Istituto comprensivo “Curioni” Scuola secondaria di I grado Classe 1C L’impostazione degli affreschi può essere paragonata ad un fumetto: il pittore ha infatti utilizzato tutto lo spazio disponibile (volta e pareti), dividendolo in 28 riquadri sotto i quali compare una scritta in latino che ne fa da didascalia. L’intero ciclo si ispira alla storia biblica (libri I e II di Samuele) di Re Davide, la cui lettura va fatta incominciando dalla volta destra, avendo alle spalle l’ingresso del locale, per poi proseguire sulla volta sinistra: dopo alcuni riquadri i cui affreschi sono completamente scomparsi, si può vedere una scena agreste che rappresenta Davide pastore mentre difende il suo gregge uccidendo una belva feroce. Si nota poi l'esercito nemico dei Filistei accampato di fronte a quello d'Israele; la vestizione di Davide da parte di Saul; la lotta con Golia; la fuga dei Filistei sconfitti mentre Davide taglia la testa a Golia; Davide presenta la testa di Golia a Saul; Davide uccide i Filistei mutilandone i prepuzi poi raccolti e dati in dono a Saul. A questo punto il ciclo riprende sulle pareti, dove però gli affreschi sono in cattivo stato di conservazione; solo in tempi recenti, grazie all’opera di Mario Crenna, è stata possibile la corretta lettura dell’intero ciclo pittorico, interpretando anche le residue scritte latine che i restauri del 1975 hanno reso leggibili. Il racconto della vita di Davide continua con il suo matrimonio con Mikol, figlia di Saul, e con il tentativo di quest’ultimo di ucciderlo; Davide fugge presso il profeta Samuele e, dopo la morte di Saul e altre vicende, viene unto Re d’Israele. Da segnalare anche lo stemma che compare nella parete interna d'ingresso alla sala affrescata, ripetuto anche sopra la porta: vi sono sei bande verticali, con alternanza dei colori rosso e bianco, sormontate da una stilizzata aquila nera coronata in campo giallo, con ai lati le lettere P e T (si pensa riconducano al committente abate Pietro Tizzoni) e sei bastoni inclinati ciascuno con cinque tizzoni accesi. Il monachesimo benedettino e L’ abbazia di Romagnano Sesia Durante questo anno scolastico, noi alunni della 1 C dell’Istituto comprensivo “Curioni”, seguiti dai nostri insegnanti di storia, arte e immagine, religione ed educazione musicale, abbiamo lavorato ad un progetto di ricerca sul tema del monachesimo, a partire da quello sviluppatosi nel IV° secolo fino a quello ancora presente ai giorni nostri. Abbiamo fatto ciò allo scopo di “festeggiare” un compleanno davvero particolare: nel 2008 ricorre infatti il millenario della fondazione dell’abbazia di San Silvano e noi, giovani studenti romagnanesi, abbiamo voluto conoscere meglio la sua storia. In particolare in classe abbiamo studiato la struttura architettonica di un’abbazia, la vita di San Benedetto da Norcia e la vita quotidiana dei monaci benedettini, divisa tra lavoro e preghiera; ci siamo in seguito concentrati sulle vicende storiche dell’abbazia di San Silvano e della sua celeberrima “Cantina dei Santi”, di cui, dopo averla osservata direttamente ed ampliamente fotografata, ne abbiamo realizzato alcuni disegni. L’opuscolo che avete ora in mano non è che la sintesi dell’intero percorso di ricerca che ci ha portati alla scoperta delle nostre radici storiche e culturali su cui fondare il futuro. Benedetto nacque in una ricca famiglia nella piccola città di Norcia verso il 480 d.C., in un periodo storico particolarmente difficile: quattro anni prima era formalmente finito l'Impero Romano d'occidente con la deposizione dell'ultimo imperatore Romolo Augustolo. A 12 anni la famiglia lo inviò a studiare a Roma, dove constatò di persona lo stato di grave decadenza in cui versava l'antica capitale dell'impero; da essa il giovane Benedetto fuggì via inorridito ritirandosi nel silenzio e nella preghiera nei boschi dell'alta valle dell'Aniene, ai confini tra il Lazio e l'Abruzzo. Una comunità di monaci di Vicovaro lo volle come abate, ma l'esperimento fu un fallimento: ben presto quei monaci, preoccupati per l'eccessiva austerità e disciplina di Benedetto, tentarono di avvelenarlo. Dopo questa esperienza, egli intraprese una nuova forma di vita monastica: nella zona di Subiaco, organizzò un gruppo di monaci, suddiviso in dodici comunità di dodici monaci. L'invidia di un prete, che non gradiva l'accorrere della gente con ricchi doni ai piedi del santo, costrinse Benedetto ad abbandonare quei luoghi con il gruppo dei suoi discepoli più fidati e a dirigersi a Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di Montecassino destinato a diventare il più celebre in Europa. Là avvenne la sua morte, tra il 543 ed il 555 d.C., in una data che l'antica