FABRIZIO FONDI 10 EURO TUTTO COMPRESO «Signori… signori... per cortesia…» La guida cercava senza successo di farsi ascoltare dai chiassosi passeggeri del pullman. Quasi tutti ormai si erano abbandonati all'inseguimento di cori goliardici e vecchie canzoni dell’ottocento. La guida batté con due dita sul microfono del bus, poi si fece coraggio e cercò di sfondare tra le grida e le risate generali. «Signori, un po’ di attenzione per cortesia. Tra poco incontreremo una delle zone più affascinanti del parco, sono sicuro che vi lascerà a bocca aperta. Stiamo entrando all’interno della pineta del Fangorosso, proclamata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Doveva simboleggiare, secondo i papi del duecento che la vollero fortemente, il concetto di eternità grazie all’albero sempreverde. Era un modo per ricordare all’uomo la potenza infinita di Dio. E’ lunga diciassette chilometri e in alcune zone gli alberi nascondono completamente la luce del sole. In certi tratti vi sembrerà che sia scesa di colpo la notte! Pare che all’interno vi siano ancora alcune specie animali, ormai estinte nel resto del paese, che hanno adattato il loro sistema di vita alla pineta in modo tale da non uscirne mai. Alcune zone, quelle più lontane dalla strada che stiamo percorrendo, sono inesplorate da decenni. Vedrete il paesaggio incupirsi improvvisamente o magari, se siete fortunati, scorgerete qualche strano animale che vi sembra di non aver visto in nessun libro della vostra enciclopedia. Sarà uno spettacolo che, a dieci euro tutto compreso, non si trova da nessuna parte. E tutto grazie alla Alubatours!» Seguì un applauso da parte di quasi tutti i passeggeri mentre Nico, l’unico quindicenne di un gruppo la cui età media oscillava tra i sessantacinque e i settanta, osservava sbigottito quelle vecchie signore che ridevano a tutta bocca tra fischi e rantoli degni di un soffietto da camino. Accidenti a te e allo stupido che sei. Mi spieghi come ha fatto quel volantino a finirti in tasca? E mi spieghi perché, invece di buttarlo nella pattumiera lo hai posato sul tavolo di cucina, brutto idiota? La nonna di Nico, feroce collezionista delle gite “tutto compreso”, aveva arpionato il volantino come se avesse tra le mani un diamante. Dopo neppure quattro righe di lettura aveva già aderito alla scampagnata e si era messa in cerca di qualcuno che la accompagnasse. «Da sola non posso andarci – frignava - le pasticche, il caldo, la pressione tre volte al giorno…come faccio?» 1 Ma i genitori di Nico erano entrambi impegnati con il lavoro e l’unico libero, in quel luglio caldo come l’inferno, era proprio lui. «Allora, Nico, ci vai tu con nonna. Tanto è solo un giorno». Dopo la tremenda bocciatura a scuola, rispondere no era davvero impossibile. E così sia. Solo un giorno e poi sarebbe finita. Ma quel maledetto giorno non passava mai. Il pullman avanzava ottusamente, facendosi largo tra i campi erbosi e incontaminati del parco. All’esterno la temperatura era ai limiti dell’umano e il calore distorceva le immagini all’orizzonte dando loro le forme più strane. Nico riprese a guardare quelle ciccione che avevano cominciato a cantare “La società dei magnaccioni” battendo le mani per tenere il ritmo. Ebbe un improvviso attacco di vomito, chiuse gli occhi e infilò la faccia dentro al sacchetto che era riuscito a sfilare appena in tempo dal cesto davanti a lui. «Amore di nonna, cos’hai? Stai male? Respira, dai, respira!» Nonostante il laghetto di vomito sul fondo del sacchetto, Nico preferì tenere la testa bassa. Che tortura. Da ogni parte rumori, frastuono, risate sguaiate e un numero incalcolabile di ascelle assassine che sparavano afflati velenosi. Si era già alzato, qualche minuto prima, per supplicare la guida affinché abbassasse un po’ la temperatura. Ma il condizionatore è già al massimo, non c’è altro da fare – gli aveva risposto quello con un sorrisetto inquietante, figlio di una perfetta miscela di crudeltà e sadismo. Un sorriso allucinato che aveva affogato Nico nel terrore. Quello sembrava scappato da un manicomio criminale. Ma forse