Maximum Wellbeing
St. Moritz | Engadina | Svizzera
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Corea, perché
mauro della porta raffo
Due Paesi, lo stesso popolo.
Sessant’anni di dure contrapposizioni ideologiche e la libera Corea
del Sud è tra le nazioni più avanzate e ricche al mondo, mentre
quella del Nord, comunista e profondamente medioevale, è senza
dubbio il Paese maggiormente arretrato nell’orbe terracqueo, povero fino all’indigenza.
Una singolarità assoluta.
Memorie, testimonianze storiche straordinarie (quelle del reverendo Moon e di Fernando Mezzetti), analisi…, e, per cominciare, la
Guerra di Corea nel ricordo.
E la religione, la cucina, la cultura, il folklore…
E i risultati calcistici che ci hanno visti soccombenti…
Certo, migliaia le pagine che andrebbero riportate e
scritte…
Ecco il vantaggio vero di una pubblicazione on line: non è mai
definita e definitiva.
Ringrazio i tantissimi che hanno contribuito, e in particolare
Mauro Sarasso, presidente della Associazione per l’amicizia tra Italia e Corea.
Sogna, Sarasso, la riunificazione.
Alla luce della compiuta vicenda storica e delle tante testimonianze sugli umori al riguardo dei giovani coreani del Sud, il suo – non
me ne voglia - è appunto un sogno.
Dissensi & Discordanze
Pubblicazione indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da Mauro della Porta Raffo
Numero Speciale | marzo 2014
Design grafico e impaginazione
Paolo Marchetti
www.paolomarchetti.net
Webmaster
Michele Castelletti
www.uptimevarese.it
www.dissensiediscordanze.it
In copertina:
Anita Romeo,
Non c'è niente da ridere..., 2014
Anita Romeo
Nata a Varese nel 1976 si è diplomata al Liceo Artistico
A. Frattini nel 1994 e alla Scuola di Pittura dell’Accademia
di Belle Arti di Brera nel 1999.
Dopo varie esperienze lavorative come disegnatrice di moda,
dal 2004 lavora come Illustratrice free lance.
Disegna soprattutto libri per l’infanzia, e dipinge.
Fra i suoi clienti:
Case editrici italiane ed estere (Mondadori, Gribaudo, RL
Gruppo Editoriale, De Agostini, Readers Digest, Pearson,
Oxford University Press, Ballon, Cornelsen, Macmillan,
Holland Publishing, Igloo Books),
Agenzie Pubblicitarie (Y&R, TBWA, Wunderman, Tax Free
Design ,Cherries, Euro RSCG, Enfant Terible,JW Thompson)
Riviste (Elle Italia, Cosmopolitan, Computer Art).
Altri clienti:
Coin, Ferrero, Fiabe per Dire, All4Cycling.
indice degli articoli
dissensi&discordanze — numero speciale corea
Corea perché — Mauro della Porta Raffo...................................................................................................... 1
Il fenomeno Corea del Sud e i rapporti Italia/Corea oggi — Riccardo Monti......................... 4
Non basta dire Corea — Gianfranco Fabi intervista Andrea Goldstein................................................... 9
La Guerra di Corea — Mauro della Porta Raffo.......................................................................................... 11
La Guerra di Corea vista da un bambino — Paolo Granzotto........................................................... 13
Mao e Stalin alla vigilia della Guerra di Corea — Irene Affede Di Paola................................... 15
Guerra di Corea: perché l’URSS non oppose il veto
in sede ONU — Fernando Mezzetti................................................................................................................... 17
L’unico Paese al mondo nel quale non tornerei — Aldo Cazzullo.............................................. 19
La fatal Corea (calcisticamente parlando) — Italo Cucci.............................................................. 20
Kim Soo Ki — Mauro della Porta Raffo............................................................................................................ 23
1988: Le Olimpiadi di Seul — Mauro della Porta Raffo................................................................................ 24
Perché la Corea — Edoardo Croci................................................................................................................ 26
UNIFICAZIONE DELLA COREA — Michael Breen............................................................................................ 28
Cosa c’è di sbagliato in me? — Michael Breen......................................................................................... 33
Un chicco di riso è più grande della Terra — Reverendo Sung Myung Moon.............................. 35
L’esecuzione di Jang Song Thaek e la (probabile) svolta
di Kim Jong Un — Piergiorgio Pescali........................................................................................................... 41
La Svizzera e la Corea — Marco Bagutti/Giovanni Poletti......................................................................... 43
Yut, il gioco tradizionale coreano..................................................................................................... 49
Cucina e sapori di Corea — Duk-Lim Lee................................................................................................ 51
The Little Angels of Korea — Mauro Sarasso......................................................................................... 59
Il patrimonio religioso della Corea — Young Oom Kim.................................................................. 63
La curiosa (e sfortunata) autoevangelizzazione della Corea — Rino Cammilleri............. 72
Brevi cenni sulla cultura coreana — Valerio Anselmo..................................................................... 75
A proposito di arte coreana con una intervista a Minyung Kim — Gianbattista Rosa....... 77
Il cinema coreano — Massimo Bertarelli.................................................................................................... 85
Viaggio ai confini della realtà
nella Repubblica Democratica e Popolare di Corea — Fernando Mezzetti................................ 86
La bomba dei Kim — Marco Aurelio............................................................................................................... 103
Due eccellenze industriali coreane: Hyundai e Samsung
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Dissensi & Discordanze
Il fenomeno
Corea del Sud
e i rapporti
Italia/Corea oggi
Riccardo Monti
presidente ITA
Quando si parla di Corea del Sud, vengono subito in mente i suoi
tanti primati mondiali.
Primo paese produttore di schermi LCD, per connessioni internet
in banda larga nelle abitazioni (novantasei per cento delle utenze),
nella cantieristica navale, secondo produttore di telefoni cellulari.
Ma anche quarta potenza economica dell’Asia dopo Giappone,
Cina e India con un PIL di un miliardo e cento milioni di dollari e
un reddito pro-capite di ventitremila dollari.
Il livello di istruzione è tra i primi cinque al mondo e la Corea del
Sud conquista anche un ottimo settimo posto nel rapporto annuale della World Bank “Doing Business 2014”.
Situata geograficamente in una delle zone più dinamiche del mondo (il nordest asiatico produce il ventidue per cento circa del PIL
mondiale), la Corea è un paese tecnologicamente avanzato, patria
di colossi dell’elettronica e delle telecomunicazioni come Samsung
e LG, con una rete infrastrutturale efficientissima e un aeroporto
internazionale, Incheon, che per otto anni di seguito (2005–2012)
si è aggiudicato il titolo di migliore aeroporto del mondo.
La capitale Seul, che conta oltre dieci milioni di abitanti, è in continuo mutamento e offre una qualità della vita in costante miglioramento e proiettata verso una massiccia opera di ammodernamento
dei propri servizi e strutture, il che la rende sempre più attraente
anche per gli “expats”.
L’innovazione riveste un ruolo preponderante nello sviluppo del
paese: il Global Innovative Index di Bloomberg Businessweek
ha posto la Corea come secondo paese al mondo per grado d’innovazione.
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Dissensi & Discordanze
Luci di Seul
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L’economia coreana è passata dalla fine degli anni Cinquanta a
oggi da uno stato d’indigenza alla ribalta degli scenari mondiali.
Protagonisti di questo sviluppo rapido e continuo sono stati i
grandi conglomerati coreani, cosiddetti “chaebol”, in particolare
Samsung, Hyundai, LG e SK.
Il fatturato dei primi dieci gruppi industriali costituisce oltre il
settantacinque per cento del PIL nazionale e il grado di dipendenza dai “chaebol” dell’economia coreana tocca oggi oltre il cinquanta per cento.
Samsung è il primo produttore mondiale in almeno tre settori ad
alto contenuto tecnologico: microchip e memorie, batterie ricaricabili e schermi video, con un export che costituisce il diciassette
per cento del totale del Paese, mentre Hyundai-Kia è oggi il
quarto produttore mondiale di autovetture.
La Corea del Sud è una democrazia ormai matura ove l’economia
ha mostrato nel 2013 segnali di rallentamento, pur sempre lievi
se comparati con l’andamento delle principali economie mondiali.
La crescita è stata ridotta al due e sette per cento anche a causa
del calo delle esportazioni nei paesi industrializzati colpiti dalla
crisi economica, mentre per il 2014 le previsioni sono già risalite
al quattro.
Sul piano internazionale più vasto, alla crescita economica e
all’ammodernamento delle infrastrutture è corrisposto un cammino che ha portato il paese a entrare nei principali consessi mondiali come l’APEC e il G-20 (quest’ultimo ospitato nel 2010), e a
fornire alla propria politica commerciale validi strumenti a supporto, quali i numerosi accordi di libero scambio (FTAs) conclusi con l’Unione Europea (luglio 2011), con gli USA (novembre
2011), e con molti altri paesi tra il 2009 e il 2012.
Grazie a questa diplomazia commerciale oggi la Corea gode d’interscambio liberalizzato sul sessantuno per cento del mercato
globale.
L’Italia è il terzo partner commerciale europeo, dietro Germania
e Regno Unito.
Nei primi undici mesi dello scorso anno il nostro export nel paese asiatico è stato pari a quattro miliardi e ottocento milioni di
dollari (più dieci e otto per cento rispetto ai primi undici mesi
del 2012), mentre l’import ha registrato una flessione del cinque e quattro, attestandosi a due miliardi e ottocento milioni di
dollari.
I settori trainanti per l’export italiano sono la meccanica strumentale e gli articoli in pelle.
Sia pure con valori ridotti, buona la performance delle altre voci
del made in Italy tradizionale – come la moda - e del vino che riscuote interesse crescente presso il pubblico coreano: venticinque
milioni virgola tre di USD l’export italiano nei primi undici mesi
del 2013 (più diciassette per cento) e una crescente copertura
sulle riviste specializzate.
Così pure per la gastronomia e il lifestyle.
Dal canto suo, la Corea fornisce all’Italia principalmente mezzi
di trasporto, plastica, ferro e acciaio.
Sul fronte degli investimenti c’è ancora strada da fare.
Gli investimenti italiani in Corea nel 2012 sono stati nove per
un totale di sette milioni e mezzo di dollari, mentre nel periodo
gennaio-novembre del 2013 vi sono stati dieci casi per un ammontare di un milione e seicentomila.
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Attualmente nella Corea del Sud risultano esserci solo tre unità
produttive d’origine italiana: Arneg, per la produzione di celle frigorifere per alimenti; Marposs, che dispone di una catena
di assemblaggio di componentistica di precisione per macchine
utensili e Mapei, che ha acquisito Henkel Korea.
Tutti gli altri investimenti italiani sono uffici di rappresentanza
commerciale diretti per la maggior parte da coreani.
Una considerazione a parte merita la FIAT, che è ritornata ufficialmente in Corea all’inizio del 2012 dopo oltre quindici anni di
assenza dal mercato, lasciato in occasione della crisi finanziaria
del 1997 quando la KIA, suo partner locale, aveva dichiarato
bancarotta.
Il modello presentato è quello della nuova Cinquecento, che viene distribuito attraverso la rete di concessionari Chrysler, in questi giorni acquisita da FIAT.
Gli investimenti coreani in Italia sono ugualmente scarsi, sia per
le difficoltà causate dalla struttura industriale italiana fondata
su imprese medio-piccole, sia per la complessità della macchina
burocratica e per le barriere linguistiche.
Secondo i dati del 2012 dell’Export – Import Bank of Korea,
gli investimenti coreani in Italia ammontano a dodici milioni e
seicentomila per un totale di ventidue casi, contro i centotrentaquattro della Germania (cinquantadue investimenti) e i centoquarantotto della Francia (diciannove investimenti).
Le imprese europee che dispongono di un know-how in ambito
tecnologico sono quelle più ambite.
Il 2014 segna il centotrentesimo anniversario dell’apertura
delle relazioni tra Italia e Corea ed è intenzione delle istituzioni italiane a Seoul promuovere questa celebrazione in ogni
occasione che si presenterà, prima tra tutte la mostra Italy
with Style organizzata dall’Agenzia ICE il 10 e 11 febbraio,
che porterà a Seoul centodiciassette aziende italiane dei settori moda, pelletteria, calzature, cosmesi, gioielleria, pellicce
e occhialeria, per offrire nuove opportunità e idee innovative
al mercato coreano.
Dissensi & Discordanze
Non basta
dire Corea
Gianfranco Fabi intervista
Andrea Goldstein,
economista dell’Ocse
Da paese poverissimo a superpotenza mondiale.
In soli cinquant’anni la Corea (del Sud) è diventata un paese
industriale di prima grandezza con punti di eccellenza nei
settori ad alta innovazione.
Una dinamica spiegata con chiarezza da Andrea Goldstein,
economista dell’Ocse, che ha vissuto nel paese asiatico proprio per esaminare a fondo le caratteristiche dell’economia
coreana.
In questa intervista, realizzata per il mio programma
‘Economia in pagine’ di Radio 24, Goldstein, autore del
libro ‘Il miracolo coreano’ (Ed. Il Mulino), spiega la grande trasformazione degli ultimi anni.
“La Corea era un paese povero non solo cinquanta anni fa.
Anche quando organizzò le Olimpiadi nel 1988, non poteva
certo essere ancora considerato un paese avanzato.
Senza dimenticare che è stata guidata per anni da un regime
fortemente autoritario, certo un regime tenacemente anticomunista, ma ugualmente molto lontano dai modelli delle
democrazie moderne.
Ma anche sul fronte politico vi è stato un passaggio altrettanto
rapido tanto che ora la democrazia coreana può essere sicuramente paragonata come regole e come rapporti politici alle maggiori
democrazie europee.”
Quindi la politica ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita
economica?
“Indubbiamente sì.
Quello coreano è stato un miracolo perseguito con una precisa volontà, con una strategia ben definita, con una politica economica
che ha visto il sistema pubblico svolgere un ruolo particolarmente forte, un ruolo caratterizzato da una significativa capacità di
programmazione, con una stretta verifica dei risultati e adattando
quindi anche nel tempo le modalità di intervento.
Soprattutto in alcuni settori, come quelli nucleare o dell’alta velocità ferroviaria, i forti investimenti pubblici hanno indirizzato la
ricerca e l’innovazione con una ricaduta positiva per tutto il sistema economico.”
è stata proprio questa politica a facilitare la crescita delle grandi
imprese divenuta in pochi anni delle multinazionali?
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“è stata sicuramente una strategia perseguita dal Governo per una
serie di ragioni.
Le grandi imprese hanno naturalmente maggiori potenzialità di
innovazione, ma nello stesso tempo limitano il numero degli interlocutori con cui le autorità politiche devono fare i conti per la
propria azione.
Ora l’industria nucleare coreana è tra le più avanzate: è stato pochi
mesi fa vinto un appalto per la costruzione di una centrale negli
Emirati arabi.
E così nell’alta velocità le tecnologie ferroviarie si confrontano ad
armi pari con quelle francesi, tedesche o giapponesi.”
Anche l’Italia ha avuto il suo miracolo negli anni ’50, ma ora che
cosa possiamo imparare dalla Corea?
“Una delle caratteristiche della realtà coreana è la grande attenzione che è stata data negli ultimi decenni all’educazione e alla
formazione.
Un’attenzione non solo della politica, ma anche come esigenza condivisa dalle famiglie tanto che uno dei problemi del paese, che peraltro
ha conti pubblici perfettamente in ordine, è l’alto livello di indebitamento delle famiglie determinato più che dalle spese per la casa, dal
pagamento delle rette scolastiche, e soprattutto universitarie, dei figli.
Questa realtà è alla base di una vicenda apparentemente paradossale:
una manifestazione organizzata dai dipendenti di una grande azienda
perché venisse innalzata l’età pensionabile.
Perché andare in pensione vuol dire vedersi ridurre il proprio reddito
con inevitabili difficoltà a far quadrare i conti familiari.”
Un capitolo del libro è dedicato alla Corea del Nord, un territorio che
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prima della guerra era addirittura più sviluppato del Sud e che ora si
trova agli ultimi posti nelle classifiche mondiali.
“La vicenda della Corea del Nord è in fondo la dimostrazione dell’importanza del ruolo della politica: fattore di sviluppo al Sud, elemento
di controllo e di freno al Nord.”
Ma insieme alla politica è necessaria anche una convergenza di interessi e di obiettivi…
“è questa una delle caratteristiche della dimensione coreana.
Se pensiamo al cambiamento che è avvenuto non possiamo dimenticare come in Italia negli anni ’50 erano definite ‘Coree’ le periferie
urbane emarginate e degradate.
E quando nel 1966 un dentista coreano (peraltro del Nord), Pak Doo
Ik, mandò a casa con un suo gol la nazionale italiana ai mondiali di
calcio del 1966, la Corea era anche descritta come un paese in via di
sviluppo.
C’è stata una forte convergenza tra volontà politica e consenso
popolare.
C’è stato, come detto, un concentrare gli sforzi nel sostegno all’educazione.
C’è stata una politica di deciso sostegno allo sviluppo delle infrastrutture: ora, per esempio, la Corea ha due compagnie aeree e
l’aeroporto di Seul è ai primi posti nelle classifiche mondiali per
crescita ed efficienza.
C’è stato il consolidarsi di una logica di sistema che ha portato l’economia coreana a raggiungere risultati di rilievo anche in settori, come
quello alimentare, dove non c’erano grandi tradizioni o particolari
esperienze”.
Dissensi & Discordanze
La Guerra
di Corea
mauro della porta raffo
Cocincina.
C'era una volta la Cocincina.
Avevo quattro, cinque anni e ascoltavo alla radio che in Cocincina
un certo Bao Dai combatteva per il suo popolo contro i comunisti.
Per il vero, sentivo anche parlare dell'Indocina, dei francesi che
colà impegnavano le loro truppe migliori, della mitica Legione Straniera.
Una qualche confusione alla quale posi rimedio
anni dopo.
Per la geografia consultando il 'Piccolo Atlante De
Agostini' che mio padre prese a regalarmi annualmente a partire dalla mia terza elementare.
Per la storia leggendo le voci inerenti nell''Enciclopedia Motta', comprata a fascicoli verso i nove,
dieci anni e che conservo gelosamente.
(Più tardi, tredici/quattordicenne, Samuel Fuller
al cinema con il suo 'China Gate' e Graham Greene in letteratura con ‘The Quiet American’, mettendo in campo anche gli americani, mi fecero ripiombare in quell'incertezza in merito dalla quale
credevo d'essere uscito).
Fascino, per la miseria, fascino.
Terre lontane, scontri ideologici i primi dei quali avevo e conservo notizia - una lotta feroce nella
foresta, fiumi immensi, combattenti eroici...
E come potrei dimenticare Nat
'King' Cole che nel predetto 'China Gate' mette il piede sopra una
selva di chiodi che lo straziano e
grida, urla senza emettere un suono per non avvertire il nemico della presenza della 'nostra' pattuglia
('nostra', perché mi ero schierato)?
E anni ed anni dopo, le testimonianze di Nando Macchi e Rudy Testoni,
due legionari varesini, che raccontavano dei cadaveri dei loro commilitoni morti bruciati con i lanciafiamme ad evitare l’insorgere di malattie
epidemiche...
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E Dien Bien Phu, la resistenza e la resa di Dien Bien Phu.
Un dolore indicibile.
Ecco, bambino o poco più che fossi, la ‘Guerra di Indocina’ mi è
rimasta nel cuore, mi ha segnato.
Perché non altrettanto la ‘Guerra di Corea’?
Certo, l’ho studiata.
Certo, McArthur era un vero duro, alla John Wayne, direi, e la decisione da lui presa di attaccare i coreani sbarcando a Inchon fu straordinariamente efficace.
Dwight Eisenhower
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Certo, l’aveva decisa l’Onu ed era una novità da questo punto di vista.
Certo, c’era questa storia del trentottesimo parallelo.
Tutto quel che volete, ma non mi ha per nulla appassionato.
La ricordo, infine, solo perché, in corso ancora nel 1952, fu uno dei
temi all’ordine del giorno nella campagna per White House tra il
repubblicano Dwight Eisenhower e il democratico Adlai Stevenson,
E il primo, eletto con largo margine, come aveva promesso chiedendo
il voto ai suoi concittadini, la chiuse con l’armistizio di Panmunjeon.
Era il 27 luglio del 1953.
Adlai Stevenson
Dissensi & Discordanze
La guerra di
Corea vista da
un bambino
Paolo Granzotto
Dapprima per me la corea fu una strana e alquanto bizzarra malattia, quella che ti faceva ballare la rumba.
Doveva essere abbastanza comune se nei miei prischissimi anni,
sfollato nella bassa mantovana, chissà quante volte udii dire di uno
particolarmente agitato: “Al ga la corea”.
O anche, stavolta a uno che si voleva mandare altrimenti a quel
paese: “Ch’at vengna na corea”.
Che poi seppi, ma molto, molto più tardi, che indicava la malattia
di Huntington e che dovevasi pronunciare, traendo dal vocabolo
latino che indica la danza corale, còrea.
La Corea in quanto tale irruppe nel mio così detto immaginario
che avevo dieci anni.
Individuata sull’Atlante Geografico De Agostini (in verdolino, mi
par di ricordare), strumento che non mancava in una casa che voleva essere dabbene, lì per lì mi parve troppo lontana per potermi
interessare.
E invece mi interessò perché c’era la guerra.
E la guerra ai bambini piace da matti.
Specie ai bambini – era il mio caso – che da una guerra uscivano
per così dire a bocca asciutta.
Non avendola, cioè, vissuta appieno causa ridotte capacità intellettive conseguenti, appunto, alla tenera età.
Detto così, tra parentesi, da testimone diretto posso smentire nella
maniera più decisa un luogo comune caro alla società civile di area
pacifista.
E che cioè le prime vittime della guerra siano i bambini.
Non ci si riferisce, qui, a quanti nel conflitto persero la vita o patirono gravi danni personali, che quelli vittime furono davvero.
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Ma di coloro che secondo il luogo comune ne
subirono, anche senza averne piena coscienza,
le conseguenze psicologiche negative.
Quando mai.
Da adulti sì: paure, preoccupazioni, disagi e
privazioni erano all’ordine del giorno.
Ma non a quello dei piccoli, impossibilitati a
rendersi conto, di avvedersi e comprendere le
relazioni tra causa, effetto e conseguenze di ciò
che li sovrastava.
La Corea, dunque.
La guerra in diretta.
Niente Cnn allora ed anzi, niente televisione.
Nemmeno Internet e i tweet e gli hastag dell’informazione globale e, va da sé, in tempo reale.
Ma c’era la radio e i giornali che sul conflitto
qualche notizia pur la davano.
Così mi divennero familiari certi nomi dei protagonisti e dei luoghi: Syngman Rhee, Douglas MacArthur, Ridgway e Clark da un lato;
Kim il Sung e Georgj Malenkov dall’altro.
La Manciuria e le isole Curili, il Trentottesimo
parallelo e alla fine, sopra tutti, Panmunjeon.
Aiutavano molto le cartine periodicamente
pubblicate dai giornali e altrettanto periodicamente aggiornate sulla linea del fronte.
Nella fase iniziale, prima che i nostri (i nostri, i miei, erano
ovviamente gli americani. Mi risultava che al tutto soprain-
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tendesse una cosa chiamata Nazioni Unite e
che ci fossero militari di altri contingenti – i
miei preferiti
erano i canadesi, i belgi e gli olandesi – ma
la guerra, questo non sfuggiva nemmeno agli
occhi d’un marmocchio, la conducevano i marines), prima che i nostri, dicevo, passassero,
al contrattacco le cartine erano da batticuore.
La zona tratteggiata, quella dei nostri, si riduceva infatti sempre più sotto l’incalzare
dell’orda rossa.
Alla fine (settembre del ’50?) non ne rimase
che una misera porzione.
Una specie di Fort Alamo del quale, però,
come la storia insegna, non fece la fine.
Molto apprezzate e lungamente esaminate,
poi, le fotografie dei mezzi militari che fecero
la loro comparsa in quel teatro di guerra: gli
aerei a reazione e gli elicotteri.
E intriganti i disegni che mostravano la tattica
nemica: una rete di cunicoli dove cinesi e nord
coreani se ne stavano inguattati di giorno per
sgattaiolarne fuori di notte (ma s’era mai vista
una cosa del genere?), menando morte e panico nelle fila dei gloriosi marines.
Che pure “From the Halls of Montezuma - To
the shores of Tripoli”, come canta il loro inno, ne avevano in
passato viste di cotte e di crude.
Dissensi & Discordanze
Mao e Stalin
alla vigilia
della guerra
di Corea
Irene Affede Di Paola
Quando nella Cina imperiale del primo millennio d.c. dominava la dinastia Tang, nella penisola coreana avveniva
l’unificazione dei tre regni sotto il monarca Silla, che nel
668 prese il titolo di imperatore di Corea.
I rapporti tra i due imperi furono, nel tempo, di sospetto
reciproco, ma anche di periodi di tolleranza.
La Corea era il baluardo contro il nemico Giappone, ma
anche la prima terra di conquista per chi voleva entrare
in Cina dal mare del nordest.
Dopo la sconfitta giapponese del 1945, la Corea fu occupata a settentrione dai sovietici e nel sud dalle forze americane.
A nord governava Kim Il Sung e a sud Syngman Rhee.
Piuttosto sconosciuto il secondo, ridicolizzato, ma temuto il
primo.
Kim Il Sung.
Sopra, Syngman Rhee
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Persino Stalin, nella riunione globale dei capi di stato comunisti, in
occasione del suo settantesimo compleanno, parlando con Mao, disse
che Kim Il Sung era l’unico pericolo di invasione nemica per la Cina e
che quindi non si doveva temere alcuna minaccia alla pace.
Il presidente nord coreano non era così stupido come lo riteneva Stalin, sapeva bene che invadere la grande Cina non era alla sua portata
e neppure conquistare il Giappone aldilà del mare, ma penetrare la
Corea del sud era molto più facile.
Lo fece trascinando le due super potenze, URSS e USA, sull’orlo di un
conflitto, costringendo la Cina a prepararsi allo scontro militare con
gli americani, tutori della Corea del sud.
Nel 1949 le potenze occupanti la penisola si ritirarono, ma i due presidenti coreani continuarono le scaramucce, convinti che uno dei due
dovesse soccombere, lasciando all’altro la riunificazione.
In realtà, tra i due paesi non c’era e tutt’ora non c’è, un vero e proprio
confine di stato.
Il trentottesimo parallelo, che doveva segnare il limite territoriale, ha
una collocazione arbitraria e fluttuante, ma né l’uno né l’altro dei contendenti si sogna rivendicazioni così minoritarie, aspirando o a tutta
la Corea, o a mantenere lo status quo.
Durante l’estate del ’49, Kim Il Sung aveva cercato di convincere Stalin e Mao ad appoggiarlo nell’invasione della Corea del sud, ma entrambi erano riluttanti.
Stalin nel primo incontro con Mao da presidente della Cina, gli chiese
un’opinione in proposito e la risposta fu che non si doveva troppo
tirare la corda con gli imperialisti, la Cina preferiva porsi nel mezzo
tra Unione Sovietica e Stati Uniti, così da mantenere la garanzia della
pace e qualche piccolo privilegio.
Il linguaggio fiorito e simbolico di Mao fu questo:
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“... degli Stati Uniti non ci si può fidare, ti danno una merendina e
niente più.
Come potrebbe l’imperialismo darti un pasto completo?
Non lo farà mai “
L’idea di Mao era quella di rivolgere le sue energie alla conquista di
Formosa, ma Kim Il Sung approfittò di questa intenzione cinese per
anticipare la sua pretesa di conquista della Corea del sud, ben sapendo
che Washington non avrebbe sopportato due conquiste comuniste e
quindi si sarebbe dovuto prendere tutta la penisola, prima che Mao
invadesse Tai Wan. Nel 1950 gli Stati Uniti ritennero ormai consolidato lo stato sud coreano, riconosciuto da quasi tutto il mondo, nello
stesso tempo, però, Mosca aveva dato il consenso a Kim Il Sung per
la riunificazione.
Egli volò segretamente da Mao per annunciare il via libera, ma non
trovò alcuna soddisfazione dall’interlocutore cinese che vedeva prospettarsi un nuovo conflitto tra le potenze e magari un rialzare la testa
in campo internazionale da parte di Formosa, consolidando la propria
forza militare.
Tornato a Pyongyang , con il benestare sovietico e quello estorto a
Mao, Kim Il Sung invase la Corea del sud. Dopo dieci anni, ancora
non era chiaro chi avesse effettivamente avallato la dichiarazione di
guerra di Kim Il Sung, se Stalin o Mao o tutti e due. All’inizio del
1960, Kruscev dichiarò che Stalin mai e poi mai avrebbe voluto un
conflitto se Mao non lo avesse caldeggiato.
La Cina, naturalmente, replicò che era falso e che il loro presidente era
stato contrario all’invasione della Corea del sud e che a volere la guerra
era stato solo Stalin. La verità era che entrambi i paesi, Urss e Cina
volevano far ricadere l’intera responsabilità su Kim Il Sung e la Corea
del nord e, in parte, per l’opinione pubblica, ci riuscirono.
Dissensi & Discordanze
Perché l’URSS
non oppose il veto
in sede ONU
Fernando Mezzetti
La guerra di Corea è storicamente percepita nella sostanza come
una guerra degli Stati Uniti in risposta all'invasione del Sud da
parte del Nord.
Ma formalmente non è così.
Fu una guerra delle Nazioni Unite per respingere l'invasore.
Gli Stati Uniti ebbero il maggior onere nel confitto, ma essi si impegnarono su richiesta e mandato da parte dell'Onu, e al loro fianco parteciparono vari Paesi, con contributi più o meno consistenti.
L'Italia fu presente simbolicamente, con un ospedale da campo.
è da tempo accertato che l'invasione fu preparata a Mosca, approvata da Stalin, e i piani di attacco predisposti dai generali dell'Armata Rossa.
Appare quindi inspiegabile la passività del Cremlino davanti alla
reazione delle Nazioni Unite: queste infatti sostengono senza esitazioni la ferma risposta degli Stati Uniti, dando ad essa copertura
per quella che resta la maggiore operazione militare sotto vessillo
Onu, eguagliata dalla guerra del 1991 all'Iraq, fatta da Stati Uniti
e altri Paesi su mandato Onu.
Mosca avrebbe potuto facilmente impedire che gli americani agissero sotto lo scudo dell'Onu.
Sarebbe bastato esercitare il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, e gli americani avrebbero dovuto agire da soli, senza copertura
Onu e solidarietà internazionale.
Mosca, invece, non partecipò neanche alle sessioni del Consiglio di
Sicurezza in cui si condannava il Nord.
Il 27 giugno 1950, subito dopo l'attacco, il Consiglio di Sicurezza
approva una mozione Usa con cui si impegna l'Onu a dare alla
Corea del Sud l'aiuto necessario per respingere l'aggressione del
Nord.
Il 7 luglio il Consiglio di Sicurezza decide di costituire un comando Onu per la Corea del Sud con a capo Douglas Mac Arthur, e
autorizza l'invio di un corpo di spedizione a combattere in Corea
sotto bandiera Onu.
Mosca resta a guardare.
Invece che cercare di bloccare tutto esercitando il diritto di veto,
neanche partecipa alle votazioni in Consiglio di Sicurezza,
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dando di fatto via libera agli americani.
Nel dare l'approvazione per l'invasione, grazie alla quale avrebbe
potuto incombere sul Giappone occupato dagli Usa, Stalin non
pensava che gli americani avrebbero risposto con fermezza.
Poco prima, avevano subito la perdita della Cina senza alcun serio
tentativo di opporsi ai comunisti di Mao: per quale motivo avrebbero dovuto reagire all'occupazione della penisola coreana?
Vedendo invece la ferma risposta Usa, Stalin adattò la sua strategia
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in parallelo alla passività in Consiglio di Sicurezza: niente veti, ma
assenza, per "facilitare" l'intervento Usa in Corea.
Un errore di calcolo strategico diventava così una trappola per gli
Usa: trascinarli a impegnarsi in una guerra che sarebbe stata lunga
e difficile.
La rinuncia sovietica al veto in Consiglio di Sicurezza diventava
così una spinta agli Stati Uniti su questa china, puntando al loro
logoramento.
Dissensi & Discordanze
L’unico Paese
al mondo
nel quale
non tornerei!
alDO CAZZULLO
Confesso una debolezza: ogni volta che vedo un mappamondo o
un'imago mundi, comincio a contare i Paesi in cui sono stato.
Ognuno mi ispira un ricordo, un rimpianto, una nostalgia.
In ognuno tornerei domattina, magari in compagnia di persone
care, cui farlo scoprire.
Adoro il Marocco, dopo l'Italia forse il più bel Paese del mondo.
Sono fiero di aver percorso lo Yemen evitando non tanto i sequestratori quanto le sassate dei ragazzi arrabbiati con gli occidentali.
Mi sono divertito in Indonesia a scommettere a un combattimento
di galli, di cui avevo letto solo nei romanzi.
Mangiare dal pentolone del capo villaggio degli Zafimaniri, in
Madagascar, è stata un'emozione che valeva l'influenza intestinale
che è seguita.
C'è un solo Paese in cui non tornerei mai: la Corea.
Non voglio mancare di rispetto ai coreani e ai loro rappresentanti
nel nostro Paese.
Apprezzo l'iniziativa di Mauro della Porta Raffo di dedicare a un
Paese emergente e già importante questa rivista.
Ma la Corea la ricordo come un incubo.
(Quella del Sud; figurarsi il Nord, in cui non sono mai stato).
Mangiano i cani.
Quasi nessuno comprende una qualsiasi parola di qualsiasi lingua
occidentale.
Gli effluvi e gli odori per strada sono sgradevoli, almeno alle nostre
narici. Molti tassisti di Seul - un inferno metropolitano - non capiscono l'indirizzo degli alberghi (colpa nostra che non li sappiamo
pronunciare in coreano, per carità), e se mostri loro il bigliettino
con il nome te lo restituiscono dicendo che sono analfabeti.
Per gli occidentali non c'è il consueto interesse che ho trovato negli
altri Paesi asiatici.
Soprattutto, da italiano non ho apprezzato il trappolone con cui ci
eliminarono dai Mondiali di calcio del 2002.
Ma forse è solo per questo che non amo la Corea.
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Dissensi & Discordanze
La fatal Corea
(calcisticamente
parlando)
ITALO CUCCI
Ho partecipato a dieci Campionati del Mondo di calcio.
Potevano essere dodici, credo un record altrettanto mondiale.
Ma nel 1966 - esattamente il 19 luglio - il tipografo coreano Pak Doo-Ik segnò il gol che cacciò l'Italia di Mondino
Fabbri dal Mondiale inglese.
E io non presi più l'aereo per Londra.
Ero redattore di Stadio e il mio capo, Aldo Bardelli (il
giornalista che, nominato nella commissione tecnica
federale, ancora sotto choc per la tragedia del Grande
Torino del '49 aveva deciso di portare la Nazionale al
Mondiale del Brasile, nel '50, non in aereo ma in nave,
con esito tragicomico) mi aveva promesso: "Se l'Italia
passa il turno la mando in Inghilterra".
Avevo ventisette anni, ci contavo, e le avversarie
dell'Italia - Cile, URSS e Corea del Nord - mi davano speranze.
Ma quel 19 luglio l'infortunio a Bulgarelli, entrato in campo con
un ginocchio malandato, uscito e non sostituito perché allora non
era previsto (fu presa allora la decisione di introdurre una sostituzione) favorì l'impresa dei ‘Ridolini’ - come li aveva definiti Valcareggi - realizzata da un diabolico pallone di Pak Doo-Ik sul quale
inutilmente volò il grande Ricky Albertosi.
Persi il treno mondiale ma feci uno scoop scovando, dopo il ritorno
in Italia degli azzurri accolti a pomodorate, il loro leader Edmondo Fabbri che per evitare i cronisti famelici si era rifugiato nel
Monastero di Camaldoli.
‘Mondino’ mi consegnò un dossier con le testimonianze di Facchetti e altri giocatori che giuravano di essere stati drogati prima
del match con la Corea.
Ai Mondiali andai, finalmente, nel '74, in Germania, quando divenni capo dello sport al Resto del Carlino.
Il mitico Settanta me l'ero giocato scegliendo di lavorare al Guerin
Sportivo del Conte Alberto Rognoni, a Milano: il Guerin era un
gran giornale ma non aveva soldi e ai Mondiali del Messico
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per noi erano andati Gianni Brera e Mino Mulinacci a spese del
giornale che li aveva in carico, ‘Il Giorno’ di Pietra e Rozzoni.
La mia Corea non l'ho mai dimenticata e nel Duemila, invitato a
Seul dagli organizzatori coreani del Mondiale 2002, chiesi subito ai miei ospiti di portarmi a Panmunjon, il villaggio diviso dal
confine fra Sud e Nord dove nel '53 era stato firmato l'armistizio
(anche il tavolo della storica firma è diviso in due).
Della guerra di Corea avevo vissuto le paure e le emozioni portate
dai film americani nei Cinquanta (il mio eroe era il Generale MacArthur) e visitai commosso il campo dov'erano conservati i carri
armati, gli aerei, le armi e le divise di quel conflitto.
Col mio povero inglese chiesi agli accompagnatori la differenza
sostanziale fra nordisti e sudisti.
“Quelli del Nord sono molto magri!”, mi rispose con una grassa
risata il capo della delegazione; e subito tifai per i poveri sciagurati
di Pyongyang e mi battei per convincere i signori di Seul a presentare una Nazionale mista nel 2002, tentativo in parte riuscito ai
Giochi Olimpici di Sydney.
Con modi garbatissimi nascosero il fastidio e fecero grandi promesse.
Ma il giorno dopo, proprio per farmi capire che la vera grande ricca Corea era solo quella del Sud, mi portarono a una visita trionfale
alla più grande azienda del Paese, la Hyundai, precisando che non
si trattava soltanto di una fabbrica di automobili: navi, aerei, treni,
tutto nasceva in quella città/azienda dove fui accolto con straordinaria gentilezza.
Nel salone d'onore, seduto su un piccolo scranno che dominava
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un'assemblea di dirigenti (mi mancavano solo corona e scettro)
dovetti ascoltare le glorie dell'azienda peraltro tradotte in italiano
su un foglio, feci a mia volta un discorsetto, ricevetti piccoli regali,
compreso un saluto sonoro di Chung Hong-Joon, il Padrone, e
all'uscita dalla fabbrica mi fu consegnato un lussuoso album con
tutte le foto della mia visita appena conclusa.
..........Quando il 31 maggio del 2002 mi presentai al World Cup
Stadium di Seul per il calcio d'inizio fra Senegal e Francia, uno
dei miei antichi ospiti mi fece notare che un fatto storico si era
realizzato: non la presenza della Corea del Nord ma quella del
Giappone, l'odiatissimo Giappone col quale era stato organizzato
il Mondiale e che lì era rappresentato da un componente la famiglia imperiale seduto accanto al premier sudcoreano.
Mi tornò in mente quel che un ceramista coreano (aveva una figlia
che studiava a Faenza) mi aveva detto dei giapponesi invasori nella Grande Guerra: avevano operato una mostruosa pulizia etnica
massacrando migliaia di uomini, violentando altrettante donne
per ingravidarle e tentando di estirpare la lingua coreana.
Quelli erano i veri nemici, non i ‘magri’ fratelli del Nord.
Un miracolo del calcio, si disse.
Ma il meglio doveva venire: il leader dei Mondiali - e vicepresidente della FIFA con il grande capo Blatter - era proprio Chung
Hong-Joon, il padrone della Hyundai, e allora scrissi - anticipando
le imprese dell'arbitro Moreno, che l'Italia avrebbe vissuto un'altra
Corea.
Dopo Pak Doo-Ik ci mandò a casa Ahn Jung-Hwan, giocatore del
Perugia...
Dissensi & Discordanze
Kim Soo Ki
MAURO DELLA PORTA RAFFO
Come ha già raccontato Italo Cucci, nel 1966, esattamente il
19 luglio, l’Italia calcistica subiva l’onta forse peggiore della propria storia facendosi eliminare dalla Corea del Nord nel
corso del Mondiali londinesi. Ma a ben guardare, già meno di
un mese prima – il 26 giugno - un
altro clamoroso accadimento sportivo aveva stupefatto il nostro Paese: la sconfitta con la conseguente perdita del titolo di campione
del mondo dei pesi medi junior di
Nino Benvenuti in quel di Seul ad
opera dello sconosciutissimo coreano Kim Soo Ki.
Era costui uno degli avversari che
lo stesso Benvenuti aveva trovato
e battuto nelle Olimpiadi romane
del 1960 nella galoppata trionfale che lo aveva portato alla medaglia d’oro dei pesi welter.
Battuto per la prima volta in
carriera con verdetto non unanime e in campo avverso, Nino
ebbe buon gioco, una volta tornato in Italia, nell’affermare di
essere rimasto vittima di un
vero e proprio furto.
Del resto, di quel match ben pochi sapevano qualcosa e le giustificazioni addotte stavano
abbastanza in piedi.
Il povero Kim, per conseguenza, fu ritenuto un
usurpatore non degno di una corona mondiale.
Meno di due anni, ed ecco che il 28 maggio 1967 il
misterioso coreano arriva in Italia.
Una cospicua borsa (l’organizzatore dirà, parlando
di lui “Ho reso ricco un povero”) lo convince ad
accettare di incrociare i guantoni sul ring appositamente collocato nello stadio di San Siro con Sandro
Mazzinghi.
I numerosissimi spettatori nell’occasione si spellarono
le mani assistendo a uno dei più combattuti e spettacolari incontri mai combattuti tra le dodici corde.
Il nostro Sandro prevalse, ma Kim Soo Ki vendette
molto cara la pelle dimostrandosi pugile durissimo e
tenace, di certo non indegno del titolo che aveva detenuto un paio d’anni e che ora lasciava al toscanaccio
Mazzinghi dopo spietata lotta.
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Ben Johnson
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Dissensi & Discordanze
1988: Olimpiadi
di Seul
MAURO DELLA PORTA RAFFO
L’assegnazione dei giochi olimpici a una città, e quindi a una nazione, da parte del Comitato Olimpico Internazionale
è sempre un riconoscimento, è un segnale.
Quando, nel 1981, il predetto consesso decise a favore di Seul e
della Corea del Sud lo fece riconoscendo alla metropoli e al Paese gli infiniti progressi compiuti da molteplici punti di vista e
il raggiungimento di uno stato di benessere economico e sociale
commendevole.
D’altra parte, spesso se non sempre, la richiesta avanzata al CIO
ha anche la finalità di raccogliere forze e risorse tese ad ulteriori
miglioramenti.
Quella di Seul - 17 settembre/ 2 ottobre 1988 - è stata una bellissima edizione dei giochi purtroppo passata alla storia in specie per
la squalifica per doping del centometrista Ben Johnson.
Centocinquantanove i Paesi partecipanti.
Ottomilacinquecento gli atleti.
Sei, per la storia, le medaglie d’oro conquistate dall’Italia.
Certo, nell’occasione, la Corea del Sud si appalesò a livello internazionale come uno Stato moderno e pronto per un decollo economico di grandissima portata.
Gelindo Bordin
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La Samsung Tower
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Dissensi & Discordanze
Perché la Corea?
EDOARDO CROCI
“Perché la Corea?” è il titolo dell’opuscolo che l’ambasciatore italiano
a Seul, Andrea Leggeri, mi consegnò al termine del mio breve viaggio
nel maggio 2009.
