L’Orto Botanico di Brera
dell’Università degli Studi
di Milano, istituito
nel 1774 con finalità
didattico-scientifiche
per gli studenti di medicina
e farmacia da Maria Teresa
d’Austria, è un giardino
storico situato all’interno
di Palazzo Brera,
un’incantevole e suggestiva
isola verde dedicata
alla ricerca e alla didattica,
nel pieno centro di Milano.
Splendido museo all’aperto,
l’Orto Botanico oggi
è un luogo ideale
per imparare a conoscere
le piante, scoprendo
uno spettacolo diverso
in ogni stagione.
www.brera.unimi.it
percorso artistico-botanico
tra Pinacoteca e Orto Botanico di Brera
3 Luglio - 31 Ottobre 2015
ORARI
Pinacoteca di Brera
martedì - domenica: 8.30 - 19.15
Chiuso: tutti i lunedì
aula didattica
Orto Botanico di Brera
dell’Università degli Studi di Milano
lunedì - sabato non festivi: 10 - 17
Chiusure: tutte le domeniche e dal 17 al 23 agosto
Aperture straordinarie: 5 luglio, 30 agosto, 27 settembre
specola
ingresso
Orto
Botanico
Orto Botanico
Via Gabba
Cortile della Magnolia
BIBLIOTECA BRAIDENSE
biblioteca
dell’Accademia
di Belle
Arti
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Cortile
Esportazioni
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Via Fiori Oscuri
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Testi a cura di Fabrizio Zara, responsabile Ricerca Botanica Aboca
e Veronica Pandiani, storica dell’arte ed educatrice museale
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Da qui nasce il percorso artistico e botanico Arte Horto, voluto
da Aboca in collaborazione con la Pinacoteca e l’Orto Botanico di Brera,
per riscoprire da dove veniamo e attraverso la bellezza di opere
e piante tornare a sentire l’intimo legame tra uomo e natura.
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37
XX
20
Supervisione scientifica di Emanuela Daffra e Paola Strada (Pinacoteca di Brera)
e di Elisabetta Caporali e Cristina Puricelli (Orto Botanico di Brera dell’Università degli Studi di Milano)
Composizione e impaginazione: Ufficio Grafico Aboca S.p.A. Società Agricola
Tutti i diritti sono riservati. Riproduzioni anche parziali sotto qualsiasi forma sono vietate senza autorizzazione dell’Editore
Foto: Massimo Gardone, Azimut e Thinkstock
Immagini delle opere d’arte su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - Pinacoteca di Brera
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Piazzetta
di
Brera
Massimo Mercati
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Direttore Generale Aboca
ingresso
Pinacoteca
Via Brera
© Aboca S.p.A. Società Agricola
www.aboca.com
ARTORTOPU-B
Copyright ©2015 Aboca Edizioni
Stampa
Visitare un importante museo come la Pinacoteca di Brera,
focalizzando l’attenzione sul mondo vegetale rappresentato
nei dipinti e ritrovare poi le stesse piante all’interno dell’Orto Botanico,
offre inedite e affascinanti scoperte.
La valenza culturale e simbolica raggiunge il suo apice quando
si parla di piante medicinali, per millenni unico rimedio ai nostri
problemi di salute, sospese tra magia e scienza, da sempre nostre
compagne nell’evoluzione.
19
XXXVIII
3 Luglio - 31 Ottobre 2015
La natura costituisce da sempre una fonte privilegiata di ispirazione
per gli artisti, ciascuno dei quali l’ha interpretata secondo la propria
cultura e sensibilità.
9
6
IA
percorso artistico-botanico
tra Pinacoteca
e Orto Botanico di Brera
Un percorso unico tra arte e natura che ricalca il passaggio
dalla rappresentazione alla realtà e ci porta a interrogarci sul rapporto
tra natura e cultura, tra l’uomo e il suo ambiente.
orto di verdure
Cortile
Pesa
EX SERRA
La Pinacoteca di Brera,
museo di statura
internazionale, nacque
a fianco dell’Accademia
di Belle Arti, voluta
da Maria Teresa d’Austria
nel 1776, con finalità
didattiche. Espone oggi
una delle più celebri
raccolte in Italia di pittura,
specializzata in pittura
veneta e lombarda,
con importanti pezzi
di altre scuole.
Custodisce capolavori
assoluti del Novecento
ed è da considerare
uno dei maggiori musei
statali italiani.
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Aboca è leader
nell’innovazione
terapeutica a base
di complessi molecolari
naturali, sviluppa e realizza
prodotti innovativi efficaci
e sicuri per la salute
e il benessere delle persone.
Aboca crede fortemente
in un nuovo modo
di curare basato su una
medicina consapevole dei
meccanismi fisiopatologici
dell’organismo, che ricerca
e trova nella complessità
della natura le risposte
più adatte alla richiesta
di salute di oggi e di
domani. Opera da 40 anni
con una filiera totalmente
verticalizzata, dalle
coltivazioni al prodotto
finito e distribuisce i propri
prodotti solo nei canali
professionali della salute,
in 14 paesi nel mondo.
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Il percorso artistico-botanico Arte Horto è visitabile
partendo dalla Pinacoteca o dall’Orto Botanico di Brera
Il percorso artistico-botanico Arte Horto
è visitabile partendo dall’Orto Botanico di Brera
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PALAZZO BRERA
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SALA VI
PIANTA 1
Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio, Vittore Carpaccio
Borragine - Borago officinalis L.
VII
2
Pietà, Giovanni Bellini
Marruca - Paliurus spina-christi Mill.
IX
3
San Gerolamo penitente, Tiziano Vecellio
Edera - Hedera helix L.
XIV
4
Resurrezione di Cristo tra i Santi Gerolamo,
Giovanni Battista e due offerenti, Cariani (Giovanni Busi)
Olivo - Olea europaea L.
XVIII
5
Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio, Simone Peterzano
Melograno - Punica granatum L.
XVIII
6
Fruttivendola, Vincenzo Campi
Gelso nero - Morus nigra L.
XVIII
7
Madonna col Bambino con i Santi Mattia, Antonio da Padova,
il beato Alberto di Villa d’Ogna, Giulio Campi
Biancospino - Crataegus monogyna Jacq.
XIX
8
Madonna col Bambino (Madonna del Roseto), Bernardino Luini
Rosa - Rosa ×damascena Mill.
XIX
9
Ritratto di giovane, Giovanni Antonio Boltraffio
Alloro - Laurus nobilis L.
XIX
10
Lo scherno di Cam, Bernardino Luini
Vite - Vitis vinifera L.
XXI
11
Madonna della Candeletta, Carlo Crivelli
Pero - Pyrus communis L.
XXII
12
San Sebastiano, Dosso Dossi (Giovanni di Niccolò Luteri)
Arancio - Citrus sinensis (L.) Osbeck
XXIV
13
Sposalizio della Vergine, Raffaello Sanzio
Oleandro - Nerium oleander L.
XXVII
14
La Vergine Annunciata e i Santi Giovanni Battista e Sebastiano, Timoteo Viti
Clematide - Clematis vitalba L.
XXXVII Ritratto di Giovanni Battista Sommariva, Pierre-Paul Prud’hon
15
Acanto - Acanthus mollis L.
XXXVII Fiori nel chiostro, Eugenio Gignous
16
Malvarosa - Alcea rosea L.
XXXVIII Pascoli di primavera, Giovanni Segantini
17
Pino mugo - Pinus mugo Turra
Sala VI
Pianta n. 1
Vittore Carpaccio
Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio
Borragine
Borago officinalis L.
1514
Il cipresso è l’albero tradizionalmente piantato
in prossimità delle tombe come simbolo di lutto e dolore.
Forse in questo caso rappresenta il martirio di Santo
Stefano. Può anche simboleggiare la Chiesa cristiana difesa
da Stefano nel Sinedrio, in quanto il cipresso è una pianta
svettante verso l’alto, che congiunge cielo e terra
La borragine potrebbe ricordare il mondo dei lanai:
la maggioranza dei confratelli della Scuola di Santo Stefano operava in questo ambito
LA RAPPRESENTAZIONE
Vittore Carpaccio nacque a Venezia intorno al
1465 e lì operò fino alla morte, avvenuta nel
1526. I suoi dipinti più famosi sono i cicli di
storie realizzati per le principali confraternite
della città (Scuole). In queste opere, la
tradizione narrativa veneziana si coniuga con
l’attenzione al dettaglio propria dell’arte
fiamminga, dando vita ad ambientazioni
fantastiche.
La Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel
Sinedrio faceva parte della serie di cinque
grandi tele con le storie del santo che ornavano
la sede veneziana della Confraternita dei
Laneri.
Carpaccio ambienta la vicenda, che si era svolta
a Gerusalemme, in uno scenario immaginario
con edifici fantastici, in cui molti personaggi
sono abbigliati all’orientale. Anche le piante,
fra le quali molte sono medicinali, vengono
descritte minuziosamente e tra di esse è
riconoscibile la borragine. L’insolita scelta
di raffigurare proprio questa pianta dipende
forse dal fatto che il suo nome si collega al
mondo dei produttori e dei commercianti
della lana, che costituivano la maggioranza
dei confratelli della Scuola di Santo Stefano.
Borragine deriva infatti dal latino borra, un
tessuto di lana ruvida, per la peluria che ne
ricopre le foglie.
GLI UTILIZZI
La borragine officinale è una pianta a tratti
misteriosa: non esiste chiarezza e unità di
opinione né sull’origine – alcuni autori
suppongono provenga dalla Siria, altri da aree
del Nord Africa – né su alcune delle sue
storiche, e presunte, attività psicoterapeutiche.
Se oggi è infatti riconosciuta come una delle
migliori fonti vegetali di acidi grassi essenziali
ottenuti dalla spremitura dei semi, in passato
veniva impiegata per una finalità ormai
sconosciuta: curare la malinconia e la tristezza,
come peraltro testimoniato da Pietro Andrea
Mattioli (I Discorsi, 1568). Potrebbe infatti
costituire l’ingrediente segreto del Nepenthes
omerico, prodigiosa bevanda che portava
all’oblio.
Molti autori classici la consideravano in grado
di rendere l’uomo euforico, come attesta
l’antico verso Ego borago, Gaudia semper ago.
Castore Durante e lo stesso Mattioli riportano
il suo nome precedente, corragine, per le sue
mirabili virtù nelle passioni di cuore, o come
corruzione del latino cor-ago (con significato
di ”coraggio”) presso i Celti che la impiegavano
per dare coraggio ai guerrieri prima della
battaglia.
L’uso terapeutico e alimentare di Borago
officinalis è attualmente sconsigliato, per la
presenza (ad esclusione dei semi) di alcaloidi
pirrolizidinici con attività epatotossica.
Sala VII
Pianta n. 2
Giovanni Bellini
Pietà
Marruca
Paliurus spina-christi Mill.
1465 circa
Secondo la tradizione, la corona di spine
imposta a Gesù durante la Passione è stata
realizzata con rami di marruca
LA RAPPRESENTAZIONE
Giovanni Bellini (Venezia, 1430 circa -1516)
fu una delle figure chiave per l’affermazione
della pittura moderna in area veneta. La sua
lunga carriera artistica fu contrassegnata
dalla capacità di cogliere e rielaborare i nuovi
stimoli provenienti dalle ricerche contemporanee, creando un linguaggio personalissimo,
capace di grande intensità emotiva.
Nella Pietà, Maria e San Giovanni si stringono
intorno al corpo esanime di Cristo, appena
deposto dalla croce. Il loro dolore sembra
fondersi con i toni cinerini del paesaggio,
saldando in un unico sentimento uomo e
natura. La tradizione vuole che la corona di
spine, citata dai tre vangeli canonici - Matteo
(27, 29), Marco (15, 17), Giovanni (19, 2) - e
calcata sulla testa di Cristo dopo la
flagellazione, sia stata realizzata dai soldati
romani intrecciando dei rami di marruca, un
arbusto spinoso caratterizzato da rami
flessibili.
Il nome scientifico della marruca è infatti
Paliurus spina-christi, a ricordarne questo
leggendario utilizzo.
GLI UTILIZZI
Non sono certo molte le piante dotate di un
epiteto specifico così chiaro e intuitivo come
quello attribuito a questa specie dal botanico
scozzese settecentesco Philip Miller.
La marruca (nome comune più diffuso per
indicare Paliurus spina-christi) è un arbusto
perenne, cespuglioso, con rami dotati di
spine pungenti, rigide, acutissime e ineguali,
la più lunga diritta, la più breve ricurva. I
frutti hanno forma di disco e sapore di mela
essiccata.
Recenti studi sull’interpretazione di reperti
fossili hanno individuato la sua area di origine
in Europa meridionale e Asia occidentale,
da cui poi si è diffusa naturalizzandosi in
altre regioni, come il Nord Africa, dove era
impiegata come pianta medicinale e come
recinzione. Diversamente Plinio la descriveva
come specie proveniente dalla località
Paliurus nei pressi del golfo di Bomba, in
Libia, che divide la Cirenaica storica dalla
contigua Marmarica.
A livello tradizionale medico se ne
impiegano i frutti per l’azione diuretica,
ipocolesterolemizzante e nel trattamento di
calcoli vescicali e renali. Studi più recenti ne
hanno evidenziato l’attività antimicrobica.
Sala IX
Pianta n. 3
Tiziano Vecellio
San Gerolamo penitente
Edera
Hedera helix L.
1552 circa
Questa pianta potrebbe essere identificata con una quercia, ricorrente in altre rappresentazioni di
San Gerolamo. Grazie al suo legno estremamente resistente, indica grande rigore fisico e morale,
una fede incorruttibile e in grado di resistere alle avversità
L’edera
rappresenta
la fede
salda di
San Gerolamo
LA RAPPRESENTAZIONE
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1488/90
– Venezia 1576) fu uno dei più importanti
pittori del Cinquecento. Ebbe una carriera
lunghissima, durante la quale lavorò per
i più prestigiosi committenti d’Europa e
creò, soprattutto in età matura, opere
dalla straordinaria carica drammatica,
caratterizzate da impasti di colore fortemente
espressivi.
Nel San Gerolamo penitente, realizzato per
la chiesa veneziana di Santa Maria Nuova,
Tiziano rappresenta il santo completamente
fuso con il paesaggio alpestre circostante,
reso con una gamma quasi monocromatica
di toni terrosi. Colpisce l’edera dipinta con
grande minuzia sulla roccia in primo piano.
Questa pianta implica diverse interpretazioni
simboliche. È sempreverde (allusione all’immortalità dell’anima), è rigogliosa, ma poggia
su steli modesti (similitudine con l’umiltà di
Gesù nel farsi uomo), è difficile da sradicare
(richiamo ai tormenti della Passione). In questo
caso specifico sembrerebbe simboleggiare
la fede salda di Gerolamo: l’edera cresce
arrampicandosi, “abbracciando” rami e rocce,
ispirando riferimenti all’amore, alla devozione
e alla fedeltà perenne. La compresenza della
quercia nell’opera rafforzerebbe questo
concetto.
GLI UTILIZZI
Pianta sempreverde, lianosa, dotata di
fusti volubili in grado di aderire a mezzo di
radici avventizie a qualsiasi supporto che
ne permetta uno sviluppo verticale; tuttavia
non è una pianta parassita e quindi non
rappresenta una minaccia per gli alberi su
cui cresce. Caratteristiche sono le sue foglie
di forma variabile (eterofillia) palmato-lobate
sui rami in basso, oppure, sui rami fertili più
alti ed in pieno sole, ovali-lanceolate.
Attualmente vengono riconosciute circa venti
specie di Hedera, tra le quali anche la nota
Edera di Dionysos, oggi chiamata Hedera helix
f. poetarum (Nicotra) McAll. & A. Rutherf, già
descritta da Tournefort, che la conobbe nei
mercati di Costantinopoli, e da De Candolle,
come specie dell’India settentrionale a foglie
cuoriformi e bacche gialle a cinque semi.
