Giuseppe Bucca
Gilberto Mastromatteo
Brigate © Rosse,
un brand per tutte le stagioni
Analisi linguistica del revival politico-eversivo sui giornali
italiani, dopo gli arresti del 12 febbraio 2007
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Chi è stato morso dal serpente
anche solo una volta
avrà sempre paura
di camminare nell’erba alta
Proverbio cinese
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INDICE:
1. Introduzione
Brigate Rosse e mass media, l’analisi di un difficile rapporto.
2. I fatti del 12 febbraio 2007:
Gli arresti di Torino, Milano, Padova e Trieste;
L’Ordinanza di custodia cautelare.
3. Analisi dei titoli del 13 febbraio 2007 comparsi sui quotidiani:
Corriere della Sera;
la Repubblica;
La Stampa;
Il Giornale;
Libero;
il manifesto;
Il Foglio;
L’Espresso;
Il Gazzettino;
Corriere Adriatico.
4. Analisi testuale di articoli comparsi su:
Corriere della Sera;
la Repubblica;
La Stampa;
Il Giornale;
Libero;
il manifesto.
5. Conclusioni.
6. Bibliografia.
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1. INTRODUZIONE
12 febbraio 2007. Dopo un’indagine durata tre anni tra Torino, Milano, Padova e Trieste, la Polizia porta in
carcere 15 persone. L’imputazione è di associazione sovversiva e banda armata. La sigla del gruppo è Partito
Comunista Politico-Militare (Pcp-m). Ma nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Giudice per le
indagini preliminari di Milano Guido Salvini, compare un mero riferimento ad uno dei gruppi più noti
dell’eversione di sinistra: le Brigate Rosse. Tutti i quotidiani e periodici italiani, con isolate eccezioni,
riporteranno nei giorni successivi la notizia degli arresti, utilizzando titoli a più colonne con la menzione
della sigla Br. Un riferimento che oggi, a circa quattro mesi di distanza, tende ad essere sgonfiato sia dai
media che dagli stessi inquirenti.
Il lavoro che segue, si propone di descrivere, mediante un’analisi di titoli e articoli comparsi sui giornali del
13 febbraio, tale caso di informazione superficiale. Un vizio che, peraltro, il sistema italiano dei mass media
aveva già espresso durante gli anni ’70 e ’80. In ultima analisi, cercheremo di evidenziare come l’argomento
terrorismo politico produca ancora oggi, in Italia, il ricorso ad un campionario linguistico mutuato dagli anni
’70 e ormai non più in uso nel linguaggio comune.
Brigate Rosse e mass media, l’analisi di un difficile rapporto
Nel corso degli anni ’70, alcuni termini del lessico italiano hanno subito delle oscillazioni linguistiche
rilevanti, sintomo di notevoli mutamenti intervenuti nel contesto politico e sociale del Paese. Parole come
“lotta armata”, “eversione”, “terrorismo”1 sono divenute tristemente familiari e hanno finito, anche negli
anni futuri, per qualificare un determinato periodo della storia italiana, rievocandone gli assunti e gli umori.
Così è stato almeno fino all’11 settembre 2001, quando gli attentati terroristici firmati dal gruppo islamico
Al Qaeda al World Trade Center di New York hanno segnato l’inizio di un nuova alterazione semantica per
quei termini. È probabile, quindi, che l’evoluzione diacronica del contenuto della parola “terrorismo”, e di
quelle ad essa vicine, porti in futuro a diluirne l’importante richiamo all’eversione armata degli anni ’70.
Di certo quella stagione così buia della storia repubblicana d’Italia resterà per sempre identificabile con
l’espressione “anni di piombo”, coniata nel 1981 dalla regista tedesca Margarethe Von Trotta per intitolare
il suo film sulla Rote Armee Fraktion, o con quella di “notte della Repubblica”2, inventata alcuni anni più
tardi dal giornalista Sergio Zavoli. Un periodo la cui estensione temporale fluttua tra i quindici e i venti
anni, ma che rimane grosso modo compreso tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’80. Per definirne
una data d’inizio si è soliti utilizzare quella del 12 dicembre 1969, quando una bomba esplose a Milano,
nella sede della Banca dell’Agricoltura, causando la prima strage politica del nostro paese. Ma nella
narrazione del contesto è spesso prassi assodata ricomprendervi anche l’anno 1968, non si sa bene se come
mero termine di inizio o come parte integrante di quella serie di sconvolgimenti che avrebbero investito, di
lì in avanti, la realtà politica, sociale e culturale italiana. Il gruppo eversivo di estrema sinistra più
tristemente noto saranno le Brigate Rosse.
Ma che cosa sono le Brigate Rosse? Per tracciarne una storia bisogna risalire alla fine degli anni ’60. Le
radici ideologiche del gruppo eversivo sono tre. Quella universitaria proviene da Trento. È qui che nel 1967
sorge il movimento di Università Negativa, uno dei prodromi del Sessantotto. Da questa esperienza
provengono Renato Curcio e Margherita Cagol, che verranno in seguito definiti gli ideologi delle Br. La
componente politica, invece, giunge da Reggio Emilia, dove sorge un Collettivo politico operai-studenti
che convoglia alcuni dissidenti del Pci e della Federazione giovanile comunista, come Alberto Franceschini
1
M. G. Lo Duca, Parole politiche nel linguaggio della sinistra storica: ordine/disordine e terrorismo (II), in “Problemi
dell’Informazione”, aprile-giugno 1980, n. 2, pp. 247-259.
2
S. Zavoli, La notte della repubblica, Nuova Eri, Roma, 1995.
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e Prospero Gallinari. Il gruppo trentino e quello emiliano vengono a contatto nel 1969 a Milano: nasce il
Collettivo politico metropolitano. Si tratta di un movimento extraparlamentare di ispirazione marxista-leninista,
che produce una propria rivista dal titolo “Sinistra Proletaria” e nel quale sin da subito confluisce una terza
componente. Sono operai e sindacalisti provenienti dalle grandi fabbriche milanesi, membri dei Comitati
unitari di base della Pirelli, o dei Gruppi di studio nati nel frattempo alla Sit Siemens e alla Ibm. Uno di
questi è Mario Moretti.
Ma il Cpm, alla vigilia degli anni ‘70, è solo una delle tante sigle che affollano la galassia
dell’extraparlamentarismo di sinistra. A Milano è già presente da qualche mese Avanguardia Operaia. A
Roma, da una costola dissidente del Pci, si è costituito il gruppo del Manifesto. Tra i movimenti più attivi del
nord Italia, poi, c’è Potere Operaio, fondato a Padova dal docente universitario Toni Negri. Lotta Continua,
invece, nasce a Torino da una costola del collettivo operaio-studentesco incarnata da Mauro Rostagno e
Adriano Sofri. Sono le organizzazioni che animano i cortei del ‘68 e del ‘69. La lotta armata è presente nella
teoria. Ma non viene mai trasformata in atto.
La scelta delle armi avviene di lì a poco. È l’agosto del 1970 quando a Pecorile, sull’appennino emiliano,
nasce la Brigata Rossa, la cui sigla si cristallizzerà nel giro di pochi mesi in quella di Brigate Rosse (Br). Si
definiscono gruppo guerrigliero. L’ispirazione è quella proveniente dalla Resistenza, sul cui modello
ideologico si erano costituiti anche i Gruppi d’azione partigiana (Gap) di Giangiacomo Feltrinelli. Ma
nell’organizzazione e nelle strategie operative le Br sono simili al Movimento Nazionale Tupamaro, sorto in
Uruguay pochi anni prima. Come i Tupamaros, anche i brigatisti si dividono in “colonne”, praticano
sabotaggi e mettono in fila una serie di sequestri-lampo, per attuare la cosiddetta “propaganda armata”.
Inoltre, sin dall’inizio della loro storia, le Br iniziano a intrattenere contatti internazionali con analoghi
gruppi eversivi sorti in tutta Europa. In Francia c’è Action Directe, braccio armato della Gauche Proletarienne.
In Spagna operano i Grapo. Ma la sigla che forse più si avvicina alle Br è la Rote Armee Fraktion tedesca,
meglio conosciuta con la dicitura Raf, o come Banda Baader Mehinoff, dal nome dei due fondatori Andreas
Baader e Ulrike Mehinoff.
Nate nel 1970, le Brigate Rosse, con alterne denominazioni, espulsioni e scissioni, continuano ad operare
sino al 1986. All’interno di tale lasso temporale è possibile distinguere tre fasi con riferimento al rapporto
tra media e terrorismo:
-
Il primo periodo è quello compreso tra il 1969 e il 1976, contraddistinto dalla
“propaganda armata” che il gruppo eversivo intendeva ottenere tramite le prime azioni,
nonché da quello che alcuni hanno definito lo “strabismo”3 dei mezzi d’informazione,
nel delineare l’immagine ideologica della formazione presso il pubblico. Per i giornali di
sinistra, ma in un primo momento per la gran parte della stampa nazionale, si tratta di un
gruppo “sedicente” e “fantomatico”, di “fascisti mascherati di rosso”, di “Brigate al
servizio dei servizi segreti”. Molti tra i più grandi giornalisti italiani incappano nell’errore
di ravvisare trame nere dietro le Brigate Rosse. Un errore dovuto al clima di diffidenza
che seguì la strage di piazza Fontana, nel 1969, quando i primi indiziati, poi rivelatisi del
tutto innocenti, furono gli anarchici Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Basti pensare
che un cronista del calibro di Giorgio Bocca, ancora nel 1975, scriveva della vicenda
brigatista come di “una favoletta per bambini scemi o insonnoliti” (“Il Giorno”, 23
febbraio 1975). Un errore del quale, con grande onestà intellettuale, avrebbe fatto
pubblicamente ammenda in seguito. Appartengono a tale fase i primi “sequestri lampo”
operati ai danni di alcuni dirigenti e sindacalisti di fabbrica a Milano e Torino, ma anche
la prima azione contro un magistrato: il lungo sequestro del giudice Mario Sossi, nel
3
G. Mastromatteo, Quando i media staccano la spina. Storia del blackout informativo durante gli anni di piombo,
Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007, p. 22.
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1974, che, di fatto, inaugura un nuovo modello di resoconto giornalistico da parte degli
organi d’informazione;
-
La seconda fase si colloca, invece, tra l’8 giugno del 1976 e il 16 marzo del 1978, ovvero tra il
primo omicidio politico deliberatamente messo in atto dalle Br contro il procuratore della
Repubblica di Genova Francesco Coco e il rapimento, a Roma, del presidente della Democrazia
cristiana Aldo Moro. Due momenti rilevanti di quello che la psicofisiologia definisce “diversione
emotiva”4, ovvero del cambiamento di atteggiamento nei confronti di un dato argomento a
seguito di un evento scatenante. Il sistema nazionale dell’informazione giunge alla presa di
coscienza definitiva della reale entità del fenomeno brigatista e del suo potenziale offensivo nei
confronti di ogni apparato statale. Avviene un cambiamento d’atteggiamento nei confronti del
gruppo eversivo che, da “fantomatico” e “sedicente”, passa ad essere “lucido”, “spietato”,
composto da “professionisti” e capace di commettere crimini “efferati”, “agghiaccianti”,
“aberranti”. Da un certo modo di “disinformare” sulle Brigate Rosse, si passa ad un altro, di
segno opposto ma, se possibile, ancora più pericoloso, perché sottintende un implicito timore nei
confronti di un avversario che non si riesce più a tenere a bada e rischia di ingenerare
nell’opinione pubblica il mito del terrorista come bandito inafferrabile. Alla sopravvalutazione
militare l’omicidio Coco assomma, nell’immagine collettiva che delle Br giunge all’opinione
pubblica, una valenza fortemente negativa, insostenibile, di rifiuto assoluto. Le Br sono
repentinamente divenute organizzate, militarizzate, potenti. Ma non possono essere più “Robin
Hood”, né “i compagni che sbagliano”. Ora alzano la P38 e sparano per uccidere, sono assassini.
