PANORAMA INTERNAZIONALE
La sfida delle
donne kamikaze
Dott.ssa Carla Selvestrel
Cap. (sanivet) Ris. Sel.
M
olto si è detto e scritto su un fenomeno
che, soprattutto per la cultura occidentale, rimane inspiegabile, quello dei
kamikaze, nel tentativo di incasellare tale fenomeno nella categoria della causalità andando a cercare
l’origine dell’attentato suicida ora nel fanatismo
religioso, ora nel nazionalismo. Addirittura qualcuno ha tentato di ricondurre il tutto ad un mancato
o alterato sviluppo cerebrale in un’ottica psico-biologica.
E se l’azione distruttiva del kamikaze è già di per
sé difficile da motivare, tanto più lo diventa quando l’attentatore è di sesso femminile. Quando colei
che sarebbe preposta a dare la vita diventa una
macchina di morte scagliata, come la cronaca
recente ci informa, anche contro i bambini verso i
quali, almeno così la nostra cultura ci ha da sempre
insegnato, la donna dovrebbe nutrire un naturale
istinto di protezione.
Eppure il fenomeno delle donne kamikaze è in
rapida espansione.
Hamas e Jihad, le due formazioni islamiche,
proibiscono alle donne di accedere all’Intifada,
veto peraltro ignorato dalle truppe di al-Aqsa.
Lo sceicco Yassin avanzava perplessità sull’uso
delle donne nella jihad anche se, in realtà, non esi-
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ste alcuna fatwa che proibisca espressamente ad
una donna di immolarsi.
La scelta di shahida (martire per Allah) donne
sembra incontrare il favore dell’opinione pubblica:
un sondaggio condotto a Nablus ha rivelato che
oltre il 60% degli intervistati la approva.
Si potrebbe a questo punto pensare che l’adesione ad una cultura del martirio e del sacrificio
umano nasca in un ambiente di profonda ignoranza. Non è così: nei campus universitari di Gerusalemme studentesse colte e di ottima famiglia affermano di essere pronte a morire e orgogliose di
coloro che già lo hanno fatto.
Per piegare – e per plagiare - in questo modo la
volontà di donne e uomini colti in favore del terrorismo suicida vengono utilizzate svariate forme
di propaganda le quali danno alle missioni suicide
un valore di affrancamento dalla ghettizzazione cui
sono da sempre relegate le donne nella mentalità
islamica. E’ così che le donne kamikaze diventano
icone di un movimento sociale di matrice quasi
“femminista”.
Nei territori palestinesi, ad esempio, vengono
diffusi opuscoli con l’obiettivo di arruolare le suicide, vengono organizzate riunioni, vengono fatte
circolare testimonianze ad hoc che raccontano di
La sfida delle donne Kamikaze
come le suicide dell’Intifada non fossero affatto
ignoranti o sfortunate, ma donne colte e di buona
famiglia.
È così che ragazze appena adolescenti si dichiarano pronte a morire ed approvate in pieno, in
quello che a noi appare come un desiderio delirante, dalla famiglia.
Affermano di saper maneggiare lanciagranate,
di avere dimestichezza con gli esplosivi e che questi erano i loro sogni di bambine.
Nel Corano al martire maschio si promettono
settantadue splendide vergini in paradiso, la
shahida donna avrà come premio di diventare la
responsabile delle settantadue vergini, la più
bella tra loro.
Le cronache sulle prime donne kamikaze in
Medio Oriente risalgono al 4 aprile 1985.
La prima è la diciassettenne libanese Saana
Muhaidily che si fa saltare in aria gettandosi con la
sua Peugeot bianca contro un posto di blocco israeliano a Batr Shaouf uccidendo due soldati e ferendone altri due. Prima di morire, secondo un tragico rituale divenuto ormai classico, la ragazza aveva
registrato un videomessaggio in cui si dichiarava
pronta a morire per cacciare gli Israeliani dal Libano.
Fino a questo momento le donne, per motivi di
ordine religioso e sociale, erano escluse da azioni di
questo genere.
È Saana a cambiare l’ordine delle cose. Il suo
gesto viene interpretato come un monito alla
coscienza di milioni di uomini arabi. Diventa un’icona popolare per tutto il Medio-Oriente negli
anni ottanta, riceve pubbliche lodi dal presidente
siriano Assad, le vengono dedicate poesie e preghiere.