Prima di loro anche Plinio la descrive come
specie nobile impiegata per fare corone per i
poeti. Il motivo più credibile di tale utilizzo e
della sua consacrazione è legato alla credenza
che una corona ben stretta alla testa fosse il
miglior rimedio per il mal di testa causato da
eccessi alcolici.
Attualmente in medicina si impiegano le
foglie per il trattamento delle secrezioni
bronchiali, un tempo anche in uso esterno per
il trattamento delle ulcere; tutte le parti della
pianta sono però ricche in composti attivi
potenzialmente tossici, in particolare i frutti.
È curioso il fatto che le razze bovine, dopo il
parto, ricerchino spontaneamente le foglie di
edera utili contro le emorragie e come tonico
per l’utero.
Sala XIV
Pianta n. 4
Giovanni Cariani
Resurrezione di Cristo tra i Santi Gerolamo,
Giovanni Battista e due offerenti
Olivo
Olea europaea L.
1520
L’olivo è universalmente riconosciuto quale simbolo di pace e concordia
LA RAPPRESENTAZIONE
Giovanni Busi detto Cariani (Bergamo 1485
ca – dopo 1547) fu uno dei più interessanti
pittori bergamaschi del Cinquecento. Si formò
a Venezia e le sue opere giovanili sono infatti
debitrici dei Bellini e di Giorgione. Successivi
soggiorni in Lombardia influenzarono il suo
stile maturo, più vicino all’arte lombarda e
attento alle opere di Lorenzo Lotto.
Questa Resurrezione fu commissionata per
la cappella funeraria di famiglia dal patrizio
cremasco Ottaviano Vimercati (raffigurato
in ginocchio insieme alla moglie). A sinistra
è ben riconoscibile un olivo, considerato
emblema di pace sin dall’antichità classica.
A rafforzare questo simbolismo, tra i suoi
rami è appollaiata una colomba, che nella
Genesi (8, 11), porta a Noè il rametto di olivo
che annuncia la fine del Diluvio universale e
l’inizio di una nuova era di concordia tra Dio e
gli uomini. Allo stesso modo, la Resurrezione
di Cristo inaugura la pace tra l’umanità e
Dio, e forse questo è uno dei significati più
profondi dell’opera.
GLI UTILIZZI
Per le popolazioni mediterranee è impossibile
immaginare una pianta più importante e
rappresentativa dell’olivo. Fin dall’antichità
il Mediterraneo è stato infatti il centro
nevralgico sia della sua diffusione sia dello
sviluppo della sua coltura, che persiste ancora
oggi con più di 750 milioni di esemplari, pari
al 95% degli olivi presenti nel mondo, che
forniscono i 2/3 della produzione di olio,
concentrata prevalentemente tra Spagna,
Grecia e Italia.
Per i botanici l’olivo coltivato è una specie
dal complesso nome Olea europaea subsp.
europaea var. europaea, la cui origine e storia
biogeografica è ancora incerta; la teoria oggi
più accreditata fa derivare l’olivo da qualche
zona del Mediterraneo orientale, da cui poi
si diffuse, arricchendosi di nuove forme,
nell’area dell’Egeo, nel Nord Africa e poi nel
sud della Spagna e dell’Italia.
Qualunque sia stata la sua origine, l’olivo è
divenuto parte fondamentale della cultura
di tutte le grandi civiltà. Inserito, assieme
a vite e cereali, nella triade delle divinità
alimentari, sono sempre state riconosciute le
virtù medicinali e cosmetiche di frutti, foglie,
gemme e olio. Le foglie oggi si adoperano per
la loro attività nel metabolismo di carboidrati
e lipidi, per normalizzare la pressione arteriosa,
migliorare la circolazione del sangue e come
antiossidanti per la presenza di polifenoli.
Sala XVIII
Pianta n. 5
Simone Peterzano
Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio
Melograno
Punica granatum L.
1570 circa
La vite è uno dei simboli attribuiti al dio Bacco e ai suoi seguaci, i satiri
Il melograno è in questo caso
un attributo della dea Venere:
indica fertilità e prosperità.
Inoltre, la mitologia classica vuole
che questo albero, e quindi
il frutto, sia nato dal sangue
del dio Bacco
LA RAPPRESENTAZIONE
Allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio,
Simone Peterzano (Bergamo 1540-1596) fu
attivo principalmente a Milano. Le opere della
maturità sono caratterizzate da composizioni
semplici, da una grande attenzione al
disegno preparatorio e dal ricorso a gamme
cromatiche soffuse.
Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio,
realizzato intorno al 1570, è uno dei
pochi dipinti a carattere profano realizzati
dall’artista. Forte ed esplicita è la carica
erotica del soggetto dell’opera, che vuole
forse celebrare le potenze generatrici della
natura e i piaceri dell’amore carnale.
Venere, dea dell’Amore, dorme in compagnia
del figlio Cupido, mentre due satiri,
personificazioni della sfrenatezza e della
lussuria, tentano di insidiarla. La scena
è ambientata in un paesaggio naturale
lussureggiante, nel quale risalta un piccolo,
dettagliatissimo brano di natura morta
nell’angolo in basso a destra, in cui compaiono
anche alcune melagrane. Grazie a questi suoi
frutti ricchi di semi, il melograno è simbolo di
prosperità e fertilità, elementi connessi alla
dea Venere.
GLI UTILIZZI
È un albero leggendario, sinonimo di
fertilità per tutte le culture. I suoi frutti
sono talmente unici da avere spinto il
botanico De Candolle a coniare il termine
apposito “balausta”. Si tratta di una bacca
a pericarpo coriaceo contenente da 7 a 14
logge sovrapposte in due piani, separate da
tramezzi membranacei bianco-giallastri,
piene di numerosi semi con polpa carnosoacquosa di colore rosso, unico anch’esso al
punto da definire il colore rosso granato. Nel
suo curioso trattato Phytognomonica (Napoli,
1588), che illustra le proprietà medicinali
delle piante raffrontate con le varie parti
del corpo umano, il naturalista, filosofo e
alchimista Giovambattista della Porta indica
la melagrana per problemi ai denti, vista la
somiglianza del frutto sbucciato ad una bocca
semiaperta con denti in vista. Oggi questo
utilizzo non trova nessun riscontro, ma il
melograno rimane una specie medicinale di
enorme valore ed interesse. Il succo del frutto
protegge contro le malattie cardiovascolari
ed è dotato di attività antimicrobica e
antiossidante, considerata tre volte superiore
rispetto a quella del vino rosso o del tè verde.
La corteccia dei giovani rami e della radice,
per il suo contenuto in pelletierina, era già
nota ai Romani per l’attività vermifuga.
Sala XVIII
Pianta n. 6
Vincenzo Campi
Fruttivendola
Gelso nero
Morus nigra L.
1590 circa
Le more sono i frutti del gelso nero. Questa pianta nel Rinascimento
era connessa alla saggezza, alla pazienza e alla diligenza
L’abbondanza di frutti legati alla stagione della raccolta e la presenza dei grappoli d’uva,
che richiamano la vendemmia, ha portato ad ipotizzare che il quadro sia un’allegoria
dell’Autunno
L’opera è stata realizzata nel periodo della Controriforma. L’opulenza di frutti e ortaggi
potrebbe essere un ammonimento alla moderazione nell’assunzione e consumo del cibo
I tanti frutti e ortaggi messi in bella vista nelle ceste (ciliegie, asparagi, carciofi, fichi,
zucche...) hanno fatto supporre che l’opera rappresenti l’allegoria di uno dei quattro
elementi, la Terra
LA RAPPRESENTAZIONE
Vincenzo Campi (Cremona 1536 ca – 1591)
è famoso per la raffigurazione in età matura
di nature morte e di vivaci scene di mercati e
cucine, popolate da contadini. I suoi dipinti,
influenzati dall’arte fiamminga e molto
naturalistici, contribuirono all’affermarsi
della pittura di genere e della natura morta
in Lombardia.
