L'INDIGNAZIONE
DELLE DONNE
29/01/2011
Raccolta di articoli a cura di Girolamo
Valenza
Articoli di Barbara Spinelli, Rossana Rossanda,
Benedetta Tobagi, Giulia Bongiorno, Nadia Urbinati,
Roberta De Monticelli
L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
la Repubblica
L' OSCENO NORMALIZZATO
di BARBARA SPINELLI
Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia
il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l' ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato
poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse
per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino
al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla
verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in
secondo grado di Dell' Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il
tremendo s' è fatto banale e scuote poco gli animi. Nella villa di Arcore e negli uffici di
Edilnord che Berlusconi - futuro Premier - avevaa Milano, entravano e uscivano con massima
disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di
primo piano: per quasi vent' anni, almeno fino al ' 92. Dell' Utri, suo braccio destro, era non
solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell' incontro a Milano
della primavera ' 74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere
di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest' ultimo lo
sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il
distaccamento a Arcore d' un «uomo di garanzia». La sentenza attesta che Berlusconi era
legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a
Bontate (nell' 87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s' aggiunga il «regalo» a Riina (5
milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia. Fu Dell' Utri, ancor
oggi senatore di cui nessuno chiede l' allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in
politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe
«finito sotto i ponti o in galera per mafia» ( la Repubblica, 25-62000). Il 10 febbraio 2010 Dell'
Utri, in un' intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della politica non frega
niente, io mi sono candidato per non finire in galera». C' è dell' osceno in questo mondo
parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi,
il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per
camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia
le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti,
uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell' Utrio il coordinatore Pdl
in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole
commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: «Il punto
fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare,è che tu devi essere ricattabile (...)
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Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibilea fare fronte,a
essere compartecipe di un meccanismo comunitarioe associativo attraverso cui si selezionano
le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livelloe la soglia di tollerabilità di questi
comportamenti è il corpo elettorale». Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è
sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici
infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi
trascurano spesso l' influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero,
ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico,
esibito. Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La
mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L' 1 agosto 1998,
Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell' economia:
«Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa,
ineguagliabile maestra d' indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a
corrompere anche la corruzioneea stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che
alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un'
afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni». In realtà le
controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell' illegalità. Da
settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella
crisi attuale- fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l' atomica che il Cavaliere
brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: «Se non vi
adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo
della politica della paura. Poco importa se l' ordigno infine non funzionerà: l' atomica dissuade
intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a
Berlusconi. Maè anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è
netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà.
Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagnache hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre per bande»
orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all'
astio che suscita per il solo fatto che impersona un' Italia che ama molto le persone oneste, l'
antimafia di Don Ciotti, il parlar vero. Questa normalizzazione dell' osceno è la vita che
viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo
reale e quale l' apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare
tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire
ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C' è molto da chiarire,a
distanza di anni, su quel che avvenne dopo l' assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare,
sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ' 92 - condividendo le
opinioni del ministro dell' Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere
duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi
favorevole a trattative. Congetturareè azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all'
ombra di un patto. Il patto non è obbligatoriamente formale. L' universo parallelo ha le sue
opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch' essa sembra costretta a
muoversi nel perimetro dell' osceno. Osceno è l' accordo con la giunta Lombardo, presidente
della Regione, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa». Osceno e tragico,
perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi. Non si può non avere un
linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando
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gli americani s' intesero con la Mafia per liberare l' Italia. L' accordo, scrive il magistrato
Ingroia, fu liberatore ma ebbe l' effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un
duraturo potere d' influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire,
promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l' era in cui la Mafia
infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana. Fino a che non dirà questo
il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l'
essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di
salvare non l' anima, ma l' Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo
il ' 45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel
novembre ' 44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro
col capo d' idra. Non crediate d' averlo ucciso».
la Repubblica19 gennaio 2011
Il sermone della decenza
di Barbara Spinelli
Dovrebbe esser ormai chiaro a tutti, anche a chi vorrebbe parlar d'altro e tapparsi le orecchie,
anche a chi non vede l'enormità della vergogna che colpisce una delle massime cariche dello
Stato, che una cosa è ormai del tutto improponibile: che il presidente del Consiglio resti dov'è
senza neppure presentarsi al Tribunale, e che addirittura pretenda di candidarsi in future
elezioni come premier. Molti lo pensano da tempo, da quando per evitare condanne il capo di
Fininvest considerò la politica come un sotterfugio.