La comparsa della morte, nell’esperienza eversiva delle Brigate Rosse segna senza dubbio l’inizio
di quella deriva che, in breve tempo, e soprattutto a seguito della tragedia di Aldo Moro, le
condurrà all’isolamento e alla crisi. Il mutamento avviene nell’opinione pubblica, secondo un
canale diretto e lasciando, in tal senso, i mezzi d’informazione come mero strumento, nel senso
più asettico del termine. Ad essi basta riportare la notizia dell’omicidio, ed associarlo alla sigla Br,
per produrre nell’opinione pubblica un cambiamento ben più profondo di quanto avrebbero
potuto fare attraverso pagine di inchieste ed approfondimenti. Il terrorista è isolato e la violenza
che produce resta emarginata in un atto criminale, legato al contesto metropolitano, che non può
tradursi in esperienza rivoluzionaria neppure da un punto di vista simbolico. Nell’arco di meno di
due anni si consuma, dunque, un radicale mutamento di condotta che, però, avviene in parte sulla
pelle stessa dei giornalisti, bersaglio conclamato dei brigatisti a partire dal giugno del 1977;
-
È a partire dal 1978, infine, che nel sistema mediatico nazionale prende le mosse un dibattito in
merito all’opportunità di bloccare le informazioni sul terrorismo. La discussione sul “blackout”,
tratteggiata nelle linee essenziali già con il caso Moro, raggiungerà toni aspri e drammatici, oltre
che un barlume di attuazione pratica, con il sequestro del magistrato Giovanni D’Urso, rapito
dalle Br il 12 dicembre 1980 e rilasciato il 15 gennaio dell’anno successivo. La parola d’ordine,
mutuata da una provocazione del massmediologo canadese Marshall McLuhan, è: “Staccate la
spina e non ci sarà più terrorismo”. Alcuni quotidiani scelgono di percorrere tale via in maniera
ortodossa, altri si appellano alla libertà di informazione e al ruolo del giornalista. Ne emerge una
delle più profonde autoanalisi professionali che il mondo del giornalismo italiano abbia mai
conosciuto.
4
M. Boneschi, Il processo di assuefazione emotiva della stampa quotidiana ai sequestri di persona per estorsione, in
“Problemi dell’Informazione”, aprile-giugno 1979, n. 2, pp. 252-254.
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Figura 1 – Una prima pagina del quotidiano “Il Lavoro” di Genova, durante il “blackout” del 1981.
L’inizio degli anni ’80, segna però anche il primo periodo di crisi per le Br. Il primo pentito, Patrizio Peci,
ha un ruolo fondamentale nel rendere possibile la grande “retata” messa in atto dalle forze dell’ordine. Nel
1981 le Brigate Rosse reagiranno al tradimento uccidendo suo fratello Roberto, dopo due mesi di
sequestro. Nello stesso anno avviene anche una scissione. Con l’arresto di Mario Moretti la dirigenza passa
nelle mani di Giovanni Senzani, noto criminologo che rimarrà celebre con il soprannome di “professor
bazooka”. Da una parte restano i militaristi del “Partito Comunista Combattente”. Dall’altra si stacca il
“Partito Guerriglia” da lui guidato. In mezzo c’è la “Brigata Walter Alasia” che opera a Milano. A Padova
verrà detenuto per 50 giorni il generale americano Lee Dozier, poi liberato grazie all’intervento dei Nocs.
L’ultima scissione, prima della “ritirata strategica” avviene nel 1984. Questa volta a staccarsi dal cuore
militarista è “Seconda Posizione”. Una componente che predica il sindacalismo armato e scansa
l’ortodossia militare. Entrambe le anime si auto-sospendono alla metà degli anni ‘80 e restano in letargo per
quindici anni.
Il revival della “stella a cinque punte” è storia recente. La prima a ricomparire è la sigla Br-Pcc, che tra il
1999 e il 2003 rivendica gli attentati a Massimo D’Antona, Marco Biagi e all’agente della Polfer Emanuele
Petri, morto sul rapido Roma-Firenze, dopo un conflitto a fuoco in cui trova la morte il neo-brigatista
Mario Galesi. Viene arrestata la nuova ideologa della formazione, Nadia Desdemona Lioce. Nel 2007 gli
arresti del gruppo Pcp-m vengono ricondotti, dagli inquirenti, alla “Seconda Posizione” delle Br.
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2. I FATTI DEL 12 FEBBRAIO 2007
a. Gli arresti di Torino, Milano, Padova e Trieste
Il 12 febbraio 2007 la Polizia porta a termine l’Operazione Tramonto. Un’indagine durata tre anni, coordinata
dal Sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Ilda Boccassini, e che ha coinvolto l’Ucigos, il Sisde e
le Digos di quattro Questure italiane: Torino, Milano, Padova e Trieste. Vengono arrestate 15 persone,
accusate di aver costituito una banda armata con fini di sovversione dello Stato, denominata Partito
Comunista Politico-Militare. Gli arrestati sono: Davide Bortolato, Amarilli Caprio, Alfredo Davanzo, Bruno
Ghirardi, Massimiliano Gaeta, Claudio Latino, Alfredo Mazzamauro, Valentino Rossin, Davide Rotondi,
Federico Salotto, Andrea Scantamburlo, Salvatore Scivoli, Vincenzo Sisi, Alessandro Toschi e Massimiliano
Toschi. Tra di essi ci sono alcuni irriducibili provenienti da diverse formazioni armate degli anni ’70 e ’80,
come Alfredo Davanzo, considerato l’ideologo della nuova formazione, Claudio Latino e Bruno Ghirardi.
Ma ci sono anche sindacalisti di fabbrica, come Davide Bortolato, e ragazzi poco più che ventenni,
provenienti dal Centro Popolare Occupato “Gramigna” di Padova, come Alfredo Mazzamauro, Amarilli Caprio,
Federico Salotto e i fratelli Toschi.
Stando alle rivelazioni degli inquirenti il gruppo era in possesso di un arsenale di armi ed era già pronto per
effettuare alcuni attentati. Erano stati infatti individuati come futuri obiettivi nelle conversazioni, e già
alcune volte fatti oggetto di sopralluoghi ed embrionali inchieste, sedi legate al mercato del lavoro, come il
Punto Marco Biagi di Via Savona a Milano, o persone legate alle medesime tematiche, come il professor
Pietro Ichino; soggetti ritenuti responsabili di situazioni di nocività in fabbrica come ex dirigenti della
Breda, azienda coinvolta nella vicenda dell’amianto; luoghi simbolici delle aree politiche di centro-destra,
quali la villa della famiglia Berlusconi in Via Vincenzo Monti e le sedi di Mediaset e dell’emittente Sky a
Cologno Monzese; la sede dell’Eni a San Donato milanese e obiettivi israeliani da colpirsi con esplosivo
fabbricato con prodotti di uso comune come i fertilizzanti.
L’obiettivo più vicino nel tempo avrebbe dovuto essere, a Pasqua, la sede del quotidiano “Libero” in Viale
Majno, sempre a Milano, oggetto già nel gennaio 2007 di due sopralluoghi ad opera di Claudio Latino e
Bruno Ghirardi. Ma tra i possibili obiettivi c’erano anche esponenti della “vecchia” destra neofascista
milanese quali Pasquale Guaglianone di cui gli indagati avevano in osservazione la palestra “Doria” da lui
diretta. Tuttavia, l’unico obiettivo sicuramente già colpito da esponenti del Pcp-m rimane la sede padovana
del movimento di estrema destra Forza Nuova, oggetto di un attentato con materiale infiammabile il 22
novembre del 2006.
b. L’Ordinanza di custodia cautelare
Prima di procedere con l’analisi degli articoli comparsi sui giornali italiani del 13 febbraio 2007, ci
concentriamo ora sulla ricostruzione di quanto comunicato dalle autorità inquirenti in merito agli arresti
operati tra Torino, Milano, Padova e Trieste. Gli stralci che seguono sono tratti in parte dalle 173 pagine
dell’Ordinanza di custodia cautelare redatta dal Gip di Milano Guido Salvini, in parte dalla conferenza
stampa tenuta il 12 febbraio 2007 presso la Questura di Padova, alla quale abbiamo preso parte.
Innanzitutto val la pena riportare il capo d’imputazione che grava sui 15 arrestati. A pagina 2 del
documento prodotto dal Tribunale di Milano si legge che essi sono accusati:
“dei reati di cui agli artt. 81 1° comma, 112 n. 1, 306 1° 2° e 3° comma (in relazione all’art. 270
bis c.p. e quindi aggravato dall’art.1 Legge 15/1980) nonché all’art. 270 bis 1° e 2° comma c.p.
per avere, in concorso tra loro e con altre persone sconosciute (e, quindi, con l’aggravante del
numero delle persone superiore a cinque) secondo le qualifiche a ciascuno di loro
rispettivamente ascritte ed appresso specificate, da un lato costituito, organizzato e partecipato,
al fine di commettere il delitto di cui all’art. 270 bis c.p., ad una banda armata (306 c.p.) e
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dall’altro costituito, diretto, organizzato, finanziato e partecipato a tale associazione (270 bis
c.p.) avente iniziale denominazione “PCP-M - Partito Comunista Politico-Militare, che si propone il
compimento, anche con l’uso delle armi, di atti di violenza (contro l’ordine pubblico, la vita e
l’incolumità delle persone ed altri obiettivi “politici”) con finalità terroristiche e di eversione
dell’ordine democratico; associazioni caratterizzate da rapporti con altri gruppi operanti anche
all’estero (in particolare in Svizzera) aventi analoghi obiettivi, nonché da una struttura
compartimentata, avente un vertice operante in stato di clandestinità e dotate, infine, di un
foglio di propaganda, clandestinamente diffuso, denominato L’Aurora; associazioni costituite
in Milano, tra il 2003 ed il 2004, tuttora operanti, aventi il loro principale centro operativo e
logistico in Milano, ma aventi anche strutture operanti in altre zone d’Italia, tra cui Veneto e
Piemonte”5.
Nessun cenno viene, dunque, fatto circa la discendenza o contiguità dell’associazione eversiva con altre
formazioni attive negli anni ’70 e ’80 e, segnatamente, con le Brigate Rosse. Tale riferimento compare più
avanti, nella PREMESSA, che analizza con dovizia di particolari il contesto all’interno del quale
l’organizzazione Pcp-m si muoveva. Ne riportiamo ampi stralci:
“La presente ordinanza di applicazione di misura cautelare riguarda i militanti sinora conosciuti
e comunque il nucleo essenziale di una organizzazione con finalità inequivocabilmente eversive
dell’ordinamento costituzionale venuta alla luce a seguito delle indagini delegate a partire dal
2004 dalla Procura di Milano e condotte con grande professionalità e impegno dalle Digos di
Milano, Padova e Torino”6.
Figura 2 – L’Ordinanza di custodia cautelare
“Al fine di meglio comprendere i soggetti e gli avvenimenti che si muovono all’interno di
un’indagine anche tecnicamente così complessa e di collocarli in una corretta posizione nella
storia e nell’esperienza del terrorismo interno quale si è sviluppato, pur con periodi di pausa,
5
Tribunale Ordinario di Milano (Giudice per le indagini preliminari Guido Salvini), Ordinanza di applicazione della misura
della custodia cautelare in carcere, 29/01/2007, p. 2.