La Fruttivendola fa parte di una serie di
quattro dipinti (con Pollivendoli, Cucina,
Pescivendoli) variamente interpretati, quali
allegorie dei quattro elementi o delle
stagioni dell’anno. Il ciclo proviene dalla
foresteria del convento gerolimita di San
Sigismondo a Cremona. Ciò sembra rafforzare
l’ipotesi che vede in queste tele intenti
moraleggianti legati alla pittura pedagogica
controriformista, che stimolava il fedele a
riflettere sull’amore divino, sul bene e il male,
sui vizi terreni, in questo ciclo forse volendo
alludere alla moderazione nel consumo del
cibo. Notevole, nella Fruttivendola, il realismo
con il quale è rappresentato il campionario di
frutti e ortaggi di varie specie e stagioni. In
particolar modo, su un piattino a destra, sono
in bella vista delle more di gelso nero. Questa
pianta era considerata emblema di saggezza
(è l’ultima a germogliare, solo quando i freddi
sono passati) e ricorre nell’allegoria della
Diligenza (la persona diligente sa aspettare e
non ha fretta nello svolgere il proprio lavoro).
GLI UTILIZZI
Il gelso è noto per la funzione che ha svolto
in passato nell’allevamento del baco da
seta, dapprima con le foglie del gelso nero
(Morus nigra L.), poi sostituito a metà del XV
secolo con il gelso bianco (Morus alba L.), le
cui foglie più tenere erano maggiormente
appetite dal baco da seta (Bombyx mori). Il
gelso nero si riconosce rispetto al bianco per
le foglie che sono più profondamente divise
e ruvide nella pagina superiore. Secondo
Ovidio il gelso nero nacque dal sangue di
Piramo e Tisbe, quando i due decisero di
togliersi la vita per l’impossibilità di amarsi.
Dopo che la coltivazione del gelso nero, ai
fini della bachicoltura, è stata abbandonata,
la pianta è stata mantenuta in coltura per
ornamento e per la produzione dei frutti,
usati per marmellate e sciroppi e, un tempo,
come coloranti per il vino. Inoltre era tenuto
in grande considerazione per le proprietà
medicinali, già riferite da Galeno, che ne
impiegava i frutti maturi come purgante,
quelli immaturi come astringenti e la corteccia
come vermifugo. Il Mattioli consigliava di
cuocerli in vaso di rame e quindi mescolarli
con miele per le infiammazioni della gola.
Studi più recenti hanno confermato l’attività
ipoglicemizzante delle foglie e ne hanno
convalidato l’impiego come antianemico per
la presenza di acido folico e folinico. Studi
ancora più recenti hanno rilevato la presenza,
nelle foglie e nella corteccia, di composti
fenolici con moderata azione antiossidante e
antibatterica.
Sala XVIII
Pianta n. 7
Giulio Campi
Madonna col Bambino con i Santi Mattia, Antonio da Padova,
il beato Alberto di Villa d’Ogna
Biancospino
Crataegus monogyna Jacq.
1530 circa
Il biancospino
si riferisce a
Maria e a Gesù.
I fiori bianchi
indicano la
Immacolata
Concezione;
i frutti rossi
simboleggiano
le gocce di
sangue versate
da Gesù sulla
croce; le spine
ricordano la
corona imposta
a Cristo
durante la sua
Passione
LA RAPPRESENTAZIONE
Giulio Campi (Cremona 1508 ca – 1573)
fu, insieme ai fratelli minori Vincenzo e
Antonio, uno dei protagonisti del Manierismo
italiano. Nelle sue opere tradusse in chiave
lombarda le raffinatezze formali della pittura
contemporanea, in particolare emiliana
e romana (Giulio Romano), dando vita a
dipinti altamente decorativi e di accentuato
illusionismo prospettico.
Questa Madonna col Bambino proviene dalla
chiesa di San Mattia a Cremona. Sullo sfondo
di un paesaggio reso con una veduta a volo
d’uccello, San Mattia introduce l’offerente
(non ancora identificato) alla Vergine e al
Bambino, in compagnia di un gruppo di santi.
Gesù è disteso su una morbida coperta,
che poggia vicino ad una piccola pianta
di biancospino, chiaramente riconoscibile.
Questo arbusto è connesso con la figura della
Vergine Maria, in quanto i suoi fiori bianchi
si riferiscono alla Immacolata Concezione;
i frutti rossi simboleggiano le gocce di
sangue versate da Gesù sulla croce e le spine
ricordano la corona imposta a Cristo durante
la sua Passione e morte. Gli antichi Romani
associavano questa pianta ai riti primaverili
di fertilità della dea Maia e decoravano gli
altari nuziali con rami fioriti di biancospino.
GLI UTILIZZI
Sin dall’età classica il biancospino è stato
oggetto di grande considerazione con un
forte significato simbolico, ciononostante
bisognerà attendere il XIX secolo, perché
le sue proprietà terapeutiche vengano
messe in luce, forse anche a causa di errate
interpretazioni botaniche. Curiosamente
alcune delle sue qualità curative hanno
una forte connessione con le leggende,
ad esempio con il sonno e la protezione
dei dormienti. Tale credenza risulta molto
radicata: nella fiaba La Bella Addormentata
nel Bosco la principessa Rosaspina cade
in un sonno incantato di cento anni dopo
essersi punta con un fuso, che al tempo pare
fosse fabbricato con legno di biancospino;
sappiamo che i trogloditi erano soliti
accompagnare e proteggere i propri defunti
nel sonno eterno, dopo aver legato loro i
piedi sopra la testa con rami di biancospino.
Grazie a indagini chimiche si sono poi
scoperti complessi molecolari presenti nelle
foglie e nei fiori di biancospino che svolgono
azione cardiocinetica e leggermente sedativa
tale da favorire il sonno, il rilassamento e il
benessere mentale in generale; è inoltre utile
nella regolazione della pressione arteriosa.
Oltre al biancospino comune (Crataegus
monogyna Jacq.) condividono le medesime
proprietà altre specie presenti allo stato
spontaneo in Italia, come il biancospino
selvatico - Crataegus laevigata (Poir.) DC. - e
l’azzeruolo (Crataegus azorolus L.).
Sala XIX
Pianta n. 8
Bernardino Luini
Madonna col Bambino (Madonna del Roseto)
Rosa
Rosa ×damascena Mill.
1520 - 1521 circa
Il fiore di aquilegia, di colore che dal bruno-violetto va al rossastro,
rappresenta la Passione di Cristo e il conseguente dolore di Maria
La rosa indica l’estraneità al peccato di Maria, definita dal poeta provenzale
del XIII secolo Pierre de Corbiac “Rosa senza spine, la più odorosa dei fiori”
Le foglie di melo potrebbero alludere al peccato dilagante
nel mondo, dal quale sono però immuni Maria e Gesù
LA RAPPRESENTAZIONE
Bernardino Scapi detto Luini nacque nei
pressi del lago Maggiore nel 1480 circa,
ma fu prevalentemente attivo a Milano,
dove morì nel 1532. Le sue prime opere
rivelano l’influenza di Zenale, Bergognone,
Bramantino e Leonardo. Il suo stile maturo
mostra impianti compositivi molto semplici
ed espressione misurata dei sentimenti,
anche nelle scene più drammatiche.
La Madonna del Roseto è un’opera probabilmente destinata alla Certosa di Pavia. Nella
rappresentazione della Vergine col Bambino,
Luini coniuga il gusto per la descrizione del
dato naturale tipico della tradizione lombarda
con gli studi botanici iniziati da Leonardo fin
dal periodo fiorentino. Ogni specie vegetale
è ben riconoscibile e resa con estrema
aderenza alla realtà. Di particolare rilievo
il pergolato di rose che funge da sfondo
alla scena, creando un hortus conclusus,
elemento tradizionalmente associato alla
figura di Maria, alludendo alla sua purezza.
L’iconografia del giardino chiuso è connessa
con l’Immacolata Concezione della Vergine e
con la sua totale estraneità al peccato.
GLI UTILIZZI
Arbusto dotato di robuste spine ricurve
che produce fragranti fiori ghiandolosi,
a petali rosa o bianchi, la sua origine è il
risultato di un incrocio casuale poi riprodotto
agamicamente, o dall’ibridazione tra Rosa
gallica e R. phoenicea o R. ×bifera, diffusa nel
mondo dai crociati tornati dalla Terrasanta.