Ma soprattutto si scatena un pericoloso spirito
di emulazione.
Il 9 luglio dello stesso anno un’altra donna sempre al volante di una vettura imbottita di esplosivo
si lancia contro un posto di blocco a Ras Bayada
nel Libano meridionale uccidendo due soldati.
Il 27 gennaio 2002 Wafa Idris, infermiera ventottenne, arriva a Gerusalemme probabilmente a
bordo di un’ambulanza della Mezzaluna Rossa.
Entra in un negozio di calzature per chiedere il
prezzo di un paio di scarpe. Una volta uscita si
incammina lungo via Jaffa.
Alle 12.20 i dieci chili di esplosivo che Wafa
porta nella borsa esplodono uccidendo un’anziana
guida turistica e ferendo decine di civili.
Ai soccorritori si presenta un macabro spettacolo: sull’asfalto una testa dai lunghi capelli neri. L’attentatore è una donna.
La Idris diventa una vera e propria eroina per
l’opinione pubblica palestinese: dall’inizio della
seconda Intifada nessuna donna si era ancora
immolata. Questo primato vale a Wafa paragoni
illustri: moderna Giovanna d’Arco, accostata talvolta addirittura alla Vergine Maria e a Gesù.
La vita di Wafa scatena la fantasia popolare:
orfana di padre, allevata dal fratello, ripudiata dal
marito in quanto sterile.
Al di là delle suggestioni, la vicenda di Wafa
lascia ancora qualche dubbio: è stato impossibile
stabilire se fosse sua volontà morire o se la sua tragica fine fosse determinata da un innesco anzitempo che non le aveva lasciato scampo.
Come accaduto per Saana, il gesto di Wafa
viene imitato da altre ragazze.
Un tentativo maldestro quello di Moura Shaloub che si lancia contro un posto di blocco israeliano di Tulkasem in Cisgiordania armata solo di
un coltello da cucina. Morirà crivellata dalle pallottole.
Moura è una ragazza cristiana, circostanza che
conferma che il kamikaze femminile non trova
ispirazione religiosa islamica, quanto piuttosto
nasce dall’incapacità totale di trovare una soluzione alla loro vita: l’ultimo e l’unico mezzo per orientare la propria vita è quello di finirla oppure utilizzarla in qualcosa di meglio di stare in attesa per la
lenta fine.
Il 27 febbraio 2002 si fa saltare in aria ad un
posto di blocco nei pressi di Maccabim la ventunenne Darin Abu Aishe, studentessa. Darin studiava inglese all’università Al-Najah di Nablus, una
vera e propria base di reclutamento di terroristi dal
momento che il consiglio studentesco è controllato da Hamas.
Il suo ultimo messaggio, registrato su videocassetta, è un messaggio di odio nei confronti di Ariel
Sharon.
Il 12 aprile è Andaleeh Takatka a farsi esplodere
alla fermata dell’autobus 6, nei pressi di un mercato nella tristemente famosa via Jaffa.
Il 4 ottobre la morte arriva anche sul lungomare di Haifa, è l’avvocato Hamady Tayer Jaradat a
portarla. Le avevano ucciso il fratello. Cercava vendetta.
La prima donna-bomba degli islamisti di
Hamas si chiama Reem al-Reyashi. Reem era la
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La sfida delle donne Kamikaze
giovane mamma di due bambini di tre ed un anno.
Il videomessagio che lascia è una dichiarazione d’amore per loro.
Reem ha ucciso quattro israeliani al valico di
Erez presso una palazzina adibita al controllo dei
manovali che si recano a lavorare in Israele. Giunta davanti al metal detector ha spiegato di avere una
placca metallica nel ginocchio, riuscendo così ad
entrare nella stanza dove si trovavano i militari
senza destare sospetto. E qui ha azionato il meccanismo di esplosione.
Non tutti gli attentati programmati sono stati
portati a termine.
Obeida abu Aisha voleva a tutti i costi diventare una martire, come suo fratello e come due cugini.
Per Obeida, però, non è stato possibile arrivare
fino alla fine.
Obeida è stata arrestata nel giugno 2002, prima
di mettere a segno il suo piano di morte, probabilmente denunciata da qualcuno che conosceva la
sua determinazione. È stata condannata ad una
detenzione di cinque anni.
Nella stessa sezione del penitenziario di Ha Sharon dove Obeida sconta i suoi cinque anni ci sono
37 donne, tutte incriminate per terrorismo, tre di
loro aspiranti kamikaze.