6
Ibidem, p. 8.
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dall’inizio degli anni ’70, occorre ricordare che il livello di attenzione nei confronti del ritorno
all’azione di gruppi eredi delle vecchie Brigate Rosse non poteva dirsi esaurito con lo
scompaginamento e l’arresto di quasi tutti i militanti della ‘nuova’ organizzazione che era
ricomparsa nel 1999. L’organizzazione cioè Brigate Rosse – per la Costruzione del Partito Comunista
Combattente responsabile degli omicidi del prof. Marco Biagi e del prof. Massimo D’Antona.
Infatti non bisognava dimenticare, e non lo hanno dimenticato gli investigatori e gli inquirenti
che non hanno disperso le conoscenze maturate nel tempo sui fenomeni eversivi, che il
possibile ritorno delle Brigate Rosse non si esauriva nella ricostituzione del Partito Comunista
Combattente, pressoché sgominato dalle ultime indagini, ma doveva non sottovalutare il fatto
che nel 1984, nelle vecchie Brigate Rosse in fase di sconfitta e di ritirata dopo la
neutralizzazione negli anni precedenti di intere colonne, si erano manifestate, nel corso del
dibattito appunto sulla ritirata strategica, due posizioni: la cosiddetta Prima Posizione di
impianto prettamente militarista che ribadiva la validità dell’attacco al cuore dello Stato e la
cosiddetta Seconda Posizione che criticava le derive militariste e soggettiviste e sceglieva la
linea di una guerra più propriamente rivoluzionaria di lunga durata.
Tale secondo spezzone delle vecchie B.R., dopo aver dato origine all’Unione dei Comunisti
Combattenti responsabile negli anni 1986/1987 del ferimento dell’economista Antonio Da
Empoli e dell’uccisione del generale Licio Giorgeri, a sua volta smembrata da una serie di
arresti, non era tuttavia del tutto scomparso continuando, anche grazie alla latitanza in Francia
di alcuni militanti, ad operare sotterraneamente sino a oltre la metà degli anni ’90 e oltre e
dando vita alla Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente che pubblicava
attraverso vari canali semi-legali l’opuscolo Per il Partito, di fatto progenitore del bollettino
L’Aurora”7.
È proprio attorno alle tesi espresse all’interno di tale pubblicazione, che gli inquirenti ravvisano il legame
più forte, dal punto di vista ideologico e strategico, tra la formazione eversiva attuale e il segmento
brigatista “movimentista” staccatosi dal cuore “militarista” delle Br nel 1984. Riferimenti espliciti a questa
lettura sono evidenti sia nella PREMESSA, che successivamente, all’interno dell’Ordinanza, laddove si
parla dell’indagine di supporto operata dal Sisde:
“Il bollettino L’Aurora si dichiara esplicitamente erede della Seconda Posizione delle Brigate
Rosse ed afferma la necessità della costituzione appunto del Partito Comunista PoliticoMilitare […] secondo il modello maoista della ‘guerra popolare prolungata’, diversificandosi
con ciò tanto dal Partito Comunista Combattente, che continuerebbe a dare la prevalenza
all’azione militare sull’azione politica e di massa, quanto dall’area dei C.A.R.C. e degli altri
gruppi radicali antagonisti accusati di attendismo e di aver abbandonato ogni prospettiva
realmente rivoluzionaria, sino addirittura a partecipare alcune volte alle competizioni
elettorali”8.
“Il sodalizio criminoso si muoveva su un doppio livello: uno occulto (rectius clandestino) e
l’altro palese ed aveva come organo di diffusione delle proprie istanze la pubblicazione
clandestina L’AURORA. L’associazione riproponeva le tesi proprie di seconda posizione
(formazione sorta nel 1984) a seguito di una spaccatura all’interno delle Brigate Rosse”9.
Concetto ribadito anche dal Questore di Padova Alessandro Marangoni e dal capo della Digos patavina
Lucio Pifferi, durante la conferenza stampa convocata il 12 febbraio nella Questura della città del Santo. Il
7
Ibidem, pp. 8-9.
Ibidem, p. 9.
9
Ibidem, p. 133.
8
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riferimento, infine, compare ancora una volta nella parte terminale del documento firmato da Salvini, nel
paragrafo intitolato, per l’appunto, La pubblicazione clandestina “L’Aurora” organo di propaganda del gruppo e
strumento di reclutamento, laddove si passa ad analizzare nello specifico i contenuti del bollettino clandestino e
le tesi in esso descritte:
“L’Aurora ha cominciato a circolare clandestinamente a partire dal febbraio 2003. Con il
‘numero zero’ gli autori avevano annunciato la costituzione del Partito Comunista PoliticoMilitare PCP-M, dichiarando di aderire alla linea di ‘seconda posizione’, fondavano la loro strategia
sulla guerra popolare prolungata, in cui il partito, operando in clandestinità, assume la guida
delle masse popolari recependone le istanze ed educandone la coscienza rivoluzionaria”10.
Sul sito della Polizia di Stato, del resto, compare proprio il 12 febbraio, un documento in Pdf che tenta di
spiegare al pubblico “chi sono gli arrestati”. Si parla di una associazione sovversiva vicina all’ala movimentista delle
Br, questo il titolo del breve scritto che ripercorre le già citate tappe di evoluzione della Seconda posizione
brigatista. Anche qui, poi, si parla delle tesi propagandate mediante la rivista L’Aurora:
“Si tratta di un impianto di chiara derivazione movimentista, che pur criticando l’impostazione
militarista delle BR-PCC, si distacca dalle ‘stagnanti’ posizioni espresse dai CARC. Le indagini
hanno consentito di riscontrare che al gruppo disarticolato con l’operazione odierna è
sicuramente riconducibile la redazione e la diffusione dell’opuscolo L’Aurora”11.
Questi, dunque, gli elementi indiziali e probatori addotti dalla Digos e dal Sisde e, successivamente,
ratificati dal Tribunale di Milano che ha emesso gli ordini di arresto. Ne emerge un quadro di certo
coerente quanto al contesto nel quale operava il gruppo eversivo sgominato. E un’analisi piuttosto
convincente sui richiami di questo alla componente “movimentista” delle Brigate Rosse. Tuttavia, nessun
elemento probatorio attesta la reale contiguità e continuità del gruppo denominato Pcp-m con le Brigate
Rosse. Né vi sono evidenze fattuali che la certifichino, come fu nel 2003, quando a finire in carcere furono
i militanti di un gruppo che si autodefiniva Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente.
Val qui la pena di ricordare, infine, che l’Ordinanza di custodia cautelare rappresenta un mero documento
d’indagine preliminare, che, di fatto, dà il via ad una inchiesta giudiziaria e, dunque, espone il risultato delle
indagini compiute da Procura della Repubblica e forze dell’ordine sino al momento dell’arresto degli
indagati.
Sulla base di ciò, passiamo ora ad analizzare il comportamento della stampa italiana, il giorno dopo gli
arresti.
10
11
Ibidem, p. 134.
Approfondimento Chi sono, in www.poliziadistato.it
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3. ANALISI DEI TITOLI DEI QUOTIDIANI DEL 13 FEBBRAIO 2007
Già da una prima disamina dei titoli riportati dai quotidiani italiani nell’edizione del 13 febbraio 2007
appare chiaro che gli arresti operati dalla Polizia abbiano avuto un forte impatto sulle scelte redazionali. Il
riferimento alla sigla Brigate Rosse, fatto dagli inquirenti in tutte e quattro le concomitanti conferenze
stampa di Milano, Torino, Trieste e Padova, convince tutti gli organi di stampa nazionali a dedicare ampio
spazio alla vicenda. Tra gli elementi che contribuiscono a “montare” la notizia c’è, inoltre, il fatto che tra i
possibili obbiettivi della formazione figurerebbe l’ex Presidente del Consiglio e leader della Casa delle
libertà Silvio Berlusconi.
In quasi ogni prima pagina, l’apertura è dedicata al blitz anti-terrorismo. E nei titoli compare quasi sempre
un esplicito riferimento alle Brigate Rosse.
Vediamoli nel dettaglio.
Il “Corriere della Sera” titola su sei colonne Blitz contro le Br: “Erano pronte a colpire”. Nell’occhiello si
informa: Inchiesta della Procura di Milano. Amato: sventato un attentato. Ecco tutte le carte. Infine il sommario:
Quindici arresti, ci sono anche iscritti della Cgil. Nel mirino Ichino e una casa di Berlusconi. In un video le esercitazioni
armate. La Boccassini: si consideravano in guerra con lo Stato. Quindi, il giornale di via Solferino dedica 6 pagine
interne all’accaduto, corredando gli articoli con tabelle che tracciano la storia delle Brigate Rosse dal 1970
in poi.
Figura 3 – La prima pagina del “Corriere della Sera” del 13 febbraio 2007
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Simile è l’atteggiamento de “La Stampa”, che apre a tutta pagina con il titolo Colpite al cuore le Nuove Br,
sotto una fotografia che ritrae gli agenti della Digos in azione a volto coperto e, di spalla, un editoriale di
Riccardo Barenghi dal titolo Un lungo filo rosso. Ci pare qui interessante proporre alcune considerazioni in
merito al titolo di prima pagina scelto dal quotidiano di Torino. Oltre al riferimento esplicito alla sigla Br,
che come abbiamo detto sarà fatto proprio da quasi tutti i quotidiani, appare emblematica la costruzione
del titolo: Colpite al cuore le Nuove Br. L’uso dell’espressione “colpire al cuore” rimanda direttamente agli anni
’70 e, segnatamente, al primo comunicato redatto dalle Brigate Rosse nel 1974 durante il sequestro del
magistrato genovese Mario Sossi. Un’azione che l’allora direzione strategica delle Br inquadrò in una nuova
fase dello scontro, descritta dal motto: “Contro il neogollismo portare l’attacco al cuore dello Stato”. Nella
simbologia brigatista, mutuata peraltro dalle teorie della rivoluzione prodotte negli anni ’60 da alcuni
guerriglieri sudamericani come il brasiliano Carlos Marighella12, l’“attacco al cuore dello Stato” doveva
essere la fase immediatamente successiva a quella della “propaganda armata”, ossia del proselitismo.
L’espressione “colpire al cuore”, inoltre, rimase talmente radicata nella terminologia brigatista da divenire
uno degli slogan di più facile impatto sui mezzi di informazione e finendo per identificare dapprima le
Brigate Rosse, quindi l’intera galassia eversiva di sinistra. Tanto che, alla metà degli anni ’80, il regista
Gianni Amelio intitolò proprio in questo modo il suo film sugli “anni di piombo”. Nel titolo de “La
Stampa”, infine, l’espressione viene utilizzata con piglio retorico. Ad essere “colpite al cuore” sono le
Nuove Br e non lo Stato. Anzi, è lo Stato che “colpisce al cuore” gli eredi delle vecchie Brigate Rosse. Un
titolo che ci pare, dunque, emblematico non solo perché utilizza una terminologia che riporta
immediatamente agli anni ’70, ma anche perché propone un’accattivante inversione di senso.