Da questa, nei secoli successivi si sono create
numerose cultivar, tra le quali citiamo la
York and Lancaster a fiori semidoppi a colore
bianco e rosa, dedicata alla riconciliazione
tra le due casate inglesi, e la M.me Hardy,
la varietà più apprezzata e profumata,
ottenuta nel 1832 dal curatore dei giardini
del Lussemburgo a Parigi, Monsieur Hardy,
che la dedicò alla moglie. La sua fragranza
l’ha resa una delle rose più importanti per
l’industria essenziera e profumiera, al punto
da caratterizzare intere aree come la valle
di Kazanlak in Bulgaria, dove la leggenda
vuole che Alessandro Magno, di ritorno dalla
Persia, ne abbia introdotto la coltivazione. La
raccolta dei fiori si effettua manualmente
prima della completa antesi. Attualmente i
maggiori produttori sono Bulgaria, Iran, India
e Turchia. Viene impiegata, per la presenza
di componenti come terpeni, glucosidi,
flavonoidi e antocianine, anche in medicina.
Gli effetti farmacologici sono principalmente
sul sistema nervoso: ipnotici, analgesici e
anticonvulsivanti; svolge anche un’azione
sul sistema cardiovascolare, è antimicrobica,
antinfiammatoria e antiossidante. Pare
utile anche in casi di infiammazione della
cistifellea e calcoli biliari.
Sala XIX
Pianta n. 9
Giovanni Antonio Boltraffio
Ritratto di giovane
Alloro
Laurus nobilis L.
1500 circa
L’alloro, sin dall’antichità, è simbolo di vittoria e di eternità
LA RAPPRESENTAZIONE
Giovanni Antonio Boltraffio (Milano 14671516) fu forse l’alunno più talentuoso di
Leonardo da Vinci, in grado di recepire la
sua lezione soprattutto nel campo della
ritrattistica. A partire dall’ultimo decennio
del Quattrocento, l’artista lombardo realizzò
infatti alcuni ritratti che non soltanto
esaltavano il rango dell’effigiato, ma facevano
emergere la psicologia dei protagonisti.
Il Ritratto, a lungo ritenuto del poeta
Girolamo Casio, databile intorno al 1500,
presenta molte somiglianze con il Musico
di Leonardo, conservato all’Ambrosiana di
Milano. Boltraffio dipinse il giovane a mezzo
busto, contro uno sfondo indefinito, con
una intonazione psicologica e idealizzata
al tempo stesso. A generare l’equivoco
dell’identificazione con il poeta Girolamo
Casio, committente della pala del Louvre di
Boltraffio, sono stati i versi sul cartiglio e la
corona d’alloro, aggiunti nel corso del XVI
secolo.
Nella cultura classica l’alloro, pianta sacra
al dio Apollo, simboleggiava sapienza e
gloria. Una corona di lauro cingeva la
fronte dei vincitori e costituiva il massimo
riconoscimento per un poeta, che diveniva
“laureato”. Da qui l’accezione figurativa che
lo identifica quale simbolo di vittoria, fama,
trionfo e onore.
GLI UTILIZZI
Nelle stazioni soleggiate delle zone dell’olivo
cresce spontanea l’unica specie della flora
italiana appartenente alla straordinaria
famiglia delle Lauraceae, meglio nota per le
piante sacre e dall’enorme potere terapeutico.
Sono piante caratterizzate dalla presenza
di oli volatili e dal sapore speziato, quali ad
esempio la cannella (Cinnamomum verum J.
Presl) e la canfora, Cinnamomum camphora
(L.) J. Presl. I Greci e i Romani consacrarono
l’alloro intrecciato in forma di corona ad ogni
tipo di gloria.
Antichi erano anche gli impieghi terapeutici:
già Ippocrate e Plinio prescrivevano l’olio
delle sue bacche per dolori nevralgici di varia
natura. Oggi le foglie, per l’elevato contenuto
in oli essenziali stimolanti, carminativi,
antispasmodici, vengono considerate rimedio
utile per disturbi e spasmi del sistema
digerente. L’olio che si ottiene dalla spremitura
delle bacche (olio laurino) è indicato nella
terapia locale dei dolori reumatici.
Sala XIX
Pianta n. 10
Bernardino Luini
Lo scherno di Cam
Vite
Vitis vinifera L.
1515 - 1517 circa
La vite allude all’ebbrezza di Noè e alla Passione di Cristo
In questa porzione di prato in primo piano sono dipinte con perizia molte piante medicinali
tipiche della campagna lombarda. Tra le altre: tarassaco, viola, felci, malva e piantaggine
LA RAPPRESENTAZIONE
Il soggetto de Lo Scherno di Cam, un’opera
di Luini forse originariamente destinata alla
chiesa milanese di San Barnaba, è tratto dalla
Genesi (9, 20-27).
Dopo il diluvio universale, Noè giace a terra
nudo e ubriaco. I figli maggiori tentano di
coprirlo con un drappo rosso, in segno di
rispetto; Cam, il minore, irrompe da destra
schernendo il vecchio padre e attirando così
su di sé la maledizione per la sua stirpe. In
luogo del Monte Ararat, dove è ambientata
la scena secondo le Scritture, Luini raffigura
una campagna tipicamente lombarda. Nel
prato, in primo piano, si concentrano un gran
numero di piante medicinali caratteristiche di
quest’area. Ricca di significati è la vite alle
spalle dei personaggi. Solitamente questa
pianta è segno di prosperità e gioia, ma in
questo contesto sono espliciti i rimandi
cristologici. L’ubriachezza di Noè rappresenta
il vino eucaristico bevuto da Gesù durante
l’Ultima Cena. La nudità e la derisione del
patriarca da parte del suo stesso sangue
alludono alla Passione del Redentore sulla
croce.
GLI UTILIZZI
La vite è una specie estremamente polimorfa
che allo stato spontaneo - Vitis vinifera L.
subsp. sylvestris (C.C. Gmel.) Hegi - ha forma di
liana che può superare il secolo di età: vengono
infatti descritte persino piante di 340 anni con
rami lunghi oltre i 30 metri. A partire da questa,
l’uomo ha selezionato nei millenni moltissime
varietà con caratteristiche differenti nell’acino
e più o meno adatte alle diverse produzioni:
vino o uva da tavola. Le cultivar o vitigni
coltivate sono inserite in Vitis vinifera L.
subsp. vinifera. Altre specie del genere Vitis,
importanti per la viticoltura, sono quelle di
origine nordamericana che, direttamente o
per ibridazione, hanno dato origine a varietà
per portainnesti o per la produzione di uva.
Tra questi si distinguono gli ibridi americani
(Vitis rupestris Schelle, V. riparia Mich×. agg.)
da quelli francesi (V. labrusca L., V. aestivalis
Mich×.). Nonostante tutti i riferimenti storici
e letterari siano legati al principale prodotto
della vite, il vino, altre parti della pianta
hanno indiscusse virtù. Le foglie svolgono
un’importante attività antiossidante e regolano
il microcircolo e l’apparato cardiovascolare,
mentre l’olio estratto dai semi facilita
l’integrità e la funzionalità delle membrane
cellulari, il trofismo e la funzionalità della pelle
e contrasta i disturbi dovuti al ciclo mestruale.
Oltre all’uomo, un altro animale che ha stretto
un forte legame evolutivo con il genere Vitis è
lo storno (Sturnus vulgaris), che nella mutua
simbiosi ha beneficiato di una preziosa fonte
alimentare, mentre la vite di un efficace
mediatore di disseminazione.
Sala XXI
Pianta n. 11
Carlo Crivelli
Madonna della Candeletta
Pero
Pyrus communis L.
1490 circa
Anche se non
esplicitamente citato
nella Bibbia, l’albero
proibito è stato
tradizionalmente
identificato con il
melo (in latino malus
significa sia “cattivo”
che “melo”). Il suo
frutto è così diventato
emblema del peccato.