tutto lo staff della Alubatours era composto da matti, visto il modo in cui avevano organizzato quella “favolosa passeggiata nel verde ombreggiante del Fangorosso, una immersione assoluta nella natura”, come recitava quello stramaledetto opuscolo. L’autista indossava una camicia bianca da infermiere e dei jeans a mezza gamba, ornati di un pelo caprino che faceva caldo solo a guardarlo. Ogni tre secondi l’occhio destro gli si chiudeva, lampeggiando come un segnale Morse lanciato da un faro in piena notte. Chissà come fa a guidare in quelle condizioni. E’ già tanto se finora non ci siamo fusi con la corteccia di qualche albero. Dal finestrino si cominciava a scorgere in lontananza la altissima barriera di pini nella quale il pullman si sarebbe immerso entro qualche minuto. Fu proprio in quell’istante che, per la primissima volta in vita sua, Nico sentì il bisogno incontenibile di pregare. Signore, Allah, Manitù o come ti chiami, ti supplico in ginocchio di far cessare questo strazio prima possibile. Non ce la faccio più, dico sul serio. Se non fai qualcosa, questa diventa la mia bara… 2 Si erano appena spente le note di “Tanto pe’ cantà” che il capo coro aveva già avviato la prima strofa di “’O surdato ‘nnammurato” e con le dita dettava il tempo ai coristi. Nico si alzò di scatto, in preda al soffocamento, e si lanciò verso il bagno. Era una stanzetta più piccola di una cabina telefonica, ma almeno era chiusa e per qualche minuto lo avrebbe tenuto al ripèaro da quella tortura. Si sedette sul cesso, appoggiò la nuca al muro e chiuse gli occhi. Finalmente solo, almeno finché qualcuno di quei babbioni dalla prostata disintegrata non avesse bussato a rompergli i coglioni. Di colpo la luce all’esterno si abbassò, poi scomparve del tutto e fu buio pesto. Nico spinse alla cieca il pedale dell’acqua e se ne versò un po’ in faccia. Era quasi a bollore, maledizione. Quello non era un pullman, era un lager a quattro ruote. E adesso la strada si era fatta più sconnessa e ogni tanto qualche buca faceva sobbalzare il bus come un toro imbestialito. All’improvviso la strada peggiorò ancora. Fu un crescendo intenso di buche e curve insensate finché, per una trentina di secondi, gli sembrò di stare all’interno di un passaggio a livello interminabile. Come attraversare un tratto infinito di binari sconnessi. Le ruote facevano un rumore assurdo. Pareva che…soffrissero, che gemessero sotto il terreno, producendosi in una cantilena piagnucolante che faceva impressione. Come se il pullman gridasse la sua sofferenza attraverso quel suono simile a una sirena stonata, che urlasse per le torture che stava subendo. Nico si spaventò. C’era qualcosa che non andava, se lo sentiva dentro le ossa. Sentiva la voglia di urlare, di sputare fuori la sua rabbia e la sua inquietudine, sentiva un sudore gelido che gli si impoltigliava tra i capelli e lungo la schiena, e poi quel maledetto rumore che lo spingeva verso un pianto irrazionale, quel rumore di…una bestia che stava morendo. D’improvviso la luce tornò e il rumore cessò come per magia. Dietro la porta sentì il coro di gioia dei passeggeri seguito dall’ennesimo applauso liberatorio. Non lo avrebbe mai creduto possibile, eppure provò piacere. Il piacere di non sentirsi solo in quel deserto di tenebra che lo aveva così tanto atterrito. D’accordo, erano vecchi e rincoglioniti, ma in quel momento la loro compagnia era preziosa e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Dio, che momento orrendo era stato. Quando uscì era più accaldato di prima e il condizionatore continuava a pompare aria calda. Ma quella era l’unica cosa che non era cambiata. Il resto era…diverso. Difficile focalizzare i cambiamenti, forse i suoi occhi non si erano ancora abituati al ritorno della luce, forse il caldo gli stava giocando strani scherzi, sta di fatto che avrebbe giurato che il pullman era…cambiato. Okei, proviamo a fare un sonnellino. Magari quando ti svegli siamo arrivati. 