How to reference this article Mariotti, C. (2015). Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere. Italica Wratislaviensia, 6, 135–148. DOI: http://dx.doi.org/10.15804/IW.2015.06.08 Claudio Mariotti Ministero dell’Istruzione [email protected] Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo Vere i riscontri mi servono in primo luogo a tutt’altro fine, a intendere vocaboli e locuzioni non soltanto nel loro significato razionale, ma nel loro valore affettivo e nel loro colore stilistico. La parola è come acqua di rivo che riunisce in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata (Pasquali, 1994, p. 275). D’Annunzio’s Wedding. A Reading of Per nozze in Primo vere Abstract: The author of this article examines the genesis of D’Annunzio’s Primo vere, published when D’Annunzio was 16 while he attended the famous Cicognini college in Prato. The first edition appeared in 1879 (the second, in the following year) and it was considered a great work; in fact, it was reviewed by Giuseppe Chiarini, one of the most popular writers of his time. Next, the author provides an analysis of Per nozze, one of the Alcaic lyrical poems in D’Annunzio’s book. This ode belongs to an established literary genre (for instance, poems by Catullus, Claudian, Theocritus, and Sappho are of this genre), and it is an important one because it allows us to foresee the later and greater D’Annunzio. At the end of the article, the author investigates why D’Annunzio used the Alcaic metre in this ode. It is not only a tribute to Horace (one of D’Annunzio’s favourite poets; in the appendix of Primo vere are some of Horace’s lyrics translated by D’Annunzio), who used this metre in 37 of his poems; there is another reason. In fact, we can establish a parallel between the metre and the ode: the Alcaic one has ascending and descending rhythms like D’Annunzio’s Per nozze, and it is full of happiness (a marriage takes place), but also of sadness, as he wants to underline the brevity of life and its vanity. Keywords: D’Annunzio, Primo vere, Per nozze, alcaic metre, epithalamium Published: 10/09/2015 ISSN 2084-4514 136 Claudio Mariotti L a raccolta giovanile Primo vere, che segna il noviziato poetico di Gabriele D’Annunzio, come è noto, fu stimolata dalla lettura delle Odi barbare carducciane, così come lo stesso D’Annunzio raccontò più tardi in una lettera al Chiarini del febbraio 1880 che, data la sua importanza, si riporta di seguito: Sono un abruzzese di Pescara: amo il mio mare con tutte le forze dell’anima; e qui in questa valle, vicino a questo fiume polveroso, soffro un po’ di nostalgia. Mi trovo in collegio da sei anni, e ne sono stufo quanto mai si può dire. Fino al novembre del 78 non avevo fatto un verso a garbo, e non mi ci sentivo proprio nato. La si figuri che, a quarta ginnasiale, obbligato dal prete professore a far degli sciolti su la battaglia delle Termopili, di cinquantadue che ne feci ne tornavano appena tre!... Nel novembre del 78, come le dicevo, tornando dalle vacanze autunnali mi fermai per tre o quattro giorni a Bologna. Avevo sentito parlare di Odi barbare, di realismo, di battaglie per l’arte; e un po’ per curiosità, un po’ perché gli elzeviri con le loro civetterie mi attiravano, comprai diversi volumi dal Zanichelli. Fra questi c’erano le Odi del Carducci con prefazione di G. Chiarini. Il Carducci lo conoscevo poco; mi ricordavo d’averne lette alcune poesie nell’Antologia del Puccianti. Di lei avevo sentito parlare a proposito delle Poesie e delle Operette morali del Leopardi. In quei giorni divorai ogni cosa con una eccitazione strana e febbrile, e mi sentii un altro. L’odio pe’ versi scomparve come per