tradizione ha fissato al 21 Marzo. Nel 1964 Paolo VI lo proclamò "patrono d'Europa". LA REGOLA BENEDETTINA Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola, secondo la quale a capo del monastero vi è l’abate (dall’ebraico abbà = padre), ed è per questo motivo che i monasteri benedettini sono detti anche abbazie. Alla base della Regola benedettina stanno tre parole latine: “ora et labora”, cioè prega e lavora. San Benedetto temeva che i suoi monaci, passando l’intera vita esclusivamente pregando, conoscessero l’ozio, considerato “nemico dell’anima”; dunque egli stabilì che la giornata venisse rigidamente divisa tra momenti dedicati alla preghiera ed altri al lavoro, che andava da quello di coltivare i campi a quello di ricopiare i libri. La cosiddetta "Cantina dei Santi" è l'unica testimonianza rimasta della millenaria abbazia benedettina di San Silvano ed è costituita da un fabbricato seminterrato, circondato e sovrastato da altri edifici. Data la scarsità di documentazione rimane incerta la sua originaria destinazione d'uso, anche se pare sia stata usata dai monaci in un primo momento come aula capitolare o refettorio. Situata nell'antica contrada denominata "Badia", si presenta con le mura originali del sec. XI, costituite da ciottoli disposti a spina di pesce e pietre distribuite in corsi orizzontali. Da un ampio atrio a doppio portico, sostenuto da sette pilastri in cotto, si accede a due locali molto suggestivi: quello più in fondo non presenta in sé particolare interesse artistico, mentre quello che si incontra per primo sulla destra conserva su tutte le pareti un preziosissimo ciclo di affreschi databili al XV secolo. Queste pitture raffigurano alcune scene tratte dalla Bibbia, in particolare episodi che riguardano la vita di Re Davide. Un alone di mistero rimane circa l’autore degli affreschi, che alcuni hanno identificato con un artista di scuola milanese, un certo Bartulon da Novara. Una successione a spirale è l’ordine impresso dall’autore al suo ciclo, che costruito su una serie di riquadri procede dall’alto verso il basso. A compromettere gravemente alcune scene, ormai illeggibili, è stata l’azione costante di alcune muffe che ancora oggi stanno svolgendo una lenta ma inesorabile operazione di deterioramento. Storia: essa è strettamente legata a quella dell’abbazia, il cui patrimonio intorno al XIX secolo venne svenduto in seguito alle leggi napoleoniche contro i beni secolari della Chiesa. La chiesa fu consegnata al parroco e il resto fu venduto all’asta alla famiglia dei Curioni. Costoro, comprato il complesso, lo affittarono e ne fecero cantine (da qui il nome). Nel 1975 la Cantina fu comprata nuovamente e donata al Comune, a cui attualmente appartiene. L’abbazia di San Silvano fu fondata probabilmente intorno all’ XI secolo grazie ad un certo conte Bosone, di stirpe arduinica e fratello di Guido, dal quale ebbe inizio dinastia dei marchesi di Romagnano, una delle più antiche e insigni famiglie dell’ Italia medievale. La morte dell’unico figlio spinse il conte Bosone a restaurare una badia già esistente, detta di Santa Croce, e a farvi pervenire nel 1008 le reliquie del martire Silvano da Benevento, ove erano state traslate da Roma nel secolo VIII da Desiderio, re dei Longobardi. Recenti studi conducono a proporre l’origine della badia all’epoca carolingia (IX-X sec.): uno degli indizi è costituito dal campanile posto al centro della facciata della chiesa secondo la tipologia del “campanile a portico” molto diffuso in territorio francotedesco. Si può dunque ritenere che nell’introdurre i monaci a Romagnano, il conte Bosone abbia assegnato loro una chiesa già esistente e che nella circostanza si sia provveduto ad un suo restauro ed ampliamento. I lavori di restauro del 1008 sono inoltre confermati dalla seguente iscrizione posta su un capitello: “Hoc altare a majoribus restauratum an- no Domini 1008- 7 Junii”. La decadenza di questo, come di altri monasteri italiani, arrivò nel XV secolo con una riduzione sensibile dei monaci presenti. In questo periodo l’abbazia fu trasformata in ”Commenda”: diretta a livello puramente ufficiale da un abate ”commendatario”, quasi sempre un vescovo o un cardinale residente fuori Romagnano, e nella pratica da un collegio di monaci che si occupavano di servizi liturgici, dell’assistenza spirituale della popolazione e del presidio dei beni. La regola di San Benedetto organizza la giornata del monaco secondo precisi orari, che scandiscono i momenti dedicati alla preghiera, al lavoro e al riposo. Prima dell’alba il monaco si alza al suono della campana e si reca in chiesa per la recita dell’ufficio notturno (mattutino, ore 3); poi può leggere, riflettere