3 Appoggiò la testa al finestrino e si lasciò andare al dondolio del pullman. Ma più che un dondolio era un concerto di scossoni terribili e non riuscì a prendere sonno. Se l’atmosfera all’interno del pullman era cambiata, fuori era andata anche peggio. La strada, completamente sterrata, avvolgeva il bus sotto una enorme coltre di polvere che si alzava al suo passaggio e rendeva a malapena visibile l’esterno. La temperatura sembrava salita ancora e anche i più accaniti avevano smesso di cantare, spossati dal caldo. Quasi tutti, pallidi e grondanti di sudore, avevano chiuso gli occhi. Qualcuno dormiva della grossa, con la testa schiacciata su quei sedili duri come la roccia e la bocca spalancata e rivolta verso l’alto. No, non era una sua impressione: c’era davvero qualcosa di diverso. Provò a osservare con attenzione l’esterno, scrutando tra i vortici e le nubi di terra rossastra. Cazzo, se è cambiato, il paesaggio… I pini erano completamente spariti. Gli alberi che spuntavano qua e là, più o meno ogni cinquanta metri, tutto potevano essere tranne che pini. Avevano un colore grigiastro e le foglie sembravano morte da un pezzo e rimaste attaccate ai rami per qualche inspiegabile mistero della natura. Carbonizzati, quella era la definizione giusta. I rami sembravano dannati dell’inferno che protendevano le loro braccia per sfuggire alla pece bollente. I buchi e le nervature al loro interno assomigliavano ad occhi sgranati di terrore o a bocche spalancate nell’atto di urlare la loro richiesta di aiuto. No, quello non poteva essere il “verde ombreggiante del Fangorosso, una immersione assoluta nella natura”. Di verde non c’era proprio niente. C’era il rosso ruggine della strada e dei piccoli monti di terra simili a giganti formicai che la costeggiavano, il grigionero degli alberi, il viola delle foglie superstiti, l’azzurro sempre più cupo del cielo. Ma di verde neanche l’ombra. E dall’interno del bus neppure un commento. Quello era il paesaggio di un altro mondo. Possibile che nessuno si fosse accorto di nulla? Si voltò verso la nonna, sempre più perplesso. «Nonna, ma secondo te è la strada giusta?» La nonna aprì a fatica gli occhi e lo guardò inebetita. «Ma che dici?» «Dico che mi sembra un posto così strano. Mi sembra…tutto sbagliato, ecco. Avete pagato 10 euro per farvi portare in questa landa desolata?» Non gli piacque il modo in cui sua nonna lo guardò. La vide contrarre gli occhi e serrare le mascelle, come attraversata da un lampo di odio. Fu solo un attimo, ma gli fece paura. Ebbe la sensazione che quel posto le stesse corrompendo la mente. E forse era così anche per gli altri. «Va be’, dicevo per dire. Se ti piace, meglio per te…» Mise le mani a coppa attorno agli occhi e le appoggiò al vetro, scoprendo che il paesaggio era peggiorato ancora. Adesso attorno era quasi tutto deserto. Anche quegli orrendi alberi si erano arresi alla calura ed erano 4 spariti. Il terreno era piano e privo di vita e gli sembrava di scorgere qua e là delle minuscole pozze di acqua dalle quali si levavano verso il cielo lunghe colonne di fumo denso e bianco. Sarà qualche veleno, qualche strano acido che sprigiona i suoi vapori. Santo Dio, ma dove siamo capitati? Il terrore gli piombò addosso come uno scroscio d'acqua gelida. Si staccò con foga dal finestrino e lanciò un urlo lacerante. Nessuno lo sentì: i passeggeri, tutti i passeggeri, stavano dormendo della grossa. Regnava un silenzio assolutamente innaturale. Solo la guida, in piedi accanto all’autista e con il mento appoggiato su una mano, lo guardava divertito. Aveva un ghigno decisamente preoccupante. O magari era più pericoloso l’autista, che continuava imperterrito a guidare come se corresse sul lungomare di Rimini. Proprio una bella coppia. «Nonna! Nonna! Svegliati! Ho visto…vabbè lasciamo perdere.» Come faceva a raccontarle che gli era sembrato di aver visto un enorme forcone nero piantato in verticale proprio a qualche metro dalla strada? E che quel forcone color piombo aveva tre punte lunghissime e minacciose? E che sulla punta di mezzo, più lunga delle altre, stava piantata la testa di un uomo, senza bulbi oculari, con le guance scavate e le labbra corrose dal tempo? Quelle vecchie comari