“Me lo chiedono tutti i visitatori italiani, soprattutto gli imprenditori”, mi disse per spiegarmi le ragioni di quel titolo, “perché dovrebbero
puntare e investire su questo Paese (naturalmente è della Corea del
Sud che parliamo, perché quella del Nord, oltre ad essere retta da
un feroce dittatore è quasi inaccessibile). Nell’opuscolo le ragioni, di
carattere politico, economico, e culturale, erano chiaramente spiegate.
La Corea è un Paese politicamente stabile, economicamente dinamico,
culturalmente vivace e presenta grandi opportunità per l’Italia, anche
se gli italiani non lo sanno. Ma questo ormai l’avevo capito.
L’avevo capito sin dalla sera del mio arrivo all’aeroporto della capitale
coreana, dove ero arrivato – allora nella veste istituzionale di assessore alla mobilità e all’ambiente del Comune di Milano – per promuovere l’EXPO 2015 e per partecipare all’incontro annuale del C40
‘Climate Leadership Group’, l’esclusivo club delle maggiori metropoli
del mondo impegnate in un ambizioso progetto di difesa del clima e
dell’ambiente, in cui Milano stava per essere accolta. Come spesso mi
capitava, ero l’unico assessore in un consesso di sindaci (ma la Moratti
sapeva che non avrei fatto sfigurare Milano). L’incontro, rigorosamente a porte chiuse, aveva come speaker d’eccezione Bill Clinton.
Ma torniamo al momento dello sbarco dall’aereo in un Paese per me,
fino a quel momento, sconosciuto. Appena arrivato vengo prelevato
con mia moglie Marina (chiariamolo, visti i tempi, con trasferta rigorosamente a mie spese; unico benefit la partecipazione allo ‘spouse
program’ dove ha partecipato ad un corso per servire il te, operazione
che svolta secondo i canoni orientali necessita di almeno una mezz’ora) dall’ambasciata italiana e portato a sorpresa al teatro dell’opera
di Seul. Trovo un teatro dall’impatto visivo monumentale, pieno fino
all’ultimo posto e mi accomodo pronto a subire una delle tante serate
‘etniche’ che bisogna fingere di apprezzare in questo genere di missioni. Invece si susseguono pezzi d’opera lirica cantati in italiano da
interpreti coreani che non sfigurerebbero alla Scala. Scopro così che i
coreani (di cui ora conosciamo solo Gangnam Style) impazziscono per
la musica italiana, soprattutto per l’opera. Molti vengono a formarsi
nel nostro Paese, di cui ammirano la storia e la cultura. Lo spettacolo
si conclude con Giovanni Allevi che, da anticonformista, in jeans e
scarpe da tennis, in mezzo a smoking e papillon, incanta il pubblico
con le sue composizioni, accolto come una vera pop star. Alla fine tutti
a cena in un ristorante italiano dove – ancora una volta smentendo i
miei pregiudizi – mangiamo benissimo a base di prodotti italiani di
alta qualità (e anche qui scopro che i coreani sono dei fanatici della
cucina italiana; me lo conferma l’ambasciatore regalandomi una guida
al centinaio di ristoranti italiani di Seul).
Questa è solo la prima sera. Il viaggio mi riserva molte sorprese positive sulla Corea e mi fa capire che noi i coreani li conosciamo poco, ma
loro ci conoscono benissimo, o meglio conoscono benissimo i nostri
lati positivi. Forse dovremmo ricordarceli anche noi ogni tanto.
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Dissensi & Discordanze
Unificazione
della Corea
Alla nuova generazione di sud coreani non interessa,
ma presto dovranno cambiare idea
Michael Breen
(autore di “I coreani
e Kim Jong-il: il ‘caro
leader’ del Nord Corea)
Stavamo osservando dalla cima di una collina l’intersezione dei
due fiumi Han e Imjin, esattamente nel punto dove l’invisibile
linea di confine fra le due Coree scorre nell’acqua fin verso il mare,
quando Jun Arem, una ragazza coreana di ventitre anni, alzò gli
occhi dal suo telescopio, da quella che per lei era la prima visione
del Nord comunista e mi chiese, “Hai un cerotto?”
Sandali nuovi, mi spiegò.
Il dolore al piede la stava uccidendo.
La signorina Jun è il tipico esempio della nuova generazione per
cui indossare una scarpa alla moda è molto più importante che
essere a conoscenza della Corea del Nord con le sue armi nucleari
e gulag e di qualsiasi altra cosa possa capitare lassù.
Infatti i miei due figli teenager che si trovavano con noi e che
ne sapevano di più di lei per via dei telegiornali e del film ‘Team
America’, mostravano decisamente maggior interesse.
Osservavano elettrizzati con i loro telescopi le colline distanti in
cerca di costruzioni nei villaggi pochi km lontani dai fiumi, cercando segni di vita e ponendo domande.
“Dieci anni fa,” mi spiegò Ms Jun, massaggiandosi i piedi durante
in nostro rientro verso Seul, “se avesse chiesto a chiunque quale fosse il suo sogno, le avrebbe risposto l’unificazione del Paese,
adesso invece tutti desiderano solo essere ricchi, di successo e felici.
Se quando ero alle elementari avessi detto che sognavo di essere
felice, mi sarei sentita colpevole.
Ora al contrario posso dire senza rimorsi che non mi interessa l’unificazione.”
In altre parole, la sua mancanza di interesse non è passiva: è attiva, una conseguenza di un’educazione nazionalista che pretendeva
che lei fosse interessata.
Di tutti i cambiamenti cui è andata incontro la Corea, questo è di
gran lunga quello che mi colpisce di più.
Quando arrivai qui nel 1982, non si poteva aprire un quotidiano
senza leggere dell’unificazione, della guerra e del Nord Corea.
Ora le sole persone che conosco interessate all’unificazione
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sono o nate in Nord Corea o con parenti che vi risiedono.
Sono sconcertato da tutto ciò.
La sofferenza dei coreani e il loro impegno nel cercare di far diventare democratica la loro terra, ebbe un forte impatto su di me negli
anni Ottanta.
Quando visitai per la prima volta il Nord, sette anni più tardi, mi
sentivo già abbastanza coreano da provare incanto e commozione.
Mentre il treno attraversava il fiume Yalu e la provincia di Pyongan nella Corea del Nord, mi sentivo come se fossi entrato in una
fotografia sbiadita in bianco e nero, appena resa viva dal colore in
movimento.
Immaginavo che i giovani nord coreani nelle strade assomigliassero ai miei parenti sud coreani da ragazzi.
Camminando sulla parte collinare di Myohyangsan al mattino
presto, avevo come la sensazione di essere seguito da centinaia di
persone morte in abiti bianchi.
Avevo comprato del terriccio a Seul e l’avevo lasciato sulle sponde
del fiume Daedong, avevo preso anche delle pietre dalle leggendarie montagne Keumgang e le avevo portate a casa con me.
Nel 1994, con un piccolo gruppo di reporter, avevamo intervistato
Kim Il-Sung.
Vorrei avergli chiesto “Signor Presidente, ai giovani sud coreani
non interessa più l’unificazione.
Non crede che dovrebbe aprire il Paese per dare loro qualche
speranza?”
Ma anni fa una cosa del genere era impensabile.
Cosa è successo perché i coreani perdessero il loro interesse così
rapidamente?
Questa domanda è molto difficile per chi sta al di fuori della questione.
Il modo in cui l’intero Paese rimane attaccato alle antiche memorie
del periodo giapponese in merito ad una piccola questione come
Dokdo, le rocce che entrambe i paesi dichiarano loro, fanno pensare che i coreani siano estremamente nazionalisti.
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Ma questa mancanza di interesse nell’unificazione suggerisce esattamente l’opposto.
Da una certa prospettiva, la spiegazione è chiara.
Le due nazioni non hanno avuto pressoché nulla di positivo da
condividere.
Il Sud è una società competitiva, che cambia rapidamente: con
una media di costo di appartamenti sul mezzo milione di dollari
e un’entrata annuale media pari a circa cinquanta mila dollari, c’è
poco di cui preoccuparsi.
È ovvio che il Nord Corea sia finito nel dimenticatoio per la maggioranza.
Ma il disinteresse nel Nord e la preoccupazione per la vita moderna non sono una spiegazione sufficiente per questa mancanza di
attenzione nell’unificazione.
Penso vi sia una ragione più profonda, legata alla maniera in cui ai
giovani coreani viene insegnato a pensare.
A scuola, in Gran Bretagna, i miei figli imparano una metodologia
di studio analitica, empirica, dove l’approccio è analitico sia verso
la raccolta di informazioni che nell’apprendimento.
Si creano le fondamenta e si costruisce un muro di mattoni costituito dall’informazione.
Le teorie vengono modificate e l’informazione corretta, ma
sostanzialmente questo è il modo in cui gli occidentali analizzano, comprendono e ricordano gli eventi/le cose.
I file nel nostro cervello vengono ordinati in cartelline di
differente colore.
Il metodo di istruzione coreano è differente ed enfatizza il ricordarsi dei fatti.
Si può affermare che anche teorie, come ad esempio l’evoluzionismo e il comunismo, sono ricordati come fatti.
Nell’insegnamento della storia britannica, che i miei figli hanno imparato, dolorose memorie e vittorie sono classificate, ordinate, è data loro una
priorità, sono utilizzate come prove tangibili, e in questo modo ricordate.
Dissensi & Discordanze
In Corea i dettagli spariscono e le memorie sono solo riprodotte
con aneddoti.
Molti asseriscono che i coreani nascondano deliberatamente la testa nella sabbia, per non voler pensare alla realtà di una unificazione imminente.
Ma non credo questo sia vero.
Credo che la questione stia solamente scivolando fuori dalla testa
delle persone, come una vecchia materia imparata a scuola su cui
poi non si è stati più interrogati.
Molti analisti pensano che il mancato interesse nell’unificazione,
unito alla preoccupazione per il costo di tale operazione, possano
portare il governo Sud coreano, prendendo forza dal sentimento generale, a rifiutare ogni opportunità che potrebbe portare
all’unione.
Non sono d’accordo.
La mancanza di interesse è una conseguenza del nazionalismo autoritario che ha pervaso la politica del Sud fino alla fine del millennio.
Come una fase adolescenziale, passerà, nella loro maturità i coreani
non avranno altra scelta che fare qualsiasi sacrificio serva per incitare il Nord a risollevarsi.
La Corea è stato un unico paese per circa 1300 anni, fino alla fine
della Seconda Guerra Mondiale, fino a quando venne divisa in due
da americani e sovietici.
A quel tempo i coreani non poterono fare nulla, ma verrà il momento in cui la storia chiederà ai coreani di entrambe le parti di
fare quello che devono fare.
E per quanti anni potrà avere Ms Jun quando questo accadrà, sarà
anch’ella ispirata come tutti gli altri e dimenticandosi di quando,
da giovane, non le importava per niente.
Korean unification
yearning to make their country democratic and whole had a deep impact
on me in the 1980s. By the time I made my first visit to the North, seven
years later, I had become sufficiently Korean myself to feel enchanted and
moved.
As the overnight train through northeast China crossed over the Yalu River
and passed through North Korea’s North Pyongan province, I felt as if I
had stepped into a faded black and white photograph that had come to life
in color and movement. I imagined that the young North Koreans in the
street were as my South Korean friends’ parents would have looked when
they were young. Walking alone up a wooded hillside in Myohyangsan
early one morning, I had a strong sensation of being followed by hundreds
of dead people wearing white clothes. I brought some soil from Seoul and
left it on the banks of the Daedong River, and brought some stones from the
fabled Keumgang Mountains back home with me.
In 1994, I was in a small group of reporters who interviewed and had
lunch with Kim Il-sung. I wish I could have asked him, “Mr. President,
South Koreans don’t care about unification any more. Don’t you think you
should open up your country and give them some hope?”
But just 15 years ago, such an idea was unthinkable. What made Koreans lose interest so quickly? This is a very confusing question for outsiders.
The way that the entire country flares up with older memories of the Japanese period over a small matter like Dokdo, the rocks that both countries
claim as their own, suggests that Koreans are extremely nationalistic. But
this lack of interest in unification suggests the complete opposite.
From one perspective, the explanation is practical. The two countries have
had almost nothing positive to do with each other. South Korea is a rapidly changing, highly competitive society. With the average price of an
apartment in Seoul the equivalent of half a million dollars and the average
annual household income only about 50,000 dollars, there’s a lot to worry
about. It’s no wonder that North Korea has receded into irrelevance for
most people.
But dislike of North Korea and the concerns of modern life do not sufficiently explain the loss of interest in unification. I think there is a deeper
reason that comes from how young Koreans are taught to think. At school
in Britain, my children are taught an analytical, empirical approach to
information gathering and learning. In this education system, they tend
to start with a theory. Upon this foundation, they pile bricks of information. The theories get modified, the significance of the information
The new generation
of South Koreans doesn’t
care, but they eventually will
michael breen
At a hilltop observatory overlooking the intersection of the Han and Imjin
rivers, where the invisible middle point of the Korean DMZ runs along
the water and out to sea, Jun Arem, a 23-year-old Korean, looked up from
a high-powered telescope after her first ever sighting of communist North
Korea and asked me, “Have you got a Band-Aid?”
New sandals, she explained. Her foot was killing her.
Ms. Jun is a typical member of the new generation for whom stylish footwear is a very clear priority over North Korea, its nuclear weapons and
gulag, and whatever else might be happening there.
In fact, my teenage son and daughter, who were with us, and who are
familiar with North Korea from the news and from the movie Team America, showed more interest. They gazed at the distant hills, and focused
their telescopes on the buildings of the village a few kilometers across the
river, excitedly looking for signs of life and asking questions.
“Ten years ago,” Ms. Jun explained, massaging her feet in the car on the
way back to Seoul, “if you asked anyone their dreams, they would say,
‘National Unification.’ Now everyone dreams of being successful, getting
rich, and being happy. At elementary school if I had said I wanted to be
happy, I would have felt guilty. Now I can freely say I don’t care about
unification.”
In other words, her lack of interest is not passive. It is active, a consequence
of nationalistic education that expected her to be interested.
Of all the changes that Korea has gone through since I have lived here, this
one amazes me the most. When I arrived in 1982, you could not open the
newspaper without being immediately reminded of unification, the war,
and North Korea. Now, the only people I know who are interested in unification are those born in North Korea, or whose parents were.
I am personally disappointed about this. The suffering of Koreans and the
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adjusted. But essentially this is how western-educated people analyze, understand and remember things. The files in your brain get placed in different color-coded folders.
Korean education is different in that it emphasizes the remembering of
facts. You could say that even theories, such as, say, evolution or communism, are remembered as facts. In British history teaching, which my
children learned, painful memories and victories are classified, categorized,
prioritized, used as supporting evidence, and in this way, remembered. In
Korea, details disappear, and memories are only triggered by anecdotes.
Many outsiders assume that Koreans deliberately have their heads in the
sand about North Korea because they don’t want to contemplate the reality
of impending unification. But I do not think this is true.
I think it is literally dropping out of people’s minds like an old subject you
learned at school and no longer get tested on or need to know.
Many analysts assume that this lack of interest in North Korea, coupled
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with a concern about the economic and social costs of re-unification, means
that the South Korean government, taking its lead from public sentiment,
will reject any opportunity that may arise to unify.
I disagree. The lack of interest is a reaction to authoritarian nationalism,
which dominated South Korean politics and culture until the millennium.
Like a teenage phase, it will pass. In their maturity, South Koreans know
that the time is coming when they will have no choice but to make whatever
sacrifice is necessary to lift the North Koreans up.
Korea was whole for around 1,300 years until the end of World War Two,
when it was split in two by the Americans and the Soviets. At that time,
Koreans were powerless to prevent it. When the moment comes, history will
demand that the Koreans on both sides do what they must do.
However old she may be when that happens, Ms. Jun will be as inspired as everyone else, and forget that, when she was younger, she
hadn’t cared.
Dissensi & Discordanze
Cosa c’è di
sbagliato in me?
Uno straniero molto diretto nella Corea del Sud
Michael Breen
Normalmente non sono uno che apprezza i look maschili, ma recentemente a Seul, dove vivo da ormai trent’anni, ho visto apparire sulla prima pagina dei giornali delle foto di un gruppo di uomini
di mezza età che sembravano davvero ‘cool’.
Di primo acchito ho pensato fossero attori o atleti stranieri, poi,
con grande sorpresa, ho appreso che erano capi di sette religiose e
che erano coreani.
Questi uomini di bell’aspetto stavano protestando usando le loro
teste pelate nello stesso modo in cui chi contesta usa i cartelloni.
O, per essere più espliciti, si tagliavano i capelli perché era un
modo più semplice e meno doloroso che tagliarsi le dita come facevano altri gruppi di protesta asiatici.
Stavano contestando contro l’interferenza del Governo nelle scuole private.
Io mi chiedo: perché ritengono che radersi la testa sia un gesto di
protesta?
La testa rasata è in Corea un segno di contestazione, prigionia o
pena?
La Corea è sicuramente una nazione avanzata dal punto di vista
tecnologico, ma in altre aree o settori è ancora molto indietro.
Non capiscono ciò che in altre parti del mondo è qualcosa di consolidato, ossia che la ‘pelata può essere bella.
La calvizie non è più materia di scherno: é quasi una moda fra gli
uomini, icone nei più svariati campi dai calciatori ai musicisti ai
gangster sono senza capelli, prendiamo per esempio Sean Connery,
Bruce Willis e Phil Collins.
Per me, che sono uno della categoria, questo è un argomento importante.
Quando ero ragazzo portavo i capelli lunghi, poi iniziarono a cadere e verso i trenta capii che la possibilità che ricrescessero era ben
remota.
Non lo notai immediatamente, perché non mi guardavo direttamente allo specchio, ma una chierica monacale stava comparendo
sulla nuca.
Dopodiché la mia fronte iniziò ad allargarsi.
Direi una bugia se dicessi che fu scioccante o doloroso: la perdita
di capelli avviene troppo lentamente per far si’ che la vittima possa
soffrirne.
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Ma era comunque triste affrontare ogni giorno il nemico che mi
fissava dallo specchio quando mi lavavo i denti o mi radevo la
mattina.
Poi arrivò la rivelazione.
Perché non radermi completamente?
In realtà non fu proprio una rivelazione, ma un consiglio femminile.
Di primo acchito pensai che l’idea fosse folle, come andare al lavoro indossando reggiseno e slip – per me, almeno.
Ma chi mi consigliava parlava della moda al di là della Corea ed io,
in questo paese ormai da anni, ignoravo completamente quanto
succedesse altrove.
Dopo qualche settimana decisi di dare al Nemico della mia Gioventù quello che desiderava.
Mi rasai a zero.
Risultò essere una strategia vincente: il nemico ebbe i miei capelli
ma non la dignità.
Utilizzando l’arte marziale del piegarsi alla forza incombente, vinsi.
Abbracciai così lo stato di calvo e da nerd divenni quarantenne
mica male.
Tranne che in Corea, ovvio.
Le persone sono educate e mi dicono che sembro più giovane, che
assomiglio a come ero nelle foto di vent’anni fa.
Ma questo è tutto.
Nulla di quanto le donne pensino negli altri paesi in merito agli
uomini calvi e la virilità.
Nessun bisogno di chiedere, giusto uno sguardo che dice “vecchio
criminale rivoluzionario straniero”.
Ve lo dico, nel 2014 questo abuso della calvizie da parte dei protestatori deve finire.
Per cui se qualche lettore calvo vuol visitare la Corea e unirsi a me
in questa battaglia, sto pianificando una conferenza per ribellarci
a questo trend.
Tutto quello di cui abbiamo bisogno è qualche capellone che sia
favorevole a farsi radere in segno di protesta…
What’s Wrong with Me?
A Bald Foreigner
in South Korea
michael breen
I’m not normally one for appreciating male looks, but recently in Seoul, where
I have lived for over 30 years, I saw front-page photos in all the newspapers
of a bunch of bald middle-aged men and thought they looked cool.
At first, I assumed they were foreign actors or athletes.
But the captions identified them, to my surprise, as headmasters of religious
schools and as Koreans. These hunks were in fact protesting and using
their bald heads in the same way that other protestors use placards. Or, to
express more extremely, they cut off their hair because it was a temporary –
and painless – solution compared to that other east Asian form of protest ,
cutting off the little finger.
The issue they were protesting was government interference in private schools. My issue is, How come they can further their cause by shaving their
heads? Why is baldness in Korea a symbol of protest, prison, or penance?
Korea may be an advanced nation in Internet things, but in other areas it
is behind the times. They have not yet accepted what is known in the rest
of the world - that bald can be beautiful. Baldness is no longer the target
of jokes. It has become a fashion statement for men, notably for iconic males such as footballers, musicians, and gangsters. Even old guys like Sean
Connery, Bruce Willis, and Phil Collins.
This is an issue for me as I too am hair-handicapped. When I was young I
had long hair, but it began falling out when I was a teenager. By my early
30s, this process had overtaken re-growth. I didn’t notice it at first because
I only ever looked at myself in the mirror straight on, but a monk-like hole
began to develop in the top of my head.
Then my forehead got bigger.
It would be wrong to say that it was alarming or distressing. Hair loss
happens far too slowly for the victim to become distressed.
But it was disheartening to have this living symbol of youth’s Enemy –
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time and nature – staring at me every morning when I brushed my teeth
and shaved my face.
Then came a revelation. Why not shave the whole lot? Actually, it wasn’t
a revelation. It was female advice. At first this idea struck me as weird
as coming to work wearing a bra and panties – for me, I mean. But my
advisors argued on the basis of fashion in the outside world. Having been
in Korea for years, I wasn’t aware of changes overseas.
They persisted and after a few weeks, I decided to give Youth’s Enemy what
he wanted.
I shaved.
It turned out to be a winning strategy. The Enemy got the hair but not my
dignity. By employing the martial arts technique of yielding to overwhelming force, I won. I embraced baldness and became elevated from nerd to
fashionable 40-something.
Except in Korea. People are polite and say I look younger than my photos of
20 years ago. But that’s it. Nothing about what women in other countries
know is true about bald men and virility. No requests to rub it. Just a look
that that says, monk criminal protestor old foreign guy.
I tell you, in 2014, this abuse of baldness by protestors has got to stop.
In fact, if any readers are bald too and want to visit Korea and join me,
I’m planning a press conference to protest this trend.
All we need is some hairy people who will volunteer to let us shave their
heads in protest.
Dissensi & Discordanze
Un chicco di
riso è più grande
della Terra
I campi di concentramento nella Corea del Nord
reverendo SUN MYUNG MOON
Testimonianza tratta da
‘La mia vita per la Pace’
Il 20 maggio, dopo tre mesi di detenzione nel carcere di Pyongyang,
fui trasferito nel campo di prigionia di Heungnam.
Provai indignazione, ma anche vergogna davanti al Cielo.
Fui legato a un ladro in modo che non potessi fuggire.
Fummo trasportati da un veicolo che impiegò diciassette ore per
arrivare a destinazione.
Mentre guardavo fuori dal finestrino, cresceva dentro di me un potente sentimento di dolore.
Mi sembrava incredibile che dovessi percorrere da prigioniero quella
strada tortuosa, costeggiando fiumi e attraversando vallate.
La prigione di Heungnam era un campo di lavoro forzato per prigionieri sottoposti a regime speciale; il lavoro si svolgeva nella vicina
fabbrica di concime chimico azotato.
Fui sottoposto a quel regime per due anni e cinque mesi.
Il lavoro forzato era una pratica che la Corea del Nord aveva appreso dall’Unione Sovietica.
Il governo sovietico non poteva semplicemente uccidere i ‘borghesi’
e gli altri cittadini non comunisti, perché il mondo lo stava osservando e occorreva tenere conto dell’opinione pubblica mondiale;
ideò così la pena dei lavori forzati.
Le persone che venivano sfruttate in questo modo erano costrette a
lavorare a ritmi sostenuti finché morivano per il progressivo deperimento.
I comunisti nordcoreani avevano copiato il sistema sovietico e condannavano tutti i prigionieri a tre anni di lavori forzati.
In realtà, i prigionieri normalmente morivano nel campo di prigionia ben prima che avessero finito di scontare la loro pena.
La nostra giornata cominciava alle 4,30 del mattino.
Ci facevano mettere in fila, inquadrati nel piazzale, e ci ispezionavano il corpo e gli abiti, per verificare se avessimo indosso materiali
non autorizzati.
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Dovevamo togliere tutti gli indumenti e ciascun capo di vestiario
veniva esaminato accuratamente.
Tutti gli abiti venivano sbattuti tanto a lungo che non sarebbe potuto restarci attaccato neanche il più minuscolo granello di polvere.
Tutta l’operazione prendeva almeno due ore.
Heungnam si trova sulla costa e in inverno il vento colpiva i nostri
corpi nudi come un coltello affilato.
Dopo l’ispezione ci davano da mangiare un pasto disgustoso.
Poi marciavamo per circa quattro chilometri fino alla fabbrica di
fertilizzante.
Marciavano fianco a fianco in gruppi di quattro, dovevamo tenere
per mano la persona accanto a noi e non potevamo alzare la testa.
Eravamo circondati da guardie armate di fucili e pistole.
Se qualcuno ritardava il cammino del proprio gruppetto o lasciava
la mano di chi gli stava vicino, veniva percosso duramente per aver
tentato di fuggire.
D’inverno la neve era più alta delle persone.
Nelle gelide mattine d’inverno, quando marciavamo in mezzo alla
neve più alta di noi, la testa cominciava a girarmi.
La strada gelata era estremamente scivolosa e il vento freddo soffiava
ferocemente.
Eravamo senza energia, anche se avevamo appena consumato la colazione, e le ginocchia cedevano.
In ogni caso dovevamo arrivare fino al luogo di lavoro, anche se
questo significava trascinare le gambe esauste per tutto il percorso.
Mentre percorrevo quella strada ad ogni passo mi sembrava di per-
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dere conoscenza, e continuavo a ricordare a me stesso che appartenevo al Cielo.
Nella fabbrica c’era una collinetta, formata con l’accumulo di una
sostanza che chiamavamo per brevità ‘ammoniaca’.
In realtà si trattava probabilmente di solfato d’ammonio, un tipo di
fertilizzante alquanto comune.
Arrivava con un nastro trasportatore e somigliava a una cascata
bianca, quando cadeva sulla collinetta di fertilizzante sottostante.
Il prodotto che veniva scaricato dal nastro era ancora bollente e i
fumi salivano alti,anche nel pieno dell’inverno.
Rapidamente si raffreddava e diventava duro come ghiaccio.
Il nostro lavoro consisteva nello scavare il fertilizzante dalla collinetta e riempire con le pale dei sacchi di paglia.
Chiamavamo quella collinetta, alta più di venti metri, ‘la montagna
del fertilizzante’.
C’erano tra le ottocento e le novecento persone che spalavano il fertilizzante in un ampio spazio, e sembrava che stessimo tagliando la
montagna a metà.
Eravamo organizzati in squadre di dieci uomini, e ogni squadra
aveva la responsabilità di riempire e caricare milletrecento sacchi al
giorno.
Così, ognuno doveva riempirne centotrenta.
La squadra che non avesse realizzato la sua quota avrebbe avuto la
sua razione di cibo dimezzata.
Tutti lavoravano con la consapevolezza che la loro vita sarebbe dipesa dal completamento della quota.
Dissensi & Discordanze
Per aiutarci a trasportare nel modo più efficiente possibile i sacchi di
fertilizzante, facevamo degli aghi con del filo d’acciaio e li usavamo
per legare i sacchi dopo che erano stati riempiti.
Mettevamo un pezzo di cavo sulla rotaia che correva sul pavimento
della fabbrica.
Appiattivamo il cavo facendoci passare sopra uno dei vagoncini adibiti al trasporto dei materiali, così potevamo usarlo come ago.
Per fare buchi nei sacchi usavamo schegge di vetro che ricavavamo
infrangendo le finestre della fabbrica.
Le guardie dovevano essere dispiaciute nel vedere i loro prigionieri
lavorare in quelle condizioni estreme, perché non ci dicevano mai
nulla quando rompevamo le finestre della fabbrica.
Una volta mi spezzai un incisivo mentre cercavo di staccare un pezzo
di cavo.
Ancora oggi quel dente è spezzato, e mi resta come un ricordo indelebile della prigione di Heungnam.
Tutti dimagrivano sotto la pressione dei lavori forzati.
Io facevo eccezione.
Riuscii a mantenere il mio peso di circa settantadue chili, cosa che
suscitò l’invidia degli altri prigionieri.
Ho sempre avuto un’eccellente forza fisica; in un’occasione, però, mi
ammalai gravemente, con sintomi simili a quelli della tubercolosi.
Stetti male per circa un mese, tuttavia, non saltai neppure un giorno
di lavoro nella fabbrica.
Sapevo che, se fossi stato assente, gli altri prigionieri avrebbero avuto la responsabilità della mia parte del lavoro.
Per la mia forza, le persone mi chiamavano con un’espressione che
significa ‘l’uomo che è come una verga d’acciaio’.
Potevo sopportare anche il lavoro più duro.
La prigione e i lavori forzati non erano un problema insormontabile
per me.
Un uomo può resistere, non importa quanto ferocemente sia percosso o quanto terribile sia il suo ambiente, se porta nel cuore uno
scopo ben preciso.
I prigionieri erano anche esposti all’acido solforico, che veniva usato
nella produzione del solfato di ammonio.
Quando lavoravo nelle fonderie Kawasaki, in Giappone, ero stato
testimone, in diversi casi, della morte per avvelenamento delle persone che stavano pulendo le cisterne, usate per conservare l’acido
solforico.
La situazione a Heungnam era di gran lunga peggiore.
L’esposizione all’acido solforico era talmente dannosa da provocare
la caduta dei capelli e da produrre sulla pelle grandi vesciche, dalle
quali colava un liquido purulento.
La maggior parte dei lavoratori della fabbrica cominciava a vomitare
sangue e moriva nell’arco di circa sei mesi.
Ci coprivamo le dita con pezzi di gomma, ma l’acido corrodeva in
fretta queste protezioni.
Anche i vapori acidi consumavano gli abiti, rendendoli inutili, e la
pelle si spaccava e sanguinava.
In certi casi la carne si consumava ed apparivano le ossa.
Dovevamo continuare a lavorare senza neanche un giorno di riposo,
anche quando le ferite sanguinavano e rilasciavano pus.
Il nostro pasto consisteva dell’equivalente di due piccole ciotole di
riso.
Non c’erano contorni, ma ci veniva data una zuppa di foglie di rafano in brodo.
La zuppa era tanto salata da bruciare la gola, ma il riso era così duro
che non lo si poteva mangiare senza intingerlo nel brodo.
Nessuno ha mai lasciato una sola goccia di zuppa.
Quando ricevevano la loro porzione di riso, i prigionieri la ingoiavano in un solo boccone.
Dopo aver mangiato il proprio riso, si guardavano intorno, a volte
allungando il collo per osservare come gli altri mangiavano.
Di tanto in tanto, qualcuno metteva il cucchiaio nella scodella di un
altro e scoppiava una lite.
Un ministro religioso che era con me a Heungnam mi disse una
volta: “Dammi soltanto un fagiolo e io ti darò due mucche quando
saremo fuori di qua”.
I prigionieri erano tanto disperati che, quando qualcuno moriva
all’ora di pranzo, gli altri prendevano e mangiavano il riso che fosse
rimasto nella bocca del morto.
Solo chi l’ha provata può comprendere la sofferenza della fame.
Quando una persona è affamata, un singolo granello di riso diventa
preziosissimo.
Ancora adesso mi sento in tensione al solo pensare a Heungnam.
È difficile credere che un solo chicco di riso possa stimolare certe reazioni, ma quando avete fame il desiderio del cibo diventa così forte
che urlereste.
A chi ha lo stomaco pieno il mondo appare grande, ma per un uomo
affamato un chicco di grano è più grande della Terra.
Un chicco di grano assume un valore enorme per chi ha fame.
A cominciare dal mio primo giorno in prigione, mi abituai a tenere
per me soltanto metà della mia razione di riso e a dare l’altra metà
ai miei compagni di prigionia.
Mi allenai in questo modo per tre settimane e poi mangiai l’intera
porzione.
Questo mi mise in condizione di pensare che stessi mangiando riso
sufficiente per due persone, e mi rese più facile sopportare la fame.
La vita in quella prigione era così terribile che chi non l’abbia sperimentata non può neppure immaginarla.
Metà dei prigionieri morivano entro il primo anno, così ogni giorno
passavano sotto i nostri occhi i cadaveri che venivano portati fuori
dal cancello posteriore in contenitori di legno.
Lavoravamo molto duramente e la nostra unica speranza di andar
via di là era da morti, in una di quelle bare.
Anche per un regime spietato e crudele, il modo in cui ci trattavano
andava chiaramente oltre i confini dell’umanità.
Tutti quei sacchi di fertilizzante, riempiti con le lacrime e la sofferenza dei prigionieri, venivano stivati nelle navi e portati in Russia
La prigione di Heungnam nella neve
Dopo il cibo, il bene più prezioso nella prigione erano l’ago e il filo.
I nostri abiti logori si strappavano durante le fatiche del lavoro, ed
era difficile trovare un ago e del filo per rammendarli.
Dopo un po’ i prigionieri cominciavano a sembrare dei mendicanti
stracciati.
Era estremamente importante richiudere i buchi negli abiti per proteggersi, almeno in parte, dal vento freddo dell’inverno.
Un frammento di tessuto trovato abbandonato lungo la strada era
molto prezioso.
Poteva anche essere coperto di sterco di vacca, i prigionieri lottavano
tra loro per impossessarsi di quel pezzo di stoffa.
Una volta, mentre trasportavo dei sacchi di fertilizzante,
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scoprii un ago conficcato in uno di quei sacchi.
Qualcuno doveva avercelo lasciato accidentalmente, quando aveva
confezionato il sacco.
D’allora in poi, divenni il sarto della prigione di Heungnam.
Fu una tale gioia trovare quell’ago.
Tutti i giorni rammendavo pantaloni lunghi o calzoncini per gli altri
prigionieri.
All’interno della fabbrica di fertilizzante faceva tanto caldo che sudavamo
anche nel bel mezzo dell’inverno; si può perciò immaginare quanto
la temperatura fosse insopportabile durante l’estate.
Nonostante ciò, mai una volta rimboccai i pantaloni esponendo le
mie gambe.
Anche nella stagione più calda tenevo i miei pantaloni legati al fondo, secondo la tradizione coreana.
Altri prigionieri toglievano i pantaloni e lavoravano in mutande, ma
io rimanevo sempre vestito correttamente.
Quando finivamo di lavorare, i nostri corpi erano coperti di sudore e
polvere di fertilizzante.
Molti prigionieri si svestivano e si lavavano nell’acqua sporca che
defluiva dagli scarichi della fabbrica.
Io, invece, non mi lavavo mai dove gli altri potevano vedere il mio
corpo.
Conservavo la metà dell’unica ciotola d’acqua che ricevevamo come
razione giornaliera e mi alzavo presto la mattina.
Mentre gli altri ancora dormivano, mi pulivo con un piccola pezza
imbevuta in quella mezza ciotola d’acqua.
Avevo rispetto del valore del mio corpo e non volevo mostrarlo disinvoltamente agli altri.
Quei primi momenti della mattina mi erano utili anche per concentrarmi spiritualmente e pregare.
Ciascuna cella della prigione alloggiava trentasei persone.
Io mi sistemai in un angolo vicino alla latrina, perché in quel luogo
nessuno mi avrebbe calpestato.
Nessuno voleva quel posto.
Quella che chiamavamo latrina era in realtà soltanto una piccola
giara di terracotta, senza neppure un coperchio.
Il liquame traboccava dalla latrina in estate e gelava in inverno.
Non si può descrivere il puzzo nauseabondo che ne usciva.
I prigionieri spesso soffrivano di diarrea, a causa della zuppa salata e
del riso duro che mangiavano tutti i giorni.
Mentre me ne stavo accanto alla latrina, a un certo punto sentivo
qualcuno che diceva: “Oh, il mio stomaco”, si avvicinava alla latrina
a piccoli passi veloci e si scopriva le parti basse, facendo esplodere la
diarrea.
Io, che ero vicino alla latrina, ne venivo spesso spruzzato.
Anche di notte, a volte, mentre tutti dormivano, c’era qualcuno che
soffriva di dolori addominali.
Le proteste dei prigionieri che si lamentavano di essere stati calpestati nel sonno, mi preavvisavano che qualcuno si stava facendo
strada verso la latrina.
Mi alzavo di scatto e mi raggomitolavo nell’angolo.
Se fossi rimasto addormentato e non l’avessi sentito arrivare, ne avrei
subito le conseguenze.
Per riuscire a sopportare quella situazione impossibile, cercai addirittura di pensare a quella vista e a quei suoni come ad una qualche
forma d’arte.
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Comunque per tutto quel tempo continuai a restare accanto alla
latrina.
Gli altri prigionieri mi chiedevano: “Perché hai scelto questo posto?”.
Ed io rispondevo: “Qui mi trovo più comodo”.
Non era solo un modo di dire.
Quello era davvero il posto dove il mio cuore mi faceva sentire più
a mio agio.
Il mio numero di matricola era il 596.
Le persone mi chiamavano “Numero cinque nove sei”.
Certe notti in cui non riuscivo a dormire, fissavo il soffitto e ripetevo tra me e me questo numero all’infinito.
Se lo pronunciavo velocemente, aveva un suono simile a “eo-gul”,
la parola coreana usata per descrivere la sensazione dell’ingiustizia.
Ed io davvero ero stato imprigionato ingiustamente.
Il partito comunista ordinò di fare i dok-bo-hoi, riunioni in cui si
leggevano ad alta voce giornali e altro materiale di propaganda e
si studiava il comunismo.
Dovevamo anche scrivere lettere di gratitudine a Kim Il Sung.
Il dipartimento della sicurezza osservava attentamente ogni nostra
mossa.
Tutti i giorni ci dicevano che dovevamo scrivere lettere di ringraziamento, descrivendo cosa avessimo imparato.
Io però non ne scrissi mai neppure una pagina.
Si aspettavano che scrivessimo cose del tipo: “Nostro padre Kim
Il Sung, per amore nostro, ci dà cibo da mangiare tutti i giorni, ci
dà pranzi ricchi di carne e ci fa condurre questa vita meravigliosa.
Sono così riconoscente”.
Non avrei potuto mai scrivere niente del genere.
Anche se fossi stato costretto a guardare la morte negli occhi, mai
avrei presentato questo tipo di lettere a quei comunisti.
Per sopravvivere nella prigione, invece di scrivere lettere, lavoravo
dieci volte più duramente degli altri.
In effetti, l’unico modo per evitare di scrivere quelle falsità era
farmi riconoscere come il miglior prigioniero.
Con questa determinazione diventai effettivamente il miglior prigioniero e ricevetti persino un premio da un funzionario del partito
comunista1.
Mia madre venne a visitarmi molte volte mentre ero in prigione.
Non c’era un mezzo di trasporto diretto da Jungju a Heungnam.
Doveva prendere un treno per Seul, e lì salire su un altro diretto
a Wonsan.
Era un viaggio estenuante, che richiedeva più di venti ore.
Prima di partire, preparava sempre del ‘mi-sut-karu’, e cioè della
farina di riso, perché suo figlio, che stava trascorrendo in carcere i
suoi anni migliori, avesse qualcosa da mangiare.
Per confezionare quella farina si faceva dare del riso da tutti i familiari, inclusi quelli più distanti, i parenti dei mariti delle mie sorelle
maggiori.
Bastava che entrasse nella sala delle visite della prigione e mi vedesse in piedi dall’altro lato del vetro, che cominciava subito a
piangere.
Era una donna forte, ma la vista di suo figlio sottoposto a tanta
sofferenza la distruggeva.
Mia madre mi portò i pantaloni di seta che avevo indossato il giorno del mio matrimonio.
L’uniforme della prigione, con cui ero vestito, era completamente
Dissensi & Discordanze
lisa e attraverso il tessuto s’intravedeva la pelle.
Tuttavia, invece di indossare quei pantaloni di seta, li diedi a un
altro prigioniero.
Quanto al mi-sut-karu, che mi preparava indebitandosi, lo distribuivo tutto ai miei compagni di prigionia in quello stesso
momento, sotto i suoi occhi.
Nel preparare i vestiti e il cibo per suo figlio, mia madre aveva
investito tutto il suo cuore e la sua dedizione.
Le si spezzò il cuore nel vedermi dar via queste cose, senza tenere
nulla per me.
“Mamma - le dissi - io non sono semplicemente il figlio di un tale
di nome Moon.
Prima ancora di essere un figlio della casata dei Moon, sono un
figlio della Repubblica di Corea.
E, ancora prima di tutto questo, sono un figlio del mondo e un
figlio del cielo e della terra.
Ritengo giusto amare queste cose per prime e, soltanto dopo,
seguire le tue parole e amare te.
Io non sono il figlio di qualche persona di vedute ristrette.
Per favore, tieni un comportamento consono al carattere di questo tuo figlio”.
Le parole che le rivolsi furono fredde come il ghiaccio, e vederla
piangere mi addolorò tanto, da avere la sensazione che il cuore
mi andasse in pezzi.
Lei mi mancava tanto; a volte mi svegliavo nel mezzo della notte
pensando a lei, ma questa era una ragione in più per non finire
preda delle mie emozioni.
Ero una persona che stava lavorando all’opera di Dio.
Per me era più importante vestire anche una sola persona con
abiti un po’ più caldi, oppure riempire con un po’ più di cibo lo
stomaco di qualcun altro, piuttosto che preoccuparmi della mia
relazione personale con mia madre.
Anche in prigione mi piaceva dedicare quanto più tempo possibile a parlare con gli altri.
C’erano sempre attorno a me persone desiderose di ascoltare quel
che avevo da dire.
Nonostante la fame e il freddo della vita da recluso, sentivo tanto
calore nella conversazione con quelle persone, con le quali avevo
un’affinità di cuore.
Di quelle relazioni, allacciate a Heungnam, rimasero dodici uomini, che sentivo vicini come compatrioti, ma allo stesso tempo
sentivo che mi erano vicini come se fossero stati la mia famiglia.
Con loro avrei potuto passare il resto della mia vita.
Tra loro c’era un famoso ministro religioso, che era stato presidente dell’associazione delle chiese cristiane delle cinque province settentrionali della Corea.
Con quelle persone condivisi emozioni intense, in situazioni nelle
quali erano in gioco le nostre vite.
Per questo le sentii più vicine della mia stessa carne e del mio
stesso sangue.
La loro presenza diede significato alla mia prigionia.
Pregavo tre volte al giorno per coloro che mi avevano aiutato e
per i membri della mia congregazione a Pyongyang, chiamando
ciascuno di loro per nome.
Ogni volta che pregavo per loro, sentivo che avrei dovuto ripagare mille volte di più chi mi aveva offerto anche una sola manciata
di sut-karu, conservata per me nascosta nella giacca.
Le forze dell’ONU portano la libertà
Mentre ero recluso a Heungnam, era scoppiata la guerra di Corea.
Dopo i primi tre giorni, l’esercito della Corea del Sud abbandonò la
capitale Seul e si ritirò più a sud.
A quel punto sedici nazioni, con in prima fila gli Stati Uniti, costituirono una forza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite e
intervennero nella guerra.
I militari statunitensi sbarcarono a Incheon e puntarono verso Wonsan, un’importante città industriale della Corea del Nord.
Era naturale che la fabbrica e la prigione di Heungnam costituissero,
per le forze aeree statunitensi, uno degli obiettivi da bombardare.
Quando cominciarono gli attacchi, le guardie della prigione abbandonarono i prigionieri e corsero nei rifugi antiaerei.
A loro non importava se fossimo sopravvissuti o meno.