Non un piano nobile dove si sale ma uno scantinato in cui si «scende», si traffica, ci si acquatta
meglio. La stessa ascesa al Colle resta, nei suoi sogni, una discesa in sotterranei sempre più
inviolabili. Molti sono convinti che i suoi rapporti con la malavita, la stretta complicità con chi
in due gradi di giudizio è stato condannato per concorso in associazione mafiosa (Dell'Utri), il
contatto con un uomo – Mangano – che si faceva chiamare stalliere ed era il ricattatore
distaccato da Cosa Nostra a Arcore – erano già motivi sufficienti per precludergli un luogo, il
comando politico, che sisuppone occupato da chi ha avuto una vita rispettosa della legge.
Ma adesso l'impegno a fermare quest'uomo infinitamente ricattabile perché incapace di
controllare la sua sessualità deve esser esplicitamente preso dai responsabili politici tutti, dalla
classe dirigente in senso lato, e non solo detto a mezza voce. È una specie di sermone che deve
essere pronunciato, solenne come i giuramenti che costellano la vita dei popoli. Un sermone
che non deleghi per l'ennesima volta il giudizio morale e civile alla magistratura. Che pur
rispettando la presunzione d'innocenza, certifichi l'esistenza di un ceto politico determinato a
considerare l'evidenza dello scandalo e a trarne le conseguenze prima ancora che i tribunali si
pronuncino. Ci sono reati complessi da districare, per i giudici. Questo non vieta, anzi impone
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alla politica di delimitare in piena autonomia la dignità o non dignità dei potenti.
Non è più solo questione del conflitto di interessi, che grazie alla legge del 1957 avrebbe sin
dall'inizio potuto vietare l'accesso a responsabilità politiche di un titolare di pubbliche
concessioni (specie televisive). Chi è sospettato d'aver pagato prostitute o ragazze minorenni,
d'aver indotto –sfruttando il proprio potere – un pubblico ufficiale a fare cose illecite, chi è
talmente impaurito dall'arresto di Ruby dal presentarla in questura come nipote di Mubarak,
chi ha avuto rapporti con mafiosi e corrotto testimoni o giudici, deve trovare chiuse le porte
della politica, anche se i Tribunali ancora tacciono o se vi son state prescrizioni. Attorno a lui
deve essere eretto una sorta di alto muro, che impersoni la legge, la riluttanza interiore d'un
popolo a farsi rappresentare da un individuo dal losco passato e dal losco presente. Tra
Berlusconi e la politica questo muro non è stato
mai eretto, nemmeno dall'opposizione quando governava. Se non ora, quando?
È così da millenni, nella nostra civiltà: una società ha anticorpi che espellono le cellule malate,
o non li ha e decade. L'ostracismo fu un prodotto della democrazia ateniese, nel VI secolo a.C.
Eraclito scrive: «Combattere a difesa della legge è necessario, per il popolo, proprio come a
difesa delle mura». Berlusconi non avrebbe dovuto divenire premier, e non perché si disprezzi
il popolo che lo ha eletto: non avrebbe dovuto neanche potersi candidare. Comunque, oggi, non
può restare o tornare in luoghi del comando che hanno una loro sacralità: non può, se la
coerenza non è una quisquilia, nemmeno presentarsi come patrono del proprio successore. Non
è un monarca che va in pensione.