rincoglionite lo avrebbero preso per matto, oppure lo avrebbero trattato come un bambino troppo cresciuto che giocava con la sua immaginazione. Sai che figura. Però adesso il cuore gli sbatacchiava con una furia inaudita, e non riusciva a tener ferme le mani. Altro che immaginazione, quella era paura cruda, una paura fottuta e reale. Si accorse che la guida continuava a guardarlo con quell’espressione a metà strada tra l’allucinato e il divertito, come se aspettasse una sua reazione, e improvvisamente Nico capì. Quello sapeva. «Fammi passare, nonna.» Ma sua nonna non rispose. Il suo volto si era arrossato e sotto la superficie della pelle si profilavano decine di grosse bolle. Il suo respiro era flebile, quasi impercettibile. Che diavolo stava succedendo? Nico si voltò a guardare i passeggeri delle file dietro di lui: sembravano tutti dei moribondi alla fine del viaggio. Soltanto la guida e quel maledetto autista continuavano a scoppiare di salute. Neppure una goccia di sudore, freschi come rose dentro quel forno a quattro ruote dove si toccava non meno di quaranta gradi. Eppure il sole, adesso, era meno luminoso. Il cielo era ancora azzurrissimo, ma il sole sembrava più debole, più…consumato e continuava a impallidire a mano a mano che il pullman proseguiva nel suo tragitto. Sempre più caldo ma sempre più buio, come una lampada alogena che si va gradualmente spegnendo. Doveva assolutamente parlare con quella guida. Si diresse verso la testa del pullman. «Cosa c’è, giovanotto, non ti stai divertendo? Potevi portarti un’amichetta. Non te l’hanno detto che alle gite non si va mai da soli?» «Vorrei sapere dove ci sta portando.» 5 «Dove vi sto... portando?» rispose la guida ostentando uno stupore provocatorio «Ma stai scherzando? Questo è uno dei posti più particolari al mondo! Le cose che vedrai qua dentro non le vedrai in nessun’altra parte dell’universo! Sarà un’esperienza indimenticabile…» Nico lo vide sorridere malignamente e fu invaso da una certezza: da quel pullman non sarebbe più sceso nessuno. Per lo meno, nessuno vivo. Quei due pazzi li avrebbero uccisi tutti quanti. Ancora non sapeva come e perché, ma in fondo aveva poca importanza. Posò lo sguardo oltre la guida, approfittando della visuale offerta dall’enorme vetro anteriore del bus. Aveva proprio ragione, la guida, quando affermava che avrebbero visto delle specie animali del tutto sconosciute. Quegli uccellacci neri che facevano gruppo lungo la strada, ad esempio, non li ricordava in alcun angolo della sua memoria. Erano più di un centinaio. Avevano una vaga somiglianza con gli avvoltoi, ma il paragone non avrebbe mai reso l’idea. Perché sembravano molto più forti e più crudeli. Non saltellavano sulle zampe, ma camminavano con arroganza e piena consapevolezza della propria forza. Ed erano infinitamente più voraci. I pezzi di cadaveri umani che tenevano tra i loro becchi erano più grandi dei loro corpi. Coppie di braccia, gambe, perfino qualche busto intero. Ne vide uno aprire quel becco smisurato e uncinato ed ingoiare in un solo boccone un braccio con una spalla attaccata. Ormai il paesaggio gli si presentava nella sua versione autentica, senza stupidi infingimenti. Quello era il paese della morte. Adesso le piccole pozze avevano lasciato il posto a veri e propri laghetti, di un rosso che non dava possibilità di equivoci. Quelle esalazioni dense e corpose producevano un fetore nauseante che quel maledetto condizionatore sparava con forza dentro al pullman. Era quasi buio, ormai. Con il passare dei chilometri si affacciavano agli occhi del ragazzo le creature più strane e terrificanti che una fantasia malata potesse produrre. Ma era quel buio innaturale a spaventarlo di più. Se gli avessero chiesto di provare a immaginare la fine del mondo, quello sarebbe stato un ottimo punto di partenza. «Tieni duro, siamo quasi arrivati a destinazione» gli disse la guida strizzando l’occhio. Nico non trovò neppure la forza di sillabare una qualunque risposta. «Dai, torna a sederti. Dammi retta. Stai tranquillo e comportati normalmente. Questo è il segreto: comportati