Un giorno Gesù apparve proprio davanti a me con il volto piangente; questo fatto costituì per me una chiara premonizione, così gridai:
“State tutti entro il raggio di dodici metri da me!”.
Poco dopo, una bomba esplose a dodici metri da dove mi trovavo.
I prigionieri che mi erano rimasti vicini sopravvissero.
Quando i bombardamenti si fecero più intensi, le guardie cominciarono le esecuzioni dei prigionieri.
Chiamavano i numeri dei prigionieri e dicevano loro di prepararsi a
partire, prendendo con sé razioni di cibo per tre giorni e una vanga.
I prigionieri immaginavano che sarebbero stati trasferiti in un’altra
prigione, ma in realtà venivano condotti sulle montagne, dove erano
costretti a scavare le buche in cui sarebbero stati sepolti subito dopo
la loro esecuzione.
La chiamata dei prigionieri seguiva l’ordine della durata delle rispettive condanne, e quelli che avevano le pene più lunghe da scontare
erano chiamati per primi.
Mi resi conto che il giorno successivo sarebbe venuto il mio turno.
La notte precedente, le bombe caddero come la pioggia nella stagione dei monsoni.
Era il 13 ottobre 1950 e le forze statunitensi, dopo lo sbarco vittorioso ad Incheon, avevano risalito la penisola, avevano liberato
Pyongyang e stavano spingendosi verso Heungnam.
Quella notte, i soldati americani attaccarono Heungnam con tutte
le forze, precedute dai bombardieri B-29.
Il bombardamento fu così intenso da far sembrare che tutta la città
fosse diventata un mare di fuoco.
Le alte mura che circondavano la prigione cominciarono a crollare e
le guardie corsero a mettersi in salvo.
Alla fine, il cancello della prigione dove eravamo rinchiusi si aprì.
Verso le due della mattina, camminando dignitosamente, uscii tranquillo dalla prigione di Heungnam.
Ero rimasto prigioniero per due anni e otto mesi, e avevo un aspetto
terribile.
Sia la mia biancheria che i miei abiti erano ridotti a brandelli.
Vestito con quegli stracci, invece di andare verso il mio paese mi
diressi a Pyongyang, insieme a un gruppo di persone che erano diventate miei seguaci nella prigione.
Alcuni scelsero di venire con me piuttosto che mettersi in cerca delle
mogli e dei figli.
Potevo facilmente immaginare come mia madre stesse piangendo tutti i giorni, preoccupata per la mia salute, ma era più importante che io m’interessassi dei membri della mia congregazione a
Pyongyang.
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Lungo la strada verso Pyongyang potemmo vedere chiaramente come
la Corea del Nord si fosse preparata per quella guerra.
Tutte le città principali erano collegate da strade a due corsie, da usare
per scopi militari in caso di emergenza.
Molti dei ponti erano stati costruiti in modo da permettere il transito di
carri armati da trenta tonnellate.
Il fertilizzante che i prigionieri di Heungnam avevano confezionato nei
sacchi, a rischio della loro vita, era stato spedito in Russia e barattato con
armamenti, obsoleti ma pur sempre efficienti, che furono poi impiegati
nel dispiegamento lungo il 38° parallelo.
Non appena arrivato a Pyongyang, andai in cerca dei membri che erano
stati con me prima che fossi incarcerato.
Dovevo scoprire dove si trovassero e verificare quale fosse la loro situazione.
A causa della guerra si erano dispersi, ma sentivo la responsabilità di
riunirli e aiutarli in quella drammatica situazione.
Non avevo idea di dove abitassero, perciò non avevo altra scelta che
perlustrare la città di Pyongyang da un estremo all’altro.
Dopo una settimana di ricerche avevo trovato soltanto tre o quattro
persone.
Avevo conservato della farina di riso, che avevo ricevuto quando ero
ancora in prigione, e la mischiai con acqua per farne dei dolci di riso da
condividere con loro.
Durante il viaggio da Heungnam a Pyongyang avevo combattuto la
fame con una o due patate completamente gelate e non avevo neanche
toccato la polvere di riso.
Al solo osservarli, mentre mangiavano avidamente quei dolci di riso, mi
sentii completamente sazio.
Rimasi a Pyongyang per quaranta giorni cercando tutti quelli che mi
tornavano in mente, giovani e anziani.
Per la maggior parte di loro, non fui in grado neppure di appurare che
cosa fosse accaduto, ma non li ho mai cancellati dal mio cuore.
Infine, la notte del 2 dicembre mi misi in viaggio verso Sud.
Insieme ai membri della mia congregazione, tra i quali c’era Won Pil
Kim, ci unimmo a una lunga fila di profughi che si estendeva per una
dozzina di chilometri.
Portammo con noi anche un membro che non riusciva a camminare.
Era stato uno dei miei seguaci nella prigione di Heungnam.
Il suo cognome era Pak.
Era stato liberato prima di me; quando lo andai a visitare, a casa sua,
scoprii che tutti i suoi familiari erano partiti per il Sud.
Era solo in casa e aveva una gamba rotta.
Lo feci montare su una bicicletta e lo portai con me.
L’esercito nordcoreano aveva requisito le strade di pianura per il transito
dei militari, perciò viaggiammo attraverso le risaie ghiacciate, dirigendoci verso Sud più in fretta che potevamo.
L’esercito cinese non era molto indietro rispetto a noi, ma era difficile
procedere speditamente, dal momento che uno di noi non poteva camminare.
Almeno per metà del percorso la strada era pessima; dovetti quindi portare Pak sulle spalle, mentre Kim spingeva la bicicletta vuota.
Pak continuava a dire che non voleva esserci di peso e cercò diverse volte
di togliersi la vita.
Lo convinsi a proseguire, rimproverandolo più volte, e restammo insieme fino alla fine.
Eravamo profughi e con noi non avevamo nulla da mangiare.
Entravamo nelle case i cui abitanti erano partiti per il Sud prima di noi,
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in cerca di riso o di qualunque altro cibo che potesse essere rimasto.
Bollivamo tutto ciò che trovavamo, che si trattasse di riso, orzo o patate.
In questo modo riuscimmo a malapena a sopravvivere.
Non c’erano scodelle per il riso e dovevamo usare legnetti al posto dei
bastoncini, ma il cibo aveva un buon sapore.
La Bibbia dice: “Beati i poveri”, non è vero?
Mangiavamo qualsiasi cosa il nostro stomaco potesse accettare.
Anche un semplice pezzo di torta d’orzo era così saporito, che non
avremmo invidiato nemmeno il pasto di un re.
Per quanto fossi affamato smettevo sempre di mangiare prima degli
altri.
In questo modo loro avrebbero potuto mangiare un po’ di più.
Dopo un lungo cammino ci eravamo avvicinati alla sponda settentrionale del fiume Imjin.
Per qualche motivo che non conoscevo, sentii che era importante attraversare il fiume rapidamente, non c’era un solo momento da perdere.
Percepii fortemente che dovevamo oltrepassare quell’ostacolo, perché
era in gioco la nostra sopravvivenza.
Spinsi Won Pil Kim senza pietà.
Lui era giovane e si addormentava anche mentre camminavamo, ma io
continuavo a spronarlo, e nel frattempo spingevo la bicicletta con Pak.
Quella notte, percorremmo più di trenta chilometri e arrivammo sulla
riva del fiume Imjin.
Per fortuna il fiume era completamente ghiacciato.
Seguimmo alcuni fuggitivi, che procedevano davanti a noi e attraversammo il fiume.
Una lunga fila di profughi si snodava dietro di noi ma, non appena fummo passati, i soldati delle Nazioni Unite chiusero il transito.
Se fossimo arrivati al fiume solo qualche minuto più tardi, non avremmo
potuto oltrepassarlo.
Quando fummo sull’altra riva, Won Pil Kim si voltò a guardare la strada da dove eravamo venuti e mi domandò: “Come sapevi che stavano
per chiudere il passaggio attraverso il fiume?”.
“Per forza che lo sapevo” risposi, “cose di questo tipo succedono di frequente a chi prende la strada del Cielo.
La gente spesso non sa che la salvezza è appena oltre il prossimo ostacolo.
Non avevamo un solo momento da perdere e, se ce ne fosse stato bisogno, ti avrei preso per il collo e ti avrei trascinato fin qua!”.
Kim sembrò colpito dalle mie parole, ma il mio cuore era molto turbato.
Quando arrivammo al punto dove il 38° parallelo divideva la penisola in
due, misi un piede in Corea del Sud e uno in Corea del Nord e cominciai a pregare: “Per ora veniamo cacciati verso sud in questo modo, ma
tornerò presto al Nord”.
Continuai a pregare così per tutto il resto del nostro viaggio insieme ai
profughi.
Dissensi & Discordanze
L’esecuzione di
Jang Song Thaek
E la (probabile) svolta di Kim Jong Un
Piergiorgio Pescali
Per chi segue da vicino le vicende della Corea del Nord, le immagini di Jang Song Thaek sorretto da due guardie mentre veniva
sollevato dal suo posto nel parlamento nordcoreano e, successivamente, dello stesso Jang nel tribunale che lo ha condannato a
morte, sono impressionanti.
Lo sono non tanto per il fatto che è la prima volta che l’agenzia
di stato mostra, praticamente in diretta, l’arresto di un altissimo
dirigente del partito, quanto perché questa tragica mossa ai vertici
del potere statale, sia stata pubblicizzata.
Sino ad oggi, chiunque veniva allontanato dal suo posto spariva
semplicemente dalla scena sostituito, improvvisamente, da un altro membro dell’apparato statale.
Le motivazioni reali della rimozione venivano date solo dopo molte settimane, se non mesi.
Tutto questo non è accaduto per Jang Song Thaek: le fonti di informazioni nordcoreane, solitamente così parche di notizie, sono
state, invece, loquaci arrivando anche a pubblicare le accuse rivolte all’imputato, la sentenza finale del processo e il giudizio di
condanna a morte.
Il fatto, poi, che l’annuncio alla nazione dell’espulsione dal partito
per tradimento sia stato dato dalla televisione di stato solo dopo
che la stessa notizia era stata resa pubblica alla platea internazionale, sarebbe un segnale inviato dalla Corea del Nord al mondo:
non importa che tipo di amicizie e protezione godano i politici di
Pyongyang, ma chiunque tenti di insidiare il potere della famiglia
Kim, sarà rimosso senza pietà.
Lo stesso segnale di avvertimento andrebbe a parare verso i
dirigenti interni del partito: anche gli amici ed i parenti più
stretti possono essere epurati, se necessario, a prescindere dal
posto che occupano.
Naturalmente nessuno, ancora, sa con precisione il motivo reale di
tale defenestrazione e quali siano le mosse che stanno alla base della rimozione dell’ex numero due del Partito del Lavoro Coreano.
Due sono le versioni più accreditate ed entrambe cozzano violentemente tra loro: la prima è che Kim Jong Un si senta così forte e
sicuro, da pensare di non aver più bisogno di una figura tutelare
ingombrante come lo zio.
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Kim Jong Un, leader della Corea Del Nord
L’altra, invece, fa notare che proprio la mancanza di uno scudo impenetrabile come Jang Song Thaek, metta lo stesso Grande Leader
sotto il tiro in crociato dei suoi oppositori.
La difficoltà principale nel capire cosa sta accadendo in Corea del
Nord, è che il potere effettivo all’interno del paese non è stato mai
detenuto dalle figure che vengono messe a capo dei vari ministeri
o dei dipartimenti.
Sin da quando Kim Il Sung prese il potere nel paese, vi è sempre
stata una doppia linea di comando: quella reale, formata da singole
persone vicinissime al leader, nascoste da qualsiasi fonte ed organo ufficiale e, quindi, pressoché sconosciute ed inattaccabili e quella
formale, di facciata, rappresentata dai ministri, dai capi di dipartimento i quali hanno il compito di riportare all’esterno le decisioni
maturate dalla cerchia interna, quella che detiene il vero potere.
Le persone esposte all’esterno e, quindi, anche più conosciute dalle
diplomazie straniere, sono, in definitiva, quelle sacrificabili.
L’organizzazione più vicina alla leadership nordcoreana, quella che
governa de facto il paese, è il Dipartimento dell’Organizzazione
e Orientamento, la quale ha il compito di proteggere l’integrità
della famiglia Kim.
Tutti gli altri funzionari di partito, pur potenti che possano sembrare, avrebbero il solo compito di mantenere integra e salda questa struttura.
Jang Song Thaek faceva parte di questa seconda squadra.
Quello che avrebbe dovuto fare, sarebbe stato di restare a vice capo
della Commissione Nazionale di Difesa senza avvicinarsi troppo
alla famiglia Kim tanto da insidiarne il comando.
Chiaramente, così non è stato.
Già nel 2004 Jang era stato allontanato da Kim Jong Il dai posti
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di comando per lo stesso motivo; riabilitato era poi rientrato in
grande stile subito dopo la designazione di Kim Jong Un come
erede del padre.
La malattia della moglie di Jang Song Thaek, Kim Kyong-hui,
figlia di Kim Il Sung (e quindi zia di Kim Jong Un) avrebbe, in un
certo senso, favorito la scalata di Jang: senza la consorte che frenava le sue ambizioni e lo avvisava dei pericoli a cui stava andando
incontro, Jang Song Thaek si sarebbe lasciato prendere la mano,
arrivando dove non sarebbe mai dovuto arrivare.
L’esecuzione dell’ex numero due del regime nordcoreano è, comunque, di notevole impatto anche perché rimane pur sempre
l’uccisione di un membro (seppur acquisito) della famiglia più potente del paese.
Tutti i famigliari diretti di Kim Il Sung, Kim Jong Il e Kim Jong
Un che avrebbero potuto insidiare il comando, sono stati, sino ad
ora, allontanati concedendo loro “gratifiche” come ruoli diplomatici o è stato garantito loro un esilio dorato all’estero.
Kim Pyong Il, figlio di Kim Il Sung, è stato nominato ambasciatore in Polonia, mentre Kim Kyong Jin, figlia di Kim Il Sung, è
moglie dell’ambasciatore nordcoreano a Vienna.
L’imbarazzante Kim Jong Nam, primogenito di Kim Jong Il e
fratellastro di Kim Jong Un, vive oggi a Macao dopo esser stato
allontanato dalla Corea del Nord dallo stesso padre per aver infangato, con il suo comportamento poco morigerato, il nome della
famiglia ed aver perso la possibilità di ereditare il ruolo di leader.
Un segnale che potrebbe far pensare ad un rafforzamento del potere di Kim Jong Un dopo il siluramento dello zio, è l’appellativo
di Caro Leader con cui i media di stato hanno iniziato a chiamare
il massimo dirigente del paese; un titolo riservato, prima di lui, al
padre Kim Jong Il.
Se così fosse, la Corea del Nord potrebbe trovarsi davanti ad un
ricambio di potere generazionale mai sperimentato sino ad ora.
È chiaro che la giovane età di Kim Jong Un non è vista di buon
grado dalla vecchia dirigenza del Partito dei Lavoratori di Corea.
In un paese di tradizione confuciana come la Corea, l’esperienza
maturata con l’età è un elemento a cui si deve rispetto.
Sino a qualche lustro fa sarebbe stato impensabile che un giovane
trentenne potesse governare una nazione qualsiasi dell’Asia, figuriamoci un paese come la Corea del Nord.
Dopo la sfiducia data al primogenito, Kim Jong Il non aveva scelte
se non quella di passare il potere al giovane rampollo di famiglia mettendolo sotto l’ala protettrice di Jang Song Thaek, che lo
avrebbe difeso dagli attacchi che, sicuramente, sarebbero giunti
dalla gerontocrazia nordcoreana.
Se Kim Jong Un è riuscito a crearsi un entourage sufficientemente
collaborativo da poter fare a meno dello zio, potrebbe significare
che lo stesso Caro Leader è in grado di avviare una serie di riforme
che rivoluzionerebbero l’intero apparato politico, sociale e economico della nazione.
I giovani rimpiazzerebbero i vecchi, dando nuovo slancio ad un
paese che, negli ultimi trent’anni, ha perso quel balzo in avanti
che aveva permesso ai nordcoreani di raggiungere livelli di vita
decisamente rispettabili.
Dopotutto Kim Jong Un, a differenza dei suoi predecessori, ha
avuto una formazione svizzera e, questo, potrebbe rappresentare la vera chiave di volta per il futuro di ventisei milioni di
nordcoreani.
Dissensi & Discordanze
La Svizzera
e la Corea
Ricordi e testimonianze di una missione di pace
MARCO BAGUTTI
GIOVANNI POLETTI
Commemorazione tenutasi
in Breganzona il 16 ottobre 2013
Nel trascorso 2013 ricorreva il sessantesimo anniversario dell'armistizio nella guerra fra le due Coree.
Un cessate il fuoco che non si è mai trasformato in pace e sulla
cui applicazione, a distanza di decenni, vigilano ancora nella zona
smilitarizzata a Panmunjom alcuni militi svizzeri.
Il 7 luglio 1953, il Consiglio federale Svizzero ha deciso l'impiego
di una delegazione svizzera nelle missioni neutrali in Corea.
Tra gli ufficiali ticinesi inviati in Corea c'erano Marco Bagutti, che
prestò servizio nel 1954/55, e Giovanni Foletti nel 1978.
Marco Bagutti
“Mi sono arruolato per la missione di pace che il Consiglio federale
aveva accettato di svolgere, con decisione del 7 luglio 1953.
Il primo distaccamento di ottantuno militi svizzeri era entrato in funzione l’1 agosto di quell'anno, dopo la firma
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dell'armistizio che poneva fine alla guerra fra le due Coree il 27
Luglio 1953.
Sono entrato in servizio nell'agosto del 1954, in forza alla Commissione di sorveglianza delle nazioni neutrali che comprendeva oltre
alla Svizzera, la Svezia, la Polonia e la Cecoslovacchia, dopo che la
Commissione per il rimpatrio dei prigionieri era stata smantellata.
Il Dipartimento militare cercava giovani ufficiali che sapessero
l'inglese e fossero disposti ad andare in Corea senza la famiglia.
Le missioni si riunivano ed alloggiavano in grandi tende e baracconi; il campo era un viavai di militari dei diversi eserciti nel clima
febbrile ed instabile di un cessate il fuoco.
Il nostro compito era duplice: a partire dalla zona franca di
Panmunjom dove eravamo di stanza, dovevamo ispezionare, con
turni di pattuglie predeterminate, cinque località ai punti cardinali della Corea del Nord (Sinanju, Simuju, Manpo, Hungnam e
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Chongjin, al confine con la sovietica Vladivostok), e cinque nella
Corea del Sud (Inchon, Kunsan, Taegu, Pusan e Kangnung), che
erano state teatro delle principali offensive e controffensive durante le ostilità tra le truppe cinesi e nordcoreane da una parte e quelle
coordinate dalle Nazioni Unite dall'altra.
Saltavamo sulle jeep e via per giorni, fino a raggiungere la destinazione fissata dove incontravamo a turno i militari dei due campi e
dove restavamo per alcuni giorni prima di tornare alla base a fare
i rapporti.
La Commissione doveva inoltre tenere una contabilità esatta di
tutti i movimenti militari.
Quando arrivavano i convogli tutti i soldati venivano fatti scendere e si mettevano in fila: noi li contavamo e trasmettevamo a chi di
dovere l'informazione.
C'era anche lo spazio aereo da ispezionare: se, ad esempio reperiva-
Dissensi & Discordanze
mo un Mig 21 di fabbricazione sovietica la cui dotazione non era
autorizzata bisognava immediatamente comunicarlo.
L'altro compito principale che ci era assegnato era il ‘meeting’ durante il quale, in una saletta dovevamo approvare con i colleghi le
relazioni da trasmettere ai superiori.
Noi svizzeri e gli svedesi eravamo liberi e neutrali mentre era evidente che i polacchi e i cecoslovacchi avevano le mani legate: prendevano ordini superiori da parte dei loro ufficiali (commissari del
partito) e dai cinesi.
Erano i cinesi a dirigere le operazioni, anche se la loro presenza era
apparentemente molto discreta, mentre dall'altra parte c'erano gli
americani, ma la loro presenza era molto più aperta e noi militi in
missione di pace - che eravamo tenuti a depositare la nostra pistola
- eravamo scortati da loro.
Vi era un ospedale diretto da uno svizzero, il dottor Iten, e lo spet-
tacolo che mi capitò di vedere era preoccupante: i medici erano
chiamati a lottare contro terribili contagi come il tetano, che mieteva parecchie vittime.
Nell'autunno del ‘54 ricevemmo l'informazione che l'esercito cinese - in aperta violazione dell'armistizio - aveva creato un aeroporto
clandestino a Nord della linea di demarcazione, in territorio nordcoreano.
La nostra missione era di recarci immediatamente sul luogo indicato per verificare la veridicità delle informazioni e fare rapporto ai
responsabili della Commissione di sorveglianza delle nazioni neutrali.
Ci fu messo a disposizione un piccolo convoglio ferroviario.
Quando arrivammo al treno, fummo accolti con una cordialità incredibile da parte dei soldati cinesi con grandi saluti e brindisi.
Il convoglio si avviò con grande lentezza e dopo alcuni chilometri
era già fermo per non precisati motivi tecnici.
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Dissensi & Discordanze
Il convoglio procedeva a singhiozzo: qualche chilometro di marcia
e un nuovo arresto.
Quando finalmente arrivammo sul posto indicato... dell'aeroporto
non vi era traccia.
Capimmo il perché del ritardo ... dare tempo ai cinesi di smantellare il tutto.
Nel 1955 ci fu un momento molto critico: la Cina comunista voleva invadere Formosa e in settembre ‘54 iniziò dei bombardamenti
che provocarono una crisi politica-militare con gli Stati Uniti.
Eravamo preparati al peggio: ad abbandonare la Corea se Washington fosse intervenuta militarmente contro Pechino.
Per fortuna Eisenhower rinunciò, per evitare una escalation pericolosa per il mondo intero.
In agosto 1955 feci ritorno in patria con la speranza che questa
Corea che aveva conosciuto oppressioni, distruzioni, invasioni potesse finalmente sapere cosa significa la libertà”.
Giovanni Poletti
“La Corea, dalla dominazione cinese a quella nipponica:
• 1894 - La Corea viene liberata dai giapponesi che vincono la
guerra contro la Cina.
• 1904 - Inizio della guerra russo-nipponica, perché lo Zar fece
valere dei vecchi diritti di usufrutto di selve lungo il fiume Yalu.
I giapponesi vincono la guerra contro la Russia e rafforzano la loro
posizione in Corea.
Dopo la destituzione dell’ultimo re della dinastia Yi la Corea diventa una colonia del Giappone.
Come avete sicuramente potuto intendere, la storia coreana è stret-
tamente legata alle vicissitudini dipendenti dai rapporti di forza
tra Cina e Giappone, ed ha quindi dovuto subirne le conseguenze.
Ricapitolando e per trovare il trait d’union che portò alla guerra
di Corea si può affermare che nei periodi di dominazione cinese i
coreani godevano malgrado tutto di relativa libertà.
Questo non è vero per il periodo che va dal 1910 al 1945, quando
furono dominati dal Giappone. Per questi decenni si può veramente parlare della nipponizzazione della Corea.
Il momento più opportuno per la liberazione della Corea era teoricamente nel 1945 per via del declino del Giappone e dell’indebolimento della Cina a causa dei conflitti interni.
Disgrazia volle che in questo vacuum politico si interponessero
due altre grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti d’America.
Nel novembre 1943 alla conferenza del Cairo, il presidente americano Roosevelt, il primo ministro Churchill per la Gran Bretagna,
e il maresciallo Chiang Kai-Shek della Cina nazionalista, discutono sul futuro della Corea e sono concordi nell’affermare che dopo
la guerra, cioè la seconda guerra mondiale, la Corea deve diventare
libera ed indipendente.
A Yalta nel febbraio del 1945 si discute ancora della Corea, ma
questa volta in presenza di Stalin.
Le grandi potenze decidono che la Russia, dopo la vittoria sulla Germania, dichiarerà guerra al Giappone (e questo avverrà
l’8.08.1945), e che si occuperà della capitolazione delle truppe
nipponiche nella parte settentrionale della Corea.
Questa convenzione venne più tardi confermata in occasione della
Conferenza di Potsdam, e durante la quale si stabilì il 38° parallelo
quale linea di frontiera, a nord della quale avrebbero operato
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i russi e a sud gli americani, ossia per disarmare i giapponesi.
Dato che la dichiarazione del Cairo venne a posteriori riconosciuta
anche dai russi in occasione della Conferenza di Potsdam, gli alleati erano convinti di riconoscere il 38° parallelo unicamente come
linea d’operazione militare e non come confine politico.
Si sbagliarono di grosso perché poco tempo prima della capitolazione del Giappone i russi invasero la Corea del Nord e la occuparono fino al 38° parallelo.
Per chiarire la situazione, una conferenza dei ministri degli esteri
dell’URSS, USA, GB e Cina nazionalista, venne convocata a Mosca nel novembre 1945.
Non si concluse nulla (l’idea era quella di formare un governo
provvisorio sotto il mandato delle grandi potenze).
Ci riprova l’assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre
del 1947, dando l’incarico ad una speciale commissione di preparare le elezioni in tutto il paese.
A causa della mancata collaborazione da parte delle autorità militari la commissione non potrà portare a termine il compito assegnatole.
La divisione delle due Coree, vista l’impossibilità di sbloccare la situazione venutasi a creare dopo l’invasione delle truppe comuniste
fino al 38° parallelo, esiste quindi già de facto.
Nell’ottobre 1945, Kim Il Sung ed i suoi seguaci fondano il partito
comunista coreano e l’esercito popolare coreano.
Nel settembre 1948 proclamano la fondazione della Repubblica
Democratica Coreana definendola l’unica rappresentante legale
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del popolo coreano. Quest’ultimo atto accade dopo che un mese
prima a Seoul era stata regolarmente eletta con elezioni libere
un’Assemblea Nazionale.
Il governo da essa costituito sarà più tardi riconosciuto dall’assemblea generale delle Nazioni Unite come unico governo legale
della Corea.
Nel corso del 1949, sia le truppe americane che le truppe sovietiche si ritirano completamente dalla penisola coreana.
I negoziati di armistizio iniziarono il 10 luglio 1951 a Kaesong,
e si conclusero con l’accordo di Panmunjom, il 27 luglio 1953,
dopo un totale di cinquecentosettantacinque riunioni.
Particolari interessanti a sapere i seguenti, che la seduta più corta
durò quindici secondi, e che il periodo più lungo d’interruzione
delle trattative è stato di centonovantanove giorni.
Il trattato d’armistizio è stato firmato dal comandante supremo
delle Nazioni Unite, generale Clark, come pure dai comandanti supremi delle forze armate nordcoreane e cinesi, ma non dai
sudcoreani.
Le trattative sarebbero forse continuate ancora per diverso tempo (nordcoreani e cinesi non avevano fretta) se non ci fossero stati
i seguenti tre fatti a propiziarne la conclusione e la firma del trattato d’armistizio: l’intervento a favore di una soluzione da parte
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,la paura cinese di
una vittoria repubblicana in America, con probabile intervento
delle truppe nazionaliste di Chang Kai-Shek, la morte di Stalin
avvenuta il 05 marzo 1953”.
Dissensi & Discordanze
YUT (윷)
Il gioco
tradizionale
coreano
Le origini
Yut (윷)è un gioco tradizionale giocato in Corea, specialmente nei
giorni di celebrazione del Nuovo Anno coreano.
Sebbene le sue origini non sono totalmente certe, molti studiosi
indicano che lo YUT veniva giocato già al tempo dei Tre Regni
(57 BC - 668 AD),
La tradizione popolare
La tradizione popolare afferma che gioco rappresentava una sorta
di scommessa tra i diversi villaggi per disputarsi il diritto di allevare, per la loro sopravvivenza, cinque generi di bestiame: maiali,
cani, pollo, mucche e cavalli.
Ognuno di questi villaggi avrebbe allevato ed investito solamente
in un tipo di animale.
Il Significato Sociale
È il gioco popolare per eccellenza, è il più giocato in tutta la Corea.
È considerato un gioco unico al mondo (anche se lontanamente
ricorda un po’ il Pachisi indiano) ed è tipicamente coreano. È considerato come un spettacolo sociale, con spettatori e membri delle
varie squadre, che gridando rumorosamente ed incoraggiandosi
l'un l'altro, chiedono che la propria squadra riesca ad ottenere, ad
ogni tiro, un determinato punteggio. La squadra avversaria, a sua
volta, urla a gran voce perché emerga un punteggio diverso. Viene giocato in pressoché ad ogni Chusok 추석 (Festa coreane del
raccolto o del ringraziamento) ed in tutti gli altri momenti festa o
raduni. È giocato ovunque in Corea ma anche nelle case coreane in
tutto il mondo, nelle occasioni speciali o di festa.
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I Materiali
4 yut (윷) (bastoncini di legno piatti da
un lato e rotondo dall'altro);
4 mal (윷 )per giocatore o
squadra (pedine o marcatori di
luogo);
1 campo o pedana ( mal-pan 말판)
di gioco (veda diagramma sotto) che
normalmente è fatto di stoffa cucita, di forma rettangolare o quadrata. Ci sono quattro percorsi diritti e due diagonali. Su ognuno
dei percorsi ci sono 28 stazioni, più una in comune al centro, per
un totale di 29.
Il campo può anche essere disegnato sul pavimento.
Si dice che, in passato, ogni stazione del campo avesse un nome,
anche se oggigiorno siano sconosciuti alla maggior parte dei coreani. Si pensa che le stazioni esterne simboleggiano il Cielo, e il
quadrato interno rappresenti la Terra. Il campo di gioco perciò può
essere interpretato come un riflesso della simmetria dell’universo e
delle costellazioni celesti, che ha riferimenti nel Taoismo coreano.
Quattro per squadra sono le pedine (marcatori) che vengono usate
per il gioco, chiamate mal (말). Non ci sono regole su quale materiale usare per le pedine (monete, bottoni, i piccoli ciottoli, ecc).
L'unica regola è che i mal delle squadre devono essere chiaramente
distinguibili.
Come si gioca
Il gioco viene giocato da due o più squadre per volta. Essendo un
gioco popolare, giocato nei momenti celebrativi della comunità,
non c'è limite nel numero di partecipanti per ogni squadra; il che
vuole dire che al giochi possono partecipare un numero considerevole di persone. Quando si gioca in grandi gruppi, non tutti i
membri del gruppo hanno la possibilità di gettare i bastoni yut,
perciò partecipano discutendo la strategia della squadra e sostenendo i lanciatori.
Il gioco inizia con tutti mal nella casella iniziale. Si determina chi
inizia il gioco attraverso un primo lancio degli YUT. Inizia la squadra che ha realizzato più punti. Ogni squadra a turno lancia poi
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i bastoni yut in aria FACENDOLI ROTEARE. Quando i bastoni
precipitano, il giocatore fa avanzare un mal nelle stazioni lungo
il campo. Secondo queste regole:
Do ( maiale)– avanti 1 stazione – I bastoncini si fermano
con 1 piatto e 3 tondi;
Gae (si pronuncia Ghe) (cane) - avanti 2 stazioni - I bastoncini si fermano con 2 piatti e
2 tondi;
Geol (si pronuncia Gul) (pecora)avanti 3 stazioni - I bastoncini
si fermano con 3 piatti e 1
tondo;
Yut ( mucca)- avanti 4 stazioni - I bastoncini si fermano con 4
piatti;
Mo (cavallo)- avanti 5 stazioni - I
bastoncini si fermano con 4 tondi.
Il giocatore che realizza un yut (4 piatti) o
mo (4 tondi) può gettare di nuovo i bastoni. Non
c'è limite al numero di volte che un giocatore può gettare di nuovo gli yut . Si può continuare fintantochè si realizzano yut o mo. I rispettivi risultati possono essere applicati
agli spostamenti anche in modo separato (se lo si desidera).
Ogni squadra fa avanzare un mal secondo il risultato realizzato.
Ogni volta che lanciano gli Yut la squadra può decidere se far partire
un altro mal o far procedere quello/i che sono già sul campo.
Se un mal arriva in una stazione occupata da un mal della squadra
avversaria, questo loro mal viene rimosso dal percorso e riposizionato alla casella iniziale. Se un mal arriva in una stazione occupata
dalla propria squadra, da quel punto in poi questi mal possono viaggiare insieme (contando come uno). È da tener presente però che
è rischioso, perché se un mal degli avversari arriva in una stazione
occupata da molti mal di un altra squadra, tutti vengono rimossi
contemporaneamente dal percorso e ritornano alla casella iniziale.
I mal corrono lungo le linee del campo e possono muoversi solamente in avanti.
Importante sapere che quando un mal arriva in una delle grandi
stazioni (quelli d’angolo e quella al centro), la squadra può scegliere di prendere, se lo desidera, la strada più corta. Ci sono quattro
possibili percorsi. Il gioco è vinto dalla squadra che porta per prima
tutti i suoi mal alla casella finale ) che è poi la casella di partenza)
Riassumendo
1. solo 1 mal può essere mosso ad ogni lancio degli yut .
2. se un mal arriva su una stazione d’angolo, il giocatore può prendere la scorciatoia verso la casella finale attraverso le diagonali del
campo.
3. giocatori che realizzano mo o yut possono gettare gli Yut una
seconda svolta.
4. se due mal che appartengono alla stessa squadra arrivano nella
stessa stazione possono da quel momento in poi, avanzare insieme.
5. se un mal di una squadra arriva in una stazione occupata da un
mal dei giocatori avversari, quel mal degli avversari viene rimandato
alla casella iniziale e deve cominciare di nuovo.
6. La squadra che per prima porta tutti i suoi mal alla casella finale,
vince la partita.
Dissensi & Discordanze
Cucina e sapori
di Corea
Duk-Lim Lee
Uno dei regali più utili e preziosi che abbiamo ricevuto dagli amici coreani è il libro di ricette intitolato “The elegant food of the
righteous Palace of Heaven”.
Editore: Sung Hwa Publishing Company di Seul.
Noi tutti esseri umani abbiamo ricordi indimenticabili del nostro
paese natale: le montagne, i campi, le fragranze ed i profumi ma
anche i sapori.
I luoghi dei nostri giochi e spensieratezze negli anni della nostra
infanzia ed i sapori del cibo che contengono l’amore e l’affetto
delle nostre madri rimangono nel profondo nella nostra memoria
in modo speciale per tanto e tanto tempo.
Per questo anche se ho appreso a cucinare velocemente e con efficacia il cibo all’Italiana amo cucinare seguendo le ricette della mia
terra.
Non è sempre facile però trovare sempre e tutti gli ingredienti
necessari.
Qui di seguito vi lascio con alcune semplici informazioni sul cibo
alla coreana ed alcune delle ricette che consiglio sempre agli amici.
Il riso
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Il riso bollito (che fa le veci del vostro pane) non può mai mancare nei pasti: colazione pranzo e cena il riso ed è sempre servito in
ciotola e viene accompagnato con varie qualità di vegetali e salse
molto piccanti.
Per cucinare un riso in perfetto stile coreano occorre quello a chicchi corti, preferito per il suo gusto morbido e soffice.
Trasferite il riso in una pentola dal fondo pesante e appiattitelo.
Aggiungete acqua sufficiente a coprire la vostra mano appoggiata
piatta sul riso e chiudete il coperchio.
Portate al punto di bollitura, poi continuate la cottura a fiamma
molto bassa.
Lasciate riposare il tutto coperto per circa quindici minuti e poi
spegnete il fuoco.
Lasciate che il vapore ammorbidisca il riso ancora un po' e il riso è
pronto per essere mangiato.
Il riso va servito ben caldo.
La crosta più scura che rimane sul fondo della pentola può essere
utilizzata per preparare una delicatezza chiamata nurungji (aggiungere un po' di acqua e lasciare cuocere per un po').
cavoli cinesi, sale, peperoncino, altri con piccole rape, sale, peperoncino e con l'aggiunta di pesce secco.
Si può dire che ogni regione e ogni famiglia abbia la sua specialità.
Chapch'ae (잡채)
Il Kimch’i
Spaghettini d'amido con vegetali e carne di manzo
Tempo di preparazione: 60 minuti
Porzioni: 4
INGREDIENTI
Spaghettini d'amido (vermicelli coreani): 200 g
Carne di manzo (magro): 100 g
Funghi orientali (agarico): 100 g
Spinaci: 100 g
Cipolla: ½
Carota: ½
Peperoncini verdi: 1
Aglio schiacciato: 1 cucchiaino da tè
Semi di sesamo tostati: 1 cucchiaino da tè
Olio di sesamo
Salsa di soia
Zucchero
Pepe
Sale
Se il riso assume in Corea la funzione che ha il pane in Italia, il
kimch'i fa da companatico: può essere condimento o addirittura
fare da secondo, assieme a tanti altri piccoli piattini assortiti (germogli di soia, pesciolini, alghe, cetrioli, tofu, salsa di soia).
È un piatto di contorno molto importante e fondamentale.
La tavola non viene considerata completa se sopra non si trova
questo piatto.
Kimchi è fatto con il cavolo cinese (baechu) marinato sotto salamoia per ore finché non si ammorbidiscono le sue foglie.
Dopo di che viene asciugato e condito con peperoni piccanti macinati, estratto di pesce e varie spezie.
Alla fine questo cavolo cinese condito viene conservato nella giara
di terracotta in modo che si fermenti.
Il kimch'i è il cibo che, assieme al riso e al carbone per il riscaldamento, deve essere messo da parte per poter superare il lungo e
freddo inverno coreano.
Esistono vari tipi di kimch'i, alcuni preparati semplicemente con
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PREPARAZIONE
1. Cuocere gli spaghettini in acqua bollente fino a che non diventino morbidi. Risciacquarli con acqua fredda e scolarli completamente.
2. Tagliare la carne di manzo in fettine sottili. Mischiare con 2/3
di cucchiaio da tavola di salsa di soia, 1 cucchiaino da tè di aglio
schiacciato, 1 cucchiaino da tè di zucchero, 1 cucchiaino da tè di
olio di sesamo, pepe e sale.
3. Tagliare i funghi in strisce sottili. Mischiarli con 1 cucchiaino da
tè di salsa di soia e 1/3 di cucchiaino di zucchero.
4. Mettere gli spinaci nell'acqua bollente e poi spegnere subito il
fuoco. Risciacquarli con acqua fredda e schiacciarli bene. Mischiarli con ½ cucchiaino da tè di olio di sesamo e sale.
5. Affettare la cipolla, il peperoncino verde e la carota in strisce da
5 cm.
6. Scaldare in una padella un po' d'olio. Cuocere prima la cipolla,
poi la carota e infine il peperoncino verde con sale.
Dissensi & Discordanze
Metterli in un'ampia ciotola.
7. Cuocere nella padella calda il fungo e la carne di manzo fino a
che siano ben cotti. Metterli nella ciotola.
8. Tagliare gli spaghettini in pezzi lunghi circa 7,5 cm. Mischiarli
con due cucchiai da tavola di salsa di soia e 1 cucchiaino da tè di
zucchero. Spargere 2 cucchiai da tavola di olio nella padella calda.
Cuocere gli spaghettini su fuoco moderato fino a che diventino
semitrasparenti.
9. Mischiare assieme tutti gli ingredienti nella ciotola. Aggiungere, secondo i gusti, sale, salsa di soia, olio di sesamo e zucchero.
Servire caldo.
Pulgogi (불고기)
Manzo alla brace
Il pulgogi è uno dei piatti più famosi.
Pul in coreano significa “fuoco”, mentre kogi significa “carne”.
La parola pulgogi, significa quindi “carne al fuoco”, ovvero “carne
alla brace”.
Al ristorante viene portato in tavola un braciere con sopra un'armatura metallica bucherellata, e poi tanti piattini, contenenti salsa
di soia, salse varie e tante fettine di carne molto strette
Quando l'armatura metallica è abbastanza calda, si mettono su di
essa alcune fettine di carne a cuocere e si cospargono di una salsa
che dà un gusto dolciastro alla carne.
Non essendo pratico il cucinarlo nella case occidentali, preferisco
preparare il
5. Incidete la carne e fate dei tagli con un coltello affilato
6. Filtrate il brodo di carne attraverso un panno di cotone
7. Pulite le radici e tagliuzzatele
8. Tagliate le carote, i funghi
9. Pulite le castagne e le noci di gingo
10.Friggete il bianco ed il tuorlo dell’uovo separatamente e tagliatele in piccole losanghe
11. Fate soffriggere le verdure ed i funghi e preparate una salsa
12. Tagliate a pezzetti la pera ad aggiungetela alla salsa
13. Aggiungete la carne e fate cuocere per 30 minuti in meta della
salsa che avete preparato
14. Guado inizia a bollire abbassate le fiamme e cuocete a fuoco
lento
15. Aggiungete le traduci ed il peperoncino e continuate la cottura
16. Aggiungete poi la bacche di giuggiolo, le castagne e le carote.
17. Versate tutta la salse in modo uniforme e fate nuovamente
cuocere
18. Quando e pronto mettete tutto in un grande piatto con le
losanghe di uovo e con i pinoli
Il GINSENG,
ovvero la radice uomo
Non si può parlare di Corea senza parlare di Ginseng.
Kalbichim
ovvero Costola di manzo stufato
Ingredienti
1000 gr di biancostato tagliato a pezzi
300gr di radice
200gr di carota
4 funghi shiitake
2 peperoncini rossi secchi
10 noci di gingo
5 bacche di giuggiolo
8 castagne
1 cucchiaio di pinoli
1 uovo
1 cipolla verde
5 spicchi d’aglio tagliati sottilissimi
½ radice di zenzero
1 cucchiaio di pepe macinato
1 cucchiaio da the di olio di sesamo
6 cucchiai di salsa di soia
4 cucchiai colmi di zucchero di canna
1 pera orientale
q.b. di sale
Preparazione
1. Immergete la carne in acqua per 2-3 ore affinché si pulisca di
tutto il sangue
2. Lavatelo in acqua bollita
3. Fate bollire dell’acqua immergete la carne, aggiungete una
grossa cipolla , aglio, zenzero ed il pepe. Fate bollire per 30 minuti,
togliete il grasso e le bollicine di bollitura.
4. Togliete la carne dalla pentola e tagliate via tutti il grasso e la
cartilagine
Il ginseng (insam nella lingua coreana), è il prodotto tipico della
Corea più noto in Italia. È una radice che si dice abbia proprietà
taumaturgiche generali quasi prodigiose. Adottato dalla farmacopea cinese fin dai tempi più antichi, era già allora esportato dalla
Corea in Cina. Uno dei tributi che la dinastia Yi inviava alla corte
cinese era appunto costituito da ginseng. È conosciuto in oriente
come elisir di lunga vita e considerato il migliore perché il clima
ideale della Corea ed il suo terreno gli conferiscono una particolare
efficacia terapeutica.
Nel primo simposio internazionale sul Gisnseng tenutosi a Seul
nel 1974, alla presenza di numerosi scienziati da tutto il mondo
si sono riconosciuti al ginseng efficaci proprietà e numerose campi
di applicazione. Il ginseng è cosi uscito dalla leggenda confermando dopo un severo vaglio delle scrupolose e più moderne indagini
scientifiche , le proprietà da tempo attribuitegli.
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Il Ginseng è una della erbe medicinali orientali più famose nel
mondo.
Per gli antichi testi cinesi, risalenti al III-VI secolo a.C.,il Ginseng
era il tonico delle 5 viscere e le benefiche proprietà erano tali che
chi le provava non poteva dimenticarle. Studi recentissimi, effettuati in Europa, Stati Uniti,Russia, Giappone e Corea,riconoscono
al Ginseng le straordinarie proprietà da tempo attribuitegli.