Gli italiani più restii a vedere lo sanno, altrimenti non avrebbero acclamato in simultanea, da
16 anni, Berlusconi e tre capi dello Stato. È segno che in un angolo della coscienza, sognano
quel decalogo che nelle parole di Thomas Mann «altro non è che la quintessenza dell'umana
decenza»: il non rubare, il non pronunciare il nome di Dio invano, il non dire il falso, il non
sbandierare valori senza rispettarli, il non adulterare ciò che è chiaro e puro confondendolo con
il torbido e l'impuro. È come se i padri costituenti avessero presentito tutto questo, vietando
plebisciti di capi di governo o di Stato: come se condividessero la diffidenza di Piero
Calamandrei per l'inclinazione italiana alla «putrefazione morale, all'indifferenza, alla
sistematica vigliaccheria».
La responsabilità del sermone è dunque per intero nelle mani dei parlamentari, liberi per legge
da vincolo di mandato. Così come è in mano ai contro-poteri che costituzionalmente limitano il
dominio d'uno solo (parlamento, magistratura, stampa). Contro-poteri su cui la sovranità
popolare non ha il primato, se è vero che essa viene «esercitata nelle forme e nei limiti della
Costituzione» (art 1).
Già una volta, nella «chiamata di correo» di Craxi, i politici caddero nel baratro, degradando se
stessi. Fu il buco nero di Tangentopoli, e spiega come mai ancora abitiamo un girone dantesco
fatto di menzogna e omertosi sortilegi. Il buco nero sono le parole di Craxi in Parlamento, il 3
luglio '92:«Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra. (...) Ciò che bisogna dire, e
che tutti del resto sanno, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o
illegale.(...) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia (...) criminale,
allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in
quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di
dichiararlo spergiuro».
Difficile dimenticare il silenzio che seguì: nessun deputato si alzò, e ancor oggi la nostra storia
stenta a non essere storia criminale. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché i deputati che si
ritenevano onesti rimasero appiccicati alla poltrona. Craxi pagò appropriatamente, perché le
sentenze erano passate in giudicato e la legge è legge, ma pagò per molti: anche per
Berlusconi, che con il suo aiuto costruì il proprio apparato di persuasione televisiva e profittò
del crollo della Prima Repubblica sostituendola con un suo privato giro di corrotti e corruttori.
I deputati rischiano di restar seduti anche oggi, come allora: per schiavitù volontaria, o peggio.
Il sermone oggi necessario deve essere un impegno a che simili ignominie non si ripetano.
Proprio perché il conflitto d'interessi è sorpassato, e siamo di fronte a un conflitto fra decenza
e oscenità, fra servizio dello Stato e servizio dei propri comodi, fra libertinaggio innocente e
libertinaggio commisto a reati. Da molto tempo, c'è chi ha smesso di parlare di Palazzo Chigi:
preferisce parlare di palazzo Grazioli come sede dell'esecutivo, e fa bene. Che si salvi, almeno,
l'aura associata ai luoghi italiani del potere.
Domenica scorsa, Berlusconi ha fatto dichiarazioni singolari, oltre che ridicole. Definendo
gravissima, inaccettabile, illegale, l'intromissione dei magistrati nella vita degli italiani ha
detto:«Perché quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche
riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per
me». L'uguaglianza fra cittadini equivale per lui alla libertà di fare quel che si vuole, in casa:
anche un reato, magari. Non riguarda certo l'uguaglianza di fronte alla legge. L'antinomia
stride, e offende. Siamo ben lontani dall'ingiunzione di Eraclito, se tutto diventa lecito nelle
mura domestiche, e non appena succede qualcosa di criminoso l'uguaglianza cessa d'un colpo,
e comincia l'età dei porci di Orwell, in cui tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli
altri.
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
“il manifesto” 22 gennaio 2011
E ora su la testa
di Rossana Rossanda
Non è piacevole essere oggi un'italiana all'estero. Tanto meno se si è stata una sia pur
minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui
l'antipolitica fa venire il nervoso. E per di più comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa
di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il
laboratorio politico più interessante d'Europa.
Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi
chiedono: Com'è che l'avete votato tre volte? Che è successo all'Italia? Una come me si trova a
balbettare.Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che
ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un'azienda di sua proprietà,
che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi
exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».