normalmente. Mi sono spiegato? Ti prometto che farò tutto quello che posso. Ma solo per te, non chiedermelo per nessun altro. Siamo d’accordo? Più di questo non posso darti davvero. Altrimenti lo farei, ma ti ho promesso già troppo e non so neanche se lo potrò mantenere…» I suoi occhi erano due fiamme ardenti. In realtà gli stava cortesemente ordinando di sedersi. Fece un movimento con la testa per incoraggiare il 6 ragazzo e Nico e concluse che in fondo non aveva molte alternative: fuori da lì, se non ci avessero pensato quelle bestie orrende, sarebbe bastato il caldo a farlo secco in poche ore. Dunque tornò al suo posto a testa bassa, senza neppure azzardarsi a guardare gli altri passeggeri. Sapeva già cosa avrebbe visto. No, non ci credo. Non può finire così. E’ la cosa più assurda che abbia sentito in vita mia. Il pullman cominciò a rallentare gradualmente. Nico appoggiò la tempia al finestrino, si fece coraggio e osservò nuovamente l’esterno. La montagna che gli si profilava di fronte era altissima, al punto che le sue vette si perdevano tra le nubi dense e scure che le stavano attorno. Sembrava roccia fusa. Le pareti erano svasate e composte da blocchi di materiale squagliato e colato verso il basso finché il raffreddamento ne aveva fermato la caduta. Era arida e desolata. Carbonizzata, esattamente come quegli orrendi alberi. Alla base della montagna c’era uno strano buco, talmente nero che sembrava dipinto sulla roccia anziché reale. Proprio da lì vide uscire quell’uomo. Era alto almeno due metri e talmente magro da assomigliare a una canna al vento. Completamente vestito di nero, indossava un lungo maglione che gli copriva il collo e gli scendeva fino alle cosce, pantaloni neri, strettissimi, due scarpe nere a punta dotate di speroni scintillanti e, immaginava Nico, risuonanti di un clangore simile a quello di un serpente a sonagli. Aveva i capelli biondo cenere pettinati indietro e due baffetti che gli conferivano un ghigno malefico. Si avviò verso il pullman con un passo lento e minaccioso, proprio come un cobra che studia la sua preda e attende il momento giusto, e Nico desiderò febbrilmente di essere in qualunque altro posto del mondo, fossero anche le prigioni sotterranee del paese più sperduto del pianeta. Il pullman si arrestò. Per qualche secondo il tempo sembrò fermarsi, poi gli sportelli sibilarono di colpo e si aprirono. Nico vide la guida scendere velocemente e avviarsi verso quell’uomo con un’andatura esitante, quasi paurosa, e un fare decisamente servile. Quando fu nei presso dell’uomo accennò un inchino, poi allungò il braccio verso il bus, come per presentare la sua merce. Parlò ancora qualche istante, poi tacque in attesa di una risposta. L’uomo scosse la testa in segno di diniego. Categorico. Definitivo. E Nico ebbe paura. Ebbe l’impressione che quella discussione, almeno in parte, riguardasse proprio lui. Ma l’uomo non voleva saperne. La guida gli si rivolgeva in maniera sempre più supplichevole. Ma era difficile riuscire a vedere meglio cosa stesse succedendo: il buio, ormai, era quasi padrone della zona. Nico posò allora gli occhi sull’autista: la sua tranquillità era inquietante; come poteva non essere preoccupato da quanto stava succedendo? Decise di andare a parlargli. Si alzò lentamente dal suo seggiolino e con la mano spostò lateralmente le gambe della 7 nonna. Poi si avviò guardingo verso l’autista, attento a non farsi sentire. Era quasi arrivato a lui quando lo vide premere un bottone e sentì le porte aprirsi nuovamente. Fu tutto veloce come un lampo. La guida schizzò dentro il bus con un salto e lo afferrò per un braccio tirandolo verso l’uscita. «Vieni con me, svelto.» «Lasciami! Dove mi porti! Lasciami! Non voglio! Lasciamiiiiiii!» «Stai zitto e sbrigati. Muoviti, prima che quello ci ripensi…» Nico cercava di liberarsi ma la stretta della guida era una morsa d’acciaio. Lo agguantò con un braccio attorno al collo e lo trascinò di peso giù dal pullman: i tacchi del ragazzo picchiarono violentemente sui tre gradini del bus, poi cominciarono a disegnare sulla terra rossastra