La filosofia tradizionale cinese della radice a forma di uomo che
migliora e prolunga la vita (nei paesi di origine è conosciuto come
"la pozione della longevità") ha trovato conferma in laboratorio.
Quattromila anni di storia del suo utilizzo hanno messo a punto
i dettami di un trattamento naturale finalizzato a salvaguardare
l’equilibrio fisico e intellettuale.
Le applicazioni nella medicina tradizionale cinese includono il trattamento della stanchezza generale, della fatica cronica, della inappetenza, dell'anemia, del nervosismo, delle amnesie, della sete e
dell'impotenza.
In COREA cresce il PANAX GINSENG C.A. MEYER considerato ormai universalmente il miglior GINSENG in termini di qualità ed efficacia. La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto
che il ginseng coreano dimostra eccellenti proprietà “adattogene”
che aiutano a tonificare e riequilibrare le funzioni metaboliche e di
ripresa del corpo.
Con la parola “adattogeno” si intende la capacità del ginseng di
agire su molteplici fronti con il fine di aiutare ciascuna cellula a
ritrovare il proprio benessere e quindi a tornare in armonia con
le altre cellule del tessuto cui appartiene, per un globale raggiungimento dell’equilibrio corporeo, indipendentemente dalla causa
che l’aveva alterato. In parole povere, l’azione del ginseng si esplica nell’aiutare ogni cellula a svolgere al meglio il suo lavoro, adat-
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tandosi alle variazioni ambientali. Il ginseng è in grado dunque di
favorire le funzioni organiche depresse e, contemporaneamente,
deprimere le funzioni organiche eccessivamente eccitate.
Da queste azioni deriva il nome di "panacea" che il Ginseng si è
giustamente guadagnato nel corso degli anni.
Il Ginseng sostanza energizzante
Anche se cure miracolose sono state attribuite al Ginseng e il suo
nome botanico latino Panax suggerisce una abilità da panacea, il
suo uso principale è come tonico. Il Ginseng è la sostanza energizzante probabilmente più conosciuta e più usata che si trova in natura e alla quale da anni la moderna farmacologia riconosce un’azione tonica e corroborante, confermando l’esperienza millenaria
orientale. Gli effetti benefici provenienti dall’uso del Ginseng sono
molti e di tipo diverso, basti ricordare che sono stati dimostrati
effetti benefici che vanno dalla regolazione di alcune funzioni del
sistema nervoso centrale, ad effetti benefici sulle funzioni epatiche,
sulla pressione arteriosa, sulla riduzione degli effetti dello stress,
sul metabolismo degli zuccheri, sull'aumento dei globuli rossi e
delle difese immunitarie, sul miglioramento delle attività fisiche
e psichiche. La sua unica combinazione di componenti e principi
attivi agisce su una vasta gamma di funzioni come l'assorbimento
del glucosio, la funzione cerebrale, la respirazione e le ghiandole
endocrine. La radice è usata come tonico per invigorire e combattere la fatica, la ridotta capacità sul lavoro, la concentrazione, e
nella convalescenza.
Il Ginseng aiuta a ripristinare la normale funzione ghiandolare
dopo la contraccezione o la terapia ormonale (di sintesi). La ricerca
scientifica recente sta indagando sulle presunte proprietà anticancro del
Ginseng, che si ritiene sia particolarmente efficace per le donne nel prevenire i tumori al seno, grazie al suo alto contenuto di isoflavoni.
Disfunzione erettile: resi noti i risultati positivi
Proprio perché il Ginseng si rivela spesso all’altezza delle aspettative, attestandosi sempre più sulla scena come una pianta ricca di
validi benefici, diversi gruppi di ricercatori continuano a studiarne
virtù e potenzialità. Le notizie questa volta arrivano dall’oriente:
giusto nel dicembre 2012 sono stati resi noti i risultati positivi di
uno studio condotto da un team del Yonsei University College of
Medicine di Seul sull’uso del Ginseng in soggetti con problemi di
disfunzione erettile. Lo studio, pubblicato sull’autorevole International Journal of Impotence Research, dimostra che il Ginseng ha
ancora tanto da insegnare.
Non è la prima volta che estratti di questa pianta vengono testati nell’ambito della disfunzione erettile; comunque, ogni studio è
una nuova conferma della validità e degli sviluppi che potranno
avere ulteriori ricerche in questo senso. Il gruppo di ricerca guidato dal Dott. Choi ha lavorato su 119 pazienti, allestendo uno
studio clinico con placebo (ad un gruppo di soggetti è stato fornito
Ginseng mentre all’altro un placebo), a doppio cieco (né i ricercatori né i soggetti erano a conoscenza di chi stesse ricevendo il
Ginseng e chi il placebo, così da garantire completa neutralità da
ambo le parti), randomizzato. I soggetti in studio hanno assunto,
per 8 settimane, un estratto della bacca del Ginseng, scelta per
il suo particolare profilo ginsenosidico. L’efficacia è stata valutata
ricorrendo all’International Index of Erectile Disfunction, caratterizzato da una scala di valori. Alla conclusione del periodo, l’indice
del gruppo che aveva assunto il Ginseng era migliorato in maniera
statisticamente significativa. Quando si effettuano studi di questo
Dissensi & Discordanze
genere, è bene anche tenere monitorati marker come i livelli di
ormoni, o di lipidi nel sangue. Nello studio in questione, tali parametri sono stati verificati dopo 4 e 8 settimane, dimostrandosi
inalterati, suggerendo così l’assenza di ripercussioni su di essi da
parte del Ginseng.
L’effetto salutare del Ginseng coreano
Perché l’effetto salutare del Ginseng coreano è notevolmente superiore rispetto ad altre varietà di Ginseng?
Vari e approfonditi studi dimostrano che i principali componenti attivi del Ginseng che promuovono il benessere sono i
“ginsenosidi”.L’estratto di Ginseng coreano di qualità superiore
può arrivare a contenere fino a 38 tipi di ginsenosidi, mentre ad
esempio il Ginseng americano ne contiene 19 (Acta Pharmacol.
Sin 2008 sept. 29).Alcuni dei ginsenosidi contenuti esclusivamente nel Ginseng coreano sono tra i più efficaci nell’eliminazione della stanchezza tramite la stimolazione delle cellule nervose. Inoltre
il ginsenoside Rh2, che si trova solo nel Ginseng coreano, ha dimostrato di possedere altre notevoli e benefiche proprietà per la
salute.
L’efficacia del Ginseng coreano è data dall’armonica ed equilibrata presenza di tutti i suoi ginsenosidi. Ovviamente più alto è il
numero dei ginsenosidi presenti, più è attivo ed efficace il tipo di
Ginseng.
Le diverse specie di Ginseng
Esistono comunque diverse specie di Ginseng, la specie coreana
si chiama Panax Ginseng Meyer, la specie nord americana è denominata Panax Quinquefolium L., la specie cinese è detta Panax
Notoginseng, quello siberiano non appartiene invece alla specie
Panax ed è denominato Eleuteroccoccus Senticosus Maxim, il Ginseng giapponese appartiene ad una terza specie classificata come
Chikutsunin Jin.
La storia
Le origini del nome sono sconosciute. I cinesi lo scrivono usando
due ideogrammi che significano Radice Umana e vengono letti
LENSUN in pechinese e SHENSENG in mandarino, mentre i
coreani li leggono INSAM. Nel mondo occidentale è largamente usato il nome PANAX GINSENG. In Corea oggi il termine
INSAM è usato per definire il Ginseng coltivato, mentre viene
usato il termine SAMSAM o Canapa (Erba) Selvaggia per definire
la stessa pianta che cresce naturalmente nella montagna.
La storia orientale
Gli storici hanno tracciato la prima descrizione della pianta nel
famoso trattato cinese CHICHIUZHANG o Interpretazione delle Creature, scritto da SHIYOU fra il 44 ed il 43 a.c. Essendo
da sempre il Ginseng una pianta interessante dal punto di vista
medico, sono i trattati di medicina orientale che ne parlano più
diffusamente. Nel SHANGHANLUN o Trattato sul Raffreddore,
scritto da ZHANGZHONG-CHING tra il196 e il 200 dell'era
cristiana,ed ancora oggi largamente usato come testo scolastico in
medicina orientale, so sono riportate 21 prescrizioni che contengono Ginseng come uno dei principali ingredienti.
Nel V secolo il cinese SCHEN NUNG scriveva il suo PEN TSAO
CHING o Libro delle Erbe, che è giunto fino a noi nella versio-
ne revisionata, verso la fine dello stesso secolo , da TAOHONGCHING (456-536) e nota con il nome di SHENNUNG
BENZHANGCHINC o Farmacopea del Celeste Coltivatore, che
contiene dettagli sulle zone di produzione, qualità ed efficacia del
Ginseng ed elenca una serie di prestazioni che fanno uso della radice. Da questo famoso trattato si può facilmente dedurre che fin
dal V secolo la radice aveva attratto l'attenzione dei medici che
1'avevano studiata in modo sistematico ed esaustivo.
Chiaramente TAO HONG-CHING dice che il Ginseng è la migliore delle medicine e che il prodotto coreano è il migliore in qualità. Tra le malattie per le quali la radice ha provato di essere efficace, questi primi ricercatori elencano mal di testa, fatica, capogiro,
nausea, asma, emorragie ed impotenza. Una nota curiosa è rappresentata dal fatto che nel famoso trattato di TACHONC-CHING
si legge che la polvere di Ginseng mescolata alla polvere d'oro sono
gli elementi di base nella preparazione dell'elisir di lunga vita e tale
descrizione può essere legata alla religione Taoista che a quei tempi
era ancora popolare nell'intera Cina. Secondo tale religione l'uomo doveva cercare l'immortalità ed in questo processo l'apporto di
medicamenti o elisir era altamente suggerito. Il Taoismo credeva
in medicamenti di origine minerale quali il mercurio, l'oro e altri
metalli non alterabili e li accoppiava a medicamenti di origine vegetale. I taoisti credevano che i prodotti originati nelle tre divine
montagne (BONGRAI, BANGCHANG e YONGCHU) fossero i
più efficaci. Queste montagne erano tradizionalmente localizzate
nella Penisola del LIAOTUNG, nell'area cioè appartenente al reame KOKURYO, da ciò quindi la preferenza per il Ginseng coreano. Un altro famoso trattato di medicina cinese, il CHINGYUE,
scritto durante la dinastia dei MING (1368-1644) elenca 2218
prescrizioni e fra queste ben 509 richiedono il Ginseng come componente di base. Il primo trattato medico coreano che ne fa cenno
è il prestigioso PANGYAK HAPHYON scritto nel1885 che raccoglie 467 prescrizioni di cui 132 richiedono l'uso della radice di
Ginseng.
La storia occidentale
Più interessante invece è la storia del Ginseng in rapporto all'Occidente. Stranamente Marco Polo (1255- 1324) 1324) non ne fa
cenno nel suo "Il Milione" ed il fatto è piuttosto inspiegabile visto
che i Polo erano dei mercanti e che il Ginseng in quel periodo godeva di una certa popolarità in Cina.
Secondo E.U. CHASSE il primo europeo a portarlo in Occidente
fu uno sconosciuto mercante olandese nel 1610, ma non fece nessun effetto sia sulle persone che sugli scienziati del tempo. Verso
la fine del XVII secolo un altro olandese, Hendrick Hamel in un
libro dal titolo"Resoconto del naufragio di un battello olandese
sulle coste dell'isola di Quelpart” descrive il Ginseng come un prodotto indigeno della Corea. Hamel riuscì a salvarsi,assieme a pochi
compagni,quando il suo mercantile naufragò a sud dell'isola coreana di CHEJI (Quelpart) nel 1653 e venne tenuto prigioniero nella
penisola fino al 1666 quando riuscì a fuggire prima in Giappone e
quindi far ritorno in Olanda dove scrisse il suo resoconto. Sempre
durante il XVII secolo la radice venne descritta da un altro olandese, Nicolass Witsennel suo libro "Nord et est Tartaria". Tuttavia
la prima vera dettagliata descrizione della pianta da un punto di
vista botanico e degli effetti medicinali è dovuta ai gesuita francese
padre Jartous che in una lettera da Pechino, datata 12 Aprile
55
1711 scriveva:"... Il Ginseng è una medicina insuperabile per la
fatica generata da eccessivo lavoro sia della mente che del corpo.
Essa produce una sostanza emolliente, tonica, stimolante e carminativa. Il Ginseng rinforza i polmoni e la pleura, ferma l’effetto
di vomito, aumenta l'appetito, rinforza le funzioni dello stomaco,
produce limpidezza nel sangue, cura il capogiro e le vertigini e
prolunga la vita delle persone anziane. Se il Ginseng non avesse
tali effetti i cinesi ed i tartari non apprezzerebbero la sua radice
come in realtà fanno. Perfino le persone sane usano il Ginseng per
conservare il loro stato e migliorarlo. Senza dubbio il Ginseng stimola la circolazione del sangue, riscalda il corpo,aiuta la digestione
ed aumenta il vigore fisico.,.".
Il Sasam
É già stato ricordato che i coreani distinguono i due tipi fondamentali di Ginseng attribuendo loro nomi diversi, cioè chiamano
Insam il Ginseng coltivato e Sansam quello che cresce naturalmente nella montagna. Evidentemente ciò che interessa da un punto
di vista medico e scientifico è il Ginseng coltivato ed il lettore,ora,
dovrebbe avere le idee sufficientemente chiare circa i poteri della
radice. Questa informazione però non sarebbe completa senza un
cenno un po' dettagliato sul Sansam perchè proprio al Ginseng selvaggio è legato quel misticismo che da sempre si accompagna alla
radice. Nell'ottobre del 1981 a Seul veniva venduta un'erba medica all'incredibile prezzo di 38.500 dollari. Si trattava di una radice
di Sansam, vecchia di almeno un secolo, del peso di 68 grammi,
stimata dagli esperti essere vecchia Ombrella di bacche rosse di
pianta di 3 anni. La radice era stata trovata pochi giorni prima da
un contadino di 58 anni sulle pendici del monte Sorak nella provincia di Kangwon ai confini con la Corea del Nord.
Certamente se Shih Huang-ti, l'Imperatore cinese che costruì la
Grande Muraglia durante la dinastia dei Chin (221-206 a.c.), fosse
vivo avrebbe certamente pagato una cifra ancora più elevata per
avere la radice. Dice una leggenda che il grande Imperatore inviò
in Corea un eremita ed un gruppo di 3000 fra i suoi uomini più
fedeli alla ricerca dell'elisir di lunga vita, l'erba divina della longevità che la tradizione voleva crescesse selvaggia nelle montagne
della penisola. L'erba, evidentemente, era il Sansam. Da sempre
nell'intero Oriente il Sansam è considerato magico, il guaritore di
ogni malattia, la medicina mistica. Han Yong-jae, un esperto in
Sansam, dice che il prezzo di una radice selvaggia è legato a tre
fattori principali: peso, età e forma Il prezzo è particolarmente alto
quando la radice supera i 38 grammi e quando la forma assume
rassomiglianze con una donna nuda, un ragazzo o un drago. Per
completare il quadro si crede che il Sansam sia più efficace quando il prezzo richiesto dal venditore viene immediatamente pagato
senza chiedere sconti.
Oggi, in Corea, il Sansam è piuttosto raro e ciò evidentemente
contribuisce ad alzarne il prezzo. Le cronache storiche dicono che
il Sansam cominciò a diventare raro durante l'ultimo periodo della
dinastia dei Koryo (936-1392) sia per la grande domanda della
corte Coreana che a causa delle grosse esportazioni in Cina. Il Sansam è raccolto da una speciale categoria di professionisti noti col
nome di Simmani, i quali credono che la pianta sia un dono del
Dio della montagna, che la località dove cresce venga rivelata solo
in sogno e che sia l’anima della pianta stessa che comunica telepaticamente col suo raccoglitore. Il Simmani vive una strana vita. La
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gran parte della sua esistenza è quella di un uomo normale, simile
a tutti gli altri; vive cioè con la sua famiglia coltivando in genere
un piccolo campo; ma quando si prefigge di partire per ricercare la
radice allora cominciano ad apparire le differenze che lo rendono
strano e diverso da tutti gli altri.
Per prima cosa e per sua spontanea volontà entra in una specie di
vita ascetica:dorme separato dalla moglie, rifiuta qualsiasi tipo di
carne e pesce. Rifiuta di visitare abitazioni dove ci sia un morto o
che siano semplicemente in lutto, di incontrare persone in lutto,
di posare il suo occhio su qualsiasi tipo di corpo morto sia esso
quello di un cane randagio o di un pollo. La data di partenza è in
genere fissata dal più vecchio fra i Simmani della zona che si avvale
dell'aiuto di un indovino e tale data deve restare rigorosamente
segreta fra i Simmani che non devono comunicarla nemmeno alle
loro mogli. La spedizione verso la montagna è in genere fatta in
gruppo al comando del più vecchio fra di loro il quale assume
poteri assoluti durante l'intera durata della spedizione, svolgendo
compiti di giudice quando ne sorge la necessità o nelle dispute fra
Simmani, cosa non rara.
La sera prima della partenza il gruppo si riunisce in un luogo sacro,
generalmente l’altare sciamano del villaggio, dove viene svolto un
rituale propiziatorio per la sicurezza in montagna e per la scoperta
delle radici. Alla fine del rituale il leader dei Simmani brucia per
due volte della carta di riso in un rito di esorcismo: i Simmani
credono che se le ceneri della carta bruciata vengono portate dal
vento verso la montagna, il Dio protettore sta rispondendo favorevolmente alle loro preghiere. Dopo il rito vegliano l'intera notte,
al lume delle candele e si preparano per la partenza che avverrà
all'alba. Solamente il leader sa dove andare e la meta deve essere
raggiunta nella stessa giornata della partenza. Il gruppo cammina
in silenzio, allineato in ordine di età tenendo tra le mani un lungo
bastone di legno che serve loro come aiuto durante la marcia e nello stesso tempo come arma di difesa contro serpenti o altri animali.
Il bastone è l'unico mezzo che i Simmani usano per comunicare fra
di loro. Lo sbattono ripetutamente contro le rocce in una specie di
codice Morse. Una volta raggiunta la destinazione il primo compito che li attende è quello di preparare una specie di campo base,
formato essenzialmente da capanne di frasche. Le capanne sono
di due tipi: individuali usate per dormire, ed una grande capanna
collettiva usata per le riunioni e per i pasti.
Questa capanna collettiva è l'unico posto dove è permesso parlare
e l'unico discorso autorizzato è la dettagliata descrizione dei sogni
che ognuno di loro ha avuto. Solo il leader è autorizzato a fare
interpretazioni dei sogni in rapporto al luogo dove trovare la radice e tale interpretazione è importante per il lavoro di ricerca da
svolgere il giorno seguente. Durante il periodo trascorso in montagna, ad eccezione di quando descrivono i loro sogni, i Simmani
non possono parlare, ma quando uno di loro ha individuato una
pianta allora deve urlare per tre volte la frase "ho visto il Sansam"
conficcando il bastone nel terreno vicino alla pianta stessa. Una
volta udito il grido, gli altri devono abbandonare le ricerche e raggiungere il più fortunato per aiutarlo a scavare la radice.
Il lavoro di scavo deve essere compiuto con le mani,senza cioè l'aiuto di attrezzi,per evitare di rompere anche la più piccola delle
code che compongono la radice. Una radice di Sansam con anche
una sola piccola coda rotta è definito "Sansam arrabbiato" ed il suo
prezzo automaticamente diminuisce perchè si crede che nel man-
Dissensi & Discordanze
giare del Sansam arrabbiato si trasferisca la rabbia in chi lo mangia.
Una volta raccolta la radice il fortunato Simmani deve sotterrare
un paio di monete in modo da ripagare il Dio della montagna per
il prezioso dono. Dopo un periodo di ricerca che varia dai cinque ai
dieci giorni, il gruppo ritorna al villaggio camminando in fila nello
stesso ordine di partenza,con l'eccezione che il fortunato che ha
trovato la radice guiderà la fila portando fra le mani due bastoni in
modo che l'intero villaggio venga a conoscenza del fatto.
Questa è la vita di un tradizionale ricercatore di Sansam ed oggi a
praticare la professione ufficialmente sono circa 70-80 persone che
vivono sulle pendici delle più alte montagne del paese: il Sorak, il
Chiri, l'Odae e poche altre. Molti di più però sono coloro che ricercano la radice come hobby, magari durante la gita domenicale in
montagna. Per queste nuove leve la procedura è ovviamente molto
diversa, meno mistica,meno ispirata dagli Dei della montagna. ma
altrettanto ricca di sogni di trovare la radice e diventare improvvisamente ricchi.
La coltivazione
L'area geografica dove cresce naturalmente il Ginseng coreano è
compresa fra i 30 ed i 48 gradi di latitudine nord nell'estremo
oriente. In genere la pianta cresce in 3 distinte aree geografiche :
Corea (fra i 33,3 ed i 43.3 gradi di latitudine nord). Manciuria (fra
i 43 ed i 47gradi di latitudine nord) e Siberia (tra i 0 ed i 48 gradi
di latitudine nord).
La prima notizia storica della coltivazione del Ginseng risale al
1122 quando venne, con successo, fatto un tentativo di trapianto di una pianta selvaggia. Da allora la coltivazione del Ginseng
è in Corea una vera e propria arte tramandata di generazione in
generazione. In Corea l'area tradizionale di coltivazione era la zona
di KAESONG (la capitale medievale del paese), oggi nella Corea
del Nord, ma fin dal secolo scorso la zona venne estesa all'area
centrale della penisola dove le condizioni climatiche, ecologiche e
geologiche sono le più adatte. In quest'area infatti il terreno drena
naturalmente in modo eccellente ed i fitti boschi di latifoglie che
coprono le zone montagnose procurano i necessari livelli di ombra,
umidità, e fertilizzazione che si accompagnano a moderate precipitazioni, ad un considerevole sbalzo di temperatura fra il giorno
e la notte ed a quattro stagioni climatiche ben differenziate. Oggi
la pianta viene coltivata con metodi moderni che ricopiano quasi
perfettamente gli schemi tradizionali naturali.
Trapianto di radici di un anno coltivate nel semenzaio.
Metodo di Coltivazione
La coltivazione può avvenire solo in terreni idonei, come quello
coreano o della Manciuria. Necessita di particolari cure che riproducono l'habitat in cui questa pianta cresce spontaneamente: copertura ombrosa, buon drenaggio d'acqua, protezione dal vento,
terreno ricco di humus, ecc.
La coltivazione del Ginseng richiede un duro lavoro, difficilmente
meccanizzabile, una profonda esperienza e un lungo periodo di
tempo per la crescita (4 - 6 anni). Il terreno usato per la piantagione di Ginseng non può essere utilizzato per una seconda coltivazione prima di 5 -10 anni. I semi piantati in autunno germogliano nel
marzo successivo dando origine ad una prima radice. Le radici secondarie cominciano a formarsi in maggio ed aumentano nei mesi
successivi fino a raggiungere il numero di 40 alla fine di agosto.
Quando la radice raggiunge il primo anno di età vengono tolte le
radici secondarie e viene trapiantata. Raggiunge la maturazione
dal 4° al 6° anno di età.
Radici mature di 6 anni pronte per il processo estrattivo
Il Ginseng è una pianta sempreverde il cui rizoma emette germogli
ogni anno. Le foglie sono palmate; il loro numero dipende dall’età
della pianta e dai sistemi di coltivazione. Al centro delle foglie cresce un lungo peduncolo alla cui estremità si forma un'infiorescenza
di colore giallo, che si apre a partire dal 3° anno. La fioritura inizia
a maggio ed in luglio si trasforma in una ombrella di bacche rosse.
La riproduzione è normalmente autogamica. Infatti i fiori coperti
prima della fioritura si rivelano per il 90% autoimpollinanti. È
comunque possibile,anche se raramente ed in modo non evidente
in natura, una impollinazione incrociata.
veduta generale e particolare di una piantagione di Ginseng; le
piante vi crescono per cinque anni, dopo il trapianto dal semenzaio.
Si ringrazia la Naturando Srl, che importa e distribuisce il Ginseng coreano IL HWA Sigillo Oro, per le informazioni, le fotografie, la consulenza offerta.
Il Ginseng coreano IL HWA Sigillo Oro è un Ginseng di qualità superiore data essenzialmente dalla filosofia di produzione IL
HWA e si può trovare nelle migliori erboristerie italiane.
Bibliografia
Teves, J.E. and Welch, M.J. (1983) Effects of ginseng on repeated bouts of
exaustive exercise, Med. Sci Sports Exerc., 15, 162.
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Michail Prisvin : Ginseng (romanzo) ed Biblioteca Adelphi 89
G. Giulino e G. Ventura: Ginseng: Dalla natura i prodotti migliori Ed
Red/ studio redazionale Como 1988
Giuseppe Maffeis Il Potente Ginseng Ed Riza 2013
57
Ginseng e cosmetica
Una parola che inevitabilmente ci porta a pensare al mondo femminile, alla
‘vanità’, al non voler invecchiare o comunque a volerne nascondere
al meglio le conseguenze.
Si tratta quindi solo di una frivolezza?
Certamente no: la cosmetica, intesa come insieme di tecniche atte a
conservare la freschezza e la bellezza del corpo, implica il mantenimento di un corpo più sano, di tessuti che meglio sopportano il passare del tempo, per un benessere che si riflette su tutto l’organismo.
Si tratta di un insieme di azioni volte al mantenimento della salute.
Ancora una volta, la natura ha generosamente messo a nostra disposizione prodotti che si possono utilizzare in cosmesi con tranquillità
e che, con sensibilità, aiutano a mantenere al meglio gli equilibri del
corpo e dei vari tessuti.
Il Ginseng, la famosa radice da tempi immemorabili utilizzata nelle
regioni orientali, sfoggia, ancora una volta, interessanti proprietà a
riguardo.
Dando uno sguardo d’insieme al ginseng, la prima parola che impariamo è ‘adattogeno’, l’aggettivo che si cita sempre parlando degli
effetti che l’estratto della radice ha sul nostro corpo.
L’azione del ginseng si esplica nell’aiutare ciascuna cellula a ritrovare
il proprio benessere e quindi a tornare in armonia con le altre cellule
del tessuto cui appartiene, per un globale raggiungimento dell’equilibrio corporeo, indipendentemente dalla causa che l’aveva alterato.
Aiuta quindi ogni cellula a svolgere al meglio il suo lavoro, adattandosi alle variazioni ambientali.
Il ginseng riveste un importante ruolo anche nel campo della cosmesi, per la quale viene applicato soprattutto ad uso topico, ed è ottimo
grazie alle sue proprietà:
- antiossidanti;
- di stimolazione e tonificazione del microcircolo;
- di miglioramento del metabolismo di derma, epidermide, e dello
strato muscolare sottostante.
Il ginseng e suoi effetti antiossidanti
Che cosa sono le molecole antiossidanti di cui tanto si parla e che
tanto aiutano il benessere delle nostre cellule?
Si tratta di molecole che per particolare struttura possono contrastare l’azione incontrollata dei radicali liberi, che possono cedere
elettroni senza divenire a loro volta instabili e che permettono di
bloccare la reazione a catena.
La formazione di radicali liberi nelle cellule è una condizione fisiologica; esse sono dotate di un sistema anti-radicalico e in condizioni
normali sanno come proteggersi dall’attacco dei radicali.
Tuttavia, l’invecchiamento o varie condizioni patologiche tendono
ad innalzare il livello di produzione di radicali liberi, portandoci ad
uno squilibrio interno, che si aggrava sempre più, con il risultato
che le strutture cellulari si indeboliscono e le cellule perdono la loro
vitalità.
È opportuno dunque andare in aiuto delle cellule fornendo loro molecole con capacità antiossidanti, come la vitamina E.
Le saponine (che, nel caso del ginseng, vengono chiamate ginsenosidi) Rb1 e Rg1fungono da ottimi agenti antiossidanti, che
aiutano a prevenire l’invecchiamento precoce delle cellule e, di
conseguenza, della pelle, mantenendola giovane e vitale più a
lungo.
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Ginseng e azione sul microcircolo
Diversi studi dimostrano come i ginsenosidi abbiano anche un’azione di stimolazione del microcircolo sanguigno locale.
Il ginsenoside Rg1, per esempio, contribuisce attivamente alla neovascolarizzazione locale.
Grazie a questa attività e all’azione tonificante dei fitosteroli contenuti nel ginseng, le cellule di quel distretto possono godere di
una maggiore disponibilità biologica di principi attivi, di nutrienti
e di ossigeno; il risultato saranno cellule più vitali ed in salute.
Ginseng e metabolismo cellulare
Grazie alla sua capacità (dovuta, tra le altre cose, al suo contenuto
in fitosteroli) di energizzare il metabolismo di derma, epidermide e
strato muscolare, il ginseng contribuisce al raggiungimento di un
maggior turgore e freschezza della pelle.
Gli effetti del ginseng applicato localmente non si esauriscono nei
tre precedenti punti: si è dimostrato, per esempio, come il ginsenoside Rb2 giochi un ruolo nella proliferazione delle cellule epidermiche, e questo è ottimo per la guarigione da ferite.
Il ginsenoside Rb1, invece è ottimo nell’accelerare la guarigione
dei tessuti da eventuali bruciature.
Citiamo come ultimo (ma non perché abbia una minore importanza!) il ginsenoside R, che può promuovere la sintesi di collagene
I e III, in modo da reintegrare il depaupero dei livelli di queste
molecole che può subentrare con l’avanzare dell’età.
Tutto ciò a vantaggio di maggior resistenza ed elasticità della pelle.
In conclusione, grazie alla sinergia di tutti i contenuti del Ginseng
(ginsenosidi, fitosteroli, zuccheri, vitamine, mucillagini, pectine,
…) si può ottenere maggiore elasticità, resistenza, turgore, tono
ed idratazione della pelle, cui consegue una minore formazione di
rughe e, in generale, una pelle molto, molto più sana.
Tutto ciò è ottimo soprattutto per pelli che abbiano perduto elasticità e tono, come anche per la salute di capelli e cuoio capelluto.
Le informazioni sono state riprese da:
linea HANIDA GINSENG CARE che è la prima linea completa che
utilizza, in sinergia, le proprietà rigeneranti, antiossidanti e antiage del
GINSENG.
Si ringrazia la Naturando srl per le informazioni offerte.
Dissensi & Discordanze
The Little
Angels
of Korea
MAURO SARASSO
Incontrai i Little Angels, per la prima volta nel 1974, alla loro
apparizione in Italia.
Invitati dal direttore e fondatore della Istituto Italiano per l’Asia,
avevano ottenuto il patrocinio della’Ambasciata delal Corea del
Sud in Italia.
Due furono i loro spettacoli al Teatro Argentina, poi furono invitati al Quirinale dal presidente della Repubblica, Giovanni Leone
e mandarono le loro voci nell’etere Italiano dagli studi della Radio
Vaticana.
Erano già stati a Londra e si erano esibiti di fronte alla Regina
Elisabetta II, ospiti d’onore a palazzo.
Il ‘The Evening News’ di Londra, aveva riportato a caratteri cubitali la notizia dello spettacolo perché questo aveva sconvolto il
protocollo reale.
Si erano poi esibiti più volte alla Casa Bianca, e alla fine del 1973
avevano danzato davanti a tutti i rappresentanti delle nazioni proprio al Palazzo di Vetro, all’Assemblea Generale dell’ONU.
Mia moglie Duk Lim li aveva accompagnati da Seul per la loro
tournee a New York.
Negli anni a venire hanno offerto spettacoli per quaranta capi di
stato e sono apparsi quasi cinquecento volte in tv.
Dalla fondazione hanno effettuato quarantadue tournée all'estero,
offrendo oltre seimila rappresentazioni in cinquanta paesi.
Nel 1998 diedero uno spettacolo addirittura a Pyongyang, nella
Corea del Nord.
I mezzi di informazione in Messico parlarono molto del gruppo
quando fu invitato in occasione del ‘Culture & Art Festival’ durante i Giochi Olimpici del 1968.
Affermarono che, “se il festival fosse stato un evento agonistico,
una delle medaglie d'oro sicuramente sarebbe stata assegnata ai
Piccoli Angeli per l’atmosfera mistica orientale che hanno saputo
creare emozionando così tanto il pubblico”.
Ho rivisto poi il loro spettacolo nel 1982 in occasione del mio matrimonio con Duk-Lim Lee e visitai la loro scuola di danza nel 1986
durante un secondo viaggio in Corea con la mia famiglia.
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Le Olimpiadi di Seul del 1988 iniziarono con il rullo dei tamburi
suonati dai Piccoli Angeli.
Inoltre nel 2002, la Coppa del Mondo di Calcio che si svolse in Corea e Giappone fu annunciato dalle voci e dalle incantevoli danze
dei Piccoli Angeli.
Quando la guerra fredda stava per finire, i Little Angels furono
invitati ad esibirsi al Cremlino.
L’ex first lady russa Raisa Gorbachev affermò di non aveva visto
mai uno spettacolo più fantastico e che un sogno della sua infanzia
sembrava essersi realizzato attraverso di loro.
I Piccoli Angeli nel maggio del 1998, portarono i loro spettacoli
a Pyongyang.
Era la prima visita al Nord di una ONG sudcoreana dalla fine del
conflitto di Corea.
Aprirono così le porte per un attivo scambio culturale tra Corea
del Nord e del Sud.
Le Origini
La compagnia nasce all’inizio degli anni sessanta da un gruppo di
persone povere che non potevano permettersi di avere cibo sufficiente.
Risparmiavano un poco alla volta i soldi che, poi, condividevamo
con chi era più misero di loro.
Combattevano la fame con qualche patata bollita.
Nel 1963, usarono il denaro che avevamo risparmiato in questo
modo per scegliere diciassette bambine della scuola Seonghwa e
formare un corpo di ballo, che chiamarono i ‘Piccoli Angeli’.
La Corea, a quel tempo, era assai povera di spettacoli culturali.
Non avevano nulla cui loro stessi potessero assistere e appassionar-
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si e meno che mai spettacoli da mostrare alla gente di altri paesi.
Erano tutti troppo occupati a cercare di sopravvivere, per ricordarsi di cosa fosse la danza coreana o anche semplicemente del fatto
che avevano un patrimonio culturale che risaliva a cinquemila anni
addietro.
“Il mio sogno, (racconta il Dott Moon nella sua autobiografia “La
mia vita per la Pace”) consisteva nel far sì che queste diciassette
bambine imparassero la danza e poi andassero a danzare in giro
per il mondo.
Molti stranieri conoscevano la Corea soltanto come un paese povero che aveva combattuto una guerra terribile dal 1950 al 1953.
Io volevo mostrare al mondo la bellezza della danza coreana, così
che potessero rendersi conto che la Corea è un paese di grande
cultura.
Avremmo potuto spiegare ed insistere che eravamo un popolo ricco di cultura con una tradizione di cinquemila anni.
Nessuno ci avrebbe creduto, se non avessimo avuto qualcosa da
mostrare loro.
Le nostre danze - con ballerine vestite di bellissimi hanbok lunghi
fino a terra, che roteavano tutt'intorno - sono una meravigliosa
eredità culturale, che poteva dare un'esperienza nuova agli occidentali.
Le nostre danze sono imbevute della storia dolorosa del popolo
coreano.
Le movenze della danza coreana - in cui le ballerine tengono la
testa leggermente chinata, e si muovono con grazia e cura - sono
state create dal popolo coreano, la cui storia, lunga cinquemila
anni, è stata piena di sofferenza.
Ciò che muove il cuore del pubblico è che ciascuna mossa della
Dissensi & Discordanze
danza viene compiuta con grande gentilezza e leggiadria.
Essa permette la comunicazione tra persone che non capiscono l'una la lingua dell'altra.
Fa sì che le persone, che pur non conoscono l'una la storia dell'altra, ne comprendano però il cuore.
In particolare, l'espressione innocente del viso e il sorriso luminoso
delle bambine avrebbero di certo riabilitato definitivamente l'immagine triste di questo mio paese, la Corea, che era da poco uscito
dalla guerra.
Creai questo corpo di ballo per presentare la danza, proveniente
da cinquemila anni di storia della nostra nazione, alla gente degli
Stati Uniti, a quel tempo, il paese più progredito del mondo.
Erano le danze gentili della nostra tradizione eseguite da ballerine
abbigliate nei costumi tradizionali della nostra nazione”.
Nel settembre del 1965, dopo appena tre anni di formazione, i
Piccoli Angeli furono già in grado di esibirsi di fronte all’allora
presidente americano a Gettysburg.
Tournée Mondiale in occasione
del sessantesimo anniversario
del conflitto coreano
Al Teatro Argentina di Roma venerdì 3 giugno 2011 c’è stato
lo spettacolo straordinario del corpo di ballo dei Little Angels di
Corea.
Lo scopo della tournée mondiale, di cui Roma era una tappa, era
quello di rendere onore al personale militare e a tutti i veterani
italiani della Guerra di Corea.
Il Balletto Folcloristico ha offerto lo spettacolo per ringraziare l’Italia per l’invio di unità mediche nel conflitto che, sessanta anni fa,
ha difeso la libertà della Corea.
Hanno reso poi omaggio anche alla Croce Rossa Italiana e all’Ospedale da Campo 68.
La troupe si è esibita a Roma, una delle tappe del tour europeo nelle cinque nazioni che hanno contribuito con équipe mediche allo
sforzo bellico volto preservare la libertà della Corea nella guerra
del 1950-53.
La scopo dei Piccoli Angeli era quello di offrire degli spettacoli
di altissimo livello per i veterani italiani, esprimere la profonda
gratitudine che il popolo coreano nutre verso la nostra nazione per
aver contribuito a preservare la loro libertà, e celebrare l’amicizia
tra Corea ed Italia.
L’allora presidente sudcoreano Lee Myung-bak e sua moglie, consapevoli della missione dei Piccoli Angeli quali istituzione nazionale, li hanno inviati come emissari della loro nazione in segno di
riconoscenza.
Il popolo coreano è consapevole che senza il contributo della coalizione che operò in quegli anni su mandato dell’ONU, la loro
nazione oggi non esisterebbe; la penisola sarebbe oggi vittima di
un regime dispotico e senza controllo.
La Tournée Mondiale della Pace dei Piccoli Angeli iniziò il 7 giugno 2010 e proseguì per tutto il 2011 con spettacoli nelle nazioni
che avevano risposto alla richiesta delle Nazioni Unite di inviare
personale militare per difendere la libertà della Corea nel conflitto
del 1950-53.
Le sedici nazioni sono: Australia, Belgio, Canada, Colombia, Etiopia, Francia, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda,
Filippine, Sud Africa, Thailandia, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti. Mentre le cinque nazioni che inviarono personale
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medico sono Germania, Italia, Svezia, Norvegia, Danimarca.
“L’invio da parte dell’Italia di personale medico a sostegno dello
sforzo militare per difendere la fragile democrazia coreana è un
dono che i coreani non dimenticheranno mai”, affermò in quell’occasione il dottor Pak, già diplomatico della Repubblica di Corea e
tenente colonnello in pensione dell’Esercito Coreano, anch’egli un
veterano di quella guerra.
“Vogliamo offrire al personale medico militare italiano ed ai veterani di quel lontano conflitto uno spettacolo straordinario, che li
commuoverà e li entusiasmerà.
Potranno mettere a confronto il ricordo dei bambini coreani con i
vestiti laceri che mendicavano per le strade in quel lontano 1953,
con la bellezza dei costumi e delle danze che vedranno sul palcoscenico”.
I PICCOLI ANGELI di COREA
Poche cose sono spettacolari e commoventi come le esibizioni di
questa compagnia di danza folkloristica coreana formata da tretatre bambine di età compresa tra i nove e i quindici anni.
Il repertorio del gruppo comprende, canzoni e sketch teatrali, danze tradizionali sia coreane che di altre culture del mondo.
Uniscono una elevata professionalità a innocenza e purezza, qualità davvero rare nella società di oggi ed ancora più rare nel mondo
dell’arte.
I Piccoli Angeli devono il loro meraviglioso successo in così breve
tempo sicuramente all’abilità tecnica e al talento artistico, ma soprattutto alla formazione del loro carattere.
La filosofia alla base del progetto educativo della loro scuola è
racchiusa nel loro principio fondante: “Ama Dio, ama l’umanità,
ama il tuo paese”.
Questo indica che la vera bellezza dei Piccoli Angeli si trova all’in-
62
terno della loro anima e dei loro cuori.
L’intento è quello di trasmettere questa ricchezza di cuore.
Fin dall’inizio, hanno voluto fare di più del solo affascinare il pubblico di tutto il mondo con le loro esibizioni, i loro canti e le loro
danze tradizionali.
Nel 1981 fu inaugurata la costruzione del grande ‘Little Angels
Performing Arts Center’ e cosi il gruppo ha oggi uno spazio proprio che può usare per mostrare la bellezza della cultura nazionale
coreana ai dignitari e delegati stranieri.
Assistere ad una performance dei Piccoli Angeli nel loro teatro è
una delle esperienze più toccanti per ogni straniero che abbia la
possibilità farlo mentre è visita la Corea.
Così è stato per i molti giornalisti, atleti, tecnici ed accompagnatori della squadra olimpica italiana durante il periodo trascorso a
Seul per le Olimpiadi del 1988.
I Piccoli Angeli sono la pietra angolare dello sviluppo del ballo
della moderna Corea e a loro viene riconosciuto il merito di aver
fatto conoscere al mondo le arti tradizionali della Corea, cosa che
ha rinnovato l’orgoglio nazionale e accelerato la globalizzazione
dell'arte coreana.
Da questa scuola sono nate molte delle ‘etoiles’ del mondo del balletto, come Young-Ok Shin, una prima ballerina del Metropolitan
Opera Company di New York; Duk-Soo Kim, creatrice di ‘Samul
Nori’ un genere di musica nazionale del tutto caratteristico, ormai
popolare a molti sia in patria che all’estero; Julia H. Moon, ballerina e direttore generale dello Universal Ballet di Seul; Soo-Jin
Kang, stella del Balletto di Stoccarda; così come molti professori
nelle università e istituti di danza.
Oggi la compagnia è diventata il fiore all’occhiello dello spirito
nazionale della Corea, l’orgoglio della nazione ed è nota al mondo
intero come “ambasciatrice di pace”.
Dissensi & Discordanze
Il patrimonio
religioso
della Corea
tratto dalle opere di Young Oon Kim
Lo Sciamanesimo
La religione indigena della Corea, come quella della maggior parte
delle culture primitive, era una forma di Sciamanesimo, la cui fede
originaria non solo non è mai scomparsa ma esercita tuttora una
notevole influenza.
Gli antichi coreani, oltre a credere in una varietà di spiriti soprannaturali, sia buoni che cattivi, ammettevano, come fatto ancora
più importante, l'esistenza dell'unico spirito supremo, "Hananim",
creatore e benefico sovrano di tutta la creazione.
Questo Dio supremo, che veniva adorato in templi costruiti sulle
montagne, elargiva i Suoi favori a coloro che gli offrivano sacrifici
di animali in speciali occasioni, per la festa della primavera e del
raccolto, a cui veniva attribuita un'importanza particolare.
Ancora oggi nei villaggi rurali vengono tributati allo spirito del
grande albero che di solito si trova all'ingresso del villaggio, nella
venerazione dello spirito di certe montagne o di certi massi, e più
in generale nel rispetto degli spiriti che vivono negli elementi della
natura.
Da tempo immemorabile i coreani hanno creduto all'esistenza di
un unico Signore del cielo e della terra, così come a numerosi spiriti di minore importanza.
Fin dai tempi antichi i coreani hanno avuto esperienze di contatto
diretto con potenze soprannaturali.