E' vero che l'Italia lo ha votato e rivotato. E' vero che non c'è traccia di una destra formalmente
civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di
una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli
è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le
faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell'Italia è berlusconiana, l'altra metà è
azzittita, e non c'è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai
minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C'è qualche verità nelle
vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media,
che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a
sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto
o per togliersi le mutande.
Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe
sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una
unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento
rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la
repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell'ammodernamento giuridico di Napoleone
al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo.
Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che
soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il
paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato
finché i comunisti non si sono uccisi da soli.
Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari
tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l'Europa va a destra. Ma da
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noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce
ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un
milione di copie.Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e
i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del
Pantheon, a gridare: Basta!
Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so
se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne
frega.
Indigniamoci !
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
la Repubblica 22 gennaio 2011
La riscoperta dell'indignazione
di Benedetta Tobagi
Trentadue pagine in cui articola l'imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali
ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all'emergenza
ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha
venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a
ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta
a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal
2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi,
hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l'immagine di broker,
amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava
ammirazione e invidia.
Il piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere
cinematografiche,letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye
mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein,
il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni,
denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione
selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l'economia occidentale reggeva hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell'acquiescenza di larga parte
dell'opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è
morta l'illusione della crescita indefinita e dagli Usa all'Europa la cittadinanza comincia a
fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di
frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente l'Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato
dall'affaire Ruby. L'affiorare di sussulti d'indignazione popolare che rompono l'indifferenza
compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L'indignazione viene
invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in
stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e,
come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di
"un'etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell'indignazione? Quale funzione
può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L'indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall'ingiustizia, come l'odio e la rabbia.
Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l'indignazione è
sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento
verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il
sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995):
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
"il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È
ingiusto!'?".
Nell'indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora
non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto
Saviano -che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche
di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier
conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga
di Harry Potter.
L'invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla
massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall'impatto distruttivo
delle forze impersonali dell'economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell'indifferenza
prima che sia troppo tardi. Dall'oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda
"Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della
giustizia nuoce all'intero corpo sociale, nel lungo periodo. L'indignazione marca il punto di
rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile
impulso verso l'agire politico.
Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell'indignazione" non
basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale
giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso
d'ingiustizia è il contrassegno universale dell'umanità: l'indignazione, spesso, è selettiva. Nel
'68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non
parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna
a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso
determinante.
Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle
esistenti. L'uomo indignato odia l'ingiustizia e l'argine che lo trattiene dal volgere quell'odio
contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come
l'unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon,
1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà
sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall'uso della
violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.
Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale,
in cui può annidarsi un'"utopia dell'invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea
argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica
col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che
l'indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un'"etica-anestetica". Lo sdegno
monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi
la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La
parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il
ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all'ipocrisia: tutti si indignano
davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia
alla ricevuta fiscale.
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L'indignazione, se non prosegue in un
programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la
carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a
lungo. C'è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e
direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall'etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti
il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l'economia dell'empatia, la radicale
americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni
finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le
controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e
sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.
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L'INDIGNAZIONE DELLE DONNE
la Repubblica 21 gennaio 2011
Noi donne calpestate non possiamo tacere
GIULIA BONGIORNO
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Caro direttore, quando è in corso un´indagine che riguarda un personaggio pubblico,
l´immancabile amplificazione mediatica che ne consegue è insidiosissima. Di solito, gli
elementi divulgati sono soltanto quelli raccolti dai pubblici ministeri. Si finisce così per
attribuire il crisma di verità a tesi parziali.
E l´idea che se ne fa l´opinione pubblica può risultarne alterata. Da avvocato, sento quindi
l´obbligo di sottolineare che l´indagine sul premier Silvio Berlusconi non deve fare eccezione:
prima di formulare giudizi in merito alla fondatezza delle accuse mossegli dalla Procura,
bisogna senza dubbio attendere gli sviluppi processuali. Fatta questa doverosa premessa,
voglio però subito precisare che non sono affatto d´accordo con quanti usano questo
ragionamento come arma per stroncare ogni tipo di riflessione critica: in questi giorni ho infatti
sentito invocare la presunzione di innocenza per mettere a tacere chi contestava non la
consumazione di reati ma fatti storici oggettivamente emersi, fatti che nessun processo potrà
mai cancellare.
