C O L L A N A D I G U I D E P R AT I C H E
P E R C A M M I N A R E N E L L A V I TA ,
D E D I C ATA A C H I V I V E
O CONDIVIDE
L’ E S P E R I E N Z A D E L C A N C R O
GUIDA n°6
QUANDO UN
FAMIGLIARE
SI AMMALA
MANUELA PROVANTINI
A cura di:
QUANDO
UN FAMIGLIARE
SI AMMALA
La vita ci dà, molte volte, più di quello che noi ci aspettiamo, ma intanto che ci
offre i suoi beni, essa stessa, la vita ci si toglie. (Franco Fornari – Affetti e cancro,
1985 Raffaello Cortina Editore).
Un’esperienza traumatica, come può essere considerata quella del cancro, è un
evento che ha come caratteristica principale quella di interrompere il flusso vitale
perché toglie la possibilità di proiettarsi nel futuro.
Nel momento in cui viene comunicata la diagnosi di cancro, sono molte le emozioni che prendono il sopravvento: rabbia, paura, angoscia, disperazione e sentimento di vuoto. Esse spesso influiscono sui famigliari o sulle persone che sono
vicine a chi si è ammalato, che vivono la disperazione e percepiscono il loro essere
impotenti davanti a un destino che si presenta incerto e angosciante. Anche se la
malattia non li colpisce in prima persona, pesa su di loro con conseguenze a volte
devastanti. Le condizioni dei famigliari, chiamati anche caregiver, un tempo non
venivano prese in considerazione ma oggi sono oggetto di interesse per molti specialisti, perché si tratta di figure che svolgono un ruolo fondamentale anche per il
buon esito della cura. Il famigliare che sta accanto alla persona ammalata si occupa di ogni area importante per il proprio caro: dall’organizzazione dell’ambiente
che lo circonda a tutte le risorse necessarie per garantirgli la migliore qualità di vita.
Nel caso in cui il famigliare sia il partner, le possibili direzioni in cui si affronta
questa esperienza sembrano essere due: comportamenti di avvicinamento e di
allontanamento. Come sostengono Tiziana Ragni Raimondi e Stefano Gastaldi
nell’opuscolo “Stare vicino a chi si ammala: l’esperienza dei partner e dei caregiver”,
in alcuni casi i comportamenti di avvicinamento derivano dal fatto che la coppia,
già molto intima e coesa, in questa occasione incrementa il legame che diventa
una risorsa importante per affrontare la paura e il dolore, trovando nell’intimità e
nell’affetto una risorsa potente e creativa.
In qualche caso questo avvicinamento sembra invece dettato più da una posizione
di “sacrificio” del partner non ammalato, che sente l’impegno e il dovere affettivo
di dedicarsi all’altro in modo totale. A questo tipo di dedizione si accompagna un
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sentimento di fatica che diventa insopportabile se la situazione peggiora.
Al contrario i comportamenti di allontanamento, a volte arrivano ad essere dei
veri e propri abbandoni. Questo comportamento avviene più frequentemente nelle coppie con un rapporto già incrinato prima della malattia e deriva in genere
dalla difficoltà a tollerare il dolore e la paura.
Tali comportamenti fanno parte del modo di vivere una vicenda, che mette a dura
prova entrambi i partner e assegna loro compiti molto diversi: chi si ammala deve
vivere la “sua” malattia affrontando i rischi e i possibili cambiamenti che un’esperienza così trasformativa determina; chi sta vicino alla persona che si ammala è
in una posizione difficile, poiché più passiva e sacrificale.