Lo Sciamanesimo ha sempre accentuato il ruolo straordinario della
Corea nella storia.
Tradizionalmente i coreani si vestivano di bianco perché questo
simboleggiava la loro fede di essere figli della luce divina.
Poiché per secoli gli sciamani insegnarono che i coreani erano stati
scelti per uno scopo speciale nel piano di Dio per l'umanità, la
dimensione religiosa del nazionalismo coreano non è un fatto facilmente trascurabile.
Il Buddismo
Quando il Buddismo si espanse dall'India attraverso l'Asia orientale,
arrivò anche in Corea.
Per mille anni il Buddismo Mahayana, giunto attraverso la Cina, fu
la religione di corte e la fede popolare della monarchia coreana.
63
Numerosi templi buddisti furono eretti a spese del governo.
Monaci e monache divennero una normale caratteristica della società coreana.
L'educazione e le belle arti si ispirarono agli insegnamenti buddisti.
Potenti abati furono consiglieri del re e maestri di morale.
Grandissimo, dunque, è l'effetto religioso-etico-culturale che un
millennio d'arte e di pensiero buddista ha avuto sul cuore e sulla
mente dei coreani.
Quali sono stati i contributi perenni che il Buddismo Mahayana ha
dato alla religione coreana?
Ne voglio ricordare cinque.
Primo, il Buddismo è una religione che pone l'accento sulla necessità della salvezza.
La quadruplice verità di Gautama Budda afferma che ogni uomo
soffre a causa dei suoi desideri insaziabili.
Poiché gli uomini sono schiavi di un incessante desiderio di piacere, che inevitabilmente li porta alla delusione, al dolore, alla frustrazione ed al vuoto, il Buddismo si ripropone di offrire una via
per sfuggire a questo girovagare senza significato.
Secondo: poiché nell'insegnamento di Budda la liberazione e
l'illuminazione sono raggiungibili solo come risultato di autodisciplina e di abnegazione, non esiste una via facile per uscire
dalla condizione umana. L'individuo, oltre all'obbligo di frenare
i suoi desideri sensuali e sottomettere il proprio corpo, deve anche
gradualmente ma energicamente eliminare il desiderio dei piaceri
fisici, attraverso la pratica insostituibile di dure discipline morali e
intellettuali.
In terzo luogo, il Buddismo Mahayana rafforza l'etica rigida
dell'insegnamento di Budda con una vivida escatologia: quelli che
conducono una vita morale qui sulla terra saranno ricompensati
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dalla felicità della pura Terra del Paradiso, mentre quelli che violano i comandamenti morali saranno puniti nell'inferno finché non
avranno scontato la loro follia.
Nel Buddismo popolare (almeno quello insegnato ai laici), la promessa di una ricompensa in cielo e la minaccia dei tormenti dell'inferno sono state uno stimolo importante per il comportamento
etico.
In quarto luogo, il Buddismo Mahayana mette in risalto il valore
supremo del sacrificio di se stessi. L'ideale più alto è di essere un
Bodhisattva: ossia l'individuo che si è guadagnato il diritto a vivere
la pace del Nirvana, ma che prontamente rinuncia a quello scopo
finale per continuare ad aiutare il prossimo nella sua ascesa.
Così per il buddista, i valori morali più nobili sono quelli del sacrificio di se stessi, della compassione e dell'amore sacrificale.
Infine, i buddisti Mahayana guardano al ritorno di un nuovo
Budda (Maitreya) che apparirà sulla terra alla fine dei tempi per
rinnovare l'intera creazione e portare una pace interiore a tutta
l'umanità.
Questa speranza escatologica ha fatto sempre parte del Buddismo
coreano tradizionale ed ha avuto una preminenza particolare in
periodi di agitazioni sociali.
In tutta la Corea sono visibili enormi sculture monolitiche raffiguranti teste umane, che si chiamano Miryucks.
Probabilmente, esse sono molto antiche e precedono la comparsa
del Buddismo in Corea, ma per molti secoli sono state interpretate
come annunci del Budda che doveva venire.
Il Confucianesimo
Gradualmente il Buddismo degenerò, soprattutto a causa della
sua immensa ricchezza materiale e dell'alleanza con il governo.
Dissensi & Discordanze
Nel 1392 quando si stabilì la dinastia Yi, come parte del suo programma di riforma il re abolì il Buddismo come religione di stato,
collocando al suo posto il Confucianesimo.
Da allora, per quasi 500 anni, il Confucianesimo fu adottato come
religione ufficiale nella nazione coreana.
Con i fondi del governo furono costruiti templi confuciani e studiosi del Confucianesimo ricevettero l'incarico in tutte le funzioni
governative.
Gli insegnamenti del Maestro Kung costituivano la base per l'educazione. Si poteva essere eletti per un ufficio pubblico solo superando gli esami sugli studi classici confuciani.
La vita familiare era regolata dall'ideale della pietà filiale e il culto
degli antenati era tenuto in grande considerazione nella vita di
tutti i cittadini.
Jen (umanità di cuore) era esaltato come l'ideale morale più alto.
Il Confucianesimo fu ritenuto valido per almeno quattro ragioni.
Per prima cosa esaltò l'importanza della famiglia.
Il Maestro Kung insegnò un'etica centrata sulla famiglia: proprio
come fratelli e sorelle appartengono ad una singola famiglia e sono
guidati dall'amore dei loro genitori, così l'intera nazione dovrebbe
agire come una grande famiglia basata sulla pietà filiale, l'affetto
fraterno e la responsabilità dei genitori.
Il sovrano deve ritenersi come un padre per i suoi sudditi, e tutti i
ministri devono trattare i cittadini come fratelli minori.
Una società stabile deve essere fondata sul rispetto verso i superiori, il
rispetto verso i genitori, la lealtà fra gli amici e la preoccupazione
Sotto, The Buddha Shakyamuni Flanked by Five Past Buddhas and
Maitreya, XV Secolo, Metroplitain Museum of Art, New York.
Di fianco, Confucio, il Maestro dei maestri
65
per le classi inferiori meno privilegiate.
In secondo luogo, il Confucianesimo ha corretto l'ideale monastico
buddista.
Per i buddisti l'uomo e la donna ideali sono il monaco e la monaca, qualcuno cioè, che ha lasciato la società per cercare la propria
salvezza. Questo concetto era sia staccato dal mondo, sia molto
individualista.
Il Confucianesimo, per contro, esaltava il servizio pubblico responsabile e l'impegno sociale.
Secondo questo punto di vista, un uomo è veramente un uomo
quando adempie fedelmente ai suoi obblighi nei confronti del
prossimo.
Terzo, l'etica del Confucianesimo, che pone al centro la famiglia,
ha dato origine ad una metafisica basata sulla polarità.
L'uomo esiste in un sistema armonico di relazioni.
Usando l'antico concetto cinese di yin-yang, i confuciani puntualizzano il fatto che gli individui raggiungono la felicità quando sottomettono i loro desideri personali al bene più grande dell'insieme.
Questo principio della polarità può agire ad ogni livello della società: la cura del marito per la moglie, la lealtà della moglie verso
il marito, il rispetto dei figli verso i genitori, l'amicizia fra persone
dello stesso livello e l'obbedienza verso i superiori.
Quarto, i confuciani guardano allo scopo finale della storia.
Secondo i classici del Confucianesimo, l'umanità si sta muovendo
verso un'era di giustizia, di fratellanza, di prosperità e di pace sulla
terra.
Probabilmente avete letto libri i quali sostengono che il punto di vista giudeo-cristiano della storia sia completamente diverso da quello
orientale.
Viene detto che, mentre i popoli dell'Asia negano che la storia
abbia un significato e uno scopo, questo è presente nella visione
biblica.
La filosofia orientale della storia è ciclica e quindi pessimista, mentre la filosofia occidentale della storia è lineare e ottimista.
Tuttavia, correggendo un concetto vecchio ed errato, voglio affermare il Confucianesimo sostiene un'interpretazione fortemente finalistica della storia.
Come la religione giudeo-cristiana, il Confucianesimo parla di un'età
d'oro ideale nel lontano passato e di un'età d'oro alla fine della storia.
Per il confuciano, lo scopo della storia è chiamato "Ta-tung": l'era
della Grande Unità.
La storia progredisce attraverso tre stadi: un'era passata di disordine, un'era presente di relativa pace ed un'utopia futura di armonia
universale.
Andrea Mantegna, Cristo
morto, Pinacoteca di
Brera, Milano
66
Dissensi & Discordanze
L'uomo, perciò, può avere speranza perché "Ta-tung" verrà sulla
terra alla Fine dei Tempi.
Nel passato, scrittori di religione europei, contrapposero la luce
che il Cristianesimo aveva portato, al periodo primitivo dell'oscurità pagana.
Storici recenti hanno corretto questa interpretazione un po’ semplicistica dell'occidente pre-cristiano.
Il mondo nel quale venne il Cristianesimo, non era affatto immerso nell’oscurità, anzi.
La civiltà greco-romana aveva provveduto ad un'utile fondazione
sulla quale si sarebbe edificata la chiesa cristiana.
La filosofia greca fu una valida preparazione per la teologia cristiana.
La moralità storica fu utile nella creazione di un'etica sociale cristiana.
Le religioni pagane dunque prepararono il terreno per la diffusione
del Vangelo.
Purtroppo, quando i missionari cristiani vennero in Corea, erano
inclini a screditare le fedi antiche che si erano ormai radicate in
questa terra.
Dissero che il Confucianesimo era arcaico e repressivo e condannarono il culto degli antenati.
L'etica confuciana fu denunciata per i suoi fondamenti puramente
umanistici, per la sua oppressione della donna e per la sua venerazione retrograda del passato.
Il Buddismo fu accusato di idolatria e di ascetismo mondano; lo
Sciamanesimo fu ridicolizzato come superstizione ed occultismo.
Tuttavia, in anni recenti, alcuni studiosi cristiani hanno cominciato
a vedere gli aspetti positivi del patrimonio religioso della Corea.
Se la civiltà greco-romana fu una preparazione per il Vangelo
nell'Occidente, lo Sciamanesimo, il Buddismo ed il Confucianesimo prepararono il Cristianesimo in Oriente.
Perciò apprezzo profondamente i diversi modi con cui Dio ha ispirato e guidato la ricerca religiosa dei coreani attraverso la loro lunga storia.
II Cristianesimo
II Cristianesimo coreano ha avuto una storia strana, travagliata,
che ha portato tuttavia la Corea ad avere la più alta percentuale di
cristiani rispetto ad ogni altra nazione del territorio asiatico orientale.
Quando i seguaci di Nestorio, Patriarca di Costantinopoli, furono
scomunicati dai concili ecumenici del V secolo, se ne andarono
verso oriente, creando chiese che si svilupparono per molti secoli
in Iraq, India e Cina.
Nell'anno 1000 i missionari nestoriani erano ancora al lavoro in
Manciuria ed in Corea. Una croce nestoriana ed altri oggetti cristiani, dell'XI secolo, furono scoperti in Corea dopo la II guerra
mondiale.
Tuttavia, in modo graduale, la comunità nestoriana fu sopraffatta
dalle circostanze a lei poco favorevoli.
Un altro notevole contatto dei coreani con il Cristianesimo avvenne nel 1592 quando Toyotomi Hideyoshi inviò delle armate
giapponesi ad invadere la Corea.
I gesuiti portoghesi avevano già creato missioni in Giappone, convertito alla fede cattolica, migliaia di persone.
Uno dei generali di Hideyoshi, chiamato Konishi, era cristiano.
Dopo la conquista di Seul, egli inviò un missionario gesuita ed un
sacerdote giapponese a condurre le funzioni religiose nei suoi campi militari. trascorsero un anno in Corea prima di essere richiamati
in Giappone.
Gli invasori giapponesi, alla fine, furono costretti a ritirarsi.
Non si sa, se il lavoro missionario ebbe qualche risultato, tuttavia centinaia di prigionieri della guerra di Corea furono inviati in
Giappone e alcuni di questi divennero devoti cattolici.
Quando, alcuni anni più tardi, il governo giapponese cominciò a
perseguitare i cristiani, diversi cristiani coreani furono martirizzati.
Ci sono pubbliche documentazioni di cattolici coreani uccisi in
Giappone nel periodo dal 1614 al 1629.
Il fondatore del Cristianesimo coreano moderno fu un giovane studioso di nome Yi Pyok.
Nel 1777 un gruppo di studiosi confuciani si incontrò in un isolato
monastero buddista per discutere di filosofia.
Tra i libri letti ce n'erano alcuni provenienti da Pechino, riguardanti la religione cattolica.
Yi Pyok fu così impressionato da questi trattati dei gesuiti che
divenne cristiano e riservò il settimo giorno di ogni settimana alla
preghiera.
Yi parlò della sua nuova fede con alcuni amici intimi e cercò il
modo per imparare di più circa la religione cattolica.
Il governo inviava annualmente una delegazione alla corte imperiale cinese.
Un amico di Yi, Yi Seung-Hoon, accompagnò questa delegazione
a Pechino e là apprese molto sul Cristianesimo fino ad essere battezzato da un missionario.
Ritornò portandosi dietro libri gesuiti, rosari e crocifissi proprio
per Yi Pyok, che fu così battezzato da Yi Seung-Hoon.
Perciò i due uomini furono ugualmente importanti nella fondazione del Cristianesimo coreano.
Molti nobili si interessarono al Cattolicesimo e alcuni di essi si
convertirono.
Dopo aver studiato i libri cinesi, essi decisero di costituire una propria chiesa. Uno di loro fu eletto vescovo e quattro furono scelti
per essere sacerdoti.
A Seul fu affittata una casa come luogo di adunanza.
Quando questi cristiani si misero in contatto con il vescovo di Pechino, questi disse che i loro sacerdoti erano stati scelti contro le
norme del diritto canonico e non dovevano amministrare i Sacramenti, ma lodò il loro zelo e inviò loro altri libri.
I cattolici coreani accettarono l'opinione del vescovo circa i loro
sacerdoti.
Ciò che li turbò fu il successivo ordine dei gesuiti di eliminare il
culto degli antenati.
Alcuni obbedirono, ma la maggior parte perse ogni interesse per
il Cristianesimo.
Culto degli antenati
La controversia sul culto degli antenati portò a alcune persecuzioni
da parte del governo.
Un noto studioso e suo nipote furono arrestati e decapitati per aver
bruciato le tavolette dei loro antenati.
Alcuni cristiani furono imprigionati, tuttavia il coraggio dei martiri attirò molte nuove conversioni.
Nel 1794, dieci anni dopo il primo battesimo, c'erano già quattromila cattolici in Corea.
67
Il governo si oppose al Cristianesimo perché questo attaccava il
sistema morale confuciano, come sembrava provare la controversia
sul culto degli antenati.
La cosa più grave, tuttavia, fu la connessione del Cristianesimo con
la politica europea.
Poiché le missioni cattoliche in Corea erano controllate da sacerdoti francesi, la nuova religione fu vista come un mezzo per gli
imperialisti occidentali, di fare della Corea una colonia europea.
Per cui, dal 1794 al 1866 ci furono ripetuti sforzi da parte del governo di sradicare la religione degli "stranieri barbari".
Nonostante questo, nel 1860 c'erano ancora in Corea più di sedicimilasettecento cattolici.
Quando, nel 1866, il devoto buddista Daewongun decise di far
sparire il Cattolicesimo dal suo paese, molti alti ufficiali, l'infermiera del re e la stessa moglie di Daewongun erano tra i cristiani.
Perciò quei suoi atti brutali devono essere visti come un disperato
tentativo di preservare la cultura tradizionale della Corea e la sua
politica di indipendenza.
I secoli XVIII e XIX, in Asia, furono un periodo segnato da un
aggressivo imperialismo occidentale.
La Corea, come avevano già fatto la Cina e il Giappone, tentò di
proteggersi con una politica di isolazionismo tanto che, per un
certo tempo, fu conosciuta come il Regno Eremita.
Poiché i missionari cristiani in Asia avevano spesso aperto la strada
ai soldati europei, si può capire perché i nazionalisti temevano la
diffusione delle idee cristiane.
I sacerdoti francesi furono considerati come agenti dell'imperialismo francese, particolarmente, perché in quegli anni la Francia, si
stava annettendo il Vietnam, il Laos e la Cambogia.
Il primo missionario protestante
Il primo missionario protestante arrivò in Corea nel 1884.
Nel 1876 gli Stati Uniti avevano persuaso la Corea a stabilire un
primo trattato con una nazione occidentale.
A quel tempo la Corea era minacciata dal Giappone da un lato e
dalla Russia dall'altro.
Fortunatamente per i coreani, i missionari americani, inglesi e canadesi, che portarono il Protestantesimo in Corea, non erano né a
favore dei giapponesi né a favore dei russi.
Anzi, era proprio l'opposto.
Costruendo scuole e ospedali e promuovendo modernizzazioni,
rafforzarono la volontà della nazione a sopravvivere in un periodo
di pericolo politico.
Horace Allen, un dottore presbiteriano, fu il primo missionario
protestante a stabilirsi nel paese.
Arrivò a Seul poco prima che
un gruppo di riformatori tentasse di abbattere il governo.
Il principe Min Young-Ik,
noto conservatore e membro
del governo, rischiò la morte
dopo essere stato pugnalato
dai ribelli.
Il dott. Allen fu chiamato a
salvargli la vita e dopo tre mesi
di intense cure, l'uomo di go-
68
verno guarì. In seguito a questo fatto il dott. Allen si guadagnò
la fiducia del re e l'appoggio della regina anche perché il principe
Min Young-Ik era suo nipote.
Il dott. Allen lavorò in qualità di medico per i diplomatici stranieri
e chiese al re di costruire un ospedale governativo, richiesta che fu
assecondata.
Egli prese l'incarico del nuovo ospedale; più tardi divenne console
generale degli Stati Uniti (1897) e lavorò come ministro plenipotenziario fino al giorno in cui i giapponesi cominciarono il loro
controllo sulla Corea nel 1905.
I legami del dott. Allen con la famiglia reale portarono un grande
contributo alla causa protestante.
Il 5 aprile 1885 il rev. Horace G. Underwood (presbiteriano), il
rev. Henry G. Appenzeller (metodista) e sua moglie arrivarono ad
In-chon; il dott. William B. Scranton e sua madre (metodista) arrivarono un mese più tardi collaborarono con il dott. Allen all'ospedale.
Il lavoro evangelico praticamente fu iniziato da questi missionari.
Il 12 settembre 1887, a Seul fu stabilita la prima chiesa presbiteriana con 14 membri e il 9 ottobre fu stabilita la chiesa metodista
di Chong Dong.
La religione Chondogyo
Uno studioso confuciano di nome Choi, Chei Woo (Choi, Soo
Oon), ebbe alcune visioni che mostravano come una nuova religione popolare si sarebbe estesa in tutta la Corea.
Affermando di sostenere l'insegnamento orientale (Tonghak) in
contrapposizione al cosiddetto insegnamento occidentale dei missionari cattolici, Choi insegnò una fede sincretistica: l'etica del
Confucianesimo, l'enfasi buddista sulla purificazione del cuore, il
monoteismo, l'uso di candele preso dal Cattolicesimo e gli amuleti
dello Sciamanesimo.
Più tardi questa religione fu chiamata Chondogyo.
Choi fu arrestato e giustiziato, ma i suoi seguaci cominciarono a
sollevarsi per eliminare la corruzione dal governo. L'esercito di
Tonghak marciò su Seul.
La Cina inviò le sue truppe per sedare la sommossa; contemporaneamente i giapponesi intervennero per prendere il controllo della
corte coreana.
Durante gli anni 1894-1895 il governo giapponese liberò la Corea
dall'influenza cinese.
Il vecchio Daewongun uscì dall'isolamento e si alleò con il governo
giapponese contro sua nuora, la regina Min.
Più tardi la stessa regina fu assassinata; il re e il principe ereditario
si rifugiarono presso la delegazione russa.
Quando finalmente il re Kojong poté tornare al potere, fece affidamento sull'aiuto della Russia e della Francia.
Il Giappone entrò in guerra con la Russia nel 1904 e prese il controllo degli affari esteri della Corea nel 1905.
Il principe Min si suicidò dalla disperazione e due anni più tardi il
rè Kojong abdicò.
Nel 1910 la Corea fu annessa al Giappone.
Durante questo periodo di agitazione sociale, i cristiani in generale
e i missionari in particolare, furono direttamente coinvolti nella
politica.
Nel 1888 il governo emanò un decreto che proibiva ai cristiani il
lavoro missionario.
Dissensi & Discordanze
I cattolici avevano provocato un grande risentimento popolare
perché avevano segretamente comprato del terreno e iniziato a
costruire una cattedrale di fronte al palazzo reale.
Dieci anni più tardi una chiesa russa ortodossa fu costruita a Seul
e ciò fu visto da molti come una mossa politica.
Nel 1919 quando i leaders coreani emanarono la loro dichiarazione di indipendenza, dei trentatre firmatari, sedici erano cristiani,
quindici erano seguaci della religione Chondogyo e due erano buddisti.
I missionari resero pubbliche le atrocità commesse in Corea dagli ufficiali giapponesi ed almeno indirettamente appoggiarono la
causa dell'indipendenza coreana fino alla liberazione nazionale che
avvenne nel 1945.
Dobbiamo comunque notare che la maggior parte dei missionari
e dei cristiani coreani cercarono, come meglio potevano, di evitare
ogni coinvolgimento politico.
Effetti del Cristianesimo protestante
Quali furono gli effetti indiretti ma reali del Cristianesimo protestante sulla società coreana?
Poiché i missionari avevano una fede basata sullo studio della Bibbia, essi incoraggiarono l'istruzione.
Per essere un buon protestante è necessario saper leggere le Scritture.
Il rev. John Ross, missionario in Cina, tradusse il Vangelo di Luca
in coreano verso il 1883 e lo distribuì lungo la frontiera coreanocinese.
La signora Mary Scranton fondò la prima scuola per ragazze nel
1886 con una sola studentessa.
La regina Min sostenne quella scuola e la chiamò Ew-ha Haktang
"Istituto del Fior di Pero".
Nel 1887 il rev. Henry Appenzeller aprì una scuola per ragazzi,
che il re Kojong chiamò Paichai Haktang, "Palazzo per un'utile
educazione degli uomini"; quello stesso anno il rev. Horace Underwood organizzò un orfanatrofio ed una scuola come parte del
suo lavoro missionario.
Il Protestantesimo insegnava la dignità e il valore di ciascuna persona.
Questa enfasi sui diritti personali tendeva ad indebolire le forti
barriere di classe della società tradizionale confuciana.
Almeno indirettamente i missionari prepararono i coreani ad un
modo di vita più democratico.
Il Protestantesimo coreano era dominato dai missionari presbiteriani e metodisti provenienti dall'Inghilterra, dal Canada e dagli
Stati Uniti.
Questo significava che la loro religione si ispirava all'austera etica
puritana.
Per loro, essere cristiani significava non fumare e non bere, lavorare duramente, essere un cittadino responsabile e aiutare i più
disagiati.
Uno storico della chiesa ha mostrato quanto questo ideale protestante avesse corretto gli abusi dell'ordine sociale coreano nella
tarda dinastia Yi.
Il Protestantesimo arrivò in Corea all'incirca nel periodo in cui
il Social Gospel ed il movimento ecumenico stavano per essere
riconosciuti in Occidente.
Anche se i missionari si mostravano teologicamente più conserva-
tori di alcuni cristiani che si trovavano in Europa o in America, essi
compresero che il Cristianesimo implica molto di più che il solo
salvare le anime dalle fiamme dell'inferno.
Per i metodisti e i presbiteriani le missioni di carattere educativo
e l'assistenza sanitaria erano considerate aggiuntivi necessari alla
evangelizzazione e alla costruzione delle chiese.
Inoltre, fin dall'inizio, i missionari coreani si trovarono d'accordo
per una cooperazione fra le varie denominazioni.
Molto prima della maggior parte dei cristiani occidentali, essi riconobbero che una chiesa non unita non può restaurare un mondo
diviso.
Per cui, nonostante diversi tragici scismi e l'apparire in Corea di
molte nuove denominazioni, i cristiani più saggi hanno sempre
sostenuto attività interconfessionali.
La persecuzione giapponese dei cristiani
Dal 1910 al 1945 la Corea fu sotto la dominazione giapponese.
Questo fu un periodo di considerevoli difficoltà per i cristiani.
Poiché i protestanti erano stati attivi nel fallito movimento indipendentista del 1919, i giapponesi li consideravano una fazione
potenzialmente pericolosa.
In particolare i presbiteriani si opposero al piano dei giapponesi di
controllare tutto il sistema educativo.
Molti protestanti furono turbati dall'obbligo di partecipare alle cerimonie nel tempio scintoista, poiché questi erano riti religiosi e
non semplicemente momenti patriottici.
Allora ci fu l'ordine del governo giapponese di unire tutte le denominazioni in una sola chiesa, così che tutte le attività cristiane
avrebbero potuto essere controllate più efficacemente dalle autorità militari d'occupazione.
Paragonabile alla terribile persecuzione dei cristiani al tempo di
Daewongun fu la persecuzione giapponese dei cristiani coreani iniziata con l'assassinio del Marchese Ito nel 1909.
Ito era stato un generale giapponese di stanza in Corea e aveva
costretto all'abdicazione il re Ko-jong.
Il consigliere americano di Ito fu ucciso da un cattolico coreano a
San Francisco nel 1908 e nel 1909 lo stesso Ito fu assassinato in
Manciuria da un protestante coreano.
Nel 1910, secondo il governo giapponese, fu scoperto un complotto, che aveva lo scopo di uccidere il nuovo governatore generale.
Un anno più tardi, alcuni studenti e tutti gli insegnanti di una
scuola superiore presbiteriana furono arrestati e torturati in relazione a questo complotto.
Infine, centoventicinque uomini, di cui novantotto erano cristiani,
furono indiziati e processati.
Servendosi di false testimonianze ottenute con le torture, sei di
loro furono condannati alla prigione.
Ci fu in seguito la brutale soppressione del movimento d'indipendenza del 1919.
Poiché erano coinvolti leader cristiani, le autorità militari si accanirono contro le chiese.
A Suwon, per esempio, le truppe giapponesi accerchiarono una
chiesa piena di fedeli, dettero fuoco all'edificio e spararono a tutti
coloro che tentavano di scappare dal santuario in fiamme.
In quelle circostanze, il movimento d'indipendenza, identificando
il Cristianesimo col nazionalismo coreano, attirò molti giovani nella chiesa.
69
Venne poi la Seconda guerra mondiale.
Più di duecento chiese furono chiuse. Più di duemila cristiani furono
imprigionati e più di cinquanta morirono per difendere la fede.
Dei settecentomila cristiani protestanti iscritti nelle liste della chiesa
prima della guerra ne rimasero circa solo la metà alla fine del conflitto.
Il giorno della liberazione, il 15 agosto 1945, offrì una breve occasione per la riappacificazione dell'intera nazione.
Purtroppo la gioia dei coreani durò ben poco poiché appresero che
le truppe sovietiche stavano imponendo un regime comunista nella
Corea del Nord.
Secondo il dott. Samuel H. Moffett, professore del seminario presbiteriano a Seul, l'attacco comunista contro la religione si realizzò
in tre stadi.
Prima, i comunisti distrussero due grandi organizzazioni politiche
cristiane - il partito social-democratico e il partito liberale cristiano;
poi, tentarono di dominare la chiesa formando una lega cristiana
alla quale dovevano appartenere tutti i ministri delle varie chiese.
Infine, vedendo che l'opposizione cristiana persisteva, i comunisti
cercarono di distruggere le chiese stesse.
Gli edifici delle chiese furono confiscati, i sacerdoti furono imprigionati e ci furono frequenti massacri di laici cristiani.
Almeno quaranta pastori furono martirizzati.
Per questo i cristiani cercarono protezione fuggendo al sud.
Dopo la guerra coreana si stimò che una persona su cinque presente
nella Corea del Sud era un profugo del Nord.
Il Cristianesimo coreano negli anni '50
La comunità cristiana raddoppiò di numero proprio nei primi dieci
anni successivi la guerra.
70
Cosa permise alla chiesa di espandersi così velocemente?
Il presidente del seminario metodista Harold Hong mette in risalto il grande zelo dei laici cristiani del dopoguerra.
Essi avevano tutto l'entusiasmo e la dedizione di chi si sente rinato.
La maggior parte delle conversioni avvenivano nelle riunioni di
risveglio spirituale, che seguivano l'esempio del grande "revival"
di Pyung-yang nel 1907, che aveva avuto una parte fondamentale nella crescita della chiesa nel nord.
La preghiera comunitaria fu una delle caratteristiche più importanti di quel revival.
Servizi di preghiera prima dell'alba e intenso studio della Bibbia
divennero parte importante del modo di vita cristiano.
Come puntualizza il dott. Hong. molti grandi predicatori ricevettero poteri carismatici come risultato delle esperienze mistiche e alcuni divennero oltremodo famosi come guaritori.
La rapida espansione del Cristianesimo nel sud fu ampiamente
dovuta all'influsso dei profughi scappati dal regime comunista
del nord.
Questo portò le chiese ad avere uno zelo anticomunista ed un
forte desiderio di riunifìcare la nazione.
Dopo un decennio di rapida espansione, però, le denominazioni
più importanti cessarono quasi totalmente la loro crescita.
Come diversi sociologi hanno notato, il Metodismo, il Presbiterianesimo e il Cattolicesimo raggiunsero una certa crescita e
rimasero più o meno a quel livello.
Questo fu dovuto, in parte, alle serie divisioni all'interno delle
varie chiese.
Fin dai primi giorni il Cristianesimo coreano soffrì oppressioni e
persecuzioni.
A causa della loro terribile situazione, i protestanti coreani si ispi-
Dissensi & Discordanze
ravano, in modo particolare, al racconto biblico dell'Esodo dall'Egitto.
Le Scritture insegnavano chiaramente una teologia di liberazione.
Poiché Dio aveva liberato gli ebrei dalla schiavitù egiziana, non
poteva liberare anche loro?
Di conseguenza i cristiani coreani pregavano affinché qualcuno,
come Mosè, venisse a salvarli dai loro oppressori.
Fu naturale per i coreani identificare la loro nazione con la storia di
Israele dell'Antico Testamento.
Come Israele, anche la Corea fu un popolo di fede oppresso.
Come gli ebrei probabilmente anche i coreani sono stati preparati
per una missione speciale nel progetto di Dio.
Perciò il patriottismo coreano e la fede cristiana furono strettamente collegati.
Questa alleanza ideale del nazionalismo con la religione cristiana
fu grandemente rafforzata quando la Corea del Nord fu assoggettata al violento totalitarismo comunista di Kim Il Sung.
Anche durante l'occupazione giapponese, molti protestanti misero
nuova enfasi sugli aspetti apocalittici del Nuovo Testamento.
Il Cristianesimo era visto come una fede basata sull'attesa escatologica.
Il libro dell’Apocalisse divenne la parte più letta della Bibbia.
Pertanto molti cristiani cominciarono a prepararsi al Secondo Avvento del Cristo e aspettare l'alba di un'era messianica.
Sicuramente quel tempo era vicino.
Durante e dopo la guerra di Corea sorse un notevole numero di
movimenti religiosi, alcuni dei quali erano di origine e di ispirazione cristiana.
Fu un tempo di sconvolgimenti sociali e di intenso entusiasmo
spirituale anche all'interno delle varie chiese costituite.
Cosa distingueva allora i nuovi gruppi?
Oltre che condividere l'atmosfera di risveglio spirituale, l'intensa
vita di preghiera e lo studio della Bibbia tipici di molti presbiteriani e metodisti, questi nuovi movimenti erano capaci di risvegliare
la fede ed erano, in un modo non comune, aperti al mondo spirituale.
Di conseguenza ricevettero messaggi ispirati alla venuta di una
nuova era nella storia di salvezza.
Le loro visioni del futuro spesso erano focalizzate sulle benedizioni
di Dio per il popolo coreano, confermando le profezie tradizionali
e portando a compimento le promesse escatologiche della Bibbia.
L'Associazione dello Spirito Santo per l'Unificazione del Mondo
Cristiano fondata da Sun Myung Moon nell'immediato dopoguerra venne alla luce in questo ambiente carismatico.
Per coloro che vivevano in Corea in quel tempo fu naturale concludere come io feci:"II lungo, triste, cosmico inverno è passato e
la primavera cosmica, attesa da così tanto tempo dall'umanità, è
arrivata.
La Nuova Era, l'Era Cosmica, ha avuto inizio."
Le profezie messianiche della Corea
I Coreani accarezzano da tempo speranze messianiche, nutrite dalle chiare testimonianze dei loro profeti.
Il popolo coreano ha creduto nella profezia del Re Giusto che sarebbe venuto a fondare un regno glorioso ed eterno nella loro terra
e, legato a questa speranza, ha trovato la forza di superare le difficoltà.
Quest'idea messianica si è diffusa tra i Coreani attraverso il Chong
Gam Nok, un libro di profezie scritto nel quattordicesimo secolo,
all'inizio della dinastia Yi.
Poiché questa profezia annunciava la venuta di un nuovo re, la
classe dominate cercò di sopprimerla, e il regime coloniale giapponese cercò di soffocarne la stessa nozione, bruciando il libro e
opprimendo i credenti.
Con l'ampia diffusione della fede cristiana, l'idea venne ridicolizzata come superstizione.
Ma, nonostante tutto, questa speranza messianica ancora sopravvive, profondamente radicata nell'animo del popolo coreano.
(Gli anni da tenere in considerazione sono il 2020-2024)
Il tanto atteso Re Giusto, preannunziato nel Chong Gam Nok,
porta il nome di Chong Dor Yong (colui che viene con la vera Parola di Dio).
In effetti, si tratta di una profezia coreana, riguardante il ritorno
di Cristo in Corea.
Ancor prima dell'introduzione del Cristianesimo in Corea, era stato rivelato attraverso il Chong Gam Nok che il Messia (il re di
giustizia) sarebbe venuto in quel paese.
Oggi gli studiosi affermano che molti passi di questo libro profetico coincidono con le predizioni della Bibbia.
Inoltre, per ciascuna delle religioni presenti in Corea, vi sono dei
fedeli che hanno ricevuto rivelazioni circa il ritorno dei rispettivi
fondatori proprio nella terra di Corea.
Tra i molti devoti di ogni religione che entrano in contatto con
spiriti dei vari livelli del mondo spirituale, hanno ricevuto chiare
rivelazioni che il Signore verrà in Corea.
Tuttavia la manifestazione in questa terra della seconda venuta
dei fondatori di tutte le religioni, come adempimento delle varie
rivelazioni, non avverrà con diversi individui ma sarà in un'unica
persona, poiché il Cristo al Secondo Avvento, verrà a realizzare
tutte quelle rivelazioni.
Lo studio del progresso e dell’evolversi delle sfere culturali afferma
che tutte le religioni stanno convergendo verso un'unica religione.
Quale sarà la religione del nostro tempo che potrà assumersi la responsabilità di completare la meta delle varie religioni della storia?
Il Signore, la cui venuta è stata annunziata ai fedeli delle varie religioni, come Maitreya Buddha nel Buddismo, come l'Uomo Vero
nel Confucianesimo, come il ritorno di Choe Su-un, che fondò la
religione del Chondogyo, e come la venuta di Chongdoryong nel
Chong Gam Nok, non sarà altri che il Cristo al Secondo Avvento.
Testi tratti da
Faiths of the far East di Young Oon Kim. (1976) Golden Gate Pub. Co;
Unification Theology di Young Oon Kim. Rose of Sharon Pr
e da
History of the Church in Korea di A.D. Clark, 1971.
The Church Historv of Korea, di Kyune Bae Min, Seoul 1972
The Christian Faith Encounters the Religions of Korea, di Tongshik Ryu.
Seoul 1965.
Korea and Christianity di S.J. Palmer. ( 1967).
The Christians of Korea di H. Moffet. (1962).
Religions of Korea and the Personality of Koreans di Tongshik Ryu.
Korea Struggles for Christ di H. S. Hong (1973)
Korea and Christianity di S.J. Palmer. ( 1967).
71
72
Dissensi & Discordanze
La curiosa
(e sfortunata)
autoevangelizzazione
della Corea
rino cammilleri
Nella storia del cristianesimo la Corea rappresenta un caso unico
di autoevangelizzazione.
Per capire questo bisogna tenere presente il quadro culturale
dell’Estremo Oriente.
Da sempre, il centro di irradiazione culturale era stata la Cina.
73
Ritorno dal
giorn
Da essa venivano l’arte, la religione, la filosofia.
Ciò valeva anche per il Giappone e la Corea.
Per esempio, quando, con san Francesco Saverio (XVI secolo) i primi evangelizzatori sbarcarono in Giappone, all’apprendere della
‘nuova dottrina’ i giapponesi chiedevano per prima cosa come mai
i cinesi non ne avessero loro mai parlato.
Insomma, tutto proveniva da Pechino e gli ambasciatori delle varie
nazioni asiatiche solevano riportarne in patria le novità.
Nel XVII secolo il gesuita Matteo Ricci introdusse la scienza occidentale alla corte imperiale cinese e incuriosì i dotti al cristianesimo.
Non convertì la corte, a parte pochi notabili, ma fece diventare di
gran moda l’interesse per la religione dell’Occidente tra i mandarini più altolocati.
Alcuni delegati coreani riportarono a casa le ‘novità’ di corte nel
Celeste Impero, tra cui il libro del padre Ricci ‘La vera dottrina di
Dio’.
Nel 1784 Yi Seung Hun, che faceva parte di una delegazione in
visita a Pechino, si fece battezzare col nome di Pietro e raccolse
quanto materiale poteva sul cattolicesimo.
A sua volta, tornato in patria, battezzò altri e si formò una comunità cattolica in Corea, priva però di sacerdoti e di contatti diretti
con la Chiesa.
Il pensatore Lee Byeok stilò un compendio della Bibbia, compose
inni sacri, guidò un folto gruppo di studio (detto Gang Hak Hwe)
che studiava le Scritture e la dottrina cristiana.
Questi cristiani coreani non conoscevano però il calendario liturgico.
Così, fissarono tre giorni al mese (lunare, secondo il computo coreano) da dedicare alla preghiera, alla contemplazione e al digiuno:
il settimo, il quattordicesimo e il ventunesimo.
Ma le autorità, aizzate dai bonzi buddisti, ben presto (1785) proibirono il ‘culto straniero’, perché implicava un’obbedienza (a Cri-
74
sto e al Papa di Roma) superiore a quella dovuta al re (per lo stesso
motivo i cristiani giapponesi furono perseguitati dalla fine del XVI
secolo alla metà del XIX).
Lee Byoek, cacciato dalla sua stessa famiglia, fu lasciato morire di
fame.
Aveva trent’anni.
Inizialmente i cristiani coreani avevano chiesto al vescovo di Pechino l’invio di qualche sacerdote: Paolo Chong Ha Sang, Agostino
Yu Ching Gil e Carlo Cho Shin Chol si erano recati diverse volte a
Pechino (un viaggio di quasi mille chilometri, effettuato a piedi),
per trovare un modo di portare in Corea qualche sacerdote.
Finalmente ne furono mandati due cinesi.
Ma le autorità li espulsero dal paese.
Seguirono anni di persecuzioni, che finivano con la solita pena in
uso in Oriente: la morte.
Più di diecimila cristiani coreani vi persero la vita in due terribili ondate.
Nel 1984 a Seul il papa b. Giovanni Paolo II ne ha canonizzati
centotre.
Tra loro, il primo sacerdote coreano, Andrea Kim Tae Gon,
ucciso a ventisei anni.
E quindici vergini consacrate che si prendevano cura dei poveri
e dei malati, tra cui le sorelle Agnese e Colomba Kim Hyo Ju.
E il laico Giovanni Yi Kwang Hyol, che fungeva da sagrestano.
Solo nel 1836 le Missioni estere di Parigi poterono mandare i
primi missionari europei, ma questi dovettero esercitare il loro
ministero clandestinamente.
Finalmente, grazie anche alle pressioni della Francia (che aveva
un protettorato nella vicina Indocina), le persecuzioni cessarono.
Oggi, nella Corea del Sud i cristiani sono il dieci per cento della
popolazione, cosa che fa del Paese il più cristiano dell’Oriente.
Per il Nord, sotto regime comunista, è una storia a parte.
Dissensi & Discordanze
Brevi cenni
sulla cultura
coreana
valerio anselmo
La cultura di una nazione è certamente un argomento troppo vasto per essere affrontato in una paginetta.
Alcune particolarità della cultura della Corea dovranno essere però
fatte notare perché la loro diversità dalla nostra cultura è grande e
in un certo senso esse rientrano nell’ambito dell’arte.
l picnic in un
no d'autunno
Abiti tradizionali
Hanbok è il nome dell'abito tradizionale coreano che combina la
bellezza con la praticità. Molto usato fino agli anni 1960, l'influsso dell'Occidente ne ha in seguito fatto diminuire l'utilizzo come
vestito di tutti i giorni. Ultimamente, però, i coreani stanno tornando all'uso del vestito hanbok per le occasioni speciali, come per
le feste, i matrimoni e altri eventi particolari.
L'hanbok femminile è un completo molto elegante formato da
una corta giacchetta e da un'ampia gonna che arriva fino a terra,
mentre il vestito maschile è formato principalmente da una giacchetta e da un paio di pantaloni, e talvolta da un gilè e da un soprabito. Con l'abito maschile è quasi indispensabile indossare poi
anche un cappello di bambù o di crine di cavallo.
Scultura
Nel campo della scultura la Corea ha prodotto nei secoli grandi
capolavori.
Nata praticamente con l’introduzione del buddismo, la maggior
parte dei capolavori riguardano la figura del Budda e di monaci
famosi.
La massima espressione artistica in questo campo fu raggiunta
all’epoca di Silla (676-936) ed è ben rappresentata dalle figure
in granito del tempietto in grotta di Sŏkkuram eretto nel 752 e
situato fra i monti presso la città di Kyŏngju (Corea del Sud).
Pittura tradizionale
Ritorno dal picnic in un giorno d'autunno, XVIII Secolo
La pittura tradizionale coreana, su carta, si può dividere in due
grandi sezioni, la pittura di stile cinese apparentata con la calligrafia e la pittura di stile puramente coreano, sviluppatasi indipendentemente e più tardi.
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La prima impiega normalmente l'inchiostro di china, variamente
diluito, e gli stessi pennelli usati per le opere calligrafiche, mentre
la seconda usa di solito colori a tempera, spesso con gran ricchezza
di colori.
Il bellissimo dipinto su carta del XVIII secolo intitolato “Ritorno dal picnic in un giorno d'autunno” in cui una coppia di rango
elevato torna da una scampagnata, presenta molti elementi tipici,
quali la portantina su cui è adagiata la signora, i vestiti tradizionali
mossi dal vento, il cappello in crine di cavallo indossato dagli uomini, la lunga pipa fumata dalla dama.
Un piccolo capolavoro che fonde elementi della tradizione coreana
in uno stile pittorico che si richiama fortemente alla più classica
tradizione orientale.
Calligrafia
In Oriente la calligrafia era una delle arti e discipline importanti
richieste ai letterati confuciani ai tempi delle dinastie coreane. A
quei tempi ci si aspettava che il re, al vertice della gerarchia sociale,
eccellesse negli studi e diventasse famoso nella calligrafia, come è illustrato dal brano di poesia cinese scritto dal re Sŏnjo (1552-1610).
Ceramica
Assurta al suo massimo splendore durante il regno di Koryŏ
(935~1392), la ceramica coreana divenne famosa nel mondo per
la sua bellezza e la perfezione dell’esecuzione.