In definitiva, se prima di condannare è necessario aspettare che si faccia chiarezza sulla
sussistenza di certi reati, non si può ignorare che non tutto quanto è emerso in questi giorni è
"in attesa di giudizio": il contesto oggettivo in cui sarebbero maturate le vicende processuali
non ha improvvisamente squarciato un velo e mostrato un profilo imprevisto e del tutto inedito
del premier.
Nelle aule di Milano si discuterà se Silvio Berlusconi abbia o meno consumato i reati di
prostituzione minorile e di concussione, ma non erano necessarie le vicende sottostanti a
queste contestazioni – né una sentenza – per conoscere la sua opinione sulle donne.
Un´opinione che, se non ha rilevanza penale, ha tuttavia un´enorme rilevanza politica.
Un´opinione da lui stesso espressa in modo inequivocabile con battute, barzellette, colloqui
pubblici e privati. Un´opinione già delineatasi attraverso le dichiarazioni di Veronica Lario,
quelle più recenti di Barbara Berlusconi (due testimoni molto attendibili), le vicende di Noemi
Letizia e Patrizia D´Addario, nonché attraverso la singolare questione di alcune donne prima
forse inserite nelle liste delle candidature alle Europee del 2009 e poi da quelle liste
sicuramente scomparse. Quello che Silvio Berlusconi sembra maggiormente apprezzare nel
genere femminile è l´avvenenza, al punto da far passare in secondo piano requisiti di ben altro
spessore (credo sia rimasta impressa nella memoria di tutti la rozzezza della battuta
all´onorevole Rosy Bindi); ancora meglio, poi, se a un aspetto fisico di un certo tipo si
accompagnano giovane età, accondiscendenza e disponibilità ad abdicare al proprio spirito
critico.
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Di fronte a tutto ciò, ho sentito obiettare che si tratterebbe di questioni attinenti alla vita
privata del premier e che dunque – appunto per questo – dovrebbero riguardare soltanto lui e la
sua coscienza.
No, non è così.
Non c´è spazio per sostenerlo: lo stile e la filosofia di vita di un uomo che riveste la carica di
presidente del Consiglio non possono non ripercuotersi sulla vita pubblica. Lo dimostra il fatto
che Berlusconi, con le sue parole e i suoi comportamenti, ha inferto una ferita a tutte le donne
italiane: alle donne che studiano e lavorano (spesso percependo stipendi inadeguati o, come nel
caso delle casalinghe, senza percepirli affatto), a tutte noi che facciamo fatica un giorno dopo
l´altro; alle donne che per raggiungere ruoli di rilievo non soltanto a certe feste non ci sono
andate, ma hanno semmai dovuto rinunciare a vedere gli amici; a quante, invece di cercare
scorciatoie, hanno percorso con dignità la strada dell´impegno e del sacrificio. E a coloro alle
quali è stato chiesto, più o meno esplicitamente, di scegliere tra vita privata e vita pubblica,
perché conciliare un figlio con il successo sarebbe stato troppo difficile: con il risultato che
hanno rinunciato alla maternità o che ci sono arrivate ben oltre il momento in cui avrebbero
voluto.
A ciascuna di loro – nel momento in cui le donne vengono scelte e "premiate" in base non al
merito ma a qualcos´altro che con la professionalità, l´impegno, l´intelligenza ha poco o nulla
a che fare – è stata riversata addosso l´inutilità del suo sacrificio.
Brucia, questa ferita. Brucia anche perché non sfugge che sono davvero in tanti a sottolineare,
forse persino con un pizzico d´invidia, la fortuna e il fascino di un uomo più che maturo
circondato da giovanissime più o meno avvenenti che si contendono i suoi favori, pronte a
tutto pur di compiacerlo. Anche se, in un paese maschilista come il nostro, la complicità tra
uomini turba ma non sorprende.