Nel caso in cui il famigliare sia un genitore, la situazione è alquanto diversa, soprattutto se si parla di madri. Ci sono mamme che vorrebbero essere sempre
presenti in ogni tappa della malattia, durante le visite, a casa. Stando ai loro racconti, davanti ai figli si mostrano forti e in grado di sostenerli nel momento difficile delle terapie e dei controlli. Alcune di loro invece non riescono del tutto a
mascherare preoccupazione e dolore e finiscono per assumere un atteggiamento
deprimente di cui non si rendono del tutto conto. Finiscono così per rischiare di
aggiungere involontariamente un peso ai figli, ora cercando concentrati sul compito di riprendere in mano la loro vita e di tenere a bada l’idea e la preoccupazione di poter morire. Altre madri mantengono un livello di negazione dell’accaduto
così elevato che sembra riescano a superare facilmente anche il momento della
perdita e sembrano viverlo davvero come un sollievo perché è troppo difficile per
loro vedere il proprio figlio soffrire e non poter far nulla per aiutarlo. Trascorso
un po’ di tempo dall’accaduto, quasi per reazione fisiologica, sembra emergere la
stanchezza, la depressione e tutte le emozioni proprie del periodo di lutto.
Quello di cui possiamo essere certi è che è sicuramente diverso perdere un figlio
dal perdere un partner; siamo più preparati all’idea di poter perdere una moglie
o un marito, magari dopo aver trascorso anni di vita insieme, ma così non è nei
confronti di un figlio, destinato a entrare nel futuro e a vivere in esso anche dopo
la morte dei genitori, ed è probabilmente per questo motivo che alcune madri
risultano essere inconsolabili.
Fratelli o sorelle tendono a comportarsi, nei confronti della persona ammalata,
anche con lo stesso stile che avevano prima della scoperta della malattia. Se, ad
esempio, avevano sempre assunto il ruolo di coloro che si prendono cura, che fanno da tramite nelle relazioni, ad esempio con le figure genitoriali, continueranno
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a farlo anche in questa situazione spinti da una motivazione ancora maggiore.
E probabilmente cercheranno di avere un ruolo di “intermediario” anche nella
relazione medico-paziente.
Nel corso degli anni di lavoro con pazienti e famigliari abbiamo avuto modo di
confrontare i vissuti derivanti dai differenti ruoli.
Ne è emerso che i famigliari, e soprattutto i mariti, affrontano i problemi che si
presentano in modo pratico (cercano le migliori cure, accompagnano le mogli alle
visite di controllo, cercano di alleggerire loro i compiti), tentando di mantenere
degli spazi da dedicare a sé anche per recuperare un po’ di energie da investire
all’interno della relazione, mentre le donne spesso interpretano tale comportamento come un segno di disinteresse nei loro confronti e un desiderio di continuare ad occuparsi di se stessi come se nulla fosse accaduto.
Sembra essere una caratteristica femminile quella di continuare a rappresentarsi
il problema, come se questo stare sempre in uno stato di allerta permettesse di
essere più preparate a qualsiasi eventualità, al contrario, i mariti dimostrano di
essere più razionali e cercano di affrontare il problema quando si presenta.
Se, dopo le terapie, i controlli mostrano una situazione stabile, tornano ad essere
tranquilli perché si sentono così di maggiore aiuto e probabilmente anche perché
è un po’ una caratteristica maschile quella di affrontare i problemi solo quando
effettivamente si presentano.
È curioso come alcuni partner una volta messa a tacere la propria ansia si dimentichino completamente di quella della compagna: è questo il caso di un marito, il quale avendo ritirato i risultati degli ultimi controlli della moglie e avendo
verificato che la situazione era perfettamente sotto controllo, si era dimenticato
completamente di avvisare la diretta interessata.
“Per me era tutto a posto, la preoccupazione era finita, almeno per quei controlli, e
sono andato a lavoro. Dopo cinque ore l’ho chiamata per dirle altro e lei mi ha detto Sono andati male gli esami vero? - Mi ero completamente dimenticato di avvisarla! Mi
era davvero passato di mente!”.