incanto, e vi subentrò la smania della poesia. Lessi più di dieci volte di seguito quella sua stupenda prefazione, ed imparai a memoria tutte le barbare. Passavo le giornate pensando agli alcaici e agli asclepiadei, dando la caccia agli sdruccioli, leggendo ad alta voce Orazio, scarabocchiando una gran quantità di carta. Il professore di matematiche era dìsperato; non mi riusciva più di risolvere un’equazione anche delle più facili… Alla fine dell’anno raccolsi tutte le odi fatte in un quaderno, e le portai a casa. Tra le lodi degli amici (benedetti amici!) cominciai a credere di aver scritto de’ versi degni di stampa, ed un bel giorno (Dio me lo perdoni!) diedi ogni cosa allo stampatore, e… il resto lei lo sa. Ora dò retta ai suoi consigli: traduco dal latino e dal greco; ho tentata anche la poesia delicatissima del Tennyson, ma con poco frutto. Ho storpiato l’alcaica a Milton, e le sei quartine On his travels in Greece, To E. L..., e The ballad of Oriana. Mi pare che il Tennyson sia uno dei poeti più difficili a tradursi, specialmente nelle liriche [...]. (si cita da: Fatini, 1959, pp. 130–31) Svanita l’illusione di pubblicare il libretto presso un editore milanese, perché l’amico Cesare Fontana o non volle o non poté assumersi Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere 137 l’incarico (Fatini, 1959, p. 109), l’opera fu stampata a proprie spese dal tipografo e cartolaio Giustino Ricci di Chieti, il quale ne fece un volumetto di pagine 154 + 2 n.n., composto da 26 barbare e 4 imitazionitraduzioni da Orazio, che vide la luce nella seconda quindicina del dicembre del 1879. Verso la fine dello stesso mese arrivarono nel collegio Cicognini di Prato le prime copie che impensierirono a tal punto il rettore Flaminio Del Seppia che non solo le sequestrò per «un tale scetticismo e una tale sensualità da far pena»1, ma convocò anche il Consiglio direttivo, il quale, tuttavia, soprassedette sull’espulsione. Ad ogni modo, l’opera, all’indomani della pubblicazione, ottenne numerose congratulazioni di amici e conoscenti e, nell’entusiasmo per il successo ottenuto, fu spedita anche a Giosuè Carducci, dal quale tuttavia D’Annunzio non ottenne risposta2, forse anche per il carattere troppo scopertamente languido e sensuale delle liriche. Molte furono anche le recensioni sui quotidiani dell’epoca. Quella più importante, quella decisiva, fu scritta da Giuseppe Chiarini, l’amico fraterno di Carducci, uno dei maggiori critici del tempo al quale il 31 dicembre il giovane poeta aveva inviato una copia del volumetto, accompagnata da una lettera: È una mezz’ora che son qui al tavolino a tormentare la penna e il calamaio, e non m’è riuscito di trovare un principio conveniente. Sa? Mi par d’essere come uno di quei villani che trovandosi davanti a un gran personaggio diventan rossi come gamberi in padella e balbettano non si sa che, passando il cappello da una mano all’altra. (Fatini, 1959, p. 159) Il critico gli rispose preannunciandogli che avrebbe parlato del libretto sul «Fanfulla della Domenica». In effetti, il 2 maggio 1880 (anno II, numero 18) uscì A proposito di un nuovo poeta, una recensione che lo consacrò e lo pose all’attenzione della critica: Così si legge nell’estratto del verbale riportato da G. Fatini (1959, pp. 141– –142). 