Gilberto Furlani
“A proposito delle Putride Maligne Epidemiche Febbri regnanti a quei tempi
nella rustica contrada di Dosolo e in quei villici…”
Introduzione.
Sono entrato in quel polveroso archivio parrocchiale per cercare alcuni documenti e ne ho trovato altri.
Sono cose che accadono.
Poiché questi ultimi hanno assorbito tutta la mia attenzione, non mi sono dato la briga di reperire i primi,
sicchè non so dire quali dei due fossero i più interessanti.
Ma tant’è.
Il fascicolo di cui si tratta, ha la pretesa di essere una pubblicazione medico-scientifica in un’epoca in cui la
scienza non c’era e la medicina era un’arte, un esercizio di dialettica e filosofia.
Si potrebbe dire il crepuscolo di quell’arte, perché si tratta degli anni in cui iniziò l’epoca illuministica e con
essa la scienza così come oggi la intendiamo.
A scrivere il libro è il Molto Eccellente Protofisico di Mantova, una specie di via di mezzo tra un primario
medico e il presidente dell’Ordine, probabilmente tutte due le cose insieme.
L’interlocutore è invece un medico di campagna e neppure dei più in vista, considerata la povertà della
condotta che gli è stata assegnata: Dosolo. Un povero medico carico di lavoro, di pensieri e di figli.
Il primo è saccente, paternalista e molto sicuro di sé, gonfio di quella sicurezza che solo l’ignoranza e la
lontananza dalla sofferenza possono dare: pur non sapendo nulla della malattia che angustia i poveri villici di
Dosolo, il Molto Eccellente Protofisico non rinuncia a dispensare consigli, con la pretesa che vengano
“religiosamente osservati”.
Il povero medico di campagna è un soldato in trincea, non conosce la malattia che si trova a dover curare,
(come non la conosce il Protofisico) ma si industria a sperimentare il metodo che gli viene proposto con
spirito di osservazione, giudizio e prudenza.
Egli è affranto dalla sproporzione tra l’entità della sofferenza a cui dovrebbe dar sollievo e l’inconsistenza dei
mezzi di cui dispone.
Tutto il libretto si fonda sul confronto tra questi due personaggi.
Sullo sfondo i poveri villici del paese, una presenza che si concretizza solo nelle parole del medico condotto,
figure che a tratti prendono corpo in maniera nitida: situazioni tristi, penosissime e spesso funeste, sempre
tratteggiate con riservato pudore, con pietosa partecipazione.
Il povero medico di campagna si scontra con la povertà, la malattia e l’estrema penuria di mezzi ma ne esce
bene.
Si scontra con la scienza di allora e ne esce deluso, d’altra parte, da quella “scienza” non poteva che
ottenere delusioni.
Oggi, di queste faccende sorridiamo, riteniamo di vivere tempi diversi, ma la mia opinione è che questo è
vero solo in parte, perché quando i medici antepongono gli interessi della medicina a quelli dei malati
continuano ad uscirne male.
E la gente peggio.
La storia.
A quei tempi ogni Comunità provvedeva a dotarsi direttamente di un “dottor fisico” attingendo dal Collegio
Provinciale dopo aver lungamente soppesato tante opportunità.
La trattativa avveniva tra i Deputati del paese e lo stesso medico per il tramite del Protofisico del Collegio.
Queste trattative non erano mai brevi.
Pochi anni prima dei fatti che andremo a narrare, per la morte del dottor Luigi Fernando Lasagni, la
Comunità di Pomponesco si trovò senza medico condotto, quindi inviò a Mantova alcuni maggiorenti del
paese ad assumere adeguate informazioni su alcuni professori di cui si diceva un gran bene.
La scelta cadde sul dott. Girolamo Ghidini ma non ci si accordò sull’onorario, per cui i Deputati anziani della
Comunità chiesero informazioni all’Illustrissimo Signore il Protofisico di Mantova, dottor fisico e professore
Felice Asti, che così rispose:
“ Il soggetto di cui si chiede informazione per interesse di così rispettabile Pubblico è persona fornita di
sapere, di buona prattica ed è assaissimo civile di estrazione ed uno dei più stimabili individui del nostro
Collegio e le Vostre Signorie farebbero bene a non lasciarsi scappare di mano questo Professore.
Egli mi dice che ha tutto il genio di servirli ma che sia troppo tenue l’onorario propostogli, sapendo che il fù
signor dottor fisico Lasagna non ne era contento.
Le Vostre Signorie non han da guardare a quelle poche doppie annue pur di avere una persona di sì
specchiata abilità, di buon cuore, galantuomo e cristiano, che faccia con vera puntualità il suo dovere in un
impiego tanto geloso e di grande importanza.
Se questo stimabile professore non potesse viverci, ben presto non s’impegnerebbe o si ritirerebbe, come
farebbe ogni altro Professore e la vostra così nominata Comunità avrebbe l’infelice nomea di mal trattare li
dottori fisici, con detrimento della considerazione delle Vostre Signorie in codesto sì rispettabile Collegio”.
L’Illustre Protofisico è un trombone, avvezzo a trattare coi potenti da pari a pari e quando è il caso di
minacciarli.
Quando scrive al Collegio dei Professori dell’Università di Pavia, tocca i vertici della propria abilità
declamatoria, utilizzando un magniloquente stile aulico. Sentite un po’ con quale roboante citazione apre la
narrazione.