due lunghe strisce ondulate che si affiancavano alle orme della guida. Le porte si chiusero nuovamente e il bus cominciò a muoversi. Sua nonna e tutti gli altri erano rimasti dentro. «Fermati, pazzo di un autista maledetto! Fermatiiiii!» «Vuoi startene zitto, per favore? Vuoi farlo incazzare sul serio?» La guida parlava sottovoce e non riusciva a nascondere la sua irritazione e la sua paura. L’uomo vestito di nero cominciò a indietreggiare, tenendo gli occhi su di loro, mentre pronunciava al vento frasi incomprensibili e sconnesse. Continuò a parlare, alzando sempre di più la voce fino a emettere veri e propri urli. Indietreggiava lentamente e continuava a osservare quel ragazzino che si allontanava. Nico lesse sul suo volto cattivo un desiderio morboso che si andava facendo pericolosamente irrefrenabile. Quegli occhi lo ammutolirono, più potenti del veleno di uno scorpione. Il pullman avanzò ancora e sprofondò dentro quel buco come se affogasse nelle sabbie mobili, venendone risucchiato rapidamente. A quel punto l’uomo alzò un braccio, lanciò un ordine perentorio e la sabbia cominciò ad sollevarsi in altissimi mulinelli i cui vortici producevano un fischio assordante. «Nonna! Nonna!» «Per lei non c'è più niente da fare» gli gridò la guida «smettila di agitarti. Tra poco ce ne andiamo. Spero...» Strinse Nico con forza tra le sue braccia per tenerlo fermo. I vortici si alzarono al cielo altissimi, fino a sparire dalla vista. Poi il buio assorbì ogni altra cosa. * Sul monitor alla sua sinistra un puntino verde brillava ogni due secondi, lasciando sullo schermo un segno simile a una virgola. Alla sua destra, una donna stava affacciata alla finestra. Nico la sentì singhiozzare. «Mamma…» La donna si voltò repentinamente, gli occhi sbarrati dalla paura. Stava tremando come una foglia. 8 «Nico! Nico, ce l’hai fatta! Almeno tu ce l’hai fatta…» Gli strinse il viso tra le mani e scoppiò a piangere. Non riusciva a smettere, neppure per riprendere fiato. Piangeva, gli stringeva le mani, il viso, lo accarezzava, poi riprendeva a piangere. «Nico, tesoro mio. Quanto mi dispiace. Quanto mi dispiace…» Si alzò e uscì di corsa dalla stanza. Nico la sentì urlare di felicità lungo il corridoio. * «A parte le fratture alle gambe, mi sembra tutto a posto. Adesso gli facciamo gli accertamenti di routine, ma direi che possiamo stare tranquilli, credo che il peggio sia passato. Dopo gli esami potremo ufficialmente dichiararlo fuori pericolo». Il medico appoggiò lo stetoscopio attorno al collo e sorrise soddisfatto. «Sono contento per voi, signori. Adesso vi lascio soli con vostro figlio». Uscì rapidamente dalla stanza. I genitori di Nico si abbracciarono in una morsa liberatoria. Erano pallidi e stanchissimi, molto dimagriti rispetto a come li ricordava. «Volete dirmi cosa è successo, per favore?» Il padre si sedette su una porzione del letto e cercò di trovare le parole giuste. «C’è stato un… incidente. Il pullman è entrato nella pineta del Fangorosso e ha imboccato per errore una stradina laterale che terminava in una scarpata. E’ andato giù di schianto, si è fatto cento metri di volo e si è accartocciato al suolo. Sembravano tutti morti. Ci sono volute trentanove ore per estrarre i corpi: il tuo era incastrato dentro la cabina del bagno, che ti ha protetto e ti ha salvato la vita. Sei stato in coma e hai diverse fratture alle gambe. Gli altri sono morti tutti. Tutti, compresa la nonna». Suo padre aveva le lacrime agli occhi e il groppo in gola. Fece un respiro profondo e riprese a parlare. Ma Nico aveva bisogno di sapere una cosa essenziale. Sentì il suo cuore cominciare a martellare come un fabbro. «Sei stato in coma cinque giorni. Poi, stamani…» «L’autista. Hanno trovato l’autista? » Il padre aggrottò le sopracciglia e lo guardò. Era chiaramente sorpreso dalla domanda. «No, non lo hanno trovato. All’appello mancano due corpi: il suo e quello…» (della guida, scommetto…) «…della guida della gita. Li hanno cercati per giorni e non ne hanno trovato traccia. Sono accusati di strage colposa, credo abbiano addirittura emesso un mandato