JAFFA: “LA SPOSA DEL MARE” MARE” DALL’EPOCA D‘ORO ANTERIORE ALLA NAKBA ALL’ATTUALE IMBROGLIO DEL “PERES CENTER FOR PEACE” A cura del Comitato “Ricordare la Nakba” di Torino Jaffa: la parabola di una città famosa nel mondo condannata alla pulizia etnica di Sami Abu Shehadeh & Fadi Shbaytah Veduta di Jaffa dal mare, mare 18981898-1914. 1914 (fonte: Matson Collection) Jaffa era la città più grande della Palestina storica negli anni del Mandato britannico, con più di 80.000 abitanti palestinesi, cui aggiungere i 40.000 abitanti delle cittadine e dei villaggi vicini. Nel periodo intercorso tra la risoluzione delle Nazioni Unite sulla divisione della Palestina (UNGA 181) del 29 novembre 1947 e la dichiarazione di costituzione dello stato di Israele, le forze militari sioniste evacuarono il 95% della popolazione arabo-palestinese nativa di Jaffa. I profughi di Jaffa costituirono il 15% del totale dei profughi palestinesi di quell’anno fatale, ed oggi sono dispersi in tutto il mondo, mentre lo stato responsabile della loro evacuazione vieta tuttora il loro diritto al ritorno. Jaffa fu l’epicentro dell’economia palestinese prima della Nakba del 1948. A partire dall’inizio del 19° secolo, i suoi abitanti curavano i tanti campi di agrumi, in particolare gli aranceti presenti sul loro territorio. La domanda sul mercato internazionale delle arance di Jaffa portò la città ad una fama mondiale, guadagnandole un posto importante nell’economia globale dell’epoca. Fin dagli anni ’30 Jaffa esportava decine di milioni di cassette di agrumi nel resto del mondo, e forniva migliaia di posti di lavoro ai propri abitanti e agli abitanti dei paesi vicini, mettendoli in contatto con i maggiori centri commerciali delle coste del Mediterraneo e del continente europeo. Jaffa 1920: imballaggio di agrumi. agrumi (fonte: Palestine Remembered) Grazie al successo creato dalle sue esportazioni di agrumi, la città assistette alla nascita e alla crescita di svariati settori economici ad esse collegati, dalle banche alle ditte di trasporto via mare e via terra, alle aziende di import-export, ecc. Man mano che la città si ingrandiva, gli imprenditori di Jaffa iniziarono a sviluppare la locale produzione industriale aprendo fabbriche metallurgiche, impianti industriali di produzione di vetro, ghiaccio, sigarette, tessuti, dolciumi, attrezzature di trasporto, acqua minerale e gassata, alimentari, ecc. 1936, 1936, Porto di Jaffa: trasporto del tè. tè (fonte: Palestine Remembered) Oltre al commercio e all’industria, il terzo grande pilastro dell’economia di Jaffa durante il Mandato britannico era il turismo. Decine di migliaia di turisti e pellegrini visitavano la città storica ogni anno, sia per i suoi siti di grande significato storico e religioso, sia per i suoi bei palazzi, e per i luoghi santi cristiani sparsi in tutta la città. Allo sviluppo dell’industria del turismo si accompagnò l’infrastruttura delle comunicazioni, la rete dei trasporti che collegava Jaffa al resto della Palestina e al mondo arabo. Ulteriori investimenti e posti di lavoro furono creati per i residenti di Jaffa attraverso il crescente numero di alberghi, società di trasporto, e servizi collegati al turismo. Jaffa era anche la capitale culturale della Palestina , sede di decine dei più importanti quotidiani e delle case editrici del paese, inclusi i quotidiani Filastin e al-Difa'. I più importanti e lussuosi cinematografi si trovavano a Jaffa, così come decine di club sportivi e società culturali. Gli uffici centrali di alcune di queste società, come il Club ortodosso e il Club islamico, sono esse stesse diventate dei siti storici a testimonianza della storia culturale della città. Durante la seconda guerra mondiale, le autorità del Mandato britannico trasferirono a Jaffa la sede centrale degli studi di trasmissione della Radio del Vicino Oriente, ed essa fu dal 1941 al 1948 un fulcro della cultura della città. Con la crescita dell’importanza culturale di Jaffa arrivò anche un crescente interscambio culturale ed il collegamento con i principali centri culturali della regione come Il Cairo e Beirut, è ciò in seguito fece definire la città come il minareto culturale della regione, con affetto soprannominata “la Sposa del Mare”. Il Cinema Alhambra a Jaffa, uno dei più grandi e lussuosi cinema palestinesi. Usurpato. (fonte: Palestine Remembered) La storia della Nakba di Jaffa tuttora in atto è la storia della trasformazione di questo prospero centro urbano moderno in un’area marginalizzata che soffre di povertà, discriminazione, crimini e demolizioni a partire dall’iniziale ondata di espulsioni di massa avvenute nel ’48 per arrivare ai giorni nostri. Soldati britannici fermi a perquisire un palestinese nel 1936. (fonte: Palestine Remembered) I primi anni della Nakba a Jaffa Le forze sioniste diedero inizio ad un crudele assedio nei confronti della città di Jaffa nel marzo 1948. I giovani della città formarono dei rispondere all’assalto. Comitati di resistenza popolare per Il 14 maggio 1948 la Sposa del Mare cadde nelle mani delle forze militari sioniste; quella stessa sera i leader del movimento sionista in Palestina dichiararono la costituzione dello stato di Israele. Circa 4.000 dei 120.000 palestinesi riuscirono a restare nella loro città dopo l’occupazione militare. Furono circondati e rinchiusi in un ghetto nella zona di al-Ajami che fu sigillata dal resto della città ed amministrata sostanzialmente come una prigione militare per i due anni successivi; il regime militare che governò su di loro durò fino al 1966. Per tutto questo