La prima pagina de “La Repubblica” ricalca il titolo del Corriere: “Presi 15 br pronti a colpire”. Anche il
giornale fondato da Eugenio Scalfari non ha riserve nel trovare un incontestabile collegamento con il
brigatismo rosso. Il sommario recita: Sindacalisti Cgil tra gli arrestati. L’economista Pietro Ichino nel mirino. In un
riquadro appena sotto il titolo d’apertura si leggono i richiami alle interviste, sviluppate nelle pagine interne,
a Ichino e al leader della Cgil Guglielmo Epifani. “Siamo nemici, ci usano come copertura”: è la dichiarazione
allarmata del sindacalista, che invoca la necessità per il sindacato di manifestare compatto il messaggio di
lotta al terrorismo, come accaduto durante gli anni di piombo. I commenti sono affidati a Giuseppe
D’Avanzo. Le esternazioni di Epifani e l’articolo di fondo di D’Avanzo - dal titolo emblematico Il fantasma
terrorista – sembrano riproporre paure e proclami d’antan, simili a quelli che trovavano spazio sulle prime
pagine dei quotidiani nazionali nel periodo in cui le Br avevano raggiunto il punto di maggiore esposizione
mediatica.
“È il profilo di un terrorismo cinico – scrive D’Avanzo –, assassino, ma non disperato perché consapevole di poter far leva
sulle divisioni sociali, sulla rabbia dei più giovani, sulla frustrazione dei lavoratori, sulla paura delle comunità, sul timore di
ciascuno di perdere quel che si ha senza averne in cambio nemmeno una speranza”. L’editorialista di Repubblica, di
fronte a fatti da poco avvenuti e non ancora chiaramente delineati, si sbilancia in direzione di una precisa
tesi interpretativa. La riemersione delle Br non deve stupire più di tanto. Esse non erano scomparse. La
loro ideologia era rimasta latente in un contesto sociale caratterizzato da un forte disagio giovanile e da
un’evidente precarietà lavorativa. D’Avanzo sembra essere sicuro che il tema del giorno è il brigatismo e
sembra blandire l’ipotesi che il fenomeno, al di là della recente operazione di polizia e magistratura, debba
considerarsi ancora vivo e lontano da una soluzione definitiva.
Berlusconi e Mediaset nel mirino delle Br è il titolo de “il Giornale”. Anche in questo caso viene asserita senza
possibilità di equivoci l’appartenenza dei 15 arrestati allo storico gruppo eversivo. È curioso notare che il
titolo di prima pagina, come spesso accade nel giornalismo italiano, presenti toni perentori e
sensazionalistici che non trovano riscontro nello sviluppo dell’articolo collegato. In un solo caso, e a metà
del testo, il giornalista Gianluigi Nunzi parla di “una colonna delle Brigate Rosse smantellata”. L’incipit
12
C. Marighella, Piccolo manuale della guerriglia urbana, stampato in proprio, 1969.
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dell’articolo, in prima pagina, invece, è decisamente più prudente: si parla di una “presunta associazione
terroristica che voleva creare un Partito comunista politico-militare”.
Dall’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini emerge che tra gli obbiettivi
degli attentati che il Pcp-m sembrava stesse organizzando c’era anche il quotidiano milanese “Libero”.
Libero odiato dalle Br. Bene. Un breve ma pregnante occhiello chiarisce il tema di cui si sta parlando: attentati
terroristici. A centro pagina una foto del direttore Vittorio Feltri e i titoli-richiamo a due articoli di
approfondimento che si soffermano su coperture e complicità che, a giudizio del quotidiano milanese,
parte dei sindacati e dei partiti di sinistra avrebbero offerto alla nuova formazione terroristica.
Il quotidiano “Il Foglio”, poi, apre il proprio colonnino dedicato a La Giornata con un titolo che bissa quelli
sinora analizzati: Blitz contro le nuove Brigate Rosse. Arrestate 15 persone. Di spalla il consueto approfondimento
del giornale di Giuliano Ferrara, questa volta intitolato Le Br sono sempre con noi. Preparavano attentati a Libero,
Eni, Cav. e Ichino.
“Il manifesto” apre con la consueta foto-notizia in prima pagina. L’immagine mostra una stella a cinque
punte incisa su una parete, il titolo recita: Fuori stagione. Il giorno successivo la foto mostrerà uno degli
arrestati mentre viene tradotto su una gazzella della Polizia, con l’altrettanto emblematico titolo: Danni di
piombo. Il sommario spiega: I presunti terroristi, interrogati senza avvocato, si chiudono nel silenzio e un altro di loro si
proclama “prigioniero politico”. L’opposizione attacca: “La sinistra deve fare autocritica”. Rivendicazione al “Corriere della
Sera”. Clima da “emergenza nazionale”. Prodi: duro colpo, spero fatale. Epifani: il sindacato reagirà. Da sottolineare, in
questo caso, è dapprima la formula “presunti terroristi” utilizzata dal “Manifesto”, unico tra tutti i
quotidiani da noi analizzati, ad usare l’aggettivo cautelativo e ad evitare il termine “brigatista”. Nello stesso
sommario, tuttavia, si fa riferimento al fatto che uno degli arrestati si sia dichiarato “prigioniero politico”.
Pratica, quest’ultima, in uso da parte degli eversori politici degli anni ’70. Anche l’espressione “clima da
emergenza nazionale” richiama gli assetti politici di quel periodo, ispirati alla solidarietà di tutte le forze
politico-istituzionali per combattere l’idra terroristica e superare il momento critico sul fronte dell’ordine
pubblico. A pagina 4, poi, il quotidiano comunista riporta un titolo che, sotto la testatina Terrorismo e
movimenti parla anche della imminente manifestazione di Vicenza contro la base americana al Dal Molin. Tra
gli intervistati c’è Luca Casarini: Il leader dei disobbedienti padovani: “Il nostro è un altro album di famiglia”.
L’espressione “album di famiglia” è, anche in questo caso, un chiaro retaggio degli “anni di piombo”. Ad
utilizzarla fu, infatti, Rossana Rossanda, proprio sulle colonne del “Manifesto”, durante il sequestro Moro,
evidenziando i richiami e le discendenze che il linguaggio delle Brigate Rosse dimostrava di avere con
quello di tutta la sinistra italiana e, in particolare, con quello del Pci del dopoguerra:
“Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio
delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli elementi che ci vennero
propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”13.
Anche i periodici, del resto, malgrado il maggior tempo a disposizione per somatizzare la notizia,
espongono sulle proprie pagine l’inequivocabile sigla Brigate Rosse. È il caso del settimanale “L’Espresso”
che, nell’edizione del 22 febbraio, titola in prima pagina Baby Br, spiegando poi nel sommario: Sono le nuove
leve del terrorismo. Reclutate in fabbrica e nei centri sociali per fare proselitismo tra i giovani.
Passando ai quotidiani locali, interessante è altresì l’apertura de “Il Gazzettino”, che sulla prima pagina
nazionale informa a sette colonne: Nel veneto la nuova centrale del terrore Br. E nell’occhiello: Nei piani sequestri e
gambizzazioni. Quindi, sulla prima pagina dell’edizione di Padova rilancia: Terrorismo, bloccata la colonna
padovana. E più in basso, nel sommario: Erano collegati agli arrestati di Milano, Br di Seconda posizione. Nel caso
del “Gazzettino” ci sembrano evidenti alcuni dei vizi che hanno contraddistinto l’intera informazione
nazionale all’indomani degli arresti del 12 febbraio. Innanzitutto il riferimento alla sigla Br che, nel caso del
quotidiano del Nordest, diviene ancor più azzardato, con l’utilizzo dell’espressione “Br di Seconda
13
R. Rossanda, Il discorso sulla Dc, in “Il Manifesto”, 28 marzo 1978, p. 1.
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posizione” che, di fatto, identifica senza possibilità di equivoci una formazione nata nel 1984 e dissoltasi
pochi anni dopo con la “ritirata strategica”. Ancor più interessante, però, ci pare l’apertura del dorso
padovano del giornale, che pur facendo riferimento più in generale al “terrorismo”, parla altresì di una
“colonna padovana” bloccata dalle forze dell’ordine. Ora, il termine “colonna” identifica, anche qui senza
possibilità di fraintendimenti, la compartimentazione logistico-operativa utilizzata dalle Brigate Rosse negli
anni ’70. E che, a loro volta, i brigatisti ereditarono dai Tupamaros uruguagi. Nulla di quanto affermato
dagli inquirenti, né di quanto redatto nell’Ordinanza di custodia cautelare, fa supporre che il Pcp-m fosse
suddiviso in “colonne”. Anzi, gli stessi inquirenti fanno spesso riferimento a delle “cellule” o a dei “nuclei”,
operanti nelle città di Milano, Torino e Padova. Anche qui, dunque, l’utilizzo del termine “colonna” diventa
strumentale. Con esso, più che l’oggetto in sé, si vogliono richiamare una serie di assunti linguistici che
riportano inequivocabilmente alla storia delle Br e, più in generale, al periodo degli “anni di piombo”.
Stesso discorso può essere fatto per l’espressione “gambizzazioni”, che compare sulla prima pagina
nazionale, nell’occhiello del titolo d’apertura. Anche in questo caso torna in auge una terminologia nata,
cresciuta e morta nel periodo degli anni ’70 e ’80. I termini “gambizzare” e “gambizzato” vengono utilizzati
per la prima volta tra il 1976 e il 1977, specie dopo il triplice attentato ai giornalisti Vittorio Bruno, allora
direttore de “Il Secolo XIX”, Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale Nuovo” e Emilio Rossi, direttore
del Tg1. Il tetro neologismo, coniato ad hoc dalla stampa italiana, stava ad indicare il ferimento alle gambe
mediante colpi di pistola. Termine che, in ogni caso, era rimasto ben lontano dalle pagine dei quotidiani per
oltre vent’anni. E lo stesso si potrebbe dire per l’espressione “autofinanziamento”, che compare in un
sommarietto sulla prima pagina padovana del “Gazzettino”. Ad “autofinanziarsi” tramite rapine erano
infatti i brigatisti prima maniera, che non mancarono di consegnare ai propri volantini e, di qui, alle stampe,
tale nuovo vocabolo.
In ogni caso, il clima da revival della stagione lottarmatista produce, nei giorni successivi agli arresti, una
sorta di psicosi mediatica. Telefonate di presunti brigatisti giungono alle redazioni del “Corriere della Sera”,
del “Secolo XIX” di Genova e di alcuni quotidiani romani. “La bandiera caduta è stata raccolta” lo slogan
registrato dai centralini del quotidiano genovese. Nel caso di Milano, invece, la voce captata in via Solferino
dice di appartenere alla Brigata “Walter Alasia”, la storica colonna meneghina delle Br, staccatasi dal nucleo
militarista nel 1981 e sciolta pochi anni dopo. A Roma i messaggi telefonici recano addirittura la firma di
una non meglio precisata e mai prima udita Brigata “Mario Galesi”, dal nome del neobrigatista morto sul
rapido Roma-Firenze nel 2003. In tutti questi casi i quotidiani riportano la notizia sotto titoli che hanno
grosso modo lo stesso tenore: Telefonata Br al Corriere oppure I brigatisti chiamano il Secolo XIX. E addirittura
più emblematici sono i casi che si verificano sulle colonne dei quotidiani locali, magari anche
geograficamente distanti dai luoghi degli arresti.
