno delle murature di coronamento. Pertanto si è dovuto eliminare tutto lo
strato di terreno vegetale accumulatosi in copertura, rimuovendo gli apparati radicali fortemente ramificati di fichi e piante cespugliose. In alcuni casi dove si è registrata una accentuata rotazione con inclinazione di circa 10 gradi, si è operato lo
smontaggio delle murature ed il successivo rimontaggio in posizione verticale. Gli
sgrottamenti sono stati ripresi con materiale del tutto simile a quello originario per
caratteristiche petrografiche e dimensionali, avendo cura di rigenerare i nuclei
decoesi e lacunosi con malte di tipo tradizionale a base di calce povera di sali
solubili. I conci ed il pietrame costituente il paramento murario sono astati stilati
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con,malta di calce ed inerti lapidei e cocciopesto, raggiungendo una resa finale
del tutto simile alle finiture originarie, previa stuccatura profonda effettuata in più
strati. L’uso di materiale di crollo e proveniente da cave locali opportunamente
selezionate non ha reso necessario sottoporre le superfici a trattamenti di equilibratura cromatica.
La necessità di realizzare una pista di accesso a questi ultimi bastioni ha consentito inoltre di mettere in luce, al di sotto del terreno vegetale coperto da fitta
macchia, la originaria pavimentazione in basole calcaree che definisce un percorso anulare continuo lungo gli spalti della mura collegando le coperture dei
due bracci degli alloggi delle truppe.
L’intervento in corso ha interessato anche il consolidamento ed il trattamento del
bastione poligonale Nord Est del Castello (Almazer De Palbora) interessato dal
crollo parziale del1979. In mancanza di documentazioni certe circa l’originaria
configurazione, a meno della mappa elaborata nel 1739 da personale militare spagnolo, si è preferito trattare la porzione superstite a “rudere” senza cioè operare
alcuna integrazione. Si è invece optato per un riordino delle superfici ormai a
vista, attraverso la stuccatura dei vuoti e il riempimento delle lacune e delle bucature più estese con conci di tufo; il fissaggio degli elementi in precario stato di
equilibrio, come monconi di volte e cornici, a mezzo di imperniazioni in acciaio
inox e colate di resine epossidiche, consolidamento di intonaci e trattamento finale delle superfici interne scoperte con un intonachino a cocciopesto ed equilibratura cromatica finale estesa all’intera sezione. Tale soluzione lascia comunque
aperta la querelle circa la possibilità o opportunità di riproporre eventualmente al
piede del bastione, e per una altezza da convenire, la presumibile originaria pianta ora illeggibile, né facilmente rinvenibile con indagini stratigrafiche tenuto conto
che sul piano di fondazione è stato realizzato, poco dopo il crollo, uno spesso
zatterone continuo di calcestruzzo.
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Restauro dei manufatti metallici Scrigno e Gabata
Cattedrale di S. Maria Maggiore, Barletta (BA)
La Gabata databile intorno al XII – XIII sec. d. C.,in bronzo traforato, presenta una
forma estremamente semplice ma di fattura raffinata: l’elemento che ha fatto pensare all’ambito musulmano è la decorazione della parte concava della lucerna che
presenta un motivo pseudo – epigrafico lavorato a traforo.
Sulla tesa, larga e sottile, sono inseriti tre ganci uncinati che trattengono le catenelle di sospensione.
La lucerna è stata inizialmente oggetto di diverse interpretazioni: identificata come
un cappello facente parte di una tomba cardinalizia (XVI), fu in seguito collocata
nel XII sec. come lucerna di gusto bizantineggiante, seguendo un modello a polycandelon.
Il dettaglio dell’iscrizione di carattere decorativo e l’ambito in cui è stata rinvenuta sembrano confermare la fattura islamica.
Lo Scrigno risalente alla seconda metà del XII sec.,in bronzo fuso e inciso di forma
circolare con semplici decorazioni, è sollevato da quattro piedini discendenti da
borchie ancorate alla parte inferiore ed è chiuso da un coperchio a scudo con sei
borchie sovrapposte, di cui due fungono da ganci di chiusura e due mascherano
le cerniere che lo uniscono alla base.
Il coperchio presenta un’iscrizione augurale che dice:
‹‹ Gloria, felicità perfetta, generosità piena, alta gioia perpetua, benessere completo. ›› [al possessore] che ci fa ipotizzare una originaria destinazione privata dell’oggetto. Successivamente potrebbe essere stato riutilizzato come teca eucaristica, quando questi oggetti entrarono a far parte dei tesori ecclesiastici.
L’iscrizione presenta due canoni calligrafici diversi: quello cufico intorno all’umbone, quello naskhi nella parte più esterna.
Il primo ad andamento angolare e solenne è uno stile originario della città di Kufa,
il secondo è ad andamento rotondo e più morbido; il termine naskhi ne indica la
varietà più antica.
Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico per le Province di Bari e Foggia
manufatti metallici oggetto di restauro sono una testimonianza della presenza islamica in Puglia tra il XII e il XIII sec.
Fanno parte del Tesoro della Cattedrale di Barletta ma probabilmente provengono
da Lucera, città dove, intorno al 1223, furono trasferiti gli ultimi Arabi di Sicilia per
ordine di Federico II di Svevia.
La “Luceria Saracenorum” divenne un centro urbano tipicamente arabo, quasi certamente sede di alcune botteghe di artigiani saraceni, specializzate nella lavorazione
dei metalli preziosi.
A Lucera Federico volle la costruzione di un palatium e delle mura, simbolo del
potere dell’imperatore sulla città ma anche della fedeltà dei suoi nuovi cittadini.
Inoltre, concesse ai Saraceni la libertà di professare la propria fede con l’intento di
ridurli all’obbedienza per poter sfruttare la loro esperienza in campo militare: i
Saraceni infatti, costituirono la parte più devota ed efficiente dell’esercito di mercenari del sovrano.
Sotto la dinastia angioina la situazione cambiò radicalmente per gli Arabi di Lucera:
Carlo II D’Angiò, con il sostegno del Papato, decise di distruggere la città e la comunità islamica.
Nell’agosto del 1300 il notaio barlettano Giovanni Pipino guidò la spedizione contro Lucera e i Saraceni, provocando la definitiva fine degli insediamenti arabi in Italia.
Probabilmente Pipino depredò la ricca città di numerosi oggetti preziosi (tra cui i
manufatti bronzei oggetto di restauro), facendone dono a Barletta e alla sua
Cattedrale.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Puglia
I
Restauratori
Vito Nicola Iacobellis
Osvaldo Cantore
Direttore dei lavori
Fabrizio Vona
Note storico-artistiche
Alessandra Failla
Soprintendente ad interim
Rossella Vodret
Funzionario delegato
Filomena Sardella
San Francesco della Scarpa
Via Pier l’Eremita, 25/B
70100 Bari
tel. 080 5285111
fax 080 5285214
Coordinatore
Fulvia Rocco
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Fasi di Restauro
Scrigno
Dalle analisi preliminari non distruttive effettuate tramite X.R.F. (fluorescenza di raggi
X) in collaborazione con l’Università di Lecce, si è rilevata presenza di zinco, per
cui sicuramente il manufatto è in oricalco, una antica lega orientale di rame e stagno con consistente presenza di zinco che conferisce all’oggetto un particolare
riflesso dorato.
Esternamente il manufatto non presentava particolari corrosioni attive, per cui la
patina scura è stata abbassata di tono con passaggi di sostanze debolmente basiche sciolte in acqua deionizzata.
Successivamente, per eliminare eventuali residui, sono stati effettuati lavaggi con
acqua deionizzata per poi passare alla disidratazione mediante solventi altamente
volatili.
Il lavoro di restauro è stato protetto con un doppio trattamento a base di resina e
cera per garantirne una maggiore durata.
Nella parte interna dello scrigno si potevano notare chiazze scure di cuprite (ossido di rame) e tracce verdi compatte di atacamite (cloruro di rame), prodotti di
alterazione stabilizzati.
Le parti polverulenti biancastre (ossido di zinco) e le verdastre di paratacamite,(cloruro di rame instabile) erano invece prodotti di corrosione attiva: e si presentavano
con formazioni puntiformi (pitting).
La pulitura è stata eseguita con bisturi e spazzolini rotanti in setola, naturalmente
preservando le delicate patine stabili di atacamite.
La rimozione dei residui di sali solubili è stata effettuata mediante ripetuti lavaggi
con sostanze debolmente basiche in acqua deionizzata e successivamente con
vapore acqueo.
Gabata
La gabata presentava ampie incrostazioni polverulenti miscelate a grassi oleosi,
accumulatisi nel corso dei secoli, intervallate da diffusi pitting di atacamite e paratacamite.
Sulla banda circolare è ben visibile una integrazione in ferro che mal si associa al
manufatto e che presenta una forte ossidazione, con una consistente presenza,
per trasposizione, di cloruri di rame sotto forma di grumi verdi sull’ossido di ferro.
Nelle fasi di pulitura, l’azione meccanica ha permesso un buon recupero del
manufatto: grazie a vari passaggi con bisturi, microtrapano e spazzolini in setola si
è potuta raggiungere una buona patina, stabilizzando i sali di rame.
Le catenelle che sorreggono in sospensione la lucerna sono in maglia di ferro alternate a croci.
Sia sulle maglie in ferro della catena che sulle croci in lamina di ferro, fortemente
ossidate, era evidente uno spesso strato scuro di nerofumo, grasso e pulviscolo
su cui per trasposizione si era formata un lieve pitting di atacamite.
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Cattedrale di Bisceglie - “Trionfo dell’Eucaristia”, sec. XVIII
Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico per le province di Bari e Foggia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Puglia
I
l grande dipinto ad olio su tela (cm.815x540), originariamente incollato e inchiodato su un tavolato in legno di abete, era ubicato nella Cattedrale di Bisceglie,
inserito nella volta settecentesca in stucco.
Durante i lavori di restauro della chiesa, eseguiti negli anni ’60, il dipinto fu smontato,
tagliato lungo le assi del tavolato di supporto e ridotto in numerosi pezzi in parte
ancora tenacemente incollati e inchiodati su tavole, in parte arrotolati su rullo insieme
a frammenti di varia misura e di difficile collocazione nel contesto dell’opera.
L’intervento odierno ha avuto l’obiettivo di ricomporre i frammenti spesso deformati
di una tela che nella fase di smontaggio e nel deposito ha subito i danni maggiori. In
considerazione delle grandi dimensioni della tela e per l’esiguità della documentazione fotografica, una sola foto in bianco nero, si è resa necessaria una puntuale mappatura di rilevamento dei margini che consentisse di riaccostare i lembi del dipinto
come un grande puzzle le cui tessere spesso avevano perso la planarità. Dopo aver
numerato i frammenti, si è protetta la pellicola pittorica e si è proceduto con la rimozione dei supporti lignei, operazione complessa per la presenza di chiodi e adesivi
tenaci. È stato necessario correggere lentamente le deformazioni e assemblare inizialmente i frammenti più piccoli, facendone ricombaciare perfettamente i margini, poiché anche un errore di pochi millimetri nell’assemblaggio avrebbe causato
l’errata ricomposizione dell’intera opera. I punti di unione di ogni singolo pezzo
sono stati fissati, sul verso, con rettangoli di garza.
Le grandi e numerose lacune sono state integrate con inserti di tela simile all’originale.
Come nuovo supporto per il dipinto è stata scelta una tela a doppio strato, simile alla tela originale, in grado di sostenere il peso del dipinto per l’eventuale ricollocazione al soffitto.
Considerando che il dipinto sviluppa una superficie di circa 40 mq. la fase di
foderatura ha previsto grandi quantitativi di colla pasta e attrezzature accessorie
con il lavoro in contemporanea di tutti i restauratori del Laboratorio.
Il dipinto è stato poi sistemato in posizione verticale e ancorato ad una struttura
metallica appositamente montata per permettere l’esecuzione delle fasi successive di restauro.
L’integrazione pittorica è stata eseguita direttamente sulla tela con tecnica a “largo
tratteggio” che consente la lettura della composizione dalla giusta distanza.
Per problemi di trasporto e difficoltà di ricollocazione nella sede originaria, dovuti alle grandi dimensioni, il dipinto verrà montato sul telaio definitivo direttamente
nella Cattedrale di Bisceglie.
Direzione lavori
Fabrizio Vona
Progettazione e restauro
M.L. De Bellis Vitti
E. Fenicia
V. Sorrentino
M.P. Zambrini
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Soprintendenza per il Patrimonio Storico
Artistico ed Etnoantropologico per le Province di Bari e Foggia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Puglia
Dipinto su Tavola “Adorazione dei Pastori”
attribuito a Marco Pino, sec. XVI
Restauro a cura di
Angela Laterza
Anna Scagliarini
Direttore dei lavori
Fabrizio Vona
Foto
Beppe Gernone
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L
o stato di conservazione della superficie pittorica dell’opera si presentava estremamente compromesso dall’azione del fuoco di un incendio. L’eccessivo calore in alcune zone aveva distrutto il colore e la preparazione: in particolare in alto,
su tutto il lato destro corrispondente e sul viso della Madonna.
Nel vecchio intervento di restauro era stata eseguita una pulitura fortemente
aggressiva che, alterando e frammentando l’integrità del colore, aveva messo in
luce la sottostante preparazione di color ocra compromettendo la lettura della
composizione.L’opera appariva ulteriormente offuscata da una vernice mista a
pigmento bruno, gomma lacca e cera
che alterava la visione della superficie
pittorica.
Dal verso la tavola appare tarlata e leggermente imbarcata.Risulta formata da
quattro assi longitudinali di legno di
pioppo sulle quali sono state effettuate le operazioni di disinfestazione e
consolidamento.
Grazie all’operazione di pulitura, con
l’ausilio di mezzo chimici e meccanici, la pellicola pittorica è stata liberata
dallo strato di sporco, dalle vernici
alterate e ingiallite, dalle patinature
applicate nel corso degli interventi
precedenti e dalle ampie ridipinture.
Terminate le operazioni di pulitura, la pellicola pittorica appariva estremamente
corrosa e frammentaria.
La presenza di piccolissime e diffuse tracce di colore, percepibili con la lente di
ingrandimento, ha consentito di ridefinire le originarie pennellate dell’autore e
ricostruire con un’accurata e paziente operazione di integrazione pittorica le stesure di colore.
Il recupero delle campiture e la ridefinizione della composizione ha restituito alla
tavola continuità grafica, cromatica e plastica rendendo l’opera più chiara e leggibile.
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Il restauro dei reperti metallici della Collezione Jatta
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Puglia
I
l Museo Nazionale Jatta (Ruvo di Puglia, Bari), noto nel mondo per le sue pregevoli ceramiche, conserva anche un gran numero di reperti metallici di notevole
interesse storico e archeologico. Questi oggetti, sono stati finora esposti in una
piccola vetrina posta nell’ultima sala del Museo, sfuggendo spesso all’attenzione
di visitatori e studiosi poiché si presentavano nell’identico stato in cui furono ritrovati nell’Ottocento all’interno di antiche sepolture, frammentati e coperti di patine
e incrostazioni.
Nell’ambito del programma di interventi conservativi dei reperti è stato restaurato
un gruppo di 25 oggetti in bronzo costituito da armi da difesa, (elmo parti di
corazze, schinieri,cinturoni). Come già evidenziato, i materiali non erano mai stati
sottoposti ad interventi di restauro e si trovavano quindi nelle condizioni in cui
furono recuperati, quasi due secoli fa, nelle necropoli ruvesi.
Il recente restauro ha comportato: la rimozione delle incrostazioni; il trattamento
d’inibizione e stabilizzazione delle corrosioni con metodo B70;l’integrazione con
resine poliestere colorate con pigmenti inorganici, funzionale alla stabilità e alla
corretta lettura di alcuni pezzi; il consolidamento.
Il lavoro è stato effettuato da luglio a novembre 2006 e interamente sponsorizzato dall’Associazione degli Industriali della Provincia di Bari – Sezione Edile, diretto da Ada Riccardi, Direttrice del Museo Nazionale Jatta ed eseguito dalla restauratrice M. A. Petrafesa.
Servizio centrale Restauro e
Conservazione
Cristina Scialpi
tel. e fax 099 4713516
[email protected]
Taranto, Museo Archeologico Nazionale,
frammenti di sarcofago in marmo, II sec. d. C.
Interventi di pulitura e consolidamento.
Frammenti di sarcofago risalente al II sec. d.C. in marmo scolpito a rilievo con scena
dall’epopea omerica della nota Battaglia presso le navi fra Greci e Troiani, con ricco
motivo decorativo nelle cornici e, sul coperchio, la rappresentazione del defunto
disteso. La realizzazione del monumento è da collegare ad un ricco committente,
che ha importato dall’Attica, alle cui officine si attribuisce un sepolcro artisticamente rilevante. Lo stato di conservazione dei frammenti marmorei presenta evidenti
fenomeni di corrosione ed erosione, microfratture e distacco di microscaglie.
l’intervento conservativo è consistito nella rimozione del deposito incoerente con
pennelli di setola morbida, nella pulitura con impacchi di polpa di cellulosa e
soluzione satura di sali inorganici e quando necessario meccanicamente col bisturi, nei lavaggi con acqua deionizzata. Localmente, dove sono presenti fenomeni
di decoesione, è stato applicato un consolidante inorganico a base di siliconati.
In corrispondenza delle fratture sono state eseguite microstuccature con leggera
patinatura e a conclusione dell’intervento è stato applicato, a spruzzo, sulle superfici, un protettivo a base di resina siliconica.
Intervento relativo a frammenti di
sarcofago in marmo
sono a cura di
F. La Viola.
A. Martinelli
C. Passatore
P. Barone,
B. Cantatore per la ditta Alfa
Restauro opere d’arte s.r.l.
Artigiana
diretti da Antonietta dell’Aglio
Soprintendente
Giuseppe Andreassi
Via Duomo, 33
74100 Taranto
tel. 099 4713511
fax 099 4600126
archeologica.taranto@arti.
beniculturali.it
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Restauri e ricerche in Sardegna
Paolo Scarpellini
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
O
Direttore Regionale
Paolo Scarpellini
Coordinatore
Sandra Violante
Via dei Salinieri, 20/22
09126 Cagliari
tel. 070 3428202
fax 070 3428209
[email protected]
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gni opera di restauro, lo sappiamo bene, è atto di conoscenza. Non c’è
restauro che si rispetti che non contempli un’indagine accurata, sovente e
necessariamente in corso d’opera, per determinare le vicende e le mutazioni subite dal monumento attraverso la sua lunga e tormentata vita.