Ma non si tratta esclusivamente di una ferita inferta alla dignità della donna, c´è di più; mai le
battaglie del presidente del Consiglio hanno coinciso con le battaglie delle donne. Basterebbe a
tal proposito ricordare che negli elenchi delle priorità di questo governo, che via via vengono
snocciolate, figura di tutto – in primis, battaglie contro magistrati "comunisti" – , ma mai, mai,
battaglie a favore delle donne. Come se le donne non avessero problemi concreti e indifferibili.
Come si può ipotizzare che le leggi per combattere pm "politicizzati" siano più urgenti di
quelle che dovrebbero venire incontro alle necessità di tutte noi?
E allora non copriamo con l´alibi del segreto istruttorio, o con il fragile scudo della privacy,
ciò che segreto non è, e nemmeno riservato.
Ma sono le donne che per prime devono farsi forti della loro dignità e della consapevolezza del
loro valore – senza distinzione di età, credo politico, provenienza geografica – per esprimere a
voce alta lo sdegno che questa mentalità suscita, ne sono sicura, nella stragrande maggioranza
di noi.
Se credono, gli uomini continuino pure ad ammirare e a sostenere Silvio Berlusconi; le donne,
per favore, no.
Presidente commissione Giustizia della Camera
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la Repubblica
IL PREMIER E IL FATTORE SESSUALE
NADIA URBINATI
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Citando la massima evangelica "chi è senza peccato..." il Presidente della Regione Lombardia
Roberto Formigoni ha commentato che «quello che sta venendo a galla [a proposito del
presidente del Consiglio] non è qualcosa di confortante, ma si tratta di accompagnare alla
malinconia di quello che sta uscendo anche la considerazione del fatto che va rispettato il
diritto di privacy di qualcuno». Questo argomento ripete uno schema popolare - quello morale
e religioso che viene riproposto ogni qual volta Silvio Berlusconi deve fare i conti con gli
effetti pubblici della sua vita privata. Ma questo argomento è assolutamente fuori luogo nella
riflessione politica e al più retorico, fatto più per giustificare il presidente del Consiglio che
per dar conto di quel che sta avvenendo nel nostro Paese.
Quanto si legge in questi giorni sulle abitudini private del premier collima con quando
Veronica Lario aveva a suo tempo affermato circa la patologia del marito e dovrebbe essere la
base per una riflessione che non è per nulla di tipo morale o spirituale, ma ha invece a che
vedere con la competenza stessa del primo ministro a svolgere le sue funzioni. A questo
giudizio si può giungere se si prendono in considerazione gli studi sulle emozioni in politica,
un settore di ricerca sempre più importante e attrezzato scientificamente.
Le emozioni sono stati fisiopsicologici che gli studiosi includono tra i "fattori viscerali" del
comportamento, fattori che la ragione fa una certa fatica a dominare, tanto da aver bisogno di
appoggiarsi su strategie supplettive o di sostegno. Gli studiosi del comportamento includono
questi "fattori viscerali" nella categoria generale di quelli fisiologici, come la fame, la sete, il
bisogno di evacuare; il desiderio sessuale è tra questi. E come gli altri, esso può generare
comportamenti compulsivi che sono di ostacolo alla decisione perché nelle loro forme estreme
interferiscono fortemente con il comportamento razionale e le sue regole. Per questa ragione, si
mettono in campo strategie supplettive, come quando si suggerisce per esempio ai mediatori di
conflitti o ai negoziatori di non bere caffè prima del lavoro che devono compiere perché
essendo un diuretico esso può interferire con l´azione razionale e distrarre l´agente al punto di
fargli fallire il suo compito. Lo stesso si fa con gli studenti che si presentano a un concorso
quando si suggerisce loro di astenersi dal bere o mangiare determinate sostanze prima della
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prova d´esame per evitare di trovarsi a dover gestire bisogni non controllabili nel momento
meno opportuno. Il fattore sessuale non controllato è un "fattore viscerale" di questo tipo - la
cultura, ovvero l´educazione morale e dei comportamenti pratici opera sugli esseri umani fin
da piccoli proprio per renderli in grado di regolare queste emozioni. La questione non è
moralistica dunque, ma funzionale e pratica: lo scopo dell´educazione delle emozioni deve
mirare a fare degli individui persone capaci di gestirsi autonomamente nel rapporto con gli
altri ed essere agenti collettivi efficaci.