“ Fin dai tempi d’Ippocrate, nostro primo Istitutore, si definì la nostra arte lunga, in rapporto alla vita troppo
breve; e che non è la Clinica quella facil cosa che dagli scipiti si pensa, e se lo fosse, capaci seriano
d’esercitarla scimunite vecchierelle e animaleschi boscaioli. Spesso dimostrasi che nelle burrasche d’ordinario
non salvan dal naufragio se non dotti ed esperti nocchieri.
Quando il male è grande, come avvenne per le Putride Maligne Epidemiche Febbri,in perigliosa tempesta si
trova l’Infermo, che senza un perito Medico si sommerge. Così fu per le Putride Febbri popolarescamente
regnanti nelle genti rustiche di Dosolo, come sono scritte per la prima volta dal dott: Benedetto Tiraboschi,
fisico là residente e Medico Nazionale, li 5 Aprile 1786.”
Cosa fossero queste Putride Maligne Epidemiche Febbri non si sa. L’evoluzione della malattia ne rende
pressochè certa la natura epidemica, ma dir di cosa si tratti è molto difficile.
I sintomi prevalenti sono gastrointestinali, quindi dovrebbe trattarsi di una gastroenterite o comunque di una
forma a trasmissione oro-fecale.
Il decorso della malattia pare relativamente fugace e la mortalità bassa, per la gran parte da addebitare alle
penose condizioni igieniche e di alimentazione di quella povera gente.
Non si dovrebbe quindi trattare di tifo addominale.
Il 1786 è un anno difficile, è il momento in cui crolla l’antico regime, in cui il mondo pare capovolgersi sotto
la spinta della Rivoluzione Francese.
Uno di quei momenti della storia in cui un vento impetuoso pare spazzar via un sacco di certezze.
E’ l’alba della modernità, visto con lo sguardo angosciato di gente antica.
In quegli anni tutto si sta riorganizzando, il potere civile e quello economico, a farne le spese, come al solito,
la povera gente.
Questi tempi furono tra i più disgraziati della nostra storia, tanto difficili da costringere intere Comunità a
portare i loro libri contabili (“ sendo stati sugellati ”) a Mantova, in segno di vero e proprio fallimento.
La situazione agraria è difficile, “ li terreni, suddivisi in tre categorie: buoni mediocri ed inferiori, rendono un
anno per l’altro tre sementi li primi, due compresa la semina li secondi e gli altri una e mezza e tante volte in
questi anni la sola seminata, per esser la gran parte insabiati e sogetti alle continue inondazioni”. I terreni
migliori erano tenuti sempre a frumento, granoturco o fava, gli altri a trifoglio o allagati per “le canappe” o
coltivati a bosco “per cavarne legna ogni tre anni”.
“Li terreni parte son affittati, parte dati a mezzadria ma la maggior quantità fatti lavorare per economia.
Quelli che sono a mezzadria, il loro frutto, trattandosi di grano si divide per metà, quando si mette per metà
cadauno e quando poi vi mette tutta la semenza il padrone si divide al terzo, cioè due al padrone e uno al
mezzadro.
Frutti noci e legna si dividono al quinto, cioè tre al padrone e due al mezzadro.
Quelli poi che si fanno lavorare a mano dalli giornalieri vendono tutto il suo prodotto, al padrone però
restando tutte le spese. Gl’affittuari o coloni hanno l’obbligo di lavorare li terreni da uomini dabbene,
bonificargli e non deteriorarli e di darvi qualche ricognizione di grassina secondo quanto si va intesi rispetto
alle appendici del contratto insieme alla poleria e ovi.”
Riesce interessante commisurare quanto fosse il “tenue onorario” del medico condotto di Pomponesco: 150
lire annue, pari alla rendita di dieci pertiche di terreno di buona qualità: non si direbbe granchè.
E’ del tutto verosimile che assai inferiore fosse il compenso del nostro Dott. Fisico nazionale Benedetto
Tiraboschi, che ricopriva un incarico decisamente meno prestigioso.
“Un lavoriero ara due biolche di terreno al giorno, con due o anche tre para di bovi. Invece poi dell’aratro
adoperando la vanga, a vangare quattro pertiche ci vorranno per un uomo dodici giornate e si paga soldi
2,10 al giorno in tempo di primavera, estate ed autunno e soldi 2 l’inverno, compreso il vino.”
Egli conosce le buone maniere e ancor meglio l’arroganza del Protofisico, che intende tenersi buono.
Nella sua lettera egli parlò quindi “della quantità degli infermi, loro miserie, scarsezza del necessario,
sordidezza d’abitazioni, del loro cattivo ambiente, dei pochi e sudici panni, di giacigli miserabilissimi,
dell’indigenza nel vitto, nell’assistenza e nelli necessari Medicinali.”
Ad ogni cosa "fece risposta" il Protofisico medesimo, ”raccomandando la pulizia ed eccitando Medico,
Parroco, Comune e Benestanti a far ogni loro possibile sforzo per cristianamente ajutare li suoi simili”.
Come a dire che tanta scienza non vede dove possa essere il problema: se la gente ha fame, basta darle da
mangiare.
Dosolo è sempre stato un paese particolarmente povero, tanto da non disporre di nessuna istutuzione
benefica, fatto a quei tempi assolutamente raro. Un detto popolare sostiene che il livello della miseria a
Dosolo è sempre stato di due metri e venti centimetri, come a dire che nessuno degli abitanti ne era escluso.