Il salone di Ferrara è l’occasione per presentare alcuni interventi conservativi, compiuti dalle Soprintendenze dell’Isola, e che possiamo considerare emblematici di
alcuni dei principali filoni di studio e di restauro che in Sardegna attualmente si
svolgono.
Il patrimonio archeologico isolano di epoca nuragica (XVIII – VIII secolo a.C.) è
vastissimo, e per gran parte ancora inesplorato. Reca caratteri affatto peculiari, che
lo distinguono dalle culture e dai monumenti protostorici del Mediterraneo, pur
mostrando numerosi apparentamenti e svariate analogie. Nei siti archeologici
dell’Isola ogni cantiere di restauro è anche laboratorio di ricerca ed ogni scavo
richiede interventi di restauro.
Una delle tipologie di monumento nuragico è il cosiddetto “tempio a pozzo” o
“pozzo sacro”, vano ipogeo di pianta pressoché circolare, coperto da volta a
“tholos”, ed accessibile dall’esterno mediante una ripida rampa gradinata generalmente rettilinea. All’esterno il monumento è spesso circondato da un recinto
in pietra, con funzione sacrale. Esistono numerosi esemplari di tale genere di
manufatto, assai spesso sconosciuti perché nascosti dalla vegetazione oppure
dissimulati dalle attività connesse all’agricoltura e all’allevamento. Ve ne sono di
fattura accuratissima, con pietre squadrate isodome e squisita regolarità geometrica nelle forme, e ve ne sono di fattura sommaria e di dimensioni modeste. Le
ricerche compiute nel “tempio a pozzo” denominato Funtana Cuberta di Ballao
(Cagliari) hanno rivelato una complessa stratigrafia (con numerosi ed interessanti ritrovamenti), che ne farebbe risalire l’impianto alla fase di transizione tra bronzo medio e bronzo recente (secolo XIV a.C.), mentre ne individuerebbe un uso
di fornace per bronzo nelle epoche successive, fino all’abbandono completo
avvenuto in età del ferro. Solo in epoca tardo punica e romana (IV – II secolo a.
C.) il vano sarà recuperato all’uso di magazzino.
Le due necropoli di Tuvixeddu (Cagliari) e Pill’e Matta (Quartucciu), rispettivamente di epoca punica e romana, stanno restituendo importantissime testimonianze
materiali grazie alla sigillatura che il tempo aveva assicurato alla prevalente parte
delle numerosissime tombe. E dunque una grande quantità di informazioni sui
costumi delle epoche antiche scaturisce dall’esame dei materiali ritrovati nei “contesti chiusi” rappresentati dalle sepolture a camera inviolate.
Il complesso cultuale nuragico di Su Monte (Sorradile, OR) si trova sul versante che
domina la sponda sud-orientale del Lago Omodeo. Si tratta di un sito di eccezionale interesse archeologico, per l’ampiezza e la complessità dei ritrovamenti strutturali e dei rinvenimenti di oggetti. La vasca-altare di Su Monte è uno degli esemplari più monumentali e meglio conservati tra tutti i manufatti di questo genere
conosciuti nella Sardegna nuragica. Esso è costituito da una parte principale a
doppio tronco di cono che riproduce il modello ideale della torre nuragica, e da
una vera e propria vasca di forma asimmetrica, probabilmente utilizzata per sacrifici o riti lustrali, con lastrone di base e alte pareti verticali sormontate da spade
votive in bronzo. Intorno alla vasca lo scavo ha restituito un importantissimo complesso di manufatti ceramici e bronzei, nonché svariati blocchi parallelepipedi
originariamente connessi con la vasca-altare e muniti di incavi per il fissaggio dei
bronzi votivi. Allo stato attuale la maggior parte del complesso dei reperti si
inquadra nell'età del Bronzo Finale e nella Prima età del Ferro; tuttavia alcuni ele-
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menti suggeriscono che l’impianto originario sia avvenuto almeno nell'età del
Bronzo Recente.
Le vestigia della città punico-romana di Nora (Pula, CA), situata a circa 30 km dal
capoluogo regionale, in un’area turistica e balneare, formano una delle zone
archeologiche maggiormente visitate dell’isola, contando circa 80.000 presenze
annue. La città, conosciuta dalle fonti (Pausania) come la più antica della
Sardegna, e fondata dai Fenici di ritorno dalla Spagna verso la fine dell'VIII sec.
a.C, si stende sulla punta di un promontorio allungato nel mare, in una posizione
geografica di elevato valore ambientale e bellezza panoramica. In età romana
Nora assume un aspetto organizzato: il tessuto viario, composto da grandi strade
lastricate, la divide in quartieri. Vengono impostati il Foro, il teatro, gli edifici termali, il macellum ecc., con una consistente attività edilizia e decorativa, che si colloca prevalentemente in Età Flavia e Severiana, con la realizzazione di pavimenti a
mosaico che interessano numerosi edifici, in massima prevalenza pubblici, presenti in diversi settori dell’abitato (terme, porticati, templi). La collocazione geografica del sito archeologico, a fronte mare, ha costituito un grave fattore di degrado dei mosaici riportati alla luce dagli scavi, ed unitamente ai comuni fattori
ambientali, ha fatto emergere già da diversi anni la complessa problematica della
loro conservazione in situ. Nel progetto complessivo di restauro sono state indicate diverse categorie di degrado che identificano lo stato di consistenza di tutti
i pavimenti musivi presenti nel sito archeologico, per ciascuna delle quali si è
approntata una specifica modalità d’intervento.
Si propone di attuare un progetto di gestione della fruizione da parte del pubblico, attraverso un programma di copertura/esposizione dei mosaici lungo il percorso di visita, unito ad un programma di manutenzione ordinaria delle superfici
musive esposte. L'azione combinata di queste attività assicurerà la fruizione del
sito e la valorizzazione dei monumenti conservati, aumentando l’attenzione dei
visitatori e diminuendo l'incidenza dei fattori di degrado sui materiali originali.
Il monumentale rudere di un’antica chiesa medievale, ristrutturata nel Seicento, è
stata oggetto di un urgente intervento di puntellamento e di indagine conoscitiva. La chiesa di Santa Corona, datata intorno all’anno 1000 d.C., si trova alla periferia del paese di Riola Sardo, nella provincia di Oristano, borgo agricolo situato
nell’area dell’Alto Campidano. Il monumento si trovava in uno stato di completo
abbandono e la vegetazione infestante occupava gli spazi un tempo occupati
dall’impianto a tre navate di cui rimangono solo le tracce sul terreno dei pilastri
di ripartizione delle stesse che sono state messe in luce dal rinvenimento dei
plinti e delle basi attraverso gli scavi di indagine.
Oltre che una campagna d’indagini costituita dal rilievo architettonico, dalla individuazione di opportune Unità Stratigrafiche Murarie e da una ricognizione fotografica che ha incluso anche una ripresa aerea tramite pallone sonda, è stato
necessario soprattutto un provvidenziale puntellamento delle strutture murarie,
che versavano in un gravissimo stato di dissesto. Grazie ad un accordo di programma con l’amministrazione comunale si provvederà ad avviare un programma
organico di recupero del monumento, con l’intento di creare un parco archeologico nell’area della chiesa e del suo immediato contesto.
Delicatissimo è stato l’intervento urgente compiuto dalla Soprintendenza di
Cagliari per salvaguardare il pregevole apparato pittorico che adorna il coro
sopraelevato della seicentesca Chiesa conventuale di San Mauro, a causa del dissesto statico generale che affligge le strutture murarie. L’intera superficie parietale
dell’edificio era decorata, ma di tutte le superfici dipinte, risultano superstiti soltanto quelle della Cantorìa, realizzate nella prima metà del ‘700 e attribuite al pittore napoletano Domenico Tonelli, che lavora a Cagliari nella prima metà del XVIII
secolo raffiguranti, nella volta la Cacciata degli Angeli ribelli, nei pennacchi San
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Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio e San Gregorio Magno e nella controfacciata
dell’arco della tribuna i Sette dottori francescani con al centro San Bonaventura.
l dipinti sono realizzati con tempere su 3 strati di intonaco su supporto in mattone pieno e sono stati eseguiti a stesura consistente, con pennellate decise, formando diversi campi cromatici ad evidenziare la posizione ed il ruolo dei personaggi raffigurati.
Data la condizione della pellicola pittorica, rischiosa da spolverare a fondo senza
pregiudicare la permanenza del dipinto, si è proceduto ad una delicatissima
rimozione delle polveri mobili, con morbidi pennelli, fino al massimo risultato e
successivamente al consolidamento dello strato pittorico, degli intonaci e alla
reintegrazione cromatica. La protezione finale è stata eseguita con la stesura di una
resina acrilica superiore.
Il Ministero dispone in Sardegna di un importante Centro di Restauro e
Conservazione, situato a Sassari in località Li Punti, che si articola in diversi nuclei,
suddivisi per funzioni: laboratori di diagnostica, documentazione e restauro;
biblioteca specialistica; museo del restauro e della conservazione archeologica,
con spazi destinati anche a mostre temporanee, in corso di allestimento; depositi, in corso di allestimento; aree espositive esterne con percorsi di visita, in corso
di allestimento. Nel complesso edilizio ha sede anche il Comando Carabinieri
Nucleo Tutela Patrimonio Culturale per la Sardegna, e recentemente il Centro
Elaborazione Dati del Comando Nazionale.
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Le necropoli e la necessità di laboratori
per restituire al futuro i contesti chiusi
Donatella Salvi
Soprintendenza per i Beni Archeologici
delle province di Cagliari e Oristano
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
L
o scavo di una necropoli, condotto in estensione e per tutta l’ampiezza dell’area occupata in antico dalle sepolture, costituisce una delle condizioni privilegiate dello scavo archeologico. La quantità dei dati che, attraverso i rituali della
morte, illustra la vita dei contemporanei, abbraccia, sul piano della cultura materiale, la sfera della tipologia dei materiali, dei commerci, dell’artigianato e su quello della cultura immateriale quella dell’ideologia e della religione. Inoltre, poiché
ogni singola deposizione è riferibile ad un momento puntuale del passato, l’associazione dei materiali che compongono il corredo rappresenta una scelta consapevole e volontaria arrivata fino ad oggi nella sua conformazione, inalterata nel
tempo, di contesto chiuso. La possibilità di mettere a confronto i corredi, ed insieme di seguire sul terreno la distribuzione di associazioni fra loro contemporanee
porta a stabilire la stratigrafia orizzontale della necropoli ed a valutarne i modi e le
condizioni della progressiva espansione.
In questa ottica, e con questa consapevolezza, il trattamento conservativo dei
materiali – sia di quelli inorganici che di quelli organici, – costituisce uno dei
momenti più importanti della ricerca, nella quale l’archeologo e l’antropologo o
l’archeologo e il restauratore o l’archeologo e il botanico si muovono insieme per
comprendere non solo le caratteristiche fisiche del materiale trattato ma anche le
dinamiche deposizionali e postdeposizionali che hanno interessato la sepoltura.
Se la pulizia ed il consolidamento consentono di apprezzare in pieno gli oggetti
integri e di prolungarne per il futuro la conservazione, diversamente, andranno
interpretate le rotture degli oggetti in una tomba punica o in una tomba romana,
riflesso nel primo caso di un’azione volontaria che è parte del rituale, occasionale e legata per lo più a fattori meccanici successivi alla deposizione, nel caso della
tomba romana, dove l’oggetto viene deposto intero e può essersi rotto, più tardi,
per un cedimento della struttura o perché si è rovesciato nel momento che è
venuto meno il sostegno del corpo dell’inumato.
Allo stesso modo sarà possibile analizzare lo stato di conservazione degli scheletri, evidenziando nelle ossa ritrovate frammentarie i segni di patologie o gli esiti di
fattori esterni che, come nel caso degli oggetti, hanno comportato modifiche
della loro struttura.
Esempi significativi si sono verificati negli ultimi anni. Le due necropoli di
Tuvixeddu, a Cagliari, e di Pill’e Matta, a Quartucciu, hanno costituito momenti di
analisi e di riflessione con apporti e indagini che non solo hanno restituito gli
oggetti alla loro originaria forma e aspetto, ma hanno anche consentito di ampliare le informazioni sulla ritualità della morte e sulla dinamica degli eventi.
A Tuvixeddu rotture intenzionali sono state registrate, per l’età punica, sia nelle
tombe a pozzo, con parti dello stesso oggetto deposte in punti diversi della cella,
in rapporto alla posizione dell’inumato, sia nelle più tarde tombe a fossa, del IV
secolo a.C., dove la certezza della deposizione separata di frammenti di uno stesso oggetto è derivata dalla costipazione delle pietre che riempivano la fossa e rendevano impossibili ulteriori spostamenti degli oggetti. La ricomposizione in laboratorio ha consentito anche di apprezzare, nel caso di enchytrismoi dello stesso
periodo storico, che l’anfora che avrebbe ospitato il piccolo defunto veniva predisposta a questa funzione con tagli arrotondati del fondo, adatti a facilitare l’introduzione del corpo, mantenendo per il resto integro il contenitore.
Nella stessa necropoli, in sepolture di età romano repubblicana, il ritrovamento di
parti diverse di uno stesso oggetto a quote diverse di un riempimento intenzionale ha confermato, con la ricomposizione in laboratorio, la sequenza delle azioni
Soprintendente
Vincenzo Santoni
Piazza Indipendenza, 7
09124 Cagliari
tel. 070 605181
fax 070 658871
[email protected]
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che erano seguite a un cedimento occasionale, avvalorando l’ipotesi basata sugli
aspetti archeologici della stratigrafia, mentre lo studio antropologico ha dimostrato le tecniche di raccolta e di selezione dei resti ossei, dopo la combustione, per
la conservazione nell’urna.
Nel caso della necropoli di Pill’e Matta, a Quartucciu, il dato fondamentale può
considerarsi quello della ripulitura delle monete dall’ossidazione, che offre punti
di riferimento certi per la datazione di materiali, – come le lucerne e le sigillate africane, le costolate o i bicchieri in vetro, – fin qui compresi in archi di tempo eccessivamente ampi: corredi articolati, composti di numerosi oggetti integri o comunque ricomponibili, e buona affidabilità stratigrafica hanno consentito così di mettere continuamente a confronto ogni risultato provvisorio di datazione, che proprio dalla comparazione ha potuto trarre verifica e conferma continua. In questa
organica sistemazione hanno trovato posto, così, anche materiali meno comuni, di
varia materia, difficilmente databili se ritrovati fuori dai contesti chiusi che in questa necropoli, della quale sono state finora scavate 260 tombe, hanno fornito
apporti determinanti allo studio dei materiali tardo antichi. E se talvolta le ceramiche o i vetri richiedono, per il loro buono stato di conservazione, una semplice
pulizia, in altri, come nel caso delle fibbie o degli anelli, è soltanto il trattamento
degli specialisti che consente agli oggetti di mostrare non solo gli elementi decorativi ma anche i contenuti che questi comportano con simboli o iscrizioni.
Lo studio attento dell’antropologo che affianca lo scavo ha consentito poi, nella
stessa necropoli, di attribuire all’azione postdeposizionale di insetti la presenza
frequente di fori sui resti ossei che avrebbero, soprattutto nel caso dei crani,
indotto ad interpretazioni e dubbi di altra natura.
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Restauro dei pavimenti a mosaico di epoca romana
ed interventi di valorizzazione del sito archeologico.
Il caso del frigidarium delle Terme Centrali Nora (Pula-CA)
Carlo Tronchetti, Paolo Bernardini, Elena Romoli
Soprintendenza per i Beni Archeologici
delle province di Cagliari e Oristano
a città romana di Nora (Pula-CA), situata a circa 30 km dal capoluogo della
Sardegna, in un’area fortemente turisticizzata, grazie alla presenza di numerosi
alberghi e villaggi turistici, è una delle zone archeologiche maggiormente visitate
dell’isola, contando circa 80.000 presenze annue, in quanto bene culturale di
grande importanza e tra i più vasti della Regione.
La città punico-romana, conosciuta dalle fonti (Pausania) come la più antica della
Sardegna, fondata dai Fenici di ritorno dalla Spagna entro i decenni finali dell’VIII
sec. a.C, si stende sulla punta di un promontorio allungato nel mare, in una posizione geografica di elevato valore ambientale e bellezza panoramica. Grossa
importanza dovette avere la città in periodo punico (fine VI sec. - 238 a.C.), significataci dai reperti della necropoli a camere ipogeiche scavate alla fine dell’800;
della città punica, ricoperta dallo stendersi del tessuto urbanistico romano, non
rimangono però che poche tracce evidenti. In età romana Nora assume un aspetto organizzato: il tessuto viario, composto da grandi strade lastricate, la divide in
quartieri. Vengono impostati il Foro, il teatro, gli edifici termali, il macellum ecc.,
con una consistente attività edilizia e decorativa, che si colloca prevalentemente
in età Flavia e Severiana, con la realizzazione di pavimenti a mosaico che interessano numerosi edifici, in massima prevalenza pubblici, presenti in diversi settori
dell’abitato, (terme, porticati, templi). Dal V sec. d.C. in poi Nora entra in una fase
di decadenza, sino all’abbandono avvenuto fra il VII e l’VIII sec. d.C., testimoniato anch’esso, in modo evidente, dai risultati delle ultime campagne di scavo.
Successivamente agli scavi ed alle indagini nel sito risalenti agli ultimi decenni
dell’Ottocento, la città è stata interessata, negli anni Cinquanta, da una massiccia
opera di scavo ad opera dell’allora Soprintendente Gennaro Pesce; nel corso di
tali campagne furono messi in luce circa tre ettari di ruderi pertinenti in massima
parte alla città romana tardo-imperiale. Successivamente furono fatti saggi limitati
da parte del Soprintendente Prof. Ferruccio Barreca ed un intervento più ampio
nel 1977, ad opera dell’Ispettore Dr. Carlo Tronchetti, interessante l’edificio delle
Terme a Mare. Dopo altri parziali interventi, operati sopratutto in occasione del
restauro di parte dei pavimenti a mosaico negli anni 1984 e 1989, dal 1990 si sono
ripresi gli scavi in maniera programmata, in collaborazione con le Università di
Genova, Padova, Pisa, Viterbo e Milano. Alle indagini si è affiancata una regolare
opera di ricognizione per individuare le testimonianze della presenza umana nel
territorio dell’antica città.
