Direzione Generale per il bilancio e la programmazione economica,
la promozione, la qualità e la standardizzazione delle procedure
L’innovazione
per un restauro
sostenibile
Salone dell’Arte del Restauro
e della Conservazione
dei Beni Culturali e Ambientali
FERRARA
25-28 Marzo 2009
Edizioni MP MIRABILIA
Quartiere fieristico di Ferrara
L’innovazione
per un restauro
sostenibile
Salone dell’Arte del Restauro
e della Conservazione
dei Beni Culturali e Ambientali
FERRARA
25-28 Marzo 2009
Quartiere fieristico di Ferrara
Direzione Generale per il bilancio e la programmazione economica,
la promozione, la qualità e la standardizzazione delle procedure
Direttore Generale Maddalena Ragni
XVI Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali
Il programma di partecipazione, progettazione e realizzazione opuscolo, materiali grafici e stand,
organizzazione convegno e incontri allo stand, è stato organizzato dal:
Servizio IV - Comunicazione e Promozione
Responsabile Antonella Mosca
con Costanza Barbi, Monica Bartocci, Antonella Corona, Francesca D’Onofrio, Rossella Flenghi,
Maria Cristina Manzetti, Anna Napoleoni, Maria Tiziana Natale, Amedeo Natoli, Simona Pantella,
Susanna Puccio, Maria Siciliano
Rapporti con i media
Vassili Casula
Comunicazione multimediale
Alberto Bruni, Renzo De Simone, Francesca Lo Forte, Emilio Volpe
Amministrazione
Laura Petracci
Supporto operativo allo stand
Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia Romagna
Referente Paola Monari
Sommario
Presentazione
Sandro Bondi
Presentazione
Maddalena Ragni
13
14
L’istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario
Verso un restauro sostenibile: il primato della conservazione preventiva
Armida Batori
16
Yemen: i frammenti ritrovati nella grande Moschea di Sana’a
18
Stampe fotografiche e disegni del Fondo dell’Archivio del Compendio Nazionale Garibaldino di
Caprera: indagini biologiche
Armida Batori, Marina Bicchieri, Carla Casetti Brach, Flavia Pinzari, Piero Colaizzi, Michela Monti, Giovanna Piantanida,
Armida Sodo, Marco Di Bella
Maria Carla Sclocchi, Donatella Matè
20
Garibaldi a Caprera: interventi “dolci” per la diagnostica e il restauro
21
Le indagini non distruttive per l’esame della pergamena decorata “Attestato Associazione
Ottonieri & C.”, Archivio del Museo Nazionale del Compendio Garibaldino di Caprera
Cecilia Prosperi
Luciano Residori, Marina Bicchieri, Lorena Botti, Matteo Placido, Daniele Ruggiero, Giuseppe Guida
23
Stampa “Morte di uno dei fratelli Cairoli”, Archivio del Museo Nazionale del Compendio
Garibaldino di Caprera: indagini non distruttive
Luciano Residori, Lorena Botti, Giovanna Piantanida, Matteo Placido, Daniele Ruggiero, Flavia Pinzari
25
Il restauro del globo terrestre manoscritto della Biblioteca Braidense
28
Il viaggio di Leonardo in America. Trasporto ed esposizione negli USA di 11 disegni
e un codice di Leonardo da Vinci della Biblioteca Reale di Torino
Carla Casetti Brach, Simonetta Iannuccelli, M. Speranza Storace, Silvia Sotgiu, Donata Falchetti, Lorenzo Civiero
Francesco Bossi, Simonetta Villanti, Maria Speranza Storace, Clara Vitulo
30
Il restauro del manoscritto XIII. B. 7 della Biblioteca Nazionale di Napoli
33
ISCR - Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro
34
35
Carla Casetti Brach, Federico Botti, Maria Luisa Riccardi, Vincenzo Boni
Conservare per valorizzare
Caterina Bon Valsassina
Il Mausoleo delle Ghirlande: nuove soluzioni per esporre e conservare in teche
ad atmosfera modificata
Fabio Aramini, Stefano Ferrante, Mauro Rubini
38
Carta del rischio del patrimonio culturale Italiano. Schedatura sulla vulnerabilità
e pericolosità sismica del Patrimonio Culturale della Regione Sicilia e Calabria
Alessandro Bianchi, Carlo Cacac
39
Le migliori tesi dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, dell’Opificio delle
Pietre Dure e della Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna. Anno 2007/2008
Massimo Bonelli, Letizia Montalbano, Cetty Muscolino
42
Schedatura conservativa di chiese dell’Abruzzo e Molise. Esempio di sinergia tra istituzioni
diverse per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, realizzata fra
l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e l’Università degli studi dell’Aquila
Carlo Cacace, Donatella Fiorani
44
Il Laboratorio Conservazione e Restauro dei Manufatti Tessili
47
Restauro e manutenzione dei templi di Paestum
Silvia Checchi, Manuela Zarbà
Giovanna De Palma
49
Conservazione e restauro per la valorizzazione del patrimonio.
Musei: Sistema WEB della Scheda Ambientale
C. Cacace, E. Giani, A. Giovagnoli, L. Gordini, M. P. Nugari
51
Per uno studio della distribuzione dell’umidità nelle strutture murarie.
L’applicazione di una tecnica non invasiva
Anna Maria Marinelli, Barbara Provinciali
55
Il restauro dell’Icona di S. Nicola del Museo Bizantino di Nicosia a Cipro
Beatrice Provinciali, Costanza Mora, Albertina Soavi
58
Venezia - Due interventi di monitoraggio ambientale: Palazzo Labia, salone affrescato da
Giambattista Tiepolo (1746-7), Chiesa della Visitazione, soffitto ligneo dipinto del XVI secolo
Carlo Cacace, Daila Radeglia, Paolo Scarpitti, Amalia Donatella Basso
60
Casignana. Villa romana di Palazzi di Casignana
65
Il restauro dell’icona della Madonna Advocata nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma
67
Antonio Canova “Il compianto della Contessa de Haro”. Il restauro, una scoperta
69
OPD - Opificio delle Pietre Dure
70
L’Opificio delle Pietre dure tra soppressione e autonomia.
Riflessioni in prossimità di un congedo
Claudio Sabbione
Giulia Tamanti, Costanza Mora, Beatrice Provinciale, Albertina Soavi
Carla Zaccheo, Federica Cerasi, Tiziana Dell’Omo
Bruno Santi
74
Il progetto di conservazione della Madonna del Cardellino
77
Anticipazioni sul restauro de “La leggenda della Vera Croce” di Agnolo Gaddi nella
Cappella Maggiore della Basilica di Santa Croce in Firenze
Marco Ciatti
Cecilia Frosinini
80
Riflettografia e Grandi Maestri – 4 - La riflettografia per la storia dell’arte: da Giotto a Van Gogh
82
Il restauro del Caleffo dell’Assunta
83
Tutela preventiva delle cose, dei comportamenti e delle espressioni delle persone
85
Nuove acquisizioni pratiche nel restauro di oggetti di natura antropologica
87
Programmi di ricerca e patrimonio culturale: una rete di coordinamento in Europa
88
Per una piattaforma digitale dei restauri
97
URP - Ufficio Relazioni con il Pubblico: “Continuità ed innovazione”
98
Paesaggio e contemporaneità
99
Paesaggi trasformati, paesaggi restaurati
101
Cecilia Frosinini
Cecilia Frosinini
Stefania Massari
Francesco Floccia, Letizia Gattorta
Antonia Pasqua Recchia
Antonia Pasqua Recchia
Gaspare Carlini
Francesco Prosperetti
Maria Grazia Bellisario
Il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa: una nuova attenzione al patrimonio
paesaggistico
Alessandra Fassio
103
Il restauro del paesaggio storico attraverso la valorizzazione
e il recupero delle ferrovie dismesse
Maria Maddalena Alessandro, Clarice Marsano
105
Il Paesaggio Urbano, i centri storici e la condivisione delle scelte nella pianificazione
paesaggistica
Stefania Cancellieri
107
Sustainab.Italy. La via Italiana alla sostenibilità
108
Il patrimonio culturale e paesaggistico della Basilicata tra conservazione e innovazione
110
Il progetto di ricerca e valorizzazione di Torre di Satriano
113
Luca Giordano “Il giuramento di Bruto dopo il suicidio di Lucrezia”
114
Acquisiti al patrimonio dello Stato trentaquattro dipinti di Angelo Brando per
il Museo di Palazzo De Lieto a Maratea
Erminia Sciacchitano
Alfredo Giacomazzi
Alfonsina Russo
Michele Saponaro
Michele Saponaro
116
In Calabria dal restauro alla valorizzazione
117
Il Parco Archeologico Urbano di Brancaleone Vetus. Dal Restauro alla Fruizione
119
La grotta della Madonna del Riposo: dal restauro alla fruizione
121
Il Pathirion di Rossano: significativo esempio di cultura bizantina
Raffaele Sassano
Angela Canale, Maria Teresa Sorrenti
Angela Canale, Maria Teresa Sorrenti
Oscar Covello
123
Riapertura della Galleria Nazionale di Cosenza
Fabio De Chirico
125
Opera Aperta: Lo studio diagnostico di un capolavoro della Galleria Nazionale di Cosenza
127
Presentazione degli interventi
129
Trebula Balliensis (oggi Treglia di Pontelatone - Caserta).
Scavo e restauro delle mura ciclopiche e della porta monumentale
Giuseppina Mari
Maria Rosaria Nappi
Mario Pagano
132
Trebula Balliensis (oggi Treglia di Pontelatone - Caserta) Scavo e Restauro delle Terme
135
Restauro Storico Artistico della Chiesa di Santa Sofia in Benevento
137
Benevento - Cattedrale di S. Maria Assunta. Lavori di Restauro del Campanile
139
Reggia di Caserta-Appartamento storico - Lavori di restauro Appartamenti Storici ala ‘800 e
volta ellittica. Restauro di due Organi meccanici (sec. XVIII-XIX)
Mario Pagano
Vega de Martini
Flavia Berlardelli
Lucia Bellofatto
141
Reggia di Caserta-Restauro Appartamento Storico ala ‘800 e volta ellittica. Valorizzazione delle
coperture dello scalone d’onore e del peristilio ottagonale: “La Scala Regia, da cielo a terra”
Salvatore Buonomo
143
Reggia di Caserta. Restauro delle fabriques e delle collezioni botaniche del Giardino Inglese
145
Reggia di Caserta-Parco - Il restauro del Bosco Vecchio: verde e fabriques
Francesco Canestrini
Anna Capuano
147
Progetto di salvaguardia e valorizzazione della Collezione “Terrae Motus”
150
Presentazione del libro: Napoli e il territorio tra tutela e restauro. Post fata resurgam
154
Un Crocifisso cinquecentesco ritrovato nella Chiesa di Santa Maria del Carmine di
Torre del Greco
Ferdinando Creta
Stefano Gizzi
Gina Carla Ascione
157
Restauro e riqualificazione del complesso borbonico del lago Fusaro
160
Arredi di tre sale dell’Appartamento di Palazzo Reale
163
La Reggia di Arechi
165
San Pietro a Corte nel museo della Scuola Medica Salernitana
166
2007-2008: un anno di indagini in due Cappelle della Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli
168
Il Restauro Architettonico e Storico Artistico della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di
Pietrastornina
Cosimo Tarì
Gina Carla Ascione
Gennaro Miccio
Maria Pasca
Angela Schiattarella
Giuseppe Muollo, Giuseppe de Pascale
170
Restauri in Emilia-Romagna: attività degli Istituti MiBAC nel 2008
171
Il globo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna. Una lunga avventura
174
Un esempio di restauro: l’Archivio notarile antico di Ferrara
176
Il “Cabreo (AB-265) del Borgo di Sant’Andrea” presso l’Archivio di Stato di Rimini
179
Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro
181
Paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma: inediti dal restauro
184
Il Duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”. Restauro del paramento lapideo
188
Il restauro della chiesa del SS. Salvatore a Bologna
Carla Di Francesco
Francesca Boris, Manuela Mattioli
Antonietta Folchi
Gianluca Braschi
Silvana Gorreri
Corrado Azzollini, Luciano Serchia
Graziella Polidori
Antonella Ranaldi
190
Bologna Palazzo ex ENPAS ora INPDAP. Lavori di restauro delle facciate,
del portico e del sottoportico
Andrea Capelli
192
La chiesa dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi Comune di Sogliano al Rubicone
193
Il recupero strutturale dell’ Oratorio di S. Enrico di Calcaiola - (Valmozzola - Parma)
195
Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini Domus del Chirurgo:
situazione attuale e ipotesi di restauro
Elena De Cecco, Valter Piazza, Cetty Muscolino
Manuela Catarsi, Cristina Anghinetti, Patrizia. Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi
Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi
197
La Stele delle Spade: aspetti conservativi
Antonella Pomicetti
198
La Chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione Taumaturgo a Trieste
202
Un ammortizzatore termoigrometrico eco-compatibile repellente agli silofagi:
il Cupressus sempervirens
Guglielmo Monti
Nicoletta Buttazzoni, Elisabetta Francescutti, Angelo Pizzolongo
204
Archivio di Stato di Frosinone
205
Restauro di protocolli notarili
206
Progetto di restauro del materiale grafico inserito su 79 Tavolette lignee corredo iconografico del
Salone monumentale della biblioteca opera dell’arch. Francesco Borromini
208
Museo Nazionale degli Strumenti Musicali
Viviana Fontana
Giulio Bianchini
Giuseppe Tramontana
209
L’arpa Barberini
Giuseppe Tramontana
211
Restauro e valorizzazione del sito archeologico dell’antica Lavinium – Pratica di Mare (RM)
Anna Paola Briganti
212
Il progetto – Fasi di attuazioni
213
Il Restauro degli Affreschi dello Scalone del Castello di Ostia Antica
216
Andata al calvario, anonimo del XVI secolo Formia. Chiesa di Sant’Erasmo
218
La chiesa della Madonna del Parto a Sutri: problematiche di restauro di dipinti murali
in ambiente ipogeo
Riccardo D’Aquino
Simona Pannuzi, Laura Spada
Rosalba Cantone
222
223
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e
per il Polo Museale della Città di Roma
Il restauro della Brigantina Odescalchi
Maria Giulia Barberini
225
Restauro della Brigantina Odescalchi
Sante Guido, Giuseppe Mantella, Livia Sforzini
227
Restauro della testa in cartapesta del manichino ottocentesco
Elisabetta Marmori
228
Il restauro della facciata più antica del Palazzo della Rovere di Savona
230
Un progetto pilota per riqualificare l’edilizia e il paesaggio rurali del
Parco Nazionale delle Cinque Terre
Maria Di Dio
Luisa De Marco, Manuela Salvitti
232
Dal digitale al materiale. Il progetto Michael in Liguria
234
Progetto “Adotta un documento”
236
La cisterna della villa romana del Varignano Vecchio alle Grazie di Porto Venere (SP).
Il restauro e la musealizzazione
Cristina Bartolini, Elena Calandra
Giustina Olgiati
Lucia Gervasini, Giorgio Rosati
239
Forte di Santa Tecla - Sanremo (IM) Restauro e recupero funzionale
241
Restauro, recupero e nuova accessibilità del castello di Madrignano
Roberto Leone, Michele Cogorno
Mauro Moriconi, Michele Cogorno
243
Restauro della Casa Usodimare- DeMarini in Via Conservatori del Mare 3 nel
Centro Storico di Genova
Paola Parodi, Pastor Cristina
245
246
Restaurare, conservare, conoscere e valorizzare i beni culturali in Lombardia
Palazzo Arese Litta a Milano: Restauro e rifunzionalizzazione
Daniela Lattanzi, Nicola Maremonti, Elena Rizzi
248
Il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello
250
Restauro sostenibile, recupero e valorizzazione.
Un anno di interventi innovativi sul territorio piemontese.
Emanuela Daffra, Matteo Ceriana
Liliana Pittarello
251
Un anno di restauri architettonici in Piemonte
252
Il restauro delle cucine del Palazzo Reale di Torino
Francesco Pernice
Daniela Biancolini
254
Gli utensili dell’Ufficio di Bocca del Palazzo Reale di Torino
Enrico Barbero
255
Palazzo Chiablese (Torino) - Gli arazzi di Artemisia
257
Ordine Religioso dei Servi di Maria della Basilica di Superga.
Il restauro delle cromie juvarriane nella cupola della Basilica di Superga a Torino
Roberto Medico
Valerio Corino
262
La “Riscoperta” del Parco e del Giardino del Castello di Moncalieri (TO)
264
I restauri della Chiesa di San Sebastiano a Pecetto Torinese (TO)
Valerio Corino
Silvia Gazzola, Claudio Bertolotto
268
Restauri al Castello Ducale di Aglie’ (TO)
Daniela Biancolini
269
L’indagine endoscopica applicata al Cantiere di Restauro del Castello Ducale di Agliè (TO).
Il ritrovamento di nuove superfici dipinte nelle Gallerie
Giuse Scalva
271
L’indagine endoscopica applicata al Cantiere di Restauro del Castello Ducale di Agliè.
Gli affreschi nascosti della Sala del Biliardo
Daniela Biancolini
272
Castello ducale di Agliè (TO). Pedane scaldanti
273
Il chiostro settecentesco dell’Abbazia di Fruttuaria a San Benigno Canavese (TO)
275
Santa Croce di Bosco nella Storia (AL)
Giuse Scalva
Giuse Scalva
Maria Carla Visconti Cherasco
278
Lavori di restauro del campanile, del tetto e della facciata principale della Chiesa dei Battuti
Bianchi di Castagnole delle Lanze (AT)
Cristina Lucca
280
La Canonica regolare di Santa Maria di Vezzolano (AT), il Piemonte romanico e gli itinerari
Europei della Transromanica
Paola Salerno
282
Il Convento di San Giovanni a Saluzzo (CN)
283
Piano strategico di valorizzazione dei Beni Culturali per i comuni di Bianzè, Crescentino,
Fontanetto Po, Lamporo, Livorno Ferraris, Palazzolo Vercellese, Ronsecco, Trino Vercellese (VC)
Elena Frugoni
Gianni Bergadano
285
La tomba dell’Atleta di Taranto al World Art Museum di Pechino. L’Atleta di Taranto
289
Bari - Teatro Piccinni - Il comodino e il suo restauro
292
Il restauro e l’esposizione dei relitti del porto di Olbia
294
Porto Torres (SS). Colonia Iulia Turris Libisonis. Cantiere di Restauro del Ponte Romano
297
Dalla Sardegna sculture nuragiche. Monte e’ Prama – Prenda e’ Zenia
Augusto Ressa
Rosanna Gnisci - Antonella Di Marzo
Rubens D’Oriano
Antonietta Boninu, Antonella Pandolfi
Antonietta Boninu, Andreina Costanzi Cobau
300
Arzachena. Nuraghe e Villaggio La Prisgiona
Angela Antona, Luigi Piras
303
Cagliari - Basilica Mauriziana di Santa Croce
305
Il restauro dei dipinti murali di Costantino Spada nella Basilica del Sacro Cuore a Sassari
307
Il restauro di tre monumenti funerari del cimitero di Buggerru
310
Cantiere delle Navi Antiche di Pisa e Centro di Restauro del Legno Bagnato
312
Sperimentazione di tecnologia Laser scanner e software per il restauro presso
il Centro di Restauro del Legno Bagnato, Pisa
Lucia Siddi
Laura Donati
Marcella Serreli
Andrea Camilli
Esmeralda Remotti, Paolo Machetti
316
Progetto di Restauro della Villa Medicea di Careggi
318
Archivio di Stato di Perugia.
Intervento di disinfestazione di materiale archivistico mediante trattamento anossico
Maria Grazia Bistoni
320
La Biblioteca Marciana
321
Il restauro della Legatura bizantina con Cristo benedicente e Vergine Orante della
Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia
Silvia Pugliese
323
Associazione Nazionale Italia Nostra
325
Legambiente
327
CCTPC - Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale
331
Call Center
332
ALLES - Arte Lavoro e Servizi S.p.A.
334
L’Istituto per la Promozione Industriale- www.ipi.it
C
on il tema L’innovazione per un restauro sostenibile, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali partecipa anche quest’anno al Salone dell’Arte del Restauro e della
Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali che si tiene a Ferrara.
Uno dei compiti istituzionali del MiBAC infatti, è quello di migliorare l’attività di conservazione del patrimonio artistico nazionale, memoria storica del nostro Paese, per trasmetterlo, il più integro possibile, alle future generazioni.
Restauro dunque come ponte tra conservazione e innovazione, tra la componente più solida, stratificata e specifica dell’operare sul patrimonio culturale e la componente più
fluida e moderna dello stesso ambito di intervento.
Restauro come uno dei nodi principali attorno al quale si sviluppa il lavoro di tutela e
conservazione del patrimonio artistico italiano.
Restauro come eccellenza del nostro Paese che ha un ruolo importantissimo nella promozione del Made in Italy nel mondo.
Si conferma quindi anche quest’anno la partecipazione compatta, convinta di un’amministrazione che crede profondamente nel proprio ruolo cruciale nell’ambito della conservazione del patrimonio culturale e questo nonostante le difficoltà esistenti causate
dalla contrazione degli investimenti. Il Patrimonio culturale credo debba essere visto
come elemento cardine e traino per il rilancio dell’economia del Paese.
L’edizione 2009 del Salone del Restauro, oltre alle consuete riflessioni sulle potenzialità
e sullo sviluppo dell’innovazione tecnologica e delle moderne strumentazioni elettroniche, tocca però un argomento di grande attualità non solo per il comparto del restauro,
e cioè quello della tutela dell’ambiente e dei sistemi eco-compatibili applicati alla conservazione delle opere d’arte.
Come già in precedenza, il MiBAC, in questa occasione, vuole dare risalto alle attività
svolte dai suoi Istituti, distribuiti sull’intero territorio nazionale.
L’eccellenza italiana dipende in primo luogo dalla professionalità e dall’altissimo livello
tecnico scientifico raggiunto dagli operatori del restauro, elementi questi che vanno custoditi e valorizzati.
Il Salone di Ferrara confermandosi tra i più importanti appuntamenti nazionali sul tema del
restauro e della conservazione, rappresenta un’occasione preziosa per riunire e far confrontare su temi attuali e stimolanti i nostri Istituti e i massimi esperti del settore, italiani e
internazionali.
Sono convinto che anche questa edizione della fiera costituirà dunque un momento importante per la verifica delle problematiche del settore, la circolazione delle conoscenze e l’impegno a una sempre più sistematica azione di manutenzione e restauro dei beni culturali.
Sandro Bondi
Ministro per i Beni e le Attività Culturali
Q
uest’anno il MiBAC partecipa al XVI Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione
dei Beni Culturali e Ambientali di Ferrara, proponendo il tema “L’innovazione per un restauro sostenibile” che è da un lato, l’occasione per rilanciare e affermare il ruolo primario
che l’Italia ha sempre avuto nel settore del restauro e che ci è da sempre riconosciuto a livello internazionale, dall’altro, è uno spunto per confrontarsi con l’attualissima questione, affrontata in tutto
il mondo, della tutela dell’ambiente e dei sistemi eco-compatibili applicati al restauro.
Già il 1° dicembre 2006, nel corso del convegno tenutosi a Venezia nell’ambito della fiera Restaura,
dal titolo “La conservazione dei beni culturali tra restauro e sicurezza”, era stato affrontato il tema
dei rischi sanitari per gli operatori del settore e il conseguente impatto ambientale derivante dall’impiego di sostanze tossiche e inquinanti. L’argomento affrontato in quella sede era stato incentrato, in particolare, sulla necessità di applicare le vigenti normative italiane ed europee in materia
di sicurezza sul lavoro e individuarne criticità e lacune.
L’Unione Europea, infatti, ha posto da anni in primo piano la delicata questione del rispetto dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro, riservando particolare attenzione al comparto chimico e alle
sue implicazioni economiche.
A questo proposito è opportuno ricordare il Regolamento REACH (Registration, Evalutation, Auhtorization of Chemical), del 1° giugno 2007, entrato nella sua fase operativa il 1° giugno 2008 con
l’obiettivo di razionalizzare e migliorare il precedente quadro legislativo dell’Unione Europea in materia di sostanze chimiche. Il REACH istituisce, inoltre, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche
(ECHA), che svolge un ruolo centrale di coordinamento e di attuazione dell’intero processo al fine
di garantirne la coerenza in tutta l’Unione.
Il REACH è un sistema integrato di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche che mira ad assicurare un maggiore livello di protezione della salute umana e dell’ambiente
e che sostituisce buona parte della legislazione comunitaria attualmente in vigore in materia di sostanze chimiche. Uno strumento, dunque, a disposizione degli operatori del comparto restauro.
In questo settore, di particolare importanza è anche l’innovazione tecnologica, soprattutto quando
si lega alla diagnostica ed alle strumentazioni ad essa riferite, capaci di potenziare e valorizzare l’importante contributo che i tecnici con la loro preziosa esperienza apportano quotidianamente, aiutandone lo studio, la ricerca e quindi la crescita applicata al restauro, sempre nel massimo rispetto
delle norme di sicurezza.
È di fondamentale importanza, quindi, che ci sia quella giusta miscela di modernità e tradizione per
poter utilizzare gli elementi più positivi dell’una e dell’altra, affinché continui la tradizione specialistica
nel settore del restauro, che è una delle eccellenze del nostro Paese e che ha effetti e ricadute sul turismo culturale, sulla responsabilità sociale ed ambientale e sulla politica italiana nel mondo.
Il dibattito culturale contemporaneo sugli interventi di restauro arricchito dalla componente ecologica e ambientale si affianca al consueto obiettivo della conservazione e della trasmissione alle
future generazioni del nostro prezioso patrimonio artistico e culturale, fatto non solo di edifici,
sculture e dipinti, ma anche di libri, documenti, fotografie e pellicole cinematografiche.
Il rispetto e la tutela di quei capolavori, che sono patrimonio di tutta l’umanità, infatti, non può
prescindere dall’attenzione al rapporto importantissimo che esiste tra l’uomo e l’ambiente, nella
consapevolezza che la salute del primo implica necessariamente la cura del secondo.
Il nostro patrimonio è inevitabilmente esposto a problemi di degrado, non solo a causa del normale
logorio del tempo, ma anche a causa degli attacchi dovuti all’inquinamento ambientale e atmosferico. La riflessione sul restauro in un simile contesto di riferimento rende indispensabile esaminare
l’impatto e gli effetti dell’abuso, o dell’uso distratto di sostanze tossiche impiegate per gli interventi
conservativi dei beni culturali. In particolare, vanno prese in considerazione le problematiche che
si possono riscontrare in seguito al rilascio e allo smaltimento di queste sostanze nell’ambiente, sia
esso l’ambiente di lavoro o un ambiente più allargato.
Il legame che esiste tra la contaminazione chimica dell’ambiente e le conseguenze sulla salute
delle persone e degli ecosistemi è ormai comprovato. Molti studi e ricerche scientifiche hanno dimostrato che decine di sostanze chimiche pericolose sono presenti nel nostro organismo così
come negli animali, nel suolo, nelle acque e nella vegetazione.
Nel settore dei beni culturali, questo tema è molto più presente di quanto possa sembrare.
Durante i diversi momenti del restauro è spesso necessario fare uso di sostanze chimiche e di prodotti che prevedono l’impiego di solventi organici, in qualità e quantità differenti in base alla superficie su cui si opera, ma comunque caratterizzati da una certa tossicità per la salute. Senza
dubbio gli studi e le ricerche realizzati in passato hanno portato ad eliminare dal mercato numerosi
prodotti pericolosi, ma la scommessa, ancora da vincere, è di raggiungere livelli più elevati di tutela
della salute di chi lavora in questo campo e dell’ambiente.
Fortunatamente, la ricerca ha portato all’individuazione di più moderne metodiche e strumentazioni
che in numerose occasioni hanno permesso di diminuire o addirittura azzerare l’impatto sull’ambiente e sulla salute: nuove tecnologie, materiali, strumentazioni e sostanze molto più efficienti rispetto a quelli tradizionali, che hanno permesso un risparmio di risorse e materie prime. Un
impegno che investe operatori specializzati del settore che ancora oggi, nonostante la ricerca e l’innovazione a disposizione, per la mancanza di un’adeguata informazione, si trovano ad operare
con mezzi e strumenti a volte obsoleti che potrebbero essere adeguatamente sostituiti da altri,
più moderni e sicuramente meno pericolosi per la loro salute e per l’ambiente.
Diviene, dunque, sempre più importante investire in nuove tecnologie e più adeguate metodologie
anche nel settore del restauro per mettere a punto metodiche operative più efficaci, che riescano
a coniugare la tutela della salute dei restauratori con un elevato livello di protezione dell’ambiente
e assicurare soprattutto la sostenibilità dell’opera d’arte, garantendone in questo modo la fruizione
anche per le generazioni future.
Il Salone di Ferrara, in cui il Ministero partecipa con tutti i suoi Istituti, presentando i progetti più recenti ed innovativi, è l’occasione per fare il punto su quanto è stato fatto e quanto c’è ancora da
fare in materia di “restauro sostenibile”, sia dal punto di vista scientifico e tecnico da parte del
MiBAC e delle Università, sia dal punto di vista legislativo a livello nazionale ed europeo.
Non va sottaciuto, per concludere, che la professionalità e l’altissimo livello tecnico-scientifico raggiunto dagli operatori del restauro in Italia, non determinano soltanto la qualità dei risultati conseguiti, ma sono anche una garanzia di coscienza e capacità critica nell’applicazione delle tecnologie
conservative e ci permettono di tracciare un quadro rassicurante del futuro sviluppo del settore,
costituendo un esempio di come competenza, passione ed impegno economico possano conservare alle future generazioni importanti memorie storiche che illuminano e vivificano il presente.
Maddalena Ragni
Direttore Generale per i bilancio e la programmazione economica,
la promozione, la qualità e la standardizzazione delle procedure
L’istituto centrale per il restauro e la conservazione
del patrimonio archivistico e librario
Costituito nell’ambito del nuovo regolamento di riorganizzazione del Ministero
per i beni e le attività culturali (d.p.r. 26.11.2007, n.233), accorpa l’ex Istituto centrale per la patologia del libro (fondato nel 1938) e l’ex Centro di fotoriproduzione, legatoria e restauro degli Archivi di stato (istituito nel 1963).
Il grande patrimonio di conoscenze e di esperienze che i due enti hanno accumulato nel corso degli anni si concentra oggi in un unico organismo, la cui principale attività consiste nella ricerca finalizzata alla conoscenza, alla tutela e alla
conservazione dei materiali archivistici e librari appartenenti allo Stato e ad altri
Enti pubblici. Tra gli obiettivi strategici dell’Istituto si annovera la promozione e
la valorizzazione dei beni archivistici e librari. A questo fine vengono promossi
progetti e iniziative in collaborazione con le principali istituzioni nazionali e internazionali che operano in quest’ambito; vengono organizzati convegni, mostre,
stage e seminari; vengono prodotti strumenti idonei alla disseminazione dell’informazione. In particolare, l’attività formativa, che da sempre ha rappresentato
per entrambe le istituzioni un fondamentale punto di forza, riceverà un rinnovato
impulso grazie alla prevista attivazione della nuova Scuola di Alta Formazione
per restauratori di beni librari e documentali. Inoltre attraverso una convenzione
stipulata con l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Facoltà di Lettere e Filosofia, l’Istituto condivide il coordinamento del corso di laurea magistrale in “Restauro dei materiali librari (ReMLib)“.
ICPAL - Istituto Centrale per il Restauro
e la Conservazione del Patrimonio
Archivistico e Librario
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Anno di fondazione 2007
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
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Istituto Centrale
per il Restauro
e la Conservazione
del Patrimonio
Archivistico e Librario
Direttore:
Armida Batori
Coordinatore per la
Comunicazione:
Assunta Di Febo
Via Milano, 76
00184 Roma
Tel. 06 482911
Fax 06 4814968
www.icpal.beniculturali.it
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Verso un restauro sostenibile:
il primato della conservazione preventiva
Armida Batori
La protezione e la sicurezza del patrimonio librario e documentario costituiscono
una priorità nell’insieme delle attività finalizzate alla gestione e alla tutela dei beni
culturali.
Ai libri e ai documenti, e alla loro conservazione nel tempo all’interno di raccolte
pubbliche, è legata infatti, da un lato, la possibilità di mantenere con il nostro
passato, con la nostra storia, un rapporto vivo e dinamico, e dall’altro, la possibilità di attuare concretamente quella che è una delle principali funzioni di un
moderno stato democratico: garantire a tutti e in uguale misura l’accesso all’informazione.
Assicurare l’integrità delle raccolte è il presupposto fondamentale per il raggiungimento di questi due obiettivi, ed è il cuore dell’attività di bibliotecari e archivisti, le professionalità che sono chiamate ad individuare le operazioni e le
procedure più idonee per garantire la sicurezza del patrimonio, senza pregiudicare tuttavia l’efficienza dei servizi all’utenza.
È noto che la conservazione preventiva di un bene culturale viene realizzata principalmente attraverso la creazione di un ambiente idoneo alla sua conservazione.
Utilizzando le strumentazioni e le metodologie disponibili, si è avuto, finora, un
approccio al problema del controllo ambientale che può essere definito a posteriori, nel senso che venivano acquisite informazioni il più possibile dettagliate
sulle condizioni ambientali (temperatura, umidità, illuminamento ecc.) e, nel caso
ci fossero situazioni non ottimali si interveniva, se possibile, per migliorare la situazione. Tale approccio, giustificato anche dal risiedere spesso i beni culturali,
sia essi librari o di altra natura, in edifici storici, e quindi difficilmente adattabili
per le esigenze di conservazione, ha lo svantaggio del procedere un po’ a caso,
per tentativi successivi, allo scopo di migliorare la situazione e, inoltre, necessita
di tempi lunghi, perché spesso è necessario attendere periodi stagionali per verificare la bontà di una soluzione in tutte le situazioni climatiche.
A titolo di esempio, si ricorda che nell’Istituto centrale per la patologia del libro
sono pervenute per anni le registrazioni termo-igrometriche dalle biblioteche
statali, registrazioni che venivano analizzate da personale specializzato allo
scopo di evidenziare il verificarsi di condizioni non idonee alla conservazione.
Nel caso di anomalie si inviavano le relazioni tecniche con i suggerimenti per i miglioramenti del caso. Occorreva però attendere l’invio delle nuove registrazioni
per valutarne i benefici.
Oggi, con i progressi dell’informatica e della simulazione dei fenomeni naturali
al calcolatore è possibile un approccio differente, che potrebbe essere definito
come di intervento a priori.
L’uso della simulazione al calcolatore è oramai pratica acquisita in molte scienze
e, in particolare, nella fisica dell’ambiente, basti pensare alle previsioni del
tempo.
Con esso è possibile simulare le condizioni ambientali a tavolino, prima di realizzarle in pratica, aggiungendo o togliendo da un ambiente elementi di arredo,
finestre, radiatori, scaffalature, spostando le bocche di aspirazione dell’aria, variandone la velocità, simulando un numero arbitrario di persone, con i loro apporti fisiologici di calore e di umidità all’ambiente, cercando di trovare, insomma,
mediante il computer la migliore condizione per la conservazione, seguendo
eventuali cambiamenti al variare delle condizioni esterne.
È possibile, inoltre, un migliore monitoraggio di situazioni ambientali predefinite,
per integrare i dati raccolti, tramite l’individuazione di eventuali condizioni anomale nei valori microclimatici: oltre alla misura diretta, la simulazione del calcolatore permette una estrapolazione completa di questi dati in quei punti ove la
misura puntuale non è avvenuta (si pensi a punti di difficile raggiungibilità come
una cupola o dietro una scaffalatura) velocizzando e migliorando il lavoro di intervento sul campo.
Il futuro del controllo ambientale, è, quindi, secondo noi, una sempre maggiore
interazione fra dati reali (misurati) e dati simulati per raggiungere velocemente
una completa mappatura delle eventuali anomalie climatiche.
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restauro dei beni librari - ICPAL
**** Laboratorio di biologia - ICPAL
***** Conservatore restauratore
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Yemen: i frammenti ritrovati nella grande Moschea
di Sana’a
Armida Batori*, Marina Bicchieri**, Carla Casetti Brach***, Flavia Pinzari****,
Piero Colaizzi****, Michela Monti**, Giovanna Piantanida**, Armida Sodo**,
Marco Di Bella*****
Nel mese di marzo dell’anno 2007 durante il restauro dei soffitti lignei della Grande
Moschea (Al-Jaml Al-Kabir) di Sana’a curato da restauratori italiani, sono stati ritrovati circa 6000 frammenti di antiche pergamene e carte nascosti in due nicchie sul
versante ovest della Moschea, in corrispondenza del muro del minareto.
Da una prima valutazione del materiale ritrovato è stato ipotizzato che si dovesse
trattare di frammenti e parti di volumi, probabilmente risalenti al VII e VIII secolo
d.C., contenenti testi di carattere storico e religioso.
Il ritrovamento riveste un’importanza particolare per la cultura araba. Si tratta inoltre della prima importante scoperta di manoscritti avvenuta nella stessa moschea
dopo il 1973, data di un precedente rinvenimento di testi antichi.
I frammenti si trovano oggi in cattivo stato di conservazione, come si è potuto verificare nei due sopraluoghi effettuati dall’Istituto nel dicembre 2007 e nell’ottobre
dell’anno successivo.
Il materiale presenta infatti segni di attacchi di roditori, diffusa presenza di macchie e gore, parti carbonizzate, numerosissime lacune e strappi, piegature e forti
ondulazioni. Il progetto elaborato dall’Istituto in collaborazione con il Ministero
degli Affari Esteri e con le istituzioni yemenite si propone di realizzare il riordino
e il restauro dei frammenti mediante la formazione di restauratori yemeniti, e di
studiarli dal punto di vista filologico, codicologico e paleografico, tutto allo
scopo di una loro valorizzazione.
Il progetto prevede anche, a lavori ultimati, l’organizzazione di un convegno per
la presentazione dei restauri effettuati e degli studi compiuti.
Sei frammenti (tre membranacei e tre cartacei) sono stati analizzati, nel laboratorio di chimica, tramite spettroscopie ATR-FTIR, Raman e XRF. Le tecniche impiegate hanno consentito il riconoscimento dei collanti impiegati nei frammenti
cartacei e della composizione delle mediazioni grafiche nere e rosse, nonché la
caratterizzazione dello stato di conservazione dei supporti.
Particolarmente interessante è stata l’analisi degli inchiostri neri, che, indipendentemente dal supporto cui sono stati applicati, hanno la medesima composizione.
Si tratta di ferro-tannici di ottima fattura, non addizionati di nerofumo e relativamente ben conservati. Il picco relativo al residuo tannico, però, nello spettro Raman
di alcuni campioni, si presenta a numeri d’onda diversi da quelli che si ottengono
per i comuni inchiostri ferro-gallo tannici. Ciò fa supporre l’impiego di sostanze
tanniche differenti da quelle ricavate dalle noci di galla. È attualmente in corso una
ricerca che, tramite comparazione degli spettri che si registrano dai tannini estratti
da piante diffuse nell’area del Mediterraneo, potrebbe condurre alla definizione
dell’esatta composizione degli inchiostri presenti sui frammenti.
I sei frammenti sono stati esaminati anche tramite microscopia elettronica a scansione, ed analizzati nella composizione elementale dei materiali di carica, delle
impurezze e dei pigmenti ed inchiostri per mezzo di una sonda EDS. Le analisi,
volte a supportare con indicazioni topografiche i risultati emersi nel corso delle
analisi chimiche, sono servite anche a mettere in evidenza eventuali problemi di
contaminazione biologica dei frammenti. L’osservazione è stata eseguita in modo
non distruttivo e senza arrecare alcuna alterazione ai campioni. L’analisi è stata
condotta per mezzo di un SEM-VP EVO 50 XVP (Carl-Zeiss Electron Microscopy
Group) e di una sonda elettronica per microanalisi (EDS) Inca 250 (Oxford). Secondo la tipologia di campione e di problematica in esame è stato scelto di
operare in modalità VPSE, ovvero utilizzando il detector per elettroni secondari
in modalità di pressione variabile, oppure in QBSD, utilizzando cioè il detector
per elettroni retrodiffusi. I campioni sono stati montati su uno stub portacampioni
appositamente realizzato, in grado di sorreggere i frammenti delicatamente senza
che questi dovessero essere manipolati o danneggiati nelle operazioni di inserimento nella camera del SEM.
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Stampe fotografiche e disegni del Fondo dell’Archivio del
Compendio Nazionale Garibaldino di Caprera:
indagini biologiche
Maria Carla Sclocchi*, Donatella Matè*
Le indagini diagnostiche rappresentano una fase propedeutica importante agli interventi di restauro come nel caso dei documenti fotografici e grafici dell’Archivio
del Fondo del Compendio Nazionale Garibaldino di Caprera che sono stati oggetto di studio da parte del laboratorio di biologia dell’ex CFLR. In particolare,
sono stati analizzati una stampa all’albumina raffigurante la morte dei Fratelli Cairoli
e due disegni a tempera denominati “Bastimento vicino al porto” e “Casa con
strada e paesaggio alpino”.
La maggior parte dei danni osservati sia nella stampa fotografica all’albumina che
nei disegni a tempera di grande formato è sicuramente dovuta a contatto prolungato con l’acqua che ha provocato addirittura in molti casi il totale sfaldamento
dei supporti. Successivamente, nella fase di asciugatura e condizioni di conservazione inadeguata, si è avuto lo sviluppo di biodeteriogeni che hanno provocato ulteriori tipologie di danni.
Su tutte le opere sono state effettuate osservazioni relative allo stato di conservazione utilizzando uno stereomicroscopio (STEMI SV11) munito di videocamera
LEICA DFC 320 documentando le diverse tipologie di danni. Successivamente le
indagini diagnostiche sono state utili a caratterizzare le alterazioni provocate dai
biodeteriogeni sui diversi supporti. I campionamenti sono stati svolti su parti con
evidenti alterazioni e, per confronto, anche su parti assolutamente integre, prelevando polveri dalle superfici mediante tamponi sterili di cotone e membrane
in cellulosa. L’utilizzo di tali membrane ha permesso di osservare al microscopio
strutture biologiche il più possibile integre e di avere a disposizione materiale da
utilizzare in coltura. I campioni prelevati sono stati incubati su terreno colturale
Malt Extract Agar (MEA) a 25°C per 4 settimane. Infine sono state isolate le colonie per l’identificazione dei microfunghi.
Indagini sulla stampa all’albumina raffigurante la morte dei fratelli Cairoli
Nella stampa fotografica si è evidenziata la presenza di un esteso deterioramento
caratterizzato da depositi superficiali, lacerazioni, strappi e mancanza di parti,
macchie diversamente pigmentate, diffuse sia sul recto che sul verso, e numerose
strutture di probabile origine biologica sia sullo strato immagine che sul supporto
secondario, incollato su altri tre cartoni di montaggio. Sono stati osservati, inoltre,
distacchi dello strato immagine dal supporto primario, opacizzazioni e sbiadimenti con perdita di dettagli e nitidezza dello strato immagine, fori e gallerie sul
cartone di montaggio e ingiallimento diffuso su tutta la stampa.
Le indagini “a fresco” hanno evidenziato, tramite esame microscopico delle polveri, la presenza di strutture biologiche integre tra le fibre. Le strutture vegetative
non sono state però confermate da sviluppo nell’analisi colturale, fermo restando
la crescita occasionale di microflora normalmente presente come normale livello
di sporcizia sulle superfici.
Indagini sui disegni a tempera “Casa con strada e paesaggio alpino” e
“Bastimento vicino al porto”
I due disegni a tempera mostravano danni analoghi alla stampa all’albumina:
estesi fenomeni di deterioramento da lacerazioni, strappi e mancanza di parti,
presenza di depositi superficiali, di macchie diversamente pigmentate e di numerose strutture di probabile origine biologica.
L’osservazione allo stereomicroscopio e successivamente al microscopio ottico
ha permesso infatti di individuare periteci e ascospore attribuibili al genere Chaetomium sp. L’analisi colturale ha accertato infine la presenza di questo microfungo
frequentemente segnalato su materiali cartacei in cattive condizioni di conservazione.
Considerazioni
Dal punto di vista degli interventi mirati al recupero dei manufatti, è stata consigliata una adeguata operazione di spolveratura, considerando la fragilità delle
opere, tramite pennelli e microaspiratori muniti di filtri, ma rigorosamente sotto
cappa aspirante, con l’utilizzo di guanti di protezione e mascherine. Considerando lo stato di conservazione delle opere, è stato consigliato di limitare l’utilizzo di sostanze acquose e di operare un perfetta asciugatura dei manufatti in
quanto l’umidità avrebbe potuto favorire ancora di più la riattivazione delle eventuali spore fungine presenti. Sia per la fotografia che per i disegni si è raccomandata, inoltre, una conservazione in contenitori e alloggiamenti a norma e in locali
idonei dal punto di vista termoigrometrico.
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* Laboratorio di conservazione
e restauro dei beni archivisticiICPAL
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Garibaldi a Caprera: interventi “dolci”
per la diagnostica e il restauro
Cecilia Prosperi*
Dopo la forzata interruzione delle attività per il trasloco, il laboratorio del restauro
archivistico ha ripreso i lavori con un organico intervento sul materiale appartenente al Museo Nazionale del Compendio Garibaldino di Caprera.
La richiesta di intervento sui preziosi documenti ci è pervenuta dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, il Paesaggio e il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico della Sardegna.
È stato per noi del laboratorio molto interessante prenderci cura dei disegni,
stampe e foto appartenute a Giuseppe Garibaldi e anzi, in quanto esposte nelle
varie stanze della casa bianca di Caprera, sempre sotto a suoi occhi.
Il materiale che ci è stato consegnato, presentava uno stato di conservazione
molto vario e con problematiche diverse.
Si trattava di n 161 documenti tra disegni, acquarelli, lettere, carte geografiche.
Di particolare impatto e di immediata presa visiva sono i ritratti della famiglia
esposti nelle varie stanze dove si svolgeva la vita dell’eroe: la camera da letto, lo
studio, la sala dei cimeli etc.
Prima di affrontare le operazioni di restauro vere e proprie si sono esaminati i documenti e si sono approfondite le diverse tecniche esecutive: a matita, a bulino,
a penna, xilografia, etc.
In linea con il tema di questo anno a Ferrara, “L’innovazione per un restauro sostenibile”, che vuole sottolineare oltre al ruolo primario che l’Italia ha nel settore
del restauro, anche il problema, sentito a livello internazionale della tutela dell’ambiente e delle tecniche, materiali e prodotti eco-compatibili, l’approccio
agli interventi di restauro è comunque stato particolarmente cauto ed improntato
al massimo rispetto dell’originalità con il ricorso a prodotti e materiali inerti e che
tenessero conto delle più recenti tendenze che sollecitano al rispetto dell’ambiente e alla sicurezza degli operatori.
L’operazione di restauro e di condizionamento dei documenti in cartelle di cartone
durevole alla lunga conservazione si è conclusa con una mostra fotografica dei
vari documenti prima e dopo il restauro corredati delle singole schede di restauro, inauguratasi presso l’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del
patrimonio archivistico e librario il 3 novembre 2008.
Le indagini non distruttive per l’esame della pergamena
decorata “Attestato Associazione Ottonieri & C.”,
Archivio del Museo Nazionale del Compendio Garibaldino
di Caprera
Luciano Residori*, Marina Bicchieri*, Lorena Botti*, Matteo Placido*, Daniele Ruggiero*,
Giuseppe Guida**
In seguito allo straordinario sviluppo della scienza nel secolo scorso ed ai notevoli progressi tecnologici di questi ultimi decenni, lo studio di un’opera d’arte,
di un libro o di un documento si basa ormai sempre più frequentemente su analisi, tecniche e criteri scientifici, oltre che naturalmente storici ed artistici.
Del resto archivi e biblioteche esistono perché costituiti di materia e la “vita” dei
manufatti in essi conservati dipende dalle trasformazioni, spontanee o forzate,
che la materia subisce nel corso del tempo.
La chimica, la fisica, la biologia e le scienze affini studiano la materia e pertanto
sono certamente in grado di contribuire alla conoscenza di un opera così da
poter definire i metodi più adatti a prolungarne l’aspettativa di vita.
Va altresì considerato che il contributo che può dare l’indagine scientifica va ben
oltre le semplici, ma preziose, indicazioni a fini conservativi in quanto può rivelarsi utile anche per una conoscenza storico-artistica del manufatto, per risolvere
problemi di datazione e autenticazione, per riconoscere la tecnica impiegata
dall’artista.
In questi ultimi anni si sono sviluppati ed affinati i metodi di analisi non distruttivi
che permettono di eseguire le indagini senza dover operare prelievi di materiale
e senza alterare l’oggetto da analizzare, anche con strumentazioni portabili (analisi in situ).
Si riportano, di seguito, i risultati delle indagini scientifiche non distruttive effettuate sulla pergamena decorata “Attestato Associazione Ottonieri & C.” del 1853
per caratterizzare la pergamena, i materiali pittorici e lo stato di conservazione
dell’opera.
La pergamena (65 x 47 cm) si presenta ondulata e raggrinzita. Sulla superficie
decorata si osserva una stesura a pennello di un pigmento bianco, fatto aderire
con colla animale.
La grana della pelle (impronta caratteristica dei follicoli dei peli) risulta assente
su ambedue le facce della pergamena. Ciò fa presumere che sia stata nascosta
dal pigmento bianco.
Le osservazioni allo stereomicroscopio in luce radente mostrano che la maggior
parte delle campiture colorate presenta numerose “craquelures”, distacchi e tendenza a “spolverare”, fenomeni accentuati dalla superficie resa troppo liscia e
compatta dal trattamento superficiale.
In particolare, la perdita di frammenti ha permesso di osservare sotto lo strato di
colore una preparazione bruna; sotto la foglia d’oro uno strato bruno rosato.
Per identificare i pigmenti utilizzati sono state impiegate le seguenti tecniche non
distruttive:
- stereomicroscopia
- riflettografia multispettrale in falsi colori
- fluorescenza dei raggi X (XRF)
- spettroscopia RAMAN
- spettroscopia di riflettanza UV-VIS-NIR con sonda a fibre ottiche (FORS).
L’interpretazione dei dati ottenuti anche su campioni di riferimento e la consultazione delle ricette riportate nei cosiddetti “libri dell’arte” ha permesso di giungere alle seguenti conclusioni.
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Spettro RAMAN
della campitura blu
Strato
preparatorio
Pergamena
Foglia d’oro
Pellicola pittorica e foglia d’oro
danneggiate,
stereomicroscopio
(ingrandimento10x)
Campiture
• Biacca (carbonato basico di
piombo, 2PbCO3·Pb(OH)2).
• Bolo (silicato argilloso contenente ossidi di ferro, Al2O3
· SiO2 e Fe2O3) .
Notizie storiche
• Pigmento minerale naturale conosciuto fino dai tempi antichi
• Pigmento minerale naturale conosciuto fino dai tempi antichi.
Pigmento
Notizie storiche
Blu
• Lapislazzuli (silicato di sodio e
alluminio, solfuri, calcite e tracce
di pirite,
3Na2O·3Al2O3·6SiO2·2Na2S)
• Blu di Prussia (ferricianuro
ferrico, Fe4[Fe(CN)6]3).
• Il lapislazzuli è un pigmento
minerale naturale noto fin dall’antichità. Nel 1828 è stato sostituito
dal blu oltremare artificiale.
• Il blu di Prussia è stato sintetizzato da Diesbach nel 1704.
Celesti
• Gli stessi pigmenti della campitura blu schiarita con la biacca.
• Pigmento minerale naturale conosciuto fino dai tempi antichi.
• Biacca (carbonato basico di
piombo, 2PbCO3·Pb(OH)2).
• Pigmento minerale naturale conosciuto fino dai tempi antichi.
Bianche
Pergamena decorata “Attestato
Associazione Ottonieri & C.”,
Genova 3 Novembre 1853 Archivio del Museo Nazionale
del Compendio Garibaldino
di Caprera
Pigmento
Rosse
Marroni
Verdi
• Cinabro (solfuro di mercurio, HgS).
• Terre o ocre (terre naturali com- • Pigmenti minerali naturali utilizposte di silice, argilla e ossidi di
zati fino dai tempi antichi.
ferro idrato Fe2O3·n H2O)
• Verde di Scheele (arsenito
acido di rame, CuHAsO3)
Oppure:
• Verde di Schweinfurt
(acetoarsenito di rame,
Cu(CH3COO)2·3Cu(AsO2)2)
Giallo-brune • Litargirio o Massicot (ossido
di piombo, PbO)
• Cinabro
Nere
• Pigmento minerale naturale
impiegato fino dai tempi antichi.
• Nerofumo (carbonio amorfo)
• Il verde di Scheele è un pigmento artificiale scoperto nel
1778 e impiegato fino al 1814
quando divenne disponibile il
verde di Schweinfurt
(noto come verde smeraldo)
• Il Litargirio e il Massicot sono pigmenti minerali naturali conosciuti
fin dall'antichità
• Pigmento artificiale noto fino
dall’antichità.
Le firme del Presidente e del Segretario sono ad inchiostro ferrogallico.
Conclusioni
Le indagini scientifiche hanno consentito di definire la natura chimica dei pigmenti utilizzati per la decorazione e gli strati preparatori. I pigmenti sono tutti
inorganici, alcuni naturali di origine minerale noti fino dall’antichità ed altri più
recenti di sintesi che vanno dai primi anni del 1700 agli inizi del 1800.
Inoltre, le osservazioni allo stereomicroscopio hanno fornito preziose indicazioni
per il restauro, tra cui la necessità di spianare la pergamena e di fissare la pellicola
pittorica e la foglia d’oro.
22
Stampa “Morte di uno dei fratelli Cairoli”,
Archivio del Museo Nazionale del Compendio Garibaldino
di Caprera: indagini non distruttive
Luciano Residori*, Lorena Botti*, Giovanna Piantanida*, Matteo Placido*,
Daniele Ruggiero*, Flavia Pinzari**
In questo lavoro, sono state utilizzate alcune indagini scientifiche non distruttive
e micro-distruttive sulla stampa “Morte di uno dei fratelli Cairoli” (1868 – Museo
Nazionale del Compendio Garibaldino di Caprera). Le indagini (stereo-microscopia, microscopia elettronica a scansione con sonda a dispersione di elettroni
(SEM-EDS) e spettrofotometria infrarossa a trasformata di Fourier in modalità di Riflettanza Totale Attenuata (ATR-FTIR)) hanno avuto lo scopo di identificare la tecnica di stampa, caratterizzare i materiali costituenti e produrre informazioni utili
per il restauro e la conservazione.
La stampa fotografica è incollata su un supporto secondario della stampa stessa
e costituito da quattro strati di cartoncino incollati tra loro. Un lato mostra i segni
lasciati da infiltrazioni d’acqua che hanno provocato danni evidenti. La fotografia,
molto imbrunita e fragile, presenta numerose lacune del supporto primario. L’imbrunimento è più marcato sul lato dell’immagine; altri danni sono dovuti a evidenti infezioni fungine scure in corrispondenza delle zone bagnate dall’acqua.
L’immagine è fortemente sbiadita, il contrasto ridotto e molti dettagli sono quasi
illeggibili.
L’avanzato stato di degradazione dei supporti e dell’immagine ha reso difficile
un’identificazione certa della tecnica di stampa impiegata; in particolare era dubbio se si trattasse di una fotografia o di una stampa realizzata con altri processi.
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Indagini scientifiche
L’osservazione allo stereo-microscopio in prossimità di una lacerazione della stampa
mostravano uno strato superficiale di fibre molto imbrunite; quelle dello strato sottostante apparivano, invece, molto più chiare. Non risultava evidente se fosse presente o meno uno strato di emulsione fotografica di albumina o gelatina.
L’aspetto della superficie osservata in luce radente era, però, leggermente traslucido: questa caratteristica è comunemente considerata tipica delle stampe fotografiche all’albumina.
Mediante l’uso della microscopia elettronica a scansione (SEM-EDS) si è potuto
osservare uno strato sottile di sostanza legante in superficie (spessore 2 µm) con
molte fessure.
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Assunta Di Febo
Via Milano, 76
00184 Roma
Tel. 06 482911
Fax 06 4814968
www.icpal.beniculturali.it
*Laboratorio di chimica - ICPAL
**Laboratorio di biologia - ICPAL
Stampa “Morte di uno dei
fratelli Cairoli”, 1868 –
Archivio del Museo Nazionale
del Compendio Garibaldino
di Caprera
23
L’analisi EDS ha rivelato la presenza di particelle d’argento disperse nel legante a
conferma che la stampa è una fotografia.
La presenza dello strato di emulsione esclude la possibilità che la stampa fotografica sia una carta salata, fototipo questo inventato da Henry Fox Talbot nel
1840. Tale processo, infatti, prevedeva l’impressione per annerimento diretto di
un’immagine su una carta preparata con uno strato di alogenuro d’argento privo
di emulsione.
Rimaneva da stabilire se si trattasse di una stampa all’albumina o alla gelatina.
L’invenzione delle stampe all’albumina, risalente al 1850 circa e attribuita a Louis
Dèsiré Blanquart Evrart, deriva dai tentativi di migliorare il procedimento delle
carte salate. Queste stampe si differenziano proprio per la presenza sul foglio di
carta di uno o più strati di albumina. La produzione delle carte albuminate durò
fino al 1929 circa.
Le carte ad annerimento diretto realizzate con gelatina (“aristotipie”), invece,
sono successive al 1880.
Pertanto, sulla base delle notizie storiche, si poteva ipotizzare che si trattasse di
una stampa fotografica all’albumina.
A definitiva conferma di tale ipotesi sono previste altre indagini, tra cui l’analisi
FT-IR in modalità ATR, che permettano un confronto tra la stampa in esame e
stampe di cui sia nota la natura dell’emulsione.
Osservazione al SEM dello
strato di emulsione (43x).
24
Carla Casetti Brach*, Simonetta Iannuccelli*, M. Speranza Storace*, Silvia Sotgiu*,
Donata Falchetti**, Lorenzo Civiero***
Il grande globo terrestre manoscritto (mm.1.600 x 1.600 x 1.650, diametro dello
sferoide mm 1.275) conservato a Milano presso la Biblioteca Nazionale Braidense
fu realizzato tra il 1819 e il 1829 da specialisti di elevata professionalità, nell’ambito di una stretta collaborazione tra gli istituti dell’I.R. Palazzo delle Arti e delle
Scienze di Brera, in particolare Biblioteca e Osservatorio astronomico: Ubaldo
Villa (costruzione dello sferoide), Carlo Grindel (meccanismi per il supporto e i
movimenti del globo), l’ingegner Gaetano Bellati (disegno delle terre emerse), il
chimico Antonio Kramer (vernice protettiva) ed altri, diretti dall’astronomo Francesco Carlini.
All’epoca in cui la biblioteca coltivava le discipline scientifiche non meno di
quelle umanistiche e già possedeva due globi terrestri e due celesti di piccole
e medie dimensioni, il globo fu concepito e fortemente voluto dal direttore della
biblioteca Robustiano Gironi – nonostante la limitata disponibilità economica come rigorosa traduzione visiva tridimensionale delle più aggiornate conoscenze
geografiche e astronomiche contenute nei numerosi atlanti, resoconti di viaggio
e periodici scientifici di cui la biblioteca era fornita. Fu il primo globo a riprodurre
lo schiacciamento dei poli, che era allora oggetto dei calcoli di astronomi e matematici. L’utilizzo di materiali di pregio, la cura dei dettagli, la sobria eleganza
delle scritte hanno conferito a questo “strumento scientifico” il valore di ornamento per il salone appena costruito, che prese il nome di Sala del Globo. Così
è descritto nell’ “Inventario dei mobili dell’I.R. Biblioteca di Brera al 1. settembre
1830”: “Globo terracqueo di legno ricoperto di carta del diametro nel rapporto
di 1 / 10.000.000 con quello della terra, con meridiano ed orizzonte d’ottone,
con ferro per girarlo e manico di legno, sostenuto da un solido tripode di noce
verniciato moghen, tela rossa all’ingiro nella parte inferiore e calotta intelarata
d’ottone e ricoperta di velo alla parte superiore”. Mentre la nota dell’anno successivo “La calotta del globo fu ricoperta di marcellina colore di polvere” rivela
l’attenzione a proteggere la superficie del mappamondo. Nel 2003 fu avviato il
Biblioteca Braidense
Il restauro del globo terrestre manoscritto
della Biblioteca Braidense
ICPAL
Istituto Centrale per il Restauro
e la Conservazione del
Patrimonio Archivistico e Librario
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
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Istituto Centrale
per il Restauro
e la Conservazione
del Patrimonio
Archivistico e Librario
Direttore:
Armida Batori
Coordinatore per la
Comunicazione:
Assunta Di Febo
Via Milano, 76
00184 Roma
Tel. 06 482911
Fax 06 4814968
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Direzione Generale per I Beni
Librari, gli Istituti Culturali e il
Diritto d’Autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 362161
Fax 06 3216437
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Biblioteca Nazionale
Braidense
Direttore: Aurelio Aghemo
Via Brera, 28
20121 Milano
Tel. 02 86460907
Fax 02 72023910
www.braidense.it
*Laboratorio di conservazione e
restauro dei beni librari – ICPAL
**Biblioteca Nazionale Braidense
di Milano
*** Conservatore restauratore
25
restauro della base del globo grazie all’Associazione per il Restauro degli Antichi
Strumenti Scientifici - Brera O.N.L.U.S - A.R.A.S.S. – Brera, che aveva ottenuto
dalla Provincia di Milano l’assegnazione di fondi ad hoc della Regione Lombardia,
considerata l’esperienza del restauro degli strumenti conservati nel Palazzo di
Brera e altrove. Dopo il restauro della base lignea, sono stati revisionati e riparati
gli ingranaggi, i pignoni e la grande corona dentata con integrazione di un dente
perduto, è stata ricostruita la manovella del movimento d’inclinazione, per ripristinare le originarie funzioni dei supporti metallici per la rotazione della sfera e
l’inclinazione dell’asse terrestre.
Va segnalata la costruzione di un solido sostegno metallico provvisorio (su cui
poggiano le estremità sporgenti dell’asse polare collocato orizzontalmente) che
ha consentito il trasporto del globo in sicurezza Milano – Roma – Milano, e - permettendo la rotazione sull’asse orizzontale - ha reso ugualmente accessibili per
i restauratori gli emisferi nord e sud.
La riproduzione dei tracciati geografici sulla superficie dello sferoide, descritta da
Robustiano Gironi, consistette in un lungo e paziente lavoro di ricalco e proiezione
eseguito a mano con inchiostri al nerofumo, utilizzando carte da lucido e pantografo. Le coloriture delle superfici terrestri e marine furono invece eseguite con coloranti vegetali distribuiti in campiture successive. La superficie del globo fu poi
integralmente rivestita con una vernice messa a punto dal chimico Antonio Kramer,
nell’intento di proteggerne la superficie dall’umidità e dalla polvere. Questa materia
pellicolare di natura organica in corrispondenza dell’emisfero boreale, maggiormente esposto agli agenti di degradazione, mostrava una colorazione più scura, indotta da un processo di degradazione ossidativo e da uno spesso strato di
particolato atmosferico depositatosi per inerzia, che comprometteva la lettura delle
immagini sottostanti. Sull’intera superficie del manufatto, inoltre, erano presenti
graffi, lacune, abrasioni superficiali, precedenti integrazioni che nel tempo avevano
subito alterazioni cromatiche e tasselli di pulitura realizzati in tempi recenti. Le in-
26
dagini diagnostiche, eseguite dall’Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione
dei Beni Culturali-Consiglio Nazionale delle Ricerche di Milano hanno messo in evidenza quattro strati di preparazione bianca costituiti da anidrite (solfato di calcio
anidro) uno strato composto dalle fibre di cellulosa della carta e lo strato più
esterno di materiale organico costituito da gomma arabica. La fase più impegnativa
dell’intervento di conservazione e restauro, eseguito presso il Laboratorio di conservazione e restauro dell’ex-ICPL (ora ICPAL) dalle restauratrici Simonetta Iannuccelli, Silvia Sotgiu e Speranza Storace è consistita nella messa a punto di un sistema
di pulitura differenziato per i due emisferi a causa dei diversi livelli di degradazione
della pellicola organica. In corrispondenza dell’emisfero boreale, dato che l’avanzato stato di degradazione non consentiva un assottigliamento graduale del film,
si è ritenuto opportuno procedere alla rimozione dello strato di gomma arabica.
A tal fine, dopo aver rimosso le polveri superficiali a secco, si è proceduto con i
test di solubilità per determinare il grado di polarità del materiale da rimuovere, monitorando l’esecuzione della pulitura con lampada di Wood. Dai risultati ottenuti è
risultata particolarmente indicata la miscela LE2 (80% di Ligroina e 20% alcol etilico
puro) con polarità fd 85. L’intervento sull’emisfero australe si è invece limitato alla
rimozione del particellato atmosferico coerente, avendo constatato l’assenza di
materiali aggiuntivi e il buono stato di conservazione dello strato di gomma arabica
originale. Per questa seconda fase della pulitura è stata utilizzata un’emulsione
acqua-in-olio, costituita da una piccola quantità di acqua in Ligroina. Per maggiore
sicurezza, si è scelto di gelificare la fase acquosa, al fine di migliorare la stabilità
dell’emulsione stessa e limitare ulteriormente la diffusione dell’acqua. L’emulsione
messa a punto è composta di 20 ml di Ligroina, 1 ml di Tween 20 e 2,5 ml di gel
preparato gelificando 100 ml di acqua deionizzata con 1 g di Vanzan NF-C. L’intervento di pulitura è stato realizzato con applicazioni localizzate dell’emulsione
che, dopo un tempo di contatto variabile nell’ordine di minuti, è stata rimossa con
tamponi asciutti di cotone idrofilo. L’area così trattata è stata successivamente sottoposta a risciacqui con tamponi di cotone inumiditi di Ligroina. Le reintegrazioni
delle lacune più estese sono state colmate con gesso di Bologna, colla di coniglio
e carta giapponese. La stessa metodologia è stata applicata per il consolidamento
delle aree di sfondamento limitate alla superficie esterna del globo e per le zone
di stuccature pregresse. In seguito si è proceduto al ritocco pittorico e alla stesura
di un film protettivo. Tuttavia, sul supporto cartaceo originale dell’emisfero boreale,
prima di procedere con l’intervento di reintegrazione cromatica, è stata distribuita,
mediante vaporizzazione, una soluzione acquosa al 2% di metilidrossietilcellulosa.
Tale trattamento aveva una duplice finalità: conferire un consolidamento generalizzato al supporto cartaceo e interporre uno strato di intervento tra l’originale e i pigmenti aggiunti durante la reintegrazione eseguita ad acquarello. La scelta di
applicare un protettivo finale sull’emisfero boreale è stata indotta sia dall’esigenza
di uniformare la leggibilità dell’opera, strettamente connessa alla saturazione degli
strati pittorici che la compongono, sia da ragioni più propriamente conservative.
Tra i protettivi comunemente usati in ambito conservativo è stata scelta la vernice
Regal Varnish, costituita da Regalrez 1094 (una resina alifatica dissolta in essenza di
petrolio dearomatizzata) e dal Tinuvin 292 (sostanza antiossidante impiegata al 2%
sul peso secco della resina).
27
Il viaggio di Leonardo in America. Trasporto
ed esposizione negli USA di 11 disegni e un codice
di Leonardo da Vinci della Biblioteca Reale di Torino
Francesco Bossi*, Simonetta Villanti*, Maria Speranza Storace**, Clara Vitulo***
Biblioteca Braidense
ICPAL
Istituto Centrale per il Restauro
e la Conservazione del
Patrimonio Archivistico e Librario
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
Istituto Centrale
per il Restauro
e la Conservazione
del Patrimonio
Archivistico e Librario
Direttore: Armida Batori
Coordinatore per la
Comunicazione:
Assunta Di Febo
Via Milano, 76 - 00184 Roma
Tel. 06 482911- Fax 06 4814968
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Direzione Generale per I Beni
Librari, gli Istituti Culturali e il
Diritto d’Autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via M. Mercati, 4 - 00197 Roma
Tel. 06 362161 - Fax 06 3216437
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Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Piazza San Giovanni, 2
Palazzo Chiablese - 10122 Torino
Tel. 011 5220434 - Fax 011 5220433
www.piemonte.beniculturali.it
Biblioteca Reale di Torino
Direttore: Clara Vitulo
Piazza Castello, 191 - 10123
Torino
Tel. 011543855 - Fax 0115178259
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*Laboratorio per l’ambiente - ICPAL
**Laboratorio di conservazione e
restauro dei beni librari - ICPAL
***Biblioteca Reale di Torino
28
Il prestito delle opere di Leonardo da Vinci della Biblioteca Reale di Torino per
la mostra Leonardo da Vinci drawings from the Biblioteca Reale in Turin tenutasi
al Birmingham Museum of Art (Alabama) dal 28 settembre al 9 novembre 2008
e al Fine Arts Museum di San Francisco (California) dal 15 novembre 2008 al 4
gennaio 2009 - autorizzato, su parere favorevole del Direttore della Biblioteca
Reale, dal Dr. Maurizio Fallace, Direttore Generale per i Beni Librari, gli Istituti Culturali e il Diritto d’autore del Ministero per i beni e le attività culturali – costituisce
un’assoluta novità nel panorama espositivo internazionale.
Mai prima d’ora, infatti, la collezione leonardesca della Biblioteca Reale era stata
trasferita all’estero. È stato escluso dal prestito, per motivi di conservazione, l’Autoritratto di Leonardo, che della collezione “reale” di Torino costituisce il simbolo
e il capolavoro assoluto: per esso l’allora Istituto centrale per la patologia del
libro di Roma (ora Istituto centrale per la conservazione e il restauro del patrimonio archivistico e librario - ICPAL) decretò anni fa l’inamovibilità, in ragione della
delicatezza del supporto, attaccato dal foxing che ne ha indebolito la fibra. Il disegno Studi di carri falcati non è stato, invece, concesso in prestito perché destinato ad altra manifestazione espositiva, poi non realizzata.
La preoccupazione della Direzione della Biblioteca Reale di trasferire oltreoceano
i capolavori leonardeschi, che delle pur straordinarie collezioni della Biblioteca
costituiscono il vanto, è stata alleviata dalla consulenza generosamente offerta
dall’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico
e librario di Roma che ha fornito le specifiche tecniche per la realizzazione dei
contenitori espositivi precondizionati per il trasporto e l’esposizione dei disegni
e del Codice sul volo degli uccelli; essi, condizionati e sigillati presso la sede di
conservazione, hanno garantito le migliori condizioni di conservazione ambientale delle opere, pur nel disagio del trasferimento, fino alla loro restituzione alla
Biblioteca Reale, che ha avuto luogo il 17 gennaio 2009.
La progettazione dei contenitori è stata elaborata basandosi sull’assioma che la
conservazione dei beni culturali si fonda sulla prevenzione al fine di ridurre
quanto più possibile rischi di danneggiamento o deterioramento. Il persegui-
mento di tale politica impone come prima misura l’individuazione del microclima idoneo alla conservazione attraverso studi analitici che devono tener conto
del luogo di conservazione abituale, dei materiali costituenti le opere, dello stato
delle sedi ospitanti e della loro posizione geografica sul territorio e relativo clima.
Il microclima assunto come idoneo deve essere costantemente monitorato con
l’obiettivo di garantirlo costante nel tempo. (Paradossalmente, brusche variazioni
microclimatiche potrebbero risultare più dannose di un ambiente di per sé malsano ma stabile nell’inerzia termoigrometrica).
La progettazione dei contenitori ha avuto pertanto l’obiettivo primario di garantire, al loro interno, il microclima di conservazione rilevato nella Biblioteca Reale.
Per assicurare condizioni igrometriche stabili durante il “viaggio” è stato adottato
un condizionamento passivo - cioè senza trattamento meccanico dell’aria - con
l’inserimento di uno stabilizzatore di umidità relativa e utilizzando materiali e accorgimenti costruttivi che hanno reso i contenitori completamente ermetici. L’ermeticità è, infatti, la condizione essenziale per il funzionamento degli
stabilizzatori dell’umidità relativa. All’interno dei contenitori è stata inoltre prevista
la presenza di data logger con display al fine di registrare e visualizzare in tempo
reale i dati termoigrometrici .
La miglior tutela delle preziose opere concesse in prestito è stata inoltre garantita
dalla condizione imposta dalla Direzione della Biblioteca Reale di prevederne
l’accompagnamento durante tutti i trasferimenti, sia dall’Italia agli Stati Uniti, sia tra
le due sedi espositive, da parte di funzionari del Ministero per i beni e le attività
culturali: tra loro alcuni restauratori dell’Istituto centrale, pronti ad intervenire in
caso di necessità.
La complessità dell’operazione, che ha comportato l’obbligo di prevedere due
trasporti consecutivi dei disegni per entrambe le sedi espositive in ragione dell’elevato valore assicurativo da essi rivestito, ha incontrato la piena disponibilità
degli organizzatori dell’evento, che hanno accolto con sensibilità le richieste del
Ministero per i beni e le attività culturali, cui spetta il compito di garantire la miglior conservazione dei beni che tutela, pur nella doverosa azione di valorizzazione e promozione nel mondo dello straordinario patrimonio culturale di cui
l’Italia è invidiata custode.
29
Il restauro del manoscritto XIII. B. 7 della Biblioteca
Nazionale di Napoli
Carla Casetti Brach*, Federico Botti*, Maria Luisa Riccardi*, Vincenzo Boni**
Biblioteca Braidense
ICPAL
Istituto Centrale per il Restauro
e la Conservazione del
Patrimonio Archivistico e Librario
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
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Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
Istituto Centrale
per il Restauro
e la Conservazione
del Patrimonio
Archivistico e Librario
Direttore:
Armida Batori
Coordinatore per la
Comunicazione:
Assunta Di Febo
Via Milano, 76
00184 Roma
Tel. 06 482911
Fax 06 4814968
www.icpal.beniculturali.it
Direzione Generale per I Beni
Librari, gli Istituti Culturali e il
Diritto d’Autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 362161
Fax 06 3216437
www.librari.beniculturali.it
Biblioteca Nazionale
“Vittorio Emanuele III”
Direttore:
Mauro Giancaspro
Piazza del Plebiscito
(Palazzo Reale di Napoli)
80132 Napoli
Tel. 081 7819111
Fax 081 403820
www.bnnonline.it
*Laboratorio di conservazione e
restauro dei beni librari - ICPAL
**Biblioteca Nazionale
“Vittorio Emanuele III” di Napoli
30
La Biblioteca Nazionale di Napoli custodisce dieci volumi del corpus autografo di
Pirro Ligorio, architetto napoletano vissuto nel XVI sec., in cui vengono riportati ventinove dei complessivi cinquantuno volumi delle Antichità, opera che ci tramanda
epigrafi, reperti archeologici e monumenti molti dei quali andati perduti. Altre testimonianze sono a Torino, Parigi ed Oxford. I volumi, con collocazione XIII.B.1-10,
provengono dal prestigioso Fondo Farnese, legato alla ricchissima Biblioteca romana
di Paolo III Farnese, ai suoi nipoti Alessandro e Ranuccio, e, dopo varie vicissitudini,
ereditato da Carlo di Borbone per parte della madre Elisabetta Farnese e portato dal
giovane sovrano a Napoli nel 1736. Purtroppo la qualità degli inchiostri usati dal Ligorio, anche se apposti su un’elegantissima carta cilestrina, ha prodotto nel corso
dei secoli gravi danni ai pur mirabili e fondamentali disegni. Molto probabilmente
una sostituzione della legatura dovette essere effettuata a Parma alla fine del XVII
secolo, in quanto tutti i manoscritti riportano la tipica coperta Farnese del periodo,
in pelle bazzana di color tané spruzzata, con gigli sul dorso, - emblema della stessa
famiglia - che andò a sostituire le precedenti e varie legature forse anche di più raffinata qualità, ma irrimediabilmente danneggiate dall’usura del tempo e dai vari, a
volte rocamboleschi, spostamenti subiti dagli stessi volumi. Della necessità di un
restauro conservativo del supporto scrittorio si era avvertita l’urgenza già alcuni decenni fa e alcuni tomi furono restaurati circa venti anni fa dall’allora Istituto centrale
per la patologia del libro.
Nel 2008 mercé l’interessamento congiunto del direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli Mauro Giancaspro, della dott.ssa Armida Batori direttrice dell’ICPAL e del dott. Eugenio Lo Sardo, ispettore centrale, particolarmente sensibile al
recupero dell’opera, si è provveduto al restauro del ms. XIII. B. 7 uno dei più interessanti e dei più danneggiati delle stesse antichità, che ci riporta iscrizioni latine, greche, statue laziali, campane ed etrusche nonché reperti egizi.
Il suo restauro, peraltro avvenuto in tempi brevissimi per la sincronia operativa
delle varie professionalità dei restauratori dell’Istituto, ci ha restituito un’opera di
notevole freschezza ed originalità con la meticolosa integrazione dei pur minuscoli frammenti che erano stati gelosamente custoditi nella Biblioteca Nazionale
di Napoli. L’opera così restaurata è stata esposta di recente nella suggestiva
quanto prestigiosa mostra “La lupa e la Sfinge. Roma e l’Egitto dalla storia al mito”
allestita nell’estate del 2008 nelle sale di Castel Sant’Angelo in Roma.
Descrizione dell’intervento di restauro sulle carte
L’intervento di restauro sul manoscritto XIII. B. 7, eseguito da Federico Botti, Patrizia Fleres, Massimo Massimi e Maria Luisa Riccardi, si può considerare il risultato
finale di una serie di sperimentazioni condotte sulle tecniche di velatura da applicare su esemplari affetti da danni derivati da ossidazione e acidità degli inchiostri ferro-gallici.
La velatura è una pratica che consente di ripristinare la manipolazione del volume
momentaneamente interdetta, ma comporta anche alcuni imprescindibili presupposti da soddisfare. Essa, infatti, deve tenere in massima considerazione il
grado di leggibilità dei testi velati, il mantenimento della specificità e unicità dei
supporti, la compatibilità dei nuovi materiali con quelli originali e la reversibilità
dei trattamenti effettuati. Nel caso qui di seguito esposto, è stata messa a punto
per la prima volta una velatura molto trasparente e per nulla lucida su un supporto
colorato, notoriamente più difficile da velare con soddisfazione rispetto alle carte
bianche.
Il manoscritto si presentava in uno stato di conservazione molto precario a causa
dei danni prodotti dagli inchiostri ferro-gallici, che avevano generato numerose
e talvolta vaste perforazioni, frammentazioni in più punti del supporto, specialmente nelle aree disegnate, e aloni intorno alle lettere delle parti manoscritte,
che impedivano una lettura agevole del testo.
Preliminarmente agli interventi diretti sull’opera, il Laboratorio di chimica dell’Istituto ha condotto analisi spettroscopiche Raman sulla carta, al fine di individuare
la sostanza colorante delle fibre, risultata essere indaco, ha inoltre misurato per
estrazione a caldo il pH della carta e degli inchiostri, risultato essere rispettivamente di 5,30 e 3,60 e, dopo aver accertato la presenza di ossidazione, ha indicato la necessità di eseguire un trattamento contestuale di deacidificazione e
riduzione sulle carte.
Il trattamento deacidificante eseguito presso il Laboratorio di restauro dei beni librari, è stato preceduto da un controllo delle aree più fragili del volume, sulle quali
è stato attuato un rinforzo temporaneo con velature di carta velina Kami da 3,7 g
applicata con alcol etilico e preparata con una miscela di 100cc di acqua demineralizzata, 40cc di Tylose MH 300 p sciolto in soluzione acquosa al 4%, 10cc di
Acrilico DP 59, 20cc di Plextol B 500 e 30cc di Acrilico E 411. Posti così in sicurezza
i frammenti, si è proceduto, per immersione, al trattamento di deacidificazione e
riduzione delle carte con propionato di calcio (3g/l) sciolto in alcol etilico e terbutilamminoborano (8g/l). Dopo tale trattamento si è provveduto a velare in modo
definitivo le zone fragili e perforate dall’inchiostro ferro-gallico utilizzando la velina
Kami da 3,7 g trattata con le seguenti sostanze poste a strati:
1) Klucel G (idrossipropilcellulosa) al 2% in alcol etilico;
2) 60% di acqua demineralizzata, 20% di Plextol B 500, 20% di acrilico E 411.
La preparazione della velina è stata condotta su teflon in tre fasi successive di lavorazione (Klucel G – Resine – Klucel G.). Il velo così preparato e sagomato per
ciascuna lacuna è stato applicato sulle sole zone indebolite con alcol etilico
puro, usando un pennello a setole morbide. Il restauro delle numerose lacune e
il risarcimento degli strappi è stato effettuato con carta giapponese (Vangerow
25554), tinta con tempere Windsor & Newton, fatta aderire mediante Culminal
(MC 2000) sciolto in alcol etilico al 4%.
31
Una volta realizzata la velatura definitiva delle carte e la loro reintegrazione, è
stato possibile rimuovere le velature temporanee.
Ricomposizione dei fascicoli e restauro della coperta
Il volume è stato cucito, seguendo le tracce originali, su 6 nervi singoli di canapa
con filo di cotone, successivamente sono stati realizzati i capitelli su anima di canapa, con cucitura primaria di filo neutro di cotone e cucitura secondaria con fili
di seta gialli e verdi, simili agli originali.
L’indorsatura è stata eseguita utilizzando due strati di carta a mano (Falcon, 115
g), di cui per il primo strato, a contatto con i fascicoli, è stato adoperato l’adesivo
Culminal Mc 2000 sciolto in alcol etilico al 4%, mentre per lo strato esterno è
stato usato l’amido di grano modificato (Cerestar* Film 05702). L’intervento sulla
legatura è consistito nel consolidamento dei quadranti con carta giapponese e
Tylose MH 300p al 4% in soluzione acquosa e nel risarcimento delle lacune, utilizzando cuoio di pecora conciato al vegetale e tinto con aniline ad alcol. L’adesivo usato è stato amido di grano modificato (Cerestar* Film 05702).
Infine è stato realizzato un contenitore in cartone durevole per la conservazione
degli elementi della cucitura che non potevano essere recuperati.
Conclusioni
Vent’anni fa un altro volume di Pirro Logorio fu sottoposto a restauro presso l’allora
Istituto centrale per la patologia del libro. A distanza di quasi 20 anni è stato possibile porre a confronto due metodologie d’intervento, simili nella concezione,
ma differenti nell’esecuzione per materiali e tecniche usati. Tale confronto è stato
un’occasione eccezionale per valutare, su esemplari conservati nello stesso luogo
e conformi per manifattura e danni, gli effetti degli interventi posti in atto.
32
ISCR - Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
Descrizione attività
L’Istituto Centrale per il Restauro è stato fondato nel 1939 da Cesare Brandi per rispondere all’esigenza di impostare l’attività di restauro su basi scientifiche e di
unificare le metodologie di intervento sulle opere d’arte e i reperti archeologici.
Con il nuovo “Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali” (DPR. n.233 del 26.11.2007, art. 15, comma 3, lett. g) l’Istituto Centrale per il Restauro muta la sua denominazione in Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro in quanto dotato di autonomia contabile e amministrativa.
Come organo tecnico-scientifico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
l’Istituto svolge attività di indirizzo in materia di interventi conservativi e di restauro, promuove e svolge la ricerca scientifica sui processi di deterioramento e
sulle metodologie d’intervento, espleta attività di formazione di restauratori di
beni culturali, realizza interventi di restauro di particolare complessità su opere
di grande valore, esercita funzioni di consulenza scientifica e tecnica per gli organi periferici del Ministero ed per gli uffici degli Enti locali competenti in materia
di conservazione e restauro.
L’Istituto svolge un’attività istituzionale nel campo della tutela, della conservazione
e della formazione nel settore del restauro e della conservazione del patrimonio
culturale in Italia ed all’estero; definisce metodologie unificate per la conduzione
di corretti interventi di restauro, documentazione, diagnostica, ricerca scientifica
e tecnologica applicata alla conservazione dei beni culturali; partecipa alla predisposizione di provvedimenti legislativi riguardanti il settore degli appalti di lavori pubblici sui beni culturali, della formazione dei restauratori e dei loro profili
professionali; ha realizzato il Sistema Informativo Territoriale denominato “Carta
del Rischio del patrimonio culturale” per la gestione dei dati tecnici sui fattori di
degrado dei beni culturali; ha inoltre realizzato innumerevoli interventi di studio
e restauro di opere d’arte di preminente valore nazionale e mondiale quali gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova, il Cenacolo Vinciano, la Torre di Pisa, il Satiro Danzante di Mazara del Vallo;
ha formato dal 1944 ad oggi molte generazioni di restauratori nelle diverse tipologie di beni, riconosciuti tra i migliori operatori del settore; adotta programmi
di aggiornamento per i funzionari tecnico-scientifici del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali e degli Enti locali; svolge attività di restauro e consulenza all’estero, su richiesta di nazioni europee e di altri paesi del mondo, come Cina,
Malta, Egitto, Giordania, India, Nepal, Iraq, Afghanistan, Siria, Turchia, Argentina,
Algeria, Serbia e Kosovo.
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Anno di Fondazione 1939
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1 Cfr. Circolare MIBAC 321 del
23/12/2008; DPR n.233 del
26-11-2007 “Regolamento di
riorganizzazione del
Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, a norma
dell’ art. 1 comma 404, della
Legge 27 dicembre 2006,
n. 296
34
Conservare per valorizzare
Caterina Bon Valsassina
L’ISCR propone per il XVI Salone del Restauro e della Conservazione dei Beni
Culturali e Ambientali un convegno dal titolo “Conservazione e Restauro per la
valorizzazione del patrimonio” ed una serie di incontri tecnici rappresentativi
delle linee di ricerca che caratterizzano l’attività dell’Istituto quali: il monitoraggio ambientale e la schedatura conservativa (C. Cacace at alii, Schedatura conservativa di chiese dell’Abruzzo e Molise. Esempio di sinergia tra istituzioni
diverse per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale, realizzata fra l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e l’Università
degli studi dell’Aquila e C. Cacace et alii, Conservazione e restauro per la valorizzazione del patrimonio. Musei: Sistema WEB della Scheda Ambientale); la
scansione laser 3D per la progettazione dell’intervento conservativo (S.
D’Amico, Scansione laser 3D del Cretto di Gibellina di Alberto Burri e S.
D’Amico, R. Martines, Scansione laser 3D del pavimento musivo della Cattedrale
di Otranto), lo studio di nuove soluzioni per l’esposizione dei manufatti (F. Aramini et alii, Il Mausoleo delle Ghirlande: nuove soluzioni per esporre e conservare in teche ad atmosfera modificata) e la sperimentazione di un metodo
alternativo alla foderatura tradizionale (A. M. Marcone, Cesare Nebbia “La Resurrezione di Cristo” Verso il minimo intervento) ed infine la formazione con la presentazione delle migliori tesi dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il
Restauro, dell’Opificio delle Pietre Dure e della Scuola del Restauro del Mosaico
di Ravenna per l’anno 2007/2008. Nel Convegno La Conservazione e il restauro
per la valorizzazione del patrimonio gli interventi della sezione Introduzione
normativa e istituzionale contribuiranno ad arricchire il dibattito sulla valorizzazione e sulla conservazione dei beni culturali del nostro Paese, anche alla luce
delle novità introdotte dallo Schema di DPR concernente le modifiche al decreto
del presidente della Repubblica 26 novembre 2007 n. 233 (1).
Il convegno è strutturato in due parti. Una parte introduttiva generale sia sulla normativa, per la quale è stato invitato il Consigliere di Stato Giuseppe Severini, il
quale illustrerà anche le recenti novità legislative in materia di valorizzazione, sia
sulle ricadute istituzionali, anche alla luce della riforma del Mibac e della nuova
Direzione Generale per la volorizzazione. Per questa ragione sono stati invitati il
dott. Mario Resca e i due Direttori Generali Centrali per i beni archeologici (dott.
Stefano De Caro) e per i beni architettonici e il patrimonio storico artistico e etnoantropologico (arch. Roberto Cecchi).
Nella seconda parte verranno presentati i restauri più significativi condotti recentemente dall’ISCR che hanno affrontato anche il tema della valorizzazione di aree
archeologiche (G. De Palma, G. Capponi, Restauro e manutenzione dei templi di
Paestum; C. Sabbione La valorizzazione della villa romana di Casignana, M. G. Flamini, M. C. Laurenti, Il contributo dell’ISCR alla conservazione della villa romana di
Casignana), di monumenti (A. Pandolfi, Roma, la Fontana dei Quattro Fiumi a piazza
Navona: un equilibrio difficile tra conservazione e valorizzazione; P. Miracola, Polidoro da Caravaggio, il restauro degli affreschi del Ninfeo di Palazzo Bufalo; G. Tamanti, A. Di Lieto, Il restauro della statua equestre di Cangrande della Scala e la sua
conservazione nel Museo di Castelvecchio a Verona) e di opere d’arte mobili (F.
Talarico, La Deposizione di Federico Barocci a Perugia: un caso di studio sul ruolo
delle indagini scientifiche per la valorizzazione dei beni culturali).
Il Mausoleo delle Ghirlande: nuove soluzioni per esporre e
conservare in teche ad atmosfera modificata
Fabio Aramini*, Stefano Ferrante**, Mauro Rubini ***
Il contesto
Nel gennaio del 2000 nei pressi di Grottaferrata, durante l’installazione di un pilone di
un elettrodotto in località ad Decimum, lungo il percorso dell’antica via Latina, venne
alla luce un ipogeo contente all’interno due sarcofagi. Essi conservavano i resti di due
nobili romani, Aebutia Quarta e T. Carvilius Gemellus, oltre ad alcuni reperti di grande
interesse: in particolare un pregevole anello d’oro con un ritratto incastonato protetto
da un vetro, un berretto di lana con decorazioni in oro, alcune ghirlande di fiori (dalle
quali deriva la denominazione di Ipogeo delle Ghirlande che ha assunto il sito). Le
spoglie di Carvilio, un giovane di diciotto anni, apparvero subito abbastanza ben conservati da un processo di mummificazione apparentemente naturale. Esse erano contenute all’interno di un sarcofago che aveva mantenuto una perfetta tenuta, al contrario
di quello di Ebuzia che risultava lesionato già all’atto della sepoltura.
Il progetto
Si pose fin da subito il tema della muselizzazione dei reperti, all’interno del costituendo Museo Archeologico Nazionale di San Nilo a Grottaferrata. Già nel 1998
erano stati effettuati a Roma degli studi, a cura del Laboratorio di Fisica ICR ed in
particolare di Giovanni Gerardi(1), per la realizzazione di una particolare teca destinata alla conservazione della Mummia di Grottarossa. A questo lavoro aveva
collaborato tra gli altri, come consulente per gli aspetti fotometrici ed illuminotecnici, Fabio Aramini (dello stesso laboratorio). Il concetto essenziale che caratterizza questo contenitore espositivo è quello di ottenere una buona fruibilità
complessiva, adottando tutti quegli accorgimenti di natura fisica e tecnologica
in grado di concorrere a determinare un isolamento termico molto più elevato
di quello che caratterizza le teche tradizionali. A ciò va aggiunta una forte attenzione all’adozione di una impostazione progettuale attenta alla limitazione di
tutti quei contributi di energia, inclusa quella luminosa, che possano determinare
uno sbilanciamento alla stabilità del microambiente espositivo.
Nell’occasione del rinvenimento del sito di Grottaferrata, venne deciso dal responsabile dell’allestimento del Museo di San Nilo, congiuntamente con un funzionario del
laboratorio di Fisica ICR, di ripercorrere, aggiornandola tecnologicamente, la filosofia
della teca di Grottarossa. Si decise altresì di prevedere anche l’utilizzo di atmosfere
modificate, per elevare il livello di protezione dei reperti che, d’altro canto, apparivano
meno stabili rispetto a quelli rinvenuti nel 1963 nel sito di Grottarossa.
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Generale Beni Archeologici
***Antropologo,
Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Lazio
35
La conservazione in atmosfera modificata satura di azoto, se praticata secondo
la tecnica messa a punto dal Getty Conservation Institute(2) , prevede che la teca
sia progettata con particolari accorgimenti volti a limitare al massimo gli scambi
gassosi con l’esterno. Occorre inoltre realizzare dei dispositivi di una certa complessità, i quali assicurino che la sostituzione dell’ossigeno atmosferico con
l’azoto avvenga senza realizzare variazioni apprezzabili nella pressione e, soprattutto, senza modificare i valori di umidità relativa ai quali sono stati in precedenza stabilizzati i reperti per la muselizzazione.
Una volta individuati obiettivi e metodo, la progettazione si è quindi avvalsa della
fattiva collaborazione di specialisti nei vari “saperi” coinvolti dalla ricerca. In particolare occorre sottolineare l’apporto, già in una fase molto precoce del progetto, di Carlo Serino(3), il quale ha contribuito all’identificazione, alla costruzione
ed alla messa a punto dei dispositivi più idonei per realizzare compiutamente
ed in modo durevole il regime di “Oxigen-Free”. Le due teche sono state realizzate in PMMA colato con spessore di 50 mm sottoposto a trattamenti per renderlo esente dal rilascio di gas residui e dall’accumulo di cariche elettrostatiche.
La conducibilità termica di questo materiale è di 0,19 W/mK (secondo DIN
52618). Per fornire un paragone comprensibile, una teca in vetro con lo stesso
grado di coibenza dovrebbe essere realizzata con spessori di una ventina di
cm, con tutte le conseguenze in termini di peso e trasparenza.
Date invece le caratteristiche ottiche di questo materiale, che presenta un indice di
torbidità molto basso (indice di HAZE - 0,5), e soprattutto una trasmittanza molto
elevata (92%) priva di alterazioni cromatiche della luce, le caratteristiche della fruizione appaiono molto buone. La densità caratteristica risulta di 1,2 g/cm3 a fronte
di 2,5 g/cm3 del vetro; il peso complessivo, proseguendo sempre il confronto con
un ipotetico manufatto analogo realizzato in vetro, risulta della metà. La nota resistenza meccanica ed agli urti, esenta da preoccupazioni sul versante della prevenzione da accidentali frammentazione delle pareti. Da perfetta saldatura delle
giunzione dei due blocchi di cui è costituita la struttura consente una buona tenuta
alla infiltrazione per diffusività dell’ossigeno atmosferico esterno.
Il PMMA è caratterizzato inoltre da una resistenza all’invecchiamento superiore a
quella degli altri materiali termoplastici. Il tallone d’Achille rimane solo quello
delle caratteristiche antigraffio: fino ad ora, e nelle precedenti esperienze di
esposizioni di teche realizzate con lo stesso metacrilato, esposte per mesi in
mostra a contatto con il pubblico(4) ,questa caratteristica non si è rilevata in realtà
un vero problema. Esistono comunque trattamenti efficaci che permettono il re-
36
cupero di eventuali graffi ed abrasioni che permettono un ripristino pressoché
perfetto delle condizioni di visibilità di questi materiali.
Il sistema di illuminazione è costituito da guide di luce ad emissione laterale prismatizzate (GLEP) che trasportano e distribuiscono la luce prodotta da 2 illuminatori LED di ultima generazione (60 lm/W) da 1W, posti all’esterno della teca, agli
estremi dei conduttori ottici. Questi illuminatori producono una illuminazione
uniforme lungo i 2 m di percorso ottico, con un angolo di emissione sull’asse
longitudinale di 55°. Le potenze impiegate, quasi irrisorie rispetto ad analoghi sistemi a fibre ottiche, sono più che sufficienti per produrre i 50 lux previsti in fase
espositiva. Verranno quindi impiegati dei dispositivi per la riduzione del flusso
luminoso erogato (alimentatori elettronici dimmerizzabili). Occorre evidenziare
che questi dispositivi risultano affidabili e non presentano alcun problema sia
per la regolazione, sia per sostenere un elevatissimo numero di cicli di accensione e spegnimento. La durata delle sorgenti è di circa 50 volte superiore a
quella di un classico illuminatore per fibre. Nella sala espositiva è previsto un regime di attivazione automatica di queste sorgenti, comandato da rilevatori di
presenza, per ridurre la dose di luce cumulata sui reperti esposti al minimo indispensabile necessario alla fruizione.
Ogni teca è dotata di colonnine per il contenimento del gel di silice che permettono
la sostituzione e l’eventuale ricondizionamento del tampone igroscopico. Esse sono
realizzate in modo tale che non sia necessario, dopo questa operazione, un nuovo
trattamento generale con l’azoto. Sono stati inoltre realizzati dispositivi esterni, che
permetto di controllare la pressione atmosferica e compensare eventuali, prevedibili,
piccole infiltrazioni di ossigeno nel corso del tempo.
Le teche sono inoltre dotate di monitoraggio termoigrometrico interno ed esterno
wireless e di connessioni per l’analisi dell’atmosfera interna e la determinazione
ossimetrica. Sono stati inoltre previsti quattro punti di misura spettrofotometrica,
remotizzati a mezzo di fibre ottiche in quarzo ed altrettanti illuminanti LED calibrati, connessi con uno spettrofotometro collocato all’esterno: ciò permette di
determinare tempestivamente su alcuni punti dei materiali organici l’insorgenza
di eventuali alterazioni cromatiche delle superfici. Per la collocazione nella sala
del Museo di Grottaferrata destinata all’esposizione dei reperti e dei sarcofagi originali, è stata prevista e già installata, una rete di monitoraggio dei parametri ambientali più complessa, interrogabile a distanza attraverso rete telefonica: ciò
permetterà alla Soprintendenza competente di effettuare controlli più frequenti,
soprattutto nei primi mesi di apertura al pubblico dell’installazione espositiva.
(1)
Vedi Giovanni Gerardi “The
conservation of the roman
“mummy of Grottarossa”: the
microclimate monitoring and
the physical-technical
solution for the showcase”Atti della IV Conferenza
Internazionale delle Prove
Non Distruttive – Roma 1999
(2)
Vedi, in particolare, AA.VV.
“Oxygen-Free Museum
Cases” Edited by Shin
Maekawa – collana Research
in conservation – The Getty
Conservation Institute 1998.
(3)
Restauratore Conservatore Equilibrarte S.r.l. - Roma
(4)
Vedi l’articolo di F. Aramini
“Esporre e conservare. La
teca del volume di Percier” –
in “La stanza del Gladiatore
ricostruita”, a cura di Anna
Coliva e Marina Minozzi, ED.
Skira – Milano, 2004.
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Carta del rischio del patrimonio culturale Italiano.
Schedatura sulla vulnerabilità e pericolosità sismica
del Patrimonio Culturale della Regione Sicilia e Calabria
Alessandro Bianchi*, Carlo Cacace*
Da oltre tre anni è in linea il sistema informativo territoriale ‘Carta del Rischio del
Patrimonio Culturale’ (www.cartadelrischio.it). Si tratta di uno strumento di rango
nazionale creato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali per rendere possibile la raccolta dei dati tecnici sul patrimonio culturale e per facilitare la interoperabilità con le altre amministrazioni pubbliche.
Con fondi CIPE è stato avviato un importante progetto di raccolta di dati sulla
vulnerabilità sismica degli edifici monumentali della Sicilia e della Calabria che
si è appena concluso. Si è trattato di una iniziativa presa con riferimento alle attività avviate sin dal 1996, quanto l’allora Sottosegretario di Stato alla Protezione
Civile istituì la Commissione incaricata di provvedere alla elaborazione del piano
nazionale di emergenza dell’area della Sicilia Orientale e dello Stretto di Messina,
connesso a situazioni di emergenza derivanti dal rischio sismico.
Le schede sismiche sono state redatte secondo le procedure delle Linee Guida per
la Valutazione e Riduzione del Rischio Sismico del Patrimonio Culturale con Riferimento alle Norme Tecniche per le Costruzioni (2006). Sulla base dati cartografica e
alfanumerica generale integrata e operante nel sistema nazionale sono stati oggetto
di schedatura sismica in totale 3019 beni monumentali di cui 1952 nella Regione Sicilia e 1066 nella Regione Calabria. Le schede fanno riferimento a beni monumentali
georiferiti sul territorio e sono accessibili agevolmente attraverso le comuni interrogazioni WEB GIS già disponibili nel Sistema Informativo Territoriale della carta del rischio, e inoltre consentono una valutazione della vulnerabilità e del rischio secondo
una procedura sperimentale messa a punto in collaborazione con gli uffici del Dipartimento della Protezione Civile, le classi della vulnerabilità e del rischio sono state
suddivise in quattro categorie: alto, medio, medio basso e basso.
La grande banca dati della vulnerabilità sismica così creata è da oggi a disposizione delle amministrazioni statali e locali per le attività tecniche di rispettiva
competenza.
Le migliori tesi dell’Istituto Superiore
per la Conservazione ed il Restauro, dell’Opificio delle
Pietre Dure e della Scuola per il Restauro del Mosaico di
Ravenna. Anno 2007/2008
Massimo Bonelli*, Letizia Montalbano**, Cetty Muscolino***
Le tesi di diploma e la loro discussione, sia nell’ISCR che nell’OPD, costituiscono,
senza alcun dubbio, uno dei momenti più intensi e qualificanti della vita delle
scuole dei due Istituti. Nella gran parte dei casi si tratta di lavori di notevole livello
qualitativo, caratterizzati da una forte vocazione per la ricerca interdisciplinare, che
uniscono in modo indissolubile, ai necessari aspetti della pratica del restauro,
anche quelli legati alla ricerca storico-artistica, tecnico-sperimentale e scientifica.
Per valorizzare tanti apprezzabili contributi e fare in modo che possano essere conosciuti anche al di fuori della ristretta cerchia dei nostri Istituti, l’OPD e l’ISCR
hanno promosso, negli ultimi anni, una serie di iniziative comuni. Nel 2003 e nel
2004, in due “giornate di studio” distinte, venivano presentate al pubblico, direttamente dagli autori, alcune delle migliori tesi fiorentine e romane. Questi lavori
confluivano successivamente nel volume A Scuola di Restauro, pubblicato congiuntamente dall’Istituto e dall’Opificio nel gennaio del 2008. Attualmente un secondo volume, dedicato alle tesi più recenti, é in corso di allestimento e speriamo
che, malgrado la grave carenza di fondi, possa essere pubblicato al più presto.
Nel 2007, per la prima volta, un ristretto numero di lavori di diploma veniva presentato al Salone del Restauro, anche in questo caso direttamente dagli autori,
dando così inizio a quella che speriamo possa tradursi in una costante presenza
delle Scuole di Alta Formazione del MiBAC negli eventi ferraresi.
Otto sono le tesi che si presentano quest’anno: quattro dell’Istituto, tre dell’Opificio
e una della Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna che, come è noto, è sezione distaccata dell’OPD dal 2004. Due in sostanza i criteri che hanno motivato le
nostre scelte: la qualità dei “prodotti”, considerati sotto il profilo della ricerca, degli
interventi e della stesura; l’esigenza di differenziare gli argomenti trattati, in modo che
la loro varietà riflettesse l’eterogeneità e la complessità degli insegnamenti, delle discipline e delle linee di ricerca che caratterizzano i due Istituti.
Tesi della Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. Anno 2007/08
1) Enrico Cragnolini - Alex Sarra (area B: metalli, ceramica e vetro)
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Sperimentazione di metodi di impregnazione e di liofilizzazione di legni archeologici provenienti da ambiente saturo d’acqua.
Relatori: M. Bartolini, A. Di Giovanni, B. Fossà, G. Galotta, R. Petriaggi, G. Sidoti, M. Torre.
Il lavoro, realizzato in collaborazione tra l’Istituto e il Cantiere delle Navi Antiche di
Pisa, ha visto tre diverse fasi di studio , analisi e applicazione. La ricerca storica ha portato a raccogliere e presentare in modo organico un consistente volume di informazioni prodotte in studi internazionali. Nella fase analitica si é determinato lo stato di
conservazione dei reperti lignei, attraverso diverse analisi e prove fisiche. Si è inoltre
affrontata la problematica dell’inibizione degli agenti biodeteriogeni durante le fasi
conservative preliminari e nel corso dei trattamenti con PEG.
2) Giorgia Galanti (area A: dipinti murali, su tela, su tavola, sculture lignee policrome e lapidee, superfici e materiali dell’architettura)
La Loggia-Ninfeo di Palazzo Sacchetti a Roma: studio per l’attribuzione delle fasi
costruttive, analisi della tecnica esecutiva e dello stato di conservazione dei dipinti e proposta per un progetto di manutenzione. Relatori: C. Cacace, C. Gaetani,
M. Mercalli, A. M. Pandolfi, S. Tagliacozzi, I. Tigliè.
In occasione dell’intervento conservativo sul bene da parte dell’ISCR, dopo una
vasta ricerca d’archivio cha ha chiarito le fasi costruttive e della decorazione del
ninfeo, mai oggetto in passato di alcuno studio approfondito, sono state analizzate le cause del degrado dell’edificio attraverso lo studio del microclima e la
creazione di un modello teorico dell’irraggiamento della struttura. I risultati di
questa vasta indagine ha consentito la messa a punto di un programma di manutenzione dell’edificio e della sua decorazione pittorica.