Citiamo un caso occorso nel Comune di Senigallia (An), di cui si è occupata la testata marchigiana
“Corriere Adriatico”. Il 19 febbraio, una settimana dopo gli arresti operati dalla Polizia nel Nord Italia, un
consigliere comunale della cittadina marchigiana, l’avvocato Roberto Paradisi, occasionalmente
collaboratore del quotidiano “Libero”, viene fatto oggetto di alcune intimidazioni. Sulle pareti della palestra
della Us Pallavolo, di cui è dirigente, compare un volantino con la sua foto, una stella a cinque punte e la
dicitura: “Paradisi muori”. Il giorno dopo il “Corriere Adriatico” apre la prima pagina con un perentorio
titolo a sei colonne: Minacce firmate Br a Senigallia. Nelle pagine interne un ulteriore titolo a tutta pagina:
“Paradisi muori” e a fianco la stella Br. All’interno dell’articolo il redattore spiega l’accostamento con la sigla del
gruppo terroristico anni ’70:
“La scritta ‘Paradisi muori’ sul volantino, così come il suo volto cerchiato sulla fotografia, sono
accompagnati entrambi dal simbolo delle Brigate rosse, quella stella a cinque punte tristemente
famosa negli ‘anni di piombo’, che apriva tutti i comunicati che accompagnavano le azioni dei
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terroristi e che proprio negli ultimi giorni, in particolare dopo gli arresti effettuati tra
Lombardia e Veneto, è ricomparsa un po’ ovunque, come mai negli ultimi anni”14.
La veloce disamina sin qui compiuta ci sembra sufficiente per evidenziare l’approssimazione e, non di
rado, il sensazionalismo che hanno contraddistinto le scelte giornalistiche dei quotidiani italiani
all’indomani degli arresti contro il gruppo denominato Partito Comunista Politico-Militare. Tutti i quotidiani, a
parte “Il manifesto”, espongono in prima pagina la sigla Br o i sostantivi “brigatista” e “brigatista rosso”.
Sono, quindi, frequenti i riferimenti linguistici alla terminologia eversiva degli anni ’70. Dato che si fa più
evidente, come abbiamo avuto modo di esporre, sulle testate quotidiane locali. Cercheremo ora di entrare
nello specifico, prendendo in esame alcuni articoli comparsi sui giornali del 13 febbraio 2007 e dei giorni
successivi.
14
V. Oliveri, “Paradisi muori” e a fianco la stella Br, in “Corriere Adriatico”, 20 febbraio 2007, p. 15.
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4. ARTICOLI
Passando all’analisi testuale degli articoli comparsi sui maggiori quotidiani italiani, quello che colpisce è
innanzitutto la discrasia tra la lucidità d’analisi dimostrata da (pochi) cronisti attenti alle dinamiche politicoeversive, e la superficialità che contraddistingue la gran parte della categoria. Prendiamo il caso del
“Corriere della Sera”. Sul quotidiano di via Solferino trova albergo una delle migliori analisi, a nostro
avviso, tra quelle lette in quei giorni. La firma il cronista giudiziario Giovanni Bianconi, che peraltro vanta
una lunga bibliografia sul fenomeno eversivo neo-brigatista. Il pezzo, alle pagine 2 e 3, è intitolato: L’uso
“tattico” della lotta armata e il filo degli anni ’80. Lo riportiamo integralmente:
“Il primo foglio clandestino risale all’aprile 1999, un mese prima dell’omicidio D’Antona. Gli
altri erano già pronti ad uccidere il consigliere del ministro Bassolino, mentre loro
cominciavano ad elaborare teorie. Sempre relative all’«avanguardia comunista combattente»,
ma con un’altra prospettiva. Tanto che il secondo documento, datato ottobre 2000, critica
l’«eccessiva concretezza militare» delle nuove Br, frutto di una «analisi lacunosa di un bilancio
complessivo dell’attività del movimento comunista internazionale e della stessa politica
italiana». Linguaggio involuto, tipico di brigatisti o aspiranti tali. Volevano dire che il delitto
D’Antona era una fuga in avanti. Così come l’omicidio-fotocopia di Marco Biagi, marzo 2002;
il numero 0 della rivista clandestina Aurora, stampato nell’estate di quell’anno, esprime
«apprezzamento» per l’azione, anche se «il livello di intervento è ritenuto troppo alto se
rapportato alle attuali condizioni politiche della massa che deve seguire un percorso di
maturazione graduale». Dopo la drammatica esperienza del delitto politico rispuntato dal nulla
nel ‘99, gli investigatori dell’antiterrorismo non tralasciano di analizzare nemmeno una riga di
documenti come questi. Capiscono e annotano che sta nascendo una nuova fazione brigatista,
con evidenti richiami alle idee che nel 1984 portarono la «seconda posizione» delle Br a
fondare l’Unione dei comunisti combattenti. Criticavano la «strategia della lotta armata»
ridottasi al rituale di un omicidio all’anno, rivendicando l’uso tattico della violenza per arrivare
a un più ampio consenso popolare e insurrezionalista. Il miraggio finale era perfino la
costruzione di un partito semi-legale che facesse da sponda all’organizzazione clandestina in
armi, come in Irlanda e nei Paesi baschi. Il paradosso fu che per propagandare quelle posizioni
contrarie all’assassinio seriale e poco più, l’Udcc dovette compiere azioni armate: il ferimento
dell’economista Da Empoli (1986) e l’omicidio del generale Giorgieri (1987). Si sparava per
dire che bisognava dare agli spari un significato diverso, ma il risultato era sempre qualcuno
lasciato sull’asfalto, azzoppato o morto. Oggi il rischio intravisto da polizia e magistrati è
esattamente lo stesso. Questa nuova formazione che forse si chiama «Partito comunista
politico-militare» si porrà pure in disaccordo con gli assassini di D’Antona e Biagi, le Br-pcc,
ma per affermare la propria linea doveva mettersi sullo stesso piano: la lotta armata. Tattica
anziché strategica, ma sempre lotta armata. Che certamente non ha i campi da arare degli anni
Settanta, ma può ancora fare proseliti e soprattutto è un pericolo per le vittime potenziali. Il
seguito delle indagini dirà se gli obiettivi di cui si parla in queste prime fossero in reale e
imminente pericolo; di sicuro, chi predica la lotta armata attraverso mosse e pubblicazioni
clandestine (e accumula armi e soldi, e si esercita nottetempo) prima o poi deve praticarla. S’è
visto che basta un pugno di uomini e donne a commettere delitti che irrompono sulla vita
pubblica (oltre che in quella privata delle vittime) con effetti devastanti. Anche ora che la
rivoluzione e la sigla Br sembrano più un vessillo da sventolare contro la mediazione dei
conflitti che un reale pericolo per le istituzioni democratiche. Di qui la decisione di intervenire
preventivamente, prima che la nuova organizzazione facesse danni più seri di una rapina
andata a vuoto o di un attentato a una sede neo-fascista (non firmato, altra similitudine con le
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Br-pcc che alle azioni minori riservavano sigle diverse, per dare l’idea di un fermento
inesistente). La decisione del presunto capo (un clandestino volontario, cioè con falsa identità
anche se non ricercato) di dichiararsi «prigioniero politico» rappresenta una prima conferma
alle conclusioni, ancora parziali, di un’indagine «pura», condotta con metodo quasi scientifico
tra mille difficoltà, utilizzando tutti gli strumenti possibili: dalle intercettazioni ambientali
decise e realizzate quasi in tempo reale, al «ritardato arresto» di chi commetteva reati ma
bisognava continuare a seguire per risalire agli altri rami dell’organizzazione. L’inchiesta fa
intravedere anche la ripresa di antichi rapporti tra brigatisti del tempo che fu, e il ritorno in
attività di criminali comuni convertiti alla militanza politica. Vecchi scenari che si riaffacciano
dietro un gruppo in cui la maggior parte degli arrestati ha un’età che ha consentito loro di
respirare il clima della lotta armata propagandata negli anni Ottanta, quando già era cominciato
il tramonto e si dividevano tra prime e seconde posizioni, appunto. Ma c’è pure chi è nato
negli anni Settanta, o addirittura nel 1984. Una novità rispetto alle Br che hanno ucciso
D’Antona e Biagi; segno inquietante del fascino che quel consunto vessillo sventolato a colpi
di pistola o mitraglietta può ancora esercitare su qualche giovanissimo”15.
Fermo restando il valore intrinseco del pezzo di Bianconi, capace di spiegare con rara capacità d’analisi e
di sintesi sia i fatti che il contesto nei quali essi sono avvenuti, vogliamo qui mettere in evidenza alcuni dei
passaggi chiave di questo articolo, che ne rivelano l’assoluta correttezza contenutistica.
Bianconi spiega gli addentellati che il gruppo arrestato dalle forze dell’ordine potrebbe avere, sia a livello
ideologico che strategico, con la vecchia ala “movimentista” delle Brigate Rosse. Ma non utilizza mai
espressioni che possano portare il lettore a ritenere che gli arrestati siano dei brigatisti. Nell’impianto della
trattazione di Bianconi è chiara la dicotomia tra le Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente,
colpevoli degli omicidi di D’Antona e Biagi, e questo nuovo filone, vicino sì alle tesi di “Seconda
Posizione”, ma ancora non bene identificato. Tuttavia il redattore del Corriere, da navigato cronista
giudiziario, non incappa mai nell’errore di affibbiare sostantivi agli arrestati. Si limita a descriverne
l’estrazione ideologica, la provenienza politica e la prassi tattica, così come riportate dalle forze dell’ordine.
Bianconi spiega, non dichiara.
“Gli altri erano già pronti ad uccidere il consigliere del ministro Bassolino, mentre loro
cominciavano ad elaborare teorie”, scrive riferendosi per l’appunto al doppio binario
militarista-movimentista che sarebbe sopravvissuto sino ad oggi dalla scissione del 1984. Poco
più avanti, nel parlare delle tesi contenute nella rivista Aurora, afferma: “Linguaggio involuto,
tipico di brigatisti o aspiranti tali”. E ancora, sulle forze dell’ordine: “Capiscono e annotano
che sta nascendo una nuova fazione brigatista, con evidenti richiami alle idee che nel 1984
portarono la «seconda posizione» delle Br a fondare l’Unione dei comunisti combattenti. […]
Questa nuova formazione che forse si chiama «Partito comunista politico-militare» si porrà
pure in disaccordo con gli assassini di D’Antona e Biagi, le Br-pcc, ma per affermare la propria
linea doveva mettersi sullo stesso piano: la lotta armata”. Chi capisce e annota la nascita di un
nuovo gruppo Br sono le forze dell’ordine. Il cronista si limita a constatare che la nuova
formazione stava per diventare partito armato. E Bianconi non manca altresì di rilevare il peso
mediatico che il marchio Brigate Rosse continua ad esercitare: “Anche ora che la rivoluzione e
la sigla Br sembrano più un vessillo da sventolare contro la mediazione dei conflitti che un
reale pericolo per le istituzioni democratiche”.
Il mestiere e la capacità d’analisi dimostrati da Bianconi, tuttavia, trovano immediate disdette sulle stesse
colonne del “Corriere della Sera”. A pagina 5 compare un lungo articolo firmato da Biagio Marsiglia e
15
G. Bianconi, L’uso “tattico” della lotta armata e il filo degli anni ’80, in “Corriere della Sera”, 13 febbraio 2007, pp. 2-3.
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Giuseppe Guastella, che si occupa dell’Ordinanza di custodia cautelare. Il titolo riporta una delle frasi di
Bruno Ghirardi intercettate dalla Digos: “Facile seguire i giudici. Sono entrato nell’ufficio di Spataro”.
“Fu solo un caso, uno «sbaglio», ma le Br sono entrate nell’ufficio di Armando Spataro,
procuratore aggiunto di Milano, capo del pool antiterrorismo. Lo rivela Bruno Ghirardi, uno
dei Br arrestati, parlando il 28 dicembre 2006 con Claudio Latino in un bar della stazione
Garibaldi”16.