Il degrado dei mosaici. La collocazione geografica del sito archeologico, a fronte mare, ha costituito un grande acceleratore del degrado dei mosaici riportati alla
luce, ed unitamente ai comuni fattori ambientali, ha fatto emergere già da diversi
anni la complessa problematica della loro conservazione in situ. Un primo intervento di restauro è stato compiuto negli anni 1962-63, con metodi allora ritenuti
adeguati, ma che, in seguito, hanno dimostrato di essere invece dannosi per la
conservazione dei pavimenti. Infatti l’utilizzo in maniera massiccia di cemento
armato, nelle condizioni climatiche salmastre, ha costituito la premessa per l’inevitabile futuro danneggiamento delle solette di posa dei pavimenti musivi per
causa della corrosione degli elementi ferrosi.
L’incisivo attacco di sali solubilizzati dall’acqua piovana, caduta abbondante negli
ultimi anni, ha infatti accelerato la formazione di diffusi e consistenti strati di ossidazione, con relativo aumento di volume del ferro che ha determinato, con la sua
espansione, forti tensioni nelle malte, fino all’insorgere di prime fessurazioni e di
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e Paesaggistici della Sardegna
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successivi distacchi dei materiali, ed il completo dissesto dei tessuti musivi.
Dall’azione sinergica di questi elementi risulta così che su grandi superfici il manto
musivo si è distaccato dal supporto, le tessere non hanno più nessuna aderenza
tra loro, le malte originali sono prevalentemente disgregate o completamente perdute, i materiali utilizzati nei precedenti restauri non svolgono più nessuna funzione conservativa, ma anzi, come già detto, hanno attivato pericolosi fenomeni di
distacco del tessellato.
Le patologie riscontrate sono: fratture/fessure, lacune, cadute del tessellato, polverizzazione della malta tra le tessere, distacco tra le tessere, distacchi tra gli strati di preparazione, sollevamenti, depressioni, degrado dei materiali usati per
restauri precedenti, degrado da interazione del tessellato con i materiali di restauro, attività animali, attività umane, presenza di elementi vegetali superiori su depositi terrosi, degrado e fratturazione delle tessere, efflorescenze saline, depositi
superficiali, croste, presenza di micro-organismi e patina biologica.
Al fine di porre un rimedio a questa situazione, già nel 1982 si intervenne con il
restauro di un pavimento, coprendo gli altri con sabbia, plastica e rivestimento in
malta di cemento, per poter almeno conservare in situ le tesserine che si andavano distaccando. Negli anni 1988-89, utilizzando i finanziamenti per gli “Itinerari
turistico-culturali nel Mezzogiorno”, si procedette al restauro di altri sei pavimenti, adottando sistemi di sottofondazione che non prevedevano l’uso del metallo.
A distanza di oltre dieci anni tale intervento di restauro mostra di conservare
sostanzialmente la sua validità, anche se i vecchi inserimenti di metallo, non completamente asportabili e quindi parzialmente lasciati in posto durante il lavoro,
hanno continuato a produrre danni, sia pure in misura ridotta.
L’intervento di restauro.
Nel progetto complessivo sono state indicate tre categorie di degrado che identificano lo stato di consistenza di tutti pavimenti musivi presenti nel sito archeologico, per ciascuna delle quali si è approntata una specifica modalità d’intervento:
a) pavimenti ancora su strati di allettamento originali; b) pavimenti staccati e riapplicati su cemento armato; c) pavimenti staccati dal supporto in cemento armato
e riapplicati su solo cemento.
Il restauro della superficie a mosaico del frigidarium delle
terme centrali.
Con un primo stralcio da €. 250.000,00 di un finanziamento richiesto sui fondi
relativi all’art. 47 della L. 222/1985, “destinazione stanziamento quota pari dell’otto per mille dell’imposta IRPEF a diretta gestione statale, spese per interventi straordinari di restauro, conservazione, valorizzazione di beni culturali”, si sta provvedendo al compimento del restauro del mosaico del frigidarium delle Terme
Centrali, pavimento musivo di grande qualità e notevole superficie (circa 110
mq.), che si presenta in gravissime condizioni di conservazione e per il quale si
corre il concreto pericolo di perdita completa del bene. La pavimentazione presenta la pianta ad “L” con il braccio corto volto ad ovest. Al centro vi è un pozzetto di drenaggio dell’acqua piovana. Le dimensioni del mosaico corrispondono mediamente a metri 12,50x7,20 nella parte lunga, e metri 5,34x2,30 nel braccio corto, per una superficie totale calcolata di mq. 106,76. Le tessere sono bianche, nere, grigie chiare e scure, brune ed ocra; la loro misura media è di circa cm
1,5-2x2-3.
Il pavimento musivo, compreso nella categoria b), nel corso del restauro effettuato negli anni Sessanta è stato già completamente staccato e riposizionato in situ
su pannelli in cemento armato adagiati su una soletta ricostruita, a sua volta, con
lo stesso materiale rinforzato. I blocchi di ricollocazione misurano mediamente
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1,00 mq, per quanto si evince dai tagli ancora ben riconoscibili, e sono costituiti
da una maglia armata più stretta, mediamente da cm. 15/20 di lato con ferri in cui
lo spessore del diametro iniziale risulta non più definibile, mentre attualmente si
aggira sui 3/7 mm. La soletta sulla quale sono stati posti è costituita da una maglia
di tondini in ferro più ampia, mediamente di 2,2-2,5 m. di lato, variabile però per
adattarsi alle varie discontinuità presenti, così come variabile è ormai il diametro
dei tondini, contenuta da una cordolatura perimetrale. Attualmente si presenta
distaccato dal supporto per una percentuale di circa il 60%.
Il lavoro di restauro in corso di realizzazione, a carattere puramente conservativo,
si connota per l’impiego di materiali ad alto tenore di reversibilità, compatibili con
gli elementi originali in opera e con l’ambiente marino fortemente aggressivo per
i manufatti. Il pavimento musivo, dovrà essere rimosso dal sito, trasferito in laboratorio per il restauro e riapplicato in sito su una nuova soletta in malta di calce con
le modalità seguenti:
documentazione con rilievo 1: 1 delle linee decorative, dei tagli dei blocchi, delle
lacune e redazione di tavole grafiche tematiche su supporto informatico; raccolta
delle tessere sporadiche, pulitura preliminare della superficie e trattamento biocida;
rimozione dei blocchi dal sito con velatura e svelatura delle superfici e separazione
dei blocchi, distacco del tessellato dai supporti in cemento armato e suo restauro
previo allettamento su un supporto temporaneo in creta, taglio della superficie in
frammenti delle dimensioni scelte per la riapplicazione in situ, imballaggio dei frammenti e trasporto in situ; preparazione del piano di posa con demolizione del massetto in cemento per consentire la realizzazione della nuova soletta con uno strato
di fondazione sul quale andrà realizzato un secondo strato in cocciopesto; riapplicazione del mosaico in situ con svelatura dei frammenti, integrazione delle piccole lacune utilizzando tessere originali di recupero, stuccatura con malta in colorazione “neutra” delle lacune di dimensioni superiori a cm. 5x5, pulitura chimica con
impacchi, Consolidamento tra le tessere per il ripristino della malta interstiziale,
dove assente, attraverso applicazione di una malta idraulica.
Conservazione preventiva e manutenzione programmata dei
mosaici del sito.
La conservazione a lungo termine del patrimonio musivo di Nora richiede la progettazione e l’attuazione di piani di azione combinati, atti a mantenerlo in efficienza compatibilmente alle esigenze di fruibilità dei monumenti da parte del pubblico, tenendo bassi i costi di gestione senza diminuire l’interesse e il richiamo storico archeologico dei monumenti e del sito nel suo insieme. Si propone di attuare un progetto di gestione della fruizione da parte del pubblico, attraverso un
programma di copertura/esposizione dei mosaici lungo il percorso di visita, unito
ad un programma di manutenzione ordinaria delle superfici musive esposte.
Il programma di copertura/esposizione permetterà di ridurre la superficie totale di
mosaici esposta ai rischi di deterioramento ambientale (e quindi i costi di gestione) e limitarne il tempo di esposizione ai periodi di minore rischio climatico. Il
programma di manutenzione ordinaria provvederà, attraverso azioni dirette eseguite con regolarità e continuità, a eliminare e/o limitare l’insorgenza di fenomeni di alterazione sulle superfici dovuti a fattori
di degrado non eliminabili (fattori ambientali).
L’azione combinata di queste attività assicurerà la fruizione
del sito e la valorizzazione dei monumenti conservati,
aumentandone la possibilità di godimento da parte dei
visitatori e diminuendo drasticamente l’incidenza dei fattori di degrado sui materiali originali.
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Scavo e restauro del tempio a pozzo
di Funtana Coberta Ballao
Maria Rosaria Manunza
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Soprintendenza per i Beni Archeologici
delle province di Cagliari e Oristano
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
I
lavori di scavo stratigrafico nel tempio a pozzo di Funtana Coberta (Ballao-CA),
ripresi nel 2003, sotto la Direzione Scientifica della scrivente, sono stati realizzati in funzione del Restauro del pozzo (Direzione Lavori architetto Ivana Todde),
con la collaborazione delle archeologhe sul campo Anna Luisa Sanna e Stefania
Dore.
Considerata la destinazione del finanziamento, è stato necessario limitare l’area
d’intervento a quella intorno al pozzo, dove era indispensabile scendere fino alla
base del muro della tholos, per verificarne la stabilità.
Il restauro del pozzo è stato fatto col sistema scuci e cuci per piccoli settori per
volta.
La struttura messa in luce con lo scavo è risultata abbastanza stabile e a piombo,
al contrario della parte visibile prima dell’intervento, che, oltre ad essere sbilanciata, risultava ormai priva della malta che in origine legava i blocchi, ancora presente, invece, nella parte interrata della struttura. Le pietre sono state numerate,
rilevate e fotografate, prima di essere smontate.
Sono state poi rimesse nella stessa posizione con l’aggiunta di un collante miscelato con argilla del posto e con sabbia.
Per il consolidamento del manufatto si è usato un collante (Mape Antique) nella
seguente proporzione: kg 2,5 di collante, kg 2,5 di sabbia, kg 2,5 di terra del
posto, il tutto colorato con ossido giallo misurato nelle seguenti proporzioni: 3
parti di ossido giallo e 5 di ossido marrone.
Lo scavo ha restituito una stratigrafia utile per ricostruire le vicende che hanno interessato il pozzo a partire dall’epoca della sua costruzione.
fase del bronzo medio /recente
1 Lo strato di frequentazione più antico, finora scavato, la US 150, poggiava su
uno strato, di argilla impermeabile, sistemata, probabilmente di proposito, dai
nuragici, subito dopo la costruzione del pozzo. La US 150 ha restituito soltanto
reperti databili tra il bronzo medio e il bronzo recente, con una prevalenza di
quelli che trovano confronti nei contesti sardi attribuiti al bronzo medio.
Mancano le decorazioni a nervature, la ceramica metopale e le decorazioni a
pettine. La fase iniziale del pozzo andrà quindi situata tra la fase finale del bronzo medio e quella iniziale del bronzo recente, in un momento precedente il
1350 a.C..
fasi del bronzo recente /finale
2 Si costruiscono i muri che delimitano il vano ? e il vano ?‚. Nella parte a ridosso
del muro 31, si forma lo strato di frequentazione 140. In questa fase si fa una
buca con asportazione parziale dello strato 150. Tale asportazione è dettata,
probabilmente, dall’esigenza di creare una parte leggermente infossata nell’angolo del vano ? formato dai muri 57 e 58, per la creazione di un focolare. Infatti,
in quest’angolo c’è lo strato 119 costituito da terra bruciata, granulosa, con molto
carbone, terra cotta e grumi di concotto, frutto di ripetuti focolari.
3 Lo strato di terra 119 viene, poi, a sua volta, tagliato per deporre il vaso 116,
ricolmo di bronzi da rifondere. La buca, una volta deposta l’olla, viene ricoperta dallo strato di terra e pietre 115, che occupa interamente il taglio, e da una
lastra di pietra che copre il vaso. La terra 119 risulta depositata proprio nell’angolo tra i muri 57 e 58, a ridosso del vano ?, dove, non a caso, nel cumulo di
terra 128, a ridosso del vano, si è trovata traccia di fuoco ad alte temperature.
Benché non conosciamo cosa succedesse esattamente, in questa fase, all’interno del vano ?, non avendo scavato fino a questo livello, possiamo desumere
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che nell’area intorno al pozzo ci fosse già una fornace. Il vaso deposto nella
fossa del vano ? contiene una riserva di bronzi da rifondere. Tra questi si riconoscono frammenti di spade votive e di lingotti del tipo oxhide, di importazione micenea. Un altro frammento di spada votiva, trasformato in pugnaletto, finisce nella muratura che delimita il vano ?. Dobbiamo immaginare il pozzo, nel
periodo del suo massimo splendore, adorno di spade votive, che, in caso di
rottura, venivano accantonate, assieme agli altri oggetti rotti e agli scarti, come
bronzi da rifondere, il tutto conservato sotto la protezione della divinità, nel
posto ad essa più sacro, all’interno del recinto del tempio.
4 Nella successiva fase di vita in tutto il vano ? e lungo il lato sud del pozzo si
forma lo strato di frequentazione 110, nel vano ?‚ si costruisce il pavimento 130
e all’esterno di questi ambienti si forma lo strato di frequentazione 158.
Il vano ? era accessibile a tutti i pellegrini o soltanto ai sacerdoti?
I frequentatori del tempio nella fase della US 110, erano a conoscenza della presenza del vaso con la riserva bronzea sotto i loro piedi? Se lo sapevano, perché
non cercarono di utilizzarlo per fare nuovi oggetti, nuovi ex voto? La risposta può
essere che non ne erano a conoscenza o che nell’area esisteva altra riserva bronzea cui attingere. Oppure era riserva sacra, inviolabile, posta sotto la tutela della
divinità. I frequentatori dello strato 110 avevano, comunque, a disposizione altri
ex voto di bronzo, tanto è vero che nello strato era presente il piede di una statuina. In un certo momento il vano ?, viene obliterato dal muro 124 e usato come
fonderia. Questo muro 124 viene sollevato a partire dallo strato di cenere e carboni 128, a ridosso del muro 88, prima che si facesse la pavimentazione 125 all’interno del vano ?.
5 L’interno del vano ‚ viene ancora utilizzato come fornace (lastricati US 125 e 114
e strato con resti di bronzo e piombo 129), mentre il vano ? viene pavimentato
(US 106). All’esterno del vano ? si forma un altro strato (143/149) di frequentazione nuragica.
6 Fase di vita sopra il pavimento 106 del vano alfa; nel vano ?‚ si forma lo strato di
bruciato 108, frutto di una probabile fornace, in cui si trova un frammento di
corno di bronzetto. All’esterno, al di sopra dello strato 143, si realizza il lastricato 142, forse, una pavimentazione.
età del ferro
7 Fase di abbandono
periodo tardo punico inizi dell’età repubblicana
8 Nel periodo tardo punico – inizi dell’età repubblicana, il vano ? viene ripulito e
utilizzato come magazzino in cui vengono deposte le anfore che saranno poi
distrutte da un evento catastrofico, verosimilmente, un nubifragio o un’alluvione.
Situazione a cui si rimedia quasi subito dando vita allo strato di frequentazione 95
che interessa anche il vano ?. In questa fase di risistemazione si rende necessario
intervenire nel paramento murario interno al vano ?: nell’angolo in cui il muro 58 si
lega al muro 57 si realizza un consolidamento mettendo in opera pietre di medie
e grosse dimensioni con abbondante malta di fango. Un altro consolidamento si
effettua con la costruzione di un conglomerato informe (USM 104) tra il muro 58
e il muro 31.
Lo strato US 150, sottostante la US 140, ha restituito soltanto reperti databili tra il
bronzo medio e il bronzo recente, con una prevalenza di quelli che trovano confronti nei contesti sardi attribuiti al bronzo medio. Il terminus ante quem per la
costruzione del pozzo è, dunque, dato dalla datazione di questo strato, tra il
bronzo medio e il bronzo recente.
In tutti gli strati nuragici scavati, sigillati dagli strati d’età repubblicana, allo stato
attuale delle ricerche, è del tutto assente la ceramica che contraddistingue le fasi
pregeometrica, geometrica e orientalizzante.
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Dunque, la vita del pozzo in età nuragica sembra essersi conclusa entro gli inizi
del bronzo finale, ed è a questa fase che si devono attribuire i pochi resti di bronzistica figurata: un piedino di statuina della US 110, la cui datazione trova conferma nelle ceramiche che erano nello stesso strato, un frammento di statuina (corno)
della US 108 e una testa di guerriero nuragico della US 98.
Sembrerebbero, dunque, trovare conferma le ipotesi, avanzate da altri studiosi,
riguardo alla datazione della bronzistica figurata a partire dalla fase del bronzo
finale. In questa fase il luogo era occupato da un vero e proprio santuario, dove,
probabilmente, si fondevano anche i bronzi che i pellegrini offrivano come ex
voto alla divinità delle acque.
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Lavori di conservazione e valorizzazione
del complesso culturale nuragico di Sorradile (OR)
loc. Su Monte
Vincenzo Santoni, Alessandro Usai, Elena Romoli, Ginetto Bacco
Soprintendenza per i Beni Archeologici
delle province di Cagliari e Oristano
l complesso cultuale nuragico di Su Monte (Sorradile - OR) si trova sul versante
che domina la sponda sud-orientale del Lago Omodeo, a breve distanza da uno
dei punti più favorevoli per l’attraversamento del Tirso tra l’altopiano basaltico di
Ghilarza e la fascia collinare tufacea del Barigadu.
Esso venne rinvenuto alla metà degli anni ’80 nel corso dei lavori di costruzione
della nuova strada tra il ponte di Tadasuni e l’abitato di Sorradile; dopo interventi
preliminari di scavo con fondi comunali e regionali negli anni 1998-2000, è stato
interessato da due importanti campagne d’indagine condotte con fondi ministeriali negli anni 2002-2003 (importo complessivo Euro 232.405).