3) Francesca Graziosi (area A: dipinti murali, su tela, su tavola, sculture lignee policrome e lapidee, superfici e materiali dell’architettura)
Le alterazioni dei materiali per la reintegrazione pittorica dei dipinti su tela e su tavola.
Relatori: F. Aramini, G. Basile, C. Cacace, F. Capanna, A. M. Marcone, G. Vigliano.
La tesi si é proposta il compito di individuare quali siano le cause di degrado e
di alterazione dei materiali impiegati per la reintegrazione dei dipinti e in particolare di quelli utilizzati nei laboratori dell’ISCR negli ultimi 50 anni. In una fase
successiva, al fine di individuare valide alternative, sono stati condotti test su alcuni colori industriali per la reintegrazione, quali Maimeri a Vernice, Maimeri Chetonici e Gamblin Conservation Colors e su alcuni polimeri di sintesi, utilizzati in
questi contesti, quali Laropal A81, Laropal K80 e Regalrez 1094.
4) Manuela Faieta - Alice Rivalta (area B: metalli, ceramica e vetro)
Lacca urushi su metallo. Tecniche esecutive, degrado e conservazione. Un caso
di studio: “Un elmo kabuto della collezione giapponese del Museo Stibbert”.
Relatori: F. Aramini, V. Basilissi, C. Cacace, F. Civita (Museo Stibbert), G. Guida, D.
Radeglia, G. Sidoti , S. Tagliacozzi.
L’obiettivo del lavoro è stato lo studio, sotto il profilo storico, tecnologico e conservativo, della lacca urushi nei casi di applicazione su metallo secondo la tecnica definita yakitsuke. A tal fine sono stati presi in esame diversi manufatti
metallici recanti questo tipo di finitura tra cui in particolare l’elmo kabuto dello
Stibbert. Nella seconda parte del lavoro, attraverso un’indagine di tipo sperimentale, sono stati testati e selezionati diversi prodotti da impiegare nella pulitura, nel consolidamento e nella protezione della lacca urushi. Alla luce dei
risultati si é proceduto al restauro dell’elmo.
Tesi della Scuola di Alta Formazione dell’Opificio delle Pietre Dure e della
Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna. Anno 2008.
1) Camilla Fracassi (OPD, settore restauro pitture mobili)
Il “Paliotto” di Guido da Siena della Pinacoteca Nazionale di Siena: studio della
tecnica artistica e progetto di restauro
40
Relatori: L. Lucarelli, C. Frosinini, L. Sostegni, R. Bellucci, C. Lalli.
Negli ultimi anni gli studiosi hanno messo in luce la diffusione di dipinti su tela
anche in epoche in cui si riteneva venissero prodotte solo pitture su tavola. Il
“Paliotto” di Guido Da Siena, è ritenuto uno dei dipinti su tela più antichi conservatosi fino a noi. Si tratta, quindi, di un’opera interessante e rara, un’occasione per
approfondire le conoscenze sulle tele del Medioevo, sia per quanto riguarda la
funzione che per la tecnica di realizzazione. Sulla base di questa ricerca si sta delineando il progetto di restauro e la metodologia applicativa più adatta a questa
tipologia di manufatti.
2) Federica Favaloro (OPD, settore restauro arazzi)
Sperimentazione di un nuovo metodo di consolidamento per gli arazzi: il caso
della Crocifissione con episodi della Passione dalla Pinacoteca Civica di Forlì.
Relatori: C. Innocenti, G. Bacci, I. Tosini, I. Degano.
L’arazzo, rara testimonianza della passione che all’inizio del Cinquecento si diffuse tra i nobili e gli ecclesiastici italiani per i manufatti preziosi e di gusto arcaico,
provenienti dal nord Europa, fu prodotto a Bruxelles. L’opera presentava peculiarità tecniche e materiche tali da necessitare un approccio specifico: l’apparente
unità strutturale si contrapponeva infatti ad una pericolosa fragilità delle fibre tessili. L’iter operativo ha indirizzato la ricerca verso alcune modifiche al sistema di
lavaggio e soprattutto verso una tecnica sperimentale di consolidamento strutturale che hanno permesso il pieno recupero del prezioso manufatto.
3) Sara Guarducci (OPD, settore restauro mosaici e commesso in pietre dure)
I Mosaici del Battistero di Firenze: intervento di restauro al parapetto del Matroneo. Stacco e ricollocazione su un nuovo supporto del pannello raffigurante Matatia alla luce di uno studio delle diverse metodologie d’intervento.
Relatori: A. Griffo, G. Raddi, L. Rocchi, C. Martinelli.
Sebbene oggi la procedura dello stacco sia considerata un caso limite per la tutela del manufatto, possono presentarsi situazioni conservative tali da renderla
necessaria. Il pannello, interessato da un esteso distacco della malta di allettamento dal supporto fittile retrostante e da numerose lacune e rifacimenti, si presentava in condizioni così precarie da necessitare questo tipo di intervento. È
stato dunque progettato un supporto mobile in fibra di carbonio sul quale allettare il manto musivo distaccato, da fissare a vite al parapetto del matroneo; metodologia, questa, reversibile, come pure l’integrazione della vasta lacuna.
4) Maria Luisa De Toma (Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna)
Dalla volta del presbiterio della basilica di San Vitale a Ravenna: l’angelo del
Museo Nazionale. Storia, documentazione e restauro di un frammento musivo
parietale
Relatori: C. Muscolino, E. Carbonara, R. Mambelli
L’intervento sul frammento musivo parietale ha dimostrato come la conoscenza
di un manufatto possa considerarsi un processo in itinere che lascia spazio a
nuovi ambiti di esplorazione. Fondamentali per lo studio materico, le metodologie di rilevamento fotografico e le indagini di tipo multispettrale non invasivo,
come pure l’applicazione del Laser scanner 3D e della TAC. La diffrattometria e
l’analisi termica, hanno poi consentito di datare il frammento musivo ad un periodo posteriore al VI secolo d.C. L’esperienza maturata in cantiere è risultata infine fondamentale per mettere a punto il progetto di restauro e individuare la
metodologia d’intervento più idonea.
Istituti organizzatori:
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41
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Fax 06 67232414
[email protected]
Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
(ex ICR - Istituto Centrale
per il Restauro)
Direttore:
Caterina Bon Valsassina
Coordinatore per la
Comunicazione:
Patrizia Miracola
Piazza San Francesco di Paola, 9
00184 Roma
Tel. 06 48896265
Fax 06 4815704
ic-r@ beniculturali.it
www.iscr.beniculturali.it
*Restauratore Conservatore
Direttore coordinatore dell’
Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
**Docente Ordinario della
“Sapienza”, Università di Roma,
già titolare del Laboratorio di
restauro architettonico presso
la Facoltà d’Ingegneria
dell’Università dell’Aquila.
Istituto organizzatore:
Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
42
Schedatura conservativa di chiese dell’Abruzzo e Molise.
Esempio di sinergia tra istituzioni diverse per la
conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale,
realizzata fra l’Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro e l’Università degli studi dell’Aquila
Carlo Cacace*, Donatella Fiorani**
Una recente esperienza di schedatura della Carta del Rischio su edifici storici
abruzzesi e molisani ha consentito di verificare il funzionamento e l’utilità del sistema WEB, stabilendo un circuito virtuoso fra conoscenza e gestione dei dati per
la tutela, in piena coerenza con il concetto di ‘restauro preventivo’ elaborato da
Cesare Brandi e con l’idea di ‘conservazione programmata’ dei beni culturali sviluppata a partire da Giovanni Urbani. La collaborazione con L’Università dell’Aquila ha permesso di verificare le prospettive d’impiego e fruizione delle
informazioni presenti in banca dati sviluppata in ambiente WEB, chiarendone il
ruolo ausiliario e integrativo rispetto al tradizionale percorso che lega la conoscenza dell’opera alla formulazione del progetto di restauro. Tale sistema, infatti,
lungi dal volersi sostituire alla fase di studio diretto e analitico, alla valutazione sintetica e critica dell’opera o, addirittura, alla stessa progettazione, consente innanzitutto di effettuare un’archiviazione standardizzata e – quindi – confrontabile
dei dati, il facile reperimento e, l’integrazione delle informazioni, la valutazione
comparativa sincronica e diacronica delle condizioni conservative dei beni. Esso,
quindi, permette di tesaurizzare in maniera semplice ed economica almeno una
parte dell’ampio patrimonio di materiale e di documentazione che viene di anno
in anno accumulato negli archivi universitari, il quale presenta un ampio potenziale informativo anche per gli enti che operano per la tutela sul territorio. Nell’ambito del Laboratorio di Restauro architettonico dell’Università dell’Aquila con
l’ISCR il sistema GIS WEB della Carta del rischio e le relative schede di rilevamento
sono stati utilizzati per organizzare il materiale elaborato preliminarmente alla
progettazione del restauro di alcuni edifici di valore storico-artistico, quasi tutti
abruzzesi. Tale attività ha permesso d’implementare la banca dati con nuove
anagrafiche e nuove schede di vulnerabilità (figura 1) e, attraverso l’uso degli appositi algoritmi di calcolo della vulnerabilità presenti nel GIS carta del rischio di
ottenere gli indici di vulnerabilità strutturale, superficiale e globale delle 50 fabbriche georiferite sul territorio aquilano e molisano.
Comune
Bene
L’Aquila
L’Aquila
S. Benedetto in Penllis
S. Benedetto in Penllis
L’Aquila
L’Aquila
Ocre
L’Aquila
L’Aquila
Massa D’Albe
Isola del Gran Sasso d’Italia
Barisciano
Barisciano
Tornimparte
Navelli
L’Aquila
L’Aquila
L’Aquila
L’Aquila
L’Aquila
L’Aquila
Barisciano
L’Aquila
Fagnano Alto
L’Aquila
Sulmona
Sulmona
Navelli
Atri
Santo Stefano di Sessanio
Montefino
Montorio al Vomano
L’Aquila
L’Aquila
L’Aquila
Venafro
Rocca San Giovanni
L’Aquila
San Demetrio ne’ Vestini
Campli
L’Aquila
Montereale
L’Aquila
Rocca Santa Maria
Ocre
Scoppito
Torricella Sicura
Chiesa di S. Pietro di Coppito
Chiesa San Silvestro
Torre della Chiesa di San Benedetto
Chiesa Abbazia di San Benedetto in Perillis
Chiesa di San Giustino a Paganica
San Sisto
Santa Maria dei Raccomandati
San Paolo di Barete
Chiesa Santa Giusta
Chiesa San Pietro ad Alba Fucens
Chiesa San Giovanni al Mavone
Chiesa di Santa Maria in Valleverde
Campanile Santuario Madonna di Valverde
Chiesa San Panfilo
Chiesa della Madonna delle Grazie
Chiesa San Francesco in Cianfarano
Chiesa San Silvestro
Santa Maria del Ponte
Chiesa di Santa Margherita
Chiesa di San Vito alla Rivera
Santa Maria a Forfona
Convento di Santa Maria in Valleverde
Chiesa Santa Giusta
Chiesa San Giovanni Evangelista
Chiesa di San Domenico
Chiesa di San Pietro
Santa Caterina D’Alessandria
Chiesa Sant’Antonio
Chiesa SS. Trinità
Santuario della Madonna delle Grazie
San Michele
Frati Capuccini
Santa Maria delle Grazie
Chiesa della Madonna del Mulino
Abitazione
Cattedrale Santa Maria Assunta
Mulino ad Acqua
Ex Chiesa di San Giuseppe dei Cappuccini
Chiesa San Demetrio
Chiesa di San Bernardino
Rameria
Chiesa di Santa Maria della Pietà
Mulini e svecciatoio
Chiesa di San Flaviano
San Panfilo
Chiesa di Sant’Andrea
San Nicola di Bari
Globale Strutturale Superficiale
-1,45
-1,31
-1,30
-1.28
-1.26
-1.26
-1,25
-1,20
-1.05
-1,04
-0,99
-0,96
-0,93
-0,92
-0,73
-0,68
-0,64
-0,61
-0,59
-0,54
-0,52
-0,51
-0,45
-0,39
-0,18
-0,16
-0,16
-0,16
-0,01
0,24
0,30
0,48
0,52
0,69
0,84
0,86
0,91
1,10
1,11
1,36
1,71
2,01
2,11
2,29
2,32
3,53
5,23
-0,68
-0,97
-0,86
-1,30
-1.23
-1,23
-0,47
-1,70
-0,32
-0,82
-0,10
-0,41
-1,23
-0,50
-0,87
-0,23
-0,92
-0,41
-0,33
-1,47
-1,11
-0,06
-0,19
-0,82
-1,23
-0,29
-1,23
-0,11
-0,63
-0,27
0,09
-0,12
2,37
1,92
-1,47
1,24
0,28
0,47
2,45
1,10
0,79
1,87
2,28
5,28
2,60
7,66
4,59
-1,52
-1,15
-1,75
-1,30
-1.45
-1,08
-1.20
-1,30
-0,99
-1,11
-1,32
-1,12
-1,48
-1,02
-0,18
-1,19
-0,58
-0,86
-0,61
-0,43
-1,10
-1,15
-0,72
-0,80
0.28
0,03
0,44
-0,47
0,50
0,70
-0,77
0,68
-0,25
0,16
0,33
0,88
1,42
1,09
0,66
0,88
0,37
-0,26
0,89
0,97
1,06
1,88
3,23
43
ISCR
Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
SEGRETARIATO GENERALE
Il Laboratorio Conservazione e Restauro dei Manufatti Tessili
Silvia Checchi*, Manuela Zarbà*
Il laboratorio di conservazione e restauro dei manufatti tessili è stato attivato nell’Istituto Superiore di Conservazione e Restauro (ex ICR) negli anni ’80, sotto la
guida della dott.ssa Rosalia Varoli Piazza, quando cominciò a definirsi l’urgenza
di indirizzare risorse anche in questo settore. Sin dall’inizio la metodologia del
laboratorio ha seguito gli orientamenti della teoria brandiana, ponendo sullo
stesso livello concettuale l’opera d’arte tessile con l’opera d’arte più tradizionalmente concepita (pittura, scultura, architettura). Dopo aver condotto significativi
passi avanti nel combinare le tradizioni del restauro sviluppate all’estero con
quelle più spiccatamente legate alla storia e al modus operandi dell’ICR, nel 2000
viene istituito il corso di formazione quadriennale per restauratori di manufatti
tessili, fondamentale per la diffusione della metodologia.
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
(ex ICR - Istituto Centrale
per il Restauro)
Direttore:
Caterina Bon Valsassina
Coordinatore per la
Comunicazione:
Patrizia Miracola
Piazza San Francesco di Paola, 9
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*ISCR
Servizio per i beni storico
artistici, Sezione D
Manufatti in cuoio
Manufatti in carta e pergamena
Materiali tessili: Laura
D’Agostino, Marica Mercalli
Laboratorio di chimica
Area C, Sezione C
Deterioramento, diagnostica
e interventi su cuoi, carta,
pergamena e tessili:
Marcella Ioele
Laboratorio di indagini
biologiche Area C
Sezione C3 – Caratterizzazione
materiali di origine biologica fibre tessili: Maria Rita Giuliani
Laboratorio di Restauro
Area G, Carta, pergamena,
tessili, cuoio, Sezione G3
Materiali tessili: Silvia Checchi
Manuela Zarbà
44
Dalla creazione del laboratorio ad oggi sono stati eseguiti interventi su importanti
opere - dal tessile archeologico a quello contemporaneo - che vedono un sinergico lavoro di diverse professionalità (storici, personale scientifico, restauratori)
fondato, come tradizione del nostro Istituto, sulla ricerca storica ed archivistica,
sulla conoscenza dei materiali costitutivi, sulla reversibilità delle operazioni e dei
materiali impiegati. L’atteggiamento di estremo rispetto per la storia delle opere
attraverso il tempo, tende a far sì che il restauro dei tessuti oggi si basi sempre
più sulla conservazione delle “evidenze storiche”, facendo attenzione ai segni
del tempo che l’opera tessile porta con sé. Per tale motivo nel laboratorio si
tende ad intervenire sugli oggetti con operazioni conservative e di presentazione
estetica orientate ai principi del minimo intervento, lavorando in équipe sul loro
contesto, sia nella conservazione in deposito che nell’esposizione in mostre o in
sedi museali.
L’attività didattica quadriennale si è inserita in quest’ottica metodologica svolgendo la pratica di laboratorio e di cantiere su opere singole, piccole raccolte
e collezioni, curando tutti i diversi aspetti della valorizzazione dei manufatti tessili
dall’inventariazione alla redazione di schede conservative, dalla conservazione
in deposito alla presentazione in museo, dall’intervento rigorosamente conservativo al restauro della forma. Numerose sono state le collaborazioni, con musei
e soprintendenze territoriali, che hanno permesso alle allieve di osservare realtà
locali e valutare diverse problematiche del nostro patrimonio tessile(1).
Nell’ambito delle attività didattiche il laboratorio coopera anche con istituzioni universitarie italiane e straniere nella formazione degli studenti in brevi periodi di stages.
Altre iniziative recenti volte al conseguimento degli obiettivi comuni a tutti i laboratori dell’ISCR, che comprendono la divulgazione della metodologia, sono state attuate in Italia e all’estero con interventi a convegni e seminari (Seoul “1st Korea-Italy
Symposium of Conservation and Restoration for Cultural Heritage” 2007, Gerusalemme “Updating seminars on archaelogical artefacts conservation and restoration”
2008, Belvedere S.Leucio (CE) “Seminario di studio sulla conservazione dei tessili an-
tichi” 2008, Roma “Sharing Conservation Decision” Iccrom 2005-2008), con lo studio
per i lessici conservativi e la realizzazione di schedature tecniche e conservative
(Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo; Roma Chiesa del Gesù, Casa “Giacomo
Balla”), con progetti per allestimenti museali e mostre (Castel Sant’Elia (VT) ex Oratorio di Sant’Anna; Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo e ex Chiesa di San Filippo
e Giacomo; Como, Fondazione Ratti; Desio (MI), Casa Natale Pio XI; Stato Città del
Vaticano, Braccio di Carlo Magno), con progetti e interventi di restauro (tessuti copti,
complementi di armature, arredi, paramenti liturgici).
Si segnalano i due principali progetti tuttora in corso e avviati alle fasi conclusive,
entrambi rivolti alla tipologia dei manufatti tessili di uso liturgico.
Il complesso degli interventi sui paramenti tessili medievali di Castel S. Elia, raccolta di
testimonianze storiche rare e significative (camici, dalmatiche, pianete, mitrie, calzari)
è iniziato nel 2000 ed è diretto dalla dott.ssa Marica Mercalli, di concerto con la competente Soprintendenza territoriale e le amministrazioni locali. Con una serie di fasi
successive si sta attuando un ampio e organico progetto di conoscenza, conservazione e restauro, tutela e valorizzazione di cui in questa sede si dà solamente un minimo cenno, in considerazione della complessità del tema e del rilevante numero di
professionalità coinvolte. Si è cercato di migliorare lo stato di conservazione delle
opere, ma anche di agevolare la trasmissione del messaggio culturale che questi preziosi beni racchiudono per un pubblico più vasto. Dopo un primo intervento di parziale bonifica ambientale del luogo di collocazione attuale(2) e un costante
monitoraggio delle condizioni termoigrometiche, si è resa irrinunciabile la ricerca di
spazi più ampi e idonei, soprattutto con il procedere degli interventi(3) e della valutazione puntuale degli stati conservativi. Le istanze della conservazione e quelle della
fruizione hanno portato alla ideazione di particolari strutture espositive sulle quali gli
oggetti in mostra possano essere idoneamente supportati e valorizzati anche nella
loro tridimensionalità(4). Le opere più fragili o in attesa di una futura esposizione saranno
collocate in piano dentro una grande cassettiera opportunamente progettata, in un ambiente di deposito con funzione di piccolo laboratorio per la manutenzione.
Nel 2003, dietro richiesta dell’Opera del Duomo, con il coordinamento della
dott.ssa Laura D’Agostino, è stato intrapreso il lavoro di analisi tecnico-conservativa
della raccolta di paramenti liturgici, appartenuti in massima parte ai vescovi orvietani
e sin dai tempi più remoti “curati” dall’Opera, in cui sono stati identificati e descritti
circa 250 oggetti tra paramentali completi o frammentari (piviali, pianete, tonacelle
e dalmatiche, stole, manipoli), copricapi vescovili (mitrie), parati d’arredo liturgico
(paliotti), paramenti da messa (veli da calice e borse per il corporale).
45
Lo studio si basa sulla lettura tecnica degli intrecci tessili e dei ricami, sulle confezioni
e le varie modifiche apportatevi nel corso degli anni, sullo stato conservativo. L’analisi
tecnico-critica e conservativa dei manufatti è stata resa possibile mediante la realizzazione di un nuovo inventario informatizzato che consente di procedere in maniera sistematica con la costante verifica della consistenza numerica degli oggetti e la loro
pertinenza a paramentali ben definiti. L’uso del database permette di effettuare comparazioni basate sui colori liturgici, sulle tipologie, sull’epoca e la manifattura.
Tale lavoro, seguito dall’ulteriore confronto con i dati ricavati dalle schede storico-artistiche potrà costituire un repertorio basilare per la documentazione, lo
studio e la corretta valorizzazione di tale peculiare, prezioso patrimonio che a
breve sarà oggetto di esposizione.
ICR – Scheda Orvieto
Cassettiera e cassetto
Inventariazione 2003/2006
Parato/Paramentale
Inv. Garzelli
N. Catalogo Generale
Oggetto
Materia
Tecnica
Colore
Provenienza
Manifattura ed epoca
Misure
Oggetti correlati
Specifica oggetti correlati
1
2
3
4
Roma, Palazzo Venezia –
Tessuti copti, Collezione
Tove Alm; Genova, Castello
D’Albertis – Collezione
etnografica e tessile; Imperia,
Comune – Complesso
presepiale; Roma,
Campidoglio– Stendardo di
San Giorgio, XIII sec.;Torino,
Villa della Regina- Arredi
I 22 paramenti erano stipati
in vecchie vetrine situate
all’interno della Casa del
custode del Santuario di
Santa Maria ad Rupes, appesi
su improvvisate stampelle
lignee.
La ricognizione sull’intero
insieme dei paramenti tenuto sempre in
considerazione che ciascuno
dei manufatti era al tempo
stesso un unicum e una parte
integrante del complesso dei
paramenti che ci è
pervenuto - ha fornito
elementi utili ai fini delle
scelte operate durante il
restauro. Dopo la rimozione
delle più macroscopiche
fonti potenziali di degrado si
è ricercata una presentazione
estetica e una armonia
dell’insieme
Gli aspetti legati alla fruizione
su supporto tridimensionale
sono attualmente oggetto di
studi e ricerche. L’ideazione
e la realizzazione del
supporto per il Piviale
cerimoniale di Pio XI rientra
in questo filone di attività.
Istituto organizzatore: Istituto
Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
46
B/4
B/4
5
n. 473
10/00061187
Pianeta
Bianco avorio
Italia (?), sec. XVIII/1754-62(*)
cm 112,5x76
2
Borsa B/2-a; stola B/2-b
Descrizione: Il paramentale si compone di una pianeta, una stola e una borsa ed è realizzato con un tessuto operato in
seta color avorio e filanti metallici. Sul fondo color avorio sono distribuiti rigogliosi elementi vegetali, quali
foglie, fiori di loto, melograni e grappoli d’uva, raccordati da esili racemi, che suggeriscono un lieve andamento
verticale. Sebbene l’ampio rapporto di disegno sia un indizio per la collocazione in un momento bizzarre,
insieme alla descrizione ancora fantasiosa dei motivi floreali si suggerisce tuttavia una datazione più avanzata
verso gli anni venti del secolo, rientrando nella tipologia definita dal Thornton “lussureggiante”.
Nella pianeta gli stoloni, la traversa e la profilatura dello scollo sono definiti da un gallone in filato metallico
mentre un gallone più basso ne profila interamente i bordi. Sul retro è applicato lo stemma del vescovo
Giacinto Silvestri. Esso è sormontato dal cappello vescovile, in seta verde, con i caratteristici sei fiocchi per
parte. Lo scudo, su fondo oro, è partito con una linea in seta di colore marrone scuro: nel campo di destra
è rappresentato uno scorpione in seta marrone scuro, in quello di sinistra sei gigli in seta celeste.
Nella stola il gallone più alto presente anche sulla pianeta definisce le tre croci e lungo il bordo inferiore
delle pale corre una frangia in filati metallici.
Lo stesso gallone lo si trova impiegato nella parte anteriore della borsa a formare la croce greca al centro
e lungo i bordi. Ai quattro angoli della borsa sono presenti i quattro fiocchi in filati metallici.
L’intero paramentale è foderato in taffetas giallo.
Note
(*) Datazione Garzelli, 1973
Restauro e manutenzione dei templi di Paestum
Giovanna De Palma
Sono trascorsi dieci anni dagli ultimi restauri sui tre Templi dorici di Paestum, avviati dopo un lungo iter di progettazione che ha preso le mosse nel lontano 1979
quando la Soprintendenza alle Antichità di Salerno, Avellino e Benevento, allarmata dallo stato di conservazione degli edifici, provvedeva alla chiusura dell’Athenaion e scriveva “di dover interessare della cosa anche l’Istituto Centrale
per il Restauro, per la necessaria consulenza per la scelta della più opportuna
metodologia di intervento”. Giovanni Urbani, allora Direttore dell’Istituto, rispose
accogliendo favorevolmente la richiesta e assicurando la disponibilità a prestare
ogni collaborazione per lo studio del problema conservativo dei templi, riguardo
soprattutto agli aspetti di propria specifica competenza ossia il deterioramento
dei materiali lapidei.
Si venne a concretizzare da quel momento un lavorare comune tra Soprintendenza e Istituto, con la partecipazione di Università e Istituti di ricerca italiani e
stranieri.
Un preliminare cantiere di studio attuato su una colonna del Tempio di Cerere
(1988), ha consentito di disporre di un prezioso punto di partenza per approfondire le metodologie da estendere all’architettura nel suo insieme, segnalando
la necessità di affinare sia i sistemi di pulitura che il trattamento delle mancanze.
Affinamenti che hanno dovuto affrontare anche problematiche quali la inevitabile
perdita di un’immagine consolidata del tempio allo stato di rudere. Proprio la rimozione dei biodeteriogeni ha permesso di recuperare il senso della configurazione architettonica dei Templi, sottraendola al senso di ruderizzazione che il
grigiore della pietra e la presenza di “erbe infestanti” finivano per accentuare. Insieme ai temi legati al degrado biologico è stato necessario affrontare le problematiche relative alla conservazione dei diversi materiali, tra cui particolare rilievo
ha assunto l’individuazione di criteri per la chiusura delle diffuse mancanze presenti su tutte le superfici. Superfici molto disomogenee - dovute alla struttura
stessa del travertino e al naturale degrado della pietra - che avevano raggiunto
una configurazione geometrica ben lontana dalla nitida volumetria originale.
Con la consapevolezza che gli interventi per rallentare il degrado dei materiali del
tempio avrebbero portato necessariamente a modificare l’immagine delle superfici, si è trattato di individuare il limite utile a non stravolgerne il significato, tenendo
ISCR
Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
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Conservazione ed il Restauro
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Caterina Bon Valsassina
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47
conto anche del disturbo visivo che la definizione formale del trattamento della
lacuna può introdurre sul volume di un’opera. Da una contrapposizione tra esigenze conservative e mantenimento dei segni lasciati sui paramenti da eventi di
cui si intendeva conservare memoria, si sono definiti i criteri di reintegrazione oltre
a poche ma essenziali linee guida per l’esecuzione delle stuccature.
Nel 2006, l’Istituto Centrale per il Restauro ha messo in atto un progetto che, a partire dalla valutazione della durabilità dei materiali e dell’efficacia dei trattamenti
realizzati con il restauro, consentisse di individuare e programmare gli interventi
manutentivi, mediante l’utilizzo di sistemi speditivi ed economici. Il gruppo di
lavoro, costituito per la fase di controllo ed elaborazione di tale progetto, ha
visto la presenza, accanto ai tecnici dell’Istituto Centrale di Restauro, dei restauratori dei consorzi - L’Officina e Nuova Conservazione - che avevano eseguito il
restauro dei templi. Archeologi, biologi, architetti, restauratori si sono ritrovati per
ripercorrere fasi ed esiti dei lavori effettuati con il restauro.
Nel corso della revisione del restauro sono state rilevate le problematiche conservative
più significative: suscettibilità al degrado biologico dei materiali costitutivi e di restauro
ed efficacia dei trattamenti antivegetativi; tenuta dei materiali, degli scialbi e degli strati
sottili su antichi risarcimenti in cemento; efficacia e durata dei trattamenti di consolidamento e protezione dell’arenaria, e del trattamento delle parti metalliche. Le osservazioni e le informazioni scaturite da tale monitoraggio sono confluite in uno “schema
di manutenzione”, che individua gli interventi conservativi necessari per i diversi elementi architettonici dei templi, definendone anche la tempistica, in relazione all’entità
delle alterazioni riscontrate.
Gruppo di lavoro ISCR:
Progettazione e Direzione
Lavori:
Gisella Capponi,
Giovanna De Palma,
Federica Di Cosimo
Indagini Biologiche:
Antonella Altieri,
Annamaria Pietrini, Sandra Ricci,
Ada Roccardi
Documentazione fotografica:
Paolo Piccioni, Edorardo Loliva
Istituto organizzatore:
Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
48
Conservazione e restauro per la valorizzazione
del patrimonio. Musei: Sistema WEB della Scheda
Ambientale
C. Cacace, E. Giani, A. Giovagnoli, L. Gordini, M. P. Nugari
La Scheda Ambientale informatizzata
L’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, sulla base di una decennale
esperienza fatta affiancando istituzioni museali su tutto il territorio italiano, ha accolto il suggerimento, presente nell’Atto di Indirizzo, di sviluppare una Scheda
Ambientale che individui caratteristiche, tempi e modalità per la raccolta di dati
relativi all’ambiente, al museo ed alla gestione. La Scheda Ambientale è stata sviluppata con l’intento di fornire uno strumento scientificamente rigoroso ma, al
tempo stesso, di facile gestione per il museo e che preveda un impegno economico contenuto.
Nelle esperienze ad oggi condotte è emerso che l’impiego della scheda, oltre
ad essere di grande utilità a formulare un giudizio complessivo di valutazione
circa le condizioni ambientali di sale espositive e depositi, basato su dati oggettivi, è di supporto ed integrazione per la raccolta delle informazioni richieste
nelle Schede di Prestito. La Scheda Ambientale è, dunque, anche un utile strumento per il controllo manufatto/ambiente in previsione del trasferimento di
opere, in particolare, se utilizzata parallelamente alla scheda conservativa del
manufatto, per la valutazione della compatibilità ambientale fra luogo di provenienza, condizioni e modalità di trasporto e luogo di esposizione temporanea.
Nel corso dello scorso anno è stata realizzata l’informatizzazione del tracciato
schedo grafico, realizzando un data entry web che permetterà l’utilizzazione, la
gestione e l’analisi dei dati via internet-intranet. Nella presente relazione verrà illustrato il sistema web realizzato ed il suo utilizzo.
La Banca Dati
In linea generale si deve distinguere tra due categorie di informazioni:
di carattere generale che individuano l’oggetto della schedatura, informazioni
Figura 1
ISCR
Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
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per il Restauro)
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www.iscr.beniculturali.it
Fig. 1 Relazioni tra le sezioni
della Scheda Ambientale
49
che potremo definire di tipo anagrafico e che sono comuni, come tipologia, a
tutte le schede. Si tratta di informazioni quali i DATI AMMINISTRATIVI, la DENOMINAZIONE e l’UBICAZIONE; di carattere storico, culturale e scientifico.
Il legame tra questa base dati e quella del sistema Carta Del Rischio (progetto
dell’ISCR) è realizzata tramite la parte “anagrafica” della scheda ambientale - EDIFICIO, in cui appare il campo codice ICR, che - se presenti - deve essere popolato con i dati di quel sistema. Al tempo stesso il sistema e la banca mantengono
la propria integrità anche nel caso in cui questo campo non sia popolato con i
dati della Carta Del Rischio.
Descrizione schematizzata del sito WEB scheda ambientale.
Fig. 2 Descrizione delle
funzionalità del sito
Figura 2
Il sito è destinato ad un utilizzo professionale e pertanto le impostazioni grafiche
e funzionali sono state improntate a questo scopo.
Il sito si presenta come visualizzato nella seguente scheda:
Fig. 3 Visualizzazione della
home del sito Web
Istituto organizzatore: Istituto
Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
50
Per uno studio della distribuzione dell’umidità
nelle strutture murarie. L’applicazione di una tecnica non
invasiva
Anna Maria Marinelli*, Barbara Provinciali*
Vengono qui presentati i dati relativi a due campagne di misura dell’umidità, effettuate attraverso l’NMR Unilaterale, sui dipinti di Pellegrino da Modena nella
Cappella Serra in San Giacomo degli Spagnoli e sulla Messa di San Clemente e
Storie di Sisinnio nella Basilica Inferiore di San Clemente, a Roma. Nel primo caso
la campagna di misura ha seguito un intervento di sbarramento orizzontale della
muratura, nel secondo ha avuto la finalità di monitorare la parete prima del taglio.
Sono in questo caso da tenere in considerazione le severe condizioni microclimatiche dell’ambiente, caratterizzate da alti livelli di umidità relativa (95-98%).
Il progetto nasce dalla collaborazione tra l’Istituto Superiore per la Conservazione
e il Restauro, ex Istituto Centrale per il Restauro, e l’Istituto di Metodologie Chimiche del CNR.
L’NMR Unilaterale è uno strumento completamente non invasivo e portatile in
grado di fornire informazioni diagnostiche su un’ampia gamma di materiali porosi
di interesse nel campo dei beni culturali. Con questa strumentazione si possono
eseguire misure direttamente sull’oggetto senza effettuare prelievi di campione,
quindi si tratta di una strumentazione particolarmente adatta per misure in situ.
La sonda di misura consiste di un piccolo magnete che genera un campo magnetico al di fuori del magnete stesso. A differenza delle tecniche NMR convenzionali, nell’ NMR unilaterale il magnete e la radiofrequenza vengono accostati al
campione da una parte sola, aggirando quindi completamente il problema delle
dimensioni e del campionamento dell’oggetto in esame. La misure possono essere effettuate sia in superficie che a varie profondità nell’oggetto in esame (fino
a 5 millimetri).
Questa strumentazione è risultata particolarmente idonea nella valutazione della
distribuzione dell’umidità nei dipinti murali. Si possono così creare delle mappe
con le quali visualizzare facilmente l’umidità nella parete dipinta. Utilizzando dei
provini di pittura murale, misurati sia secchi che imbibiti fino alla saturazione con
acqua, è possibile eseguire una taratura delle misure effettuate con NMR Unilaterale per valutare l’effettiva percentuale di umidità misurata nelle pareti in esame.
La Cappella Serra
È tra il 1997 e il 2003 che l’Istituto conduce lo studio ed il restauro del ciclo pittorico, realizzato tra il 1517 e il 1519 da Pellegrino da Modena, allievo “anziano”
di Raffaello alle Logge, sulle pareti della Cappella Serra in San Giacomo degli
Spagnoli a Romai. La chiesa, edificata lungo il lato di Piazza Navona parallelo a
Corso Rinascimento, è costruita su un complesso di locali sotterranei, parzialmente occupati da detriti e terra in parte derivanti dall’apertura, nel Ventennio,
di questo asse viario, che subirono già in tempi remoti ripetuti allagamenti: la
cripta situata al disotto della Cappella, areata da due griglie che si aprono nel
pavimento, è parte di questi ambienti ipogei. La fenomenologia del degrado
quale era visibile sui dipinti e sugli elementi lapidei della Cappella appariva direttamente riconducibile alla presenza di acqua nella struttura: per quantificarne
la presenza e tracciarne l’andamento all’interno delle murature e le possibili origini si dava avvio ai rilevamenti con strumentazioni a radiofrequenza ed in parallelo con analisi di laboratorio, attraverso il metodo ponderale e il dosaggio degli
anioni. Nelle aree maggiormente interessate o da risalita capillare o da infiltrazioni
provenienti dalla copertura i quantitativi d’acqua rilevati erano ingenti e si aggi-
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ed il Restauro
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ravano attorno ai 200- 300 litri per metro cubo. Gli estesi veli bianchi superficiali,
che testimoniavano di grandi movimenti d’acqua e di ripetute cristallizzazioni,
analizzati per diffrazione ai raggi X, e le analisi condotte sugli estratti solubili, evidenziavano una diffusa presenza di solfato di calcio negli sbiancamenti, mentre
nell’intonaco si rilevavano cloruri e nitrati in quantità elevate. Inoltre la presenza,
nella zona inferiore della parete, di una zoccolatura marmorea faceva sì che la ridotta porosità del materiale lapideo rendesse la superficie del dipinto sovrastante l’unica interfaccia di scambio dell’umidità di risalita con l’ambiente.
La valutazione dei risultati dei rilevamenti e delle indagini, e le osservazioni derivate dall’esame ravvicinato delle superfici mostravano come la distribuzione
dei sali solubili fosse tale da escludere ogni possibile estrazione, e determinavano la decisione di operare il rifacimento della copertura ed il taglio meccanico
e l’impermeabilizzazione orizzontale della parete sinistra della Cappella, interventi che si concludevano nel 2001. Nel 2002 l’Istituto interveniva sulla parete
destra e contestualmente effettuava un primo monitoraggio della parete tagliata,
con rilievo strumentale delle zone umide e prelievo di campioni di materiale,
dal quale si rilevava una generale diminuzione del contenuto d’acqua, soprattutto
in corrispondenza del fronte di risalita capillare.
Pur consci che tali verifiche fornivano soltanto un’indicazione evolutiva dell’igrometria delle strutture, non potendo quest’ultime aver smaltito così ingenti quantitativi d’acqua, nel 2003 iniziava il restauro dei dipinti della parete sinistra con
lo scopo primario di rimuovere i veli salini e tutti quei materiali di restauro sovrammessi che riducendo o comunque modificando la porosità superficiale, ostacolavano i normali cicli di interazione con l’ambiente, rallentando l’evaporazione
dell’acqua.
A conclusione di quest’ultima fase operativa, improntata al criterio di minimo intervento per le condizioni d’instabilità del sistema ma anche come scelta metodologica, riprendeva il monitoraggio di quanto era stato compiuto. L’utilizzo
della tecnica non invasiva dell’NMR Unilaterale posta a confronto con i metodi tradizionali di controllo forniva dati utili alla comprensione dell’evoluzione verso
condizioni di maggiore stabilità del manufatto e si collocava pienamente nel modello d’intervento che nella Cappella Serra si era tentato di costruire: un processo
in itinere che può comprendere una sua prima conclusione formale, che non
rappresenta tuttavia la fine del restauro, ma l’inizio della verifica di quanto realizzato. Il restauro è un momento di ricerca operativa e di studio, il risultato del
restauro è materia di altre e nuove ricerche.
L’NMR Unilaterale alla Cappella Serra
Per queste misure è stata utilizzata una sonda di superficie, quindi sensibile fino
al primo millimetro dell’affresco. Il segnale NMR è proporzionale alla quantità di
umidità presente nella muratura. Le misure NMR sono state eseguite su una matrice di punti scelta ad hoc, ogni punto è una area di 18x45mm2, che è l’area
della sonda NMR.
Per rappresentare i dati NMR è stato utilizzato un countour plot. In questa rappresentazione in x ed y sono riportate le aree dell’affresco misurato, mentre con un
gradiente di colore sono rappresentati i dati NMR. In questo modo il countour
plot è utilizzato per creare una mappa della distribuzione dell’umidità nell’affresco. Al colore rosso è associato un bassissimo contenuto di acqua, al colore blu
scuro è associato un elevato contenuto di acqua.
Per ottenere la misura precisa di umidità presente nell’affresco, è stata effettuata
una calibrazione con dei provini di affresco opportunamente preparati. Quattro
provini di affresco, costruiti con laterizio ed intonaco dello spessore di 5 mm,
sono stati portati a secco fino a peso costante (raccomandazione NORMAL
52
11/85). I provini secchi sono stati poi misurati con l’NMR unilaterale utilizzando
le stesse condizioni sperimentali e la stessa sonda di misura utilizzate alla Cappella Serra. Il segnale NMR registrato in questo caso è molto debole e rappresenta
il punto con zero umidità. Poi i provini sono stati saturati di acqua (raccomandazione NORMAL 11/85 ); anche in questo caso abbiamo pesato i provini fino a
peso costante e poi abbiamo eseguito la misura NMR, registrando, in questo
caso, un segnale molto intenso. In questo modo abbiamo effettuato una correlazione fra umidità ponderale e l’umidità registrata con l’NMR. In accordo a questa calibrazione dei dati NMR, il massimo segnale NMR registrato nel Monocromo
4 corrisponde al 16% di umidità, spostandosi al Riquadro 2 e 3 il massimo segnale NMR misurato corrisponde ad una umidità di circa 11%, mentre nel caso
del Riquadro l’umidità scende a circa il 4%.
La Basilica Inferiore di San Clemente
Il complesso monumentale di San Clemente a Roma, palinsesto di edifici di epoche differenti, è una struttura in parte ipogea. La Basilica paleocristiana già insisteva su strutture di età claudia o neroniana, sui resti di un edificio di tipo
horreario e su ambienti destinati alla pratica del culto di Mitra. Il suo apparato decorativo conserva, tra le altre cose, cicli pittorici altomedievali di considerevole
importanza, datati dall’VIII all’XI secolo. Durante i nove secoli di vita sotterranea,
il sistema monumentale ha vissuto in osmosi con il naturale aspetto idrogeologico
dello spazio che lo contiene, attraversato ancor oggi, da un fiume di una certa
portata idrica, e l’ambiente venutosi a creare al suo interno a seguito dell’interramento che ha fatto seguito alle trasformazioni e al riuso di cui le strutture sono
state nei secoli oggetto. Anche nelle fasi successive alla rimozione dei terrapieni,
a partire dalla metà del secolo XIX, con le campagne di scavo condotte da Mulloly, l’acqua, di risalita e di caduta, manifestandosi anche in elevati valori di UR,
ha continuato ad essere l’elemento determinante lo stato morfologico del manufatto. Ne è pertanto la principale causa di degrado: nutrimento per la microflora
autotrofa ed eterotrofa, è soprattutto il veicolo attraverso cui le specie saline transitano nella muratura e, al ciclico variare, con gli andamenti stagionali e in relazione all’afflusso massiccio dei visitatori, delle condizioni termo igrometriche, si
portano verso la superficie dipinta, dando luogo nelle loro fasi di cristallizzazione
e solubilizzazione a fenomeni riconoscibili come veli bianchi, decoesione della
pellicola pittorica e degli strati preparatori, o al peggio, disgregazione e perdita
della materia pittorica.
Dal 1994 l’Istituto ha condotto, nell’area della Basilica Inferiore, il monitoraggio di
alcuni parametri ambientali (T e UR dell’aria, Ts dei dipinti, V dell’aria, T e UR
esterne, andamento delle precipitazioni, intensità dell’illuminazione) e sta attualmente realizzando, sui dipinti della parete nord, la verifica sperimentale dell’efficacia di un consolidante a base di nano particelle di idrossido di calcio, mentre
sui dipinti della navata centrale con Storie di Sisinnio e di San Clemente ha recentemente portato a termine un controllo del contenuto d’acqua di superficie e di
profondità con la tecnica non invasiva dell’NMR Unilaterale.
L’NMR Unilaterale nella Basilica Inferiore di San Clemente
In questo caso l’NMR unilaterale è stato utilizzato per determinare la distribuzione
dell’umidità nel dipinto “La Messa di S. Clemente e storie di Sisinnio”. L’indagine
è stata eseguita utilizzando sia la sonda di misura di superficie, sensibilità fra 0 e
1mm, sia la sonda di misura ad una profondità di 5mm, sensibilità fra 4.5 e 5.5
mm. Lo scopo in questo caso è stato quello di determinare la distribuzione dell’umidità prima del taglio della muratura, che sarà eseguito per ridurre la risalita
capillare di umidità. Le misure sono state eseguite su una matrice di circa 50
53
punti. Il dipinto è stato monitorato fino ad una altezza di circa 160 cm da terra.
Come già riportato nel caso della Cappella Serra, i dati NMR sono mostrati come
countour plot, dove sul piano x, y è riportata la matrice dei punti analizzata e con il
gradiente di colore è riportata la variazione dell’area NMR misurata con lo strumento
portatile. Al colore rosso corrispondono aree con un basso segnale NMR, quindi una
bassa quantità di umidità, mentre al colore blu scuro corrispondono aree con un intenso segnale NMR e quindi con un’alta quantità di acqua.
La mappa ottenuta con la sonda di superficie mostra che l’umidità è presente in
varie zone, diffonde dal basso nella zona centrale, ma è poi presente anche in
zone più alte e laterali. La mappa ottenuta con la sonda con una profondità di
5mm è molto diversa. È importante ricordare che con la sonda a 5mm trascuriamo completamente il segnale della superficie e siamo sensibili fra 4.5 e 5.5
mm. In questa mappa l’umidità sale dal basso e diffonde verso il centro limitandosi alla parte più bassa dell’affresco. La parte superiore rimane piuttosto asciutta.
Questa diversità fra i risultati ottenuti fra la sonda di superficie e quella di profondità 5mm, può essere attribuita al fatto che in superficie sono presenti numerose
efflorescenze di sali igroscopici e alghe che contribuiscono all’umidità della superficie. Nella mappa ottenuta con la sonda 5mm, la superficie viene completamente trascurata e quindi viene monitorata essenzialmente l’umidità di risalita
capillare.
Prospettive di ricerca
L’utilità della tecnica dell’NMR Unilaterale consiste nella possibilità di visualizzazione delle misure effettuate, che elaborate da un software vengono espresse
sotto forma di mappe d’insieme del contenuto di umidità presente. Questo sistema di visualizzazione permette di cogliere, come nel caso di fenomeni di
umidità ascendente, l’andamento del fronte di risalita. Per poterne verificare le
potenzialità di utilizzo è necessario testare lo strumento su modelli precostituiti
di cui siano note e controllate le caratteristiche materiali e contemporaneamente
estendere le campagne di misura a casi reali di pittura murale differenziati per
materiali costitutivi e tecniche esecutive. Un ulteriore aspetto di verifica della
strumentazione riguarderà la casistica della pittura murale trasportata su supporti
sintetici per la valutazione dei dati di interferenza causati dall’igroscopicità di alcuni materiali di restauro e in una fase successiva potrà fornire indicazioni utili al
monitoraggio degli effetti di una pulitura con sistemi acquosi.
Per il restauro dei dipinti della
Cappella Serra: RUP Gisella
Capponi; D.L. Massimo Bonelli;
Direzione scientifica Paola
Santopadre e Marcella Ioele;
Direzione operativa: Anna Maria
Marinelli, Francesca Fumelli,
Barbara Provinciali - ISCR.
Per il restauro dei dipinti della
Basilica Inferiore di San
Clemente: RUP Francesco
Sacco; D.L. Giulia Tamanti;
Direzione scientifica: Pierluigi
Bianchetti, Maurizio
Coladonato, Fabio Talarico,
Paola Santopadre, Giancarlo
Sidoti, Elisabetta Giani, Anna
Maria Pietrini, Maria Pia Nugari;
Direzione operativa:
Barbara Provinciali, Anna Maria
Marinelli - ISCR.
Gruppo di lavoro CNR - Istituto
di metodologie chimiche, Area
della Ricerca di Roma:
Donatella Capitani, Noemi
Proietti, Valeria di Tullio, Mario
Gobbino.
54
Il restauro dell’Icona di S. Nicola del Museo Bizantino di
Nicosia a Cipro
Beatrice Provinciali*, Costanza Mora*, Albertina Soavi*
La grande Icona rappresentante San Nicola con scene agiografiche e donatori è
conservata dal 1967 nel Museo Bizantino della Fondazione Arcivescovo Makàrios
III di Nicosia.
L’iscrizione, dipinta in rosso sul fondo oro alle spalle del Santo, attesta che essa
proveniva dalla chiesa monastica bizantina di Agios Nikòlaos tis Stégis (San Nicola del Tetto) vicino a Kakopetrià a 50 chilometri da Nicosia, nella zona montuosa del Troodos.
Incerta è tuttora l’ubicazione originaria dell’Icona nella chiesa, decorata con affreschi che vanno dall’ XI al XVII secolo: si è ipotizzato che la tavola fosse sopra l’affresco bizantino del Santo che sormonta l’antico ingresso del diàkoninon, e che sia
stata rimossa durante la costruzione dell’iconostasi in legno post-bizantina.
L’opera fu realizzata da un artista cipriota tra la seconda metà del XIII e gli inizi
del XIV secolo in un periodo di grande interesse per la storia artistica del Mediterraneo orientale che vede da un lato la disgregazione dell’Impero Bizantino e
dall’altro contatti culturali più stretti tra Oriente e Occidente a seguito delle crociate e delle conseguenti implicazioni politiche ed economiche .
Dopo la caduta di Acri, capitale del regno latino di Gerusalemme dal 1244 al
1291, e in seguito al trasferimento della sua amministrazione latina nell’isola,
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Cipro emerse da un clima di relativa stagnazione assumendo un ruolo importante
nella produzione artistica. La committenza latina dell’Icona è testimoniata dalla
presenza dei donatori nella parte inferiore, un cavaliere crociato con indosso
l’armatura, affiancato a sinistra dal suo cavallo e a destra dalla moglie e dalla figlia,
dipinti in posizione inginocchiata come era consuetudine nelle opere occidentali, ma non identificati da iscrizioni. Il cavaliere indossa un’armatura con rappresentata un’aquila in rosso, lo stesso motivo araldico appare ancora due volte, nella
gualdrappa del suo cavallo e sullo scudo dipinto al di sopra.
La preziosa opera, è attualmente nel Laboratorio dei Dipinti su Tavola dell’ISCR (ex
ICR) ove è in via di completamento il restauro. I trattamenti eseguiti sono stati
messi a punto dopo un’attenta valutazione dello stato di conservazione dell’opera, basata su osservazioni visive e indagini scientifiche rivolte a individuare
le cause di degrado e conoscere la tecnica e i materiali costitutivi dell’Icona.
In particolare sono state eseguite: radiografia RX, riflettografia IR, indagini biologiche per il riconoscimento della specie lignea e dei materiali (tela e pergamena)
presenti come elementi di rinforzo tra il supporto e la preparazione, EDXRF, sezioni stratigrafiche ed analisi microchimiche, indagini meccaniche per lo studio
del comportamento reologico del supporto ligneo, indagine dendrocronologica
per la datazione del supporto, indagini fisiche sulle condizioni espositive e di trasporto dell’opera.
Il restauro e le indagini hanno fornito l’occasione per approfondire la tecnica di
esecuzione dell’Icona, peculiare per le sue grandi dimensioni (cm. 203x161),
per la tecnica di lavorazione del supporto - realizzato incavando sul davanti
parte dello spessore delle assi in modo da lasciare in rilievo le parti laterali con
gli episodi della vita di S. Nicola e l’aureola del Santo - per la presenza di pergamena e tela sull’intera superficie come elementi di rinforzo per ridurre gli effetti
dei movimenti del legno e ottenere una superficie piana su cui stendere la preparazione a gesso e colla, per le finiture a lamina metallica in oro e argento del
fondo e di altre parti con elementi anche in rilievo.
Lo stato di conservazione non buono era dovuto alla presenza di ampie lacune
localizzate soprattutto nella parte sinistra del dipinto che lasciano scoperte
ampie zone di pergamena, di abrasioni della pellicola pittorica diffuse sull’intera
superficie e di uno spesso e esteso strato scuro che alterava profondamente la
cromia originale; apparivano inoltre evidenti numerose reintegrazioni eseguite
con un tratteggio a tono e a tinta neutra piuttosto grossolano senza riproporre
alcuna ricostruzione formale. L’uso del tratteggio testimonia tuttavia l’intenzione
del restauratore di rendere riconoscibile la lacuna secondo i criteri teorici della
Teoria di Brandi acquisiti attraverso degli scambi culturali avvenuti in passato tra
ICR e conservatori ciprioti.
Il restauro attuale si è svolto secondo il normale protocollo operativo presso
l’ISCR: documentazione fotografica e grafica, disinfestazione del supporto ligneo
da insetti xilofagi mediante atmosfera controllata con azoto, consolidamento e
adesione dei distacchi della preparazione e della pellicola pittorica, pulitura,
stuccatura, reintegrazione e verniciatura finale.
L’operazione di pulitura si è rivelata particolarmente complessa a causa della durezza e diversità degli strati non originali e ha portato al recupero della brillantezza
e contrasto dei colori dell’opera, rendendo così leggibili alcuni dettagli prima non
riconoscibili, come ad esempio il motivo ondulato nei verdi sopra le iscrizioni in
greco delle singole scene e la campitura verde del piano di posa dei donatori.
La reintegrazione pittorica che serve a dare una unità di lettura dell’immagine originale è stata eseguita previa valutazione della reintegrabilità di alcune lacune
nel rispetto dell’istanza storica ed estetica. Alcune lacune reintegrabili per grandezza e localizzazione sono state stuccate e reintegrate con la tecnica del trat-
56
teggio realizzato per sovrapposizione sulla stuccatura bianca di brevi tratti verticali ad acquerello, fino ad arrivare ad una resa cromatica e formale simile a
quella dell’originale.
In particolare sono state reintegrate a tratteggio quelle lacune localizzate soprattutto nella figura centrale di S. Nicola - in considerazione del forte valore devozionale dell’opera - e reintegrate a tono piccole abrasioni e lacune di
preparazione; nelle scene laterali il tratteggio si è limitato a lacune di piccola entità mentre le abrasioni e la preparazione sono state reintegrate con abbassamento ottico tonale ad acquerello. A restauro concluso, in accordo con il Polo
Museale Romano e il Museo Bizantino di Nicosia, l’opera verrà esposta negli ambienti del Palazzo Venezia a Roma.
Gruppo di lavoro ISCR
Restauro: Beatrice Provinciali,
Costanza Mora, Albertina Soavi,
Domenico De Palo (Restauratori
conservatori) e allievi dell’ISCR
Indagini scientifiche:
Elisabetta Giani, Mauro Torre,
Fabio Aramini (Laboratorio
di fisica ISCR)
Fabio Talarico, Domenico Artioli
(Laboratorio di chimica ISCR)
Gianfranco Priori (Laboratorio di
biologia ISCR)
Maria Rita Giuliani (Laboratorio
di biologia ISCR)
Emanuela Romagnoli,
Mara Scarlatto (Università della
Tuscia- Viterbo)
Claudio Seccaroni, Bruno Maioli
(Enea)
Pier Andrea Mandò, Maria Elena
Fedi, LABEL INFN Sez. di
Firenze (carbonio 14)
Anna Di Maio (Istituto Centrale
per il restauro e la
conservazione del materiale
archivistico e librario)
Documentazione fotografica e
progetto grafico:
Angelo Rubino (ISCR)
Documentazione grafica: Maria
Antonietta Gorini (ISCR)
Direttore storico artistico:
Giuseppe Basile
Direttore del Museo Bizantino
di Nicosia: Janis Eliades
Con il contributo di Arthemisia
S.p.a.
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**Sopr. B.A.P. di Venezia
58
Venezia - Due interventi di monitoraggio ambientale:
Palazzo Labia, salone affrescato da Giambattista Tiepolo
(1746-7), Chiesa della Visitazione, soffitto ligneo dipinto del
XVI secolo
Carlo Cacace*, Daila Radeglia*, Paolo Scarpitti*, Amalia Donatella Basso**
Negli scorsi anni la Soprintendenza B.A.P. di Venezia ha richiesto la consulenza dell’ISCR per affrontare i complessi problemi conservativi di due importanti cicli decorativi di proprietà privata: gli affreschi di G. B. Tiepolo a Palazzo Labia, di proprietà
della RAI, e il soffitto ligneo dipinto da artista dell’Italia Centrale del XVI secolo (attribuito a P. P. Agabiti) della Chiesa della Visitazione, di proprietà dell’Ente Don Orione.
Pur trattandosi di opere di tecnica ed epoche diverse, i due cicli decorativi sono accomunati dal fatto di avere subito in un breve arco di tempo numerosi interventi di restauro a causa del ripresentarsi o dell’aggravarsi dei medesimi fattori di degrado. È
emersa quindi la necessità di affiancare alla campagna diagnostica prevista uno studio
microclimatico volto ad individuare la causa di un così rapido deterioramento. L’ISCR
ha messo a disposizione le sue risorse umane e strumentali per la progettazione della
campagna di rilevamento e l’interpretazione dei dati, fornendo la propria strumentazione. Le campagne microclimatiche di rilevamento ambientale sono state progettate
seguendo una prassi di lavoro ormai ampiamente collaudata e standardizzata da parte
della sezione Modelli microclimatici e Gestione dati del laboratorio di fisica e controlli
ambientali per caratterizzare il fenomeno di interazione “ambiente-manufatto” che
dal punto di vista metodologico sono di caso in caso progettate e realizzate ponendo
attenzione oltre che agli aspetti architettonici della struttura in esame anche alle opere
contenute proprio perché tutti i fenomeni di degrado sono conseguenza di variazioni
delle condizioni di equilibrio termoigrometrico tra l’oggetto e le caratteristiche dell’ambiente che lo contiene.
Il salone di Palazzo Labia ha le pareti lunghe costruite per metà in muratura, per
metà in legno, il che ha causato in passato gravi dissesti alle superfici affrescate
dal Tiepolo che le rivestono, proprio in corrispondenza con le principali scene
narrative dell’Incontro e del Banchetto di Cleopatra.
Sono stati installati nel mese di giugno 2008 un sensore di temperatura ed umidità
relativa all’esterno, all’interno sette sensori di temperatura ed umidità relativa in
aria e in prossimità delle parete e davanti ad una bocchetta di immissione dell’aria condizionata nella sala. Inoltre sono stati posizionati sette sensori di temperatura a contatto distribuiti sia sulla superficie della muratura dipinta che sui
pannelli lignei dipinti. Infine sono stati posizionati due anemometri a filo caldo
posti uno davanti alla bocchetta di immissione dell’aria e uno all’interno della
sala e un luxmetro posto sulla superficie di ingresso alla sala. Il monitoraggio microclimatico rileverà anche particolari condizioni di stress che si determineranno
all’interno della sala durante le giornate dedicate ad avvenimenti pubblici come
conferenze, concerti, ecc.
Nella chiesa della Visitazione sono stati installati nel mese di ottobre 2008 all’esterno un sensore di temperatura e umidità, e all’interno sette sensori di temperatura ed umidità relativa dell’aria, distribuiti lungo la muratura, in aria nella
chiesa, in aria nel sottotetto e in prossimità della cornice del soffitto a cassettoni
e cinque sensori di temperatura a contatto della superficie sia muraria che lignea.
I primi dati raccolti forniscono indicazioni di grande interesse che potranno essere pienamente valutate al termine della campagna di rilevamento, che avrà la
durata complessiva di almeno un anno, lo studio del microclima si pone la prospettiva di individuare:
- i flussi di energia termica tra ambiente e struttura
- i movimenti di acqua nei suoi stati di aggregazione
- le interferenze con le opere in esso conservate
Le analisi dell’indagine saranno utili nel momento in cui in cui si dovesse prendere in considerazione, per la chiesa della Visitazione, la necessità di creare una
ventilazione controllata e/o operare una schermatura/chiusura dei cassettoni nei
periodi invernali e nel caso della sala del Tiepolo una gestione diversa del sistema
di circolazione forzata dell’aria e, nel corso delle manifestazioni, un controllo
del numero dei visitatori e dei tempi di permanenza e per tutte le opportune
proposte per il recupero e la salvaguardia dei preziosi dipinti.
Nel corso dell’incontro tecnico saranno illustrate le problematiche specifiche dei
due interventi di monitoraggio ambientale, non escluse quelle talvolta ardue dei
rapporti con gli enti che gestiscono il bene, i progetti approntati, le modalità di
installazione dell’impianto e saranno illustrati i primi dati raccolti.
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*Sopr. B A. della Calabria
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Casignana. Villa romana di Palazzi di Casignana
Claudio Sabbione*
La contrada Palazzi nel Comune di Casignana è situata lungo la costa del mare
Ionio a circa 12 km a Sud dell’antica Locri, sulla via litoranea che la collegava a
Reggio, distante circa 80 km. Vari ruderi affioranti dal terreno mantennero la memoria di antiche, favolose costruzioni, da cui derivò il nome della contrada.
L’area è oggi attraversata dalla Strada Statale 106 Ionica e dalla ferrovia, ma solo negli
anni ’60 i lavori per un acquedotto, incontrando consistenti strutture di età imperiale
romana, indussero la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ad avviare i primi scavi, proseguiti negli anni ’80 mettendo in luce il settore termale di una
grande villa extraurbana, con ambienti dotati di pavimenti a mosaico e ad opus sectile. I lavori furono ripresi dal 1999 con finanziamenti del Comune di Casignana e
della Regione Calabria, che hanno consentito l’acquisizione dei terreni dell’area archeologica, nella prospettiva di valorizzazione del sito. I nuovi, estesi scavi hanno
messo in luce quasi completamente la parte residenziale e padronale della villa,
sorta probabilmente nel corso del I sec.d.C. in un’area con tracce di frequentazione
in età greca, e che raggiunse la massima estensione e ricchezza nel IV secolo, e fu
abbandonata nella prima metà del V secolo.
Accanto alla villa sono apparsi altri edifici non ancora esplorati estensivamente, e di
cui al momento non sono definibili estensione, funzioni, rapporti con l’edificio principale, intorno al quale si sviluppò un insediamento consistente: le tracce di superficie e i rinvenimenti fortuiti di strutture si estendono per oltre 500 metri,
probabilmente in rapporto alla strada costiera Locri-Reggio e a funzioni di appoggio
come stazione di posta. La vita dell’insediamento, con produzione di anfore destinate all’esportazione di derrate locali, probabilmente vino, continuò fino al VII secolo, quando, come in gran parte della Calabria ionica, la popolazione si spostò
dalle aree costiere verso le alture dell’interno più facilmente difendibili.
L’edificio della villa nella sua forma finale del IV secolo presenta un forma rettangolare allungata di circa m 50 x 100, articolata intorno a un cortile centrale intorno
al quale si distribuivano ambienti e nuclei con funzioni diverse; inoltre nel cortile
vi è una stretta vasca.
Il settore occidentale, a monte del cortile, è il nucleo più antico del complesso
(I-II sec.d.C.), che attraverso molte fasi costruttive si estese gradatamente verso
Est, e fu più volte trasformato fino all’attuale aspetto. Si trova qui il settore termale,
articolato su due percorsi indipendenti, entrambi dotati di ampi ambienti (frigidaria) con grandi vasche non riscaldate, tra cui una circolare del diametro di oltre
5 metri. Il frigidarium delle terme occidentali è una grande sala ottagona con ab-
sidi ai quattro angoli e copertura a volta; le pareti conservano resti del rivestimento di lastre di marmo, mentre la volta era sfavillante per il rivestimento di lastrine di paste vitree colorate. I tre piccoli ambienti riscaldati delle terme orientali
(pavimentati a lastre marmoree) e i tre ambienti delle terme occidentali (con pavimenti a mosaico), conservano lungo le pareti resti delle condutture in terracotta
(tubuli) per il riscaldamento, rivestite anch’esse di lastre di marmo. Una grande
sala con pavimento a mosaico si affaccia con una grande apertura sul portico
occidentale del cortile, in posizione di spicco nell’intero complesso.
Lungo il lato Sud del cortile vi è un porticato con notevoli mosaici; alle spalle, vi
sono ambienti di servizio, con le latrine.
Oggi tagliato dal percorso della Strada Statale 106, il settore orientale della villa,
a probabile carattere residenziale, si affaccia verso mare con un fronte porticato
compreso tra due avancorpi semicircolari anch’essi articolati da larghe aperture;
alle spalle, vi sono altri ambienti con pavimenti a mosaico, tra cui una grande
sala rettangolare con i busti delle stagioni e, in posizione centrale, una sala absidata con pianta cruciforme, pavimentata a mosaico e a lastre di marmo.
La ricchezza degli apparati decorativi delle pareti e dei pavimenti evidenzia l’alto
livello della villa di Palazzi, residenza per proprietari terrieri di grandi capacità
economiche e di presumibile eminente ruolo politico e amministrativo tra le élites
municipali locresi almeno dal II al IV secolo; i recenti scavi a Locri in edifici pubblici di età imperiale, e la presenza nel territorio di altre grandi ville di rilevante monumentalità, come quella del Naniglio a Gioiosa Ionica, richiamano l’attenzione
sull’importanza della città anche in età romana, poco studiata in passato.
I venti ambienti pavimentati a mosaico, di cui quattro figurati, e i quattro ambienti
ad opus sectile, per una superficie complessiva di oltre 500 metri quadrati, fanno
della villa di Palazzi di Casignana uno dei complessi più notevoli dell’Italia meridionale, a Sud dell’area vesuviana. I problemi di conservazione e di protezione
dei pavimenti, hanno indotto la Soprintendenza a richiedere fin dal 2000 la collaborazione e l’intervento dell’ Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che per i mosaici messi in luce negli anni ’80 ha curato indagini
diagnostiche e fornito indirizzi e coordinamento scientifico agli interventi conservativi eseguiti nel 2001-2003 con i fondi del Comune di Casignana. L’Istituto è
inoltre intervenuto direttamente nel settore a valle della SS 106, eseguendo il restauro del mosaico delle stagioni e curando la progettazione e la realizzazione
del sistema di copertura di tale settore della villa. Una diversa struttura di copertura del settore a monte della SS 106 è stato nel frattempo eseguita con fondi del
Comune.
Per l’apertura al pubblico dell’importante complesso, sono in corso contatti per
definire le modalità di gestione dell’area archeologica, con l’auspicata collaborazione fra la Soprintendenza, il Comune di Casignana e altri enti territoriali.
Il contributo dell’ISCR alla conservazione della villa romana di Casignana
Maria Concetta Laurenti (ISCR), Maria Grazia Flamini (ISCR)
La villa di Palazzi costituisce uno dei complessi monumentali più importanti di
epoca imperiale romana dell’Italia Meridionale e conserva il più vasto nucleo di
mosaici finora noto nella Calabria romana. La ricchezza della villa non è dimostrata
solo dai mosaici per cui è famosa, ma anche dai resti delle decorazioni parietali
marmoree e dipinte in parte ancora in situ.
La collaborazione dell’ISCR si inquadra in un ampio progetto di conservazione e
valorizzazione dei resti archeologici della villa romana promosso dalla Soprintendenza archeologica della Calabria e dal Comune di Casignana. A partire dal 2001
l’ISCR ha concretamente sviluppato una serie di attività di consulenza tecnico-
61
scientifica finalizzate alle problematiche conservative dei numerosi rivestimenti
decorativi pavimentali presenti nell’area, in particolare ha condotto due cantieri
didattici nel corso dei quali è stato restaurato il pavimento in mosaico policromo
con i busti delle Quattro Stagioni (ambiente B), e ha progettato e realizzato un
prototipo di copertura, pertinente al settore orientale della villa situato a est della
SS 106.
Lo studio del degrado, dei materiali costitutivi originari e delle caratteristiche ambientali del sito ha fornito le informazioni indispensabili per orientare le scelte e
definire gli interventi di restauro.
Per un approfondimento delle conoscenze ambientali del sito, a partire dal 2003
fino al 2005, è stata installata nell’area una centralina di monitoraggio microclimatico, i cui dati sono stati di grande utilità ai fini della progettazione della copertura
architettonica, finanziata con specifici fondi CIPE, che l’ISCR ha recentemente ultimato.
Lo scavo ha riportato alla luce, nel settore orientale della villa, una parte del complesso residenziale articolato in tre grandi nuclei di stanze affacciate su un lungo
corridoio, all’estremità del quale due grandi absidi formano verso il mare una facciata monumentale. Sette ambienti conservano le pavimentazioni musive sia policrome, che in bianco-nero, con motivi decorativi geometrici e figurati, dei quali
due, parzialmente tagliati dalla strada statale, sono stati scoperti in occasione dei
nuovi saggi di scavo. Attualmente il settore orientale copre una superficie complessiva di circa 900 mq. Tutte le superfici pavimentali sono state protette fin dallo scavo
con un sistema stratificato di rinterro temporaneo costituito da teli di geotessuto
(Terram 2000) e da strati di argilla espansa e ghiaietto, salvo il pavimento delle Quattro Stagioni, protetto con una tettoia temporanea a due falde.
Il restauro del mosaico delle Quattro Stagioni
Il mosaico delle Quattro stagioni è caratterizzato da una marcata deformazione
del piano pavimentale con cedimenti localizzati di notevole entità e conseguenti
estese perdite di porzioni del tessellato. Prima del restauro le tessere apparivano
degradate in modo differente in funzione della natura litologica: quelle nere e colorate, di composizione argillitica e scistosa maggiormente aggredite da fenomeni di decoesione e scagliatura; in migliori condizioni le tessere bianche di
natura carbonatica. Su tutte era presente un tenace deposito carbonatico di difficile rimozione. Le malte degli strati di preparazione (rudus e nucleus), non
molto compatti, con ridotta presenza di calcite legante e aggregati costituiti da
rocce metamorfiche locali, risultavano per lo più decoese in corrispondenza
delle lacune. Altrove, invece, la perdita del tessellato aveva esposto al degrado
il sottile strato di allettamento, recante l’impronta delle tessere e tracce di colore
delle sinopie, che proprio per questo doveva essere necessariamente preservato. Distacchi e vuoti caratterizzavano inoltre gli strati di preparazione.
In linea con la metodologia del minimo intervento, applicata in precedenti cantieri di restauro dei mosaici archeologici, il consolidamento dei materiali costitutivi originari - delle tessere e degli strati preparatori -, è stato effettuato in modo
puntuale con prodotti compatibili con i materiali originari, mantenendo le inevitabili deformazioni del piano pavimentale, nel pieno rispetto dei valori storici.
Le operazioni di consolidamento sono state accompagnate dalle operazioni di
pulitura effettuata con metodi meccanici e chimici, ma condotta tenendo conto
della situazione di contesto in cui si trovano inseriti i preziosi pavimenti musivi,
rimuovendo i prodotti del degrado e restituendo leggibilità al manufatto. Un
aspetto particolarmente problematico era rappresentato dal degrado del materiale costitutivo delle tessere che ha richiesto operazioni di consolidamento mediante l’applicazione di nuovi formulati quali le microemulsioni acriliche.
62
L’integrazione delle lacune è stata effettuata in modo diversificato, scegliendo
di lasciare a vista la malta di allettamento recante le impronte delle tessere e le
tracce di sinopie, previo consolidamento effettuato con impregnazioni di acqua
di calce, e altrove invece, seguendo la teoria del trattamento delle lacune, senza
reintegrare i motivi decorativi nel pieno rispetto dei valori filologici e materici.
La copertura del settore orientale dell’area
Sappiamo bene che gli interventi diretti sui manufatti non sono sufficienti da
soli a garantire la conservazione dei resti pavimentali scavati se non sono inseriti
in un progetto integrato di gestione dell’area archeologica che preveda anche
il ricorso a strumenti di conservazione passiva. Fra questi la realizzazione di coperture architettoniche di protezione appare indispensabile. La nuova copertura
progettata per il settore orientale si è avvalsa degli studi e delle sperimentazioni
condotte nel corso del progetto di ricerca sulle coperture delle aree archeologiche effettuato dall’ENEA e dall’ISCR, i cui risultati scientifici sono stati recentemente pubblicati.
Sull’argomento, oggetto di dibattito in sedi internazionali e nazionali, l’interesse
degli studiosi e dei responsabili dei siti è oggi assai vivo, ben consapevoli che
una struttura moderna introdotta in un’area archeologica modifica in modo sostanziale l’immagine del sito. Inoltre la funzionalità di queste installazioni, dal
punto di vista della loro efficacia nella conservazione dei resti da proteggere,
spesso non viene adeguatamente considerata o non sufficientemente approfondita nella fase di progettazione, privilegiandone invece l’aspetto formale ed
estetico.
La conoscenza degli aspetti ambientali, dei materiali costitutivi e del degrado è
quindi requisito fondamentale non solo per impostare il progetto di conservazione del sito in senso ampio, ma per fornire ai progettisti tutte le informazioni
necessarie alla progettazione di una copertura protettiva adeguata a quella particolare area archeologica.
Nell’area archeologica di Casignana, l’indagine microclimatica ha fornito i dati
utili ad orientare la progettazione e a definirne le priorità: la protezione dalla
pioggia, la ventilazione ottimale, tenendo conto della direzione dei venti prevalenti e della loro intensità, l’illuminazione naturale con limitazione dell’irraggiamento solare diretto, l’abbattimento dei fenomeni di condensazione e il
controllo dei fenomeni evaporativi dei pavimenti. Utilizzando un modello di simulazione dinamico, basato sull’impiego del codice Trnsys (a cura dell’ENEA),
i dati del microclima sono stati inoltre utilizzati per verificare, in fase di progettazione preliminare, le prestazioni delle soluzioni individuate e scegliere la più
soddisfacente.
Poiché il sito di Casignana è ancora oggetto di indagini, la copertura deve consentire eventuali future espansioni: per seguire l’ampliamento dell’area di scavo
63
Gruppo di Lavoro Restauro dei
Mosaici: C. D’Angelo, V. Massa,
D. Gennari, E. Anselmi (Lab.
Mosaici) L. Festa, F. Vischetti
(Lab. Materiali Lapidei),
S. Tagliacozzi, P. Piccioni
(Servizio Documentazione)
Diagnostica: A. Altieri, S. Ricci,
A. Pietrini (Lab. Indagini
Biologiche), P. Bianchetti,
C. Meucci, G. Sidoti (Lab.
Chimica e prove sui materiali),
C. Cacace (Lab. Indagini
Ambientali)
Gruppo di Lavoro Progetto
Copertura: M. G. Flamini,
C. Prosperi Porta, A. Burgarella,
S. De Vito (BCD Progetti),
M. Citterio (ENEA)
Ditte Esecutrici: S.E.I. di
G. De Monte (Roma), Impresa
Sviluppo Edile (Vibo Valentia),
A.T.I. (F. Mancinelli, D. Sauer,
C. Seghetta, A. Trovisi)
Istituto organizzatore: Istituto
Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
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è stato quindi necessario studiare un sistema costruttivo modulare, dotato di
flessibilità e semplicità esecutiva. La struttura portante è costituita da pilastri disposti secondo una maglia semiregolare adattata all’ampiezza degli ambienti e
delle superfici mosaicate; questi sostengono una griglia di travi reticolari su cui
è poggiata la copertura.
Nello sviluppo planimetrico il progetto è vincolato dalla presenza, sul lato ovest,
della SS 106 Ionica, situata circa un metro al di sopra del livello archeologico.
Lungo questo lato si è previsto un elemento forte di separazione, realizzato da
un setto in cemento armato che, oltre a costituire una difesa dal traffico stradale,
ha consentito l’irrigidimento della struttura, e un migliore comportamento in fase
sismica, senza ricorrere a fitti controventi in acciaio fra gli elementi portanti.
Sui restanti lati si è prevista, invece, una semplice schermatura costituita da una
membrana/tessuto, che consente un corretto scambio termo igrometrico con
l’ambiente esterno, sostenuta da una struttura metallica modulare facilmente
smontabile nel caso la copertura dovesse avere un ampliamento.
All’interno dell’area coperta non sono previste separazioni o schermature e pertanto si fruirà della vista di uno spazio unitario, privo di barriere fisse, serramenti
e elementi vetrati.
La forma e le caratteristiche tecniche della copertura sono state progettate con
l’obbiettivo di abbattere gli effetti dell’irraggiamento solare senza ricorrere a mezzi
tecnologici che necessitino di manutenzione e sorveglianza continua quali: condizionatori, deumidificatori, estrattori. A questo scopo è stato scelto il sistema del
tetto coibentato e ventilato, orientandosi verso prodotti industriali di facile reperibilità, e si è studiata l’altezza idonea a limitare l’impatto ambientale della copertura, senza pregiudicare un adeguato movimento delle masse d’aria al suo interno.
La configurazione adottata, “a successione di onde”, conferisce alla copertura un
carattere definito senza porre vincoli architettonici ad una futura estensione, che
potrà essere attuata aggiungendo altri settori/“onda”. La geometria delle falde è
stata studiata per facilitare la raccolta delle acque meteoriche senza ricorrere ad un
numero elevato di punti di raccolta che, in presenza di un basso livello manutentivo, potrebbe causare nel tempo problemi di dispersione e infiltrazione.
Il restauro dell’icona della Madonna Advocata
nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma
Giulia Tamanti, Costanza Mora, Beatrice Provinciale, Albertina Soavi
L’icona (cm. 82x51,5x2 ca.) raffigura la Vergine e apparteneva in origine alla basilica benedettina del IX secolo che occupava l’area del transetto della duecentesca fabbrica
francescana. Fu posta al centro del presbiterio della chiesa di Santa Maria in Aracoeli
con la costruzione dell’attuale coro nel 1565, quando fu rimossa dall’altare e trasferita
a Foligno la Madonna col Bambino di Raffaello (oggi nella Pinacoteca Vaticana).
La Vergine è rappresenta secondo il tipo iconografico greco della Hagiosoritissa,
Advocata nella trasposizione latina, in cui la Madonna è raffigurata a mezzo busto
senza il Bambino. Per molto tempo fu ritenuta il più antico esempio di questa tipologia iconografica nella pittura medievale romana e il prototipo del numeroso
gruppo di repliche della preiconoclasta icona dell’Advocata del Monasterium
Tempuli (oggi nel convento di Santa Maria del Rosario) che dal 1100 circa erano
custodite nei conventi di Roma (San Lorenzo in Damaso, Santi Bonifacio e Alessio, Sant’Angelo in Pescheria, Santa Maria in Via Lata, quella perduta di S. Ambrogio alla Massima e le icone oggi nella Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma e
nella collezione Magnani-Rocca a Parma). Ma la valenza di prototipo dipese soprattutto dalla grande visibilità che all’icona fu data a partire dall’insediamento dei
Francescani in Campidoglio nel 1250; in particolare nel Trecento quando, per il
ruolo preminente che l’immagine aveva assunto nella vita cittadina, venne costruita la scalinata di accesso alla basilica come tributo alla Vergine, alla quale
era stata attribuita nel 1346 la fine della peste.
La datazione della tavola oscilla fra il X e il XII secolo, ma un recente studio (D. Sgherri,
2006) la pone convincentemente al terzo quarto dell’XI sec. e ne conferma la priorità
rispetto alle immagini romane che ripropongono la medesima iconografia.
Intervento di restauro
Sebbene siano evidenti numerose ed estese ridipinture, poco documentati risultano i restauri ai quali il dipinto fu sottoposto. Del 1919 è un preventivo di Tito Venturini Papari su incarico dell’allora Soprintendenza alle Gallerie di Roma dal quale
risulta un intervento globale a partire dalla disinfestazione e dal risanamento del
supporto, fino al ripristino della doratura mancante. L’entità del restauro si desume
soltanto da una fotografia conservata presso l’ICCD datata al 1932-33.
Il primo intervento documentato fu curato nel 1938 sempre dalla Soprintendenza
alle Gallerie e pubblicato nello stesso anno da Emilio Lavagnino. Esso riveste particolare importanza per l’attenta analisi condotta dallo studioso, che ricostruisce
la storia conservativa del dipinto, non altrimenti nota. Risulterebbero originali soltanto il volto e la mano destra della Vergine, mentre ad un totale rifacimento del
XII secolo sembrerebbero appartenere le restanti parti dell’immagine; l’attuale
doratura viene, poi, riferita al XIV secolo.
Il recente intervento, condotto dall’ISCR con la partecipazione di alcuni allievi
della scuola di Alta Formazione, dopo una lunga campagna di indagini scientifiche volte a indagare la tecnica di esecuzione e le condizioni conservative del
dipinto, si è attualmente concluso.
L’icona era collocata in una nicchia della muratura nell’altare maggiore della basilica dell’Aracoeli entro una cassa lignea, rifinita al suo interno con carta dorata
e goffrata e posta a diretto contatto con la muratura. La cassa esterna era destinata
ad accogliere un secondo contenitore in legno (teca) ricavato dall’intaglio di una
unica spessa tavola in castagno chiusa sul retro ma lasciando a vista la superficie
dipinta dell’icona. I bordi della teca costituiscono un’ulteriore cornice e presentano una decorazione a punzoni su fondo dorato.
ISCR
Istituto Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
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Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro
(ex ICR - Istituto Centrale
per il Restauro)
Direttore:
Caterina Bon Valsassina
Coordinatore per la
Comunicazione:
Patrizia Miracola
Piazza San Francesco di Paola, 9
00184 Roma
Tel. 06 48896265
Fax 06 4815704
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www.iscr.beniculturali.it
65
Gruppo di lavoro ISCR:
Giulia Tamanti
(direzione dei lavori)
Domenico de Palo,
Costanza Mora,
Beatrice Provinciali,
Albertina Soavi,
(restauro e coordinamento
tecnico)
Giulia Pompa, Francesca Ricca,
Diana Venturini (allieve
del 59° corso ISCR)
Giulia Galotta
(indagine biologiche)
Elisabetta Giani
(indagini microclimatiche)
Fabio Talarico, Domenico Artioli
(EDXRF, analisi chimiche)
Maria Antonietta Gorini, Marina
Marchese, Sergio Tagliacozzi
(documentazione grafica)
Angelo Rubino
(documentazione fotografica)
Consulenti esterni:
Roberto Bellucci OPD
(rifletto rafia IR)
Pier Andrea Mandò,
Mariaelena Fedi LABEC INFN
sezione di Firenze (Carbonio
14)
Claudio Seccaroni ENEA
(indagine RX)
Roberto Saccuman
(restauro supporto ligneo)
Istituto organizzatore: Istituto
Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
66
Per eseguire il restauro, l’icona è stata rimossa dall’altare insieme ai due contenitori, che sono stati anch’essi restaurati perchè nel loro insieme rappresentano un
importante documento della storia del dipinto.
L’icona della Vergine, a tempera su fondo dorato e punzonato, è dipinta su un’unica
asse di faggio e presenta sul recto una cornice a doppio gradino ottenuta nello
spessore dell’asse assottigliando le sole parti a contatto con la cornice.
Il dipinto ha subito in antico un esteso attacco di insetti xilofagi rilevato in maniera
puntuale dall’indagine RX, e un intervento di parchettatura del tipo erroneamente
definito “alla fiorentina”, non più funzionale, che comportò l’assottigliamento del
supporto. Ciò ha reso il dipinto estremamente fragile e non più in grado di controllare le sollecitazioni meccaniche della tavola dovute alle variazioni termo igrometriche ambientali, con il conseguente formarsi di profonde fessurazioni, lacune
del legno e degli strati pittorici e sollevamenti della pellicola pittorica.
La superficie dipinta appariva alterata dalla presenza di vernici, ritocchi, residui
di colla e di cera, stuccature e dorature sovrammesse sul fondo oro che nell’insieme rendevano difficile la lettura dell’originale.
Dopo la disinfestazione mediante trattamento in atmosfera modificata, l’intervento è proseguito con il consolidamento degli strati pittorici e la rimozione della
parchettatura, che è stata sostituita con tre traverse dotate di elementi mobili
unite tra di loro da due longheroni posti lateralmente, in modo da assecondare
con un sistema a molle eventuali variazioni dimensionali del supporto.
La successiva fase di pulitura si è svolta per gradi con idonee miscele solventi applicate ad impacco e rifinita con mezzi meccanici, rimuovendo inizialmente la vernice superficiale e successivamente le materie sottostanti. In particolare sono stati
asportati i piccoli ritocchi sul volto e sul collo non rimossi completamente nell’intervento del 1938; sul polsino della mano destra la pulitura ha messo in luce alcuni
resti di colore e di doratura appartenenti alla stesura originale, e il bordo verde nascosto da una ridipintura nera ha riacquistato l’originale intonazione. Rimossi i ritocchi
scuri, si è recuperato sul manto il corretto andamento delle pieghe.
Con la reintegrazione pittorica ci si è proposti di restituire l’unità di lettura dell’immagine nel suo complesso. Le lacune di profondità, reintegrabili per dimensione e localizzazione, sono state stuccate e reintegrate con colori ad acquarello
con la tecnica a “tratteggio”, ossia per sovrapposizione sulla stuccatura bianca di
brevi tratti verticali, inizialmente di colore puro e poi di colori mescolati, fino ad
arrivare ad una resa cromatica e formale simile a quella dell’originale.
Antonio Canova “Il compianto della Contessa de Haro”.
Il restauro, una scoperta
Carla Zaccheo, Federica Cerasi, Tiziana Dell’Omo
Il manufatto è stato datato 1806, anno in cui fu commissionata all’artista la realizzazione di un monumento funebre per la figlia della Contessa morta prematuramente. L’opera è stata realizzata dipingendo, su un supporto tela, da una parte
il Compianto della Contessa de Haro (Fig.1) direttamente sulla tela, senza preparazione, con pigmento a biacca e calcite unite con legante ad olio e un pigmento
bruno per accentuare le ombre, dall’altro una serie di disegni preparatori raffiguranti scene di guerra e una Madonna con bambino (Fig.2). Le due scene appaiono non strettamente connesse una all’altra poiché hanno versi discordanti e
sono state concepite come degli studi per opere differenti.
Il manufatto presenta un grande interesse sia per la complessità dell’esecuzione, in
quanto sono stati utilizzati materiali frutto della sperimentazione molto attiva in quel
periodo, sia per la successione delle stesure pittoriche. Infatti originariamente il dipinto, eseguito su una tela grezza di fibra vegetale, doveva essere teso su un telaio
con la parte pigmentata di rosso come lato principale. Questo si evince da vari elementi: l’impressione dei regoli (Fig.3), deformazioni a festone lungo il perimetro del
dipinto, la preparazione rosa che si presenta schiacciata nella parte a contatto con il
regolo del telaio ed infine la campitura rossa appare non stesa sull’intera superficie.
Per comprendere la natura della preparazione e la successione dei vari strati, sono
state effettuate sia analisi chimiche(1), dalle quali emerge che questa è costituita da
biacca e da una piccola parte di ocra rossa e minio uniti da un legante proteico, e
sia indagini riflettografiche che hanno permesso di rilevare almeno una successione
di tre stesure successive. Dalle analisi all’infrarosso(2) emerge che sulla preparazione
rosa è steso un primo strato sul quale è rappresentata una donna in piedi con un
drappeggio quasi a figura intera (Fig.4) della quale però non è nota la natura del
pigmento e del legante utilizzato; il secondo strato con la pellicola pittorica rossobruno e disegni a grafite e come ultimo livello un disegno eseguito con pigmento
bianco forse rappresentante una figura in ginocchio con le mani alzate.
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L’ inaridimento della preparazione e gli stress meccanici subiti in restauri precedenti, hanno influenzato la perdita dell’adesione e di piccole scaglie degli strati,
in particolare lungo i bordi in prossimità di una lacerazione del supporto. Si ipotizza, dal colore chiaro della fibra, che questo sia stato provocato probabilmente
da un’errata distribuzione delle forze per il tensionamento sul nuovo telaio nel
restauro precedente.
L’intervento conservativo è stato eseguito rivolgendo maggiore attenzione al corretto tensionamento della tela e alla riadesione dello strato preparatorio al supporto. Si è proceduto quindi al risarcimento della lacerazione, delle lacune
lungo i bordi perimetrali e agli angoli in modo da avere una superficie omogenea
considerando l’intenzione di rinforzare i bordi con fasce perimetrali per poter
montare il dipinto sul nuovo telaio ad espansione continua.
Il consolidamento della pellicola pittorica e della preparazione è stato condizionato dalla presenza di uno strato di vernice composta da resine e oli invecchiati
sensibile all’azione di solventi organici. Infatti la solubilizzazione di questa
avrebbe causato la sua migrazione sul lato della tela a vista apportando delle
gore, considerando anche la presenza di strati pittorici su entrambi i lati.
È stata quindi testata la solubilità degli strati per scegliere il consolidante idoneo.
I solventi polari (acqua, alcool etilico e acqua in varie concentrazioni, acetone)
e apolari (etere di petrolio) sono stati applicati a tampone direttamente sulla pellicola pittorica in una zona marginale della tela.
Dai test eseguiti emerge che:
1. L’acqua demineralizzata e l’etere di petrolio 40°-60° sono utilizzabili e non
producono effetti indesiderati
2. I solventi con una più alta volatilità, nonostante l’interposizione di fogli di carta
giapponese sul verso, producono gore sul verso e sbiancamenti della pellicola pittorica
3. L’alcool etilico in miscela con acqua al 50% non produce effetti indesiderati
4. L’acetone è da escludere
Sono stati testati successivamente i seguenti consolidanti considerando il Pm, il
valore della Tg, nonché i requisiti di reversibilità, controllabilità e tossicità: vernice
alifatica(3), etere di cellulosa(4), resina etilvinilacetato(5).
La necessità di far penetrare il consolidante ed evitare un effetto filmogeno sulla
superficie hanno indirizzato la scelta verso l’etere di cellulosa che, per i suoi requisiti, penetra meglio nella superficie senza lasciare tracce.
1
2
3
4
5
Le analisi EDXRF, sezioni
stratigrafiche, micro-FTIR,
gas-cromatografia, sono
state eseguite dal dott. Fabio
Talarico dell’ISCR e dalla
dott.ssa
Francesca Bordignon
Le indagini riflettografiche IR
sono state eseguite dal dott.
Fabio Aramini e dal dott.
Mauro Torre dell’ISCR
Regalrez 1126+1094 al 20%
in etere di petrolio; Regalrez
1126 al 10% in etere di
petrolio
Klucel EXF Pharm al 1% e
3% in acqua e alcool etilico
Beva 371 original formula
Istituto organizzatore: Istituto
Superiore per la Conservazione
ed il Restauro
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OPD - Opificio delle Pietre Dure
Descrizione attività Nasce come istituto a competenza nazionale nel 1975 dall’unione di due diverse realtà attive da tempo nel campo della produzione artistica e della conservazione delle opere d’arte a Firenze: l’antico e rinomato
Opificio delle Pietre Dure, nato nel 1588 come manifattura di corte e trasformato
in istituto di restauro verso la fine dell’Ottocento, e il Laboratorio di restauro, sorto
all’interno della Soprintendenza nel 1932, grandemente poi sviluppatosi nella
nuova sede della Fortezza da Basso in seguito all’alluvione di Firenze del 1966.
Tre sono oggi i campi di attività dell’Opificio che rimane sostanzialmente caratterizzato dalla propria capacità operativa: la conservazione propriamente detta,
tramite i 12 Settori specialistici di restauro ed i circa 60 restauratori, eseguita in
forma diretta o indiretta, cioè con consulenze, progettazioni e direzioni dei lavori; la ricerca, sia pura sia soprattutto applicata ai casi in corso di restauro; la didattica tramite la Scuola di Alta Formazione e un’intensa attività di stage in
rapporto con analoghi istituti italiani e internazionali.
Divulga i risultati del proprio lavoro tramite la rivista annuale “OPD Restauro”, edita
dal 1986, con la collana “Problemi di conservazione e restauro”, che dal 1990 ha
già 25 volumi al suo attivo, ed altre pubblicazioni occasionali.
Realizzazioni Negli ultimi decenni sono stati condotti centinaia di restauri riguardanti alcune delle opere più significative dell’arte mondiale; tra gli interventi effettuati recentemente ricordiamo il restauro di quattro sculture di Arnolfo per
l’antica facciata della basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze, il complesso
delle oreficerie trafugate nell’Ottocento dalla Real Galleria di Palermo, il capitello
bronzeo proveniente dal Pulpito di Donatello del Duomo di Prato, la statua marmorea del Geremia di Donatello già sul Campanile di Giotto a Firenze, la Madonna
del Cardellino di Raffaello dalla Galleria degli Uffizi, una Madonna in Terracotta dipinta attribuita a Brunelleschi, dal vescovado di Fiesole (Fi), il busto reliquiario di
Sant’Orsola dalla Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino (Ar).
Tuttora in corso di restauro sono le pitture murali, opera di Agnolo Gaddi, circa
1.000 mq di superficie, della Cappella Maggiore della Basilica di Santa Croce a
Firenze, i circa 280 disegni del Codice Resta della Biblioteca Ambrosiana di Milano, la coperta Guicciardini dal Museo del Bargello e il Paliotto fiorito dalla chiesa
di Santa Maria Novella a Firenze, il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico dal
Museo di San Marco a Firenze, la Croce dipinta di Giotto dalla chiesa di Ognissanti a Firenze, la Pala di San Zeno del Mantegna, la Bella di Tiziano dalla Galleria
Palatina, un mosaico pavimentale romano dal Museo Nazionale di Villa Guinigi a
Lucca.
Stanno per giungere a conclusione i lunghi e laboriosi restauri degli Arazzi della
Sala dei Duecento in Palazzo Vecchio e quello, particolarmente complesso, agli
elementi decorativi dei battenti della Porta del Paradiso del Battistero di San Giovanni a Firenze.
OPD
Opificio delle Pietre Dure
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
OPD - Opificio
delle Pietre Dure
Soprintendente:
Isabella Lapi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Fabio Bertelli
Via degli Alfani, 78
50121 Firenze
Tel. 055 26511
Fax 055 287123
Anno di fondazione 1588
69
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L’Opificio delle Pietre dure tra soppressione e autonomia.
Riflessioni in prossimità di un congedo
Bruno Santi
Il ventesimo numero di “OPD restauro” - una serie mai interrotta, anche nella girandola delle riforme ministeriali, che hanno visto dal 2001 a oggi il cambiamento (che
forse si pensava desse maggiore funzionalità all’amministrazione, e invece si è rivelato un obiettivo ostacolo e un indiscutibile appesantimento della sua operatività), di competenze, di denominazioni, di strutture centrali e periferiche dei beni
culturali – che conferma costantemente con la pubblicazione la validità della comunicazione dei risultati ottenuti nel tempo dall’istituto fiorentino, grazie all’impegno fruttuosamente aggiunto all’ordinaria attività operativa di tutto il suo personale,
coincide in maniera singolare con l’emanazione del nuovo regolamento sull’autonomia finanziaria e gestionale assegnata all’Opificio con il decreto ministeriale del
7 ottobre 2008, che dovrebbe consentirgli una maggiore agilità sia nella sua attività
sia nei rapporti con enti, istituzioni, persone giuridiche pubbliche e private.
Il regolamento – novissimo – chiude definitivamente la vicenda di una proposta
(nata anch’essa in àmbito ministeriale) che avrebbe visto l’Opificio chiudere inopinatamente la sua caratteristica di organo operativo autonomo nell’àmbito del
Ministero per i beni e le attività culturali, per divenire una filiale dell’Istituto centrale del Restauro di Roma, obliterando così non solo una caratteristica peculiare
datata da secoli, ma anche una originale concezione delle metodologie del restauro, ormai irrinunziabile patrimonio dell’istituto che ha visto saldare la sua tradizionale attività operativa sul materiale lapìdeo con l’impostazione
metodologica del restauro della scuola fiorentina, scaturita dall’esperienza maturata nel Gabinetto dei restauri dell’allora Soprintendenza alle Gallerie e alle
Opere d’Arte, che dagli anni trenta del secolo da poco trascorso, ha visto operare teoricamente e nella pratica, maestri come Ugo Procacci, Umberto Baldini
con i loro restauratori, e – conseguentemente - alla guida dell’istituto sorto dall’unione dei due laboratori, i loro successori quali Margherita Moriondo, Anna
Forlani (a cui si deve l’assenso all’iniziativa e la prima pubblicazione di questa rivista), Antonio Paolucci, Giorgio Bonsanti e Cristina Acidini.
Dall’impegno costante del personale e grazie ai contatti con i principali centri
(nazionali e internazionali) di ricerca scientifica nel settore della conservazione
del patrimonio artistico, l’Opificio ha visto consolidarsi così la sua notorietà, divenendo un punto di riferimento di grande rilievo, autorità e prestigio, organizzando e partecipando a convegni (l’ultimo dei quali si è svolto proprio nello
scorso gennaio, in collaborazione col Kunsthistorisches Institut di Firenze e ha
interessato la tecnica della pittura su tavola del dodicesimo secolo, particolarmente frequentata dai laboratori di restauro dell’Opificio con gl’interventi sulla
croce dipinta di Sarzana, su quella di Giotto in Santa Maria Novella, sulla Madonna di Santa Maria Maggiore di Firenze, sulla Croce di Rosano, sul “paliotto” di
san Zanobi, solo per elencare gl’interventi più significanti, per non parlare di altre
opere appartenenti a un secolo bensì successivo – come le croci dipinte di
Ognissanti e di San Marco – ma che tuttavia rientrano nei primi secoli dell’arte fiorentina), prestando consulenze sia nel campo operativo sia in quello climatologico, stringendo accordi e convenzioni con enti, istituzioni, uffici di tutela e
istituti specializzati, organizzando mostre di opere d’arte restaurate e rivelando
talvolta anche resultati inaspettati nella prospettiva storico-critica.
Ecco quindi la realtà operativa che si voleva declassare a sede staccata dell’Istituto centrale del restauro (ora superiore, dal momento che l’Opificio è stato definito istituto centrale del Ministero, cambiando così le etichette ma restando
invariato il contenuto: altro segnale di formalismo e di superficialità che pare coin-
volgere chi è addetto alle riforme istituzionali e che si aggiunge ai tanti che vedono
il nostro Paese coinvolto in una decadenza etica e d’immagine davvero preoccupante e – a quanto pare – difficilmente reversibile): un organismo tra i più attivi nel
settore della conservazione dei beni culturali che grazie alla ricerca (il Laboratorio
scientifico dell’Opificio ha assunto ormai una notorietà di vasto raggio, nonostante
le condizioni precarie in cui si trova ad agire), al rigore metodologico, alla messa
a punto dei più adeguati strumenti d’intervento sulle opere d’arte, ha potuto conseguire risultati di indubbio rilievo e, soprattutto, di profonda conoscenza della
materia da affrontare.Cito a questo proposito l’indiscutibile attenzione che ha ricevuto anche nel vasto pubblico il restauro della Madonna “del cardellino” di Raffaello, esposta in palazzo Medici Riccardi grazie a una convenzione con la Provincia
di Firenze (altro fruttuoso atto che ha favorito gli eventi espositivi dell’istituto che
non potevano aver collocazione al suo interno), citata fino al punto di diventare
quasi ingombrante, ma che invece è potuta servire da esempio di metodo, coinvolgendo nell’intervento tutte le componenti dell’istituto e riuscendo anche a dare
indicazioni di carattere storico-artistico, grazie alla stretta collaborazione con la
Soprintendenza speciale per il Polo museale fiorentino.
Rammento – se ce ne fosse bisogno – e citandoli un po’ rapsodicamente, altri interventi di grande rilievo, che hanno interessato un po’ tutti i settori dell’Opificio:
la continuazione del restauro alla Porta “del Paradiso”, che continuerà a esser diretto da Anna Maria Giusti, ineccepibile ed efficace organizzatrice del progetto
generale (uno degl’interventi più lunghi e complessi, anche per le soluzioni trovate per la sua definitiva sistemazione, condivise da consulenze scientifiche di
alta professionalità ed esperienza), che vedrà la sua conclusione proprio nell’anno corrente; il cantiere di Santa Croce con gli affreschi di Agnolo Gaddi, che
ha ricevuto – a conferma della rilevanza internazionale dell’attività dell’Opificio
– il supporto finanziario dell’Università giapponese di Kanazawa, e quello nelle
sale di Palazzo Pitti; eppoi il recupero conservativo e cromatico di una raffinata
Madonna col Bambino in terracotta dipinta, per cui è stato fatto il nome prestigioso di Brunelleschi scultore e a cui non solo si è accompagnata una piccola ancorché esauriente pubblicazione, ma si è anche curata un’esposizione nei locali
del museo della sede storica dell’Opificio; quindi il complesso intervento sulla
Pala di San Zeno del Mantegna, uno dei capisaldi della pittura italiana del Rinascimento; il costante impegno sugli arazzi di Palazzo vecchio e su altre cospicue
testimonianze di arte tessile; il novissimo arrivo del Crocifisso brunelleschiano di
Santa Maria Novella; gl’interventi sull’altare d’argento di San Giovanni battista del
Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore e sul Reliquiario aretino di san Donato
(anch’esso un attestato chef-d’oeuvre dell’oreficeria medievale) nell’omonimo
Settore dell’istituto. E le mostre: curate direttamente da funzionarî dell’Opificio,
come da costante tradizione: “Leonardo e Raffaello, per esempio…”, con Cecilia
Frosinini del Settore Materiali cartacei; “Caterina e Maria de’ Medici: donne al potere”, ineccepibilmente ordinata da Clarice Innocenti direttrice del Settore Arazzi
e Oreficerie. Senza parlare poi della già frequentatissima esposizione della Madonna “del cardellino” insieme con altre opere dei Musei statali fiorentini, organizzata da Marco Ciatti con la Direzione della Galleria degli Uffizî.
Mi fermo qui, avvertendo che numerose altre operazioni – di indubbia rilevanza
e cospicuità di metodo e di valenza storico-artistica – sono tuttavia in atto nei laboratorî dell’istituto, dispensandomi dal riferire in questa occasione ulteriori nomi
di direttori di lavoro e operatori, poiché li troveremo citati nei resoconti di questo
numero della rivista.
A questo proposito, il contenuto di questo ventesimo numero – come di consueto - offre una pressoché completa disamina dei lavori, delle considerazioni
metodologiche, delle indagini scientifiche eseguite in tempi recenti in pressoché
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tutti i settori, servizî e laboratorî dell’Opificio, e spazia sugli interventi più significativi eseguiti o in corso, completando così quella provvisoria e un forse un po’
dispersiva enumerazione che io ho cercato di fare poco sopra a queste righe.
Un difficile recupero è stato senza dubbio quello sui dipinti “a succo d’erba” di
palazzo Chigi Zondadari di San Quirico d’Orcia, su cui dànno le fondamentali
considerazioni gli autori del progetto, ossia Marco Ciatti, Oriana Sartiani, Luciano
Sostegni, Carlo Lalli, Susanna Conti (e da questi nomi e professionalità si comprende l’integrazione di conoscenze ed esperienze di varî settori dell’Opificio).
Il laboratorio delle “Terrecotte” con Laura Speranza, Akiko Nishimura e Rosanna Moradei
dèdica attenzione alle problematiche del restauro della Madonna policromata che
possiede la grande suggestione del riferimento a Filippo Brunelleschi e a cui si è accennato in precedenza. Ancora a Mattia Mercante e a Francesca Kumar si devono le
osservazioni sull’applicazione del rilievo a tre dimensioni che ha interessato le sculture
in terracotta trattata a finto bronzo delle Fatiche d’Ercole provenienti dal Museo nazionale del Bargello. Nello stesso àmbito Shirin Afra, Laura Speranza e Francesca Kumar
offrono le considerazioni su un’altra statua in terracotta policromata raffigurante la Madonna col Bambino e proveniente dalla chiesa di San Francesco a Citerna.
Di un inconsueto manufatto ottocentesco in cera del Museo fiorentino di Anatomia
patologica, che riproduce l’impressionante aspetto di un bambino idrocefalico, si
occupano Chiara Gabbriellini, Francesca Rossi, Gabriella Nesi e Laura Speranza
Susanna Conti e Annette Keller si soffermano sulle indagini ottiche per la conoscenza del colore sui manufatti tèssili antichi, laddove da Marco Ciatti e Francesca
Martusciello provengono le necessarie indicazioni su una coppia di tele di due
pittori che furono anche restauratori nella Firenze settecentesca, ossia Agostino
Veracini e Ignazio Hugford. Diane Kunzelman dèdica le sue indagini alla natura
dei “pigmenti bianchi”.
Anche il Settore Lapidei offre qui i suoi contributi con una relazione di Isidoro
Castello sul cantiere di restauro alle statue del Giardino di Boboli, e alla difficoltà
di un intervento en plein air.
Nella sezione della rivista dedicata alle ricerche nell’Archivio storico, è Alessandra Griffo che compie una ricognizione sulle osservazioni per il restauro dei mosaici stilate nel periodo tardoottocentesco dal direttore dell’Opificio Edoardo
Marchionni. In questo àmbito è seguita da Maurizio Martinelli che illustra la cronaca di un intervento per così dire “dimenticato”, ossia quello sui pannelli in
opus sectile della basilica romana di Giunio Basso.
E Giancarlo Buzzanca, esperto informatico dell’istituto, lancia un suggestivo ballon d’essai su una futura materia di dibattito sulla conservazione e il restauro dei
materiali (o forse immateriali?) in uso nei tempi attuali: ossia l’eventuale possibilità
di restaurare i bytes.