Se però associato a
Maria e Gesù, rimanda
alla redenzione
dell’umanità
Il vaso contiene rose
bianche e gigli, che
alludono alla purezza
di Maria. Le rose rosse
possono rimandare
alla Carità, ma anche
alla Passione di Gesù
La pesca ha alcuni
significati ricorrenti:
temperanza,
immortalità, verità
Nella simbologia
cristiana la pera
è spesso connessa,
per la sua dolcezza,
all’amore di Dio
per l’uomo
Il colore rosso
delle ciliegie potrebbe
indicare il sangue
versato da Cristo
sulla croce, ma anche
fiamma di carità
LA RAPPRESENTAZIONE
Carlo Crivelli nacque a Venezia intorno
al 1430, coetaneo di Giovanni Bellini e
di Andrea Mantegna. Si formò a Padova,
presso la bottega di Squarcione. Negli anni
sessanta si stabilì nelle Marche, dove si
specializzò nella produzione di pale d’altare.
Fu uno dei principali esponenti del linguaggio
figurativo dell’area adriatica, caratterizzato
da una originale commistione tra stilizzazioni
ancora tardogotiche e naturalismo di matrice
rinascimentale. Morì intorno al 1495.
Nei suoi dipinti compaiono spesso fiori e
frutta, sovente impaginati in festoni vegetali
suggeritigli dall’opera di Squarcione, ma che
probabilmente riprendono anche architetture
vegetali effimere, e ai quali sono stati
attribuiti significati simbolici. Nella Madonna
della Candeletta, realizzata per il duomo
di Camerino, la lettura complessiva della
simbologia vegetale, considerate le specie
vegetali raffigurate, allude alla salvezza
dell’uomo. In particolar modo Gesù stringe in
mano una pera dalla forma perfetta. Questo
frutto è ricorrente in molte rappresentazioni
della Vergine con il Bambino: la sua dolcezza
tradizionalmente rimanda all’affetto e alla
tenerezza tra Madre e Figlio. Non da ultimo,
nella simbologia cristiana, la pera è spesso in
connessione con l’amore di Dio per l’umanità.
GLI UTILIZZI
La piacevole dolcezza della pera, nonché le sue
molteplicità di forme, sono qualità che il pero
comune ha sviluppato per nutrirci, deliziarci,
ispirarci, perfino inebriarci. Pyrus communis
L. è infatti una specie che non esiste allo
stato spontaneo, ma solo coltivata dall’uomo.
La sua origine, ottenuta dall’incrocio di peri
selvatici, è ipotizzata in un’area compresa
tra Anatolia, Caucaso, Transcaucasia e Asia
Centrale. Nel corso degli anni sono state
create molte varietà con diversità di forme,
sapori, epoche di maturazione; la pera ebbe
il suo culmine tra il 1750 ed il 1850, detto
il secolo d’oro della pera, durante il quale si
arrivò a crearne più di mille varietà differenti.
Oltre al suo largo impiego alimentare e
mitologico, la pera svolse un importante
ruolo terapeutico, come si desume dagli
scritti di Dioscoride, Galeno, Mattioli, che
la indicava utile perfino per eliminare la
tossicità dei funghi velenosi. Con alcune
varietà veniva preparato un medicamento
chiamato liquamen castimoniale, impiegato
come bevanda di castità e ottenuto pressando
le pere con sale fino ad ottenere una poltiglia
che veniva conservata, per almeno tre mesi,
in piccole botti e quindi addizionata con
un estratto in vino rosso di Nigella sativa.
In epoca più recente se ne impiegavano le
foglie, per il contenuto di arbutina, nella
cura di patologie urinarie, e i frutti venivano
utilizzati come diuretici ed antiuricemici.
Oggi se ne consiglia il consumo per il ridotto
contenuto di glucosio, per l’apporto di fibra
solubile, vitamina C e flavonoidi.
Sala XXII
Pianta n. 12
Dosso Dossi
San Sebastiano
Arancio
Citrus sinensis (L.) Osbeck
1524 circa
La pianta di arance
potrebbe rinviare
alla fede salda
e incorruttibile
di Sebastiano,
oppure nella scena
di martirio la rara
presenza dell’agrume
potrebbe essere
interpretata in
chiave amorosa
L’edera che si
arrampica sul
tronco dell’arancio
allude anch’essa
alla devozione e alla
fedeltà perenne
LA RAPPRESENTAZIONE
Giovanni Luteri detto Dosso Dossi (Quistello,
Modena 1473/1474 - Ferrara 1542) fu
l’artista di punta della corte ferrarese di
Alfonso d’Este nel primo Cinquecento, l’epoca
di Ludovico Ariosto. Formatosi sui maestri
ferraresi e veneziani, frequentò Firenze e
Roma, studiando Michelangelo e Raffaello.
In quest’opera, realizzata per una chiesa di
Cremona intorno al 1526, Dossi rappresenta
San Sebastiano secondo l’iconografia più
ricorrente: legato ad un albero (altre volte
è una colonna) e trafitto dalle frecce. Non
frequente è la scelta di dipingere un arancio,
il cui frutto è più sovente connesso alla
figura di Maria, quale emblema di purezza e
castità, o a quella di Cristo, come simbolo di
redenzione. In questo caso, essendo la pianta
un sempreverde, potrebbe rappresentare
un’allusione alla rettitudine e alla fede
incorruttibile di Sebastiano. L’arancia è anche
presente nelle simbologie amorose profane:
dunque in questo caso potrebbe essere messa
in relazione con l’amore nei confronti di Dio,
il che spiegherebbe anche lo sguardo intenso
e quasi estatico del santo.
Bisogna poi considerare che Dossi lavorò
prevalentemente a Ferrara, famosa nel
Rinascimento per i suoi giardini, tra i quali la
Loggia degli Aranci di Palazzo Ducale.
GLI UTILIZZI
Fu solo agli inizi dell’epoca moderna,
nel 1525, almeno quattro secoli dopo
l’introduzione dell’arancio amaro, che
l’Europa fece la conoscenza dell’arancio dolce
- Citrus sinensis (L.) Osbeck - (comunemente
melarancia o portogallo), “originari della
China, del Giappone, della Cocincina, e delle
Isole del Mar Pacifico” (Antonio Targioni
Tozzetti, 1853).
Secondo alcuni, il merito fu del governatore
portoghese Giovanni de Castro che, di ritorno
dalla Cina, ne portò una pianta a Lisbona.
Il Mattioli, medico e botanico senese del
Cinquecento, parla degli aranci dolci, e lo
stesso fa il frate domenicano fiorentino
tardocinquecentesco Agostino del Riccio,
come di piante non nuove, ma anzi da molto
tempo indietro conosciute e coltivate.
Quello che è certo è che indagini recenti
hanno stabilito che si tratta di un incrocio tra
il mandarino (C. reticulata) ed il pummelo (C.
maxima).
Note erano sin dall’antichità le sue virtù
terapeutiche, trattate già da Avicenna nel
suo antidotario. La scorza e i frutti di arancio
svolgono una azione tonica e stomachica
per la presenza di olio essenziale, costituito
da limonene e linalolo e da composti di
natura flavonoidica. Inoltre sono state
isolate due sostanze ad attività opposta, una
ipoglicemizzante e l’altra iperglicemizzante.
Sala XXIV
Pianta n. 13
Raffaello Sanzio
Sposalizio della Vergine
Oleandro
Nerium oleander L.
1504
La tradizione
vuole che
la verga
consegnata
ai pretendenti
di Maria fosse
di legno
di oleandro
LA RAPPRESENTAZIONE
Raffaello Sanzio (Urbino 1483 – Roma 1520)
fu alunno di Perugino e la sua maturità
artistica si compì nel 1508, quando da Firenze
(dove conobbe Leonardo e Michelangelo) si
trasferì a Roma, per lavorare nel cantiere
vaticano. Fu uno dei protagonisti indiscussi
del Rinascimento e le sue opere sono
caratterizzate da equilibrio compositivo,
armonia cromatica e misurata espressività.