2 Come riporta T. Fracassini (1935, p. 180), l’incontro con il Carducci si ebbe solo il 10 gennaio 1882 nei locali di «La Cronaca Bizantina» con la presentazione dell’editore Sommaruga, dinanzi alle bozze del Canto novo. 1 138 Claudio Mariotti In questa gran piena di poesia che passa, passa, travolgendo forse con sé qualche cosa buona fra le molte cattive, brutte, noiose, ridicole, mi piace stendere oggi la mano ad un recente volumetto elzeviriano, e tentare di trarlo a riva. Più che seguitare ad esprimere ogni giorno i nostri superbi disdegni, il nostro disgusto profondo pei poeti novellini, più che esaurire il vocabolario dei medici per stigmatizzare questa naturale malattia dei giovinetti italiani, da qualche anno un po’ rincrudita; mi pare convenga a noi che non siamo più giovani, e che perciò presumiamo d’aver più giudizio, ragionare un po’ con questi bravi figliuoli, aver la pazienza di leggere i loro libri, e dir loro francamente la verità; francamente sì, ma con amorevolezza. Tanto, dire ad Arno che non corra, è cosa perfettamente inutile: cerchiamo piuttosto, se si può, di regolare il corso delle acque. Il mio nuovo poeta è un giovinetto di sedici anni, che fa ora i suoi studi liceali nel Collegio Cicognini di Prato; si chiama Gabriele D’Annunzio e si presenta al pubblico nientemeno che con un intero volume di odi barbare. (Forcella, 1926, p. 77) L’articolo, tuttavia, non era completamente positivo: Ma, oltre a questi, c’è nel libro del D’Annunzio un peccato più grosso, la ostentazione di sentimenti e desiderii, che mi piace non creder veri. La poesia intitolata Ora satanica è una cosa poeticamente e moralmente brutta. Un giovinetto di sedici anni, pieno d’ingegno e di cuore, pieno di entusiasmo per le cose belle e per l’arte, come è di certo il nostro poeta, deve desiderare qualche cosa di meglio che ridde infernali con strepiti e grida insensate, che seni d’etère su cui passar le notti. Simili desiderii non possono essere che schiuma del suo cervello in un momento di poco sana ispirazione o poco felice imitazione… L’età e lo studio purgheranno di questa e d’ogni altra scoria la poesia del D’Annunzio perché egli… ama l’arte e studia… e gusta i grandi poeti… ama e ammira e intende il più perfetto dei lirici latini, Orazio […]. (Forcella, 1926, p. 79) Sono annotazioni, come si vede, soprattutto morali: un assaggio di quel biasimo – che non riuscirà però a condizionare il giudizio del pubblico ammaliato dalla Musa dannunziana – che più tardi l’illustre critico riserverà all’Intermezzo di rime3. Sulla celebre querelle che oppose in prima battuta Chiarini e D’Annunzio e poi altri famosi letterati dell’epoca come il giornalista Luigi Lodi e il poeta Enrico Panzacchi si può vedere: Chiarini et al., 1916 (la prima edizione uscì per Sommaruga nel 1884). 3 Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere 139 Tra il luglio e l’agosto del 1880, il giovane poeta rinnovò alcuni componimenti della prima edizione e ne scrisse di nuovi, finché Filippo De Titta, per incarico del padre di D’Annunzio, concluse un accordo di pubblicazione presso l’editore Carabba di Lanciano per la stampa di 500 copie. Questa seconda edizione, uscita il 14 novembre 1880, riveduta «con penna e fuoco», come si legge in copertina, presentava, più o meno rimaneggiati, solo 14 dei 30 componimenti della prima e, in più, ben 43 nuove poesie, 15 traduzioni dal latino e 4 dal greco. Come hanno ricordato tutti i principali biografi, un paio di giorni dopo l’uscita del volume, la casa del poetino fu sommersa di telegrammi di condoglianze per la sciagura che aveva spezzato la vita al giovane Gabriele. In effetti la «Gazzetta della Domenica» di Firenze (n. 14) aveva pubblicato una cartolina inviata da D’Annunzio stesso, ma a firma «G. Rutini», con questa funebre notizia: Gabriele D’Annunzio, il giovane poeta già noto nella repubblica delle lettere, di cui si è parlato spesso nel nostro giornale, giorni addietro (5 novembre) sulla strada di Francavilla, cadendo da cavallo per improvviso mancamento di forze, restò morto sul