Accennavo sopra alla mostra “Leonardo e Raffaello, per esempio…”, che ha coinvolto il Settore Materiale cartaceo. In questa sede appare un saggio di Simona
Calza, Cecilia Frosinini e Francesca Valli sul metodo di Francesco Hayez nel produrre i suoi lavori, e in particolare l’attenzione si sofferma su uno dei più famosi
dipinti (e disegni, ovviamente) dell’artista milanese, quale il Sansone e il leone.
Da Francesco Bandini, Alberto Felici, Paola Ilaria Mariotti, Roberto Olmi e Cristiano
Riminesi si ottengono dati relativi alla metodologia di estrazione dei sali e la considerazione per il controllo con dielettrometria a microonde su una piccola ma
in qualche modo originale testimonianza di frescante dell’Allori in Palazzo Pitti,
ossia la loggetta che prende il suo nome.
Non mancano i contributi di allievi già diplomatisi nella Scuola di restauro dell’Opificio
(che attende ancora, nonostante gli annosi incontri, le riunioni, le proposte di un defatigante itinerario normativo, un regolamento definitivo, dimostrando così ancora una
volta come i responsabili delle norme legislative di questo Paese non perdano occa-
72
sione di complicarle anziché semplificarle, con le resultanze di una loro difficile applicazione e la conseguente perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni), come
quello di Chiara Valcèpina e di Sveta Gennai, del Settore Bronzi, che illustrano l’intervento su un capolavoro della scultura quattrocentesca fiorentina: il capitello donatelliano (esposto tra l’altro in anteprima in una mostra a Budapest dedicata al Rinascimento
fiorentino) del pulpito esterno del duomo di Prato.
A Maria Cristina Gigli e Martina Freschi del Settore Sculture lignee si debbono le
considerazioni sul San Sebastiano di scuola quattrocentesca abruzzese; in questo stesso àmbito è Maria Donata Mazzoni che si applica alle considerazioni su
una scultura genovese seicentesca, soffermandosi sulla tecnica costruttiva del
suo autore, ossia Filippo Parodi. Ancora nel medesimo settore, Peter Stiberc e Yasushi Okada confrontano le tecniche di assemblaggio tra le sculture lignee in
Giappone e in Italia tra i secoli XI e XVI.
Concludono opportunamente i contributi a questo folto ventesimo numero della
rivista, Perla Roselli e Rebecca Giulietti, che registrano accuratamente l’attività
dell’Opificio nel biennio 2007-2008, mentre il Notiziario interno comprende le
considerazioni sul restauro della Madonna “del cardellino” dovute a Marco Ciatti
e Patrizia Riitano, l’esperta e attentissima esecutrice dell’intervento che ha ottenuto tanta curiosità e risonanza; quelle di Mariarosa Lanfranchi sul grandioso cantiere di restauro alla Leggenda della vera croce di Agnolo Gaddi nel coro di Santa
Croce; di Giancarlo Buzzanca su un indispensabile strumento di aggiornamento
e informazione quale il nuovo sito web dell’Opificio, di cui egli stesso è stato
l’autore; di Letizia Montalbano sul corso per restauratori sul materiale fotografico,
in cui l’Opificio ha un ruolo specifico in collaborazione con la Fondazione Alinari,
e infine di Maria Donata Mazzoni sulla donazione di alcuni oggetti appartenenti
all’autorevole restauratore Otto Vermehren offerti dal suo erede all’istituto in occasione dell’anniversario della nascita.
L’articolato contenuto del presente numero di “OPD restauro” (e un riconoscimento davvero sentito va ai redattori dei testi - tra cui mi si permetta di rammentare
l’instancabile Fabio Bertelli - che assolvono costantemente un cómpito tutt’altro
che agevole nell’organizzare il menabò della pubblicazione) attesta compiutamente la gamma delle attività di operatività e ricerca presente nell’istituto.
Un particolare ringraziamento alla Cassa di Risparmio di Prato, che con il suo supporto finanziario consente meritoriamente la costante e continuativa pubblicazione di questa rivista.
Vorrei infine approfittare dello spazio che mi è stato concesso per ringraziare
con particolari sincerità, calore e stima tutto il personale dell’Opificio, che nel
breve periodo della mia permanenza, ha saputo darmi un indispensabile supporto di conoscenza delle caratteristiche dell’attività dell’istituto. Comprendo
nei doverosi ringraziamenti i colleghi che nel frattempo hanno cambiato sede e
coloro che lasceranno definitivamente il servizio privando così l’istituto dove
hanno operato a lungo, di un’inestimabile esperienza in un auspicabile passaggio
di consegne tra vecchie e nuove generazioni di restauratori che a causa del
blocco delle assunzioni in questo settore dei Beni culturali viene per ora negata.
Così come desidererei davvero auspicare per questo prestigioso testimone attraverso
il tempo di una genialità fiorentina ormai quasi del tutto trascurata o scomparsa nei settori produttivi della nostra città, un futuro meno denso d’incognite di questo incerto
presente, e confermare nel momento del congedo a tutti coloro con cui ho avuto il
privilegio di collaborare, un stima profonda e un commosso saluto.
73
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Opificio delle Pietre Dure
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Il progetto di conservazione della Madonna del Cardellino
Marco Ciatti
Quando i colleghi della Galleria degli Uffizi ci richiesero di affrontare il difficile caso
della Madonna del Cardellino, non iniziammo immediatamente a mettere a punto un
progetto di intervento, in quanto le celebri e disgraziate vicende conservative dell’opera
potevano mettere in discussione l’opportunità di un restauro. Infatti vi era il rischio che
la pulitura potesse mettere in eccessiva evidenza i gravi danni subiti e la parziale frammentarietà del dipinto, in sostanza peggiorando la possibilità di fruire dei valori espressivi di questo capolavoro. Per questo si è indirizzato il progetto di ricerca, che
contraddistingue metodologicamente l’impostazione dell’OPD, per poter valutare l’opportunità o meno di un intervento di restauro che fosse in grado di conseguire il necessario duplice risultato di far proseguire nel tempo la vita dei materiali costitutivi,
alterandoli il meno possibile, e di consentire la corretta lettura dei significati presenti
nell’opera. Soprattutto era necessario comprendere a fondo quali materiali erano di
Raffaello, quali del restauratore antico, Ridolfo del Ghirlandaio come propone Antonio
Natali, e quali di quelli successivi, e in quali condizioni ciascuno era arrivato sino a noi.
Solo dopo due anni di studio e di indagini diagnostiche, condotte grazie al Laboratorio
Scientifico interno e alla consuete rete di Istituti universitari e di ricerca che collaborano
stabilmente con l’OPD, si è deciso che potevamo procedere con il restauro. I motivi
di tale decisione risiedevano nella constatazione che il colore, tranne che nelle linee di
frattura, si trovava ancora in discrete condizioni di conservazione. Esso era stato coperto
da innumerevoli strati di ridipinture, patinature, verniciature, tutte eseguite per nascondere l’antico danneggiamento, ma per nostra fortuna nessuno aveva preventivamente
pulito il dipinto. Inoltre, le parti eseguite interamente nel corso del restauro cinquecentesco potevano ancora coesistere in modo esteticamente accettabile con quelle di
Raffaello, con un po’ di aiuto da parte del nostro intervento.
I problemi che il restauro ha dovuto affrontare sono stati molteplici, ma i principali riguardavano la superficie pittorica, ridipinta ed alterata sino a rendere illeggibile la policromia del dipinto, ed il supporto ligneo segnato dalle fratture
causate dal crollo e dalla successiva riparazione, bene evidenti dalla radiografia,
che in veri punti aveva ceduto e che aveva provocato numerose irregolarità all’andamento della superficie. Il nostro progetto si è dunque sviluppato cercando
di recuperare la migliore possibile leggibilità della pittura di Raffaello, mantenendo le parti rifatte nel primo restauro cinquecentesco per la sua valenza storica,
puntando comunque sul mantenimento dell’equilibrio e della completezza dell’insieme, senza evidenziarne la reale frammentarietà. Un’altra scelta metodologica tipica dell’Opificio è stata quella di cercare di limitare l’invasività
dell’intervento, soprattutto per quanto riguarda il necessario risanamento del supporto ed il miglioramento dell’andamento della superficie. Ciò è stato possibile
grazie alla possibilità di coniugare in maniera positiva la fase del restauro con
quella della conservazione preventiva, cercando la risoluzione dei problemi
nell’azione combinata dei due momenti. Una valutazione sulle condizioni strutturali dell’opera ci ha portato, in accordo con la Galleria degli Uffizi, a prevedere
una successiva esposizione del dipinto all’interno di una teca cornice nella quale,
oltre alle altre sicurezze, fosse possibile mantenere costanti i valori microclimatici
ambientali. Tale riduzione delle sollecitazioni provenienti dal fondamentale rapporto tra il dipinto e l’ambiente, hanno così consentito di poter ridurre al minimo
l’intervento sul supporto ligneo, eseguito da Ciro castelli, ottenendo così anche
un più elevato livello di rispetto per le sue caratteristiche materiche.
La pulitura, compiuta da Patrizia Riitano dopo una lunga serie di indagini, analisi
e test, è stata condotta in maniera differenziata a seconda del materiale da rimuovere o da alleggerire, ma sempre alternando il lavoro sotto il controllo dello
Restauro
Il restauro è stato compiuto dal
Settore dei Dipinti mobili
Direzione dei lavori:
Marco Ciatti e Cecilia Frosinini
Direzione tecnica e restauro:
Patrizia Riitano per la parte
pittorica; Ciro Castelli per il
supporto ligneo, con la
collaborazione di Mauro Parri,
Andrea Santacesaria
Collaborazione
Settore Scultura e arredi lignei
diretto da Laura Speranza:
Maria Cristina Gigli per il
restauro della cornice,
con la collaborazione di
Francesca Brogi
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Indagini scientifiche
- Alfredo Aldrovandi e Ottavio
Ciappi (OPD): Radiografia Rx;
- Roberto Bellucci (OPD):
Riflettografia IR con scanner
ad alta risoluzione (in
collaborazione con l’INOACNR di Firenze); Fabrizio
Cinotti e Annette Keller
(OPD): Fluorescenza UV,
Infrarosso Falso Colore e
Infrarosso Bianco e Nero;
- Carlo Lalli, Giancarlo Lanterna,
Maria Rizzi (OPD): Analisi
chimiche;
- Pietro Moioli e Claudio
Seccaroni (ENEA, Roma):
Fluorescenza x (XRF);
- Maria Perla Colombini, Enrica
Rebechini (Dipartimento di
Chimica e Chimica Industriale,
Università di Pisa): Analisi
chimiche;
- Raffaella Fontana, Luca Pezzati
(INOA-CNR): Indagini
multispettrali e Profilometria;
- Mauro Bacci, Marcello
Picollo, Bruno Radicati (IFACCNR): Misure spettrometriche
in riflettanza mediante fibre
ottiche (FORS);
- Costanza Miliani, Valeria
Ciocan, Alessia Daveri,
Antonio Sgamellotti, Bruno
Giovanni Brunetti (Università
di Perugia): Indagini FTIR in
riflettanza;
- Franco Casali, Maria Pia
Morigi, Matteo Bettuzzi, Rosa
Brancaccio, Irene Bernabei,
Andrea Berdondini, Vincenzo
D’Errico (Università di
Bologna): Indagine
tomografica.
Climatologia e conservazione
preventiva: Roberto Boddi
Documentazione e referenze
fotografiche
Le fotografie dell’opera e la
documentazione del restauro
sono state eseguite dal
Laboratorio fotografico
dell’Opificio delle Pietre Dure e
Laboratori di restauro, diretto
da Alfredo Aldrovandi, dagli
operatori: Fabrizio Cinotti con
la collaborazione di Annette
Keller.
I grafici in AutocaD sono stati
eseguiti da Andrea
Santacesaria.
Si ringrazia la fototeca del
Kunsthistorisches Institut in
Florenz - Max Planck Institut per
la collaborazione
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stereo-microscopio con delle vedute da lontano, per mantenere l’equilibrio dell’insieme. La progressiva estensione dei primi timidi test ci ha consentito di rendersi conto della correttezza delle nostre ipotesi progettuali, arrivando a trovare
una pellicola pittorica in buone condizioni, ancora coperta dalla vernice stesa da
Raffaello al termine del suo lavoro. Essa è stata ovviamente mantenuta ed ha avuto
per noi un valore enorme, costituendo un limite di controllo per la pulitura, e
permettendoci di presentare una pellicola pittorica con la sua patina vecchia di
secoli. In alcune parti al confine con i rifacimenti antichi, nelle quali il restauratore
per sua comodità si era allargato coprendo alcune porzioni della pittura di Raffaello, si è deciso di procedere in senso opposto, recuperando tutta la materia
dell’urbinate ed affidando alla successiva fase del restauro pittorico il compito
di armonizzare le parti. Al termine della pulitura sono emerse le consistenti lacune
dovute all’antico danneggiamento che sono state stuccate, dedicando una particolare attenzione alla lavorazione della superficie, per conseguire una piena
continuità con quelle circostanti del dipinto, al fine di evitare che esse potessero
rimarcarsi visivamente. La reintegrazione delle lacune è stata eseguita con il metodo della così detta “selezione cromatica” propria della nostra tradizione, cioè
una stesura differenziata tramite una conduzione a tratteggio, facilmente reversibile, che da vicino consente di farsi riconoscere come atto di restauro, ma dalla
normale distanza di visione consente di recuperare l’unità potenziale dell’immagine e dei suoi valori espressivi. Naturalmente le modalità di esecuzione di questo tratteggio devono variare in rapporto alla dimensione dell’opera ed al tipo di
pittura, per cui qui, in relazione alla preziosità smaltata della materia, il segno è
particolarmente sottile.
Il risultato del progetto, al di là della buona conservazione dei materiali, è di evidenziare il forte influsso che la pittura di Leonardo aveva esercitato sul giovane
Raffaello, come è evidente dalla morbidezza del carnato della Madonna e dal
paesaggio sulla sinistra, e il rapporto con le altre opere prodotte durante il suo
proficuo soggiorno fiorentino.
Anticipazioni sul restauro de “La leggenda della Vera Croce”
di Agnolo Gaddi nella Cappella Maggiore della Basilica di
Santa Croce in Firenze
Cecilia Frosinini
Grazie ad una convenzione stipulata tra l’Opificio delle Pietre Dure, l’Opera di
Santa Croce e l’Università di Kanazawa in Giappone, nell’anno 2005 ha avuto inizio il progetto di restauro e studio sullo splendido ciclo di affreschi trecenteschi
di Agnolo Gaddi, raffiguranti la Leggenda della Vera Croce, che decora Cappella
Maggiore della Basilica di Santa Croce a Firenze.
L’iniziativa è partita dal professor Takaharu Miyashita dell’Università di Kanazawa,
in Giappone, studioso dell’arte fiorentina ed estimatore dell’Opificio, che ha indirizzato la generosa offerta del mecenate Tetsuya Kuroda verso un programma
di conservazione e di studio di affreschi da affidarsi all’Opificio. Il progetto è
completato finanziariamente e operativamente dall’Opera di Santa Croce e dall’Opificio delle Pietre Dure e se ne prevede la conclusione nel 2010.
Il ciclo di affreschi, raffiguranti la Leggenda della Vera Croce, dipinti da Agnolo
Gaddi, figlio di Taddeo, uno dei principali allievi di Giotto, è uno dei testi fondamentali della pittura tardogotica fiorentina, di quella breve stagione, cioè, che si
colloca immediatamente prima dell’avvento del Rinascimento, che sulla fine del
Trecento e all’inizio del Quattrocento, accoglie le innovazioni di spirito cortese ed
elegante che arrivano dall’Italia settentrionale (quando non addirittura dal nord Europa), rivivendole, però, e trasformandole, alla luce della grande eredità giottesca
di cui la città di Firenze era andata sempre fiera. L’importanza di Agnolo nella storia
delle tecniche artistiche, poi, è confermata dal fatto che la sua tecnica di lavorare
“a fresco” doveva essere talmente rinomata da essere codificata in uno dei più noti
manuali antichi di tecniche artistiche: il Libro dell’Arte, il più importante trattato
d’arte della fine del Medioevo, scritto da un pittore, Cennino Cennini che racconta
nel suo testo di essere stato allievo appunto di Agnolo Gaddi e di aver imparato
da lui, massimo maestro e ultimo seguace di Giotto, i segreti dell’arte.
Agnolo, nasce probabilmente intorno al 1350, anche se il primo documento a lui
riferito è del 1369, quando è citato tra le maestranze pagate per un ciclo decorativo, oggi perduto, in San Giovanni in Laterano a Roma. Nel corso della sua prolifica carriera, Agnolo è a capo di una attivissima e numerosa bottega, cui
afferiscono, in vari momenti, molti dei pittori dell’epoca. Si dedica a numerose pitture murali tra cui l’ultimo ciclo in affresco, tra il 1392 e il 1395, per la cappella del
Sacro Cingolo del Duomo di Prato, con le Storie della Vergine. Muore nel 1396.
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Giuseppe Proietti
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00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
OPD - Opificio
delle Pietre Dure
Soprintendente:
Isabella Lapi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Fabio Bertelli
Via degli Alfani, 78
50121 Firenze
Tel. 055 26511
Fax 055 287123
77
La “Leggenda della Vera Croce”
La Leggenda della Vera Croce, un complesso di storie contenute nella Leggenda
Aurea del domenicano Jacopo da Varagine (1228-1298), ebbe grande fortuna
iconografica soprattutto nel Centro Italia, fino alla Controriforma. Si tratta di una
delle storie più amate dai francescani che per questo la fecero dipingere in più
occasioni. La redazione pittorica più conosciuta è quella di Piero della Francesca
nella Basilica di San Francesco ad Arezzo, dipinta a partire dal 1452.
Agnolo Gaddi compie a Firenze in Santa Croce un’ampia scelta di episodi, maggiore rispetto al più famoso ciclo di Arezzo. La leggenda narra del “sacro legno”
che sarà usato per la Croce di Gesù. Il legno è quello dell’albero nato sulla tomba
di Adamo, che il re Salomone fa abbattere per costruire il Tempio, e che finisce
per essere utilizzato in un ponte. La Regina di Saba, venuta a trovare Salomone,
in procinto di attraversare questo ponte, ha una visione e capisce che in quel
legno c’è il destino del mondo e la salvezza del genere umano e si inchina ad
adorarlo. La leggenda continua con storie avvenute trecento anni dopo la morte
in croce e la resurrezione di Gesù, quando la regina cristiana Elena, madre dell’imperatore Costantino, ritrova la Croce del Signore in Terra Santa e la riporta a
Gerusalemme. Successivamente la Vera Croce sarà trafugata dal re persiano Cosroe e l’imperatore cristiano Eraclio (575-641) con una guerra riesce a riprenderla
e riportarla a Gerusalemme.
78
Notizie sul cantiere
Il ciclo di affreschi di Agnolo Gaddi, realizzato nel decennio 1380-90, si estende su
una superficie di circa 1.000 metri quadrati e non ha mai subito interventi moderni di
restauro veri e propri. Si hanno notizie solo di una ricognizione eseguita dalla bottega
del Benini nel 1946 e di un intervento della bottega Rosi-Tintori, dopo l’alluvione di Firenze del 1966, quando le acque dell’Arno raggiunsero il basamento delle pareti della
Cappella. Invece molto chiare sono le tracce di interventi antichi, ottocenteschi, di cui
peraltro non sussistono per ora documentazioni o tracce storiche.
Fin dalle prime osservazioni è stato possibile constatare il grave stato di degrado
delle pitture murali. L’efflorescenza salina interessa una grande percentuale della
pittura e si alterna all’esfoliazione della pellicola cromatica; i distacchi di intonaco
sono piuttosto frequenti, ed è solo grazie alle integrazioni dei restauri passati
che dal basso non ci si accorgeva di quanto dell’intonaco e del colore originale
erano andati persi nei secoli. Gran parte delle zone dipinte a secco e delle parti
decorate con lamine metalliche sono cadute o sono consunte, mentre sono sopravvissute con eccezionale freschezza le parti dipinte in affresco.
Le operazioni diagnostiche e conservative si avvalgono di qualificate collaborazioni con istituti di ricerca pubblici (CNR e Università), per lo studio e la individuazione delle tecniche di esecuzione e delle cause di degrado, oltre che
dell’utilizzo dei materiali di restauro e della loro applicazione specifica.
La fase diagnostica è iniziata dalle indagini di tipo ottico, non invasive: riprese fotografiche in UV e in IR, misure colorimetriche, fluorescenza X. Successivamente
sono state effettuate microanalisi chimiche e chimico-fisiche su campioni. Contemporaneamente le pareti della Cappella sono indagate mediante termovisione
in IR per l’individuazione di eventuali traumi o discontinuità della tessitura muraria,
modifiche avvenute nelle pareti, presenze di vuoti fra gli strati di intonaco. È stata
inoltre installata sul ponteggio una stazione microclimatica per il monitoraggio
della situazione termoigrometrica ambientale durante l’intervento.
Tutte le rilevazioni e i risultati delle indagini, le mappe tematiche dei fattori di degrado
e delle tecniche esecutive, sono gestite da un apposito software, Modus, (archiviazione, fruizione e gestione dei dati di restauro) che l’Opificio ha costruito con l’architetto Massimo Chimenti (Culturanuova di Arezzo) e che, al momento, è il sistema che
consente l’approccio più integrato al bene culturale, che tenga conto di tre diversi livelli di fruizione, che li fa coesistere e che ne mantiene vitali le sinergie nell’ottica della
maggior possibile valorizzazione del bene stesso: il primo livello, quello tecnico scientifico, finalizzato a coloro che hanno il compito di conservare e tutelare il bene; il secondo livello, gestionale; il terzo livello, di fruizione da parte del pubblico.
Cantiere di Restauro:
Direzione dei lavori: Cristina
Danti (2005-2007) e Cecilia
Frosinini (dal 2008)
Direzione tecnica del restauro:
Mariarosa Lanfranchi; con
Fabrizio Bandini, Alberto Felici,
Paola Ilaria Mariotti.
Indagini diagnostiche:
Laboratorio Scientifico
dell’Opificio delle Pietre Dure
(Alfredo Aldrovandi, Andrea
Cagnini, Monica Galeotti, Carlo
Lalli, Giancarlo Lanterna, Daniela
Pinna, Simone Porcinai, Maria
Rizzi, Isetta Tosini), con la
collaborazione di. Arcangelo
Moles e Alessandro Migliori
Termovisione: Guido Roche
Misure spettroscopiche sui
pigmenti: IFAC-CNR Firenze
(Marcello Picollo)
È inoltre in atto anche in questo
cantiere un progetto di
collaborazione tra il Getty
Conservation Institute di Los
Angeles e l’Opificio delle Pietre
Dure, per lo studio e
l’individuazione delle sostanze
organiche nelle pitture murali
Documentazione fotografica:
Laboratorio Fotografico
dell’Opificio delle Pietre Dure
(diretto da Alfredo Aldrovandi
Fotografo: Sergio Cipriani, con
la collaborazione di Lorenzo
Del Francia e di Annette Keller)
79
OPD
Opificio delle Pietre Dure
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
OPD - Opificio
delle Pietre Dure
Soprintendente:
Isabella Lapi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Fabio Bertelli
Via degli Alfani, 78
50121 Firenze
Tel. 055 26511
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Riflettografia e Grandi Maestri – 4 - La riflettografia
per la storia dell’arte: da Giotto a Van Gogh
Cecilia Frosinini
L’Opificio delle Pietre Dure, in collaborazione con INOA-CNR (Istituto Nazionale
di Ottica Applicata) di Firenze ha stipulato da ormai 10 anni (novembre del 1998)
una convenzione che ha dato luogo a importantissime campagne di ricerca ed
applicazione di tecniche ottiche applicate ai Beni Culturali, in Italia e nel mondo.
Oltre alle attività in comune, INOA ha una sua sede presso l’OPD, alla Fortezza
da Basso, un Laboratorio di Metrologia Ottica per la Diagnostica di beni culturali.
La convenzione tra INOA e OPD, e il Laboratorio di metrologia, in particolare,
consentono la interazione tra fisici, restauratori e storici dell’arte di altissimo livello
e qualificazione professionale, l’utilizzo quotidiano delle tecniche di analisi e la
possibilità che da un confronto reciproco e dall’analisi delle opere d’arte e delle
loro problematiche vengano sviluppate e affinate nuove applicazioni ottiche di
diagnostica.
Le attività in svolgimento presso il Laboratorio, sono:
- riflettografia nell’Infrarosso ed altre tecniche ad immagine nelle bande del visibile, infrarosso vicino ed ultravioletto (VIS, NIR,UV);
- tecniche di fluorescenza ad immagine;
- documentazioni fotografiche speciali (ad es: luce radente, fotografia IR, UV);
- termografia;
- misure di forma e di deformazione di superfici con metodi proiettivi o laser;
- misure di deformazione con tecniche ottiche coerenti (ESPI);
- tecniche che impiegano radiazione X (ad es. XRF);
- misure di colore;
- studio della deformazione delle tele dopo processi di restauro.
Dal 2006 OPD e INOA (in collaborazione con Nardini Editore) hanno deciso di
attuare in occasione del Salone del Restauro a Ferrara una diffusione delle loro
principali campagne di indagine nel campo rifletto grafico, attuata attraverso convegni tematici, dedicati ai grandi maestri dell’arte indagati. Si cominciò nel 2006,
appunto, con Leonardo, per proseguire con Piero della Francesca (2007), Raffaello (2008).
In occasione del Salone del Restauro di Ferrara 2009, per segnare anche il decimo
anniversario della convenzione tra i due istituti, è stata attuata la proposta di dedicare il convegno ad aspetti di metodo dell’utilizzo del,riflettografia, spesso
sottovalutati anche da coloro che dovrebbero esserne i principali utilizzatori,
cioè restauratori e storici dell’arte.
Il principale problema risiede nel fatto che fino ad oggi della riflettografia è stato
fatto un utilizzo ridotto e limitativo, usandola soltanto come un mezzo di lettura
del disegno preparatorio dell’opera d’arte. E succede spesso, perciò, che di
fronte a risultati scarsamente eclatanti per la quasi completa assenza di pentimenti o disegno a mano libera (come spesso avviene per opere del Trecento o
del primo Quattrocento) ci si senta dire che il disegno non c’è del tutto. L’immagine che chiamiamo riflettogramma, invece, è molto di più del semplice disegno
preparatorio: è una IMMAGINE – SOMMA. Su un unico livello, in pratica, otteniamo una serie di informazioni, frutto delle diverse trasparenze e riflettanze dei
singoli materiali che, disposti su più strati e in spessori diversi, compongono il dipinto. Che la capacità di operare successive sottrazioni mentali dal riflettogramma
e giungere ad interpretare la successione di strati non sia cosa semplice, deve essere subito chiaro a chi si cimenta nell’interpretazione del dato. La stratificazione
del dipinto, tanto per cominciare, non è costituita da una omogenea distribuzione su tutta la superficie di strati successivi, quasi si trattasse di un libro da sfo-
gliare pagina per pagina. Accanto a questa disomogeneità di spessori, sono da
valutare le diverse risposte, date dai diversi materiali, in termini di riflettanza all’infrarosso. Queste risposte alla sollecitazione della radiazione si traducono nel
riflettogramma in tonalità di grigio, sulle quali bisogna attentamente operare discriminazioni sulla base di comparazioni di livello, interpretazione del rapporto
riflettanza/materiale, analisi della definizione, studio delle forme.
In generale, il fatto che il risultato della riflettografia si presenti nell’aspetto esteriore come una fotografia in bianco e nero, ha pesato notevolmente sulla approssimazione e superficialità con cui ne è stata affrontata la lettura. Tutti si sono sentiti
in grado di interpretare un riflettogramma a prima occhiata. E’ necessario invece
avere ben chiaro il concetto che ci troviamo davanti ad un’indagine assai sofisticata, in cui gli elementi di interpretazione non sono affatto facili da individuare;
questi sono i livelli di grigio, in primissima istanza, e altri fattori quali la forma e
le sovrapposizioni, in iterazione tra loro. Interpretare questi parametri significa
possedere conoscenze specialistiche e interdisciplinari:
- conoscere capillarmente i materiali costitutivi le superfici indagate;
- conoscere le risposte date alla radiazione IR da questi materiali, singolarmente
e nei loro rapporti relazionali;
- conoscere direttamente l’opera oggetto dell’indagine, soprattutto in relazione al
suo stato di conservazione che ha influenza diretta sul risultato riflettografico;
- conoscere il panorama di riferimento in cui l’opera indagata si situa;
- conoscere gli strumenti e i metodi di realizzazione dell’opera d’arte in tutte le
diverse fasi indagate dalla riflettografia (quindi dalla preparazione via via, attraverso le varie stratificazioni, fino all’ultimo strato pittorico);
- conoscere i dispositivi utilizzati per l’indagine IR per poter indirizzare e finalizzare l’acquisizione dei dati alla visualizzazione primaria di un certo livello o di
un certo materiale;
- possedere buone conoscenze di utilizzo di procedure informatiche per la migliore gestione dei dati acquisiti (filtraggio dell’immagine, campionamento, aggiustamento dei livelli di grigio, sovrapposizione e mixaggio del riflettogramma
con altre immagini risultanti da indagini diverse, ecc);
- conoscenza approfondita delle principali tecniche diagnostiche applicate nel
campo dei Beni Culturali, poiché l’interpretazione dei dati riflettografici deve
essere spesso integrata anche dal confronto con i risultati di queste (RX, XRF, colorimetria, UV, IR in falso colore…..);
- avere a disposizione una banca dati di riflettogrammi che possa costituire un
valido supporto per l’analisi comparata dello stile e della tecnica dell’autore.
Particolarmente importante in questo minuzioso e analitico lavoro di studio del riflettogramma è la possibilità di comparazione geometricamente esatta di questo
con l’originale e, ove possibile, con ogni altro risultato di indagini di imaging. Comparabilità che si può ottenere soltanto con un’immagine esente da distorsione ottica e in grandezza 1:1 rispetto all’originale, quella appunto che è prodotta dallo
scanner IR. La esatta sovrapponibilità di dati-immagine con l’originale consente la
lettura di un insieme e non di singoli particolari, con conseguente contestualizzazione del particolare. E la verifica, punto per punto, di ogni elemento-dato con
conseguente possibilità di individuazione anche di elementi minimi.
Questo consente, ad esempio, la possibilità di effettuare ricostruzioni di impianti
prospettici che l’artista aveva tracciato preliminarmente alla fase pittorica e di verificarne congruità geometriche o aggiustamenti e modifiche. Oppure la possibilità di studiare l’utilizzo di sagome (i cosiddetti patroni) o cartoni, sia
singolarmente che in presenza di possibili sopravvivenze di materiale cartaceo,
o il loro riutilizzo nell’ambito del corpus di uno stesso artista.
81
OPD – Opificio delle Pietre Dure
Archivio di Stato di Siena
SEGRETARIATO GENERALE
Segretariato Generale
Segretario Generale:
Giuseppe Proietti
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel. 06 67232819
Fax 06 67232414
[email protected]
OPD - Opificio delle Pietre
Dure
Soprintendente:
Isabella Lapi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Fabio Bertelli
Via degli Alfani, 78
50121 Firenze
Tel. 055 26511
Fax 055 287123
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Siena
Direttore:
Carla Zarrilli
Via Banchi di Sotto 52,
53100 Siena
Tel. 0577 247145
Fax 0577 44675
[email protected]
82
Il restauro del Caleffo dell’Assunta
Cecilia Frosinini
Il foglio pergamenaceo sul quale Niccolò di Ser Sozzo dipinse, tra il 1334 e il
1336 , la splendida miniatura che rappresenta la Madonna Assunta, al centro di
un affollato coro di angeli, proviene come noto da un grande registro, il Caleffo
Bianco o dell’Assunta (da cui il nome con cui è universalmente noto questo capolavoro dell’arte senese). Fu staccato in tempi remoti ed esposta nella Mostra
permanente dell’Archivio di Stato di Siena, nei cui depositi è custodito naturalmente anche il grande codice di provenienza.
La collaborazione tra l’Archivio di Stato di Siena e l’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze si colloca in quella ricerca di sinergie che contraddistingue da vari anni i
due Istituti, e si è concretizzato al momento di recenti manifestazioni espositive
nazionali ed internazionali, quando si è trattato di valutare le condizioni di conservazione (e di trasportabilità) di questo prezioso e delicatissimo “monumento”
della pittura senese.
La decisione di restaurare il foglio pergamennaceo a cura dell’Opificio delle
Pietre Dure, si è accompagnata alla consulenza, sempre offerta dagli esperti dell’Istituto, per migliorare le condizioni espositive delle miniature, pur mantenendo le ormai storicizzate bacheche della Mostra dell’Archivio di Stato di
Siena. I risultati – del restauro e del nuovo allestimento – sono stati presentati nel
quadro delle manifestazioni del 150esimo anniversario dell’istituzione dell’Archivio senese. In tale cornice, particolare rilievo hanno avuto le ricerche condotte per l’occasione sul sistema di fonti normative dell’antica repubblica
Senese, sistema all’interno del quale si colloca il “Caleffo dell’Assunta”, con la
sua splendida miniatura, altro esempio di quella tradizione di coniugare l’utile
al bello, l’arte alla burocrazia, che ha visto il suo coronamento nelle ben note “Tavolette di Biccherna”.
Se oggi il tema della contestualizzazione è diventato centrale in tutti i momenti
della tutela, della conservazione e della valorizzazione dei nostri Beni Culturali, ed
è premessa ineludibile per ogni progetto di restauro, questo è un episodio particolarmente ricco di significati. Non l’unico ma, c’è da augurarsi, il primo di altri.
Tutela preventiva delle cose, dei comportamenti
e delle espressioni delle persone
Stefania Massari
L’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (IDEA), attuato con D.P.R. n° 233
del 26 novembre 2007 e il cui iter di definizione giuridica e funzionale si è concluso con il D.M. del 7 ottobre 2008 e relativa pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n° 257 del 3 novembre stesso anno, non è direttamente chiamato a definire
modalità di comportamento in tema di restauro: ma poiché all’art. 6 comma e),
titolo I del citato decreto (Ordinamento dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia), si legge che, tramite uno specifico Servizio interno, l’IDEA “formula, sulla base di criteri unitari, il piano nazionale di tutela e valorizzazione dei
beni antropologici”, è probabile che nel tempo questo Istituto possa diventare
punto di riferimento o interlocutore di Istituzioni pubbliche o di singoli cittadini
nella individuazione di aspetti pratici o culturali che abbiano attinenza allo studio, alla conservazione, alla gestione di oggetti, edifici, attività culturali collegate
al tema della tradizione e delle consuetudini di popolo italiane.
Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia
DIREZIONE GENERALE PER I BENI ARCHITETTONICI, STORICO
ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI
Direzione Generale
per i Beni Architettonici,
Storico Artistici ed
Etnoantropologici
Direttore Generale:
Roberto Cecchi
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 5843.4401/4229
Fax 06 5843 4404
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www.basae.beniculturali.it
Istituto Centrale per la
Demoetnoantropologia
Il prospetto dell’Edifico ove è situato il Museo
L’aspetto interessante di questa prerogativa è proprio nella definizione dei compiti: Servizio per la programmazione dell’attività espositiva, di ricerca e censimento per il collegamento con gli organi centrali e periferici del Ministero; il che
vuol dire raccogliere sul territorio nazionale notizie, documenti e dati concernenti
testimonianze materiali o consuetudini di comunità locali che - ripetendosi periodicamente in concomitanza di feste religiose, di ritualità antiche e simboliche,
di cortei o manifestazioni pubbliche legate al carnevale – ricordano la storia o
le consolidate abitudini del cosiddetto “mondo popolare” che in Italia si vuole
ancora raccordare alla cultura contadina e che, ormai è un secolo, l’etnografo
Lamberto Loria (1855-1913), ideale anticipatore del nostro Istituto, celebrava a
Roma nel 1911 raccogliendone le testimonianze più varie e particolari.
Ci si trova oggi agli inizi di un millennio che in tutti gli aspetti della vita quotidiana,
del pensiero degli individui, dei loro comportamenti, nei rapporti interpersonali,
presenta manifesti cambiamenti che questo Istituto, sulla base dell’esperienza
delle proprie conoscenze storiche e antropologiche, è in grado appunto di registrare, censire, elaborare: lo studio degli oggetti etnografici delle collezioni
storiche – in parte esposti nelle sale dell’annesso Museo (MAT) – nonché la no-
Direttore:
Stefania Massari
Piazza Marconi, 8/10
00144 Roma (Eur)
Tel. 06 5926148/5910709
Fax 06 5911848
[email protected]
www.popolari.arti.beniculturali.it
83
tevole documentazione d’archivio presente nei repertori di immagini attinenti la
vita nel complesso della società italiana dello scorso secolo, consente a questo
IDEA di valutare ogni situazione di fatto e di costume che incida nel mutamento
dei comportamenti dell’attuale realtà pubblica e sociale.
L’IDEA sta procedendo allo studio di manifestazioni della tradizione italiana attuando attraverso le proprie ricerche demo-antropologiche una concreta attività
di tutela e conservazione di modi di essere delle singole comunità locali e regionali: il riconoscimento di manifestazioni popolari che si ripetono localmente di
anno in anno seguendo invariate modalità e che la documentazione storica in
possesso di questo Istituto conferma negli intenti e nei modi è da considerarsi il
miglior apporto a una salvaguardia corretta e garantita di quanto di tradizionale
– seppur spontaneo e di espressione popolare – avviene oggi nel ricordo di
quella che è stata lungamente per l’Italia la civiltà contadina.
Il complesso architettonico
sede dell’IDEA
84
Nuove acquisizioni pratiche nel restauro di oggetti
di natura antropologica
Francesco Floccia, Letizia Gattorta
Non sappiamo quanto il concetto di “innovazione” conduca con certezza a miglioramenti effettivi nella sostanza e nella vita di un oggetto. In tema di restauro di un bene
di interesse storico-artistico, per esempio, l’acquisizione di conoscenze tecniche
avanzate può essere di ausilio al buon raggiungimento di un fine conservativo ma se
innovazione significa modificare il principio professionale che vuole comunque la
salvaguardia sostanziale di un oggetto d’arte, allora tale aggiornamento può creare
contrasti nell’interpretazione del metodo. Scriveva Cesare Brandi (1): “Il primo grado,
dunque, da considerare nell’opera d’arte ai fini dell’istanza storica, è dato dal rudere.
Tuttavia sarebbe un errore credere che dalla effettuale realtà del rudere possano trarsi
le norme stesse della conservazione del rudere”; ciò che esso rappresenta sta in “tutto
ciò che testimonia della storia umana, ma in un aspetto assai diverso e quasi irriconoscibile rispetto a quello originario”. Sicché “può essere assimilato al rudere di opera
d’arte anche il rudere che opera d’arte mai non fu, e neppure opera dell’uomo, ma
che, sebbene elemento naturale, rientra in una testimonianza storica: come il tronco
secco della quercia del Tasso a S. Onofrio a Roma, da assicurare al futuro come fosse
il rudere di una scultura di legno”. Si riporta questo esempio per ricordare come – nella
linea concettuale del restauro così come può essere applicato a opere di natura storica
dal valore artistico-culturale – siano complesse e fondamentali le categorie di valutazione sulla base delle quali si deve procedere, in relazione allo stato di conservazione,
al recupero adeguato e ottimale della configurazione materiale e simbolica della cosa.
In un Museo delle tradizioni popolari le raccolte degli oggetti etnografici presentano
varie modalità di soluzione di restauro adeguate di volta in volta alla casistica di “guasti”
dovuti prevalentemente al trascorrere del tempo e alla fragilità dei materiali prescelti,
sovente di modesta qualità: il principio fondamentale resta quello della immutabilità
della testimonianza storica rappresentata dall’oggetto nella sua realtà visibile ma si
tratta anche in questi casi di rendere comprensibili – vista la originaria prerogativa degli
oggetti etnografici di essere immediatamente riconoscibili nella loro forma e funzione
- documenti materiali il cui eventuale degrado strutturale renda visivamente difficile o
disordinato l’impatto visivo nei riguardi dell’opera stessa.
Nel restauro di un oggetto etnografico, recuperarne la originaria vitalità funzionale
vuol dire anche intervenire sulla sua componente estetica giacché nei manufatti realizzati nell’ambito della tradizione, al segno, al colore si accompagna una spontanea
e arcaica cognizione del senso del decoro, dell’ornato, della sintesi fra creatività e imitazione. Il valore del “rudere” dunque come momento dell’“istanza storica” da conservare in quanto testimonianza irripetibile di una realtà pregressa vale anche nel
campo delle testimonianze della cultura materiale ma se – al pari di una pianta attorno
alla quale vive la memoria di episodi di un’epoca trascorsa – interveniamo per mantenere riconoscibile la natura di un oggetto ormai privo di unità formale, dobbiamo
allora mettere in opera soluzioni conservative ma non invasive, adatte a rendere possibile il recupero della qualità funzionale ripristinandone la configurazione antropologica della tradizione contadina che nella manutenzione ed efficienza dell’utensile
aveva comunque una sua peculiare consuetudine e importanza.
Esempio concreto di un recupero necessario anche se dal risultato inizialmente
non prevedibile ha riguardato, nell’attività di restauro condotta da questo Istituto
nel 2007, un oggetto dalle forme di un’architettura popolare complessa il cui
stato di conservazione era critico soprattutto per la stabilità della struttura lignea
dell’insieme e per la scomposizione complessiva degli elementi costruttivi e dei
dettagli ornamentali. Così come descritto negli Inventari dell’Istituto si tratta di
un Modello di Tempio orientale di legno e cartone colorato con tre torri a cupola.
Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia
DIREZIONE GENERALE PER I BENI ARCHITETTONICI, STORICO
ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI
Direzione Generale
per i Beni Architettonici,
Storico Artistici ed
Etnoantropologici
Direttore Generale:
Roberto Cecchi
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Istituto Centrale per la
Demoetnoantropologia
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Stefania Massari
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85
1
C. Brandi, Il restauro. Teoria e
pratica 1939-1986, a cura di
Michele Cordaro, Editori
Riuniti 1994, pp. 26/27
IDEA - Roma
Coordinamento restauro:
Francesco Floccia
Laboratorio restauro: Lucia
Carta Brocca, Francesca
Diamante, Roberta Scoponi
Laboratorio audiovisivi:
Stefano Sestili, Simonetta Rosati
(digitalizzazione delle foto
e mixaggio)
Restauro dell’oggetto e
fotografie della Dr.ssa Letizia
Gattorta, Roma
86
Finte vetrate a colori e figurine di presepio di cartone colorato. Era munito di un
impianto elettrico (Acquisto 1943 - n° inv. 28564).
Di fatto l’oggetto rappresenta il modello di un edificio nel cui prospetto – una sorta
di proscenio - sono distribuite le sagome dei personaggi di un presepio; la provenienza, probabilmente da regioni europee, come attesterebbero alcune scritte riportate sul retro della struttura, trova conforto negli esempi dei Presepi della
tradizione religiosa polacca che ambientavano tali composizioni in piccoli modelli
realizzati in scala riproducenti edifici monumentali ecclesiastici del luogo. D’accompagno a tale struttura lignea dall’aspetto polveroso, disadorno, fatiscente c’era
un insieme di elementi colorati di varia natura raccolti in uno scatolone: la valutazione
di queste due condizioni disorganiche ossia la precarietà della struttura e l’insieme
di un cospicuo numero di oggetti erratici ma tutti presumibilmente ricollocabili nella
composizione originaria ha dato modo di considerare recuperabile l’oggetto nella
sua immagine e funzione: l’impegno professionale del restauratore e la ricerca documentaria sulla natura etnografica dell’opera hanno reso “sostenibile” – ossia ben
rapportato all’impegno necessario profuso per la buona conclusione dell’intervento
e la sua rinnovata fruibilità – il piano di lavoro previsto per il restauro.
Come illustra la sequenza delle immagini inserite nel cd/rom visibile nello stand
del Mibac, il procedere dell’intervento ricostruttivo ha riproposto gradualmente
l’armonia complessiva dell’opera. Si è pertanto così proceduto:
esame e pulitura di ogni singolo frammento. Restauro di ogni elemento prendendo a modello quelli simili rimasti integri come nel caso delle colonnine tortili
la cui struttura portante è cartone rivestito di carta colorata sulla cui superficie è
applicata una sottile striscia spiraliforme di stagnola argentata; nel caso della
grande stella raggiata si sono ripristinate le vecchie punte con l’applicazione di
nuova stagnola al fine di rendere nuovamente maestoso lo sviluppo della stella.
Nel ripristino delle vetrate si è accertata la natura di vetro ricoperto di carta velina
colorata per creare l’effetto di vario cromatismo. Ove mancante, si è applicata
una nuova carta velina giapponese opportunamente colorata ad acquerello. Se
frammentato il vetro è stato risarcito.
Sulle sagome rappresentanti la Sacra Famiglia e i cammelli si è intervenuti con il
sistema tradizionale del restauro cartaceo, quindi rinforzi con carta giapponese
di varia grammatura e piccoli ripristini di colore ad acquerello ove necessario.
Esempio dunque di intervento volto al deciso recupero delle forme strutturali e
delle componenti cromatiche molto deteriorate per le quali si è comunque mantenuta viva la loro natura e conformazione popolare: all’opera si è riconfermata
al massimo del possibile la giocosa vivacità dell’insieme.
Programmi di ricerca e patrimonio culturale:
una rete di coordinamento in Europa
Antonia Pasqua Recchia
Il patrimonio culturale dei Paesi dell’Unione Europea è uno dei fattori fondamentali nella costruzione di una comune identità culturale fra gli Stati membri mediante una progressiva integrazione delle conoscenze. La protezione del
patrimonio culturale è un obbiettivo che può essere raggiunto attraverso una strategia comune tra tutti i Paesi europei. In tale contesto la disseminazione dei risultati della ricerca nel campo della protezione del patrimonio culturale tangibile
rappresenta una ulteriore sfida.
Il progetto europeo Net-Heritage (Network Europeo di Programmi di Ricerca applicati alla protezione del Patrimonio Culturale Tangibile) è la prima iniziativa destinata a sviluppare e coordinare a livello comunitario la rete informativa dei
programmi di ricerca nazionali in ambito di protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale tangibile, al fine di apportare valore aggiunto alle
attività previste dai medesimi programmi di ricerca nei rispettivi Paesi.
Il coordinamento del progetto è affidato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che è riuscito a costituire un partenariato di altissimo profilo: si tratta infatti
delle istituzioni pubbliche che nei Paesi comunitari hanno la responsabilità istituzionale di gestire il patrimonio culturale.
I Paesi partner sono: Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Lettonia, Malta, Polonia, Romania, Slovenia, Spagna. Al partenariato internazionale si è aggiunto anche il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della
Ricerca italiano.
Le attività previste dal progetto sono l’analisi dei fabbisogni, la formazione, il trasferimento di competenze, lo scambio di buone pratiche, la disseminazione e
la sensibilizzazione anche finalizzate a ottenere nell’ambito della legislazione
comunitaria una maggiore attenzione alle tematiche di conservazione del patrimonio culturale.
Net-Heritage incoraggerà l’accrescimento e la diffusione della cooperazione
fra i partner in tre fasi: scambio di informazioni, attività strategiche e attività
congiunte.
Nell’ambito del progetto è previsto anche un portale web “Osservatorio” che
fornirà informazioni sui programmi nazionali di ricerca e sui risultati degli stessi.
Le buone pratiche saranno favorite dallo sviluppo di una piattaforma condivisa
che sarà attiva per l’intera durata del progetto e fornirà le basi per le future attività
di collaborazione e disseminazione.
Direzione Generale per l’Organizzazione,
l’Innovazione, la Formazione, la Qualificazione
Professionale e le Relazioni Sindacali
DIREZIONE GENERALE PER L’ORGANIZZAZIONE, L’INNOVAZIONE,
LA FORMAZIONE, LA QUALIFICAZIONE PROFESSIONALE
E LE RELAZIONI SINDACALI
Direzione Generale
per l’Organizzazione,
l’Innovazione, la Formazione,
la Qualificazione
Professionale
e le Relazioni Sindacali
Direttore Generale:
Antonia Pasqua Recchia
Coordinamento per la
comunicazione:
Fernanda Bruno
Via del Collegio Romano, 27
00186 - Roma
Tel. 06 67232007
Fax 06 67232106
[email protected]
87
Direzione Generale per l’Organizzazione,
l’Innovazione, la Formazione, la Qualificazione
Professionale e le Relazioni Sindacali
DIREZIONE GENERALE PER L’ORGANIZZAZIONE, L’INNOVAZIONE,
LA FORMAZIONE, LA QUALIFICAZIONE PROFESSIONALE
E LE RELAZIONI SINDACALI
Direzione Generale
per l’Organizzazione,
l’Innovazione, la Formazione,
la Qualificazione
Professionale
e le Relazioni Sindacali
Direttore Generale:
Antonia Pasqua Recchia
Coordinamento per la
comunicazione:
Fernanda Bruno
Via del Collegio Romano, 27
00186 - Roma
Tel. 06 67232007
Fax 06 67232106
[email protected]
Per una piattaforma digitale dei restauri
Antonia Pasqua Recchia
Promuovere la cultura della manutenzione, della prevenzione, della memoria del
patrimonio culturale migliorando al contempo l’efficacia e l’efficienza dell’attività
amministrativa del MiBAC e innescando positive e concrete sinergie con enti e
istituti di ricerca: questa è la linea fondante che da tempo perseguo nella mia attività istituzionale, individuando, testando e offrendo al mondo della tutela e
della ricerca strumenti tecnologicamente (e metodologicamente) innovativi.
In questa linea si è inserita la sperimentazione di due Sistemi Informativi in rete dedicati
al restauro, SICaR e ARISTOS, il cui avvio all’interno di un più ampio progetto di digitalizzazione del patrimonio –ARTPAST— fu annunciato proprio a Ferrara nel 2007.
Dopo un lungo periodo di assessment esteso a più di 30 soprintendenze e 10
università italiane e straniere i due sistemi sono ormai maturi per andare a regime:
un nuovo progetto, denominato REARTE e affidato al coordinamento di Clara Baracchini della Soprintendenza di Pisa, sta fornendo le risorse per la formazione
del personale che lo dovrà popolare e consultare.
Con questi strumenti si potrà d’ora in avanti rispondere all’esigenza –di metodo
e di adempimento della normativa—di fornire un consuntivo scientifico degli
interventi effettuati, come previsto da Cesare Brandi fin dalla istituzione dell’Istituto Centrale del Restauro, sancito nella Carta del Restauro del 1972, posto come
obbligo nell’attuale Codice degli Appalti.
E si potrà rispondere a tale esigenza senza che ciò crei aggravio di lavoro per i
responsabili dell’intervento che anzi si troveranno a disposizione uno strumento
che li supporterà nella fase di progettazione, consentendo di incrociare le informazioni prodotte per approfondirne lo stato di conservazione e la consistenza
materica (analisi chimiche, fisiche, petrografiche, schede USM) con i dati relativi
alla conoscenza storico-critica del bene e delle sue trascorse vicende, mettendoli in relazione con un modello fedele e misurabile dell’oggetto di intervento,
mappando su di esso la specifica area cui si riferiscono.
Di più: il sistema viene a costituire anche un valido supporto decisionale per la
pianificazione economica e temporale dei lavori e il successivo monitoraggio,
realizzando un passo in avanti nel lungo percorso verso l’adozione standardizzata di un piano di manutenzione.
Un unico strumento che, ponendosi dunque come mezzo di lavoro cooperativo
(ogni attore, da qualunque postazione, inserisce direttamente i dati prodotti e li
georeferenzia), di progettazione e di verifica, semplifica e accelera gli adempimenti assicurando la registrazione ordinata del materiale via via che viene prodotto, e si offre in consultazione ai professionisti del settore.
Nel corso della Fiera al tema è dedicato un incontro tecnico dove sono presentati alcuni casi di interventi di restauro recenti, la cui documentazione è o sarà inserita in SICaR, scelti per sottolineare la flessibilità dello strumento informatico
rispetto a tipologie diversificate di beni culturali: la chiesa di Santa Sofia a Benevento, un primo atto per l’auspicabile messa in rete del patrimonio dell’età longobarda, candidato ad entrare nella Lista Unesco; gli Ostensori di Nicola da
Guardiagrele; la tarsia pavimentale della Cattedrale di Lucca e la Madonna del
parto di Matteo Civitali a Camaiore; la Chiesa di S. Pietro in Vinculis e gli affreschi
del Camposanto Monumentale di Pisa.
Al termine dell’incontro sarà presentato il libro di Stefano Gizzi “Napoli e il territorio
tra tutela e restauro” che illustra i restauri eseguiti negli ultimi anni a Napoli e Provincia
(si veda a questo proposito pag. 150).
88
La Chiesa di Santa Sofia a Benevento: messa in rete degli interventi di
restauro su un monumento longobardo
Vega De Martini*, Maria Rosaria Nappi**
La chiesa di Santa Sofia, insieme ad altri siti Longobardi di diverse regioni italiane
- Cividale del Friuli, Brescia, Spoleto, San Michele in Puglia-, è inserita in una candidatura seriale proposta dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e dal Ministero degli Affari esteri per l’ingresso nella Lista del patrimonio mondiale
dell’UNESCO. Con un finanziamento del Comune di Benevento, tutte le operazioni di restauro realizzate sono state inserite nel Sistema Informativo per la documentazione georeferenziata in rete di Cantieri di Restauro –SICaR w/b-, dove
oggi sono pienamente consultabili <http://sicar.mbigroup.it//>.
Questa trasposizione della documentazione di restauro in una georeferenziata e
articolata banca dati digitale ha consentito di moltiplicare le opportunità per individuare e raccordare le informazioni, nonché ha permesso di porre le premesse
per stabilire relazioni e confronti possibili all’interno del patrimonio dell’età longobarda così distribuito nella penisola, in particolare per ciò che riguarda le tecniche costruttive, i materiali e tutto ciò che è possibile rilevare grazie ad un
intervento di restauro. Ove infatti la documentazione raccolta in occasione delle
candidature e degli eventuali restauri confluisse in SICaR- del resto adottato stabilmente dal Ministero, dopo la sperimentazione del progetto ARTPAST- sarebbe
possibile effettuare una ricerca incrociata fra tutti gli elementi aprendo nuove
prospettive di lettura e di conoscenza.
Per il restauro della chiesa di Santa Sofia si veda pp. 135.
Ostensori di Nicola da Guardiagrele: un esperimento di integrazione
pittorica su metalli
Ernestina Stinziani***, Giovanna Di Matteo***
Il restauro degli ostensori, al di là della emozione e della soggezione dell’andare
ad operare su opere di tale rilevanza storico artistica, si presentava in maniera abbastanza usuale per il trattamento dei metalli. Una volta eseguite le puliture, l’eliminazione di elementi incongrui (viti di fissaggio, saldature non corrette etc.) ci si
è trovati dinanzi ad una serie di problemi estetici di non semplice soluzione, in
quanto fino a questo momento non era stata usata per gli smalti la reintegrazione
pittorica, accettata su altri supporti. Nella fattispecie le iscrizioni lungo il bordo lobato del piede, a tratti divenivano incomprensibili per la caduta dello smalto blu
di fondo. Stesso problema insorgeva sulle baccellature a fondo blu con motivi floreali in argento, in maniera particolare nell’ostensorio di Atessa, ma in quello di
Francavilla il medesimo problema si poneva per la caduta di smalto nel nodo.
Inoltre in entrambi gli ostensori le piccole sculture della Vergine mostravano
quasi completamente l’argento per la massiccia perdita di smalto blu del manto.
Sono stati eseguiti dei campioni di reintegrazione a smalto in sottotono con la
tecnica del puntinato, ma senza ottenere un risultato soddisfacente, in quanto lo
smalto non consentiva l’esecuzione finissima del puntinato come avviene in pittura. Si è passati pertanto a leggere stesure di smalto opaco in sottotono, che risarcivano perfettamente i fondi mancanti, restituendo la leggibilità di decori ed
iscrizioni e consentendo sempre la visibilità dei frammenti di originale. Nel caso
degli smalti traslucidi si è invece deciso per un intervento esclusivamente conservativo, con il consolidamento dello smalto originale, lasciando a vista le incisioni sottostanti nel totale rispetto del prezioso originale. Inoltre, per alcuni
elementi aggiunti, in sostituzione di quelli perduti, si è deciso di effettuare dei
* Soprintendenza BAP
di Caserta e Benevento
** Direzione Regionale
della Campania
*** Soprintendenza PSA
dell’Abruzzo
89
calchi dagli originali e di fondere dei pezzi nuovi in argento, mantenendoli del
colore naturale per differenziarli dagli originali dorati. Ad esempio nell’ostensorio
di Atessa le cuspidi in argento dorato erano state sostituite, in un restauro precedente, con rozze piastrine di rame grossolanamente intagliate, che divenivano
piuttosto elementi di disturbo. Si è proceduto pertanto, come deciso, alla nuova
fusione, su calchi dall’originale, di alcuni elementi che sono stati reinseriti, rispettando le regole dettate dalla carta del restauro.
Il restauro è stato eseguito dal Dott. Sante Guido, tra il 2006 ed il 2008.
L’utilizzo di SICaR ha permesso di rendere accessibile la documentazione di questo
innovativo intervento di restauro attraverso la mappatura e l’individuazione delle
parti oggetto di integrazione pittorica, nonché di sostituzione degli elementi aggiunti, fornendo una visione dinamica dell’intervento prima e dopo il restauro.
Ostensorio Nicola da Guardiagrele 1413
Ernestina Stinziani
Francavilla al Mare (CH)
Chiesa di S. Maria Maggiore
(oggi S. Franco)
Argento fuso, dorato, sbalzato,
inciso e cesellato, smalto
champlevé, smalto traslucido,
altezza 50 cm
L’ostensorio di Francavilla al Mare è la prima opera pervenutaci di Nicola da Guardiagrele, firmata e datata 1413. È composto da base, fusto, nodo e teca o tabernacolo, con copertura piramidale, su cui poggia la statuina di S. Michele
Arcangelo.
La base ottagonale lobata, delimitata da due fasce concentriche su cui spicca
l’iscrizione riferita ai committenti, all’arciprete e alla funzione dell’oggetto, è costituita da otto baccellature, in argento dorato e a smalto blu con fiorellini in argento tra loro alternate, che salgono, filiformi, a spirale fino al nodo, costituito da
due calotte, con nella parte centrale, la firma dell’autore e la data. La teca, a base
ottagonale, presenta superfici scandite da otto piccole paraste, poste sugli spigoli del prisma, variamente ed alternativamente dipinte e decorate in argento, oro
e smalti traslucidi. Tra parasta e parasta si aprono otto bifore, coronate da ghimberghe e caratterizzate da colonnine tortili, cuspidi e rosoni; all’interno la Madonna genuflessa sorregge la mezzaluna d’argento, sostegno dell’Ostia
consacrata. Sulle parastine poggiano otto piccole statue raffiguranti i maggiori
apostoli, gli otto scelti da Gesù stesso. La cupola a piramide, tutta decorata a
traforo con motivi floreali stilizzati nelle otto facce, presenta foglie rampanti e ricurve lungo gli spigoli. Alla sommità domina l’Arcangelo Michele, con mantello,
corazza e la spada nella mano destra, ad ali aperte, nelle quali colpisce la particolare “fattura“ delle piume, minuziosamente incise a bulino, originariamente con
una policromia di smalti traslucidi, come attestato dai piccolissimi frammenti, visibili al microscopio.
Custodia di Ostensorio in cuoio. Nicola da Guardiagrele 1413
Ernestina Stinziani
Francavilla al Mare (CH) Chiesa
di S. Maria Maggiore
(oggi S. Franco)
90
Di particolare importanza è la custodia originale dell’ostensorio, composta da un
grosso cilindro con coperchio, dotato di cerniera di ferro e serratura a rocchetto,
oggi mancante: raro esempio per la tecnica di cuoio inciso e graffito a motivi vegetali
nella parte esterna, mentre un cuoio duro e spesso riveste l’interno. Si può ipotizzare
l’esistenza di un rivestimento in tessuto, scomparso nel tempo. Sul cilindro è visibile
l’antico stemma di Francavilla con l’iscrizione, in origine dorata, come attestato dai
frammenti di foglia d’oro visibili al microscopio.
Ostensorio Nicola da Guardiagrele 1418
Giovanna Di Matteo
L’iscrizione alla base del piedistallo, lungo il profilo lobato, documenta l’autografia dell’ostensorio, mentre la datazione (1418) ci fornisce la distanza temporale
dalla realizzazione del precedente ostensorio di Francavilla al Mare (1413).
Ad Atessa Nicola costruisce un piede più alto con una più accentuata torsione
a spirale, sul quale inserisce un fusto apparentemente più robusto, componendo un pilastro polistilo con le sei colonnine addossate al fusto principale,
ognuna originante da una delle sei baccellature di base. Il nodo, a base esagona,
si espande verso l’alto nella costruzione di un tempietto, reso più aereo dalle
finte architetture di contorno, che hanno la funzione di alleggerire la struttura,
esaltando al massimo l’elemento luce.
Le sei figure sacre, poste all’interno delle sei edicole votive, raffigurano l’arcangelo
Gabriele e la Vergine Maria, insieme ai quattro Evangelisti. La teoria di immagini
è realizzata in smalto traslucido. Nuovamente dai sei spicchi della volta del
tempietto sorgono le sei colonne addossate al fusto, che poco più in alto daranno origine ad un basamento esagonale in un ordinato trionfo vegetale. Al di
sopra si erge il tempio vero e proprio, il recinto sacro, che custodisce il mistero
della Redenzione. L’esagono favorisce il migliore passaggio della luce attraverso
le grandi aperture di gusto gotico, consentendo una più agevole visione della figura della Vergine Maria che, inginocchiata, offre a Dio ed agli uomini Cristo suo
Figlio nelle sembianze eucaristiche.
La struttura architettonica si è fatta più leggera, tanto che le colonnine tortili sembrano composte da un nastro che si avvolge su se stesso, in una illusione assoluta
di leggerezza della materia. Le paraste sono esili e semplicemente divise in due
specchiature entro le quali si trovano un fiore bianco a cinque petali e due infiorescenze a tre petali verso le due estremità. In questi elementi l’orafo abruzzese
utilizza smalti a filigrana di colore verde, viola e bianco. Al di sopra delle paraste
sono posti sei angeli apteri, alternati a sei timpani cuspidati, che completano in
verticale l’immagine delle ampie finestre.
A chiudere la struttura una piramide a base esagonale con le facce decorate a
scaglie sovrapposte, simili alle pelte romane o alle ali d’angelo composte da
piume di pavone. I costoloni d’angolo sono decorati da sottili motivi ascendenti,
simili ad elementi vegetali.
Al culmine della struttura è posto l’Arcangelo Michele nella sua funzione apocalittica di Giudice delle anime, come testimoniano la spada e presumibilmente la
bilancia, non più esistente. L’Arcangelo è rappresentato secondo l’uso rinascimentale con corazza pallio e spada ed aveva in origine le ali dipinte di giallo
verde e blu, le cosiddette ali di pavone documentate in dipinti coevi.
Atessa (Ch), Chiesa di S.Leucio
già Chieti, Museo Diocesano
Argento sbalzato e cesellato,
dorato, smalto champlevé,
smalto filigranato, smalto
traslucido, altezza 50 cm
L’utilizzo di SICaR: due casi esemplificativi, la tarsia pavimentale della
Cattedrale di Lucca e la Madonna del parto di Matteo Civitali a Camaiore.
Antonia d’Aniello*
A partire dal maggio 2003 è stato dato il via al progetto di restauro dell’assetto interno della Cattedrale di San Martino di Lucca il cui obiettivo è il recupero delle superfici, degli stucchi, dell’apparato scultoreo, degli arredi fissi e mobili, delle vetrate
e della pavimentazione, secondo un programma decennale sviluppato per aree
d’intervento e per progetti particolari, a cui attuazione ha inteso coordinare le attività
di restauro con le funzionalità liturgica e turistico-culturale dell’edificio.
Parte integrante del progetto è l’adozione del sistema integrato per la catalogazione del restauro (SICaR) che, a partire dal 2004, ha consentito di strutturare i dati
* Soprintendenza B.A.P.S.A.E.
di Lucca e Massa Carrara.
91
Inserimento dei dati:
Daniel D’Hainaut
provenienti dalla ricerca d’archivio, indirizzata in particolare alla raccolta di notizie sui restauri antichi o precedenti, quelli relativi all’analisi visiva e alla diagnostica, quelli grafici e fotografici e i dati descrittivi delle operazioni di restauro,
mettendoli in relazione con specifiche aree o opere. Tale strumento si rivela di
grande utilità proprio in un cantiere di restauro complesso, come quello della
Cattedrale lucchese in cui si opera su singoli, limitati manufatti e su grandi estensioni di superfici.
Uno dei progetti particolari elaborati ha come oggetto la grande tarsia pavimentale con la raffigurazione dell’episodio del Giudizio di Salomone (m. 8 x 8) collocata al centro della navata maggiore nella quinta campata.
SICaR ha consentito di inserire tutti i dati conoscitivi fin qui raccolti nella fase preliminare di studio, diagnostica e analisi e di metterli a disposizione al fine dell’elaborazione, attualmente in corso, di un intervento di restauro sostenibile.
La tarsia, il cui disegno è stato riferito a Baldassarre di Biagio e a Matteo Civitali,
fu eseguito da Antonio di Ghino fra il 1475 e il 1477 su committenza di Jacopo
da Ghivizzano, operaio della Cattedrale dal 1470 al 1484 e grande estimatore di
Matteo Civitali.
Fra il 1794 e il 1796 la tarsia “guasta affatto dal tempo, e resa incomoda per le
buche lasciatevi dai pezzi di mosaico consumati, che in quantità vi esistevano”,
fu ‘rinnovata’ dai marmisti Cecchi che ne avevano fatto trarre prima un esatto disegno dal pittore Iacopo Antonio Citti.
Nel 1913 l’ Opificio delle pietre dure eseguì un primo intervento descritto in una
breve relazione, nel corso del quale furono sostituite alcune tessere e riprese,
sulla base del disegno settecentesco, le incisioni che disegnavano contorni, visi
e particolari decorativi
Durante la guerra un colpo di granata danneggiò la pavimentazione della cattedrale e in particolare la tarsia che fu oggetto, fra il 1967 e il 1968, di un secondo
intervento da parte dello stesso Opificio che operò, secondo la prassi del
tempo, con estese sostituzioni.
Della tarsia esistono alcune campagne fotografiche di straordinario interesse, a
partire da quella Alinari del 1876, che, insieme ai documenti d’archivio, hanno
consentito una individuazione degli interventi effettuati.
Con il sistema SICaR sono state identificate e documentate le tecniche esecutive
(ad intarsio, a commesso, ad incisione), e lo stato di conservazione, sono stati individuati graficamente gli interventi di restauro del passato e tali dati sono stati incrociati con quelli ricavati dalla termografia (eseguita da Profis s.r.l. di Gioli Guidi)
relativa al substrato, agli spessori e al loro stato di conservazione, e dal rilievo tridimensionale (realizzato da Scansystem in collaborazione con ASA studio di Napoli utilizzando uno scanner a luce strutturata) che ha consentito di approfondire
lo studio sulla possibile distinzione delle fasi di esecuzione del graffito e della loro
modalità esecutiva (spessori, profondità e presenza di malte di riempimento) e
lo stato generale della superficie interessata da consunzioni differenziate secondo
le caratteristiche geomorfologiche dei materiali costitutivi.
Anche il laboratorio di restauro interno della Soprintendenza B.A.P.S.A.E. di
Lucca e Massa Carrara ha adottato il sistema SICaR in via sperimentale per alcuni
interventi; si presenta in questa occasione il restauro della scultura lignea della
Vergine del parto attribuita a Matteo Civitali intorno al nono decennio del secolo
XV, proveniente dalla chiesa Collegiata di Camaiore (Lucca) e oggi custodita nel
locale Museo d’Arte sacra. Trattandosi di un oggetto tridimensionale si è proceduto ad affiancare sullo stesso sfondo quattro fotografie del fronte, del retro e dei
due fianchi in modo da avere a disposizione un’immagine completa da poter
mappare.
92
Anche in questo caso il restauro è stato preceduto da un’approfondita ricerca
archivistica relativa alle vicende materiali, purtroppo devastanti, che ci hanno
consegnato un manufatto lacunoso sia nella superficie che nella struttura volumetrica, oggetto di almeno tre interventi di restauro (il primo precedente il 1933, il
secondo nel 1933 e l’ultimo eseguito fra il 1967 e il 1974) tutti documentati con
il sistema SICaR, che ha notevolmente agevolato sia l’elaborazione del progetto
sia l’esecuzione stessa del recente intervento il cui obiettivo è stato quello di ricomporre, per quanto possibile, l’originaria volumetria della scultura e recuperare
le frammentarie stesure cromatiche originarie; in SICaR sono confluite le fotografie
rintracciate negli archivi e relative ai restauri precedenti, sono state mappate le
parti sostituite nel corso del passato, indicati i saggi stratigrafici che hanno consentito, con l’ausilio delle analisi al microscopio ottico polarizzatore, di individuare le stesure e le cromie originali e descritte le operazioni eseguite.
A restauro concluso la scultura è stata oggetto di una mostra “Ecce ancilla domini: l’iconografia della Vergine Annunziata in Matteo Civitali scultore”, tenuta a
Camaiore dal 25 luglio al 30 settembre 2008, nella quale un grande schermo ha
proiettato le più significative immagini tratte da SICaR al fine di raccontare anche
ad un pubblico non specialista le vicende dell’opera.
Restauro: Eleonora Rossi
Ricerche d’archivio e
inserimento dati:
Claudia Marchese
"Nuove tecnologie e indagini filologiche per la chiesa
di S. Pietro in Vinculis"
Marta Ciafaloni*, Nadia Montevecchi**, Andrea Sbardellati**
L’articolato processo di restauro delle superfici parietali lapidee, o intonacate,
non può prescindere dall’applicazione di un corretto processo metodologico
che basa le scelte applicative sulla conoscenza approfondita delle condizioni
materiche.
L’indagine stratigrafica al microscopio ottico su campioni di patine o strati superficiali, unitamente alle necessarie indagini chimiche, fornisce i dati utili a verificare
la compatibilità dei materiali, individuati per la pulitura, con le patine o gli eventuali cromatismi che intendiamo salvaguardare.
Generalmente si procede alla pulizia dei depositi superficiali del paramento lapideo con le tradizionali tecniche a impacco a base di carbonato di ammonio
in soluzione acquosa diversamente diluito e con tempi di applicazione variabili.
Talvolta le stratificazioni superficiali si rivelano particolarmente ostinate e non
* Soprintendenza BAPSAE
di Pisa e Livorno
** Dedalo S.A.S. Firenze
93
basta aumentare il tempo di posa o la densità della soluzione, né si rivela sufficiente l’utilizzo di impacchi a base di resine a scambio ionico. La tecnica di pulitura viene infatti messa a punto in ogni specifico caso con prove di applicazione
e di dosaggio delle soluzioni e con l’introduzione, ove necessario, di tecnologie
alternative, nel rispetto delle sottostanti pellicole di ossalato. Nel caso della
chiesa di San Pietro in Vincoli, di fronte alla maggiore ostinazione dei depositi,
sono stati effettuati alcuni saggi di rimozione con delicati interventi di micro sabbiatura controllata. Considerati poco soddisfacenti gli effetti di pulitura si è preferito procedere mediante l’applicazione di tecnologia Laser, sottoponendo i
risultati a confronto previa campionatura al microscopio ottico.
Il potere innovativo della più avanzata tecnologia Laser consiste nella capacità di
procedere alla pulitura in maniera selettiva, mediante l’interruzione automatica
del processo alla minima variazione cromatica della superficie. Così il laser diventa un naturale strumento di lavoro per il restauratore che controlla il processo
con maggiore sicurezza anche rispetto alla tradizionale pulizia a impacchi, e decide di volta in volta il livello di asportazione delle patine di deposito. L’uso del
laser consente inoltre una maggiore flessibilità nella pulizia dell’ornato architettonico, anche in interstizi difficilmente raggiungibili con tecniche tradizionali.
L’inserimento in SICaR della documentazione relativa a questa tecnica all’avanguardia ha consentito di segnalare gli interventi a laser evidenziando le diverse
modalità di pulitura tramite il collegamento a specifiche schede intervento.
La “lettura” stratigrafica degli edifici permette di delineare gli effetti che il trascorrere del tempo ha causato sulla struttura materiale. Le fasi costruttive, le trasformazioni dell’involucro murario e dei rivestimenti, le modifiche del sistema
strutturale, il comportamento dei materiali da costruzione tradizionali, etc., sono
inseriti in una maglia “storica” generale, che spiega e giustifica lo stato attuale di
conservazione e fornisce utili indicazioni nelle scelte da adottare nell’intervento
di conservazione e restauro.
La conoscenza dimensionale dell’architettura è strettamente correlata a quella
storico- archeologica, soprattutto ai fini della corretta impostazione di un progetto di restauro. La struttura architettonica viene descritta principalmente attraverso l’integrazione di due metodi di acquisizione dei dati: il rilevo metrico per
la definizione geometrica dell’edificio ed il rilievo fotografico referenziato per la
rappresentazione delle superfici, in grado di garantire oltre alla correttezza dimensionale, la visualizzazione contemporanea anche di altri tipi di informazioni.
Grazie all’impiego di fotografie con valore metrico è possibile trasformare i risultati “adimensionali” di un qualunque settore disciplinare coinvolto nell’intervento
di restauro, come ad esempio lo studio archeologico, in entità quantificabili associate in maniera univoca alla struttura. Questo permette di gestire attraverso il
sistema informativo SICaR le fasi di un progetto di restauro, dall’analisi conoscitiva
all’esecuzione degli interventi.
Nel 1999, in occasione del restauro e consolidamento della chiesa di San Pietro
in Vincoli a Pisa, con la direzione scientifica della Soprintendenza BAPSAE di
Pisa e Livorno, è stata avviata un’indagine archeologica sulle strutture murarie, predisponendo un rilievo fotografico metrico delle componenti maggiormente rappresentative della fabbrica. I risultati della prima fase di studio ha permesso di
determinare la sequenza storico-costruttiva dei diversi interventi stratificati, individuando nell’area orientale il nucleo originale della chiesa (forse ascrivibile all’XI
secolo), successivamente trasformata e poi ampliata verso ovest in almeno due
importanti cantieri tra l’XI e il XII secolo.
Nella seconda fase di studio (2006), lo smontaggio del piano pavimentale della
cripta ha messo in luce una serie di strutture murarie utilizzate in fondazione. Il
quadro che ne è emerso si è rivelato decisamente complesso, ma estremamente
94
ricco di informazioni, rappresentando un’occasione unica per dare risposta ad
una serie di quesiti rimasti aperti negli studi pregressi, riuscendo a intervenire
con analisi non distruttive su parti fondamentali della chiesa mai documentate
prima. Sono stati quindi programmati il rilievo dimensionale e la lettura archeologica delle strutture emerse, allo scopo di precisare le complesse vicende del
nucleo più antico, rispondendo così anche ad uno dei quesiti sinora rimasti
aperti sull’originaria quota del piano pavimentale della cripta. In questa stessa
occasione, è stata, inoltre, evidenziata la sequenza delle finiture e dei rivestimenti
principali, con particolare attenzione alle volte a crociera che coprono la cripta,
correlando la lettura macroscopica della stratificazione alle analisi mineralogicopetrografiche condotte a campione dal Dott. Marcello Spampinato, fornendo le
necessarie indicazioni alle scelte progettuali del restauro.
“SICaR e gli affreschi del Camposanto di Pisa: uno strumento per la
gestione integrata della documentazione di restauro”
Clara Baracchini*
Componente essenziale dei complessi significati assunti dal Camposanto monumentale di Pisa nei suoi sette secoli di storia –chiesa, reliquiario, cimitero e
poi famedio delle virtù cittadine ed embrione di museo civico—, gli affreschi che
tra il XIV e il XV secolo si erano dispiegati sulle sue pareti, entrando a convivere
con i sarcofagi antichi e con i monumenti celebrativi, contribuiscono in modo determinante a creare la crescente fortuna del monumento, grazie anche alla diffusione che trovano in tutta Europa attraverso gli schizzi di artisti e viaggiatori che
lo avevano visitato e dalle incisioni colorate che il suo Conservatore, Carlo Lasinio,
ne aveva tratto ai primi dell’Ottocento.
Queste incisioni, richieste come tributo alla loro fama, ma anche perché di essi
rimanesse almeno la memoria, sono però anche la prova che gli affreschi denunciavano già allora un vistoso degrado.
Per tutto il secolo gli affreschi del Camposanto sono oggetto di sperimentazioni
e polemiche, palestra ideale per la nuova scienza del restauro che muoveva i
primi passi, tanto che divengono uno dei temi di dibattito in occasione del primo
Congresso degli Scienziati Italiani, tenutosi a Pisa nel 1839; i più svariati materiali
vengono utilizzati per tentare di fermare lo sfarinamento del colore e i distacchi
dell’intonaco (uovo, fiele di bue, latte, gesso), fino ad arrischiarsi nella seconda
metà del secolo in prove di distacco dalle pareti o in consolidamenti più “aggiornati” quali la nebulizzazione con mastice diluito in alcool o in trementina.
E quando il già precario equilibrio viene turbato dai danni causati da uno spezzone incendiario caduto sull’edificio nel corso della seconda guerra mondiale e
gli affreschi devono essere strappati dalle pareti, se ne tenta il salvataggio ricorrendo sia a sostanze “tradizionali” sia a nuovi o nuovissimi ritrovati: le relazioni di
restauro e i pagamenti dell’epoca ci parlano di resine sintetiche e cellulosa, caseina, paraffina e ammonio, acetil cellulosa, gommalacca.
Nell’affrontare la necessità di porre rimedio al degrado che verso il 1980 si veniva
ripresentando allarmante e pervasivo negli affreschi staccati e riportati su eternit, fu
dunque subito evidente l’impellente necessità di dar luogo ad un progetto diagnostico multi-disciplinare che esplorasse lo stato di fatto e le fonti archivistiche per incrociare i dati documentari con l’osservazione sperimentale e con analisi
petrografiche e chimiche, con l’obbiettivo di correlare i molteplici trattamenti del
passato con i degradi riscontrati e potervi così più consapevolmente intervenire.
Al raggiungimento di questo obbiettivo ha concorso in maniera determinante l’utilizzo congiunto di ARISTOS e SICAR (1), che ha accompagnato la più recente fase dei
lavori(2), finanziati dall’Opera della Primaziale Pisana: è stato così possibile collegare
*Soprintendenza BAPSAE
di Pisa e Livorno
95
1
2
Per la descrizione dei due
sistemi e della relativa
bibliografia si rimanda alle
sezioni ‘progetto REARTE’
e “Documentazione
e restauro” del sito
www.artpast.org
Nel 2007 ha preso avvio una
campagna diagnostica sugli
affreschi di Buffalmacco, fino
a quel momento non toccati
dal nuovo restauro, sotto la
direzione di Antonio
Paolucci, Antonino Caleca e
della scrivente, con
l’assistenza di un vasto
gruppo di ricercatori
coordinati da Perla
Colombini e Mauro Matteini.
L’intervento di restauro da
tale campagna scaturito è
affidato, come i precedenti,
a Gianni Caponi. Per una
compiuta presentazione del
gruppo di lavoro e dei
risultati raggiunti, si rimanda
alla documentazione
presentata in occasione del
convegno
“Il Camposanto di Pisa,
un progetto di restauro
integrato”, Pisa, 7-8 marzo
2008, consultabile sul sito
dell’Opera
(http://www.opapisa.it/index
.php?id=287)
96
alla zona esatta di riferimento sia i sofisticati esiti della più aggiornata diagnostica sia
quelli derivanti da una accurata esplorazione archivistica su interventi e vicende del
Camposanto, dalla sua nascita fino ad oggi: sono infatti stati messi a disposizione del
gruppo di lavoro più di 13.500 fonti testuali e iconografiche in Sicar e più di 2.000
documenti in Aristos, strutturati nel massimo rispetto della fonte, resa disponibile
nella sua integrità come trascrizione e/o scansione.
La duttilità di SICAR ha consentito di individuare tanti sistemi di riferimento quante
sono le scene raffigurate sulle pareti, per un totale di 65 ortofotopiani, a loro volta georeferenziati sulla parete di appartenenza, fino ad arrivare a creare come sistema autonomo di riferimento la porzione di affresco su cui si svolgevano le prove (e i relativi
controlli) di pulitura. Gli ortofotopiani, cui sono collegate come Dati esterni le rispettive
schede di catalogo -utilizzando così la capacità del sistema di interagire con altri sistemi informativi in rete-, sono le basi su cui sono state mappate le informazioni di cantiere (strutturate in Categorie e Layers) e sono stati georeferenziati i dati alfa-numerici,
strutturati in Schede (Analisi, Immagini, Degrado, Interventi).
Partendo da una prima ricognizione dell’iconografia storica, attraverso categorie
dedicate, si passa alla strutturazione dei dati relativi agli interventi di restauro (da
quelli ottocenteschi a quello post-bellico fino a quello in corso), con una divisione in layers corrispondenti alle principali fasi di intervento. Le informazioni riguardanti l’ultimo restauro sono state mappate facendo riferimento alle sezioni
di strappo degli affreschi stessi e ad ognuna di esse sono state collegate tanto
le schede descrittive degli interventi quanto i corrispondenti diari di cantiere e
relazioni di restauro (in formato pdf), ancora una volta utilizzando, ma in maniera
diversa, le Schede Dati esterni.
La categoria dedicata alla diagnostica contiene al suo interno tanti layers quante
sono le tipologie di analisi effettuate, per ognuna delle quali è stata definita una
scheda ad hoc; sui layer sono stati mappati i punti o le aree su cui è stata effettuata
l’indagine corrispondente e ad ognuno di esse è stata collegata la scheda specifica con la descrizione puntuale del risultato dell’analisi effettuata. Anche in questo
caso, per consentire una visione organica e complessiva delle indagini effettuate,
e comunque per consentire la consultazione integrale dei dati ufficiali, sono state
collegate, come Dati esterni, le relazioni degli analisti in formato pdf.
L’approccio scientifico multidisciplinare è dunque divenuto effettivamente interdisciplinare grazie alla possibilità di leggere e interpretare in tempo reale e in riferimento all’area specifica tutti i dati acquisiti, portando ad una definizione più
compiuta della natura degli elementi individuati e facilitando la ricostruzione sia
delle tecniche esecutive che delle procedure utilizzate nei vari interventi di restauro.
DIREZIONE GENERALE PER L’ORGANIZZAZIONE, L’INNOVAZIONE,
LA FORMAZIONE, LA QUALIFICAZIONE PROFESSIONALE
E LE RELAZIONI SINDACALI
URP - Ufficio Relazioni con il Pubblico:
“Continuità ed innovazione”
Sono trascorsi sei anni dalla istituzione dell’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico
presso il Segretariato Generale del Ministero e nonostante vicissitudini non sempre positive per la ottimale gestione della struttura, possiamo dire che l’entusiasmo non è mai venuto meno nelle persone che sono chiamate a condurlo. Ne
sono una prova:
- il numero dei contatti intervenuti con i cittadini e le risposte fornite
- la collaborazione con il CNR
- gli incontri promossi su materie riguardanti la comunicazione e la cultura
- la promozione tendente ad avviare la creazione di URP in altre dipendenze
MIBAC
- la cortesia, la professionalità e la disponibilità del personale (in gran parte,
purtroppo, ancora precario).
Nei giorni che vedono l’insediamento del nuovo Governo della Repubblica ci auguriamo che la valorizzazione della Comunicazione Istituzionale e di settore trovi
la giusta rispondenza nei nuovi responsabili.
Riportiamo, a titolo indicativo, alcuni dati sulla entità del lavoro svolto:
- 43.088 sono i contatti intervenuti dalla istituzione dell’URP al 31 marzo 2008;
- i contatti telefonici gestiti dal personale adibito al servizio del numero verde
(800991199) sono stati 998.277.
L’Ufficio Relazioni con il Pubblico, attraverso il suo responsabile e su incarico del
Capo dell’Area Ricerca, Innovazione e Organizzazione, partecipa al progetto del
CNR denominato “URPINSIEME”, collaborazione tra Amministrazioni Pubbliche
nel campo della comunicazione e dei servizi resi al cittadino.
Nell’edizione del COM.P.A. di Bologna 2005, nel corso di un affollato convegno,
è stato presentato il portale www.urpinsieme.it che riporta, in maniera agile ed
accattivante, quanto di meglio ed aggiornato figura nelle seguenti aree:
- Programmazione e finanziamenti
- Formazione
- Lavoro
- Internazionale
- Documentazione
- Servizi e appalti
- Manifestazioni ed eventi
Partecipano al portale:
- Consiglio Nazionale delle Ricerche - CNR
- Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente - ENEA
- Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori - ISFOL
- Ministero dell’università e della ricerca
- Ministero dell’economia e delle finanze
- Ministero della pubblica istruzione
- Ministero delle infrastrutture
- Ministero per i beni e le attività culturali
- Università La Sapienza di Roma
- Università degli Studi di Tor Vergata
- Università di ROMA TRE
URP
Ufficio Relazioni con il pubblico
Gaspare Carlini
Direzione Generale
per l’Organizzazione,
l’Innovazione, la Formazione,
la Qualificazione
Professionale
e le Relazioni Sindacali
Direttore Generale:
Antonia Pasqua Recchia
Via del Collegio Romano, 27
00186 - Roma
Tel. 06 67232007
Fax 06 67232106
[email protected]
URP – Ufficio Relazioni
con il pubblico
Servizio I – Affari generali,
sistemi informativi,
tecnologie innovative
URP- Ufficio Relazioni
con il Pubblico
Responsabile:
Gaspare Carlini
Via del Collegio Romano, 27
00186 Roma
Tel 06 67232980 - 2990
Fax 06 6798441
[email protected]
orario di apertura
lunedì-venerdì
9.00-14.00/14.30-17.30
97
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
98
Paesaggio e contemporaneità
Francesco Prosperetti
Il paesaggio italiano, costruito come un insieme di quadri ambientali di straordinaria varietà, e da sempre fortemente antropizzato, è purtroppo segnato dalle trasformazioni dell’ultimo secolo, che nella maggioranza dei casi non ne hanno
migliorato l’aspetto. L’indiscriminato consumo del territorio di questi ultimi anni
ha aggravato la sofferenza dei paesaggi italiani, che hanno continuato anno dopo
anno a perdere identità,verso una sempre omologazione ai caratteri ambientali
propri di uno sviluppo senza regole.
La selezione dei progetti per la candidatura al Premio del Paesaggio del Consiglio
d’Europa, che ha comportato una approfondita ricerca sulle azioni condotte in
questi ultimi anni dalle pubbliche amministrazioni italiane in difesa del paesaggio,
ha mostrato la capacità dei territori di reagire a questo stato di sofferenza e,
come nel caso della Val di Cornia, ha evidenziato quali strategie sia possibile
mettere in atto per la riqualificazione del territorio. Attraverso la combinazione
di interventi, come la riqualificazione delle coste degradate dall’abusivismo, il recupero dell’archeologia industriale e la valorizzazione del patrimonio archeologico e monumentale, l’esperienza della Val di Cornia ha configurato un insieme
di buone pratiche da diffondere, un riferimento esemplare in cui si è saputo mettere a sistema un modello di gestione integrata, mirata al turismo ed allo sviluppo
sostenibile del proprio paesaggio.
Il modello di sviluppo deve avere la capacità di riqualificare l’ambiente in cui viviamo attraverso l’attivazione di risorse che valorizzano e fanno crescere la comunità insediata.
Il rapporto risorse del territorio/risorse umane rappresenta un binomio virtuoso di
crescita per conseguire il bene integrato della società, esso rappresenta un modello attuativo sostenibile, che si autogenera sul territorio senza impoverirlo ma
anzi costituendone un fattore di crescita.
La qualità del paesaggio diventa così un concreto fattore di valutazione delle
politiche messe in atto dalle Amministrazioni per lo sviluppo del territorio, e
contribuisce a far crescere l’attenzione verso le esperienze virtuose di governo
della contemporaneità.
La PARC si è fatta interprete di questa realtà, registrando le istanze delle comunità
locali, che sono le prime ad avvertire la necessità di riequilibrare in tal senso la
vita nei propri territori, e si attiva per sviluppare, attraverso il raccordo con gli
enti locali e con gli altri soggetti istituzionali interessati, una nuova “industria della
creatività sostenibile”.
Paesaggi trasformati, paesaggi restaurati
Maria Grazia Bellisario
I paesaggi sono da sempre soggetti a trasformazioni, per i fattori più diversi, naturali ed antropici. Nella realtà quotidiana le amministrazioni pubbliche preposte
alla tutela sono continuamente sollecitate dalla complessa e gravosa attività di verifica di compatibilità con la salvaguardia dei valori del territorio ed impegnate
nel comune percorso che deve condurci a dare piena attuazione alla parte terza
del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Le istituzioni, le comunità, sono chiamate dunque a strutturare e finalizzare la
collaborazione istituzionale verso piani e progetti mirati all’uso responsabile ed
alla trasformazione sostenibile del territorio e ad orientare l’azione comune verso
la complessiva qualità degli interventi di trasformazione del territorio, oggi fortemente condizionati dalla drastica accelerazione dei processi di sviluppo.
La questione di sempre è quella di perseguire una relazione equilibrata tra bisogni sociali, attività economiche e conservazione delle componenti culturali ed
ambientali del territorio, in coerenza con gli indirizzi dettati dalla Convezione
Europea del Paesaggio.
Occorre oggi operare con più forza affinché le trasformazioni siano improntate
sulla qualità, sia in termini di qualità nella percezione degli assetti trasformati e,
dunque, di realizzazione fisica di nuovi insediamenti, sia della capacità di mantenere un rapporto positivo e durevole con i beni che si intende preservare, che
si traduce anche in capacità di partecipazione attiva alle scelte, alla gestione ed
alla fruizione del patrimonio culturale. È dunque maturo oramai il tempo per raccogliere i frutti del lavoro avviato da più parti in favore del paesaggio: da parte
delle istituzioni territoriali, innanzitutto, ed in particolare dei comuni, nelle diverse
forme di aggregazione; dalle amministrazioni provinciali e regionali, come anche
da parte di soggetti privati che perseguono finalità pubbliche. Oltre che, naturalmente, da parte delle strutture dello Stato, impegnate Tutto questo richiede impegno di tutti nella quotidiana ed accorta attività di tutela, ma pari impegno nella
attività propositiva: in studi ed approfondimenti, in analisi e ricerca, nella capacità
progettuale applicata alla cura e valorizzazione del paesaggio ed alla qualità
della pianificazione e delle scelte di intervento.
Richiede conseguentemente anche volontà e possibilità di investire risorse destinate ad un vantaggio collettivo innegabile, che è quello di mantenere/migliorare la qualità della vita delle nostre comunità. Si avverte dunque oggi più che mai
l’esigenza di condividere le azioni positive già in atto.
La selezione per la candidatura dell’Italia al Premio del Paesaggio del Consiglio
d’Europa, ha rappresentato un’occasione importante per rilanciare l’attenzione su
ciò che si fa di buono intorno al paesaggio italiano.
L’esperienza recentemente condotta dalla Direzione PARC del Ministero per i
beni e le attività culturali ha mostrato come, in un arco temporale di poche decine di giorni, si siano rivelate già attive da almeno tre anni numerose esperienze
coerenti con i principi di sostenibilità, esemplarità, partecipazione, espressi dalla
Convenzione Europea del Paesaggio.
I risultati della prima fase del Premio ne sono una prova concreta. L’intervento selezionato quale candidatura italiana al Premio del Consiglio d’Europa – “Il sistema
dei parchi della Val di Cornia” – corrisponde efficacemente allo scenario delineato,
come pure ne fanno parte i numerosi altri interventi selezionati e menzionati, illustrati quali esempi di positiva attenzione alla cura del paesaggio, che si intende
sostenere, incentivare, diffondere quali esperienze di qualità, per farne patrimonio
comune e nuova occasione di sollecitazione per le realtà meno avanzate.
La Direzione PARC, le Soprintendenze e le altre strutture del Ministero, in accordo
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
Servizio Tutela del Paesaggio
Dirigente: Maria Grazia Bellisario
99
con le amministrazioni territoriali coinvolte, sono impegnate nella direzione di
una comune azione di rilancio delle azioni positive a favore del paesaggio italiano, anche attraverso l’avvio, che si auspica imminente, dell’attività dell’Osservatorio Nazionale per la qualità del paesaggio e di un appuntamento di
confronto internazionale che si intende realizzare per il prossimo autunno, per
raccogliere le migliori esperienze e dare voce, visibilità ed impulso a tutte le
espressioni vive e creative a favore del paesaggio.
Val di Cornia
Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa
Procedura di selezione della candidatura italiana
Direzione Generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte
contemporanee
Francesco Prosperetti
Direttore Generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte
contemporanea
Maria Grazia Bellisario
Dirigente servizio tutela del paesaggio
Daniela Sandroni
Dirigente servizio pianificazione e qualità del paesaggio
Progetto a cura di
Alessandra Fassio (referente)
Clarice Marsano
Erminia Sciacchitano
Referente per la comunicazione e le relazioni esterne del progetto
Alessandra Pivetti
Collaboratore comunicazione
Gaia Gallotta
Responsabile ufficio di direzione e relazioni istituzionali
Laura Gabellone
Organizzazione e comunicazione
ACMA Centro Italiano di Architettura
www.premiopaeaggio.it
100
Il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa:
una nuova attenzione al patrimonio paesaggistico
Alessandra Fassio*
La PARC tra novembre e dicembre 2008 ha organizzato la selezione italiana per
individuare l’intervento che avrebbe rappresentato l’Italia al Premio del Paesaggio
del Consiglio d’Europa 2009, in attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000). Il premio biennale, alla sua prima edizione, riguarda progetti realizzati da almeno tre anni che esprimano, in termini pratici, i principi
contenuti nella Convenzione ed è rivolto ad amministrazioni pubbliche, anche
consorziate, e ONG. Sulla base della rispondenza ai criteri espressi dal regolamento del Premio, si vogliono individuare e premiare gli interventi espressione
concreta (3 anni di esercizio dalla realizzazione) di una politica di sviluppo integrata nel territorio, che dimostri le qualità ambientali, sociali, economiche, culturali e formali sostenibili, che si opponga o rimedi al degrado del paesaggio
contribuendo a valorizzarlo e sviluppando in esso nuove qualità (sostenibilità),
che rappresentino modelli significativi di buone pratiche alle quali altri soggetti
potranno ispirarsi (esemplarità), che rilevino una condivisione pubblica deducibile sia dall’integrazione dei diversi livelli amministrativi che dal coinvolgimento
delle popolazioni nelle varie fasi di realizzazione (partecipazione), capaci di attivare e/o sviluppare la consapevolezza delle comunità locali sui valori connessi
al patrimonio paesaggistico (sensibilizzazione).
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Val di Cornia: sei parchi, un museo
e cinque Comuni
Comune di San Quirico D’Orcia (Siena)
Bagno Vignoni e le sue acque
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
Servizio Tutela del Paesaggio
Dirigente: Maria Grazia Bellisario
*Curatore e referente della
procedura di sezione per la
candidatura italiana al Premio
del Paesaggio del Consiglio
d’Europa.
Parco del Delta del Po - Una nuova natura per
la Salina di Comacchio
Provincia di Livorno - Conservazione
e valorizzazione del viale monumentale
di Bolgheri
All’interno delle proposte pervenute, molti interventi riguardano la tutela attiva dei
paesaggi, degli usi tradizionali e della memoria dei luoghi. E comunque nella maggioranza delle proposte è presente una componente significativa per il recupero dei valori paesaggistico-ambientali uniti ad una attenzione alla attualizzazione dell’uso di
questo patrimonio. Ciò da direttamente la misura dell’avanzamento compiuto dalle
comunità locali nella coscienza della salvaguardia di un patrimonio identitario.
Il paesaggio di per se è una entità che muta continuamente in virtù delle azioni
umane siano ad esso correlate o meno. Esso, come ambito della vita dell’uomo,
è coinvolto in qualsiasi azione etica sia politica che economica. Con questa pre-
101
messa è difficile utilizzare la parola “conservazione” perché, anche nella sua accezione più estensiva, è antitetica rispetto alla dimensione perennemente evolutiva del paesaggio.
Il concetto più attinente sembra essere quello di salvaguardia dei valori qualificanti all’interno di un inevitabile processo di modificazione che deve a questo
punto essere necessariamente sostenibile.
In questa ottica si è scelto di mostrare, tra gli interventi che hanno partecipato alla
selezione per il Premio del Paesaggio, tipologie varie ed articolate di restauro, recupero e/o ridefinizione del paesaggio e dei suoi caratteri.
Regione Emilia Romagna Romagna Programmi regionali per la promozione
di progetti di tutela e valorizzazione
del paesaggio
Associazione Nazionale Città della Terra
Cruda (Medio Campidano)
I Paesaggi della Terra Cruda
Comune di Roma - La valle della Caffarella
Parco nazionale delle Cinque Terre
Pianificazione e recupero delle opere
di sistemazione del Territorio Costiero
delle Cinque Terre
Regione Sardegna - Il Parco dei suoni nelle
cave dismesse di arenaria del Sinis
FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano Kolymbetra (Agrigento), gli antichi percorsi
d’acqua: dalla memoria al riuso
Provincia Autonoma di Bolzano
Centro per la sperimentazione agraria e
forestale Laimburg
I giardini di Castel Trauttmansdorff (Merano)
102
Il restauro del paesaggio storico attraverso
la valorizzazione e il recupero delle ferrovie dismesse
Maria Maddalena Alessandro*, Clarice Marsano*
La Direzione Generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura
e l’arte contemporanee, nell’ambito dei compiti di tutela e valorizzazione
paesaggistica ad essa attribuiti, sta positivamente operando nelle attività coordinate tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per l’avvio di un Programma di valorizzazione e recupero delle ferrovie dismesse, grazie a un fondo di 2 milioni di euro per
l’anno 2008 a ciò destinato dalla legge 244/07.
L’impegno della Direzione scaturisce dalla convinzione che tra gli elementi
più significativi che costituiscono il paesaggio e ne caratterizzano gli ambiti,
i percorsi storici (da quelli viari, già oggetto di diretto coinvolgimento del
Ministero con iniziative di studio e promozione, a quelli ferroviari, rivestono
particolare interesse), per il valore testimoniale da esse rappresentato, in
particolare quest’ultime in quanto espressione della politica culturale del
nuovo stato italiano unitario nell’attribuire ai collegamenti viari e ferroviari la
potenzialità di favorire scambi economici e culturali tra popolazioni con
storia e tradizioni diverse.
Il recupero di tali opere si identifica come un vero e proprio restauro paesaggistico, con il ripristino del sedime ferroviario e delle opere d’arte connesse, finalizzato anche ad altri modi di percorrenza, ecologicamente
compatibili (a piedi, in bicicletta o a cavallo), prevedendo la rifunzionalizzazione anche delle stazioni e dei manufatti realizzati per la manutenzione
delle linee, come siti di orientamento turistico e/o ‘nodi di scambio’ verso
località di interesse storico artistico o naturalistico prossime al tracciato.
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
Servizio Tutela del Paesaggio
Dirigente: Maria Grazia Bellisario
Servizio Qualità del Paesaggio
Dirigente: Daniela Sandroni
* Rappresentanti del MiBAC
presso il Ministero della tutela
del territorio e del Mare per
l’avvio del Programma di
Valorizzazione e recupero
delle ferrovie dismesse L.244/07
tratto da Giancarlo Pesci
103
L’operazione di restauro e recupero funzionale del sistema ferroviario dismesso è imprescindibile dalla successiva gestione, pensata in termini di risorsa economica oltre che culturale, con attività di carattere turistico
finalizzate anche alla valorizzazione di presenze storico artistiche, archeologiche e naturalistiche di difficile raggiungibilità attraverso le usuali e attuali
vie di comunicazione.
Il programma e i progetti si avvarranno degli studi già effettuati dalla Associazione Italiana Greenways che, con l’associazione COMODO (Confederazione per la Mobilità Dolce), ha svolto da molti anni e svolge tutt’ora una
qualificata azione di promozione e di conoscenza del patrimonio storico
costituito delle tratte dismesse presenti in ambito internazionale e nazionale.
In Italia, l’avvio al programma potrebbe essere costituito da interventi progettuali nelle tratte che, per lo stato di conservazione in cui si trovano e per
le valenze turistiche e culturali ad esse attribuibili, presentano caratteristiche
di fattibilità in termini di sostenibilità e durabilità tali da non vanificare l’impegno e l’investimento economico necessario al loro recupero quali quelle
di seguito elencate, individuate dall’Associazione Italiana Greenways:
Lombardia:
Liguria:
Emilia Romagna:
Veneto:
Marche:
Umbria:
Lazio:
Lazio:
Puglia:
Calabria:
Sicilia:
Sardegna:
104
Voghera – Varzi
Ospedaletti – Sanremo
Rimini – Novafeltria
Treviso – Ostiglia
Fermo – Amandola
Spoleto – Norcia
Roma – Paliano – Fiuggi
Capranica – Civitavecchia
Gioia del Colle – Palagiano
Lagonegro – Castrovillari
Siracusa – Ragusa – Vizzini
San Gavino – Montevecchio
Il Paesaggio Urbano: i centri storici e la condivisione delle
scelte nella pianificazione paesaggistica
Stefania Cancellieri*
Attraverso la lettura di alcuni capisaldi della normativa relativa ai centri storici a
partire dalle prime leggi di tutela si vuole analizzare come questo problema sia
stato affrontato nelle varie epoche ed esaminare la situazione allo stato attuale,
gli eventuali progressi o le carenze ancora presenti.
Nonostante l’acceso dibattito che a partire dagli anni Sessanta si è registrato in
questa materia (ricordiamo che nel 1960 ha avuto luogo il Convegno di Gubbio
che segna la svolta in questa materia: infatti si auspicò per la prima volta l’estensione della tutela e della salvaguardia a tutta la città storica, a tutto l’insieme
della struttura urbanistica quale si è venuta lentamente componendo nei secoli;
il tema del centro storico fu oggetto di attenzione anche a livello internazionale:
nell’art. 1 della Carta di Venezia del 1964 «il monumento storico comprende
tanto la creazione architettonica isolata quanto l’ambiente urbano e paesistico
che costituisca la testimonianza di una civiltà...») si rileva come i risultati a tutt’oggi siano ancora modesti. Si è ancora alla ricerca dell’oggetto di tutela, anche
per giunta da definire:che cos’è un centro storico, quali i contenuti di tutela,
quali i mezzi?
Contesti antichi caratterizzati sia da identità estetico-culturali sia da pregevoli
elementi storico-architettonici sono stati sottoposti a vincolo di tutela con la L.
1497/39 che ha rappresentato il primo riferimento normativo. Il centro storico era
definito come «bellezza d’insieme», il vincolo era puramente descrittivo e la gestione era demandata agli strumenti urbanistici.
Una protezione mediata dei centri storici è stata possibile grazie alla L. 1089/39; la
Soprintendenza dichiarando l’interesse storico-artistico di un singolo monumento
aveva la possibilità di attivare la tutela indiretta prevista dall’art. 21 sulle aree limitrofe
al monumento stesso come nel caso di Parma, dove grazie all’impegno ed alla volontà degli Uffici preposti, sono stati decretati una serie di vincoli puntuali ma nel
contempo diffusi che hanno interessato l’intero tessuto urbano.
La L. 1150/42 ha stabilito, per la prima volta, le norme alle quali dovevano attenersi i Comuni nella redazione dei PRG ponendo come irrinunciabili quelle tese
ad assicurare «la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici» e precisando che eventuali modifiche in tale settore
dovevano essere approvate, sentito il Ministero della Pubblica Istruzione.
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
Servizio Tutela del Paesaggio
Dirigente: Maria Grazia Bellisaro
*Responsabile della
Commissione per i paesaggi
montani, collinari ed i nuclei e
centri storici:
Stefania Cancellieri
Sambuci (RM) - Il risultato della
sovraspposizione di
competenze e la mancanza di
chiarezza normativa
105
Ingresso al centro storico di
Sambuci e in fondo
Castello Theotoli
106
La Commissione Franceschini, istituita nel 1964 per una indagine sullo stato del
patrimonio storico artistico archeologico e del paesaggio, evidenziò che il problema dei centri storici non poteva essere risolto solo in sede di disciplina dei
beni culturali ed ambientali ma richiedeva il coinvolgimento della strumentazione
urbanistica e auspicò che la tutela si dovesse attuare attraverso i piani regolatori.