L’elaborata caraffa per vino del XII secolo è un esempio della ceramica celadon di colore verde-azzurro di quel periodo.
Ancora oggi può capitare che vengano trovate e ricuperate antiche
Il kayagŭm
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navi coreane affondate con preziosi carichi di ceramiche celadon.
Musica
Il più noto degli strumenti musicali coreani è il kayagŭm, una
cetra orizzontale a 12 corde suonata tradizionalmente dalle donne.
Esistono poi altri strumenti musicali, fra cui un tamburo a forma
di clessidra che si indossa e si suona con entrambe le mani mentre
si balla, una serie di pifferi, flauti e piccoli gong usati nella musica
contadina e strumenti particolari (come uno xilofono di giada) per
la musica di corte.
Architettura
Una particolarità singolare e piacevole a vedersi delle case tradizionali coreane sono i tetti con gli angoli che si curvano all’insù.
Le tegole tradizionali sono una gemma dell'architettura coreana
che esalta la bellezza dei tetti curvi. Non si conosce con esattezza
quando furono usate per la prima volta in Corea le tegole per ricoprire i tetti. Tuttavia, frammenti di tegole sono stati ritrovati negli
scavi di siti archeologici risalenti al periodo dei Tre Regni (I secolo
a.C. - VII secolo d.C.). Un vecchio costruttore di tetti dice che,
secondo la filosofia antica, i tre elementi essenziali dell’universo
comprendevano il cielo, la terra e l’uomo.
Nell’architettura tradizionale il tetto della casa è il simbolo del
cielo, le fondamenta rappresentano la terra, mentre lo spazio fra
il cielo e la terra è la dimora degli esseri umani. Siccome il tetto di
una casa tradizionale collega lo spazio riservato agli esseri umani con il
cielo, questa dovrà essere la parte più attraente della struttura lignea.
Queste informazioni sono state tratte dal sito www.corea.it
Dissensi & Discordanze
A proposito di
arte coreana...
Intervista a Minjung Kim
gianbattista rosa
Story, 2005, tecnica mista su carta di riso, 100 x 140 cm
Le prime tracce importanti di pittura coreana risalgono al periodo dei Tre Regni (I secolo a.C./VII secolo d.C.), anche se
quasi tutto è perso trattandosi di dipinti su carta.
Rimangono pregevoli murali tombali, che mostrano tratti decisi e ben strutturati.
La raffinatezza della pittura di quest’epoca risalta nelle illustrazioni degli Avatamsaka Sutra (i canti delle Ghirlande di Fiori).
L’arte decorativa fiorisce durante la dinastia Goryeo.
Sono in particolare dipinti buddisti del XIII-XIV secolo.
Gli oggetti sono scene eleganti e delicate, pregiate vesti e tessuti, indicativi della civiltà buddista del periodo.
Il massimo progresso della pittura coreana avviene durante la
dinastia Joseon.
Pittori professionisti e scuole di pittura, grazie alla crescita economica e alla stabilità politica, consentono nel XVIII secolo lo
sviluppo di stili pittorici coreani del tutto originali, con paesaggi e scene di genere di tipo secolare.
Jeong Seon (1676-1759) è la figura di maggiore spicco, con le
sue tele dedicate alle montagne di Corea.
La sua influenza è viva ancora negli artisti contemporanei.
Uno dei suoi capolavori è ‘Vista panoramica di Geumgangsan’.
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Dissensi & Discordanze
The street, 2010,
inchiostro su carta di
riso, 92 x 132 cm
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Contemporaneamente i dipinti di Kim Hong-do raccontano la
vita di contadini, mercanti e artigiani, con humour e precisione.
Negli ultimi anni della dinastia si afferma una pittura “di strada”, popolare, libera, con colori vividi e uno ‘modo’ vivace e stilizzato.
In seguito alla invasione giapponese del 1910 gli stili tradizionali
vengono sovrastati da una pittura di matrice occidentale, per riemergere dopo la liberazione nel 1945 grazie a una nuova generazione di artisti.
Contemporaneamente, molti giovani trasferitisi in Occidente tengono la vita artistica del paese legata alle tendenze dell’arte contemporanea.
Negli anni cinquanta la National Exhibition promuove lo sviluppo
dell’arte coreana, privilegiando però atmosfere formali e accademiche, e lavori ispirati al realismo.
I giovani artisti si indirizzano invece, in cerca di creatività, verso
l’arte geometrica astratta.
Altri tornano a interessarsi alla materia e al rapporto intrinsecamente unitario tra uomo e natura.
Nel 1995 si svolge la prima Biennale International di Gwangju.
Oggi in Corea vengono studiate sia l’arte tradizionale sia quella
occidentale, producendo una delle comunità artistiche più versatili
al mondo.
Molti pittori coreani sono oggi attivi a New York, Parigi e altri
centri d’arte contemporanea.
Altro elemento che differenzia la storia dell’arte coreana, e orientale in genere, da quella occidentale, è l’influenza del taoismo prima
e del buddhismo poi, del buddhismo zen in particolare.
Mentre l’arte dell’Occidente esalta il ruolo della personalità dell’artista, la sua soggettività ipersensibile ed è sfogo per i suoi sentimenti e la sua visione del mondo, mirando a generare sensazioni e
passioni, la scuola zen nasce dalla ricerca del vuoto, dell’essenziale
e insegna che le passioni sono false e vane; ricerca l’illuminazione
attraverso l’estraneazione e la meditazione.
Nella pittura dunque, come vedremo anche nell’opera di Minjung
Kim, la scuola dell’estremo rigore formale, calligrafico ed estetico,
si sposa con la ricerca del vuoto e del legame – che passa attraverso
la separazione da sé – tra il nulla e l’infinito.
Dalla Corea a New York
passando per Brera
L’arte coreana e l’Occidente. L’arte coreana antica della pittura ha
caratteristiche marcatamente diverse da quella occidentale, caratteristiche che si manifestano ancora oggi negli artisti contemporanei.
Innanzitutto, contrariamente a quanto avvenuto in Occidente, in
Oriente scrittura e pittura sono state da sempre due attività intrinsecamente connesse, sia punto di vista tecnico sia semantico.
La scrittura trova il suo strumento peculiare e si avvicina sempre di
più alla pittura in seguito all’utilizzo del pennello: identici diventano non solo gli strumenti (pennelli, inchiostri, carte e sete) ma
anche lo spazio fisico e i movimenti compositivi.
È una contiguità che si mantiene per secoli: dal momento in cui,
per scrivere, si cominciò a usare il pennello, ossia a dipingere i
caratteri (e non a scriverli), la scrittura dovette necessariamente
diventare bella scrittura, kalligraphía.
Come ricorda uno dei massimi critici dell’arte asiatica, Giangiorgio Pasqualotto, è per questa esigenza di bellezza, per questa ricerca di perfezione, che la scrittura, fino a tempi recenti, è stata per
secoli oggetto di studi lunghi e approfonditi, e appannaggio di una
ristretta élite di letterati: non solo per il costo dell'inchiostro, dei
pennelli e della carta, ma soprattutto per la calma, la concentrazione, l'impegno continuo, quindi, in definitiva, il tempo richiesto
per scrivere.
"Scrivere" si identificò, molto più che in Occidente, con "bella
scrittura", per cui i requisiti per scrivere dovevano essere assai simili, se non identici, a quelli per dipingere.
A rimarcare la profonda affinità tra calligrafia e pittura sta il fatto
che assai spesso nello spazio bianco di un dipinto sono tracciati i
caratteri di un testo, quasi a dimostrare che testo e dipinto sono
entrambi pitture.
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Intervista a Minjung Kim
In Corea ha seguito una lunga trafila di studi, molto sofisticata e
tradizionale, nelle arti visive e nella calligrafia; poi è arrivata in Italia dove tutto è diverso. Questa differenza l'ha aiutata oppure no?
Mi ha aiutato molto, nel periodo di Brera ho potuto togliermi da
un percorso accademico che era stato molto rigido e obbligava a
seguire una certa linea.
Ho potuto togliere questi vecchi vestiti troppo stretti, è stata una
bella esperienza.
All'inizio ho fatto fatica ad avere tutta questa libertà.
L'Occidente per me è stato una grande liberazione, che ho dovuto
imparare a gestire perché non ero abituata.
A Brera ho fatto da sola, magari a volte ho sbagliato perché ero
straniera, ma ho fatto tutto io.
Quale influenza ha avuto su di lei l'arte italiana?
Dissensi & Discordanze
L'arte italiana mi ha formata
soprattutto grazie allo studio
dell'arte rinascimentale – e
intendo anche architettura
e filosofia – che considero la
più importante al mondo e
che, attraverso i secoli, si è
evoluta fino all'Arte Povera e
al contemporaneo.
In Italia mi sono sempre
sentita circondata ovunque
dalla bellezza; visitando città e paesi, sia per la parte architettonica sia per le opere
d'arte, rimanevo stupita di
tante meraviglie e questa full
immersion nel bello ha contribuito a sviluppare il mio
senso estetico.
Quando ha sentito di aver
trovato la sua voce come artista?
Finché ho fatto il lavoro gestuale mi sentivo come se facessi una combinazione della
calligrafia orientale stilizzata
tradizionale con l'arte astratta americana, l'Action Painting, Kline e così via.
Mi sentivo frutto dello studio
di due mondi, ancora senza
una mia identità forte.
Quando ho cominciato a fare
la prima piccola bruciatura sulla carta ho finalmente
sentito che in qualche modo
stavo esprimendo qualcosa di
mio.
Ho cominciato la preparazione di artista a cinque anni
perché ho vinto un premio e
mia madre ha pensato: questa figlia deve diventare artista.
Allora mi ha fatto studiare
tutto quello che poteva aiutare una personalità artistica.
Sono andata dal più grande
maestro di acquerello, dal più
grande maestro di calligrafia.
Poi in una delle migliori università in Corea: sono stata
programmata con i migliori
maestri.
Predestination 2012, tecnica
mista su carta di riso, 145 x 76cm
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Dissensi & Discordanze
Tecnicamente si acquisisce moltissimo però non è che da questo
emerga la tua personalità, visto che da quel punto di vista anche
un artigiano può comunque fare meglio di te.
Direi che dal 1998-1999 ho cominciato a sentire che ero pronta
per fare la mia corsa, e poi dal 2000-2001 ho avuto la sensazione
di avere accelerato moltissimo.
Che cosa nutre il suo lavoro?
Il mio nutrimento fondamentale è fare il possibile per svuotarmi
completamente la testa.
Per me la vita, l'esperienza personale, la musica o la letteratura
sono inquinamento.
Chiudo gli occhi, vedo rosso e dei piccoli puntini verdi; sono inquieta perché già le mie palpebre si muovono e non sono come
un'acqua ferma.
Devo arrivare come quando si beve il tè e I'acqua nella tazza non si
muove più, nel senso che tu non sei più disturbata da nulla e riesci
a vedere l'immagine del tuo viso fisso.
Questo è lo stato d'animo che mi nutre.
Però la vita normale non mi dà questa pace, allora faccio un viaggio, soprattutto mi nutro in mezzo alla natura.
Mi piace la pesca alla mosca, non tanto per prendere il pesce quanto perché è un'attività meditativa.
Quindi il nutrimento è l'assenza di nutrimento, di stimoli.
Esatto.
Nel 2006 ha realizzato per la prima volta un'installazione, intitolata Stanza (dal nulla all'infinito) in cui evoca la tridimensionalità
in maniera esplicita.
Parto dal punto linea-superficie per andare verso il quarto mondo o
il quinto mondo che è uno spazio più astratto, che non posso ricreare
visivamente.
Il concetto è sempre quello delle coppie di opposti.
Con i due mondi diversi rappresentati dai due quadri che accosto
ad angolo, da una parte ci si concentra nel punto, dall'altra si esce
fuori.
Volevo farli andare oltre, in un terzo mondo, perché il lavoro angolare può diventare tridimensionale, per andare verso la quarta
dimensione, un atto di immaginazione che va oltre la dimensione
visiva.
La linea obliqua va in direzione dell'infinito e non incontrerà mai
l'origine che sta oltre il limite fisico del quadro.
Il punto di convergenza è nel vuoto, oltre il quadro.
A sinistra, Pieno di vuoto, 2006, tecnica mista su carta di riso, 214 x 152,5
cm. Sopra, Red mountain, 2014, inchiostro su carta di riso, 54 x 146 cm
Dal vuoto alla visibilità per poi ritornare nel vuoto.
Il punto di partenza è il nulla e l'arrivo è l'infinito. Come si fa a
rappresentare il nulla?
Nulla e infinito sono la stessa cosa, due principi contrastanti che appartengono al mondo del caos.
Nulla significa che qui si va oltre il punto visibile, il mondo fisico degli
atomi e delle molecole.
Questa molteplicità di punti va verso l'infinito, il nulla stesso rappresenta una parte dell'infinità.
Rappresento un movimento che è insieme "fermentazione di ciò che è
fermo".
Nella fermentazione c'è già tutto, il seme.
Come fa il nulla a fermentare?
Il nulla a cui alludo io può contenere il mondo intero.
Attraverso la "fermentazione" il nulla si fa mondo.
È un processo che permette la nascita, un movimento allo stato germinale.
È la rappresentazione di un ciclo cosmico; il nulla contiene i germi che
fermentando producono il passaggio che tu rappresenti visivamente,
per poi dissolversi nell'infinito ritornando allo stato iniziale.
Oltre ai quadri, dell'installazione fanno parte un "prima" e un "dopo"
che sono presenti anche se invisibili.
Che rapporto c'è per lei tra rito e opera d'arte?
Il rito è la forma della creazione di una certa pratica.
La parola rito per me è molto limitata, noi non la usiamo molto, non diciamo rito del tè, cerimonia del tè: in Corea diciamo più modestamente
bere il tè, il resto mi sembra una commercializzazione giapponese.
Il tè ha origine tre secoli prima di Cristo.
Un re beve acqua calda per la salute, arriva col vento una foglia di tè,
entra nella tazza e ne esce questo colore e questo sapore strano.
Allora l'imperatore dà ordine di andare a cercare da dove venisse la foglia volante.
Comincia così.
Trovo innaturale il rito del tè.
Per me bere il tè è immergermi dentro la natura, il resto è una sovrapposizione, una forma.
Secondo gli antichi saggi il momento più glorioso e gioioso del tè è la
condivisione, è berlo assieme a qualcuno che condivide i nostri stati d'animo, un amico.
È tutto molto naturale.
Dal di fuori sembra un rito, ma non è così.
La Cina ha passato il tè alla Corea e la Corea lo passa al Giappone.
I giapponesi, che riescono sempre a fare del commercio, hanno
creato il mito del tè.
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Il mio maestro del tè non mi ha insegnato una cerimonia, ma cose molto
semplici, regole per prepararlo nel modo giusto.
Parlava prima della mente vuota come preliminare necessario alla pratica artistica. Qual è il passo successivo, come arriva all'opera finita?
Il respiro è importantissimo, è il ritmo in accordo con il mondo, con il
cosmo. Talmente importante che chi sa respirare bene è una persona più
equilibrata. Io riesco a percepire lo stato d'animo di chi incontro dalla
vibrazione del suo respiro.
Quando creo un'opera voglio mettermi in uno stato di grazia.
Quando inspiro mi fermo e trattengo l'aria e l'energia sta dentro di me.
Quando espiro si butta tutto fuori.
Quando devo fare un segno di una giusta velocità omogenea, se comincio a respirare a scatti non riesco a esprimere la mia forza.
Devi concentrare l'inspirazione, tenere dentro il respiro e in quell'istante
della forza lo devi buttare fuori tutto d'un colpo.
È molto importante accordare il respiro con il gesto.
Qui sta la grande differenza tra il gestuale occidentale e orientale.
Il mio è un gesto controllatissimo e minimale, calcolatissimo, dove non
c'è nulla dì casuale.
Nell'Action Painting, in Pollock, l'azione è più importante del gesto; per
noi l'azione è minimale ed è finalizzata al gesto.
Posso anche non muovere niente per fare il mio lavoro.
Ci sono due tipi di casualità, una prodotta dal risparmio e dalla concentrazione, l'altra dall'abbandono, dal lasciare andare.
E tutto ciò viene insegnato?
Non esplicitamente, il nostro insegnamento tradizionale lo vedi, lo senti, lo imiti, e basta.
Se tu chiedi, magari ti viene data una chiave infinitesimale.
Il mio maestro diceva che per fare calligrafia occorre mangiare un'intera
mucca, ci vuole cioè tantissima energia, con l'espirazione butti fuori tutta l'energia che hai, è una specie di piccola morte.
Devi tirare fuori la parte migliore di te, se vuoi che la tua opera abbia
qualità. E infatti noi distinguiamo tra una cattiva calligrafia, chiamata
da vendita, e una buona calligrafia o da meditazione.
Fonti
www.korea.net - www.minjung-kim.com
Minjung Kim. Vuoto nel pieno, Milano 2006
Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente, Venezia 2006
Blue Moon (particolare), 2002, incisione
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Chi è Minjung Kim?
Minjung Kim nasce a Gwangju nel 1962. Fin dall'età di sei
anni, per volontà della famiglia, intraprende studi di pittura
con diversi maestri, tra i quali il celebre acquerellista Kang Yeon
Gyun e, dai tredici ai ventinove anni, di calligrafia orientale,
che le permette di addentrarsi nei fondamenti della tradizione
speculativa asiatica. Lo studio della scrittura trasmette a Minjung una concezione del mondo in chiave taoista classica per cui
ogni cosa, anche quella apparentemente più inerte, è dotata di
potere attivo e di una energia che le viene insegnato a comunicare grazie all'uso estremamente controllato del pennello, che "canalizza" l'energia e la fa convergere sulla carta. Nel 1985 Minjung si iscrive a un master post-laurea e si diploma con una tesi
sui quattro materiali fondamentali della pittura a inchiostro (la
carta di riso, il pennello, il pigmento dell'inchiostro e la pietra
che fa da supporto alla sua macinazione). Nel 1991 decide di
trasferirsi in Italia. L’incontro con la civiltà occidentale – che la
sorprende per la grande varietà di forme, di opzioni estetiche, ma
anche di stili di vita – le fa scoprire la possibilità di costruire
una dimensione strettamente individuale, nella quale vivere con
una grande libertà espressiva la propria condizione di artista.
Allo stesso tempo le permette di riscoprire l’autentico significato
di alcuni gesti emblematici della propria civiltà d’origine, come
l’attenta preparazione spirituale effettuata prima dell’attività
pittorica, e il rito del tè, inteso come verifica del proprio stato
d’animo.Nello stesso anno si iscrive all'Accademia di Brera, a
Milano. Qui ha modo di analizzare le opere di quegli artisti
occidentali che, in modo non sempre consapevole, hanno compiuto
ricerche analoghe a quelle di molti pittori orientali. In particolar modo alcuni dipinti di Paul Klee, Franz Kline e Robert
Motherwell la spingono a iniziare un nuovo percorso estetico, in
cui si allontana progressivamente dalla tradizione figurativa
per condurre una ricerca sul valore espressivo del segno e della
macchia, due elementi stilistici che si combinano perfettamente
con quella "visione processuale del mondo" e quella capacità di
"canalizzazione dell'energia" apprese entrambe con lo studio della calligrafia. La contaminazione fra concezioni e tecniche sia
orientali sia occidentali prosegue anche al di fuori dell'Accademia. Il suo lavoro pittorico si svolge sempre a terra, come vuole la
tradizione orientale, perché la terra, dal punto di vista sia letterale che metaforico, è il supporto basilare per qualsiasi dipinto.
Nelle sue opere, a partire dal 1998, la carta – utilizzata in più
strati sovrapposti – subisce combustioni che, oltre a generare un
senso di tridimensionalità, consentono di percepire una dimensione cronologica, di avvertire la stratificazione del tempo emblematizzata dalla successione di superfici cartacee; in quel tipico
tremolio conferito alle forme dal bruciarne i contorni si rivela il
fiorire, lo svariare, l'eclissare e il riemergere delle forme dall'indistinto del fondo, immerse in quello spazio risonante che tutte le
abbraccia, le contiene e le connette. Minjung Kim ha esposto in
importanti musei e gallerie in Italia, Regno Unito, Stati Uniti,
Israele, Corea, Giappone, Germania, Svizzera, Olanda e Danimarca.In particolare, in Italia ha esposto a Palazzo Bricherasio
a Torino, al Castello Sforzesco di Milano, al Macro di Roma,
ha partecipato con un'installazione alla Biennale di Venezia
nel 2009 e ha tenuto un seminario sulla calligrafia al Mart di
Rovereto nel 2010/2011.
Dissensi & Discordanze
Il cinema
coreano
massimo bertarelli
Il cinema coreano piace da matti alla critica colta e alle giurie dei Grandi Festival.
Due categorie convergenti e spesso sovrapponibili, che hanno in
comune l'autolesionistico piacere nel fremere di godimento per i film
d'autore.
Meglio se incomprensibili.
Meglio ancora se lentissimi.
E che raggiungono la perfezione quando, oltre a non farsi capire e a
viaggiare al ritmo di una tradotta militare, fanno sbadigliare senza freni
il popolino bue.
Ed ecco così le pagine delle recensioni riempirsi di stellette o di voti mai
inferiori all'otto e le mostre cinematografiche distribuire leoni o palme
in quantità.
Pazienza se poi le sale restano desolatamente vuote.
Il pubblico (pagante), incredibile ma vero, al cinema ci va per provare
qualche emozione, se proprio vuol dormire, se ne resta a casa.
Vedere per credere il film ‘Pietà’ del veneratissimo maestro coreano
(dove per coreano s'intende sempre della Corea del Sud, quella del
Nord ha ben altre gatte da pelare) Kim Ki-duk, puntuale Leone d'oro
a Venezia 2012.
Bene, si fa per dire.
La pellicola racconta, col solito passo tartarughesco, la giornata tipo di
un giovanotto, tale Kang-do, che a Seul fa il galoppino di un usuraio.
Passa di casa in casa, o per essere più precisi di stamberga in stamberga,
a riscuotere.
Se uno non paga, quello prende un martello e gli spezza le dita.
Pronto, nei casi più ostinati, a buttare il debitore insolvente giù dalla
finestra.
Scene mostrate con sadici primi piani: roba da mandare in subbuglio lo
stomaco di un messo di Equitalia.
Finché, tra un pestaggio e una defenestrazione, l'instancabile
esattore incontra un'anziana donna, che gli si avvicina piangendo.
Sono tua mamma, gli grida, e il malvagio carnefice di colpo diventa un
angioletto.
Povero fesso.
La donna in realtà è la madre di una delle sue vittime, che si era ritrovata con le gambe spezzate su una sedia a rotelle permanente.
Per vendicarsi ha escogitato un diabolico stratagemma, che non va rivelato per non privare della sorpresa qualche ritardatario masochista.
Un capolavoro, hanno scritto con le lacrime agli occhi i recensori più
alla moda.
Mentre gli spettatori senza laurea in filosofia nel buio della sala bisbigliavano sconvolti il titolo del film: “Pietà”.
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Dissensi & Discordanze
Viaggio ai
confini della
realtà nella
Repubblica
Democratica e
Popolare
di Corea
Ottobre/novembre 1982,
‘Il Giornale’ allora diretto da Indro Montanelli pubblica
uno straordinario reportage in cinque puntate.
Lo firma Fernando Mezzetti, forse il primo giornalista
occidentale ammesso nella Corea del Nord.
L’eco fu tale che gli articoli apparvero successivamente
su ‘Die Welt’, ‘The Wall Street Journal’
e ‘Washington Post’.
Di seguito, dopo una nota introduttiva
che ci porta ai giorni nostri,
il testo originale: un’eccezionale documentazione!
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fernando mezzetti
Gli oltre trent'anni passati dalla mia esperienza in Corea del Nord non
rendono superato il mio réportage di allora per "il Giornale nuovo",
fondato e diretto da Indro Montanelli, per il quale a quel tempo ero
corrispondente a Pechino.
È cambiato il mondo, è scomparsa l'Unione Sovietica, la Cina da grande malata dell'Asia è diventata gigante economico mondiale.
La Corea del Nord è rimasta la stessa.
Sono cambiati i leader, ma in un ricambio naturale nella successione
dinastica: allora, Kim Il Sung, cui si preparava a succedere il figlio Kim
Jong Il, alla cui morte nel dicembre 2011 è succeduto il terzogenito,
Kim Jong Un, di circa trent’anni.
La successione è avvenuta su indicazione del padre, che lo ha preferito
ai primi due figli, il maggiore dei quali si bruciò quando nel 2001 fu
protagonista di un imbarazzante incidente diplomatico.
Proveniente da Singapore, sbarcò a Tokyo con moglie, figlioletta e
bambinaia, ma fu scoperto che tutti e quattro avevano passaporti falsi.
Confessò che voleva andare a visitare Disneyland.
Giappone e Corea del Nord non hanno rapporti diplomatici.
Ci vollero le mille risorse della diplomazia per circoscrivere e risolvere
l’incidente.
Da allora il gaudente personaggio, generosamente ospitato dai cinesi,
se la spassa tra Pechino e la tropicale Macao.
Il secondo figlio fu scartato perché ritenuto debole e incerto.
Il terzo, educato in Svizzera, ma conservando solida mentalità autocratica nella continuità col nonno e il padre, racchiude le loro eredità in
bizzarria e spietatezza.
È cambiato lo scenario internazionale.
Allora la Corea del Nord approfittava della rivalità tra Cina e Unione
Sovietica per strappare aiuti e favori da entrambe.
Scomparsa l'Urss e avviatasi Pechino sulle riforme che l'hanno resa
potenza economica, il Nord è diventato sempre più dipendente dalla
Cina per aiuti economici, ma al tempo stesso sfuggente alla sua tutela:
tanto da essersi dotato di armamenti nucleari e missili, sfidando condanne e sanzioni da parte dell'Onu, alle quali ha aderito anche Pechino.
Quel che non è cambiato è l'essenza del regime nord-coreano: spietato, duro, impenetrabile, immunizzato con violenza da ogni influenza
esterna, votato a costruire a fini interni, per la sua popolazione tenuta
in grandissima parte all'oscuro di quanto avviene nel mondo e delle
evoluzioni scientifiche e sociali, una immagine perfezionistica e unica
di sé.
Un regime infame esaltato come il migliore dei mondi possibili.
Costante messa in scena di massa, tragico teatro con luciferini registi,
sulla pelle di milioni di persone innocenti.
Il filo conduttore della surreale teatralità del regime da me colta allora,
vale ancora oggi, e conserva una sua freschezza.
Per tutto ciò il mio réportage di oltre trent'anni fa ha ancora una sua
validità.
Non è un caso che la Corea del Nord sia stata alla ribalta dei media
internazionali sul finire del 2013 e inizio 2014 per due ragioni opposte:
trionfali accoglienze per stelle americane del basket ormai al tramonto,
convenute a Pyongyang per i grandiosi festeggiamenti del compleanno di Kim Jong Un, e spietate purghe interne.
Con una ferocia che avrebbe suscitato ammirazione nei pur inflessibili
nonno e padre, il giovane dittatore in dicembre 2013 ha prima plate-
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almente epurato il numero due del regime, marito di sua zia, e pochi
giorni dopo ne ha annunciato l'esecuzione capitale.
Tutta l'operazione è stata una sfida alla Cina, per la quale la vittima è
stata per anni maggior interlocutore nei rapporti fra i due Paesi.
Diffidente verso un leader giovane e inesperto ma dotato di armi nucleari come Kim Jong Un, Pechino contava sullo zio per tenerlo sotto
controllo, temendo instabilità alle sue frontiere.
Le accuse rivolte al giustiziato tirano in ballo più volte sue operazioni a
favore di potenze straniere, cioè la Cina.
Pechino ha reagito con manifesta irritazione all'epurazione e all'esecuzione capitale, con moniti del Quotidiano del Popolo secondo il quale
"il governo cinese non può non tener conto del disgusto del popolo
cinese verso il regime di Kim Jong Un".
Nei giorni successivi è apparsa la notizia secondo cui il giovane dittatore aveva eliminato lo zio non con fucilazione o capestro, ma dandolo
letteralmente in pasto a centoventi cani affamati da tre giorni in gabbia, e assistendo con trecento dirigenti all'orribile scena.
Sono sorte polemiche sulla veridicità della notizia, cioè su un elemento
irrilevante.
L'importante è che la notizia appare la prima volta su un giornale cinese di Hong Kong notoriamente legato a Pechino, e viene poi rilanciata
da Straits Times, rispettato quotidiano di Singapore, sempre molto rispettoso verso Pechino.
Nell'articolo di Straits Times si mette in risalto che su quel giornale
di Hong Kong la notizia non sarebbe apparsa senza l'ok di Pechino:
l'autore sa quel che dice, avendo lavorato per anni in quel quotidiano.
E così il cerchio si chiude.
Vengono dalla Cina le rivelazioni sul suo uomo in Nord Corea epurato
e dato in pasto ai cani.
Esse aumentano il discredito internazionale del leader nordcoreano, ed
è irrilevante se siano vere o no.
Nei regimi comunisti, epurazioni e fucilazioni di dirigenti di partito
non sono novità.
Qui nuova è la modalità dell'esecuzione: in pasto ai cani.
Vera o o no che sia la rivelazione, lo scopo è screditare il burbanzoso
coreano, così giovane così già figlio di mostro, e troppo irrequieto per
Pechino, per lui infido protettore, per essa infido protetto.
Riferite a un tiranno neofita ma già consumato come da decenni
di potere assoluto, e a un regime come quello da lui ereditato e del
quale si mostra degno erede, le raccapriccianti rivelazioni hanno il
timbro della verosimiglianza: in Corea del Nord il verosimile impera
sul vero. (15 gennaio 2014)
Dissensi & Discordanze
UNO - ottobre 1982
Viaggio ai confini della realtà
nella Repubblica democratica e popolare di Corea
UNA CHIAMATA DAL PARADISO COREANO
Dopo tante richieste inutili e due anni di attesa, quando il nostro inviato non sperava più, ecco la telefonata dell’invito nel
“regno” del “Grande e amato leader” Kim Il Sung – L’arrivo a
Pyongyang, una città tirata a lucido e piena di grandi viali, ma
come avvolta in un sudario di silenzio.
Il treno per il Paradiso parte da Pechino il lunedì, alle 16.40. Attraversando per tutta la notte la Manciuria, porta in ventitre ore a
Pyongyang, capitale della Repubblica Democratica e Popolare di
Corea, cioè la Corea del Nord.
Da molti anni, la Corea del Nord è stata proclamata ufficialmente
“Paradiso del popolo”.
Come in Paradiso, anche in Corea del Nord c’è un Dio.
È il Presidente Kim Il Sung, praticamente alla guida del Paese
dal 1945.
Dire che si tratti di un leader è poco.
I giornali nord-coreani lo nominano sempre accompagnando il suo
nome con l’espressione rituale: “Grande e amato leader”.
Più di una volta, essendo appunto la Corea del Nord Paradiso del
popolo, hanno anche scritto che Kim Il Sung non è un normale
essere umano, ma un essere che si innalza ad altezze divine, e che
per fortuna ama molto il suo popolo, che fa di tutto per meritare il
suo amore e la sua fiducia.
Per tutto ciò, si sale sul treno con una certa emozione.
Finalmente si va in Paradiso.
Non capita spesso un privilegio del genere, e quando capita, capita
a pochi.
Secondo le scritture, molti saranno i chiamati, pochi gli eletti.
La chiamata per il Paradiso era giunta inaspettata la mattina del
25 agosto, con uno squillo di telefono.
Non erano ancora le sette del mattino e il signor Kim Cham Guk,
dell’ambasciata del Paradiso a Pechino, mi comunicava festoso che
la Repubblica Democratica e Popolare di Corea era lieta di invitarmi a visitare il Paese.
Col signor Kim avevamo avuto, dal 1980, rari contatti telefonici,
improntati a mie ripetute insistenze per visitare la Corea del Nord.
Su richiesta, avevo mandato mie dettagliate biografie (in Paradiso
si deve ben sapere chi si ammette) private e professionali, diversi
ritratti fotografici del sottoscritto aspirante visitatore.
Una volta avevo anche accluso due miei articoli: uno di pacata analisi della posizione di estremo equilibrio che la Corea del Nord tiene
nell’ambito dei Paesi non allineati; l’altro, un ritratto giornalistico
del “Grande e amato leader” e di suo figlio, Kim Jong Il, da più
parti designato quale successore del padre nella guida del Paese.
Il lettore può immaginare che tipo di articolo potesse essere, essendo uscito su queste pagine il 31 ottobre 1980, redatto da chi,
come il sottoscritto, si onora di far parte del gruppo fondatore di
questo giornale.
Concludevo affermando che la scelta del figlio per la successione rispondeva a moderni criteri democratici per il bene del popolo: “Mentre le degeneri democrazie borghesi nell’agonia del
capitalismo permettono al primo venuto di ascendere ai vertici
dei partiti e dello Stato, la Corea democratica e progressista,
guidata da Kim Il Sung, provvede al futuro del Paese in modo
profondamente nuovo”.
Ci voleva molta improntitudine per mandare questo articolo
in visione ai coreani.
I quali lo hanno soppesato e valutato per due anni.
Nella primavera scorsa, avevano anche chiesto informazioni su di
me e sul “Giornale” a una delegazione di parlamentari italiani. (I
quali, suppongo, erano andati in Corea a vedere come funziona il
sistema familiare di Kim Il Sung: un sistema che noi non potremo mai copiare, dato che ci è stato negato un Padreterno come il
Grande Leader).
Rimpiangendo di aver mandato in visione quello scritto, non avevo più pensato alla Corea fin quando all’alba del 25 agosto, appunto, non fui informato che le porte del Paradiso si schiudevano.
La chiave era stata proprio quel’articolo, nel quale i coreani del
Nord, tutti fedeli e leali sudditi di Kim Il Sung, avevano finito con
l’apprezzare il fatto che un giornalista capitalista parlasse del loro
“Grande e amato leader” nei loro stessi termini.
La Corea è un Paese chiuso come pochi altri.
Nel panorama politico internazionale è un oggetto misterioso.
A Nord ha una lunga frontiera con la Cina; a Nord-Est, un breve
tratto di confine con l’Unione Sovietica.
Due vicini scomodi.
A Sud, cioè più o meno al centro della penisola, approssimativamente lungo la linea del 38° parallelo, è chiusa dalla linea di
demarcazione della zona smilitarizzata definita dal faticoso armistizio del ’53.
La spiegazione su come mai questo Paese così chiuso si sia aperto per il
corrispondente del “Giornale” a Pechino era necessaria per un motivo
molto semplice: farvi capire con chi si ha a che fare.
Eccoci, dunque, infine, sul treno in partenza da Pechino.
Due sono le carrozze per Pyongyang: una di prima classe, l’altra di
seconda, entrambe con cuccette per la notte.
Nella mia carrozza non siamo in molti: una delegazione cinese della
compagnia nazionale di assicurazioni, un diplomatico pakistano.
Dalla carrozza di seconda, fa ogni tanto incursione anche un giovanotto iraniano di stanza nella sua ambasciata a Pyongyang.
Accompagnato dalla moglie infagottata e avvolta in vestoni e veli in
testa come una monatta, cerca di propagandare il verbo di Allah e del
suo profeta Khomeini.
Insiste nel voler lasciare nel mio compartimento un paio di chili di
carta patinata sulla rivoluzione progressista di Khomeini e sulle sue
sante guerre.
Per fortuna non le butto via perché l’indomani presto viene a chiederne la restituzione.
Al confine un’enorme statua di Mao
Nella notte si attraversa la Manciuria.
Alle tre e mezzo ci si ferma a Shenyang, l’antica Mukden, già capitale
dello stato-fantoccio del Manciukuò negli Anni Trenta.
Alle ore 8.15 di Pechino si arriva al confine.
Siamo a Tantung, una cittadona proprio sulla frontiera.
La sosta è di oltre un’ora, per le pratiche di frontiera e per le manovre ferroviarie: si tratta di sganciare dal convoglio le due carrozze per
Pyongyang.
89
Dal finestrino si vede fuori della stazione una grande piazza, con una
immensa statua di Mao.
Il Grande Timoniere è rappresentato col cappottone militare, e risulta
fedelmente sciatto e goffo, quale mille altri ritratti e statue ce lo hanno
trasmesso: il braccio destro è alzato, quasi benedicente; quello sinistro, rigido lungo il fianco.
La mano sembra rattrappita sotto la manica troppo lunga.
Come ben ricordano i suoi sarti, il Timoniere, scarsamente
dotato di naturale eleganza, accentuava la propria goffaggine
con la predilezione verso maniche eccessivamente lunghe.
Si potrebbe scendere e far due passi, ma tutto in Cina sembra
già noto.
L’aspettativa è per di là, o per l’aldilà, se preferite, per il Paradiso del popolo.
Credo di essere uno dei pochissimi giornalisti occidentali, non
di partito, che vi venga ammesso: prima di me è venuto qualcun altro, ma sempre al seguito di qualche esponente politico,
non per un reportage individuale.
Alle dieci ora di Pechino la locomotiva con le due carrozze per
Pyongyang finalmente si muove.
Attraversiamo un lungo ponte sul fiume Yalu, che segna il
confine tra i due Paesi.
Per il lettore di oggi, lo Yalu non vuol dire nulla.
Ma all’inizio degli Anni Cinquanta, allo scoppio della guerra
di Corea, lo Yalu fu un nome che tenne in sospeso l’opinione
pubblica di tutto il mondo.
Il comandante supremo americano nel Pacifico, Douglas MacAthur, sosteneva la necessità che le sue fortezze volanti oltrepassassero lo Yalu venendo ad operare in Cina per agire contro i “santuari
della Manciuria” di cui disponevano i nord-coreani.
Sarebbe stata la guerra con la Cina.
La Casa Bianca e l’ONU intendevano invece circoscrivere il conflitto, e per questo MacArthur fu deposto da Truman.
Mentre l’America, come le accadrà poi in Vietnam, cominciava ad
essere prigioniera della propria potenza, MacArthur, più avvezzo
ai teatri di guerra che ai tavoli diplomatici, sosteneva che si entra
in un conflitto per vincerlo.
Alla fine del lungo ponte eccoci in territorio nord-coreano.
Ci si ferma subito, alla stazione di Siniju.
Anche qui, la sosta è di un’ora, mentre si porta l’orologio avanti
di un’altra ora.
Anche qui si può scendere e far due passi, ma solo lungo la carrozza ferroviaria, senza oltrepassare i suoi limiti, guardati da militari.
Il diplomatico pakistano, veterano di questi viaggi, mi dice che è
un peccato, perché se ci lasciassero andare oltre si potrebbe vedere
una grande piazza dominata da una immensa statua di Kim Il
Sung.
Anche qui come di là, dunque?
No, no.
Di là la Cina un po’ ciabattona, il suo aspetto bonario e sbracato, i
poliziotti con le loro divise un po’ dimesse, le scarpe di pezza; i militari dalle uniformi strapazzate e goffe, senza gradi, il berrettuccio
floscio, chi con scarpe di cuoio chi con scarpe di pezza.
Strade quasi deserte
Di qua, militari con divise perfette, di foggia sovietica, stivaloni e berretto rigido, profusione di gradi e mostrine, spalline
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larghe un palmo.
Agganciate altre carrozze, cambiata locomotiva, una folla fino
ad ora invisibile, concentrata chissà dove, sciama in stazione,
passa alla larga dalle vetture provenienti da Pechino e si accalca sugli altri vagoni.
Molti i militari, impettiti e solenni, molti civili in giacca e cravatta, molte donne col figlioletto legato sulla schiena.
Partenza per Pyongyang.
Si attraversa una campagna ben coltivata, quasi tutta a riso.
Lungo la ferrovia si scorgono villaggi con case dall’apparenza
decente, immensi slogan inneggianti al Grande e amato leader, e molti suoi ritratti.
Ho visto varie campagne cinesi, infinitamente più povere, e
non mi stupirò di questa migliore situazione coreana che balza
subito agli occhi.
I coreani del Nord sono diciassette milioni su una superficie di
centoventimila chilometri quadrati, con duecentomila ettari di
terreno coltivabile.
È, in pratica, la popolazione di Pechino e Tientsin con i sobborghi.
Ogni paragone sarebbe improponibile.
Non stupirà quindi che la Corea del Nord, specie per quanto
riguarda l’alimentazione, sia autosufficiente.
Alle ore 16, arrivo a Pyongyang, in una stazione tutta marmi
tirati a lucido.
Sul marciapiede sono schierati vari funzionari in giacca e cravatta, con accanto ragazze in abito blu, camicetta celeste,
grandi nastri celeste o rosa con fili d’oro raccolti a forma di
fiore sui capelli.
Forse non mi sono accorto che sul mio stesso vagone viaggia
qualche visitatore importante per il quale è stato organizzato
il benvenuto.
Scendo in jeans e pullover, qualcuno mi domanda in italiano se
sono io il giornalista italiano, ed eccomi attorniato dalle bambine compunte e sorridenti che offrono mazzi di fiori, sotto i
riflettori della televisione e delle cineprese.
Per la prima volta in vita mia mi trovo dall’altra parte degli
obiettivi.
Non sono avvezzo a ciò.
Una giovane fotografa in decoroso abito blu e camicetta bianca, con una perfezionatissima e costosa Hasselblad, continua
a sparare foto.
Un funzionario del protocollo governativo mi porge il benvenuto, e mi fa strada verso l’uscita, dove mi attende una Mercedes nera, per andare in albergo.
È questo il primo impatto con la Corea e con la sua capitale.
Una città dai grandi vialoni, vuoti e silenziosi.
Solo qualche autobus e alcun e vetture, tutte di gran rappresentanza.
Sui marciapiedi, poca gente che cammina silenziosa.
Lungo le strade, palazzoni la cui interna umanità rimarrà impenetrabile.
Molti edifici pubblici, immensi, faraonici.
Innumerevoli i ritratti e le statue di Kim Il Sung, “Grande e
amato leader”.
La pulizia in città sembra estrema.
Non una cicca per terra.
Dissensi & Discordanze
Tutto perfetto.
Troppo perfetto.
Il Paradiso del popolo sembra avvolto in un sudario di silenzio.
due - ottobre 1962
Piazze come palcoscenici, palazzi come quinte
e un popolo di comparse-spettatori
IN COREA SI RECITA LA FELICITà
Per le strade, come in ogni spettacolo che si rispetti, gli attori indossano il costume di scena: gli uomini sono in giacca e cravatta,
le donne in tailleur verde, i giovani vestiti di blu – Il grande leader “consiglia” perfino l’itinerario migliore per andare da casa
al lavoro, in fretta.
I nord-coreani sono stati da tempo proclamati ufficialmente “un
popolo felice”.
Essendo il loro Paese “Paradiso del popolo”, va da sé che la popolazione non può che essere felice.
Tutto è organizzato in modo che il visitatore straniero possa vedere
solo questa felicità, proclamata ogni minuto, ogni minuto servita
sul piatto.
Tutto, grazie al “Grande e amato leader” Kim Il Sung.
Senza di lui non ci sarebbe questa felicità.
Anzi, diciamolo pure: sena di lui non ci sarebbe neanche la Corea
del Nord.
Per le strade si vede gente decorosamente vestita: gli uomini sono
quasi tutti in giacca e cravatta, scarpe in cuoio; le donne, tutte in
tailleur verde con camicetta celestina; le ragazze, vestitino blu con
camicetta pure celeste, scarpe con tacchetto; i ragazzi, in corretto
abitino blu, spesso con cappello.
Tutti hanno l’aspetto ben curato, capelli ben pettinati.