periodo, al-Ajami fu completamente circondata da una recinzione in filo spinato pattugliata dai soldati israeliani e da cani da guardia. Ben presto i nuovi abitanti ebrei di Jaffa , basandosi sulla loro esperienza del nazismo in Europa, iniziarono ad indicare la zona abitata dai palestinese come “il ghetto”. Oltre ad essere stati rinchiusi in un ghetto, i palestinesi che rimasero a Jaffa da un giorno all’altro persero tutto: la loro città, gli amici, le loro famiglie, le proprietà ed il loro ambiente fisico e sociale. La maggior parte di loro perse la casa nel momento in cui furono costretti dalle forze militari sioniste a trasferirsi ad al-Ajami. All’interno del ghetto di al-Ajami il comandante militare faceva da legislatore, giudice e boia; senza il suo permesso nessuno poteva entrare o lasciare il ghetto, ed il diritto all’istruzione e al lavoro fu tra quelli negati ai palestinesi. Gli stati arabi vennero classificati come stati nemici, e fu così assolutamente vietato tenersi in contatto con la propria famiglia espulsa, con gli amici profughi. Tale fu l’incubo in cui i palestinesi di Jaffa dovettero vivere dopo la Nakba del 1948. All’inizio degli anni ’50, Jaffa fu inglobata a livello amministrativo dal municipio di Tel Aviv che fu chiamata Tel Aviv-Yafo; i palestinesi di Jaffa, dall’essere la maggioranza nella loro città e terra natale, divennero il “duepercento nemico dello stato”, una minoranza all’interno della principale metropoli israeliana. Il municipio di Tel Aviv immediatamente iniziò a stilare progetti per quella che si chiamò “giudaizzazione” della città, sostituendo il nome delle strade arabe con il nome dei leader sionisti, demolendo gran parte dell’antica architettura araba, e distruggendo completamente gli edifici nelle aree vicine e nei villaggi vicini che erano stati fatti evacuare durante la Nakba del 1948. Il nuovo curricolo introdotto nelle scuole palestinesi cancellava completamente la storia passata arabo-palestinese, un aspetto del sistema dell’istruzione israeliana tuttora presente. La più grande rapina a mano armata del 20° secolo Dopo aver espulso la maggior parte dei residenti di Jaffa, aver occupato militarmente la città ed aver rinchiuso in un ghetto il resto dei suoi abitanti originari, le autorità israeliane nel 1950 approvarono la Legge sulle proprietà degli Assenti, grazie alla quale si impadronirono delle proprietà di tutti i palestinesi che non erano più in possesso dei loro immobili in seguito alla Nakba . Per rendere esecutiva questa legge ingiusta, lo stato di Israele inviò i suoi agenti segreti ai quattro angoli del territorio per fare un’indagine sulle proprietà abbandonate dai profughi espulsi, dai palestinesi profughi interni cui era proibito ritornare nelle proprie terre, e da quelli trasferiti nei ghetti delle città della Palestina. La proprietà di queste terre, palazzi, case, fabbriche, fattorie e siti religiosi venne dunque trasferita allo stato “custode della proprietà degli Assenti”. Fu così che i palestinesi di Jaffa, profughi e rinchiusi nel ghetto, ebbero le loro proprietà rubate “legalmente” dallo stato di Israele. Nelle interviste che abbiamo fatto per la nostra ricerca, abbiamo sentito dozzine di storie dei sopravvissuti della Nakba che ci raccontavano di come le loro case, spesso a soli pochi metri di distanza dal ghetto, furono occupate, e di come loro non poterono fare assolutamente nulla per impedirlo. Molti ci hanno raccontato di come le loro case furono date, o semplicemente prese, dai nuovi immigrati ebrei, e di come cercarono di convincere i nuovi residenti a restituire qualche mobile, vestiti, documenti , fotografie. In qualche caso, i nuovi residenti accettarono di restituire qualcosa, ma la risposta fu perlopiù quella di considerare i proprietari originari palestinesi come degli intrusi, chiamando la polizia o facendo rapporto al comandante militare. Gli exresidenti della zona di al-Manshiyya, una delle zone più ricche della città prima della Nakba, descrivevano il dolore che provavano quando passavano davanti alle loro vecchie case, e la pena di vedere quello che restava del loro quartiere, demolito per far posto ad un’area pubblica di divertimenti. Palestinesi di Jaffa cercano di portarsi via quello che possono mentre le forze militari sioniste li costringono costringono con la forza ad abbandonare la città nel maggio 1948. 1948. (fonte: Palestine Remembered) Tra le storie più dure da ascoltare, quelle dei contadini palestinesi dei villaggi del distretto di Jaffa. Raccontano di come furono portati via con la forza dalle loro terre, di come riuscirono a restare in Palestina, di come il governo israeliano diede le loro terre ai coloni ebrei e di come questi coloni li assumevano a lavorare su queste terre come braccianti giornalieri. Venivano sfruttati per il profitto personale dei coloni ebrei sui prodotti delle terre che loro, palestinesi, avevano coltivato per generazioni. In effetti, dopo che le loro proprietà vennero confiscate o definitivamente chiuse, la grande maggioranza dei palestinesi che restarono divennero forza-lavoro a buon mercato per i datori di lavoro ebrei. La loro assunzione dipendeva dalla “lealtà” al nuovo stato. Così accadde che per poter dar da mangiare ai propri figli, la gente che viveva in una città - centro dell’economia palestinese anteriormente al 1948, ne divenne orfana, e fu costretta a fingere di essere leale verso chi orfana l’aveva resa. Le quotidiane violazioni della coabitazione Dopo la creazione dello stato di Israele sulle rovine della società arabo-palestinese, lo