Il DM. 1444/68 perimetrò il tessuto storico della città e definì «la zona territoriale
omogenea di tipo A» le parti del territorio interessate da agglomerati urbani di
particolare pregio comprese le aree circostanti. Tale definizione favorì l’affermarsi
di un’interpretazione estensiva ed elastica del termine e innescò un’ambiguità
di interpretazione affidando la gestione della tutela alla Amministrazione Comunale, la più consapevole della storia della città, ma la più fragile rispetto alla forza
di pressione esplicata da interessi antagonisti.
Negli anni ‘70 emerse il ruolo primario delle Regioni nella pianificazione paesistica;
con il DPR 616/77 è stata delegata alle Regioni la protezione delle bellezze naturali.
La L. 431/85 assoggettò a vincolo paesaggistico interi ambiti territoriali, ma i centri
storici rimasero esclusi da questa politica di tutela.
Il D.Lgs. 42/04, il cosiddetto Codice Urbani, considerata la molteplicità di Enti
pubblici e privati, di cooperative ed imprese cui vengono affidate competenze
di tutela e di “valorizzazione”, ha previsto varie forme di intesa e di collaborazione, di accordi preventivi e di cooperazione tra gli Enti territoriali ed il Ministero
per i Beni e le Attività Culturali; ha, inoltre, introdotto alcune importanti novità: con
l’art.10 c.4 lett.g della parte seconda relativa ai Beni Culturali del D.Lgs. 42/04. ha
ampliato l’ambito della tutela del vincolo diretto dal «monumento ed il suo contesto immediatamente limitrofo» alle «pubbliche piazze, vie, strade ed altri spazi
aperti urbani di interesse artistico e storico», con l’art.136 c.1 lett.c comma così
modificato dall’art.2 del D.Lgs.63/2008 della parte terza relativa ai Beni Paesaggistici ha introdotto «i centri ed i nuclei storici» e con gli art.140 e art.141 bis ha
previsto le “misure di gestione” del vincolo. La Regione Lazio. nel merito, nella stesura del PTPR. adottato nel febbraio 2007, ha sottoposto a vincolo tutti i centri storici della regione e tentando di coniugare la tutela con lo sviluppo ha previso
una zona di rispetto con una serie di prescrizioni.
Problema intricato e ancora da chiarire resta l’applicazione di questi strumenti di
tutela, concepiti per salvaguardare valenze formali ‘di facciata’, del tessuto urbano antico e la modalità di concertazione tra le amministrazioni e gli enti preposti alla tutela del territorio e dell’identità storico architettonica dei centri storici.
In realtà l’unico modo valido di concepire l’ambiente urbano antico è quello storico critico: solo una conoscenza accurata dell’organismo urbano, della tipologia
edilizia che lo costituisce, del relativo processo formativo, delle tecniche costruttive, dei materiali adottati e dei trattamenti cromatici consente un corretto recupero, che si dovrebbe attuare attraverso una molteplicità di operazioni, da
quelle tipiche del restauro conservativo alla reintegrazione di brani edilizi distrutti
alla nuova edificazione di qualità.
Il centro storico deve essere concepito come un “Bene Culturale”.
Da questo panorama, seppure sintetico per esigenze editoriali, emerge la delicatezza del problema e la necessità di porre fine a tale confusione terminologica
e concettuale con una chiara legislazione sia prescrittivi sia propositiva.
Sustainab.Italy
La via Italiana alla sostenibilità
Erminia Sciacchitano*
Sustainab.Italy nasce con l’obiettivo di monitorare e sostenere le punte d’eccellenza della produzione architettonica sostenibile italiana, grazie ad una rassegna
di progetti firmati da giovani architetti italiani attenti a coniugare la qualità formale
ed estetica con le istanze sociali, il rispetto dell’ambiente, l’innovazione e il recupero del patrimonio edilizio, che ha rappresentato l’Italia al London Festival of
Architecture 2008 proseguendo la ricerca Contemporary ecologies; energies for
Italian Architecture, avviata nel 2006 in occasione della V Biennale di Architettura
di Brasilia.
Sustainab.Italy è il frutto di una chiamata pubblica rivolta ai progettisti italiani:
174 progetti ricevuti fra i quali sono stati selezionati 41 lavori, in gran parte realizzati, segno che l’attenzione all’uso sostenibile delle risorse energetiche, ambientali, naturali, sta diventando parte integrante del processo di progettazione
in Italia.
Le proposte pervenute sono caratterizzate da varietà e ricchezza di temi: dal recupero di insediamenti industriali a nuove aree produttive, scuole e asili, centri
comunitari, parchi e spazi pubblici, residenze e uffici. Opere e progetti dove
l’ecologia sociale, legata al benessere di una comunità e del cittadino, diventa
un tema di produzione spaziale avanzato; architetture nate dal connubio di storia, natura e contemporaneità; tipologie rappresentative di una nuova generazione di edifici eco-compatibili.
Sustainab.Italy mette a fuoco il nostro sguardo oltre l’orizzonte consueto, proiettandolo verso il carico che graverà sulle generazioni future a causa delle azioni che
compiamo oggi. La ricchezza di progetti di qualità di testimonia che la lente della
sostenibilità è sui tavoli dei progettisti italiani: la sensibilità e l’esperienza dei nostri
architetti, formati nella palestra di una pratica della progettazione che si confronta
da sempre con i temi del recupero del patrimonio architettonico e dell’inserimento
nel contesto, hanno creato un terreno favorevole per una “via italiana alla sostenibilità”, dove la sensibilita ambientale e coniugata con l’attenzione al paesaggio e dove
la qualità urbana, i valori del territorio, la coesione sociale, la cultura, il patrimonio
architettonico, al pari delle risorse energetiche sono considerate risorse primarie ed
essenziali. La vera ricchezza di un paese, un’eredità preziosa, che è nostro compito
preservare e trasmettere alle generazioni future.
PARC
Direzione Generale per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio, l’Architettura
e l’Arte Contemporanee
PARC - DIREZIONE GENERALE PER LA QUALITÀ E LA TUTELA DEL
PAESAGGIO, L’ARCHITETTURA E L’ARTE CONTEMPORANEE
PARC - Direzione Generale
per la Qualità
e la Tutela del Paesaggio,
l’Architettura e l’Arte
Contemporanee
Direttore Generale:
Francesco Prosperetti
Via di San Michele, 22
00153 Roma
Tel. 06 58434850
Fax 06 58434856
www.parc.beniculturali.it
[email protected]
*Rapporti internazionali PARC
Responsabile della linea di
ricerca Contemporary ecologies
Sustainab.Italy - Energies for Italian Architecture è un progetto promosso e coordinato dal Ministero per i beni e le attività culturali - PARC - Direzione generale
per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte contemporanee, (direttore Francesco Prosperetti), dal Ministero degli Affari Esteri - Direzione generale
per la promozione e la cooperazione culturale, (direttore Gherardo La Francesca)
e dall’Istituto italiano di Cultura di Londra.
A cura di Luca Molinari e Alessandro D’Onofrio, coordinato da Margherita Guccione (direttore Servizio architettura contemporanea PARC) ed Erminia Sciacchitano (responsabile della linea di ricerca Contemporary ecologies e dei rapporti
internazionali PARC).
107
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Basilicata
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA BASILICATA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Basilicata
Direttore Regionale:
Alfredo Giacomazzi
Coordinatori per la
Comunicazione:
Elvira Pica e Massimo Carriero
Corso XVIII Agosto 1860, 84
85100 Potenza
Tel. 0971 328111
Fax 0971 328220
[email protected]
www.basilicata.beniculturali.it
Il patrimonio culturale e paesaggistico della Basilicata
tra conservazione e innovazione
Alfredo Giacomazzi
In occasione dell’XI Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni
Culturali e Ambientali la Direzione Regionale della Basilicata presenta due esperienze significative condotte sul territorio regionale, mirate alla conservazione e
alla fruizione di beni particolarmente a rischio nel quadro del patrimonio culturale
lucano: i beni librari e il paesaggio.
L’opportunità di avvalersi di finanziamenti per tali attività è scaturita dal confronto
con la Regione Basilicata e dall’esigenza di recepire le aspettative del territorio, fornendo a tutta la comunità locale utili strumenti che la coinvolgano nei processi di
tutela e salvaguardia del patrimonio nella sua globalità, e quindi anche in ambiti,
quali quelli dei beni librari e del paesaggio in cui è ancor più determinante una
stretta collaborazione con gli enti territoriali per un corretto equilibrio nella gestione
delle risorse per la soddisfazione dei cittadini e la crescita sociale ed economica
della regione.
Le due iniziative sono state coordinate dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici della Basilicata e portate avanti, in uno spirito di piena e fattiva collaborazione, grazie a specifici accordi con i Dipartimenti competenti della Regione Basilicata.
Conservazione e fruizione del patrimonio librario
Il progetto “Potenziamento del polo SBN delle biblioteche della Basilicata”, finanziato con la Delibera CIPE 35/2005, si svolge in attuazione dell’Accordo di Programma Quadro in materia di Beni e Attività Culturali - III Atto Integrativo e vede
impegnate la Regione Basilicata – Dipartimento Formazione, Lavoro, Cultura e Sport
e la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Basilicata per il potenziamento del Polo SBN di cui è titolare la Regione Basilicata, istituito con lo
scopo di creare un catalogo collettivo informatizzato delle biblioteche appartenenti al territorio regionale e di partecipare al catalogo unico nazionale.
Obiettivo precipuo è garantire la diffusione della conoscenza e la circolazione
del patrimonio librario e documentario presente sul territorio.
Si integra con questa iniziativa il progetto di tutela e restauro del patrimonio librario, finanziato dalla Direzione Generale per i beni librari, gli istituti culturali e
il diritto d’autore.
Le attività avviate hanno consentito di operare in stretta sinergia con i Comuni e le istituzioni ecclesiastiche per la conservazione e la sistemazione di biblioteche di considerevole interesse, che custodiscono volumi antichi, rari e di pregio, spesso ubicate
in prestigiosi contenitori di assoluto rilievo architettonico, quali conventi e monasteri.
Si tratta, nel complesso, di un’operazione di elevato rigore scientifico che consente
di raggiungere un duplice obiettivo: l’adeguamento delle strutture alle esigenze
conservative del materiale, realizzando in casi specifici il restauro di libri preziosi e
in precario stato di conservazione; l’introduzione di forme innovative per la diffusione della cultura, permettendo un’ampia collaborazione e cooperazione interbibliotecaria e rendendo disponibili ai fruitori documenti finora non noti.
Progetto pilota per lo studio del territorio e buone pratiche per l’adegumento dei piani paesistici
Il progetto rappresenta il risultato di un lavoro condotto congiuntamente dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Basilicata e la Regione
Basilicata – Dipartimento Ambiente, Territorio, Politiche della sostenibilità ed è
stato finanziato con risorse del programma Operativo del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, Mis. I.2, azione C.
108
L’esigenza di realizzare lo studio è nata dalla consapevolezza che il paesaggio
rappresenta una risorsa territoriale da gestire con attenzione, in maniera da
stabilire il giusto e necessario equilibrio tra conservazione, fruizione e sostegno per lo sviluppo, evitando sottovalutazioni che, in passato, hanno determinato esiti depauperanti non soltanto sul paesaggio in sé, ma anche sul
quadro sociale ed economico. È chiara la necessità di operare una integrazione tra il tradizionale sistema vincolistico italiano e gli attuali strumenti di
governo delle trasformazioni territoriali, in modo da attuare una pianificazione
concertata e responsabile in cui le trasformazioni avvengano nel giusto equilibrio con l’assetto storico del territorio.
L’iniziativa propone, per un ambito ristretto individuato nel territorio della Comunità Montana Alto Bradano, una metodologia operativa che, partendo dal
tema della conoscenza, arriva a formulare indirizzi e criteri per la lettura del paesaggio e per la progettazione delle relative trasformazioni, in linea con le innovazioni introdotte in materia di paesaggio dalla Convenzione Europea del
Paesaggio e dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
Un ambito operativo del progetto è rivolto all’organizzazione di un sistema informativo territoriale georeferenziato (S.I.T.) che raccoglie i dati fondamentali per
la conoscenza, controllo e gestione del territorio, verificati su mappe catastali
georiferite e riportati sulla carta tecnica regionale.
Un secondo ambito operativo è rivolto a sperimentare un percorso metodologico di conoscenza e lettura interpretativa del territorio che mette in evidenza le
potenzialità degli ambiti e dei beni presenti sul territorio e l’articolazione dei rispettivi regimi di trasformabilità.
L’esplicitazione del processo di conoscenza del territorio, attraverso le interpretazioni sintetiche ragionate delle sue componenti, ha consentito l’individuazione
dei valori del patrimonio paesaggistico nelle invarianti. Queste ultime configurano
gli elementi che strutturano il territorio, la sua qualità ed il suo potenziale come
risorsa durevole; rappresentano i valori e le regole di localizzazione e di conformazione morfologica degli insediamenti, le buone pratiche dell’abitare e del
produrre. Il metodo di lavoro evidenzia quanto i caratteri ambientali, le vicende
storico-culturali e l’organizzazione antropica del territorio abbiano contribuito
alla costruzione del paesaggio. Dall’analisi del territorio e dei suoi tematismi scaturiscono spunti di riflessione per la salvaguardia, la valorizzazione e la riqualificazione dei contesti paesaggistici nell’ambito dei nuovi piani paesistici,
seguendo un percorso che fa discendere le linee di sviluppo territoriale dalla
specifica identità dei luoghi.
109
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Basilicata
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA BASILICATA
Il progetto di ricerca e valorizzazione
di Torre di Satriano
Alfonsina Russo
L’importante insediamento indigeno di Torre di Satriano è oggetto di ricerca, con
uno scavo in concessione da parte della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi della Basilicata, dal 2000. L’altura è ubicata a circa
20 chilometri a sud-est di Potenza, a controllo dell’importante itinerario fluviale
del Melandro, che consente il collegamento tra l’alta valle del Basento e il Tirreno.
Il sito, noto nella letteratura archeologica soprattutto per il centro fortificato lucano di IV secolo a.C. e per la torre di età normanna che segna ancora oggi il paesaggio, si è arricchito, grazie alle indagini archeologiche degli ultimi anni, di nuovi
dati relativi all’età arcaica (VII-VI secolo a.C.).
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Basilicata
Direttore Regionale:
Alfredo Giacomazzi
Coordinatori per la
Comunicazione:
Elvira Pica e Massimo Carriero
Corso XVIII Agosto 1860, 84
85100 Potenza
Tel. 0971 328111
Fax 0971 328220
[email protected]
www.basilicata.beniculturali.it
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Basilicata
Soprintendente:
Caterina Greco
Via Andrea Serrao, 11
85100 Potenza
Tel. 0971 323111
Fax 0971 323261
[email protected]
www.archeobasi.it
Un progetto di valorizzazione è attualmente in corso per rendere fruibile l’intera
area archeologica nel più breve tempo possibile, con una positiva sinergia che
vede l’impegno della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata,
della Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera, della Regione Basilicata e del Comune di Tito (PZ).
La scoperta del “Palazzo” arcaico
Massimo Osanna (Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università
degli Studi della Basilicata)
Nell’ambito della pluriennale attività di ricerca archeologica diretta da chi scrive,
nel corso del 2008 è stata effettuata una scoperta davvero straordinaria. Le inda-
110
gini stratigrafiche che hanno interessato le pendici settentrionali dell’altura hanno
permesso di portare alla luce un palazzo di età arcaica (metà VI - metà V secolo
a.C.) eccezionale per dimensioni, tecnica costruttiva e qualità dell’apparato decorativo. Si tratta di un monumentale edificio dalla articolata planimetria, coperto
da un tetto in tegole decorato da terrecotte architettoniche costituite da sime a
cassetta con gocciolatoi a tubo.
La facciata principale era arricchita da un fregio figurato continuo, del quale sono
state portate alla luce numerose lastre. La scena riprodotta presenta due guerrieri
armati di scudo e lancia, affrontati in duello e alle cui spalle è una coppia di cavalli, uno dei quali montato dallo scudiero. Si tratta di un tipo simile a quello
proveniente da Braida di Vaglio e noto come “fregio dei cavalieri”. Le novità rispetto al fregio di Vaglio sono molteplici: sulla lastra di sinistra il guerriero ha lo
scudo rappresentato non di prospetto ma di profilo e il cavaliere è al galoppo,
accompagnato da un levriero in corsa; sulla lastra di destra, un elegante airone è
tra l’oplita e il cavaliere.
111
I dati archeometrici
Il fregio è stato sottoposto, con il prelievo di alcuni campioni di argilla, ad analisi
minero-petrografiche. Il confronto delle argille di Torre di Satriano con campioni
provenienti da altre aree del Potentino ha rilevato che la decorazione architettonica dell’edificio è stata prodotta in situ impiegando argille locali carbonatiche.
Dalle analisi emerge chiaramente che nella fase di lavorazione è stato intenzionalmente aggiunto degrassante, facilmente reperibile in loco (la percentuale di
quarzo presente è molto alta, da 47% a 62%), per migliorare la qualità dei manufatti, rendendo l’impasto argilloso più magro, diminuendone la plasticità ed
evitando deformazioni. L’assenza della fase vetrosa attesta che la cottura è avvenuta in maniera molto controllata, con temperature di poco inferiori o uguali a
800°C per assegnare al prodotto finito maggiore resistenza e impermeabilità.
Il restauro delle terrecotte architettoniche
Luigi Cappiello, Michele Martorano, Antonio Pace, Ilaria Trombone*
* Laboratorio di restauro della
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Basilicata
Archeologo responsabile
di zona: Alfonsina Russo
Direttore scientifico dello
scavo: Massimo Osanna
Responsabile delle attività sul
campo: Lucia Colangelo
Responsabile del saggio di
scavo: Barbara Serio
Responsabile attività di
laboratorio e disegno reperti:
Massimo Barretta
Coordinatoredelle analisi
archeometriche: Tonia
Giammatteo, in collaborazione
con il CNR-IMAA di Tito Scalo Potenza (referente Paola Di Leo)
Laboratorio di restauro: Luigi
Cappiello, Michele Martorano,
Antonio Pace, Ilaria Trombone
con la collaborazione
di: Antonio Sabatella,
Maria Salvatore per i ritocchi
cromatici sulle integrazioni
112
Il terreno di giacitura del fregio, con predominanza cromatica che tende al bruno,
si compone di complessi eterogenei a componente essenzialmente argillitica, con
intercalazioni di strati di marne, di calcari marnosi e selciferi e di brecciole. Tale tipologia di terreno ha compromesso la superficie delle lastre che dovevano essere
completamente dipinte, come si evince da alcuni residui di colore rosso, visibili ad
un esame autoptico. Al momento del ritrovamento le lastre si presentavano frammentate: ogni frammento è stato numerato, rilevato e collocato in appositi contenitori per l’immediato trasporto nel laboratorio di restauro della Soprintendenza.
La pulitura dei singoli frammenti si presentava estremamente complessa poiché
lo strato di terreno argilloso aderiva in modo coerente alla superficie. In alcuni
casi è stata effettuata una pulitura a secco con spugne microabrasive di tipo morbido per superfici colorate. Per altri singoli frammenti è stato invece necessario
un intervento di lavaggio combinato chimicamente, con acqua deionizzata e
tensioattivo per ceramiche, e meccanicamente, con l’ausilio di bisturi e microtrapano con setole morbide. Si è reso inoltre necessario il consolidamento superficiale nelle zone più decoese degli elementi architettonici, con resina acrilica
pura in dispersione acquosa o con resina acrilica a base di etil-metacrilato. Le lastre sono state ricomposte con colla bicomponente epossidica, mentre per le integrazioni è stato usato stucco riempitivo privo di ritiro con ritocco a tempera.
In un solo caso sono state utilizzate barrette in acciaio, con l’ausilio di colla bicomponente epossidica, per animare alcuni frammenti che avevano solo un minimo di attacco. Quest’ultimo tipo di intervento è stato praticato anche sulle
sime a cassetta, con integrazioni in gesso alabastrino e ritocco a tempera.
Luca Giordano “Il giuramento di Bruto dopo il suicidio di Lucrezia”
Michele Saponaro
Dopo circa due anni dalla proposta di acquisto presentata dalla Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Basilicata al Ministero per i
Beni e Attività Culturali, la preziosa opera di Luca Giordano (Napoli 1634 – 1705)
Il giuramento di Bruto dopo il suicidio di Lucrezia (olio su tela, cm. 228 x 176),
databile agli anni 1670-1680, è stata finalmente acquisita al patrimonio pubblico
statale, e farà parte delle raccolte permanenti del Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata, ubicato a Palazzo Lanfranchi, a Matera.
«La tela raffigura - come scrive il Soprintendente Salvatore Abita nella sua relazione inviata al Ministero - il momento in cui, dopo il suicidio di Lucrezia, il marito
Lucio Collatino e Lucio Giunio Bruto giurano vendetta. L’episodio, narrato da Tito
Livio, benché raro nella pittura italiana, appare nel Seicento privo degli intenti
moralistici cui soggiaceva nell’epoca medievale e rinascimentale e, per le diverse
esigenze rappresentative, viene dato risalto all’intimo dramma di Lucrezia che
decide di togliersi la vita a causa dell’abuso subito da Sesto Tarquinio, figlio di
Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, oppure al momento in cui i suoi famigliari
giurano vendetta, dando fine così alla progenie dei re di Roma, avviando la Città
verso la costituzione repubblicana. È possibile che il soggetto, specie considerando la seconda interpretazione, abbia avuto singolari sviluppi nell’ambito seicentesco della ripresa dell’interesse verso la storia romana, giacché lo si ritrova
spesso realizzato en pendant con episodi ugualmente a essa collegati come la
Congiura di Catilina ovvero il Suicidio di Cleopatra. Nel dipinto il corpo esanime
di Lucrezia è rappresentato in basso a destra retto dalle ancelle, con una bellissima idea e un alto senso coloristico, che si delinea sul contrappunto tra il manto
azzurro e il biancore dell’incarnato privo di vita. Ugualmente d’effetto la figura di
Bruto, inondata da una soffusa luce che ne mette in risalto l’armatura e il roseo incarnato. Tali espedienti, assieme al grande tendaggio che copre il gruppo delle
ancelle, rimarcano l’interesse neo-veneziano, cortonesco e rubensiano del pittore
e permettono di datare l’opera alla fine del 1670, primi dell’80».
Il pregevole e inedito dipinto è stato presentato agli organi di informazione regionale
nell’ambito di un’affollata conferenza stampa -che ha dato grande eco all’evento- e,
successivamente, è stato esposto nella Sala Levi di Palazzo Lanfranchi, in occasione
della Festa di San Valentino 2009, “Innamorati dell’Arte”, promossa dal MiBAC.
Attualmente il dipinto di Luca Giordano ha trovato la sua collocazione definitiva
all’interno dei percorsi tematici delle collezioni permanenti del Museo Nazionale
d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata, diretto da Agata Altavilla.
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici della Basilicata
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA BASILICATA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Basilicata
Direttore Regionale:
Alfredo Giacomazzi
Coordinatori per la
Comunicazione:
Elvira Pica e Massimo Carriero
Corso XVIII Agosto 1860, 84
85100 Potenza
Tel. 0971 328111
Fax 0971 328220
[email protected]
www.basilicata.beniculturali.it
Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici
della Basilicata
Soprintendente:
Salvatore Abita
Via Recinto II D’Addozio, 15
75100 Matera
Tel. 0835 256211
Fax 0835 256246
[email protected]
113
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici della Basilicata
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA BASILICATA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Basilicata
Direttore Regionale:
Alfredo Giacomazzi
Coordinatori per la
Comunicazione:
Elvira Pica e Massimo Carriero
Corso XVIII Agosto 1860, 84
85100 Potenza
Tel. 0971 328111
Fax 0971 328220
[email protected]
www.basilicata.beniculturali.it
Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici
della Basilicata
Soprintendente:
Salvatore Abita
Via Recinto II D’Addozio, 15
75100 Matera
Tel. 0835 256211
Fax 0835 256246
[email protected]
Pensieri, 1930, olio su tela,
cm 66 x 105
Alle pagine successive:
Fanciulla che legge, 1923, olio
su tela, cm 80 x 56
Autoritratto, 1920, olio su tela,
cm 63 x 50
114
Acquisiti al patrimonio dello Stato trentaquattro dipinti di
Angelo Brando per il Museo di Palazzo De Lieto a Maratea
Michele Saponaro
Un’altra importante acquisizione portata a termine quest’anno dalla Soprintendenza BSAE della Basilica, sotto la direzione di Salvatore Abita, con fondi ordinari messi a disposizione dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, è quella
relativa alle trentaquattro tele di Angelo Brando (Maratea 1878 - Napoli 1955), già
esposte nella mostra itinerante Angelo Brando. Opere scelte 1895 – 1946. Proposte per un Museo tenutasi a Matera (Palazzo Lanfranchi, 17 maggio – 17 luglio
2007), Maratea (Palazzo De Lieto, 27 luglio – 31 ottobre 2007) e Potenza (Pinacoteca Provinciale, 4 dicembre 2007 – 31 gennaio 2008), a cura di chi scrive e
con testi in catalogo di Isabella Valente, docente di Storia dell’Arte all’Università
degli Studi Federico II di Napoli.
Angelo Brando nasce a Maratea il 10 gennaio 1878. È l’ultimo di otto figli avuti dal
commerciante Giuseppe Brando e da Vincenza Zaccaro. Come la maggior parte
dei giovani meridionali che mostrano attitudini artistiche, si iscrive all’Istituto di
Belle Arti a Napoli dove compie i suoi studi sotto la guida di Vincenzo Volpe e
Michele Cammarano, che gli consentirà di entrare in rapporto col ricco filone
della tradizione pittorica napoletana. Nel 1908 partecipa alla quadriennale di Torino. Angelo Brando insegnò disegno presso il Liceo artistico di Napoli ed altre
scuole dal 1917 al 1948. Nel 1919 Brando fu incaricato di riordinare la Galleria Regionale di Napoli di cui successivamente fu nominato conservatore. Fu consigliere della Promotrice Salvator Rosa e commissario del Comitato per la
costituzione della Pinacoteca della Basilicata. Morì il 21 febbraio 1955.
Le opere di Angelo Brando, che coprono l’arco temporale 1909 -1946, provengono tutte dal fondo in dotazione della signora Angelina Mastroluca, unica erede
del pittore, e sono destinate all’istituendo Museo del Territorio che sarà allestito
nel settecentesco Palazzo De Lieto, ubicato nel centro storico di Maratea.
Il progetto originario di questo piccolo museo che si affaccia sul suggestivo Golfo
di Policastro, risale agli inizi degli Ottanta quando, l’allora Direttore Generale del
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali professor Francesco Sisinni, facendo
propria la proposta avanzata da Tina Polisciano e Josè Cernicchiaro dell’Associazione Culturale “Maratea”, acquisì a patrimonio dello Stato Palazzo De Lieto e
dotò la Soprintendenza per i Beni Architettonici della Basilicata dei fondi necessari per il restauro.
Poi è venuta la mostra Pittori Lucani dell’800 e dei primi del ‘900, tenutasi nella Pinacoteca Provinciale di Potenza nel giugno-settembre 2002 e, successivamente nell’ottobre 2002, a Palazzo Cisterna, storica sede dell’Amministrazione Provinciale di
Torino. Fu questa l’occasione che ha consentito alla Soprintendenza di venire a conoscenza del progetto “Museo-pinacoteca Brando”, di prendere i primi contatti
con l’erede del pittore, e di riprendere un cammino da tempo interrotto.
Oggi tutti i nostri sforzi, sostenuti con convinzione dal Soprintendente Abita e dal
Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Basilica professor Alfredo Giacomazzi, vertono nel raggiungimento dell’obiettivo finale: allestire, per
la prossima stagione estiva, il piano nobile di Palazzo De Lieto per potenziare la
rete dei musei statali presenti nella nostra Regine e, in questo modo, contribuire
a rilanciare un turismo culturale di qualità.
Un nuovo museo, quindi, che ci piace immaginare “vivo e intelligente”: luogo di
ricerca e di promozione culturale, oltre che di conservazione e valorizzazione
delle proprie collezioni. Un luogo “aperto” e non “chiuso”. Aperto alle tante
istanze culturali che vengono avanti prepotentemente dalla società civile e in
particolar modo dai giovani; dotato di una corsia preferenziale e “dedicata” al
mondo della scuola, senza del quale non c’è futuro per nessun museo, piccolo
o grande che sia, e per ogni consesso civile.
Elenco dei dipinti di Angelo
Brando acquisiti dalla
Soprintendenza BSAE della
Basilicata per il Museo del
Territorio di Maratea
La moglie dell’artista, 1909, olio
su tela, cm 49 x 34.
Ritratto di Eugenia, 1910, olio
su tela, cm 70 x 58.
Ritratto di Frau Steiman, 1918,
olio su tela, cm 76 x 62.
Ritratto di ragazza, 1919, olio su
tela, cm 72 x 37.
Autoritratto, 1920, olio su tela,
cm 63 x 50.
Iole, 1921, olio su tela,
cm 68 x 36.
Cucito, 1922, olio su tela,
cm 72 x 42.
Fanciulla che legge, 1923, olio
su tela, cm 80 x 56.
Eugenia, 1925, olio su tela,
cm 87 x 68.
Confidenze, 1928, olio su tela,
cm 48 x 55.
Cordelia in abito da sera, 1928,
olio su tela, cm 153 x 93.
Pensieri, 1930, olio su tela,
cm 66 x 105.
Natura morta con statuetta,
1932, olio su tela, cm 56 x 106.
Cucito in famiglia, 1933, olio su
tela, cm 90 x 68.
Amore materno, 1936, olio su
tela, cm 98 x 79.
Ragazza allo specchio, 1937,
olio su tela, cm 55 x 81.
Violinista, 1937, olio su tela,
cm 80 x 57.
Scene campestri, 1937, olio su
tela, cm 67 x 90.
Dopo il riposo, 1937, olio su
tela, cm 57 x 36.
Presepe (Pastori), 1937, olio su
tela, cm 56 x 70.
Dolce far niente, 1937 ?, olio su
tela, cm 42 x 76.
Ascoltando la radio, 1938, olio
su tela, cm 67 x 44.
Il coro, 1938, olio su tela,
cm 71 x 102.
Uva, 1938, olio su tela,
cm 32 x 36.
Presepe, 1938, olio su tela,
cm 71 x 87.
Contadina, 1939, olio su tela,
cm 87 x 50.
Notturno, 1939, olio su tela,
cm 106 x 83.
Studentessa, 1939, olio su tela,
cm 49 x 40.
Al piano, 1940, olio su tela,
cm 41 x 59.
In famiglia, 1944, olio su tela,
cm 78 x 67.
La spadaccina, 1944, olio su
tela, cm 78 x 44.
Bimba con ciliege, 1944, olio
su tela, cm 92 x 75.
Mezza figura, 1944, olio su tela,
cm. 89 x 72.
Sfogliando una rivista, 1946,
olio su tela, cm 105 x 78.
Il coro, 1938, olio su tela,
cm 71 x 102
115
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggisti della Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
Direttore Regionale:
Raffaele Sassano
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Teresa Sorrenti
Via Scylletion, 1
88021 Roccelletta di Borgia
Tel. 0961 391087- 48- 89
Fax 0961 391033
[email protected]
116
In Calabria: dal restauro alla valorizzazione
Raffaele Sassano
Il Salone del Restauro di Ferrara costituisce quest’ anno il primo degli appuntamenti fieristici organizzati dal MiBAC per l’anno 2009 e rappresenta, come di
consueto, un incontro fortemente atteso per quanti Amministrazioni, Enti ed imprese operano nel settore della conservazione e della valorizzazione del patrimonio culturale.
Nel 2008 la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria
si è fatta promotrice in sede di APQ/Beni Culturali di alcuni rilevanti progetti di
recupero e valorizzazione sul territorio regionale tra i quali, già presentato al
Forum PA 2008, è da ricordare quello denominato MU.DI.C. ed inerente l’ apertura di alcuni nuovi musei diocesani in Calabria. La realizzazione di tale impegnativo progetto si è reso possibile grazie al varo di una imponente campagna di
conservazione di un patrimonio di opere, spesso ancora conservate negli armadi
di sacrestia e, comunque, difficilmente fruibile. L’apertura di nuovi sedi museali
e l’implementazione di quelle esistenti testimoniano come tutela e valorizzazione
rappresentino un binomio inscindibile nella politica regionale di promozione del
patrimonio culturale.
Sempre in APQ sono stati finanziati i progetti denominati Restauro e valorizzazione
del patrimonio storico artistico mobile (dipinti, opere lignee, ecc.) da valorizzare
attraverso l’esposizione nella rete dei castelli e delle aree archeologiche (importo €
1.400.000,00) e Catalogazione e recupero del patrimonio mobile. Arredi lignei, dipinti su carta, dipinti murali e affreschi, dipinti su tela e tavola, m paramenti sacri, paliotti in cuoio, sculture lignee, stucchi. (importo € 2.000.000,00), che consentiranno
di intervenire a salvaguardia di un ragguardevole numero di beni conservati in chiese,
cattedrali e luoghi di culto a vantaggio di un patrimonio cui si legano le tradizioni di
culto ed arte delle nostre collettività.
A Ferrara quest’anno la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria presenta l’ intervento di Conservazione e Valorizzazione del Parco
Archeologico urbano di Brancaleone vetus, grazie al quale è stato possibile restituire alla fruizione un’area di grande interesse e di grande valenza sotto diversi
aspetti, da quello paesaggistico a quello artistico e cultuale.
Il Parco Archeologico Urbano di Brancaleone Vetus.
Dal Restauro alla Fruizione
Angela Canale, Maria Teresa Sorrenti
In un luogo di incanto paesaggistico e di fascino surreale si trova, a breve distanza
da Reggio Calabria, Brancaleone Vetus, un mucchio di ruderi abbarbicati in cima a
un promontorio dal quale si spazia sulla vallata sottostante fino al mare Jonio.
In particolare, nel sito oggetto del progetto di recupero e valorizzazione condotto dalla Direzione Regionale della Calabria e dalla Soprintendenza per i Beni
archeologici della Calabria, è stato possibile riscontrare un vasto complesso di
ambienti rupestri fra loro coerenti, di tipo anacoretico, costituente un importante
patrimonio di valore artistico e storico. Si tratta di grotte naturali scavate nella
roccia ed è in questo contesto che si identifica la grotta-chiesa denominata della
Madonna del Riposo, oggetto di un mirato intervento conservativo..
Il sito di Brancaleone vetus, oggi presenta problematiche difficili ma molto interessanti, un paese formato solo di ruderi con problemi di staticità e di degrado
seri, percorso da stradine ridotte a viottoli appena percettibili perché ingombri
di crolli e arbusti, in cui la vegetazione rigogliosa a stento permette il passaggio.
Il progetto di recupero ha preliminarmente operato una attenta valutazione delle
caratteristiche geologiche del luogo, abbandonato nei primi anni del 1950 a
causa degli eventi alluvionali.
Da tali valutazioni, nasce la necessità di una filosofia che porti un intervento tendente al recupero degli ambienti naturali degradati ma, soprattutto, che miri al
raggiungimento di un equilibrio tra recupero e ambiente grazie ad interventi di
ingegneria naturalistica che, per la loro peculiarità, bene si inseriscono nel nostro
contesto. Essi, in concreto, sono stati mirati a trattenere i dilavamenti del terreno
e a creare percorsi e terrazzamenti, dove permettere la sosta dei visitatori
Il progetto ha inteso operare il recupero dei percorsi per l’accesso al centro urbano (Via Convento), di parte della stradina comunale che costeggia a Nord
l’abitato e realizzare un nuovo percorso che consente di raggiungere la grotta –
chiesa Madonna del Riposo, restituendola alla fruizione. Il recupero delle stradine
interne al paese è stato fatto dopo un intervento di pulizia del percorso ed è
stato seguito dal recupero del selciato esistente.
La scoperta più interessante riguarda l’intervento su piazza Vittorio Emanuele,
uno spazio di notevole interesse sotto il quale, con visibilità dalla via sottostante,
insistono delle “grotte”.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggisti della Calabria
Soprintendenza per i Beni Arheologici
della Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
Direttore Regionale:
Raffaele Sassano
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Teresa Sorrenti
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88021 Roccelletta di Borgia
Tel. 0961 391087-48-89
Fax 0961 391033
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Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Calabria
Soprintendente:
Caterina Greco
Piazza dei Nava, 26
89100 Reggio Calabria
Tel. 0965 812255
Fax 0965 25164
[email protected]
117
Si è pensato, quindi, di sviluppare un’analisi conoscitiva finalizzata al recupero
della pavimentazione della piazza, che al momento della progettazione non
consentiva la lettura della stessa ( perché ricoperta di terra e cespugli), ma nella
quale si intravedevano strane bucature, che probabilmente si collegavano alla
grotte sottostanti. A tal proposito è stato eseguito un intervento di scavo archeologico che ha portato ad interessanti e inattesi risultati : l’area in esame aveva
avuto due fasi fondamentali di vita. La prima vede la piazza realizzata direttamente sulla roccia calcarea bucata da 28 cisterne utilizzate per la raccolta dell’acqua, le quali possedevano un sistema di canalizzazione interno, per mezzo
di fori posti nella parte mediana, che permettono una comunicazione interna
ed un mantenimento costante del livello dell’acqua.
Nella seconda fase di vita le cisterne vengono chiuse da grosse lastre di pietra ,
la piazza livellata e la pavimentazione effettuata tramite un battuto di calce che
faceva da base per la posa in opera di un selciato, che è stato ritrovato solo in
piccolissimi zone.
Si rimanda ad un futuro progetto la valorizzazione della nuova situazione archeologica poiché è’ chiaro che l’entità dell’attuale progetto è stato sufficiente solo
ad assicurare un “inizio” di recupero di Brancaleone Vetus, ma ben altro occorrerà
fare per il recupero dell’intero paese che, a fronte delle varie problematiche
presentate, sicuramente costituisce un importante documento storico, artistico
urbanistico e paesaggistico della nostra Calabria.
118
La grotta della Madonna del Riposo: dal restauro
alla fruizione
Angela Canale, Maria Teresa Sorrenti
Il complesso di ambienti rupestri che trovasi nel sito della vecchia Brancaleone
costituisce un patrimonio di rilevante interesse socio culturale, e in particolare indicativo, sotto l’ aspetto cultuale, delle forme di vita anacoretica sviluppatesi in
Calabria durante quella che viene comunemente definita “seconda ellenizzazzione” della regione.
Si tratta di grotte artificiali scavate nella roccia ed ubicate sia nella parte alta dell’
antico centro abitato, sia isolate, la cui tipologia varia da forme più semplici, assimilabili alla cella monastica a quella delle grotte chiese.. Tra quest’ ultime si
colloca la grotta intitolata alla Madonna del Riposo ascrivibile al XII sec per le caratteristiche che la differenziano dalle altre, più antiche, sia nella pianta che nella
bucatura d’ ingresso.
Al riguardo sappiamo che ancora nel 1966 era possibile ammirare alcuni brani di
affresco campiti nella nicchia posta in fondo e in direzione dell’ entrata.. In essa
era raffigurata la Madonna in adorazione del Bambino adagiato in fasce mentre
ai lati si snodava un corteo di santi e sante, martiri, vergini e monaci. Gli affreschi
continuavano probabilmente anche nel piccolo soffitto.
Le condizioni di degrado che per molti anni hanno interessato la grotta hanno fortemente influito sulla conservazione delle pitture descritte nel 1966 e definite
“di stile rinascimentale”.
L’intento di recuperare l’ area di Brancaleone vetus ha determinato l’intervento
conservativo, oggi in via di completamento, con il soddisfacente recupero di
brani di pittura murale che, seppure di non elevata qualità artistica, costituiscono tuttavia un’ interessante e raro esempio di decorazione di ambienti rupestri che, probabilmente utilizzati in epoca antecedente a quella di
presumibile datazione degli affreschi, continuarono ad essere frequentati
anche in tempi successivi.
Soprintendenza per i Beni Arheologici
della Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
Direttore Regionale:
Raffaele Sassano
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Teresa Sorrenti
Via Scylletion, 1
88021 Roccelletta di Borgia
Tel. 0961 391087- 48- 89
Fax 0961 391033
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Calabria
Soprintendente:
Caterina Greco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Giuseppina Galli
Piazza dei Nava, 26
89100 Reggio Calabria
Tel. 0965 812255
Fax 0965 25164
[email protected]
119
All’avvio dei lavori ben poco era visibile e quel poco nascosto da croste di carbonatazione: la raffigurazione del gruppo della Vergine e delle teorie di santi
non era più visibile e l’ unica sopravvivenza era data da due labili figure di angeli
reggicortina, poste quasi all’ ingresso della grotta, oltre che da tracce di pigmento rosso nella piccola nicchia di destra, e da altre scialbate presenze.
L’ intervento, accompagnato dalle preliminari operazioni di consolidamento del
supporto e rimozione delle croste di carbonatazione, ha consentito il recupero
di brani di suggestiva freschezza disegnativa e pittorica, efficace rimando a tradizioni cultuali e di vita protrattesi nell’ area reggina in esame fino ad un inoltrato
XVI secolo.
Finanziamento: APQ Regione
Calabria/Beni Culturali I° Atto
Aggiuntivo Delibera CIPE
20/2004
Progetto SPA-22
RUP: Sabina Rizzi
Progettista e Direttore Lavori
architettonici ed archeologici:
Angela Canale
(Soprintendenza BA Calabria)
Progettista Lavori storicoartistici: Maria Cristina
Schiavone
(Direzione Regionale Calabria)
Direttore dei Lavori storico
artistici: Maria Teresa Sorrenti
(Direzione Regionale Calabria)
Coordinatore per la sicurezza
in fase di progettazione e di
esecuzione: Franco Vignola
(Soprintendenza BA Calabria)
Collaboratore tecnico in fase di
progettazione e di esecuzione:
Roberto Marcianò
(Soprintendenza BA Calabria)
Restauratore Conservatore
Direttore: Maria Cristina
Schiavone
(Direzione Regionale Calabria)
Impresa appaltatrice per i
lavori: Impresa Costruzioni ATI
Siclari Agostino Costruzioni srl.
Autellitano Filippo srl.; Impresa
Giammario Faita
(Lavori di restauro affreschi)
Scavi Archeologici - Direttore
Scientifico: Claudio Sabbione
collaborazione esterna:
Mariangela Preta
Rilievi ed elaborazioni grafiche:
Simona Bruni
120
Il Pathirion di Rossano: significativo esempio di cultura
bizantina
Oscar Covello
II complesso monumentale del Pathirion è universalmente noto come uno degli
esempi più importanti dell’architettura sacra in Calabria. Fondato intorno al 1095
da S. Bartolomeo da Simeri con l’appoggio dell’ammiraglio normanno Cristodulo,
il monastero venne dedicato a “S. Maria Nuova Odigitria”, anche se è conosciuto
come “S. Maria del Patir”, o semplicemente “Patire”. Nel 1105 in seguito alle pretese dell’Arcivescovo di Rossano Nicola Malena, che avanzava diritti di giurisdizione, il papa Pasquale II gli concesse il diritto di immunità. Le donazioni ed i
privilegi concessi dai normanni furono innumerevoli tanto da diventare uno dei
più ricchi e rinomati dell’Italia meridionale. Possedeva anche una ricca biblioteca
(sappiamo che S. Bartolomeo andava spesso ad acquistare codici a Costantinopoli) ed uno scriptorium per la trascrizione dei codici antichi. Molti dei suoi manoscritti sono oggi conservati nella Biblioteca Vaticana, nell’Abbazia di
Grottaferrata e qualcuno nell’Ambrosiana di Milano.
Al monastero del Patire è legata la “Carta Rossanese” del 1114, in cui è contenuta
la Platea dei suoi possedimenti. Nel secolo XV comincia il degrado dei monasteri
italo-greci, che nel giro di qualche tempo portò alla loro scomparsa quasi totale.
Il Patire venne soppresso dai francesi nel 1809. La chiesa è a pianta basilicale latino-normanna con tre absidi rivolti verso oriente. La navata centrale, con tetto ligneo carenato a capriate rifatto negli anni scorsi, è divisa dalle due navate da
quattro ordini di arcate a sesto leggermente acuto poggianti su colonne di coccio
in arenaria a base ionica e senza capitelli.
L’area presbiterale è delimitata da quattro pilastri, in cui si incuneano in funzione
decorativa quattro colonne con capitello corinzio provenienti probabilmente
dall’antica Thurio. I pilastri sorreggevano una cupola interamente affrescata, crollata probabilmente nel terremoto del 1836. Il pavimento a mosaico, solo in parte
salvato, costituisce certamente l’attrattiva più suggestiva all’interno della Chiesa.
Si deve all’ abate Biagio nel sec. XII. Nei quattro tondi sono raffigurati un Centauro
con testa e torace umani nell’atto di suonare il corno; un Cavallo con criniera
sciolta; un Grifone alato con becco adunco; un Felino (leone o pantera) con testa
a maschera umana. All’esterno, come emblema significante dell’antica Abbazia,
restano le tre imponenti absidi proiettate verso Oriente in un’ampia spianata, che
danno ancora oggi il senso della grandiosità e della maestosità dell’originario
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e per il Paesaggio per la Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
Direttore Regionale:
Raffaele Sassano
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Teresa Sorrenti
Via Scylletion, 1
88021 Roccelletta di Borgia
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Fax 0961 391033
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Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e per il Paesaggio per la
Calabria - Cosenza
Soprintendente ad interim:
Stefano Gizzi
Piazza Valdesi, 13
87100 Cosenza
Tel. 0984 75905
Fax 0984 74987
[email protected]
121
edificio. Ogni abside ha cinque archeggiature con lesene policrome ottenute
con altrettanti tondi policromi racchiudenti tutti una stella variamente foggiata. Dei
quindici tondi originari oggi ne restano solo undici. A fianco della Chiesa le ampie
arcate residue introducono nel chiostro ed è ciò che resta dell’antico monastero.
La facciata, rivolta a settentrione, ha avuto diversi ritocchi: anticamente vi erano
tre porte maggiori, di cui oggi resta solo la centrale molto sobria e rimaneggiata.
Sono antiche le due colonnine in arenaria su cui poggia l’arco ad ogiva, in parte
rifatto. Moderno al contrario è il rosone centrale, mentre sembra più antico ed originario il rosone murato al vertice della cuspide.
Relazione Tecnica
Con i finanziamenti della programmazione annuale della Soprintendenza relativi
alle annualità 1995, 2002 e 2003 si è dato corso ad interventi di restauro al complesso dell’abbazia del Pathirion nel Comune di Rossano (CS).
È stata effettuata preliminarmente una campagna di saggi e studi, nonché il rilievo
architettonico di tutto il complesso monumentale da parte dell’UNICAL per dare
corso ai lavori che hanno riguardato essenzialmente il rifacimento del pavimento
della chiesa gettato in opera a lastroni con giunti (seminato), azzerando il salto
di quota a scendere che divideva l’aula dalla zona del presbiterio nonché il trattamento delle pareti con intonachino a base di calce idraulica e finale patinatura
colorata a base di soluzione acquosa costituita da terre naturali diluite. È stato
inoltre effettuato il restauro degli elementi architettonici lapidei interni. L’intervento sui mosaici pavimentali sarà curato dalla Soprintendenza per i Beni Storici,
Artistici ed Etnoantropologici della Calabria con finanziamenti della programmazione annuale ministeriale.
122
Riapertura della Galleria Nazionale di Cosenza
Fabio De Chirico
Riapre a Palazzo Arnone la Galleria Nazionale di Cosenza, con un percorso espositivo totalmente rivisitato e ridefinito, sia rispetto agli spazi sia per quanto attiene
ai criteri museografici. Il nuovo allestimento, esito di un attento progetto, risponde alla necessità di favorire la fruizione delle opere, secondo i criteri che –
nel rispetto conservativo del manufatto e degli standard espositivi stabiliti a livello
europeo – hanno privilegiato gli aspetti comunicativi, utilizzando i linguaggi e le
tecnologie più avanzate.
A tal fine, tutte le scelte operate, sia per ciò che riguarda la neutralità dei supporti,
sia per la non invasività degli elementi didattico-espositivi, hanno inteso mediare
il rapporto tra la struttura architettonica del palazzo, maestosa e monumentale,
e la necessità di una esposizione in cui il linguaggio delle opere non risultasse secondario rispetto alla dislocazione degli spazi.
L’articolazione degli ambienti è stata risolta con l’utilizzazione del bianco, che
uniformando il contesto architettonico senza alterarlo, lascia emergere le opere
distribuite sulle pareti come in sospensione, a creare l’impressione del protendersi verso l’osservatore.
Un’attenzione particolare, poi, è stata rivolta all’installazione di impianti e strutture
didattiche che offrono informazioni e servizi, in linea con i criteri museografici più
avanzati, tra i quali la sistemazione permanente della postazione multimediali.
Essa favorisce l’accessibilità al patrimonio della Galleria ai non vedenti e non
udenti, in attuazione di progetti già condivisi a livello nazionale.
La raccolta, ordinata secondo un criterio cronologico e incrementata da recenti
acquisizioni, documenta momenti significativi dell’arte italiana, dal cinquecento
al novecento e, nello specifico, traccia un percorso delle vicende artistiche del
territorio calabrese; regione questa da sempre terreno di confronti e scambi, che
– al pari delle altre regioni meridionali – ha accolto ed elaborato influenze e
istanze culturali legate al succedersi degli eventi storici.
Il percorso inizia con opere risalenti alla cultura rinascimentale e, tra queste, il
bel dipinto del calabrese Marco Cardisco, raffigurante la Madonna in adorazione
del Bambino, che viene esposto per la prima volta.
Il seicento è ampliamente illustrato da un nucleo di dipinti di Mattia Preti, oggi
ulteriormente arricchito dall’acquisizione del dipinto Cristo crocifisso tra i santi
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
Direttore Regionale:
Raffaele Sassano
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Teresa Sorrenti
Via Scylletion, 1
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Soprintendenza
per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici
della Calabria
Soprintendente:
Fabio De Chirico
Coordinatore
per la Comunicazione:
Giuseppina Mari
Via Gian Vincenzo Gravina
Palazzo Arnone
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Fax 0984 71246
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123
Bruno e Francesco d’Assisi, di straordinaria intensità. Altra acquisizione di grande
interesse per la Galleria risulta il San Francesco d’Assisi confortato dall’Angelo di
Francesco Cozza, artista di origine calabrese ma poco documentato nel territorio,
il cui acquisto è stato particolarmente importante per la difficoltà di reperire altre
sue opere nei circuiti consueti del collezionismo. Ancora per il seicento numerosi
sono i dipinti dei maestri napoletani Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Francesco
De Rosa, Giuseppe Recco, artisti che tanta influenza hanno esercitato per la definizione e gli siti di gran parte del patrimonio storico calabrese.
Discorso a parte meritano il Pasce oves meas del genovese Giovan Battista Gaulli
detto il Baciccio e due tele, raffiguranti Lot e le figlie del campano Massimo Stanzione e Giacobbe e il suo gregge al trugolo del siciliano Pietro Novelli, opere
tutte provenienti da collezioni private e del territorio ed ora qui esposte per la
prima volta. Esse documentano il costante arricchimento e il gusto aggiornato
della committenza locale.
Il settecento è illustrato da opere di Paolo De Matteis, Francesco De Mura, Stefano
Liguoro, Sebastiano Conca, Corrado Giaquinto, artisti anche questi rintracciabili
nelle chiese e nelle raccolte del territorio.
Il percorso si conclude con La prova dell’abito da sposa, eseguita dal crotonese
Gaele Covelli, una delle presenze artistiche più interessanti, vissuto tra fine Ottocento e prima metà del Novecento.
Di assoluta novità infine la struttura espositiva progettata per la Stauroteca, che attraverso un’evocazione simbolica, esalta la tecnica esecutiva e la straordinaria
qualità artistica della singolare croce-reliquario realizzata, nella metà del XII secolo, negli opifici normanni di Palermo ed esposta nella Galleria Nazionale grazie
ad un comodato con l’Arcidiocesi di Cosenza.
124
Opera Aperta: Lo studio diagnostico di un capolavoro della
Galleria Nazionale di Cosenza
Giuseppina Mari
Lo studio delle opere d’arte basato, in un recente passato, sull’osservazione diretta dell’oggetto presentava dei limiti legati alla capacità individuale di osservare
ed interpretare la realtà. Per questo motivo l’acquisizione delle conoscenze era
circoscritta soltanto alla forma, al colore, alle dimensioni e alla struttura esterna
dell’opera con il conforto, quando possibile, di un suo inquadramento stilistico.
Le innovazioni scientifiche e tecnologiche nel campo della diagnostica applicata
all’arte hanno consentito, soprattutto negli ultimi decenni, di guardare oltre e di
ottenere dalle indagini un’enorme quantità di informazioni che premette non
solo di identificare le cause del degrado di un’opera, di programmare un serio
e scientifico intervento conservativo o di restauro ma addirittura di scoprirne la
genesi o i pentimenti.
L’importanza di Opera Aperta, progetto della Soprintendenza per i Beni Storici,
Artistici ed Etnoantropologici della Calabria testimonia la grande attenzione e la
rilevanza che la diagnostica ha assunto come strumento necessario e indispensabile di un corretto approccio ai problemi di restauro.
Il progetto che si è sviluppato work in progress, presenta al grande pubblico
non solo un’analisi diagnostica condotta su un dipinto di proprietà della Galleria
Nazionale di Cosenza, raffigurante Ercole libera Prometeo di Mattia Preti ma ,
contestualmente, il primo numero di una collana scientifica, dal titolo Opera
Aperta, a carattere interdisciplinare, destinata a diventare punta avanzata di una
sistematica operazione di comunicazione pubblica delle attività della Soprintendenza che spazierà dalle metodologie di restauro, di conservazione e valorizzazione delle opere d’arte della Calabria ai progetti didattici, ai cantieri di
restauro, mostre, studi e convegni.
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Calabria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTI
DELLA CALABRIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Calabria
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Raffaele Sassano
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Soprintendenza
per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici
della Calabria
Soprintendente:
Fabio De Chirico
Coordinatore
per la Comunicazione:
Giuseppina Mari
Via Gian Vincenzo Gravina
Palazzo Arnone
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125
Per la presentazione e la pubblicazione del primo numero della collana sono
state realizzate delle ricerche iconografiche e storico-artistiche, complesse indagini diagnostiche sul dipinto, utilizzando metodi innovativi non invasivi per lo
studio dello stato di conservazione dell’opera, eseguendo in particolare i seguenti esami:
– Analisi agli infrarossi mediante riflettografia I.R.
– Esami della fluorescenza da U.V.
– Macro e micro fotografie normali e a luce radente
– XRF con analisi dei principali pigmenti costitutivi del colore
L’organizzazione della grande quantità di informazioni pervenuta dalle analisi effettuate e l’intento di rendere pubblici i dati, ha fornito l’idea di una pubblicazione nella quale fosse spiegato il complesso legame tra la registrazione dei dati
scientifici e l’elaborazione contestuale di testi, grafici ed immagini.
Le metodologie e le procedure della diagnostica dei vari campi d’indagine sono
quindi state introdotte in questa pubblicazione appositamente realizzata per
essere uno strumento di immediato utilizzo per gli addetti ai lavori e, nello stesso
tempo, una veicolazione, su più ampia scala, del lavoro della Sezione Diagnostica e dei Servizi Educativi di questa Soprintendenza, in stretta collaborazione
con l’Università e con esperti esterni.
Per quanto riguarda la struttura editoriale, questo primo numero di Opera Aperta
presenta vari elementi di novità rappresentati da informazioni tematiche diverse
riguardanti tecniche pittoriche, informazioni storiche, fenomeni di degrado del
dipinto, restauri precedenti e la rappresentazione grafica dello studio geometrico-compositivo corredato da varie illustrazioni.
126
Presentazione degli interventi
Maria Rosaria Nappi
Nell’introdurre gli interventi di restauro che gli uffici della Campania hanno presentato al Salone del Restauro di Ferrara quest’anno, va sottolineata la prima partecipazione di tre Soprintendenze di recente istituzione : gli uffici per i Beni
Artistici e Storici di Caserta e Benevento e di Salerno e Avellino e per i Beni archeologici di Caserta e Benevento.
I restauri descritti dai colleghi che appaiono sotto il nome di questi nuovi uffici,
tuttavia, sono frutto di progettazioni precedenti, realizzate dalle stesse persone
quando si trovavano in altre soprintendenze. In Campania, infatti come in altre regioni, si è assistito alla migrazione, più o meno indolore, di personale delle diverse qualifiche e specializzazioni dalle Soprintendenze miste a quelle storico
artistiche. Le attività di restauro programmate da un ufficio sono state quindi realizzate da un altro, ma seguite dalla stessa persona che le aveva proposte e progettate. Ciò si è verificato per diversi interventi nella provincia di Napoli, oggi
aggregata a Caserta e Benevento per quanto riguarda i Beni Artistici e Storici,
mentre nel vecchio sistema era tutelata con i beni architettonici insieme alla città
di Napoli.
La stessa situazione si è creata nelle province di Avellino e Benevento dove i restauri della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Pietrastornina e della basilica di
Santa Sofia di Benevento erano stati intrapresi dalle Soprintendenze miste e sono
stati conclusi da quelle artistiche e storiche, per quanto di competenza, mentre
la parte architettonica è rimasta con le Soprintendenze ai Beni architettonici e
paesaggistici.
I funzionari, dottor Giuseppe Muollo e dottoressa Vega De Martini, sono gli stessi,
ma il nome degli uffici è cambiato così come è cambiato il Soprintendente che
in precedenza era l’architetto Guglielmo e oggi il dottor Salvatore Abita.
Ciò è avvenuto in parecchi fra i casi descritti, che non elencheremo, limitandoci
a dire che tutto ciò ha reso forse difficile comunicare esattamente la storia di
queste operazioni al pubblico che percepirà i restauri come realizzati semplicemente da un ufficio dello Stato, senza chiedersi attraverso quali traversie burocratiche sia passato un lavoro così complesso come il restauro di un bene
culturale, sia esso affresco o scultura lignea.
Gli interventi comunque restano ricchi di significati per i beni su cui sono stati realizzati, i restauri di Pietrastornina, per esempio proposti dalla nuova Soprintendenza di Salerno e Avellino, mettono in evidenza proprio alcuni aspetti peculiari
di questo patrimonio che coniuga alle testimonianze più antiche effetti illusionistici nel trattamento delle superfici murarie. La pulitura del danneggiatissimo crocifisso di Torre del Greco ha permesso di recuperare un pregevole pezzo della
cerchia di Giovanni Merliano da Nola.
La partecipazione di questi nuovi uffici si affianca a quella delle Soprintendenze architettoniche di Napoli e Caserta che descrivono restauri di edifici appartenenti al
patrimonio borbonico come la casina vanvitelliana sul lago Fusaro rifunzionalizzata
per esposizioni e concerti dalla Soprintendenza di Napoli. L’intervento, inserito in
un ampio progetto di restauro paesaggistico che interessa la zona Flegrea, ha permesso di mettere in luce un ciclo di affreschi, finora coperti di scialbo, di valorizzare
un padiglione destinato ai pranzi reali, detto l’Ostrichina e l’antico giardino sulla
costa del lago. I restauri che quella Soprintendenza ha realizzato negli ultimi due anni
saranno oggetto di un volume in corso di pubblicazione che renderà conto delle
attività congiunte di architetti e storici dell’arte.
Gli antichi giardini costituiscono parte rilevante del patrimonio regionale e trovano
la loro massima espressione nel Parco della reggia di Caserta cui sono dedicate at-
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Campania
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
127
tività continue di manutenzione e restauro dovute alla imponenza del complesso
vanvitelliano. Quest’anno in particolare sono descritte attività sul giardino inglese e
sul bosco vecchio, sezioni del parco rispondenti a diverse ispirazioni progettuali
che hanno quindi richiesto modalità di intervento differenziate.
Il tema delle nuove tecnologie scelto quest’anno si collega ad una attività promossa dalla Direzione Regionale infatti si sta proponendo in Campania , nell’ambito del progetto nazionale REARTE, l’utilizzo di SICAR Sistema Informatico per
la Catalogazione dei cantieri di Restauro, un GIS web-based per la gestione delle
informazioni realizzato scelto come sistema informativo di riferimento per i cantieri di restauro nell’ambito del progetto ARTPAST - Applicazione informatica in
Rete per la Tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale nelle aree Sottoutilizzate, coordinato dal MiBAC con il supporto scientifico della Scuola Normale
Superiore.
L’intervento di restauro sulle superfici interne di Santa Sofia, dalla pulitura dei materiali lapidei al rifacimento degli intonaci, che ha restituito al complesso invaso
medievale una luminosità perduta, finanziato dalla provincia di Benevento e realizzato con la Direzione dei lavori dell’architetto Pasquale Palmieri del comune
di Benevento, è stato inserito nel sistema SICAR.
Il progetto di inserimento rientra nell’ipotesi di realizzare una operazione di rete
nell’ambito della candidatura Italia Langobardorum .La chiesa di Santa Sofia infatti
, insieme ad altri siti Longobardi di diverse regioni italiane: Cividale del Friuli, Brescia, Spoleto, San Michele in Puglia, è inserita in una candidatura seriale proposta
dal Ministero per i Beni e le Attività culturali e dal Ministero degli Affari esteri per
l’ingresso nella Lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO. L’ipotesi progettuale
nell’inserimento dei dati dell’intervento su Santa Sofia è di utilizzare le opportunità offerte dalla rete per individuare relazioni e confronti nel patrimonio dell’età
longobarda così distribuito nella penisola, in particolare per ciò che riguarda
tecniche costruttive, materiali e tutto ciò che è possibile rilevare grazie ad un intervento di restauro.
128
Trebula Balliensis (oggi Treglia di Pontelatone - Caserta)
Scavo e restauro delle mura ciclopiche e della porta
monumentale
Mario Pagano
Trebula Balliensis, sita tra i monti del Preappennino e distante circa 15 chilometri
dall’antica Capua, fu città sannitica menzionata da Livio in relazione alle vicende
dell’ invasione annibalica dell’ Italia, quando, nel 215 a.C., fu recuperata da Q.
Fabio Massimo, insieme alle vicine Compulteria e Austicula (1). Cicerone ricorda
il territorio trebulano, con quelli di Venafro e di Alife, tra quelli che potevano essere interessati dagli acquisti previsti dal progetto di distribuzione di terre alla
plebe romana di Rullo. Plinio ricorda i vini trebulani come di straordinaria qualità.
Alla fine del I secolo a.C. fu dotata di un acquedotto. Resti di un teatro emergono
nell’area centrale della città, mentre un saggio propedeutico ha confermato l’ubicazione del foro. La città è ancora vitale nel III secolo d.C. Per il IV secolo abbiamo notizia del restauro delle terme Constantinianae, rovinate dalla vetustà. La
tradizione erudita vuole la città distrutta dai Saraceni durante le scorrerie di IX secolo ma non vi è nelle fonti, o nei dati archeologici, alcuna conferma dell’ipotesi,
sicchè il collasso urbano sarà iniziato probabilmente per le gravi distruzioni dovute al grande terremoto che devastò il Sannio e l’Alta Terra di Lavoro nel 346, aggravato dalle complesse vicende della guerra gotica, che investì a più riprese
l’area, e poi dai ripetuti seppellimenti della città, provocati da colate di fango dai
rilievi sovrastanti, non più irreggimentati, che hanno permesso una buona conservazione in elevato di alcune zone edificate della città.
La testimonianza più eloquente e monumentale della città è certamente l’imponente cerchia delle mura, ancora ben riconoscibile per gran parte del suo percorso, e in alcuni punti conservata in modo eccezionale, come ad esempio il
muro Nord dell’acropoli, per un’altezza di oltre 9 m.
Il circuito murario in opera poligonale di seconda maniera del Lugli includeva
una zona pedemontana a Sud, alquanto pianeggiante e difesa dai profondi e
larghi solchi vallivi di due ruscelli. Le mura sono realizzate a secco, con grandi
blocchi irregolari di calcare locale.
Differenze di tecnica edilizia (riferibili alla seconda e alla terza maniera dell’opera
poligonale), ed alcune giunture e linee di sutura, fanno pensare o all’operato contemporaneo di diverse squadre di costruttori, o ad interventi di rifacimento, potenziamento o manutenzione. Dal sistema sembrano assenti le torri, mentre è
documentato almeno un grande bastione, a cavaliere della grande porta occidentale, che sembra connesso all’utilizzo di macchine da guerra con scopo difensivo,
Soprintendenza per i Beni Archeologici
di Caserta e Benevento
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
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Castel dell’Ovo
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Soprintendenza per i Beni
Archeologici di Caserta
e Benevento
Soprintendente:
Mario Pagano
Palazzo Reale
Viale G. Douet, 2
81100 Caserta
Tel. 0823 277111
Fax 0823 354516
[email protected]
Trebula Balliensis: panoramica
da colle Monticelli della cinta
occidentale in loc. Pianoro La
Corte
129
Trebula Balliensis: particolare
del braccio occidentale, dopo
il restauro (vista da NordOvest).
Trebula Balliensis: bastione
della porta di accesso (lato
Ovest) prima del restauro.
130
collocate a grande altezza, per aumentarne la gittata. Lo stesso bastione appare da
un lato non collegato, ma solo appoggiato al muro poligonale che scende dall’acropoli. Tratti di mura sporgono di metri dal terreno dimostrando l’infondatezza della
teoria che le vorrebbe disposte a reggi-terrazzo senza spalto soprastante.
Le mura sono larghe circa m 2, 20 e presentano una doppia cortina, di cui quella
interna risulta meno accurata e realizzata con pietre leggermente più piccole. Il
riempimento interno era costituito da pietre e scaglie.
Nella parte scavata presso il bastione sono stati rinvenuti pezzi di tegole e scaglie
di tufo, pertinenti forse a restauri e/o a ripulitura dei terreni. Qui le mura erano in
parte crollate e, sul crollo, a filo della cortina interna, fu realizzata la bocca di alimentazione di una calcara, che ha evidentemente predato anche la parte superiore del crollo del bastione.
La scoperta più notevole e impressionante degli scavi 2007-8 è costituita dalla
grande porta a tenaglia Ovest che, prima dell’intervento, si poteva solo intuire dal
ripiegamento delle mura.
Si apre quasi al centro di un grande bastione lungo m 15 circa e largo circa m 4,70
che, col crollo parziale, aveva riempito l’incisione nel tufo affiorante nella quale
corre la strada guardata dalla porta. La copertura, come per le postierle conservate,
è costituita da una serie di giganteschi monoliti di pietra calcarea tenuti insieme a
contrasto, poggiando su filari di blocchi progressivamente aggettanti verso l’alto.
Il particolare spessore del muro fa ritenere che essa sorreggesse un alto e grande
bastione, adatto al posizionamento di macchine da guerra in funzione difensiva.
All’interno, un monumentale corridoio, lungo 12 m, conduceva ad una controporta.
Esso era rivestito da enormi blocchi isodomi di tufo grigio locale, connessi a secco,
che foderavano un muro pseudo-poligonale, sempre a secco, di pietre calcaree
di medie dimensioni. Alcuni dei blocchi presentano segni di cava e tracce di anathyrosis e di leggero bugnato. Poiché i muri del corridoio si appoggiano al bastione
in cui si apre la porta, sembrano il risultato di una monumentalizzazione successiva,
di età ellenistica. Nella parte bassa, il muro in blocchi di tufo isodomi presenta un
solo filare, mentre nella parte alta si raddoppia.
Sono stati individuati vari battuti stradali sovrapposti, nell’ultimo dei quali sono
stati rinvenuti frammenti di sigillata chiara e monete di IV secolo d. C. Il sottostante
battuto è databile al II secolo d.C., in base al materiale ceramico e ad un bel denario di Antonino Pio, quasi fior di conio. Restano da indagare i battuti più antichi,
che contribuiranno ad una più precisa datazione delle varie fasi.
All’esterno, la porta veniva a trovarsi sul fondo di una profonda rientranza delle
cortine in poligonale. La porta alla quale si risaliva dalla depressione valliva occidentale doveva apparire potentemente difesa dalle ali della mura e dalla alta
torre rettangolare che la sovrastava.
Trebula Balliensis: panoramica
del bastione Nord prima
dell’intervento di restauro è
visibile la bocca della calcara
Una difesa aggiuntiva era costituita da due postierle, una posta a Nord e una a
Sud della rientranza. La grande porta a tenaglia, già documentata in età antichissima nel corridoio esterno che precede la porta dei Leoni di Micene, costituisce
una novità di assoluto rilievo nell’area campano-sannitica e, più in generale, in ambito italico. I riferimenti, pur nelle mancanza delle torri, sono alla Magna Grecia
(Castiglione di Paludi presso Thurii, forse realizzata da Alessandro il Molosso,
porta Sirena a Paestum) e alla Sicilia (Lentinoi, Siracusa). Il corridoio retrostante,
trova un confronto puntuale, anche se meno monumentale per lunghezza e conservazione, in una delle porte delle mura dell’acropoli della cinta di Civita di Tricarico in Lucania. Tuttavia la porta di Trebula resta insuperata sia per imponenza
che per dimensioni e fattura, in particolare per il notevolissimo spessore (m. 4,
70 contro i soli m. 2, 40 della porta Saracena di Segni).
Le mura paiono costruite con largo dispendio di mezzi e senza particolare fretta.
Esse, volutamente rispettano con un valore cultuale, una tomba-heroon non più
antica, per confronti e materiali, della fine del V-inizi IV secolo a. C. Lo stato di
conservazione delle mura è eccezionale pur in presenza di estesi crolli e di una
calcara che ha predato molti blocchi. Poiché quasi sempre le pietre crollate si
sono conservate in sito si è proceduto alla pulizia, documentazione, smontaggio
del crollo ed ordinata deposizione delle pietre distinte per settore e se necessario fotografate e numerate. Poi, con l’ausilio di un escavatore, i massi sono stati
ricollocati in sito, previa eliminazione di infiltrazioni di terriccio o materiale incoerente e posa di una rete di acciaio inossidabile elettrosaldato avente la funzione
di segnare l’inizio della ricostruzione e di collegare e rendere solidale all’emplecton il paramento ripristinato.
In tal modo l’intervento è reversibile mentre la rete, visibile solo da un osservatore
che da vicino guarda le giunture, denuncia in modo non invasivo le porzioni di restauro. Altrove si è infatti osservato che la pressione del terreno retrostante eliminava
il sottosquadro di restauro o sospingeva avanti il muro, cosa a Trebula non verificatasi
nonostante il gennaio 2009 sia stato il più piovoso da due secoli a questa parte. In
settori dove le mura erano pericolanti e fuori piombo, si è proceduto allo scavo
stratigrafico nel terreno retrostante, per acquisire elementi di conoscenza sulle tecniche costruttive e datanti, poi i macigni, fasciati con tavolame, sono state pian piano
sospinti indietro dal mezzo meccanico, sino a riconquistare il piombo e la staticità.
La postierla a monte della porta monumentale, che si reggeva da un lato su pochi
blocchi in verticale, è stata consolidata con cuci e scuci di massi megalitici pazientemente selezionati, senza smontarla.
Notevole anche il ripristino del bastione in sinistra di chi guarda la porta dall’esterno (Bastione Sud), i cui macigni si conservavano nella trincea nella quale
scorre la strada. Nel restauro della guancia destra del corridoio esterno sono state
conservate le tracce di antichi restauri fatti con piccole pietre o blocchi di tufo.
Trebula Balliensis: la postierla
settentrionale prima del
restauro.
Ispettore onorario MIBAC:
Domenico Caiazza
Direttore scientifico dei lavori:
Giuseppe Grossi
Soprintendente Beni archeologici di Caserta e Benevento:
MarioPagano
Coop. “Officina Memoriae” ar.l.:
Natascia Pizzano
131
Soprintendenza per i Beni Archeologici
di Caserta e Benevento
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Archeologici di Caserta
e Benevento
Soprintendente:
Mario Pagano
Palazzo Reale
Viale G. Douet, 2
81100 Caserta
Tel. 0823 277111
Fax 0823 354516
[email protected]
Trebula Balliensis: panoramica
dal colle Monticelli del
complesso termale in loc.
Pianoro La Corte.
132
Trebula Balliensis (oggi Treglia di Pontelatone - Caserta)
Scavo e Restauro delle Terme
Mario Pagano
Trebula Balliensis è una città sannitica sita nel cuore del Montemaggiore a circa
15 km dall’ antica Capua, testimoniata da imponenti mura megalitiche, da una
importante epigrafe osca e da iscrizioni romane per lo più di età imperiale. Una
di queste rammenta il restauro delle Terme Costantiniane operato da un notabile
romano nelle seconda metà del IV secolo d.C.
Un intervento del progetto Antica Trebula ha riguardato le terme romane, forse
le stesse rammentate dall’iscrizione, scoperte fortuitamente negli anni Settanta
dello scorso secolo durante la realizzazione di una strada forestale e sommariamente allora indagate e parzialmente messe in luce da W. Johannowsky.
Qualche decennio prima delle fine del secolo scorso vi sono stati limitati interventi di scavo sulla sede stradale che oggi le ricopre parzialmente.
L’intervento ha puntato a riconoscere i limiti settentrionali del complesso termale
e l’ampliamento dello scavo ha permesso di definire il perimetro a nord e di individuare due grandi ambienti e un retrostante irregolare corridoio oltre il quale
si è rinvenuta una strada adiacente, ma sita a quota superiore di un paio di metri,
lastricata con basoli irregolari di calcare .
Le mura scoperte sono conservate per poco più due metri d’altezza, immerse nei
materiali di crollo, costituiti soprattutto da conci irregolari di tufo.
Acquisita la conoscenza di tali dati e considerato che le strutture poste in luce
circa trenta anni addietro erano molto degradate per il gelo e l’aggressione della
vegetazione, che avevano rimosso i bauletti di cemento a suo tempo realizzati
in sommità e disgregato notevolmente le cortine dei muri, spesso per oltre un
metro dai cigli, si è preferito dedicare le risorse al restauro delle stesse previa individuazione delle varie fasi di intervento.
Diserbate e ripulite le cortine, dopo opportuna documentazione grafica e fotografica, si è operata la ricostituzione dei paramenti murari caduti riutilizzando i
materiali di crollo selezionati legati con bio-calce ed integrati, ove necessario,
con mattoncini di produzione artigianale ben distinguibili dagli antichi per dimensione, anche se ben armonizzati con l’insieme.
I rifacimenti hanno tenuto conto e rispettato le vari fasi rendendole leggibili
anche dopo i restauri. Nella prima fase, quella originaria, il frigidarium, oggi absidato, aveva pianta quasi quadrata, con muro realizzato con corsi regolari di
conci rettangolari di tufo grigio alternato a corsi di due mattoni. Mentre era in
corso la costruzione ci fu un ripensamento che portò a realizzare con la stessa
tecnica delle modifiche (fase 1A), ben leggibili: l’abside semicircolare sostituì
quella quadrata, e gli angoli dell’abside e dell’ambiente centrale furono rinforzati con spallette aggiunte, appoggiate al muro di prima fase e, ogni tanto,
ammorsate, al fine, probabilmente, di sostenere una grande volta a crociera.
Nel settore NO si leggono due piccoli ambienti che hanno subìto almeno due radicali trasformazioni. Quello più grande aveva una finestra verso l’esterno, poi tompagnata, che poteva riversare la luce anche nel grande ambiente centrale. Forse
un’altra finestra era nell’altro ambientino annesso, ma è più probabile che qui fosse,
nella fase 1-1A, l’ingresso all’ambiente centrale, protetto da un portichetto, in parte
occupato da una fontana illuminata dalla finestra, poi tompagnata.
In tale fase, nei vasti ambienti a SO doveva essere il complesso del tepidarium
e calidarium. Di questi ambienti, oggi sotto la via forestale, conosciamo poco, in
pratica solo il sommario disegno, conservato in archivio, che è stato sommariamente aggiunto al rilievo. In attesa che W. Johannowsky, come ha promesso, dia
una più compiuta notizia dei suoi scavi, sembrerebbe di poter ipotizzare che i
tre ambienti a SO fossero adibiti a tepidarium e calidarium e apoditerium.
Il calidarium era probabilmente nell’ambiente meglio esposto al sole, semiabsidato nel fondo. Qui infatti, a ridosso dell’abside del frigidarium, sono i resti di
un praefurnium, se non di un forno, probabilmente ricostruito in epoca tardoantica. Se ne vede ancora la bocca che si apre in un semicerchio da meglio indagare. Se l’ipotesi ha fondamento il grande vano del settore sud potrebbe
essere il laconicum coni resti dei gradini di accesso alla vasca semiabsidata dell’acqua calda. Negli altri due ambienti adiacenti si potrebbe, in via di mera ipotesi, riconoscere il tepidarium nell’altro ambiente nell’angolo sud ovest del
complesso, e, forse, lo spogliatoio nell’ambiente centrale.
Non siamo oggi in grado, non avendo visto le murature, di indicare a quale fase
vanno attribuiti questi tre ambienti esposti a sudovest, forse la 1 e 1A. che sembrano affacciare su un salto di quota.
In epoca successiva le terme furono ampliate aggiungendo gli ambienti esposti
a NE, realizzati in muratura di ricorsi di tufelli allettati in malta, per quanto si è
potuto osservare nelle parti sommitali oggi in luce. Questa fase, la 2, è segnata
con tratteggio incrociato nella pianta.
L’intervento con questo tipo di muratura, non fu limitato all’ampliamento, ma servì
anche per ridurre il vano di passaggio sito a SE del grande ambiente centrale,
mentre fu completamente tamponato il varco che si apriva in posizione simmetrica presso l’angolo nord di tale vano. Fu anche tamponato il portichetto sul
lato breve a NE. Fu così chiuso l’accesso mentre, forse, rimasero in funzione la
finestra e la ipotizzata fontana.
In seguito fu compiuta l’ultima trasformazione (fase 3) che vide chiudere i vani
tra portichetto-fontana che furono trasformati in un piccolo laconicum riscaldato
dal pavimento, rivestito di spesso marmo e retto da suspensurae e dalle pareti
percorse da tubuli fittili quadrati nei quali correva l’aria calda.
I tompagni dei due ingressi sulla parete confinante col grande vano centrale tennero presente la necessità di non restringere troppo il passaggio ponendo in
opera i tubuli. Ciò fu ottenuto in due modi: nel primo vano per chi entra il tompagno ebbe minore spessore grazie al riutilizzo di mattoni della fase 1 o 1A, nel
secondo si usarono gli stessi materiali ma il muro fu fatto sporgere di qualche
centimetro dal filo della parete.occidentale del grande vano centrale. Ciò dava
poco fastidio visto che nel grande ambiente centrale furono realizzare due sedili
laterali appoggiati alle pareti NO e NE. Sul lato opposto fu tompagnata la finestra
nel localino più grande e addossata un’abside adibita a vasca di acqua calda.
Questa muratura dell’abside, ed il tompagno della finestra, sono state realizzati
con mattoni triangolari con un lato curvo probabilmente recuperati da colonne
cadute. La muratura è grossolana ma il piccolo bagno fu rivestito di marmo tenuto
da perni di ferro. Pare evidente che si realizzò un bagno praticamente utilizzabile
da una o pochissime persone probabilmente per l’influsso cristiano che condannava le nudità pubblicamente esibite nelle terme. Per entrare nell’ex porti-
Trebula Balliensis: particolare
del lastricato stradale (vista da
Est).
133
Trebula Balliensis: il restauro
della parete divisoria tra il
frigidarium ed il calidarium
(vista da Est).
Trebula Balliensis: panoramica
del frigidarium prima
dell’intervento di restauro
Ispettore onorario MiBAC:
Domenico Caiazza
Direttore scientifico dei lavori:
Giuseppe Grossi
Soprintendente Beni
Archeologici di Caserta e
Benevento: Mario Pagano
archeologo:Giuseppe Grossi
coop. “officina memoriae” ar.l.:
Natascia Pizzano
134
chetto ed accedere, tramite il piccolo laconicum, al piccolo calidarium absidato,
fu aperto un varco nella muratura di fase 1A del lato breve.
Naturalmente i mattoni da colonna non necessariamente vengono da recupero,
ma dissesti statici attribuibili ad un terremoto sembrano indiziati dal fatto che con
rozza muratura di tufo fu ristretto e rinforzato il vano scale a adiacente al frigidarium. Del resto, anche parte dei marmi usati per foderare pavimenti e pareti delle
vasche sono certo di recupero, perché presentano lettere o modanature sul rovescio. Il recupero potrebbe anche spiegare le numerose varietà di marmo raccolte in frammenti: in attesa di una più completa analisi segnaliamo per ora che,
oltre quello di Carrara, vi è marmo greco scritto, cipollino, giallo antico e africano.
Il restauro ha notevole profilo di complessità per la necessità di impedire l’ulteriore progresso del notevole degrado che minacciava la statica restaurando i
paramenti senza menomare la leggibilità dei vari interventi edilizi succedutisi nel
tempo tra la costruzione databile alla metà del II secolo d.C., l’ampliamento del
secolo successivo, e l’ultimo restauro di metà IV secolo.
Il restauro, molto visibile dato che le strutture hanno notevole altezza, ha interessato
soprattutto il frigidarium di fase 1 e 1A in opera vittata, il tepidarium di tarda età imperiale e l’interposto grande ambiente centrale è stato sospeso per l’inclemenza
meteorica. Questa, nonostante l’eccezionale piovosità e i freddi intensi, non ha
compromesso le strutture oggetto di intervento. A primavera il restauro sarà esteso
alle parti sommitali dei muri di recente messi in luce per evitarne il degrado.
Il recupero in archivio di dati dei precedenti interventi ha consentito di ricostruire
una prima pianta integrale di quanto ad oggi conosciuto, che sarà di guida per i
futuri interventi che, grazie a saggi, mireranno alla traslazione della strada ed alla
rimessa in sito sulle fondazioni dei grandi frammenti di parete abbattuti dalle
ruspe negli anni ‘70 del ‘900. A questo scopo il mucchio di lacerti murari oggi accatastati sarà smontato e i grandi blocchi di murature saranno traslati e deposto
in modo da potere effettuare misure e tentativi di assemblamento e ricostruzioni
virtuali propedeutiche ad ulteriori restauri. Allo stesso modo si procederà con i
frammenti di blocchi e volte che verranno con ogni probabilità restituiti dai nuovi
ambienti individuati all’inizio della campagna di scavi.
Data l’altitudine e la forte incidenza delle gelate sulle murature è in corso di approntamento una ipotesi innovativa di copertura che riproduca per linee leggere resistenti
ed essenziali le strutture verticali e le volte e regga l’ordito della copertura fittile.
In tal modo dall’interno si avrà, per grandi linee, un’idea concreta delle spazialità e dei
volumi antichi e dall’alto dell’acropoli si avrà la visione non dei soliti tetti di lamiera a “capannone”, inammissibile in un incontaminato ambiente montano, ma di un tetto moderno ma ispirato, per andamento delle falde e materiali di strutture e mantello, a quelli
di epoca romana. Questo, anche per rispettare l’inserimento della copertura in un’area
naturalisticamente e paesisticamente intatta, circondata da prati erbosi e boschi.
Restauro Storico Artistico della Chiesa di Santa Sofia
in Benevento
Vega de Martini
L’intervento di restauro storico artistico condotto in questi mesi per la chiesa di
Santa Sofia in occasione della candidatura UNESCO si è concentrato in particolar
modo sulle sei colonne complete di capitelli e basi che formano un anello esagonale al centro della chiesa al di sotto della grande cupola. I manufatti erano tutti
interessati da una pesante patina costituita da particellato atmosferico e da fumi
grassi. I marmi mostravano un principio di disgregazione dei costituenti cristallini,
lacune e microlesioni. Si è intervenuti pertanto, previa campagna di saggi di pulitura e rimozione delle stuccature, alla pulitura chimica dei capitelli, delle basi
e dei fusti delle colonne, due di granito e due di serpentino nero. La pulizia meccanica è avvenuta con bisturi, spazzolini e trapani dentistici e l’estrazione dei
sali mediante impacchi di polpa di carta e acqua bidistillata. Le stuccature delle
lesioni e delle microfratture è stata eseguita dopo la rimozione di pesanti e numerosi inserti di cemento dovuti al restauro degli anni Cinquanta. Dopo l’imperniatura di piccoli frammenti di materiali lapidei e il consolidamento diffuso delle
superfici, si è passati alla rifinitura meccanica della pulitura, alla protezione con
prodotto silossanico, alla lucidatura dei fusti, dei capitelli e delle basi con patinatura leggera ove necessario.
Per quanto riguarda gli affreschi, che si trovano ora concentrati in massima parte
nelle due absidi laterali, si è intervenuti in maniera molto contenuta in quanto
non presentavano eccessivi problemi essendo stati oggetto, pochi anni or sono,
di un contenuto ma necessario intervento di consolidamento. Dunque gli affreschi delle absidi sono stati ora solo lievemente spolverati (nonostante siano stati
protetti, i lavori edili condotti nella chiesa avevano comunque lasciato qualche
traccia sulle superfici dipinte), mentre sono state rifatte le stuccature delle lacune
degli stessi affreschi con una malta che meglio poteva intonarsi ai colori previsti
per le pareti interne dell’edificio. L’intervento storico artistico si è infatti dovuto
calare in un discorso di recupero globale degli interni della chiesa che avevano
perso, a causa di cattivi restauri, il loro carattere peculiare.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici delle Province di Caserta
e Benevento
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
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Architettonici e Paesaggistici
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Con una nuova intonacatura, che andasse a sostituire quella degli anni Cinquanta
in cemento, e una nuova tinteggiatura, che andasse a rimpiazzare quella, pesantissima, eseguita una decina di anni or sono, bisognava dare al fruitore l’informazione che la chiesa in antico fosse completamente affrescata. Dunque le
stuccature delle lacune, in sottosquadro, dovevano avere identica qualità e colore del resto delle pareti.
Si è invece provveduto al discialbo e alla successiva pulitura e consolidamento
dei due piccoli lacerti di affresco ritrovati nell’ala laterale all’abside destra durante
la necessaria rimozione del pavimento degli anni Cinquanta del secolo scorso,
lavoro di competenza del settore architettonico che si è occupato di intervenire
anche al restauro degli archi in mattoni sorretti da poderosi pilastri. Dai saggi eseguiti dagli operatori storico artistici si evinto che negli anni Cinquanta questi sono
stati malamente racconciati con aggiunta di stuccatura di cemento, di malta impropria, di patinatura e sporcatura che ne ottundono la qualità architettonica.
Allo stato attuale i tempi molto ristretti non hanno permesso di andare oltre un’accurata pulizia con spazzole di saggina e tensioattivi mentre si sarebbe dovuta
eseguire la rimozione delle biacche, delle stilature a cemento con la patinatura
delle parti in cotto ed una patinatura di intonazione ove necessario.
Con un ulteriore finanziamento del Comune di Benevento, tutte le operazioni di
restauro sono state inserite nel programma SICAR, Sistema Informatico per la Catalogazione dei cantieri di Restauro, e sono oggi visibili on–line nel sito
http://www.liberologico.com/sicar_artpast/. SICaR w/b è un GIS web-based per
la gestione delle informazioni ed è stato scelto come sistema informativo di riferimento per i cantieri di restauro nell’ambito del progetto ARTPAST.
Progetto architettonico
Enrico Guglielmo:
Salvatore Buonomo,
Angela Maria Cangiano,
Pasquale Sebastianelli
Progettazione e restauro
storico-artistico:
Maria Rosaria Nappi
Vega de Martini
Collaborazione:
Ferdinando Creta, Italo Giovanni
Antonio Mustone
Progettazione Scavo
archeologico e nuova
pavimentazione: Luigina Tomay
Ditta Impresa Materazzo,
Lucio srl
Direttore Dei Lavori:
Pasquale Palmieri
Alta Sorveglianza restauro BAS:
Vega de Martini
Direttore operativo dei lavori
di restauro BAS: Enrico Bugli
Inserimento dati SICAR:
Elvira Altiero
136
Benevento - Cattedrale di S. Maria Assunta.
Lavori di Restauro del Campanile
Flavia Berlardelli
Cenni storici:
Il duomo di Benevento, risalente come primo impianto all’epoca altomedievale
ed ampliato in fasi successive fino alla riconfigurazione a cinque navate, attribuibile al XII-XIII secolo, aveva conservato sostanzialmente inalterato l’assetto basilicale, anche a seguito degli interventi di riparazione seguiti ai disastrosi terremoti
del 1688 e del 1702, fino ai bombardamenti del 1943 che avevano ridotto la
struttura alla condizione di rudere.
L’edificio attuale, ricostruito integralmente negli anni Cinquanta in cemento armato, su progetto dell’architetto Paolo Rossi De Paoli, ricalcando l’articolazione
planimetrica preesistente, conserva integralmente la cripta di epoca romanica e
riutilizza la facciata originaria, sopravvissuta ai bombardamenti, su cui si conserva
buona parte del rivestimento lapideo originario, che include rilievi ed iscrizioni
di epoca romana e paleocristiana.
La porta originaria, composta da formelle in bronzo con bassorilievi, attribuite ai
secoli XII e XIII, che era stata ridotta in frantumi dal bombardamento, è stata restaurata e, nel 2001, rimontata all’interno della navata principale, per esigenze di
conservazione, ma in corrispondenza del portale della facciata, in modo da essere visivamente inquadrata nella cornice lapidea originaria, connotata da rilievi
di stile romanico.
Il campanile, che nel rilievo post-bellico risulta integro, è stato invece interessato
esclusivamente da interventi puntuali di sostituzione di alcuni conci lapidei o di
inserimento di tasselli, conservando l’assetto documentato dalle foto prebelliche,
connotato dalle finestroni ogivali del secondo ordine, e dalla presenza di elementi lapidei di spoglio, di epoca romana e tardontica, con rilievi funerari.
La sua costruzione, secondo quanto testimoniato dall’iscrizione presente sulla
facciata settentrionale indica, come data di inizio della costruzione, il febbraio
del 1279, mentre un’altra iscrizione testimonia l’avvio dei lavori di completamento della struttura nel maggio 1688.
Intervento di restauro:
L’intervento di restauro del paramento lapideo del campanile, finanziato all’interno del programma ordinario 2006 ed attualmente in fase di avanzata esecuzione, costituisce una ideale prosecuzione dell’opera di consolidamento
superficiale e pulitura eseguita negli anni 1995-1998 sulla facciata principale, che,
per la presenza di bassorilievi nella parte basamentale, più esposta all’azione
dell’inquinamento atmosferico dovuto all’ossido di carbonio prodotto dal traffico veicolare, e per l’infestazione di piccioni, presentava una condizione di degrado ancora più preoccupante.
Il paramento lapideo del paramento del campanile era caratterizzato da uno
stato di degrado meno avanzato, concentrato prevalentemente negli elementi
scultorei di reimpiego, quasi interamente ricoperti da croste nere pluristratificate,
di durezza e spessore variabile, e negli archetti di sostegno del cornicione, investiti da acque da dilavamento e occupate da nidi di rondini. La superficie lapidea priva di rilievi era interessata in alcuni tratti, presumibilmente appartenenti
alla fase più antica della fabbrica, da infestazione di alghe di chlorelle in simbiosi
con muschi e licheni, da incrostazioni di natura calcarea e da residui di scialbo
di calce.
In via preliminare è stato quindi eseguito di un trattamento generalizzato della superficie con biocida per l’eliminazione dell’infestazione di muschi e licheni. Suc-
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cessivamente, in base all’esito di numerose prove di pulitura, si è deciso di procedere ad un intervento di pulizia dell’intero paramento lapideo con impacchi
di carbonato di ammonio, di durata differenziata a seconda della caratteristica
e dello stato di conservazione della superficie lapidea, sintetizzabili in tre situazioni tipo: conci lapidei lisci, bassorilievi in condizioni di conservazione media,
rilievi figurativi di epoca antica in stato di avanzato degrado.
L’opera conservativa ha comportato la verifica delle condizioni di ancoraggio dei
rilievi scultorei aggettanti, l’asportazione di grappe, staffe e perni in ferro ossidato
e la loro sostituzione con elementi in acciaio inossidabile o vetroresina, l’eliminazione di stuccature cementizie o comunque improprie delle connessure fra i
conci e la successiva stilatura con impasto di polvere di pietra calcarea analoga,
grassello di calce ed additivo antiritiro.
Progettista e direttore dei lavori:
Flavia Belardelli
Collaboratori al progetto
ed alla D.L.: Luigi Di Francesco,
Luigi Di Muccio, Cuono
A. Pannella
Finanziamento: Ministero per i
Beni e le Attività Culturali.
A.F.2006
Ditta Esecutrice: Centore –
Afragola (Na)
138
Reggia di Caserta-Appartamento storico - Lavori di restauro
Appartamenti Storici ala ‘800 e volta ellittica. Restauro di
due Organi meccanici (sec. XVIII-XIX)
Lucia Bellofatto
Visitando l’appartamento ottocentesco della Reggia è possibile ammirare nelle retrostanze due organi recentemente restaurati che, se in funzione, ricreano le liete
atmosfere delle giornate a corte. Apparentemente possono rimandare agli organi
meccanici diffusi in Europa ed in particolare nei caffè e ristoranti viennesi dove, tra
gli ultimi decenni del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, era possibile ascoltare
gli ultimi ballabili alla moda e le arie d’opera più recenti, ma gli organi di Caserta
rispetto ai “Flötenuhr” (dotati di un solo cilindro) sono macchine più complesse,
in grado di riprodurre la reale esecuzione di un brano musicale. Entrambi gli strumenti sono contenuti in mobili stile Impero in legno mogano. Il piccolo è un secrétaire con anta a ribalta dietro la quale è visibile una parte dei ruotismi,
sormontato da un orologio che con lo scoccare delle ore aziona il cilindro, e nella
parte inferiore un vano per l’alloggiamento dei cilindri; per la parte strettamente
musicale è costituito di un piccolo organo automatico a cilindro con un solo registro di 46 note (Do1 – La 4 su base di 4). Quello grande è semplicemente chiuso
da due ante e contiene anch’esso un vano per i cilindri e quattro registri di canne
in legno azionati dai cilindri nel corso dell’esecuzione (con scala di 46 note).
Si ritiene che i due organi siano opera di Anton Beyer, anche se solo sul piccolo una
targa intarsiata, recante l’iscrizione Anton Beyer – Meccanico della Corte in Napoli,
posta sul pannello anteriore, ne attesta la paternità. Documenti di archivio, riguardanti
le spese per la ristrutturazione dell’alloggio che gli fu messo a disposizione e le somme
per i vari incarichi, testimoniano il soggiorno a Napoli dal 1823 del Beyer, famoso costruttore viennese di strumenti meccanici. Delle commissioni borboniche, oltre ai due
organi di Caserta, rimane un organo attualmente a Palermo, di proprietà privata.
Nel corso dell’intervento di restauro (eseguito da Leonardo Perretti) dell’organo
grande, sono state trovate due iscrizione di cui una (Jop. Hain in Wien 1823)
sulle pieghe del mantice che attribuisce la realizzazione nel 1823 della parte
esclusivamente musicale (somiere, mantici e canne) a Joseph Hain, documentato
in numerosi altri strumenti, l’altra (Lidioangan am 22 Julin 1823 wiener) all’interno
dell’ingranaggio di carica, forse la firma di un operaio o del costruttore degli ingranaggi. Gli organi sono corredati di 89 cilindri (la raccolta più numerosa al
mondo per strumenti di questo genere) di legno di tiglio su cui sono affisse delle
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punte o dei ponti corrispondenti ciascuno ad una nota, 44 per il piccolo, ognuno
con una durata che va dai tre ai cinque minuti, e 45 per il grande, la cui durata è
di sette-otto minuti. La maggior parte dei cilindri possiede un’etichetta che riporta
il suo numero d’ordine, il titolo del brano (o dei brani) in esso contenuto ed il
nome dell’autore. L’esistenza di questi strumenti alla Reggia di Caserta evidenzia
quanto la Corte dei Borbone fosse colta, moderna ed al passo con ciò che accadeva nel resto d’Europa e come Napoli, ancora nei primi decenni dell’Ottocento,
detenesse il primato di capitale musicale d’Europa. Pertanto gli organi oltre ad illustrare i piacevoli divertimenti dei reali, costituiscono una testimonianza di prim’ordine su una prassi musicale ormai perduta. Rappresentano un prezioso
materiale, che nessuno conosce, in grado di fornire informazioni rigorose sulle
trascrizioni dei brani musicali, soprattutto per ciò che riguarda gli abbellimenti.
Certo i cilindri, che muovono i tasti dell’organo attraverso un sistema di leve, non
hanno la precisione delle moderne registrazioni ma, come dice Massimo Di Sandro, “contengono ciò che le moderne registrazioni non possono contenere: un
pensiero musicale. Dall’esame del cilindro è possibile infatti ricavare i criteri che
sono stati adottati nell’interpretazione musicale. Se è vero che tali criteri sono in
parte intuibili all’ascolto, la ricostruzione dello schema di un cilindro, del suo diagramma, ci dà in maniera esatta, ad esempio, il rapporto tra i diversi tempi di un
brano (il passaggio dall’adagio all’allegro, al presto, ecc.), l’articolazione delle
frasi melodiche, la collocazione e la misura di uno staccato, un legato etc. Dallo
studio dei cilindri viene dunque fuori come è stata pensata, progettata l’interpretazione musicale di ogni singolo brano. È questo che rende gli organi di Beyer oggetto di grandissimo valore storico”. Queste musiche sono talmente preziose da
meritare la trascrizione su pentagramma, attraverso l’ausilio dell’elettronica, e la
registrazione per consentire uno studio musicologico più approfondito.
Progettisti: Lucia Bellofatto,
Anna Maria Romano
Direzione dei lavori:
Giovanna Petrenga
Collaborazione alla D.L.:
Mario Andolfi –
Savino Pasquale
Responsabile unico del
procedimento: Anna Capuano
Finanziamento: Finanziato con
Fondi Strutturali Comunitari
obiettivo
1 POR Campania 2000-2006Asse II Misura 2.1.
Ditta esecutrice:
Leonardo Perretti - Foggia
140
Reggia di Caserta-Restauro Appartamento Storico ala ‘800 e
volta ellittica. Valorizzazione delle coperture dello scalone
d’onore e del peristilio ottagonale:
“La Scala Regia, da cielo a terra”
Salvatore Buonomo
Introduzione
Il percorso di visita realizzato nell’ambito della Reggia di Caserta, a conclusione
dei diversi interventi di restauro e manutenzione straordinaria ha lo scopo di affiancare le note e consuete mete dei visitatori e trae spunto dal desiderio di soddisfare curiosità che afferiscono agli aspetti costruttivi della fabbrica nel tentativo
di ampliare l’offerta, rivolta ad un pubblico sempre più vasto e non necessariamente esperto o di settore.
È un percorso, assolutamente particolare nel suo genere, che può facilitare la
comprensione di un’Opera caratterizzata soprattutto dai suoi valori estetici e
creativi che talvolta hanno sacrificato aspetti posti al contorno della realizzazione,
degni invece di essere noti ed apprezzati da un ampio pubblico.
È noto che il prestigio della Reggia si fonda anche sulle soluzioni costruttive adottate dal Vanvitelli, nel rispetto di una approfondita conoscenza, tanto delle tecniche, quanto delle risorse proprie del materiale impiegato.
Uno di questi percorsi, cosiddetti “tecnologici”, è sicuramente quello dell’insieme dello Scalone d’Onore, da apprezzare lungo il suo sviluppo tridimensionale, da cielo a terra, sino a percorrerne luoghi ritenuti forse, secondari e nascosti
ma di sicuro fascino.
Descrizione sommaria del progetto
La visita allo Scalone d’Onore rientra nel consueto percorso che oggi compie
chi si reca al Museo del Palazzo Reale di Caserta, che assegna agli Appartamenti
Storici un posto di assoluto rilievo. Lo Scalone perciò, costituisce forse l’elemento
di maggiore interesse oltre ad essere il collegamento verticale più rappresentativo
della costruzione.
Tuttavia, alcuni luoghi (come ad es., il calpestio superiore della volta con foro ellittico o la soprastante volta ad incannucciata), rimangono ancora sottratti al
grande pubblico e ciò sia per la delicatezza e particolarità degli ambienti, che
per l’assenza dei necessari ausili didattici che solitamente accompagnano e supportano la visita.
Si pensa perciò di ampliare l’offerta culturale arricchendo il percorso con
scorci ed angoli insoliti dello Scalone per soffermarsi su quelle superfici e
componenti della costruzione oggi apprezzabili solo a notevole distanza (intradosso delle volte), o con la sola immaginazione (estradosso della volta e
struttura di copertura).
L’insieme Scalone - Peristilio ottagonale, potrà così essere ammirato ad altezze diverse sino a raggiungere gli ambienti soprastanti posti a livello del sottotetto dove
sarà possibile spostarsi tra le capriate che sostengono il tetto e le volte estradossate degli ultimi piani.
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Particolari della visita
La visita sarà articolata in più tappe disposte lungo un preciso percorso che avrà
origine e fine, coincidente con lo Scalone (ad es. pianerottolo intermedio tra le
due rampe). Dopo una breve introduzione, il pubblico sarà condotto, attraverso
la scala Carlo III, ai livelli superiori, secondo la successione appresso riportata.
Arrivo al calpestio della volta con foro ellittico dove sarà possibile accedere alla
sezione espositiva allestita all’interno della saletta posta in asse alla scala. In que-
141
sto ambiente il visitatore troverà una prima sezione (sezione A) dedicata allo
Scalone Reale composta di pannelli didattici con testi, fotografie e modelli in
scala. Per i particolari di questa sezione si rimanda al relativo paragrafo riportato
appresso.
Usciti dalla saletta si visiterà l’ambiente con foro ellittico per una visione ravvicinata del dipinto della Reggia di Apollo e della volta ad incannucciata.
Ritorno alla scala Carlo III e salita sino al livello di sottotetto dove è posizionato
un piccolo spazio per l’accoglienza dei visitatori e la divulgazione di materiale
didattico.
Breve visita alle capriate presenti nel braccio orientale mediano della Reggia e ritorno allo spazio di accoglienza per la visita ad una seconda sezione (sezione
B) dedicata esclusivamente alla volta ad incannucciata ed a tutti i suoi aspetti
costruttivi. Per i particolari di questa sezione si rimanda al relativo paragrafo riportato appresso.
Dalla volta ad incannucciata si proseguirà verso la copertura della del Palazzo
coincidente con il peristilio ottagonale e si percorrerà l’intero sviluppo sino ad
arrivare alla scaletta di servizio che conduce agli ambienti occupati dalle truppe
alleate durante l’ultimo conflitto.
Raggiunto il piano, sarà possibile visitare la terza sezione (Sezione C, i cui particolari sono riportati appresso nel relativo paragrafo), dedicata agli ambienti di
servizio della Reggia ed alle destinazioni d’uso assegnate ad essi nei periodi precedenti. Negli stessi ambienti sarà anche allestita una esposizione divisa in due
settori :
a - le volte sottostanti la lanterna della Reggia;
b - alcune testimonianze di un conflitto.
La visita proseguirà attraverso la scala che conduce al livello del peristilio ottagonale posto al primo piano per ritornare allo Scalone Reale nel punto di partenza
della visita. Lungo la scala citata si potrà apportare una lieve modifica al percorso
visitando l’esposizione delle porcellane (Sezione D) poste al secondo piano ed
allestita negli ambienti relativi alle dismesse residenze. Per i particolari della sezione si rimanda al relativo paragrafo riportato appresso.
In questo caso l’uscita, e quindi il termine della visita, sarà individuato nella scala
nota come “Ramaglietta”.
Progettisti e direttori dei lavori
Salvatore Buonomo,
Mario Tartaglione
Collaboratori alla progettazione
ed alla direzione dei lavori:
Antonio Michele Izzo,
Luigi Pastore
Responsabile Unico del
Procedimento: Anna Capuano
Accordo di Programma Quadro
2000-2006
Ministero per i Beni e le Attività
Culturali Regione Campania
Ditta esecutrice: Sicer – s.r.l.
Napoli
Asse II Misura 2.1
Grande Attrattore Culturale
Reggia di Caserta
142
Reggia di Caserta. Restauro delle fabriques
e delle collezioni botaniche del Giardino Inglese
Francesco Canestrini
L’intervento di restauro del Giardino Inglese è stato indispensabile per riparare i
danni verificatisi nell’ottobre del 1997, quando un violento nubifragio causò la caduta di due grandi pini sulla vegetazione circostante il “ Bagno di Venere”, con
conseguenze disastrose sul piccolo specchio d’acqua, improvvisamente privato
del lussureggiante boschetto di lecci ,allori e tassi che lo rendeva uno dei luoghi
più suggestivi dell’intero parco .