Questo è il caso che riguarda gli italiani oggi, un caso legato all´abnorme vita sessuale del loro
premier, rispetto alla quale gli attori pubblici, dai politici ai media agli stessi cittadini, non
dovrebbero che pronunciare giudizi di efficienza, pertinenza e competenza. Una persona che
sente acuto il bisogno di mangiare, che soffre la fame, è probabilmente non un buon politico;
non perché ciò mette in dubbio le sue incapacità cognitive - probabilmente si tratta anzi di una
persona dalle grandi potenzialità - ma per la sua fattuale e oggettiva dipendenza da fattori che
sono fuori del suo controllo e urgenti. Soddisfare l´appetito per chi è affamato è il primo e più
impellente bisogno: tutto il resto viene dopo. Così, una persona che organizza la propria vita
lavorativa in funzione di un dopolavoro di rilassamento sessuale del tipo di quelli al quale il
nostro premier si dedica con studio sistematico, non è la più adatta a occuparsi degli affari di
Stato, perché altro ha per la testa che più urge e che lo distrae non semplicemente dalla sua
funzione pubblica, ma dall´interesse a fare della sua funzione pubblica una funzione efficiente
e direttamente soggetta al suo controllo sempre, non qualche ora del giorno. Il politico,
soprattutto quando occupa ruoli di responsabilità così alti come quello della presidenza del
Consiglio dei ministri non è attore politico solo qualche ora della sua giornata, ma ventiquattro
ore, sempre a disposizione poiché sempre responsabile di qualsiasi evento anche d´eccezione
che può capitare a una comunità e rispetto al quale egli ha il dover prendere decisioni. Per
questa ragione, anche il dopolavoro di rilassatezza, certamente umanissimo e necessario, non
può essere mai un totale dopolavoro con una totale rilassatezza.
Le emozioni sono dunque un fatto del quale non è possibile non tener conto, soprattutto
quando esse riguardano funzioni non facilmente razionalizzabili. Le loro forme estreme o
compulsive non solo condizionano la cognizione, ma in molti casi la tengono sotto scacco.
Sosteneva Michael Liebowitz che "l´alchimia dell´amore" - cioè del desiderio sessuale - "è
simile a quella prodotta dalle anfetamine poiché riduce l´attenzione, ha effetti acuti sulla
consapevolezza del mondo e le percezioni della realtà e può perfino condizionare altre
emozioni fisiopsicologiche come la fame e la sete. Inoltre, ha effetti che durano
prevedibilmente diverse ore mettendo la persona in una oggettiva condizione di difficoltà
cognitiva e pratica. Chi di noi affiderebbe i propri interessi a una persona che ha questo genere
di emozioni? La questione che sta di fronte al nostro Paese è quella del tipo chiarito da questa
domanda; ed è una questione di incompetenza funzionale non tanto di peccato, veniale o
mortale che sia.