Il complesso é delimitato da una muraglia ad andamento pressappoco ovoidale,
di cui si riconoscono alcuni tratti appena affioranti in superficie, che racchiude
un’area di circa metri 100 x 60. All’interno dell’area recintata è stato individuato e
parzialmente indagato un gruppo di edifici e spazi di particolare rilevanza, purtroppo gravemente danneggiati dagli scavi abusivi. L’edificio principale (A) è composto da un vestibolo rettangolare e da un vano rotondo, realizzati in opera isodoma in grossi blocchi di trachite; il vestibolo presenta una soglia lastricata e sedili alle
pareti, mentre il vano rotondo si distingue per la presenza di tre ampie nicchie alle
pareti e di una vasca-altare al centro. Pochi metri a Nord-est dell’edificio A si trova
una piccola rotonda (B) costruita in blocchi isodomi di dimensioni minori e provvisti di bugne; essa si presenta quasi completamente rasa al suolo ad opera di scavi
clandestini. Ancora più a Nord-est si trova una capanna rotonda in blocchi poliedrici (D). Tutto lo spazio compreso tra il vestibolo dell’edificio A, la rotonda B e la
capanna D si configura come un ampio cortile pressappoco semicircolare (C), delimitato da una serie di segmenti murari distinti inglobanti anche alcuni spuntoni rocciosi; il cortile è provvisto di due ingressi rivolti a Nord e a Sud. Infine, addossato
al paramento esterno occidentale dell’edificio A e a stretto contatto con un breve
tratto visibile della muraglia recintoria, si è individuato un ultimo edificio (E) di
pianta semicircolare e inglobante uno spuntone roccioso.
Le indagini eseguite negli anni 1998-2000 e 2002-2003 si sono concentrate particolarmente nell’edificio A, nella rotonda B, nel cortile C, e in misura minore nella
capanna D e nella fascia meridionale dell’area recintata dalla muraglia. Il vano A si
è presentato colmato da un possente strato di crollo, sconvolto dall’intervento dei
clandestini, per quasi tutta l’ampiezza dell’ambiente e fino alla base; oltre alla
vasca-altare nuragica, anch’essa danneggiata e mutila, lo scavo del vano ha restituito un importantissimo complesso di manufatti ceramici (tra cui una brocchetta
integra di produzione locale e una coppa frammentaria d’importazione fenicia) e
bronzei (una navicella votiva, pugnali, asce, una sega ecc.), nonché svariati blocchi parallelepipedi originariamente connessi con la vasca-altare e muniti di incavi
per il fissaggio dei bronzi votivi. Allo stato attuale la maggior parte del complesso dei reperti si inquadra nell’età del Bronzo Finale e nella Prima età del Ferro; tuttavia alcuni elementi suggeriscono che la costruzione dell’edificio A sia avvenuta
almeno nell’età del Bronzo Recente. Le ultime indagini lasciano immaginare una
situazione altrettanto complessa anche negli altri vani e spazi e in particolare nel
cortile C.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
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Valorizzazione e restauro del sito
Gli ultimi interventi eseguiti consistono prevalentemente in opere di valorizzazione e conservazione dell’area e in particolare si è proceduto al consolidamento
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Soprintendenza per i Beni Archeologici
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Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
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delle strutture murarie e dell’altare centrale dell’edificio principale A. Nello specifico sono state eseguite le seguenti opere:
smontaggio e ricollocazione dei blocchi pertinenti ai filari superiori dei paramenti murari esterni dell’edificio A (vano rotondo e vestibolo) e del cortile C, che si
presentavano eccentrici rispetto alla struttura muraria, in pericolo di caduta a
causa dell’azione espulsiva delle radici;
reintegrazione di alcuni limitati blocchi mancanti sul filare superiore del paramento murario esterno dell’edificio A e rovesciati sul perimetro dall’azione del tempo,
mediante la loro ricollocazione in opera per anastilosi;
smontaggio e trasporto degli elementi e frammenti dell’altare dal complesso di Su
Monte al magazzino-laboratorio sito nel centro abitato di Sorradile dove è stato
eseguito il loro restauro mediante operazioni di pulitura, consolidamento corticale e riassemblaggio delle parti;
scavo scientifico del deposito archeologico sottostante all’altare;
trasporto dell’altare dal magazzino-laboratorio al complesso archeologico e
rimontaggio della struttura dopo i lavori di restauro;
realizzazione di una copertura provvisoria, adatta a preservare nell’immediato il
monumento da ulteriore degrado e a consentire un monitoraggio climaticoambientale della durata di un anno, durante il quale verranno presi in considerazione i parametri utili alla progettazione della copertura definitiva;
fornitura e posa in opera di una recinzione in rete metallica, a chiusura di un settore dell’area archeologica recentemente acquisito dall’Amministrazione comunale di Sorradile.
Si sottolinea che la vasca-altare di Su Monte è uno degli esemplari più monumentali e meglio conservati tra tutti i manufatti di questo genere conosciuti nella
Sardegna nuragica. Essa è costituita da una parte principale a doppio tronco di
cono che riproduce il modello ideale della torre nuragica, e da una vera e propria
vasca di forma asimmetrica, probabilmente utilizzata per sacrifici o riti lustrali, con
lastrone di base e alte pareti verticali che originariamente erano sormontate da
spade votive in bronzo. Col restauro della vasca-altare si è voluto ridare unità di
volume al manufatto senza alterarne l’originalità delle parti e senza reintegrare
quelle mancanti. Inoltre, per esigenze di salvaguardia è stata eseguita una copia
fedele in pietra trachitica dei due elementi troncoconici riproducenti la torre nuragica; sul posto è stata ricollocata la copia dell’elemento superiore, mentre quello
originale è stato temporaneamente sistemato nel laboratorio sopra la riproduzione dell’elemento inferiore, in attesa che venga eseguita una copia completa della
vasca per l’esposizione in museo. L’intervento è stato accuratamente documentato con fotografie digitali in tutte le sue fasi che, nello specifico, hanno comportato: pulitura degli elementi con spazzolatura e spray di aria compressa per l’asportazione dei depositi superficiali e terrosi, lavaggio con nebulizzazione di acqua
demineralizzata, pulitura e grassatura delle fratture, eliminazione della patina biologica con l’applicazione di sali di ammonio quaternario, consolidamento corticale con silicato di etile, riassemblaggio dei frammenti mediante resina epossidica senza l’inserimento di perni, ricomposizione in situ delle parti evitando di stuccare gli elementi, di integrare le piccole lacune e le parti mancanti. Si prevede di
mantenere l’altare sotto stretto controllo per verificarne la reazione ad intervento
concluso e per la programmazione di future manutenzioni.
Le operazioni periodiche di decespugliamento e diserbo sono attualmente condotte dal personale operaio dipendente da questo Ufficio, abitualmente dislocato nell’area archeologica del nuraghe Losa di Abbasanta, fino all’attuazione del
piano di gestione comunale in fase di perfezionamento.
La realizzazione e il riordino della documentazione scientifica sono parte inte-
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grante di ciascuna operazione e del corrispondente prezzo a misura; con diverse
voci è stata prevista la fornitura a corpo del materiale fotografico (rulli di diapositive e supporti per immagini digitali) e di specifica documentazione relativa ai
reperti recuperati nelle precedenti campagne di scavo.
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Restauro delle tempere murali
della Chiesa di San Mauro di Cagliari
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
e per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Cagliari e Oristano
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
Patricia Olivo
Progettista e Direttore ai Lavori
Patricia Olivo
Assistente Tecnico di Cantiere
Vittorio Laconi
Impresa esecutrice Lavori
Gabriela Usai
di Quartu Sant’Elena (Ca)
Provvedimento d’urgenza A.F.
2006
Soprintendente
Stefano Gizzi
Via Cesare Battisti, 2
09123 Cagliari
tel. 070 20101
fax 070 252277
[email protected]
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a Chiesa conventuale di San Mauro, edificata tra il 1646 ed il 1680, commissionata da don Francesco Gaviano, canonico penitenziere del Capitolo della
Primaziale, fu dedicata a San Mauro Martire. La chiesa attuale, a sei cappelle, risale al 1680, ed è stata costruita perpendicolarmente alla primitiva chiesa del 1650
sorta nell’area di un’antica chiesetta della SS.Vergine della Salute nel popoloso
quartiere di Villanova.
Per gestire il convento da Valenza, in Spagna, giunsero alcuni frati francescani della
Regola dei Recolleti, affiancati da altri frati provenienti dal convento dei Minori
Osservanti di Cagliari, che ben presto rimasero gli unici a curare la chiesa ed il convento. Nel 1661 fu aperto il noviziato e, nel 1670, lo Studio di Teologia. Nel 174546 venne dotata della Cappella (con cupola ottagonale) dei San Raffaele
Arcangelo. Dal 1717 al 1758 ospitò il corpo di San Salvatore da Horta; ora ne conserva una reliquia (scapola).
Secondo la testimonianza dello Spano, alla metà del XIX secolo, l’edificio era in
gran parte affrescato (Spano 1861), riferendo di affreschi in varie cappelle, nella
volta della cupola e nella Tribuna o Cantorìa.
Fu restaurata negli anni 1897-1898, con l’eliminazione degli altari in legno dorato,
ricostruzione di nuovi altari e pulpito in marmo, decorazione della volta e delle
pareti dell’ingresso della chiesa, per opera del pittore cagliaritano Giuseppe
Conci che nel 1900 dipinge anche la lunetta in facciata con San Francesco sopra
il portale d’ingresso.
Tra il 1977 e il 1984 è stata assoggettata a un nuovo radicale restauro, col riassetto
attuale del Presbiterio e del Coro ed il rifacimento degli intonaci interni della chiesa, ad opera del Comune di Cagliari, conclusosi nel giugno 2006.
Di tutte le superfici dipinte, risultano superstiti soltanto quelle della Cantorìa, realizzate nella prima metà del ‘700 e raffiguranti nella volta la Cacciata degli Angeli ribelli, nei pennacchi San Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio e San Gregorio Magno
e nella controfacciata dell’arco della tribuna i Sette dottori francescani con al centro San Bonaventura.
Il brano pittorico che copre interamente la volta della Cantorìa (vano rettangolare
coperto da volta a crociera), raffigura al centro l’Arcangelo Michele che precipita
con una lunga lancia i suoi avversari mentre in alto la Vergine Immacolata assiste
alla scena, assisa sulle nuvole e sulla falce di luna.
La scena inquadrata da una cornice mistilinea è sovrastata ulteriormente da un cartiglio che riporta un brano dell’Apocalisse di Giovanni. : Signum magnum apparit in coelo mulier amicta sole et luna sub pedibus eius et in capite eius corona stellarum duodecim et factum est praelium manum in coelo Michel et
angeli eius limebantur eium dracone et draco pugnabat et angeli eius et non
prevaluerunt nes locus inventus est eorum amplius in coelo
Dal punto di vista iconografico, la scena ripropone un brano dell’Apocalisse con
la presenza dell’Immacolata anche nella fase antichissima della storia della salvezza a significare l’esistenza di Maria nel pensiero di Dio prima della creazione del
mondo. Questa raffigurazione teologica si diffonde ai primi del ‘500 per rispondere agli attacchi della Riforma tendenti a sminuire l’immagine di Maria. I
Francescani furono i maggiori assertori dell’Immacolata Concezione che venne fissata con dogma solo nel 1854.
Completano il ciclo decorativo la teoria dei Sette dottori francescani nella lunetta della controfacciata dell’arco della tribuna, ed i quattro Padri della Chiesa
(San Girolamo, Sant’Ambrogio, San Gregorio Magno, Sant’Agostino) raffigu-
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rati nei quattro pennacchi della volta a crociera. L’opera, che propone uno stile
ingenuo e un po’ piatto, per confronti stilistici con gli affreschi dipinti nei pennacchi della cupola della chiesa di San Michele a Cagliari, può essere attribuito al pittore napoletano Domenico Tonelli, che lavora a Cagliari nella prima metà del XVIII
secolo.
Nel mese di novembre 2005, la Soprintendenza con fondi ministeriali ha disposto
con provvedimento d’urgenza il restauro delle tempere murali della cantorìa e
della lunetta in facciata. I lavori eseguiti dalla ditta Gabriela Usai di Quartu S.Elena
(CA) sono iniziati il 16 novembre 2005 e si sono conclusi nel giugno 2006. il progetto e la direzione dei lavori sono stati affidati alla dott.ssa Patricia Olivo che si è
valsa dell’assistenza tecnica del sig. Vittorio Laconi. (perizia n. 48/2005 del
15.09.2005 di euro 25.615,00)
Materiali costitutivi e tecniche di realizzazione
lI dipinti della cantorìa sono realizzati con tempere su 3 strati di intonaco su supporto in mattone pieno:
1 - Arriccio da 2 a 2,5 cm in malta di calce con sabbia marina locale (presenza di
conchiglie)
2 - Intonaco da 0,5 cm
3 - Intonachino rasato da 0,1 cm circa.
Sono stati eseguiti a stesura consistente, con pennellate decise, formando diversi
campi cromatici ad evidenziare la posizione ed il ruolo dei personaggi raffigurati.
Stato di conservazione
Il supporto murario e l’intonaco
Contrariamente a quanto poteva apparire dal basso, solo dopo il montaggio del
ponteggio e ad una più attenta osservazione, è stato possibile valutare lo stato
reale di conservazione dell’opera.
I cedimenti strutturali, (bombardamenti, rifacimenti successivi), hanno prodotto,
in seguito a movimenti del supporto murario, un evidente reticolo di fenditure
dell’intonaco.
Uno di questi movimenti è stato apprezzato, con una apertura a ridosso della
lunetta dei “Dottori della Chiesa”, fino a 4 cm.
Le lesioni più marcate risultavano in corrispondenza degli archi e della crociera.
Diversi rigonfiamenti sulla lunetta, favorivano la stabilizzazione di depositi di polvere, fino a strati di circa 1,5 cm, che via via venivano inglobati dalle cromie polverulente.
Rifacimenti maldestri sono stati eseguiti in diverse zone, in seguito alla realizzazione di un impianto elettrico, (basandosi sul tipo di materiali usati, presumibilmente databili tra fine guerra e ‘52).
Negli anni ’50 è stato realizzato un impianto elettrico eseguito con scavi in profondità senza la minima salvaguardia del manufatto, procurando lesioni e cedimenti
degli intonaci nelle zone attigue, eliminando vaste porzioni delle scritte sulla
lunetta dei “Dottori della Chiesa”, ricoperte con malte cementizie, senza curarsi
degli imbratti conseguenti sulla pellicola pittorica.
Pellicola pittorica
La cromia versava in un generale fase di SPOLVERO, sensibile al solo tocco dei
pennelli.
Diffusi depositi di polvere, inglobati da depositi grassi, inscurivano ed abbassavano il tono cromatico del dipinto.
Sono state individuate zone di effluorescenza salina, poi regredite o ripulite, in
particolare sulla lunetta dipinta.
Pesanti cadute di colore con perdita dello strato pittorico, sono evidenti sulla
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stessa lunetta e nella porzione del dipinto sulla vela frontale, oltre che nella cornice del ciclo pittorico, pregiudicando la lettura della modanatura a finte foglie.
Rifacimenti
Vaste campiture esterne alle cornici ed i pennacchi, sono state ridipinte con due
strati di scialbatura di tonalità azzurra.
I due strati coprivano un fine lavoro in delicati toni pastello, ad ombreggiare la
finta cornice e due ovuli simetrici, entro un’area decorata a moduli speculari fitomorfici.
Sono stati inoltre individuati diffusi ritocchi sulle vesti dei personaggi principali.
Interventi eseguiti
Pulitura
Data la condizione della pellicola pittorica, rischiosa da spolverare a fondo senza
pregiudicare la permanenza del dipinto, si è proceduto ad una delicatissima
rimozione delle polveri mobili, con morbidi pennelli, fino al massimo risultato.
Ove la consistenza della cromia lo permetteva, sono stati rimossi polvere e sporco per mezzo di impacchi di acqua deionizzata con supportante (Arbocel), frapponendo un velatura di carta di riso.
Consolidamento della pellicola pittorica
Il consolidamento dello strato pittorico è stato eseguito con la nebulizzazione di
emulsione acrilica, in diluizioni con acqua demineralizzata, al 2%; 4%; 6% a diverse riprese frapponendo fogli di carta di riso e una leggera pressione con rullo di
gomma.
La zona scura dei demoni ha richiesto una frequente stesura di emulsione, dimostrandosi più permeabile, come se l’intonachino rasato sottostante avesse perso
coesione, aumentando sensibilmente la sua porosità.
Rimozione degli stucchi e delle malte non idonee
Le malte cementizie ed i relativi imbratti sono stati ammorbiditi con impacchi di
polpa di cellulosa con carbonato d’ammonio, e rimossi a mezzo di bisturi e/o
scalpelli, previo consolidamento delle zone circostanti, con esecuzione di parabordi con malta di calce e sabbia.
Consolidamento degli intonaci e del supporto murario
Il consolidamento degli intonaci è stato eseguito a mezzo di iniezione di emulsione acrilica Acril33 al 5-10% nelle zone di malta disgregata.
Ove risultavano formate delle sacche si è proceduto al riempimento con malta
idraulica a basso peso specifico (PLM-AL).
Rimozione delle ridipinture
Le ridipinture sono state asportate con sistema misto: a secco con bisturi o
ammorbidite con impacchi di sola acqua deionizzata o con carbonato d’ammonio in polpa di carta o gel, rimosse meccanicamente a bisturi.
Stuccatura delle fessure
Le fessure sono state risarcite con malte di sabbia a diversa granulometria a seconda delle stratificazioni, con calce idrata ed idraulica, e carbonato di calcio (nelle
più sottili). Le parti più profonde sono state rinforzate con l’inserimento di perni
in fibra di vetro
Reintegrazione cromatica e protezione finale dello strato pittorico
La reitegrazione è stata eseguita a velature e a tratteggio a seconda delle zone, con
pigmenti e gomma arabica e/o medium acrilico.
La protezione finale è stata eseguita con la stesura di una resina acrilica superiore
(Acril Mat).
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La Chiesa di Santa Corona a Riola Sardo (OR)
Paolo Margaritella
Collocazione storica
Datata intorno all’anno 1000, citata nel “condaghe di Bonacatu” al tempo del
Giudicato di Arborea nel XII secolo d.c., della chiesa si conservano solamente
alcune parti, delle quali il meglio conservato è, in particolare, un annesso, costituito da una cappella, addossato alla navata centrale.
Esso pare, con ogni probabilità, costruito in una fase di ristrutturazione del tempio successiva alla costruzione della chiesa.
La navata centrale è completamente crollata, si conservano soltanto, come
ambienti coperti, il lato sinistro, costituito da due ambienti voltati a padiglione, e
la parete di fondo del presbiterio.