stato novello iniziò ad assorbire migliaia di nuovi immigrati ebrei provenienti da tutto il mondo, masse di immigrati che non era del tutto in grado di assorbire. Lo stato risolse il problema distribuendo loro le case dei palestinesi espulsi e profughi interni. Dopo che tutte le case palestinesi di Jaffa furono occupate, le autorità israeliane responsabili dell’edilizia abitativa iniziarono a dividere le case del ghetto di al-Ajami in una serie di alloggi per poter sistemare le famiglie ebree. Così accadde che, per fare un esempio, una famiglia araba deportata nel ghetto di al-Ajami dopo essere stata cacciata dalla sua casa d’origine, la cui famiglia ed amicizie erano state già espulse dalla Palestina, e che viveva al momento in una casa di quattro stanze, assistette alla divisione della nuova casa in quattro appartamenti capaci di assorbire tre famiglie di immigrati ebrei. Le quattro famiglie dovevano dunque condividere la cucina e il bagno… Questa novità fu la più dura da accettare per le famiglie palestinesi: furono costrette alla “coabitazione” con le persone che le avevano cacciate dalle loro case, e, considerato il fatto che molte famiglie ebree avevano al loro interno membri dell’esercito, le famiglie palestinesi erano forzate a convivere con i diretti responsabili delle perduranti violenze sofferte dal resto della comunità palestinese. Gli orrori della Guerra, la perdita del proprio paese, le crepe profonde nella struttura sociale, i traumi provocati dall’oppressione, occupazione, segregazione e discriminazione, la demolizione o il furto della propria casa d’origine sotto i propri occhi, l’essere costretti a condividere la casa nel ghetto con le persone che li avevano cacciati dalle proprie case d’origine, tutto questo contribuì a creare all’interno della piccola comunità palestinese che era rimasta a Jaffa un generale sentimento di disperazione e di impotenza. Questa depressione collettiva alla fine portò molti dei palestinesi residenti nel ghetto di Jaffa sulla strada della dipendenza dalle droghe e dall’alcool per sfuggire al peso di sentirsi assolutamente impotenti di fronte all’oppressione coloniale. E’ stato proprio questo tipo di oppressione coloniale ciò che ha trasformato la fiorente Sposa del Mare in un sobborgo di Tel Aviv oppresso dal crimine e dalla povertà. 1951-1979: sopravvivenza e miglioramento di sé La prima generazione dei sopravvissuti alla Nakba affrontò sacrifici immensi, ed in effetti il suo obiettivo principale era sopravvivere in un ambiente saturo di paura nei confronti delle autorità israeliane. La speranza di una vita migliore, di un ritorno al passato, della libertà, furono fattori motivanti nelle loro vite. Ciò fu vero soprattutto alla fine degli anni ’50 e ’60, quando il mondo arabo attraversò un periodo di risveglio incarnato nel Nasserismo. L’idea dell’unità araba, della liberazione palestinese, il revival culturale e la speranza che queste idee portavano con sé trovarono terreno fertile nella società palestinese all’interno della “linea verde” (il confine tracciato dall’armistizio del 1949 che divideva lo stato di Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza). Questo fu il contesto in cui crebbe la seconda generazione. La generazione degli anni ’50 e ’60 crebbe in un contesto assai diverso da quello dei genitori. Cercò di migliorarsi, di lavorare tanto per provvedere ai bisogni delle proprie famiglie quanto per dare un’istruzione ai propri figli, facendo i lavori manuali che gli immigrati ebrei si rifiutavano di fare. Furono gli esponenti di questa giovane generazione a riempire le fila del Partito Comunista e del Movimento della Terra Nasseriano, per fare qualche esempio tra le tante correnti politiche che miravano a sfidare ai vari livelli l’oppressione imperante, la povertà e la mancanza di terra della comunità palestinese. Nel frattempo il governo israeliano si preparava ad occupare il resto della Palestina, e con il crescere dell’opposizione interna, e le informzioni che iniziavano a trapelare sul fatto che “l’unica democrazia del Medioriente” avesse in realtà due giurisprudenze diverse per due diversi gruppi di cittadini, nel 1966 Israele abbandonò formalmente il regime di governo militare. Mentre la discriminazione sistematica contro i palestinesi continuava invariata, gli anni ’70 videro emergere tra i cittadini palestinesi di Israele un movimento politico e sociale relativamente potente. Nella città di Jaffa questo movimento ebbe come culmine la formazione dell’Associazione per la Cura degli Affari Arabi nel 1979. Quest’Associazione era formata da intellettuali e attivisti che avevano come loro obiettivi: 1. proteggere ciò che restava in città dell’identità e dell’eredità arabo-palestinese. 2. lottare contro la discriminazione sistematica che i palestinesi di Jaffa dovevano affrontare ogni giorno. 3. promuovere campagne su questioni importanti quali la casa e l’istruzione. In quella stessa decade la “Giudaizzazione” delle aree all’interno della linea verde divenne nota pubblicamente come la politica ufficiale dello stato di Israele. Mentre negli anni ’70 il principale teatro della “Giudaizzazione” era stato la Galilea nel nord della Palestina storica, i palestinesi di Jaffa continuarono a subire pressioni crescenti. Lo scopo era costringerli ad abbandonare le proprie case in città e veniva perseguito attraverso tutta una serie di politiche e di pratiche discriminatorie, come quella di proibire loro la ristrutturazione delle case dal momento che queste proprietà erano perlopiù classificate come proprietà di assenti e il titolo spettava allo stato. Le autorità municipali avevano ignorato le necessità dell’area palestinese, e molte case stavano per crollare: in qualche caso perciò l’ordine fu di demolirle. In conseguenza di questa situazione generale di deterioramento, la maggior parte degli ebrei residenti ad al-Ajami si era spostata nei sobborghi della città, ed iniziava a trasferirsi in Cisgiordania nei nuovi insediamenti costruiti illegalmente nei quali il costo della vita era, e continua ad essere tuttora, largamente sovvenzionato dallo stato. 