Se il decorso della malattia peggiora, pian piano molti uomini dimostrano di perdere il loro atteggiamento ottimistico, arrivando ad un livello maggiore di realtà,
attraversando tutte le fasi di sofferenza, impotenza, rassegnazione e desiderio di
non vederla più soffrire. Un’altra caratteristica importante dei mariti è che non
considerano come rilevanti i cambiamenti fisici della compagna, dovuti all’intervento chirurgico e sono di norma rispettosi dei cambiamenti che ciò può determinare nella relazione sessuale. Le donne vivono spesso questi momenti con
sentimenti di vergogna soprattutto che le porta a credere che il partner possa
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allontanarsi nel desiderio e, magari, provare attrazione per donne considerate
“normali”. Ciò che sembra pesare molto al famigliare, e soprattutto al partner, è
il cambiamento della propria compagna in “una portatrice di ansia”. È come se la
malattia avesse distrutto, come un terremoto, tutto quello che era in superficie e
avesse fatto emergere tutto quello che si trovava in profondità, rinforzando i legami solidi e rompendo quelli precari. È per questo motivo che alcune coppie, con la
scoperta della malattia, decidono di chiudere la relazione, al contrario di altre che
colgono l’occasione come un motivo in più per sentirsi ancora più uniti.
Ciò avviene anche perché la relazione di aiuto implica proprio la necessità di “aderire” all’altro e in una relazione precaria ciò può essere insopportabile e portare
alla rottura. Un effetto interessante di questo fenomeno di “adesione” è dato dal
fatto che molto spesso il famigliare-caregiver, indipendentemente dal grado di
parentela con la persona ammalata, se gli si chiede come va la sua vita, racconta della situazione clinica ed emotiva della persona cara, tralasciando la propria
situazione. Il caregiver, o chi sta accanto, si sente cioè talmente identificato con
la persona che segue, da parlare del proprio benessere o malessere come di un
riflesso dell’andamento della condizione fisica dell’altro.
I TEMI CHE PIÙ STANNO A CUORE AI FAMIGLIARI RIGUARDANO:
• il bisogno della persona ammalata di non parlare con i propri cari della malattia,
come se questo aiutasse a proteggerli dalla sofferenza o anche per preservarsi
dal loro possibile dolore o dalle loro preoccupazioni
• i rapporti con amici storici che spesso per una loro difficoltà ad affrontare una
situazione così delicata, si allontanano, mentre a volte capita che si avvicinino
persone fino a quel momento considerate semplici conoscenti
• i rapporti con i medici, che spesso emergono dai racconti come persone poco
disponibili (e a loro va talvolta anche il rimprovero di aver guardato con superficialità i primi sintomi della malattia)
• qualche rabbia nei confronti del sistema sanitario, che per i famigliari non
effettua controlli abbastanza approfonditi (ad es. viene fatta la mammografia ma
non l’ecografia; solo una richiesta esplicita del caregiver ha portato a un esame
addizionale e al conseguente svelamento di metastasi; esami genetici)
• sentimenti di impotenza di fronte alla sofferenza del famigliare
• sentimenti di inadeguatezza, rafforzati dall’impressione che il loro caro li rimproveri di fare, ma soprattutto di dire la cosa sbagliata
• sensi di colpa quando si sente il bisogno di avere dei propri spazi
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• preoccupazione per il futuro (es. il doversi occupare da soli di eventuali figli)
• paura più della sofferenza fisica che della morte
• paura della solitudine dopo la perdita della persona cara
• bisogno di parlare del tema della morte, soprattutto quando la vedono come
possibilità concreta
• utilità degli incontri di gruppo e bisogno di partecipazione perché sentiti come
uno spazio dedicato a se stessi
• bisogno di riflettere sulla riorganizzazione della relazione con il partner ammalato
• progetti futuri.
I famigliari, così come le persone colpite in prima persona dal cancro, quando
viene data loro la possibilità di parlare dell’esperienza che stanno affrontando,
la colgono, e il cancro diventa il motivo per parlare della propria vita. I gruppi di
sostegno ad esempio, diventano lo spazio in cui si parla di vita quotidiana con una
motivazione in più rispetto alle persone che non hanno questa realtà da affrontare; perché l’idea di poter morire può spingere a preoccuparsi di vivere al meglio.