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UNITA' 20 dicembre, 2010
Gli italiani e la sindrome della bandiera bianca
di Roberta De Monticelliì,
in “l'Unità” del 17 dicembre 2010 Il teologo Vito Mancuso era intervenuto nei giorni scorsi
sul tema della questione morale. Quella che segue è la risposta-riflessione della filosofa
Roberta De Monticelli
Caro Vito, in questi giorni in cui il disprezzo per le istituzioni repubblicane, l’etica e perfino la
politica ha toccato il suo zenit, vorrei che cominciassero a riaprirsi le finestre almeno al vento
fresco el pensiero. Prendo spunto dalla tua riflessione sulla questione morale (la Repubblica,
11dicembre), e tento di tradurre in atto lo spirito di libertà, di ricerca e di critica che spero
continuerà ad animare la nostra Università, anche con la tua presenza e il tuo aiuto. Nonostante
l’ombra che laminaccia: il sospetto che brillanti centri di ricerca come il nostro siano
accomunati con un imbroglio come l’università-Cepu, agli occhi del pubblico, dal fatto che
attingano anche a risorse pubbliche. .Questo, io credo, tutti i docenti dovrebbero chiedere a
gran voce, che fino all’ultimo centesimo l’erogazione di risorse pubbliche sia, in perfetta
trasparenza, giustificata in proporzione al merito:ma l’abbiamo fatto? No, non l’abbiamo fatto,
o non abbastanza fermamente e chiaramente, tutti, auna sola voce. E perché non l’abbiamo
fatto? Per scetticismo. È solo un esempio, quello da cui riparto. Il saggio da cui ha preso
spunto la tua riflessione cerca di identificare le radici dello scetticismo pratico che divora la
vita civile del nostro Paese. .Lo scetticismo, cioè, che corrode non solo l’etica pubblica, ma ha
invaso tutte le sfere dove il nostroagire è guidato dai nostri giudizi di valore. E soprattutto
blocca ogni tentativo di ricostruire quella che ho chiamato l’unità della ragione pratica, vale a
dire una fondazione nuova, e se possibile feconda di nuove scoperte, dei nessi fra etica, diritto
e politica. Intese fra l’altro tutte come sfereaperte anche alla ricerca di conoscenza, cioè in
ultima analisi di verità. So di trovarti su questo ultimo punto in sintonia con il mio tentativo.
Ma vorrei che si aprisse una discussione su quello chea me sembra continui a gravare, irrisolto
equivoco, su questo tipo di ricerca. Perché da una parte leviene detto: l’etica è l’etica, la
politica è la politica, e cercare il nesso fra le due già significa“criminalizzare l’avversario”,
preparare lo Stato etico, Robespierre, la virtù e il terrore (interpretocosì, magari nobilitandole
un po’, le recenti obiezioni di Marcello Veneziani, il Giornale, 27novembre e 4 dicembre). In
altre parole, non c’è possibile radicalità etica, ma solo radicalismo politico, tanto più
pericoloso in quanto giustizialista e moralista. Ma dall’altra parte le viene detto:c’è un enigma
del male, cui è la politica che è chiamata a far fronte, e a volerlo combattere risvegliando le
coscienze alla serietà dell’esperienza morale “si entra in monastero, non nelParlamento
italiano”. Tu dici giusto: ma “serietà” è in primo luogo una proprietà che si
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riconosceall’esperienza morale, se la si considera vera esperienza del bene e del male, capace
di nutrire vera conoscenza: e se non ricominciamo da qui, se non la prendiamo sul serio
neppure noi filosofi, chimai potrà farlo? A lasciar la mano ai cosiddetti realisti politici non si
sta finendo per dire, ancorauna volta, che nelle Città e nelle Istituzioni - tutte, comprese quelle
del sapere e della ricerca, le nostre università, pubbliche e private, ferite ma anche colpevoli che la ricerca di ragione e giustificazione là dove impera la forza è cosa da “anime belle”? Ma
non è così che nel secolo scorsoi filosofi hanno tradito il loro compito, e lasciato la civiltà in
mano ai demagoghi?Ecco: nell’insegnarci a chiedere “perché?” a noi stessi e agli altri, in ogni
punto e in ogni momento del nostro dire, ma anche del nostro fare, è il cuore sempre pulsante
della ragione e della filosofia. Socrate insegna a Eutifrone che non la tradizione, la religione o
il mito sono risorsa normativa, malo è il fatto che vediamo il male. Dimenticarlo è una grande
parte dell’equivoco, caro Vito: non hanno rimproverato anche a te una sorta di intellettualismo,
di ignoranza del male di cui l’uomo è capace, contro il quale appunto nascono etica, diritto,
politica? Come se Socrate, come se la filosofia o la ragione ignorassero il dato, il dato stesso
che le risveglia: il male, appunto, che sappiamo fare. Torti, ineguaglianze, illibertà, ingiustizie
e altre cose che gridano vendetta
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il caso Ruby l`indignazione delle donne raccolta di articoli