Lo Sposalizio della Vergine è uno dei
capolavori giovanili, realizzato per la chiesa
di San Francesco a Città di Castello. Sullo
sfondo vi è un tempio a pianta circolare,
verso il quale converge la prospettiva perfetta
della piazza lastricata. In primo piano si
svolge la scena principale: un sacerdote
officia il matrimonio tra Maria e Giuseppe.
Come vuole la tradizionale iconografia,
la giovane è accompagnata da un gruppo
di donne; l’uomo è invece circondato dai
pretendenti non prescelti. I vangeli apocrifi
narrano che per scegliere lo sposo di Maria
fu consegnato un ramo secco di oleandro
ad ognuno dei contendenti. Solo quello di
Giuseppe miracolosamente fiorì e la scelta
ricadde su di lui: da quel momento la pianta
fu denominata “mazza di San Giuseppe”.
GLI UTILIZZI
L’oleandro è pianta ampiamente utilizzata
per fini ornamentali, il cui fascino è però
offuscato da un ormai noto lato oscuro legato
alla tossicità di alcuni suoi composti. In tempi
antichi, si credeva fosse giunto dalla terra di
Colchide, ritenuta la patria della magia, ed
era considerato una delle piante di Medea,
figura ambigua dotata di straordinari poteri
magici.
Di questa sua componente magica si può trarre
testimonianza anche da autori del passato:
Senofonte (ca. 430-355 a.C.) nell’Anabasi
riporta che alcuni soldati vennero inebriati e
avvelenati dal miele che era stato prodotto
dai rododendri del Ponto (Rhododendron
ponticum L.) e apparentemente dagli oleandri
dai fiori rossi (Nerium oleander L.); Teofrasto
riferisce che la radice macerata nel vino
rendeva il temperamento dell’uomo più dolce
e allegro.
Popolarmente è noto anche come “ammazzalasino”, in accordo con le Metamorfosi
di Apuleio, oppure “mazza di San Giuseppe”.
Come riferito, l’oleandro presenta tossicità
in tutte le sue parti di glicosidi cardioattivi.
Dal lato terapeutico il più importante di
questi glicosidi è l’oleandrina. Dall’oleandro
è stato inoltre estratto un olio particolare,
l’oleandrosio, e un eteroside, la nerina, ad
azione strofantino-simile.
Sala XXVII
Pianta n. 14
Timoteo Viti
La Vergine Annunciata
e i Santi Giovanni Battista e Sebastiano
Clematide
Clematis vitalba L.
1515 circa
La clematide rampicante sul tronco cui è legato San Sebastiano potrebbe sostituire l’edera,
che solitamente indica la fede incorruttibile dei santi
LA RAPPRESENTAZIONE
Timoteo Viti (Urbino 1469-1523) si formò
a Bologna, nella bottega di Francesco
Francia. Le sue opere sono caratterizzate da
composizioni semplici ed equilibrate, e dalla
dolcezza delle espressioni.
La Vergine Annunciata e i Santi Giovanni
Battista e Sebastiano, del 1515, fu realizzata
per la chiesa urbinate di San Bernardino, ove
era conservata anche la Pala Montefeltro di
Piero della Francesca. La scena è ambientata
in un paesaggio naturale, all’interno del quale
sono riconoscibili alcune piante medicinali.
Nella porzione di prato in primo piano vi
sono margherite, primule e viole; sull’albero
al quale è legato San Sebastiano è dipinta,
con una sorprendente aderenza alla realtà,
una clematide rampicante. In questo caso
le specie vegetali sembrano avere un valore
più descrittivo del paesaggio naturale
del Centro Italia che simbolico. La viola è
però tradizionalmente simbolo di umiltà e
modestia, e quindi potrebbe essere associata
alla Vergine Annunciata; la clematide
potrebbe sostituire l’edera, ricorrente in altre
raffigurazioni di santi a richiamare la loro
fede incorruttibile.
In questa porzione di prato sono riconoscibili margherite, primule e viole.
Quest’ultima pianta è solitamente connessa a Maria, in quanto simbolo di modestia e umiltà
GLI UTILIZZI
È certamente la pianta a forma lianosa
più nota e diffusa delle regioni temperate,
ricca di attribuzioni e significati talvolta
contraddittori. Nell’ottocentesco linguaggio
dei fiori c’è chi le assegna il significato
di artificio, perché i mendicanti, per farsi
commiserare, si procuravano, strofinandosi
con la pianta, degli ascessi fittizi; per altri
la vitalba indica l’intelligenza limpida e
onesta. La sua notorietà e considerazione è
da sempre massima nelle aree rurali, dove si
adopera come cibo quando ancora allo stato
di germoglio, sin da epoca romana, come
riporta Columella (L’arte dell’agricoltura e
Libro sugli alberi), in particolare la C. vitalba.
Oltre all’uso alimentare, già nell’antichità le
venivano riconosciute proprietà medicinali:
Dioscoride le attribuiva la capacità di guarire
la lebbra, mentre attorno al XVIII secolo si
adoperava per preparare l’olio rosato, che
“riesce di gran giovamento nella Sciatica
non solo adoperato esternamente ma preso
ancora per bocca al peso di tre dramme” (G.G.
Zannichelli, 1735).
Un curioso utilizzo popolare prevedeva
l’introduzione di piccole quantità di pianta
fresca nelle narici come analgesico per le
emicranie. Oggi l’utilizzo per via interna è
fortemente sconsigliato, per la presenza, in
tutta la pianta adulta, di protoanemonina,
sostanza irritante e vescicante.
Sala XXXVII
Pianta n. 15
Pierre-Paul Prud’hon
Ritratto di Giovanni Battista Sommariva
Acanto
Acanthus mollis L.
1813
LA RAPPRESENTAZIONE
Pierre-Paul Prud’hon (Cluny 1758 – Parigi
1823) fu uno dei principali artisti del periodo
napoleonico. Iniziò i suoi studi a Digione
e Parigi, per poi spostarsi a Roma tra il
1784 e il 1788. Amico di Antonio Canova,
è famoso soprattutto per i ritratti di illustri
contemporanei.
Nel Ritratto di Giovanni Battista Sommariva è
immortalato uno dei personaggi più influenti
della Milano napoleonica, nonché grande
esperto d’arte. L’uomo ha deciso di farsi
ritrarre immerso nella quiete del suo parco,
circondato da due sculture realizzate dal
Canova per la sua collezione personale.
Il cespuglio di acanto in primo piano
contribuisce a rafforzare gli intenti celebrativi
del dipinto. L’acanto rappresenta infatti il
prestigio e il benessere materiale e comporta
un richiamo all’arte classica: basti pensare ai
motivi decorativi tipici dei capitelli di ordine
corinzio ispirati proprio a questa pianta.
L’acanto simboleggia il benessere materiale
e rievoca i motivi decorativi dell’arte greca
GLI UTILIZZI
L’acanto è specie di grande bellezza,
largamente adoperata per decorare le zone
ombrose e fresche in parchi e giardini. Il
fascino delle sue foglie, caratterizzate da
margini frastagliati e nervature pronunciate,
ha attirato l’attenzione di artisti del passato,
che la apprezzavano al punto da impiegarla
come spunto per la decorazione di mobili,
vasi, vesti preziose, colonne. Lo stesso Plinio
assicura, a quanto scrive Charlotte De Latour
nel suo Linguaggio dei fiori, pubblicato
intorno al 1819, che si tratta di una “pianta
erbacea meravigliosamente utile come
motivo decorativo”.
L’acanto comune è pianta erbacea perenne
inconfondibile per le foglie verde brillante, a
contorno spatolato, pennatopartite, con lobi
profondamente divisi di grandi dimensioni
(lunghe anche 60 centimetri). La sua
presenza spontanea in Italia, nelle stazioni
naturali di crescita, è di gran lunga inferiore
alla diffusione in stazioni secondarie legate
agli insediamenti umani.
Foglie e radici svolgono un’azione emolliente
e lenitiva sia sul sistema digerente sia sulle vie
urinarie. Tra gli impieghi popolari tradizionali
che sono stati oggetto di approfondimento
merita di essere citato l’impiego che se ne
fa nel Sud Italia contro la psoriasi e altre
malattie della pelle.