Si decise allora che, oltre a porre rimedio ai danni dovuti alle intemperie, era indispensabile elaborare un progetto-programma che stabilisse le linee guida per
la realizzazione dei lavori indispensabili a recuperare la complessa identità del
giardino, nel rispetto di tutte le stratificazioni storiche e dell’aspetto assunto all’epoca del Terracciano,(insigne direttore del giardino) riportato nella planimetria
realizzata nel 1870, vero punto di riferimento per l’attività progettuale.
Il programma ha preso quindi in considerazione le differenti componenti costituite dalla vegetazione, dalle fabbriche e dalle destinazioni d’uso , elaborando
per ognuna di esse criteri di intervento basati sul rispetto della forma complessiva
del giardino con l’obiettivo di sottolineare le reciproche influenze e restaurare gli
originari rapporti tra architetture e vegetazione.
L’indagine storica, ha consentito di individuare nella compresenza di paesaggi e
scene pittoresche, arricchite da piante esotiche e collezioni botaniche, e di attività di riproduzione, acclimazione e vendita la vera caratteristica del giardino da
recuperare e restaurare.
Le architetture del giardino Inglese, legate da una serie di percorsi sinuosi, che
ne consentono una visione parziale o improvvisa, furono concepite e progettate
insieme al contesto vegetale e da questa coesistenza traevano il valore di edifici
simbolo di una filosofia di immersione ragionata ed allo stesso tempo malinconica nel mondo naturale. Oltre agli interventi di restauro conservativo per la Cappella Gotica , il Tempietto circolare e l’Aperia, sono state ripristinate le condizioni
originarie del contesto, in riferimento a punti di vista privilegiati da cui è possibile
godere di pittoreschi quadri naturali e di scene includenti corsi d’acqua, cascatelle e fontane popolate da statue.
Gli edifici utilitaristici, rappresentati dalle serre, sono stati invece restaurati, nel rispetto delle caratteristiche di pregio architettonico, per renderli di nuovo adatti
ad ospitare esemplari rari e collezioni in vaso, salvaguardando così la compo-
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nente scientifica del giardino e curando anche la conservazione delle tracce
delle antiche soluzioni impiantistiche.
Per quanto attiene alla vegetazione l’intervento ha preso l’avvio dalla catalogazione e dallo studio effettuato dall’equipe del prof. Ippolito Pizzetti durante il
1993 , ed ha provveduto, prioritariamente, ad aggiornare l’elenco e le relative
planimetrie mediante l’indicazione degli esemplari botanici non più presenti,
operando, successivamente, mediante potature ed interventi dendrochirurgici al
fine di salvaguardare gli esemplari d’interesse e ripristinare i punti di vista e gli
scorci modificati da piante sradicate o morte e da crescite incontrollate. La messa
a dimora di piante in grado di sostituire o di integrare la vegetazione esistente è
stata effettuata sulla base della documentazione presente presso l’Archivio Storico della Reggia e nei testi del Terracciano, riguardanti la flora casertana, rintracciabile sia nei boschi che nei giardini dell’intera provincia.
L’immagine di orto botanico ricco di piante esotiche di rilevante valore scientifico, presente fin dalla creazione del giardino, è stata riproposta mediante l’apposizione di targhette metalliche contenenti l’indicazione della famiglia e della
nomenclatura scientifica di ciascun esemplare arboreo ed avviando la ricognizione delle essenze arbustive e di quelle presenti all’interno delle serre.
Particolarmente importanti per il recupero dell’aspetto scientifico sono le ricostituzioni delle antiche collezioni di piante grasse, felci e begonie, rose e la riproposizione della Scuola Botanica, settore del giardino dove le piante sono
classificate secondo il metodo di Linneo, secondo quanto si evince dalla planimetria del Terracciano.
Il recupero della funzionalità delle serre consentirà il rinnovarsi del carattere produttivo del giardino mediante la possibilità di vendita di esemplari in soprannumero o non usati per le necessità colturali.
Progetto e direzione lavori:
Francesco Canestrini
Collaboratori: C.T.
Vincenzo Carbone
Collaboratori: C.T.
Leonardo Ancona
Finanziamento: POR. 2000-2006
Reggia di Caserta - Parco
e Giardino Inglese – Restauro
del verde
Ditta esecutrice: Impresa
Eurogiardinaggio Nicola Maisto
s.r.l.
144
Reggia di Caserta-Parco - Il restauro del Bosco Vecchio:
verde e fabriques
Anna Capuano
L’intervento riguarda una vasta area coincidente con il Bosco Vecchio, ossia il
preesistente seicentesco giardino dei Principi Acquaviva inglobato nel Parco e
riadattato dal Vanvitelli. Il bosco artificiale, ricco di statue, giochi d’acqua, giardini
segreti (Castelluccia) e architetture di pregio (Palazzo al Boschetto, ex-residenza
di svago degli Acquaviva, e Complesso dei Passionisti) , è collocato ai limiti occidentali del Parco, in stretta relazione spaziale con gli antichi quartieri militari
borbonici.
Cenni Storici
La Reggia o Palazzo Reale di Caserta, è una dimora storica fatta realizzare dal re
Carlo di Borbone perchè costituisse il centro ideale di una moderna capitale, Caserta, in grado di rivaleggiare con le maggiori città europee: il complesso fu affidato al grande architetto Vanvitelli che progettò un palazzo maestoso, austero
esternamente, ma prezioso negli interni, circondato da un parco con scenografiche fontane. Questo progetto estremamente ambizioso è inserito nella Lista
dell’Unesco per la sua originale concezione e gestione.
Il parco completato da Carlo Vanvitelli alla morte del padre, è arricchito da fontane, gruppi scultorei a carattere mitologico e da una grandiosa cascata, alimentata dall’Acquedotto Carolino, che dalle falde del monte Briano precipita con
un salto di circa 70 metri nella fontana di Diana e Atteone.
Per chi esce dal Palazzo reale il Parco si presenta come diviso in due parti. La
prima è costituita da vasti “parterres”, divisi da un lungo stradone centrale che
conduce fino alla fontana “Margherita” e introduce a diversi viali fiancheggiati da
gruppi di boschetti di tigli e carpini, disposti simmetricamente secondo una
composizione semicircolare.
A sinistra del Palazzo, ai margini suddoccidentali del Parco, sorge il cosiddetto
“bosco vecchio“, bosco artificiale realizzato tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600
dai Principi Acquaviva feudatari di Caserta e inserito nel generale disegno del
Parco all’atto dell’acquisizione delle proprietà degli Acquaviva da parte di Carlo
III di Borbone. L’impianto complessivo è assimilabile ad un vasto rettangolo con
orientamento nord/sud, delimitato da sentieri perimetrali in terra battuta e viali trasversali e diagonali, ai cui incroci sono collocate fontane e gruppi scultorei di
pregio; il patrimonio arboreo e arbustivo è prevalentemente costituito da lecci
ed allori, il sottobosco vanta specie di interesse botanico e naturalistico quali
l’acanto, il pungitopo e, nelle fasce di bordura, bosso e cuscus
Nel cuore del bosco, lungo il viale centrale che conduce alla Peschiera Grande,
sorge la Castellucia, una costruzione che, nella configurazione attuale, ricorda un
castello in miniatura, in cui il giovane Ferdinando IV si esercitava in finte battaglie
terrestri.
La Castelluccia sorge sulle vestigia di un edificio cinquecentesco, chiamato allora
“Pernesta”, poi ricostruito nel 1769 per gli svaghi del giovane Re: qui si combattevano con molto impegno accanite battaglie navali, che si concludevano senza
spargimento di sangue, e qui ci si rifugiava durante le battute di caccia. Mutati i
gusti del giovane Re, il complesso cadde nell’abbandono sino al 1818, anno in
cui, per volere dello stesso Ferdinando, fu trasformato in “flora” riportandolo in
tal modo all’originaria destinazione d’uso.
L’edificio è una torre ottagonale, che in alto si restringe e diventa cilindrica, circondata da una terrazza e da un fossato colmo d’acqua e collegata alla terraferma at-
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e Paesaggistici delle Province di Caserta
e Benevento
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
delle Province di Caserta
e Benevento
Soprintendente:
Enrico Guglielmo
Palazzo Reale
Viale Douet,2a
Tel. 0823 277111
Fax 0823 354516
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traverso due ponti (un tempo levatoi) il secondo dei quali conduce, attraverso una
scala a doppia rampa in travertino ed accoltellato di mattoni, ai giardini superiori,
disseminati di pregevoli “fabriques” e di aiuole fiorite. Le pittoresche fabbriche (Sala
da pranzo e Sala da cucina, Belvedere e Grottino, Padiglioncino del caffè) sono
esaltate da una lussureggiante vegetazione di camelie, gelsomini, ortensie ed agapanti, nonché da una preziosa collezione di cicas e da un agrumeto.
Ai margini nordoccidentali del bosco sorge il complesso dei Passionisti originariamente destinato all’acquartieramento degli schiavi turchi battezzati impiegati
nel cantiere della Reggia vanvitelliana; l’organismo architettonico si sviluppa su tre
lati intorno ad una corte rettangola, con vasca centrale e scompartita da aiuole di
impianto rigorosamente geometrico, al cui cento trova posto la chiesa a pianta
centrale di forme barocche; l’intervento ha interessato il braccio meridionale del
complesso, sviluppatesi su un unico livello che è stato interamente adibito a laboratori didattici per i corsisti
Il Restauro
L’intervento ha interessato una vasta area del Parco Reale, costituente un insieme
omogeneo e strutturalmente e formalmente peculiare in quanto coincidente con
il preesistente seicentesco giardino dei Principi Acquaviva, successivamente inglobata dal Vanvitelli nel complessivo disegno del Parco. Il restauro e l‘adeguamento funzionale, hanno riguardato circa 20 ha.di aree a verde e volumi
architettonici per complessivi mc 12.500 ed hanno investito tutte le componenti
del sito (patrimonio arboreo, aree di macchia, quinte vegetali, bordure, sentieri
e calpestii, manufatti architettonici, apparati decorativi e scultorei, rete dei sottoservizi, fontane e vie d’acqua, elementi di arredo).
Progettista: Anna Capuano,
Giacomo Varricchio,
Giovanni Parente
Direzione dei Lavori:
Anna Capuano
Collaboratori alla D.L.:
Lello Golluccio,
Vincenzo Piscitelli
Coordinatore per la sicurezza:
Amalia Gioia
Responsabile del Procediment:
Giovanna Petrenga
Finanziamento: P.I.T. Grande
Attrattore Culturale
“Reggia di Caserta”
Ditta esecutrice: Giardini e
Paesaggio
146
Progetto di salvaguardia e valorizzazione
della Collezione “Terrae Motus”
Ferdinando Creta
La Collezione Terrae Motus, legata al Palazzo Reale di Caserta attraverso vincolo
testamentario del gallerista napoletano Lucio Amelio, è attualmente allestita nelle
retrostanze settecentesche ove occupa uno spazio espositivo di 17 sale. L’allestimento attuale propone un’esposizione parziale delle opere, in una selezione
definita sulla base di periodiche rotazioni, volte a favorirne la totale fruizione.
Allo scopo di valorizzare Terrae Motus, dalla prima esposizione del 1992 sono
stati proposti diversi riallestimenti, l’ultimo dei quali è stato realizzato nel 2004
per il decennale della scomparsa di Lucio Amelio, a cura di Achille Bonito Oliva
ed Eduardo Cicelyn. Contemporaneamente la Soprintendenza si è impegnata in
un’intensa attività di prestito delle opere della collezione per mostre temporanee, nazionali ed internazionali, di alto rilievo scientifico: la personale di Mimmo
Paladino a Prato; Terremoti d’Italia a Foligno; Warhol-Beuys. Omaggio a Lucio
Amelio presso la Fondazione Mazzotta a Milano; Terremoti d’Italia al Vittoriano
di Roma; Keith Haring alla Biennale di Milano ed al Museo d’Arte contemporanea
di Lione; Mario Schifano alla Galleria d’Arte Moderna di Roma e poi presso Palazzo delle Stelline a Milano, ecc...
Nella convinzione che “diffondere sia il miglior modo di conservare”, si intende
proseguire in tal senso integrando però l’attività di prestito con interventi in situ
volti ad agevolare la fruizione e la comprensione delle opere e del contesto in
cui nacquero, fornendo al pubblico diverse chiavi (iconologica, iconografica,
storica, estetica, conservativa) per la decodificazione del complesso linguaggio
dell’arte contemporanea.
Gli strumenti didattici - All’ingresso della mostra andrà creato uno spazio di accoglienza, che fornisca informazioni di carattere organizzativo (orari, modalità
d’accesso, prenotazioni on-line ed off-line per iniziative culturali e didattiche,
servizi multimediali). L’accoglienza del pubblico alla Collezione Terrae Motus
sarà garantita inoltre mediante l’offerta di strutture, materiali e servizi che agevolino la visita, la comprensione del percorso espositivo e la conoscenza delle
opere e degli artisti. Un adeguato corredo didattico costituito da pannelli serigrafati posti lungo il percorso espositivo, fornirà maggiori informazioni sulle origini, sui protagonisti e sulla storia della Collezione, permettendo una maggiore
autonomia nella fruizione. Tuttavia, per venire incontro alle diverse tipologie di
visitatori non si potrà rinunciare a: fornire materiale informativo-didattico consistente in brochures illustrative e guide brevi multilingue; creare modelli di simulazione delle forme e dei materiali utilizzati dagli artisti, rivolti soprattutto agli
utenti diversamente abili; organizzare visite guidate generiche e specialistiche,
cicli di conferenze ed appuntamenti a numero chiuso con i Maestri di Terrae
Motus, giornalisti esperti del settore e storici dell’arte, nei quali si percorreranno
i temi e i contenuti delle opere attraverso la particolare lettura dell’oratore di
turno. Si renderà possibile la partecipazione al dibattito, anche mediante l’utilizzo di tecnologie informatiche, allestendo postazioni in scuole, caffè letterari
o tramite un forum gestito dalla Soprintendenza. Il percorso di visita sarà poi integrato da contributi audio multilingua relativi alla Collezione e agli spazi di esposizione (audioguide), da filmati e audiovisivi proiettati presso specifiche stazioni
multimediali. Il ricorso alla virtualità consentirà di presentare anche le opere temporaneamente conservate nei depositi. Le stazioni multimediali prevederanno
due livelli di interazione con il pubblico: una con contenuti a bassa interattività,
relativi alle opere ed agli autori esposti in sala; l’altra con contenuti ad elevata in-
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terattività e ad alta concentrazione di argomenti. Le stazioni multimediali di secondo tipo saranno destinate ad una sala didattica o di documentazione, con
approfondimenti tematici ed opzioni di ricerca, per un pubblico curioso ed
esperto. Sarà possibile per esempio documentarsi sugli eventi connessi alla collezione stessa, seguendo gli spostamenti dei prestiti e individuando in internet
mostre relative ai suoi autori, anniversari, manifestazioni.
Comunicazione - Al fine di garantire la massima visibilità alla Collezione sarà incrementata anche la grammatica comunicativa e visuale. A tal fine, sarà installato
uno schermo per la proiezione di immagini della mostra all’interno della biglietteria del museo, per suscitare interesse nel visitatore “più distratto”. Si effettuerà una massiccia pubblicità presso le Associazioni culturali, le scuole, i
caffè letterari, sulle riviste di settore più accreditate, attraverso canali di diffusione innovativi come video informativi da trasmettere in stazioni ferroviarie ed
aeroportuali. Materiale informativo stampato verrà distribuito su mezzi di trasporto pubblici, locali e nazionali; si trasmetteranno spot radiofonici e la sezione dedicata all’interno del sito Internet della Soprintendenza sarà in
continuo aggiornamento.
La cura della collezione - Relativamente al restauro e alla conservazione, le opere
di Terrae Motus hanno richiamato l’attenzione dei tecnici e storici dell’arte della
Soprintendenza per le problematiche di conservazione legate all’impiego di materiali e tecniche “non convenzionali”. A tal riguardo si è convenuti sull’esigenza
di predisporre schede conservative e ambientali. Le schede conservative saranno
necessarie a valutare gli eventuali interventi di restauro, a garantire una corretta
movimentazione ed esposizione dei manufatti, ad agevolare la scelta di idonei
spazi destinati al deposito. Ciascuna scheda registrerà: dati identificativi dell’opera; dati sulla collocazione e sulla movimentazione; descrizione tecnica del
manufatto e dello stato di conservazione; descrizione degli interventi di manutenzione e restauro.
Le schede ambientali registreranno dati relativi al microclima, alla qualità dell’aria
e delle fonti luminose, onde assicurare il controllo dei valori termoigrometrici,
quale presupposto alla prevenzione di eventuali attacchi microbiologici. Alla
valutazione stato di conservazione/ambiente farà seguito la pianificazione di interventi sia indiretti (di prevenzione) che diretti (di conservazione e restauro),
volti ad assicurare l’integrità fisiologica dei manufatti e la conseguente fruibilità
148
degli stessi. Le schede saranno corredate da documentazione fotografica, relazioni tecnico-scientifiche, rilievi grafici ed ogni altro genere di materiale documentario pertinente ai singoli manufatti. Un database da aggiornare
continuamente custodirà l’intera storia di ciascun opera: in rete sarà accessibile
e consultabile da qualunque utente.
Allestimento deposito - Per consentire la idonea conservazione delle opere si è
già proceduto alla individuazione di locali “esclusivamente” destinati al deposito
delle opere della collezione, finora conservate con gli altri beni di proprietà del
museo. Detti locali, rispondenti ai requisiti previsti dalla vigente normativa, prevederanno suddivisioni per materiali e tipologie nonché sottoripartizioni di tipo
formale che faciliteranno la individuazione degli oggetti, raggruppati per omogeneità degli standard di conservazione e dei livelli di rischio per la sicurezza,
così da facilitarne il controllo e le ispezioni periodiche.
Il progetto di valorizzazione della Collezione Terrae Motus punta inoltre alla prosecuzione di un evento ciclico, annuale e fisso: l’appuntamento con “I maestri di
Terraemotus”, già sperimentato nel 2004 in occasione del decennale della scomparsa di Lucio Amelio, quando venne allestita una personale di Mimmo Paladino
alla fine del percorso museale. L’evento si configurerebbe innanzitutto come
un’occasione di approfondimento, nell’analisi delle evoluzioni artistiche e delle
linee di ricerca che “I Maestri di Terrae Motus” hanno adottato dopo l’esperienza
di collaborazione con Amelio, mettendone eventualmente in risalto echi o fratture. Inoltre esso potrebbe porsi come possibile punto di partenza per ulteriori
sviluppi di comunicazione con il pubblico: incontri con gli artisti viventi o laboratori work in progress, che facciano rivivere lo spirito originario che, nelle intenzioni di Amelio, animò la nascita della collezione e che riallaccino in maniera
dinamica e proficua il dialogo tra arte e società.
Progettista: Ferdinando Creta
Collaborazione alla
progettazione: Maria Candalino,
Anna Di Marzo, Adelaide
Marrone, Maria Carmela Masi,
Marianna Merolle, Paola Roca
149
Soprintendente per i Beni Architettonici
e Paesaggistici di Napoli e Provincia
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150
Presentazione del libro: Napoli e il territorio tra tutela e
restauro
Post fata resurgam
Stefano Gizzi
Post fata resurgam
(Pio XII, 4 agosto 1953, cerimonia di riapertura di Santa Chiara in Napoli dopo il restauro)
«Certo, dopo l’opera efficace del consolidamento e del restauro, volta a prolungare di altro tempo la vita ai monumenti, il miglior frutto che deve
aspettarsi dagli Uffici […] consiste […] nella serie di ordinati e complessi studi,
i quali mirino ad illustrare con ogni compiutezza gli edifici monumentali, eloquenti e venerati testimoni della civiltà d’un popolo; ricercando negli elementi
costruttivi le origini loro, le vicende varie cui furono soggetti; ritessendone in
somma la vita, dalla prima giovinezza ai cadenti anni dell’estrema vecchiaia,
rattristata spesse volte dall’oblio e dall’abbandono. Ogni monumento che abbia
attraversato i secoli è paragonabile ad un libro, di cui non si possa conoscere
appieno la importanza ed il valore, se non sieno [sic] state scelte, lette e meditate
tutte quante le sue pagine. Il restauro, inteso nel suo vero e nobile significato,
non è semplice pretesto per lavorare, ma opera di religione e di studio; è un
atto col quale noi moderni onoriamo il genio immortale della civiltà trascorsa.
Non è possibile toccare un monumento dell’arte consacrato all’ammirazione,
senza averlo prima molto studiato, molto amato. […] Così da umili, ma provvidi
lavori ad un vecchio muro sgretolato o ad un soffitto pericolante o ad una vôlta
che non offriva più riparo alle piovane, l’Ufficio […] ha tratto occasione a compiere indagini nuove e positive, onde in molti punti della storia di un
monumento si sono chiariti, e parecchi problemi hanno avuto una soluzione
confortata da più validi argomenti»(1) .
Queste parole dell’insigne Soprintendente Adolfo Avena - all’epoca ancora “reggente”-, scritte più di un secolo fa, come introduzione alla relazione che
annualmente andava inviata alla sede centrale del Ministero, appaiono ancor oggi
pienamente condivisibili e tali da poter configurarsi esse stesse come una nitida
presentazione ai lavori dell’attuale Soprintendenza di Napoli e Provincia, che qui
si espongono.
Eppure, a ben vedere, netta è la differenza, non solo quantitativa, tra la considerazione dei manufatti allora degni di attenzione (i pochi “monumenti” che in quel-
l’epoca si restauravano, identificati solo come le emergenze maggiori, sia architettoniche che archeologiche) e l’analisi scrupolosa della ricchezza dei complessi
architettonico-urbanistici e dei relativi apparati artistico-decorativi che, a distanza
di un secolo, sono soggetti alle cure della nostra Soprintendenza.
È pur vero che allora la competenza dell’«Ufficio Regionale per la conservazione
dei monumenti delle provincie meridionali» riguardava un territorio molto più
ampio dell’attuale, comprendendo l’intera Campania, il Molise, la Calabria e
la Puglia, ma per Napoli e provincia gli interessi si concentravano quasi esclusivamente sulle testimonianze commemorative maggiori: il Duomo, Santa Chiara,
i SS. Severino e Sossio, i Gerolamini (sito, questo, tornato prepotentemente di
attualità), la certosa di San Martino, San Pietro a Maiella e, fra gli edifici civili,
Castelnuovo (compreso l’arco trionfale di Alfonso d’Aragona), il Museo
Nazionale e il Fortino di Vigliena a San Giovanni a Teduccio; a ciò si
aggiungevano i siti archeologici più ragguardevoli: il Tempio di Serapide a
Pozzuoli, l’Arco Felice e la grotta di Seiano(2).
Nella rassegna presentata nel libro, al contrario, sono documentati restauri che spaziano dalla scala paesaggistico-territoriale (area del castello di Baia, complesso
borbonico del lago Fusaro, parco di Virgilio, castello aragonese di Ischia, grotte
di San Biagio a Castellamare di Stabia, cittadella fortificata di Lettere, complesso
di Ieranto) sino a quella di dettaglio (il frammento di affresco, come per il piccolo
sacello del Santuario di Santa Maria di Campiglione a Caivano), tutti trattati con
ugual dignità e attenzione: interventi progettati e diretti dalla Soprintendenza, o
su cui essa ha esercitato l’«alta sorveglianza».
Molto sono mutati anche i criteri e la prassi del restauro in questi ultimi anni, in
una propensione in cui si cerca, ancora faticosamente, una unità metodologica
tra i suoi diversi aspetti (archeologico, architettonico, pittorico), e in cui le attuali
tendenze vedono ancora ai loro poli opposti la reintegrazione, più o meno spinta,
a volte sino al ripristino, e la conservazione “pura”(o “assoluta”); ed è probabilmente
positiva la circostanza che casi differenti abbiano ottenuto risposte non univoche,
quasi secondo la celebre ‘negazione del metodo’ di scuola annoniana(3), pur all’interno di una riconoscibile linea di tendenza.
Emerge subito un dato: l’efficacia di un lavoro svolto quando la
Soprintendenza, sino ad un anno fa, era unica, compendiando in un singolo
organismo le competenze architettoniche e quelle storico-artistiche,
impossibili da dividere riguardo ad opere che presentano una complessa stratificazione storico-archeologica e monumentale, di cui l’apparato decorativo
forma un tutto indissolubile. Ciò purtroppo è stato ora modificato da una
riforma ministeriale che ha previsto ben quattro Soprintendenze per una stesso
ambito territoriale (Napoli e provincia).
I lavori presentati, che dimostrano l’attività svolta in équipe, come trama disciplinare
ed interdisciplinare, si riferiscono tutti alla direzione dell’organismo di tutela da parte
di Enrico Guglielmo, del quale si nota l’impronta nell’aver saputo ispirare con attenzione
quasi “archeologica” le varie operazioni, per sua stessa formazione - da funzionario
che per lunghi anni ha operato con competenza nel settore delle antichità, da Baia
ai Campi Flegrei sino al centro antico greco-romano di Napoli -, tale da aver dettato
un metodo particolarmente attento agli stadi preliminari di indagine e alle fasi stratigrafiche (siano esse archeologiche o storico-artistiche).
Testimonianza particolare di questo metodo è l’attenzione volta al recupero dei
dipinti in frammenti della copertura della chiesa di Santa Chiara a Nola, crollata
a causa del terremoto, ove il lavoro di “sgombero archeologico” delle macerie,
le molteplici analisi effettuate, ed il criterio di raccolta, di sceveramento delle porzioni autentiche e della loro successiva ricomposizione sembrano mutuati dai dettami dell’anastilosi muraria.
151
1
2
3
4
5
Adolfo Avena, Monumenti
dell’Italia meridionale.
Relazione dell’Ufficio
Regionale per la
conservazione dei
monumenti delle provincie
meridionali, volume I del
periodo MDCCCXCI-MCMI,
Officina poligrafica romana,
Roma 1902, p. IV.
Ibidem, tabella e p. XIV e
passim.
La negazione del metodo e
di metodi standardizzati era
sostenuta soprattutto dalla
cosiddetta «Scuola
Milanese» del restauro,
rappresentata da Luigi
Crema, Carlo Perogalli e
Ambrogio Annoni, in favore
della cosiddetta teoria del
caso per caso; cfr.
soprattutto Ambrogio
Annoni, Scienza ed arte del
restauro architettonico. Idee
ed esempi, Edizioni
Artistiche Framar, Milano,
1946
In ricordo di Antonino
Giuffrè, cfr. Giovanni Manieri
Elia, Giornata in memoria di
Antonino Giuffrè, in
“Quaderni ARCo. Restauro
Storia e Tecnica”, Gangemi,
Roma 1998, pp. 102-108. Di
Antonino Giuffrè,
fondamentali restano ancora
Interventi di restauro su archi
e volte, Dipartimento di
ingegneria strutturale e
geotecnica, Roma 1986;
Lettura sulla meccanica delle
murature storiche, Kappa,
Roma 1998; La meccanica
nell’architettura: la statica,
Carocci, Roma 2003;
Monumenti e terremoti.
Aspetti statici del restauro,
Multigrafica, Scuola di
specializzazione per lo
studio ed il restauro dei
monumenti, Università degli
studi di Roma La Sapienza,
Roma 1988.
Sui caratteri costruttivi di tali
cupole e sui rispettivi cantieri
storici, cfr. Renata Picone,
Cupole in Campania: note in
margine al cantiere storico di
costruzione e
consolidamento, e Valentina
Russo, Il consolidamento
delle cupole napoletane tra
XVII e XVIII secolo.
Interpretazione dei dissesti e
tecniche di intervento,
ambedue in Donatella Fiorani
- Daniela Esposito (a cura di),
Tecniche costruttive
dell’edilizia storica.
Conoscere per conservare,
Viella, Roma 2005,
rispettivamente alle pp. 145152 e 157-174.
152
Dai lavori prospettati, emerge in primo luogo, come indirizzo costante
introdotto ultimamente dalla Soprintendenza, una particolare cura per il recupero
delle tecniche e delle tecnologie tradizionali, in luogo di quelle invasive prevalenti dagli anni ‘Trenta agli anni ‘Sessanta - beninteso, secondo i dettami delle
Carte del Restauro allora vigenti – (ma proseguita in seguito, purtroppo!, da altri
Enti - Genio Civile, Provveditorato alle Opere Pubbliche -, con noncurante indifferenza, fin oltre il terremoto del 1980): ciò è dimostrato da svariati esempi,
tra cui il cantiere di San Gregorio Armeno, ove si sono ricontrollati e ricalibrati
i sistemi di catene e di tirantature originari o di restauri ormai “storicizzati”, conservando ove possibile quelli esistenti e sostituendo quelli inefficaci, differenziando opportunamente, in maniera sobria, i nuovi sistemi di tensori, o quello
incredibilmente complesso del castello di Baia, ove le necessarie risarciture sono
avvenute con materiali e metodi compatibili. La riflessione costante volta al recupero delle tecnologie preindustriali è quella perseguita ormai dalla
Soprintendenza - già sperimentata sotto il felice periodo legato all’instancabile
dinamismo di Mario De Cunzo (direzione dal 1990 al ’94) in binomio con le
tecnologie soft proposte da Antonino Giuffrè, indimenticato strutturista che
sapeva colloquiare con le antiche strutture murarie(4) -, e vale anche per cantieri
attualmente in corso, come per la cupola delle monache cappuccine dette «delle
Trentatre», reintegrata su splendide centine lignee, o come San Giovanni Battista
delle Monache e la SS. Annunziata, ove sono stati riprodotti gli accorgimenti
già utilizzati dagli epigoni vanvitelliani(5), e come quello descritto per
Castelnuovo, ove tutte le reintegrazioni, necessarie per motivi statici oltre che
figurali, sono state effettuate con materiali analoghi o compatibili (pietra lavica
con pietra lavica, tufo con tufo, pavimentazione in cotto a spina di pesce come
da tracce della preesistente). E questo ultimo cantiere è inquadrabile
sicuramente come una delle eredità più rilevanti tra quelle a noi lasciate da Adolfo
Avena, di cui si è fatto cenno all’inizio. Ma anche in cantieri su manufatti che
sarebbero stati considerati, nel secolo scorso, come “minori” (Santa Maria di
Ajello ad Afragola), è valso lo stesso criterio (reintegrazioni della volta con
conci di tufo sagomati a sega, analoghi e omologhi agli originari). E ciò vale anche
per i restauri delle volte ala Certosa di San Giacomo a Capri, le cui risarciture
ed interpolazioni sono state effettuate con l’impiego di conci calcarei affini e
di un battuto di lapillo congenere.
Ciò soddisfa una condizione-base del restauro: la compatibilità chimico-fisica dei
materiali di restauro rispetto a quelli originari.
In tutti questi lavori si respira la nuova attenzione all’ascolto attento e
ponderato delle tecniche e dei linguaggi costruttivi antichi o tradizionali, il saper
ancora provare ‘sorpresa’ e ‘stupore’ di fronte alla complessità e alla
molteplicità del reale, non tanto per riproporlo o per restituirlo sic et
simpliciter, quanto per comprenderlo appieno in un dialogo a volte invece
improponibile con le strutture contemporanee.
Appare anche evidente come proprio nelle fasi di cantiere continua e si affina il
restauro grazie alle maggiori conoscenze acquisite (un “restauro al servizio della
storia”, si direbbe(6)), che conducono ad accertare sia i caratteri sia le specificità
della consistenza fisica dei manufatti, rivelando dati di conoscenza molto utili e
proficui per la Storia dell’Architettura (e non solo)(7).
Comune a quasi tutti gli interventi è stato il problema dei “restauri dei restauri”,
del come rimetter mano ai provvedimenti pregressi, anche importanti - da quelli
di Picchiatti, per San Gregorio Armeno, a quelli di Luigi e Carlo Vanvitelli per Palazzo
Reale - ed anche su interventi più recenti (come quelli di Gino Chierici e successivamente di Armando Venè - Soprintendente troppo presto dimenticato, attivo
anche in Abruzzo e poi in Toscana(8), - per il parco virgiliano(9)-); restauri invasivi
e pesanti quelli degli anni ‘trenta e ‘cinquanta (come per quasi tutti quelli del
secondo dopoguerra, durante la direzione della Soprintendenza da parte dell’ingegner Antonio Rusconi, dal 1949 al 1955, e dell’architetto Riccardo Pacini, dal
1956 al 1964, durante gli anni più bui per la Campania e per le stesse Istituzioni
di Tutela, ma durante i quali non mancarono pure restauri di grande rilevanza quali
quello della Basilica di Santa Chiara, per una volta in una eccezionale unità d’intenti
tra Soprintendenza, Genio Civile e Provveditorato).
6
7
8
9
Cfr. su ciò soprattutto Paolo
Fancelli, Il restauro come
strumento di ricerca storica,
in Flavia Colonna e Stefania
Costantini (a cura di), Principi
e metodi della Storia
dell’Architettura e l’eredità
della “Scuola Romana”, Atti
del Convegno Internazionale
(Roma, 26-28 marzo 1992),
Roma 1994.
Cfr. Stefano Gizzi, Relazioni
tra Storia dell’architettura e
Restauro, oggi, intervista ad
Arnaldo Bruschi, in
“Quaderni ARCo. Restauro
Storia e Tecnica”, Gangemi,
Roma 1997, pp. 67-74.
i veda il lavoro da lui
proposto, ma solo
parzialmente attuato, come
Soprintendente di Firenze,
per le tombe medicee,
efficacemente descritto da
Donatella Lippi, Illacrimate
sepolture. Curiosità e ricerca
scientifica nella storia delle
riesumazioni dei Medici,
Firenze University press,
Firenze 2006.
Cfr. Gino Chierici, Il
consolidamento della tomba
di Virgilio, in “Bollettino
d’Arte del Ministero della
Educazione Nazionale”,
anno IX, serie II, n. 10, aprile
1930, pp. 438-455.
153
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per Napoli e Provincia
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Architettonici, e Paesaggistici
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Particolare prima del restauro
154
Un Crocifisso cinquecentesco ritrovato nella Chiesa
di Santa Maria del Carmine di Torre del Greco
Gina Carla Ascione
“Un crocifisso pur di legno, tanto ben fatto che non have avuto bisogno di gipsamento né di altro colore”, è ricordato nel 1524 dallo storico Pietro Summonte come
opera di Giovanni da Nola nella Chiesa napoletana di Monte Oliveto (P. Summonte,
Lettera a Marcantonio Michiel del 20 marzo 1524, ed. Napoli 1925, p.169).
Quando, nel corso del restauro, l’opera conservata nella Chiesa di Santa Maria del
Carmine a Torre del Greco, ha cominciato ad essere liberata dai pesanti rifacimenti tardo ottocenteschi che ne avevano completamente trasformato la fisionomia, l’alta qualità dell’intaglio e la mancanza di preparazione al di sotto del
sottilissimo strato pittorico hanno immediatamente rivelato l’importanza del manufatto, riportando alla mente proprio le parole del Summonte.
Si è capito subito che, nascosto dalla nuova preparazione in stucco e dalle pesanti ridipinture che ne avevano accresciuto l’intonazione patetica, il Crocifisso
possedeva un’alta qualità materica e denotava un’antichità ben diversa dal manufatto sul quale era iniziato l’intervento. A mano a mano che venivano rimosse
le pesanti stuccature, appariva sempre più evidente la qualità dell’opera e sempre più stringenti i confronti con la produzione giovanile di Giovanni da Nola.
Il Crocifisso di Torre del Greco, tra le più antiche opere in dotazione alla primitiva
cappella cinquecentesca dei Padri Carmelitani, rappresenta, quindi, un’aggiunta
al corpus delle opere della cerchia del Marigliano per gli stringenti confronti con
il Cristo di San Martino d’Agri e con quello del gruppo della Santissima Pietà di
Teggiano, entrambi ascrivibili alla fase giovanile dell’artista, intorno al 1515 (Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, Catalogo
della mostra, Torino 2004, pp. 43-48 e p. 200, sch. 42) e, forse, proprio con il perduto Crocifisso di Monte Oliveto a Napoli.
Le analogie con le opere dello scultore si riconoscono nella perizia con la quale
viene sottolineata la torsione delle braccia ed è reso il busto con le coste che
sembrano trasparire sotto la pelle, mentre l’addome rilassato e leggermente gonfio induce a pensare al momento del trapasso alla fine dell’agonia. L’artista non
indulge in particolari pietistici, ma restituisce all’immagine della morte una dignità
classica, trasfigurando la sofferenza in un momento di grande commozione.
Il confronto con le opere giovanili del Marigliano è reso più stringente dall’esame
di alcuni particolari, quali l’accurato intaglio dei capelli terminanti in due grosse
ciocche ricadenti ai lati della testa, la forma della corona di spine scolpita in un
unico pezzo con la capigliatura, l’inclinazione della testa, l’accavallarsi dei piedi
e, soprattutto, l’originale sagoma della barba spartita in due riccioli aperti sul
mento (cfr., op. cit., p.43, fig.3 ; p.47, figg.11-14).
Vanno, tuttavia, sottolineata alcune significative differenze: la sofferenza del Cristo
di San Martino d’Agri è rafforzata da una forte tensione dei muscoli e dalla rientranza dell’addome sotto il diaframma, mentre la statua di Torre del Greco presenta un’anatomia che sembra rinviare, piuttosto, al San Sebastiano di Melfi nel
quale la muscolatura del torace appare appena accennata e morbidamente risolta in un modellato simile ai prototipi classici; le gambe esili dell’esemplare
potentino sono sostituite da membra più robuste e massicce, quasi da contadino
nel Cristo napoletano.
Le dimensioni ridotte e l’accurata definizione dell’intaglio anche nel retro, inducono
a pensare che il Crocifisso di Torre del Greco, del quale si conserva anche la croce
originale, venisse portato in processione nei riti legati alla passione di Cristo.
Particolare durante il restauro
Stato di conservazione:
Conservato in un luogo umido, si presentava in condizioni disastrose. Un violento
attacco di termiti aveva compromesso l’intera struttura lignea riducendo in segatura la parte interna dell’opera : il nido di termiti, ancora presente e attivo, era
posto dietro la cavità dell’orecchio destro all’attaccatura con il collo. Le braccia
ed i piedi del Cristo si presentavano staccati dal busto; il braccio destro era privo
della mano; il braccio sinistro era privo di parte della mano e delle dita; i piedi
erano privi di dita; il perizoma presentava numerose lacune sia della struttura che
della preparazione e dello strato pittorico; le gambe avevano rigonfiamenti della
preparazione e numerose erano le lacune materiche; invadenti ed evidenti erano
le integrazioni cromatiche che ricoprivano l’intera superficie pittorica del manufatto; il cartiglio con la scritta INRI era in parte distrutto; l’opera era coperta da uno
spesso strato di particellato coerente ed incoerente.
Interventi di conservazione e restauro:
Gli interventi di conservazione e restauro sono stati finalizzati a conseguire, oltre
alla leggibilità dell’opera d’arte, il pieno recupero del manufatto, operando in
primo luogo sulla stabilità strutturale.
L’asportazione del materiale coerente ed incoerente dalla scultura non è stato
inizialmente possibile, in quanto si rischiava di perdere ulteriori parti di pigmento
e preparazione. L’opera è stata, quindi, dapprima protetta con una vernice data
con nebulizzatore e poi velinata con fogli di carta giapponese applicati con colletta di coniglio (1:10). Protetta l’opera, il Cristo è stato schiodato dalla Croce.
Dopo avere effettuato l’antitarlo con permetrina data a pennello, la scultura è
stata messa sottovuoto per circa 30 giorni. Ultimato tale trattamento si è dovuto
decidere tra il conservare “il suono tipico” ed il “calore” del legno, e la plasticità
e la freddezza che probabilmente avrebbe assunto la scultura dopo il trattamento consolidante : la risoluzione è stata quella di effettuare un intervento altamente invasivo, ma che avrebbe “salvato” un’opera ormai distrutta. Sono stati
eseguiti, pertanto, tre bagni in una soluzione di paraloid B72 disciolto in nitro: il
155
primo con una diluizione al 2,5%; il secondo con una diluizione al 3,5%; il terzo
con una diluizione al 5%.
Prima dell’intervento di consolidamento, il Cristo è stato pesato con una bilancia
elettronica affinché si potesse valutare la percentuale di paraloid B72 che veniva
assorbita.
Dopo il terzo bagno, la scultura era aumentata di peso di circa il 13% (da kg.
13,9 a kg 16,0).
Dopo aver effettuato tale operazione, è stato fatto un consolidamento mirato nelle
zone maggiormente decoese con colletta forte applicata a pennello o a siringa.
Poiché l’attacco delle termiti e dei tarli aveva distrutto parte della fibra legnosa, in
alcune zone la preparazione e la pellicola pittorica “poggiavano” su cavità, rendendo necessario un ulteriore trattamento con stucco molto fluido dato a siringa.
La scultura è stata, in seguito, svelinata con acqua tiepida, e consolidata nuovamente a colletta e stucco fluido.
Terminata la fase del consolidamento, si è affrontata la pulitura.
Particolare dopo il restauro
Direzione dei lavori:
Gina Carla Ascione
Collaboratori: Giancarlo
D’Amora, Angelo Romano
Restauro: MP Restauro di Maria
Paola Campeglia
Operatori: Valentina Balsamo,
Deborah Favero,
Annalisa Nappi,
Luciano Tammaro per intagli
e dorature.
Foto: Image Utilityes
di P. Masone
Crocifisso: Legno di noce
intagliato e dipinto Cristo
h cm 121 Croce cm 188,5 x 152
Torre del Greco (Napoli),
Chiesa di Santa Maria
del Carmine
156
1 Con l’acetone è stata asportata la leggera vernice applicata prima della velinatura.
2 in acqua demineralizzata. Con lo stesso prodotto sono state rimosse anche le
grossolane ridipinture che simulavano il sangue, eseguite durante l’ultimo intervento subito dall’opera.
3 Al di sotto dello sporco, la scultura appariva totalmente ridipinta nel corso di
un intervento precedente a quello che aveva imbrattato la statua con il colore
rosso del sangue. Per la rimozione è stato utilizzato il dimetilformammide
spento con essenza di trementina. Il perizoma, a questo livello di pulitura, presentava tracce di pigmento rosso.
4 Liberata l’opera dagli interventi impropri più recenti, si è notato che, sotto l’ultima ridipintura, vi era uno spesso strato di preparazione, che in alcuni punti
lasciava intravedere il pigmento e il modellato originali .
5 Si è deciso, pertanto, di asportare lo strato di preparazione e di riportare in vista
la cromia e l’intaglio del Cristo. L’intervento, eseguito a bisturi, ha consentito di
verificare che lo spessore della preparazione variava da 0,2 cm a 0,6 cm.
6 Finita questa operazione, il Crocifisso è stato nuovamente consolidato per immersione in Paraloid B52, diluito in diluente nitro al 5%.
Il peso del Cristo, “descialbato” e prima dell’ultimo consolidamento, era di kg
15,80. Dopo il consolidamento risultava essere di kg 16,00. Alcune zone, maggiormente ammalorate, sono state ulteriormente consolidate con colletta forte e
stucco liquido dato a siringa.
7 Il ripristino delle parti staccate, piedi e braccia, è avvenuto mediante l’inserimento di barre in vetroresina di spessore di 1/1,5 cm e con l’ausilio dell’araldite
SV 427 bicomponente.
8 I fori di sfarfallamento e le lacune di piccole dimensioni sono state colmate con
cera pigmentata.
9 Lo stato di conservazione dell’opera ha consentito di non effettuare ritocco pittorico e di terminare il lavoro con una leggera lucidatura a cera.
Intervento di restauro sulla croce:
La croce, che presentatava una spessa ridipintura nera, è stata pulita con sverniciatore alla nitro e rifinita con diluente nitro.
Il manufatto è stato sottoposto a trattamento antitarlo con permetrina data a pennello e, successivamente, posto sottovuoto. Dopo 30 giorni di sottovuoto, la
croce è stata lucidata a cera naturale e i chiodi forgiati originali sono stati protetti
con paraloid B44.
Restauro e riqualificazione del complesso borbonico del
lago Fusaro
Cosimo Tarì
Il restauro del complesso borbonico del lago Fusaro, comprendente la Casina Vanvitelliana, l’Ostrichina, il Giardino Storico e gli Stalloni, rientra nell’ambito del progetto
integrato “Campi Flegrei”, finanziato con fondi comunitari del P.O.R. 2000-2006.
L’ambiente del Fusaro fu uno dei siti di caccia prediletti da Ferdinando IV di Borbone, che a Sud-Est del lago, sopra un isolotto fece sorgere il bellissimo Casino
Reale, gioiello dell’architettura tardo-settecentesca, uno dei monumenti più significativi dei Campi Flegrei.
La Casina, realizzata da Carlo Vanvitelli nel 1782, si distingue per l’estrema cura
dei particolari, l’eleganza delle forme e la leggerezza strutturale, risolta con il degradare dei volumi dal primo al secondo livello. L’impianto poligonale, la finezza
del disegno del bugnato e delle modanature, i toni cerulei delle superfici dipinte
realizzano una calibrata fusione della Casina nell’ambiente lacustre. All’interno la
Casina era impreziosita dalle sete di S. Leucio e dai dipinti del Ciclo delle stagioni
di Philipp Hackert, andati dispersi, di cui tuttavia restano i quattro bozzetti che
rappresentano per ognuna delle stagioni una località: la Primavera con il pascolo
nella valle del Volturno, con veduta del Matese; l’Estate con la mietitura a S. Leucio di Caserta verso Maddaloni; l’Autunno con la vendemmia a Sorrento, e l’Inverno con un campo di caccia a Persano.
Tra le più celebri vedute del Regno di Napoli eseguite da Hackert vi è la grande tela che
rappresenta Ferdinando IV a caccia sul lago del Fusaro (1783). Nel quadro la Casina
sembra sorgere dalle acque ed è collegata alla terraferma con l’uso di semplici barche.
Nel 1817 il re borbone ordinò che sulle rive del Real lago del Fusaro, di fronte la
Real Casina, si costruisse un nuovo fabbricato, detto “l’Ostrichina”, per comodo
di coloro che si porteranno a godere di quel Real Sito non essendoci ora luogo
dove poter pranzare. Responsabile del progetto e dei lavori per l’Ostrichina fu
designato Antonio de Simone, architetto di corte ed emergente della nuova generazione, che a Caserta nel decennio francese aveva sostituito Carlo Vanvitelli,
scomparso dalla scena architettonica napoletana, forse per difficoltà sopraggiunte durante il periodo murattiano a causa della sua nota fedeltà ai Borbone ed
anche per il nuovo orientamento formale neoclassicistico. Nel 1853 l’edificio
venne trasformato, con breve successo, in ristorante, e nel 1885 fu rinnovato ed
accresciuto di un ampio corpo avanzato a terrazzo.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per Napoli e Provincia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Architettonici, e Paesaggistici
per Napoli e Provincia
Soprintendente:
Stefano Gizzi
Palazzo Reale
Piazza del Plebiscito,1
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Fax 081 403561
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Casina Vanvitelliana
157
“Restauro della Casina Vanvitelliana per attività espositive e concertistiche”
La Casina vanvitelliana, gravemente lesionata da vari terremoti, è stata parzialmente restaurata nel 1991 dopo anni di abbandono ed incuria. Prima degli ultimi
lavori di restauro, denotava uno stato di degrado avanzato aggravato dall’ubicazione del sito, sottoposto all’aggressione e corrosione degli agenti esogeni del
clima umido marino.
L’intervento di restauro è stato finalizzato alla conservazione del monumento ed
alla sua messa in sicurezza, dotandolo dei necessari impianti tecnologici.
Al piano superiore, il salone principale è stato arricchito con la riproposizione delle
antiche “riggiole” decorate secondo il disegno originario e la manifattura artigianale,
la realizzazione della controsoffittatura a volta e la riproduzione alle pareti dei dipinti
del Ciclo delle stagioni di Hackert. Questi ultimi sono stati desunti dai bozzetti esistenti e riproposti nel formato dei dipinti originari andati distrutti nel corso degli
eventi rivoluzionari del 1799. I due ambienti contigui al salone sono stati restaurati
con il recupero delle volte affrescate, una delle quali inedita in quanto celata da
precedenti scialbature. Infine, la realizzazione di una comoda scala a chiocciola ha
consentito di rendere accessibile la visita ai sottotetti, caratterizzati da una complessa struttura di diciotto diverse tipologie di capriate lignee.
“Restauro ed adeguamento funzionale dell’edificio dell’Ostrichina per funzioni museali, espositive e convegnistiche”
Esternamente la fabbrica si presentava in pessime condizioni con vasti distacchi
di intonaci e stucchi; gli infissi erano inesistenti; i solai in ferro del corpo aggiunto
a sud risultavano molto ossidati. Gli interventi hanno comportato la bonifica di
tutte le murature dall’umidità di risalita, il consolidamento della scala interna in
ferro e legno, l’adeguamento impiantistico-funzionale della sala conferenze, la
predisposizione di locali destinati a videoteca, biblioteca ed emeroteca per una
futura utilizzazione dell’immobile a fini turistico-culturali e di interesse pubblico
quali: manifestazioni, convegni, mostre, concerti. Inoltre, l’edificio è stato dotato
di spazi idonei per servizi e ristoro necessari per lo svolgimento di tali attività in
modo ottimale.
Inoltre, l’Ostrichina è stata adeguata per la fruizione di persone diversamente
abili mediante la realizzazione di rampe di accesso ed impianto ascensore per
raggiungere il piano superiore.
“Restauro e adeguamento funzionale dell’edificio degli Stalloni per uffici di
orientamento per il turismo culturale”
Costituiti da due fabbricati di un solo livello, essi si sviluppano longitudinalmente
lungo il perimetro esterno del giardino storico, su via Cuma, interrotti dall’ingresso
158
centrale munito di cancello in ferro. Oltre alla funzione di muro di cinta, erano in
origine postazioni per il corpo di guardia. Attualmente gli ex Stalloni ospitano gli
uffici del Centro Ittico Campano S.p.a.
Prima dei lavori era evidente lo stato di degrado avanzato con distacco degli intonaci e delle pitture dalle murature ed eccesso di umidità latente interna, che
rendevano insalubri ed invivibili gli ambienti di lavoro. Il tutto era aggravato dall’ubicazione del sito, sottoposto all’aggressione e corrosione degli agenti esogeni
del clima umido marino.
L’intervento di restauro e di riqualificazione ha previsto: la ridefinizione della distribuzione interna ed il ridisegno dei prospetti secondo l’impianto originario; il
risanamento delle murature soggette ad umidità; il restauro delle finiture; l’adeguamento degli impianti alle nuove destinazioni d’uso.
“Restauro del Giardino Storico”
In origine il Parco, come risulta dalle scarse documentazioni storiche, era rappresentato da una fascia di litorale del lago a cui si accedeva con un viale perpendicolare alla riva, per raggiungere l’imbarcadero della Casina Reale. Erano
presenti nei dintorni alcune capanne, baracche, e strutture provvisorie funzionali
alle attività di pesca e di allevamento dei mitili. L’attuale configurazione del Parco
risale presumibilmente alla seconda metà del secolo XIX, in concomitanza con
il rilancio dell’allevamento dei mitili. In tale periodo venne sistemata l’area di pertinenza dell’antica Casina Reale con la realizzazione del giardino esotico, fu realizzata una nuova delimitazione dell’area con all’ingresso i due corpi di fabbrica
“Stalloni” nonché un disegno organico di viali irregolari che delimitavano vaste
aiuole con arbusti di varie specie.
L’intervento di restauro è consistito essenzialmente nella conservazione delle
piante storiche del parco, con l’eliminazione di tutte le piante ed arbusti infestanti, e nel ripristino dell’antico impianto ed originaria sistemazione. Gli interventi
non hanno alterato in alcun modo lo stato dei luoghi ed hanno riguardato sostanzialmente il ripristino della banchina del parco a confine con il lago con la
realizzazione di bauletti in pietra vesuviana, il completamento delle aiuole con
bordi in pietra di tufo e la pavimentazione in taglime di tufo dei viali con il recupero dei tracciati originari, la realizzazione degli impianti con particolare attenzione alla illuminazione dei percorsi.
Il parco recuperato consente l’accesso al percorso naturalistico ciclo-pedonale
della fascia circumlacuale del Fusaro, oggetto di distinto restauro effettuato nell’ambito del progetto integrato “Campi Flegrei”.
Casina Vanvitelliana, Stalloni
Progettazione e direzione
lavori: Cosimo Tarì
Rresponsabile
del procedimento:
Enrico Guglielmo
Ostrichina, Giardino Storico
Progettazione: Guido Gullo
Direzione lavori:
Enrico Guglielmo
Responsabile
del procedimento: Cosimo Tarì
Collaborazione d.l.:
Mario Erario
Assistente tecnico:
Antonio Chichierchia
Ricerche storico-archivistiche:
Giovanni Barrella,
Annalisa Porzio
Consulenza impiantistica:
Valerio Mangoni di S. Stefano
Consulenza diagnostica
per umidità: Antonio Navarro,
Ing. Alvano S.r.l.
Consulente verde attrezzato:
Antonio Maisto
Consulenza grafica:
Vincenzo Imperatore
Collaborazione alla
progettazione: Gian Carlo
Garzoni
Coordinatori per la sicurezza:
Gian Carlo Garzoni,
Patrizia Lampa,
Maria Rosaria Rocco
Impresa esecutrice:
Vitale Costruzioni S.p.A.
Fusaro, Bacoli, Ostrichina
159
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per Napoli e Provincia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Architettonici, e Paesaggistici
per Napoli e Provincia
Soprintendente:
Stefano Gizzi
Palazzo Reale
Piazza del Plebiscito,1
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Allegoria del fuoco,
arazzo, Pietro Duranti, 1763
160
Arredi di tre sale dell’Appartamento di Palazzo Reale
Gina Carla Ascione
L’Appartamento Storico di Palazzo Reale si presenta attualmente in gran parte arredato con importanti mobili, suppellettili, dipinti e arazzi del XVIII e del XIX secolo. La disposizione delle opere segue sostanzialmente la sistemazione operata
dal De Filippis dopo la ricostruzione seguita ai danni subiti dall’intero Palazzo nel
corso della seconda guerra mondiale.
Lo stato di conservazione della maggior parte degli arredi si presenta piuttosto
mediocre a causa della scarsa manutenzione e del degrado provocati dal tempo
e dagli agenti atmosferici.
Dovendo operare delle scelte, si è pensato di dare inizio ad una campagna sistematica di intervento che, partendo dalla seconda anticamera (Sala IV), potrà
in seguito interessare l’intero Appartamento.
Il finanziamento disponibile ha consentito di effettuare la manutenzione straordinaria
delle tappezzerie e delle tende della seconda e terza anticamera (Sale IV e V) e
della Sala del Trono (Sala VI). I tre ambienti si presentano rivestiti da parati in seta di
San Leucio realizzati e messi in opera nel corso dell’allestimento post-bellico. Pur
trattandosi di manufatti moderni si è ritenuto indispensabile conservarli perché realizzati con telai a mano, oggi non più esistenti presso gli opifici casertani. I tessuti,
soprattutto nelle zone maggiormente esposte alla luce si mostravano molto impolverati e degradati, con numerose lacerazioni e lacune. I filati della trama erano spezzati e slegati sia nei rivestimenti delle pareti sia nelle tende, le cui fodere si
presentavano fortemente ingiallite e lacerate in alcuni punti. Analogo degrado è
stato riscontrato sui tessuti delle poltrone, del divano e del trono.
Le cinque poltrone della Sala IV, in stile impero, databili intorno alla fine degli anni
’30 dell’800, si ispirano a modelli presenti in tutti gli interni legati a Napoleone,
in particolare agli arredi della Malmaison. Alla corte di Napoli, naturalmente, il
modello è aggiornato eliminando dallo schienale l’aquila imperiale. Le altre sette
poltrone e il grande divano della terza anticamera (Sala V), in fastoso stile neo barocco sono databili, invece, tra il settimo e l’ottavo decennio dell’800.
Per tutti gli arredi, la prima operazione di restauro è consistita nello smontaggio
dei tessuti, che sono stati delicatamente rimossi dalla struttura lignea. Le tende e
le relative mantovane sono state smontate; successivamente, in laboratorio, si è
provveduto a scucirne le fodere in cotone e il gallone di finitura.
Le tappezzerie delle pareti non sono state rimosse, per evitarne il maggiore degrado, ma tutte le operazioni di restauro sono state eseguite sul posto con l’ausilio di scale ed anditi. Con spugne wishab morbide e cuscinetti di polvere di
gomma sono stati rimossi i depositi incoerenti, poi aspirati, dopo aver protetto
i tessuti con tulle. Per le macchie di colla forte si è operato con acqua deionizzata
e asciugatura previa spillatura.
Le fodere delle tende, che si presentavano in buono stato di conservazione,
sono state lavate con acqua deionizzata e tensioattivi blandi, mentre le fodere
eccessivamente degradate sono state sostituite con nuovi tessuti cromaticamente
simili a quelli originari.
Sono state applicate tele di supporto su sedute e schienali delle poltrone della
Sala V, mentre per gli arredi delle Sale IV e VI e per tutte le tende, vista la maggiore delicatezza della materia e il peggiore stato di conservazione, si è preferito
intervenire con innesti di tessuto compatibile, rifiniti a punto posato. Laddove a
causa del deterioramento della trama, il tessuto presentava sdruciture e l’ordito
era fortemente lacunoso, si è proceduto con fermatura ad ago a punto posato
con filato in poliestere Guterman titolo 120.
Si è deciso, infine, di conservare le imbottiture originali in fibra vegetale, che
sono state trattate con disinfestazione e leggera pulitura mediante aspirazione
controllata. Le imbottiture deformate sono state integrate con ovatta di poliestere
e tessuto in cotone. Per il rimontaggio si sono utilizzati i vecchi fori delle chiodature e sostituite o integrate le passamanerie degradate. Si è poi applicato crepeline di protezione per consentire un’adeguata conservazione del tessuto
originario e garantire una buona tenuta dell’intervento.
Nel corso del restauro, sul bracciolo di una delle poltrone della Sala V, è stata rinvenuta parte della tappezzeria originaria, in seta rosa con motivi decorativi d’argento che, dopo adeguata documentazione fotografica, è stata ricoperta con il
tessuto più moderno coerente con le restanti tappezzerie. Le parti lignee di tutti
gli arredi presentavano fori causati da vecchie infestazioni di insetti xilofagi.
Le lamine metalliche, sporche e rimaneggiate, mostravano evidenti mancanze ed
abrasioni, con preparazione a vista. Le strutture lignee sono state disinfestate con Permetar antitarlo e consolidate con Paraloid B 72, poi si è proceduto con la pulitura,
che ha consentito la rimozione di numerose ridipinture a porporina. Le lacune sono
state colmate con gesso e colla e successivamente si è proceduto all’integrazione,
dove necessario, di oro in foglia e alla brunitura con pietra d’agata.
Nel corso dell’intervento di pulitura su due delle poltrone della sala IV sono state
ritrovate, al di sotto della doratura, tracce di laccatura di colore azzurro. Il frammentario stato di conservazione non ne ha consentito il ripristino e, quindi, dopo
una adeguata documentazione, si è scelto di ricoprire i frammenti di colore con
la doratura, anche per garantire l’omogeneità dei manufatti con il restante arredo
della sala .
Per il restauro delle tre poltrone conservate nella Sala del Trono, databili verso la metà
del ‘700, cioè prima della partenza di Carlo di Borbone per la Spagna, si è proceduto
in maniera simile ai restanti manufatti. I due esemplari più piccoli, decorati con raffinati
motivi rococò, recano la firma del doratore Gennaro Arata, ma anche la poltrona
grande, di intaglio più semplice, sembra attribuibile alla stessa manifattura.
Particolare della tappezzeria
stanza V
161
Particolare della tappezzeria
prima del restauro
Direzione dei lavori:
Gina Carla Ascione
Collaboratori: Raffaele Leoni,
Angelo Romano
Restauro: Klanis soc. coop. a.r.l.
Operatori: Annalisa Pellecchia,
Antonella Ranieri
Luciano Tammaro per intagli
e dorature
Foto: Image Utilityes
di P. Masone
162
Il rivestimento originale in velluto cremisi identico nei tre esemplari, è stato integrato con seta cromaticamente adeguata, mentre i galloni in filato metallico sono
stati rimossi per effettuarne la pulitura, realizzata con tamponcini di ovatta imbevuti con tensioattivi blandi (Tween 20 in soluzione acquosa). Alla fine dell’operazione i galloni sono stati ricuciti con piccoli punti nascosti.
Il trono, generalmente datato dopo il 1850, presenta elementi in stile impero,
che rimandano al primo ventennio dell’800. In particolare, i leoni sottobraccioli
e le rosette classicheggianti compaiono nel trono di Napoleone I, disegnato da
Pierre François e Leonard Fontaine per il Castello di Fontainebleau. Durante i rifacimenti della Sala, tra il 1861 e il 1870, sul trono fu collocata un’aquila con lo
scudo sabaudo sul petto, realizzata dallo scultore Ottajani.
L’opera ha subito un intervento di restauro simile agli altri arredi, anche se lo stato
di conservazione estremamente precario del tessuto ha consigliato di ridurre al
minimo tutte le operazioni relative alla sistemazione dell’imbottitura della seduta
e dello schienale.
Il restauro ha interessato anche un altro importante manufatto settecentesco,
l’arazzo di Pietro Duranti, su cartone di Gerolamo Starace Franchis, tessuto nel
1763 a completamento della serie delle Allegorie degli Elementi, opera della
Manifattura di Arazzi, fondata a Napoli da Carlo di Borbone nel 1737.
L’allegoria del Fuoco, ultima in ordine di tempo e di qualità superiore rispetto
agli altri esemplari della serie, raffigura il dio degli Inferi Plutone mentre rapisce
Proserpina. In alto appare la Fenice, simbolo del fuoco e dell’immortalità, ai lati
due aquile con saette che indicano l’autorità sovrana, in basso la salamandra simbolo del fuoco e della giustizia.
L’opera, tessuta in lana, seta e fili metallici, su telaio ad alto liccio, è caratterizzata
dalla notevole brillantezza delle tinte, ben conservate, prova dell’abilità dell’arazziere Pietro Duranti e dell’alto grado di specializzazione raggiunto dalla Manifattura Napoletana all’epoca di Ferdinando IV.
L’intervento di manutenzione straordinaria si è reso necessario poiché l’arazzo
presentava vistose deformazioni dovute al peso e al progressivo deterioramento
dell’ordito.
La rottura dei filamenti ha comportato modifiche dimensionali tali da rendere
inadeguata la vecchia foderatura. Rimuovendo sia la fodera che le bande di finitura poste verticalmente all’opera, si è subito evidenziato come le misure di queste fossero ormai inferiori a quelle del manufatto.
Anche l’ancoraggio, non aderente alla parete, anzi piuttosto distanziato da essa,
ha contribuito al processo di deformazione. Uno strato di polvere rendeva inoltre
piatti ed opachi sia i colori che i volumi.
La prima operazione è consistita nello scucire le bande laterali non pertinenti
montate nel corso dell’ultimo restauro, mantenendo in opera il manufatto per
monitorarne tutti i possibili movimenti.
Dopo alcune settimane, verificato un buon livello di assestamento, si è proceduto
allo smontaggio utilizzando un rullo.
Una volta sistemato in piano ed adagiato dal verso l’arazzo, è stata rimossa l’intera
foderatura.
Con spugne wishab morbide e cuscinetti di polvere di gomma sono stati eliminati i depositi incoerenti, successivamente aspirati sia dal verso che dal recto.
La nuova fodera è stata realizzata con tessuto in poliestere di grammatura adeguata alle esigenze di conservazione ed applicata con piccoli punti nascosti con
filato in poliestere.
Al momento del montaggio si è provveduto alla sostituzione dell’asse di supporto ed alla revisione dei punti di ancoraggio, che sono stati rinforzati per consentire una migliore tenuta, riducendo al minimo la distanza dalla parete.
La Reggia di Arechi
Gennaro Miccio
Arechi II, quando trasferì a Salerno il centro del suo potere, costruì per sé e per
il suo governo una magnifica residenza nel centro della città, a ridosso delle mura
prospicienti il mare, e verso la parte a monte pose una sua cappella privata dedicata ai santi Pietro e Paolo.
Le magnificenze e le ricche decorazioni del Palazzo sono descritte da Paolo Diacono e dall’Anonimo Salernitano nel Chronicon.
Meno certe sono, invece, le effettive dimensioni del Palazzo e la reale perimetrazione di quello che doveva essere un complesso edilizio di cui facevano parte
più edifici con varie funzioni pubbliche e amministrative.
L’area del Palazzo, che Arechi edificò nel 774 per porre la sua residenza nella
nuova capitale del Principato, doveva estendersi dal rione dei Barbuti al Vicolo
Pietra del Pesce ed era disposto in senso longitudinale secondo una direzione
nord-sud; il lato nord era allineato con l’attuale parete settentrionale della chiesa
di S. Pietro a Corte; il lato sud doveva coincidere con il vicolo Pietra del Pesce;
il lato est, la corte, era probabilmente poco oltre l’attuale Largo Antica Corte; il
lato ovest doveva coincidere con l’allineamento della facciata occidentale della
chiesa palatina con la via Pietra del Pesce.
Su questa ultima delimitazione si sono avute di recente alcune conferme in base
a saggi sulle murature effettuati sulla parete ovest del cortile interno dell’edificio
adiacente la Cappella Palatina, con accesso dal Largo S. Pietro a Corte, e che ha
occupato una larga parte del Palazzo. Su questa parete che corrisponde alla prosecuzione sud della facciata ovest della Cappella Palatina, sono state rinvenute,
nel corso di recenti lavori condotti dalla Soprintendenza, le tracce della sequenza di monofore che dovevano costituire il famoso loggiato del Palazzo
aperto verso occidente, che completa i tratti della loggia già messi in luce negli
anni ‘70, scompartita da archi in mattoni poggianti su pulvini, capitelli e colonne
marmoree di spoglio.
Il loggiato è completato da una graziosa bifora, posta sulla facciata nord verso lo
spigolo occidentale della Cappella, composta da archi in mattoni a tutto sesto,
pulvino sorretto da un capitello altomedioevale e colonna marmorea di spoglio.
La loggia si affacciava verso la parete occidentale della città su di un’ampia “platea”, percorsa da un impluvio naturale continuamente alimentato e corrispondente all’attuale Via dei Canali, posta a circa dieci, dodici metri al disotto del
“piano nobile” del Palazzo, contribuendo a rendere la reggia ancora più imponente ma, nello stesso tempo, “aperta” verso la città.
Con la campagna di scavo condotta negli anni ‘70 ed i successivi lavori, si è riuscito a ricostruire tutte le fasi storiche precedenti la edificazione della Cappella
Palatina. Essa fu edificata al disopra di un complesso termale del I-II secolo d.C.,
ed in particolare, su di un grande frigidarium, occupato successivamente da un
oratorio cristiano a partire dal V secolo, con numerose epigrafi che attestano la
sua attività anche nei due secoli successivi; la funzione religiosa degli ambienti
ipogeali fu mantenuta anche dopo gli imponenti lavori occorsi per la edificazione
del Palazzo del principe posto ad una quota superiore. Per le fondazioni del Palazzo gli artificies arechiani realizzarono grandi fodere murarie all’interno dei paramenti romani in opus reticulatum, nonché semipilastri eseguiti con l’impiego di
materiale fittile di spoglio. Il principe longobardo volle, però, sottolineare l’adesione spirituale alla religione cattolica evitando la distruzione del luogo sacro
ma, anzi, facendo riparare i danni apportati dai lavori e dalle attività del suo cantiere; non solo, ma l’abside della Cappella Palatina segue perfettamente la corrispondente abside ed il presbiterio della sottostante aula cultuale, come si è
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le Province di Salerno
e Avellino
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
per le Province
di Salerno e Avellino
Soprintendente:
Giuseppe Zampino
Via Botteghelle, 11
84100 Salerno
Tel. 089 2573111
Fax 089 251727
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163
potuto evidenziare a seguito della eliminazione della fodera semicircolare realizzata in epoca barocca. Il pilastro centrale su cui si reggeva il calpestio della
Cappella Palatina divenne parte integrante dello spazio religioso sottostante, arricchito da un prezioso affresco di Madonna in trono con Bambino dell’XI secolo.
Il resto del Palazzo si svolgeva verso sud sempre posto ad una quota sopraelevata rispetto ai piani viari: gli assi stradali di Via Dogana Vecchia, Via G. Da Procida
e Via P. Fasanella venivano superati da un sistema di archi (segnalati anche da colonne di spoglio) che, sovrappassando le strade consentivano di mantenere
un’unità funzionale del Palazzo che si andava a sovrapporre ed in parte a sostituire a precedenti edifici.
Recenti lavori eseguiti nell’edificio con ingresso dalla Via Arechi 17 allo scopo di
riparare i danni subiti dal terremoto del 1980 e diretti da chi scrive, hanno messo
in evidenza alcune interessanti tracce che potrebbero lasciare ipotizzare l’appartenenza di questi immobili al complesso palaziale arechiano. In particolare,
è stata individuata una muratura interna all’edificio, parallela alla facciata su Via
Arechi, di dimensioni notevolmente maggiori rispetto alle altre (oltre un metro),
composta di blocchi lapidei squadrati portati fino all’ultimo piano dell’attuale
edificio. Questi elementi tipologici, atipici rispetto alle murature più povere e sicuramente più recenti delle altre parti adiacenti, lasciano supporre l’appartenenza di questo tratto di muro ad un complesso edilizio di maggiore importanza.
Certo sarebbe necessario continuare ad approfondire le indagini sugli edifici circostanti la Cappella Palatina, riconnettendo quelli già avviati nel cortile del palazzo adiacente con i dati raccolti sugli edifici a sud intorno a Via Arechi, ma ciò
è di difficile attuazione stante il notevole frazionamento delle unità immobiliari
appartenenti nella quasi totalità a privati.
164
San Pietro a Corte nel museo della Scuola Medica Salernitana
Maria Pasca
La cappella palatina di S. Pietro a Corte è stata il fulcro della vita civile e religiosa
della città a partire dall’VIII secolo.
Dal 1500 l’edificio ebbe una destinazione pubblica, in esso si tenevano le riunioni del Reggimento Grande della città e le cerimonie della consegna delle lauree della Scuola Medica Salernitana. Sottoposto nei secoli a diversi interventi di
restauro e trasformazioni, il complesso, prima del recupero conservativo, non
aveva più nulla dell’antico aspetto longobardo.
In un progetto di valorizzazione della città medioevale e della scuola medica salernitana il complesso monumentale è inserito nei percorsi guidati nel centro storico cittadino -progetto “Monumenti sempre aperti” - affidato ad associazioni di
volontariato culturale e coordinato dalla soprintendenza BAP.
Visto inoltre il ruolo centrale in città avuto nei secoli dall’importante edificio e il
suo legame con la Scuola Medica Salernitana si è ritenuto particolarmente significativo proporre una ricostruzione in tre D della cappella arechiana che ne restituisce lo sfarzo e la ricchezza della decorazione scultorea e musiva,
testimonianza della raffinatezza culturale del popolo longobardo che si era insediato in questi luoghi dopo la caduta della Longobardia per mano di Carlo
Magno.
Questa ricostruzione è stata realizzata dal Dipartimento di Informatica e Matematica dell’Università degli Studi di Salerno ed inserita in un percorso didattico
di narrazione delle tematiche e del significato culturale della scuola medica.
L’aula arechiana è diventata simbolica ambientazione di una sceneggiatura che ne
fa il punto di partenza di una storia di confluenze culturali che fecero grande la
città di Salerno del periodo longobardo e normanno, nelle sue espressioni sia artistiche che scientifiche.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le Province di Salerno
e Avellino
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
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Castel dell’Ovo
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Architettonici e Paesaggistici
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Progetto di restauro ed
esecuzione lavori
del complesso
monumentale
di S. Pietro a Corte – Salerno
Soprintendenza BAP
di Salerno e Avellino
direttore coordinatore:
Gennaro Miccio
Progetto di valorizzazione
monumenti medioevali e
Scuola Medica Salernitana
Soprintendenza BAP
di Salerno e Avellino
Settore Promozione e Attività
Culturali direttore coordinatore
Maria Pasca
165
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed
Etnoantropologici per le Province di Napoli
(esclusa la città), Benevento e Caserta
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza per i Beni
Storici Artistici ed
Etnoantropologico per le
Province di Napoli (esclusa la
città), Benevento e Caserta
Soprintendente:
Salvatore Abita
Palazzo Reale
Piazza del Plebiscito, 1
80132 Napoli
Tel. 081 5808111/332
Fax 081 5808213
Inizio restauro: ex
Soprintendenza per i
Beni Architettonici,
Paesaggistici Artistici Storici ed
Etnoantropologici per Napoli e
provincia
166
2007-2008: un anno di indagini in due Cappelle della
Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli
Angela Schiattarella
Le opere che decorano la prima e la seconda cappella della navata destra del
Gesù Nuovo, dedicate rispettivamente a San Carlo Borromeo e alla Visitazione e
miracolosamente sopravvissute nei secoli ad eventi veramente eccezionali come
incendi, terremoti e bombardamenti, oggi sono state messe a dura prova dalla
disattenzione. Distrazioni che si sono accumulate e stratificate negli anni e culminate nel giugno 2007 quando una vera e propria cascata di acqua ha completamente inondato le cappelle. L’incidente, che ha interessato totalmente la
cappella di San Carlo e solo parzialmente la successiva, è stato causato dalla rottura della valvola di una caldaia di riscaldamento collocata, poco opportunamente, in ambienti che gravano proprio sulle due cappelle e sotto i quali, per
giunta, corre un tubo di smaltimento di acque piovane il cui cattivo funzionamento aveva già causato da qualche anno infiltrazioni di umidità agli affreschi
delle volte. Il tubo, che risultava perfettamente chiuso tra i due piani, non era
ispezionabile, era di scarsa portata per raccogliere le acque di una vasta superficie di copertura ed inoltre presentava al proprio imbocco una zona non perfettamente impermeabilizzata, causa di altri incidenti in occasione di forti piogge.
Dopo il pronto intervento del personale della Provincia di Napoli, che ha scongiurato danni irreparabili agli affreschi e agli stucchi, ma il cui lavoro si è poi concentrato a risolvere le cause che avevano provocato l’incidente, sono intervenuti
i tecnici della Soprintendenza (ex) BAP-PSAE di Napoli e Provincia. L’obiettivo
principale era ben chiaro: agevolare e controllare la fuoriuscita dell’ acqua che
aveva completamente imbibito le pareti. La deumidificazione, già resa difficile
dall’enorme spessore delle antiche strutture murarie internamente fratturate, era
impedita dalla compatta cortina di marmi commessi che riveste le tre pareti e il
pavimento, mentre la fuoriuscita dell’umidità dalla volta con stucchi e affreschi
risultava ostruita dalla pavimentazione degli ambienti che insistono sulle cappelle. Drammaticamente, l’unico reale sbocco per l’umidità era proprio rappresentato dalle zone affrescate. L’azione dei tecnici è stata duplice: mentre si
procedeva al continuo monitoraggio dell’umidità sugli affreschi, eseguito con
misuratore bipolare portatile, all’asportazone continua dei sali migrati sulle pareti
affrescate, ai preconsolidamenti e consolidamenti della pellicola pittorica e degli
intonaci, alla rimozione di materiali coerenti incoerenti, si è proceduto a creare
una ventilazione minima dell’intero ambiente e alla rimozione sia del pavimento
soprastante la volta che di alcuni marmi interni della cappella.
È trascorso più di un anno e non tutto è risolto, ma se una considerazione va fatta
riguarda proprio la cappella di San Carlo e l’eccellenza della tecnica con cui Giovan Bernardino Azzolino eseguì nel 1618 gli affreschi. È infatti proprio grazie all’eccezionale tenuta del colore se oggi possiamo ancora vedere una parte del
dipinto della volta, con San Carlo Borromeo che cura gli appestati.
Peccato che non si possa dire lo stesso per la volta della cappella della Visitazione, i cui affreschi di Luca Giordano, già rovinati in passato, hanno molto risentito dell’incidente.
Direzione dei Lavori:
Angela Schiattarella con la
collaborazione di
Angelo Romano
Restauro a cura GO.GE.DI. con
la consulenza tecnica di:
Debora De Vincenzo
Operatori: Cinzia Giacomarosa,
Debora De Vincenzo
167
Soprintendenza per i Beni Storici
Artistici ed Etnoantropologici di Salerno
e Avellino
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA CAMPANIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Campania
Direttore Regionale:
Pio Baldi
Coordinatore
per la Comunicazione:
Maria Rosaria Nappi
Castel dell’Ovo
Via Eldorado, 1
80132 Napoli
Tel. 081 2464209
Fax 081 764 5305
Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici
di Salerno e Avellino
Soprintendente:
Salvatore Abita
Via Torquato Tasso, 46
84121 Salerno
Tel. 089 251089
Fax 089 2753328
168
Il Restauro Architettonico e Storico Artistico della Chiesa di
Santa Maria delle Grazie di Pietrastornina
Giuseppe Muollo, Giuseppe de Pascale
Il restauro architettonico e storico artistico della chiesa di Santa Maria delle Grazie
di Pietrastornina si è rilevato particolarmente complesso a causa delle diverse stratificazioni architettoniche di cui la chiesa è stata oggetto nei secoli, emerse ad
una attenta lettura archeologica dell’alzato e allo studio di documenti di archivio.
La chiesa sembra essere stata fondata dai monaci Verginiani di Montevergine,
quale grancia dell’abbazia omonima, sul finire del secolo XIII, per meglio amministrare i molti possedimenti di cui l’abbazia veniva in possesso per le tante donazioni fatte dai signori locali per la salvezza dell’anima, Deo et in monasterio
beate Marie Virginis in loco ubi aqua columbi dicitur.
La prima notizia certa sulla esistenza della chiesa e di un piccolo convento costituito
da poche stanze e con la presenza del priore è del 1515. In questa data il priore fra
Rainaldo da Pietrastornina sottoscrive la protesta contro la Commenda di Montevergine. Sono gli anni questi in cui la prima chiesa ad aula unica prende forma, grazie
anche all’impegno del priore, il quale tra l’altro fa costruire il campanile.
Nella sacra visita del 1517, viene ricordato l’impegno del priore fra Marino da
Pietrastornina, predecessore di fra Rainaldo, nella costruzione di una cappella
“de gisso multo bella”, spendendovi circa 10 ducati.
Negli anni successivi il potere economico si consolida e la chiesa è interessata da
una prima campagna di affreschi ascrivibili agli anni dal 1535 al 1552, ancora esistenti
sulla parete lunga a destra dell’aula, ma ottundi in parte da una parete di rifodero. I
due cicli raffigurano, il primo Sant’Antonio abate e la Madonna Incoronata con il
Bambino ed il secondo la Madonna tra San Giovanni Battista e San Leonardo.
A partire dal 1594 la chiesa viene ricostruita dalle fondamenta con una parete di
rifodero, costituita da tre campate di archi a tutto sesto addossati ai muri d’ambito originali della prima chiesa che ottundono la prima campagna di affreschi.
È in questo momento che si attua l’innalzamento dell’impianto murario e la chiesa
è interessata da una nuova partitura architettonica e da una nuova campagna di
affreschi.
La grancia colà costituita, viveva un periodo di splendore tanto che nel capitolo
generale della Congregazione Verginiana tenutosi ne1652, fu proposta alla elevazione di priorato. Il Breve di Innocenzo X dello stesso anno troncò però le
aspettative della piccola comunità, con la soppressione del monastero. Iniziò
così un periodo di decadenza e di abbandono della fabbrica religiosa tanto che
nella Sacra visita del 1691, si annotava che era necessario riparare la copertura dal
lato dell’altare del SS.mo Rosario, addebitando le spese alla Confraternita omonima che nel frattempo si era costituita.
Un carteggio tra il priore della Confraternita ed il cellerario di Montevergine, datato 1850, mette in evidenza lo stato di totale abbandono in cui versava la chiesa
e del “pericolo imminente in cui trovansi quei naturali nell’entrare ad esercitare il
culto”. La chiesa era infatti senza tetto ed esposta alle intemperie.
Gli anni dal 1850 al 1913, sono gli anni in cui la chiesa è sottoposta ad un nuovo
intervento di restauro. In particolare nella seconda metà dell’Ottocento si edifica
l’arco trionfale, un manufatto non portante eretto a scandire la divisione tra l’aula
e il transetto. Mentre agli inizi del Novecento la chiesa è oggetto di una terza
campagna di decorazioni, praticata con il rifacimento della facciata esterna su
Piazza Vittorio Veneto e con la nuova veste decorativa che riguarda l’intero impianto murario interno. Nel corso dell’ ultima campagna decorativa, si procedette
alla tompagnatura delle originali nicchie affrescate presenti sulla parete di fondo
del transetto e lungo le pareti laterali dell’aula.
I lavori di restauro hanno interessato il corpo costruttivo di un monumento che recava i segni di un abbandono ultraventennale e quelli ancora più dannosi di pregressi e inappropriati interventi manutentivi realizzati dopo il sisma del 1980. I recenti
lavori, finanziati nell’ambito del PIT Parco Regionale del Partenio, si sono attuati con
il Coordinatoretecnico scientifico dela Soprintendenza ai beni architettonici e storico artistici, ed ha visto impegnate in cantiere due imprese esecutrici.
I lavori condotti dalla Soprintendenza ai beni architettonici hanno riguardato il
consolidamento della struttura del tavolato ligneo dell’ aula e del transetto, la
pavimentazione, il nuovo impianto elettrico, il rifacimento degli infissi e il ripristino dei locali retrostanti la chiesa.
I lavori storico artistici hanno interessato il restauro del controsoffitto dell’aula costituito da un elegante spartito di fasce, cornici e lacunari in cartapesta; il descialbo delle pareti, ottunde da più mani di ridipinture; il restauro delle superfici
pittoriche affrescate rinvenute sotto lo scialbo e risalenti alla fine del XVI secolo;
il restauro dei manufatti lignei , la struttura della cantoria e il portone di ingresso,
e delle opere lapidee presenti, gli altari interni, le gradinate dell’arco trionfale e
il portale di ingresso esterno.
L’intervento si è concluso con il restauro e la ricollocazione a soffitto di una tela
risalente ai primi anni del Novecento e raffigurante un ostensorio sorretto da un
angelo, rinvenuta nel corso dei lavori all’interno della chiesa stessa.
I lavori di restauro e valorizzazione della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Pietrastornina hanno portato alla riscoperta di un sacro edificio rilevante sia sotto
l’aspetto storico artistico che architettonico. Il rinvenimento delle ampie superfici
affrescate, risalenti ad un arco temporale che va dalla fine del Cinquecento alla
prima metà del Seicento, propone la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Pietrastornina come un unicum. Basti pensare che nella provincia irpina i cicli di affreschi
sono una rarità e la vicenda della decorazione parietale appare di scarso rilievo.
A fronte di quanto veniva maturando nell’ambiente della Capitale del Viceregno,
questo ciclo dell’ancora ignoto frescante affiorato nella piccola chiesa di Pietrastornina, acquista una valenza significativa per la storia dell’arte meridionale e
documenta, in un rinnovato clima naturalista, determinato anche dalla presenza
del Caravaggio a Napoli, le notevoli qualità dell’artista come pittore di immagini.
Lavori di valorizzazione del
Complesso Monumentale delle
Chiesa di Santa Maria delle
Grazie di Pietrastornina (AV)
Committente: Soprintendenza
per i Beni Architettonici e per il
Paesaggio di Salerno e Avellino.
Soprintendenza per i Beni
Storici Artistici ed
Etnoantropologici di Salerno e
Avellino.
Responsabile unico del
Procedimento: Giovanni
VILLANI - Soprintendenza per i
Beni Architettonici e per il
Paesaggio di Salerno e Avellino
Progetto e Direzione dei Lavori
di restauro architettonico:
Giacomo Carlo Tropeano Sandro de Rosa,Cinzia Vitale –
Giovanni Villani Soprintendenza per i Beni
Architettonici e per il Paesaggio
di Salerno e Avellino
Progetto e Direzione dei Lavori
di restauro storico artistico:
Giuseppe Muollo Soprintendenza per i Beni
Storici Artistici ed
Etnoantropologici di Salerno e
Avellino
Consulenza tecnica per il rilievo
e l’indagine storico-archivistica:
Giuseppe De Pascale Pietrastornina
Impresa esecutrice dei lavori di
restauro architettonico e
impiantistica:Impresa edile
Lanzara Antonio - Salerno
Impresa esecutrice dei lavori di
restauro storico artistico:
Impresa Coppola Ciro – Vico
Equense (NA)
Importo lavori eseguiti :al netto
del ribasso di appalto e
compreso IVA: € 175.396,10
Importo lavori Restauro
architettonico
netto ribasso e compreso IVA
€ 77.216,70
Importo lavori Restauro storicoartistici
netto ribasso e compreso IVA
€ 98.179,40
Esecuzione dei lavori: Gennaio
2006 – Aprile 2008
Progetto finanziato con fondi
comunitari POR Campania
2000-2006, nell’ambito del PIT
Parco Regionale del PartenioCodice progetto PIT 20SBC
169
Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici dell’Emilia-Romagna
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Supporto organizzativo:
Andrea Sardo
Collaborazione:
Beatrice Cristini
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
170
Restauri in Emilia-Romagna:
attività degli Istituti MiBAC nel 2008
Carla Di Francesco
In un momento in cui ogni giorno si accendono i riflettori sul nostro patrimonio
per mostrare quanto poco si faccia per conservarlo, valorizzarlo, promuoverlo,
il Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e
Ambientali, giunto alla XVI edizione, offre la possibilità di dimostrare quanto ingiuste
siano tali accuse.
Le difficoltà sono innegabili; ma é altrettanto innegabile il lavoro costante degli
uffici e dei tecnici del Ministero, sia a livello centrale che periferico.
Sul territorio, dopo la riforma seguita al DPR n. 233 del novembre 2007, l’attento
ruolo di coordinamento che le Direzioni Regionali esercitano su Archivi,
Biblioteche e Soprintendenze contribuisce a dare unitarietà all’insieme delle attività
rivolte al patrimonio.
I contributi che seguono e che saranno illustrati nel corso del convegno Restauri
in Emilia-Romagna: attività degli Istituti MiBAC nel 2008, non raccontano che una
piccola parte degli interventi di restauro realizzati in regione da archivisti, bibliotecari,
archeologi, architetti, storici dell’arte. Altri contributi saranno aggiunti nel volume
degli Atti che la Direzione Regionale presenterà a settembre, in occasione delle
Giornate Europee del Patrimonio.
In gran parte finanziati dal Ministero, da essi emerge non solo la costante attenzione
ai beni culturali e al loro contesto, ma anche lo studio degli effetti di precedenti
restauri, la ricerca, l’utilizzo delle nuove tecnologie.
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Il globo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna.
Una lunga avventura
Trasferimenti rischiosi, intrighi politici, bombardamenti, vicende conservative al
limite del pericolo si intrecciano nell’avventura secolare del globo terrestre di
Vincenzo Coronelli di proprietà dell’Archivio di Stato di Bologna. Il globo celeste
che dalle origini lo accompagnava, fino a un certo punto compagno di sventure,
in seguito fu allontanato e viene considerato perduto.
I due globi appaiono ancora intatti, ma come “due mappamondi in cattivo stato”,
nel 1877, fra le suppellettili conservate nell’Archivio Demaniale, presso l’antico
convento dei Celestini, che raccoglieva gli archivi delle Corporazioni religiose
soppresse nel periodo napoleonico e oltre. Erano quindi un retaggio proveniente
dal mondo dei conventi e delle chiese bolognesi. È stato supposto che il Senato
di Bologna avesse ricevuto l’omaggio dei due globi di Coronelli dal senato veneziano, intorno alla fine del Seicento o all’inizio del Settecento, e li avesse poi
esposti in una chiesa, forse Santa Maria dei Servi. In ogni caso, nella seconda
metà dell’Ottocento i globi, già malconci, si trovavano all’Archivio Demaniale. E
con tutto il materiale archivistico delle Corporazioni religiose confluirono nell’appena costituito Archivio di Stato, nella sua sede di palazzo Galvani. Qui vengono segnalati nel 1899 da uno studioso, Matteo Fiorini, che nota come uno di
loro sia stato ulteriormente danneggiato dal trasporto.
Dall’Archivio di Stato i globi dovevano ripartire dopo più di sessant’anni, nel
1941, in piena guerra mondiale, per un’altra complessa spedizione, che sarebbe
stata a quanto pare fatale per il globo celeste. Il ministero dell’Interno li reclamava
a Roma, per un inaspettato quanto necessario restauro (l’Istituto di Patologia del
Libro era stato fondato da pochi anni, per espressa volontà del regime). Gli intenti
dovevano essere altri per i globi, i quali sembra che fossero destinati ad avere
sede, una volta restaurati, a Palazzo Venezia. Si occupò della loro sorte in particolare l’allora sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, personaggio di
spicco della cerchia di Mussolini e membro del Gran Consiglio del Fascismo,
che arrivò a separare i due globi portando a Pisa, dove risiedeva la sua famiglia,
il forse più affascinante globo celeste. In ogni caso questo si deduce da una lettera del Ministero di molti anni dopo, dove si parla della distruzione del globo
celeste, avvenuta nel 1943 per un bombardamento sul deposito di una fabbrica
pisana dove la famiglia Buffarini aveva collocato il prezioso reperto. Non sembra
siano state svolte ulteriori inchieste sulla scomparsa di questo bellissimo manufatto, forse appartenente all’edizione del globo celeste dedicata da Coronelli
nel 1691 al cardinale Pietro Ottoboni.
La stessa lettera del Ministero dell’Interno che comunicava la perdita del globo
celeste indicava la sopravvivenza di quello terrestre, che risultava nel 1950 conservato all’Archivio di Stato di Roma e di cui si stava completando il restauro. Ma
dovevano passare ancora diciassette anni, e le proteste di molti studiosi, perché
l’Archivio di Stato di Bologna riuscisse a ottenere la restituzione del globo superstite, da allora collocato nel corridoio della Direzione e in seguito all’interno del
locale stesso della Direzione. Le condizioni del globo, nonostante o forse proprio a causa di operazioni di restauro interrotte e riprese più volte attraverso il
tempo, rimanevano precarie, e non sono migliorate nei successivi quarant’anni.
Sul finire del 2007 la necessità urgente di un restauro conservativo moderno e di
una nuova collocazione più adeguata dal punto di vista della conservazione
hanno indotto la Direzione dell’Archivio di Stato a finanziare il restauro del globo
terrestre presso un laboratorio bolognese di provata esperienza, e a richiedere
Archivio di Stato di Bologna
Francesca Boris, Manuela Mattioli
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Bologna
Direttore:
Elisabetta Arioti
Piazza dei Celestini, 4
40123 Bologna
Tel. 051 223891/239590
Fax 051 220474
[email protected]
www.archiviodistatobologna.it
171
la sua successiva esposizione presso il Museo di Palazzo Poggi, dove potrà essere meglio ammirato dalla città che lo accolse alcuni secoli fa. L’Università si è
dimostrata lieta di accogliere la proposta.
Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli, restituito alla sua primitiva bellezza dal
restauro eseguito con perizia da Manuela Mattioli, con la sua superficie dorata
gremita di cartigli e raffigurazioni fantasiose di popoli e paesi, è insieme uno
sguardo sulla cultura eclettica del Seicento e il ritorno alla luce di un’opera importante del patrimonio artistico bolognese, di cui si erano in parte perse le
tracce, e che ha percorso una lunga storia avventurosa prima di tornare fra noi.
Il restauro
Il globo, di proprietà dell’Archivio di Stato di Bologna, di Vincenzo Coronelli
(Venezia 1650-1718) appartiene probabilmente all’edizione 1692-93. Il diametro
misura cm.108. Il materiale di cui il globo è costituito è legno, cartapesta, gesso,
carta, ferro. Presenta ventiquattro fusi e calotte polari a stampa. Il meridiano è in
legno e carta e il basamento coevo è in legno, con carte al circolo dell’orizzonte.
Coronelli fu un ingegnoso costruttore di globi. Che questo globo terrestre appartenga all’edizione del 1692 – 1693 lo possiamo dedurre dal grande cartiglio posto
sotto la Nuova Hollanda, dove abbiamo la dedica che celebra il Doge Morosini
e, ai piedi del putto, la citazione dell’Atlante Veneto, che il nostro pubblica nel
1690. Esistono edizioni ed esemplari precedenti e successivi a questo. Le lastre
utilizzate per realizzare i fusi vennero stampate solo fino alla morte dell’autore.
Quasi mai coerente e lineare nell’esecuzione, Coronelli realizza la struttura interna
di questo globo in legno, secondo lo schema da lui descritto e maggiormente
usato. Di fattura un po’ grossolana, questa sorta di “gabbia” è stata rivestita di
cartapesta, regolarizzata da un sottile strato di gesso su cui sono stati incollati a
guisa di fodera, pagine di un libro (un’opera di Coronelli stesso?). In ultimo i ventiquattro fusi e le calotte polari, poi decorati ad acquerello. Coronelli descrisse
dettagliatamente le colle, i colori e le vernici da usare per i suoi lavori, anche se
poi si adattava ai materiali che trovava in loco e alle possibilità economiche del
committente.
172
I globi sono affascinanti oggetti polimaterici. Problematici in ambito conservativo
e con la doppia valenza di essere stati usati come strumenti di studio e oggetti
di grande prestigio.
L’attuale restauro ha mostrato chiaramente tutto questo. Inoltre ha dato la possibilità di entrare anche materialmente dentro all’oggetto, di arricchire la nostra conoscenza sul modo di operare dell’autore.
È stata indagata la superficie del globo con la Spettrofotometria FT-IR. Restano
vaste stesure della vernice originale, che è stata identificata come gommalacca.
Interessante la presenza di ossalato di calcio sulla superficie cartacea. Una sostanza inorganica frutto della mineralizzazione di vernici e patine organiche esposte all’aria.
Il restauro ha dovuto affrontare, ed in parte accettare, i danni irreversibili causati non solo dal tempo, ma dall’uso e da gravi traumi subiti durante i vari spostamenti. Scriteriati e ormai obsoleti interventi di riparazione hanno favorito il
degrado. Il criterio scelto è stato prettamente conservativo. Si è deciso di rispettare alcuni dei precedenti interventi poiché la rimozione avrebbe causato
ulteriori traumi alla struttura e soprattutto alla carta, in molte parti abrasa e deteriorata da procedure e colle inadatte. È stato necessario entrare all’interno
per rimuovere l’inedito contrappeso, un mattone, che staccatosi, stava causando danni alla struttura.
Assieme a questo e ad altri “detriti”, si sono estratti frammenti di carta manoscritta
del tardo ottocento, importanti tracce di un primo restauro di ambito bolognese.
La pulitura di tutte le superfici cartacee da sporco, vecchie colle e maldestre integrazioni, ha permesso di recuperare la leggibilità del globo e dell’orizzonte. I
residui della vernice originale del globo sono stati conservati, rimossi invece sulle
carte dell’orizzonte dove erano fortemente alterati ed anneriti. Alcuni dei precedenti incollaggi sono stati revisionati, per ripristinare una migliore curvatura della
superficie, consolidarla ed appianare le carte dei fusi. Gli adesivi oggi a disposizione, a differenza da quelli usati nel passato, sono perfettamente compatibili
con carta e cartapesta. Nel corso del tempo sono facilmente reversibili. L’intervento si è concluso con un’intonazione neutra delle vaste lacune.
Il basamento ligneo e il circolo meridiano sono stati anch’essi restaurati ai primi
del novecento e si presentano in discreto stato di conservazione.
173
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Un esempio di restauro: l’Archivio notarile antico di Ferrara
Archivio di Stato di Ferrara
Antonietta Folchi
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Ferrara
Direttore:
Antonietta Folchi
Corso della Giovecca, 146
44100 Ferrara
Tel. 0532 206668
Fax 0532 207858
[email protected]
174
Presso l’Archivio di Stato di Ferrara si conserva l’importante e cospicuo fondo
degli atti dei notati di Ferrara, Codigoro e Comacchio, costituito da oltre 10.000
pezzi tra buste, mazzi, volumi e registri, per un arco cronologico compreso tra
la prima metà del sec. XIV e la fine del sec. XIX.
Disciplinato dagli statuti ferraresi di Obizzo II, 1287, e da quelli successivi di
Borso, 1456, Ercole II, 1534, Alfonso II, 1567 e del legato pontificio, 1624 e
1690, l’esercizio del notariato risale all’ordinamento comunale, poi signorile.
Con regolamento 17 giugno 1806 fu istituito a Ferrara, capoluogo del dipartimento, un archivio generale notarile e furono creati archivi notarili sussidiari a
Codigoro e Comacchio, con il compito di concentrare tutte le scritture dei
notai cessati dall’esercizio.
L’opera di recupero dell’archivio notarile antico si è resa necessaria a causa del
precario stato di conservazione in cui versavano le carte prima dell’acquisizione
da parte dello Stato. In particolare, l’umidità e le infiltrazioni d’acqua hanno reso
i supporti di innumerevoli unità fragili, feltrosi e gorati fino, talvolta, a scolorire gli
inchiostri e a causare la perdita di parte dei supporti stessi.
I primi tre interventi, realizzati tra il 2001 e il 2004 su progetto del Centro di
fotoriproduzione legatoria e restauro, hanno riguardato la documentazione
più antica e più danneggiata conducendo in tal modo al recupero di oltre
50.000 carte di atti (protocolli e schede) dei notai che rogarono a Ferrara
tra il 1399 e il 1641. Tra di essi figurano anche quelli che stesero atti anche
per gli Este, signori di Ferrara fino al 1598, che sono di particolare importanza per le ricerche in loco, in quanto tutto l’archivio segreto estense fu trasferito a Modena quando il ducato di Ferrara passò sotto il diretto dominio
della Santa Sede.
Le operazioni di restauro, precedute dal controllo della numerazione e della fascicolazione e da una adeguata documentazione fotografica a campione, sono
state eseguite da una ditta specializzata nel settore. Esse hanno incluso la scucitura, spolveratura, test di solubilità degli inchiostri, lavaggio in acqua deionizzata
deacdificazione, mending, velatura indiretta, rifilatura delle eccedenze di velo a
carta giapponese e ricomposizione delle carte in fascicoli secondo la sequenza
originaria.
La presenza di fogli pergamenacei manoscritti all’interno dei volumi o utilizzati
come coperte ha richiesto specifiche operazioni (pulizia a secco, sgommatura,
test di solubilità degli inchiostri, ammorbidimento temporaneo per rendere i
supporti più elastici e atti alle successive operazioni, spianamento, suture dei
tagli, mending e rifilatura dell’eccedenza di carta giapponese nel rispetto dei
margini originali).
La diversità originaria dei tipi di cucitura e di legatura delle carte ha comportato
una differenziazione delle tipologie di condizionamento. In luogo dei pacchi di
carta paglierina, chiusi con una fettuccia, in cui erano contenuti i documenti, ovvero i protocolli o le schede, sono stati predisposti nuovi contenitori (scatole) rivestiti esternamente in tela Buckram e internamente in carta barriera recando sul
dorso la completa segnatura archivistica (pacco, matricola, notaio e anno/anni).
Inoltre mentre l’avvicendamento degli anni all’interno della stessa scatola è stato
evidenziato con l’inserimento di camicie in corrispondenza di ciascuno di essi,
ulteriori camicie sono state inserite per raccogliere i fascicoli di carte sciolte, lasciando i fogli non cuciti.
I lavori, seguiti da tecnici del Centro di fotoriproduzione attraverso controlli in
corso d’opera, sono stati accettati positivamente al collaudo.
È auspicabile che l’azione di restauro e di salvaguardia del patrimonio documentario custodito nell’Archivio di Stato di Ferrara possa contare anche sul contributo di altri enti e istituzioni sensibili alla conservazione delle memorie storiche
in un’era, qual è quella attuale, in cui se da un lato il cartaceo sta cedendo sempre
di più il passo ad altre forme di comunicazione e trasmissione delle informazioni
con i pericoli che l’uso delle nuove tecnologie comporta quanto a durevolezza
delle medesime, dall’altro, si rischia di non poter più leggere neanche le testimonianze delle epoche passate per ricostruirne la storia.
175
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Il “Cabreo (AB-265) del Borgo di Sant’Andrea”
presso l’Archivio di Stato di Rimini
Archivio di Stato di Rimini
Gianluca Braschi
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Rimini
Direttore:
Gianluca Braschi
Piazzetta San Bernardino, 1
47100 Rimini
Tel/Fax 0541 784474
[email protected]
176
La mostra “Porte Aperte all’Archivio di Stato: il territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea”, promossa ed ospitata dall’Archivio di Stato di Rimini dal 10 al 19 ottobre 2008 in collaborazione con l’Associazione “Quei de’
Borg ad Sant’Andrea”, segna una svolta, per così dire, epocale nella storia di
questo nostro Istituto che, istituito troppo di recente (1999), non può altrimenti vantare una lunga tradizione: è la prima volta che l’Archivio presenta le
proprie credenziali pubbliche alla città di Rimini.
In concomitanza con la mostra e nell’ambito della manifestazione “TERRANOSTRA. Quattro passi nella storia di Rimini”, cui l’Archivio ha partecipato
con varie istituzioni cittadine come il Museo della Città di Rimini, l’Istituto per
la Storia della Resistenza, la Biblioteca Comunale “Gambalunga”, è uscito il
volume di Oreste Delucca “I poderi della Ghirlandetta a Rimini: dai Malatesta
ai fratelli Davide e Luigi Fabbri”. Cofinanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il libro traccia una storia puntuale del territorio su cui poi,
nell’800, sarebbe sorta la fabbrica dei mattoni dei fratelli Fabbri a partire dai
primi testimoni di epoca malatestiana ai nostri giorni. È stato distribuito inoltre il DVD “C’era una volta, a Rimini la Fornace Fabbri” curato da Manuela Fabbri, che rappresenta il catalogo filmato della mostra tenutasi negli anni
passati presso il Museo della Città. Le ricerche documentarie effettuate
presso l’Archivio di Stato di Rimini, preliminari alle due pubblicazioni, hanno
portato alla luce il Cabreo numerato come [AB-265] nel fondo “Congregazioni Religiose Soppresse”, datato 1775 e denominato nell’inventario ottocentesco come “Terreni appartenenti ai Pavolotti di Rimini” relativo all’area
del Borgo di Sant’Andrea.
Purtroppo, la consultazione ha subito messo in evidenza il precario stato di
conservazione dello stesso, che è stato, comunque, riprodotto digitalmente
e messo in mostra. Grazie al finanziamento di due sponsor riminesi (TINA &
MARY e HOTEL MEMORY) è stato possibile restaurarlo. Ha provveduto al restauro integrale del documento il dott. Riccardo Bolognesi della Cooperativa
Sociale “Centofiori” onlus.
II volume si presentava con cucitura salda e coperta non particolarmente deteriorata o, comunque, in grado di assolvere la sua funzione di protezione delle
carte. I piatti della coperta risultavano deformati probabilmente a causa della
conservazione del volume in un luogo particolarmente umido. La pelle della coperta era mancante di varie porzioni di fiore e nel complesso risultava essere in
superficie. Tutti gli angoli avevano perso rigidità. La pelle del piatto anteriore presentava una piccola lacuna centrale provocata da rosura di insetti cosi come risultava leggermente intaccato anche il cartone sottostante. La pelle del morso
nella zona del piede posteriore era fessurata. Mancavano tutti i lacci in pelle allumata di chiusura del volume tranne quello anteriore lato testa.
Molte carte risultano essere incollate a causa della solubilizzazione della
vernicetta posta a protezione delle mappe colorate, solubilizzazione dovuta
probabilmente alla permanenza del volume in un luogo umido.
In particolare, le carte contrassegnate in collazione con i numeri 6v-7r con le
mappe rispettivamente di Santa Giustina e di Saludecio presentavano entrambe due notevoli strappi dovuti probabilmente al tentativo di apertura
delle carte incollate.
Le carte con i numeri 8v-9r, 10v-11r, 14v-15r, 16v-17r, 18v-19r, 22v-23r, 24v-25r,
26v-27r, risultavano incollate.
Le carte con le altre mappe presentavano numerosi distacchi provocati presumibilmente dall’apertura delle stesse dopo l’adesione anomala della vernicetta. Solo la mappa contrassegnata in collazione con il numero 48v-49r
(Verucchio) si presentava in buone condizioni.
Il filo di cucitura era spezzato fra le carte 38v-39r.
Sono stati, pertanto, effettuati i seguenti interventi:
Il distacco delle carte incollate mediante solubilizzazione della vernicetta attraverso impacchi di alcol etilico 50% e acqua 50% (l’intervento non ha potuto
eliminare completamente le macchie dovute al precedente assorbimento del
pigmento fra le fibre della carta).