1979-2000: il ritorno dello spirito Il numero dei palestinesi residenti a Jaffa era proporzionalmente aumentato agli inizi degli anni ’80, sia come risultato di una crescita naturale, sia perché un numero crescente di palestinesi cacciati via dalla Galilea e dal triangolo avevano finito per stabilirsi a Jaffa. Anche il livello di istruzione nella popolazione adulta della città era cresciuto quando la generazione degli anni ’60 e quella degli anni ’70 diventò adulta e prese parte attiva alla vita sociale. Questa seconda generazione beneficiò dei sacrifici fatti dai suoi predecessori, molti si aprirono delle piccole imprese come ristoranti, ditte terziste e officine meccaniche. Un piccolo numero di giovani palestinesi era riuscito anche a completare degli studi universitari nel campo della legge, medicina, contabilità, ingegneria e altro. E così cominciò a ristabilirsi l’equilibrio economico, sociale e demografico della città. La crescita della popolazione palestinese ed il miglioramento delle sue condizioni sociali ed economiche si accompagnò all’aumento del numero dei palestinesi che iniziarono a trasferirsi in altre zone di ciò che restava di Jaffa all’esterno del ghetto di al-Ajami , soprattutto nel vicino quartiere costiero di Jabaliya. Questo fenomeno fu perlopiù il risultato della sovrappopolazione del ghetto, e la conseguenza della combinazione di tre fattori: povertà, incuria della autorità municipali e politiche discriminatorie che avevano vietato ai palestinesi di ristrutturare i loro alloggi, deteriorando ulteriormente le condizioni di vita. Il miglioramento dello standard di vita dei palestinesi che iniziò negli anni ’80 comportò un aumento del numero di arabi proprietari e gestori di imprese, la ristrutturazione delle moschee, chiese ed edifici pubblici palestinesi, così come l’annuale aumento dei laureati, la maggior parte dei quali ha reinvestito le proprie capacità e conoscenze per migliorare la propria comunità. Mentre lo stato e le Giovani palestinesi al lavoro autorità municipali continuavano con il processo di “giudaizzazione”, la comunità palestinese aveva un in uno dei tanti aranceti di Jaffa, 1898-1914. (fonte: Matson ruolo attivo e efficace nella vita della città. Ciò ha significato lavorare contro lo sviluppo economico Collection) imposto poiché il governo israeliano non ha mai investito in o sostenuto le imprese di proprietà palestinese, mentre allo stesso tempo ha sempre sovvenzionato ed investito molto nelle imprese di proprietà ebraica di Tel Aviv. Questa discriminazione economica ha giocato un ruolo importante nel rendere la Jaffa palestinese economicamente dipendente dall’ebraica Tel Aviv. Gli anni ’90 hanno visto un potente risveglio politico e culturale tra i palestinesi cittadini di Israele, quando la terza generazione successiva alla Nakba ha iniziato a scoprire e rivendicare la propria identità palestinese come popolazione nativa di quella regione. La paura che aveva condizionato enormemente i loro nonni, non aveva più su di loro lo stesso effetto, e questa generazione di palestinesi con un alto livello di istruzione, che ha sperimentato la disparità tra gli ideali della “democrazia israeliana” appresi a scuola e la discriminazione effettiva nella vita quotidiana, si è introdotta in modo crescente nell’arena politica. La coscienza nazionale dei palestinesi di Jaffa si è materializzata allo scoppio della seconda Intifada, quando i giovani palestinesi di Jaffa protestarono contro la brutale violenza dell’esercito israeliano contro i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza organizzando decine di dibattiti, manifestazioni, picchetti e campagne di raccolta fondi per sottolineare l’unità che esiste all’interno del popolo palestinese aldilà dei confini. A Jaffa la Nakba continua tuttora Nonostante lo sviluppo dei loro movimenti politici e sociali, gli oltre 20.000 palestinesi che vivono a Jaffa oggi continuano a subire la Nakba. Non facciamo qui un uso leggero delle parole, né vogliamo suscitare lacrime di simpatia o nostalgia per ciò che fu; bisogna capire il presente, ed intrecciare la richiesta di risarcimento per i crimini commessi da Israele negli scorsi 60 anni con il richiamo all’urgenza di una lotta che porti un cambiamento nel futuro. Mentre la sistematica discriminazione e le pratiche tendenti a cacciare i palestinesi e a giudaizzare l’area permeano tutti gli aspetti della vita dei palestinesi in Israele, qui vogliamo focalizzare l’attenzione sui settori dell’edilizia abitativa e dell’identità culturale. Le questioni più pressanti che i palestinesi di Jaffa si trovano oggi ad affrontare sono la questione edilizia e la minaccia di sfratto. Ogni palestinese di Jaffa ha avuto l’avviso di sfratto dalle autorità municipali, oppure ha un vicino di casa o un parente nella stessa situazione, si fa una stima totale di più di 500 famiglie. I due principali motivi di sfratto sono la mancanza di licenza – è praticamente impossibile per i palestinesi ottenerla – oppure che la famiglia