colpo. Fra giorni doveva uscire la nuova edizione del suo Primo vere! [...] (Fatini, 1959, p. 162) Era una ingegnosa trovata per lanciare l’edizione del volume che ricordava quella dei Postuma in cui Olindo Guerrini aveva finto di pubblicare i versi di un suo cugino, Lorenzo Stecchetti, morto per tisi. Il 21 novembre la «Gazzetta della Domenica» smentiva il decesso: Un telegramma pervenutoci da Pescara mentisce la notizia dataci con cartolina postale, inviata dalla città medesima e firmata G. Rutini, circa il giovane GABRIELE D’ANNUNZIO che godiamo di sapere sano di mente e di corpo. Il signor Rutini, nostro amico, si è permesso uno scherzo di cattivo genere. (Fatini, 1959, p. 163)4 Nel 1881 venne annunciata una terza edizione del libretto, mai realizzata. Come già dei Postuma, delle Odi barbare e di altri volumi di successo, anche di Primo vere uscirono molte stampe non autorizzate che, impotente la legge a tutelare la proprietà letteraria, perdurano fino al 1924 e il cui elenco si può consultare in: Forcella, 1926, 4 140 Claudio Mariotti 2. Fra le liriche comprese nella prima edizione di Primo vere e che furono cassate nella seconda, figura Per nozze, che di seguito si riporta: Mentre d’autunno le foglie volano, e il sol di freddo folgore irradia la terra addormita, e sfavilla ne le gocce di pioggia fra’ rami, voi fortunati saluto, o giovani, che sorridendo tra ‘1 novo giubilo co ‘1 raggio d’amore ne l’alma e negli occhi movete a l’altare. Tra’ sesti acuti de ‘1 tempio gotico a voi dorati fantasmi svelansi, ondeggiano arcane armonie, corron fremiti d’ali invisibili, e innanzi agli occhi lampeggiano iridi misterïose, prati d’Elisio sonanti di cetre e di canti, tutt’un mondo di gioie sublimi. Non mai la vita sì bella e fulgida vi rise a’ sogni di puërizia: non mai così ricca e serena vi fiorì primavera ne’ cuori. 5 10 15 20 Oh benedetta luce dell’anima, Amore, Amore che le caligini de ‘1 dubbio disperdi, ed i fiori de la speme e de ‘1 disio fecondi! Oh verginali gioie fra’ trepidi baci libate! sguardi che piovono su ‘1 cuore! carezze divine che dàn fremiti a l’ossa! sospiri! deh non fuggite giammai da ‘1 talamo 25 pp. 74–76 (ma si deve aggiungere l’edizione uscita nel 1907 a Napoli per l’editore Salvatore Romano e per il tipografo F. Lubrano). Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere di questa coppia!... Dolci fluiscano, o sposi, a voi l’ore su ‘1 capo come in danza fanciulle giulive; e a voi fremendo la strofa alcaica intorno aleggi, di fasti nunzia, e, bella di riso, vi posi le ghirlande di mirto su ‘1 crine. 141 30 35 L’ode è un canto nuziale, un genere letterario presente sin dai Greci che distinguevano fra epitalamio, cantato davanti alla camera da letto, e imeneo intonato durante il corteo nuziale dalla casa della sposa a quella dello sposo5. In ambito latino sono celebri quelli di Catullo (il carme 61, il 62 e il 64) e di Claudiano, mentre fra i Greci ne composero Teocrito e Saffo. Nella letteratura italiana si trova una profusione di queste poesie nel Settecento e nell’Ottocento: addirittura, tali versi furono considerati indispensabili e accadeva spesso che il banchetto nuziale terminasse con la recitazione di queste fauste liriche (cfr. Intorno alla moda, 1836). Nel tempo, tuttavia, questa moda fu soppiantata dal dedicare agli sposi la pubblicazione di qualche scritto inedito. Così, ad esempio, Severino Ferrari con Ugo Brilli pubblicava nel 1895, per le nozze BassiniCherubini, delle canzonette e dei rispetti tratti da manoscritti toscani dei secoli XVI e XVII. La poesia Per nozze merita attenzione non tanto perché si rifà ad un genere consolidato, quanto per il fatto che vi si