Nelle carte che presentavano mappe con lacune di colore dovuto presumibilmente ad una forzatura in apertura, si è provveduto al distacco dei frammenti
dalla pagina opposta con impacchi di acqua e alcol al 50% e successiva riapplicazione nelle rispettive mancanze, utilizzando come adesivo la Tylose MH
300p.
Dopo avere riposizionato i frammenti nelle zone di distacco si è provveduto
a uniformare ad acquerello le piccole mancanze di colore per le quali non è
stato trovato il frammento corrispondente.
È stata ripristinata la cucitura fra le carte 38v -39r.
Il volume è stato condizionato con dei pesi e degli spessori per fargli riassumere la forma originaria corretta.
La coperta in pelle è stata parzialmente distaccata per permettere:
– il rinsaldo degli angoli effettuato con iniezioni di Tylose MH 300P al 2%
circa;
– il risarcimento della lacuna nel piatto anteriore con un frammento di pelle
nuova;
– colorata con anilina ed incollata con Tylose MH 300P al 6% addizionata con
10% di vinavil 59;
177
– il risarcimento della rosura nel sottostante cartone con stucco di cellulosa
in Tylose MH300p al 6%;
– la riadesione della fessurazione al morso con brachetta di carta giapponese incollata su tela di cotone adesa con Tylose MH 300P al 6% e 10% di vinavil 59;
ripristino dei lacci di legatura con pelle allumata nuova.
Esternamente sono state incollate con Tylose MH 300p al 6% le porzioni di
fibre distaccate e dove mancanti è stata ristabilita l’uniformità cromatica con
limitate riprese ad acquerello.
Per limitare gli eventuali danni dovuti ad un immagazzinamento in condizioni
climatiche critiche si è provveduto a montare tra i bifili dipinti, dei fogli di
carta giapponese da 11gr/mq fissati con 3 punti di Tylose MH 300p al 6% che
potranno essere eliminati con estrema facilità.
Si è optato per questa soluzione in quanto l’introduzione di fogli di maggiore
spessore avrebbe fatto aumentare eccessivamente lo spessore del corpo
delle carte con conseguente tensione anomala sulla coperta.
Tutti gli interventi sono stati documentati fotograficamente.
Completato il restauro, il documento è stato rimesso in consultazione ed esposto.
È allo studio la possibilità di riprodurlo digitalmente per ulteriori ricerche.
178
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma:
un piano strategico di restauro
È risaputo tra gli studiosi che a Parma, presso la Biblioteca Palatina, è conservata una ragguardevole raccolta di antiche testimonianze cartografiche; nel
1907 la città aveva ospitato il I Congresso della Società Italiana per il progresso
delle Scienze e in quell’occasione era stata allestita nelle sale della Biblioteca
un’esposizione di carte nautiche, atlanti e portolani presenti a Parma e Piacenza; nel 1978 ben dodici carte nautiche della Palatina erano state censite da
Pietro Frabetti nel suo studio sistematico (Carte nautiche italiane dal XIV al XVII
secolo conservate in Emilia Romagna, Firenze 1978), ancor oggi valido strumento di valutazione scientifica; nel settembre 1979 era stata organizzata di
concerto con l’Archivio di Stato di Parma la mostra storico-documentaria “Il
territorio rappresentato”, nella quale, in concomitanza con il XV Convegno
Nazionale di Cartografia, erano stati proposti temi e problemi della cartografia
nelle collezioni pubbliche parmensi dei secoli XIV-XIX.
Questo patrimonio, fortemente suggestivo, popolato da velieri, teste di uomini
soffianti, guerrieri, città turrite, tende, animali fantastici e bandiere sventolanti tra
rotte marittime, rose dei venti e località costiere, che documenta le conoscenze
pratiche, frutto di esperienze personali di marinai, mercanti ed esploratori, unite
alle informazioni fantasiose e alle credenze leggendarie della cultura contemporanea, non era noto tuttavia al grande pubblico. Nell’intento di promuoverne la
conoscenza e di valorizzarlo adeguatamente, è stata programmata per la primavera del 2009 in collaborazione con il FAI una mostra nella quale saranno presentate tutte le carte nautiche appartenenti alla Biblioteca Palatina, comprese le due
carte, una di Matteo Griusco (Ms. parm. 1617) e una di Diogo Homem (Ms. pal.
0), trascurate dal Frabetti.
Grazie a un felice connubbio tra risorse finanziarie pubbliche e private, con la direzione della scrivente, competente nel campo del restauro, e la professionalità
di un laboratorio esterno, al quale è stata affidata l’esecuzione dei lavori (lo Studio Paolo Crisostomi di Roma), si è realizzato il risanamento dell’intera raccolta
con l’adozione di soluzioni conservative innovative.
Dieci carte nautiche (Mss. parm. 1612-1621) figurano entrate nella Bibliotheca
Parmensis nel primo periodo della sua istituzione con Paolo Maria Paciaudi
(1710-1785), successivamente le altre: una entrata nel 1840 apparteneva al
Marchese Francesco Albergati Capacelli (Ms. parm. 1624), mentre la carta di
Homem fu acquisita con l’intero Fondo Palatino dei Borbone Parma nel 1865,
e, persosi l’antico numero di inventario (Pal. 40), fu elencata tra i cimeli con
nuova segnatura. Tutte queste carte nautiche furono affidate da Paciaudi a
Louis Antoine Laferté, legatore di corte, che le organizzò, quelle singole, ripiegandole in due o tre e incollandole ai cartoni di cartelle ricoperte in cuoio
marezzato; quelle multiple degli atlanti, ripiegandole in due e incollandole
metà dell’una alla metà dell’altra, verso contro verso, in una struttura a libro,
con le prime e ultime metà tavole utilizzate spesso come controguardie e
con uguale coperta; solo per l’Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm.
1616) fu mantenuta la legatura originale in marocchino rosso con super libros
della famiglia Gonzaga; su tutti i piatti anteriori venne impresso in oro il super
libros della Biblioteca con i tre gigli borbonici. Dei successivi acquisti, due
rimasero arrotolate (Mss. parm. 1622-1623), una (Ms. parm. 1624) conservò
la struttura a libro con coperta coeva su assi decorati a secco, mentre la carta
di Homem in cornice rimase appesa per oltre cent’anni ad una parete della
Direzione.
Biblioteca Palatina
Silvana Gorreri
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
Direzione Generale
per i Beni Librari,
gli Istituti Culturali
ed il Diritto d’Autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 3216779
Fax 06 3216437
[email protected]
Biblioteca Palatina
Direttore:
Andrea De Pasquale
Strada alla Pilotta, 3
43100 Parma
Tel. 0521 220411
Fax 0521 235662
[email protected]
179
Ancora nel 1907 è testimoniato che la Carta nautica di Francesco e Domenico Pizigano del 1367 (Ms. parm. 1612) conservava l’assetto settecentesco, ma negli
anni a seguire fu la sola ad essere staccata dai cartoni della grande cartella e a
conservarsi arrotolata in un grosso cilindro in cartone; nel 2007 fu oggetto di un
importante intervento di restauro, del quale si è dato conto nell’edizione ministeriale di Restaura di quell’anno a Venezia.
Un esame della situazione nella sua globalità palesava che non era idonea né la
sistemazione settecentesca a cartella o a libro, che aveva determinato lacerazioni
nelle linee di piegatura delle tavole, parziale distacco della pergamena dai cartoni, e a volte grossi strappi per l’eccessiva tensione meccanica conseguente all’apertura dei lembi ripiegati, gore da colla e generalizzate erosioni da anobidi,
acidità da tannino nei punti di rimbocco della pelle della coperta; né offriva garanzia di migliore stoccaggio il condizionamento a volumen: tagli, strappi e lacune marginali per movimentazioni meccaniche, erosioni da roditore,
ondulazioni del supporto diventato nel tempo oltremodo rigido e srotolabile
con difficoltà, cadute di colore per le abrasioni prodotte dalle mani nello srotolamento e per le sollecitazioni meccaniche conseguenti alla posizione srotolata
forzata nella consultazione.
Era necessario intervenire quindi al loro restauro (distacco dai cartoni di tutte le
tavole, test di solubilità e fissaggio, ammorbidimento, distensione su telaio con
barre magnetiche, asciugatura a temperatura ambiente, risarcimento delle lacune); ma era fondamentale soprattutto adottare una corretta metodologia di
conservazione; si optava per una sistemazione delle varie tavole distese singolarmente in cartelline in carta Barriera Japico con riserva alcalina; per il mantenimento di ogni unità bibliografica con l’allestimento di una cartella in tela Bukram
verde per le carte nautiche singole comprensiva anche delle loro cartelle, se
preesistenti; con l’esecuzione di una custodia rigida, sempre in tela Buckram
verde, caratterizzante l’intera raccolta, a contenimento di tavole e vecchia coperta per le strutture a libro: una metodologia di conservazione, che non richiede
forzature di apertura nella consultazione e che favorisce la visione contemporanea delle tavole degli atlanti, senza perdere informazioni sul pregresso; anzi, oltremodo interessante è stato il rinvenimento all’interno delle tavole incollate tra
loro dell’Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm. 1614) di ulteriori quattro tavole cartacee con contorni costieri disegnati, scoperta ancora in fase di studio.
180
Paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma:
inediti dal restauro
Corrado Azzollini, Luciano Serchia
I lavori di restauro al Palazzo Ducale di Parma (noto anche come “Palazzo del
Giardino”), sono iniziati nel novembre 2007, grazie ad un finanziamento straordinario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nell’ambito della Programmazione Lotto del triennio 2004-2006 di cui alla Legge n.662 del 1996.
L’intervento è curato dalla Direzione Regionale per i Beni e le Attività Culturali
dell’Emilia Romagna, progettato e diretto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Parma e Piacenza.
I lavori sono stati aggiudicati mediante selezione con procedura aperta a cui
hanno partecipato circa 60 ditte. Il consorzio CIPEA, vincitore dell’appalto, ha poi
indicato quale Impresa consorziata, esecutrice dei lavori, la Idroter con sede in
S. Lazzaro di Savena (BO).
L’importo complessivo del progetto di restauro ammonta a circa 750.000,00 euro,
distribuito su due annualità finanziarie (2004 e 2006), che prevedevano interventi
sulla facciata sud, nell’atrio a piano terra, nello scalone d’onore e nelle salette poste
a nord del piano terra. Nel campo del restauro, la necessità inderogabile di dover
affrontare le tante problematiche legate all’intervento - da quelle storiche, artistiche,
estetiche, a quelle tecnologiche, nonché della necessaria valutazione dei possibili
effetti futuri di un intervento dilatabile nel tempo - impone di seguire alcuni principi
operativi, quali quelli di reversibilità, compatibilità e minimo intervento, che non
hanno equivalenza in altri settori, sebbene tecnologicamente più avanzati. Spesso,
purtroppo, i soggetti concessionari di grandi opere di restauro, sembrano privilegiare un atteggiamento “produttivistico”, a scapito del raggiungimento di un livello
accettabile di qualità, fattore essenziale per il buon andamento del cantiere di restauro. Nel caso specifico, l’organizzazione e le dimensioni “artigianali” della Ditta
esecutrice dei restauri pittorici hanno permesso il mantenimento di un buon livello
di qualità. Gli interventi di descialbo, effettuati nelle salette a piano terra, hanno rivelato la presenza di importanti affreschi, pertanto, in accordo con il progettista e
direttore dei lavori, si è deciso di intervenire con una variante in corso d’opera e un
contestuale recupero del ribasso d’asta, per poter meglio ridefinire anche il restauro
delle due salette affrescate. Come quasi tutti i cantieri di restauro che si rispettino,
anche quello in questione si sta rivelando una preziosa fonte di informazioni sia di
carattere storico che tecnico, riferibili non soltanto al monumento oggetto di restauro
ma, più in generale alla storia dell’arte e alle caratteristiche costruttive e decorative
dell’epoca.
Nel cantiere in argomento, vero e proprio cantiere di progetto, grazie alle possibilità
offerte dall’attuale normativa sui lavori pubblici, in particolare gli articoli riguardanti
il settore dei Beni Culturali, si è potuto “aggiornare” il progetto, modificandolo, di
volta in volta, in ragione delle “scoperte” che venivano alla luce. (C. A)
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le le Province
di Parma e Piacenza
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’EMILIA-ROMAGNA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
dell’Emilia-Romagna
Direttore Regionale:
Carla Di Francesco
Coordinatore
per la Comunicazione:
Paola Monari
Via S. Isaia, 20
40123 Bologna
Tel. 051 3397011
Fax 051 3397077
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
per le Province
di Parma e Piacenza
Soprintendente:
Giorgio Cozzolino
Via Bodoni, 6 Parma
Tel. 0521 213311
Fax 0039 0521 212390
[email protected]
I restauri da me diretti e tuttora in corso nella cinquecentesca residenza ducale
del Giardino di Parma, voluta dal duca Ottavio Farnese, hanno portato alla luce
nelle due sale del piano terra: la Camera degli uccelli e la Camera dei paesaggi
con architetture interessanti affreschi con paesaggi.
Le decorazioni ritrovate connotano questi due ambienti come vere e proprie
stanze-paese ante-litteram, poiché la narrazione dipinta, oltre a proporre
un’ariosa ambientazione naturalistica nella dilatazione del campo visivo, con luminosi paesaggi dagli orizzonti lontani, coinvolge lo spazio, distendendosi dalla
volta alle pareti con una rappresentazione continua che riveste completamente
la superficie muraria e nega gli elementi architettonici.
181
Il tema della “stanza paese”, ossia il giardino in una stanza, cui si dedicheranno,
con esiti di indiscussa qualità, numerosi pittori sul volgere del Settecento, ha una
antica tradizione e origini remote nella cultura romana, con riferimenti espliciti già
nel trattato di Vitruvio. Il teorico dell’età augustea suggeriva di dipingere “porti,
promontori, spiagge, fiumi, fonti, rocce, villaggi, monti...”. Quelli dipinti sulle pareti della Camera degli Uccelli del Palazzo del Giardino sono paesaggi fluviali
resi con una sapiente esecuzione delle architetture e della veridicità botanica
della vegetazione.
Particolarmente interessante è l’impaginazione dello spazio sulla parete verso
l’ingresso principale. La trama disegnativa e lo stesso programma iconografico
denunciano un’invenzione colta e ricercata in cui il paesaggio non è citazione
erudita o divagazione fantastica. Il paesaggio è, tema ancora raro, condotto su
modelli di cultura figurativa che coniugano suggestioni fiamminghe a elementi
di cultura decorativa di ambito romano. Dagli affreschi recuperati si evince che
il paesaggio si sviluppava maestosamente sulla volta, su tutte quattro le pareti e,
su quella fra le due finestre, con invenzioni di seducente bellezza. Il pittore ha
infatti impaginato la scena con un unico, arioso paesaggio, attraversato da un
fiume e popolato da alberi in un lussureggiante giardino, nell’esibita, implicita celebrazione della natura e dell’acqua, arricchendola con inserti architettonici, con
cavalli e popolandone il cielo con volatili dai colori vibranti. Ai due successivi interventi del XVII e del XVIII secolo si devono le decorazioni emerse lungo gli
sguinci delle finestre, in origine più piccole di quelle attuali, sia nella Camera
degli Uccelli, sia nella Camera dei paesaggi con architetture.
Si tratta di un fregio di verdi racemi che si intrecciano scivolando lungo la parete
e di un più articolato fregio a volute, interrotte da grandi medaglie che, sulla volta,
simulano uno sfondato architettonico. Il Palazzo del Giardino è stato infatti interessato da interventi di ristrutturazione riferibili a due differenti ambiti cronologici.
La prima profonda modifica della delizia farnesiana avvenne verosimilmente
entro gli anni ottanta del Seicento, voluta dal duca Ranuccio II Farnese dopo il relativo disinteresse per gli interventi architettonici manifestato da suo padre Odoardo. A questa fase risale l’apparato decorativo lungo gli sguinci delle finestre.
Sono invece riconducibili alla seconda fase, quella settecentesca post farnesiana
e all’epoca dell’architetto di corte E. Alexandre Petitot, altri lavori, avvenuti intorno
al 1767, in seguito ai quali sono state ampliate le finestre degli ambienti terreni e
occultati sia le pitture di paesaggio sulle pareti sia l’appartato decorativo seicentesco lungo gli sguinci.
La qualità e la sapienza descrittiva con le quali l’artista ha reso le fronde degli alberi mosse dal vento, ottenute con un gioco di tocchi leggeri, la luminosità del
cielo nel quale volano uccelli variopinti, gli inserti architettonici ben visibili sulla
parete sulla quale si riconosce anche il disegno di una recinzione con inserti floreali, ed altre tracce di decorativismo architettonico illusionistico connotano questo ambiente, nonostante le ampie lacune, nella complessità della narrazione,
con il prestigio e l’appeal di una decorazione preziosa ed esclusiva. I restauri
confermano la sfolgorante bellezza di questi paesaggi che avevano ammagliato
i viaggiatori stranieri in visita a Parma ben prima delle ampie ristrutturazioni condotte dall’architetto E. Alexandre Petitot, per Ferdinando di Borbone (17511802), nella seconda metà del Settecento.
Anche le decorazioni venute alla luce nella Camera dei paesaggi con architetture,
invadono interamente la superficie muraria, distendendosi dalla volta lungo le
pareti. Si tratta di un’acquisizione di indubbia rilevanza scientifica. Anche in questo caso, come nella Camera degli uccelli, il paesaggio non è subordinato o parte
integrante della scena principale, ma esso stesso protagonista. Il cielo aperto
con soffici nubi, i bellissimi uccelli in volo presenti in entrambe le sale, le archi-
182
Palazzo del Giardino,camera
degli uccelli. Particolare
tetture e gli specchi d’acqua oltre alle fronde leggere degli alberi resi con pennellate di tocco, sono del tutto confacenti a un luogo di delizia e in linea con
quanto suggeriva Leon Battista Alberti.
A seguito di questi lavori si aprono nuove prospettive. Il Palazzo del Giardino si
configura come realtà architettonica unitaria, al cui interno tuttavia sono documentati dalle fonti e si individuano tempi e aspetti della vicenda architettonica
e della decorazione differenti per cronologia, per provenienza geografica e ambito culturale degli artisti. (L. S.)
Il restauro
L’intervento di restauro nella Camera degli Uccelli, condotto da Felsina Restauri srl,
ha comportato la demolizione del muro che divideva questo ambiente, premessa necessaria alla rimozione dei vari strati di intonaco e di colore che ricoprivano interamente gli affreschi. Dopo il consolidamento dell’intradosso con
iniezioni di acqua di calce e primal diluito in acqua, e l’inietto di malta tipo ledan,
si sono fissate le pitture su un supporto più solido. È stata effettuata la pulitura
della leggera pellicola bianca che ricopriva le pitture con acido acetico e abbondanti risciacqui. Il fissaggio del colore è stato realizzato con prodotti reversibili, si sono stese le neutre a base di albazzana nelle zone in cui l’affresco era
del tutto scomparso, mantenendo lo stesso livello fra pittura e “neutra” con restauro finale ad acquerello e fissaggio generale.
Nella Camera delle architetture dipinte, ove il restauro è ancora in corso, l’intervento è stato preceduto dalla rimozione della parete divisoria, dall’apertura dell’originario accesso di comunicazione con l’ambiente contiguo e
dall’asportazione dello spesso strato di intonaco che ricopriva interamente le
pareti e gli affreschi. Per la fase di consolidamento, la procedura e i materiali utilizzati sono gli stessi di quelli utilizzati nell’operazione condotta nella Camera
degli Uccelli. (L. S.)
183
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici per le Province
di Bologna, Modena e Reggio-Emilia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
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Architettonici e Paesaggistici
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184
Il Duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”.
Restauro del paramento lapideo
Il restauro come opportunità di studio e approfondimento del duomo, iscritto
nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: analisi delle forme di degrado
lapideo, acquisizione e mappatura dei litotipi, approfondimento scientifico sui
restauri e le loro interazioni con le metodologie odierne.
Graziella Polidori
La caduta di una porzione di materiale lapideo dal Duomo di Modena, in corrispondenza della cornice dello spiovente destro del tetto della facciata, ha determinato l’avvio, da parte della Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia, di una serie di
indagini scientifiche sullo stato di conservazione delle strutture del Duomo.
Le indagini petrografiche, chimico-fisiche e la ricostruzione storica degli eventi hanno
permesso di sviluppare l’intervento di restauro sulla facciata e successivamente sul
lato settentrionale, dove i lavori sono potuti continuare – e sono in parte ancora in
corso - con finanziamenti della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
È stato appena avviato sempre a cura della Soprintendenza BAC il cantiere di restauro del lato meridionale del Duomo, su piazza Grande. Gli interventi da realizzare sul paramento lapideo articolato nelle fasi canoniche di pulitura,
consolidamento e eventuale protezione, saranno preceduti come consuetudine
dalla fase propedeutica di documentazione e di ricerca e da una serie di indagini
tecnico scientifiche.
Questa fase propedeutica di documentazione e di ricerca, in relazione ai lavori
della facciata e del lato settentrionale, ha permesso di acquisire dati ad oggi sconosciuti mediante lo sviluppo di rilievi grafici per l’identificazione litotipica dei
singoli elementi costituenti il paramento lapideo del Duomo. I rilievi fotografici
generali e particolareggiati e la mappatura grafica delle forme di degrado hanno
permesso di catalogare le varie pietre in base alla natura dei processi degenerativi
riscontrati. Insieme alle ricerche d’archivio tendenti a risalire agli eventuali trattamenti subiti in passato ed alle indagini chimico-fisiche finalizzate alla caratterizzazione composizionale dei prodotti del degrado ed al loro legame con gli
ultimi interventi di restauro, si è ottenuta la documentazione necessaria per sviluppare gli interventi in atto.
A soli 30 anni dall’ultimo intervento, si potevano osservare forme degenerative
quali decoesioni, erosioni ed esfoliazioni dei materiali costitutivi, croste nere,
dilavamenti, e alterazioni cromatiche. Oltre a vaste zone lapidee ricostruite con
malte cementizie e stucchi sintetici, si individuavano anche zone interessate da
disomogenee patinature alterate e viranti in gialli traslucidi, originati dalla polimerizzazione delle resine sintetiche e delle cere utilizzate come protettivi.
Le analisi scientifiche condotte su 78 prelievi (sia sulla facciata che sul lato settentrionale), hanno permesso di identificare patine sovrapposte alla pietra naturale formate da quantità variabili di gesso e ossalati, nonché il riconoscimento
chimico delle sostanze organiche ed inorganiche, con particolare riferimento ai
leganti, alle sostanze e ai materiali usati nei precedenti restauri.
Il principale degrado riscontrato sulla facciata e sul lato settentrionale era costituito dalla mancanza di traspirabilità da parte della pietra che risultava più o
meno accentuato a seconda della densità del litotipo interessato. In particolare
la ricostruzione storica degli eventi ha permesso di appurare che il lato settentrionale del Duomo era stato segnato da numerose sostituzioni lapidee con elementi in pietra tenera di Vicenza, a grana fine, a differenza della facciata
caratterizzata per lo più dalla stessa pietra di Vicenza ma a grana grossa. La di-
versa esposizione all’atmosfera (lato settentrionale e lato ovest della facciata ) e
la diversa tessitura porosa della pietra hanno reso la stessa più o meno permeabile all’acqua, accentuando i processi di alterazione e disgregazione materica.
Tutte le superfici si presentavano diffusamente coperte da depositi superficiali
e particellato atmosferico che nascondevano la tessitura muraria, rendendo fino
ad oggi non identificabile la mappatura dettagliata dei litotipi, degenerando
quindi in croste nere di elevato spessore nelle zone più protette dal dilavamento,
e causando distacchi di porzioni lapidee, in particolare quelle aggettanti più
soggette ad infiltrazioni. L’eccessivo apporto di cemento e di malte incongrue,
la stesura sulla superficie di resine sintetiche e la ricostruzione di ampie porzioni
lapidee con stuccature incompatibili con la pietra originale hanno contribuito, insieme alle croste nere, ad una migrazione dei sali verso le superfici limitrofe determinando la disgregazione della pietra sana sottoforma di distacchi ed
esfoliazione. L’attacco microbiologico, concentrato in particolare sulle parti esposte a nord, sia sulla superficie dei torrini sia sulla statua marmorea sommitale posta
in facciata, costituiva una spessa patina verde-nerastra con formazione di colonie
di muschi.
In occasione del sopralluogo effettuato dall’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro sono emerse osservazioni interessanti in merito allo stato
conservativo del paramento lapideo prima dell’attuale intervento. Stranamente le
parti protette della facciata e del lato settentrionale, sia lisce sia modellate (sotto
mensole e retro delle colonne) risultavano prive di depositi coerenti e croste
nere a differenza del paramento laterizio interno alle archeggiature. Le foto prima
del restauro degli anni ’70-80, mettono in evidenza il completo annerimento del
lato settentrionale (via Lanfranco) su cui si è intervenuti negli anni citati con im-
185
pacchi di pulitura di AB57, ad esclusione della parete della navata centrale . La
differenziazione attuale di queste due zone, interessate quindi da vicende conservative diverse, hanno messo in evidenza che la superficie lapidea restaurata
negli anni 80 ha avuto un intervento di restauro forse troppo aggressivo come
emerge dalla scabrosità della superficie lapidea . I riscontri ottenuti successivamente con le indagini scientifiche eseguite proprio per la identificazione dei
processi di degrado in atto hanno confermato tale ipotesi.
Infatti un prelievo eseguito su lastra di Pietra di Vicenza caratterizzata da superficie scabra con rigature e microcavità irregolari ha messo in evidenza un incipiente fenomeno di solfatazione: la consistente concentrazione di solfati pari a
1,74% e la presenza di un’alta percentuale di ione ammonio sono imputabili all’utilizzo di una sostanza corrosiva che potrebbe aver provocato una forte aggressione della pietra.
Anche la relazione dell’ISCR, trasmessa alla Soprintendenza BAP a riscontro del
sopralluogo eseguito, sottolinea che “…la pulitura dai depositi accumulatisi
dopo l’ultimo restauro, abbia rimesso in luce una superficie lapidea scabra per
sua natura e localmente corrosa da forme di degrado non recenti forse da imputare a precedenti interventi”. Nella citata relazione oltre ai consigli tecnici dati in
occasione del sopralluogo, vengono valutate in “maniera largamente positiva” alcune metodologie del restauro attuale, sottolineando la “qualità estetica delle
stuccature eseguite e gli interventi di consolidamento sul rosone e sulle lastre
della cornice del tetto”.
Ulteriori analisi stratigrafiche hanno messo in luce la presenza in diverse zone del
paramento lapideo di una scialbatura a base di calce pigmentata stesa anche al
di sopra di residui di crosta nera probabilmente al fine di coprire alcuni non soddisfacenti risultati della pulitura e di rendere omogeneo il risultato estetico finale.
Ritornando ai processi di degrado riscontrati e campionati durante la fase diagnostica, ben più grave si presentava lo stato conservativo degli elementi in
arenaria, in particolare del rosone nel semicerchio inferiore completamente
ricostruito nell’800; questo tipo di arenaria “formazione di pantano” ha subito
numerosi interventi di restauro che comunque non sono riusciti ad arginare il
problema. L’arenaria si presentava con profonde spaccature, disgregazione e
distacchi in corrispondenza delle vecchie stuccature a base di resina sintetica;
delaminazione del substrato e interi conci sollevati senza più continuità materica; presenza di piante infestanti. Il degrado materico in cui versava l’arenaria del rosone ha reso indispensabile un lungo e meticoloso intervento di
consolidamento volto a ridare al substrato incoerente la compattezza perduta.
Il recupero della coesione materica ha condotto alla successiva eliminazione
di vecchi interventi di restauro causa di ulteriore degrado, quali resine sintetiche e malte non più idonee e coerenti. A differenza di molti interventi di restauro indirizzati verso la ricostruzione di quei modanati architettonici che
per varie concause sono andati perduti, si è preferito non interferire ulteriormente con malte riportate o ricostruzioni arbitrarie. Limitando l’intervento alla
sola chiusura delle vie d’infiltrazione di acqua, si è preferito mantenere per
quanto possibile l’immagine originale del rosone con l’itinerario storico degli
eventi che l’hanno accompagnato e degli interventi a cui è stato sottoposto.
Di natura più strutturale è stato l’intervento che ha riguardato il cornicione in
pietra di Vicenza e le torrette sommitali. Il cornicione soggetto a continue infiltrazioni di acqua piovana è stato ancorato nelle parti disgregate e successivamente migliorata la protezione superiore. Per quanto riguarda le torrette
soggette a disgregazione materica per la natura marmorea della pietra utilizzata sono stati studiati dei rinforzi esterni in acciaio inox per aiutare le colonnine e le lastre superiori nella loro funzione strutturale.
186
Il restauro delle superfici del paramento e degli ornati ha previsto una prima fase
di preconsolidamento realizzata su quelle porzioni lapidee con avanzati fenomeni di disgregazione, esfoliazione e scagliatura a cui è seguita la messa in sicurezza di scaglie, schegge e frammenti di maggiori dimensioni. Le zone interessate
da patine biologiche, concrezioni di muschi e licheni, sono state trattate con soluzioni biocide idonee scelte dopo l’individuazione dell’agente patogeno. Le
stuccature apportate nel corso dei restauri precedenti sono state accuratamente
verificate rimuovendo solo quelle che non assicuravano più una perfetta chiusura
della lacuna e sostituendole con impasti costituiti da calce idraulica esente da sali
ed inerti a granulometria e composizione variabile, a seconda del litotipo da
reintegrare. La pulitura del paramento lapideo e la rimozione delle vecchie resine
sono state calibrate attraverso l’integrazione di diverse tecniche, a seconda del
litotipo su cui si operava e a seconda del degrado riscontrato, in modo tale da
non intaccare o rimuovere quegli strati di finitura della pietra originali o apportati
successivamente ma non dannosi per la conservazione lapidea. I prodotti utilizzati per l’attuale restauro sono stati oggetto di un’accurata campagna di analisi
chimiche condotta sia in laboratorio che in cantiere.Le campionature hanno preso
in esame tutti i litotipi costituenti il paramento lapideo analizzando non solo la
profondità di penetrazione dei consolidanti ma anche la loro reazione in relazione alla traspirabilità ed alla permeabilità. In considerazione delle alterazioni
che gli attuali prodotti sintetici presenti sul mercato possono subire con il normale invecchiamento, abbiamo preferito utilizzare materiali conosciuti e utilizzati
nel campo del restauro da anni, i cui risultati sono ancora oggi visibili su importanti monumenti, limitandone comunque l’utilizzo in funzione della reale necessità riscontrata dalle analisi di laboratorio.
Di tutto l’intervento di restauro sono stati sviluppati una serie di rilievi grafici che
riportano l’esatta localizzazione degli interventi con le specifiche chimiche dei
materiali utilizzati e le relative schede tecniche al fine di lasciare ai posteri tutta
la documentazione necessaria per futuri interventi.
A seguito delle lesioni riscontrate nella zona dei matronei di facciata, il Comitato
Scientifico del Duomo, istituito per valutare lo stato fisico della struttura, sta valutando gli opportuni interventi di consolidamento strutturale necessari che dovranno poi essere sottoposti all’autorizzazione della Soprintendenza bolognese.
Il Comitato dovrà affrontare anche il tema della salvaguardia del bene dal rischio
sismico poiché, è noto che del nostro patrimonio culturale, e quindi anche del
Duomo, sappiamo qualcosa sullo stato di conservazione, ma quasi nulla sul
modo di preservarlo. A tale proposito l’azione del Comitato dovrà mirare ad
un’adeguata attività conoscitiva della fabbrica del Duomo per garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione. Per affrontare questo argomento sono di grande aiuto le “Linee Guida per la valutazione e riduzione del
rischio sismico del Patrimonio culturale” definite dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (riportate nella Direttiva P.C.M. 12 ottobre 2007) che consentono di
agire in modo metodologicamente corretto.
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Il restauro della chiesa del SS. Salvatore a Bologna
Antonella Ranaldi
La Soprintendenza BAP ha concluso nel 2008 il restauro dell’interno della chiesa del
SS. Salvatore, proprietà demaniale del Fondo Edifici di Culto, sita a Bologna lungo
l’antica via dell’Asse (attuale via IV Novembre). Il restauro è stato impostato nel
2000 ed è stato portato avanti anno per anno, per lotti successivi, grazie ai fondi
della programmazione ordinaria del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, suddivisi in sei lotti di intervento. La Soprintendenza si era presa cura di questo importante monumento già a partire degli anni Ottanta, con interventi che, sebbene non
siano visibili, costituiscono il presupposto degli ultimi restauri. Si pose mano a partire dal 1984 al consolidamento delle volte e alla sistemazione dell’intera copertura,
assicurando la stabilità complessiva e agendo sulle cause delle gravose infiltrazioni
d’acqua che provenivano dal tetto a danno degli intonaci interni nella parte alta,
localmente ammalorati con visibili macchie nei punti di infiltrazione. Furono inoltre
sostituite le grandi vetrate dei finestroni con nuovi infissi.
L’interno si presentava prima del restauro uniformemente di colore verde-marrone;
presumibilmente si trattava della tinteggiatura realizzata dall’Intendenza di Finanza
nel 1899, o al più tardi tra gli anni Venti e Trenta, quando vennero rinnovati gli altari.
Questa coloritura si presentava scurita dai depositi che si erano aggiunti nel tempo;
le infiltrazioni dal tetto avevano inoltre causato la formazione di macchie di umidità.
L’aspetto complessivo e il diffuso degrado compromettevano la resa spaziale dell’architettura, nell’insieme luminosa e ariosa. Sfondati, membrature, risalti, partiture
e decorazioni erano in modo uniforme coperti da un colore pesante e omogeneo,
scurito dal tempo. Il restauro è stato esteso a tutte le superfici interne con trattamenti
complessi di descialbatura e consolidamento degli stucchi e degli intonaci antichi,
che ha permesso di approfondire tra l’altro la conoscenza di tecniche di esecuzione
dei trattamenti superficiali, di per sé singolari, di scialbatura delle superfici interne
su un intonaco di fondo che si presenta finito a cocciopesto.
Giovanni Ambrogio Mazenta, architetto milanese dell’ordine barnabita, è l’autore
del progetto della chiesa, realizzata dal 1605 al 1623 dai Canonici Regolari del
SS. Salvatore, che avevano sede nell’annesso convento. L’interno si caratterizza
nella composizione della navata ad aula unica con cappelle laterali, dove risaltano le maestose colonne a tutto tondo che scandiscono il ritmo della navata,
aprendo la strada a motivi che saranno sviluppati in modo ancor più scenografico
nell’architettura barocca, come nel successivo esempio della chiesa romana di
Santa Maria in Campitelli di Carlo Rainaldi. Per la soluzione della navata con colonne estroflesse, Mazenta aveva preso a modello le aule degli esempi antichi
della basilica di Massenzio e delle terme di Diocleziano. La rimessa in luce delle
coloriture originarie meglio valorizza la percezione dell’interno, riferibile nella
resa dello spazio agli antichi esempi a cui l’architetto si era ispirato, quali potevano solo immaginarsi, riproposti in questa architettura composta ma innovativa
dei primi decenni del Seicento. Le colonne scandiscono il ritmo della navata secondo il passo delle cappelle laterali; quella centrale più larga è a tutta altezza
come la crociera della volta dell’aula, conferendo alla navata un’idea di centralità
e di dilatazione del tutto nuova. Se ad Ambrogio Mazenta, che era stato anche
l’architetto della vicina chiesa barnabita di San Paolo e del rinnovamento seicentesco della cattedrale bolognese di San Pietro, spettano l’ideazione e la difesa
del progetto contro le critiche mosse ai suoi tempi, al bolognese Tommaso Martelli, nominato nei documenti architetto della fabbrica, si deve la realizzazione.
Le statue e i capitelli che ornano l’interno furono eseguiti da Giovanni Tedeschi;
le statue sulla facciata da Orazio Provaglia.
Un altro felice ritrovamento è stato quello delle finiture in oro delle statue e degli
apparati decorativi nella cappella Orsoni, come anche sono state rimesse in luce
le finiture in stucco e oro e le coloriture in finto marmo rosso e azzurro dei coretti
aggiunti nel Settecento, anch’essi irriconoscibili perché coperti dalla stessa tinta
verde-marrone data sul resto della chiesa.
Nel corso del restauro è stato inoltre affrontato il problema dell’umidità, dovuto
alla risalita dell’acqua dal terreno, per la presenza di un canale che corre nel sottosuolo. L’acqua arrivava per risalita capillare ad un’altezza di ca. m. 1,50 su tutte
le murature, con la formazione di evidenti efflorescenze, esfoliazioni e distacchi,
con il risultato che nel giro di poco tempo si sarebbe presentato lo stesso problema anche dopo il restauro. Si è pensato al modo meno invasivo di intervenire,
utilizzando dei piccoli apparecchi alimentati ad elettricità, se ne sono utilizzati
5 a coprire l’intera superficie della chiesa di ca. mq. 1.800; essi creano un campo
elettro-magnetico che impedisce la risalita dell’acqua agendo su un raggio di 15
metri. Sulla scorta dei risultati raggiunti si è potuto verificare l’abbattimento del
contenuto dell’acqua pari all’80% rispetto al dato iniziale. Si sono salvati in questo modo gli intonaci della parti basse, dove è più facile che cada l’occhio, evitando il formarsi di efflorescenze e di esfoliazioni. Per ultimo si sono rimontati gli
storici lampadari in vetro di Murano, di cui si aveva testimonianza in alcune fotografie degli anni Cinquanta. Questi erano stati smontati e smembrati in tanti
pezzi e accatastati in alcuni scatoloni. Il rimontaggio non è stato affatto facile,
ma sulla scorta delle fotografie se ne è venuti a capo, grazie alla pazienza dei restauratori che vi hanno lavorato. Sono in tutto otto, sei collocati davanti a ciascuna
cappella, gli altri due ai lati dell’altare maggiore. L’effetto di luce e atmosfera che
essi creano non ha eguali e porta anche a confrontarne l’efficacia rispetto agli attuali e più in voga moderni sistemi di illuminazione all’interno degli edifici di
culto. I lampadari pendenti, fissati all’estradosso delle volte, sono stati dotati di
argano che ne permette la calata per le operazioni di manutenzione. L’illuminazione si completa con quella installata all’inizio dei lavori sopra il cornicione che
rigira lungo il perimetro della chiesa. L’inaugurazione non ufficiale di questi ultimi
lavori è stata a Pasqua dello scorso anno con la rappresentazione della Passione
di Cristo nella suggestiva cornice della chiesa illuminata a tratti con candele, a
tratti con i lampadari, collaudati in quell’occasione: uno spettacolo che ricrea
l’ambientazione scenografica della chiesa seicentesca che era, insieme all’annesso convento dei canonici, un centro vitale di cultura e spiritualità.
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Soprintendenza per i Beni Architettonici
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Bologna Palazzo ex ENPAS ora INPDAP. Lavori di restauro
delle facciate, del portico e del sottoportico
Andrea Capelli
L’edificio della sede ex ENPAS, ora INPDAP, a Bologna sito nella centralissima
via dei Mille,angolo via Montebello, rappresenta una delle migliori e più significative opere di Saverio Muratori (1910-1973), il grande “Maestro” modenese
dell’architettura italiana del Novecento.
Il palazzo per uffici, negozi ed abitazioni fu progettato fra il 1952 ed il 1957,
edificato fra il 1959 ed il 1961 ed inaugurato il 4 Aprile 1963. L’Impresa costruttrice fu la ditta “Garbarino-Sciaccaluga di Bologna con Silingardi di Modena per
l’arredamento del salone sportelli (la scultura posizionata nell’atrio rappresentante “l’infermiera” fu opera del prof. Assen Peikof, noto artista Bulgaro operante
a Roma con studio in via Margutta)
L’opera di Muratori, nella sua architettura di essenziale caratterizzazione, riassume
in sé lo studio approfondito del carattere del luogo in stretta connessione con il
novero costitutivo del tessuto urbano bolognese, dei suoi tipi edilizi e dei suoi
elementi strutturali principali.
Il Palazzo ENPAS mostra infatti grande rilievo disciplinare, impersonificando la
critica motivata al soggettivismo autoreferenziale dell’architettura moderna, origine di quell’edonismo linguistico che rende l’ambiente urbano incoerente e semanticamente “sovraesposto”. Istituisce altresì la ripresa di un rapporto tra
architettura e città basato sullo studio della struttura del contesto urbano nel suo
continuo evolvere, una struttura esaminata quindi alla luce della relazione tra tipologia edilizia e morfologia urbana.
L’edificio bolognese di Muratori riprende, fra l’altro il particolare sistema seriale
costruttivo “Bolognese”, di derivazione lignea, riproponendo il portico con lo
sporto, le lesene ed il coronamento superiore merlato.
Il tema metodologico-progettuale pregnante nel palazzo ex ENPAS è infatti il linguaggio architettonico, inteso non come codice convenzionale a-storico applicabile in ogni luogo, ma come portato specifico di una determinata area culturale
(nella fattispecie quella Bolognese).
In particolare, come bene ha già sottolineato nei suoi scritti l’’architetto Giancarlo
Cataldi, qui Muratori sperimenta una nuova forma di collaborazione tra ossatura elastica e parete continua di materia solida, facendo convivere due materiali: i mattoni
ed il cemento armato (materiale moderno). Secondo il concetto di continuità di
materiale in superficie, quindi qui di mattoni che chiudono e ricoprono il traliccio
il quale collabora come una cassaforma stabile, percorrendo la strada della sperimentazione tecnica del nuovo materiale con una reinterpretazione in chiave di adeguamento ambientale, si perviene al risultato di risolvere il quesito linguistico
dell’integrazione della nuova architettura in un contesto storicamente consolidato.
Muratori con il progetto di questo edificio esce dalla visione soggettiva che privilegia la personalità individuale dell’architetto che opera trasferendo indifferentemente in ogni luogo i suoi stilemi stilistici, per passare ad una visione oggettiva
che chiama in causa , invece, le sue capacità di sintetizzare, in maniera diversa
e a seconda dei luoghi, i caratteri ambientali della città. Tema questo di straordinaria rilevanza per l’architettura contemporanea per il quale Muratori risulta
grande anticipatore.
Il Palazzo è stato oggetto sinora di due interventi di restauro delle facciate su via
dei Mille e su via Montebello (2007) e di uno ulteriore del porticato (2008), con intervento diretto della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le
province di Bologna, Modena e Reggio Emilia con finanziamento del Ministero Beni
ed Attivita Culturali-Dipartimento Beni Culturali e paesaggistici, Settore architettura e
arte contemporanea. L’intervento del Ministero sulle facciate si è svolto contestualmente ad un più corposo intervento di ristrutturazione, riammodernamento dell’impiantistica riguardante gli interni finanziato ed appaltato dall’ente INPDAP.
L’edificio, che non aveva mai subito interventi di complessiva manutenzione negli
esterni, necessitava di un’azione di “revisione” rigorosa ed attenta alle particolari
valenze progettuali volute ed attuate dal Muratori nello spirito dell’architettura del
periodo. Nel corso degli anni le parti in mattoni, i cementi e le pietre naturali si
erano ricoperte di incrostazioni talora dovute ad alcune problematiche legate allo
scolo delle acque meteoriche specie nella parte alta ove si sono riscontrati mattoni
deteriorati e distacchi di piccole porzioni di travertini talora con distacchi di scaglie di mattoni e marmo. Di particolare impegno è risultato l’intervento sui cementi
realizzati in opera ad imitazione della pietra arenaria (mentre le parti cementizie
di travertino imitato sono in lastre prefabbricate), poichè presentavano rilevanti
fessurazioni, poi sistemate con l’uso di malte bicomponenti a basso modulo elastico e con la posa di perni in vetroresina, specie nelle architravi ammalorate presentanti distacchi fra i due distinti strati in getto dei calcestruzzo.
Gli interventi di manutenzione e restauro sinora eseguiti hanno consentito di ridare
ai fronti esterni principali ed al porticato una completa e migliorata facies in tutto
simile all’originale di Muratori; l’intervento ha pulito e consolidato ogni porzione sia
dei mattoni che dei travertini e cementi, conservando e recuperando i valori metrici, cromatici ed “ambientali” della tradizione locale precipuamente ricercati dalla
“sapienza” progettuale ed esecutiva di Saverio Muratori interprete di quella particolare fase dell’Architettura Europea degli anni Cinquanta del Novecento.
Le tecniche di intervento di restauro e pulitura sono state differenziate in relazione ai vari materiali costruttivi, attuando la rimozione di croste e patine o colature, oltre i graffiti sui pilastri nelle zone basse, quindi è stata eseguita
un’accurata pulizia , consolidamenti con rifacimenti di piccole porzioni deteriorate e vernici protettive adeguate.
Il risultato, che ha comportato anche una generale tonalizzazione di alcune zone
della facciata principale, ha consentito di ripristinare una “gradevolezza” della visione della bella architettura del Muratori e, soprattutto, di avviare un’azione di
salvaguardia nel tempo dei materiali di finitura sia dei cementi, peraltro di curatissima esecuzione, sempre martellinati manualmente, che dei mattoni, che dei
travertini, con la finalità di una più lunga conservazione negli anni a venire.
191
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Direttore dei lavori per
le decorazioni pittoriche:
Cetty Muscolino
Progettista: Elena De Cecco
192
La chiesa dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi
Comune di Sogliano al Rubicone
Elena De Cecco, Valter Piazza, Cetty Muscolino
L’intervento conservativo realizzato nella chiesa dell’abbazia di San Leonardo a
Montetiffi, manufatto imponente e austero sulla sommità di un costone roccioso
sopra la valle dell’Uso, ha avuto come criterio informatore, stante l’impossibilità
di restituire la completa integrità fisica ai materiali costituenti fortemente compromessi, quello di interrompere i fenomeni di degrado, restituire la leggibilità
del manufatto, garantire un’ulteriore sopravvivenza nel tempo, utilizzando metodologie e materiali scelti e impiegati con la massima attenzione e perizia, sulla
scorta dei dati, dei risultati, degli studi e delle indagini eseguite.
Il progetto è stato finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con il
fondo dell’8 per mille dell’IRPEF devoluto dai cittadini alla diretta gestione statale
per l’anno 2003.
La chiesa, edificata nel secolo XI dagli abitanti del borgo e donata ai monaci di San
Benedetto, fu oggetto nel corso dei secoli di restauri, addizioni e demolizioni che
non hanno però modificato la natura del manufatto, struttura compatta e solida, con
poche aperture che evidenziano lo spessore dei muri, e arricchita all’interno da pitture e da elementi che articolano e scandiscono in senso plastico le pareti, quali lesene, nicchie e motivi che discendono dall’architettura ravennate.
L’intero edificio è nella sua parte originaria costruito integralmente in blocchi
squadrati di calcarenite che le indagini mineralogico-petrografiche eseguite
hanno confermato provenienti dall’affioramento torbiditico su cui è stata edificata
la chiesa, costruita quindi con il materiale scavato e prelevato direttamente dal
monte su cui è stata fondata.
Il paramento lapideo si presentava fortemente degradato con diffusi fenomeni di
esfoliazione lungo i piani di sedimentazione, presenza di croste nere sui paramenti murari al riparo dalla pioggia e crescita di vegetazione infestante.
Il progetto di restauro delle strutture murarie ha previsto il preconsolidamento
degli elementi in precario stato di conservazione, la disinfestazione ed eliminazione della vegetazione infestante, la pulitura e rimozione dei depositi superficiali coerenti, la rimozione e l’abbassamento delle connessure eseguite durante
interventi precedenti, la posa in opera di nuova stuccatura con composizione simile all’originaria, come risultante dalle analisi eseguite sulle malte, il consolidamento con puntuali operazioni di microstuccatura eseguite sulle singole pietre
e infine trattamenti di protezione finale.
Il restauro a “scuci-cuci” è stato eseguito in maniera assolutamente limitata ai casi
effettivamente necessari, a sostituzione di elementi lapidei che avevano perso le
caratteristiche di resistenza e dei materiali diversi (scaglie di pietra e mattoni
nuovi) che risultavano non armonizzanti con il contesto. Sono state riportate alla
luce le originali mensole, che reggevano l’architrave in pietra della porta di accesso, e sono state rimosse le tamponature che chiudevano le sei aperture presenti nella navata.
Le indagini e le opere di conservazione sono poi proseguite all’interno con il restauro delle pitture visibili e di quelle successivamente scoperte nel transetto sinistro, all’interno di una nicchia che era stata tamponata da un’armadiatura
settecentesca.
L’Oratorio di Sant’Enrico, citato per la prima volta in un documento del 1449, si
trova nella media valle del Taro sulla sponda sinistra del fiume, su una paleofrana
assestata, che reca tracce di un insediamento rustico di età romana.
L’edificio, in pietra locale, versava in uno stato di grave degrado quando nel 2002
il Comune di Valmozzola dava incarico per la progettazione del restauro, da
spesarsi su fondi della Comunità Montana Ovest, agli architetti Giovanni Signani
e Barbara Zilocchi.
Il crollo della volta, del tetto e della facciata, infatti, aveva interessato anche l’interno dell’aula compromettendone la stabilità. La perdita della funzione protettiva fornita dalla copertura aveva causato il dilavamento delle malte, con
conseguenti dissesti e indebolimenti. Le murature rimaste - quelle longitudinali
e il catino absidale, coperto da semicupola - risultavano slegate tra loro e presentavano fenomeni di frattura e un inizio di ribaltamento.
Le operazioni iniziali dell’intervento, interamente eseguito sotto l’alta sorveglianza
della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio delle Province
di Parma e Piacenza (arch. Luciano Serchia), sono consistite in azioni di presidio
statico dei setti longitudinali e nello spostamento del materiale lapideo crollato,
opportunamente accatastato, scelto e distinto per tipo e dimensione. Sono così
venuti in luce una parte del muro di facciata, l’ingresso principale, l’imposta del
portone e la pavimentazione in pietra sia dell’interno che del sagrato.
Per attuare il progetto di risanamento e di consolidamento, necessariamente pensato per fornire un appoggio omogeneo ed un legame strutturale alle pareti, che
non avevano fondazione propria, sono state smontate tutte le lastre pavimentali,
opportunamente numerate e rilevate.
Lo scavo archeologico che ne è seguito, funzionale alle operazioni di restauro,
diretto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna (dott.
Manuela Catarsi, con la collaborazione della dott.sa Patrizia Raggio), eseguito
dalla Ditta Abacus (dott.sa Cristina Anghinetti), ha consentito di riconoscere almeno quattro fasi edilizie e di retrodatare il complesso all’Altomedioevo.
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Manuela Catarsi, Cristina Anghinetti, Patrizia Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi
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Il recupero strutturale dell’ Oratorio di S. Enrico
di Calcaiola - (Valmozzola - Parma)
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193
Contestualmente alla fase di scavo sono proseguite le operazioni di cucitura dei
muri dell’aula, di restauro dei paramenti con la stesura di biocida a largo spettro,
la conseguente stuccatura a malta di calce, secondo un criterio distintivo tra superfici esterne ed interne e tra quelle esistenti e le parti di muratura rimesse in
opera. In particolare la stuccatura dei paramenti murari esterni superstiti è stata
attuata con una stilatura meno regolare, parzialmente ‘sbordante’, in maniera da
uniformarsi alla tessitura antica, su cui permanevano le tracce di una tenacissima
malta di calce.
Durante le lavorazioni di cucitura muraria e di consolidamento del catino absidale, si è proceduto al restauro delle superfici, conservando le tracce di malta
rinvenute e soprammesse tra loro, operando un intervento rigorosamente conservativo, optando per la stesura di un intonachino di lieve spessore, nelle parti di
muratura in vista, in modo da lasciarne intravedere la tessitura. Si è inoltre operato
il fissaggio dell’intonaco della parete e della pellicola pittorica dell’affresco, datato alla seconda metà del XIV secolo, raffigurante quattro Santi tra cui è riconoscibile il Battista.
Sotto la sorveglianza della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico,
Etnoantropologico delle Province di Parma e Piacenza (dott.sa Mariangela Giusto), e con l’apporto della restauratrice Alessandra d’Elia, si sono eseguite le seguenti operazioni di restauro pittorico: fissaggio con carta giapponese e alcool
polivinilico, consolidamento in profondità con malta di calce a basso peso specifico, pulitura con bicarbonato di ammonio e acqua demineralizzata deionizzata; il consolidamento superficiale, eseguito con alcool polivinilico, si è limitato
a piccole porzioni, in quanto la pellicola pittorica era tenacemente ancorata all’intonaco. Sono state fatte piccole stuccature con malta di calce idraulica, con
aggiunta di polvere di marmo bianco botticino e sabbia di tonalità gialla del Ticino e l’integrazione pittorica a velatura esclusivamente con tecnica a tratteggio.
È stata ripristinata la copertura con struttura di legno di castagno e manto tradizionale a piane di pietra arenaria. Si è quindi proseguito il consolidamento con
travi cordolo perimetrali (direzione strutturale ing. Giuseppe Stefanini), con chiavi
di taglio passanti a livello del piano di appoggio dei muri longitudinali e trasversale di facciata. La quota pavimentale è stata infine ripristinata con rimontaggio
delle lastre di arenaria.
194
Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini
Domus del Chirurgo: situazione attuale e ipotesi
di restauro
Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi
Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini è stato individuato nel
1989 durante i lavori di sistemazione dei giardini pubblici. La scoperta si è
subito rivelata eccezionale. Successivi, sistematici sondaggi e scavi stratigrafici
hanno individuato un’area di oltre 700 mq. I resti più significativi sono quelli
di una domus costruita nella seconda metà del II secolo d.C. (detta “del chirurgo” per lo straordinario strumentario medico che vi è stato rinvenuto) e
quelli di un’area palaziale databile al V-VI secolo d.C. Dal punto di vista costruttivo, il contesto archeologico presenta un’ampia gamma di materiali eterogenei, quali strutture di laterizi, argilla pressata, intonaci dipinti e pavimenti
musivi che nel corso dei secoli hanno reagito in modo disomogeneo alle aggressioni operate dal tempo, dal clima e dall’uomo. Nel prosieguo degli scavi
si è proceduto con operazioni di pronto intervento (pulitura, consolidamenti
localizzati, stuccature e trattamenti biocidi) mirate esclusivamente alla conservazione e messa in sicurezza dell’area archeologica. L’insieme di queste
operazioni ha permesso a mosaici e strutture di conservarsi fino a oggi. Il corredo medico chirurgico rinvenuto nella domus, ora esposto nel Museo della
Città di Rimini, è stato oggetto di minuziosi restauri effettuati nel Laboratorio
di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna.
Anche se nel dicembre 2007 tutta l’area archeologica è stata musealizzata in
una grande teca espositiva, dal punto di vista conservativo il lavoro è appena
iniziato: nonostante la presenza di impianti di climatizzazione e deumidificazione, il nuovo assetto ha causato modifiche al microclima e il primo problema da affrontare è proprio la sua stabilizzazione.
Nel 2008, nell’ambito delle attività di collaborazione con la Soprintendenza Archeologica, la Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna, sezione distaccata
dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha svolto una campagna di studio e
pronto intervento sui pavimenti musivi dell’area archeologica finalizzata all’analisi
del loro stato di conservazione.
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195
Nonostante le numerose cure di cui sono sempre stati oggetto, i mosaici soffrono
di alcune patologie croniche, quali il distacco del tessellato musivo dagli strati
sottofondali delle malte di allettamento e la crescita di alghe ed erbe infestanti
su alcuni strati e strutture. Le moderne tecniche di restauro e conservazione hanno
permesso di mantenere questi straordinari manufatti nel loro sito originario con
mirati e minimi interventi, senza dover operare forti decontestualizzazioni, come
strappi dei mosaici e trasferimenti in altri luoghi espositivi, come accadeva in
passato.
Dal luglio 2008 i mosaici sono stati interessati da una serie di studi e interventi:
rilievi metrici e iconografici, studi delle antiche tecniche di costruzione, osservazioni macroscopiche dei materiali, operazioni di pulitura fisica e consolidamento
degli elementi mobili.
In seguito sarà comunque fondamentale intervenire, oltre che sull’aspetto strutturale, anche su quello estetico, oggi disturbato da una serie di elementi, quali i
cordoli di contenimento delle lacune e dei bordi perimetrali che, se prima della
musealizzazione hanno rappresentato una salvaguardia temporanea dei mosaici,
ora devono essere rimossi e sostituiti da interventi che valorizzino maggiormente
le opere.
L’elaborazione dei dati acquisiti durante la campagna ricognitiva costituisce una
valida base per redigere un progetto pilota di restauro al quale necessariamente
seguirà un programma di manutenzione ordinaria.
196
La Stele delle Spade: aspetti conservativi
Antonella Pomicetti
Nel corso del 2007, durante lavori di edilizia privata, è venuta alla luce a Marano
di Castenaso una piccola necropoli protofelsinea datata al VII secolo a.C.
Lo scavo ha restituito nove sepolture, tutte a cremazione, connotate da segnacolo
funerario. Tra questi, spicca, per la straordinaria rilevanza archeologica, la cosiddetta “Stele delle Spade”, con decorazioni a rilievo. È realizzata in arenaria, pietra
locale cavata con ogni probabilità nei dintorni di Bologna. L’arenaria, roccia sedimentaria che si forma per litificazione di originarie sabbie sia di natura marina
che alluvionali, a fronte di caratteristiche di ottima lavorabilità, contrappone problematiche complesse per quanto riguarda l’aspetto conservativo.
Al momento della messa in luce, la stele è entrata in contatto con valori di umidità e
temperatura totalmente diversi dal microclima che l’aveva circondata per secoli, per
queste ragioni è stata fatta asciugare lentamente in modo da rallentare processi degenerativi quali micro fessure e migrazione massiccia di Sali che, cristallizzandosi,
possono aggravare lo sfaldamento della superficie con perdita di materiale. Prima di
avviare qualsiasi operazione di restauro, è stato approntato un vero e proprio progetto preliminare d’intervento che ha scandito, con un programma ben preciso, modi
e tempi. Sulla base dello stato di conservazione della stele, sono state preliminarmente eseguite delle indagini diagnostiche, sia per quanto riguarda lo studio della
superficie che per quanto riguarda la caratterizzazione del materiale lapideo e la
possibile individuazione della cava di estrazione. Le indagini sono elemento indispensabile allo studio del progetto d’intervento ma non sufficienti a definirlo in toto.
Esse, infatti sono necessarie in fase di elaborazione dell’ipotesi dell’intervento ma la
verifica dell’efficacia di prodotti, tempi e modi è avvenuta con la messa in opera di
una serie di tests pratici condotti su aree circoscritte ma rappresentative del manufatto. Sono state eseguite prove di pulitura finalizzate all’individuazione del metodo
più idoneo, allo stesso modo si è proceduto per quanto riguarda le altre operazioni
necessarie, tutto nel rispetto del concetto del minimo intervento e della minima invasività. A tale proposito, è in fase di progettazione un supporto espositivo per la
stele che ne consenta la fruizione da parte del pubblico in sicurezza, evitando interventi invasivi quali l’inserimento di perni in fase di incollaggio. Il progetto si è avvalso
della collaborazione tra professionalità diverse sia interne sia esterne all’Amministrazione quali: archeologi, esperti in diagnostica dei beni culturali, restauratori, disegnatori, fotografi, progettisti di strutture per la musealizzazione; il restauro è stato
eseguito dai restauratori del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni
Archeologici dell’Emilia Romagna. La stele sarà esposta per la prima volta all’interno
del costituendo MUV, Museo della civiltà Villanoviana, che il Comune di Castenaso
- che ha assunto l’onere economico del restauro della stele, e di suppellettili in
bronzo - inaugurerà nel prossimo mese di maggio.
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197
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Fax 040 4194820
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Soprintendente:
Guglielmo Monti
Piazza Libertà, 7
34135 Trieste
Tel. 040 4527511
Fax 040 43634
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198
La Chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione Taumaturgo
a Trieste
Guglielmo Monti
La chiesa serbo-ortodossa di San Spiridione a Trieste è uno dei segni più eloquenti dell’intreccio di culture che il porto dell’Impero Austro-Ungarico è stato
a lungo e che la città , svuotata dei suoi fasti imperiali ma nuovamente investita
dai movimenti di popolazioni dell’est europeo, tornerà ad essere. In questa sua
qualità, che la sensibilità eclettica del Maciachini esalta sulle decorazioni, sui materiali e nelle strutture, può diventare una palestra ideale per le opere di restauro,
dove la padronanza delle tecniche più diverse può trovare un gran campo di
applicazione, come hanno saputo intendere la progettista, architetto Mirna Drabeni, il responsabile dl procedimento, architetto Alvaro Colonna, e la restauratrice direttrice Cristina Gioachin.
Riaccostarsi alle opere del passato per assimilarne i caratteri e riproporli con umile
sapienza alla sensibilità attuale vuol dire comprendere a fondo lo spirito di
un’epoca e riuscire a restituirne i messaggi.
Per questa via si attua un dialogo col tempo che l’opera, una volta restaurata, è
in grado di trasmettere ai suoi fruitori, diffondendo una comprensione della storia
portatrice di un futuro responsabile.
Si può perciò sostenere che la conservazione, quando sa ritrovare antiche armonie senza pretendere per questo di cancellare il passaggio del tempo, fa opera
di avvicinamento tra i popoli e tra le generazioni, specialmente quando la memoria è ancora viva e la distanza non è abissale. Ecco perché la cura per i manufatti del passato prossimo è specialmente adatta a riannodare i fili della civiltà,
restituendoci contatti non del tutto dimenticati. Bisogna però operare con molta
attenzione, per evitare che rifacimenti o incongruità trasformino le migliori intenzioni in impietosa parodia, consegnandoci immagini irrimediabilmente false di
fabbriche che derivano la loro autorità anche dall’attraversamento non sempre indolore di vicende storiche.
Trieste sembra in questo momento particolarmente vicina ai suoi ricordi, ma deve
avere riguardo della loro delicatezza e rispettare anche gli aspetti meno eclatanti
degli spazi, sacrificando, se occorre, la spettacolarità al rigore. Si tratta peraltro
di una disciplina che, anche quando, come in questo caso, si applica ad interventi di consolidamento e pulitura, implica scelte progettuali di notevole impe-
gno. L’uso del piombo per la copertura delle cupole, evitando di proporre una
lamiera azzurra dimostratasi di grande richiamo ma di scarsa affidabilità, è un
esempio di questa capacità di far interagire la storia del monumento col progetto, come lo è la mancanza d’intervento sulle incrostazioni che attenuano le
fasce decorative nere. Si è preferito, in questa ultima circostanza, non ridare ai
contorni una sottolineatura poco stabile nel tempo, ottenendo così anche una
maggior morbidezza di linee che fa percepire l’età dell’edificio.
Sono segnali di un atteggiamento progettuale diverso da quello che è prevalso
nel dopoguerra, quando la ricostruzione prima e il miracolo economico poi,
hanno imposto un’architettura veloce e disattenta, poco propensa a prendere in
considerazione la complessità del passato. Oggi possiamo forse guardarci indietro con maggiore attenzione, scegliendo i nostri passi a partire dal carattere
dei luoghi, senza pretendere d’imporre loro volontà modificatrici violente o passive copie di ciò che il tempo ha cancellato. E’ bello che questi segnali arrivino
in un terreno fertile come Trieste, crocevia di culture.
Restauro del paramento lapideo esterno e delle coperture
Cristina Gioachin
Nella Trieste ottocentesca, porto dell’Impero austroungarico in piena espansione
economica, affluirono genti ed etnie diverse, attirate dal favorevole regime di porto
franco. La città accolse nuclei di popolazioni tedesche, turche, slave, greche, “illiriche”, ognuna apportatrice di propri valori e proprie tradizioni, anche religiose.
Con l’amministrazione dell’Imperatrice Maria Teresa, la città conobbe un allargamento dei vecchi confini cittadini: vennero eseguiti importanti lavori di urbanizzazione, con l’interramento delle saline e parte dell’area a mare, per permettere la
realizzazione del “Borgo Teresiano”, con l’edificazione di palazzi pensati sia come
civile abitazione dei ricchi commercianti e armatori che si venivano ad insediare in
città, sia come magazzini e uffici necessari per le attività commerciali in espansione.
Nell’ambito di questo progetto urbanistico, venne creato un canale navigabile, detto
Canal Grande, che permetteva ai bastimenti e alle barche da carico di portare le merci
fin dentro il centro abitato. La chiesa serbo-ortodossa dedicata a San Spiridione Taumaturgo inaugurata nel 1869, fu eretta sulla riva destra del canale, dopo l’abbattimento
di un tempio preesistente demolito a causa della instabilità delle fondamenta.
Il progetto architettonico, all’epoca vagliato dalla Commissione permanente di
Architettura dell’Accademia di Venezia è firmato dall’architetto e restauratore
milanese, Carlo Maciachini
(1818 – 1899) progettista anche del Cimitero Monumentale di Milano.
L’edificio rispecchia i dettami costruttivi del tradizionale stile bizantino, coniugando felicemente la ricerca filologica, con l’interpretazione delle tendenze architettoniche degli “stili storici” che caratterizzarono l’ambiente artistico
ottocentesco italiano.
DESCRIZIONE - Il tempio serbo-ortodosso si erge per quaranta metri di altezza,
su una pianta a croce greca, con cupola centrale sostenuta da quattro pennacchi
e tre calotte absidali emisferiche, che ricoprono tre bracci della croce. L’impianto
è completato da quattro campanili di dimensioni ridotte, anch’essi sormontati da
una cupola. Alla sommità di ogni cupola si alza una doppia croce trilobata, realizzata in ferro e dorata a foglia. Sia il tamburo che sostiene la cupola centrale che
i campanili, sono alleggeriti dall’apertura di arcatelle e bifore. I paramenti lapidei
esterni sono realizzati con lastre di pietra di Aurisina nella varietà granitello, intervallate longitudinalmente da fasce di Nero Vallone.
Sulle tre facciate sono inseriti pannelli musivi monumentali, il più grande dei quali,
realizzato con tessere dorate, copre un’area di 75 mq. Nove statue di santi rea-
199
lizzati in marmo di Carrara dallo scultore lombardo Emilio Bisi, sono poste sulla
facciata principale.
I paramenti esterni e i campanili sono ulteriormente impreziositi dalla presenza
di pannelli in opus sectile, realizzati con marmi policromi e collocati in composizioni geometriche diverse.
Le coperture delle cupole originariamente in piombo, durante la prima guerra
mondiale furono utilizzate per produrre munizioni e sostituite con lamiere zincate
verniciate con colori sintetici. I serramenti sono realizzati in ferro, i portoni delle
tre entrate sono in rovere della Slavonia.
Stato di conservazione
L’edificio versava da tempo in cattivo stato di conservazione a causa dei noti e
svariati fattori che condizionano i manufatti storico-artistici posti all’aperto. L’inquinamento urbano, la presenza di aerosol marini, i forti venti di bora che caratterizzano la città di Trieste, avevano contribuito alla creazione di patine scure sul
paramento lapideo aggravate da fenomeni di erosione e polverizzazione dei
marmi. Inoltre, a causa del deterioramento delle coperture in lamiera zincata,
l’acqua piovana, l’alternanza di gelo-disgelo, la forte insolazione, avevano favorito
fenomeni di distacco, esfoliazione, erosione, degrado differenziale, di tutti i litotipi costituenti il rivestimento esterno e degli svariati elementi decorativi delle
facciate, tra i quali i grandi pannelli in mosaico monumentale realizzati in opus
musivum, con tessere vitree e fondi oro, alcuni dei quali completamente riposizionati negli anni ‘60 del 1900, che presentavano fenomeni di limitato distacco
dal supporto e cadute di tessere musive.
Il rivestimento lapideo esterno, è realizzato in bicromia, con lastre di pietra di Aurisina intervallate dall’inserimento di fasce longitudinali in pietra scura di estrazione locale, il “Nero Vallone“.
L’aspetto estetico rilevabile oggi, non ci permette più di apprezzare la tonalità
scura di questa pietra di natura bituminosa, in quanto sulla sua superficie si è venuta a creare nel tempo una patina/crosta grigiastra costituita da carbonato di
calcio depositatosi uniformemente su tutta la superficie della fascia decorativa,
privandoci della iniziale luminosità coloristica dell’edificio.
Sulla facciata principale, inserite in nicchie colonnate cieche, sono presenti nove
statue di santi realizzate in marmo di Carrara; le vesti e le aureole di queste figure
erano decorate in oro a conchiglia e a foglia, ma l’esposizione all’aggressività
dell’ambiente esterno e la difficile compatibilità tra lamina di metallo e pietra,
hanno causato la perdita irreparabile delle dorature, lasciando sul supporto marmoreo una specie di sinopia derivante dai diversi livelli di depositi atmosferici.
La statica dell’edificio è sottoposta a continue sollecitazioni e vibrazioni causate
dal passaggio costante del traffico cittadino e peggiorata dalla presenza di dislivelli del manto stradale.
Il Restauro
Il restauro dell’edificio ha previsto una approfondita campagna di indagini conoscitive propedeutiche all’intervento diretto:
Il monitoraggio strutturale per il controllo delle vibrazioni con l’applicazione di
trasduttori/ acceleratori. Le indagini termografiche per individuare e quantificare
le fratture e i distacchi del paramento lapideo
La magnetoscopia per rilevare la presenza di ferri e quantificarne l’ossidazione
Una campagna di analisi mineralogiche – petrografiche di tutti i litotipi presenti
L’intervento, svolto con prassi consolidata, ha compreso una vasta operazione
di preconsolidamento di scagliature e decoesioni, la pulitura del paramento lapideo con l’uso di metodi chimici e meccanici, il conseguente lavaggio con
200
acqua per l’eliminazione dei sali solubili, il fissaggio puntuale di molteplici situazioni di distacco del rivestimento, con perni filettati in acciaio inox e in vetroresina, le stuccature con malte apposite intonate alla colorazione del litotipo
(marmo di Carrara, rosso Verona, verde alpi, pietra d’Istria, pietra di Aurisina,
Nero Vallone).
Per la protezione superficiale sono stati impiegati materiali diversi: il silicato di
etile è stato impiegato per il consolidamento di vari elementi lapidei, comprese
le pietre carbonatiche, visto che il materiale costitutivo è diventato molto poroso
a causa dell’erosione eolica, mentre per la protezione dei bassorilievi in marmo
di Carrara, complessivamente in buono stato, è stata utilizzata cera microcristallina. Per la protezione delle dorature si è scelta una vernice acrilica.
Le cupole del tempio, originariamente realizzate in piombo, vennero sostituite
nel primo dopoguerra, con fogli di lamiera zincata, successivamente tinteggiata
di azzurro e per lunghi anni esse furono il simbolo della chiesa e parte integrante
del paesaggio cittadino, ma negli anni hanno subito un forte degrado del metallo,
fino a presentare zone di grave corrosione che aveva permesso infiltrazioni di
acque meteoriche e creato delle lacune tali da permettere la nidificazioni di volatili con conseguente presenza di inquinanti organici e detriti vari.
Nell’intervento complessivo di restauro si è ritenuto necessario intervenire per risanare le zone del sottotetto, asportando tutte le vecchie lamiere zincate, il deposito di materiale organico, e valutare contemporaneamente lo stato di
conservazione delle strutture lignee.
Si è deciso di riportare le coperture alla condizione originale, impiegando lastre
di piombo, metallo che tradizionalmente ricopre le chiese bizantine, materiale
malleabile e molto resistente agli agenti atmosferici. Un complesso lavoro con
manodopera qualificata è stato eseguito per tagliare, sagomare e posizionare le
lastre del metallo proveniente dal Belgio. Dopo avere interposto un telo traspirante ( barriera vapore ) sulle strutture lignee, la copertura è stata costruita con
procedimenti tecnici tradizionali, con complesse sovrapposizioni del metallo
che permettono la dilatazione termica naturale e nello stesso tempo scongiurano
le infiltrazioni di acque meteoriche.
La scelta di non intervenire sulle fasce decorative in Nero vallone, asportandone
la crosta bianca costituita da carbonato di calcio, è stata presa dopo una attenta
riflessione, valutando una serie di fattori: la natura delle patine superficiali, la loro
ridotta pericolosità rispetto alla matrice lapidea, la loro prevedibile riformazione
in tempi “brevi“. Tuttavia, si è ritenuto corretto procedere con alcune azioni volte
alla conoscenza e al monitoraggio dei tempi di formazione della incrostazione.
Da una porzione di fascia decorativa di Nero Vallone, è stato asportato il deposito carbonatico superficiale per apprezzare la cromia scura della pietra originale.
Sulle parti pulite, sono stati applicati vari protettivi superficiali (resina acrilica,
cera microcristallina, silossani) per testarne l’efficacia anche a distanza di tempo.
In una zona di facile accesso e a contatto con gli agenti atmosferici, è stato posizionato un campione del calcare bituminoso preso direttamente dalla cava,
per conoscere i tempi nei quali si forma la patina chiara superficiale e di conseguenza prevedere l’utilità e la tempistica di eventuali interventi futuri.
Altri interventi di restauro sono stati eseguiti sui pannelli musivi delle facciate, ed
hanno previsto la pulitura con impacchi di carbonato d’ammonio, il consolidamento puntuale di limitati distacchi, la reintegrazione di tessere mancanti con
nuove tessere vitree. Sulle aperture delle torri campanarie sono state applicate
delle reti protettive per impedire la nidificazione dei piccioni, mentre per il resto
dell’edifico è stato adottato il metodo dissuasivo ad impulsi elettrostatici.
L’intervento è stato concluso con lavori di manutenzione straordinaria degli infissi
di ferro e il restauro conservativo dei portoni lignei.
Trieste – Tempio
serbo-ortodosso di San
Spiridione taumaturgo
lavori di restauro del paramento
lapideo esterno
e delle coperture
Attività di tutela previste
dall’art.21 del D. Lgs.
n.42 /2004
Responsabile
del procedimento:
arch. Alvaro Colonna –
Restauratore conservatore
direttore: Cristina Gioachin
Committente: Comunità serboortodossa di Trieste
Epoca esecuzione: 2007- 2009
Progettista e direttore dei lavori:
arch. Mirna Drabeni
Indagini diagnostiche:
SER.CO.TEC.
Analisi mineralogichePetrografiche: dott. A.
Princivalle
Ditta appaltatrice: G. Cramer
& figli - Trieste
Impresa restauro: Nevyjel
&.Ragazzoni - Trieste
201
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici del Friuli Venezia Giulia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL FRIULI VENEZIA GIULIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
del Friuli Venezia Giulia
Direttore Regionale:
Roberto Di Paola
Coordinatore
per la Comunicazione:
Claudio Barberi
Piazza della Libertà, 7
34132 Trieste
Tel. 040 4194811
Fax 040 4194820
Soprintendenza
per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici
del Friuli Venezia Giulia
Soprintendente ad interim:
Fabrizio Magani
Piazza Libertà, 7
34135 Trieste
Ufficio distaccato di Udine
Via Zanon, 22
33100 Udine
Tel. 043 2504559
Fax 043 2510266
Un ammortizzatore termoigrometrico eco-compatibile
repellente agli silofagi: il Cupressus sempervirens
Nicoletta Buttazzoni, Elisabetta Francescutti, Angelo Pizzolongo
Gli studi e le sperimentazioni compiuti negli ultimi due decenni presso il laboratorio di restauro della Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Friuli Venezia Giulia alla ricerca del supporto più idoneo
per i dipinti su tela e i manufatti tessili hanno portato alla realizzazione del
Telaio armonico. Alla base del progetto di questo supporto innovativo vi è
la radicata convinzione che il legno sia in assoluto il miglior materiale utilizzabile, che ha effetto coibente di piccolo volano termico: in sostanza la
presenza del legno a diretto contatto con la tela determina l’instaurarsi di un
microclima stabile che neutralizza le variazioni di temperatura e umidità relativa. Il Telaio armonico, costruito inizialmente in abete, ha struttura lamellare
per gli elementi portanti, con catene di irrigidimento e tamponamento ligneo
realizzati con una tecnica mediata dalla liuteria; è dotato di sistema di tensionamento, regolabile con viti senza fine che, esercitando tensione su una
molla, determinano una spinta radiale contro un ripartitore a “T” inserito
lungo il perimetro (Fig. 2). La disposizione radiale delle catene serve a rendere più funzionale il contrasto con la tela, che poggia su una superficie
continua (Fig. 1), un vero e proprio schermo protettivo nei confronti di
traumi meccanici, sollecitazioni nei trasporti, depositi di polvere sul verso.
Questo supporto permette anche di evitare interventi invasivi come la foderatura, nel caso di tele lacerate, consentendo di adottare in sicurezza sistemi di minimo intervento come la saldatura testa a testa dei fili.
Recentemente si è deciso di utilizzare l’essenza di abete al posto di quella
di cipresso. In passato gli artigiani preferivano questa essenza perché resistentissima alle intemperie, all’azione del tempo e non appetibile agli silofagi. Con la sua fibra fitta, compatta e regolare, risultava pregiato per
qualunque realizzazione dai sarcofagi egizi al portale della chiesa di Santa
Sabina in Roma (432-440, ancora in situ), dai mobili di lusso agli strumenti
musicali più raffinati.
Il Cupressus sempervirens, diffuso in aree dal clima continentale, ha tronchi generalmente dritti e ha valore tecnologico ed eco-compatibile per i seguenti motivi:
- elevata durabilità naturale contro gli agenti biotici;
- grande stabilità, determinata da variazioni dimensionali contenute;
- buona durezza e resistenza, che lo rendono versatile anche nel settore del restauro;
- possibilità di ottenere un elevato grado di finitura grazie alla tessitura fine;
- facilità di incollaggio.
Ha inoltre un forte odore pepato, gradevolmente profumato, simile a quello del
cedro e del ginepro per il contenuto in oli essenziali che gli conferiscono una
particolare resistenza alle alterazioni e che agiscono da repellente naturale per
gli insetti dannosi: contiene infatti fino all’1% di oli essenziali (tredici) che costituiscono la componente antisettica attiva.
Considerate le caratteristiche fisico-meccaniche del cipresso, si è pensato di utilizzare la sua essenza anche per la costruzione di contenitori di sculture lignee,
come il Crocifisso intagliato policromo della Chiesa di Santa Maria degli Angeli
di Pordenone, realizzato nel 1466 da Giovanni Teutonico, oggetto di un recente
e delicatissimo intervento di restauro, intrapreso soprattutto per le precarie condizioni del supporto.
202
Dopo aver ultimato le operazioni conservative della scultura citata in laboratorio
e prima di riportarla in chiesa, è stato realizzato un armadio o capsa, traendo
ispirazione da modelli rinascimentali ancora esistenti in regione. La capsa, collocata alle spalle dell’altare maggiore, presenta il duplice fine di attuare un condizionamento termoigrometrico passivo a costo energetico nullo, e un effetto
antibiotico senza utilizzo di prodotti chimici potenzialmente inquinanti e dannosi per la salute.
I vantaggi per le opere d’arte, la salute degli operatori, la tutela dell’ambiente
sommati al costo contenuto del materiale suggeriscono di includere l’essenza
di cipresso tra i prodotti eco-compatibili di cui incrementare l’uso negli interventi
di restauro.
203
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL LAZIO
Archivio di Stato di Frosinone
Archivio di Stato di Frosinone
Viviana Fontana
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Direttore Regionale:
Luciano Marchetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Anna Maria Romano
Piazza di Porta Portese, 1
00153 Roma
Tel. 06 5810565
Fax 06 5810700
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Frosinone
Direttore:
Viviana Fontana
Coordinatori
per la Comunicazione:
Viviana Fontana
Onorina Ruggeri
Piazzale De Matthaeis, 41
03100 Frosinone
Tel. 0775 872522-871737
Fax 0775 270603
[email protected]
archivi.beniculturali.it/ASFR
204
L’Archivio di Stato di Frosinone estende la propria competenza su una provincia
comprendente territori soggetti in passato allo Stato Pontificio e Regno di Napoli;
la documentazione riflette pertanto la diversità delle istituzioni e trova il suo naturale completamento non solo nell’Archivio di Stato di Roma ma anche negli
Archivi di Stato di Napoli e Caserta.
Delle magistrature più antiche si conserva principalmente documentazione di
natura giudiziaria, a partire dal secolo XVI, proveniente dai territori di Alatri, Ferentino, Monte S. Giovanni, Pontecorvo e Vallecorsa. Dopo la Restaurazione fu istituita con Motu-proprio del 6 luglio 1816 la Delegazione Apostolica di Frosinone
la cui documentazione costituisce con quella della Direzione di Polizia, uno dei
fondi di maggior interesse per la storia dei territori appartenenti allo Stato Pontificio fino all’Unità d’Italia.
La parte più cospicua dell’Archivio è costituita dalla documentazione giudiziaria
e notarile. La prima proviene dai Governi istituiti con il citato Motu-proprio del
1816, dai coevi Giudicati Circondariali e, dopo il 1870 dalle Preture, alcune istituite ex novo, altre subentrate ai precedenti Giudicati.
Completano i fondi giudiziari gli archivi dei Tribunali di Frosinone e di Cassino e
della Corte di Assise di Frosinone.
Per quanto riguarda gli archivi notarili, essi costituiscono uno dei nuclei più importanti dell’Archivio: la documentazione inizia, infatti, dal secolo XV. Istituiti nel
1588 dal Papa Sisto V, con la bolla “Sollicitudo pastoralis officii”, gli archivi notarili,
che avevano sede in ogni comune, garantivano la conservazione delle scritture
notarili e l’intangibilità dei diritti sanzionati dai documenti stessi.
Compiuta l’Unità d’Italia, venne istituita in Frosinone la Giunta Provvisoria di Governo (1870) e successivamente la Sottoprefettura; la Provincia, costituita aggregando ai territori del precedente circondario alcuni comuni della soppressa
provincia di Terra di Lavoro, venne istituita con Regio Decreto del 2 gennaio 1927.
La documentazione proveniente dagli uffici statali aventi sede nel territorio della
Provincia, Prefettura, Direzione Provinciale del Tesoro, Uffici Distrettuali delle Imposte Dirette, è pertanto relativamente recente.
Si segnalano inoltre il Catasto e gli Atti Demaniali che riflettono le diverse vicende istituzionali dei territori che costituiscono l’odierna Provincia.
Notevole importanza riveste l’Archivio della Confraternita del Santo Spirito di
Ferentino, fondata nei primi anni del secolo XIV da Innocenzo III, che annovera
accanto a documenti pergamenacei una serie di registri dei rendiconti degli
amministratori della pia istituzione.
È da ricordare infine la Collezione delle pergamene (secoli X – XVIII), provenienti,
in genere, da legature di protocolli notarili, all’interno della quale si possono trovare esempi unici di notazione musicale, o di antiche scritture appartenenti al
territorio, come la beneventana.
Compito principale dell’Archivio è quello di valorizzare, ordinare, inventariare,
ma soprattutto “conservare” il materiale documentario.
Nella conservazione attiva rientra senz’altro l’attività di restauro, che presso l’Istituto è esercitata dal Servizio di Conservazione che effettua il controllo dei locali
di deposito e della documentazione ed infine predispone i progetti esecutivi di
restauro.
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL LAZIO
Restauro di protocolli notarili
L’Archivio di Stato di Frosinone, nell’ambito di progetti di recupero e di salvaguardia della documentazione archivistica conservata, nel corso degli anni ha provveduto al restauro di documentazione catastale, pergamenacea e notarile,
particolarmente deteriorata.
Il progetto di restauro del 2004, redatto da Giulio Bianchini, responsabile del Servizio di Conservazione, con la collaborazione archivistica di Maria De Sorbo e grafica
di Giovanni Pulcinelli e Silvia Lombardi, ha riguardato 24 protocolli notarili (15231658) dell’archivio notarile comunale di Monte San Giovanni e 20 protocolli (15281805) di Boville Ernica, la vecchia Bauco, per un totale di 10726 carte.
Gli “archivia publica et generalia”, istituiti dal Papa Sisto V con la costituzione
“Sollicitudo pastoralis officii” dovevano provvedere alla conservazione degli “instrumenta, apochae, cedulae, chirographa, aliaquae scripturae, tam publicae
quam privatae” ed erano ubicati in locali messi a disposizione dai comuni.
Successivamente, nello Stato Pontificio, la legislazione aveva previsto l’accentramento
degli archivi nei capoluoghi di provincia, di circondario e di mandamento, ma molti
comuni ottennero per “grazia” di poter conservare il proprio archivio. Pertanto, gli archivi notarili di Monte San Giovanni e Boville rimasero nei comuni di origine, fin quando
non furono versati all’Archivio di Stato di Frosinone, alla fine degli anni ’70.
Questi fondi presentavano danni dovuti all’umidità, che aveva indebolito il supporto, rendendolo feltroso, e che, a contatto con l’inchiostro acido aveva corroso
la carta, la quale in molti casi era stata attaccata anche da roditori e da tarli. L’alta
percentuale di umidità, in alcuni protocolli notarili, era stata causa, anche, di
compattamento delle carte.
Caratteristica dei volumi dell’archivio notarile di Monte San Giovanni era la rilegatura in
pergamena, probabilmente eseguita nel corso dell’Ottocento, con piatti rigidi, controguardie incollate, e fili di cucitura inseriti al di sotto delle controguardie; spesso, i
volumi, avevano dei lacci di fettuccia o, qualche volta, di pelle allumata sui piatti. Inoltre, molti protocolli erano stati assemblati in modo grossolano, raccogliendo le carte
di più notai, anche di diverso formato, che in precedenza dovevano essere sciolte,
oppure avevano perso la legatura originaria; altre carte, invece, soprattutto quelle del
Cinquecento, erano state rinforzate da brachette e toppe incollate su di un lato.
Tra i protocolli dell’archivio notarile di Boville due presentavano coperte pergamenacee in scrittura gotica e, per quanto ultimamente si sia affermata la tendenza
a conservare le antiche legature, tuttavia si è ritenuto cha la situazione necessitasse
di un intervento conservativo per salvaguardare anche i frammenti di pergamena.
L’esecuzione del restauro è stato effettuato dalla ditta Angelo Pandimiglio, e la
dott.ssa Cecilia Prosperi del Centro di Fotoriproduzione Legatoria e Restauro degli
Archivi di Stato ha svolto la funzione di direttore dei lavori.
Archivio di Stato di Frosinone
Giulio Bianchini
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Direttore Regionale:
Luciano Marchetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Anna Maria Romano
Piazza di Porta Portese, 1
00153 Roma
Tel. 06 5810565
Fax 06 5810700
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Frosinone
Direttore:
Viviana Fontana
Coordinatori
per la Comunicazione:
Viviana Fontana
Onorina Ruggeri
Piazzale De Matthaeis, 41
03100 Frosinone
Tel. 0775 872522-871737
Fax 0775 270603
[email protected]
archivi.beniculturali.it/ASFR
205
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL LAZIO
Biblioteca Vanvicelliana
Progetto di restauro del materiale grafico inserito su 79
Tavolette lignee corredo iconografico del Salone monumentale
della biblioteca opera dell’arch. Francesco Borromini
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Direttore Regionale:
Luciano Marchetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Anna Maria Romano
Piazza di Porta Portese, 1
00153 Roma
Tel. 06 5810565
Fax 06 5810700
Direzione Generale
per i Beni Librari, gli Istituti
Culturali ed il Diritto d’Autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 3216779
Fax 06 3216437
[email protected]
Biblioteca Vallicelliana
Direttore:
Maria Concetta Petrollo
Piazza della Chiesa Nuova, 18
00186 Roma
Tel. 06 68802671
Fax 06 6893868
[email protected]
www.vallicelliana.it
Anno di fondazione 1581
206
Fondi
La Biblioteca possiede circa 130.000 volumi: manoscritti, incunaboli, stampati e musica, prevalentemente opere di natura storico-ecclesiastica, erudita, patristica e teologica, ma anche testi di filosofia (presenti numerosi
antichi commentatori di Aristotele), di diritto, botanica, astronomia, architettura e medicina.
Nell’importante raccolta di circa 3.000 manoscritti latini, greci e orientali sono
presenti codici di notevole pregio e antichità, come la Bibbia di Alcuino del IX
secolo; un Evangeliario greco miniato del XII secolo e un prezioso Libro d’ore del
XVI secolo.
Tra il materiale raro e di pregio sono conservati frammenti membranacei ed ex legature raccolte a seguito del restauro di preziosi codici.
Il fondo antico a stampa, con opere comprese tra il XVI e il XIX secolo, consiste
di circa 40.000 volumi, conservati per la maggior parte nel prestigioso Salone
Borromini e di un piccolo nucleo di incunaboli.
Una parte considerevole del fondo antico è costituita dalle Edizioni del XVI secolo; una specificità è costituita dalla raccolta delle opere appartenute a Filippo
Neri conservate nella Libraria.
Nel fondo antico figurano anche pubblicazioni periodiche e numerosi bandi,
editti, avvisi a stampa, databili tra il XVI ed il XIX secolo, per lo più emanati dallo
Stato Pontificio o risalenti al periodo napoleonico in Italia.
Il materiale iconografico della Vallicelliana comprende una pregevole raccolta
di incisioni nonché un importante fondo di fotografie.
Le acquisizioni moderne, monografie e periodici, sono individuate nel rispetto
degli interessi culturali della Biblioteca, allo scopo di offrire strumenti di approfondimento, aggiornamento e supporto agli studi del fondo storico dell’Istituto.
Prima partecipazione al Salone dell’arte del Restauro e della conservazione dei
Beni Culturali e Ambientali
Il Progetto di restauro sarà presentato giovedì 26 marzo alle ore 10 dalla Direttrice
della Biblioteca Vallicelliana, dott. Maria Concetta Petrollo, dal responsabile della
Tutela, dott. Patrizia Formica e dallo Studio P. Crisostomi s.r.l.
Le tavolette lignee del salone monumentale:
un esempio di decoro iconografico del XVII sec.
Notizie storiche e iconografiche relative al fondo oggetto del restauro
Le tavolette lignee, ora oggetto di recupero, erano originariamente collocate nelle
scaffalature del Vaso Monumentale della biblioteca. La scelta dei soggetti degli
uomini illustri raffigurati in alcune di queste sembra si debba allo stesso Borromini
che aveva inteso ornare le scaffalature con il richiamo alla rilevanza ed all’esemplarità degli intellettuali del tempo.
Nel corso degli anni alle primitive raffigurazioni i Padri oratoriani sovrapposero
altre incisioni raffiguranti altra varietà di soggetti, ad esempio ville e paesaggi,
sicché attualmente le operazioni di restauro si stanno svolgendo su una sorta
di palinsesto che testimonia il variare dei gusti e del clima culturale nel corso
del secolo.
Dagli anni della loro collocazione originaria al di sopra delle arche che contenevano il fondo manoscritto della biblioteca ad oggi, la qualità delle incisioni legate in trittici e delle stesse tavolette si è enormemente deteriorata
per via degli spostamenti e dei periodi di totale incuria che esse hanno su-
bito. Le ragioni del restauro si sono così imposte non solo per impedire la totale distruzione del bene ma per tornare a far apprezzare, anche se parzialmente, nel contesto per cui furono progettate, l’opera dei più importanti
incisori del XVII secolo.
207
Museo Nazionale degli Strumenti Musicali
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL LAZIO
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Lazio
Direttore Regionale:
Luciano Marchetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Anna Maria Romano
Piazza di Porta Portese, 1
00153 Roma
Tel. 06 5810565
Fax 06 5810700
Museo Nazionale degli
Strumenti Musicali
Soprintendente ad interim:
Anna Imponente
Piazza Santa Croce in
Gerusalemme 9/a
00185 Roma
Tel. 06 7014796
Fax 06 7029862
[email protected]
www.museostrumentimusicali.it
208
Museo Nazionale degli Strumenti Musicali
Giuseppe Tramontana
Il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali sorge in una zona di Roma di grande importanza storica e archeologica, data dalla presenza di edifici e di impianti circensi
dei secoli III e IV d.C., quali il Palazzo Imperiale, detto “Sessorium”, l’Anfiteatro Castrense e il circo di Eliogabalo, circondato da un’area di verde che gli conferisce
l’aspetto delle località “suburbane” delle grandi ville patrizie. Durante il Medioevo
e il Rinascimento la zona venne adibita agli orti e alle vigne dei conventi succedutisi
nel tempo, ultimo dei quali i Padri Cistercensi che ancora oggi coltivano un piccolo
orto con ottimi prodotti. Con l’avvento di Roma capitale, intorno al 1900, iniziò la costruzione di una delle più grandi caserme d’Italia e forse d’Europa, intitolata al re Umberto I, poi denominata “Principe di Piemonte”. Questa accolse il 2° Reggimento
dei Granatieri di Sardegna ed era costituita da tre casermette disposte a ferro di cavallo contraddistinte dai nomi di tre eroici granatieri: Setti, Capocci e Samoggia. La
storia recente vede le caserme abbandonate nel 1943 durante il secondo conflitto
mondiale, occupate dai tedeschi e infine usate come campo profughi giuliani fino
al 1959. La casermetta Setti fu demolita nel 1960 per mettere a giorno tratto dell’Acquedotto Claudio; la Capocci bombardata gravemente è stata finalmente ripristinata
negli ultimi anni e oggi ospita la Direzione Generale del Cinema e dello Spettacolo
dal Vivo del Ministero dei Beni Culturali; la Samoggia, la meno danneggiata, fu ripristinata e divenne sede del Museo. Infatti il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali
è dal 1974 una concreta realtà che permette di avvicinare l’Italia alle altre nazioni
civili che da tempo posseggono un loro museo di strumenti. Il ricco patrimonio di
questo museo è unico al mondo innanzitutto come quantità di materiale: ammonta
infatti a circa tremila pezzi di cui oltre ottocento già esposti. Esso si articola di vari
fondi: il maggiore è costituito dalla Collezione Gorga. Evangelista Gorga nacque a
Broccostella (prov. Di Frosinone) il 06-02-1865, studiò canto e musica con il M° Franceschetti. Al collezionismo il Gorga arrivò dopo una fulgida carriera di tenore, durata
solo quattro anni, iniziata nel 1895 con la “Mignon” di Thomas e che ebbe il suo
apice nel 1896 a Torino con la prima della “Bohème”, dove sotto la direzione di Arturo Toscanini fu il primo prestigioso Rodolfo. Il corpus totale dell’immensa raccolta
Gorga (150.000 pezzi) era composta di ben 30 collezioni, una sola delle quali –
quella più importante – erano strumenti musicali. Le altre comprendevano armi storiche, giocattoli, ferri chirurgici, terrecotte, bilance, farmacie da viaggio e altre. Le
difficoltà economiche e di spazio che afflissero Gorga lo costrinsero a privarsi della
metà della sua collezione. Quello che rimase fu un coacervo di 3000 pezzi, prima
stipati in dieci appartamenti in via Cola di Rienzo 285 a Roma e poi ceduti allo Stato
Italiano con una Convenzione del 1949 dove lo Stato si impegnava a pagare i debiti
di Gorga e gli accordava un vitalizio. Gli strumenti furono un incubo per le amministrazioni del tempo poiché non esisteva una sede fissa e varie furono le peregrinazioni delle raccolte. L’opera della Prof.ssa Luisa Cervelli fu decisiva per la fondazione
del Museo. Dopo aver individuato e ottenuto la Palazzina Samoggia nella quale oggi
si trova il Museo, si battè per il restauro dell’edificio , la razionale distribuzione dell’intera raccolta e per il restauro di molti strumenti. Oltre ad un infaticabile lavoro di
riorganizzazione, la sua opera si estese alla ricerca storica di strumenti e alla loro acquisizione a favore del Museo: tra questi L’Arpa Barberini, il Pianoforte di Cristofori,
i cornamuti di Weier, il claviciterio e altri. Il Museo è distribuito nelle 18 sale del
primo piano e il criterio di presentazione segue due linee: una esposizione per tipologia (archeologici, extraeuropei, popolari, militari) e una esposizione cronologica (dal XI al XVIII secolo). Numerose anche le incursioni nel XIX secolo con gli
strumenti meccanici.
L’arpa Barberini
Giuseppe Tramontana
Questo strumento è un vero e proprio gioiello poiché è un esemplare unico
nel suo genere e riveste una triplice importanza: storica, artistica e tecnica.
L’importanza storica è dovuta all’appartenenza alla famiglia Barberini, una
delle famiglie più potenti di Roma nel ‘600, che ha commissionato la sua costruzione. Sull’Arpa sono state fatte delle radiografie a raggi X e sono stati
condotti studi di dendrocronologia: i primi hanno permesso di evidenziarne
la tecnica costruttiva e lo stato conservativo del legno (definito “buono”);
con i secondi si è cercato di risalire all’età precisa dello strumento cercando
di ricostruire gli anelli del tronco dell’albero (un cipresso) da cui è stato
preso il legno per costruire lo strumento. Secondo gli studi del prof. Elio
Corona risulta che i legni dell’arpa sono vissuti tra il 1537 e il 1604 e quindi
lo strumento dovrebbe essere stato costruito tra il 1605 e il 1620. Che lo
strumento sia della prima metà del Seicento può essere provato anche dal
dipinto di G. M.Lanfranco (1582-1643) in cui l’Arpa è suonata da una bellissima donna seminuda, forse una allegoria della “Musica”, datato 1639, che
avvalora i calcoli del prof. Corona.
Oltre all’importanza storica, dovuta alla famiglia Barberini, la seconda ragione
d’importanza dello strumento è il suo valore artistico di indubbia bellezza,
tutta in legno intarsiato rivestito d’oro ,con una tecnica di doratura tipica del
Barocco, che consisteva nel fondere lamine (ovvero fogli) d’oro direttamente sulla superficie da dorare. La colonna scolpita con le statuine dorate
ha quasi l’aspetto di un candelabro di cero pasquale. Il pezzo di alta qualità
come ideazione ed esecuzione supera il livello artigianale per assurgere a
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209
vera opera d’arte. Non vi sono ancora documentazioni attendibili, ma una
credenza tramandata solo verbalmente dalla famiglia Barberini vorrebbe che
fosse disegnata dal Bernini. La terza ragione d’importanza, che ne fa un
pezzo d’eccezione, è quello musicale, in quanto l’armatura di tre ordini di
corde consente di eseguire anche le note cromatiche, nonostante non siano
stati ancora inventati i pedali, il che avverrà soltanto nei primi del ‘700. Ciò
rendeva complicatissimo suonarla, tanto che a Roma in quel periodo un solo
musicista chiamato Marco Marazzoli fu in grado di suonarla e per questo soprannominato “Marco dell’Arpa”. Marco Marazzoli (1619-1663) fu una figura
di primo piano nell’ambiente del seicentesco teatro Barberini, oltre che cantore e strumentista fu anche compositore. Egli ebbe in uso l’Arpa fino alla
sua morte, quando, morendo, la restituì, per testamento, al Cardinale Antonio Barberini, cui apparteneva.
Particolare interessante per la tecnica esecutiva dello strumento è dato dall’osservazione del dipinto di Lanfranco, nella Galleria Nazionale di Palazzo
Barberini, dove la posizione delle mani della suonatrice rivela che essa suonava l’Arpa con tutte le dita, mentre alla stessa epoca, in Spagna, si suonava
con due sole dita. Il piano armonico ha quattro fori o rosette; il retro della
cassa armonica è a undici facce. Le sculture lignee dorate raffigurano: nella
parte alta della colonna due putti che sostengono lo stemma Barberini rappresentato da tre api; nelle zone sottostanti: in alto due putti, e nella zona
centrale due giovani, tutti abbigliati con pelli di leone. Una curiosità: sullo
strumento è presente un difetto di restauro che lo rende ancor di più unico.
Uno dei due puttini che regge lo stemma Barberini in cima alla colonna
dell’Arpa, presenta due piedi sinistri. Il piede destro infatti si ruppe durante
i lavori di aggiunta del Toson d’Oro allo stemma. Il Toson d’Oro, ordine cavalleresco tra i più antichi e importanti, concesso soltanto ai sovrani o a nobili di altissimo lignaggio, fu conferito alla famiglia Barberini con l’elevazione
al soglio pontificio di Urbano VIII. Non si sa per quale motivo, se volutamente o per distrazione, il restauratore ricostruì un altro piede sinistro al
posto del piede destro.
[Misure: L. tot. cm. 120; l. piano armonico: in alto cm. 14,5; in basso 39,5; L. modiglione cm. 98; l. modiglione cm. 70; L. vibr. c. mass. cm. 172,9, min. 20,6.]
210
Restauro e valorizzazione del sito archeologico dell’antica
Lavinium – Pratica di Mare (RM)
Anna Paola Briganti
L’antica Lavinium, che la tradizione vuole fondata da Enea nel XII sec. a.C. in onore
di Lavinia, figlia del Re Latino che Enea ebbe in sposa, divenne presto un importante centro politico in quanto sede del regno di Latino e città considerata sacra
dopo l’edificazione del tempio che custodiva i Penati di Troia.
Il sito archeologico ha un’estensione di circa 200 ettari, è quasi tutto di proprietà
privata ed è composto dal borgo medioevale, dall’antica Lavinium, dall’area (di
proprietà statale) delle tredici Are, dell’Heron di Enea e dell’edificio arcaico. È un
sito molto frequentato soprattutto da gruppi organizzati e da scolaresche, per questo motivo è stato predisposto un progetto generale per migliorarne la fruibilità.
Le aree fino ad ora scavate presentano coperture realizzate in diversi periodi
che, pur svolgendo in modo efficace la funzione protettiva dalla pioggia, non
sono sufficienti come protezione dagli uccelli che nidificano e sostano nel sito,
vanificando così il lavoro di restauro svolto.
Obiettivo del progetto è quello di restituire agli scavi, eseguiti in tempi diversi e che
presentano coperture realizzate con materiali eterogenei, un’immagine architettonica unitaria e migliorare l’inserimento nel paesaggio; restituire al sito, attraverso gli
elementi architettonici progettati, il carattere suggestivo e la dignità di luogo simbolico ora offuscato dalla precarietà dei percorsi, dall’eterogeneità dei materiali, e
dalla provvisorietà delle coperture. Per questo motivo è stato predisposto un progetto-quadro architettonico e paesistico, articolato per fasi successive.
L’ipotesi di progetto coordinata dalla dott. Stefania Panella e portata avanti con
una proficua collaborazione con l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”,
facoltà di Architettura, in particolare con il Preside Proff. Giovanni Carbonara ed
il proff. Ricardo D’Aquino, riguarda la sistemazione dell’intero sito archeologico,
comprendente, oltre alle Are, la tomba di Enea, la Madonna delle Vigne infine il
sito dell’antica Lavinium con l’ager, le porte, le mura, la necropoli.
La conservazione ed il restauro dei resti dell’edificio arcaico e delle fornaci è
stato il primo obiettivo del progetto. La copertura è stata progettata dallo studio
D’Aquino in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio, secondo un sistema costruttivo legato alle tecnologie del ferro e del legno.
Essa ha l’obiettivo di offrire riparo dalla èpioggia e permeabilità all’aria, ma nessuna possibilità di sosta per gli uccelli, vero problema delle coperture nei siti archeologici.
Di questa articolata copertura è stata solo l’aula centrale; con i fondi del prossimo
esercizio finanziario, sarà completata con pannelli di chiusura laterali e la copertura dei “portici”.
Riguardo i percorsi, al fine di esaltare il più possibile il carattere del sito agricolo,
si è scelto di mantenere il più possibile quelli esistenti, nonché i materiali ed i colori presenti nell’area archeologica. Per questo motivo i percorsi saranno realizzati
in “terreno stabilizzato” con inerti di tufo; così come i plinti fuori terra della struttura di copertura sono stati realizzati con tufi di recupero, infine i muretti e tutti
gli elementi edilizi sono stati ridotti a segni, che se pur molto studiati, devono apparire quasi posti lì per caso, parte della natura stessa del luogo.
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*Facoltà di Architettura di Roma
Valle Giulia
212
Il progetto – Fasi di attuazioni
Riccardo D’Aquino*
Le fasi di attuazione di un programma di così ampio respiro, eppure necessario
al “decollo” culturale e turistico dell’area, sono sostanzialmente tre:
Apertura immediata della prima area visitabile, costituita dal tratto di strada che
accede al percorso di congiunzione tra l’Heron, di Enea e l’Area sacra delle trdici
ARE. Questa fase è indipendente da successivi progetti di sistemazione.
Progetto e realizzazione del nuovo sistema di accesso e valorizzazione delle
aree archeologiche dell’Heroon, delle tredici Are e dell’edificio arcaico, con l’aggiunta di un percorso di congiunzione con il tratto di mura e la porta orientale di
accesso all’antica Lavinium.
Il progetto preliminare prevede una suddivisione di questi temi in due stralci
funzionali, così come indicato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio e qui di seguito descritti: In linea generale gli interventi proposti riguardano
– nel primo stralcio – opere legate al funzionamento dell’area archeologica già
aperta e – nel secondo stralcio- la sistemazione del nuovo ingresso e la valorizzazione del complesso dei monumenti exstra-moenia.