Non si conosce la data precisa di edificazione della chiesa, però, da un documento ecclesiastico medioevale, si sa che nella seconda metà del XII secolo l’edificio era già esistente ed era molto importante per il borgo di Riola Sardo del
quale costituiva la parrocchiale.
La chiesa dipendeva da Santa Maria di Bonarcado ed era, secondo una recente
rilettura dei documenti dell’epoca, proprietà dei Templari.
A sostegno di questa tesi, che oltretutto implica che la stessa chiesa fosse in mano
ai Templari e non ai Camaldolesi, come comunemente si ritiene, vi sono diversi
elementi: in un documento di donazione viene citato come testimone il “presbitero” di Santa Corona, che viene al tempo stesso chiamato capitano, si tratta cioè
di un sacerdote che era allo stesso tempo militare, per cui, quasi certamente, un
templare; la chiesa, inoltre, viene definita “tempio”, secondo l’uso templare, e lo
stesso nome della chiesa, Santa Corona, è relativo ad un culto particolarmente
legato alla Terra Santa.
Da documenti successivi sappiamo che la chiesa era tenuta in gran conto dalla comunità locale, ma già alla metà del XV secolo necessitava di importanti opere di restauro. Più tardi, nel XVII secolo, fu completamente ristrutturata tanto che alcuni elementi di questo periodo sono tuttora visibili: tra tutti le due nicchie, ora molto erose, interposte tra gli arconi di accesso alle cappelle del lato sinistro della navata centrale; una
nicchia risulta sormontata da un fastigio terminante a timpano e l’altra da un arco con
colonnine laterali, entrambi in pietra calcareo tufacea lavorata finemente con motivi
ornamentali geometrici o riferiti ad elementi della tradizione classica (come frontoni,
semicolonne scanalate) e rinascimentali (riquadri a punta di diamante).
Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
e per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
per le province di Cagliari e Oristano
L’approccio alla tematica relativa al consolidamento del rudere è caratterizzato da
problematiche complesse da mettere in relazione sia con la peculiarità del monumento da salvaguardare che con il risultato finale che si voglia perseguire in materia di tutela e conseguente valorizzazione del bene.
La chiesa di Santa Corona si trova alla periferia del paese di Riola Sardo, nella provincia di Oristano, borgo agricolo situato nell’area dell’Alto Campidano, ampia
pianura di tipo alluvionale formatasi nel corso del tempo grazie agli apporti del
fiume Tirso, il maggiore dell’Isola.
Essa sorge in un terreno rilevato rispetto al resto del paese, sul bordo di un argine
di un discreto corso d’acqua immissario della laguna di Cabras.
A pochi metri dal rudere è sorta, negli anni “70” del secolo scorso, una struttura
adibita a scuola materna, dal cui cortile è possibile l’accesso allo spazio in cui sorgono i resti della struttura oggetto del presente studio.
Il monumento si trova in uno stato di completo abbandono e la vegetazione infestante occupa gli spazi un tempo occupati dall’impianto a tre navate.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
Inquadramento territoriale
Il Progettista
Paolo Margaritella
Hanno collaborato
Direzione cantiere
Guido Atzeni
Rilievi
Silvia Sechi
Giancarlo Lochi
Foto aeree
Società Teravista
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L’intervento
L’edificio risulta situato sul bordo del terrapieno che protegge l’abitato di Riola da
eventuali esondazioni del corso d’acqua che la lambisce a nord.
In particolare, lo stesso lato nord della chiesa, il più colpito dai fenomeni di crollo, risulta poggiante sul muro che sostiene il citato terrapieno: muro che appare
preesistente all’impianto originario della chiesa e di natura, almeno per un certo
tratto del perimetro del terrapieno, ciclopica.
Con molta probabilità la chiesa sorge su un impianto insediativo precedente, forse
di epoca preromana: gli scavi che si prevedono per i successivi lotti saranno destinati a stabilire una datazione ed una natura dei manufatti più certa.
Della struttura a tre navate rimangono solo le tracce sul terreno dei pilastri di ripartizione delle stesse che sono state messe in luce dal rinvenimento dei plinti e
delle basi attraverso gli scavi di indagine.
Rimane da rimuovere al centro della navata centrale il grande quantitativo di materiale di crollo che ancora cela buona parte del livello pavimentale originario e che
sarà affrontato in successivi lotti.
Nel presente lotto di lavori, realizzati come intervento d’urgenza, si è predisposto, oltre che una campagna d’indagine costituita da un rilievo architettonico, dalla
redazione di opportune Unità Stratigrafiche Murarie e da una campagna fotografica che ha incluso anche una ricognizione aerea tramite pallone sonda, un provvidenziale puntellamento di strutture che versavano in uno stato di incuria ed
abbandono pressoché totali.
Sono state oggetto di puntellamento con pali in legname di abete di adeguato
spessore le porzioni di volte a botte ribassata di due navate, quella centrale, maggiore per altezza e ampiezza, e la laterale sinistra avente una corda di minore
ampiezza: la navata del lato destro risulta completamente crollata, ma si è individuato il muro perimetrale coincidente, in parte, con il sopradescritto terrapieno.
Anche il muro della facciata principale risulta al livello del terreno, ma se n’è individuato il varco d’ingresso grazie ai lavori di pulitura dell’area.
Gli ulteriori puntellamenti hanno interessato i locali chiusi del lato sinistro che sono
caratterizzati da lesioni importanti nelle volte a padiglione e da deiezione di
materiale dalle murature in pietrame misto delle pareti perimetrali.
Grazie ad un accordo di programma con l’amministrazione comunale si provvederà ad avviare un progetto sistematico di indagine e recupero del rudere, con la
possibilità di creare un parco archeologico che getti le basi per una conoscenza
ed una efficace divulgazione delle notizie riguardanti le origini della comunità di
Riola Sardo e del suo territorio.
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Centro di Restauro e Conservazione di Sassari - Li Punti
Antonietta Boninu
Nell’edificio del Centro ha sede anche il Comando Carabinieri – Nucleo Tutela
Patrimonio Culturale per la Sardegna, e recentemente il Nucleo Carabinieri
Elaborazione Dati, in collegamento diretto per la specializzazione con il
Comando T.P.C. di Roma.
Nei laboratori, collocati al piano terra, si opera nei diversi campi del restauro di
materiale archeologico, di provenienza terrestre e subacquea. In particolare si
eseguono interventi, in laboratorio e nel territorio, su materiali lapidei e litici, pitture murali e mosaici, metalli, ceramiche e vetri, materiale organico in genere
(osso, tessuti, cuoio, legni bagnati ecc).
I settori della diagnostica e della documentazione accompagnano tutte le fasi di
intervento con l’acquisizione di dati utili per la conservazione e per la ricerca nel
campo dell’archeometria; tra le strumentazioni di avanguardia nel settore, si
segnala la presenza di un microscopio a scansione elettronica, SEM, Scanning
Electron Microscopy, e dell’EDS, Energy Dispersive System.
L’attività del Centro è aperta alla collaborazione delle Università, del CNR, di istituzioni che operano nel campo dei Beni Culturali.
Il Centro è aperto, su prenotazione, alle visite guidate per le scuole, i gruppi organizzati e i cittadini interessati.
Soprintendenza per i Beni Archeologici
per le province di Sassari e Nuoro
l Centro di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro è situato nel quartiere di Li Punti, nell’immediata periferia
della città di Sassari, all’interno di un uliveto secolare.
Sin dal 1980, con un accordo tra la Provincia di Sassari e il Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, sono stati assegnati alla Soprintendenza ampi locali, su due piani,
da destinare alla realizzazione del Centro di Restauro. Grazie ai finanziamenti FIO
del 1986 e di un successivo progetto CIPE del 1996, gli edifici sono stati ristrutturati e ampliati; nel contempo sono stati allestiti i laboratori, resi operativi dal maggio del 2002.
Il Centro è articolato in diversi nuclei, suddivisi per funzioni:
- Laboratori di diagnostica, documentazione e restauro;
- Biblioteca specialistica;
- Museo del restauro e della conservazione archeologica, con spazi destinati
anche a mostre temporanee, in corso di allestimento;
- Depositi, in corso di allestimento;
- Aree espositive esterne con percorsi di visita, in corso di allestimento.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Sardegna
I
Direzione del centro
Antonietta Boninu
Daniela Rovina
Soprintendente
Vincenzo Santoni
Piazza Sant’Agostino,2
07100 Sassari
tel. 070 206741
fax 079 232666
[email protected]
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Presentazione del volume
“A quarant’anni dall’alluvione. Restauri 2002-2006”
Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico delle province di Firenze, Pistoia e Prato
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Toscana
Una pubblicazione per i beni culturali
Direttore Regionale
Mario Lolli Ghetti
Coordinatore
Rosalba Tucci
Lungarno
A.M. Luisa de’ Medici, 4
50122 Firenze
Soprintendente
Bruno Santi
Palazzo Pitti
Piazza Pitti, 1
50125 Firenze
Segreteria
tel 055 2651831
fax 055 2651700
Referente
Angela Maria Marongiu
tel. 055 2651819
angelamaria.marongiu
@beniculturali.it
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Bruno Santi
C
rediamo che uno dei doveri principali della pubblica amministrazione, e in
particolare di quel suo settore che si occupa della salvaguardia del più rilevante patrimonio presente in doviziosa quantità nel nostro Paese, e che ne ha fatto
parlare come museo diffuso in ogni parte di esso, ossia quello della cultura figurativa e artistica, sia comunicare all’esterno, come doveroso resoconto della propria attività, programmi e risultati della propria attività istituzionale.
Proprio per questa ragione, la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico
ed etnoantropologico delle province di Firenze, Pistoia e Prato, la cui istituzione è
sufficientemente recente (gennaio 2005), ma la cui eredità proviene da lontano,
da quegli uffici di tutela che hanno mutato bensì nome nell’ultimo secolo (prima
all’Arte medievale e moderna, quindi alle Gallerie e Opere d’arte, e ancora per i
Beni artistici e storici, e finalmente con la denominazione che abbiamo indicato
di sopra), ma non il proprio cómpito specifico, ha voluto iniziare una serie di
pubblicazioni, intitolate appunto “Interventi e Testimonianze”, il primo numero
delle quali si presenta in questa occasione e che ha come scopo precipuo la
comunicazione dell’attività, dei programmi, degl’interventi, delle ricerche e dei
resultati che attraverso il lavoro e l’impegno giornaliero dei suoi addetti, ha potuto conseguire.
È la continuazione questa di una tradizione che ha visto le soprintendenze (in tutti
i loro àmbiti, quello archeologico e dell’arte antica, quello del patrimonio architettonico e del paesaggio, quello – infine – dell’arte figurativa e decorativa) impegnate a render conto di ciò che è stato compiuto nel tempo, a dimostrazione che
il loro lavoro non è soltanto una procedura burocratica, un controllo fiscale, ma
anche l’èsito d’indagini, di ricerche accurate, di obiettivi conseguiti.
Sappiamo che da tempo il patrimonio culturale del nostro Paese (e particolarmente quello di carattere storico-artistico) attrae molto più che nel passato l’attenzione della pubblica opinione. Non trascorre giorno, si può dire, che i mezzi d’informazione non diano notizia di ritrovamenti, esposizioni, restauri, curiosità che
riguardano proprio questo settore. Talvolta, anche per denunziarne la situazione
di sofferenza o di trascuratezza, ma più spesso per indicarne i motivi d’interesse
e di attrattiva.
Inoltre, la valorizzazione di questo patrimonio si unisce a un fenomeno in particolare crescita in questi ultimi tempi: quello del turismo culturale, che spesso assume le caratteristiche di turismo di massa. Non vi è centro storico, non vi è paese
che ne sia esente: certo, con risvolti positivi per l’economia dei luoghi interessati,
ma talvolta, come nelle località di maggiore richiamo, causa di effettivi disagî e
anche d’inconvenienti per le stesse testimonianze d’arte.
Tornando alla nostra iniziativa, la soprintendenza che la promuove, quale ufficio
eminentemente territoriale (non possiede musei da gestire, né ha in consegna complessi monumentali), vuole dare una testimonianza del proprio impegno sul patrimonio diffuso sul territorio, di cui si occupa attraverso l’esperienza e la capacità
operativa dei suoi funzionarî, non mai sufficientemente lodati, che in carenza di
mezzi logistici e finanziarî si impegnano – anche aldilà dei loro precipui cómpiti
d’ufficio, al controllo minuzioso delle opere e al reperimento di mezzi per la conservazione e la sicurezza del patrimonio nelle zone a loro affidate. L’auspicio è che
quanto qui esprimiamo serva a sensibilizzare il pubblico sulla imprescindibile
necessità di difendere e valorizzare il patrimonio culturale dei nostri territorî, senza
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il quale ne è fortemente depauperata (se non annichilita) la coscienza della propria
identità e la consapevolezza della propria vicenda storica.
Il primo numero della serie di “Interventi e Testimonianze” non poteva obliterare
un avvenimento che ha segnato profondamente la storia della città di Firenze, in
primis nei beni (e nelle vite, occorre ricordarlo) dei suoi abitanti, così come in
altre zone della Toscana e d’Italia, in quei giorni: l’alluvione del 1966.
Certamente, i danni che il patrimonio culturale cittadino ne subì furono l’aspetto
più eclatante di una calamità che attrasse la solidarietà di giovani provenienti da
tante parti d’Italia e del mondo, l’immediato soccorso alle opere bisognose d’intervento anche da parte di personale attivo nell’ambito dell’arte (restauratori, per
esempio), tanto da sollecitare anche riflessioni sulla struttura stessa dell’amministrazione che aveva il cómpito di vigilare sulla salvaguardia del patrimonio artistico, e che portarono – da lì a non molto – a commissioni parlamentari d’indagine,
fino alla costituzione, non a caso affidata a una personalità politica fiorentina, l’allora senatore Giovanni Spadolini, di un ministero dedicato specificamente a quelli che sarebbero stati definitivamente individuati come “beni culturali”.
Così, le prime agghiaccianti immagini del disastro provocato dall’Arno furono
quelle del patrimonio artistico offeso, la Croce di Cimabue mutilata, le formelle
della Porta ghibertiana del “ Paradiso” del Battistero travolte dalle acque e scaraventate al suolo, le tante pale d’altare e suppellettili chiesastiche danneggiate dal
fango e dalla nafta, i numerosissimi affreschi insidiati dall’umidità, le opere d’arte
in attesa di restauro e di nuovo assalite da danni ulteriori (poiché sistemate al
piano terra dei laboratorî – tra cui quelli dell’allora Soprintendenza alle Gallerie),
tanto da far parlare da Roberto Longhi, in un numero di “Paragone” esclusivamente dedicato ai danni dell’alluvione (n. 203 del gennaio 1967, quindi proprio all’indomani dell’esondazione) di una “Firenze diminuita”.
È evidente che le soprintendenze fiorentine furono in prima linea nel salvataggio
del patrimonio artistico danneggiato: in questa drammatica condizione emersero
figure come Ugo Procacci, Umberto Baldini, Giuseppe Marchini, che avevano allora le massime responsabilità nell’ufficio delle Gallerie; ma anche gli altri funzionari giovani e meno giovani, i restauratori, gli operai, i custodi, quanti operavano nell’amministrazione.
Particolarmente impegnata fu la scuola “fiorentina” di restauro in cui agirono personalità di rilievo come Lionetto Tintori, Giuseppe Rosi, Alfio Del Serra, Andreas
Rothe e tanti altri tra cui però ci sembra opportuno e doveroso rammentare l’opera di Dino Dini, operatore solitario e sapiente nel salvataggio di tante pitture murali, di cui in appendice la figlia Daniela dà un resoconto dell’attività da lui svolta
dopo l’inondazione e ne traccia un breve profilo biografico.
A tempo di record furono preparati interventi d’emergenza, luoghi di ricovero
provvisorî: insomma, una reazione decisa e immediata, così come i cittadini cercarono immediatamente di rimediare ai guasti sulle loro cose, a ciò che l’inattesa
calamità aveva provocato sul patrimonio a loro affidato.
Il primo numero di “Interventi e Testimonianze” è dedicato quindi a un’esemplificazione – necessariamente ridotta e rappresentativa – su quanto è stato operato
sul patrimonio artistico danneggiato dall’inondazione dell’Arno dal 2002 al 2006,
cioè dall’istituzione della Soprintendenza “mista” coi beni architettonici al
momento della separazione dalla Soprintendenza cosiddetta “speciale” per il
polo museale, a cui fu affidata la gestione dei musei statali fiorentini (è bene ricordare che fino al 2001, alla Soprintendenza per i beni artistici e storici competeva
la gestione di tali musei e la cura del patrimonio sulle tre province di Firenze,
Pistoia e Parato), e quindi (2005) con la “nuova” Soprintendenza per il patrimonio
storico, artistico ed etnoantropologico.
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Ogni funzionario ha introdotto il contesto su cui ha operato in questi anni, e ha
provveduto a redigere le schede delle opere restaurate: così Mirella Branca ha illustrato le condizioni della chiesa di San Niccolò Oltrarno (uno dei complessi più
devastati dall’alluvione trovandosi nella depressione a oriente del Ponte alle
Grazie) e ha illustrato le vicende storico-critiche di due tavole d’altare recuperate,
nonché di altri due dipinti di Luigi Mussini in Santa Maria Novella e in questa stessa chiesa ha ripercorso gli episodi di restauro nel Chiostro Grande. Della chiesa di
San Francesco di Castelfiorentino, altra cittadina investita dalle acque non tanto
del maggiore fiume toscano, quanto del suo affluente Elsa, parla (e ne illustra sei
dipinti riportati alla migliore condizione conservativa) Ilaria Ciseri. Maria Matilde
Simari introduce altri luoghi interessati dall’inondazione in Firenze: la chiesa di
Santa Trinita e la devastatissima Santi Apostoli, con i problemi di restituzione delle
opere d’arte restaurate, indicando anche le caratteristiche storiche di alcune di
esse, anche di varia o sconosciuta provenienza. La stessa funzionaria, che da
tempo si occupa meritoriamente dei depositi, tratta in questa sede le problematiche che ancora li interessano, fornendo anche un indispensabile elenco delle
opere colpite dall’alluvione e restaurate negli anni 2003-2006. Brunella Teodori
tratta infine di Santa Croce, simbolo stesso dei luoghi ecclesiastici più aggrediti
dall’inondazione, e compila cinque schede di dipinti pienamente recuperati dai
danni subiti in quell’occasione, nonché di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi.