trovano certi elementi che già preannunciano il D’Annunzio maggiore. Notevole, infatti, è la predilezione per il particolare e prezioso, con la pennellata impressionistica della prima strofa che descrive la luce del sole che irradia le gocce di pioggia fra i rami. L’atmosfera, inoltre, in cui trapela il senso della caducità delle cose, anticipa per certi versi l’incipit di Il piacere: «L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva Ad ogni modo, non sempre questa distinzione terminologica rispecchia una reale distinzione fra i due tipi di canto (cfr. Muth, 1977, pp. 45–58). 5 142 Claudio Mariotti non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma»6. È vero che l’immagine delle foglie sospinte dal vento è comunissi7 ma , ed è pur vero che l’esordio paesaggistico così come il ritmo rimandano all’alcaica I, 9 di Orazio: Vides ut alta stet nive candidum Soracte, nec iam sustineant onus Silvae laborantes, geluque Flumina constiterint acuto8 tuttavia, l’ode dannunziana, pervasa da intense notazioni di colore, si perde in uno splendido sogno. Insomma, è come se la Musa avesse dettato un quadro visivo fuori dal tempo, irreale, dove due figure incedono lente, perse in una natura che è animazione caleidoscopica, che è astratta, infinita bellezza. La conferma è il v. 14 che altri non è se non la testimonianza di una fuga abbagliante nel mito, dell’esaltazione di un’età dell’oro tramontata, ma a cui, fuggevolmente, si può tornare: la percezione del rito cristiano, infatti, si trasforma in un Elisio classico, primavera dei poeti e delle belle. È un’operazione che D’Annunzio Su questo esordio malinconico si possono leggere le pagine penetranti di G. Oliva (2007, p. 53),: «l’atmosfera è quella di un luminoso giorno d’inverno che dà l’illusione della primavera [...] e il concetto dominante sembra già essere quello della malinconia, ovvero il sentimento della finitezza dell’esistere, del trapasso da un anno all’altro, del tempo che scorre ineluttabile. Il sole, che per tutti è simbolo di energia e vitalità, in D’Annunzio si carica già di segno negativo in quanto cela dentro di sè la morte, l’esaurirsi delle cose, come sarà in alcune pagine dell’Episcopo». 7 Cfr. Dante, Inf., III 112: «Come d’autunno si levan le foglie»; Giacomo Leopardi, Imitazione, 1–4, che è una libera traduzione da una favola di Antoine-Vincent Arnault. La lirica leopardiana aveva già trovato una risposta religiosa in Niccolò Tommaseo che nel 1872, pubblicando le sue Poesie, vi aveva accluso la lirica A una foglia. In aggiunta si veda anche Victor Hugo, Vœu (Les Orientales), 1–8, Enrico Panzacchi, Sera d’autunno (Lyrica), 9–12 e Giovanni Pascoli, Patria (Myricae), vv. 4–6: «Stridule pel filare / moveva il maestrale / le foglie accartocciate». 8 Si cita da: Orazio, 2009; di seguito se ne dà la traduzione: ʻVedi come candido per l’alta neve s’erge / il Soratte, non più sostengono il peso / i boschi affaticati, e per il gelo / acuto i corsi d’acqua si sono irrigiditi.ʼ 6 Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere 143 trovava nella terza delle carducciane Primavere elleniche, ai vv. 41–42: «Oh favolosi prati d’ Elisio, / pieni di cetre, di ludi eroici»9. Al mito si richiamano anche i vv. 30–32: «Dolci fluiscano, / o sposi, a voi l’ore su ‘l capo / come in danza fanciulle giulive» con l’allusione alle figlie di Zeus e Temi che presiedevano all’ordine della natura e delle stagioni e che provocavano la fertilità del suolo grazie ai diversi tipi di clima che dipendevano dal loro intervento. Di nuovo alla classicità rimanda la tessera «ghirlande di mirto» (v. 36), non solo perché il mirto era consacrato a Venere, ma soprattutto per il