Secondo Fornari, vivere un’esperienza traumatica, come la scoperta del cancro,
non implica la perdita assoluta della capacità di sperare, anzi: questa, a volte, ricompare proprio nelle situazioni più drammatiche. Fornari, considera la speranza
come progressiva e ritiene che la guarigione non avvenga mai solo attraverso le
cure mediche ma esiga un fattore interno al paziente legato agli affetti, di natura
più psichica: la capacità di avere fiducia o di sperare.
Ho conosciuto persone clinicamente “guarite” che non avevano più voglia di vivere, con gravissime conseguenze personali, famigliari e lavorative; ne ho conosciute altre, con situazioni cliniche oggettivamente complesse, che sono state in
grado di riaprirsi ai progetti e alla voglia di vivere, con conseguenze positive sia
per se stesse che per il loro sistema di appartenenza.
A questo proposito, ricordo la storia di due sorelle di trent’anni circa con la mamma ammalata di cancro. I genitori erano separati da tempo, si erano costruiti
entrambi una nuova famiglia e non erano stati in grado di costruire una buona
relazione con e tra le figlie. Una delle due figlie in particolare, ha utilizzato l’ultimo anno di vita della madre per costruire quello che non erano riuscite a fare in
anni. Oggi, a distanza di un anno e mezzo dalla scomparsa della mamma, le due
ragazze sono molto legate, si frequentano regolarmente, condividono emozioni,
pensieri, desideri e anche il padre è inserito nella relazione.
Uno dei cambiamenti che si registra durante il percorso di gruppo è che i famiglia-
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ri sembrano percepire che sono sì lì per migliorare la loro capacità ad aiutare il
loro caro ammalato, ma prima di tutto sono lì per se stessi, perché questo spazio
lo possono riempire con le loro emozioni, paure, pensieri, dubbi, desideri, evasioni
e tutto ciò può contribuire a rendere più tollerabili le angosce e aiutare a portare
energia buona, pulita, all’interno della relazione, di qualunque genere essa sia.
La persona ammalata, quando le viene dato uno spazio di lavoro per organizzare
nuovamente la propria vita, lo fa e si prende i propri spazi, mentre spesso accade
che chi le sta accanto non riesca a farlo, perché si mette a disposizione del proprio
caro, assumendo, a volte, un ruolo di dedizione e di sacrificio, dimenticandosi il
proprio compito di cambiare e di evolvere, proprio come la persona ammalata.
È importante che il caregiver mantenga il proprio equilibrio, perché se investito
da sentimenti eccessivi di inadeguatezza, invece di risultare una risorsa per la
persona colpita dal cancro, può finire col rappresentare un ulteriore problema in
un contesto di per sé già difficile.
È necessario quindi rendere i partecipanti dei gruppi di sostegno psicologico più
consapevoli delle condizioni di accudimento e della necessità di mantenere un’area di benessere e di libertà individuale, perché il rischio che corrono è quello
di venire distrutti dalla sofferenza e, conseguentemente, di distruggere ciò che
hanno intorno. Quindi al caregiver deve essere data la possibilità di ritagliarsi del
tempo da dedicare a se stesso, mantenere delle relazioni sociali e, se necessario,
chiedere aiuto a sua volta.
In generale, è importante non dimenticare che il benessere del caregiver è fondamentale anche per il benessere della persona ammalata. Al caregiver però deve
essere data la possibilità di ritagliarsi del tempo da dedicare a se stesso, di mantenere relazioni sociali e, se necessario, di chiedere aiuto a sua volta.
Quindi le persone colpite dal cancro e i loro caregiver devono essere aiutati a vedere il “qui e ora”, a condividere le cure: è una strategia che permette di distogliere
l’attenzione dalla possibilità di morire e, soprattutto, di riaprire le strade alla vita.
Molti sono i motivi per i quali chi si ammala di cancro e chi sta intorno a chi si
ammala di cancro può sentirsi solo, escluso e in difficoltà. Lo spazio emotivo di
accoglienza che si apre all’interno dei gruppi facilita lo stabilirsi di sentimenti di
confidenza e di fiducia che permettono di esprimersi, parlare di sé, raccontare la
propria storia e di accomunarsi con chi vive la stessa esperienza, anche a benefico della relazione con la persona ammalata.