Fin qui la cronistoria di un fenomeno che scuote violentemente le nostre coscienze evocando il
fantasma dell’inspiegabilità dell’esistenza di persone per le quali la lotta per un ideale è più importante della vita stessa nonché dell’esistenza di una
religione che sdogana il suicidio dall’aura di tabù a
cui il cristianesimo l’ha relegato.
Paradossalmente il confronto con uomini e
donne disposti all’estremo sacrificio ci pone di
fronte ad una realtà culturale che attribuisce più
valore alla morte che alla vita, che porta alle estreme conseguenze il confronto tra la pochezza della
vita terrena e la grandezza della vita eterna.
Non è più Dio che decide del tempo della vita
e di quello della morte, è l’uomo che stabilisce
quando donare la vita sua e di altri alla divinità
sfuggendo in questo modo ad ogni controllo esercitato dalla legge o dalla religione stessa.
Il valore propagandistico che assume l’atto del
kamikaze è assolutamente impareggiabile.
È un messaggio al proprio popolo: la causa per
cui si combatte è più forte di tutto, anche della
propria vita. È un messaggio, ancora più forte e
drammatico, agli altri popoli: noi arriviamo a quel-
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lo che per voi è il valore fondamentale, l’esistenza.
E, a ben vedere, tale messaggio è ancora più
impressionante e simbolico quando a portarlo è
una donna, colei che crea, che alleva, che protegge.
Come precedentemente ricordato, la morte è
arrivata in centri commerciali, strade centrali, mercati, celata dentro borsette o occultata sotto le vesti
a simulare una gravidanza. A portare la morte una
donna, attraverso quelli che sono i simboli della
femminilità: il vezzo della borsetta, la dolcezza di
una prossima maternità.
Le donne vengono perquisite meno degli uomini. Il pregiudizio, valido a quanto sembra a livello
transculturale, della non-aggressività femminile fa sì
che da una donna non ci si aspettino atti crudeli e
distruttivi.
Questo è uno dei motivi che concorre a fare dell’attentato suicida un fenomeno assolutamente
imprevedibile.
Questa imprevedibilità ha portato molti psicologi ad interrogarsi sulle forme di reclutamento
degli attentatori suicidi.
Tali tentativi sono pervenuti a conclusioni come
la programmazione mentale, ossia una sorta di
lavaggio del cervello che passerebbe attraverso processi di deindividuazione aiutati dalla privazione di
cibo, dalla somministrazione di droghe, dall’induzione di stati d’animo come la paura e il senso di
colpa.
Va rilevato, a questo punto, che tali interpretazioni si collocano in un’ottica squisitamente occidentale e pertanto profondamente individualistica
che prescinde dal contesto ambientale in cui il
fenomeno del kamikaze nasce.
Ricostruendo le vicende umane dei giovani
martiri ed analizzando il contenuto del loro testamento spirituale consegnato spesso, come già
detto, ad una videocassetta, spicca il valore di utilità sociale che attribuiscono al loro atto.
Come opportunamente osservato dal ricercatore francese Scott Atran, ciò che determina una rottura forte tra l’Occidente e le società asiatiche,
arabe ed africane è che il criterio con cui si compie
una scelta sembra legato a valori più comunitari
che individuali.
Questa etica riesce più facilmente a trasformare la sofferenza e il sopruso personale in sofferenza e sopruso collettivo e, in ultima istanza, il
sacrificio personale in sacrificio per il bene
comune. L’atto suicida diventa così facilmente
atto eroico.
La sfida delle donne Kamikaze
Più debole è un individuo, più il martirio lo eleverà. E questo concetto è particolarmente appropriato nella spiegazione del comportamento della
donna kamikaze. Diventerà un idolo, un eroe
popolare capace di incutere timore con il suo solo
nome. Non sarà dimenticata e servirà da esempio
per altre donne come lei.
Per capire ulteriormente il fenomeno dei
kamikaze ed il ruolo della donna nella società islamica è opportuno calarsi in una cultura profondamente a contatto con la morte, una sorta di cultura della morte.
Pare che una delle massime gratificazioni per
una donna islamica sia diventare madre di uno
shahid.