Ma il detto viene da Pomponesco, il paese dirimpetto, ed è nota la scarsa considerazione che la gente di una
contrada coltiva per quella dell’altra.
Cito la prima lettera di Tiraboschi: “Gli ammalati, che sono a quest’ora arrivati al numero di 88 in un mese e
mezzo, attaccati dalla descritta Febbre Putrida Maligna, con sintomi straordinarj letali; cominciano a cedere
con buon esito in gran parte, non essendone mancati in tanto numero, che sette con li già da prima
notificati. In questo fatal incontro il Paese è restato vieppiù contento, ma io altrettanto discontento, mentre
dopo tante fatiche, e pericolo di vita, pochissimo ed incerto ho ricavato; e quando V.S. Ill.ma volesse ecc.
ecc.”
Tiraboschi è angustiato: a tutta questa sofferenza può far fronte solo col proprio personale impegno,
null’altro.
La gente vede e apprezza, ma per il medico condotto servirebbe ben altro. Servirebbero migliori conoscenze,
medicine, soprattutto medicine, e migliori condizioni di vita.
Il Protofisico di Mantova comunica al medico di campagna di aver appena letto in una rivista scentifica
giuntagli la settimana precedente (Le Efemeridi Letterarie di Roma, opuscolo numero 18), di un’epidemia
della stessa natura avvenuta nella città di "Zaragozza nelle Spagne, “ splendidamente debellata dall’Illustre
Protofisico Dott. Masdeval che risanò quella moltitudine di infermi col seguente rimedio: Once 4 di China
China, Grani 72 (sic) di Tartaro Emetico, mezz’oncia di Sale Armoniaco, lo stesso di Sale d’Assenzo.
Il tutto se ne fa pozione con sciroppo e decotto d’Assenzo e la si consuma in due giorni”.
Egli anticipa la possibile obiezione del medico pratico sull’eccessiva dose di emetico. La cosa "è stata
studiata, la combinazione chimica neutralizza la tossicità dei singoli elementi", teoria che anche a quei tempi
doveva pur apparire curiosa, no?
Ciò è però quanto sostiene Masdeval e quanto hanno verificato altri illustri Protofisici delle Spagne.
Se comunque il malato non fosse nelle condizioni di ingurgitare tutta quella dose, si potrà supplire “colli
clisteri più volte, nei detti, giorni ripetuti”.
La malattia poteva quindi dar scampo a qualcuno degli ammalati, ma la medicina no, quella doveva essere
implacabile: se non per bocca per clistere, ma l’amaro calice andava ingurgitato!
Col senno di poi (e le certezze scientifiche di oggi) possiamo tranquillamente affermare che questo intruglio
costituiva una vera e propria arma letale, senz’altro in grado di apportare molta più sofferenza di quella che
pretendeva di alleviare.
Una cura dai connotati francamente criminosi.
D’altra parte a quei tempi i rimedi erano tutti di questo conio: quelli volti a far vomitare, quelli a procurare
diarrea e il salasso, il famigerato salasso.
Gli unici provvedimenti terapeutici che procurassero effetti in una qualche misura obiettivabili, addirittura
misurabili e che davano l’idea di liberare il corpo degli umori malefici che vi si erano rintanati.
L’Illustrissimo signor Protofisico continua incitando il dott. Tiraboschi a non cedere alla facile tentazione di
mettere in pratica il salasso. E così, grazie a Dio, almeno questo sacrificio venne risparmiato a “quelle
rustiche e miserabili genti”.
Egli afferma che praticarlo in quella malattia equivale ad uccidere i malati, come “ alcuni ignoranti ed empirici
medici, da sordido guadagno pervertiti stanno facendo nella medesima epidemia che sta colpendo il Poggio
(Rusco).
Queste cose, a suo dire, disonorano la categoria e sono appannaggio dei soliti “ petulanti, presontuosi ed
ignoranti chirurgi” ( con la c minuscola, in segno di supremo, definitivo disprezzo).
E’ interessante annotare come allora il denaro fosse considerato un “pervertimento” della vocazione medica
e un elemento in grado di offuscare il giudizio clinico e professionale.
Chissà quale potrà essere oggi l’opinione prevalente, in proposito...
Il Protofisico esorta il proprio medico di famiglia a praticare “la massima mondezza di camara e di giaciglio, a
purgare e rinnovare bastantemente l’aria e a non infettarla col pernicioso vjzio di tenervi in camera li bacchi
da seta, che ne aumentano la corruzione”.
Che queste raccomandazioni, soprattutto quelle terapeutiche, vengano rispettate! “religiosamente ”.
Firmato: L’Illustrissimo Signore il Protofisico di Mantova, alli 16 Maggio 1786.
Finalmente un consiglio scientificamente corretto, ma ahimè poco praticabile.Per quella povera gente la
coltivazione dei bachi costituiva spesso un’integrazione di reddito decisiva, sebbene ottenuta a prezzo di un
terribile scadimento delle condizioni di vita.
Da più parti si hanno testimonianza di quanto intollerabile fosse l’odore presente negli ambienti quotidiani di
vita di questa gente.
Tiraboschi si appresta di buzzo buono a mettere in pratica il nuovo e promettente trattamento.