All’opera meritoria, costante, attenta, diligente e professionalmente ineccepibile
dei funzionarî e del personale della Soprintendenza, va riconosciuta anche l’operatività dei restauratori a cui si sono affidate le opere, provenienti per la maggior
parte dalla scuola dell’Opificio, divenuto – proprio per la volontà di Umberto
Baldini, di cui ricordiamo con sincero cordoglio la recente scomparsa, che lo volle
unito al Gabinetto di restauri della Soprintendenza alle Gallerie – uno dei più
apprezzati istituti in questo campo in àmbito internazionale, e che proprio dalle
inedite problematiche conservative scaturite dall’alluvione, hanno potuto trarre
nuove esperienze e parimenti inedite metodologie d’intervento.
Forse abbiamo fornito un panorama di esempî incluso in limiti troppo angusti: ma
quella che si è cercato di tracciare vuol esser principalmente una doverosa comunicazione di ciò che è stato fatto per rimediare alla calamità più grande (paragonabile solo alle perdite subite dal patrimonio urbanistico della città durante
l’emergenza bellica del 1944, ma – per quanto riguarda le opere d’arte – ancor
più disastrosa) che abbia coinvolto la città di Firenze.
Soprattutto, vuole confermare il ruolo e l’attività della Soprintendenza per il patrimonio storico-artistico, che ha raccolto il testimone lasciato dagli uffici che l’hanno preceduta e di cui si sente la legittima erede, per fornire ancora, nonostante
tutte le difficoltà e le carenze obiettive in cui si trova a operare, prospettive positive nella salvaguardia del vasto patrimonio di cultura figurativa presente nelle tre
province di competenza.
Anche uno strumento come quello che si presenta in questa sede può diventarne un modesto ma significativo testimone.
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Una nuova, grande Galleria Nazionale per l’Umbria
Vittoria Garibaldi
a Galleria Nazionale dell’Umbria, una delle principali raccolte d’arte d’Italia, ospitata nei piani superiori dello storico Palazzo dei Priori di Perugia, sede del
Comune fin dall’epoca medievale e splendido esempio di architettura civile gotica, ha riaperto al pubblico il 19 dicembre del 2006 al termine di un articolato percorso di recupero ed ampliamento degli spazi espositivi, dotati di tutti i servizi in
linea con gli standards internazionali, oltre che di restauro delle opere d’arte facenti parte delle collezioni. Il lavoro ha complessivamente impegnato oltre
8.000.000,00 di euro messi a disposizione dal Ministero per i Beni e le Attività
Culturali ed è stato portato avanti in maniera sistematica fin dai primi anni Novanta.
Prima dell’intervento di restauro architettonico per l’ampliamento della Galleria
Nazionale, che ha interessato tutto il terzo livello del palazzo dei Priori, gli
ambienti erano occupati dagli uffici del Comune di Perugia. Per questo uso gli
spazi monumentali del palazzo erano stati nel tempo suddivisi con muri, pannellature e controsoffitti che avevano nascosto o modificato gli ambienti originari. Il
restauro architettonico, così come era stato fatto per il piano storico che si sviluppa al quarto livello e che è stato inaugurato nel 2002, è stato progettato e condotto nella volontà di far riemergere e valorizzare l’impianto storico dell’edificio con
le sue finiture originali, contemperando l’esigenza di ottenere spazi idonei
all’esposizione delle opere d’arte. A seguito di saggi ed analisi preliminari sono
state abbattute tutte le superfetazioni, che hanno permesso di identificare una
serie di ambienti, documentati nei numerosi studi sul palazzo. Fra questi risalta il
trecentesco refettorio della magistratura dei Priori, coperto da tre volte a crociera
costolonate, nelle cui pareti è rappresentato ad affresco il Cenacolo, opera di
Giannicola di Paolo datata 1493 e commissionata dal Priore Hestor De Gratianus.
In adiacenza la sala dell’Orologio, nella metà del secolo scorso abitata da Aldo
Capitini, sono stati scoperti gli stemmi dedicati dagli Spenditori – ovvero gli
addetti all’approvvigionamento del Comune – ai Priori in carica tra la fine del XV e
i primi del XVI secolo. Di fronte sono state messe in luce altre decorazioni parietali, del XVI secolo, che appartenevano al soffitto della sottostante loggia che si
apre ancora su via dei Priori. Questi ambienti sono stati ricavati “tagliando” la parte
superiore di stanze che appartenevano al piano sottostante. Tale intervento fu progettato da Vincenzo Danti per realizzare la nuova scala di accesso al palazzo dei
Priori. Da qui la necessità di mantenere una situazione evidentemente storicizzata,
nel cui interno, rimanevano ancora integre strutture del primo Duecento. Fra queste una torre, precedente a quella di Benvenuto di Cola dei Servitori che nel 1326
fu utilizzata per il costruendo palazzo della magistratura dei priori delle Arti, e la
torre di Madonna Dialdana, prospiciente via della Gabbia, che nella seconda metà
del Duecento era stata inglobata nella costruzione del Palazzo del capitano del
popolo. Il restauro ha riaperto una finestra, che in origine prendeva luce da nord
da un cortile interno, che illuminava la sala dei Notari. Oggi dall’apertura si può
godere la vista dall’alto della
sala primo luogo di riunione
pubblica del comune di
Perugia.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Umbria
L
Direttore Regionale
Vittoria Garibaldi
Coordinatore
Silvana Tommasoni
P.zza IV Novembre, 36
06121 Perugia
tel. 075 575061
fax 075 5720966
[email protected]
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Il restauro e la valorizzazione
della Rocca dell’Albornoz di Spoleto
Vittoria Garibaldi
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Umbria
I
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l restauro della Rocca albornoziana di Spoleto, immobile di grande valenza architettonica e storico-artistica, ha preso avvio sin dai primi anni ottanta, a seguito della
destinazione datale dalla metà del sec. XVIII, allorché vi fu insediato il carcere dello
Stato Pontificio.
Il complesso monumentale occupa la parte più alta del colle di S. Elia ad una quota
di circa 460 m. sul livello del mare. Si erge al centro di un’ampia area delimitata da
un’alta cerchia di mura, di varie epoche storiche, che perimetra internamente un esteso spazio verde, attualmente incolto e in alcuni tratti fortemente scosceso.
La Rocca consiste in due grandi aree aperte quadrangolari, adiacenti sul lato corto
centrale, ai cui angoli si ergono sei torri.
Ogni area è caratterizzata da un cortile: nel primo, detto “cortile d’onore”, si affaccia
il loggiato neorinascimentale con gli appartamenti papali, nell’altro, detto “delle
armi”, si affacciano i muri perimetrali di cinta originari e due costruzioni di epoca carceraria.
La costruzione si deve al cardinale Egidio di Albornoz, che incaricato dalla curia
papale emigrata ad Avignone fra il 1305 ed il 1378 di riportare la sede papale a Roma,
edificò una serie di fortezze nell’Italia centrale, per consolidare il potere papale in un
territorio a forte instabilità politica.
A Spoleto l’Albornoz inviò, quali rettori del Ducato e vicari papali, i più fidati dei suoi
uomini e qui volle la più grande e la più forte delle sue rocche, la cui costruzione fu
affidata nella primavera del 1362 all’eugubino Matteo “Guattacapponi”, detto il
Gattapone.
Nell’ottobre del 1367, pochi mesi dopo la morte dell’Albornoz avvenuta nei pressi
di Viterbo al seguito della corte papale che ritornava a Roma, la Rocca veniva consegnata al suo primo castellano, lo spagnolo Pedro Consalvo, con un presidio armato
stipendiato dalla città. Da allora, per circa quattro secoli, si succedettero castellani e
governatori, che trasformarono l’originaria fortezza, dai caratteri fortemente militari, in
una residenza da cui governare la città ed il territorio ad essa sottomesso.
Molti papi vi soggiornarono per qualche tempo, conferendole sempre più le caratteristiche di una funzionale residenza: Nicolò V, vi scampò alla peste nel 1449 e vi
condusse a vivere la propria madre, dotando il cortile d’onore del bellissimo loggiato; Pio II, vi sostò dal 1459 e nel 1464, arricchì di decorazioni le sale dell’appartamento papale.
Nella seconda metà del Cinquecento, Pio V, Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII vi
fecero eseguire ampliamenti e vari ammodernamenti, arricchendola di nuove decorazioni pittoriche che in parte si sovrapposero a quelle esistenti. La Rocca fu gradualmente abbandonata dai vari governatori che si erano trasferiti in zone più comode
della città. Iniziò così verso la fine del Settecento, anche in coincidenza della conquista napoleonica, la decadenza dell’edificio che fu ridotto a carcere ed ad alloggio per le truppe. Il governo pontificio, nel 1817, ne fece sede di un bagno penale
che ospitò fino ad oltre 500 detenuti e, per le necessità connesse con l’uso carcerario, vi fece costruire, tra il terzo ed il quarto decennio di quel secolo, nuovi fabbricati (cappella, laboratori, infermeria, residenze del direttore e delle guardie, uffici).
Espugnata dalle truppe piemontesi del generale Brignone nel 1860, la Rocca vide
confermato dal governo italiano il suo uso carcerario.
Dopo la costruzione del super carcere nella zona di Maiano, fu possibile trasferire i
detenuti consentendo il passaggio della proprietà della Rocca dal Ministero di Grazia
e giustizia a quello dei Beni Culturali e Ambientali.
Dal 1984 sono iniziati i lavori di restauro dell’intero complesso per destinarlo ad usi
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culturali diversi. Con finanziamenti disposti sul bilancio del Ministero per i Beni
Culturali e Ambientali, pari a L. 700 milioni (cap. 8014/83) e a L. 600 milioni (cap.
8016/84), sono stati effettuati i primi rilievi e consolidamenti e tutti i saggi stratigrafici
di ricerca sulle murature che hanno permesso poi la messa in luce di tutto il “corpus”
di decorazioni pittoriche oggi visibili.
Successivamente, con i fondi FIO (1985), integrati nel dicembre 1989 (FIO ‘89) veniva finanziato il progetto di “Restauro ed uso della Rocca Albornoziana e del Colle S.
Elia di Spoleto come centro polifunzionale”, finalizzato tra l’altro alla creazione di
spazi museali (Museo nazionale del Ducato di Spoleto), di spazi per attività teatrali
(Cortile delle Armi), di un parco urbano e di altre attività a carattere culturale, scientifico e didattico (Laboratorio regionale di restauro, Laboratorio per la diagnostica
applicata ai beni culturali).
Nel luglio 1986 veniva affidata alla società Bonifica s.p.a la realizzazione degli interventi per L. 28 miliardi. Ulteriori finanziamenti diretti alla realizzazione del progetto
venivano disposti direttamente sul bilancio del Ministero per i Beni Culturali ed
Ambientali per L. 1.500 milioni.
Il decreto ministeriale del 20 aprile 1993 istituiva nella Rocca Albornoziana il “Museo
Nazionale di Spoleto” e individuava le funzioni – uffici da inserire nella struttura: “la
Sezione Umbra dell’Istituto Centrale per il Restauro, la Sezione dell’Istituto Centrale
per la Patologia del Libro, il Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo e, ove possibile, la Fondazione del Festival dei due Mondi”.
Nel 1994 veniva approvato il finanziamento del “Progetto integrato Spoleto” per la
somma di 3,158-MECU. Il progetto iniziale di restauro prevedeva una serie di destinazioni dirette a potenziare la vocazione di Spoleto quale città dello spettacolo,
centro di studi e convegni scientifici, città laboratorio e sede di soggiorno turistico.
Alle destinazioni iniziali potenzialmente attivabili si affiancava la proposta di creazione di corsi per conservatori – restauratori di beni librari, presentata congiuntamente
dall’Istituto Centrale per la Patologia del Libro e dalla Regione dell’Umbria.
Nel 1995 il Comune di Spoleto ha ceduto in deposito al Ministero per i Beni Culturali
e Ambientali, le opere del Museo civico e della Pinacoteca da destinare al Museo
nazionale di Spoleto.
Il 18 dicembre 1992 era intanto stata stipulata una convenzione tra la Regione
dell’Umbria ed il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, relativa alla attuazione dei
“Corsi europei di formazione specialistica per conservatori-restauratori di beni librari”.
Per la storia recente fondamentale è stata la redazione nel 1996 del documento per
la sistemazione e gestione della Rocca Albornoziana e del Colle S. Elia di Spoleto che
sancisce l’accordo “Tra il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, la Regione
dell’Umbria ed il Comune di Spoleto, per regolamentare i lavori di completamento,
le destinazioni d’uso e la gestione dei servizi concernenti l’area di interesse storicoartistico della Rocca Albornoziana e del Colle S. Elia di Spoleto”.
Da questo sono scaturiti gli interventi di realizzazione del Teatro all’aperto del Cortile
delle Armi, della Scuola Europea di restauro e conservazione dei beni Librari e del
Centro di Diagnostica per i Beni Culturali negli edifici limitrofi allo stesso cortile, curati dalla Regione dell’Umbria; le opere di restauro delle sale del Museo del Ducato e
delle torri adiacenti al cortile d’Onore, dalla Soprintendenza per i Beni BAPPSAE
dell’Umbria ed i progetti definitivi per il restauro e la rifunzionalizzazione delle palazzine esterne e del Parco della Rocca da parte del Comune di Spoleto.
Tutti i programmi d’intervento sino ad ora realizzati hanno avuto una logica evoluzione grazie al fatto che era stato elaborato un progetto non solo tecnico, ma anche
scientifico ed amministrativo che, pur con modifiche in corso d’opera, ha seguito una
sua continuità grazie ai comitati tecnico-scientifici prima ed al “Comitato paritetico di
gestione” poi.
Gli interventi di recupero sono stati diretti dal Ministero per i Beni Culturali attraverso
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i suoi uffici periferici ad eccezione dei tre, 158 MECO del 1994 curati dalla Regione
dell’Umbria ed hanno coinvolto sempre, a vario titolo, professionalità di tipo analitico-progettuale ed operativo formatesi attraverso i corsi di qualificazione svoltisi nella
città negli anni settanta-ottanta del secolo scorso, a cura dell’ICR di Roma, allora diretto dal Prof. Giovanni Urbani.
L’ultimo intervento in ordine di tempo interessa il completamento del restauro degli
ambienti prospicienti il cortile d’Onore, delle ex celle di sicurezza e del camminamento e della torre del Malborghetto realizzato con i fondi del gioco del Lotto 20012003 pari a Euro 2.500.000,00 così come l’allestimento del Museo del Ducato spoletino la cui apertura al pubblico è prevista per la fine di aprile del 2007.
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Il portale maggiore del Palazzo dei Priori di Perugia:
restauro e manutenzione programmata
Vittoria Garibaldi
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Umbria
L
a realizzazione del portale, che si apre sulla facciata est del Palazzo dei Priori,
avvenne in occasione dell’ampliamento dell’edificio, eseguito fra il 1317 ed il
1326 sotto la direzione dell’architetto scultore senese Ambrogio Maitani, per volere
del Comune di Perugia che lo dedicò a San Ludovico da Tolosa, patrono della città.
Al 4 ed al 13 novembre del 1326, infatti, risalgono due annotazioni delle
Riformanze comunali nelle quali i Priori delle Arti ordinano al Maitani di fare l’entrata e la scala del palazzo e di pagare “…Lello magistri Andree, magistro lapidum et lignaminum pro opere nove intrate facte per Plateam ad pallatium
habitationis dominorum Priorum...”.
Frutto di una progettazione unitaria, vede esprimersi vari scultori, attivi in quegli
anni nella città umbra, centro di grande fermento artistico e culturale.
La pulitura dai vari depositi superficiali, organici ed inorganici, ha infatti evidenziato la qualità artistica dell’opera eseguita da un folto gruppo di scalpellini, di diversa abilità, che operavano secondo un ben determinato e preciso programma iconografico. Il lavoro, realizzato nel volgere di poco tempo, si fonda su una contaminazione di elementi e caratteri architettonici presi dall’architettura romanica e
gotica facendone un raro esempio di portale di grandi dimensioni tipico delle
Cattedrali, ad uso civile, quale ingresso del palazzo della magistratura dei Priori di
Perugia. Da qui l’esclusivo carattere laico dell’apparato scultoreo, quale manifesto
del “buon governo”, incentrato sul tema principale della ricerca della verità e della
giustizia, rappresentato dal bassorilievo centrale raffigurante il Giudizio di
Salomone. Sugli stipiti della porta sculture raffiguranti i vizi, le virtù, le arti liberali, i profeti; nella ghiera della lunetta le effigi delle città amiche, all’interno della
lunetta i santi patroni della città, e all’interno del fasciame dell’arco scene di vita
rurale in un bosco di querce.
Il restauro del portale è stato realizzato a cura della Soprintendenza BAPPSAE
dell’Umbria, fra l’aprile e l’agosto 2006, a seguito di un intervento di massima urgenza dovuto alla caduta (verificatasi alla fine del mese di marzo dello stesso anno) di
un frammento di concio collocato nella quarta ghiera dell’arco superiore.
Lo svolgersi delle fasi operative è stato preceduto e seguito da una specifica campagna conoscitiva, mirata alla comprensione delle reali condizione conservative
del manufatto, in relazione alla natura e qualità dei materiali costitutivi. Ad una
prima osservazione ravvicinata si è constatato che il portale presentava seri problemi di carattere strutturale e varie sovrammissioni di protettivi che alteravano la
cromia originaria del manufatto.
Compito prioritario degli operatori è stata l’individuazione e la raccolta, organizzata per tematiche conservative, dei dati riferiti al degrado e alle alterazione sia
dei litotipi costitutivi che dei materiali impiegati negli interventi precedenti.
Un’accurata ricerca iconografica, archivistica e bibliografica ed una capillare campagna fotografica, che ha fornito informazioni utili per documentare gli interventi
di manutenzione e restauro dal XVI secolo ad oggi, hanno anticipato e accompagnato il restauro in tutte le sue fasi.
L’intera superficie era interessata da un diffuso deposito di particellato atmosferico e di concrezioni di polveri inquinanti che si erano depositate nei sedici anni
trascorsi dopo l’ultimo restauro. Inoltre sono state individuate superfici interessate da incrostazioni calcaree e saline, ed ampie zone di pietra caciolfa coperte da
strati di fissativi e ritocchi pittorici eseguiti negli interventi di restauro precedenti.
Fenomeni di corrosione, croste nere, solfatazioni ed attacco biologico riguardavano in maniera disomogenea l’insieme.