Ad entrare nell’ufficio del magistrato, dunque, sono state “le Br”. E Bruno Ghirardi, uno degli indagati,
viene definito né più né meno come “uno dei Br arrestati”. Riferimenti che continuano anche più avanti,
laddove si parla delle prove di tiro effettuate in un casolare in provincia di Rovigo: “I Br si esercitano con
le armi”17. Infine, nel descrivere il progetto di un attentato nei confronti del professor Ichino: “Dopo
D’Antona e Biagi, anche il giuslavorista Pietro Ichino finisce nel mirino delle Br”18.
Appaiono qui lampanti i vizi presenti nella trattazione di Marsiglia e Guastella, peraltro riferita ad un
documento giudiziario che abbiamo riportato negli stralci essenziali e che si guarda bene dal definire
brigatisti gli arrestati. In particolare la frase riguardante Pietro Ichino, presenta proprio il vizio che il lungo
articolo di Giovanni Bianconi si è sforzato di evitare: Br-Pcc e Pcp-m sono la stessa cosa, sono Brigate
Rosse.
Su “La Stampa” del 13 febbraio, appare innanzitutto un editoriale di Riccardo Barenghi in prima pagina,
sotto il titolo Un lungo filo rosso:
“La cronaca, le notizie, i fatti, i personaggi arrestati e quelli che li hanno arrestati non lasciano
dubbi: l’operazione contro le nuove Brigate rosse (nuove ma con radici antiche) è una cosa
seria. Tanto seria e grave che non può non provocare preoccupazione e allarme, visto che ci
troviamo di fronte a un fenomeno - quello appunto del terrorismo brigatista - che sembra non
voler morire mai. Che scompare per anni, magari dieci, ma poi ricompare. […] Chissà cosa
avevano in mente i quindici brigatisti finiti ieri in carcere, loro e quelli che ancora sono liberi
(speriamo per poco e speriamo siano pochi). Aspettando nuovi particolari, certamente una
cosa si può dire subito: non si tratta di un fenomeno spuntato dal nulla, improvvisamente,
come un fungo d’autunno. C’è una storia dietro alcuni degli arrestati che comincia parecchi
anni fa, quando nelle vecchie Brigate rosse, quelle di Curcio, Moretti, Gallinari, ci fu una
scissione. Nacquero le Ucc (Unità comuniste combattenti), l’ala cosiddetta movimentista”19.
Per l’editorialista del quotidiano torinese non c’è alcuna ombra di dubbio: l’operazione è stata svolta contro
“le nuove Brigate rosse” e quelli finiti in carcere sono “quindici brigatisti”. L’operazione, poi, è “una cosa
seria, che non può non provocare preoccupazione e allarme”. Un atteggiamento, questo, che riporta con la
mente a quel terzo stadio del rapporto media-terrorismo che abbiamo delineato in avvio di trattazione. La
“geometrica potenza” di via Fani, la sopravvalutazione militare, il clima da “emergenza nazionale”, il
sensazionalismo e la spettacolarizzazione che, dopo il 1978, si cristallizzarono in un format giornalistico.
Quello stesso format che, evidentemente, sopravvive ancora oggi, e riemerge ogni qual volta si parla di
“anni di piombo”.
Un vero e proprio errore storiografico è invece presente laddove si riconduce la nascita dell’“ala
movimentista” alle “vecchie Brigate rosse, quelle di Curcio, Moretti e Gallinari”. La scissione dalla quale
16
B. Marsiglia e G. Guastella, “Facile seguire i giudici. Sono entrato nell’ufficio di Spataro”, in “Corriere della Sera”, 13
febbraio 2007, p. 5.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
R. Barenghi, Un lungo filo rosso, in “La Stampa”, 13 febbraio 2007, p. 1.
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prese vita la cosiddetta “ala movimentista”, o “Seconda Posizione”, avvenne nel 1984. All’epoca Renato
Curcio, fondatore e primo ideologo delle Brigate rosse, era in carcere da circa dieci anni, Prospero Gallinari
da cinque e Mario Moretti da tre. Una prima scissione, all’interno delle vecchie Brigate rosse, c’era già stata
nel 1981 con la tripartizione in Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente, dirette per pochi mesi da
Moretti prima del suo arresto, Brigate Rosse-Partito Guerriglia, dirette da Giovanni Senzani, e Colonna
“Walter Alasia”. La scissione del 1984, dunque, riguarda nello specifico le Brigate Rosse-Partito Comunista
Combattente, dalle quali si distacca l’Unione dei Comunisti Combattenti (sigla UdCC). Nel suo articolo
Barenghi cita, invece, erroneamente le Unità Comuniste Combattenti (sigla Ucc), un gruppo armato di
estrema sinistra, erede delle Formazioni Comuniste Armate (Fca) e attivo tra il 1976 e il 1977 in Lazio,
Toscana e Lombardia, prima di confluire nell’organizzazione Prima Linea.
Alla pagina 3 del giornale piemontese, compare anche qui l’articolo che si occupa di analizzare l’Ordinanza
del Tribunale di Milano. Lo firma Paolo Colonnello, sotto il titolo “Erano pronti a uccidere”:
“Se i gruppuscoli terroristici, legati al mondo «antagonista» o anarco-insurrezionalista,
rappresentavano finora una quota quasi «fisiologica» nel panorama delle turbolenze sociali
italiane, la «colonna» di neo brigatisti smantellata ieri da un’inchiesta meticolosissima della
procura milanese che ha portato in carcere 15 persone, prefigura scenari di criminalità politica
equiparabile soltanto ai livelli degli anni di piombo”20.
E ancora, riguardo al testo del documento firmato dal Gip Salvini:
“Un’escalation di sangue che a leggere l’ordinanza di 173 pagine firmata dal giudice delle
indagini preliminari Guido Salvini, su richiesta del pm Ilda Boccassini, mette i brividi. […]
Dalla gambizzazione di dirigenti della Breda agli attentati con autobomba nella sede dell’Eni di
San Donato”21.
Ancora una volta l’utilizzo di espressioni quali “escalation di sangue” o “scenari di criminalità politica
equiparabile soltanto ai livelli degli anni di piombo”, risultano viziate da un eccessivo sensazionalismo, se si
considera che allo stato attuale a gravare sul gruppo arrestato c’è il solo attentato incendiario alla sede
padovana di Forza Nuova del novembre 2006. Anche in questo caso, poi, è evidente l’utilizzo di termini
mutuati dal linguaggio delle Br anni ’70. Quella smantellata dalla Procura milanese è “una «colonna» di neo
brigatisti”, termine che, come abbiamo detto, risulta assolutamente fuorviante nel caso specifico. Si parla
poi di “mondo antagonista” e, infine, si fa riferimento alle “gambizzazioni” dei dirigenti della Breda.
Soffermiamoci ora su come “La Repubblica” ha deciso di impostare il delicato argomento. A pagina 2,
l’articolo portante che fa il punto sull’inchiesta ribadisce che si sta parlando di Br: Da Ichino a Berlusconi, gli
obiettivi Br. Qua e là, l’autrice del pezzo Oriana Liso rispolvera consapevolmente alcuni termini che
rimandano a descrizioni d’antan del fenomeno brigatista .
“Torna la banda armata, con forme nuove ma con molti aspetti ripresi dalla stagione degli anni
di piombo, l’incubo del terrorismo”22.
Le parole usate nell’incipit chiariscono il punto di vista della giornalista sulla definizione da dare al
fenomeno in questione. I 15 arrestati vengono definiti:
20
P. Colonnello, “Erano pronti a uccidere”, in “La Stampa”, 13 febbraio 2007, p. 3.
Ibidem.
22
O. Liso, Da Ichino a Berlusconi, gli obiettivi Br, in “La Repubblica”, 13 febbraio 2007, p. 2.
21
Pagina 22 di 31
“neobrigatisti del Partito comunista politico-militare, una formazione nata dalle ceneri di
Seconda posizione, che, a metà degli anni Ottanta, scelse la linea di una guerra rivoluzionaria di
lunga durata contro lo Stato. E per combattere questa guerra i “neobrigatisti” si servivano di
vecchi metodi: rapine e sequestri per auto-finanziarsi; omicidi mirati per creare consenso;
terreno di cultura da privilegiare sono le università, dove cercare «soggetti interessanti»”23.
Nell’ordinanza di custodia cautelare, come abbiamo già più volte ribadito, non viene affatto affermata
l’appartenenza diretta del Pcp-m a una qualsiasi formazione del passato collegabile alla complessa realtà
delle Br. Sull’interpretazione da dare ai fatti in questione pesano, bisogna dire, giudizi e definizioni
fuorvianti espressi “a caldo” dai rappresentati della magistratura e delle forze di polizia. È lo stesso ministro
dell’Interno Giuliano Amato, per esempio, a parlare di brigatismo rosso e Repubblica gli dà il giusto risalto.
Dall’intervista di Gianluca Luzi (a pagina 3) emergono dichiarazioni inequivocabili:
“«Probabilmente questa volta siamo riusciti a prevenire un attentato brigatista». Con queste
parole, quasi un sospiro di soddisfazione per il pericolo sventato, il ministro dell’Interno
Giuliano Amato ha espresso il suo compiacimento per l’operazione che ha portato all’arresto
della cellula brigatista. Non l’ultima in circolazione, perché «l’azione di oggi testimonia –
secondo Amato – la presenza nel paese di focolai brigatisti non ancora rimossi. Questo che
abbiamo sgominato, lo sappiamo, non è l’ultimo»”24.
Soltanto nell’articolo di Alberto Custodero (a pagina 4), che traccia il profilo dei 15 arrestati, viene data una
definizione del Partito comunista politico-militare che rispetta il quadro delineato dal Gip Guido Salvini
nell’ordinanza di custodia cautelare.
“Sono quasi tutte «insospettabili», le 15 persone arrestate con l’accusa di essere militanti del
Partito comunista politico-militare. […] Tutti militavano in una nuova formazione, il Pcp-m
che si richiamava alla «Seconda Posizione» delle Br, nata nell’84 dopo la scissione con l’ala
militarista”25.
Ma lo sforzo di precisione di Custodero viene vanificato dalla scelta del titolo, che dichiara: Sindacalisti,
operai, studenti, è la «seconda posizione Br».
Sfogliando ancora il quotidiano diretto da Ezio Mauro, alle pagine 8 e 9 viene dato ampio spazio alle
reazioni del sindacato Cgil, che ha visto sette suoi iscritti coinvolti nell’operazione della magistratura. Paolo
Griseri si dilunga in una ricostruzione storica dei rapporti pregressi fra le organizzazioni sindacali e le Br. Il
titolo dell’articolo è allarmistico: Da Guido Rossa all’omicidio Biagi, torna lo spettro dei compagni-nemici.
I rappresentanti sindacali, incalzati dal tam tam giornalistico, finiscono per cedere al clima di
preoccupazione. “È come negli anni Settanta, dobbiamo riscendere in trincea”, è infatti la reazione di
alcuni di essi riportata nel sommario. Griseri ricorda le numerose vittime tra i sindacalisti che hanno cercato
di contrastare il fenomeno brigatista negli anni ’70 e ’80, convinto che quel clima di tensione e paura sia
suscettibile di riproporsi anche ai giorni nostri.
“Fotografie del secolo scorso, storie di un’Italia in bianco e nero che tornano d’attualità nell’era
di Internet. Storie di azioni compiute con l’obiettivo del proselitismo in quella parte del
movimento operaio che allora i brigatisti ritenevano matura per il salto rivoluzionario. Omicidi
dimostrativi, compiuti con la convinzione che avrebbero avuto un ruolo educativo per le masse
23
Ibidem.