fatto che nel mondo classico la sposa aveva il capo adorno d’una ghirlanda di fiori (a conferma, si può vedere Cat., LXI 5–7). Per D’Annunzio non si tratta dell’unico epitalamio: nel 1876 aveva composto un sonetto scherzoso per le nozze di un istitutore del Cicognini, Pio Giusfredi10, mentre il 9 aprile 1888 «La Tribuna» pubblicherà tre sonetti costituenti l’opuscolo Per le nozze d’Elvira sorella molto diletta, seguiti da una Cantata (la Cantata di Calen d’Aprile dell’Isotteo) e da un madrigale di Commiato. È tuttavia sulla Cantata, svolta secondo moduli polizianei, che converrà soffermare la nostra attenzione. Già Mario Guabello scriveva in proposito: «Del resto chi indugi sulla Cantata vi scorge non l’entusiasmo d’amore com’era da aspettarsi in un canto per nozze ma lo scetticismo del disinganno» (Guabello, 1948, p. 28). In effetti, le ballatette e le strofe quaternarie o quinarie con le quali è tessuta la lirica sono caratterizzate da una vaga malinconia e dalla consapevolezza della fugacità del tempo. Si vedano, a tal proposito, questi versi: quanti, o poeti, sono i fuggitivi beni A Carducci rimandano anche i vv. 3: «la terra addormita, e sfavilla» (cfr. Autunno romantico, 6: «nebbia la terra, che addormita sembra»), 9: «Tra sesti acuti de ‘l tempio gotico» (cfr. In una chiesa gotica, 21–22: «Anch’ei, tra ‘l dubbio giorno d’un gotico / tempio»), 13: «e innanzi agli occhi lampeggiano iridi» (cfr. In una chiesa gotica, 56–57: «ma d’amore lampeggiano / gli occhi di Lidia»), 17: «Non mai la vita sì bella e fulgida» (cfr. Primavere elleniche. Alessandrina, 32: «Non mai le tombe sì belle apparvero»), 21–22: «Oh benedetta luce dell’anima, / Amore, amore che le caligini» (cfr. Primavere ellenniche. Alessandrina, 35: «Oh amor, solenne e forte»). 10 Lo riporta interamente G. Fatini (1959, p. 92). 9 144 Claudio Mariotti [...] O amanti, ancora i lai? L’amore è un vil tiranno. Fuggite il triste inganno. Non amate già mai [...] Oggi le man leggere levan altro la coppa; a l’agili chimere godon blandir la groppa. Ahi, per l’angoscia troppa doman si torceranno! [...] Oggi li occhi un giocondo abbagliamento assale; ei veggon tutto il mondo in luce trionfale. Doman, arsi da ‘l sale de’ pianti, ombre vedranno Una simile malinconia è riscontrabile anche nella giovanile Per nozze, con la strofa iniziale caratterizzata dal pianto autunnale, nonché con l’accenno ai sogni incantati della fanciullezza della quarta, e, nella conclusione, con la speranza che la felicità mai scompaia. D’altra parte, la malinconia fu una forte componente della natura dannunziana, sin dall’infanzia: «Ero talvolta oppresso da una di quelle malinconie che in quel tempo mi assalivano nel mezzo del gioco più sfrenato e mi davano a un tratto la voglia di lasciarmi cadere a terra e di morire» (Mazza, 1995, p. 101); e ancora nella nota lettera a Cesare Fontana, nel dipingere uno schizzo psichico di se stesso: «Ho sedici anni e sento già fremermi nell’anima e nel cervello i primi fuochi de la giovinezza che s’avvicina: mi sta fitto in cuore un desiderio smodato di sapere e di gloria, che spesso mi mette addosso una melanconia cupa e tormentosa e mi sforza al pianto» (Forcella, 1926, p. 90); al Vittoriale, il poeta fu dominato da una tristezza possente: «Io ho sempre meco la mia divina sorella Malinconia che, quando io mi credo di tradirla, non si sente tradita»11. 11 Lettera a Giancarlo Moroni dell’11 settembre 1923 (in: Oliva, 2007, p. 1). Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere 145 Ecco dunque che in questa lirica, come si discorreva sopra, D’Annunzio esorcizza la tensione nell’abbandono al sogno, alla bellezza, al mito, a un ordine attinto dalla tradizione letteraria, a un sistema che diventa il vero e unico ubi consistam. È poesia drammatica questa, perché scissa fra due poli, ricca di una tensione che non demorde e che non dà pace ed è forse per questa serenità auspicata e non raggiunta, per questo desiderio inappagato, che D’Annunzio si decise a non includerla nella seconda edizione di Primo vere, cogliendovi una contraddizione con quanto enunciato in Praeludium, 19–28 in cui la Dea d’amore l’aveva invitato a tacer del dolore e della tristezza e a cantare, invece, l’amore, le risa e le voluttà dei baci. A questa drammaticità, a questa scissione, rimanda anche l’adozione della strofe alcaica (restituita con due doppi quinari, il primo piano e l’altro sdrucciolo, con un novenario piano e con decasillabo piano12, di tipo manzoniano, con accenti di 3a, 6a, 9a) il cui impiego per un canto nuziale D’Annunzio non poteva trovare nell’amato e imitato Carducci, visto che all’altezza del 1879 quest’ultimo aveva composto sonetti (Per nozze B. e T., Per nozze e Per le nozze di un geologo che incluse nei Levia gravia) e strofe esastiche di settenari (Per le nozze di Cesare Parenzo, poesia confluita nei Giambi ed epodi)13. Ad ogni modo, di questo metro, nell’ode A la strofe alcaica, dopo aver cantato di Alceo, di Orazio e di Carducci, il giovinetto scriveva, mettendone in luce il ritmo dirompente: Alcaica strofe canora, vigile14, che vai fremendo su l’ali rosee de l’aura vagante tra gl’itali verdi lauri e mirteti, salute! Il v. 12 è sdrucciolo. Tale metro, tuttavia, D’Annunzio trovava nella barbara Ideale; Carducci lo utilizzerà poi per l’epitalamio Per le nozze di mia figlia uscito nel 1881 per la prima volta e poi incluso nelle Nuove odi barbare (1882). Pascoli, invece, comporrà in alcaici La piccozza (Odi e inni), per le nozze della contessina Margherita Codronchi-Argeli. 14 Il verso richiama la carducciana Preludio (Odi barbare), 5: «A me la strofe vigile, balzante». 12 13 146 Claudio Mariotti Tuttavia, per meglio comprendere lo specifico dell’alcaica, converrà citare la penetrante analisi di Ettore Stampini: Un’ode alcaica è come un mare, dove le onde ora si elevano turgide e minacciose, ora si abbassano e si appianano: e come la terribilità del mare sta in questo sollevarsi ed abbassarsi alternato, così l’energia della strofe alcaica riposa appunto in quel mirabile temperamento di ritmi ora ascendenti ora discendenti, per cui l’impeto del pensiero, nel passaggio dall’ordine giambico al logaedico si arresta e si calma per riprendere due volte nuova lena e posare finalmente nella quiete della chiusa totalmente logaedica. (Stampini, 1881, p. 27) Si intendono così alcune delle ragioni dell’adozione di questa strofa: l’alcaica brilla negli slanci, è celere nei voli, anche se poi sa riposare nelle pause caute e nelle esitazioni. È, insomma, ondosa e mareggiante e pertanto si confà al canto dannunziano che è gioioso in quanto annunciatore di «fasti» e «riso» (vv. 34–35) di «primavera ricca» e «serena» (vv. 19–20), di luci e lampi d’amore, ma anche soffuso di malinconia e inquietudine per la vanificazione del tutto e per la rapina del tempo. Inoltre, è un metro che favorisce lo slittamento dalla veglia al sogno, così come conferma la lirica Su Campidanu. II. Sale, pubblicata nel «Capitan Fracassa», del 21 maggio 1882 e un frammento della quale si può leggere in una lettera a Giselda Zucconi del 28 marzo 1882 (D’Annunzio, 1985, p. 364): ne ‘l dormiveglia voluttuoso te bella bella bella discendere vidi, te gaia giù pe’ declivii di un colle, ne ‘l sole di marzo te tutta un fiore di giovinezza Un altro motivo per l’uso di questo metro risiede probabilmente