Progettazione e Direzione dei
lavori
Vittoria Garibaldi
Collaborazione
Raoul Paggetta
Renato Ricci
Consulenze
A. Borri
dell’Università degli Studi di
Perugia
Facoltà di Ingegneria
Ing. Andrea Giannantoni
dei Servizi di Ingegneria s.r.l.
di Foligno, Pg.
Indagini conoscitive
B. G.Brunetti, A. Sgamellotti,
G.Poli, Centro S.M.A.Art,
dipartimento di Chimica,
Università degli Studi di Perugia
Impresa esecutrice dei lavori
Coo.Be.C, Cooperativa Beni
Culturali di Spoleto,
Direzione tecnica: Bernardino
Sperandio
Sponsor
Liomatic S.p.a. Perugia
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Di grande interesse, per l’estensione e complessità del fenomeno, è stata la redazione del quadro fessurativo dell’intero portale e del paramento murario entro cui
il manufatto è inserito. A tale proposito per ogni singolo concio costitutivo è stato
eseguito un rilievo puntuale delle vecchie e nuove lesioni, delle vecchie e nuove
microfessure, delle cadute e dei distacchi di materiale, degli inserti e tasselli di
restauro e della stabilità delle stuccature dovute ad interventi precedenti, dati che
sono stati utilissimi per stilare la storia conservativa dei singoli pezzi e per capire
le dinamiche strutturali. Il materiale conoscitivo, archiviato su supporto informatico, oltre a documentare lo stato di fatto e l’intervento, è stato impiegato per il programma di monitoraggio e manutenzione del monumento.
Le indagini sui materiali sono state divise in due distinte fasi. La prima si è rivolta
all’analisi dei comportamenti meccanici ed alla risposta dei materiali lapidei
all’uso degli adesivi e protettivi. A questo scopo sono state individuate le cave di
estrazione del materiale lapideo da cui sono stati prelevati dei campioni che,
opportunamente trattati, sono stati sottoposti a prove di laboratorio. La seconda
fase è stata mirata all’identificazione dei materiali costitutivi (leganti, inerti e pigmenti), alla caratterizzazione delle patine di alterazione ed alla verifica dello stato
di conservazione dei campioni. Alcune di queste indagini sono state eseguite su
campioni prelevati dal monumento e trasferiti in laboratorio (indagini distruttive),
altre sono state eseguite in situ con strumentazioni portatili (indagini non distruttive) impiegate e messe a disposizione dal Dipartimento di Chimica dell’Università
degli Studi di Perugia.
Nella prima fase sono state eseguite le seguenti indagini e prove di laboratorio:
- Analisi petrografia al microscopio con luce polarizzata, su preparato in sezione sottile, per la classificazione petrografia degli elementi lapidei del portale;
- Analisi porosimetrica mediante porosimetro al mercurio, su un campione indisturbato, per la valutazione della porosità naturale della pietra caciolfa;
- Analisi diffrattometrica ai raggi X (XRD) per il riconoscimento delle fasi cristalline dei litotipi; Prove di resistenza a compressione semplice (UNI EN 16262000), su campioni indisturbati e su altri “consolidati” con barre in fibra di vetro,
per conoscere le caratteristiche meccaniche della pietra caciolfa e la risposta al
consolidamento.
Prove di taglio diretto, per la verifica del comportamento meccanico di sei diversi adesivi.
Prove dell’assorbimento d’acqua per capillarità, secondo UNI 10859, per valutare il comportamento di sei diversi protettivi sulla pietra caciolfa.
Nella seconda fase sono state eseguite le seguenti indagini di laboratorio:
Spettrofotometria infrarossa mediante FT/IR ed analisi all’XRF per l’identificazione dei materiali costitutivi le polveri di accumulo, la patine, i prodotti di alterazione.
Sezioni sottili ed analisi all’FT/IR per la caratterizzazione della pellicola pittorica,
delle patine, delle malte originali e di restauro, della sequenza stratigrafica con
identificazione dei materiali costitutivi.
Prima, durante e dopo l’intervento sono state eseguite indagini spettroscopiche
non invasive con l’utilizzo delle strumentazioni portatili XRF, fluorescenza a raggi
X e mid-FTIR, spettroscopia in riflettanza nel medio infrarosso con fibre ottiche. Le informazioni raccolte hanno permesso di individuare, prima del restauro,
la presenza di inquinanti, materiali di restauro e residui di policromia. Nel corso
del restauro si è avuta l’opportunità di monitorare l’efficacia della pulitura nei confronti degli inquinanti e dei materiali di restauro.
Intervento di restauro
Dopo un’immediata messa in sicurezza dei frammenti pericolanti del modellato
decorativo, si è proceduto alle prove di pulitura superficiale mirata a liberare la
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materia costitutiva dai vari strati sovramessi. Oltre ad il livello di degrado diversificato nelle varie aree, non era da sottovalutare neanche la diversa natura dei litotipi costitutivi: marmi per i pilastri laterali, mandorlato d’Assisi per le colonne tortili e pietra caciolfa per tutto il portale.
Sono stati eseguiti e verificati campioni di pulitura effettuati con l’impiego di solventi organici ed inorganici che non hanno dato risultati soddisfacenti, anche perché l’intera superficie era stata trattata in precedenza con consolidanti e protettivi di natura acrilica e siliconica e quindi risultava scarsa l’azione solvibile. Prove
selettive con strumentazioni laser nelle parti con presenza di pigmenti originali
non sono state ritenute idonee perché il riscaldamento dei protettivi formava uno
strato di colorazione bruna, non accettabile dal punto di vista estetico.
Infine la scelta della direzione dei lavori si è orientata per un sistema di pulitura di
tipo meccanico con l’impiego di ossido di alluminio e microsabbiatrici tarate ad una
pressione atmosferica compresa fra 1-2 bar.
Contestualmente alla pulitura e di fondamentale importanza per la scelta metodologica da applicare è stata la rilevazione sul posto, con strumentazione FT-IR, dei
prodotti di alterazione della materia e delle sostanze stratificate in superficie.
Nello specifico della pietra caciolfa si è potuto constatare che la pulitura meccanica non metteva a rischio lo strato di ossalati di calcio che costituiscono il naturale protettivo della pietra.
Le operazioni conservative mirate al ristabilimento dei difetti di adesione e coesione sono state eseguite con i materiali ritenuti idonei dalle prove sperimentali;
l’operazione è stata condotta con estrema attenzione per saturare tutte le numerose microlesioni che interessavano i conci di pietra caciolfa. È seguito un attento
lavoro di stuccatura di tutte le fessure e microfessure di nuova formazione al fine
di scongiurare il rischio di infiltrazione di acqua meteorica ed umidità superficiale con conseguente disgregazione della pietra. Nel tentativo di rendere più armonica la vicinanza dei nuovi impasti con le varie colorazioni dei litotipi, le malte di
stuccatura sono state composte in base al colore della pietra su cui si apponevano, con l’aggiunta nell’impasto di inerti con colorazione differenziata e con piccole quantità di pigmenti naturali.
I marmi delle parti laterali, più esposti agli agenti esogeni, presentavano un avanzato attacco di colonie biotiche che sono state neutralizzate con l’impiego di prodotti biocidi mediante l’imbibizione superficiale a pennello. Successivamente, ai
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tempi previsti per l’azione del prodotto, si è passati alla eliminazione meccanica
dei residui vegetali.
Per il ristabilimento dei distacchi dei conci soggetti a carichi si è provveduto ad
iniettare con dei tubi flessibili, inseriti nella pietra previa perforazione con punte
da 3 mm, resina epossidica bicomponente fluida. Non sono state inserite barre in
fibra di vetro perché sconsigliate dalle prove sperimentali.
Il frammento di concio caduto, è stato ricomposto in laboratorio e riadeso alla sua
sede con resina epossidica bicomponente. Per garantire una buona aderenza è
stato predisposto un sistema di puntellamento con martinetti meccanici, mentre
alcuni elementi mancanti dell’arcata superiore sono stati ricostruiti per garantire
una continuità del modellato architettononico.
Dopo varie analisi, considerato lo stato conservativo delle singole parti del portale, la scelta dell’impiego di prodotti con finalità protettive è stato rivolto esclusivamente alle zone in marmo più esposte agli agenti atmosferici e già notevolmente degradate da questi.
L’adeguamento cromatico delle stuccature di nuova esecuzione è stato eseguito
per velatura, utilizzando colori ad acquarello secondo le tonalità naturali della
pietra su cui si apponevano.
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La Strada del Tempo del Museo Archeologico
Nazionale Atestino – Este (PD)
Michele Castelli
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Veneto
L
a Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Veneto nell’ambito
delle proprie attività di promozione culturale propone per la Fiera del Restauro
di Ferrara del 2007, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Veneto, la “Via del Tempo”, allestita in modo permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Este: una interessante realizzazione espositiva che intende ambientare in modo immediato e gradevole per il pubblico un
ideale percorso didattico sul tema del rinvenimento archeologico e del contestuale sviluppo culturale dell’uomo.
Il piano di appoggio su cui vengono collocate perfette riproduzioni di reperti rinvenuti in ambito veneto è infatti costituito da una “strada” che materialmente ricostruisce le varie superfici di sedime, disposte in successione cronologica: una striscia che, ondulata, si arriccia su se stessa e si dipana all’inizio del proprio percorso come una voluta ionica, evocando simbolicamente l’antichità e l’origine della
storia e dell’arte.
Le vicende storiche ed artistiche dell’uomo sono pertanto espresse come unitario
ed ininterrotto percorso e continua multiforme stratificazione che, dall’età del
Bronzo giunge fino ai nostri giorni sulla scorta delle singole evidenze archeologiche ed esperienze culturali, fra le quali spiccano le forme vascolari tipiche dell’abitato palafitticolo di Arquà Petrarca (ca. 2000 a.C.), i manufatti realizzati dai
Veneti antichi. su strade in calcare bianco e rosato dei Colli Euganei (dal VIII sec.
al III sec. a.C.), il vasellame impiegato nelle case dei Romani di Ateste affacciate su
strade in basolae di trachite.
A ciascuna fase corrisponde una variazione dell’aspetto della superficie, sicché il
crollo dell’Impero Romano è rappresentato dalla perdita del tracciato regolare
delle grandi vie di comunicazione e l’abitato dell’alto Medioevo (secc.VIII-X) da
strade in terra battuta e da terrecotte da fuoco per la cucina. La rinascita tecnologica e produttiva della nuova ceramica invetriata del sec. XIII è caratterizzata da
decori graffiti su ingobbio e da dipinti su maiolica, secondo forme e decorazioni
influenzati dal mondo islamico. In seguito la cultura europea prende slancio nell’età del Rinascimento e si sviluppa e si evolve dal Barocco al Neoclassicismo, alle
porte della rivoluzione industriale.
L’allestimento in mostra presso il Salone della Fiera dell’arte del restauro e della
conservazione dei beni culturali e paesaggistici di Ferrara offre l’occasione di
incrementare ulteriormente le possibilità di incontro fra cultura archeologica e
pubblico, profano e non, mediante un efficace sistema di ambientazione espositiva, didatticamente utile quanto piacevole, che pone maggior enfasi al legame fra
territori, come quello atestino e quello ferrarese, già ricchi di testimonianze
archeologiche di straordinario interesse nazionale, ma anche storicamente uniti
dalla comune presenza della Casa degli Este, che dalla città sede del Museo prende origine ed ascesa sotto la mole del Castello di San Michele.
Direttore Regionale
Pasquale Bruno Malara
Coordinatori
Walter Esposito
Luigi Marangon
Piazza San Marco, 63
Palazzo ex Reale
30124 Venezia
tel. 041 3420101
fax 041 3420122
[email protected]
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Museo Nazionale Atestino
Soprintenza per i Beni Archeologici del Veneto
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Veneto
I
Soprintendente
Giuliano De Marinis
Via Aquileia, 3
30139 Padova
tel. 049 8243810-11
fax 049 8754647
[email protected]
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l Museo Archeologico Nazionale di Este figura tra le istituzioni archeologiche più
prestigiose in Italia. La sua lunga storia inizia nel 1834, con la nascita in Este del
museo civico lapidario preso la chiesa di S. Maria dei Battuti; nel 1902 trova una
sede spaziosa e adeguata nel cinquecentesco palazzo dei patrizi veneziani
Mocenigo e diventa museo di Stato. Tra il 1979 e il 1984, in occasione del restauro dell’edificio, l’esposizione viene completamente rinnovata.
Oggi il museo offre quasi 1.000 mq di superficie espositiva a fronte di oltre 1.000
mq di servizi, quali magazzini accessibili agli studiosi, un laboratorio di restauro,
un archivio storico, una biblioteca disponibile al pubblico, un’aula per le attività
didattiche.
Nelle sue undici sale si possono ammirare i tesori della civiltà degli antichi Veneti
che abitarono la regione durante il corso del I millennio a.C., mentre sfiorano ormai
il numero di duecentomila i reperti conservati nei depositi museali. Le scoperte e
gli scavi infatti, dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri continuano ad
incrementare un patrimonio unico e originale per la storia più antica del Veneto e
dell’Italia preromana. Se è vero che ogni museo corrisponde ad un sistema di
conoscenza, il museo di Este rappresenta la chiave per accedere al nostro passato: “vita, morte e miracoli” possiamo dire, dei Veneti antichi (e poi dei Romani) si
snodano attraverso le vetrine che illustrano rispettivamente i materiali degli abitati, delle necropoli, dei santuari della città e del territorio.
È per questi contenuti peculiari che la funzione educativa del museo atestino è
così importante, in particolare per il pubblico scolastico.
Il museo si è dotato dal 1995 di un servizio didattico che offre percorsi e laboratori interattivi di approfondimento, nonché un’attività di sano e culturale divertimento denominata Archeobaleno, inserita nei centri estivi per bambini e ragazzi,
promossi in collaborazione con l’amministrazione comunale.
L’orario di apertura dalle 9 alle 20, tutti i giorni, lascia ampie possibilità di scelta ai
visitatori che possono usufruire di ben tre tipi di guide a stampa, di cui una dedicata ai ragazzi. I temi dell’esposizione sono alla portata di un vasto pubblico, grazie al supporto di didascalie, pannelli esplicativi, schede illustrate, disponibili in
ciascuna sala.
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La strada del tempo presso la “Sala delle colonne”
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Veneto
C
on la Strada del tempo si intende illustrare l’evoluzione della ceramica attraverso riproduzioni di manufatti esposti nelle vetrine del Museo.
Come noto essa rappresenta l’elemento guida nel riconoscimento delle varie civiltà che si sono succedute in un territorio e il suo sviluppo corre pertanto lungo strade umane ricostruite anch’esse sulla scorta delle evidenze archeologiche.
La storia dell’uomo, espressa anche dai manufatti, è pertanto interpretata dal rotolo (volumen) che dall’età del Bronzo si “srotola” fino ai nostri giorni.
Ecco le forme vascolari tipiche dell’abitato palafitticolo di Arquà Petrarca (PD)
su assito di legno, databile intorno al 2000 a.C.; i manufatti realizzati dai Veneti
antichi di Este tra l’VIII e il III sec. a.C. su strade in calcare bianco e rosato dei
Colli Euganei; il vasellame impiegato nelle case dei Romani di Ateste affacciate
su strade in basoli di trachite.
Con il crollo dell’impero romano tutta l’Europa perde il tracciato delle grandi vie
di comunicazione.
L’abitato dell’alto Medioevo VIII-X secolo conserva l’essenziale: le strade in terra
battuta e le terrecotte da fuoco per la cucina.
Si deve attendere il XIII secolo per vedere una rinascita tecnologica e produttiva
della ceramica. La nuova ceramica invetriata caratterizzata dai decori graffiti su
ingobbio e dai dipinti su maiolica, nasce dai suggerimenti e dai contatti avuti con
il mondo islamico; in seguito la cultura Europea del Rinascimento prende slancio
si sviluppa e si evolve autonomamente con il Barocco fino al Neoclassico del XVIII
secolo. Nello stesso secolo l’Illuminismo mette in contatto tutte le facoltà dell’uomo e da questo momento ogni prodotto diventa una sintesi del pensiero, della
tecnica e del sentimento umano.
Nel XIX secolo nasce e si sviluppa la modernità come ricerca insaziabile dell’invenzione in ogni campo che non esclude nessuna esperienza possibile, anche la
rilettura appassionata e profonda di ogni percorso storico.
A cura
dell’Istituto Statale d’Arte
Antonio Corradini di Este
e della “Scuola Bottega”
per la ceramica d’Este
Museo Nazionale Atestino
Via Guido Negri, 9/C
tel. 042 92085
fax 042 9603996
atestino.archeopd@
arti.beniculturali.it
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CCTPC
Comando Carabinieri
Tutela Patrimonio Culturale
N
el 1969 l’Arma dei Carabinieri istituì in Roma presso il Ministero della Pubblica
Istruzione quello che oggi è il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio
Culturale (T.P.C.), precedendo in tal modo di un anno la Convenzione Unesco di
Parigi (1970), con la quale s’invitavano gli Stati Membri ad adottare le opportune
misure per impedire l’acquisizione di beni illecitamente esportati e favorire il
recupero di quelli trafugati, nonché di predisporre uno specifico servizio a ciò
finalizzato. Su direttiva del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, dal quale
dipende funzionalmente, il Comando svolge compiti concernenti la sicurezza e
la salvaguardia del patrimonio culturale nazionale, attraverso la prevenzione e la
repressione di ogni attività delittuosa rivolta in tale ambito. La struttura costituisce
nel particolare settore, comparto di specialità affidato all’Arma con Decreto del
Ministero dell’Interno del 12 febbraio 1992, polo di gravitazione informativa e di
analisi per le altre Forze di Polizia, in base al Decreto del Ministero dell’Interno
del 26 aprile 2006.
Il Comando è composto da circa 300 militari che hanno una preparazione specializzata acquisita attraverso la frequenza di appositi corsi in “Tutela del Patrimonio
Culturale”, organizzati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
L’attuale articolazione prevede un Ufficio Comando, che coordina le sezioni
“Operazioni”, “Elaborazione Dati” e “Segreteria e Personale” e “Servizi”; un Reparto
Operativo per le indagini di polizia giudiziaria a sua volta suddiviso nelle sezioni
Antiquariato, Archeologia, Falsificazione e Arte Contemporanea; 12 nuclei territoriali ubicati a Bari, Bologna, Cosenza, Firenze, Genova, Monza, Napoli, Palermo,
Sassari, Torino, Venezia ed Ancona, alle dipendenze del Vicecomandante.