di cattura. Prima o poi li troveranno…» 9 Mai. Non li troveranno mai. Perché loro non sono… «Adesso cerca di riposare. Devi solo pensare a guarire. Niente altro che questo. Non mi perdonerò mai di averti mandato a morire in quel bus. Lassù qualcuno ci ha voluto bene, Nico». Si alzò dal letto di scatto e abbracciò sua moglie. «Andiamo, dai. Lasciamolo riposare». La porta si chiuse e Nico rimase solo nella stanza. Si guardò attorno, poi osservò lo spicchio di cielo che si vedeva dalla finestra. Era di una bellezza ineguagliabile e rimase incantato a guardarlo per un po’ di tempo. Era stato tutto così reale che ancora gli sembrava di sentire quel fetore nauseabondo tra le narici. Fino a qualche ora prima (per lui era passata solo qualche ora) era sicuro che non avrebbe mai più rivisto quel mondo e le sue bellezze. Era stato tutto così reale… «Ha proprio ragione, tuo padre: qualcuno ti ha voluto bene. Ma non lassù, come dice lui. Semmai, laggiù…» Nico si voltò di scatto verso l’angolo della stanza che stava dietro al monitor. Ma aveva riconosciuto la voce alla prima sillaba, anche se adesso era un po’ più affilata. Un po’ meno…umana. La guida, con le braccia conserte e la schiena appoggiata all’angolo, lo guardava con la sua solita espressione divertita. Poi gli sorrise. «E’ stata una trattativa estenuante. Quello stronzo odia fare sconti. Figurati, me ne concede un paio al secolo. Ho dovuto impegnarmi come non facevo da millenni. Non ci voleva sentire, quel bastardo. Ah, non lo so: dev’essere il lavoro che fa, a renderlo così carogna». La virgola sul monitor sembrava impazzita. Nico voleva gridare ma la sua bocca era paralizzata. Non riusciva neppure ad aprirla. «Comunque, alla fine tu ce l’hai fatta, e io ho mantenuto la mia promessa. Mi eri simpatico e mi sono sbilanciato con te, anche se ho contravvenuto alle nostre leggi e l’ho fatto incazzare di brutto. Non hai idea di come possa diventare quando si imbestialisce. Quello che hai visto tu era un’inezia, credimi. Ma che vuoi, ogni tanto bisogna pur rischiare, dico bene?» Nico era senza respiro. Il terrore lo attanagliava come una pressa e gli stringeva la cassa toracica. Era di nuovo sicuro di morire. «Adesso devo lasciarti. Ho il mio lavoro, io. Quando ci rivedremo non ci saranno sconti, questo lo sai, vero? Quando rivedrai questa faccia capirai di essere di nuovo sul traghetto. Ma stavolta non potrò farti scendere. Mi sono spiegato? Hai avuto già troppo, dovrai accontentarti. Ma stai tranquillo, accadrà tra molti anni. Perciò la prossima volta, per favore, comportati normalmente». Il monitor prese a fischiare e a lampeggiare. Qualche secondo più tardi un’infermiera entrò di corsa nella stanza. I genitori di Nico arrivarono subito dopo, spaventati e confusi, ma l’infermiera li tranquillizzò: 10 «E’ tutto a posto, signori. State tranquilli. Il battito è regolare. Ogni tanto succede, con queste macchine». Nico cercò di mascherare alla meglio il suo terrore. «Sì, è tutto a posto. Deve esserci qualche guasto, io mi sento bene. E’ stato un…falso allarme». Quando tutti ebbero lasciato la stanza tornò a guardare l’angolo dietro il monitor, ma naturalmente non c’era più nessuno. Ripensò alle parole della guida sull’autobus: “Le cose che vedrai qua dentro non le vedrai in nessun’altra parte dell’universo! Sarà un’esperienza indimenticabile…”. Proprio così, un’esperienza davvero indimenticabile. Perché non c’era dubbio che era stato tutto vero. Si guardò il braccio: i lividi provocati dalla stretta feroce della guida erano ancora lì, un po’ giallastri, a ricordargli come gli aveva salvato la vita. E nessuno lo avrebbe convinto che erano stati causati dai colpi presi durante la caduta del bus. Un’esperienza terribile e unica. E da tenere per sé fino al giorno in cui, improvvisamente, si sarebbe di nuovo trovato di fronte a quella faccia, a quella fottuta espressione beffarda e avrebbe potuto prepararsi, a differenza di ogni altro uomo sulla terra, a compiere l’ultima traversata della sua vita. A soli dieci euro tutto compreso, s’intende. fabriziofondi.weebly.com 11