viene considerata come un occupante abusivo della propria casa, classificata come proprietà dello stato israeliano. Il titolo di proprietà della stragrande maggioranza degli immobili di Jaffa fu trasferito allo stato con l’applicazione della Legge sulle proprietà degli assenti (1950), e lo stato la trasferì ulteriormente ad Amidar, una società statale che gestisce le proprietà nelle aree urbane. Dopo aver concentrato i suoi tentativi di giudaizzazione in Galilea e nel Negev, lo stato ha ora messo gli occhi sui palestinesi che vivono nelle città palestinesi, cui si fa ufficialmente riferimento come “città miste”, ordinando il loro trasferimento dalle case in cui vivono da 60 anni o più. La cacciata di massa dei palestinesi dalle loro case in queste città è un processo che ha due aspetti: Il primo, e più importante è quello della Giudaizzazione che mira a cambiare le caratteristiche demografiche delle città escludendo un numero significativo di palestinesi nativi, cancellando l’identità e la cultura palestinese lì presenti. Il secondo aspetto è la trasformazione delle aree in zone residenziali ricche: nella maggior parte dei casi queste proprietà vengono scelte per la demolizione per far posto a condomini di lusso e a villette per i ricchi. A beneficiarne sono così i mercanti politici che assecondano il loro pubblico guidato ideologicamente dal sionismo, ed i mercanti immobiliari che sperano di costruire ed incassare milioni dai loro progetti di “sviluppo”. Vogliamo far notare che il ghetto di al-Ajami, pur essendo la zona più povera del municipio di Tel Aviv-Yafo, è anche un quartiere costiero con alcuni dei valori di mercato più alti della città. . Il problema della casa per i palestinesi di Jaffa non è solo la somma di quello che abbiamo visto finora, va anche oltre le centinaia di sfratti e ordinanze di demolizione. Non si può fare a meno di collegare i vari elementi: - Amidar e l’Amministrazione delle terre di Israele che mettono all’asta decine di case palestinesi, - la rapida crescita dei valori degli immobili, - la costruzione del Centro Peres “per la pace” su proprietà di profughi palestinesi confiscate, - la creazione di un centro di fondamentalisti ebrei nel cuore della zona di al-Ajami. Il quadro che ne viene fuori è preoccupante: gli abitanti originari di Jaffa vengono sradicati, ed il loro posto invaso da chi ha i soldi e il potere, le élites dell’establishment ebreo-israeliano. Vediamo lo stato consegnare quasi gratis case ai coloni ebrei in altre città palestinesi come Lydda e Ramleh, così come nel Naqab (Negev) ed ora a Jaffa, mentre noi, popolazione nativa della Palestina, veniamo trattati come occupanti abusivi e intrusi. Noi, i palestinesi che sono rimasti a vivere nella parte di Palestina occupata dal movimento sionista nel 1948 e che siamo stati costretti ad accettare la cittadinanza dello stato che ha usurpato il nostro paese, ora costituiamo il 20% dei cittadini dello stato di Israele, ma controlliamo solo il 3,5% della terra, dopo che la maggior parte delle nostre terre e proprietà ci sono state confiscate da questo stato. Fin dalla sua nascita, Israele ha creato centinaia di nuove comunità per gli insediamenti ebrei, ma nessuna nuova comunità per i palestinesi. La Torre dell’orologio di Jaffa, nel 1914 circa. (fonte: Matson Collection) Tentano di cambiare completamente l’identità, la lingua e la storia Uno dei punti di riferimento più significativi nella città di Jaffa è la Torre dell’Orologio, costruita dagli Ottomani all’entrata della città vecchia, molto prima che Israele nascesse. Oggi, i visitatori e i residenti di Jaffa che vogliano dare uno sguardo alla struttura, vedono una targa scritta in ebraico con le seguenti parole: “In memoria di coloro che caddero nella battaglia per liberare Yafo”. Da qui, se giriamo a sinistra per salire a piedi verso la città vecchia, godiamo di una vista sul Mar Mediterraneo così bella da togliere il respiro, fino a quando raggiungiamo le targhe informative affisse dalle autorità municipali di Tel Aviv. Su queste si può leggere la storia della città nell’arco di migliaia di anni fino ad oggi. Si resta sorpresi nel vedere che queste targhe sono scritte in quattro lingue, ma non in arabo. Più stupefacente è vedere come in nessuna di esse si fa menzione degli arabi e dei palestinesi che spuntano solo in un rigo:”nell’anno 1936, dei barbari arabi attaccarono il quartiere ebraico”. Abbiamo un’abbondanza di esempi di cancellazione sistematica della storia arabo-palestinese, il nome di strade, quartieri e punti di riferimento della città cambiato con nomi ebrei, soprattutto di figure politico-militari sioniste. Un aspetto importante della reinvenzione di Jaffa come città israeliana, oltre al seppellimento della sua identità arabo-palestinese, è il fatto che Israele stia seppellendo le prove dei suoi crimini. Se noi accettiamo il fatto che qui non c’erano palestinesi, allora non c’erano palestinesi che Israele dovesse cacciare via. La cancellazione della memoria palestinese si riflette significativamente nel sistema educativo israeliano previsto per le scuole arabe, in cui il curricolo è orientato in modo tale da far crescere dei giovani palestinesi ignoranti della propria storia e identità, e leali verso il loro oppressore coloniale. In seguito alla Nakba del 1948, le scuole arabe passarono sotto il controllo del Ministero dell’istruzione di Israele, all’interno del quale i servizi di intelligence israeliani prendevano parte diretta alla selezione dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e delle