L’ultimo di questi Nuclei, quello con competenza territoriale sulle Marche, è stato
istituito recentemente, nel giugno 2006.
Reparto
Indirizzo
Telefono/Fax
Comando CC
TPC Roma
Roma
Piazza di
Sant’Ignazio, 152
Tel.06.6920301 [email protected]
Fax.06.69203069
Reparto CC TPC Roma,
Roma
Via Anicia, 24
e-mail
Tel.06.585631
[email protected]
Fax.06.58563200
Competenze
territoriali
Lazio
Abruzzo
Nucleo CC TPC Torino,
Tel.011.5215636 [email protected] Piemonte
Torino
Via XX Settembre, 88 Fax.011.5170000
Valle D’Aosta
Comandante
Gen. Giovanni Nistri
Piazza Sant’Ignazio, 152
00186 Roma
Tel. 06 6920301
Fax 06 69203069
www. carabinieri.it
[email protected]
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Nucleo CC TPC Monza,
Monza
Via Brianza, 2
Tel.039.2303997 [email protected] Lombardia
Fax.039.2304606
Nucleo CC TPC Venezia
Venezia
P.zza S. Marco, 63
Tel.041.5222054 [email protected] Veneto
Fax.041.5222475
Trentino A.A.
F.V.Giulia
Nucleo CC TPC Genova,
Genova
Via S. Chiara, 8
Tel.010.5955488 [email protected] Liguria
Fax.010.5954841
Nucleo CC TPC Bologna,
Bologna
Via Castiglione, 7
Tel.051.261385
Fax.051.230961
Nucleo CC TPC Ancona,
Ancona
Via Pio II – Pal.
Bonarelli
Tel.071/201322 [email protected] Marche
Fax.071/2076959
Nucleo CC TPC Firenze,
Firenze
Via Romana, 37/a
Tel.055.295330
Fax.055.295359
[email protected] Emilia
Romagna
[email protected]
Toscana
Umbria
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Nucleo CC TPC Napoli,
Tel.081.5568291 [email protected] Campania
Napoli
Via Tito Angelici, 20 Fax.081.5784274
Nucleo CC TPC Bari,
Bari
P.zza Federico II, 2
Tel.080.5213038 [email protected] Puglia
Fax.080.5218244
Molise
Basilicata
Nucleo CC TPC Cosenza,
Cosenza
Via Colletriglio, 4
Tel.0984.795548 [email protected] Calabria
Fax.0984.784161
Nucleo CC TPC Palermo,
Tel.091.422825
Palermo
C.so Calatafimi, 213 Fax.091.422452
Nucleo CC TPC Sassari,
Sassari
Strada Prov.le La
Crucca, 3
[email protected] Sicilia
Tel.079.3961005 [email protected]
Fax.079.395654
Sardegna
Per affinare ulteriormente la professionalità dei militari anche in campo internazionale e favorire la collaborazione tra operatori che trattano la medesima materia, il
Comando organizza direttamente e partecipa con frequenza a convegni specializzati unitamente a qualificati esponenti di Polizie straniere. Infatti, proprio la riconosciuta esperienza acquisita nel settore e i significativi successi operativi conseguiti hanno fatto si che varie Forze di Polizia straniere richiedano di organizzare
specifici seminari addestrativi e di affinamento. In particolare i seminari sono stati
tenuti a favore di componenti delle Forze di Polizia di Ungheria, Palestina,
Messico, Guatemala, Cuba, Cipro, Argentina, Perù e Bolivia.
I militari del Comando T.P.C. si sono altresì distinti nell’ambito delle missioni internazionali in Kosovo ed in Iraq dove, spesso in difficili contesti ambientali, hanno
collaborato per il censimento e la tutela delle vestigia culturali minacciate dagli
eventi bellici.
In Iraq, in particolare, i Carabinieri hanno collaborato con archeologi e tecnici del
Museo Nazionale di Baghdad nella raccolta delle informazioni foto-descrittive di
oltre 3000 beni saccheggiati durante le concitate fasi belliche dell’aprile 2003 e,
attraverso l’Interpol, ne hanno dato diffusione all’Unesco. Nell’ambito della missione di pace “Antica Babilonia”, con la collaborazione delle autorità locali, i
Carabinieri distaccati in zona Nassiriya hanno censito e documentato 621 aree
archeologiche a rischio, recuperato 1636 reperti provento di saccheggi, ed arrestato 53 responsabili di scavi clandestini. Inoltre l’UNESCO, in considerazione
della riconosciuta esperienza e professionalità del Comando, ha chiesto di organizzare uno specifico corso di formazione finalizzato alla formazione di circa 50
componenti della Forza di Polizia irachena deputata alla protezione dei siti
archeologici, tenutosi nel 2004 ad Amman, in Giordania.
Per qualificare la propria attività operativa, fin dagli anni ‘80 il Comando si è dotato di un potente strumento di ausilio alle indagini di polizia giudiziaria nello specifico settore, predisponendo la Banca Dati dei beni culturali illecitamente sottratti, contenente oggetti d’arte da ricercare sia di provenienza italiana che estera
ed informazioni circa gli eventi delittuosi collegati. Aggiornata quotidianamente
dal personale della Sezione Elaborazione Dati, il sistema contiene oltre due
milioni e cinquecentomila records, con oltre duecentottantamila immagini digitalizzate, costituendo un database di assoluto riferimento a livello internazionale.
Stanno per essere ultimate le procedure per una sostanziale implementazione
della citata banca dati, che presto consentirà una maggiore versatilità nelle ricerche permettendone la consultazione, limitatamente a determinati campi, anche
ad altre istituzioni. In tale ottica sarà possibile l’immediata verifica nel data base da
parte di Uffici Esportazione, altre forze di Polizia e Soprintendenze ministeriali.
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Lo sviluppo dell’attività investigativa, l’abbattimento delle barriere doganali nell’ambito dell’Unione Europea, nonché una sempre maggiore facilità di trasferire nei cinque continenti persone e merci, ha consigliato ormai da qualche anno il Comando
di utilizzare le eccezionali potenzialità offerte dalla rete Internet per diffondere in
qualsiasi parte del mondo le informazioni relative ai beni culturali sottratti.
Il Comando ha curato la pubblicazione del bollettino “Arte in Ostaggio” contenente le riproduzioni fotografiche dei più importanti beni da ricercare, corredate
dei dati necessari per l’individuazione. Distribuito gratuitamente in Italia ed
all’estero, con la venticinquesima edizione ne è terminata la stampa, poiché, a
vantaggio di un più rapido e tempestivo aggiornamento, le medesime informazioni sono facilmente consultabili nelle pagine web del sito Internet dell’Arma
(www.carabinieri.it). Qui infatti è ora presente un ben strutturato motore di ricerca attraverso il quale possono essere consultati oltre 7.700 beni culturali di valenza artistica tra beni archeologici, dipinti, sculture, oggetti chiesastici, beni librari,
tratti dalla Banca Dati del Comando.
Peraltro nello stesso database i cittadini possono accedere ad un cospicuo elenco di immagini e di descrizioni di beni archeologici saccheggiati durante i due
conflitti bellici avvenuti negli ultimi anni in IRAQ.
Per facilitare la consultazione di tali informazioni e favorire il recupero dei beni
culturali da ricercare, il data-base e le pagine web del Comando sono in corso di
duplicazione in lingua inglese, nonché è in atto una loro ulteriore implementazione per offrire al cittadino la possibilità di consultare un sempre maggior numero
di opere d’arte.
Nell’apposita sezione tematica del sito
www.carabinieri.it (consigli) è possibile inoltre
scaricare un modulo “Documento dell’opera
d’arte – Object ID” (vedasi foto) che peraltro
può essere richiesto presso qualsiasi comando
dell’Arma. Compilando questa “scheda preventiva”, ciascuno può costituirsi un archivio fotografico e descrittivo dei propri beni d’arte, determinante in caso di furto. Un’opera rubata, infatti, se
fotografata ed adeguatamente descritta, può
essere recuperata più facilmente.
All’interno di tale sezione, peraltro, i cittadini
possono trovare validi consigli e suggerimenti di
carattere generale, che derivano soprattutto dall’esperienza maturata dal Comando nel particolare settore, per conoscere meglio i diritti e prevenire spiacevoli situazioni.
Per evitare di incorrere nell’acquisto di un bene
d’arte trafugato, ovvero di conoscere l’eventuale illecita provenienza di uno già posseduto, il
cittadino può richiedere al Comando o ai
Nuclei dislocati sul territorio, un controllo presso la Banca Dati dei beni culturali illecitamente sottratti. In caso di riscontro negativo il
Comando rilascerà un’attestazione in cui è indicato che il bene controllato non risulta segnalato tra le opere da ricercare presenti in Banca
Dati. Un eventuale esito positivo dell’accertamento darà luogo ai dovuti riscontri di polizia
Esempio di modello
giudiziaria.
Documento dell’opera d’arte
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La memoria e il futuro dei luoghi
attraverso la valorizzazione dei beni culturali:
scelte programmatiche e operative
della Provincia di Roma
l progetto “La strada Europea della Pace Lubecca – Roma” ripercorre l’antica
via dei pellegrini dalla Germania verso la città eterna. Un percorso che attraverso la storica Via Flaminia toccava numerosi Comuni del territorio della
Provincia di Roma, tra i quali Sant’Oreste, Riano, Rignano Flaminio, Morlupo,
Filacciano, Nazzano, Fiano Romano, Torrita Tiberina, Civitella San Paolo,
Castelnuovo di Porto, Sacrofano, Capena e, ovviamente, Roma, dove la
Provincia di Roma è intervenuta negli anni con interessanti progetti di valorizzazione.
L’area che li racchiude è sostenuta dal coordinamento della Provincia di Roma,
della Regione Lazio e del Ministero BB.CC.AA., che si è andato costituendo in
un sistema integrato. Il Progetto VA.TE. (che riunisce i Comuni della Media
Valle del Tevere) è stato infatti uno dei primi progetti di sviluppo territoriale
avviato mediante l’approvazione di un Accordo di programma stipulato negli
anni ‘90, e basato sul concetto di integrazione delle competenze relative alla
Cultura, all’Ambiente, al Turismo, alle Attività produttive, ma dove l’elemento
cardine è costituito dalla centralità dei Beni culturali e paesaggistici.
Al contempo, il progetto “La strada Europea della Pace Lubecca – Roma” consente di fornire un quadro più generale di interventi che la Provincia di Roma
ha intrapreso nel settore della valorizzazione dei Beni culturali, a partire dalla
metà degli anni ’70, quando in modo del tutto pionieristico ed in assenza di
normativa specifica che individuasse le Province come soggetti fondamentali
nello sviluppo di una politica culturale territoriale sovraccomunale, utilizzò
una legge sull’occupazione giovanile, per reperire professionisti del settore –
architetti, archeologi, storici dell’arte – al fine di operare un censimento dei
Beni monumentali del territorio provinciale, che portò alla programmazione e
realizzazione di un Piano di restauri di opere d’arte e monumenti, iniziando
così una reale opera di recupero e valorizzazione del patrimonio culturale del
territorio.
Lo slogan usato in passato, “Dall’abbandono al riuso”, rende immediata l’azione di consolidamento, restauro e riuso di edifici monumentali, quali castelli,
chiese, torri, conventi, palazzi, aree archeologiche, ecc., molti dei quali in
avanzato stato di abbandono, omogeneamente dislocati nei 121 comuni del
proprio territorio, il cui intervento di salvaguardia ha nel contempo riqualificato anche le adiacenti aree del tessuto urbano, creando inoltre grandi opportunità logistiche per la formazione e lo sviluppo di attività culturali.
Negli ultimi anni, il progetto maggiormente significativo in termini di indirizzo
programmatico e di interventi finanziati è senza dubbio quello che, attraverso il programma triennale 2001-1003 di recupero e valorizzazione di Beni
architettonici, storico-artistici e archeologici al quale sono stati destinati stanziamenti per circa 65 milioni di Euro, somma incrementata dalla nuova Giunta
Provinciale, ha individuato una serie di interventi di restauro e valorizzazione
di importanti edifici monumentali su tutto il territorio provinciale e nell’area
metropolitana, tra i quali Palazzo Valentini, sede dell’Ente, e Palazzo Incontro,
un prestigioso spazio espositivo nel cuore di Roma.
Provincia di Roma
I
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N
Call Center
ell’ambito delle competenze del Ministero per i Beni e le Attività Culturali si
colloca il servizio di call center atto a migliorare l’accesso alla fruizione del
patrimonio culturale nazionale da parte dei cittadini italiani e stranieri nonché dei
turisti in visita nel nostro Paese, per fornire informazioni (in lingua italiana, inglese
e spagnola) inerenti le attività di pertinenza del Ministero, su musei, mostre temporanee, archivi, biblioteche attraverso il Numero Verde 800 99 11 99.
Il Servizio è interamente affidato alla Società Omnia Network S.p.a.*, che gestisce
le chiamate tramite il numero verde attivo tutti i giorni, compreso i festivi, dalle 9
alle 19. L’operatore di front office, mediante la consultazione di Banche Dati ed un
costante collegamento al sito Internet del Ministero, è in grado di fornire tutte le
informazioni richieste, ivi comprese quelle relative alla struttura organizzativa del
Ministero ed alle competenze istituzionali dello stesso.
L’operatore ha a disposizione anche un banca dati integrata curata dal personale
di back office di Omnia Network contenente le informazioni relative a manifestazioni, beni, musei, eventi di pertinenza non statale (comunali, privati, etc.).
Nello specifico, il front office svolge:
- un servizio di ricezione reclami da parte del Cittadino e di segnalazione
all’Amministrazione;
- un servizio di supporto all’Ufficio Relazione con il Pubblico (URP);
- un servizio di supporto al Servizio II Comunicazione, promozione e Marketing
della direzione Generale per l’Innovazione Tecnologica e la promozione.
- un servizio di segnalazioni al Comando dei Carabinieri per la Tutela del
Patrimonio Culturale;
L’attività di back office consiste in:
- attività di verifica e segnalazioni delle necessità di aggiornamento dei dati presenti sul sito del Ministero dei Beni culturali;
- acquisizione di informazioni sulle iniziative culturali in essere su tutto il territorio
nazionale con partecipazione diretta o indiretta del Ministero;
- acquisizione di informazioni al servizio del cittadino sui principali siti non statali mediante la creazione di un Data Base interno a favore del Front office;
- diffusione di informazioni mirate nei confronti di soggetti terzi quali scuole, università, organismi culturali secondo valutazioni di opportunità da parte del
Ministero. Tali informazioni sono fornite sul numero complessivo di 10.000 contatti annui.
A fronte delle suddette attività, vengono prodotti periodicamente report statistici
quantitativi e qualitativi, che consentono una continua analisi e monitoraggio dei
servizi resi.
* Omnia Network spa, gestore del servizio, è uno dei principali operatori
italiani nel settore della progettazione, realizzazione e gestione dei servizi di
outsourcing alle imprese.
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R
eply [REY.MI] è una società di Consulenza, System Integration, Application
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Tra le più recenti attività sviluppate da da Reply in tali ambiti vi sono il progetto
Leonardo per il Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale e l’attuale sviluppo del nuovo portale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
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Copertina Ferrara:Layout 1
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Il Patrimonio Culturale italiano, unico al mondo, è costituito da beni archeologici, architettonici, archivistici,
artistici e storici, librari e paesaggistici, nonché dalle diverse attività culturali promosse dallo spettacolo dal
vivo, con riferimento al cinema, al teatro, alla musica, alla danza, allo spettacolo viaggiante e alle tradizioni
popolari.
Il MiBAC, amministra e promuove la conoscenza di questo imponente patrimonio storico, artistico e
culturale di cui è custode con l’obiettivo di salvaguardarlo e valorizzarlo.
Alla Direzione per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione, una delle novità della riforma del 2004, spetta
il compito nodale e impegnativo di attuare la modernizzazione dell’Amministrazione attraverso linee di
indirizzo e interventi operativi basati sulle più nuove e sofisticate tecnologie e su strategie di comunicazione
e marketing.
Nell’ambito di queste attività, la Direzione Generale partecipa annualmente, insieme a tutti gli Istituti centrali
e territoriali, ad una serie di manifestazioni fieristiche che sono un veicolo efficace per diffondere ad un
pubblico differenziato le attività ed i progetti più innovativi realizzati negli ultimi anni ed in corso d’opera.
Tali manifestazioni rappresentano anche un momento molto importante di incontro tra le realtà territoriali,
gli Enti locali, i settori delle imprese ed il privato.
Le fiere a cui partecipare vengono programmate in base alla tipologia delle attività istituzionali del MiBAC
– Tutela, Restauro, Comunicazione – e agli interessi di settore (Monumenti, Archivi, Biblioteche, Patrimonio
Storico-Artistico, Cinema, Teatro, Spettacoli, Paesaggio) che ogni anno si vogliono evidenziare.
Programmazione 2007
22-25 Marzo
FERRARA
Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei beni culturali
21-25 Maggio
ROMA
FORUM P.A. Forum della Pubblica Amministrazione
6-8 Novembre
BOLOGNA
COM.PA Salone Europeo della Comunicazione Pubblica dei servizi al cittadino e alle imprese
9-12 Novembre PARIGI
Salon du Patrimoine Culturel
15-18 Novembre PAESTUM
X Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico
30 Nov-2 Dic.
VENEZIA
XI Salone dei Beni e delle attività culturali
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Direzione Generale per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione
Servizio II - Promozione, Comunicazione e Marketing
Unità Organica I - Comunicazione, Grandi Eventi e Manifestazioni Fieristiche
Tel. 06.6723.2851-2927 - Fax 06.6723.2358
[email protected]
CONSERVAZIONE:
UNA STORIA
FUTURA
SALONE DELL’ARTE DEL RESTAURO
E DELLA CONSERVAZIONE
DEI BENI CULTURALI E AMBIENTALI
Ferrara
22-25 Marzo 2007
Quartiere Fieristico
URP - Ufficio Relazioni con il Pubblico
Tel. 06.6723.2980-2990 - Fax 06.6798.441
[email protected]
www.beniculturali.it
numero verde 800 99 11 99
Edizioni MP MIRABILIA srl
Direzione Generale per l’Innovazione
Tecnologica e la Promozione
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pubblicazione - Ministero dei Beni e le Attività Culturali