I negozi più diffusi sembrano quelli di barbiere che paiono accoglienti e puliti.
Il presidente e Grande leader tiene molto alla pulizia e al decoro.
Perciò la gente, insieme con lo stipendio, riceve anche i buoni per
andare dal barbiere.
Tutti portano all’occhiello il distintivo con l’immagine di Kim Il
Sung.
Non è un semplice ornamento: è una decorazione ufficiale, una
onorificenza.
La si dà anche agli studenti in relazione al loro comportamento.
Il formato e la dimensione del distintivo variano a seconda dell’importanza dell’onorificenza.
“Vede quanto siamo felici”?, mi domanda l’interprete in italiano
mentre in macchina percorriamo i grandi vialoni di Pyongyang da
un monumento all’altro.
Come no, come no.
Uno maligno e poco informato potrebbe avere dei dubbi.
Tenendo presente che lo stipendio medio è di circa novanta won
(un won, moneta coreana, pari all’incirca a mezzo dollaro americano, diciamo a ottocento lire italiane), uno si potrebbe domandare
come fanno ad essere tutti così ben vestiti: un abito, infatti, costa
ben più di cento won; un impermeabile novantasei won; cioè uno
stipendio e passa.
Dubbi dei poco informati, però.
Perché in realtà, a tutto, c’è qualcuno che pensa: e cioè il Grande
e amato leader.
Gli abiti delle studentesse, linde e decorosi, sono dati in dotazione:
un regalo del Grande leader.
I vestiti che gli uomini indossano, con camicia e cravatta, sono
pure in dotazione: regalo del Grande leader.
I tailleur di color verde delle donne, anch’essi in dotazione: regalo
del Grande leader.
Le scarpe per tutti, quando si è in servizio: dotazione di lavoro,
regalo del Grande leader.
Qualcuno, ancora maligno, potrebbe osservare che allora sono tutti in uniforme.
Ma è un’osservazione superficiale e reazionaria.
In realtà, essendo tutti gli abitanti del paradiso partecipi del grande spettacolo di felicità che il Paese intende dare di sé sotto la
guida del Grande leader, tutti hanno l’abito di scena.
Tutti hanno una parte nello spettacolo della felicità socialista: e
tutti ne sono interpreti.
La rappresentazione è quella di come in Corea si immagina sia una
società altamente sviluppata, economicamente avanzata.
Per le strade, solo macchine di lusso, ancorché poche.
La poca gente in giro, educatamente in silenzio, ben vestita.
Si esce di casa non per andare a zonzo, smemorati dell’oggi e di
ieri, immemori della parte spettante.
Si esce per andare in ufficio, o comunque, al lavoro, o la sera a teatro, se l’unità di lavoro ha organizzato che si vada a teatro.
E ci si veste, allora, secondo il proprio ruolo con gli abiti fortunatamente avuti in dotazione in rapporto al lavoro svolto, in funzione
della parte che si deve rappresentare.
Abiti che, si capisce, non sono dati dallo Stato, ma dal Grande
leader.
I colori talvolta possono non soddisfare il decadente gusto occidentale, corrotto dal capitalismo, ma le uniformi ci sono.
Lo spettacolo di felicità è perpetuo, e raggiunge il culmine nei
mille aspetti della capitale.
A metà tra il fantastico e il reale, sospesa nell’irrealtà dell’immagine che la Corea intende dare di sé, Pyongyang è la summa di menti
eccelse che hanno volto tutte le loro energie nello spettacolo.
La città è affondata nel verde, distesa lungo le rive del fiume Taetong, tra colline e grandi spazi.
È tutta nuova.
Grandi viali, fiancheggiati da palazzoni, con marciapiedi sui quali
si snoda pochissima gente, che tira diritta senza cedere a tentazioni, all’abbandono davanti a una vetrina.
“Ho sentito dire – domando all’interprete - che il Grande leader, il
partito, la municipalità di Pyongyang, solleciti e premurosi verso
il popolo, considerando che la città è molto grande e che la gente
potrebbe smarrire la strada, consigliano ai cittadini di seguire sempre lo stesso itinerario quando escono di casa per andare al lavoro
e quando lasciano l’ufficio per tornare a casa.
È vero?”
L’interprete si consulta con la signora in tailleur verde che ci accompagna, e che, pur parlando solo poche parole di inglese, è stata
presentata come nostra guida.
91
Confabulano tra loro, poi la risposta, radiosa: “Certo, certo che su
disposizione del Grande leader ai cittadini vengono consigliati gli
itinerari da seguire nei loro spostamenti”.
È una premura e una sollecitudine che verranno rivolte anche al
sottoscritto.
Nel timore che l’ospite italiano potesse smarrirsi, nei dieci giorni
trascorsi in Corea, con premura e sollecitudine, mi sono sempre
stati tutti al fianco.
Un inchino davanti alla statua
I vialoni di Pyongyang hanno la dimensione della Quinta strada,
ma il traffico è pressoché inesistente.
Il pochissimo che esiste è tuttavia ben regolato ogni cento metri
da poliziotti in elegante divisa, energici nel fischietto e nell’indicazione delle direzioni.
I miei accompagnatori non vogliono essere troppo presuntuosi nel
magnificarmi la città: ma si vede benissimo che essa stessa è stata
concepita come spettacolo della felicità socialista.
Adesso è autunno inoltrato, e sul largo fiume non si vedono motoscafi e gente che fa sci d’acqua.
Però da diverse cartoline e pubblicazioni varie ho immagini di questo stesso fiume affollato di motoscafi, di barche a vela, di gente
che fa sci nautico, con la dicitura “Momenti di svago della felice
gioventù di Pyongyang”.
Andiamo a visitare uno dei luoghi più celebri di Pyongyang, la
piazza Kim Il Sung.
Vi arriviamo in macchina solo perché siamo dotati di speciale lasciapassare, pur essendo essa il cuore della città.
Le altre vetture, tutte ufficiali, su capisce, ma che non abbiano alti
funzionari a bordo, non avendo i lasciapassare seguono altre strade
per non disturbare questo sacro luogo.
È una immensa piazza dominata da grandi palazzi.
In fondo, il teatro dell’opera, tutto scintillante di marmi; a sinistra,
il Palazzo dello studio del Popolo.
Una faraonica costruzione a sei piani, eretta in pochi mesi con l’entusiastico lavoro volontario delle masse che rinunciavano a giorni
di riposo pur di completarla in tempo per il settantesimo compleanno del Grande leader, festeggiato il 15 aprile di quest’anno.
Centomila metri quadrati di superficie, dieci piani, dieci grandi
padiglioni, trenta milioni di libri, seicento stanze, laboratori linguistici.
È giorno feriale, e il palazzo è pressoché deserto.
Deserti i laboratori linguistici, dotati di modernissimi impianti
giapponesi.
Ovunque, profusione di marmi.
Una immensa statua in marmo di Kim Il Sung all’ingresso, davanti alla quale la guida che ci accoglie e che ci fa strada si inchina
entrando.
Come al solito, sporchi reazionari insinuano che questo palazzo è
una pura messa in scena.
E invece non è vero.
I laboratori linguistici che abbiamo visitato, erano deserti per pur
caso; così come per puro caso erano vuote le sale di lettura che
abbiamo visitato.
Una delle sale, immensa, con un centinaio di posti, è riservata
esclusivamente alla lettura delle opere di Kim Il Sung.
Non è che uno prende un libro di Kim Il Sung e se lo va a leggere
92
dove vuole.
No.
C’è bisogno di raccoglimento, e quindi ecco la sala apposita, dominata da un grande ritratto ad olio dell’insigne pensatore.
Anche qui, il fatto che in sala ci fossero solo alcuni militari, del
dipartimento della propaganda, intenti a fotografare gli scaffali
su cui allineavano le opere del Grande pensatore in più lingue, era
dovuto solo a un mero caso.
Sarebbe troppo pretendere che l’organizzazione mettesse su affollamenti solo perché arriva un visitatore.
Non era vuota invece la grande sala degli audiovisivi: c’era un
gruppo di operai portati dal comitato di fabbrica in visita a questo
monumento della sollecitudine per il popolo.
Operai che in silenzio e stupefatti ammiravano incantati gli immensi lampadari del salone centrale, tutti in cristallo, stile Murano-socialista, diametro sette metri.
Dopo la breve visita, essi sono tornati a casa certamente felici del
fatto che quel gran palazzo sia stato costruito per il popolo e a
gloria del Grande leader.
Sulla grande piazza, tra il palazzone e la mole del teatro, una fuga
di fontane, con giochi d’acqua e di notte luci multicolori che la
gente può ammirare da lontano: non è necessario che essa si avvicini a queste grandiose realizzazioni dell’architettura socialista,
raggiunge sotto la guida del Grande leader.
Poi ci sarebbero i musei, in cui tutto parla del Grande leader.
La città è piena di musei.
Un volgare e superficie osservatore potrebbe affermare che tutti si
somigliano.
Invece no.
Perché in uno, all’ingresso, c’è l’immenso ritratto del Grande leader.
In un altro, invece, c’è la statua.
E nelle sale di uno ci possono essere suoi ritratti ad olio: in piedi,
seduto, pensoso, sorridente, attorniato da bambini, attorniato da
soldati, da contadini, da operai.
In un altro il ritratto può avere sfumature diverse: il presidente
pensoso che dà istruzioni, suggerimenti, ordini.
Ci può essere da una parte il presidente bambino, che a sette anni
comincia a fare il rivoluzionario e organizza il popolo coreano; oppure giovinetto, già attorniato da discepoli, già allora tutti in giacca e cravatta; e poi combattente, soldato intrepido.
Come un “presepe” di guerra
Qui la penna che una volta lui ha usato; di là il telefono che lui ha
usato per un certo periodo.
Tutto sotto vetro.
Sotto vetro la poltrona che per qualche tempo ha usato in ufficio.
Sotto vetro il tavolo che usava come scrivania.
Tutte reliquie di sacre memorie della vita d’un personaggio schivo,
che rifugge da ogni culto della personalità.
E a parte il Grande leader, i musei, in linea col fatto che la Corea
è tutta una esibizione di felicità, sono essi stessi spettacolo meraviglioso.
Intere sale sembrano presepi.
Plastici immensi con omini, schieramenti di truppe, autocolonne
in movimento.
Presepi che si animano, anche.
Memorie
Dissensi & Discordanze
93
Ecco una ricostruzione di una battaglia: sullo sfondo del plastico,
lo schermo tridimensionale si anima.
Riflettori fendono il cielo nella notte.
Tuona il cannone, crepitano le mitragliatrici, piangono i feriti, le
colonne degli intrepidi rivoluzionari coreani avanzano nella notte; le auto che da lontano sono piccolissime si ingrandiscono man
mano che si avvicinano allo spettatore, tornano ad essere piccole
mentre si allontanano verso l’immancabile vittoria finale.
Ingegnosi, incredibili giochi, spettacoli frutto di inauditi sforzi socialisti.
Ed ecco la ricostruzione della capanna nei boschi in cui il Grande
leader visse quando combatteva i giapponesi.
Un bosco vero, con faggi e abeti in una intera sala.
Tutta scarsamente illuminata, con un raggio di luce che viene dalla
luna che filtra lassù tra i rami.
Inebrianti i profumi di bosco, immessi anche da potenti deodoranti.
Cinguettio di uccelli.
Dentro la capanna, un blocco di appunti su cui il Grande leader
era solito prendere note; la panca di legno su cui poggiava le sue
storiche chiappe.
Ma è venuto il momento di parlare adesso solo di lui, del Grande
leader.
Merita uno scritto a sé.
tre - ottobre 1962
Il “Grande Leader” traccia il solco
e la Corea lo segue senza avere dubbi
“NOI TIREREMO DRITTO”
La propaganda di Stato ripete stranamente slogan che da noi
hanno fatto il loro tempo – Kim Il Sung è considerato il nume
tutelare del Paese: da oltre vent’anni la sua casa natale è visitata
da trentamila “pellegrini” al giorno.
Bello, raffinato, sguardo d’aquila, grave come un oracolo, solenne
come un antico sacerdote, modesto come un lavoratore modello,
agile con una gazzella, radioso come il sole dell’alba, festoso come
un arcobaleno, lampante come una saetta, il presidente Kim Il
Sung, “Grande e Amato Leader”, è il nume tutelare della Corea.
Egli è presente in ogni momento e in ogni luogo del Paese.
Tutto porta il segno della sua ineguagliabile saggezza, della sua
possente lungimiranza, della sua vasta intelligenza, della sua sconfinata cultura, della smisuratezza del suo pensiero, profondo quale
finora la storia umana non aveva mai conosciuto, come con modestia affermano i giornali nord-coreani.
Il personaggio è straordinario ed unico nel panorama politico internazionale.
Ha settant’anni, e da quaranta tiene in pugno il Paese.
Lo ha modellato come ha voluto, preoccupato soprattutto che esso
offra, non solo ai visitatori, ma ai coreani stessi, uno spettacolo di
felicità. Tutti debbono sentirsi felici, in Corea, specialmente perché
hanno un leader di questa portata.
Non solo lui, ma anche suo figlio, per fortuna, del quale parleremo
a parte.
94
Per ora è tuttavia necessario dire che nessuno, in Corea, nomina
apertamente il figlio: si parla di lui solo usando espressioni tipo,
l’“Eminente dirigente”.
Dunque.
Il signor Kim Hyo Gu, vice-direttore dell’associazione per le relazioni con l’estero, afferma con fierezza: “Il nucleo della nostra rivoluzione è costituito dalle idee del Grande Leader e dell’Eminente
dirigente.
Ciò vuol dire che tutto il nostro popolo ha una sola idea.
Quando il nostro Grande Leader e l’Eminente dirigente dicono
“uno”, il nostro popolo risponde in coro “uno”.
Nessuno dice due oppure tre!
Da noi non ci sono frazionisti o controrivoluzionari”.
Il mio interlocutore è molto scaltro: ha girato il mondo, è stato più
volte in Italia al festival dell’Unità.
Conosce bene il valore dell’adorazione per Kim Il Sung.
Sono ammirato di questa mirabile unità tra il Grande Leader, l’Eminente dirigente e i loro sudditi, e non posso fare a meno di domandare: “Allora, in Corea non ci sono prigioni?”.
I colossali monumenti al nulla
Il signor Kim non ha esitazioni: “Eh no, ci sono, ci sono.
Dobbiamo averle perché l’imperialismo americano e i suoi lacchè
ci insidiano, mandano spie.
Allora, per questi, il Grande Leader ha tracciato un alinea giusta.
Il Grande Leader traccia sempre linee, e sono sempre linee giuste.
Prima di fare qualsiasi cosa, il Grande Leader traccia sempre
delle linee.
La storia ha dimostrato che tutte le linee che il Grande Leader ha
tracciato sono sempre state giuste.
Per questo, quando lui dice “Avanti”, il popolo risponde “avanti”.
Il Grande Leader è uno straordinario tracciatore di linee.
Grazie a queste sue linee, noi non siamo mai andati a zig-zag, ma
abbiamo sempre tirato diritto.
E continueremo a tirare diritto, con lui che traccia le linee”.
Il Grande Leader, tuttavia, non è solo un tracciatore di linee, un
creatore di geometrie davanti al quale Euclide diventa un apprendista.
E non è neanche solo un uomo d’arme, come lo fu in guerra contro
i giapponesi, e dopo contro l’imperialismo.
Il Grande Leader è anche un pensatore sommo, scrittore fecondo,
creatore di miti, narratore, esperto di costruzioni, di agricoltura,
di ingegneria, di aeronautica, di impiantistica, di progettazione
industriale, di sanità e urbanistica.
Tutto ciò che è stato fatto in Corea del Nord, lo si è fatto grazie
alle sue istruzioni.
Specialmente i monumenti che parlano di lui, le faraoniche realizzazioni di dubbia utilità a lui dedicate, i colossali monumenti al
nulla.
Non c’è giorno, anche, che lui non vada in qualche posto, dia un’occhiata, e col suo sguardo d’aquila dei monti, la sua intelligenza da
saggio tra i più saggi, non afferri al volo il cuore dei problemi e
non dia fulminee e illuminanti disposizioni, indicazioni, istruzioni.
Nelle sue opere l’essenza della “juche-idea”
Per fortuna della Corea, il Grande Leader si è accorto in tempo
delle carenze del marxismo.
Dissensi & Discordanze
Soltanto oggi in Europa studiosi di sinistra in crisi si accorgono
delle carenze del marxismo di fronte ai problemi della società moderna.
Lui, invece, aveva previsto tutto. per questo ha sviluppato il marxismo, il pensiero di Engels, quello di Lenin, quello di Stalin.
Come giustamente sottolineano i giornali coreani, il Grande Leader ha preso in mano i sacri testi del marxismo e li ha tutti sviluppati.
È il più grande pensatore della storia umana, non solo di questo
secolo.
Il suo gabinetto di lavoro è in realtà un pensatoio, una fucina creativa.
Lui, una mente infaticabile, che in anni e anni ha partorito un
sistema filosofico, summa del pensiero dell’età moderna: la “jucheidea”, da cui discende, si capisce, il kimilsunghiasmo.
Le povere parole di un giornalista capitalista sono insufficienti a
spiegare che cosa possa essere la juche-idea.
L’essenza della juche-idea, comunque, è contenuta nelle opere
scritte dal presidente: decine e decine di volumi, poderosi, dalle
splendide rilegature.
Volumi tradotti in quasi tutte le lingue, dato il bisogno che il mondo ha della juche-idea, la sua straordinaria popolarità tra le masse
universali.
Fortunatamente non sono stati tradotti a cura di editori capitalisti, che avrebbero magari potuto sabotare il pensiero del Grande
Leader.
Sono stati i coreani stessi a tradurli, per dare al mondo questa miracolosa sintesi in decine di volumi del pensiero del Grande Leader.
Lo hanno fatto essi stessi per impedire ignobili speculazioni: sanno
che le opere del presidente e Grande Leader vanno a ruba nel mondo, e perciò hanno voluto evitare ulteriori profitti al capitalismo
rapace.
Generoso, il presidente ha autorizzato che venissero stampate a
sue spese.
Ogni uscita di un suo nuovo volume è un avvenimento culturale
e politico.
Sventuratamente, è stata persa la conta esatta di quante opere egli
abbia scritto.
Ho implorato il vice-direttore dell’associazione per i rapporti culturali, il signor Kim Hyo Gu, di dirmelo, ma anche lui ha perso il
conteggio.
I giornalisti occidentali fanno di tutto per sabotare la conoscenza
e la diffusione del pensiero del Grande Leader; lo stesso i filosofi e
i pensatori occidentali, timorosi che il suo fulgido pensiero riveli
quanto siano miserabili i loro bla-bla.
Ma il Grande Leader, nella sua generosità somma, provvede di
tanto in tanto a comprare pagine intere dei maggiori organi di
stampa del capitalismo, a cominciare dal “New York Times”, per
diffondere mirabili sintesi della sua ineguagliabile opera filosofica,
miracolosi distillati della sua saggezza.
La sua generosità è senza limiti.
Tutto ciò che il cittadino coreano ha, lo deve a lui.
Per esempio, ogni anno, per il proprio compleanno, il Grande Leader usa regalare cose bellissime.
Decine di Mercedes e di Volvo per i funzionari che più si distinguono nel lavoro, nella lealtà a lui, nello studio della juche-idea.
Decine di migliaia di orologi svizzeri.
Nell’aprile di quest’anno, in occasione del suo settantesimo compleanno, celebrato dalla popolazione di Pyongyang con festeggiamenti inenarrabili, il Grande Leader ha regalato quattromila orologi da polso, in oro, marca Omega.
E decine di vetture, si capisce.
Reazionari infami insinuano ogni tanto che Corea del Nord, - come
dire? – è un po’ recalcitrante nel pagare i propri acquisti all’estero.
Ignobili insinuazioni.
Semplicemente, è lenta e cauta.
Ma il Grande Leader e magnanimo: tutto ciò che viene da lui personalmente acquistato, per i regali, come gli orologi o le Mercedes,
è pagato cash, in valuta pregiata.
Dove cercò di afferrare l’arcobaleno
Un uomo così, una personalità eccezionale, non può che essere adorato.
Va proprio detto che si fa adorare.
La sua casa natia è stata trasformata in museo.
È alle porte di Pyongyang, e ci si arriva con una eccellente autostrada.
Su questa autostrada passeranno sì e no una decina di macchine
all’ora, perché il ritmo di vita, in Corea del Nord, non è frenetico
e incalzante come negli infami Paesi capitalistici, dove la gente
piglia su e decide di muoversi quando vuole; qui, tutto è perfettamente regolato.
La casa natale del Grande Leader è un insieme di capanne, restaurate, affondate in un parco meraviglioso, ricco di piante e di fiori,
tra cui, naturalmente, un fiore che porta il nome di Kim Il Sung.
Qui tutto è consegnato alla storia.
Qui tutto parla dei primi vagiti del Grande Leader e dei primi
pensieri rivoluzionari.
Vicino al gruppo di capanne, ecco un albero, finemente recintato,
con una lapide: è la pianta su cui il Grande, bambino, si arrampicò
una volta “per cercare di afferrare l’arcobaleno”, come commossa
spiega la guida.
Ecco il recinto delle capanne, delimitato da catenelle dorate.
La guida si inchina davanti al ritratto del Grande Leader, e spiega
che questi rimase presto orfano, e fu quindi allevato dai nonni.
Il padre, si capisce, era un autentico rivoluzionario, così come lo
era stato il nonno.
Inchini davanti al ritratto del “grande nonno del Grande Leader”.
E poi c’è anche il cugino, il fratello, la zia.
Una famiglia di autentici rivoluzionari.
Di là dalle catenelle d’oro, si vedono due bastoni: “i bastoni da
passeggio del grande nonno del Grande Leader, l’uso usato prima
della liberazione, il secondo dopo la liberazione”.
Dalla casa si va verso una collina, su cui sorge un padiglione dal
quale si domina una vasta ansa del fiume, lungo il quale sorge la
capitale.
Lungo il tragitto verso la collina, uno spiazzo recintato, con lapide:
era il luogo in cui il Grande Leader veniva ragazzo a meditare.
Su in cima, dove è stato costruito il padiglione, c’è il luogo in cui il
Grande Leader ragazzo veniva a leggere qualche libro.
La “grande nonna del Grande Leader”, come in un soffio di commozione spiega la guida, “usava in cucina utensili molto semplici”,
e cucinava “cibi rivoluzionari”.
Peccato che le ricette siano andate smarrite.
Tremila visitatori al giorno in questo posto, trasformato in
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luogo di religioso pellegrinaggio da oltre vent’anni.
Centinaia di migliaia di coreani, con le visite periodiche organizzate da scuole e unità di lavoro, sono stati portati qui almeno decine
di volte, ad abbeverarsi alle fonti della rivoluzione.
Il personaggio è così grande, e il popolo coreano sa di essere così
fortunato, che periodicamente vengono organizzate cerimonie
grandiose per consegnare al Grande Leader lettere e attestati di
fedeltà da parte dei sudditi.
Lui, magnanimo e generoso, si degna di ricevere questi milioni
di attestati di lealtà e di fedeltà da parte dei suoi sudditi, felice di
poterli servire, di pensare a loro nelle sue notti insonni, dedicate
alla stesura di opere poderose e di cose più gentili anche per il bene
del popolo.
Favole, diciamo.
Così, per esempio, oggi in Corea è stata resa popolare anche la
figura del cavallo alato, con in groppa il rivoluzionario teso verso
il futuro.
Non appartiene, si capisce, all’antica mitologia nazionale.
L’ha creata lui, il Grande Leader, ed ha un significato preciso: correre verso il futuro, superare il capitalismo nello sviluppo.
Questo spiega perché in Corea si lavori praticamente ventiquattro
ore su ventiquattro, in tre turni, tutti felici di essere protagonisti
del mito lanciato dal Grande Leader, creatore di favole.
La grandezza dell’uomo spiega perché, mentre i coreani gli fanno
sempre attestati di fedeltà e di lealtà, molti stranieri, come rivelano le nostre guide, anelino ad una sola cosa: avere l’onore di
potergli fare dei regali.
Specialmente in occasione del suo compleanno, che è per statuto
festa nazionale.
Da tutto il mondo arrivano regali meravigliosi.
Specie dal Terzo Mondo.
È stato necessario costruire un grande palazzo per allestire la mostra dei regali che il Grande Leader riceve da ogni parte.
Vi sono mirabilia.
Il Ghana, per esempio, ha mandato uno stendardo con su scritto
“Lunga vita a Kim Il Sung”.
L’Etiopia, un candelabro in pietra che sarebbe impossibile trovare
presso i più raffinati negozi di arredamento occidentali.
La Somalia, forse perché ha avuto l’influsso del decadente buon
gusto italiano, si è limitata a mandare tre semplici, lunghissime
zanne d’avorio d’elefante.
Questa cosa orrendamente semplice spicca in mezzo all’indescrivibile, elaborato fino all’inverosimile, brio-à-brac che hanno mandato gli altri Paesi.
A settembre, i giornali non avevano ancora finito di pubblicare le
foto dei regali che il Grande Leader ha ricevuto, mentre prosegue
ancora la pubblicazione dell’elenco dei messaggi di felicitazioni.
Un museo di regali
Si è corso il rischio che nel museo dei regali al Grande Leader entrasse anche quello che i coreani si aspettavano che il vostro inviato
offrisse.
Una delle prime cose che mi sono sentito chiedere, infatti, è stata:
“Che regalo ha portato per il nostro Grande e amato Leader?”.
Non avendo portato niente, mi sono reso conto della gaffe commessa.
Anche perché mi è stato sottolineato che io non avrei pagato nulla
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per il soggiorno, provvedendo a tutto il Grande Leader.
(Ogni mia insistenza è stata vana: non sono riuscito a pagare).
Però, le spiegazioni che ho potuto fornire sono state ineccepibili.
Dal punto di vista pratico, vivendo io a Pechino, non potevo portare nulla di specificatamente italiano.
Dal punto di vista ideologico, come poteva un giornalista capitalista offrire qualcosa al Grande Leader della Corea progressista?
E infine, come può un modesto giornalista, un nessuno, usare regalare qualcosa a un gigante della storia, al maggiore interprete del nostro tempo, a una vetta del pensiero umano,
all’Onnipotente?
Le prime due argomentazioni sono state ritenute valide, ma la terza no: il Grande Leader è modesto e magnanimo, accetta anche
cose simboliche.
Si è finito col non far nulla, ed è per questo che nel museo non ci
sarà niente offerto dal Giornale o dal sottoscritto.
Ed è certo da escludere che è per questo che il Grande Leader non
mi abbia ricevuto.
Tre inchini davanti al suo ritratto
Agenti della reazione in agguato osavano avanzare insinuazioni
vergognose sul Grande Leader.
Dicono, per esempio, che egli abbia sul collo una mostruosa verruca sulla zona posteriore destra.
È una volgare menzogna.
In tutti gli innumeri ritratti che ho visto in Corea, nelle innumeri
fotografie prese di fronte, la verruca non c’è.
Vero è che la si è intravista quando a settembre il Grande Leader
è venuto a Pechino.
Ma va detto comunque che è una verruca bella, molto grande;
perfetta, come verruca.
Da Grande Leader.
Altri scostumati insinuano che egli abbia i piedi piatti.
Anche questa è una volgare menzogna.
Egli cammina in modo particolare, sì, ma è leggiadro come una
ballerina, saldo come un antico guerriero.
È una camminata, la sua, da Grande Leader, che non ha la pianta
del piede arcuata come i comuni mortali.
Un uomo così, che fa di tutto per farsi adorare, è veramente la
fortuna dei coreani.
Il popolo tutto è consapevole di dovere tutto a lui.
Per le strade, c’è una corsia centrale riservata solo a lui.
In ogni casamento, in ogni scuola, c’è una cappella votiva a lui
dedicata.
Negli asili i bambini rivolgono a lui canti di riconoscenza, cominciando la giornata con tre inchini davanti al suo ritratto.
Nelle scuole, la cappella consiste in una vasta sala, alla quale si
accede da una anticamera in cui si sosta per un momento in raccoglimento prima di entrare.
Dentro, sotto il suo immenso ritratto, diverso nei colori e nelle sfumature da quello che c’è all’ingresso, dell’edificio, gli scaffali con le
sue opere e i tavoli per lo studio.
La cappella votiva è ben più grande all’Università, che peraltro si
chiama Università Kim Il Sung.
Una sala immensa, con gigantesco ritratto, scaffali con le Opere
scelte tradotte in più lingue per gli studiosi di filologia kimilsunghista, tavoli per lo studio.
Dissensi & Discordanze
Nella sala, alcuni tavoli, e relative sedie sono sottovetro: sono
quelli a cui lui si è seduto una volta in visita all’Università.
Anche se il presidente scoppia di salute, i coreani si sono posti angosciosamente il problema della successione.
Per fortuna il Grande Leader ha un figlio.
Il quale, come capita raramente ormai, è degno di suo padre.
E per questo merita anche lui, un discorso a sé.
QUATTRO - Novembre 1982
Le molteplici attività del “Caro leader”,
infaticabile regista dello spettacolo di Pyongyang
COREA: DIETRO LE QUINTE C’È KIM JONG IL
Quarant’anni, alto come Napoleone, meditabondo come Cesare,
ardente come Alessandro Magno, il figlio ed erede di Kim Il Sung
ha una meta: unificare il Paese ed entrare a Seul – Come suo
padre, è uno specialista nel “tracciare le linee” e nel fare rappresentare “scene di felicità”.
Il grande organizzatore dello spettacolo coreano ha un nome, anche se pochi lo fanno apertamente: Kim Jong Il, quarant’anni,
figlio di Kim Il Sung.
Nessuno lo nomina mai direttamente, pur avendo egli tanta parte
nella vita del Paese.
Il giovane, infatti, è molto modesto, e non ama il culto della personalità.
Perciò, per sua stessa disposizione, quando si parla o si scrive di lui,
lo si fa con allusioni, con circonlocuzioni, con una serie di espressioni ormai standardizzate le quali, nella loro vaghezza, indicano
solo ed esattamente lui.
Per esempio: “Maestro affettuoso dal cuore tenero”; “Incarnazione perfetta della juche-idea” (quest’ultima è la summa filosofica
del pensiero paterno); “Genio della creazione e dell’edificazione”;
“Luminosa stella guida”; “Centro luminoso”; “Protettore della vita
politica”; “Caro leader”; “Eminente dirigente”.
E molte altre.
Ne sono state contate più di venti, di formule di questo genere.
Noi ci accontenteremo di usare quella più breve, che è anche la più
diffusa in inglese: “Caro leader”.
Il Caro leader ha una parte importante nella vita coreana, accanto
al padre.
Nella scala gerarchica, secondo il protocollo, egli si trova al quarto posto, ma tutti sanno che egli sarà l’erede del padre alla testa del Paese.
“Noi abbiamo risolto bene il problema della successione della causa rivoluzionaria grazie alla saggezza del presidente Kim Il Sung,
Grande e amato leader, e a quella del figlio che egli ci ha dato, il
Caro leader”, dichiara serissimo un personaggio scaltro e attento
come il vicedirettore dell’associazione per gli scambi culturali con
l’estero.
“Il successore – prosegue il funzionario – deve possedere il genio
creativo del Grande leader.
Deve saper tracciare le linee giuste.
Deve incarnare l’arte della direzione.
Deve aver fiducia nel popolo.
Il Caro leader ha queste virtù, e infinite altre”.
Non dubitiamo di questa somma di virtù.
Il figlio è veramente tutto suo padre.
La stessa abilità nel tracciare le linee, la stessa fiducia nel popolo,
la stessa devozione alla causa.
Personaggio straordinario.
Guardartelo nella fotografia ufficiale: sguardo da aquila delle vette, espressione luminosa di intelligenza, che tutto conosce e tutto capisce; un delicato ovale del volto disegnato dalle asprezze di
quarant’anni di vita rivoluzionaria, orecchie fini e delicate, sensibili
ai bisogni più profondi del popolo, alle vibrazioni segrete dell’anima rivoluzionaria; bocca a cuoricino, atteggiamento in cui si esprime un animo delicato e sensibile, che non a caso marca di sé tutto
lo spettacolo coreano.
Alto come Napoleone, meditabondo come Cesare, ardente come
Alessandro Magno, il Caro leader, come suo padre, ha una meta:
riunificare la Corea, ed entrare a Seul.
Come il padre, anche il Caro leader è presente in ogni momento e
ogni aspetto della vita coreana.
Se la Corea è oggi il più grande spettacolo di felicità esistente al
mondo, lo si deve a lui.
Infaticabile, chiama il suo popolo a prodigarsi per la costruzione
dell’apparenza di una gioia paradisiaca di cui non è lecito dubitare.
La felicità, in Corea, non è un diritto: è un obbligo.
Tralasciamo i discorsi diretti, e ci limiteremo a riferirvi in misera
sintesi tutto quel che di lui è ci è stato detto e che noi stessi
abbiamo letto.
Grande urbanista e architetto.
Pyongyang, per esempio, è stata tutta tirata su da lui.
Lui ha disegnato il piano urbanistico della città, i suoi palazzi, i
suoi monumenti.
Si deve a lui la realizzazione di una delle opere più insigni della
città: la torre della juche-idea, sistema filosofico partorito dall’infaticabile mente paterna.
La torre sorge sulle sponde del fiume Taedong, che attraversa la
capitale.
Da un lato c’è la piazza Kim Il Sung, dominata dal Palazzo della
cultura del popolo e dal teatro dell’opera (su quest’ultimo torneremo): aperta sul fiume, la piazza ha di fronte, sull’altra sponda, la
mole della torre.
Questa è stata eretta per celebrare i settant’anni del Grande leader, compiuti il 15 aprile di quest’anno.
Una torre di granito alta centosettanta metri, sormontata da
un’immensa lampada di vetro rosso a forma di fiamma illuminata
elettricamente la notte.
È il fuoco dell’idea che non si spegne.
Come giustamente sottolineano commosse le guide, tutto in questa immensa torre che non ha assolutamente alcuno scopo pratico, è altamente simbolico, è stata tirata su con venticinquemila e
cinquecentocinquanta blocchi di pietra, cioè uno per ogni giorno
di vita vissuta dal Grande leader (trecentosessantacinque giorni
all’anno per settanta fa appunto venticinquemila e cinquecentocinquanta).
La fiamma dell’idea pesa da sola quarantasei tonnellate, ed è alta
da sola venti metri, ma tutto insieme fa centosettanta: cento,
come numero perfetto di eternità, settanta gli anni di colui che ha
partorito l’idea; una grande lapide alla base, con scolpita una
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poesia, misura quattro metri in altezza e quindici in lunghezza:
cioè 15 aprile.
In mezzo al fiume, davanti alla torre, sono state installate due fontane, da cui escono getti d’acqua che arrivano anch’essi fino a centosettanta metri di altezza, sollevando venti tonnellate d’acqua al
secondo.
Un colossale monumento al nulla
Superficiali e volgari visitatori, senza alcuna comprensione della
idea-juche, potrebbero obiettare sulla assoluta inutilità di questa
ciclopica realizzazione, sui rilevanti costi e sugli inauditi sforzi che
essa ha richiesto.
In realtà la torre è un’opera faraonica, un inaudito monumento al
nulla: nella sua totale, assoluta inutilità, è una mirabile sintesi del
senso dell’idea-juche.
Dico tutto questo, con grande serietà e lenta pronuncia per farmi
capire bene, ai miei accompagnatori, tutti felici che io abbia penetrato così bene il senso di questo monumento al vuoto destinato a
sfidare i secoli.
È opera del Caro leader anche l’Arco di Trionfo, eretto anch’esso
in occasione del settantesimo compleanno di chi è ormai superfluo
specificare.
Un arco più alto di quello di Place dell’Etoile a Parigi, come viene
giustamente sottolineato, in cui di simbolico sono scolpiti settanta
fiori, oltre beninteso a poemi e date storiche.
Sul grande vialone, l’arco apre una prospettiva con visioni che sono
rare a Pyongyang: in fondo si vede il museo della lotta rivoluzionaria, con sull’ingresso la statua di Kim Il Sung in bronzo alta
venti metri.
Sul vialone deserto, tirato a lucido, spiccano le strisce bianche delle
corsie per incanalare un traffico che non c’è: due corsie in un senso,
due nell’altro.
Al centro, una corsia delimitata da strisce gialle, come del resto
su tutte le altre arterie di Pyongyang: è quella riservata a Lui, al
Grande e amato leader.
E anche questa è stata un’idea del figlio, il Caro leader.
L’Arco di trionfo è stato eretto sul luogo in cui il Grande leader
fece nel 1945 un discorso storico, come è immancabilmente tutto
quel che egli dice.
Chissà con quale profondo senso della storia il Grande leader avrà
esclamato qualche volta, a casa: “Oggi mi fanno male i piedi”.
E che fortunato lui, il Caro leader, a sentire ogni giorno parlare
il babbo.
Vero è che il giovane non ha mai perso una delle parole paterne.
Ed è il più insigne esegeta degli innumeri testi paterni, il più sottile penetratore del suo profondo pensiero.
I critici europei, pervenuti, lo ignorano.
Ma le famose scuole letterarie e filosofiche del Ghana, del Capo
Verde, dell’Alto Volta, lo tengono in altissima considerazione.
I giornali coreani, con encomiabile senso della misura, si limitano a
riportare quotidianamente solo alcune delle discussioni filosofiche
che in quei felici Paesi si sviluppano sugli scritti del figlio relativi
alle opere del padre.
Infaticabile, come le fonti ufficiali sottolineano, il Caro leader dorme pochissimo, sì e no un’ora per notte.
È sempre indaffarato: spetta a lui il controllo finale di tutto ciò che
si pubblica in Corea.
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Non poteva essere diversamente, essendo lui l’interprete più insigne del kimilsungismo.
Corre di qua a dare istruzioni ai contadini su come coltivare il
riso; di là a supervisionare la costruzione di un altro monumento,
laggiù allo stadio a portare la sua cara benevolenza alle migliaia di
persone che periodicamente si esercitano per i numeri coreografici
di massa da eseguire nella prossima immancabile manifestazione
di fedeltà al Grande leader; lassù a controllare che nel nuovo museo in allestimento il ritratto del babbo sia in ogni sala, con raffigurazioni diverse della sua vita rivoluzionaria.
È lui che una volta ha personalmente scelto e fatto ingrandire una
vecchia foto del babbo mentre ragazzo studia segretamente opere
rivoluzionarie.
E poi si occupa anche di un immenso Luna Park, fatto costruire
perché il popolo possa distrarsi.
Tra tanta attività, il giovane eccelle soprattutto come supervisore
della cultura.
Si debbono a lui le grandi realizzazioni della cultura coreana.
È un grande regista.
Pyongyang tutta è un palcoscenico, ma voi non potete immaginare che cosa siano i palcoscenici reali dei due teatri di Pyongyang,
vanto della sollecitudine del Caro leader per la cultura.
Prendiamo il teatro dell’Opera.
Costruzione faraonica, con dentro una saletta per soli trecento
spettatori.
La sala, però, è attorniata da numerosi, vastissimi foyer che possono accogliere migliaia di persone.
La meraviglia è nell’atrio del teatro: appena si entra, si ha sulla
parete di fronte un ritratto del Grande leader attorniato da
giovani festosi.
Sotto il dipinto, circondato di fiori di plastica, una fontana con luci
multicolori intercambiabili.
Sulla destra: scala per accedere al foyer maggiore.
Una scala centrale che a un certo punto si divide in due altre scalinate che salendo formano un cerchio: nel cerchio sulla parete
di fondo, un dipinto con paesaggio di montagna, circondato da
immensa ghirlanda di fiori di plastica, solcato dall’illusione ottica
d’una cascata, creata con un gioco di luci.
Si ode anche il rumore della cascata, dato da fontane sistemate
dietro la scalinata.
Luce azzurrata, per rendere meglio l’illusione di paesaggio aperto,
cieli limpidi, acque.
Il teatro è tutta una profusione di cristalli e di specchi.
Tutte le pareti dei cessi sono coperte di specchi.
Ovunque, fiori di plastica dai mille colori pastello e anch’essi con
fiori rosa acceso.
Il tutto si può descrivere con una sola espressione: non ci sono parole.
Provate a immaginare una Sinfonia di Malher eseguita da una
banda di paese diretta dai Rolling Stones tutti insieme o un’opera
architettonica di Nervi eseguita dagli assirobabilonesi; o la Gioconda fatta con i colori pastello da un pittore della domenica e
rivestita da panno-lenci.
E non riuscirete ad avvicinarvi alla realtà.
In palcoscenico si rappresenta un’opera supervisionata dallo stesso
Caro leader, cui si deve anche la realizzazione di questo teatro.
Il titolo è già significativo: “Canzoni del paradiso”.
Una sorta di melodramma rappresentato come un musical, con
Dissensi & Discordanze
sfondi di felicità inenarrabili, benessere esplosivo, e raccapriccianti
notizie sulla fame nel mondo capitalistico.
I testi delle canzoni, semplicemente meravigliosi.
Per esempio: “Qui è sbocciato il paradiso del popolo, i sogni diventano veri.
Con il Grande leader che ha creato questo paradiso, noi vivremo
per sempre.
Felice il popolo che ha un leader come il nostro che si prende
cura di lui”.
E ancora: “Oh, come è sconfinata la gioia e la felicità che il Grande
leader ci dona!
Il suo paterno amore è smisurato, più profondo del più profondo mare.
Come siamo fortunati ad avere la stima del Grande leader!”.
Uno spettacolo fantastico, inframmezzato da applausi fragorosi
ogni volta che in scena appare il sole (che indica Lui, sia chiaro) o
addirittura il suo ritratto.
Una serata straordinaria, da divertirsi come in nessun altro
posto, pare.
E invece, no.
Pyongyang, oltre a questo, offre anche altro.
Per esempio lo spettacolo “Canto di gloria” al Teatro del popolo,
che ha una capienza di diecimila spettatori.
In scena, cinquemila (dico cinquemila) artisti, per la rappresentazione di quest’opera composta ed eseguita in occasione del settantesimo compleanno (sapete di chi, ormai).
Tutti in piedi per il brindisi
Anche questa, realizzata dal figlio, il Caro leader.
È la biografia del padre melodrammizzata, con tocchi da drammone e altri momenti da musical, scene di battaglia con carri armati
sul palcoscenico, soli immensi che si levano tra applausi scroscianti, profusione di fiori di plastica.
Alcune migliaia di coristi gridano a squarciagola canzoni tipo:
“Questa è la canzone di gloria per te, canzoni del nostro amore
pieno di gratitudine.
Il popolo canta per la festa d’aprile, tu e il partito ci date la felicità.
Il paradiso del popolo nuota nella felicità, e noi cantiamo canzoni
di gloria per te, nostro amato, benedetto e rispettato leader.
Tutta la madrepatria è qui a dirti grazie, o padre, e si getta luminosa nel tuo abbraccio confortato.
Il mondo intero guarda a te, aspetta da te felicità e conforto, e noi
ti saremo fedeli e leali per sempre”.
E si potrebbe andare avanti.
È un peccato che lo spazio ci obblighi a privarvi degli altri motivi,
che cantano tutti la felicità e la gratitudine del popolo.
Autore dell’opera, dell’allestimento, delle scene, della regia, delle
musiche, è, non c’è neanche bisogno di dirlo, il Caro leader, che
lavora sempre instancabile per il babbo.
Gli spettatori, oltre al sottoscritto e altri quattro o cinque stranieri, tutti coreani.
Tutti del popolo lavoratore, portati in città dalle campagne con autocolonne di camion scoperti, parcheggiati fuori dal grande teatro.