Ma intanto l’epidemia, come la marea, sale inesorabilmente, tanto che lo stesso medico inizia a temere per la
propria vita, scusandosi con l’illustre interlocutore se non fosse in grado di continuare quella corrispondenza
perché colpito a sua volta dal male.
In quelle condizioni non aveva infatti certezza di poter sopravvivere a lungo.
Otto giorni dopo il medico notifica i primi risultati:“ Con l’accusare l’Umanissima lettera di V.S. sotto li 16
scadente, con piacere e lume ho letto e riletto il rimedio Antiputrido felicemente praticato in molte città di
Spagna, dove regnavano tali perniziose e fatali Febbri, accompagnate da funesti sintomi di delirio, letargo,
sincopi ecc, consimili affatto a quelle che da sei mesi hanno predominato e predominano tuttora in questo
paese.
A oggidì si contano da cento cinquantasette persone attaccate da simile malore, con diversi sintomi,
essendone morte da dieci a dodici, di dette persone.
Appena letto il sopraddetto rimedio, diedi mano senza indugio a metterlo in pratica con quella dovuta
circospezione che merita un rimedio nuovo in questi temperamenti.”
Da qui si capisce l’accortezza del medico condotto: innanzitutto si sincera del fatto che il rimedio proposto si
riferisca alla malattia che sta affrontando e in secondo luogo che sia commisurata alle condizioni sociali della
propria gente.
Le Spagne erano allora come l’America all’inizio del nostro secolo: un Eldorado.
Il dott.Tiraboschi ha ben presente che una dose di emetico da cavallo può essere forse tollerata da persone
in buone condizioni, ma non da gente come la sua
Così egli prosegue:
“Nel giorno 20 dell’andante mese incominciai ad esibirlo a tre persone attaccate prima da falsa Periodica
Terzana tollerabile in piedi, all’inizio iniziando con l’Ipecacuana, unita al Tartaro emetico ed in altra giornata
coll’acqua amara cosiddetta, ma in vano, mentre al quinto Parossismo, aggravandosi furono costrette al letto
con molta perdita di forze, con attacco alla testa di orribili fantasmi, con veglie ecc.
Mi appigliai quindi al supposto rimedio in una Donna.
Preso in due giorni, provocò l’effetto di impedire ulteriori mortali sintomi, soliti in progresso accompagnare
tali febbri, anzi vidi calmarsi quelli di testa, svanire i brividi di freddo e alzarsi i polsi con sonno piacevole,
blanda traspirazione, sapore dei cibi e riacquistamento di forze, sicchè da febbre continua, continuamente
acuta, sembra passi e vada a terminarsi in semplice terzana, non restandovi che spossatezza di stomaco e
discrete dejezioni.”
Le prime esperienze sono quindi contrastanti: i primi tre casi vanno male, mentre il quarto pare rispondere.
Tiraboschi non si sbilancia e continua ad osservare:“ In una donna di sano temperamento, senza aver
premesso verun altro rimedio, si sperimentò nella seconda giornata di tale sfacciata febbre il medesimo
medicamento in due giornate inghiottito.
Dovette questa donna soffrire copiose dejezioni, ed una volta il vomito; qual ultimo effetto provenne dalla
troppa sollecitudine degli astanti in somministrarlo.
Soccombe tuttora alla febbre, con freddo giornaliero ad ore all’incirca corrispondenti, non essendosi veduto
fin adesso altro vantaggio che la mente più serena.
Continuandosi le veglie e i polsi bassi fino a questa mattina, con maggior perdita di forze.”
E meno male che si trattava di donna di sano temperamento!
Tiraboschi inizia a dubitare di trovarsi di fronte ad un rimedio miracoloso, ma nondimeno continua il
trattamento: “ Torno in questo giorno dal metterlo di nuovo in pratica in un uomo che preso ha già
l’Ipecacuana, poscia il Cremor Tartaro insieme alla Sciarappa, ed è giunto all’ottava del male.
Egli è delirante, con polsi bassi e tremolanti, ma siccome è uomo affatto miserabile, così concorro io con la
metà della spesa per salvarlo, e sempre più osservare con la dovuta attenzioni gli effetti di tanto rimedio.
Ciò che più mi dispiace si è che questo morbo attacca ordinariamente la povera gente, che nella stessa loro
camera vi tengon li Bigatti o Vermi da seta, per la qual circostanza non si permetterà la ventilazione dell’aria.
Cosa che da me sempre si è procurata e raccomandata caldamente né tempi passati, correggendola altresì
con l’aceto svaporato sui ferri roventi, non essendo agevole da praticarsi il suggerito profumo della legna
verde, mentre da questa miserabile gente si farebbe, come cominciavasi a fare, processione di notte per
portarsi a casa gli alberi da vite, con vero isaccheggio della campagna.
E con ringraziare V.S. Ill.ma dell’attenzione e bontà verso di me in notificarmi tale rimedio, in mio ed altrui
vantaggio, colla più perfetta osservanza mi protesto servitore diligentissimo.
Dosolo li 24 Maggio 1786."
Il Protofisico loda “l’amorevole zelo del dott. Tiraboschi, meritevole di ogni elogio” e l’ammonisce e prestare
attenzione “vieppiù coi grevi caldi che comiciaranno dal Giugno imminente, a proseguire il noto metodo con
lo stesso impegno.”