materie curricolari. Durante le lezioni di scienze sociali e umanistiche, gli studenti palestinesi in Israele imparano la storia delle comunità ebraiche europee e dell’eroica creazione del moderno stato di Israele, senza che si faccia menzione della catastrofe che arrivò addosso alla società nativa palestinese, di cui questi studenti fanno parte. Le scuole sono anche luoghi di intimidazione contro qualsiasi politicizzazione, soprattutto in occasione di date importanti per la lotta dei palestinesi come la Giornata della Terra o la commemorazione della Nakba. Le scuole pubbliche arabe sono perlopiù trascurate al momento della distribuzione dei fondi e delle risorse, e la qualità dell’istruzione è molto bassa, se paragonata alle scuole della comunità ebraica. Ciò ha fatto sì che molti genitori palestinesi di Jaffa abbiano inserito i loro figli nelle scuole ebraiche, un fenomeno che amplificato le crisi di identità all’interno della gioventù palestinese, così come il fatto che questi giovani abbiano delle difficoltà con la lingua araba. Jaffa, quartiere di alAjami (fonte: Palestine Remembered) Jaffa: la lotta continua In risposta al tentativo dell’establishment israeliano di giudaizzare i luoghi e le coscienze dei palestinesi, il movimento palestinese con tutte le sue correnti ha lavorato per intrecciare la determinazione palestinese alla dignità. Nonostante le difficili condizioni che i palestinesi residenti nelle cosiddette “città miste”hanno dovuto affrontare, come abbiamo visto, essi si sono mantenuti forti e a testa alta. Per decenni, le autorità israeliane hanno usato il bastone e la carota per trasformarli in una minoranza servile chiamata “arabo-israeliana”, una minoranza senza connessioni con la propria identità palestinese, con un’amnesia collettiva riguardante il rapporto con la terra e verso i crimini che continuavano a perpetrarsi, una minoranza, soprattutto, leale verso i suoi carcerieri. A partire in modo sistematico dagli anni ’70, il movimento palestinese dei diritti ha duramente sfidato le politiche e le pratiche israeliane con mobilitazioni quali ad Veduta di Jaffa dalla spiaggia settentrionale verso il sud, es. lo sciopero generale del 30 marzo 1976 in commemorazione della Giornata della Terra, e le 1900-1920. (fonte: Matson Collection) centinaia di iniziative in supporto della Prima e Seconda Intifada. Il movimento ha spinto la lotta palestinese fuori dai confini nazionali e religiosi per approdare ad una lotta internazionalista nella quale palestinesi ed ebrei lottano fianco a fianco per la giustizia. A Jaffa, questa lotta è riuscita a riportare alcune tangibili vittorie, ad es. è stato bloccato il tentativo della municipalità di trasformare la spiaggia in una discarica, si è fatta pressione sulle autorità israeliane affinché costruissero delle unità abitative per i palestinesi nella città, e si sono costituite delle istituzioni educative arabe come una scuola materna e la Scuola Democratica Araba aperta nel 2003. Questa lotta è stato il fattore principale che ha permesso ai palestinesi di essere determinati a rimanere a vivere nella loro città storica. Oggi la lotta continua sotto le bandiere del Comitato Popolare di Jaffa per la Difesa della Terra e del Diritto alla Casa (noto anche col nome di Comitato Popolare contro la Demolizione delle Case di Jaffa) costituito nel marzo 2007 come risposta diretta alle centinaia di ordinanze di sfratto emesse contro i palestinesi residenti nei quartieri di al-Ajami e Jabaliya. L’importanza delle azioni del Comitato fu chiara ai suoi membri nel momento in cui una loro indagine preliminare rivelò che 497 case palestinesi di Jaffa erano sotto minaccia di sfratto e/o di demolizione da parte dell’Amministrazione delle Terre israeliana, la quale aveva anche messo all’asta molte di queste proprietà – considerate proprietà di “assenti”. Il Comitato è formato da residenti, attivisti sociali e politici, movimenti, organizzazioni e partiti politici operanti a Jaffa. Esso rappresenta la lotta collettiva dei residenti arabo-palestinesi di Jaffa, ed è aperto a chiunque condivida le sue richieste e le basi politiche. Un aspetto centrale dell’azione del Comitato è fare pressione sui vari rami delle autorità israeliane (l’Amministrazione delle Terre Israeliana, Amidar, la municipalità di Tel Aviv-Yafo) allo scopo di congelare tutti i procedimenti legali riguardanti gli sfratti, chiedendo a queste autorità un negoziato per arrivare ad una soluzione condivisa. Il Comitato chiede anche la fine della vendita e della messa all’asta delle terre “di proprietà pubblica” (cioè degli assenti / profughi) , chiede un negoziato che metta in atto un meccanismo di salvaguardia della presenza palestinese di lunga data nella città, e che permetta ai giovani e alle giovani coppie di trovare casa ad un prezzo abbordabile, soprattutto nei quartieri di al-Ajami e Jabaliya. Lo spirito della campagna lanciata dal Comitato Popolare è pretendere il riconoscimento degli arabo-palestinesi come un gruppo con diritti storici alla terra e alle proprietà nella città di Jaffa; di conseguenza, delle soluzioni alternative al problema della casa in città devono essere raggiunte previa consultazione e con il consenso della comunità nativa. Il Comitato Popolare opera anche con indagini e raccolte di informazioni presso i residenti di Jaffa direttamente coinvolti e sotto minaccia di sfratto o demolizione; con l’azione diretta per prevenire lo sfratto o la demolizione attraverso la mobilitazione di attivisti che sono presenti fisicamente nelle case minacciate; con