A tale obiettivo si giunge attraverso una complessa formazione pedagogica nella quale la donna
gioca un ruolo di primaria importanza. Deve insegnare ai figli a nutrire un profondo odio verso il
nemico attraverso il gioco, la somministrazioni di
video ed altro materiale inneggiante all’Islam. Una
volta compiuto il massimo sacrificio, quello della
vita del figlio, saranno le donne della famiglia ad
organizzare cerimonie funebri dove non verseranno nemmeno una lacrima. La donna che piange al
funerale di un martire è una vergogna agli occhi di
Allah.
Dovrà invece offrire dolci e confetti per ringraziare la bontà di Allah. Sono circolati video di
madri che si auguravano il martirio dei figli.
In una cultura in cui i valori sono improntati
più alla collettività che all’individualismo, una
madre sa che i figli non sono suoi ed è pronta a
perderli per il bene comune.
Va a questo punto considerato che le stesse
regole pedagogiche destinate ai figli maschi formino anche le figlie femmine creando in esse la mentalità del sacrificio.
Ogni donna ed ogni uomo palestinese è prima
di tutto soldato, combattente.
Un Hassan, definita da più parti come
“madre” delle donne kamikaze per l’impianto
teorico che ha saputo costruire attorno a questo
fenomeno, sostiene che l’incapacità degli israeliani di dare una risposta al fenomeno delle donne
suicide ha aumentato la loro frustrazione. E questo viene vissuto come un primo successo che,
presumibilmente porterà ad ulteriori recrudescenze dell’Intifada.
Il fenomeno delle guerriere suicide non è limitato al conflitto tra israeliani e palestinesi.
Cecenia, Sri Lanka e Kurdistan sono altri teatri
di morte anche se meno citati nelle cronache.
In Cecenia le due parti in conflitto sono l’esercito russo, che si è reso colpevole di atrocità di ogni
genere nei confronti della popolazione cecena, e gli
estremisti islamici, che si avvalgono di un esercito
di kamikaze.
Il motivo di fondo di questa guerra sanguinosa
è il petrolio, ossia il controllo dell’oleodotto che
attraversa la regione.
Il wahabismo, corrente islamica integralista di
matrice sunnita, arriva in Cecenia nei primi anni
novanta insieme ai finanziamento di Osama Bin
Laden.
Della causa cecena non si è parlato molto fino
alla sera del 23 ottobre 2002, data della tragica
presa del teatro Dubrovka, a Mosca ad opera di un
commando ceceno che si definiva smertniki (“squadra di morte suicida”). Si tratta di un commando
composto anche da donne, sei per l’esattezza:
Aishat, Amnat, Sekilat, Mariam, Rajana ed Arimani. Alcune di loro erano incinte. Tutte avevano alle
spalle storie di famiglie decimate dai russi.
È così che il mondo prende consapevolezza dell’esistenza di quelle che sono state denominate
“vedove nere”.
Si susseguono gli attentati.
È il 12 maggio 2003 quando esplode un veicolo, un kamaz, presso il palazzo che ospita l’amministrazione ed i servizi segreti a Znamnenskoye. A
bordo quattro persone tra cui una donna.
Due giorni dopo, in occasione della visita di
Powell a Putin, due donne si fanno esplodere
durante una funzione religiosa nei pressi della tribuna dove si trova il presidente Kadirov. Kadirov,
reale obiettivo dell’attentato, rimane illeso ma
muoiono una trentina di persone.
Il 5 giugno dello stesso anno una donna si fa
esplodere ad un passaggio a livello uccidendo quattordici persone, per lo più impiegate della base di
Mozdok nell’Ossezia del Nord.
Diciotto morti, tra cui le due giovanissime
kamikaze, sono il bilancio dell’attentato compiuto
nell’aerodromo di Tushino dove si stava svolgendo
un famoso festival di musica rock. Nella cintura
che le ragazze portavano in vita 500 grammi di
esplosivo TNT e frammenti metallici per rendere
gli effetti della deflagrazione ancora più distruttivi.
Ma nel settembre del 2004 viene scritta una
delle pagine più tragiche della storia della guerriglia
cecena.
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La sfida delle donne Kamikaze
L’8 settembre, durante la cerimonia di apertura
del nuovo anno scolastico, studenti, genitori ed
insegnanti della scuola di Beslan, nell’Ossezia del
Nord, vengono sequestrati da un commando di
terroristi ceceni, tra cui molte donne. Ed è tragedia: i terroristi promettono l’uccisione di cinquanta bambini per ogni componente del commando
ucciso e di venti per ogni ferito. Non si conosce il
bilancio definitivo, ma si parla di più di trecento
vittime.