Lo prega di “ favororgli frequenti riscontri dell’accaduto nei di lui malati, nella puntuale somministrazione del
Medicamento col Metodo Masdevalliano, in una stagione che si faceva perigliosa e quando il Morbo al
culmine forse era arrivato, e Dio sa quando, sarebbe per declinare e finalmente ammansarsi”.
Tiraboschi, era un medico a cui non andava granchè bene perché a quei tempi non si riceveva una condotta
così povera per caso. Aveva a suo carico una famiglia numerosa, un “debolissimo onorario” e svolgeva un
mestiere pericoloso, se si fosse ammalato l’avrebbe mandata in rovina.
Non era uomo che potesse dissipar denaro, eppure si fa carico della spesa necessaria alle medicine per un
duplice scopo, dar sollievo ad un povero diavolo e poter valutare gli effetti del farmaco che era chiamato a
sperimentare.
Oggi noi medici sperimentiamo i nuovi farmaci se veniamo pagati per farlo, il povero Tiraboschi accetta di
buon grado di farlo anche a costo di pagarlo di tasca sua.
Non credo si tratti di differenze da poco.
Il 27 Giugno Tiraboschi torna a farsi vivo: “ Li pronti e meravigliosi effetti decantati nelle Effemeridi
Letterarie di Roma del rimedio antiputrido felicemente praticato nelle Città delle Spagne, non sono in questo
Paese riusciti del tutto favorevoli.
In quella donna annunziata in altra mia, dopo molti e violenti scarichi di materie fetide, di comparsa
intempestiva del mensuale tributo, ella ha dovuto soccombere nell’undicesima giornata, con antecedente
delirio, polsi bassi e celeri, interno ardore, ritenzione d’orina, intumescenza di basso ventre. Invano si
praticarono Cristeri e Fomenti e alle fauci antisettici, giacchè altro usar non si potea, stante l’utero aperto.
Comparse le petecchie, con li più funesti sintomi finì di vivere.
Anche il pover’uomo della lettera precedente ha dovuto perdere la vita, dopo ingoiata solo la metà della
dose prescritta, sopraggiunti essendo sussulti ai tendini, polsi bassi che tanto più s’abbassavano tanto più
crescea il delirio ed il tremore, ma senza farsi straordinarie dejezioni.
Il rimedio fu in sesta giornata prestato al medesimo, che stava in camara ristretta, senza l’uso del camino, e
che prendeva l’aria da altra camara dove teneva li bigatti.
Anche la donna prendeva aria da altra camara dove tenevasi il fieno fresco, che ammorbavane l’ambiente.”
Il rispetto per l’Illustrissimo Signore il Protofisico di Mantova è una cosa, la verità scientifica e la propria
reputazione un’altra.
Tiraboschi ci aveva messo del suo per quella sperimentazione, in tutti i sensi.
Quindi offre il suo giudizio senza annacquarlo: qui a Dosolo il farmaco non ha funzionato.
Certamente ci saranno buoni motivi per cui in Spagna il rimedio si è mostrato miracoloso e qui no, ma
questo però è un altro discorso.
E continua: “ Tre altre persone poi si son riavute, alle quali ho fatto prendere il più volte nominato
Medicinale, premessovi avendo un blando Emetico e l’acqua detta volgarmente Amara, impegnate con
veglie, vaniloqui ed altri sintomi gravi e si sono liberate dal male per blanda traspirazione.
Nonostante li due casi disgraziati, continuerò per l’avvenire con questo ad ogni altro preferibile rimedio,
rilevandovene colle più minute ed attente osservazioni gli effetti, per renderlo più praticabile in questo
paese.”
D’altra parte, il nostro povero medico di campagna cosa poteva fare: da un lato non vuole guastarsi i
rapporti col suo superiore, dall’altro non dispone di altro rimedio.
La sua è una situazione senza vie d’uscita.
Comunica che continuerà l’esperimento, ma modificando la cura secondo quanto il suo spirito di
osservazione gli consiglierà di fare.
Il medico condotto lamenta nelle sue lettere le gravi condizioni in cui è costretto ad operare, la scarsità delle
risorse finanziarie di cui dispone per fornire il farmaco, “ il poco impegno dei possidenti, dello stesso Parroco,
impedito e distolto a ben conoscere e far giusta e netta idea del misero stato della sua gente, della
compassionevole e calamitossima situazione de’ disgraziati suoi Parrocchiani, lotanti più che con la vicina
morte, con la necessità di tutto, e con l’indigenza che giunge all’estremo in coloro che vengono abbandonati
dalli loro famigliari.
Qui non v’è Pia Fondazione ne altro mezzo per sussidiare tali miserissimi infermi, ne di provederli con
medicine, ne dei primi generi per vivere, quali io più volte devo somministrare, e potessi pur far di più, che
di buon animo lo farei.”
Come si può arguire può essere che Tiraboschi fosse relegato a Dosolo anche per altri motivi. E’ probabile
che neppure ai tempi della rivoluzione Francese fosse possibile dire ai preti e alle altre autorità, tutto quel
che andava detto loro.
Difficile che un medico del genere potesse far carriera, non vi pare?
Il nostro Tiraboschi non ha peli sulla lingua e dice quel che ha da dire, tutto quel che ha da dire: che il prete
è tanto distante dalla gente da non saper neppure in che tristi condizioni si trovi.
In queste parole c’è l’accusa alle autorità di stare rintanati in casa per paura dell’epidemia e di lasciar la
povera gente (cioè tutto il paese) in balia di questa tragedia.