Progetto e realizzazione dello scavo archeologico, del restauro e della musealizzazione dei resti emergenti del foro, parziale completamento del percorso di
visita che, attraverso l’area dell’antica Lavinium, colleghi anche il borgo medioevale ed individui un secondo accesso di fronte al museo civico “Lavinium” che
accogli ed espone preziosi resti trovati durante gli scavi effettuati nell’area.
Avviato il parco archeologico e, quando si potrà, con futuri finanziamenti, attivare
la valorizzazione del Borgo, si creerebbero le premesse per nuovi itinerari turistici
di visita di importanti centri archeologici collegati al sistema insediativo del Lazio
Antico: questi percorsi- ad esempio il tracciato della via sacra che collegava il Tuscolo con l’area di Lavinium – potrebbero trarre esperienza anche da quanto si
sta realizzando lungo il percorso della via Francigena con il coinvolgimento di
Enti Locali: turismo interessato ai beni culturali, ma anche manifestazioni eno-gastronomiche, artigianato locale.
Occorre uno sforzo di programmazione dei diversi enti e il coinvolgimento dalla Regione Lazio, anche rivisitando e completando l’APQ già sottoscritto con il Ministero
per i Beni e le Attività Culturali. Resta comunque fondamentale una forte accelerazione
al processo di costruzione del Parco Archeologico di Pratica di Mare (pari per estensione ed importanza ad altri grandi centri archeologici come Paestum), possibile futuro
“motore” del rinnovamento e della riqualificazione del Lazio Meridionale.
Il Restauro degli Affreschi dello Scalone del Castello
di Ostia Antica
Simona Pannuzi, Laura Spada
Nel corso dell’anno 2008 la Soprintendenza di Ostia ha potuto predisporre il
primo lotto di lavori per il restauro degli affreschi cinquecenteschi dello scalone
del Castello di Giulio II, inserito in un programma di conservazione, restauro e valorizzazione dell’intero ciclo da svilupparsi nell’arco di un triennio. Questo primo
intervento conservativo è stato effettuato dalla Ditta CONART, con la direzione
scientifica della Soprintendenza ostiense, sulle pareti e la volta del primo ballatoio d’ingresso dello scalone. L’intervento ha compreso anche una serie di indagini diagnostiche, effettuate in collaborazione con il Dipartimento di Scienze
della Terra dell’Università di Pavia. Tali indagini sono state finalizzate alla ricostruzione della tecnica esecutiva degli affreschi ostiensi, ad una migliore comprensione degli interventi di restauro effettuati in tempi passati e ad una più completa
lettura dell’impianto decorativo. L’individuazione dei principali problemi conservativi ha avuto origine da una precedente collaborazione della Soprintendenza ostiense con l’Istituto Centrale per il Restauro e con la Soprintendenza per
i Beni Architettonici e del Paesaggio di Roma realizzata negli anni 2004-5 durante
un pronto intervento conservativo su alcune parti degli affreschi particolarmente
degradate.
Il presente intervento ha dato eccellenti risultati, portando un sensibile miglioramento nella fruizione da parte del pubblico di questa parte del ciclo pittorico.
Lo scalone che conduceva agli appartamenti papali del Castello fu affrescato per
volontà di papa Giulio II Della Rovere negli anni 1508-9. Tra gli artisti che parteciparono all’impresa oltre ad un semisconosciuto Michele Del Becca da Imola, testimoniato nelle note di pagamento della tesoreria pontificia, devono annoverarsi,
grazie anche agli studi stilistici ed iconografici effettuati durante il restauro, il senese Baldassarre Peruzzi ed il lombardo Cesare da Sesto, la cui presenza nella
rocca di Ostia è altresì indicata dal Vasari, i quali lavorarono in questo periodo
per papa Della Rovere anche negli Appartamenti Vaticani. Questo primo intervento di restauro è stato perciò fondamentale anche per le importanti novità storico-artistiche che sono scaturite su questi due importanti artisti del Rinascimento,
per i quali il cantiere ostiense deve avere rappresentato una tappa importante
nell’evoluzione della loro carriera artistica.
L’apparato decorativo dello scalone rappresenta, all’interno di finte architetture
prospettiche sulle pareti e di un finto cassettonato sulle volte, una serie di originali
motivi a grottesca, con grandi figure in monocromo, probabilmente allegoriche,
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di Ostia
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213
raffigurate lungo le pareti entro nicchie. All’interno di lunette tracciate nella parte
alta delle pareti erano dipinti mezzi busti maschili, anch’essi monocromi, forse
raffiguranti una serie di imperatori dell’antichità classica, nei quali il committente,
papa Giulio II, avrà probabilmente voluto riconoscersi, come grande condottiero
e uomo politico, enfatizzando il carattere mondano della sua carica. Fra queste
lunette, l’unica delle tre del primo ballatoio che conservi ancora la decorazione
originale in monocromo è quella sulla parete Ovest, nella quale è raffigurata una
testa di giovane di raffinata fattura, forse l’imperatore Alessandro Magno. Lungo
la prima rampa, esclusa dal presente intervento di restauro, sono inoltre dipinte
all’interno di riquadri sulla volta delle notevoli scene raffiguranti le Fatiche di Ercole, in cui si riconoscono particolari affinità con quelle analoghe raffigurate nel
fregio dipinto dal Peruzzi nella Sala del Fregio della Farnesina. Da una approfondita analisi stilistico-iconografica effettuata durante i lavori del 2008 è emerso
che per le scene ostiensi potrebbe aver partecipato all’ideazione e forse anche
all’esecuzione lo stesso Cesare da Sesto, al quale possono attribuirsi anche alcuni
dei motivi a grottesca di maggiore elaborazione artistica.
Durante l’intervento di restauro è stata preliminarmente operata una pulizia generale delle superfici, rimuovendo le patine saline che creavano il diffuso sbiancamento delle pareti, impedendo la visione della decorazione, ed è stato rimosso
lo strato eccessivo del protettivo steso durante gli interventi precedenti degli
anni ’60 del Novecento, il quale aveva reso le superfici pittoriche opache e scure.
È stato applicato un nuovo e reversibile consolidante, al fine di raggiungere una
più corretta protezione ed una visione migliore dell’apparato decorativo. Inoltre
sono state messe a punto le strategie di intervento per la continuazione delle
operazioni di restauro ed è stato possibile mettere in luce parti di affresco non
più visibili a causa del cattivo stato conservativo, rendendo godibile nella sua
completezza quanto ancora si conservava di questi splendidi affreschi, disperso
tra una miriade di rattoppi e risarciture maldestre e coperto da inidonei fissativi.
Sono stati verificati alcuni elementi importanti riferibili alla tecnica d’esecuzione
dell’affresco, come la realizzazione di profonde incisioni dirette o tramite battitura di fili per la definizione dello schema architettonico su volte e pareti, come
per es. verificato anche nel ciclo pittorico con episodi delle guerre daciche dipinte nel Salone Riario nel vicino nell’Episcopio ostiense e nella Sala delle Prospettive della Farnesina, dove lavorò in tempi successivi la stessa bottega guidata
dal Peruzzi. È stata verificata anche l’esecuzione di meno profonde incisioni indirette da cartone per i disegni a grottesca delle volte e delle pareti, non sempre
rispettate dalle pennellate di colore. Non è stato riscontrato invece alcun tipo di
disegno preparatorio inciso per la redazione del busto maschile nella lunetta
della parete Ovest e per le figure entro la grande nicchia dipinta sulla parete
orientale del primo ballatoio.
Con le indagini diagnostiche effettuate si è potuto verificare innanzi tutto il tipo
di intonaco di preparazione, omogeneo per composizione in tutta questa parte
dello scalone, caratterizzato da un buon livello tecnico, dalla presenza di materiale vulcanico e di inclusi di una certa grandezza, anche organici, atti a facilitare
il ritardo nell’asciugamento dell’intonaco, a quello utilizzato dalla stessa bottega
nell’Episcopio ostiense ed alla Farnesina. Inoltre, si è riscontrata anche negli affreschi del castello l’assenza di un intonachino al di sotto della pellicola pittorica,
stesa a diretto contatto con lo strato preparatorio. L’unico ed omogeneo livello
cromatico riscontrato nella maggior parte dei campioni è riferibile a terre (gialla,
verde, nera, rossa), con l’uso del “bianco S.Giovanni” (bianco di calce).
Un campione, effettuato nella lunetta sulla parete settentrionale del ballatoio,
con una decorazione ora non più percepibile, ha confermato quello che si supponeva con l’analisi autoptica, e cioè la presenza di un restauro o meglio di un
214
rifacimento dell’affresco, forse con un nuovo e diverso impianto decorativo, realizzato in un periodo abbastanza antico, ma non coerente con l’originario; il rifacimento fu realizzato con uno strato di preparazione a base di calce ed un
superficiale livello pittorico di colore marrone, stesi al di sopra della pellicola
pigmentata e del livello preparatorio originale, ormai del tutto disomogenei e
decoesi. Un altro campione, invece, effettuato all’interno della grande figura allegorica con i tre putti all’interno della nicchia dipinta nella parete orientale del
ballatoio, ha fornito dei risultati del tutto particolari, ma non ancora risolutivi, da
approfondire con future indagini, evidenziando forse un restauro realizzato già
in antico, ma nel rispetto di quanto originariamente affrescato.
In conclusione, questo primo lotto di interventi ha reso palese quanto sia urgente
continuare al più presto le operazioni di restauro su tutto lo scalone (dalla pulizia
al consolidamento ed alla calibrata reintegrazione pittorica), con un ulteriore approfondimento delle indagini diagnostiche per chiarificare alcuni aspetti tecnici
e per completare l’analisi iconografica dei dipinti. Andrà inoltre valutata la tipologia di interventi da realizzare sulle parti di affresco strappate durante un restauro
degli anni ’60 del Novecento all’interno dello pseudo-ballatoio aperto lungo la
prima rampa dello scalone, le quali, molto ritoccate nell’intervento conservativo
dell’epoca, sono caratterizzate da abrasioni e vaste cadute di pigmento. Un futuro intervento di restauro, che dovrà riguardare lo scalone nella sua completezza, sarà perciò particolarmente necessario per impedire una totale perdita
della pellicola pittorica, particolarmente deteriorata sulle pareti della prima rampa
e sulle volte della quarta e quinta rampa della scala.
215
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Andata al calvario, anonimo del XVI secolo Formia.
Chiesa di Sant’Erasmo
Descrizione dell’opera
L’Andata al Calvario appartiene alla chiesa di Sant’Erasmo di Formia, i cui gravi
problemi di umidità avevano favorito un massiccio attacco di insetti e causato il
degrado degli strati preparatori, divenuti decoesi ed instabili. Quando fu trasportata a Roma per una mostra nel 1976, il brusco cambiamento climatico produsse una forte contrazione del legno e sollevamenti degli strati pittorici tanto
estesi che si ipotizzò anche la possibilità trasportarli su un nuovo supporto. Infatti,
gli strati preparatori decoesi non avevano più spazio per tornare ad aderire sulla
superficie del legno, e presentavano sollevamenti “a tenda”.
Fu quindi portata al Laboratorio di Restauro dell’allora Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico di Roma e del Lazio (oggi confluito nella S.S.P.A.E.P.M. della
città di Roma) dove è tutt’ora ospitata in attesa dell’imminente riconsegna alla chiesa.
I primi interventi
Per circa 30 anni l’Andata al Calvario ha rappresentato una sfida ed un problema
complesso per diversi restauratori. Gli interventi che si sono susseguiti sono stati
in linea con l’evoluzione delle tecniche di restauro, e si sono confrontati principalmente con il grave problema costituito dal restringimento del supporto.
Per ottenere un rigonfiamento del legno sufficiente a restituire lo spazio necessario
agli strati pittorici, il dipinto è stato tenuto in camere umide appositamente realizzate. La fibra del legno è stata consolidata con Paraloid B72, e sono stati effettuati
fissaggi degli strati preparatori e pittorici prima con Colletta, poi con Gelvatol 40-20
e con Primal AC 33, a seconda del tipo di fissaggio. Quest’ultimo si è rivelato scarsamente efficace. Solo recentemente è diventato chiaro che la traversatura, tipica
degli anni ’70ed ’80, non era adeguata alle necessità del dipinto perché non consentiva al legno di incurvarsi e finiva con limitare anche i normali movimenti laterali.
La complessità della situazione ha richiesto un cambiamento di ottica nell’approccio al dipinto e la riprogettazione complessiva dell’intervento, basato su
una sperimentazione preliminare che tenesse conto della stratificazione degli interventi precedenti e delle cavità della tarlatura.
L’intervento attuale
Grazie ad un intervento della Soprintendenza P.S.A.E. del Lazio è stato possibile
rimettere mano al supporto del dipinto, studiare adesivi più adatti e prevedere
l’inserimento del dipinto in una vetrina di protezione.
Il primo passo è stato la definizione di un protocollo sperimentale per la scelta
dell’adesivo da usare come consolidante, che doveva riaggregare gli strati preparatori decoesi ed avere una buona capacità adesiva sui diversi sostrati creati
dalla presenza dei precedenti materiali di restauro.
Sono state eseguite prove meccaniche di trazione a rottura di un giunto creato
dai diversi adesivi tra uno strato di gesso (poverissimo di legante) ed una superficie lignea molto tarlata. Gli adesivi già usati sono stati confrontati con altri, valutando la resistenza del giunto e la capacità riaggregante sul gesso degradato:
Colletta, Primal AC33, Gelvatol, Vinnapas, Beva 371, colla di storione ed una microemulsione acrilica. In base ai risultati delle prove ed alle elaborazioni conseguenti, quest’ultima è sembrata la più adatta.
Il passo successivo è stato quello di restituire spazio agli strati preparatori fornendo al supporto una leggera concavità. Per questo è stata costruita una struttura in alluminio che, agendo unicamente dal retro, consentisse di ottenere una
freccia di curvatura adeguata ed omogeneamente distribuita. Una freccia di
ca. 28 mm ha reso di nuovo possibile spianare senza traumi i sollevamenti “a
tenda” degli strati preparatori.
La metodologia di consolidamento ha previsto come prima operazione una vera
e propria “pulitura” dell’interfaccia tra la preparazione e il legno con infiltrazioni
di una miscela di solventi polari e molto volatili. Le applicazioni di consolidante
hanno interessato a tappeto l’intero dipinto, operando in più fasi su ampie zone
lasciate asciugare sotto peso per alcuni giorni in modo da lasciare tempo all’adesivo di completare la sua azione.
L’intervento sul supporto è stato caratterizzato dall’applicazione di una nuova
traversatura che consentisse i movimenti nelle tre dimensioni, stabilizzando la
nuova forma curva con un contenimento elastico. Sono stati usati binari per l’automazione industriale miniaturizzata, con pattini in teflon su cui sono state montate delle molle inox fatte realizzare appositamente.
I binari sono posati su blocchetti di legno livellati con la guida di un raggio laser
per ottenere un piano di riferimento coerente con l’andamento generale dell’opera, e la forza imposta per il contenimento elastico è misurata.
Dopo l’intervento sul supporto ed una ulteriore revisione del consolidamento, si è
potuto procedere alle delicate operazioni di pulitura degli strati pittorici. Questa
è risultata complessa, a causa dalla perdita di legante e per la natura stessa della
tecnica di esecuzione, ma è stata possibile con l’uso di solvent-gel. In fase di reintegrazione, a tratteggio e velature, per le grandi lacune si è dovuto raggiungere un
delicato compromesso tra la ricostruzione ed il mantenimento del supporto a vista.
Il dipinto sarà ricollocato in chiesa con la protezione di una teca che stabilizzerà
il valore di UR rallentando gli scambi con l’ambiente della chiesa, ormai comunque risanata.
Il microclima ed i movimenti del legno saranno monitorati per un anno, in modo
da verificare che non si raggiungano mai situazioni pericolose.
Anonimo del XV secolo,
tecnica mista su tavola. Misure:
131 x 191 x 3 cm
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La chiesa della Madonna del Parto a Sutri: problematiche
di restauro di dipinti murali in ambiente ipogeo
Rosalba Cantone
La piccola chiesa rupestre della Madonna del Parto di Sutri, sacello cristiano sorto
su di un Mitreo romano (III secolo d.C.) che a sua volta era stato impostato su un
sepolcreto etrusco, è interamente scavata nel tu L’originale struttura si divide in
due parti: la prima è costituita da un vestibolo quadrato privo di finestre; la seconda, vero corpo della chiesa, consiste in una lunga grotta dal piano in terra
battuta, vano rettangolare tripartito in tre navate, scandite da sette piccole arcate
con pilastri quadrilateri di tufo decorati in epoca paleocristiana con raffigurazioni
simboliche quali il pesce, la colomba con il ramo d’ulivo e intrecci di nodi.
La navata destra ha piccole nicchie adibite in origine a sepolture; la navata sinistra
ha rare finestre di forma irregolare che danno luce all’ambiente. L’altare ha alle
sue spalle un arcosolio e, alla sua sinistra, una piccola grotta utilizzata come Sacrestia.
La chiesetta ha un ricco apparato decorativo sulle pareti dei diversi ambienti, sul
catino absidale e sulla volta della navata centrale, tutte decorazioni riferite al culto
della Vergine e del Cristo, al culto dell’ Arcangelo Michele e alle percorrenze dei
pellegrini.
Lungo le pareti dell’aula si fronteggiano un ciclo con episodi della Vita di Cristo,
costituito da tredici riquadri suddivisi in tre registri probabilmente risalenti al IX/X
secolo, e della Vergine, sempre databili, secondo gli studi sull’arte medioevale
di Serena Romano, (1992), non oltre la metà del sec. XIV. In diverse immagini votive si distinguono varie raffigurazioni di Madonne con Bambino, a volte con santi
e donatori. La committenza risulta essere femminile, posta in basso e genuflessa
ai piedi delle figure della MadonnNell’abside si trova un affresco trecentesco
raffigurante una Madonna del Parto, da cui il nome attribuito alla chiesa sutrina.
La Madonna è rappresentata in atto di accarezzare il Bambino in fasce, posto in
una cesta, con a fianco San Giuseppe, il bue, l’asinello e i pastori con il gregge.
In basso, a sinistra, è la committente con le mani congiunte in preghiera. Tale affresco, originariamente in altra sede rispetto all’attuale, fu collocato in questa posizione nel 1737 dal vescovo sutrino Vincenzo Vecchiarelli, a seguito del crollo
dell’originaria entrata della chiesa e la successiva apertura di un nuovo ingresso
nell’attuale vestibolo. A conferma dei dati storici , questa immagine mariana è risultata, difatti, essere un affresco oggetto di stacco a massello, reinserito nella
parete di fondo della zona absidale entro una nicchia creata ad hoc nel tufo e
tamponata con mattoni e malta a base di calce.
Il presbiterio è coperto da una volta a botte a sesto ribassato su cui è presente
una decorazione composta da due scene distinte. Nella parte più vicina all’altare
si ha un Cristo Pantocratore, benedicente, tra i simboli dei quattro evangelisti.
Nella zona adiacente a questa raffigurazione, sempre alla navata centrale, si trova
un San Michele Arcangelo, accompagnato dalla schiere angeliche, alato, con il
globo nella mano destra e uno scettro sulla sinistra, assimilabile alla bacchetta
degli ostiari, che avevano il compito di custodire il luogo sacro. E’ in abiti da dignitario di corte, con il loron in quanto appartenente all’esercito celeste e protettore del cristiano militante. Interessante è la tecnica artistica con cui è stata
realizzata la figura di San Michele: il suo volto è sbalzato a rilievo nella roccia. Tale
raffigurazione è riconducibile all’VIII-IX secolo ed è la più antica testimonianza
del culto micaelico nel sito sutrino.
Un secondo affresco, dedicato all’Arcangelo Michele e di cui rimane solo il volto,
è visibile su un pilastro della navata sinistra.
Il terzo dipinto murale dedicato a san Michele Arcangelo, più tardo e da riferire
probabilmente entro il primo-secondo decennio del Trecento, si trova nella parte
centrale della parete sinistra del vestibolo, nell’arco sopraporta e all’intorno della
porta. Vi è raffigurata l’Apparizione dell’Arcangelo Michele , a mezzo busto ad ali
spiegate, sul monte Gargano con il miracolo del toro e del pastore Gargano, tema
frequente nell’arte spagnola alla fine del medioevo, tratto dalla Legenda Aurea,(1)
una scelta rigorosa della committenza, pensata in stretto riferimento con la creazione
della grotta-cappella e della funzione cimiteriale cui essa era destinata. In effetti, il
culto di San Michele Arcangelo, importato nella zona di Sutri attraverso la dominazione longobarda, sostituisce quello delle vecchie divinità pagane, tra cui il dio
Mitra, e in questo sito ben si associa alla trasformazione dell’edificio da Mitreo a
chiesa cristiana. Una fila di pellegrini scalzi sale verso la grotta consacrata, a memoria
delle carovane transitanti per Sutri sulla via francigena verso Roma.
Un San Cristoforo è raffigurato nel vestibolo, a destra dell’apertura d’ingresso all’ambiente chiesastico, secondo l’iconografia classica che lo vede barbato, di
gigantesche proporzioni, con il bastone-palma ricca di fogliame e con Gesù
Bambino sulla spalla, a conferma del significato del suo nome “Cristoforo” quale
“Portatore di Cristo” e, dunque, portatore sulle sue spalle del peso del mondo.
Quale Santo patrono dei viandanti, la sua immagine sembra essere qui raffigurata
proprio a supporto e difesa dei pellegrini che in Sutri avevano uno dei punti
chiave di accoglienza e ospitalità sulla percorrenza della via francigena.
Questo interessante ciclo di dipinti murali, il cui cattivo stato di conservazione ha
determinato incertezze in merito alla sua valutazione stilistica e alla sua datazione e
che pare spaziare dall’VIII al XIV secolo, è risultato realizzato in toto a buon fresco.
Le tecniche di ciascun inserto decorativo presentano diversità a testimonianza della
loro non unitaria realizzazione. In alcuni di essi è presente un sottile strato di arriccio,
per dare uniformità alla superficie irregolare della roccia, e uno strato di intonaco a
base di sabbia grigia o pozzolana; in altri l’arriccio è assente o è presente un unico
strato preparatorio. La composizione dell’intonaco varia da dipinto a dipinto. L’ambiente umido della grotta ha favorito la realizzazione di porzioni molto ampie di intonaco: l’umidità, difatti, rallenta il processo di presa e carbonatazione della calce,
permettendo all’artista una stesura rallentata dei pigmenti.
In un ex-voto nella navata sinistra e nella raffigurazione del Cristo Pantocratore si
è riscontrata la presenza di due strati di intonaco dipinto, testimonianza di palinsesti decorativi realizzati gli uni sugli altri in epoche storiche diverse, l’uno per
cambiamento di gusto nella scelta delle immagini, l’altro per supplire a danni
provocati dal fenomeno d’umidità per infiltrazioni di acqua dall’alto.
219
Si è riscontrata la presenza di disegno preparatorio in ocra giallo, di battitura di
filo con cordino intriso di terra rossa per la traccia delle linee diritte e di incisioni
dirette da compasso per la realizzazione delle aureole. Nell’immagine della Madonna del Parto per la resa dei raggi a rilievo è stata utilizzata una stecca sull’aureola della Vergine.
La tavolozza dei pigmenti utilizzati è quella tipica dei dipinti medioevali, con
cospicuo uso di pigmenti minerali naturali (terre: ocra gialla e rossa, terra verde)
e di origine vegetale (nero di vite). Si è, inoltre, riscontrato l’uso di azzurrite con
smaltino applicata a secco con legante proteico su una base a fresco in nero di
vite. Sul dipinto più antico (primo strato del Cristo Pantocratore e il coevo Arcangelo Michele) si è accertato l’uso del blu oltremare e di lapislazzuli.
In nessuno dei dipinti si sono riscontrate dorature. Le condizioni ambientali della
chiesa, con notevole presenza di umidità derivante dalle rocce di tufo entro cui
è stato scavato l’ipogeo, poi trasformato in mitreo e, successivamente, in luogo
di culto cristiano riadattato a chiesa in età medioevale, hanno creato gravi problemi conservativi di natura chimica e biologica e hanno reso molto difficile l’intervento di recupero dei dipinti murali.
I costanti fenomeni di umidità, connessi anche con l’attività meteorica, con migrazione dell’acqua all’interno della muratura, di evaporazione attraverso la superficie
porosa degli affreschi e di condensa sugli stessi hanno favorito il movimento dei
sali con la formazione di efflorescenze e subflorescenze saline. Il conseguente indebolimento della pellicola pittorica e degli strati preparatori ha determinato il loro
sollevamento e sgretolamento, con conseguente caduta di stralci decorativi.
Il fenomeno di condensa ha favorito la solubilizzazione di acido carbonico, con
conseguente deposito di carbonato di calcio sulle superfici affrescate e formazione
di veli biancastri irreversibili e di concrezioni calcaree particolarmente tenaci.
Notevole era anche il degrado di tipo microbiologico con evidente attacco di
alghe, funghi e batteri.
Su tutta la superficie pittorica erano presenti fenomeni di decoesione, di deadesione e di distacco dell’intonaco dipinto dal supporto tufaceo, polverizzazione
e caduta di intonaco e pellicola pittorica, alterazione dei pigmenti, dei leganti e
dei fissativi e affioramento di sali solubili. Antichi dissesti avevano causato crepe
e fenditure.
Indagini stratigrafiche hanno provato la presenza di più strati sovrapposti e alternati di colore bianco - carbonati - e di colore bruno, da ricondursi all’alternarsi
di infiltrazioni di umidità con migrazione di sostanza inorganica bruna dalla roccia
e di asciugature della superficie, con conseguente precipitazione di carbonato
di calcio sul colore.
Si sono riscontrate anche stuccature e ridipinture, testimonianza di precedenti interventi manutentivi.
Danni di natura antropica, vandalismi, segni e graffiti di ogni genere deturpavano
l’insieme decorativo e sporcizia diffusa su tutta le superficie, dovuta principalmente a nerofumo e polvere, ne impedivano una corretta lettura filologica.
Le particolari condizioni ambientali della chiesa hanno imposto un monitoraggio
dei parametri termoigrometrici ambientali. Le misurazioni si sono effettuate per
12 mesi con tre rilevatori elettronici Data Logger termoigrometrici Hobo Proseries
(Onset), due dei quali sono stati posti all’interno dell’ambiente chiesastico e uno
fuori, per un costante confronto con i dati del clima esterno.
A seguito delle risultanze dei primi monitoraggi, si è provveduto a chiudere con
una finestra l’apertura del vano in fondo alla chiesa adibito a sacrestia, con conseguente progressiva stabilizzazione dei parametri ambientali interni.
Si è, dunque, proceduto al restauro delle superfici dipinte con un bloccaggio
preventivo dei difetti di adesione delle parti pericolanti e a rischio di caduta;
220
successivamente, si sono risanati i difetti di adesione degli strati preparatori, utilizzando prodotti diversi a seconda delle diverse zone interessate: Ledan SM02,
Ledan TA1, Ledan TA2 addizionato con un 20% di Ledan Ital B2. Dopo il preconsolidamento si è proceduto alla pulitura e al definitivo consolidamento con le
metologie e i materiali sopra accennati. Si è eseguita la disinfezione di tutte le superfici con biocida ad ampio spettro a base di sali di ammonio quaternario e la
pulitura con rimozione delle efflorescenze saline, carbonatazioni, patine biologiche, vecchie stuccature e depositi di vario genere, con mezzi chimici e meccanici alternati. Nel corso delle lavorazioni, a causa del manifestarsi di una nuova
cospicua crescita fungina, si è reso necessario procedere a più riprese a disinfestazioni generalizzate su tutte le superfici della chiesa mediante l’uso, dopo opportuni test di efficacia, con un biocida ad ampio spettro a base di sali di
ammonio quaternario e cloruro di isotiazolinone (Rocima TM103 al 3%, prodotto
dalla Rohm and Haas), sciolto in solvente alcolico, per non creare ulteriore umidità nell’ambiente.
Per la ripresentazione estetica si è valutata la problematica della di una reintegrazione pittorica in condizioni estreme di umidità e si è escluso l’uso di colori ad
acquerello: è stata ridotta al minimo la reintegrazione pittorica, utilizzando un
leggero abbassamento di tono per ridurre il disturbo visivo delle piccole lacune
e delle abrasioni del colore e dell’intonaco; le lacune più ampie sono state chiuse
con stuccature imitanti l’abrasione e la caduta dell’intonaco originale dipinto;
per le grosse lacune, poichè test di stuccature non avevano dato risultati soddisfacenti, si è preferito lasciare la roccia a vista colmandone i vuoti più profondi,
o eseguire stuccature ad imitazione del tufo circostante con piccole cavità e scabrosità create con l’utilizzo di una particolare granulometria della malta o con
lavoro meccanico.
Oggi l’insieme decorativo della chiesa appare uniforme e si offre finalmente
pronto ad una corretta lettura critica.
Alla luce delle difficili condizioni ambientali in cui si trovano gli affreschi della
chiesa, assimilabili a quelle degli ipogei, si dovrà curare il corretto mantenimento
dell’equilibrio microclimatico oggi raggiunto,e si dovrà provvedere al costante
monitoraggio della crescita dei biodeteriogeni e all’attuazione di un piano di
manutenzione ordinaria per la loro successiva eliminazione.
Si ritengono strategie indispensabili per non rendere nullo l’intervento di restauro
appena ultimato il previsto isolamento termoigrometrico dell’intero ambiente
con la sostituzione del portone e degli infissi delle finestre, il rilevamento continuo dei parametri microclimatici e un’apertura al pubblico controllata nel numero
e nel tempo di permanenza.
(1) Testo agiografico
di larghissimo successo scritto
da Jacopo da Varagine (o da
Voragine o, anche, da Varazze)
nel 1298, cui seguono con
meno successo Speculum
Historiale di Bernardo Guidonis
del 1331, e il Legendarium
di Peter Carlo del 1348.
Progettista e Direttore dei lavori:
Rosalba Cantone
Collaboratori: e Direttori
operativi: Angela Catalano,
Alessandra Percoco
Progetto n. 19 del 05/12/2006
di € 50.000,00 (approvato con
delibera Comune di Sutri n.2
del 04/11/2007)
Variante n. 151 del 07/07/2008
di € 46.740,10 (approvata con
delibera Comune di Sutri n. 13
del 05/02/2009)
Ditta esecutrice:
Scirpa Francesca,
Via Leonardo Pisano 26 Roma
Consulenza dell’I.S.C.R.:
dott. Roberto Rinaldi
e dott. Fabio Scala
Data inizio lavori: 09/10/2007 –
Data fine lavori 13/09/2008
Finanziamento: Contributo
regionale concesso con L.R.
n.5/06 – Tab A di € 50.000,00
per “Restauro degli affreschi
presenti nella Chiesa della
Madonna del Parto” in Sutri (VT)
Regione Lazio – Dipartimento
Sociale Direzione Regionale
Beni e Attività Culturali, Sport:
Dirigente: Flaminia Santarelli
Comune di Sutri (VT):
Sindaco: Rag. Guido Cianti
Responsabile Area tecnica:
Ing. Nicola Marcucci
Responsabile Unico
del Procedimento:
Ing. Guido Vestroni
221
Museo Nazionale del Palazzo di Venezia
SOPRINTENDENZA SPECIALE PER IL PATRIMONIO STORICO ARTISTICO
ED ETNOANTROPOLOGICO E PER IL POLO MUSEALE
DELLA CITTÀ DI ROMA
Soprintendenza Speciale per
il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale
della Città di Roma
Soprintendente:
Claudio Massimo Strinati
Palazzo Venezia
Piazza S. Marco, 49
00186 Roma
Tel. 0669994202
Tel./Fax museo 06 69994394
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Museo Nazionale
del Palazzo di Venezia
Direttore:
Maria Giulia Barberini
Via del Plebiscito, 118
00186 Roma
Tel. 06 69994289
Fax 06 69994394
222
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città
di Roma
Anno di fondazione Polo Museale Romano dal 2001, Psae e Polo Museale della
Città di Roma dal 2007 - Museo Nazionale del Palazzo di Venezia dal 1921
Referente Claudio Massimo Strinati (Soprintendente) – Maria Giulia Barberini
(Direzione museo) – Silvano Germoni (Responsabile tecnico Armeria Odescalchi).
Descrizione attività
La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma è nata nel 2007, come conseguente evoluzione del Polo Museale Romano istituito nel 2001 con decreto
ministeriale, ed è uno degli enti pubblici periferici dipendenti dal Ministero per
i Beni e le Attività Culturali.
Compiti della Soprintendenza sono le attività di conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio storico artistico presente sul territorio di Roma e la gestione di seguenti siti museali: Galleria Borghese, Galleria Nazionale d’Arte Antca
in Palazzo Corsini, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Galleria
Spada, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Museo Nazionale del Palazzo di
Venezia.
La Soprintendenza dispone dei seguenti uffici:
- Uffici Amministrativi: gestione risorse economiche e personale;
- Ufficio del Territorio: composto da funzionari storici dell’arte preposti alla tutela
del patrimonio storico artistico;
- Ufficio Tecnico Restauri: si occupa dell’istruttoria dei restauri;
- Ufficio del Catalogo: conserva le schedature degli oggetti di rilevanza storico
artistica di Roma e del Lazio;
- Ufficio Mostre: organizza e segue l’attività espositiva dell’Istituto;
- Archivio e Laboratorio Fotografico;
- Biblioteca.
Il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia ha sede nel quattrocentesco palazzo
sorto come residenza cardinalizia di Pietro Barbo, poi eletto al soglio pontificio
con il nome di Paolo II (1464-71). Successivamente l’edificio fu anche sede dell’ambasciata veneziana (1564-1797) e poi di quella austriaca (1797-1916). Il
museo, inaugurato nel 1921 da Federico Hermanin, nacque come Museo del Medioevo e del primo Rinascimento ma ampliò notevolmente le sue collezioni grazie ad una serie di lasciti, donazioni e acquisti. Oggi la raccolta si snoda in un
percorso di circa 30 sale che ospita collezioni di pittura, scultura lignea, porcellane, ceramiche, bronzi, marmi, terrecotte ed armi, che lo rendono il più eclettico
della città.
Oltre alla conservazione e alla valorizzazione delle opere che possiede, il Museo
organizza mostre, concerti ed eventi culturali. Attualmente in collaborazione con
la Getty Foundation di Los Angeles sta realizzando un progetto per lo studio e il
restauro delle collezioni di scultura finalizzato alla pubblicazione dei rispettivi cataloghi scientifici.
Il restauro della Brigantina Odescalchi
Maria Giulia Barberini
Nel corso del 2008 il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia ha fatto restaurare una brigantina risalente agli inizi del XVI secolo, prodotta probabilmente
in area lombardo-veneta. Si tratta di un oggetto di estrema rarità e di singolare
fascino che è giunta al museo nel 1959, quando lo Stato Italiano acquistò l’armeria del principe Ladislao Odescalchi, una preziosa collezione di armature,
armi bianche e da fuoco, che verrà presto esposta con un nuovo allestimento.
La brigantina è un giubbetto corazzato composto da petto e schiena (interamente
costruiti con 628 lamelle sovrapposte) e da parti di maglia di ferro ad anelli su
spalle e fianchi per facilitare il movimento. Del tessuto esterno restano piccoli lacerti di colore bruno, un tempo velluto rosso impreziosito da ribattini dorati. Del
tutto mancante è l’originaria fodera interna, nonché il sistema di chiusura.
Quando è pervenuta al museo la brigantina era accompagnata da un manichino
ottocentesco in legno con la testa in cartapesta, probabilmente voluto dallo
stesso Ladislao Odescalchi.
Anche la testa in cartapesta è stata sottoposta ad intervento di restauro, ed oggi
sul manichino è montata una copia fedele in tessuto stampato della brigantina
(scala 1 a 1), che per via del tessuto ormai lacero e del peso delle lamine metalliche (6.400 gr) è esposta aperta e adagiata in una vetrina in plexiglass e cristallo.
Frutto di rimaneggiamenti ottocenteschi erano, invece, il farsetto in canovaccio,
ma anche elementi bizzarri come un’improbabile passamaneria, una frangia in
metallo intorno al collo e alle aperture ascellari e fettucce di canapa per rinforzare
le parti più lesionate. La complessità di questa particolare armatura e la molteplicità dei materiali che la compongono (stoffa e metallo per la brigantina, legno e
cartapesta per il manichino) ha richiesto l’impiego di diversi restauratori: Sante
Guido, Giuseppe Mantella e Livia Sforzini hanno dapprima rimosso la brigantina
dal manichino su cui era stata conservata; eliminato le citate aggiunte; reinserito
le lamelle originali staccatesi nel tempo; liberato la superficie da una patina di
grasso applicata nell’Ottocento per bloccare la corrosione del metallo ed, infine,
rinforzato le parti più deteriorate. Elisabetta Marmori, invece, ha provveduto: allo
smontaggio delle cinque parti che compongono la testa in cartapesta del manichino, alla pulitura, al consolidamento, al risarcimento delle lacune ed infine al
riassemblaggio della testa.
Questa brigantina, di bellissima fattura e di indubbia qualità, è stata esposta nella
mostra Un vestito da battaglia. Una brigantina del ‘500 a cura di Maria Giulia Barberini e Daniele Diotallevi, Roma Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, 22
ottobre-21 dicembre 2008 (catalogo Campisano Editore).
La brigantina è “un vestito da battaglia” utilizzato a salvaguardia del busto e doveva garantire allo stesso tempo il massimo della protezione e un’ampia libertà
di movimento. È costituita all’interno da una giubba in tela o cuoio e all’esterno
da una copertura di velluto o stoffa pesante: tra i due strati erano più file di lame
d’acciaio sovrapposte. Le varie parti venivano fissate grazie a ribattini, piccoli
chiodi le cui teste, dorate o argentate, andavano a formare dei disegni decorativi
sulla parte esterna.
Corazze simili, con placche metalliche applicate su una casacca in cuoio, comparvero già alla metà del XIII secolo ma solo nel Trecento vennero chiamate brigantine,
per indicare l’equipaggiamento leggero in dotazione a drappelli di mercenari detti
appunto briganti (dal francese brigaille, letteralmente multicolore, termine probabilmente riferito all’abbigliamento variegato di queste truppe).
Nei due secoli successivi, l’arma si diffuse in tutta Europa e il suo ampio utilizzo
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nel Quattrocento è testimoniato sia nelle fonti iconografiche, quali i dipinti di Altichiero, Paolo Uccello, Carpaccio, che in quelle storiografiche: le cronache fiorentine relative alla congiura dei Pazzi (1478), ad esempio, ricordano che i
congiurati antimedicei abbracciarono ripetutamente Giuliano de’ Medici prima
di assassinarlo per controllare che non indossasse questo vero e proprio “giubbetto antiproiettili” ante litteram.
Per tutto il Cinquecento, pur coesistendo con le armature a piastra, le brigantine
venivano indossate sia da personaggi illustri che da semplici gregari, e sempre
più spesso venivano fornite alle truppe di fanteria e cavalleria.
La produzione di brigantine raggiunse i massimi livelli esecutivi nel corso del XVI
secolo anche in virtù delle nuove esigenze militari dovute all’introduzione della
polvere da sparo: le pesanti e costose armature, infatti, non garantivano più alcuna protezione di fronte alle nuove e micidiali armi da fuoco. Il passaggio dall’età delle armi bianche a quelle da fuoco è simbolicamente rappresentato dalla
morte di Giovanni dalle Bande Nere, l’ultimo cavaliere di ventura, ucciso in battaglia nel 1526 ad opera dei lanzichenecchi che lo ferirono mortalmente con un
colpo di artiglieria.
224
Restauro della Brigantina Odescalchi
Sante Guido, Giuseppe Mantella, Livia Sforzini
Stato di conservazione precedente al restauro
- Fibre tessili
Alla vigilia dell’intervento, la brigantina Odescalchi mostrava preoccupanti condizioni conservative, a causa del drammatico ed inarrestabile processo di degrado
che colpisce soprattutto materiali deperibili come il tessuto e le leghe ferrose.
Il degrado delle fibre tessili aveva condotto alla perdita quasi totale del velluto
di rivestimento originale, inoltre il diretto contatto delle fibre organiche con gli
ossidi minerali dovuti alla corrosione del ferro aveva innescato un processo di
«mineralizzazione del lino». Il tessuto era quindi particolarmente sensibile a qualsiasi sollecitazione di tipo fisico, tanto da non riuscire più a sostenere il peso
delle singole lamelle di ferro. La situazione era aggravata dalla sistemazione della
brigantina su un manichino ottocentesco in legno.
Tale condizione ha sicuramente accentuato il forte stress meccanico cui le fibre tessili
erano sottoposte nel sostenere il peso dell’intera armatura, tanto che il tessuto appariva
quasi totalmente lacerato, con strappi e distacchi delle lastrine specie nella parte bassa
dove gravava il peso maggiore. Proprio per supportare la tela, ormai lacera, e per sostenere il peso delle lamine metalliche, in epoca imprecisata, erano state applicate,
con colla animale, ulteriori fettucce di rinforzo sia in senso verticale che orizzontale. Con
il passare del tempo la colla, cristallizzandosi, ha perso ogni potere adesivo. Le fasce
si sono così sollevate generando ulteriori strappi sulla tela di lino e lasciando su quest’ultima spessi residui di materiale organico soggetto a biodeterioramento.
Sul fianco destro, una grossa lacuna della struttura metallica era stata risarcita assemblando, con del filo di rame, alcune lamelle originali ad una toppa di cuoio.
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- Elementi metallici
Ugualmente grave appariva lo stato di conservazione delle parti metalliche.
Le superfici delle lamine si presentavano completamente coperte da una sostanza
nera grassa applicata tra fine XIX e inizio XX secolo allo scopo di bloccare la corrosione del ferro. La presenza di questa “pellicola” mascherava totalmente sia la
stagnatura originale, rilevata solo grazie all’analisi con fluorescenza ai raggi X, preliminari all’intervento di restauro, sia le differenti lavorazioni superficiali delle singole lastrine che, come apparso dopo il restauro, sono ora lucide, ora opache
ora interessate da lacerti della stagnatura.
Nonostante i numerosi strati di grasso, erano evidenti molti rigonfiamenti sulla superficie metallica che facevano presagire gravi fenomeni di corrosione in atto.
Se ne è avuta conferma dai tasselli di pulitura in corrispondenza dei quali, rimossa
la sostanza grassa, la superficie è apparsa ricoperta da compatti strati di ossidazioni (ruggine) che interessavano sia le lamine che i ribattini. La stessa pessima situazione conservativa presentavano le maglie metalliche, i cui minutissimi anellini,
visto il ridotto spessore, erano già totalmente mineralizzati, mentre numerose lacune erano evidenti in più punti.
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Operazioni di restauro
- Fibre tessili
La prima operazione è consistita nel rimuovere la brigantina dal manichino in
legno, previo bloccaggio delle parti in fase di collassamento e distacco. L’arma
è stata quindi suddivisa in due parti eliminando le cuciture di assemblaggio ottocentesche in corrispondenza delle spalle e dei fianchi; a seguire sono state
smontate le maglie metalliche, la passamaneria e le frange, anch’esse applicate
nel XIX secolo intorno al collo e al giro maniche.
225
Ove possibile, con un microaspiratore, provvisto di una garza a protezione del
bocchettone, si è rimossa la polvere che ricopriva le superfici.
Sia in considerazione della storicità degli interventi precedenti sia della fragilità dei
materiali, sono state mantenute le fasce di rinforzo per evitare nuove lesioni al tessuto
di lino originale; il collante cristallizzato è stato asportato con operazioni meccaniche a bisturi chirurgico e con l’ausilio di un microscopio ottico binoculare.
Le parti tessili di restauro lungo il perimetro sono state rinforzate con dei punti
di filo di lino, mentre lungo i fianchi si è resa necessaria l’aggiunta di un velatino
di nylon come supporto per le maglie metalliche. A restauro ultimato le due metà
della brigantina sono state assemblate all’altezza delle spalle con filo in lino.
- Elementi metallici
La compresenza di tessuto e parti metalliche ha condizionato la scelta del metodo
di pulitura, a cui si è giunti dopo numerosi test. Le sostanze grasse e le cere che coprivano le superfici metalliche sono state rimosse mediante graduali interventi di
pulitura: inizialmente a tampone con una miscela 1:1 di alcol e acetone; successivamente con impacchi di benzina rettificata; ed infine a tampone con tricloroetilene.
Le superfici sono quindi state lavate, a tampone, con un detergente non-ionico,
e la disidratazione è stata effettuata con tamponi di alcool e acetone.
Al fine di intervenire sugli strati ossidati, nel rispetto dei pochi residui di stagnatura superstiti, si è proceduto con micro-impacchi di carta assorbente e soluzione al 20% di EDTA trisodico a pH neutro, che hanno ammorbidito gli strati di
colore nero e gli strati più compatti di ossidazioni, per poi completare la rimozione per mezzo di tamponcini di cotone imbevuti della stessa soluzione. Infine,
per asportare gli ultimi strati di prodotti di corrosione del ferro sono stati utilizzati
bisturi chirurgico e matite a fibra di vetro.
Ultimata la pulitura sono state identificate tracce di lavorazione, tra cui il punzone
di marca su una lamella della schiena.
Per preservare gli elementi in lega di ferro dalla minaccia di corrosione, si è effettuato un trattamento con acido tannico al 2% in acqua deionizzata e poi la superficie, su indicazione della direzione lavori è stata ricoperta con un olio
anti-proliferante e bloccante della ruggine (Rustol Owatrol).
Le lamine distaccate sono state ricollocate mediante colla epossidica bicomponente. L’operazione di assemblaggio ha comportato serie difficoltà vista l’impossibilità di ancorare la brigantina ad un elemento di sostegno. L’assemblaggio con
resina epossidica, reso reversibile grazie all’applicazione di un primer acrilico, ha
permesso di ricostruire l’unità delle lamine anche nelle zone prive di supporto
tessile, seppure a discapito della mobilità e flessibilità nel manufatto.
Per garantire la migliore conservazione dell’opera è stato realizzato un supporto
espositivo di plexiglass modellato, che si adatta alla forma della corazza e riduce
ogni possibilità di sollecitazioni esterne. Il manichino ottocentesco in legno è
stato oggetto di operazioni di spolveratura e di disinfestazione per anossia.
226
Restauro della testa in cartapesta del manichino
ottocentesco
Elisabetta Marmori
Stato di conservazione
Nei cinque pezzi che compongono la testa si notavano deformazioni e lacerazioni nella zona del collo, dell’orecchio destro e numerose cadute della pellicola
pittorica.
La cartapesta appariva sfaldata e sformata lungo i margini di congiunzione. Per la
lunga esposizione, senza una protezione idonea, il lato superiore del cranio risultava annerito da depositi di polvere.
Operazioni di restauro
Sono stati dapprima smontati i singoli pezzi rimuovendo i fili di cucitura e la
grappetta metallica usata per la giuntura del collo. La pulitura interna ed esterna
è stata effettuata con gomme della Wishab. Le polveri e i depositi organici sono
stati eliminati con una soluzione acquosa con poche gocce di ammoniaca, mediante batuffoli di cotone. Il consolidamento ha riguardato il cartone sfaldato e
i sollevamenti della pellicola pittorica che sono stati consolidati con metilcellulosa. In particolare, le zone lacerate e deformate sono state riposizionate con
piccoli morsetti e rinforzate con strisce di carte giapponesi. Successivamente è
stato eseguito un risarcimento delle lacune con polpa di carta giapponese e poi
ritoccate con colori ad acquerello. Infine i cinque elementi sono stati riassemblati
mediante tre strati di carta giapponese imbevuti con un collante reversibile.
Museo Nazionale del Palazzo di Venezia
SOPRINTENDENZA SPECIALE PER IL PATRIMONIO STORICO ARTISTICO
ED ETNOANTROPOLOGICO E PER IL POLO MUSEALE
DELLA CITTÀ DI ROMA
Soprintendenza Speciale per
il Patrimonio Storico Artistico
ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale
della Città di Roma
Soprintendente:
Claudio Massimo Strinati
Palazzo Venezia
Piazza S. Marco, 49
00186 Roma
Tel. 0669994202
Tel./Fax museo 06 69994394
[email protected]
Museo Nazionale
del Palazzo di Venezia
Direttore:
Maria Giulia Barberini
Via del Plebiscito, 118
00186 Roma
Tel. 06 69994289
Fax 06 69994394
227
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
228
Il restauro della facciata più antica del Palazzo
della Rovere di Savona
Maria Di Dio
Il Palazzo della Rovere di Savona, commissionato nel 1493 a Giuliano da San
Gallo dal Cardinale Giuliano della Rovere e che, secondo il Vasari dovrebbe essere stato completato nel 1500, è oggetto di un restauro generale iniziato nel
1994 su impulso del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in base al quale
sono stati già realizzati molti interventi significativi.
Tra questi, è stato recentemente concluso quello della facciata più antica, costituita da una parte centrale rinascimentale affiancata, alla sua sinistra, dalla facciata
della cosiddetta “Casa dei Mullasana”, acquisita al Palazzo solo nel XVII, quando
le Clarisse, che avevano da poco scelto il Palazzo come loro nuovo convento, acquistarono questo edificio per costruire sul suo sedime una Cappella che fosse
accessibile anche dalla popolazione.
Fino al 1871 la parte centrale della facciata aveva conservato le maggiori tracce
dell’aspetto originario del Palazzo, quello sicuramente attribuibile a Giuliano da
San Gallo, ma in quell’anno le due Sale che fiancheggiano l’ingresso principale
furono trasformate in locali commerciali accessibili mediante l’apertura di ampi
ingressi-vetrine, che comportò la sostanziale modifica della parte bassa della
facciata. L’istanza utilitaristica dovette suscitare polemiche anche all’epoca, infatti
presso l’Archivio di Stato di Savona si conserva un disegno di progetto dell’ing.
Tissoni piuttosto dettagliato e chiaramente inteso a dimostrare come le nuove
aperture fossero interventi minimi, di semplice adattamento.
In realtà l’intervento, una volta eseguito, fu devastante: i quattro grandi portali ottocenteschi ebbero l’effetto di banalizzare e stravolgere completamente l’elegante definizione architettonica della parte meglio conservata della facciata
stessa, che era giocata sul raffinatissimo contrasto cromatico tra il tipico bigio
dei masselli d’ardesia degli sfondati e il bianco marmoreo delle cornici delle finestre, dei riquadri decorativi situati sopra e sotto le finestre stesse e di quello
delle paraste e del fregio che intelaiano il primo ordine architettonico. Inoltre resero impercettibile la traccia del basamento che certamente era continuo, e relegarono a semplici sopraluci i resti delle alte finestre che invece, nelle intenzioni
del San Gallo, dovevano denunciare una tipologia tipicamente toscana, tutta organizzata intorno ad una monumentale corte interna.
Siccome nell’ambito di un restauro moderno poteva sembrare azzardato rimuovere elementi ormai storicizzati nonostante l’esistenza di una buona documentazione utile a garantire una soluzione certamente non “fantasiosa” (come il rilievo
firmato Auzillon, del 1808, rintracciato negli Archives Nationales di Parigi; quello
pubblicato dal Gauthier nel 1818 e il citato disegno di rilievo e progetto redatto
dal Tissoni, e conservato nell’Archivio Storico di Savona), la Soprintendenza per
i Beni Ambientali e Architettonici della Liguria, con la fattiva collaborazione dell’Ordine degli Architetti di Savona, del Comune e dell’Amministrazione Finanziaria che detiene il Palazzo, nel 1997 promosse un Concorso Nazionale di Idee
per Architetti, in modo da promuovere un dibattico sul problema e valutarne gli
esiti. Si verificò così che la maggioranza dei progetti, insieme a quello dichiarato
vincitore, riteneva corretto ricomporre l’assetto originario, discernendo l’architettura originaria e le sue stratificazioni secolari, comunque significative, dalle superfetazioni e dagli interventi stravolgenti.
Si decise quindi di ricomporre la parte inferiore della facciata secondo il progetto originale di Giuliano da San Gallo. Mentre lo zoccolo basamentale è stato
riproposto in lastre e masselli di ardesia secondo un disegno molto semplificato,
facilmente riferibile all’epoca attuale, in quanto non esiste ad oggi alcun elemento
su cui basarsi per riproporre le fattezze dell’originale (che potrebbe essere stato
addirittura un sedile, secondo l’uso rinascimentale tosco-romano), le parti proposte come “ricomposizione” sono state realizzate invece con intonaco colorato
in pasta e trattato in modo da simulare il materiale originale (con polvere di ardesia in luogo dei conci e di marmo per le parti basse delle cornici verticali delle
finestre e dei riquadri decorativi sottostanti le finestre).
Le finestre originali sono state ripristinate in altezza mediante la traslazione in
basso del massello orizzontale che fungeva da “davanzale” delle finestrelle che
erano state ridotte a sopraluce dei negozi (e che in realtà costituivano la parte residua delle finestre originali), mentre l’altezza della finestra è stata stabilita in base
alla verifica degli orizzontamenti dei ricorsi dei conci di ardesia della facciata
stessa ed alle misure dei riquadri marmorei soprastanti le finestre, che sono stati
replicati tra queste e la nuova zoccolatura continua, come risultava appunto dalla
documentazione della facciata antica.
Contemporaneamente, a sinistra della facciata sangallesca è stata restaurata quella
della cosiddetta “Casa dei Mullasana”. Nel complesso questa, giunta sino a noi
nell’anonimo aspetto assunto nel secondo dopoguerra, sembrava poter essere
priva d’interesse proprio perché le pesanti trasformazioni subite nel tempo
avrebbero potuto sottendere una totale demolizione dell’edificio preesistente.
Le Clarisse infatti, sul sedime di una dimora medioevale, fecero progettare all’architetto camerale G.B. Costanzo un’aula a pianta centrale preceduta da un vasto
nartece aperto sull’attuale via Pia mediante tre grandi arcate sorrette da due colonne marmoree monolitiche, giunte sino a noi tamponate incongruamente.
Dopo la confisca del Convento, disposta dal Prefetto napoleonico G. Chabrol
de Volvic nel 1797 in vista della trasformazione del Palazzo nella sede della sua
Prefettura, la Cappella fu tramezzata in altezza per ricavare al piano superiore
una Grande Sala di Rappresentanza, secondo un progetto che prevedeva modifiche anche all’assetto del prospetto esterno.
Grazie alle caute indagini effettuate all’inizio dei lavori, che hanno evidenziato la
mancanza di intonaci storici (con la sola eccezione di quello trovato e mantenuto
in corrispondenza dei tre archi del porticato del pian terreno), si è constatato invece che la muratura della facciata costituisce ancor oggi un vero e proprio palinsesto delle sue varie fasi storiche.
Mentre le otto finestre rettangolari esistenti hanno visibilmente subito, in varie
epoche, diverse traslazioni ed allargamenti, ai piani intermedi è scaturita la scoperta più interessante, quella dell’esistenza di varie tracce delle sistemazioni più
antiche: una serie continua e ben conservata di beccatelli in cotto dipinto su
mensole di ardesia, sorreggenti una cornice di ardesia da cui spiccavano tre monumentali archi acuti e, al piano soprastante, le tracce di altre piccole finestrature,
sempre a sesto acuto, “scaricate” dal peso della cortina muraria soprastante da
un grande arco ribassato.
Realizzati “a scasso” rispetto tale muratura medievale sono stati rinvenuti anche
tamponamenti e strutture inerenti nuove finestrature riferibili alla fase conventuale,
mentre i due piani più alti sono risultati realizzati tra la fine del XV e l’inizio del
XVI secolo.
Considerato che lasciare tutto a vista sarebbe risultato in qualche modo stridente
rispetto alle facciate dipinte limitrofe e tenuto conto che comunque l’aspetto finale sarebbe stato poco comprensibile, si è scelto di reintonacare in modo uniforme, se pure con materiale più consono, le parti soprastanti la serie di
beccatelli, i quali invece sono stati lasciati a vista anche come “cesura” rispetto
alle arcate secentesche sottostanti. Queste sono state liberate dai tamponamenti
incongrui e solo per impedire intrusioni indesiderate sono stati realizzati dei tamponamenti precari, che si spera possano essere eliminati al più presto.
Ente proponente:
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
della Liguria con fondi messi a
disposizione dal Ministero per i
Beni e le Attività Culturali
Direttore Regionale:
L. Pittarello; P. L. Malara
Soprintendente: G. Rossini
R.U.P: R. Scunza
Progettista e direttore dei lavori:
M. Di Dio
DirettorI Operativi:
M. Di Domenico, P. Parodi,
S. Vassallo
Ditta Esecutrice: Consorzio
Artigiano R. Rumolo di Roma
Elaborazione presentazione
in mostra: S. Vassallo
229
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Un progetto pilota per riqualificare l’edilizia e il paesaggio
rurali del Parco Nazionale delle Cinque Terre
Luisa De Marco, Manuela Salvitti
L’iniziativa
Nel 2001, nell’ambito della prima programmazione sperimentale volta alla riqualificazione ambientale e al ‘restauro’ del paesaggio, a valere sui fondi del Gioco
del Lotto, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha finanziato, in Liguria, due
progetti, uno dei quali riguardanti il territorio del Parco Nazionale delle Cinque
Terre, incluso nel sito UNESCO “Cinque Terre, Portovenere e le Isole, iscritto nella
Lista del Patrimonio Mondiale nel 1997.
Il progetto si articolò in due azioni:
- l’elaborazione di Linee Guida per il recupero dell’edilizia rurale tradizionale
(pubblicata da Marsilio nel 2006);
- la stesura di un progetto pilota di recupero paesaggistico ambientale come
esempio di applicazione delle indicazioni della guida.
Per assicurare la cooperazione tra i diversi enti competenti, necessaria per l’attuazione del progetto, è stato steso un accordo interistituzionale sottoscritto il 25
giugno 2003 dalla Soprintendenza Regionale per i Beni e le Attività Culturali della
Liguria, dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria, dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, dalla Regione Liguria e dall’Ente Parco riguardante sia l’applicazione delle Linee Guida sia la
realizzazione del progetto pilota.
Con i fondi Lotto assicurati nel triennio 2001-2003 si è arrivati alla pubblicazione
della Guida e alla redazione del progetto definitivo dell’intervento pilota, sulla
base del quale è stata avanzata richiesta di un ulteriore finanziamento per la realizzazione del progetto. Nell’ambito della programmazione speciale per interventi di riqualificazione paesaggistica, a valere sui fondi della L. 296/2006, art. 1,
c. 1138, per l’a.f. 2007, il Ministero ha assicurato un finanziamento di 500.000,00
euro per l’attuazione del primo stralcio dei lavori.
Il progetto
L’oggetto dell’intervento pilota è stato individuato concordemente con l’Ente
Parco, sulla base degli indirizzi di gestione del Parco stesso, volti all’alleggeri-
230
mento della pressione turistica della fascia costiera delle Cinque Terre a vantaggio
della zona di mezza costa, per favorire un turismo più consapevole del valori storici e ambientali di questo territorio.
Il nucleo di Cacinagora, riconosciuto come uno dei primi insediamenti delle Cinque Terre, anche sulla base di osservazioni archeologiche, è posto appena al di
sotto di un percorso di mezza costa, la “Strada dei Santuari”, che, come dice il
nome, connette alcuni dei santuari che punteggiano le Cinque Terre e alcuni insediamenti, e che il Parco ha individuato come elemento strutturante il programma di potenziamento della fruizione turistica di quest’area del Parco. Il
complesso è immerso in un’estesa vegetazione boschiva, il cui sistema dei terrazzamenti è ancora chiaramente leggibile e ove l’abbandono sembra essere definitivo da almeno un ventennio.
Il complesso si compone di una schiera di edifici, con un piano interrato e uno fuori
terra, coperta da un tetto ad una falda, frutto dell’aggregazione successiva di diversi
corpi di fabbrica, di un edificio a due cellule con un piano parzialmente interrato
e un piano fuori terra, di un edificio pluricellulare con un piano terra parzialmente
interrato e due piani fuori terra, e di un edificio monocellulare con un piano interrato
e un piano fuori terra alla stessa quota di questo ultimo edificio.
Per conseguire le finalità sopra enunciate, si è deciso di recuperare il nucleo rurale e
il terreno circostante, costituendo una sorta di laboratorio didattico a cielo aperto
sull’economia tradizionale di questo territorio, basata essenzialmente su attività agrosilvo-pastorali. Esso prevede il recupero dei terreni all’attività agricola con coltivazioni
adatte alla quota e alle peculiarità del sito, l’esemplificazione delle filiere di trasformazione dei prodotti di mezza costa – come il ciclo del castagno e la produzione
casearia e la realizzazione di un ”museo” dell’economia tradizionale del territorio
come polo attrattivo per i visitatori. Completa l’intervento un centro di accoglienza
per i numerosi gruppi di studio che frequentano le attività formative del Parco e per
i quali, fino ad oggi, il Parco non dispone di strutture ricettive proprie.
Inoltre, in considerazione del carattere dimostrativo dell’intervento, degli obiettivi
di eco-sostenibilità derivanti dagli impegni assunti con il Protocollo di Kioto, degli
indirizzi e delle norme in materia di contenimento del consumo energetico e delle
risorse che ne sono derivati, si vuole esplorare la possibilità di sperimentare l’utilizzo
integrato di sistemi per lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili, e per il risparmio delle risorse, come il recupero e riutilizzo dell’acqua piovana e il trattamento
dei liquami reflui. A tal fine, si sta concordando una collaborazione con gli Uffici dei
Dipartimenti dell’Ambiente e della Pianificazione Territoriale e della Tutela Paesaggistica della Regione Liguria e con l’Agenzia Regionale dell’Energia per la scelte delle
soluzioni più appropriate e la progettazione degli impianti. Si auspica che anche il
progetto degli impianti del complesso di Cacinagora possa costituire un caso pilota
per l’inserimento rispettoso degli impianti e delle tecnologie per lo sfruttamento
delle fonti di energia rinnovabile e per il risparmio e il recupero delle risorse anche
in altri insediamenti rurali.
Il primo stralcio dell’intervento comprende la realizzazione del centro didattico
informativo sull’economia tradizionale di sussistenza delle Cinque Terre, in modo
da disporre in tempi brevi di un polo di attrazione turistica con finalità didattiche
a supporto delle politiche di decongestionamento della costa avviate dal Parco,
mentre, per quanto riguarda la restante parte degli edifici, si è deciso di provvedere alla sola messa in sicurezza, mediante la rimozione delle parti pericolanti e
non più recuperabili, la puntellatura, il fissaggio e il consolidamento degli elementi in crollo, la protezione provvisoria delle strutture.
Finanziamento: € 500.000,00
a valere sui fondi Legge
n. 296/2006, a. f. 2007
Progetto “Riqualificazione
paesaggistico - ambientale
del nucleo rurale di Cacinagora
(Riomaggiore – SP)”
Responsabile del
procedimento: Manuela Salvitti
Collaboratore al Responsabile
del procedimento:
Arch. Cristina Bartolini
Progetto architettonico:
Luisa De Marco,
Roberto Leone (SBAPL)
Direzione Lavori:
Luisa De Marco
(per il primo stralcio)
Progetto impianti: Luca Bonardi
(professionista incaricato,
progetto definitivo), Fabrizio
Martinoli (professionista
incaricato, primo stralcio
esecutivo).
Progetto agronomico: STAF –
Studio Tecnico Forestale
Direttori operativi:
Cristina Bartolini, C.T. Geom.
Gianni Gianardi (SBAPL)
Ispettore di cantiere: C.T. :
Gianni Gianardi (SBAPL)
Coordinatore sicurezza in fase
di progettazione e esecuzione:
Arch. Mauro Casarini
(professionista incaricato per il
primo stralcio)
Consulenti esterni: Laboratorio
L.A.S.A. – Università di Genova
per gli studi di archeologia
ambientale, Roberto De Franchi
per le indagini geologiche,
A.R.S. – Architectural
Restoration Studies (atp) per i
rilievi, le indagini sullo stato
conservativo dei fabbricati e
sull’archeologia dell’elevato,
Claudia Spinello,collaborazione
alla progettazione esecutiva
231
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Coordinatore per le iniziative
per l’innovazione in Liguria:
Elena Calandra
Coordinatori per il progetto
MICHAEL in Liguria:
Cristina Bartolini, Elena Calandra
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
232
Dal digitale al materiale. Il progetto Michael in Liguria
Cristina Bartolini, Elena Calandra
Può apparire senza dubbio singolare proporre, nell’ambito elettivamente volto alla
presentazione del restauro nei suoi molteplici aspetti, il resoconto di un’attività inerente la catalogazione delle collezioni digitali di un determinato ambito geografico,
la Liguria nella fattispecie. In realtà, l’intera campagna di catalogazione MICHAEL (*)
è stata effettuata in modo da pervenire a una ricognizione, ancora perfettibile e in
via di completamento, della consistenza digitale dei beni culturali dislocati sul territorio regionale, che divenga la piattaforma per ulteriori azioni di conoscenza, di tutela e di valorizzazione, quale, non da ultimo, proprio il restauro, come prassi
operativa o in forma di pubblicazione di restauri già avvenuti o in corso.
Il punto di partenza, concettuale e materiale, è consistito nella selezione delle
collezioni digitali maggiormente rappresentative delle specificità del territorio
nell’ambito sia della tutela sia della valorizzazione: l’obiettivo era di assicurare
una copertura completa, e al tempo stesso variegata, delle peculiarità culturali
della Liguria.
La catalogazione, avviata in Liguria nel giugno 2007, ha portato entro lo stesso
2007 al censimento e alla schedatura dettagliata di 175 collezioni, cui se ne sono
aggiunte, grazie a un ulteriore finanziamento ministeriale, altre 80 nella prima metà
del 2008. Con il nuovo anno un’ulteriore prosecuzione è garantita dalla Regione
Liguria, con la quale si stanno perfezionando contenuti e obiettivi: tale fase, infatti,
è finalizzata a riconoscere e catalogare nuove collezioni digitali, ma anche ad
assicurare l’aggiornamento e a effettuare con regolarità la manutenzione dei dati
relativi alle collezioni on-line.
I punti sin qui ripercorsi sono stati al centro di una giornata di studio, Tecnologie
avanzate per la valorizzazione dei beni culturali. Il progetto Michael in Liguria, tenutasi a Genova, nell’ambito del Festival della Scienza, il 31 ottobre 2008. La giornata è stata promossa dalla Direzione Regionale e dalla Regione Liguria, che ne ha
garantito la realizzazione sotto il profilo organizzativo ed economico. In effetti,
il Festival della Scienza è parso da subito la cornice ideale per accogliere e diffondere il messaggio di MICHAEL, equilibrata combinazione di contenuti culturali
e di tecnologie avanzate, che costruiscono una base conoscitiva duttile e ideale
sia per la riflessione a monte sia per la consultazione da parte dell’utente – e il
pubblico, in occasioni come quelle offerte dal Festival della Scienza, è sempre
numeroso e motivato.
Al tempo stesso, l’idea di una giornata pubblica di studi sulle applicazioni locali
di MICHAEL e di riflessione sul futuro del progetto è parsa la prosecuzione naturale del costante rapporto fra la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Liguria e la Regione Liguria, che sin dall’avvio del progetto hanno
collaborato con piena sinergia di metodi e di intenti.
I risultati sin qui conseguiti provano l’esistenza di una cultura digitale parallela e
come sovrastrutturale al territorio, le cui peculiarità emergono dalla maggior parte
delle collezioni censite, afferenti a istituti di ricerca e documentazione, a istituti
del MiBac, a biblioteche e archivi, a musei.
Le collezioni schedate consistono in raccolte di immagini e di fotografie digitali,
in basi di dati e cataloghi con o senza immagini digitali, in gallerie virtuali, in testi
e riviste digitalizzati. Molte schede riflettono l’architettura, la scultura e la pittura;
altre attestano un notevole interesse per la storia e per i personaggi di rilievo locale; sono pure documentate la storia dell’arte marinara, la scrittura popolare e
la geografia locale, temi propri della realtà territoriale ligure.
Si sono gettate in questo modo le basi, metodologiche e conoscitive, per azioni future: conoscere il digitale per tornare al materiale, custodirlo, tutelarlo e valorizzarlo.
* Il progetto in breve
Il Progetto MICHAEL (Multilingual Inventory of Cultural Heritage in Europe:
http://www.michael-culture.org/it/home), avviato nel 2005 con finanziamento
della Commissione Europea nell’ambito del programma e-Ten, è nato con l’intento di realizzare un portale trans-europeo multilingue che permetta di reperire
e accedere alle risorse digitali culturali di vari paesi europei, tra cui l’Italia.
Il progetto ha visto la partecipazione del MiBAC, con il ruolo di Coordinamento
livello europeo, del Ministero francese della cultura (Ministère de la Culture et
de la Communication) e dell’Agenzia nazionale per la cultura del Regno Unito
(Museums, Libraries and Archives Council). Il Coordinamento del progetto, a livello locale, è affidato alle Direzioni Regionali per i Beni Culturali e Paesaggistici.
L’intento di MICHAEL è di allineare e rendere interoperabili i portali nazionali,
promuovendo la fruizione del patrimonio culturale europeo, e per questo è stato
avviato il censimento delle collezioni digitali, consistenti in documenti, fotografie,
archivi, interi musei, e così via.
233
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Progetto “Adotta un documento”
Archivio di Stato di Genova
Giustina Olgiati
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel. 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Genova
Direttore:
Paola Caroli
Coordinatore
per la Comunicazione:
Roberto Santamaria
Piazza S. Maria in Via Lata, 7
16128 Genova
Tel. 010 5957581
Fax 010 5538220
[email protected]
www.archivi.beniculturali.it/ASGE/asge.htm
234
“Adotta un documento” è un’iniziativa che l’Archivio di Stato di Genova propone
al pubblico (privati, associazioni, imprese) per sensibilizzarlo nei confronti dei
documenti antichi e coinvolgerlo nel problema della loro conservazione.
A tale scopo sono stati selezionati alcuni documenti di epoca medievale (sec.
X-XV) e di particolare rilevanza storica, appartenenti al fondo Archivio Segreto, Serie Materie politiche - Trattati e negoziazioni, che necessitano di urgente restauro per contenere i danni provocati dal tempo, dall’uso e da
interventi conservativi non professionali eseguiti con materiali e tecniche non
appropriati. L’intervento consentirà anche di porre in condizioni di sicurezza
le formazioni di muffa vinosa, particolarmente invasive in questo fondo archivistico.
I restauri vengono effettuati da una ditta specializzata che ha già eseguito importanti interventi sulla documentazione medievale conservata dall’Archivio di Stato
di Genova (documenti bizantini, cartolari notarili). La spesa del restauro viene
fatturata direttamente al benefattore a seguito del rilascio, da parte della Direzione dell’Archivio di Stato, dell’attestazione che il lavoro è stato eseguito a regola d’arte.
Il progetto ha avuto avvio nel giugno del 2008 con il restauro della prima pergamena grazie al contributo di A.L.C.E., Associazione Ligure per il Commercio
Estero. Da allora altri dodici documenti sono stati adottati da Associazioni, da
studiosi che frequentano la Sala Studio e da dipendenti dell’Archivio stesso.
Il nome della persona o associazione che sosterrà la spesa del restauro verrà apposto – previo consenso dell’interessato – sulla cartellina di protezione che
conterrà il documento e sul sito internet dell’Archivio di Stato di Genova, che fornisce informazioni sull’iniziativa e sulle modalità di adesione (http://www.archivi.beniculturali.it/ASGE/adotta.htm)
Intervento di restauro conservativo (Cat. OS2) di pergamena del fondo
Archivio Segreto nell’ambito del progetto “Adotta un documento”
Descrizione dello stato di conservazione
La pergamena presentava un pessimo stato di conservazione per la presenza di
tagli, strappi, macchie diffuse di umidità, attacchi fungini pregressi, lacune lungo
i margini talora importanti, che necessitavano di intervento completo di restauro.
Operazioni di restauro
L’intervento è consistito delle seguenti fasi:
– pulizia con gomma e bisturi;
– prova di solubilità degli inchiostri;
– trattamento in cella di umidificazione ad ultrasuoni;
– restauro degli strappi con “sguscio” di pergamena di agnello;
– restauro delle lacune con due strati di carta giapponese di tono cromatico
adeguato;
– mending eseguito a bisturi;
– spianamento sotto peso;
– asciugatura sotto leggero peso;
– rifilatura a forbice della carta in eccesso;
– allestimento di cartellina in carta permanente a ph neutro.
L’intervento di restauro è avvenuto attenendosi ai punti del presente progetto; la
pergamena è stata ammorbidita in cella di umidificazione ad ultrasuoni e gli inchiostri si sono dimostrati stabili e non solubili.
Allestimento dei contenitori
Per il documento è stata confezionata una cartellina in carta permanente con tre
alette di chiusura.
235
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Liguria
Soprintendente ad interim:
Giovanna Maria Bacci
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 27181
Fax 010.2465925
[email protected]
www.archeoge.liguria.beniculturali.it
236
La cisterna della villa romana del Varignano Vecchio
alle Grazie di Porto Venere (SP).
Il restauro e la musealizzazione
Lucia Gervasini, Giorgio Rosati
Nella Zona Archeologica del Varignano Vecchio è stato completato, nell’ambito
del Piano Nazionale dell’Archeologia, il primo lotto funzionale del “Progetto
per la fruizione e l’apertura al pubblico dell’area archeologica della villa romana”
dedicato al “Restauro e recupero funzionale della cisterna romana” (Importo
€ 500.000,00).
L’imponente fabbrica, da sempre visibile, costituisce un’importante emergenza
architettonica nel contesto naturalistico che circonda la zona archeologica e la
caratterizza offrendoci, ancora oggi, l’aspetto di quello che doveva essere il paesaggio antico di questo fundus affacciato sul mare.
Il contesto archeologico
Nella seconda metà del I secolo d.C. importanti interventi di ristrutturazione mutano la disposizione planimetrica del quartiere residenziale della villa, edificata
agli inizi del I secolo a.C. con un progetto architettonico unitario che utilizza modelli e schemi di ambito centro italico.
In questa seconda fase edilizia si allestisce, nella parte residenziale, un articolato
quartiere termale padronale con calidarium e sudatorium, alimentati da due distinti praefurnia, tepidarium e frigidarium.
Il nuovo e raffinato balneum rende indispensabile la realizzazione di una cisterna
per la conserva e la distribuzione dell’acqua, che viene costruita in posizione
elevata e totalmente fuori terra.
Dopo l’abbandono la fabbrica è riutilizzata con funzioni abitative e di ricovero
animali a partire dal XIV-XV secolo fino agli anni del dopoguerra.
La perizia tecnica e costruttiva nonché l’impiego di ottimi materiali, ancora oggi
ben visibili, hanno permesso che il monumento giungesse fino a noi pressoché
intatto nelle sue parti, anche se in questo lunghissimo arco di tempo parte delle
volte e alcuni tratti della muratura sono crollati.
La cisterna rientra nel tipo dei “serbatoi a pilastri” assai diffusi nel mondo romano,
sia in ambito pubblico sia in contesti privati.
È costituita da due navate rettangolari, delle dimensioni di 18,50 per 4,20 metri
circa ciascuna, coperte da volte a botte e separate da un muro centrale nel
quale si aprono cinque archi.
La fabbrica è rinforzata a valle da sette contrafforti direttamente fondati sulla roccia affiorante, per contrastare la spinta dell’acqua dall’interno; la sua capienza,
calcolata all’altezza dell’imposta della volta a botte (m. 3,60), è di 576,00 metri
cubi, pari a 576.000 litri.
Abbondante è l’impiego del laterizio: nei pilastri, nelle armille delle arcate e nel
paramento delle murature interne. Il paramento esterno e quello dei contrafforti
è realizzato in opus vittatum mixtum, a fasce alternate di pietra calcarea locale e
tegoloni.
Le pareti esterne e interne sono ricoperte da uno strato compatto di intonaco a
base di cocciopesto: una malta idraulica ad alta resistenza migliorata dall’inserimento nell’impasto di granuli di pozzolana.
Il pavimento è un battuto cementizio realizzato con frammenti grossolani di laterizi macinati (cocciopesto) a formare un livello calpestabile estremamente
coeso, duro e impermeabile.
All’interno, nei punti di raccordo fra le murature (angoli dei muri perimetrali, base
delle pareti e dei pilastri) sono presenti dei cordoli arrotondati in malta idraulica
(pulvini) per evitare infiltrazioni, perdite, accumuli di materiale organico, possibile veicolo di infezioni e, di conseguenza, per garantire una migliore pulizia.
Il cantiere di restauro
Gli interventi di restauro hanno avuto come obiettivo la conservazione e la fruizione del monumento e sono l’esito di un lungo percorso avviato nel 1989 secondo un progetto redatto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Liguria e condiviso dall’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Il progetto di restauro è stato preceduto da una fase diagnostica (1989-1990) attivata con una serie di indagini non distruttive, che sono consistite in:
- esecuzione di rilievi, grafici e fotografici con mappatura dettagliata dei fenomeni di degrado;
- indagine stratigrafica delle singole unità murarie;
- analisi minero-petrografiche di campioni di malta e di intonaco per verificarne
la composizione e le caratteristiche meccaniche degli elementi costituitivi laterizi, lapidei e vulcanici - al fine di accertarne la provenienza;
- indagini geognostiche;
- analisi statica della struttura con il metodo agli elementi finiti;
- monitoraggio delle lesioni mediante l’applicazione di basi deformometriche
e letture bimestrali per la durata di un anno.
La lettura delle stratigrafie murarie ha individuato i molteplici rapporti che sono
intervenuti fra le strutture della fabbrica antica e i successivi reimpieghi, con diversi momenti ad uso abitativo fra il XIV e il XV secolo, mentre ulteriori manomissioni, anche distruttive, si riconducono al XVII-XVIII secolo.
L’impropria utilizzazione di questi antichi spazi si è protratta per tutto il dopoguerra, fino agli anni ’70 quando la Soprintendenza, acquisito l’immobile, ha
provveduto alla rimozione di buona parte delle superfetazioni e ai primi interventi di restauro.
Il monitoraggio della struttura ha evidenziato una soddisfacente coesione delle
compagini murarie, nonostante crolli di porzioni di muratura, la lunghissima esposizione agli agenti atmosferici e l’infiltrazione delle acque, meteoriche e di percolamento.
La prima fase di intervento (1993, 1994) è consistita nel consolidamento preventivo degli intonaci interni ed esterni, di ottima fattura, idraulicizzati con pozzolana
e cotto macinato.
In questa fase i restauri delle superfici si sono limitati a interventi urgenti per fissare
le parti di intonaco distaccate dalla muratura, consolidare le porzioni più decoese, e asportare la vegetazione infestante, compresi muschi, muffe e licheni.
Successivamente (1994, 1995) si è proceduto all’integrazione delle due volte
con diverse modalità di intervento.
L’estradosso della volta a monte, che presentava due vaste lacune, è stato integrato con tecniche tradizionali: getto di calcestruzzo romano, con una leggera
armatura di barre di acciaio inox legate alla struttura antica.
La volta a valle, quasi completamente crollata, è stata invece ricostruita con una
struttura in profilati di acciaio centinati, e solaio in lamiera grecata impermeabilizzato e rifinito con intonaco in cocciopesto. All’interno è stato posto in opera
un controsoffitto in rete di acciaio inox per riproporre la geometria della volta a
botte e lo spazio originario.
I fondi erogati con il Piano Nazionale per l’Archeologia (D.M. 27 aprile 2006)
hanno permesso di procedere al completamento del restauro del monumento
e di consentirne l’apertura al pubblico con l’allestimento del percorso di visita
e la sistemazione dell’area esterna (2007-2009).
237
“Progetto per la fruizione
e l’apertura al pubblico
dell’area archeologica
del Varignano Vecchio”
Progetto tecnico scientifico:
Lucia Gervasini, Giorgio Rosati,
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Liguria.
1° lotto – “Restauro e recupero
funzionale della cisterna
romana”: finanziamento
€ 500.000,00 Piano Nazionale
dell’Archeologia D.M.
27 aprile 2006
Stazione Appaltante: Direzione
Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria.
Responsabile del
procedimento: Lucia Gervasini,
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Liguria
Collaboratori al responsabile
del procedimento: Cristina
Bartolini, Sonia Filippini,
Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici
della Liguria.
Progetto e direzione lavori:
Giorgio Rosati, Soprintendenza
per i Beni Archeologici
della Liguria.
Scavo archeologico: Lucia
Gervasini, Soprintendenza per i
Beni Archeologici della Liguria.
Assistente al cantiere: Massimo
Molinelli, Soprintendenza per i
Beni Archeologici della Liguria.
Assistenza alla D.L. interventi
restauro conservativo: Lorenza
Panizzoli, Soprintendenza per i
Beni Archeologici della Liguria.
Coordinatore sicurezza in fase
di progettazione: Caterina
Gardella, Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e il Paesaggio della Liguria.
Coordinatore sicurezza in fase
di esecuzione: Antonio
Morgione, Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Liguria.
Consulenti esterni:
Mauro Veneziani
Impresa appaltatrice: Cooperativa Archeologia S.CA.R.L.
Impresa esecutrice opere
carpenteria metallica: AFE.
Progetto di ricerca
“Caratteristiche tecnologiche
e statiche di alcune strutture
voltate di età romana nel
territorio ligure e ipotesi
di intervento sulle medesime
per aumentarne il grado di
sicurezza nei confronti di eventuali azioni sismiche” D.M. 20
luglio 1988, coordinatore:
Giorgio Rosati, Soprintendenza
per i Beni Archeologici della
Liguria; consulenti: Andrea Buti,
Giovanni Galliani, Università
degli Studi di Genova,
Facoltà di Architettura.
Monitoraggi: 4EMME, Genova.
Gli interventi di restauro relativi
agli anni 1993-1995, eseguiti
con fondi ministeriali, sono stati
realizzati da: Studio C.R.C.,
Roma di Paolo Pastorello, Opus
Restauri, Parma di Giorgio
Arcari, Cooperativa Archeologia,
dalla Cooperativa Edile Savona,
Castelli S.p.A., Milano. Analisi
delle malte e degli intonaci:
Laboratorio L.A.R.A. Genova.
238
Si è così potuto completare il consolidamento delle superfici interne ed esterne
preceduto dalla rimozione dei depositi calcarei stratificatisi nel tempo anche di
considerevole spessore.
Stessa metodologia di intervento è stata applicata per il pavimento in cocciopesto delle navate.
I lavori di restauro, condotti secondo una ormai consolidata e collaudata metodologia che prevede interventi assolutamente reversibili e riconoscibili con materiali compatibili con la struttura antica, non hanno ricostruito elementi mancanti;
le lacune, degli intonaci e della pavimentazione, sono stati integrati in modo
chiaramente riconoscibile. Così il manufatto antico si propone leggibile in tutte
le sue parti e il grande spazio risulta immediatamente percepibile.
La musealizzazione
Il percorso di visita e lo spazio documentario dedicato alla storia del monumento, con particolare riferimento all’architettura idraulica romana e agli interventi
di risanamento e di restauro realizzati, consentono di fruire gli ambienti interni
nella loro recuperata volumetria e, al contempo, di apprezzare la struttura architettonica e la perizia tecnica posta in opera dalle maestranze antiche.
A questo fine si è predisposta una struttura di ingresso e di percorso completamente prefabbricata in officina, che avesse un impatto visivo minimo e con prestazioni strutturali adeguate all’ accesso del pubblico.
La struttura è in acciaio inox con i gradini della scala e il pavimento del percorso
in lastre di cristallo calpestabile, che lascia intravedere il sottostante cementizio
antico.
A corredo dell’allestimento è stato realizzato un impianto luci che conferisce all’interno un illuminamento tale da poter apprezzare le particolarità tecniche e
strutturali del monumento, pur mantenendolo in penombra, condizione che ricorda il suo antico uso.
Un sistema di estrazione dell’aria riduce i ristagni di umidità, soprattutto in occasione di visite numerose.
Forte di Santa Tecla - Sanremo (IM)
Restauro e recupero funzionale
Roberto Leone, Michele Cogorno
Le opere progettate rientrano nell’ambito di un complesso piano di recupero del
Forte di Santa Tecla, finalizzato alla trasformazione della fortezza triangolare settecentesca in un nuovo spazio culturale polivalente al servizio della collettività.
L’edificio, di proprietà demaniale ed in consegna alla Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici della Liguria, è inserito, nell’ambito del tessuto urbano di Sanremo, nelle vicinanze del mare a diretto contatto con il porto storico.
Il Forte venne edificato negli anni 1755-56, su progetto di Giacomo De Sicre e Alberto Medoni, per disposizioni della Repubblica di Genova, non con scopi difensivi bensì “per tenere a dovere i sanremesi”. Un’iniziativa singolare che venne
intrapresa a seguito della insurrezione popolare del 1753 contro la decisione di Genova di separare Sanremo dalla Colla. L’edificio ingloba nel bastione sud la più antica Torre della Marina, eretta nel 1563 nell’ambito del sistema difensivo costiero.
Per la costruzione furono impiegate anche pietre dell’antico Castello della Pigna,
sulla sommità della Costa, del secolo IX, fatto demolire dal Sauli nel 1754 per indebolire le difese della città.
Il Forte a pianta triangolare si sviluppa su tre piani, bastionato sui vertici, è uno dei
pochi esempi di architettura militare del settecento rimasti intatti sulla costa ligure.
Dopo il 1815, con l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, cessando le
controversie con Genova, il Forte perse definitivamente la sua funzione primitiva
e, più tardi, in epoca unitaria il Forte fu adattato a Carcere Giudiziario, conservando pur tuttavia intatto l’impianto originario.
Dal 1997, con la costruzione della nuova Casa Circondariale nella Valle Armea, il
Forte è stato finalmente liberato da un uso divenuto improprio, determinando le
condizioni per un restauro ed una rifunzionalizzazione.
Il recente spostamento della linea ferroviaria che correva nei pressi del fronte principale, con il conseguente recupero dell’ex sedime finalizzato alla realizzazione di
una pista ciclo-pedonale, ad oggi in fase di attuazione, determinerà un collegamento diretto dell’edificio ad un percorso di grande interesse e richiamo turistico.
Il Forte, che versa in condizioni di abbandono dalla metà degli anni novanta, è
stato recentemente sottoposto ad un primo intervento, messo in atto dalla Soprintendenza, consistente nella realizzazione di opere volte alla messa in sicurezza, alla bonifica, all’eliminazione di superfetazioni incongrue, oltre che ad un
primo restauro del fronte principale.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
della Liguria
Soprintendente:
Giorgio Rossini
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 27101
Fax 010 2461937
[email protected]
www.sbapge.liguria.beniculturali.it
239
Contestualmente all’esecuzione dei lavori, già conclusi nel 2007, viene redatto,
a cura della Soprintendenza, il progetto di restauro e recupero del manufatto
mirato alla conservazione ed alla valorizzazione dell’importante complesso e
con l’obiettivo di creare un importante centro di attività culturali, di aggregazione
della cittadinanza e di attrattiva turistica a carattere internazionale.
Il progetto prevede di destinare spazi per esposizioni, a carattere permanente
(mq. 660), e temporaneo (mq. 400), oltre ad una sala conferenze (mq. 110), una
biblioteca tematica multimediale (mq. 105), un teatro all’aperto (mq. 260), una
caffetteria (mq. 190), un bookshop (mq. 90), un internet-point nonché locali accessori e di servizio.
Il cortile interno sarà coperto da una struttura vetrata che doterà questo spazio
di una duplice valenza: quale luogo d’incontro – aggregazione e quale fulcro
del sistema distributivo, accogliendo i nuovi percorsi di collegamento verticale
(scale e ascensore) ed orizzontale (passarelle di perimetro). Per consentire lo
svolgersi di attività tra loro indipendenti, date le diverse funzioni, sono previste
due scale elicoidali all’interno dei bastioni che delimitano il fronte principale.
Per quanto riguarda gli allestimenti dei vari ambienti si prevede l’utilizzo di risorse
messe a disposizione da Enti Territoriali ovvero ricorrendo a procedure di finanza
di progetto a fronte della gestione dei servizi aggiuntivi.
Proprietà demaniale in
consegna al: Ministero per i
Beni e le Attività Culturali
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
della Liguria
Staff tecnico di direzione
del progetto: Ministero per i
Beni e le Attività Culturali
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
della Liguria
Responsabile del
Procedimento: Giorgio Rossini
Progettisti incaricati:
Roberto Leone
Michele Cogorno
Consulenza grafica:
Debora Pizzorno
240
Restauro, recupero e nuova accessibilità del castello
di Madrignano
Mauro Moriconi, Michele Cogorno
Il progetto riguarda il Restauro, recupero funzionale e nuova accessibilità al Castello Malaspina a Madrignano, sito nel comune di Calice al Cornovignlio (SP).
Il castello, di origine medioevale, ha subito diverse trasformazioni nel corso dei
secoli. L’edificio con i due torrioni ancora esistenti fronteggianti la Val di Vara, risulta di notevole importanza, sia per la sua localizzazione in posizione strategica
di dominio territoriale, sia per le tracce e la qualità architettonica di cui è notevole
testimonianza. Le indagini messe a punto dal DSA dell’Università di Genova
hanno studiato il complesso palinsesto dell’edificio facendo emergere la lettura
di almeno tre fasi di evoluzione, una medioevale, una di epoca moderna, XV
sec., una del XVI-XVII sec.
L’intervento, che deve tener conto della valorizzazione e della tutela dell’importante manufatto, si pone l’obiettivo di stimolare un forte impatto soprattutto dal
punto di vista culturale e, di conseguenza, è certo che sia il territorio comunale
sia il più vasto intorno del comprensorio tra Val di Vara e Lunigiana, ne trarranno
sicuro beneficio con ricadute, anche di tipo economico, ed effettivo aumento
della qualità nell’offerta turistica e culturale della zona.
Le linee guida del progetto sono le seguenti:
- il primo obiettivo è la conservazione e della valorizzazione delle peculiarità
storiche e formali del monumento.
In primo luogo si è posto l’obiettivo di mantenere la particolare autenticità del
monumento, privo dei rifacimenti neo-medioevali, tipici del XIX e XX sec., facendo del suo stato di rovina il primo punto di forza. I nuovi interventi, che non
modificano l’aspetto esterno dell’edificio, saranno eseguiti con materiali leggeri
e distinguibili.
- Il secondo elemento fondante riguarda il trasferimento di parte della sede del
Comune al piano nobile del castello. Tale operazione – occorre rimarcarlo – è di
portata innovativa, in quanto supera l’empasse in cui normalmente incorre il restauro. Il monumento così riacquisterà un’alta funzione pubblica, che ebbe nei
suoi secoli di storia. Si ottiene quindi il doppio vantaggio di rivitalizzante il castello e porre un presidio costante delle strutture.
Le principali componenti del progetto sono quelle sotto descritte in estrema sintesi.
- L’accessibilità, che deve essere piena, è ottenuta realizzando un ascensore inclinato esterno, posizionato lungo la collina. Tale soluzione risulta essere compatibile con la posizione isolata del castello, che sarebbe stata violata da un
accesso carrabile, ed è compatibile con le nuove funzioni del castello.
- Il castello ci giunge in condizioni di rovina, dopo più di un secolo di abbadono.
Al fine di conservare quello che rimane del monumento sono necessari ampi interventi di consolidamento strutturale e superficiale, delle murature del castello.
Il consolidamento sarà effettuato con opere atte a ricostituire la struttura muraria.
In primo luogo saranno effettuati consolidamenti del tessuto murario, attraverso
iniezioni di malte consolidanti e ricostruzioni delle sconnessure. Sono inoltre
previsti con alcuni interventi di legatura, ottenuti con sottili elementi d’acciaio e,
in alcuni casi specifici, con elementi strutturali in legno, che coincideranno con
le nuove strutture (solai e coperture) inserite all’interno dell’edificio.
Tale consolidamento è progettato per superare la verifica sismica.
- Come detto sopra il progetto mira ad un riuso delle strutture del castello, adattando la rovina restaurata a due nuove funzioni, museale al piano terra e nuova
sede municipale al primo piano.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Archeologici e Paesaggistici
della Liguria
Soprintendente:
Giorgio Rossini
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 27101
Fax 010 2461937
[email protected]
www.sbapge.liguria.beniculturali.it
241
Stazione appaltante: Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici
della Liguria Direttore:
Pasquale Bruno Malara
Ente proprietario: Comune
di Calice al Cornoviglio (SP)
Staff tecnico di direzione
del progetto: Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
Responsabile del
Procedimento: Rita Pizzone
Progettisti incaricati:
arch. Mauro Moriconi
Michele Cogorno
Coordinatore per la Sicurezza
in fase di Progettazione:
Enrico Vatteroni
Consulenze: Convenzione
di ricerca per analisi storiche:
Università di Genova – DSA
Responsabile scientifico:
Anna Boato
Collaboratori: Carolina Lastrico,
Gianluca Pesce
Contributi specialistici:
Daniela Pittaluga, Roberto Ricci
Convenzione di ricerca
per analisi strutturali:
Università di Genova – DICAT
Responsabile:
Sergio Lagomarsino
Consolidamento strutturale:
Sergio Lagomarsino
Verifica strutturale e di verifica
sismica nuove strutture:
Stefano Podestà, Emanuela
Curti, Elisabetta Saccheggiani
Analisi geologiche:
Roberto de Franchi
Verifica strutturale e di verifica
sismica sistemazioni esterne:
Raineri Costa
Rilievo metrico del castello:
Stefano Calabretta
Rilievo topografico:
Cristiano Lombardi
Consulenza grafica:
Filippo Nicotra
242
Gli spazi comunali al primo piano saranno ottenuti in parte adeguando le struttura
esistenti, in parte costruendo un nuovo volume contenuto all’interno dell’antica
geometria del manufatto.
Gli interventi di adattamento sono costituiti principalmente da due solai, la scala
di accesso (che si sovrappone ai frammenti di quella antica), la scala a chiocciola
nella torre nord, un “pacchetto-pavimentazione” che conterrà anche i molteplici
impianti necessari.
Il nuovo volume costituirà un ampio open-space, in cui potranno essere posizionati con ampia flessibilità le variabili esigenze del comune. Una grande loggia si
affaccerà nel cortile, completando l’ingresso monumentale al piano nobile. La
parte a ridosso del muro del castello sarà coperto da una vetrata in modo da
permettere la percezione del muro sud.
La struttura del nuovo volume avrà anche la funzione di consolidare il muro sud
del castello, costituendo un contrafforte. Tale struttura, come anche i nuovi solai
della torre sud e della grande sala, staranno realizzati con travi in legno lamellare,
materiale che è contemporaneamente antico e contemporaneo.
Restauro della Casa Usodimare- DeMarini in Via Conservatori
del Mare 3 nel Centro Storico di Genova
Paola Parodi, Pastor Cristina
Il restauro della Casa Usodimare-DeMarini e, più precisamente, l’intervento sui prospetti, l’atrio e il vano scala, che rappresentano un sistema di interesse storico-monumentale, è stato finalizzato alla valorizzazione di una ricorrente tipologia del
sistema distributivo storico, tipico dell’architettura genovese, che ha avuto il massimo sviluppo nella realizzazione del sistema atrio-scalone–cortile, caratteristico dei
palazzi di Strada Nuova e nel sistema dei Palazzi dei Rolli. L’edificio fa parte di un
isolato, che si trova nella città medievale in una posizione baricentrica fra Banchi e
la Cattedrale di S. Lorenzo. E’ in prossimità di un tramato viario storico, rappresentato
da Canneto il Curto , che fa parte della grande viabilità di attraversamento che conduce al mercato di S. Giorgio uscendo dalla città attraverso la Porta di S. Andrea.
L’isolato è in una posizione strategica di controllo di numerosi e importanti raggruppamenti nobiliari, denominati Alberghi. La tipologia di insediamento di tali alberghi
è caratterizzata da una piazzaforte interna alla città, con porte di recinzioni consortili
e torri difensive, oltre a strutture pubblico-private loggiate. Verso la palazzata della
“Ripa Maris”, Waterfront prossimo al palazzetto in oggetto, si attestano gli Alberghi
della famiglia De Marini, dotati di due fondaci e di una torre difensiva (da vico De
Marini e vico delle Compere); mentre su piazza Banchi ci sono i Maloncello, con numerosi spazi loggiati su vico Conservatori del mare; e gli Usodimare, la cui loggia scavalcava l’imbocco di via Orefici. Alla famiglia De Marini sembra legarsi la proprietà
di questo edificio, come risulta dai registri della Gabella Possessionum tra il 1414 e
il 1459. Sembra che proprio Pileo De Marini, nominato arcivescovo di Genova il 30
Novembre 1400, sia stato il Fondatore dell’Istituzione del Magistrato di Misericordia,
di cui il fabbricato potrebbe essere stato la sede originaria. È probabile che questo
stabile, precedentemente degli Usodimare, fosse la casa di Thomas De Marini, stimata circa 520 lire Genovesi, a cui potrebbe essere stato accorpata la casa di Marcus
De Marinis, con una stima di 700 lire genovesi. Nella casa oggetto dell’intervento in
vico Coservatori del Mare 3, con localizzazione prossima ad una vecchia torre, sono
presenti diverse stratificazioni di elementi, che rappresentano due fasi storiche significative: quelli di età medievale leggibili sui prospetti, come i beccatelli a conclusione del paramento medievale e le soprastanti polifore presenti sul prospetto
principale e sul cortile (forse un vecchio fondaco), e quelli di età moderna cinqueseicenteschi, come nell’atrio e nel vano scala. Quest’ultimo, ben conservato fino al
secondo piano, con balaustra marmorea, colonna caposcala e soffitti voltati dipinti,
si conclude con un imponente portale in pietra di promontorio. Interessante risulta
la sovrapposizione, nella rampa descritta, di un’altra rampa di scala con caratteristiche medievali, che prende tutta la profondità del lotto, frutto dell’accorpamento
con un altro edificio di cui si è conservata parte del vano scala. L’assetto dell’edificio
a piazzaforte chiusa è stato alterato a causa delle trasformazioni avvenute negli edifici
limitrofi nell’ottocento, con interventi di sopraelevazioni e ricostruzioni post-belliche. Le facciate sono state oggetto di approfondimenti progettuali e operativi con
indagini specifiche come la termografia: è stato così possibile verificare le tipologie
delle murature, le preesistenti bucature e i relativi tamponamenti in modo da ricostruire le diverse fasi di trasformazione che hanno permesso di realizzare interventi
mirati. Il ritrovamento sotto l’intonaco di due grosse polifore, al primo piano al di
sopra del portico, ha portato a soluzioni di evidenziazione di tali nuovi elementi attraverso una diversa colorazione del marmorino e di un’incisione nell’intonaco, lasciando in maggior evidenza la gerarchizzazione delle bucature di età moderna.
Invece, sul prospetto sul cortile con fattezze prevalentemente medievali, si è deciso
di riportare in evidenza una bifora con colonnina all’ultimo piano, in quanto questo
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici della Liguria
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LIGURIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Liguria
Direttore Regionale:
Pasquale Bruno Malara
Coordinatore
per la Comunicazione:
Laura Giorgi
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 248801
Fax 010 2465 532
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
della Liguria
Soprintendente:
Giorgio Rossini
Via Balbi, 10
16126 Genova
Tel. 010 27101
Fax 010 2461937
[email protected]
www.sbapge.liguria.beniculturali.it
243
Finanziamento: 200.000,00 €
Importo dei lavori: 184.423,94 €
Soprintendente:
Arch.Giorgio Rossini
Responsabile unico del
procedimento: Gianni Bozzo
Direttore dei lavori:
Arch.Cristina Pastor
Direttore operativo: restauratore
Paola Parodi
Indagini scientifiche:
Ing. Stefano Podestà (Strutture);
Corrado Poggio (termografia)
Impresa Ditta Mantelli 1948
S.R.L e Fabrizio Bordo s.a.s
244
elemento è da considerarsi un dato interessante in quanto questa architettura presentava uno sviluppo in altezza maggiore di quanto sia usuale ipotizzare.
Inoltre, sempre attraverso le indagini preliminari condotte con la termografia, è
stato possibile realizzare in fase progettuale una mappatura dell’intonaco decoeso, ragionevolmente rispondente nelle quantità rilevate poi in cantiere.
Nel vano scala le indagini endoscopiche fra le volte in canniccio e la struttura sono
servite a verificare il livello di degrado della struttura lignea e del canniccio: ciò ha
permesso di intervenire puntualmente, preservando la struttura e la materia.
Inoltre con le stratigrafie si è rilevata la presenza di due strati di marmorino nelle
pareti interne del vano scala e diverse superfici dipinte totalmente occultate da
pitture coprenti. Il ciclo di dipinti murali presenti nell’atrio e nel vano scale è
stato realizzato probabilmente nella seconda metà del XVI sec. Nel corso dei secoli sono state eseguite molte modifiche strutturali nell’edificio, che hanno in
parte distrutto i dipinti murali e causato degradi molto gravi. L’intervento più complesso ha riguardato i dipinti murali sulla seconda rampa del vano scale principale, con un soffitto a volta dipinto a calce e tempera su un canniccio intonacato.
La struttura portante della volta è costituita da un’armatura in travetti lignei inseriti nelle
pareti del vano scale ai quali è inchiodata la volta a botte in canniccio intonacato. Nel
corso delle modifiche strutturali avvenute negli anni ‘50’ del secolo scorso, è stato realizzato al di sopra della volta un bagno, con relativi serbatoi, causando un notevole degrado dovuto alle numerose infiltrazioni. La struttura della volta non era più
completamente agganciata ai travetti e se sfiorata vibrava in maniera molto evidente:
di conseguenza si è reso necessario intervenire con un consolidamento strutturale
della volta. La complessità dell’intervento si è manifestata per l’impossibilità di operare
sull’estradosso della volta, per via della presenza del bagni con relativa impiantistica
e per via di una serie di elementi incongrui, come gradoni in muratura, realizzati al di
sopra della struttura della volta.
Avendo la necessità di mantenere quanto descritto e salvare i dipinti murali si è optato per una scelta che consentisse il recupero dei dipinti murali e il risanamento
della struttura portante. Tale scelta è consistita nell’operazione di stacco della volta
e nel restauro dei dipinti murali e nella loro ricollocazione sulla struttura risanata.
Nell’intervento è stato sostituito il canniccio degradato con tessuto in vetroresina
ed è stato costruito quindi un nuovo supporto (a sandwich) del dipinto agganciato alla sua struttura di sostegno originale con dei cavetti in acciaio attraverso
degli anelli, ma con un ancoraggio autonomo alle pareti.
Tale intervento è risultato piuttosto complesso per alcune lavorazioni preliminari
quali:
- la realizzazione di una centinatura che riprendesse fedelmente l’andamento
della volta;
- la velinatura con materiali idonei data la tecnica di esecuzione del dipinto a
tempera;
- la scomodità del cantiere in una scala stretta a notevole pendenza, con una
continua frequentazione degli abitanti che sono rimasti in loco;
- la fase di stacco costituita da vincoli come le cornici a lato e un unico verso
per inserire le “spade”, strumento necessario per il distacco.
Da non trascurare anche la complessa fase di riposizionamento del guscio della
volta nell’alloggio originario, tutte operazioni complesse che vanno affrontate
con le dovute competenze e precauzioni. Pertanto si ritiene che operazioni di
questa delicatezza e complessità si possano realizzare in casi molto particolari
e in condizioni estreme come questa, dove si è ottenuto un recupero della struttura lignea originaria e un restauro dei dipinti con relativo nuovo supporto.
Restaurare, conservare, conoscere e valorizzare i beni
culturali in Lombardia
L’attività di restauro in Lombardia è caratterizzata da una forte attenzione del Ministero BAC e dei suoi Soprintendenti, Direttori e funzionari all’individuazione, alla
progettazione e alla realizzazione di processi conservativi innovativi, attenti ed
equilibrati nella scelta delle tecniche di diagnostica e di intervento.
Importante il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, una delle icone
della Pinacoteca di Brera, iniziato nel gennaio 2008 e che ha interessato sia il prezioso dipinto che la cornice neoclassica, strumento fondamentale della sua presentazione museografica. Il capolavoro verrà esposto al pubblico nuovamente
dal prossimo 19 marzo.
Significativa l’attività volta alla realizzazione del rilievo 3D, propedeutico al futuro
restauro di Palazzo Litta a Milano, commissionato dalla Direzione Regionale Beni
Culturali e Paesaggistici della Lombardia al DIAPReM, Centro Sperimentale di Ricerca e Servizi dell’Università di Ferrara e presentato il 25 marzo in questa edizione del Salone del Restauro di Ferrara: Palazzo Arese Litta a Milano. Il rilievo
morfometrico per il restauro e la valorizzazione dello storico palazzo restituito
alla città.