In comune con la causa palestinese, si può individuare in Cecenia innanzitutto l’effetto di una
religiosità incomprensibile agli occhi dell’Occidente, capace di forgiare giovani pronti a morire per
vendetta.
Le testimonianze che arrivano da questa terra
tormentata parlano di torture, sparizioni, stupri
compiuti da parte di soldati russi e dei mercenari.
Pare che proprio lo stupro costituisca una buona
motivazione per l’azione delle donne kamikaze
cecene.
Ci troviamo in una cultura che enfatizza il valore della verginità e della purezza, nel senso di noncontaminazione.
Lo stupro rappresenta allora l’estrema perdita
della purezza, la contaminazione da parte dell’estraneo.
Il corpo violato ed offeso della donna non ha
più alcun tipo di valore sociale. L’unico modo per
vendicare la violenza subita e, in un certo senso,
per purificarsi, è morire trascinando con sé il nemico, colpendolo negli affetti. Allora vengono colpiti
i bambini, le donne, gli ignari spettatori a teatro. A
spingere queste donne alla missione suicida non è,
a ben vedere, solo l’odio e non è solo il fondamentalismo religioso.
A forgiare la loro etica della scelta, anche della
scelta estrema, è una sorta di codice d’onore che,
una volta violato, decide della vita e della morte
sociale.
In un clima culturale di questo tipo è facile pensare che l’emarginazione sociale ed il desiderio di
riscossa da questo punto di vista costituiscano
importanti fattori motivanti per queste donne.
L’emancipazione sociale può essere invece la
motivazione che spinge la donna a prendere parte
ad uno dei più sanguinosi conflitti interetnici in
atto: quello che vede fronteggiarsi in Sri Lanka la
maggioranza cingalese buddista e i tamil indù.
Quello delle tigri tamil è il movimento che si è
macchiato del maggior numero di attentati suicidi:
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centosessantotto tra il 1980 ed il 2000.
Almeno un terzo delle circa diecimila tigri è
costituito da donne, per la maggior parte minorenni. Grande enfasi viene data all’emancipazione femminile: dal 1984 reparti femminili partecipano agli scontri con l’esercito dello Sri Lanka,
dal 1987 è attivo un campo di addestramento
riservato alle donne nell’isola di Jaffa, nel 1990 il
comando di una intera guerriglia è stato affidato
ad una donna.
In questo ambito, l’attentato che ha suscitato
maggiore impressione è stato quello ai danni di
Rajiv Gandhi, Presidente del Congresso e Capo
del Governo, estremo oppositore dell’indipendenza dei tamil.
Nel maggio 2001, Malli Dahew, durante un
comizio elettorale, dopo aver omaggiato Rajiv di
una ghirlanda di legno di sandalo, attiva la
bomba che porta con sé. È una strage.
E sempre la gratificazione dell’emancipazione
femminile viene utilizzata per reclutare donne dal
Partito dei lavoratori curdi (PKK).
In Kurdistan la mentalità è estremamente conservatrice. La donna vive subordinata all’uomo:
viene venduta al marito e vive segregata in casa. Il
PKK nasce proprio dal malcontento femminile per
il reclutamento delle donne, descrivendo la guerriglia come riscatto della loro condizione.
È così che dei quindici attentati kamikaze messi
a segno dal PKK, undici sono stati compiuti da
donne.
La panoramica tracciata restituisce un’immagine forse meno stereotipica della kamikaze,
meno focalizzata sugli effetti, se pur tragici, del
suo atto estremo e più interessata a restituire
questo fenomeno al suo proprio retroterra culturale.
Si è partiti, infatti, da una descrizione dei fatti
cercando poi di ricostruire gli antefatti, consapevoli che l’occhio occidentale falsa la visione e la corretta interpretazione di fenomeni come quello dei
kamikaze che all’Occidente, inteso come ambiente
culturale, non appartengono.
Si delinea così un’immagine delle donne
kamikaze ancora più complessa e, forse, ancora
meno comprensibile per chi non vive in prima
persona in scenari di conflitto continuo, di prevaricazione, di frustrazione ma anche di orgoglio. Un orgoglio personale capace di fondersi,
attraverso un bagno di sangue, con l’orgoglio
nazionale.
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donne kamikaze - Ministero della Difesa