Tiraboschi spera nell’aiuto della “tanto desiderata” Cassa del Prossimo, che supplisca al “miserabile
incongruo” stipendio di cui è gratificato, che egli giudica “improporzionato ai grandi impegni ed alle somme
fatiche del Medico Condotto in queste rustiche contrade”.
Egli lamenta il fatto che dalle autorità gli fu risposto che l’aumento del soldo poteva giungergli solamente
dopo che fosse esaurito il capitolo di spesa dei medici condotti forensi, cioè dopo che fossero stati pagati i
medici condotti più importanti.
Il medico di campagna chiude dicendo che alla scadenza del suo contratto interinale, se mai fosse ancora in
vita, “pensarà a ritenere o abbandonare il peso di questa gravosa condotta.”
E’ un invito al superiore a occuparsi della sua situazione, invito che come vedremo, non cadrà nel vuoto.
Il Protofisico non intende indispettire il povero medico condotto, criticando l’assunto di quest’ultimo che la
morte dei due sfortunati pazienti fosse occorsa nonostante la somministrazione del medicamento.
Non intende farlo soprattutto in questo momento così impegnativo per il medico di campagna.
Egli è in realtà certissimo che alla base dell’insuccesso vi sia un errore di Tiraboschi che avrebbe dato il
medicamento in modo intempestivo e ai malati sbagliati, per tal motivo nel libretto si dilunga a spiegare le
ragioni di quello che a suo avviso fu un apparente insuccesso.
La donna doveva avere “li vasi interni ripieni di liquidi”, come testimoniano gli abbondanti scarichi di “materie
fetide” e le intempestive mestruazioni (il cosiddetto “mensuale tributo”).
Queste condizioni andavano corrette prima di somministrare il Rimedio di Masdeval, e inoltre, occorre
considerare le gravi e probabilmente irreparabili conseguenze che si sono prodotte dall’esposizione dell’utero
ai miasmi provenienti dalla camera vicina.
Per l’uomo le cause dell’insuccesso sono chiarissime: egli ha preso il rimedio troppo tardi, quando già
presentava sussulto di tendini, quindi in uno stadio troppo avanzato della malattia.
Non parliamo dell’infezione dell’aria prodotta dai bigatti!
In Spagna Masdeval lottava in condizioni assolutamente migliori!
Sicchè, in luogo di creare dubbi, la lettera del nostro Tiraboschi, non fa che rafforzare l’idea del Protofisico, il
quale insiste sulla necessità di continuare a somministrare il rimedio.
Naturalmente egli non spiega in che modo il medico condotto avrebbe potuto correggere questa “sindrome
da vasi interni ricolmi di liquidi”.
Non c’è obiezione che possa scalfire le sue certezze: se il rimedio non ha funzionato, la colpa non è della
medicina bensì del medico.
Tiraboschi non si fece vivo che all’inizio del nuovo anno, il 10 Gennaio 1787, quando così descrive la fase
finale dell’epidemia.
“ Grazie al Sommo Datore d’ogni bene, terminata si è la fatale e perniziosa Epidemia di putride maligne
febbri regnante in questa mia condotta da molti mesi a questa parte e a Villa Strada, porzione di questa
medesima condotta, per la maggior parte infettando le famiglie miserabili, tra le quali ho contato d’aver
assistito dugento e più infermi da simigliante malore attaccati, nel corso di vari mesi.
Ne sono morti dodici dal descritto malanno tolti di vita.
Tra essi una donna d’abito cachettico, di cattivo temperamento, nonostante abbia praticato, a partire dal
secondo giorno di decubito il metodo masdevalliano.
Si sono in questa cagionevole femmina, suscitate funeste meteori nel basso ventre, indicanti
un’infiammazione universale, cioè ardore interno dell’addomine, ritenzione d’orina, intumescenza di tutto il
ventre, delirio, polsi ristretti e celeri, moti spasmodici alle fauci, vomito e molte eccedenti storiche per
secesso di fetide materie corrotte, con intempestiva abbondante scarica dei suoi lunari espurghi: il tutto
indicante una pessima discrasia d’umori pravi, dispiegante un grande apparato di maligna materia morbosa,
concorso essendovi di più a precipitarla un’ammorbata stanza dal fieno fresco giacente per la
fermentazione.”
Descrizione pregnante, non vi pare?
Non è male questo dispiegarsi di un grande apparato di “umori pravi e materie fetide”, contro cui cosa si
poteva opporre?
Ma Tiraboschi continua: “ Così dovette soccombere un uomo di sanguigno temperamento, che in sesta
giornata di decubito, diede principio al medesimo medicamento, e nondimeno cinque giorni dopo morì, ma
con sintomi del tutto diversi da quelli dell’inferma, cioè con straordinaria abbondanza di sudori per tutto il
corpo, con polsi alti ma celeri, ed abbattimento di forze estremo.
Al mio pensare concorsero al di lui precipizio, parecchi esterni fattori e principalmente il poco amore della
moglie, l’angustia della camara comunicante con quella de’ bigatti, di pessimo fetore infestanti anche la
propria, in cui giaceva lo sgraziato infermo, sempre più aumentato dal fermento delle foglie e dai letti di detti
filugelli e dai medesimi morti e rancidi, ed anche alla piovosa e stravagante stagione, che concorreva ad
accrescere tante putretudini.