nel fatto che è una sorta di omaggio all’amato Orazio, alcune liriche del quale, sotto il nome di tradimenti, si trovano tradotte in appendice a Primo vere: il Venosino, infatti, predilesse questo metro, usandolo in ben 37 delle sue odi. Non ci si stupirà, quindi, se l’alcaica nella prima edi- Le nozze di D’Annunzio. Per una lettura dell’alcaica Per nozze in Primo vere 147 zione di Primo vere è seconda per frequenza, dopo il distico elegiaco, ed è anche l’unico metro ad essere oggetto di una specifica celebrazione con la lirica A la strofe alcaica. Inoltre, a conferma del discorso che si faceva, Orazio la impiega spesso in odi che trattano della fugacità del tempo e si soffermano sull’invito al piacere, come nella lirica I, 9 a Taliarco, o la I, 26 a Elio Lamia, o ancora la II 3 a Dellio, o la II 9 a Valgio, o infine la II 14 a Postumo (tutte tradotte da D’Annunzio e inserite in appendice alla seconda edizione di Primo vere): conferma, insomma, di un comune sentire fra il giovinetto e il poeta latino. Bibliografia Chiarini, G., Lodi, L., Nencioni, E., Panzacchi, E. (1913). Alla ricerca della verecondia (prefazione di E. Bodrero). Napoli: Società Anonima Editrice Francesco Perrella. D’Annunzio, G. (1985). Lettere a Giselda Zucconi (a cura di I. Ciani). Pescara: Centro nazionale di studi dannunziani. Fatini, G. (1959). Il cigno e la cicogna. Pescara: Edizioni Aternine. Forcella, R. (1926). D’Annunzio (1863–1883). Roma: Fondazione Leonardo per la cultura italiana. Fracassini, T. (1935). Gabriele D’Annunzio convittore. Roma: Casa del Libro. Guabello, M. (1948). Raccolta dannunziana. Catalogo ragionato. Biella: Tip. Ferrara. Intorno alla moda di scrivere versi per nozze (1836, aprile 25). La Moda. Giornale dedicato al bel sesso, n. 34, 133–135. Mazza, A. (1995). D’Annunzio e l’occulto. Roma: Edizioni Mediterranee. Muth, R. (1977). Imeneo ed Epitalamio. In C. Calame (a cura di), Rito e poesia corale in Grecia. Guida storica e critica (pp. 45–58). Roma–Bari: Laterza. Oliva, G. (2007). D’Annunzio e la malinconia. Milano: Rizzoli. Orazio (2009), Tutte le poesie (a cura di P. Fedeli). Torino: Einaudi. Pasquali, G. (1994). Pagine stravaganti di un filologo (vol. II). Firenze: Le Lettere. Stampini, E. (1881). Le “Odi barbare” di G. Carducci e la metrica latina. Studio comparativo. Torino: Loescher. 148 Claudio Mariotti Riassunto: L’autore di questo articolo analizza la genesi di Primo vere, un libro pubblicato dal sedicenne D’Annunzio, mentre frequentava il famoso collegio Cicognini di Prato. La prima edizione apparve nel 1879 (la seconda, l’anno successivo) e fu subito apprezzata: infatti, fu recensita da Giuseppe Chiarini, uno dei critici più influenti. Nelle pagine successive, Claudio Mariotti analizza Per nozze, una lirica di questo libro in metro alcaico. Quest’ode appartiene a un genere letterario stabilito (si possono ricordare alcune poesie di Catullo, Claudiano, Teocrito e Saffo), ed è importante perché preannuncia il D’Annunzio maggiore. Alla fine di questo articolo, l’autore indaga perché D’Annunzio ha adottato per questa poesia il metro alcaico: non è solo un omaggio a Orazio (uno dei poeti preferiti di D’Annunzio: in appendice a Primo vere ci sono alcuni testi di Orazio tradotti dal poetino) che ha utilizzato questo metro in 37 delle sue poesie, ma c’è un altro motivo. Infatti, vi è un preciso parallelismo fra il metro e l’ode: l’alcaica ha ritmi ascendenti e discendenti come Per nozze di D’Annunzio che è pieno di felicità (c’è un matrimonio), ma anche di tristezza perché si vuole sottolineare la brevità della vita e la sua vanità. Parole chiave: D’Annunzio, Primo vere, Per nozze, metro alcaico, epitalamio