Quando finisce l’opera e col nostro accompagnatore un alto funzionario elegantemente vestito di blu ci avviamo all’uscita, accade
un fatto straordinario: sono distante alcuni metri dal funzionario,
temo di perderlo sommerso dalla marea di folla.
Ma al suo incedere la folla si apre come le acque del Mar Rosso
davanti a Mosè: tutti fermi mentre passa lui, io mi fo coraggio e
mi infilo nel varco apertosi per lui.
Sono colpito da questa manifestazione di rispetto del popolo lavoratore per un funzionario il cui rango evidentemente si riconosce
facilmente anche se non è nei vertici.
Con la stessa sincerità con cui esprimo subito di essere stato colpito
da questo altamente democratico atteggiamento delle masse nei
confronto d’un funzionario di un certo livello, finirò col congedarmi dai miei ospiti coreani alla fine del mio soggiorno.
Al presidente dell’Associazione per i rapporti culturali con l’estero,
un membro del comitato centrale di fronte al quale, quando dovevano parlare, tutti i miei accompagnatori si alzavano rispettosamente in piedi, dirò testualmente, in inglese tramite un eccellente
interprete: “La Corea tutta è un grande spettacolo.
Uno spettacolo e una esibizione curati da grandi registi”.
E di questa mia veritiera impressione riassuntiva saranno tutti
contenti.
Così come, al banchetto finale che offro ai miei ospiti, nel brindisi dirò lentamente, per dar modo all’interprete di capirmi bene:
“Sono stati giorni di ininterrotti spettacoli di felicità.
Per questo brindo con voi al Grande leader, augurandogli presto,
per il bene del popolo coreano, la vita eterna”.
Ricevendo, per queste parole, caldi ringraziamenti.
Tutto ciò in Pyongyang, su questa terra, autunno dell’anno di grazia 1982.
Cinque - Novembre 1982
Il nostro inviato ha raggiunto Panmunjom,
la porta tra le due Coree
INCONTRI RAVVICINATI SUL 38° PARALLELO
Situata sulla linea di demarcazione tra Nord e Sud, è l’unico
punto in cui i soldati di entrambe le parti possono superare la
zona smilitarizzata profonda quattro chilometri e trovarsi faccia
a faccia – Esattamente al centro dell’area, creata in base all’armistizio del ’53, sorgono sette baracche dove si riuniscono periodicamente la commissione militare e quelle dei quattro Paesi osservatori dell’intesa.
Panmunjom, linea del cessate il fuoco, novembre.
La località che trent’anni fa tenne il mondo col fiato sospeso è
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uno spiazzo di pochi metri quadrati, circondato da colline.
Si scende verso lo spiazzo da una severa palazzina delle forze armate
nord-coreane, e ci si trova davanti a sette costruzioni prefabbricate,
a pianoterra: diciamo qualcosa di un po’ meglio che baracche.
Sono tutte parallele da Est a Ovest l’una all’altra, il lato più lungo
da Nord a Sud, con un ingresso a mezzogiorno e uno a settentrione.
Tra una baracca e l’altra, stazionano impettiti e solenni militari
nord-coreani con le loro divise di foggia sovietica.
Poco oltre i nord-coreani, solo a qualche metro da loro, ciondolano
scanzonati e meno formali altri militari dalle uniformi che ci sono
un po’ più familiari: americani. Sono le forze statunitensi presenti
qui sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Venti chilometri di cemento
Gli uomini delle forze passeggiano in quale e in là nei tre metri tra
una baracca e l’altra, si voltano le spalle, si avvicinano fin quasi a
toccarsi.
Se uno dei due allungasse il braccio potrebbe afferrare l’altro.
Sembrano divisi da nulla.
In realtà, per terra, tra una baracca e l’altra, c’è una striscia di cemento larga venti centimetri, che nessuno oltrepassa.
È la linea di demarcazione tra la Corea del Nord e la Corea del
Sud, stabilita dal cessate il fuoco raggiunto con l’armistizio del 27
luglio 1953.
La linea taglia in due la penisola coreana, correndo al centro del
territorio del Paese da Est a Ovest, per una lunghezza di duecentoquaranta chilometri, dalle coste coreane sul Mar del Giappone,
a quelle sul Mar Giallo.
La linea di demarcazione è al centro di una striscia di zona smilitarizzata, profonda quattro chilometri: due a Nord e due a Sud.
Su questa linea, si fronteggiano le forze sud-coreane e delle Nazioni Unite, in gran parte statunitensi, da una parte, e quelle della
Corea del Nord dall’altra. l’esercito di Pyongyang, forte di ottocentomila uomini, è uno dei più agguerriti e dei meglio preparati
dello scacchiere estremo-orientale.
Per gli esperti militari non è un mistero, per esempio, che Gheddafi, per imparare a usare i sofisticati armamenti aerei di cui si è
dotato, sia ricorso a istruttori nord-coreani.
L’armistizio fu firmato proprio qui, a Panmunjom.
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Un posto che nessuno aveva mai sentito nominare fino a quando
non vi si incontrarono per la prima volta i due emissari dei due comandanti in capo, il 10 luglio 1951, in una baracca appositamente
costruita dai nord-coreani.
Dovettero tirarla su in breve perché non c’era assolutamente alcun
posto in cui gli emissari potessero incontrarsi.
L’intesa del ’53 poneva fine a una guerra che nessuno ha vinto, ma
che è costata due milioni di morti (valutazione occidentale), di cui
gran parte civili, in tre anni di combattimenti.
Tutto sangue sparsero per non conquistare un centimetro di terreno in più rispetto alle posizioni del Nord e del Sud prima del
conflitto.
Allora, la divisione fra il Nord e il Sud correva lungo la linea del
38° parallelo.
La linea attuale si scosta di poco, in alcuni punti, da quello stesso
38° parallelo.
Il conflitto scoppiò alla fine di giugno del 1950, con i nordisti
che in pochi giorni arrivarono alle porte di Seul, conquistando poi
quasi tutta la penisola.
Il deciso contrattacco americano sotto l’egida delle Nazioni Unite riequilibrò la situazione, mentre a fianco della Corea del Nord
intervenivano centinaia di migliaia di soldati cinesi che Pechino
definiva “volontari”.
Già allora prigioniera della proprio potenza, l’America puntò a
circoscrivere il conflitto, evitando che le sue forze superassero la
preesistente linea di demarcazione del 38° parallelo.
Iniziatesi nel luglio 1951, le trattative proseguirono infruttuose
per due anni.
E non è forse un caso che l’intesa venisse raggiunta soltanto dopo
la morte di Stalin.
Ma erano proseguiti anche i combattimenti, mentre il mondo col
fiato sospeso aspettava buone novelle da Panmunjom, una località
che si rivela oggi essere neanche un villaggio, ma un punto qualsiasi nel comune di Panmun.
Quando da queste parti si moriva, io giocavo a battimuro e andavo
per rane, in un paesetto della campagna italiana dove forse ancora
adesso non si sa dove sia la Corea.
Ho conosciuto il nome di Panmunjom quando ho cominciato a
cercare di capire qualcosa di quel che succede nell’universo mondo.
Memorie
Dissensi & Discordanze
Il 38° parallelo, allora, era qualcosa di incomprensibile di cui parlavano i protagonisti di alcuni film di guerra la domenica al cinema
Roma.
Adesso qui, a Panmunjom, siamo di qualche chilometro a sud del
38° parallelo.
Vi si giunge in macchina dalla capitale, Pyongyang, che è a centoottanta chilometri di distanza.
All’uscita da Pyongyang, si ha modo di vedere un ultimo tocco
dello spettacolo di benessere e di felicità coreana.
I pochi autocarri e le vetture che entrano in città dalla campagna
sono tutti fermi in colonna a un posto di polizia che sorge accanto
a una rudimentale stazione di lavaggio.
Autocarri e macchine debbono essere lavati prima di entrare in
città.
Dopo il lavaggio, oltre a controllare i documenti, la polizia verifica
che gli automezzi siano puliti e lucenti.
Nessuno, neanche i coreani, deve pensare che in Corea non dico gli
uomini, ma le cose, come le macchine, possano sporcarsi.
Tutto deve essere – o sembrare – immacolato.
Qui siamo nello spettacolo socialista, e venendo dalla Cina non
posso non pensare a Pechino: la mia cara, amata Pechino, con tutte
le sue paghe aperte, le sue ferite così visibili.
Anche nei periodi più bui, mai a Pechino sono state organizzate
simili teatralità.
Solo chi non voleva vedere ignorava quelle piaghe, quelle ferite.
Non si deve parlare al nemico
Da Pyongyang si arriva prima a Kaesong, città di circa trecentomila mila abitanti.
Lungo la strada, solenni cippi marmorei ricordano che il Grande
Leader si è fermato qui una volta per beneficare, più avanti per
dare solenni istruzioni su come vangare, più in là per formulare in
due minuti un vasto progetto di canalizzazioni.
Sottovetro, una pietra su cui le gloriose chiappe si sedettero a
discutere amabilmente col popolo lavoratore.
Dieci chilometri prima di Kaesong, sbarramento stradale tenuto
da militari, con accurati controlli nonostante i miei accompagnatori siano alti funzionari.
Si comincia a entrare in zona di operazioni.
Un esperto di circhi
Mentre ci avviciniamo al fronte che taglia in due il Paese, i miei
premurosi ospiti si abbandonano a uno sfogo accorato: “Poveretti,
i nostri connazionali del Sud muoiono di fame, schiacciati dall’imperialismo americano e dai loro lacchè.
Noi vogliamo la riunificazione, ma i lacchè dell’imperialismo, che
comandano a Seul e che fanno morire di fame e di oppressioni il
nostro popolo non ci danno retta.
Non vogliono neanche guardare la linea che ha tracciato il nostro
Grande e Amato Leader Kim Il Sung.
Il popolo lavoratore della Corea del Sud vuole riunirsi a noi, sotto
la guida del nostro Grande e Amato Leader, sotto la sua corretta
direzione.
Grazie a lui, noi abbiamo la via della verità.
E c’è anche suo figlio, il Caro Leader.
Con tutti e due, abbiamo per altre generazioni future la via
della verità.
Annuisco gravemente, senza riuscire a trattenermi dal dire: “Teneteveli cari, teneteveli cari!
Per fortuna che li avete voi...”.
L’altro funzionario si entusiasma. “So che l’altra sera lei è stato
portato a vedere lo spettacolo del circo.
Le è piaciuto?”.
“Moltissimo.
È stato un grande divertimento.
Acrobati, clown, una cosa originale...”.
“Anche questo spettacolo è frutto della mente eccelsa del
Caro Leader...”.
“È anche un esperto in circhi?
In clown?”.
“Espertissimo.
Lui non vuole che lo si dica perché è modesto, ma il popolo lo sa
che è un grande organizzatore di circhi”.
“Lo posso scrivere?”.
“Certo, certo”.
Diligentemente annoto e diligentemente vi riferisco.
Nel frattempo, superata Kaesong, ricca di monumenti al Grande Leader, ci stiamo avvicinando alla zona smilitarizzata, che in
questo punto diventa “Joint security area”, o “area di sicurezza
comune”.
Superiamo tre sbarramenti anticarro, costituiti da massicci blocchi
di pietra che si scorgono fin che è possibile vedere – presumibilmente lungo tutta la linea smilitarizzata, da un lato all’altro della
penisola – e da fossati.
Il tavolo diviso
All’ingresso dell’area di sicurezza comune siamo attesi da militari.
Sono costretto a privarmi della compagnia di funzionari tanto
amabili e vengo affidato a loro.
Le targhe della Mercedes vengono coperte (“per non permettere
agli imperialisti e ai loro lacchè di identificare le nostre vetture”), e
superato il posto di blocco si entra nell’area.
Siamo infine a Panmunjom.
Un giovane capitano, efficiente e privo di ogni enfasi retorica, spiega la situazione.
Lungo tutta la linea di demarcazione, è questo l’unico punto in cui
militari dell’una e dell’altra parte possono superare la zona smilitarizzata – profonda due chilometri a Sud e due chilometri a Nord
– e trovarsi faccia a faccia.
L’area di sicurezza comune è stata fissata in base all’armistizio del ’53.
Si tratta di un’area dalla forma ovale, profonda settecento metri da
Nord a Sud, distesa per ottocento metri da Est a Ovest.
Militari dell’una e dell’altra parte possono entrarvi, ma senza armi
automatiche; è permessa solo la pistola e il fucile a un colpo.
La zona è stata creata per gli incontri delle varie commissioni create dall’armistizio del ’53.
Al centro di essa, sorgono le sette baracche di cui vi si diceva all’inizio.
Le sette costruzioni sono esattamente ognuna per metà a Nord e
per metà a Sud, con due ingressi opposti sulle due zone.
Al loro interno si svolgono i periodici incontri della commissione
militare di armistizio e quelli dei quattro Paesi neutrali a suo tempo nominati dalle Nazioni Unite come osservatori dell’intesa raggiunta: Cecoslovacchia e Polonia per il Nord, Svizzera e Svezia per
il Sud.
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Ognuno dei quattro Paesi ha qui dieci militari.
Nelle baracche azzurre si svolge ogni giorno a mezzodì l’incontro
tra gli emissari del Nord e quelli americani, che sono qui sotto la
bandiera delle Nazioni Unite.
Incontri di pochi minuti.
Senza parlarsi, le due parti si scambiano scartoffie a un tavolo dicendo semplicemente: “Consegno questo documento relativo a
una violazione dell’armistizio da voi fatta ieri, nel tal punto, alla
tal ora eccetera”.
L’altro conferma di aver ricevuto, e porge a sua volta altri documenti più o meno con la stessa formula.
Col giovane capitano scendiamo la scalinata della palazzina comando nord-coreana e ci avviciniamo alle baracche.
Al mio apparire, gli americani dalla parte di là si incuriosiscono.
Guardano stupiti, scortato dagli impettiti e impassibili militari
nord-coreani, questo marziano dall’aspetto chiaramente occidentale, magari dell’Europa capitalistica.
Dall’abito, dalla cravatta, dal taglio dei capelli, forse da un certo
modo di essere, probabilmente traspare che non sono della stessa
parrocchia dei miei ospiti.
Ci attardiamo un po’ fuori di una delle baracche, e mi trovo un
ufficiale americano a venti centimetri di distanza.
Al di là della striscia di cemento che segna la demarcazione, mi
guarda con un sorriso in cui lo stupore si mescola a una certa interrogativa derisione.
Sto quasi per dirgli hallò, ma mi taccio in tempo: non si deve rivolgere la parola “al nemico”.
Il capitano sbircia dentro una baracca, e visto che non c’è nessuno,
torniamo indietro e vi entriamo dall’ingresso nord.
Al centro della stanza un tavolo disposto in senso orizzontale, coperto di un tappeto verde, e che lascia due passaggi ai lati.
Dalle pareti laterali vengono due fili che scorrono sul pavimento
nei due passaggi e collegano due microfoni posti al centro del tavolo.
Da una parte c’è la bandierina azzurra delle Nazioni Unite, dall’altra quella nord-coreana.
Il tavolo è disposto esattamente sulla linea di demarcazione.
Su di esso, la linea è segnata dai cavi dei due microfoni, neri sul
tappeto verde.
La stessa funzione i cavi la svolgono sul pavimento nei due passaggi.
La “casa della libertà”
Quando sono in corso gli incontri, la linea è invalicabile.
Ma adesso che nella baracca ci siamo solo noi, il capitano mi invita
a superarla.
Posso arrivare fino alla porta che dà sul lato sud.
Che però è guardata adesso da un militare nord-coreano.
Il capitano spiega che quando non ci sono incontri, le baracche
sono disponibili per ognuna delle due parti in tutta la loro
ampiezza.
Non tutte e due le parti possono però entrarvi insieme.
Se vi sono dentro gli americani, i nord-coreani non possono entrarvi; e viceversa.
Da parte sud, intanto, dovrebbe essersi sparsa la voce di questo
occidentale in visita con i nordisti.
Da fuori della finestra, lato sud, due militari americani mi stanno
fotografando.
Li fotografo a mia volta: loro manderanno la mia immagine alla
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Cia per farmi identificare, io terrò la loro come ricordo di questa
esperienza.
Se è una buona foto, il giornale potrà anche pubblicarla.
Per alcuni minuti c’è una successione di scatti da entrambe le parti,
finché sia loro sia io scoppiamo a ridere.
Sorride anche, da un’altra finestra, l’ufficiale americano di prima,
stavolta con una certa aria di complicità.
Fuori, dalla parte sud, sorge un padiglione in tradizionale architettura coreana, con una grande scritta in coreano della quale chiedo
il significato al capitano del Nord che mi accompagna.
“Casa della libertà”, traduce senza commenti.
Indica in lontananza l’altura da cui, settimane fa, un soldato americano ha passato le linee chiedendo asilo politico in Corea del Nord.
(Su mia richiesta, mi era stato fatto intendere che avrei potuto
incontrare questo sventurato: dopo giorni di larvate promesse, mi
verrà detto che il giovinotto, tanto saggio da chiedere asilo politico
nel paradiso del popolo, era in giro per turismo e non lo si poteva
incontrare.
L’agenzia France-Press diramerà una nota su questo mio infruttuoso tentativo).
Lasciamo l’area di sicurezza comune e torniamo alla linea smilitarizzata, dove il giovane capitano si congeda affidandomi a un
tenente colonnello.
Questi mi porta in macchina a un posto di osservazione in cima a
una collina.
Con potenti binocoli, mi fa vedere un muro di cemento che secondo le sue affermazioni corre in zona meridionale lungo la linea di
demarcazione.
“Hanno tirato su quel muro su tutta la linea, per duecentoquaranta chilometri – spiega – per impedire che i nostri connazionali
possano venire a rifugiarsi da noi sfuggendo all’imperialismo americano.
Vede quella montagna laggiù?
Dietro, ai suoi piedi, c’è Seul.
Solo un’ottantina di chilometri da qui.
Ma noi ci riunificheremo, il mondo lo vuole...”.
So benissimo come la gente voglia fuggire dal capitalismo in agonia.
Anche a Berlino il muro fu tirato su per impedire che tutta la Germania federale fuggisse verso la Germania democratica.
E bisogna essere reazionari per pensare che questo muro in Corea
possa invece essere uno sbarramento anticarro.
Perciò annuisco, e mi viene in mente Shakespeare.
Mi ha accompagnato per tutto questo viaggio nel paradiso del
popolo, con alcuni versi da Amleto: “Il mondo è un palcoscenico
dove ognuno recita la propria parte”.
E adesso, sempre da Amleto, viene alla mente un altro verso: “Parole, parole, parole...”.
Meglio di tutti lo sanno i cinesi, nonostante appunto dicano molte
parole sulla necessità di riunificazione della Corea.
Pechino per prima sa che un ritiro delle truppe americane dalla
penisola comporterebbe il sorgere di gravi problemi di stabilità
nell’area.
E una crisi su questo fianco è certo l’ultimo tra i desideri di Pechino.
Parole, quindi.
Il palcoscenico stia dov’è, coi suoi esperti in circhi.
La vita, anche con le sue miserie, è altrove.
Dissensi & Discordanze
La bomba
dei Kim
Ovvero come la Corea del Nord, sotto la dinastia comunista
fondata da Kim Il Sung, è diventata la nona potenza nucleare
marco aurelio
Potenza (o miseria) del comunismo.
Uno degli Stati più poveri del mondo, la Corea del Nord, è diventato, nel 2006, la nona potenza nucleare.
La dinastia comunista fondata da Kim Il Sung non solo - come è
avvenuto dovunque il marxismo-leninismo è stato messo in pratica - ha portato il popolo della Corea del Nord alla carestia, ma
è riuscita a procurarsi l’arma nucleare ed a costringere gli Stati
Uniti, con un abile alternarsi di aperture al negoziato e di provocazioni, ad un’estenuante ed infruttuosa trattativa che ha finito per
minarne la credibilità, con conseguenze anche su altri scacchieri.
La corsa di Pyongyang alla bomba iniziò con il capostipite della
dinastia, il ‘leader immortale’ Kim Il Sung, all’inizio degli anni
Ottante.
Sino ad allora, il regime, barcamenandosi tra Pechino e Mosca e
potendo contare sul sostegno economico di quest’ultima, sembrava avere prospettive di sviluppo agricolo ed industriale addirittura
superiori a quelli del Sud.
Per differenziarsi sia da Mosca sia da Pechino e fondare un proprio
modello nazional-dinastico di comunismo, Kim Il Sung decretò
che l’ideologia nazionale diventasse quella del ‘juche’, generalmente tradotto con il termine: ‘autosufficienza’.
Contando sull’assistenza e la tecnologia sovietica, Pyongyang avviò, già negli anni Cinquanta, il suo programma nucleare.
La costruzione di un reattore di ricerca ad uranio naturale – potenzialmente proliferante - venne identificata dall’intelligence americana nel 1980.
L’Unione Sovietica convinse Kim Il Sung ad aderire al ‘Trattato di
Non Proliferazione’, che venne firmato il 12 dicembre 1985.
In tal modo gli impianti nucleari nordcoreani sarebbero stati posti
sotto le salvaguardie ‘onnicomprensive’ dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, che avrebbe dovuto accertare il rispetto dell’obbligo – previsto dal TNP - di non usare la tecnologia
nucleare per la produzione di un ordigno.
Per esercitare tale funzione di controllo, tuttavia, l’Agenzia necessita di un Accordo di Salvaguardie cosiddetto ‘onnicomprensivo’
(‘comprehensive’) quando si tratta di uno Stato non militarmente
nucleare.
103
I nordcoreani riuscirono a temporeggiare per più di sei anni ed a
sottoscrivere l’Accordo solo nel gennaio del 1992.
Esso entrò in vigore nell’aprile dello stesso anno.
Nel frattempo, il clima di distensione creatosi con la fine della
guerra fredda era giunto anche nella penisola coreana ed il Presidente Bush (Senior) decise, nel settembre del 1991, il ritiro unilaterale delle armi nucleari americane dal Sud.
Ne seguì una dichiarazione congiunta tra Nord e Sud sulla denuclearizzazione della penisola (31 dicembre 1991).
Non occorse molto tempo, però, agli ispettori dell’AIEA, per accorgersi che i conti non tornavano.
Già dopo la prima ispezione, condotta il 26 maggio 1992, gli
ispettori conclusero che i nordcoreani, con il loro reattore nucleare
di ricerca, avevano prodotto plutonio in misura superiore a quanto
dichiarato.
Da quel momento, con la scoperta del programma nucleare militare nasce la questione nucleare nordcoreana.
Basandosi sulla tecnologia impiegata dai britannici a Calder Hall
per i primi reattori nucleari, i nordcoreani avevano costruito, presso il centro nucleare di Yongbyon, un piccolo reattore di ricerca da
5 Mwe dal cui combustibile esaurito avevano cominciato ad estrarre, grazie ad un impianto di trattazione (‘reprocessing’), il plutonio
necessario alla costruzione di ordigni nucleari.
Di fronte ai persistenti rifiuti nordcoreani di cooperare in completa
trasparenza non restò, all’Agenzia, che l’arma dell’‘ispezione speciale’: una richiesta di accesso incondizionata ad un determinato
sito.
La Corea del Nord non solo rifiutò la richiesta dell’AIEA ma, il 12
marzo 1993, annunciò l’intenzione di ritirarsi dal TNP, dopo aver
incassato la condanna del Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione
825.
Giunti allo scontro, i nordcoreani pensarono bene di effettuare anche un test del missile ‘Nodong’, derivato dal sovietico ‘Scud’, ma
104
con una gittata di circa mille chilometri.
La Risoluzione diede l’avvio ad un lungo e complesso negoziato tra
gli Stati Uniti e la Corea del Nord che si concluse, nell’ottobre del
1994.
Seguendo un modello che si ripeterà negli anni successivi, i Nord
Coreani alternarono la disponibilità al negoziato con nuove provocazioni.
Nel giugno del 1994 venne scaricato il combustibile dal reattore di
ricerca, premessa per la successiva estrazione di Plutonio.
Non potendo contare su una nuova Risoluzione del Consiglio
di Sicurezza, data la presumibile opposizione di Cina e Russia,
l`Amministrazione Clinton si preparò all’uso della forza.
Il Pentagono preparò i pani per un attacco a Yongbyon ma, con un
colpo di scena, l’ex-Presidente Jimmy Carter volò a Pyongyang e
convinse Kim Il Sung ad accettare un ‘congelamento’ delle attività
nucleari che consentisse la conclusione dell’Accordo.
Nonostante il ‘leader immortale’ morisse poco dopo l’accordo con
Carter (l´8 luglio 1994), il successore, Kim Jong Il, continuò il
negoziato che portò all’Agreed Framework.
Quest’ultimo era un accordo molto complesso che prevedeva una
serie di passi successivi non solo da parte di Stati Uniti e Nord Corea ma anche di Corea del Sud e Giappone.
Qui venne commesso un errore da parte statunitense, che porterà
la Corea del Nord non solo a testare, nel 2006, un ordigno nucleare, ma anche a costruirsi infrastrutture nucleari degne di una vera
e propria potenza appunto nucleare.
Per convincere, infatti, Pyongyang a ‘congelare’ e quindi smantellare i suoi impianti nucleari, le vennero offerti dagli USA una serie
di incentivi, politici ed economici.
Oltre alla prospettiva di un riconoscimento statunitense e della
conclusione di un Trattato di Pace, gli USA ed i loro alleati si impegnarono a fornire olio combustibile per le centrali termo-elettriche
e, in prospettiva, reattori nucleari moderati ad acqua (e non ad
Dissensi & Discordanze
acqua pesante come quello nordcoreano). Questi ultimi, almeno in
teoria, sarebbero stati meno proliferanti.
Come volevasi dimostrare, un accordo così complesso e generoso
nei confronti di uno Stato in completa malafede servì solo a far
guadagnare tempo a Pyongyang, rimuovendo la minaccia di un attacco ai suoi impianti nucleari - che perse ogni credibilità - nonché
di sanzioni economiche paralizzanti.
Dopo tre anni apparve evidente che Kim Jong Il, oltre a condizionare qualsiasi passo avanti nello smantellamento dei propri impianti nucleari alle forniture di olio combustibile e, soprattutto,
dei reattori nucleari, continuava a sviluppare il suo arsenale missilistico.
Ciò costituiva una prova indiretta della volontà ultima di dotarsi
di un arsenale nucleare.
A ciò si aggiungeva la nuova ideologia nazionale del ‘songun’, ovvero la priorità data allo sviluppo delle forze armate.
Si trattava di un particolare tipo di eresia del marxismo: in breve i
militari sostituiscono il proletariato come avanguardia della rivoluzione.
La Corea del Nord, inoltre, non si limitava a produrre missili per le
proprie forze armate, ma li vendeva anche ai suoi clienti, in particolare al Pakistan ed all’Iran.
Mentre si moltiplicavano le informazioni circa siti nucleari non dichiarati, cogliendo al volo le difficoltà dell’Amministrazione Clinton con il Congresso, il regime nordcoreano decise di alzare la posta con un test missilistico.
Il 31 agosto 1998 venne lanciato un missile ‘Taepodong’ che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso un missile balistico intercontinentale in grado di colpire
gli Stati Uniti.
Il test, data la non eccelsa tecnologia nordcoreana, fallì miseramente, ma suscitò l’apprensione del Congresso.
L’ex-Segretario alla Difesa fu incaricato di redigere un rapporto
sulla politica nei confronti della Corea del Nord che, ancora una
volta, incoraggiava l’Amministrazione a negoziare.
Una volta imboccata la china dell’appeasement l’Amministrazione
Clinton non poteva più tornare indietro e raggiunse quindi un’intesa, non molto chiara e definita, con Pyongyang, che si impegnava ad una moratoria nei test di missili a lunga gittata, in cambio di
un nuovo alleggerimento delle sanzioni economiche.
Data la debolezza della posizione negoziale americana e grazie alla
mediazione del neopresidente russo Vladimir Putin, Kim Jong Il
propose un accordo di ampio respiro (‘grand bargain’) sui missili.
In cambio della rinuncia a proseguire sulla strada dei test (che sarebbero falliti comunque) il regime nordcoreano cercava di ottenere nuovi vantaggi economici e, addirittura, la messa in orbita gratis
di satelliti da parte degli americani o di qualche altro benefattore.
Volendo coronare il termine dei due mandati presidenziali con uno
‘storico accordo’, Clinton spedì, ad ottobre del 2000, il Segretario
di Stato Madeleine Albright a Pyongyang, in previsione anche di
una visita dello stesso Presidente, che non ebbe mai luogo.
Conclusasi con un nulla di fatto la visita della Albright, i negoziati
proseguirono in Malaysia senza arrivare ad alcun risultato concreto, data anche l’ambiguità nordcoreana circa il punto fondamentale: la rinuncia ai missili a lunga gittata.
L’elezione di George W. Bush pose termine al negoziato condotto
dall’Amministrazione Clinton ‘in articulo mortis’.
Nonostante gli incoraggiamenti a proseguire sulla strada dellla
trattativa da parte del Presidente sudcoreano Kim Dae Jung che,
con la ‘sunshine policy’, aveva iniziato una sua ‘Nordpolitik’ volta
ad ammansire il regime di Pyongyang, la nuova Amministrazione
guardava con scetticismo all’agreed framework, considerandolo un
cedimento al ricatto.
Il negoziato venne ripreso ma con un atteggiamento molto più
fermo e volto ad ottenere l’adempimento degli impegni presi da
Pyongyang che venne inserita, nel discorso sullo ‘Stato dell’Unione’ del gennaio 2002, nel famoso ‘asse del male’.
Nello stesso anno l’intelligence americana acquisì la certezza che,
grazie alla ‘proliferazione incrociata’ con il Pakistan, la Corea del
Nord aveva acquisito la tecnologia delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio in cambio di quella dei missili ‘Nodong’.
La richiesta americana di smantellare il programma di arricchimento, venne respinta dai nordcoreani, che espulsero gli ispettori
dell’AIEA e reiterarono, il 10 gennaio 2003, la denuncia - già fatta
dieci anni prima e quindi ritrattata su richiesta americana - del
TNP.
Il regime di Pyongyang uscì allo scoperto ed annunciò che, contrariamente agli impegni presi, avrebbe trattato il combustibile
esaurito del reattore di ricerca per estrarre il Plutonio necessario
alla produzione di un ordigno nucleare.
Nonostante ciò, l’Amministrazione Bush, consapevole dell’impossibilità di aprire un nuovo fronte in Estremo Oriente dopo l’Afghanistan e l’Iraq, decise di proseguire sulla strada di un negoziato
che vedeva ora il coinvolgimento dell’ultimo alleato della Corea
del Nord: la Cina.
Si passò, quindi, dal negoziato tripartito (‘USA - Cina - Corea del
Nord) a quello esapartito (‘USA- Cina - Giappone – Russia - Corea
del Nord – Corea del Sud’) prolungando l’esercizio mentre la Corea del Nord continuava indisturbata a sviluppare ordigni nucleari.
In tale alternarsi di round negoziali ed annunci bellicosi si giunse, il 19 settembre 2005, all’ennesima dichiarazione, questa volta
congiunta e ‘a sei’, con la quale, per l’ennesima volta, la Corea del
Nord rinunciava alle armi nucleari.
Il congelamento di venticinque milioni di dollari di fondi nordcoreani depositati presso la Banca Delta Asia di Macao, designata dal
Dipartimento del Tesoro fra le Banche che praticavano il riciclaggio, provocò una nuova crisi dei negoziati.
Nuovamente - more solito – i nordcoreani alzarono la posta conducendo, a luglio del 2006, ben sette test di missili balistici a lunga
gittata, incassando la condanna del Consiglio di Sicurezza con la
Risoluzione 1695.
A questo punto, Pyongyang calò l’asso effettuando, il 9 ottobre
2006, il suo primo test nucleare sotterraneo.
Il test, di per sé, a causa della bassa potenza registrata, fu tecnicamente un fallimento (‘fizzle’) ma servì allo scopo di riportare gli
USA al tavolo dei negoziati.
Dopo l’ennesima Risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza, la 1718, che prevedeva, questa volta, sanzioni economiche,
ripresero i negoziati a sei.
A febbraio del 2007, il quinto round di tali negoziati (‘Six Party
Talks’), si concluse con l’adozione di un ‘Piano d’Azione’ per l’attuazione della Dichiarazione del 2005.
Come primo passo, la Corea del Nord si impegnò a fermare il reattore di ricerca di Yongbyon recuperando, in questo modo, i
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venticinque milioni di dollari bloccati a Macao.
Sul finire del 2007 cominciò a replicarsi il modello negoziale del
1999-2000 che vedeva da un lato un’Amministrazione americana
uscente ansiosa di chiudere il dossier nordcoreano e dall’altro il
regime di Pyongyang che temporeggiava promettendo di smantellare, con gradualità, i propri impianti nucleari.
La trattativa proseguì nel 2008 anche se ora i nordcoreani chiesero
di cancellare il loro Paese dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo stilata dal Dipartimento di Stato.
Al primo rifiuto americano, i nordcoreani risposero con la sospensione della disattivazione del reattore ed imponendo nuove limitazioni agli ispettori dell’AIEA. L’Amministrazione Bush, che, come la precedente, voleva comunque raggiungere il risultato, cedette al ricatto, promettendo di esaminare la possibilità di rimuovere Pyongyang dalla lista nera.
Gli ultimi round dei negoziati, tuttavia, finirono in un vicolo cieco
a dicembre del 2008, non senza aver visto la consegna dell’ultimo
carico di olio combustibile alla Corea del Nord.
Nel frattempo, nell’aprile del 2008, la CIA aveva tenuto un briefing per il Congresso sulla distruzione - avvenuta da parte dell’aviazione israeliana il 6 settembre 2007 - di un edificio in Siria che
risultò poi essere la copia del reattore di Yongbyon.
La collaborazione tra Siria e Corea del Nord per la costruzione di
un reattore nucleare clandestino risaliva al 1997 ed era la chiara
dimostrazione di attività proliferanti condotte da Pyongyang.
La nuova Amministrazione Obama non ebbe fretta di riannodare
il negoziato e pertanto, come già avvenuto nel 2006, i nordcoreani
ricominciarono le provocazioni con il lancio di un missile balistico
per la messa in orbita di un satellite, che si rivelò un fallimento, e
con l’espulsione degli ispettori dell’AIEA.
Seguì, il 25 maggio 2009, il secondo test nucleare sotterraneo che,
seppure di potenza modesta, fu, tecnicamente, un successo.
La nuova Risoluzione di condanna del test, la 1874, da parte del
Consiglio di Sicurezza, inasprì ulteriormente le sanzioni contro il
regime che reagì con nuovi lanci di missili balistici, da crociera e
con provocazioni nelle acque di confine che portarono ad uno scontro navale a novembre del 2009.
Puntualmente, a dicembre dello stesso anno, il nuovo inviato speciale americano si recò a Pyongyang per riannodare il ‘dialogo’.
Nel 2010 le provocazioni nordcoreane aumentarono di intensità
sino a portare all’affondamento, il 26 marzo, della corvetta sudcoreana Cheonan, che causò la morte di quarantasei marinai di Seoul.
Ciò determinò un blocco dei negoziati per tutto il 2010.
Nonostante ciò, il sempre arzillo ex-Presidente Carter non si lasciò
scappare l’occasione di compiere l’ennesima missione a Pyongyang,
per riportare a casa un cittadino americano arrestato dai nordcoreani, e di dichiarare successivamente al New York Times di aver
registrato “forti e chiari segnali di voler far ripartire la trattativa”.
L’amministrazione Obama, però, inasprì le sanzioni finanziarie
contro la Corea del Nord.
A novembre dello stesso anno, il Prof Siegfried Hecker, già direttore del Laboratorio nucleare di Los Alamos, fu invitato a visitare un
moderno impianto di arricchimento dell’uranio che i nordcoreani
avevano costruito, sotto il naso dei satelliti, proprio presso il centro
di Yongbyon.
L’impianto, dotato di duemila centrifughe, sarebbe piuttosto moderno e più avanzato, anche se di scala più ridotta, di quello costru-
106
ito dagli iraniani a Natanz..
Le rivelazioni del Prof Hecker confermarono ciò che l’Amministrazione Bush aveva sostenuto otto anni prima, ovvero che la Corea
del Nord si era dotata di un programma di arricchimento dell’uranio, che, per sua natura, è molto più facile da occultare di un
reattore per la produzione di plutonio.
L’esistenza dell’impianto visitato da Hecker presupponeva, inoltre,
che ne fosse stato costruito almeno un altro, evidentemente ancora
clandestino.
Ciò confermava che Pyongyang, dopo aver seguito la ‘via del Plutonio’ con il vecchio reattore di Yongbyong, aveva orami imboccato con sicurezza anche quella dell’uranio, dotandosi di un’infrastruttura degna di una potenza nucleare ormai matura.
L’anno si concluse con una nuova aggressione nordcoreana ovvero
il bombardamento da parte dell’artiglieria dell’isola sudcoreana di
Yeonpyeong, che provocò anch’esso la perdita di vite umane.
Il 2011 si aprì con le manovre congiunte USA-Corea del Sud a
febbraio cui il Nord reagì con la minaccia di trasformare Seoul “in
un mare di fuoco”.
La tensione alle stelle tra Nord e Sud non poteva non avere conseguenze sul negoziato nucleare che non diede segno di ripresa,
nonostante gli sforzi della Cina, volti a rilanciare i ‘Six Party Talks’.
A Pyongyang, tuttavia, si accorsero aver tirato troppo la corda
e cominciarono ad inviare segnali di disponibilità alla ripresa del
negoziato prima attraverso la diplomazia russa e poi attraverso il
sempre servizievole Jimmy Carter.
Prima, però, era necessario che ripartisse il dialogo tra Nord e Sud,
con un incontro avvenuto al margine di una riunione dell’ASEAN,
svoltasi alla fine di luglio a Bali.
Una settimana dopo, a New York, ricominciarono i colloqui ad
alto livello tra americani e nordcoreani sulla questione nucleare.
A fine agosto, Kim Jong Il, il cui stato di salute era sempre più
precario, annunciò, dopo un incontro con il Presidente russo Medvedev, la sua volontà di osservare una moratoria sulla produzione e
la sperimentazione nucleare e missilistica.
Lo stesso messaggio venne ripetuto il mese successivo a Pechino
dallo stesso Kim Jong Il.
Tanto bastò a far ripartire, a fine ottobre, un nuovo round di negoziati a Ginevra che sfociò, il 29 febbraio 2012, nel cosiddetto ‘Leap
Day Agreement’, che prevedeva la sospensione dell’arricchimento
dell’uranio presso l’impianto di Yongbyong – sotto verifica dell’AIEA - nonché la moratoria dei test nucleari e missilistici.
Nel frattempo, il 17 dicembre del 2011 era deceduto il secondo
sovrano della dinastia, Kim Jong Il, il quale, però, aveva preparato
la successione per il suo figlio più giovane, Kim Jong Un, che due
giorni venne proclamato ‘nuova guida’ della nazione nordcoreana.
Il giovane Kim, in attesa di rafforzare il suo potere, si lasciò per
qualche tempo guidare dallo zio (marito della sorella di Kim Jong
Il), Jang Son Thaek, uomo di fiducia di Pechino.
Ciò spiega il suo iniziale appoggio al ‘Leap Day Agreement’.
Sulla scia dei precedenti, tuttavia, anche quest’ultimo Accordo
cadde sulla ‘volontà di potenza’ di Pyongyang e, presumibilmente,
sulla necessità, per Kim Jong Un, di presentarsi alle forze armate
come il degno continuatore della politica del ‘songun’.
Ad aprile, infatti, sfidando le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, venne tentata la messa in orbita di un satellite artificiale, con
un missile balistico (Unha 3) a tre stadi.
Dissensi & Discordanze
Il test, fallì miseramente, come ammesso perfino da Pyongyang
e, oltre alla rottura della trattativa, fruttò alla Corea del Nord la
cessazione delle forniture umanitarie statunitensi.
Nonostante il risultato deludente del test, Kim Jong Un perseverò
sulla via dello spazio finché, il 12 dicembre 2012, il missile Unha-3
riuscì, finalmente, a mettere in orbita il satellite.
Seguì, alla fine di gennaio, una nuova Risoluzione del Consiglio di
Sicurezza, la 2087, che dava un ulteriore giro di vite alle sanzioni.
Per tutta risposta da Pyongyang fu annunciata l’intenzione di effettuare un nuovo test nucleare, il terzo della serie, cosa che puntualmente avvenne il 12 febbraio 2013.
Il test ebbe successo, l’esplosione, per quanto di moderata potenza,
testimoniava una certa maturità del programma nucleare nordcoreano.
Il 7 marzo una nuova Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la
2094, inasprì ulteriormente le sanzioni, in particolare quelle finanziarie.
Il 2013 fu segnato da una escalation di provocazioni da parte di
Pyongyang, che arrivò al punto di dichiarare non più valido l’armistizio del 1953 che aveva posto fine alla guerra di Corea.
Da parte americana si rispose, oltre che con le solite esercitazioni
congiunte con le forze armate sudcoreane, con il sorvolo, a più
riprese, della penisola coreana da parte di bombardieri strategici.
Il Segretario alla Difesa, Hagel, decise poi lo schieramento di altri
1quattordici missili anti-missile in Alaska, riportando la consistenza dello ‘scudo antimissile’ rivolto alla Corea del Nord a quella
originariamente prevista dall’Amministrazione Bush.
La primavera del 2013, sessant’anni dopo la conclusione della
guerra, vide la tensione tra il Nord, il Sud e gli Stati Uniti giungere
a livelli molto più alti del normale, ivi inclusi attacchi informatici
nei confronti della Corea del Sud ed analoghe incursioni di ‘hackers’ di ‘Anonymous’ contro il regime di Pyongyang.
Sul piano nucleare, il regime riavviò il vecchio reattore di Yongbyon, con il chiaro proposito di iniziare una nuova ‘campagna’
per l’estrazione del plutonio e la produzione di nuovi ordigni nucleari.
Tra le provocazioni nordcoreane non potevano mancare spostamenti di missili balistici per minacciare nuovi lanci e lanci provocatori di missili a breve raggio.
Nel bel mezzo di tale infuocata atmosfera Pyongyang, lanciò un
nuovo appello per la ripresa dei negoziati.
Nel frattempo, su pressioni statunitensi, la Cina aveva in parte
preso le distanze da Kim Jong Un e le quattro principali banche
cinesi avevano chiuso ogni transazione con la Corea del Nord.
A luglio la Corea del Nord cominciò lanciare segnali di disgelo ed
a riannodare i rapporti con il Sud, in particolare per la riapertura
del complesso industriale di Kaesong.
L’anno si concluse, tuttavia, con una nuova escalation di minacce
nei confronti degli USA, del Giappone e della Corea del Sud, e con
l’esecuzione del potente zio di Kim Jong Un, Jang Son Thaek, segnale inequivocabile di una purga dei vertici nordcoreani.
Tramontate ben presto le illusioni di una svolta liberalizzatrice, che
avrebbe dovuto essere impressa dal giovane Kim Jong Un, rivelatosi un dittatore spietato quanto il padre ed il nonno, ci si attende
ormai un nuovo test nucleare ed ulteriori test missilistici.
Ciò al fine di rafforzare la posizione negoziale nei confronti degli
USA e della Corea del Sud, estorcere concessioni e, in ultima
analisi, assicurare la sopravvivenza del regime attenendosi strettamente all’ideologia militarista del ‘songun’, malattia senile del
comunismo.
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Dissensi & Discordanze
Pubblicazione indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da Mauro della Porta Raffo
Numero Speciale | marzo 2014
Stampa:
LEGATORIA CARRAVETTA, Varese
finito di stampare
il 28 febbraio 2014
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