E vi concorreva l’estrema indigenza e lo stato miserabile del malato e della di lui famigliola che
l’angustiavano.”
Il medico condotto è un fiume in piena:
“ Non così accadde ad altri tre soggetti dalla stessa febbre assaliti, ai quali fu esibito lo stesso medicinale, in
tre o quattro giornate, premessa una blanda vomiturazione prodotta dall’Ipecacuana, prima della terza, indi
somministrato il rimedio, tutti e tre restarono sul finir del quattrodicesimo giorno, liberati dalla febbre,
mediante le crisi di regolate dejezioni, di blanda traspirazione, di buono flusso d’urina, associati a buoni
sonni.
In tanti altri infermi dal maligno morbo oppressi, avrei avuto campo di tentare e sperimentare il ragionevole
e tanto lodato, e massimamente nelle Spagne praticato, famoso antidoto per le Febbri in questione.
Ma quantunque lo conoscessi utile ed opportuno per sollevare l’umanità afflitta da questo perfido e
contagioso morbo, poiché non potevano le miserabili famiglie sostenerne la per loro gravosa e troppo
isproporzionata spesa, non essendovi da noi Fondazione, né possidenti compassionevoli e di buon cuore, se
non pochissimi, ne essendovi altro possente mezzo, neppur per aiutarli nei mezzi di prima necessità, del cibo
loro e delle loro mogli e figliolanza.
Ha bisognato perciò colle pochissime famiglie benestanti ed amanti del prossimo, fra le quali mi glorio
entrare anch’io, ha bisognato d’aiutare i sani nel mangiare e bere necessario, acciò che questi non
s’ammalino d’inedia.
Mi sono dunque prestato a sollevarli con la maggior possibile assistenza medica e con qualche denaro,
sovvenendoli di legna, di quanto sovviene per la politezza corporale ad essi necessaria, e affannadosi a
persuader d’assister li malati per amor di Dio, allorchè li consanguinei stessi, per timor di restare infetti eran
renitenti e vi stavan lontani.”
E’ triste pensare al grado di abbrutimento che la miseria e la malattia avevano prodotto nella gente, sino al
disinteresse per i propri cari. Un grado estremo di disperazione.
Eppure il medico sa delineare anche episodi edificanti, addirittura atti di eroismo, che riequilibrano il giudizio
su tutta la vicenda.
“ Mi siasi consentito far qui una digressione, narrando un fatto pur troppo accaduto, che fa disonore
all’umana Società, ed insieme dà un saggio d’eccessiva estrema calamità che fa orrore, cui portato ha
l’estrema indigenza d’una di queste deslate famiglie, dal maligno morbo infettate, che tutta periva, se io ed
un Sant’uomo, con l’opera sua non l’aiutavamo.
Abbiamo infatti avuta una rustica famiglia, composta di marito, moglie e di tre figlioletti, tutti ad un fatto
assaliti da si fatte Putride febbri, tutte queste cinque creature in piccola cameruccia a terreno stavan
rinchiuse, altro non avendo onde ricovrarsi.
E tale infelice abituro era a tassello morto, come si dice, cioè il men riparato dal freddo, dal caldo e
dall’umido.
Privi trovavasi di vitto, legna, coperte da letto, giacenti tutti unitamente su di un’umido pagliariccio. A mia
insinuazione furon soccorsi dai proprio parenti di uova, pollame e di altro ma ristrettamente, Mai però di
personale assistenza.
Pregai ed ottenni da un pover’uomo, rustico del paese, solo semplice giornaliere e non parente, al quale ho
sempre passata la mercede giorno per giorno di Braccente per poter egli matener la sua figliolanza in
miseria, e quella dei detti malati.
Questo caritatevole buon uomo volentieri accettò l’impegno e costantemente per giorni ventisette,
indefesso, amorevole ed assiduo, assistette la povera, disgraziatissima ed oppressa famiglia con ammirabile
carità e straordinaria pazienza, a fronte dei rabbiosi schiamazzi e delle furibonde invettive della moglie sua,
che ad ogni poco protestava di non lo voler assistere, ne poco ne mai, quando venisse ad ammalarsi.
Con tutto ciò mai desistette ne rallentò o intiepidì il suo fervore, che anzi notte e giorno ajutandoli, mai
mancò di loro porgere il bisognevole, di togliersi sulle braccia or l’uno or l’altro per le corporali necessarie
indigenze, fuori trasportando con indifferenza le fetenti scariche, vincendo il sonno tante notti di seguito ed il
freddo ancora, stando solo soletto per assisterli sempre e loro porgere quei pochi e semplici medicamenti, le
bibite e i cibi da lui rozzamente preparati.
E sugli ultimi giorni di tanta malattia, giunse fino a levarsi la propria camicia e truffarne una della sua
moglie, acciò di poter cambiare li propri infermi, li quali, per grazia dell'Altissimo si sono tutti salvati e sani
tuttora si mantengono.
Ma in capo a quindici giorni ecco l’infelice, eroico infermiere ridotto a letto, accalappiato dall’attaccaticcio
malore e sprovveduto di tutto il necessario.
La moglie fedelmente gli sa mantenere quanto ha protestato, non solo del tutto abbandonandolo, ma altresì
con nuovi rimbrotti affliggendo il già gravemente afflitto.