Sala XXXVII
Pianta n. 16
Eugenio Gignous
Fiori nel chiostro
Malvarosa
Alcea rosea L.
1877
Nell’ottocentesco linguaggio dei fiori,
il malvone, o malvarosa, è rappresentativo
della fertilità e dell’ambizione femminile
LA RAPPRESENTAZIONE
Eugenio Gignous (Milano 1850 – Stresa
1906) iniziò la sua formazione artistica
presso l’Accademia di Brera. Amico di
Tranquillo Cremona e vicino all’ambiente
bohémien della Scapigliatura, si dedicò
soprattutto alle pitture di paesaggio, creando
visioni poetiche caratterizzate da dissolvenze
cromatiche, atmosfere avvolgenti e contorni
indeterminati.
In Fiori nel chiostro alcune suore passeggiano
all’interno del convento, in un giardino
lasciato spontaneo. Il vero protagonista della
vicenda sembra essere il grande malvone in
primo piano, ben riconoscibile nonostante le
pennellate veloci e vibranti. Nel linguaggio
dei fiori di epoca vittoriana questa pianta
ornamentale era connessa alla fecondità
e all’ambizione femminile. Tutto questo
sembra essere in netta contraddizione con
le protagoniste del dipinto, le suore, ma
forse è proprio questo il paradosso che
voleva suggerire l’artista. Spesso la pittura
scapigliata propone soggetti anticonformisti
e perfino amorali, anche di ispirazione
letteraria; basti pensare alla fascinazione
esercitata da un’altra suora, la Gertrude
monaca di Monza dei Promessi sposi.
GLI UTILIZZI
In qualunque fonte storica lo si ricerchi,
il significato del nome della Althea
rosea, oggi cambiato in Alcea rosea L.,
evidenzia un’accezione legata al suo valore
medicinale. Già Plinio la considerava specie
dalle meravigliose proprietà medicinali, e
Ippocrate la consigliava per ogni tipo di
ferita e addirittura contro i morsi velenosi di
serpenti, ragni e scorpioni. Curioso è l’effetto
riportato da Teofrasto in De causis plantarum,
che descrive la capacità delle foglie di gelare
l’acqua, conseguenza dell’elevata presenza
di mucillagini, anche se queste sono in
realtà concentrate principalmente nella
radice, che ne è la droga principale. Proprio
la presenza di queste mucillagini, costituite
da diversi polisaccaridi e anche proteine,
alcaloidi, flavonoidi e minerali, conferisce
proprietà emollienti utili per la funzionalità
delle mucose dell’apparato respiratorio e il
benessere della gola. Svolgono inoltre attività
emolliente e lenitiva sul sistema digerente e
urinario e sono debolmente lassative.
Studi farmacologici asiatici riportano che
questa pianta svolge anche attività antibatterica ed effetti analgesici.
Nonostante la sua grande diffusione nei
giardini, è controversa la sua presenza come
specie spontanea sul territorio italiano.
Sala XXXVIII
Pianta n. 17
Giovanni Segantini
Pascoli di primavera
Pino mugo
Pinus mugo Turra
1896
Il pino mugo e i rododendri in primo piano
sono le piante che caratterizzano
il panorama alpino dipinto da Segantini
LA RAPPRESENTAZIONE
Giovanni Segantini, nato ad Arco (Trento)
nel 1858, studiò presso l’Accademia di Brera.
Inizialmente influenzato dal naturalismo
lombardo, si avvicinò all’opera di JeanFrançois Millet e alle ricerche divisioniste
francesi. Nel 1894 si stabilì in Engadina, dove
dipinse fino alla morte, avvenuta nel 1899.
I soggetti delle sue opere sono legati al mondo
contadino e pastorale. La tecnica utilizzata è
il divisionismo, con dense pennellate di colore
puro accostate fra loro, capaci di rendere le
atmosfere rarefatte e la luminosità dell’alta
montagna. Inoltre, a partire dagli anni
novanta, si avvicinò al simbolismo, esaltando
la spiritualità e il senso di religiosità che
permeano le sue visioni naturalistiche.
Amatissima da Segantini, Pascoli di primavera
è una veduta della zona del Maloja con
pennellate filamentose, che restituisce la
vibrazione cromatica e la trasparenza tipiche
delle altitudini. Uomo e natura (l’uomo sullo
sfondo, il pino mugo e i rododendri in primo
piano) sono fusi in una visione serena ed
estremamente lirica: un senso di pace e di
tranquillità pervade il dipinto.
GLI UTILIZZI
La muga, o pino mugo, è una tipica pianta
dell’arco alpino, descritta per la prima volta
dal botanico Antonio Turra (1746) sul Monte
Baldo in Trentino, che ne è quindi il locus
classicus. Lo scrittore e scultore Mauro
Corona si fa ancora oggi portavoce della
credenza dei popoli alpini, descrivendola
con queste parole: “la cattiva per eccellenza.
Subdola di natura, cresce falsa e disonesta ed
è anche rompiscatole. Come tutti i vili sta col
branco e, al pari dei noccioli e dei sambuchi,
trae forza dal numero. Il cuore e il corpo li
tiene nascosti per non doverli donare ad altri.
Assomiglia a quel cauto miliardario che si
finge povero e nullatenente per paura che un
amico bisognoso gli possa chiedere diecimila
lire. Se la stringi ti dà l’idea di affidamento e
a volte tiene. Ma se gli stai antipatico, e in
un pendio ripido ti aggrappi a lei per tirarti
su, ecco che ghignando fa ‘crac’ e ti molla
di sotto”.
In realtà per questo caratteristico portamento
prostrato-ascendente, la pianta svolge un
importante ruolo contro il dilavamento
del suolo e la caduta di valanghe. Dalla
distillazione dei suoi rami si ottiene un
olio essenziale dal caratteristico nome: il
mugolio, ad attività antisettica, balsamica
e secretolitica, che svolge la propria attività
principalmente sull’apparato respiratorio.
PIANTA 1
SALA VI
Borragine - Borago officinalis L.
Disputa di Santo Stefano fra i Dottori nel Sinedrio, Vittore Carpaccio
2
VII
Marruca - Paliurus spina-christi Mill.
Pietà, Giovanni Bellini
3
IX
Edera - Hedera helix L.
San Gerolamo penitente, Tiziano Vecellio
4
XIV
Olivo - Olea europaea L.
Resurrezione di Cristo tra i Santi Gerolamo,
Giovanni Battista e due offerenti, Cariani (Giovanni Busi)
5
XVIII
Melograno - Punica granatum L.
Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio, Simone Peterzano
6
XVIII
Gelso nero - Morus nigra L.
Fruttivendola, Vincenzo Campi
7
XVIII
Biancospino - Crataegus monogyna Jacq.
Madonna col Bambino con i Santi Mattia, Antonio da Padova,
il beato Alberto di Villa d’Ogna, Giulio Campi
8
XIX
Rosa - Rosa ×damascena Mill.
Madonna col Bambino (Madonna del Roseto), Bernardino Luini
9
XIX
Alloro - Laurus nobilis L.
Ritratto di giovane, Giovanni Antonio Boltraffio
10
XIX
Vite - Vitis vinifera L.
Lo scherno di Cam, Bernardino Luini
11
XXI
Pero - Pyrus communis L.
Madonna della Candeletta, Carlo Crivelli
12
XXII
Arancio - Citrus sinensis (L.) Osbeck
San Sebastiano, Dosso Dossi (Giovanni di Niccolò Luteri)
13
XXIV
Oleandro - Nerium oleander L.
Sposalizio della Vergine, Raffaello Sanzio
14
XXVII
Clematide - Clematis vitalba L.
La Vergine Annunciata e i Santi Giovanni Battista e Sebastiano, Timoteo Viti 15
Acanto - Acanthus mollis L.
XXXVII Ritratto di Giovanni Battista Sommariva, Pierre-Paul Prud’hon
16
Malvarosa - Alcea rosea L.
XXXVII Fiori nel chiostro, Eugenio Gignous
17
Pino mugo - Pinus mugo Turra
XXXVIII Pascoli di primavera, Giovanni Segantini
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