l’organizzazione di attività popolari come picchetti, manifestazioni di protesta, dibattiti informativi, ecc.; con l’organizzazione di campagne di informazione sulle condizioni della comunità palestinese di Jaffa nei media locali ed internazionali. Siamo alla continua ricerca di nuovi modalità di raccolta fondi sia per i costi legali che sopportiamo sia per le attività che permettano ai giovani, alle donne e alle giovani coppie di trovare casa a prezzi convenienti. Il Comitato è sempre più coinvolto nell’organizzazione di attività extracurricolari per i giovani, e di workshop di sostegno alle donne e ai giovani nella gestione delle loro attività commerciali. Il presupposto è che la vitalità economica della comunità è direttamente legata alla nostra capacità di restare nella nostra terra con fermezza e determinazione. Invertire il perdurante processo della Nakba Attualmente il numero presunto dei palestinesi profughi di Jaffa si aggira su 700.000, che corrisponde ad un decimo della popolazione dei profughi palestinesi. Mentre la maggior parte dei profughi abita a Gaza, in Cisgiordania o in Giordania, molti vivono ancora più lontano e hanno passaporti stranieri che permettono loro di visitare ciò che resta della loro città. Forse uno dei passi più importanti per invertire il processo della Nakba, che ha fatto a pezzettini il corpo palestinese e ne ha disperso i pezzi in tutti gli angoli della terra, è proprio intensificare gli sforzi per ricomporre questo corpo. Anche se questo non è fisicamente possibile a causa delle restrizioni sui viaggi imposte ai palestinesi da Israele, Internet e altri strumenti di comunicazione tecnologica possono giocare un ruolo efficace in questo processo. Altrettanto importante è la solidarietà internazionale di cui abbiamo bisogno per fermare la politica e la pratica concreta israeliana che fanno sì che la Nakba continui tuttora. A Jaffa la Nakba tuttora in corso fa sì che anche la resistenza sia costante. La nostra resistenza può non essere in grado di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, e forse noi non riusciremo a ritornare a vivere come se nulla fosse successo negli scorsi 60 anni, ma almeno possiamo agire per prevenire ulteriori sofferenze e l’ulteriore distruzione della nostra città e della nostra società. Possiamo lavorare per ricostruire la fama che aveva un tempo la Sposa del Mare. Gli autori dell’articolo, Sami Abu Shehadeh e Fadi Shbaytah sono abitanti di Jaffa, membri del Comitato Popolare per la Difesa della Terra e del Diritto alla Casa. Questo articolo, pubblicato sul sito di The Electronic Intifada (http://electronicintifada.net) il 27.02.2009, è stato originariamente pubblicato (fine 2008 / inizio 2009) nella rivista al-Majdal, trimestrale del Badil Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights (http://www.badil.org/). La traduzione è stata curata dal Comitato “Ricordare la Nakba” di Torino che ne ha modificato in parte la veste grafica . L’IMBROGLIO DEL CENTRO PERES PER LA PACE DI JAFFA L’ENNESIMA MISTIFICAZIONE ISRAELIANA SOSTENUTA DALLE AUTORITA’ ITALIANE FINANZIATA ANCHE CON I NOSTRI SOLDI L’ennesimo affronto alla città di Jaffa è stato creato nel 1996 dal presidente di Israele nonché premio nobel per la pace Shimon Peres. Si presenta come “centro per la pace”, “un’organizzazione indipendente, no-profit, nongovernativa con la missione di costruire un’infrastruttura di pace e riconciliazione tramite la quale la popolazione del Medioriente possa lavorare insieme per promuovere lo sviluppo socioeconomico, una cooperazione avanzata e la comprensione reciproca” (tratto dal sito: www.peres-center.org). Tutto questo attraverso uno stretto legame e la cooperazione con i governi arabi più moderati e filoccidentali della regione e con esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese legati ad Al-Fatah. Il tutto benedetto dai governi occidentali. CHI E’ SHIMON PERES? Per quanto riguarda l’ “uomo di pace” Shimon Peres il fatto che sia israeliano e perdipiù presidente “amico” dell’Occidente lo mette automaticamente al riparo dall’eventualità di essere condotto come criminale di guerra davanti ad un tribunale internazionale. Dagli anni 1947- 48 in cui armava le milizie terroriste dell’Haganà responsabili della pulizia etnica della Palestina, agli anni ’50 in cui fece imboccare ad Israele la via dell’armamento nucleare senza controlli internazionali, alla strage di Qana in Libano nel 1996 in cui 106 civili vennero arsi vivi nel campo dell’ONU attaccato dall’esercito israeliano (all’epoca Peres era Primo ministro), alla condivisione del progetto del Muro dell’apartheid in Cisgiordania. Il suo centro, generosamente finanziato da governi, enti locali, aziende, fondazioni e privati cittadini, serve pertanto a fornire l’ennesima mistificazione della realtà, per recuperare un’immagine sempre più deteriorata a livello internazionale. Alla fine del 2008 è stata inaugurata a Jaffa la Peres Peace House (Casa della Pace di Peres), nuova sede del Peres Center, ideata e costruita dall’onnipresente architetto italiano Fuksas, che l’aveva “sognata ad occhi aperti” quando l’uomo di pace Peres gli aveva parlato del progetto. Vista dall'esterno e' un parallelepipedo ottenuto dalla stratificazione di piani irregolari di vetro e cemento. Consiste di 800 pezzi tutti diversi fra di loro; non ha finestre. Nella “visione” del suo ideatore la stratificazione “esprime la sovrapposizione fra i due popoli in lotta, e le loro difficolta'”. “Ma ad infondere la speranza di pace sopraggiungono poi gli elementi trasparenti, portatori