Oggi, molte strutture ospedaliere prevedono una maggiore attenzione ai rapporti
con i famigliari delle persone ammalate. Si parla sempre più dell’argomento in
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trasmissioni televisive, articoli di stampa e anche la legislazione registra i cambiamenti in atto. Fino a qualche tempo fa, infatti, soltanto i genitori o, in caso di
malattia o assenza di questi, un fratello o una sorella convivente avevano diritto al
congedo straordinario dal lavoro per assistere un familiare cui era riconosciuto lo
stato di handicap in situazione di gravità, norma di cui usufruiscono molti malati
oncologici. Una sentenza della Corte Costituzionale ha però dichiarato incostituzionale questa limitazione, stabilendo che il coniuge convivente ha un diritto
prioritario e può assentarsi dal lavoro in modo continuativo o frazionato per un
periodo complessivo massimo di due anni. Il congedo, è totalmente retribuito e
comprende il diritto a mantenere il posto di lavoro.
Nella vita delle persone ammalate sono centrali le relazioni con i propri cari, a
maggior ragione se parliamo di una persona colpita da una malattia grave come il
cancro. È necessario quindi che tali relazioni vengano mantenute, curate e rifornite quotidianamente di energia, di pensieri centrati sui progetti di vita. E quando la
situazione clinica diventa difficile, ci si deve orientare ad affrontare il compito più
difficile, l’ultimo che abbiamo da svolgere.
CONSIGLI PRATICI PER CHI STA ACCANTO ALLA PERSONA AMMALATA:
• ascoltare la persona cara senza pensare di dover trovare subito una soluzione;
spesso a chi sta accanto non è richiesto di risolvere i problemi ma, semplicemente, di ascoltare
• quando si ascoltano le preoccupazioni della persona colpita dal cancro, occorre
ascoltare anche le sue possibili soluzioni prima di offrirgliene altre
• valutare quando è il momento giusto per parlare della situazione clinica: a volte
la persona ammalata può sentirsi stanca o semplicemente non è dell’umore
giusto per parlare di argomenti così delicati
• considerare realisticamente ciò che si può fare per aiutare il proprio caro ad
avere una migliore qualità di vita
• nei colloqui con i medici, chiedere spiegazioni quando qualcosa non è chiaro
• stabilire una comunicazione chiara ed esaustiva con i medici può aiutare a
diminuire il senso di disorientamento
• la condizione di malattia non deve portare ad abbandonare un’idea di autonomia
della persona malata; nei limiti del possibile, bisogna lasciare che possa
continuare a sentirsi in grado di svolgere le sue abituali attività
• dedicare del tempo ai propri interessi o a iniziarne di nuovi
• è di fondamentale importanza mantenersi in contatto con il mondo esterno e
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poter beneficiare del supporto affettivo
• mantenere aperte delle aeree dedicate a se stessi e al proprio benessere,
chiedendo ad altri famigliari o amici aiuto per sostenere il famigliare ammalato
• imparare ad accettare l’aiuto che viene offerto; imparare a delegare una parte
degli impegni: è di fondamentale importanza
• non trascurarsi per il benessere del proprio caro perché si corre il rischio di
ammalarsi, aumentando così le difficoltà e i momenti di tensione
• è importante avere una persona o uno spazio in cui poter parlare della situazione e
dei sentimenti ad essa correlati
• se ci si sente sovraccaricati è utile chiedere aiuto a uno specialista, magari al
medico di famiglia; esistono vari tipi di aiuto, fra questi la possibilità di
frequentare dei gruppi di sostegno dove poter condividere emozioni e pensieri
con persone che vivono situazioni simili. Uno spazio che aiuti a rendere più lieve
il sentimento di impotenza che spesso impedisce una piena condivisione delle
difficoltà dell’altro, fa correre il rischio di apparire superficiali, menefreghisti o
altre volte blocca ogni decisione per la paura di sbagliare.
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