G. Luzi, Intervista a Giuliano Amato, in “La Repubblica”, 13 febbraio 2007, p. 3.
25
A. Custodero, Sindacalisti, operai, studenti, è la «seconda posizione Br», in “La Repubblica”, 13 febbraio 2007, p. 4.
24
Pagina 23 di 31
che vivevano in fabbrica e avrebbero finito per ingrossare le fila della lotta armata, secondo la
logica divenuta slogan: «Colpirne uno per educarne cento». Colpire i padroni e soprattutto i
loro «servi»”26.
Gli articoli di approfondimento ospitati nelle pagine interne de “il Giornale”, invece, si soffermano sulle
coperture, ritenute più o meno dirette, che una parte del sindacato e dei partiti politici di sinistra avrebbero
offerto alla nuova presunta formazione terroristica, che il quotidiano di Maurizio Belpietro non esita a
considerare continuazione diretta delle vecchie Br. Indicativa la testata che campeggia su tutte le pagine
dedicate all’argomento: il ritorno delle Br. Per “il Giornale” siamo di fronte a una “vecchia storia italiana” che
non vuole interrompersi. La prima pagina ospita un’editoriale di Renzo Foa dal titolo La zona grigia del
sindacato. L’occhiello spiega: Da Lama e Rossa ai giorni nostri. Foa così sviluppa il suo ragionamento:
“…ma quel che preoccupa di più è il fatto che – in forme e con protagonisti diversi – proprio
questa storia non si interrompe. C’è da tornare a chiedersi cosa non funzioni e perché ancora
una volta viene scoperta una rete terroristica in cui sono coinvolti aderenti alla Cgil, una rete
giudicata molto pericolosa da un ministro come Giuliano Amato che è uno dei leader del
centrosinistra e che, oltretutto, ha anche un pezzo del suo passato proprio all’interno della
Cgil”27.
L’autore dell’articolo parla di “una rete terroristica” e si guarda bene dal definirla organica alle Br, sebbene
successivamente si prodighi in una lunga disamina delle complicità del passato di alcuni delegati sindacali
con il terrorismo rosso. I membri del Pcp-m vengono definiti pericolosi, perché a dirlo è stato il ministro
dell’Interno Amato. Renzo Foa, come molti altri suoi colleghi, basa la sua interpretazione dei fatti sulle
parole espresse dai rappresentanti delle istituzioni. Come successe in passato, il giornalismo abdica alla sua
funzione sociologica di analisi dei fatti e della realtà, limitandosi a raccogliere i giudizi altrui, amplificandone
i contenuti allarmistici che, giustificati o meno che siano, non contribuiscono a una effettiva comprensione
del fenomeno.
Un’altra opinione che viene riportata e che concorre ad acuire il clima di allarmismo è quella dell’ex
terrorista Sergio Segio, tra i fondatori di Prima Linea, che ribadisce di aver denunciato da tempo
“infiltrazioni delle nuove Br nel sindacalismo di base”.
I giornalisti di “Libero”, vuoi perché coinvolti “emotivamente” dall’inchiesta, che ha rivelato la notizia di
un possibile attentato alla redazione del giornale diretto da Vittorio Feltri, vuoi per scelta editoriale,
appaiono perentori nel bollare come brigatisti gli arrestati del giorno prima. Le pagine interne che
affrontano la cronaca dell’evento sono listate di rosso, la testata recita allarme br. L’articolo che fa il punto
sull’inchiesta, a firma di Giusi Di Lauro e dal titolo Tornano le Br, definisce i 15 arrestati “nuovi militanti
delle Br”. Parla inoltre di “covi”, “autofinanziamento”, “pubblicazioni sovversive”, “addestramenti balistici
e militari”, “proselitismo e propaganda”, “nomi di battaglia”. La giornalista fa poi confusione su sigle
vecchie e nuove ritenute orbitanti attorno al fenomeno brigatista. E così “Brigate Rosse, “Seconda
Posizione” e “Partito Comunista Politico-Militare” sono definite erroneamente le tre cellule ai cui
distintamente appartenevano i 15 arrestati28.
Luigi Gambacorta, nel pezzo intitolato Libero primo nella lista, l’attentato a Pasqua, nel descrivere come hanno
preso avvio le indagini della magistratura, e cioè dal ritrovamento di una bicicletta sulla quale era stata
montata una piccola telecamera, si sofferma sul particolare del mezzo a due ruote definendolo “lo
strumento di lavoro per eccellenza delle Br”:
26
P. Griseri, Da Guido Rossa all’omicidio Biagi, torna lo spettro dei compagni-nemici, in “La Repubblica”, 13 febbraio
2007, pp. 8-9.
27
R. Foa, La zona grigia del sindacato, in “il Giornale”, 13 febbraio 2007, p. 1.
28
G. Di Lauro, Tornano le Br, in “Libero”, 13 febbraio 2007.
Pagina 24 di 31
“il mezzo – scrive Gambacorta – collaudato dalla banda che uccise il giudice Giorgio Galli (28
marzo 1980), riproposto con successo dagli eredi che assassinarono a Bologna il professor
Marco Biagi (19 marzo 2002)”29.
Va qui notato che fu un commando di Prima Linea, formazione eversiva di sinistra il cui impianto
ideologico e la cui impostazione strategica erano in gran parte dissimili da quelli delle Brigate Rosse, ad
uccidere, nel 1980 a Milano, il giudice Guido Galli (e non Giorgio Galli, come erroneamente riportato,
forse per un lapsus con il noto studioso del “partito armato”, delle cui disamine avrebbe certo avuto
bisogno il quotidiano di Feltri). Peraltro, anche il magistrato e docente di criminologia venne assassinato il
19 marzo (e non il 28), come fu per Biagi ventidue anni dopo. La data del 28 marzo 1980 resta, invece,
legata al blitz che i Carabinieri operarono a Genova, nel covo delle Br in via Fracchia, uccidendo cinque
brigatisti, tra i quali il “capo-colonna” Riccardo Dura. Proprio quella data sarebbe divenuta, poi, il nome
della “brigata” che, esattamente due mesi dopo, avrebbe ucciso, sempre a Milano, il giornalista del
“Corriere della Sera” Walter Tobagi.
I ruoli degli arrestati (Ghirardi è “l’armiere”, Davanzo “l’ideologo”, Rossin “il postino”), le modalità di
azione (“addestramento”, “propaganda”, “obiettivi umani”…), persino gli strumenti utilizzati come la
bicicletta, sono tutti elementi che secondo i cronisti di Libero rappresentano una carta d’identità che
permette di legare a doppio filo i “giovani” del Partito comunista politico-militare con i “vecchi” maestri
delle Brigate Rosse30.
Esemplificativo della sicumera con la quale molti giornalisti credono di conoscere e spiegare i fatti di
cronaca in questione è l’editoriale che Libero propone a firma di Dreyfus, uno pseudonimo che da qualche
tempo compare sulla prima pagina del quotidiano milanese.
“Stavolta il progetto era avanzato, avanzatissimo. Le Brigate rosse avevano studiato persino la
data per il colpo: Pasqua. Otto Aprile. Bum. Chi? Sono proprio loro, le Brigate Rosse. Usano
strumenti nuovi e vecchi: elettronica, Internet, pistole e campi di addestramento nella Bassa
Padana. L’ideologia è quella che conosciamo e che mostra di essere immortale come il diavolo:
il marx-leninismo. Il comunismo è il loro sogno, le armi e il sangue sono il trampolino per il
traguardo. Questa gentaglia non si annida più tanto nelle fabbriche o nelle università. Ma trova
il suo nido caldo nei centri sociali antagonisti. Nei primi anni ’80 le Br avevano inquinato
lievemente la Uil. Oggi i terroristi si raccolgono a mazzi tra i sindacalisti della Cgil. Ogni volta
che le Br si riaffacciano, capita di sentire la sentenza: i terroristi sono dei poveretti, non ci sono
più le condizioni sociali eccetera. E allora? Qual è il problema? Finché il marx-leninismo avrà
libero corso culturale, è ovvio proliferi la disponibilità a uccidere in nome dell’ideologia. La
rivoluzione si adatta, aggiorna bersagli, coma una salamandra muta d’aspetto, ma per
ammazzare, ammazza sempre”31.
Non solo Dreyfus non ha dubbi nel parlare tout court di Brigate Rosse (“Chi? Sono proprio loro, le Brigate
Rosse”), ma si lancia, aggiungendosi alle molte valutazioni sommarie del giornalismo italiano sulle Br, oggi
come 20 anni fa, in una interpretazione parziale e superficiale del fenomeno (“è la conseguenza del
proliferare della cultura marx-leninista”).
Concludiamo con il quotidiano comunista “Il manifesto”, che il 14 febbraio, in prima pagina, accanto alla
consueta foto-notizia centrale, propone un editoriale di Loris Campetti, intitolato Latitanza politica:
29
L. Gambacorta, Libero primo nella lista, l’attentato a Pasqua, in “Libero”, 13 febbraio 2007.
Ibidem.
31
Dreyfus, Editoriale, in “Libero”, 13 febbraio 2007.
30
Pagina 25 di 31
“Si accredita l’esistenza di un filo rosso tra vecchio e nuovo terrorismo. È una sciocchezza. In
passato la tessera sindacale spesso aveva un ruolo di copertura dell’attività “primaria”, quella
terroristica. Non si trattava di schizofrenia individuale, bensì di strategia politica. […] Ma non
avevamo detto che le due strade non si incontrano, anzi l’una cancella l’altra? Certo, ma forse
non nella mente delirante di chi avrebbe fatto tale scelta. Non meno grave di quella delle prime
Br, però diversa. […] Chi si ricorda i fischi di Mirafiori? Nulla hanno a che vedere con i
ritardati deliri terroristici. […] Bisogna riaprire gli spazi della democrazia, per chiudere quelli
della follia disperata”32.
Riportiamo questi passi dell’articolo di Campetti, per evidenziare un’altra caratteristica che ci pare
emblematica di un certo modo di rapportarsi ai fatti e alle notizie che hanno a che fare con il terrorismo
politico. Partiamo dal presupposto che l’articolo è un editoriale, dunque riporta al suo interno un’analisi che
è soprattutto d’opinione. Ma a saltare all’occhio, in ogni caso, sono espressioni quali “schizofrenia
individuale”, “mente delirante”, “ritardati deliri terroristici”, “follia disperata”. Il ricorso ad aggettivi quali
“delirante”, “schizofrenico”, “folle”, richiamano quelle che sono state per lunghi anni le cronache degli
anni di piombo. I comunicati redatti dai brigatisti erano “farneticanti”, “deliranti”, “incomprensibili”. La
scelta della lotta armata era “folle” e “disperata”, i delitti commessi “agghiaccianti” e “aberranti”.
Il legittimo e assoluto rifiuto della stampa italiana nei confronti del terrorismo, espresso attraverso tali
aggettivi, finì però con il cristallizzarsi in una forma di difesa che, nell’erigere un muro di isolamento nei
confronti della lotta armata, perse di vista quello che ci pare il vero compito dell’informazione a mezzo
stampa: analizzare e spiegare i fatti, se possibile approfondendoli mediante disamine sociologiche o affini.
Una certa predisposizione alla remissività, ma, più spesso, un’incapacità palese di approfondire l’analisi dei
fenomeni eversivi sono stati, del resto, i due più grossi peccati di cui si rese colpevole la categoria
giornalistica italiana negli anni ‘70, per lungo tempo incapace di fornire all’opinione pubblica validi
strumenti di comprensione del fenomeno, ma solo sensazionalismo, allarmismo e ritriti giudizi morali.