In quindici giorni si passò dalle miserie estreme di questa lagrimosissima valle, carico di meriti e di virtù
vera, agli eterni riposi, da acerbissimo e letal morbo, pazientemente, con santa rassegnazione e contentezza
tollerato.
Il poveretto ha lasciato due figli mendici nelle braccia della Provvidenza.
“ La Divina Misericordia m’ha difeso da tale micidial malanno, e data forza d’assistere tanta moltitudine di
malati, fermandomi più del solito con essi oltre il dover mio, la forza di soffrir le critiche di persone talora
accreditate, che mi condannavan d’aver talvolta fatti applicar intempestivamente li Vescicanti, ordinati li
Sacramenti.
O di lento esser a ordinar li medicamenti, di obbligar al letto gli infebbricitanti che null’altro accusavan se
non semplice debolezza.
M’accoravan tali accuse, ma poi restava consolato quando, a confusion di chi mi criticava, si vedevan
ristabiliti parecchi creduti morti, per mala medicatura, da tali ignoranti Giudici così giudicata.”
La lettera viene analizzata con la massima cura, direi scientificamente, dall’illustre e dotto Protofisico, il
quale disquisisce con molta competenza sulla relazione del medico condotto, insistendo sull’opportunità di
valutare con attenzione il momento in cui sottoporre il rimedio al paziente, avendo cura di escludere coloro “
che hanno troppi intoppi nelle viscere addominali, perchè dove il farmaco fa urto, se non vince gli ostacoli,
impossibili a levarsi in breve tempo, produce infiammazioni fatali, rotture di vasi, lacerazioni dove tenera e
più fragile è la fabbrica.
Cose tutte irrimediabili.”
Il Protofisico è però un uomo esperto, riconosce che “in quei tanti casi che per ragion della grave spesa non
si è potuto adoperare il rimedio, col solo buon regime, colla procurata maggior assistenza, colla pulizia e
rinnovazione d’aria, di biancheria, tutti si sono salvati, a tutto potere di tale assistenza, di gente caritativa,
che ad ogni bisogno soccorrano con cordialità affettuosa, mente riflessiva e prontezza premurosa.
Massimamente la mondezza, svaporazione, correzione dell’ambiente, pulitezza, congruo vitto, si ha da
ottener con tutto lo sforzo. Senza di essi non si salva la vita neppur con li rimedi più costosi.”
Il Protofisico comunica a Tiraboschi di voler dare alle stampe il loro scambio epistolare.
Il medico condotto gli risponde dicendo che i vantaggi di soldi o di carriera che gli fossero giunti da quella
pubblicazione, li avrebbe considerati quale frutto della sua personale cortesia.
Il Protofisico conclude che nell’epidemie le cose vanno bene quando tanti fattori vi concorrono:
“massimamente che farmacisti e chirurghi facciano quanto dice il medico, che il Pubblico lo garantisca della
necessaria mercede delle spese, e soprattutto che si senta in debito nei confronti del medico sia che i malati
guariscano sia che soccombano al male.
Queste regole debbono essere considerate tassative e ancora una volta, puntualmente,“religiosamente
rispettate”.
Nel luglio dell’87 Tiraboschi riscrive al Protofisico, chiedendo la cortesia di raccomandare ad un grosso
personaggio di Pavia, un proprio figlio per uno di quei collegi, al fine di poterlo iniziare allo studio della
Filosofia.
Il Protofisico, sebbene in quel momento seriamente indisposto, risponde che l’avrebbe fatto al più presto,
stante la meritoria opera di quel medico di campagna, oltretutto padre di dieci figli viventi e medico in una
Comunità molto povera, da cui poco poteva trarre di giusto compenso.
E non poteva certo mancare la sinfonia di chiusura, in cui dobbiamo riconoscere che il dotto Protofisico
eccelle:
“ La medicina è un’arte scienziata, che ha molte e difficili scienze per ancelle e subordinate. Spesso le si
erigono a Censori li più oziosi, sciocchi ed ignoranti, che ordinariamente popolano il paese.
Pretendono costoro che il medico da essi così maltrattato, verbo, visu et opere, li rendesse immortali, che ad
onta di tanti mali maligni, fosse esso obbligato a garantirli e tutti guarirli. Addirittura a dispetto del loro mal
vivere morale, fisico e civile. Che il medico li preservi dai morbi che vanno essi stessi, di proprio capriccio ad
incontrare, e li curasse presto, sicuro, senza patimento e persino senza spesa.
Son gli stessi incapaci di discernere non solo il buono dal cattivo medico ma persino questi dall’impostore e
ciarlatano.
Ma il tempo delle perniziose epidemie assalenti la moltitudine, quale quella descritta in questo libretto, è la
pietra di paragone per distinguere il vero dal falso medico, l’ingannatore fraudolento dal dottor fisico sincero
ed onesto.”
Amen.
Il protagonista del film, un anziano medico,
fa un sogno.
Si trova a superare un difficile esame,
circondato da volti severi.
Gli si chiede:
“Qual è il primo dovere del medico?”.
Egli non sa rispondere.
L’esaminatore, dopo aver atteso invano,
lo rimprovera:
“Si ricordi, il primo dovere del medico
è chiedere perdono”.
Il protagonista si sveglia dall’incubo
in un bagno di sudore.
Igmar Bergman: Il posto delle fragole
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A proposito delle putride maligne epidemiche Febbri regnanti a quei