o studiare sino alle lodi (ore 6). Al termine di ciò, il monaco inizia il proprio lavoro che non interrompe fino alla Messa conventuale. La campana dell’Angelus (ore 12) ricorda l’ora del pranzo; nel refettorio l’Abate benedice la mensa, dopodichè i monaci mangiano in silenzio ascoltando un confratello che legge brani tratti dalla Bibbia o delle vite dei santi. Per comunicare tra loro ricorrono a uno speciale alfabeto fatto con le dita. Dopo il pranzo c’è un’ora di ricreazione comune, al termine della quale vi è la recita delle preghiere dell’ora nona (ore 15). Il lavoro viene ripreso sino alle preghiere dei vespri (ore 18). La campana della cena riunisce di nuovo la comunità monastica per un pasto rapido e frugale, seguito da una breve ricreazione. Quindi il monastero si immerge nel silenzio perché è l’ora di compieta (ore 20), la preghiera della sera, l’ultimo atto della giornata del monaco.l’Abate benedice i monaci e, dopo qualche altra preghiera per i morti o alla Vergine e dopo aver detto “ il Signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo”, tutto tace. La lunga ed operosa giornata del monaco è chiusa. Da compieta all’indomani mattina, l’ufficio notturno, nessuno può rompere il silenzio senza un grave motivo. I monasteri sono costituiti da un complesso di edifici: al centro si trova solitamente la grande chiesa (abbaziale) affiancata dal chiostro, un cortile circondato da un porticato dove i monaci pregano e meditano; alcuni hanno al centro delle aiuole fiorite, altri un pozzo sormontato per lo più dalla croce o dal monogramma di Cristo. Sul chiostro, dove vige la Regola del silenzio, si affacciano i dormitori (il dormitorio comune prescritto da S. Benedetto fu sostituito nel corso dei secoli dalle singole celle) e la sala capitolare, il locale deputato alle riunioni della comunità monastica dove inizialmente ci si riuniva per la distribuzione del lavoro manuale tra i monaci e solo in seguito fu dedicato esclusivamente alle riunioni ufficiali della comunità. Il suo nome deriva dalle letture di un “capitolo” della Sacra Scrittura che accompagnavano l’attribuzione delle varie incombenze.Il refettorio è la sala comune dove i monaci vanno a consumare i loro pasti;i tavoli sono normalmente disposti su tre lati lungo le pareti, lasciando il centro libero per gli inservienti. Vicino al refettorio c’è sempre una fontana dove ci si può lavare prima e dopo i pasti. Molti edifici ed aree del monastero sono destinati alle attività economiche: granaio, frantoio, mulino, fienile, stalle, scuderie, orti, farmacie,ecc. Nelle vicinanze dell’ingresso del monastero si trovano gli alloggi per i pellegrini e i viandanti (la foresteria) e l’ospedale. In un’abbazia non mancano mai lo scriptorium e la biblioteca dove venivano scritti e conservati i manoscritti; lo scriptorium è situato a sud ed ha molte vetrate per avere più luce possibile; originalmente era un ambiente ampio ma non riscaldato, per cui il freddo rendeva il lavoro dell’amanuense più penoso. Alcuni monaci lavoravano negli scriptoria, cioè nei laboratori di scrittura dove si preparavano i manoscritti per la biblioteca: dalla copiatura del testo fino alla rilegatura. Come avveniva tale attività ? Gli amanuensi (così detti perché scrivevano a “mano”) lavoravano ad uno scrittoio di legno, sul quale appoggiavano il foglio di pergamena (usata al posto del papiro per la difficoltà di importare questo materiale dall’Egitto), precedentemente raschiato. Con il calamo (una cannuccia appuntita) o la penna d’oca intinta nell’inchiostro (preparato nel monastero) scrivevano pazientemente lettera dopo lettera, su righe precedentemente tracciate. Se si commetteva un errore, la pagina andava interamente riscritta. Alcuni manoscritti importanti venivano impreziositi con disegni e decorazioni detti miniature (perché si eseguivano con inchiostri colorati, per i quali si usava per lo più il minio), fatti solitamente sulle lettere iniziali o sui titoli. Il lavoro di copiatura era molto lungo e faticoso: per realizzare una Bibbia ci voleva un anno di lavoro di più persone! A copiatura ultimata, i fogli venivano piegati in quarti (quaderni) e passati al rilegatore, che li cuciva in un unico codice, cioè il libro vero e proprio, che sostituì il vecchio ingombrante rotolo romano, chiamato volumen. Quando la pergamena divenne costosa e rara, i monaci riutilizzarono pergamene già usate, raschiando via il precedente testo. Su tali codici, detti palinsesti (cioè raschiati di nuovo), è possibile talvolta leggere ancora, sotto il nuovo testo, quello precedente: in questo modo abbiamo potuto conoscere opere di antichi autori, di cui altrimenti si sarebbero perse le tracce.