Alessandro Silj, nella sua analisi dell’informazione giornalistica durante il caso Moro, denominata Brigate
rosse-Stato, fa proprio quest’appunto al mondo dei media:
“Una stampa che si autodefinisce ‘responsabile’ avrebbe dovuto gestire l’informazione sul caso
Moro secondo criteri diversi dalle statistiche relative a tirature e vendite e indipendenti dalle
curiosità più o meno morbose, più o meno legittime del pubblico. […] Criteri ispirati alle
esigenze dell’informazione. Accade qualcosa, va riferito. Se l’evento di per sé è poco
intelligibile e sembra necessario dare al lettore elementi che gli permettano di capirne la natura
e di porlo nel contesto giusto, questi elementi vanno dati”33.
Al contrario, la stampa e la radiotelevisione italiane hanno spesso emarginato quegli interventi, proposti da
sociologi e psicologi sociali, che intendevano indagare più da vicino il contesto nel quale attecchiva
l’eversione. Come se il tentativo di capire le dinamiche sociali e culturali che avevano portato
all’affermazione del fenomeno equivalesse ad una tacita accettazione del fenomeno stesso. Lo evidenzia il
sociologo Gianni Losito in un suo intervento contenuto nel libro di Gianni Statera Violenza sociale e violenza
politica nell’Italia degli anni ’70:
“Ipotizzare che le comunicazioni di massa contribuiscano a diffondere istanze ideologicoculturali e comportamentali relative a nuovi ethos, ma anche ad anti-ethos collettivi, significa
assumere […] che esse possano di fatto finire col favorire o almeno sollecitare l’insorgere di
comportamenti innovativi, ma anche di comportamenti devianti. Questa possibile funzione latente
32
33
L. Campetti, Latitanza politica, in “Il Manifesto”, 14 febbraio 2007, p. 1.
A. Silj, Brigate rosse-Stato. Lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana, Vallecchi, Firenze, 1978, p. 208.
Pagina 26 di 31
dei mass media diviene più incisiva quanto più povera sul piano dell’analisi sociologicamente orientata e, quindi,
superficiale, acritica, sensazionalistica, spettacolare, è l’immagine dei fenomeni di devianza proposta dagli stessi
mass media. Ciò significa che i mass media – e la stampa in particolare, perché ad un tempo più
libera, più spregiudicata e più incline al sensazionalismo – possono trasformarsi da potenziali
agenzie di integrazione e di consenso, in potenziali agenzie di disgregazione sociale, per il fatto
stesso di proporre in modo acritico e spettacolare protagonisti e/o fatti di devianza. Il risultato
di una tale strategia informativa rischia, infatti, di essere un’implicita ed involontaria esaltazione
delle componenti ‘eccezionali’, se non addirittura ‘eroiche’, del comportamento deviante e del
suo porsi come estrema istanza antagonistica nei confronti della società. I mass media
rischiano, così, di subire un singolare destino. Spinti da un eccessivo timore di apparire inclini
al ‘giustificazionismo’, possono svolgere un’involontaria azione non soltanto di
‘amplificazione’ ma anche di ‘fiancheggiamento’ della devianza. […] Il problema reale non è
soltanto se pubblicare o non pubblicare un comunicato delle Br, ma anche e soprattutto come
elaborare una strategia informativa che di fatto non finisca col favorire indirettamente il
terrorismo sul piano dell’immagine implicita che se ne propone. […] Rischio tanto più reale
quanto più acritica, sensazionalistica, spettacolare, sociologicamente carente e sprovveduta, è
tale immagine”34.
Chiudiamo il nostro lavoro con questo breve tuffo nel passato, per evidenziare come molti degli errori e
dei rischi che gli studiosi di media degli anni ’70 paventavano nel rapporto informazione-terrorismo, siano
ancora oggi quanto mai attuali. Vizi atavici sui quali sarebbe bene che la categoria giornalistica italiana torni
a confrontarsi, per evitare i clamorosi errori commessi in passato.
34
G. Losito, La violenza politica nella stampa quotidiana italiana, in G. Statera (a cura), Violenza sociale e violenza
politica nell’Italia degli anni ‘70: analisi ed interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana, Franco
Angeli, Milano, 1983, pp. 109-152.
Pagina 27 di 31
5. CONCLUSIONI
L’emergere del terrorismo, nell’Italia degli anni ‘70, ha visto i giornalisti drammaticamente in prima
linea. Forse come in nessun’altra parte del mondo. Dapprima si trovarono spiazzati di fronte a un
fenomeno inatteso e fecero fatica a comprenderne i reali lineamenti, commettendo gravi errori di
valutazione iniziali. Quindi furono essi stessi a finire nel mirino delle organizzazioni eversive, in quanto
artefici della “guerra psicologica” e, come tali, nemici da abbattere. Infine, a partire dal caso Moro in poi, la
categoria si rese protagonista di un significativo “esame di coscienza”, in qualche caso suggerito dalle azioni
della magistratura, che culminò con una importante autoanalisi professionale durante il sequestro D’Urso.
Il revival di quella stagione, vissuto dalla stampa
italiana a partire dal 12 febbraio 2007, sembra
chiaramente aver riportato in superficie paure mai
sopite e dilemmi mai del tutto metabolizzati. E la
differenza con il passato pare minima. La trattazione
giornalistica di fatti del genere si rivela incapace, oggi
come ieri, di un’informazione equilibrata ed
esauriente. Le ricostruzioni dei fatti e i resoconti
sull’andamento delle indagini restano sempre
caratterizzate da un sensazionalismo di fondo, legate
a doppio nodo alle cronache e all’immaginario degli
anni ’70, e supportate da reazioni e polemiche
raccolte nel mondo politico. Quello che manca è
l’analisi, il tentativo di capire e di spiegare fenomeni
nuovi e diversi. Appare molto più semplice e
vendibile il rapportarli ad un passato che, troppo
spesso, risulta incompatibile con il presente, ma che
rimane meglio identificabile da parte dell’opinione
pubblica.
Il clima degli “anni di piombo” in generale ma, più in
particolare, la sigla delle Br, sono divenuti con il
passare degli anni dei – ci si passi l’espressione –
Figura 4 – Vignetta di Vauro su “il manifesto”, 14
“marchi di fabbrica”, il cui solo utilizzo riconduce a
febbraio 2007.
tutta una serie di assunti e umori di una certa
stagione della storia del Paese. La stella a cinque
punte, associata alla dicitura Brigate Rosse, è diventata un brand talmente efficace da guadagnarsi il rispetto
di qualsiasi pubblicitario o esperto di marketing. Basta citare quella sigla per avere una macabra
certificazione di qualità terroristica, un reale motivo per aver paura, o preoccuparsi, o allarmare.
Il livello d’azione è triplice. Per lo Stato, gli inquirenti e le forze dell’ordine un’azione firmata Br non è più
liquidabile unicamente come materiale per mere indagini di polizia, né per il solo anti-terrorismo. Necessita
di un’attenzione particolare, di inchieste prolungate e dettagliate.
Per i mass media, poi, quelle due lettere “fanno notizia” di per sé. Sono la garanzia di un allarme, un
ulteriore capitolo in calce a una storia già raccontata e che, con il tempo, si è cristallizzata in un romanzo.
Per cui, nel riannodare i fili pendenti di questo racconto, torna altresì alla luce tutto il campionario
linguistico degli anni di piombo. Un antiquariato politico-eversivo cui i neo-brigatisti non rinunciano e che i
media accettano di buon grado, rispolverando termini quali “gambizzare”, “covo”, “primula rossa”,
“controguerriglia”, “risoluzione strategica”, eccetera.
Infine c’è l’opinione pubblica che, a trent’anni di distanza dalla stagione della lotta armata, rischia di
spaccarsi in due. Da una parte coloro che quella sigla se la ricordano bene, così come tutto ciò che essa
Pagina 28 di 31
richiama alla mente. Dall’altra i più giovani, coloro che di Brigate Rosse non ne sanno nulla e che restano
interdetti di fronte al clamore che queste provocano sui giornali e alla tv.
In più, rispetto al passato, i giornalisti che oggi si occupano di terrorismo tendono a dimostrarsi molto più
“allineati e coperti”. Difficile che seguano piste proprie, hanno ormai dato per scontato l’utilizzo delle
veline diffuse dalle forze dell’ordine. Ci piace citare l’esperienza di un redattore de L’Espresso di quegli anni,
Mario Scialoja, autore di innumerevoli inchieste e approfondimenti sul terrorismo rosso e finito, suo
malgrado, sia negli elenchi brigatisti dei “pennivendoli da punire” che sui registri degli indagati per
favoreggiamento alle Br. Dopo le vicissitudini giudiziarie che fu costretto a subire durante il caso D’Urso
scrisse che “il giornalista sul fronte eversivo è come un vaso di terra tra due vasi di ferro. Da un lato le
minacce dei terroristi, dall’altro gli arresti della magistratura”35. È comprensibile, dunque, che la difficoltà e
la pericolosità di quel lavoro siano rimasti impressi nel Dna del giornalismo italiano. Il problema, però, è
che l’estremo rigore della lezione di alcuni giornalisti, tra i quali collochiamo Scialoja, non sembra aver
trovato proseliti oggi.
35
M. Scialoja, Parlandone da libero, in E. Forcella (a cura), Trent’anni di terrorismo, Milano, Editoriale L’Espresso,
supplemento a “L’Espresso”, 21 aprile 1985, n. 16, p. 105.
Pagina 29 di 31
6. BIBLIOGRAFIA
Monografie:
A. Benedetti, Il linguaggio delle nuove Brigate rosse. Frasari, scelte stilistiche e analisi comparativa delle rivendicazioni dei
delitti D’Antona e Biagi, Erga, Genova, 2002.
M. Brambilla, L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”, Edizioni Ares, Milano, 1991.
V. Dini, L. Manconi, Il discorso delle armi. L'ideologia terroristica nel linguaggio delle Br e di Prima Linea, Savelli,
Milano, 1981.
E. Forcella (a cura), Trent’anni di terrorismo, Milano, Editoriale L’Espresso, supplemento a “L’Espresso”, 21
aprile 1985, n. 16.
C. Marighella, Piccolo manuale della guerriglia urbana, stampato in proprio, 1969.
G. Mastromatteo, Quando i media staccano la spina. Storia del blackout informativo durante gli anni di piombo,
Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007.
A. Silj, Brigate rosse-Stato. Lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana, Vallecchi, Firenze, 1978.
Soccorso Rosso, Brigate rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Feltrinelli, Milano,
1976.
G. Statera (a cura), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ‘70: analisi ed interpretazioni sociopolitiche,
giuridiche, della stampa quotidiana, Franco Angeli, Milano, 1983.
V. Tessandori, B.R. Imputazione: banda armata, Garzanti, Milano, 1977.
S. Zavoli, La notte della repubblica, Nuova Eri, Roma, 1995.
Pagina 30 di 31
Quotidiani:
“Corriere della Sera”
“la Repubblica”
“La Stampa”
“Il Giornale”
“Libero”
“il manifesto”
“Il Foglio”
“Il Gazzettino”
“Corriere Adriatico”
Periodici:
“L’Espresso”
“Problemi dell’informazione”
Documenti:
Tribunale Ordinario di Milano (Giudice per le indagini preliminari Guido Salvini), Ordinanza di applicazione
della misura della custodia cautelare in carcere, 29/01/2007.
Siti web:
www.poliziadistato.it
www.brigaterosse.org
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