di luce” (!...) Fuksas la descrive come una patria per tutti i marinai e i naufraghi. “Un luogo non virtuale ma reale, che come il mare che gli sta di fronte simboleggia il luogo di partenza e il luogo di arrivo” (!...) . Peccato che il nostro Fuksas non sappia o finga di non sapere che questa Casa della Pace, è stata edificata su proprietà di profughi palestinesi confiscate. E’ inaccessibile dai quartieri arabi limitrofi, ed in effetti si apre solo sul mare, in un dialogo esclusivo con l’occidente cui unicamente si rivolge. Nelle parole di Meron Benvenisti, scienziato e politico israeliano, “Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei. Con atteggiamento colonialista, il centro presenta un olivicoltore che scopre i vantaggi della commercializzazione cooperativa; un pediatra che riceve un formazione professionale negli ospedali israeliani; un importatore palestinese che impara i segreti del trasporto delle merci attraverso i porti israeliani che sono famosi per la loro efficienza; e, naturalmente, gare di calcio e orchestre miste di israeliani e palestinesi, che danno una falsa immagine di coesistenza. (…) Il Centro Peres per la Pace non pubblica relazioni sulla catastrofica situazione economica dei palestinesi e non mette in guardia sulle responsabilità di Israele per questa situazione; dopo tutto, non è un club di anarchici che odiano Israele ma di persone rispettabili che contribuiscono principalmente alla pace nel finanziamento generoso di eventi scintillanti ai quali partecipano.” (in Haaaretz, 30.10.08) Il problema è che questo imbroglio lo finanziamo anche noi con i nostri soldi! Un accordo stipulato tra alcune regioni italiane (tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lazio, Calabria, Umbria, Friuli - Venezia Giulia, Piemonte) ed il Centro, prevede la cooperazione ed il finanziamento in particolare di un progetto particolarmente aberrante denominato “Saving Children” ( strana e forse non casuale la scelta di un nome che richiama quello di una nota e certo non così sospetta organizzazione umanitaria che si occupa dei bambini in varie zone del mondo…) . Il progetto è operativo dal 2003 e viene presentato come “a favore dei bambini palestinesi (…). In collaborazione con le strutture sanitarie israeliane e palestinesi, prevede la degenza e la cura in ospedali israeliani di bambini affetti da gravi patologie, non affrontabili attualmente dal sistema sanitario palestinese (il corsivo è nostro), e la formazione specialistica di medici palestinesi. (…) Non ha solo un evidente valore umanitario, ma anche un evidente significato politico. Mette in relazione i bambini palestinesi ed il personale sanitario israeliano, fa incontrare genitori palestinesi ed israeliani che condividono le stesse ansie e le stesse speranze (…).” Come si può notare, un quadro idilliaco che non ha nessun rapporto con la realtà fatta di ospedali palestinesi sotto embargo, privi di risorse o bombardati, personale medico palestinese sotto tiro e messo nell’impossibilità di soccorrere, operare o anche solo di formarsi o aggiornarsi. Feriti, malati, donne incinte bloccati per ore ai checkpoint… L’esercito israeliano fornisce quindi direttamente ed indirettamente l’utenza dei piccoli pazienti agli ospedali che aderiscono al programma “Saving Children”… Prima li bombardano… e poi li curano… anche con i nostri soldi. C’è da dire che a norma della IVª Convenzione di Ginevra, tutti i trattamenti a salvaguardia della salute della popolazione di un territorio occupato devono essere a completo carico della nazione occupante, in questo caso di Israele. Non ha senso quindi che la Fondazione “Centro Peres per la Pace” svolga questo compito usufruendo di fondi esterni. E non ci risulta infine che Israele rientri nella categoria dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”: è dunque inaccettabile il finanziamento delle infrastrutture di uno Stato economicamente avanzato, a maggior ragione poiché l’occupazione della Palestina è illegale dal punto di vista del diritto internazionale ed il terrorismo militare ai danni del popolo palestinese è un crimine che si ripete ogni giorno. La CAMPAGNA DI BOICOTTAGGIO contro il Centro Peres di Jaffa e contro i suoi amici, sostenitori e finanziatori anche in Italia rientra quindi pienamente a nostro parere nella campagna internazionale per il boicottaggio economico, politico, accademico e culturale (boicottaggio/disinvestimento/sanzioni) dello stato razzista di Israele. Ma il boicottaggio che proponiamo relativo a Jaffa non finisce certo qui… Il marchio JAFFA usato dalla Citrus Marketing Board of Israel, un corpo fondato nel 1940 e poi amministrato centralmente per promuovere gli agrumi “israeliani” in tutto il mondo. Oggi la CMBI dirige la strategia dell'industria israeliana degli agrumi, rappresenta i coltivatori e gli esportatori israeliani e amministra i diritti internazionali di autorizzazione per il marchio esclusivo Jaffa. Controlla anche le massicce coltivazioni piantate nel deserto del Negev e nelle valli interne. Finanzia e supervisiona le ricerche e lo sviluppo di programmi. Questa società cura quindi le esportazioni di agrumi (soprattutto arance e pompelmi ) e datteri. La società importatrice è la COFRES. Un altro prodotto da boicottare è la salsa per pizza: Jaffa- Mor BOYCOTT ISRAEL! CRUSH THE OCCUPATION! Questo dossier è stato curato dal Comitato Ricordare la Nakba di Torino, che aderisce al Comitato torinese per il boicottaggio (bds) di Israele fotocopiato in proprio via S.Ottavio 20 Torino aprile 09 – no copyright