Segnaliamo infine l’annuncio lo scorso 3 novembre, dell’imminente avvio del restauro del preziosi dipinti murali rappresentanti un pergolato di gelso realizzato
da Leonardo da Vinci a Milano a fine Quattrocento dopo il Cenacolo, sulla volta
della Sala delle Asse nella torre a nord del Castello Sforzesco. La decorazione
della Sala dedicata al ristoro ed al tema della natura e dell’ambiente naturale, fu
commissionata a Leonardo da Ludovico il Moro. L’attività di recupero della decorazione originale sarà svolta, con fondi parte del Ministero BAC, parte dello
sponsor A2A. Il restauro verrà svolto sotto la guida del Ministero BAC, con il supporto scientifico dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e con l’affiancamento
della direzione delle Raccolte d’Arte del Castello e durerà 3 anni.
Virtuosa sinergia tra Ministero BAC, Comune di Milano, Direzione delle civiche
raccolte del Castello Sforzesco e Italia Nostra che, nel 2007 commissionò il primo
studio sulla tecnica pittorica e sullo stato di conservazione delle pitture alla restauratrice Anna Lucchini e all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze le indagini
diagnostiche per verificare le condizioni di conservazione e dei resti nascosti
sotto le successive e ripetute ridipinture. È emerso che sotto di esse, in gran
parte delle lunette e nella parte prevalente del soffitto, l’intonaco originale è ancora presente, quindi si confida di ritrovare anche parte della decorazione quattrocentesca, occultata dai successivi interventi pittorici (ipotesi confermata dalle
indagini a Infrarosso in Falso Colore e UV).
Interventi di restauro che vedono impegnate Istituzioni pubbliche, centrali e locali, Associazioni di alto profilo, studiose e studiosi, nella ricerca della conoscenza e nella restituzione di bellezza e di stabilità al patrimonio artistico, storico
ed architettonico della nostra regione attraverso il sostegno economico di
aziende sensibili ed attente al bene pubblico.
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LOMBARDIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Lombardia
Direttore Regionale:
Mario Turetta
Coordinatore
per la Comunicazione:
Cristina Ambrosini,
Manuela Rossi
Corso Magenta, 24
20123 Milano
Tel. 02 80294 1
Fax 02 802 94 232-3
[email protected]
www.lombardia.beniculturali.it
245
Direzione Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LOMBARDIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Lombardia
Direttore Regionale:
Mario Turetta
Coordinatore
per la Comunicazione:
Cristina Ambrosini,
Manuela Rossi
Corso Magenta, 24
20123 Milano
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246
Palazzo Arese Litta a Milano:
Restauro e rifunzionalizzazione
Daniela Lattanzi, Nicola Maremonti, Elena Rizzi
La consegna di Palazzo Litta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali (14 febbraio 2007) da un lato ha attivato il processo di restituzione di questo bene alla
città, gettando le basi per la sua fruizione come sede di eventi culturali, dall’altro
ha concretizzato la possibilità di riunire in un unico edificio alcuni degli uffici
periferici della Lombardia, attualmente sparsi sul territorio cittadino, consentendo
la concentrazione di alcune funzioni omogenee, in considerazione anche del
ruolo di coordinamento istituzionale in capo alla Direzione Regionale.
La notevole estensione degli ambienti di Palazzo Litta, pari a circa 10.000 mq, tra
piano nobile e spazi adibiti ad uffici, consente, con i dovuti accorgimenti progettuali, logistici ed organizzativi, di far convivere armoniosamente i due profili
di utilizzo: da un lato ambienti dal notevole valore storico artistico con spiccata
vocazione espositiva, dall’altro sede congrua e prestigiosa per tre Istituti ministeriali periferici: Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Lombardia, Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici e Soprintendenza
per i beni archivistici.
L’intervento globale da effettuarsi su Palazzo Litta si distingue, quindi, in tre aspetti
diversi:
- restauro dei prospetti principali (Corso Magenta, Cortile dell’Orologio, Cortile
d’Onore) e del piano nobile del palazzo, di eccezionale valore storico artistico ed architettonico;
- rifunzionalizzazione degli spazi ad uso ufficio, anche attraverso una riorganizzazione dei sistemi di collegamento verticale, e restauro dei prospetti secondari (Cortile della Cavallerizza, via Illica e giardino);
- miglioramento ed adeguamento degli impianti tecnologici, funzionali tanto
all’utilizzo espositivo - culturale, quanto a quello istituzionale - direzionale.
Al momento sono state avviate in parallelo due campagne di indagini preliminari,
propedeutiche alla stesura del progetto di conservazione, ovvero:
- un primo cantiere di restauro relativo alla facciata principale del palazzo, prospiciente corso Magenta; la prima fase operativa ha riguardato lo svolgimento
di una campagna di indagini stratigrafiche(1), termografiche(2) e mineralogichepetrografiche(3), aventi lo scopo, rispettivamente, di definire la stratigrafia degli
intonaci della facciata e dei cortili, verificare anomalie costitutive e problematiche connesse all’umidità, caratterizzare il materiale e accertare lo stato di
conservazione ed i trattamenti eseguiti nel precedente intervento di restauro
sulle superfici ed i materiali lapidei. Sulla base della valutazione delle risultanze
di tali indagini (brevemente presentate in pannelli tematici) saranno definite le
tecniche e le modalità esecutive di intervento;
- una serie di indagini stratigrafiche che interessano le finiture e gli apparati decorativi del piano nobile; le quali insieme alla ricerca storico documentaria ed
archivistica, costituiranno la base per approfondire la conoscenza delle trasformazioni che hanno interessato l’edificio e guiderà le scelte operative per
la conservazione.
L’intervento di restauro sarà strutturato coniugando le diverse fasi della progettazione molto articolate e tra loro fortemente interconnesse: la rifunzionalizzazione
dei corpi di fabbrica destinati ad uffici, il restauro architettonico e delle superfici
(murature, coperture, apparati decorativi e finiture, sistemi di chiusura ed oscuramento) ed i necessari adeguamenti all’impianto elettrico, di climatizzazione,
antincendio, antintrusione, ecc.
Per quanto riguarda il recupero degli spazi ad uso ufficio, il criterio è quello di
conciliare le caratteristiche degli spazi esistenti (architettoniche, dimensionali e
distributive del Palazzo) ad una fruizione funzionale ai diversi istituti. L’intervento
coinvolgerà prevalentemente la parte meno artisticamente rilevante dell’edificio
a tutte le quote di utilizzo, dal piano cantinato al piano sottotetto, oltre ad alcuni
spazi di rappresentanza nel piano nobile. In particolare, unitamente all’adeguamento dei piani ad uso ufficio, verranno recuperati i locali del piano cantinato ad
uso archivio, mentre il piano terra sarà caratterizzato da ambienti a vocazione
pubblica, di dialogo e comunicazione tra il palazzo e la città, insieme a spazi di
natura istituzionale (strutture bibliotecarie e sale polifunzionali) e al sistema di
distribuzione dei percorsi di attraversamento e collegamento verticale.
1
2
3
Gasparoli Restauro
e manutenzioni,
Gallarate (esterni),
Barbara Ferriani, Studio
di Restauro, Milano (interni)
Laboratorio Sperimentale
BEST, Politecnico di Milano
ICVBC, CNR,
Sezione di Milano
247
Soprintendenza per i Beni Storici,
Artistici ed Etnoantropologici di Milano
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA LOMBARDIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Lombardia
Direttore Regionale:
Mario Turetta
Coordinatore
per la Comunicazione:
Cristina Ambrosini,
Manuela Rossi
Corso Magenta, 24
20123 Milano
Tel. 02 80294 1
Fax 02 802 94 232-3
[email protected]
www.lombardia.beniculturali.it
Soprintendenza
per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici
di Milano
Soprintendente:
Sandrina Bandera
Via Brera, 28
20121 Milano
Tel. 02 722631
Fax 02 72001140
[email protected]
www.brera.lombardia.beniculturali.it
248
Il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello
Emanuela Daffra, Matteo Ceriana
A partire dal 19 marzo sarà esposta al pubblico, dopo un restauro iniziato nel
gennaio 2008, una delle icone della Pinacoteca di Brera, lo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello.
La tavola, nuovamente visibile nella sala XXIV della Pinacoteca di Brera, sarà accompagnata da video che documentano le fasi ed il procedere del restauro e
che ne narrano la storia.
Come noto essa era stata realizzata nel 1504 per la Cappella Albizzini nella chiesa
di san Francesco a Città di Castello e lì rimase fino al 1798, quando il generale bresciano Giuseppe Lechi, capo del Corpo di Spedizione Cisalpino contro lo Stato
Pontificio, la ottenne in dono dalla Municipalità festante, che intendeva ringraziare
così l’esercito ‘liberatore’. Nel 1803 il Lechi vendette la tavola al milanese Giacomo Sannazzari, il quale l’anno successivo la lasciò in eredità all’Ospedale Maggiore di Milano.
Lo “Sposalizio” era un accrescimento troppo decisivo per la Pinacoteca di
Brera, nuovo museo del Regno Italico, perché potesse sfuggire al suo direttore,
il pittore, scrittore e intellettuale Giuseppe Bossi. E difatti fu acquistata nel
1805 dal governo e destinata l’anno successivo con decreto vicereale alla pinacoteca milanese: il dipinto avrebbe dato lustro al museo che nasceva come
una delle istituzioni distintive del nuovo stato. La storia dello “Sposalizio”, da
quel momento, si è svolta nel porto sicuro costituito dalle sale del museo.
Nonostante ciò la superficie smaltata della tavola si è appannata e oscurata a
causa della vernice sempre più alterata e della polvere della metropoli. Anche
la bella cornice neoclassica, degno complemento alla presentazione in museo
del capolavoro, ha visto impoverirsi i delicati ornati in pastiglia e recava ben
evidenti i segni degli spostamenti, degli urti, delle spolverature, del suo uso
quotidiano insomma.
I restauri a cui l’opera fu sottoposta nel corso della sua storia centenaria furono,
nel complesso, di una discrezione esemplare ed anche quelli documentati in
Pinacoteca furono pochi ed eccezionalmente rispettosi: nel 1858-59 si registra
un intervento di Giuseppe Molteni, professore dell’Accademia, pittore e grande
restauratore, prudentissimo ed eccezionalmente ben documentato per l’epoca.
Dopo la seconda Guerra Mondiale Mauro Pelliccioli nel 1958 mascherò i danni
di uno sfregio vandalico.
Tuttavia, a 150 anni dal restauro di Molteni, la pellicola pittorica presentava circoscritti problemi di stabilità e l’invecchiamento dei materiali era tale da alterare
in modo significativo l’immagine dello “Sposalizio”.
L’intervento appena concluso perciò si è posto come obiettivi la verifica dei difetti di adesione della pellicola pittorica ed il recupero dei rapporti cromatici
dell’opera, falsati dalle puliture selettive, dalle stratificazioni di vernici alterate e
dalle patinature.
Esso è stato preceduto da un’accurata campagna di indagini diagnostiche - realizzata in collaborazione con importanti istituti di ricerca nazionali - volta al riconoscimento dei materiali costitutivi, della tecnica esecutiva e degli interventi
precedenti.
La metodologia impiegata per la pulitura ha seguito criteri di gradualità nell’assottigliamento delle sostanze sovrammesse e selettività nell’azione pulente. Per questo sono state messe a punto specifiche miscele solventi applicate a tampone o
a pennello in gel per la rimozione delle resine, delle patinature o dei depositi superficiali.
Le prime prove sono state effettuate nelle zone chiare del lastricato e, a seguire,
in corrispondenza delle gore e degli addensamenti di vernice più evidenti; si è
quindi proceduto applicando la stessa metodologia a tutta la superficie. Nella
metà superiore della tavola, patinata in modo esteso, la pulitura con tensioattivi
e la successiva asportazione della vernice sottostante ha dato risultati di grande
effetto. Nella zona inferiore, terminato l’assottigliamento della vernice, sono
emerse patinature che alteravano in modo significativo le tonalità di panneggi
ed incarnati e sono state rimosse con grande cautela.
È seguita la fase di rimozione dei ritocchi presenti sulle lacune stuccate nei precedenti interventi. Al termine della pulitura la pellicola pittorica è risultata complessivamente in uno stato di conservazione buono anche se diseguale, a causa
di eccesive puliture o di alterazioni di alcune campiture di colore.
L’intervento si è concluso con l’integrazione pittorica, eseguita con tecnica riconoscibile.
L’obiettivo finale è stato quello di recuperare quanto più possibile l’equilibrio
cromatico, prima compromesso, di un dipinto attentamente studiato. Si presenta
così, più leggibile, un’opera cruciale della breve carriera di Raffaello, in procinto
di trasferirsi nella ribollente Firenze di primo Cinquecento, dove già operavano
Leonardo e Michelangelo.
L’importante cornice neoclassica del dipinto è strumento fondamentale della sua
presentazione museografica e meritava perciò un intervento consono all’eccezionalità del pezzo ed alla sua funzione. La generosità dei famigliari e di un gruppo
di amici di Corso Bovio ha permesso di restaurare questo capolavoro dell’ornato
milanese in apertura del secolo XIX, svilito da integrazioni talvolta grossolane e
da patinature che avevano occultato la raffinata doratura che giocava con discrezione sull’alternanza di zone lucide ed opache.
Direttori del restauro:
Matteo Ceriana,
Emanuela Daffra
Restauro del dipinto:
Paola Borghese, Andrea Carini,
Sara Scatragli
Restauro della cornice:
Patrizia Fumagalli;
Antonella Ortelli,
Luca Quartana,
Fabio Frezzato
Indagini non invasive
dei pigmenti: Gianluca Poldi,
Università degli Studi, Bergamo;
Pietro Moioli, Claudio Seccaroni
ENEA, Casaccia, Roma;
Indagini riflettografiche:
Duilio Bertani, Università degli
Studi, Milano;
Roberto Giuranna
Soprintendenza BSAE MI
Documentazione fotografica ed
elaborazione dei dati:
Roberto Giuranna,
Patrizia Mancinelli,
Roberto Ricci
Soprintendenza BSAE MI
249
Direzione Regionale per i Beni Culturali e
Paesaggistici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali
250
Restauro sostenibile, recupero e valorizzazione.
Un anno di interventi innovativi sul territorio piemontese.
Liliana Pittarello
In considerazione dell’importanza del Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali di Ferrara, si è deciso quest’anno da
parte della Direzione di presentare un’ampia scelta di interventi che hanno visto
in primo luogo impegnata la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Piemonte.
Uno degli interventi più importanti ed innovativi, con lusinghiero apprezzamento
da parte del pubblico, è stato il restauro delle Cucine del Palazzo Reale di Torino,
per anni ridotte a locali di sgombero e recuperati completamente nelle architetture e negli arredi. Sempre a Torino va segnalato il completamento dell’intervento
di restauro degli elementi lapidei, degli elementi architettonici in rilievo e degli
intonaci all’interno della Basilica di Superga, preceduto da accurati studi e finalizzato al recupero, e/o alla riproposizione (per le parti fortemente danneggiate)
delle cromie antiche di Juvarra.
Sul territorio piemontese sono stati completati numerosi interventi di recupero
allo scopo di rifunzionalizzazione, come nel caso del convento di San Giovanni
a Saluzzo, dove il pregio degli affreschi ha reso necessaria una accurata analisi
diagnostica preventiva, o del Chiostro dell’Abbazia di Fruttuaria, uno spazio architettonico per anni in abbandono o impropriamente utilizzato come spazio
oratoriale ed ora restituito quale prezioso tassello al percorso di visita Mille anni
di storia attraverso le strutture dell’Abbazia di Guglielmo da Volpiano.
Altri interventi hanno avuto come obbiettivo l’adeguamento impiantistico con lo
scopo di garantire una migliore funzionalità dei percorsi di visita. È questo il caso
delle pedane scaldanti messe in opera al piano nobile del Castello di Agliè in cui
è ora possibile una visita confortevole anche nei mesi più freddi, una tappa significativa nella storia complessa dei restauri all’interno del castello.
Ma l’innovazione per un restauro sostenibile è anche valorizzazione nell’ottica di
un turismo culturale “sostenibile” e l’inserimento della Canonica di Santa Maria di
Vezzolano nell’itinerario di Transromanica si pone in questa direzione, “focalizzando
l’attenzione non solo sul patrimonio storico artistico del romanico, ma anche sul territorio circostante, spesso connotato da grande valenza ambientale, correlata – nel
caso di Vezzolano positivamente- da un mancato sviluppo industriale”.
Infine, un caso eclatante di innovazione per la conservazione al fine di una più ampia
fruibilità del patrimonio è costituito dalle ricerche condotte dall’Istituto Centrale per
il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma che ha
fornito le specifiche tecniche per la realizzazione dei contenitori realizzati allo
scopo di trasferire all’estero per la prima volta alcune delle preziose opere di Leonardo di Vinci conservate alla Biblioteca Reale di Torino per la mostra tenutasi al
Birmingham Museum of Art (Stati Uniti, Alabama) e al Fine Arts Museum di San Francisco (California) nell’autunno del 2008. I contenitori hanno pemesso il trasporto
delle opere in condizioni ottimali, consentendo ai preziosi disegni di superare i disagi del trasferimento, prevenendo ogni variazione microclimatica, come più dettagliatamente illustrato da Clara Vitulo, Francesco Bossi, Simonetta Villanti e Maria
Speranza Storace in un apposito appuntamento al Salone.
Un anno di restauri architettonici in Piemonte
Francesco Pernice
Il Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali di Ferrara è certamente uno dei maggiori appuntamenti italiani dedicati
alla tutela e alla conservazione del patrimonio storico, artistico, architettonico e
paesaggistico. Un momento di aggiornamento, confronto, approfondimento e
sensibilizzazione molto utile per gli operatori del settore e per chiunque sia appassionato delle tematiche del restauro e dell’arte in genere.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Piemonte presenta,
in occasione dell’annuale edizione del Salone, un’ampia serie di contributi relativi
a interventi di restauro effettuati sul patrimonio architettonico piemontese in consegna al Ministero. Sono diversi i temi affrontati e molte le sedi coinvolte: il Palazzo Reale di Torino, il Castello di Agliè, il Castello di Moncalieri, la Basilica di
Superga, il Palazzo Chiablese e poi ancora la canonica di Santa Maria di Vezzolano, l’Abbazia di Fruttuaria, la Chiesa di San Sebastiano a Precetto Torinese, il
convento di Santa Croce a Bosco Marengo e quello di San Giovanni a Saluzzo,
il sistema territoriale della Bassa Vercellese. Un elenco che rende l’idea del vasto
patrimonio storico artistico di cui dispone il Piemonte e dell’intensa attività che
questa Soprintendenza porta avanti nell’ambito della tutela e della conservazione. Argomenti che spaziano dal riuso funzionale di ambienti abbandonati
quali le cucine del Palazzo Reale in un ottica moderna di “ambiente vissuto”, al
recupero storico architettonico di chiese, basiliche e conventi, all’apertura al
pubblico di uffici pubblici come Palazzo Chiablese, sede della Soprintendenza
stessa.
L’intento principale è di fornire al pubblico informazioni sulle metodologie di
restauro che sono state scelte e applicate, nell’ottica di un recupero funzionale
del patrimonio, finalizzato non solo alla sua conservazione ma anche alla sua fruizione e valorizzazione.
Il tema scelto per quest’anno, “l’innovazione per un restauro sostenibile”, è argomento di assoluta attualità, che merita la giusta attenzione e un attento approfondimento, nell’ottica della tutela dell’ambiente e dell’utilizzo di sistemi
eco-compatibili nel campo del restauro. La sfida è tanto difficile quanto inevitabile e ci vede tutti impegnati nel difficile compito di salvaguardare e proteggere
il patrimonio nazionale, sfruttando i preziosi apporti forniti dalle moderne tecnologie e dallo sviluppo di nuovi strumenti, senza dimenticare che ogni scelta
deve essere considerata, valutata e presa tenendo conto dell’impatto che avrà
sull’ambiente.
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali
Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendente:
Francesco Pernice
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220411
Fax 011 4361484
[email protected]
251
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
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per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendente:
Francesco Pernice
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
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Il restauro delle cucine del Palazzo Reale di Torino
Daniela Biancolini
Un non luogo. Dove erano risuonate le grida dei garzoni, gli ordini sibilati dal
maggiordomo sul sottofondo degli sfrigolii delle carni arrostite, i passi frettolosi
dei valletti diretti verso la tavola del Re, i richiami dei cuochi attraverso i fumi dei
grandi forni, non restavano che silenzio, mobili malamente accatastati, vecchie
plance, cassettiere aperte e sventrate, forni in ghisa corrosi dalla ruggine, canaline
elettriche desuete, allestimenti di mostre dimenticate, persino una betoniera,macerie, cassoni e polvere, polvere, polvere.
Così apparivano quelle che erano state le grandi cucine Reali nel 1997, quando
venne dato avvio alla redazione del progetto generale di riadeguamento e restauro del Palazzo Reale, e ancora nell’anno 2007, quando il cantiere che aveva
già recuperato il Secondo Piano Nobile venne esteso alle cucine, delle quali era
stato programmato il riallestimento filologico: in tutto circa quindici ambienti caratterizzati da un degrado assoluto.
La prima attività sul campo ha riguardato la documentazione dello stato di fatto a
mezzo di riprese fotografiche, seguita subito dopo da uno sgombro attento degli
infiniti quanto eterogenei materiali accatastati in ogni ambiente, in modo da non
perdere la stratificazione dei depositi e poter così ritrovare parti disperse di uno
stesso mobile. Questo lavoro apparentemente banale, in realtà fatto di pazienza
e attenzione, ha reso possibile ritrovare il volto, benché devastato, delle cucine,
mettere in connessione gli ambienti con gli arredi e gli utensili, ritrovare il bandolo
dell’ingarbugliata matassa di un mondo sommerso, del “ventre” del Palazzo, grazie
anche al rimando continuo e le verifiche con la documentazione archivistica.
Coerentemente alle scelte di principio fatte per il Secondo Piano nobile, si è deciso di presentare le Cucine nella loro ultima fase storica, cioè quella risalente
agli anni Venti e Trenta del Novecento, fase della quale rimanevano le testimonianze più significative a livello di arredo fisso.
Le linee guida per tutti gli interventi, assolutamente condivise tra la Direzione dei
lavori impiantistici è stata di intervenire il meno possibile, conservando le testimonianze di tutte le dotazioni impiantistiche compatibili con la presenza del pubblico ed inserendo quelle nuove a vista, così come a vista erano gli antichi impianti.
Sono stati quindi conservati tutti gli impianti storici giunti fortuitamente a noi
senza essere stati rimossi, fatto che purtroppo si verifica spesso per gli impianti
vetusti: gli ascensori e i montavivande, i riscaldatori elettrici con le caldaie,i radiatori,i raccordi in ghisa malleabile, le flange forgiate, le valvole in bronzo e l’infinita
gamma di accessori che sono stati di guida per la riproposizione delle nuove
attrezzature. Gli impianti elettrici, ad esempio, sono stati realizzati ricablando le
vecchie lampade a piattino in ferro smaltato con alimentazione “a treccia”e con
cavo minerale in rame.
Le tubazioni di riscaldamento e di collegamento delle caldaie con gli ambienti
soprastanti sono state lasciate, così come gli impianti a termosifone aderenti al
soffitto, per riscaldare il piano ove erano gli appartamenti del Re e della Regina.
Singolare è anche la presenza delle enormi caldaie, proporzionate del resto all’immensa cubatura da scaldare, soprattutto nel Primo Piano Nobile.
Per l’illuminazione dei corridoi è stato fatto ricorso all’elettrificazione delle lanterne a petrolio usate dal personale di ronda tra fine Ottocento e gli anni Trenta
del Novecento, lanterne conservate in gran numero negli inesauribili depositi del
Palazzo. Anche per completare i rivestimenti in “quadrelle di maiolica” bianca
realizzati alla fine del XIX secolo, sono stati usati materiali di recupero, così come
per le lastre di luserna del pavimento, sostituite da altre presenti in vani non utilizzati, in modo da non creare discontinuità.
Si è partiti dal principio che gli ambienti di cucina erano considerati come luoghi
di lavoro, senza quelle pretese formali o rappresentative che sono proprie dei
piani nobili: e come tali dovevano essere riproposti, non creando artificiali ambienti asettici ma mantenendo un più basso e realistico profilo di presentazione.
Questa scelta è stata estesa al restauro degli oggetti e particolarmente agli utensili
in rame e stagno, per i quali ci si è potuti avvalere della sperimentata collaborazione scientifica e tecnica dei professori Guido Biscontin, Guido Driussi e Giuseppe Longega dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Altrettanto è stato fatto con gli arredi in legno, il cui pessimo stato conservativo
ha reso necessari interventi di consolidamento e di integrazione, condotti con
grande passione e professionalità da Luigi Tanzillo della ditta Edilatellana, appaltatrice dei lavori; a Luigi dobbiamo anche il restauro di tutti i serramenti in legno
che sono stati recuperati grazie al suo impegno, al quale si è aggiunto quello di
Luciano Paschetto nelle ultime fasi del lavoro. Le opere di ripristino e restauro
degli arredi in metallo - forni, spiedi, lavelli, ghiacciaie, scaldavivande - sono
state eseguite da Silvia Ciacera Macauda e da Daniele Capella sotto la supervisione del professor Longega.
Gli interventi architettonici ed impiantistici sono stati finanziati dal Ministero per
i Beni e le Attività Culturali nell’ambito del piano di riadeguamento e restauro generale del Palazzo Reale afferente alla Legge 270 del 1997. L’mporto delle opere
edili ammonta a € 380.000,00 quelle impiantistiche a € 150.000,00.
Gli allestimenti e i restauri dei materiali metallici (rami, stagni, le cucine in ghisa
così come tutti gli arredi fissi) sono stati finanziati dalla Consulta per la Valorizzazione di Torino per l’importo complessivo di € 320.000,00.
253
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Gli utensili dell’Ufficio di Bocca del Palazzo Reale
di Torino
Enrico Barbero
Parte della grande storia si è scritta a tavola: analizzando infatti i ricchi archivi sabaudi è possibile rintracciare diverse documentazioni riguardanti gli importanti
pranzi svoltisi a corte, tramite le quali è possibile dedurre alleanze, strategie, privilegi, intrighi e molto altro. L’allestimento di raffinati ricevimenti ha rivestito nel
tempo un ruolo di grande importanza. Dunque grande interesse suscitano gli
studi dei servizi, facenti parte delle collezioni dell’antica Vasella, e del cerimoniale legato alla tavola. Ma dietro a tutto questo sontuoso “macchinario teatrale”,
contraddistinto dal mutamento del gusto nelle varie epoche, si cela un mondo
straordinario, in gran parte ancora da indagare, che ne descrive il dietro le quinte:
il motore nel quale quotidianamente uno stuolo di cuochi, garzoni, valletti e
molte altre figure creava, grazie a innumerevoli utensili di cucina, i ricchi piatti
che venivano serviti alla mensa del Sovrano.
Il Palazzo Reale di Torino conserva quasi interamente la sua ricca dote di oggetti
in rame, stagno, ottone, ferro, ghisa e legno che fino al 1946, più o meno continuativamente, hanno lavorato nelle grandi cucine; un patrimonio che può trasmetterci ricche informazioni sul loro utilizzo e l’avanzamento tecnologico nel
tempo, ma che in un certo senso ci “narra” la Storia d’Italia.
Sono stati per la prima volta esaminati singolarmente nel 2005, durante la catalogazione di tutti gli oggetti collocati nei sotterranei della residenza torinese, preliminare agli interventi di restauro degli ambienti; erano infatti stipati da oltre
cinquant’anni in quella che era l’antica cantina dei vini, ormai privata del suo contenuto originario. Una collezione di circa millecinquecentocinquanta pezzi tra
pentole, tegami, padelle, casseruole, teglie, macchinari e molti altri minuti oggetti
dalle più variegate forme e misure. Su ognuno di questi si ritrovano i marchi degli
inventari sabaudi (elenchi patrimoniali numerico – descrittivi fatti redigere da più
sovrani nel 1870, nel 1880 e nel 1911) ed inoltre molti altri punzoni e dettagli che
permettono di ricostruire la loro provenienza e quindi la Storia. Si osservano monogrammi riferibili a sovrani sabaudi come Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, Carlo
Alberto e Umberto I, ma non solo; vi sono infatti marchi, poi barrati, di altre residenze della penisola, annesse al patrimonio della Corona durante il Risorgimento
Italiano. Si ritrovano quelli di residenze del Lombardo – Veneto, del Ducato di
Parma e del Regno delle Due Sicilie, quasi un fondersi del vissuto storico delle
corti della penisola nelle cucine del Palazzo Reale della prima capitale d’Italia.
Palazzo Chiablese (Torino) - Gli arazzi di Artemisia
Roberto Medico
Nel 1753 Carlo Emanuele III affidò all’architetto di corte Benedetto Alfieri l’incarico di riplasmare il Palazzo Chiablese quale residenza destinata all’ultimogenito
Benedetto Maurizio, figlio della terza moglie; dal 1758 sino al 1780 risultano diversi pagamenti per la fornitura di lane, filati e manodopera per “il raccomodo di
nove arazzi dell’istoria di Artemisia destinati al nuovo appartamento che si sta radobando per SAR il Duca di Chablais” e per altri interventi negli anni successivi.
Gli arazzi, oggetto di intervento, facevano parte dei dodici panni di grandi dimensioni della serie Le Storie di Artemisia che erano state acquistati nel dicembre
del 1619 dal Principe di Piemonte Vittorio Amedeo per il Palazzo Ducale di Torino, acquisto seguito dalla richiesta di 12 entrefenêtres dello stesso soggetto, terminate nel gennaio del 1621.
A partire dal 1781 tutti i documenti inventariali riportano le descrizioni delle varie
serie di arazzi presenti nelle sale del Palazzo Chiablese, tra i quali quella di Artemisia, che risultano allestiti negli anni in sale diverse e, da ultimo, nel “Gabinetto
d’udienza a levante” l’attuale Sala arazzi. Gli arazzi risultavano ancora nel Palazzo,
divenuto nel frattempo sede della Soprintendenza per i Monumenti per il Piemonte, dopo il secondo conflitto mondiale e vennero trasferiti nei depositi del
Palazzo Reale negli anni ’60, in concomitanza degli interventi di ricupero delle
sale del Chiablese danneggiate dai bombardamenti. Nel 2007 la Sala Arazzi viene
restaurata con i Fondi Lotto e, contemporaneamente, gli arazzi vengono restaurati
e riallestiti grazie alla sponsorizzazione della Consulta per la Valorizzazione dei
Beni Artistici e Culturali di Torino.
Il ciclo di arazzi ha come personaggio centrale la regina Artemisia, personaggio
che è in realtà frutto delle storie di due antiche regine della Caria, entrambe di
nome Artemisia. La prima, alleata di Serse nella campagna contro i Greci, combattè
nella battaglia di Salamina nel 480 a.C., mentre la seconda, vissuta un secolo più
tardi, è nota per aver fatto costruire in memoria dell’amato fratello-marito, il re Mausolo, il Mausoleo ad Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo antico.
La fonte di ispirazione è un poema denominato Histoire de la Royne Arthemise,
composto nel 1561-62 da Nicolas Houel, mecenate e farmacista parigino, in
onore di Caterina de’ Medici reggente a seguito dell’improvvisa morte del marito
Enrico II re di Francia durante un torneo.
Il ciclo dei disegni preparatori derivano in parte direttamente dall’album di
Houel, e sono per la maggioranza attribuiti ad Antoine Caron, mentre altri sono
stati aggiunti all’inizio del XVIII secolo da Henry Lerambert. Molti degli arazzi furono prodotti nella manifattura di Faubourg Saint-Marcel da Philippe de Maecht,
noto tessitore attivo a Parigi nella bottega di Comans-La Planche sino al 1619, poi
trasferitosi alla Reale Manifattura di Mortlake in Inghilterra fondata da Giacomo I.
Gli arazzi sono in lana e seta con filati metallici d’oro e d’argento, e sono racchiusi
in un’ampia cornice con mascheroni ai quattro angoli, con fiori, figure allegoriche
e trofei; vi compaiono il monogramma FM (Filippo di Maecht) e le iniziali AM, per
anni riferite ad Anna Maurizia d’Austria, moglie di Luigi XIII; studi successivi hanno
invece ipotizzato che, avendo il duca Carlo Emanuele fatto aggiungere sulle entrêfenestres il suo stemma senza cambiare il monogramma AM, quest’ultimo si riferisce ad Artemisia e Mausolo.
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L’intervento di restauro
Il degrado dell’unità tessile degli arazzi si era manifestato con l’evidente alterazione dei materiali costitutivi causata dal tempo, dall’uso e dalle precedenti condizioni espositive non idonee alla conservazione delle fibre. L’unità visiva e
255
materica degli arazzi si presentava discontinua poiché zone ancora ben conservate convivevano con aree compromesse da due tipi di degrado: le estese e
diffuse mancanze dei filati originali (orditi e trame) e la presenza dannosa di alcuni precedenti interventi di rammendo. Si è scelto, pertanto, di affrontare il trattamento delle lacune con il metodo conservativo, escludendo quindi qualsiasi
intervento di integrazione finalizzato al recupero della figuratività perduta.
Un altro aspetto di complessa riflessione critica è stata la scelta di mantenere
certi interventi del passato: si trattava di rammendi, ritessiture e ricuciture degli
stacchi aperti. I rammendi e le cuciture non idonee degli stacchi sono stati rimossi, mentre nel caso delle ritessiture, la scelta è stata quella di mantenere
quelle “integrazioni a tessitura” compatibili con il rifacimento della tecnica originale dell’intreccio nelle sue componenti di ordito e trama; soprattutto dove queste integrazioni per la loro estensione risultavano ormai parte intima della tessitura,
la loro rimozione avrebbe comportato un’ulteriore perdita dell’unità tessile.
Per la completa rimozione dei depositi di sporco si è proceduto al lavaggio per
immersione di tutti i panni, preceduto dal test di solidità dei coloranti.
Per le aree interessate da mancanze totali (trama e ordito) si è effettuato l’inserimento di nuovi orditi compatibili per materia e titolo, tinti nella nuance pertinente. I nuovi orditi di restauro non sono stati inseriti nella tessitura originale per
non provocare tensioni nocive, ma sono stati inseriti ancorandosi solo in alcuni
punti e appoggiandoli al supporto.
Le lacune presenti nelle cimose originali sono state risanate con l’applicazione a
cucito di supporto dello stesso colore, fermando i margini delle lacune senza riposizionare gli orditi mancanti. Le cimose orizzontali superiori, già cambiate in
passato per il forte degrado dovuto ai precedenti sistemi di sospensione, sono
state invece sostituite da nuove cimose tessute a mano su un telaio.
Da ultimo, a tutela dell’allestimento degli arazzi, sono stati installati nella sala un
sistema di temperatura e umidificazione controllate e pellicole protettive alle finestre di ultima generazione e nuova tecnologia.
Direzione lavori:
Roberto Medico,
Storico dell’arte, Direttore
Coordinatore BAAP
Restauro a cura di:
Tissage Conservazione
e Restauro di Tessili (FI);
Indagini diagnostiche:
Isetta Tosini, Direttore
Coordinatore del Laboratorio
Biologico dell’O.P. D.,
Bruno Radicati dell’IFAC,
Donatella Mascalchi.
256
Ordine Religioso dei Servi di Maria della Basilica di Superga.
Il restauro delle cromie juvarriane nella cupola della Basilica
di Superga a Torino
Valerio Corino
La Reale Basilica di Superga - Inquadramento storico e descrizione
La Basilica di Superga venne edificata in ottemperanza ad un voto che Vittorio
Amedeo II fece davanti alla statua della Madonna delle Grazie, nella piccola
chiesa del colle di Superga, durante l’assedio dei Francesi del 1706: se avesse ottenuto la vittoria e Torino fosse stata libera, avrebbe fatto innalzare in quel luogo
una grande chiesa in suo onore.
La vittoria arrivò ed oltre alla libertà portò in dote a Torino anche il Regno di Sicilia
e Superga, negli intenti di Vittorio Amedeo II e nei valori simbolici, rappresenta
a tutti gli effetti il monumento celebrativo per antonomasia dell’Ancien Régime
sabaudo.
Il primo progetto del nuovo complesso di Superga risalirebbe, secondo alcuni,
al 1713 e fu realizzato da Antonio Bertola, sostituito poi con il più prestigioso e
internazionalmente aggiornato Filippo Juvarra (1678 –1736), a cui sembra che
Vittorio Amedeo II abbia affidato l’incarico nel 1716.
Per la realizzazione del complesso, pensato anche come mausoleo della famiglia
Savoia, si dovette provvedere ad un abbassamento del colle, con un ampliamento dell’area edificabile; i terreni disponibili non erano però sufficienti ad
ospitare il grandioso progetto e Vittorio Amedeo dovette provvedere all’acquisto
di ulteriori appezzamenti di terreno.
Il 20 luglio 1717 venne ufficialmente posta la prima pietra della nuova “Reale Basilica”, nella cui struttura architettonica si individuano chiaramente i nuclei tematici
su cui l’architetto messinese lavorò: la pianta centrale, che fonde armoniosamente
lo schema a croce greca con quello a rotonda, la sequenza in altezza di vano
centralizzato, alto tamburo e cupola a calotta, il rapporto tra corpo della chiesa
e pronao a colonne, la facciata con le due torri laterali che fiancheggiano la cupola.
La Basilica presenta un corpo centrale principale, a pianta circolare, di un diametro di 18, 40 m, chiuso da una cupola sferica sostenuta da 8 grandi colonne, per
un’altezza netta interna di circa 60 m. Da questo corpo centrale parte, in asse
con l’ingresso, un’unica navata centrale, di larghezza variabile (tra 7,5, m e 15,85
m) e di una lunghezza di circa 22 m.
La navata è sormontata anch’essa da una calotta sferica, per un’altezza netta interna
di circa 22,56 m. La zona dell’ingresso è a pianta rettangolare, con una copertura a
volta a botte, con un’altezza massima di 16,70 m; completano la pianta della Basilica
due cappelle laterali, arredate da altari monumentali e quattro cappellette minori
poste a 45° rispetto all’asse principale. La pianta centrale dell’edificio si sviluppa
con un prolungamento longitudinale verso l’area presbiteriale.
La grande cupola poggia su una maestosa struttura divisa in due ordini: il primo
ordine è costituito da otto colonne scanalate in marmo grigio, il secondo dalla
balaustra in legno scuro e dal tamburo, tramezzato da otto finestroni ritmati da
altrettante colonne rudentate di marmo di Gassino e da altre otto, tortigliate per
un terzo del busto, realizzate in marmo di Brossasco.
Lo spazio centrale è separato dal presbiterio da una balaustra di marmo scuro di
Frabosa, con cancello in ferro battuto, realizzato dal Sacchetti nel 1736. A destra
del presbiterio si trova la sacrestia e a sinistra una piccola cappella.
Di straordinaria fattura anche i due grandi altari barocchi della SS. Annunciata e
della Natività di Maria, realizzati a partire dal 1726 rispettivamente da Bernardino
Cametti da Gattinara e da Francesco Moderati.
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Nel 1729 Juvarra commissiona al Cametti anche l’elaborazione del bassorilievo per
l’altare maggiore, oltre che gli altari per le quattro cappelle minori. La decorazione
scultorea dell’altare maggiore rappresenta la Vergine in Gloria con Angeli e il Beato
Amedeo di Savoia in atto di preghiera nella parte alta e al di sotto una scena di
combattimento, con la veduta di Torino, in ricordo degli avvenimenti del 1706.
La decorazione della Basilica è completata da grandi tele, raffiguranti “San Luigi
IX e S. Remigio” e “Il martirio di S. Maurizio e della Legione Tebea”, opera di Sebastiano Ricci, “S. Carlo Borromeo che distribuisce l’Eucarestia agli appestati di
Milano” e “La Beata Margherita di Savoia”, commissionate al Beaumont.
Stato di fatto prima dei restauri
Ad una prima analisi da terra le patologie di degrado di cui soffrivano le superfici
interne della Basilica erano da ricondursi alla presenza di un generale strato di
sporco, con deposito di materiale incoerente e di particellato atmosferico che,
in alcuni punti, si era trasformato in una crosta estremamente aderente al substrato, oltre a diversi interventi manutentivi passati, realizzati mediante più tinteggiature che tendevano ad appiattire il modellato e a modificare la cromia.
Si erano inoltre verificate infiltrazioni d’acqua, che avevano provocato la formazione, in alcune zone, di efflorescenze e subflorescenze saline, con conseguente
polverizzazione del colore manutentivo, il distacco e la caduta dell’intonaco e
della pellicola cromatica oltre all’ossidazione degli elementi metallici.
Numerosi erano inoltre i danni antropici, con scritte vandaliche che avevano danneggiato, talvolta anche con incisioni profonde, i basamenti delle colonne, ma
anche parti raggiungibili a fatica da terra.
Analizzando lo stato conservativo una volta innalzati i ponteggi, la situazione di
degrado delle parti alte dell’edificio è risultata molto maggiore di quanto ipotizzato e previsto dalla visione da terra, mostrandosi in tutta la sua gravità.
258
Tutta l’area della cupola versava in uno stato di estrema precarietà: le finestre
erano in cattive condizioni; vi erano diversi vetri rotti, le sigillature a mastice erano
dissestate e degradate e a volte non più in sede; in taluni casi i telai lignei erano
deformati, qualche cornice era completamente rotta e tutto questo lasciava passare l’acqua all’interno dell’edificio.
All’altezza della cupola le lamiere poste sotto i davanzali, per bloccare il percolamento dell’acqua, erano dissaldate e bucate in diversi punti e non svolgevano
più la loro funzione di allontanamento dell’acqua proveniente dalla condensa
sui vetri, ma la ripropagavano nella muratura attorno, creando gravi degradi negli
stucchi e negli intonaci confinanti.
Inoltre i vetri rotti e/o mancanti, avevano permesso l’ingresso di uccelli, per cui
si trovavano consistenti tracce di guano sull’apparato decorativo degli stucchi a
rilievo.
Più si saliva e più il degrado aumentava: gli intonaci e gli stucchi del tamburo, oltre
a quelli della cupola, si trovavano in cattive condizioni di staticità, con fitta presenza di micro e macro lesioni, scoppiature di porzioni del cupolino, caduta di
petali dei rosoni, distacchi di cornici, molte inoltre erano le riprese materiche a
base cementizia, con funzione di rimediare ai già pressanti fenomeni di degrado
del passato. I marmi delle colonne delle varie quote erano molto erosi, gravemente fessurati e sbeccati, con intere sezioni a serio rischio di caduta.
Nella cupola le decorazioni fogliami e ghiande di querce dei costoloni, le cornici
in aggetto dei lacunari, così come i rosoni al centro degli stessi, evidenziavano una
situazione di distacco preoccupante, tanto da indicare rischio di cadute di parti
consistenti e si vedeva che i diversi strati di tinteggiature erano quelli che permettevano, in alcuni casi, il mantenimento in loco degli elementi fessurati.
Ulteriore causa del degrado, anche se non la primaria, era riconducibile alla tecnica esecutiva degli stucchi, realizzati con uno strato di corpo con malta bastarda, composta da calce magnesiaca, gesso e sabbia di fiume.
Gli stucchi sono stati realizzati in opera senza l’ausilio di stampi ed in particolare
il loro posizionamento escludeva ammorsamenti alla struttura muraria, tranne che
nei rosoni che sono imperniati con staffe metalliche.
Numerose lacune, negli interventi di “restauro” passati sono state semplicemente
colorate, senza però ricostruire le parti mancanti.
In alcuni casi la caduta aveva lasciato a vista la struttura metallica di ammorsamento dello stucco in rilievo, che per degrado e ossidazione della parte metallica si era staccato da esso e perso.
Notevole era la presenza di sali, dovuta anche all’umidità per passate infiltrazioni
d’acqua dalle coperture.
Gli intonaci e gli stucchi evidenziavano ovunque un’importante presenza di sali
solubili in sezione di materiale, tanto che con il solo lavaggio degli strati superiori
a vista, sono migrati, sollecitati, in superficie ponendo gravi problemi operativi.
Lungo la fascia con la scritta nel passaggio tra cupola e lanternino si sono inoltre
individuati diversi chiodi, ancora in loco, fortemente ossidati, attorno ai quali era
presente una capillare cavillatura negli intonaci; sotto alla scritta dipinta si intravedevano chiaramente i segni di una scritta precedente, facendo pensare che,
in origine, i chiodi potessero fermare grandi lettere a rilievo ma di cui non rimane
testimonianza certa.
Il dipinto murale nella volta del lanternino versava in pessime condizioni; vi era una
fitta e profonda presenza di efflorescenze saline, tanto da non aver più lettura del
dipinto che appariva a macchie e sbiancato, si evidenziavano gravi distacchi della
superficie pittorica, degli intonachini e degli intonaci profondi, con ampie zone a
rischio di separazione totale dalla retrostante struttura muraria. La perdita di colore
per ampie zone aveva inoltre determinato la “riparazione” con rasature di malta. Fin
259
dal primo alzarsi del ponteggio in quota si è potuto vedere come le quattro tele
nelle cappelle minori agli angoli del vano navata, manifestavano un altissimo stato
di degrado; vi era una consistente patina di sporco, oltre ad un massiccio attacco
biologico; questi fenomeni hanno reso fragile la pellicola pittorica, con il conseguente distacco puntiforme dal retrostante supporto tessile.
Intervento di restauro
In base a quanto emerso dagli studi propedeutici, l’intervento è consistito fondamentalmente nella conservazione e nel restauro degli elementi lapidei, degli
elementi architettonici in rilievo e degli intonaci ed è stato finalizzato al recupero,
e/o alla riproposizione (per le parti fortemente danneggiate) delle cromie antiche
che caratterizzano l’edificio nell’originaria progettazione cromatica.
Per quanto riguarda le partiture architettoniche in rilievo, le zone particolarmente
degradate, scagliate, lesionate e a rischio statico sono state prima protette, mediate un bendaggio con velatino di cotone.
Si è proceduto quindi con il conseguente preconsolidamento delle zone più
fragili mediante impregnazione ed iniezioni prima di procedere alla pulitura degli
stessi. Nelle zone che presentavano delle parti distaccate e a rischio di crollo,
dopo protezione sono state eseguite puntellature di sostegno con elementi elastici in legno e in metallo con molle.
Le puliture sono state eseguite in modo differenziato in relazione alla zona su
cui si operava e tenendo conto di cosa si doveva togliere e quali strati recuperare.
Per la rimozione dei depositi superficiali coerenti, delle scialbature, delle concrezioni, incrostazioni e macchie solubili, si è proceduto mediante irrorazione
con impianto jos inerte e aria con sistema Rotec a pressione controllata e graduale
a cui è seguita una pulitura meccanica puntuale di rifinitura.
Localmente sono stati applicati tamponi imbevuti di soluzioni di sali inorganici,
carbonato e/o bicarbonato di ammonio. Si è proceduto alla successiva rimozione meccanica dei depositi solubilizzati, con ausilio di spugne, tamponi, spazzole e risciacqui accurati della zona con spruzzatore manuale.
I sali solubili già presenti in superficie e quelli presenti negli strati più profondi
ed emersi da un uso, anche se minimo di acqua durante le operazioni di restauro,
sono stati rimossi mediante applicazione di compresse assorbenti di sepiolite e
pasta di cellulosa con acqua deionizzata. Le parti che presentavano la necessità
di ristabilimento della coesione sono state trattate con resina acrilica. E’ stata garantita l’adesione tra supporto murario e intonaci mediante iniezione di malte
idrauliche. Nelle zone che presentavano un rilevante aggetto e distacchi problematici, uniti a fratture e microlesioni, è stato necessario l’inserimento di perni in
vetroresina della sezione di 8 mm annegati in resina epossidica preventivamente
iniettata nel foro preparato in modo di garantire un buon ammorso.
Le parti che non si è potuto smontare o staccare dalla loro sede sono state consolidate al loro supporto mediante iniezione di resina epossidica a bassa viscosità, e successiva iniezione di resina acrilica con inerti si è resa necessaria per
riempire le sacche vuote. Si è operata la disinfestazione dalla microvegetazione
con applicazione di biocida e rimozione manuale della vegetazione superiore
e successivo trattamento completo. Le vecchie stuccature in malta o in materiali
relativamente coerenti, che per composizione avrebbero potuto interagire negativamente con i materiali costitutivi o che avevano perduto la loro funzione conservativa o estetica sono stati rimossi. Le parti lacunose del modellato in stucco
sono state integrate al fine di restituire unità di lettura all’opera e con lo scopo di
ricostituire parti architettoniche o decorative strutturalmente necessarie alla conservazione delle superfici circostanti. Di caso in caso si è deciso se procedere
con l’integrazione con malta lavorata sul posto o con l’inserimento di elementi ri-
260
petibili realizzati da calchi prodotti in laboratorio. Poiché la pulitura ha portato
in luce una originaria finitura con finti marmi dalle diverse cromie, le lacune, le
abrasioni o le discontinuità cromatiche degli strati di finitura sono state compensate dalla reintegrazione pittorica con pigmenti naturali in polvere.
La velatura si è riservata su campi blu-grigio degli sfondati delle cornici e dei rosoni della cupola a completamento dei lacerti ritrovati. In questo caso i colori utilizzati sono stati il grassello di calce colorato in pasta tirato a semilucido.
Anche gli elementi metallici, quali perni, grappe, staffe e chiodi, risultati ossidati,
sono stati opportunatamente trattati e puliti meccanicamente dalla ruggine, con
spazzole dalle setole a durezza variabile, protetti con passivante e mimetizzati
nel contesto in cui collocati.
Gli elementi lapidei sono stati consolidati con silicato di etile.
La pulitura dei marmi è stata condotta dapprima mediante una spolveratura meccanica a secco, quindi ad umido per rimuovere lo sporco più adeso con uso di
acqua deionizzata, nebulizzata e asportata con spugne e leggera azione meccanica con spazzole alternata all’applicazione di compresse imbevute di soluzioni di sali inorganici, valutando caso per caso la scelta della soluzione, ed i
tempi di applicazione.
In alcune zone si è reso necessario, l’uso dello strumento laser per la rimozione
delle incrostazioni più tenaci e dove la pulitura tradizionale avrebbe dato problemi conservativi per più fragilità materica.
Le stuccature ed i rifacimenti importati ma non corretti ma che si è deciso opportunamente di conservare, sono stati adattati all’originale.
Progettazione Direzione Lavori:
Valerio Corino
Assistente alla Progettazione
e alla Direzione dei restauri
dell’apparato decorativo:
Restauratrice Sonia Segimiro
Ditta esecutrice: RIGAS S.r.l.
di Robassomero (TO)
N.O.V.A.R.I.A. R.E.S.T.A.U.R.I.
S.r.l. di Novara
Indagini diagnostiche a cura di:
TECNO FUTUR SERVICE,
Ivano Verra, Maurizio Ottaviano,
Alessandro Segimiro,
Fotografie: Marco Carlotti,
Alessandro Segimiro
Disegni a cura di: Marco Carlotti
Ponteggi: Bahaus di Milano
Responsabile della sicurezza:
Vito Loprieno
Supporto R.U.P. Manuele Giletti
261
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La “Riscoperta” del Parco e del Giardino del Castello
di Moncalieri (TO)
Valerio Corino
Il Castello di Moncalieri è, assieme alle altre residenze sabaude, nella lista dei siti
storici eletti patrimoni universali dall’ Unesco.
Le prime notizie storiche documentano un fortilizio dei Savoia intorno al 1100;
nel secolo XV l’edificio diviene Villa di delizie e viene in seguito permanentemente abitato dai Savoia. Successivamente ampliato e rimaneggiato da Carlo di
Castellamonte assume la configurazione attuale alla fine del XVII secolo.
È alla volontà e al gusto di Vittorio Emanuele II che si devono gli ultimi lavori nel Castello;
qui passa la sua giovinezza di principe e qui resta dopo diventato re,preferendo questo
castello al Palazzo Reale di Torino. Da quasi un secolo il Castello e la vasta area verde
retrostante vengono gestiti dall’Arma dei Carabinieri per scopo militare: l’utilizzo del
complesso come Caserma ha preservato la struttura da sostanziali modificazioni ma la
manutenzione è stata per necessità ridotta al minimo funzionale necessario all’Arma.
All’inizio dell’intervento finanziato dalla Regione Piemonte e coordinato da questa Soprintendenza il Giardino a Parterre si presentava in stato di quasi abbandono, con riporti di terreno sull’area ovest.
Il Parco era in condizioni di degrado ancora più marcato: estesi fenomeni di erosione interessavano gli scoscesi pendii per l’assenza di manutenzione della rete
idrica, i muri di contenimento del terreno sul lato ovest erano stati interessati addirittura da fenomeni di crollo probabilmente causati dalle acque accumulatesi
sul paramento di monte.
In questa prima fase anche solo la ricognizione dei luoghi era resa ardua dal fittissimo sottobosco che aveva invaso con piante spontanee le zone non più fittamente arborate.
La ampia ed approfondita ricognizione documentale del Paesaggista mio collaboratore arch. Federico Fontana ha individuato come documenti strategici di riferimento il rilievo botanico redatto nel 1876 dall’arch. Colombo Delfino e dal
giardiniere Rovej e la planimetria dell’arch Foglietti del 1864.
Solo grazie alla “mappa” così ricostruita è stato possibile leggere sul terreno le
preesistenze ottocentesche ed individuare l’antico impianto che così veniva
giorno dopo giorno “riscoperto” in sito: si è trattato di un continuo lavoro di ricerca e scoperta perché la “mappa” indirizzava la ricerca e la indagine sul terreno
consentiva di meglio leggere la “mappa”.
Per la esatta comprensione della sistemazione ottocentesca sono di grande utilità
la planimetria e la sezione mediana della stessa idealmente corrispondente all’antico crinale. Si possono così individuare tre zone:
- il Giardino a parterres di 2,6 ha a quota m. 281,4 slm.
- lo “scarpone” o preparco, che fa da fondale al Giardino, di 1,0 ha tra quota
m. 281,50 e m. 303,0
- il Parco di 6,8 ha su una superficie collinare molto mossa con pendenze anche
del 70% e quota superiore a m. 327,0 slm.
Nel Giardino a parterres sono stati reimpiantati i carpini delle gallerie arborate
dipartentesi dalle due ali del Castello, sono stati compiutamente recuperati i vasti
viali adducenti la fontana ottogonale, determinati in larghezza dall’indagine archeologica svolta,sono state compiutamente determinate e piantumate le aiuole
a sud della fontana, mentre non si è potuto realizzarle a nord della stessa essendo
l’edificio del Poligono di Tiro interferente.
Nello “scarpone” o “preparco” è stato ricostituito il profilo originario del terreno
che era stato alterato da scavi all’uso di piccole “cave di prestito” e sono stati ricostruiti i viali di percorrenza sia in piano che in pendenza.
Nel Parco il restauro si è articolato sia nel recupero dei percorsi che sulla completa risistemazione idraulica dell’area. Allo stato attuale non possiamo più contare sul canale di irrigazione collinare che originariamente garantiva
l’approvvigionamento idrico ai terreni ed al Castello; anche avendo mantenuto la
possibilità di riempimento del lago con l’acqua del canale collinare questo appare definitivamente compromesso dall’antropizzazione della collina di Moncalieri. Per il riempimento del lago si può approfittare degli intensi eventi di pioggia
ma per il reintegro idrico estivo si deve fare ricorso all’attingimento dall’acquedotto. In considerazione di ciò, per ridurre a zero le perdite idriche del lago per
infiltrazione nel terreno, si è deciso di impermeabilizzare l’invaso con guaina
ecocompatibile. Per migliorare la qualità dell’acqua il lago è stato provvisto di impianto di agitazione-ossigenazione sull’isola artificiale.
Durante i lavori, con grande sorpresa, è stato “scoperto” un pozzo verticale di circa
22,0 metri di profondità,del diametro di circa 1,0 metro, che mette in comunicazione
il pianoro prospiciente il lago con la già nota galleria orizzontale che si diparte dal
Ninfeo e si addentra nella collina per circa 100 metri. Questo ritrovamento consente
di meglio comprendere che questa stessa galleria non ha già la funzione di intercettare
inesistenti sorgenti nel corpo della collina, costituito da puddinga impermeabile e di
buona consistenza, ma di mettere in comunicazione il canale di irrigazione adducente
al lago con il Ninfeo, che a sua volta scarica nella fontana ottogonale. L’acqua poi proseguiva in direzione della grande Cisterna sotterranea del Castello.
La riscoperta di questo affascinante percorso delle acque potrebbe consentire
in futuro di allestire giochi d’acqua nel Ninfeo anche in assenza di apparecchiature idrauliche ma solo sfruttando il dislivello di 20 metri.
All’interno del Parco si collocano due fabbricati che sono oggetto di separato appalto di restauro:
a) la Casa del Vignolante in posizione dominante e panoramica, destinata in origine a postazione di avvistamento, ed in seguito utilizzata dagli agricoltori
preposti alla cura del Giardino e del Parco;
b) la Torre del Roccolo, edificio circolare di tre piani e del diametro di m. 9,0,
usato dal re Vittorio Emanuele II in età giovane per la caccia di appostamento
agli uccelli.
Allo stato presente il Giardino e il Parco del Castello di Moncalieri sono presentabili e fruibili al visitatore nella forma dell’accompagnamento.
Delle 97 specie arboree originariamente presenti alla data in cui Vittorio Emanuele
II percorreva questi viali solo il 30% sopravvive oggi, per la maggior parte essenze
tipiche dell’ambiente collinare piemontese. Il recupero del Parco avverrà con la
graduale sostituzione delle specie arboree non coerenti con il progetto definito,
nel frattempo avendo messo in sicurezza le aree oggetto di percorrenza e visita,
con le limitazioni di accesso in condizioni di vento sostenuto, in analogia a tutti
i giardini storici dotati di grandi alberi vetusti.
Torino, anno 2008
Valerio Corino
Progetto e direzione Lavori:
Valerio Corino
Collaborazione Storica e
Paesaggistica: Federico Fontana
Ditta Appaltatrice dei restauri:
Consorzio Ravennate soc.coop.
e per la esecuzione dei lavori:
Infrastrutture, Agriforest s.c.
Fotografie: Ernani Orcorte
263
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendenza per i Beni Storici Artistici
e Etnoantropologici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali
Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendente:
Francesco Pernice
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220411
Fax 011 4361484
[email protected]
Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici
e Etnoantropologici
del Piemonte
Soprintendente:
Carla Enrica Spantigati
Palazzo Carignano
Via Accademia delle Scienze, 5
10123 Torino
Tel. 011 5641711
Fax 011 549547
[email protected]
264
I restauri della Chiesa di San Sebastiano a Pecetto Torinese (TO)
Silvia Gazzola, Claudio Bertolotto
La chiesa di San Sebastiano edificata nella prima metà del Quattrocento, all’estremità meridionale dell’abitato di Pecetto, a fianco al Cimitero, presenta orientamento est/ovest con l’altare maggiore rivolto ad oriente. La facciata principale in
corsi di mattoni faccia a vista, come tutto l’edificio, è segnata da contrafforti che
rivelano la struttura interna a pianta basilicale a tre navate. L’interno scandito in tre
navate da pilastri che sostengono le volte a crociera, si conclude ad oriente con
un’abside quadrata ed è illuminato da tre rosoni, due dei quali evidenziati da
cornici in cotto. Dello stesso materiale è il portale a sesto acuto dell’apertura
principale.
Sulla parete a sud un’apertura rettangolare con serramento in legno a due battenti
immette nel Cimitero. Al centro della navata maggiore due botole in pietra immettono nel sottostante ossario che presenta un impianto rettangolare, raggiunge
la profondità di circa tre metri sotto la quota del pavimento ed è coperto da
volta a botte. L’apparato decorativo interno della chiesa riveste una grande importanza, in quanto gli affreschi datati tra il XV e XVI secolo, ricoprono una parte
consistente delle superfici murarie.
I primi interventi che riguardano la Chiesa di San Sebastiano, documentati presso
l’archivio corrente della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici
del Piemonte, risalgono al mese di gennaio del 1946, con data di inizio dei lavori
tre mesi più tardi al 16 aprile 1946. Si tratta di un “Atto fiduciario” alla ditta Vaudano Luigi di Pecetto, per opere di consolidamento del muro perimetrale della
Chiesa e più precisamente di sottomurazione dei tre pilastri del muro sinistro.
Negli anni successivi seguono numerose lettere di denuncia sull’avanzato stato
di degrado degli affreschi, tali da rendere necessario, alla fine del 1950, un urgente intervento di messa in sicurezza di parte dell’apparato decorativo interno,
per una spesa complessiva di circa £ 60.000. I lavori, condotti dal prof. Carlo
Pintor di Torino, iniziano il 16 ottobre 1950 e consistono nel “fermare i punti più
danneggiati e cadenti degli affreschi (…) stuccando le parti mancanti e rendendo
armonico l’insieme specialmente sul “Longo” e nei Santi dei pilastri”.
Nonostante l’intervento del Prof. Pintor la situazione di aggravamento della Chiesa
è nuovamente denunciata nel mese di febbraio 1956, l’allora Soprintendente
Umberto Chierici scrive al Ministero Pubblica Istruzione “L’umidità di capillarità
sale dalle fondamenta, guasta enormemente gli affreschi; è necessario fare opera
di isolamento con taglio orizzontale delle murature (…) riprendendo le volte
fessurate (…) e fissare gran parte degli affreschi”. Nella medesima lettera si richiede un finanziamento per le opere necessarie al ripristino, che però, il 6 marzo
dello stesso anno, viene negato data: “l’esiguità dei fondi di bilancio in relazione
alle molteplici esigenze di altre opere di maggior urgenza”.
Negli anni che seguono sono numerose le lettere di denuncia dello stato di abbandono della chiesa. Il 26 agosto 1968 Virginia Talucchi di Pecetto (nipote dell’arch. classicista torinese Giuseppe Talucchi) segnala l’incuria e stato di
abbandono della chiesa “la porticina laterale è consunta al punto di lasciar passare cane e gatti e malintenzionati”.
Gli anni Ottanta sono scanditi da interrogazioni parlamentari sullo “stato di deperimento cui versano alcuni affreschi del monumentale sacro edificio”, si segnala
la mancanza di vetri alle finestre e il conseguente problema di passaggio di pioggia, neve ed umidità.
La Stampa locale del 1 aprile 1982 denuncia lo stato di abbandono: “LA CHIESA
DI SAN SEBASTIANO A PECETTO VIENE LASCIATA LENTAMENTE CADERE”.
Si giunge finalmente alla fine degli anni Ottanta agli agognati lavori di restauro della
chiesa sotto la direzione dell’arch. Daniela Biancolini della Soprintendenza per i
Beni Architettonici del Piemonte. Si interviene sul tetto, sul restauro del portale
esterno in stile gotico, viene bonificato il suolo con la rimozione del piano pavimentale che consente di intervenire ad uno scavo archeologico, in estensione e
profondità, su tutta l’aula e le navate laterali a cura della dott.ssa Gabriella Pantò della
Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte. Il finanziamento del Ministero
per i Beni Culturali e Ambientali è di £ 80.000.000. Nel 1990 la Banca Popolare di Novara finanzia il nuovo pavimento delle navate di £ 30.000.000.
I lavori di restauro incidono positivamente sulla conservazione della chiesa, tuttavia non interessano il ciclo degli affreschi, tanto che, nel Luglio 2001, la Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico e Demoetnoantropologico del
Piemonte richiama il Comune ad intervenire tempestivamente considerato il “gravissimo stato di deperimento con rischio di perdita” delle decorazioni.
Settembre 2002: si giunge un progetto di restauro dell’arch. Salvatore Simonetti,
che riguarda in primis il ripristino della facciata mediante intervento di cuci scuci,
ristilatura dei giunti con malta di calce idraulica naturale con granulometria e colore uguale alla più antica in opera.
Nel 2004 inizia un accurato intervento di restauro a cura dello studio Doneux e
Soci, relativo agli affreschi della volta, della parete sud del presbiterio e della
Natività di Jacopino Longo.
Durante i suddetti lavori, nel maggio 2004, a seguito della rimozione delle stuccature della volta del presbiterio, si riscontra però la presenza di lesioni sull’intradosso della volta, in parte passanti in parte cieche, con notevole estensione
in lunghezza e in larghezza. La rimozione delle stuccature mette in evidenza il
reale quadro fessurativo della volta; le lesioni avevano interessato i giunti tra i
mattoni della volta e in alcuni casi avevano anche causato la rottura dei laterizi.
Trattandosi di lesioni vecchie e stabilizzate l’intervento di rinforzo ha avuto lo
scopo di ripristinare la continuità della volta andando a sigillare i giunti svuotati
e a consolidare i mattoni rotti. La metodologia seguita ha riguardato il puntellamento della volta, la pulizia accurata delle fessure, la sigillatura delle lesioni dell’intradosso della volta con calce naturale pura e protezione con garza
dell’intonaco adiacente alle fessure e con successiva rimozione a lavoro ultimato
e infine sigillatura delle lesioni e ripristino dell’apparato decorativo.
Durante il corso dei lavori si è potuto inoltre verificare lo stato conservativo delle
coperture della chiesa e, poiché si sono riscontrate alcune perdite localizzate
oltre che un diffuso degrado dell’orditura secondaria, si è intervenuti in una revisione totale delle copertura.
265
Anche i serramenti sono stati restaurati.
L’intervento di restauro ha interessato inoltre l’annoso problema dell’umidità con
la realizzazione di una intercapedine esterna lungo la facciata nord del presbiterio e con il sigillamento dei mattoni in facciata. Per favorire il maggior ricircolo
dell’aria nel vespaio esistente il progetto ha previsto la revisione delle bocchette
di aerazione presenti sui muri perimetrali e la creazione di nuove. La revisione del
vespaio ha reso necessaria la sostituzione della pavimentazione dell’aula e delle
navate laterali con mattonelle 20x20 in cotto tradizionale piemontese su disegno
originale; la pavimentazione originale dell’abside conservata è stata completamente restaurata. Sono state inoltre realizzate delle bocche di aerazione in prossimità dei pilastri centrali dell’aula. Al fine di evitare la posa di griglie, che mal si
addicevano al contesto storico del bene monumentale, in prossimità dei pilastri,
sono stati studiati elementi in cotto delle stesse caratteristiche della nuova pavimentazione con piccoli fori per il ricircolo dell’aria.
È in corso lo studio della nuova illuminazione mediante la tecnologia LED su
progetto dell’Enel Sole. L’impianto è stato studiato in modo da tener conto in
primo luogo dell’illuminazione degli affreschi e delle esigenze di conservazione degli stessi, in secondo luogo delle necessità di visitatori e turisti, evitando tuttavia l’eccessiva luminosità. Particolare attenzione è stata posta nella
ricerca di elementi di piccole dimensioni e di collocazioni non visibili a chi
percorre le navate della chiesa. Ci si è pertanto indirizzati su un sistema modulare, con moduli da 1 led ciascuno, a forma cubica di dimensioni 35x35x35
mm posti in linea e collocati sulle catene lignee degli archi di divisione tra le
navate.
Gli interventi sugli affreschi
Il restauro degli affreschi, promosso dal Comune di Pecetto proprietario della
chiesa di San Sebastiano, ha compreso un primo lotto di lavori nel 2003-2004 dedicato ai cicli del presbiterio (tranne la Crocifissione) e alla Natività nella controfacciata, un secondo lotto nel 2006- 2007 con interventi conservativi urgenti nelle
navate laterali, e infine un terzo lotto, in corso di ultimazione (2008-2009), per
completare gli interventi nelle tre navate e nel presbiterio.
I restauri sono stati condotti dal laboratorio Doneux e Soci, con la direzione tecnica di Alessandra Perugini per il terzo lotto.
Particolari problematiche si sono presentate a causa di precedenti interventi di
restauro, non sempre validi ai fini della corretta conservazione degli affreschi.
Nel presbiterio le stuccature a malta di calce effettuate in passato per sigillare le
crepe della volta, debordando sulla pellicola pittorica, l’avevano danneggiata
con l’azione corrosiva della calce.
Questo anche perché le scene dipinte da Guglielmetto Fantini (raffiguranti San
Sebastiano, Sant’Antonio Abate, gli Evangelisti e l’Incoronazione della Vergine)
non erano state realizzate a buon fresco ma a secco, a tempera, per ottenere
colori più vellutati e brillanti.
Dell’uso della tempera è indizio anche la presenza, sotto le cadute della pellicola
pittorica, di una preparazione isolante leggermente lucida, di natura organica.
Particolarmente laboriosa e delicata è stata quindi la rimozione delle stuccature,
che sono state sostituite con malte idonee, in concomitanza con il consolidamento strutturale delle crepe effettuato dall’estradosso dall’impresa Zoppoli &
Pulcher, incaricata dei lavori edili.
Anche l’intervento sulla parete destra del presbiterio ha richiesto particolari cautele.
Essendovi infatti, dietro il ciclo della Passione un affresco precedente, il consolidamento in profondità si è effettuato limitatamente ai punti strettamente necessari, per non danneggiare gli affreschi nascosti.
266
Molto delicato è stato poi il completamento del discialbo delle scene della Passione, che erano state liberate dall’intonaco agli inizi del Novecento dal medico
del paese dott. Ausonio Mattioli.
L’intervento attuale è consistito nella rimozione di un sottile velo di scialbo
bianco, molto resistente e quindi fortunatamente non toccato dai precedenti restauri, che in certe zone rendeva illeggibili le scene. Il discialbo è stato effettuato
con molteplici strumenti quali bisturi, spazzolini duri e morbidi, e rifinito con
fibra di vetro e gomma morbida.
L’integrazione pittorica non ha interessato le numerose picchettature cui si aggrappava l’intonaco rimosso, che sono solo state solo abbassate di tono con
tinta neutra.
Gli affreschi del “Maestro degli Apostoli di Revigliasco”, nella navatella sinistra,
erano stati oggetto di un restauro largamente integrativo, effettuato nel 1950 dal
restauratore Pintor.
Non solo i decori ripetitivi, ma intere figure erano state dipinte ex novo, come
quella di una Santa o la figura di un Santo cavaliere, del quale risultavano originali
soltanto il viso e parte del corpo.
La rimozione delle ridipinture è apparsa indispensabile per rivelare la qualità
degli affreschi, offuscata dagli strati pittorici sovrammessi, per di più alterati. Le
figurazioni rimosse sono state documentate, oltre che con fotografie, con rilievi
in scala 1:1.
267
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
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Restauri al Castello Ducale di Aglie’ (TO)
Daniela Biancolini
Correva l’anno 1998 quando venne avviato il progetto preliminare di restauro del
Castello di Agliè, nel quadro dell’imminente Accordo di Programma Stato-Regione per la valorizzazione delle residenze sabaude: il progetto comprendeva
interventi progressivi nel Primo e nel Secondo Piano Nobile, nelle grandi Serre,
nelle bellissime Cucine, nel Giardino e Parco e, naturalmente, in tutta l’impiantistica di ogni singola componente.
Nel 2006 è stata avviata la realizzazione di impianti elettrici e speciali nel Primo
e Secondo Piano nobile, sotto la direzione dell’architetto Giuse Scalva, alla quale
si deve la presenza delle pedane elettriche nel Primo Piano, con finanziamento
CIPE - Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica.
Nel settembre 2007 sono stati avviati i restauri del Primo Piano, cioè del principale
percorso di visita e della “Vecchia Amministrazione” (dove sino al 1939 avevano
sede gli uffici dell’Amministrazione Savoia-Genova) con finanziamento della
Compagnia di San Paolo.
Dopo cinque mesi di lavori pressocchè inavvertibili dall’esterno, nel febbraio
2008 le visite del pubblico sono state dirottate verso gli itinerari alternativi dell’Appartamento Chierici (restaurato e aperto nel 2003) e dell’Ospedaletto (restaurato e aperto nel 2005) nonché della Galleria alle Tribune, lo straordinario
collegamento pensile tra la Chiesa Parrocchiale e il Castello, restaurato e aperto
al pubblico nel 2004. Il cambiamento di rotta nel percorso era imposto dalle lavorazioni previste nelle sale, nelle quali dovevano essere realizzati restauri a tutto
campo, dai soffitti alle volte e ai pavimenti, fatto che lo rendeva evidentemente
inagibile per motivi di sicurezza.
Dopo sei mesi esatti, il 1° ottobre 2008, metà percorso è stato riaperto e l’altra
metà è stata riconsegnata al pubblico il 19 dicembre, a conclusione di 500 giornate complessive di cantiere, tre mesi prima del termine contrattuale e senza mai
chiudere il Castello.
Gli interventi di restauro e di riadeguamento del Primo Piano Nobile hanno coinvolto una molteplicità di specialisti per i legni, gli stucchi, le dorature, gli intonaci,
gli affreschi, i pavimenti, i tessili. 1800 metri quadrati articolati in quindici sale e
due lunghe gallerie, oltre 280 metri lineari di tendaggi, 3700 metri quadri di intonaci, 480 metri quadri di superfici in stucco, 370 metri quadri di superfici affrescate, 360 metri quadri di serramenti, 420 metri quadri di pavimenti restaurati.
Di quel sogno così ambizioso nato nel 1998, altre tappe sono oggi prossime all’avvio: il restauro e riallestimento delle grandi cucine reali settecentesche e di
quelle otto-novecentesche dei duchi di Genova; il restauro delle Scuderie Reali,
al piano giardino al di sotto della Galleria alle Tribune, con gli spettacolari stalli
in legno dell’equipaggio da caccia di Carlo Felice. I lavori ci impegneranno per
un anno a partire dalla consegna del cantiere, quindi tra la fine del 2010 e l’inizio
del 2011, in tempo per le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, celebrazioni per le quali stiamo già lavorando da tempo in modo che il Castello possa
accogliere i turisti e i visitatori anche al Secondo Piano Nobile, che sinora ha rappresentato le “colonne d’Ercole” dell’itinerario di visita.
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
L’indagine endoscopica applicata al Cantiere
di Restauro del Castello Ducale di Agliè1 (TO)
Il ritrovamento di nuove superfici dipinte nelle Gallerie
Giuse Scalva
Talvolta un intervento che sulla carta può apparire di “normale routine” seppur
con le dovute cautele, considerato il particolare ambito di intervento, può riservare, qualora affrontato con “scienza e coscienza analitica”, risultati del tutto inaspettati e di rilevante importanza storico artistica per la conoscenza di fasi ormai
occultate del Castello.
I lavori di restauro in corso al secondo piano del Castello ducale di Agliè prevedevano l’adeguamento e l’estensione degli impianti di illuminazione e di sicurezza. Una tipologia di intervento complessa specialmente se inserita in un
contesto storico monumentale, che deve essere compatibile con la struttura in
termini di non invasività e di efficienza.
In particolare la rete impiantistica di illuminazione e di sicurezza della Galleria
degli Uccelli e della Galleria dei Morti, doveva essere alimentata da una dorsale
di distribuzione progettata per essere collocata nei soprastanti sottotetti e attraverso una una serie cadenzata di passaggi verticali, attraverso l’orizzontamento
ligneo, giungere ad alimentare i singoli punti.
L’approccio scientifico dell’intervento ha consigliato di seguire attentamente la
fase di perforazione del tavolato a partire dal sottotetto, fase finalizzata non solo
al passaggio dei cavi elettrici, ma anche alla documentazione dello stato di conservazione materico e strutturale del solaio. L’indagine ha permesso di raccogliere
una serie di importanti informazioni del tutto inattese: la prima ha riguardato la
presenza di un’intercapedine, non nota, tra il piano di calpestio del sottotetto e
il soffitto della Galleria; la seconda ha permesso di individuare sui tasselli lignei
ottenuti dalle perforazioni (diam. 4 cm) tracce più o meno evidenti di pellicola
pittorica.
Il ritrovamento di tracce di intonaco di finitura sin sotto il tavolato ligneo di calpestio ha dimostrato che originariamente le pareti delle due Gallerie si estendevano per un’altezza ben superiore. L’individuazione, fortunata, su una porzione
dell’intonaco di una data (1829) ha permesso di datare con certezza l’intervento
di contro soffittatura che corrisponde ad una precisa fase di riallestimento del Castello. La presenza di consistenti parti di pellicola pittorica sull’intradosso delle
tavolette lignee del piano di calpestio ha permesso di ipotizzare che i soffitti lignei occultati dalla contro soffittatura appartengano alla fase seicentesca del Castello. Fase completamente occultata dall’intervento di riallestimento delle due
Gallerie realizzato nel corso di adeguamento del Castello alla sua fase di residenza estiva reale all’epoca di Carlo Felice e Maria Cristina di Borbone Napoli
proprio negli anni indicati dalla data individuata.
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L’intervento di indagine
endoscopica e la
restituzione grafica e
fotografica dei risultati
è stato diretto da Monica
Volinia, architetto,
Responsabile tecnico del
Laboratorio di
Restauro – DICAS della
Facoltà di Architettura
del Politecnico di Torino.
269
Al fine di una maggior conoscenza della situazione senza per altro compiere manovre che avrebbero distrutto elementi di interesse storico artistico si è ricorso all’utilizzo di una tecnica di diagnostica non invasiva e non distruttiva come
l’endoscopia. Attraverso l’impiego di una sonda dotata di una microtelecamera
inserita nei fori già realizzati per la discesa delle linee di alimentazione impiantistica
è stato possibile documentare le superfici non altrimenti direttamente visibili.
L’indagine con l’utilizzo di apparecchiatura endoscopica, ha permesso il recupero un importante tassello di conoscenza di una fase del castello della quale
si era completamente persa memoria ed ha permesso di riportare alla luce, seppur in forma virtuale, due interessanti apparati decorativi.
La presenza di elementi decorativi sull’intradosso dei due soffitti lignei apre una
finestra di conoscenza, sinora completamente sconosciuta e tutta da studiare
sotto il profilo storico artistico, verso momenti nei quali il Castello, dopo essere
stato un fortilizio medievale, ha vissuto la sua prima importante fase storica di
residenza di Filippo di San Martino d’Agliè, consigliere politico e personaggio vicino alla Madama Reale reggente Maria Cristina di Francia.
270
L’indagine endoscopica applicata al Cantiere di Restauro del
Castello Ducale di Agliè
Gli affreschi nascosti della Sala del Biliardo
Daniela Biancolini
Si tratta di una grande sala quadrangolare caratterizzata dal soffitto in legno dipinto e dalla sottostante fascia decorativa ad affresco con motti ed emblemi risalenti all’attività costruttiva di Filippo d’Agliè. Purtroppo sia il soffitto che la fascia
decorativa sono stati oggetto di un restauro non documentato che ha alterato
negativamente le rappresentazioni e i colori. Analogo intervento era stato condotto sulle boiseries dipinte con motivi di festoni.
Attraverso le indagini stratigrafiche preliminari al restauro è emerso che il colore
originario delle pareti era verdino e che le decorazioni della boiserie erano state
sovrapposte alla decorazione precedente, che era stata riportata in luce. Sono
riemersi anche piccoli ma significativi particolari decorativi, come il grande chiavistello dipinto a trompe-l’oeil sull’imbotte della porta di passaggio con lo Studio
del Duca.
Di particolare interesse è stata la scoperta di un vano finestra seicentesco tamponato in occasione del riallestimento ottocentesco; il vano, interamente affrescato,
è stato indagato endoscopicamente ed ha rivelato i bellissimi affreschi seicenteschi, non ancora modificati da mani successive.
Coerentemente con i criteri di conservazione di tutte le fasi storiche, si è scelto di
mantenere nascosto il ritrovamento e di confermare l’allestimento del XIX secolo.
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Castello ducale di Agliè (TO). Pedane scaldanti
Giuse Scalva
Nell’ambito dei restauri e degli adeguamenti impiantistici del castello è stato
scelto di realizzare lungo il percorso di visita del Piano Nobile un impianto di riscaldamento costituito da pedane pavimentali. Le pedane dotate di resistenza
elettrica appoggiate, ma idoneamente isolate, sui pavimenti storici, recentemente
restaurati, permetterà al pubblico di poter fruire di una gradevole visita anche
sotto il profilo microclimatico. Le pedane recentemente installate permettono di
sconfiggere i rigori del freddo che normalmente attanaglia, da dicembre a febbraio, le sale del Castello di Agliè.
Un’attenta progettazione ha permesso di offrire al pubblico di passeggiare su
un tappeto caldo, di colore rosso, come le tradizionali guide già presenti in castello, modulato nella sua forma permettendo di avvicinarsi alle opere senza occultare importanti testimonianze storiche pavimentali. È questo il caso della Sala
Tuscolana, ove la pedana scaldante posizionata al centro, lascia trasparire il disegno geometrico della pavimentazione antica in marmo bianco e rosso violaceo
trasportata ad Agliè dagli scavi di Tuscolo.
L’installazione delle pedane apre un nuovo ed interessantissimo capitolo sul riscaldamento degli ambienti storici in quanto permette di risolvere il problema
del freddo in ambienti normalmente aperti al pubblico senza la realizzazione di
opere invasive e /o distruttive e senza la demolizione delle superfici pavimentali
esistenti.
Le padane possono trovare un valido campo di applicazione nelle chiese perché
offrono la possibilità di riscaldare esclusivamente l’area in prossimità dei fedeli,
nei momenti delle funzioni, con un significativo risparmio energetico in quanto
non si rende necessario riscaldare tutto l’ambiente ma è sufficiente l’irraggiamento
dalle pedane verso i fruitori. L’installazione alladiese che segue di poco quella già
realizzata di Palazzo Reale a Torino apre quindi un nuovo capitolo di studio e di
applicazione di soluzioni tecnologiche innovative nell’ambito del patrimonio architettonico esistente.
Il chiostro settecentesco dell’Abbazia di Fruttuaria
a San Benigno Canavese (TO)
Giuse Scalva(1)
Il restauro delle strutture settecentesche del chiostro, la cui costruzione è attribuita all’intervento voluto dal Cardinale Vittorio Amedeo delle Lanze(2) (17121784), intorno agli anni ’70 del Settecento, ha permesso il recupero funzione di
parte del complesso abbaziale, per attività di carattere culturale gestite dalla comunità locale, specialmente durante i mesi estivi, come concerti, spettacoli teatrali e mostre.
Il restauro realizzato dal 2003 al 2008 dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Piemonte, progettato e diretto dalla scrivente e finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il contributo della Cassa
di Risparmio di Torino e della Regione Piemonte ha permesso il rifacimento delle
coperture, il restauro delle facciate esterne, il convogliamento e lo smaltimento
delle acque, il rifacimento della pavimentazione, la realizzazione dell’impianto
di illuminazione, il restauro delle superfici dell’anello porticato inferiore e in ultimo la chiusura con superfici vetrate del lato esterno dell’anello superiore.
Lo spazio centrale, completamente libero, è stato interamente pavimentato con
lastre in pietra di luserna per permettere il posizionamento in sicurezza di circa
200 posti a sedere all’aperto. Lo spazio anulare, coperto, permette su tre lati il
posizionamento di strutture espositive. L’illuminazione è stata realizzata con l’inserimento di corpi illuminanti a pavimento disposti in un doppio anello concentrico, in prossimità dei pilastri, uno all’interno ed uno all’esterno della struttura
porticata.
Il chiostro settecentesco dell’Abbazia di Fruttuaria, uno spazio architettonico per
anni in abbandono o impropriamente utilizzato come spazio oratoriale, è stato
ora restituito alla comunità locale anche per momenti di aggregazione.
Sotto il profilo storico architettonico il chiostro può essere inteso come un tassello
aggiuntivo al percorso di visita Mille anni di storia attraverso le strutture dell’Abbazia
di Guglielmo da Volpiano, il percorso museale che si snoda al di sotto del piano pavimentale dell’attuale chiesa parrocchiale permettendo al pubblico di avvicinarsi
alle strutture architettoniche della chiesa benedettina. La bonifica delle tombe nello
spazio delle quali è stato ricavato il percorso di visita attraverso cunicoli, scale e
sottopassaggi e la costruzione di un nuovo piano di calpestio in ferro cemento
hanno permesso alla chiesa attuale di svolgere contemporaneamente la duplice
funzione di chiesa parrocchiale e di spazio museale.
Le testimonianze della storia dell’Abbazia benedettina che hanno visto protagonisti un monaco architetto di rilevanza europea: Guglielmo da Volpiano (9621031) ed il primo re d’Italia: Arduino d’Ivrea (950-1015), dopo oltre duecento
anni di occultamento sono tornati alla luce nel corso degli scavi tra il 1980 e il
1990(3) dai quali sono riaffiorati i preziosi mosaici con i grifoni. Ma anche durante
i restauri del chiostro sono emersi elementi di epoca medievale, preziose testimonianze della perduta abbazia che aprono un nuovo e significativo capitolo
nella conoscenza del complesso fruttuariense. Il ritrovamento avvenuto nell’aprile
2007 ha messo in evidenza una porzione di arco a sesto fortemente acuto, delimitato da una cornice decorata a bassorilievo ottenuta da una serie di formelle
quadrangolari, decorate a stampo con figure antropomorfe stilizzate, presumibilmente femminili, contornate da racemi vegetali stilizzati, in rilievo, con andamento spiraliforme affiancate da un listello laterizio con superficie a quadratini a
rilievo, disposti a scacchiera.
Difficile risulta sinora la comprensione del messaggio contenuto nella decorazione rinvenuta. Le formelle in cotto hanno una decorazione piuttosto insolita
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sia per la tipologia della raffigurazione antropomorfa sia per il tipo di modellato
plastico essenziale e stilizzato che difficilmente si colloca nel panorama delle attuali conoscenze.
Il ritrovamento di Fruttuaria, unico nel suo genere, ha sinora trovato possibilità di
un avvicinamento stilistico con la serie di formelle dell’arco di casa Stria ad Ivrea
(TO), e di quelle di una finestra, sul cortile interno della casa detta di re Arduino,
in via Arduino a Cuorgnè (TO). In questo caso la figura umana, di fattura assai
rozza, è abbarbicata ad un tralcio di vite rigoglioso di frutti. Non è evidente sulla
superficie della formella di Fruttuaria la presenza di grappoli d’uva, solo cirri e
piccolissime foglie quasi a negare il valore apotropaico contro la sterilità di queste rappresentazioni contrapposto alla inusuale presenza di una raffigurazione
femminile in un chiostro abbaziale.
Il ritrovamento imprevisto ha giustificato l’estensione del saggio e la rimozione
dell’intonaco su buona parte della superficie muraria della parete est e della
prima campata della parete sud. L’eliminazione della cosiddetta superficie di sacrificio ha permesso l’individuazione e la rimessa in luce di una serie di aperture
sia di epoca precedente che di epoca successiva l’arcone con formelle figurate.
Il proseguimento del restauro ha permesso la rimozione di parte del tamponamento murario che occultava la vista di due bifore con capitello e colonnina ad
elementi laterizi cilindrici intonacati attribuibili alla prima fase del chiostro benedettino dell’epoca di Guglielmo da Volpiano.
1
2
3
Architetto direttore
coordinatore della
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
del Piemonte, direttore del
percorso di visita: Mille anni
di storia attraverso
le strutture dell’Abbazia
di Guglielmo da Volpiano
inserito nel complesso
dell’Abbazia di Fruttuaria
a San Benigno Canavese
(TO). Il percorso museale
di proprietà del Demanio
dello Stato è in consegna alla
Soprintendenza
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e Paesaggistici
del Piemonte.
Carlo Vittorio Amedeo
delle Lanze alto prelato,
intellettuale, legato
all’arcadia romana,
discendente per via
illegittima dal sovrano.
Il Cardinale era figlio di
Agostino conte di Sale
e di Barbara Piossasco
di Piobesi, fu Abate di
Fruttuaria con bolla papale
del 5 agosto 1749.
A seguito del ritrovamento
fortuito dei primi mosaici,
avvenuto durante i lavori per
la realizzazione dell’impianto
di riscaldamento, nel
dicembre 1979.
274
Santa Croce di Bosco nella Storia (AL)
Maria Carla Visconti Cherasco
L’ex convento di Santa Croce a Bosco Marengo è uno dei complessi monumentali
più significativi del secondo Cinquecento italiano: singolare isola di cultura toscoromana in area piemontese, il complesso fu voluto dal padre domenicano Michele Ghisleri che, nel 1566, appena dopo la sua salita al soglio pontificio col
nome di Pio V, deliberò la costruzione di un grande convento nella sua città natale (che avrebbe dovuto accogliere, nella chiesa annessa, anche le sue spoglie)
col preciso intento di farne un “monumento-simbolo”, baluardo della cristianità
vittoriosa contro l’eresia.
L’idea iniziale comprendeva la realizzazione di una nuova città aggregata alla fondazione conventuale, in posizione baricentrica fra i comuni di Bosco e Frugarolo:
forse anche per questo motivo vediamo la presenza del perugino Egnazio Danti,
domenicano, cosmografo, matematico e architetto “eccellente”, fra il 1567 e il
1569 sul luogo. Studi più recenti hanno ridimensionato il contributo del Danti a cui lo storico domenicano Giovanni Della Valle, nella sua cronaca del 1783, assegna secondo una consolidata tradizione la progettazione del complesso - a favore di un più plausibile riconoscimento di paternità del disegno al fiorentino
Giovanni Lippi. Anche l’architetto lombardo Martino Longhi di Viggiù, molto apprezzato negli ambienti artistici romani, è attivo sul cantiere dal 1568, in collaborazione, per qualche tempo, con Giacomo Della Porta, altro prestigioso architetto
papale.
Negli stessi anni Giorgio Vasari forniva il progetto per la grande macchina dell’altar
maggiore (smembrata nel XVIII secolo), eseguendo personalmente molte delle
tavole che la rivestivano, e abili scultori-intagliatori come Angelo Marini e Giovanni Gargiolli fornivano lo strepitoso arredo ligneo della chiesa. Il convento era
destinato già dall’origine all’Ordine dei Padri Predicatori Domenicani, a cui lo
stesso Ghisleri apparteneva.
La grande chiesa rispecchia gli orientamenti ideologici della Controriforma, anticipando, seppur di pochissimo, la codificazione stessa dell’architettura ecclesiastica post-tridentina riconosciuta nella romana Chiesa del Gesù del Vignola
(1568), anche se, di fatto, la costruzione fu definitivamente completata solo nel
1591. La facciata, che riprende suggestioni alessiane, risultava invece già completata circa vent’anni prima.
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Pio V guida la realizzazione del complesso anche nei minimi particolari almeno
fino al 1572, anno della sua morte, chiamando personalmente architetti e artisti
gravitanti nella cerchia della corte papale. Pochi anni dopo, l’impresa viene proseguita da suo nipote, il Cardinal Michele Bonelli, fino al 1598, anno in cui muore
a Roma. Al Cardinal nepote si deve il nuovo indirizzo artistico spostato, ora, verso
ambiti di cultura lombarda.
La Chiesa cinquecentesca subisce poi consistenti modifiche sotto l’aspetto decorativo appena dopo la beatificazione di Pio V decretata nel 1672: la colta veste
manierista voluta dal Papa - caratterizzata da una candida superficie solo segnata
dalle pitture intorno agli archi delle cappelle e dalla pietra scolpita a vista di
tipica reminiscenza toscana - viene cancellata a fronte di un gusto più provinciale,
con il partito decorativo giocato sui toni del nero e del rosso. Teorie di grossolani
girali in rosso-sanguigna vengono stesi nella fascia tra i due cornicioni e nelle
zone piane inframmezzate alle cornici in stucco. Il bel corredo di stucchi, viene
ricoperto da pesanti scialbi a base di nero-fumo. Decorazioni inusuali ma che
contengono nella fascia principale chiari riferimenti al Pontefice boschese, una
sorta di racconto celebrativo che percorre l’intero perimetro della Chiesa.
Contestualmente si smonta anche il suo mausoleo trasformandolo in altare. A
queste consistenti trasformazioni, si aggiunge nel 1709, tre anni prima della canonizzazione di San Pio, l’incredibile smontaggio della “gran macchina vasariana”
sostituita dall’altar maggiore in marmo che ora vediamo. Ancora, a metà Settecento, la chiesa ghisleriana, già compromessa dalla “chiesa celebrativa” derivata
dal culto del Papa Santo, viene definitivamente cancellata con la riplasmazione
della parete absidale al di sopra del coro cinquecentesco e “l’imbianchimento”
generale nascondendo nel contempo anche i capitelli in pietra scolpita, coperti
da “un coloretto più chiaro” insieme ai cornicioni.
Ad esclusione del periodo napoleonico, Santa Croce fu officiata dai Domenicani
fino al 1854, quando, con la Legge Siccardi, fu soppresso definitivamente il convento e l’intero compendio venne destinato agli usi più disparati. A seguito di
questi eventi l’organismo ecclesiastico patì devastanti spogliazioni e trasformazioni che ne offuscarono pesantemente le eccezionali qualità storico-artistiche.
Il che non ha impedito alle architetture di mantenere inalterata, pur nel degrado,
la solenne imponenza e al ricchissimo patrimonio di oggetti mobili di rimanere
in buona parte ancorato alla chiesa. Un cospicuo e articolato patrimonio di qualità davvero eccezionale.
Il restauro della navata
Primi, limitati, saggi esplorativi condotti intorno al 2001 avevano attestato la presenza di significative fasi decorative che si pensavano ormai perse: dalla scoperta
dell’immagine di Pio V in corrispondenza della lesena della prima campata sinistra alla traccia di intonaci affrescati negli sfondati delle arcate delle cappelle e
sulle pareti delle cappelle stesse, conservati al di sotto di vari strati di tinteggiatura. Una successiva, più estesa e ragionata, campagna di saggi, corredata anche
da analisi di laboratorio e propedeutica alla redazione del progetto d’intervento,
non ha che confermato, ed ampliato, queste certezze.
Definiti in base agli Accordi di Programma, i finanziamenti disponibili per il restauro della Chiesa - allora pensata come vera sede dell’assemblea plenaria del
World Political Forum promosso da Mikail Gorbaciov, uso che avrebbe determinato non poche opere di allestimento nell’aula cinquecentesca per consentire lo
svolgimento di un’assemblea di carattere mondiale - si è avviato un iter progettuale molto complesso, proprio in relazione agli aspetti impiantistici. La saggia
decisione, maturata all’interno della struttura organizzativa del World Political
Forum, di abbandonare l’idea dell’aula ecclesiastica quale sede dell’assemblea
276
dei delegati, liberandola dalle invasive, seppur reversibili, opere connesse, ha
consentito di rispettare e valorizzare le eccezionali caratteristiche monumentali
della Chiesa, oggi ancor più esaltate dagli esiti del restauro delle superfici.
Il cantiere dei restauri “artistici” è stato avviato all’inizio dello scorso anno ed ha
contemplato anche la sostituzione del finestrone di facciata, già un rifacimento
di inizio Novecento di mediocre qualità. Quella che ora emerge dopo l’intervento di restauro è in effetti un’immagine molto diversa da quella che per decenni ha segnato la Chiesa, caratterizzata non solo, purtroppo, dal degrado e da
cattive manutenzioni, ma anche dalle stratificazioni di arredo che i secoli avevano
sovrapposto una sull’altra, non sempre in modo congruo: la rimessa in luce delle
finiture originali delle superfici limita oggi la ricollocazione di alcuni dipinti e tessuti preziosi che troveranno comunque sede nel Museo Vasariano che si sta allestendo al piano terra del chiostro piccolo.
La maggior novità emersa sono indubbiamente le belle figure di angeli di ambito
emiliano che, collocate sui pennacchi degli arconi della navata centrale, paiono
in qualche modo introdurre alle cappelle alludendo con specifiche insegne alle
diverse intitolazioni. Della ingenua decorazione rosso-nera, opera di pittori locali
finora sconosciuti, che ha rimodellato la Chiesa subito dopo la canonizzazione
di Pio V (1672) è stata conservata a vista unicamente la fascia fra i due cornicioni
a testimonianza di un momento significativo ben più importante sotto il profilo
storico rispetto alla qualità artistica. Il nastro, che correva lungo tutto il perimetro
della Chiesa e che potrà essere totalmente recuperato, era accompagnato in origine da un costoso tessuto rosso con il volto di Pio V ripetuto all’infinito, steso
nelle zone inferiori dell’aula ecclesiastica e ormai solo più testimoniato nella cronaca di Padre Della Valle.
L’iniziale previsione di allestire un impianto di riscaldamento, poi abbandonata
per le notevoli complessità di realizzazione e l’alto costo a fronte di mediocri risultati in confort ambientale, ha consentito la possibilità di estendere all’intera
aula ecclesiastica il rinnovo dell’impianto elettrico con la posa di nuovi corpi illuminanti, sia generali (montati su carrelli estensibili che fuoriescono dal cornicione maggiore solo al momento dell’accensione) sia d’accento (anche questi in
posizione non visibile) mirati sulle pitture oggi svelate e sugli arredi più significativi. È stato completamente rifatto anche l’impianto di allarme anti-furto e di rivelazione-fumi adeguandolo alle nuove tecnologie, migliori sotto l’aspetto
funzionale e meno invasive sotto il profilo estetico.
Dei 1.191.400 euro destinati al restauro della Chiesa in base all’Accordo di Programma, sono stati spesi circa 300.000 euro per il restauro delle superfici, quasi
altrettanti, sono occorsi per le opere impiantistiche. Sono in fase di appalto, invece, le opere di restauro delle prime cinque cappelle per un importo di circa
300.000 euro. È in fase di appalto anche la perizia degli ultimi fondi ancora a disposizione (circa 280.000 euro) che riguarderà il lato destro del transetto e che
richiederà la delicata rimozione della grande pala con il Martirio di San Pietro che, insieme all’altra spettacolare tavola con il Giudizio Universale ora al centro
della parete absidale, componevano i due fronti della macchina vasariana dell’altar maggiore cinquecentesco - e di cui si dovrà valutare una nuova collocazione in quanto copre quasi del tutto i notevoli affreschi a contorno del bel
portale marmoreo, oggi occultati da strati di tinteggiature ma attestati dalla campagna di indagini stratigrafiche condotta nel corso del cantiere appena terminato.
Con questi ultimi lavori, la cifra a nostra disposizione grazie all’Accordo di Programma stipulato, verrebbe esaurita: la speranza è, quindi, nell’individuare nuove
fonti di finanziamento per non lasciare incompiuto il recupero di questa straordinaria testimonianza manierista in una regione che di Manierismo ha ben poco
da vantare.
Stazione appaltante:
Comune di Bosco Marengo RUP Pio Gorbetta
Progettazione Lotto A restauro
navata centrale: Fulvio Cervini
(SBSAEP) e Maria Carla Visconti
(SBAPP) con Beppe Merlano
(collaborazione esterna).
Direzione lavori: Alessandra
Guerrini (SBSAEP) con
Maria Carla Visconti (SBAPP)
con Beppe Merlano
(collaborazione esterna).
Impresa esecutrice: ATI
Kermes/Regoli e Radiciotti
(Roma).
Progettazione e D.L. impianti:
Maria Carla Visconti (SBAPP)
con p.i. Antonio Rovano
(collaborazione esterna).
Impresa esecutrice: IEM (Asti).
Progettazione e D.L. restauro
transetto: dott.a Alessandra
Guerrini (SBSAEP) e arch.
Maria Carla Visconti (SBAPP)
con Beppe Merlano
(collaborazione esterna)
Progettazione e D.L. restauro
prime 5 cappelle: Beppe
Merlano sotto l’Alta
Sorveglianza
delle Soprintendenze
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Lavori di restauro del campanile, del tetto
e della facciata principale della Chiesa dei Battuti Bianchi
di Castagnole delle Lanze (AT)
Cristina Lucca
Notizie storiche
“La chiesa od Oratorio di S. Giovanni Battista colla Compagnia dei Disciplinati
eretta nella medesima, è antica assai. Esisteva già nel 1500 e i confratelli, oltre i
doveri religiosi dell’uffizio, processioni, ecc., si assumevano pure l’assistenza dei
poveri e destinavano a questo scopo parte delle loro rendite. La chiesa esistente
prima dell’attuale era più piccola e disadorna: però nell’anno 1668 fu edificata
la chiesa attuale ed in essa si credono esercitate le funzioni parrocchiali per il
tempo che durò la costruzione dell’attuale Parrocchia. La costruzione della Sacrestia rimonta al 1790; il Campanile al 1831.”
Dal testo di Don Boarino, Memorie storiche di Castagnole Lanze, Tip. Albese di
N. Durando, Alba, 1913.
Nei disegni prodotti da Clemente Rovere, si può vedere che attorno alla metà
dell’Ottocento la chiesa dei “Battuti” viene rappresentata con una torre campanaria dotata di una cupola “a cipolla” sormontata da una croce e l’impianto di facciata risulta diverso da quello attuale, con quattro grandi finestre oggi non più
esistenti. All’inizio del Novecento, l’edificio viene molto probabilmente rimaneggiato e a questa data sembrerebbe risalire l’attuale architettura decorata in
stucco. La cupola presente sul campanile era stata danneggiata durante un temporale e pertanto sostituita con una semplice copertura in coppi. Durante gli anni
’60 del secolo scorso, la comunità ha provveduto ad un parziale restauro dei
prospetti esterni e delle decorazioni, con materiali impropri. Oggi l’edificio è di
proprietà della parrocchia in comodato al Comune.
Intervento di restauro
I lavori sono consistiti sinteticamente in:
- Ripassatura del tetto della chiesa, con la sostituzione della piccola orditura ed
il fissaggio dei coppi con ganci in rame. Sostituzione completa della lattoneria:
gronde, pluviali, faldali, converse.
- Restauro e risanamento conservativo dei quattro fronti esterni del campanile in
mattoni faccia a vista e dei tre lati intonacati (dal cornicione della chiesa in
giù). Restauro della muratura del campanile, con pulitura dai depositi superfi-
ciali e dalle muffe, cuci-scuci dove necessario; scarnificatura e successiva ristilatura dei giunti più ammalorati con malta di calce. Rincuneamento delle lastre in pietra dei cornicioni e loro integrazione.
- Rifacimento della copertura del campanile, con la riproposizione del cupolino
“a cipolla” così come da progetto del 15 aprile 1831, rinvenuto nell’archivio
parrocchiale; l’effettiva costruzione dello stesso cupolino è testimoniata dai
disegni di Clemente Rovere del 1846. È stato realizzato lo scheletro metallico
sagomato, suddiviso in due parti, per evitare un peso eccessivo; sullo scheletro
metallico è stato fissato il tavolato ligneo, che poi è stato rivestito in rame. Le
due parti della “cipolla” e la croce di sommità sono state imbragate e collocate
in opera con l’ausilio di una gru.
- Restauro della facciata principale della chiesa esteso anche al tratto fino al
campanile. Essa presentava un intonaco relativamente recente e non si sono
conservati porzioni più antiche. È stato rimosso l’intonaco ammalorato e si è
utilizzata una malta deumidificante a base di calce nei tre strati di prerinzaffo,
rinzaffo e finitura superficiale. La tinteggiatura è stata effettuata con tinte ai silicati, realizzata con la tecnica della velatura. A completare il lavoro si è eseguita la pulitura delle “fiamme” sommitali laterali e del supporto in pietra della
croce, che a sua volta è stata integrata delle parti in ferro mancanti.
Fondi del Ministero per i Beni
e le Attività culturali
E.F. Anno 2005 Finanziamento
ordinario CAP. 7862
Importo totale: €150.000 .
Importo lavori a base
d’appalto: €125.378,42
Inizio lavori: 11/01/2007 Fine
lavori: 11/10/2007
Impresa esecutrice: Mascarino
Costruzioni S.a.S. - ASTI
R.U.P.: arch. Cristina Lucca –
Soprintendenza per i Beni
architettonici e paesaggistici
del Piemonte
(Incarico della Direzione
Regionale per i Beni culturali e
paesaggistici del Piemonte
prot. 10252 del 22/08/2005)
Progettista: Cristina Lucca
con collaborazione
Geom. Vincenzo Greco
(Progetto approvato
con D.R. 76 dell’11/07/2006)
Direttore dei Lavori:
Cristina Lucca
279
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La Canonica regolare di Santa Maria di Vezzolano (AT),
il Piemonte romanico e gli itinerari Europei
della Transromanica
Paola Salerno
Su iniziativa di questa Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici
del Piemonte, in collaborazione con l’Osservatorio del Paesaggio per l’Alto Astigiano e il Monferrato, e con il sostegno della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, la chiesa di Santa Maria di Vezzolano è stata
ufficialmente inserita nel settembre 2008 nel progetto dei percorsi europei della
Transromanica, Associazione Internazionale riconosciuta dal Consiglio Europeo
come “Major European Cultural Route”. L’obiettivo dell’Associazione è porre l’accento sull’unità culturale e artistica del romanico in Europa, con il fine di preservare il patrimonio romanico europeo e di diffonderne la conoscenza attraverso
un’estesa opera di divulgazione, che attivi anche un turismo culturale.
La Regione Piemonte, su invito della Direzione Regionale, nella consapevolezza
della consistenza dell’esteso patrimonio architettonico romanico della regione,
ha voluto sostenere la candidatura nella Transromanica non solo di Vezzolano, ma
di tutto il Piemonte romanico.
Sviluppo sostenibile
Il progetto della Transromanica si delinea ampiamente nei presupposti di uno
sviluppo sostenibile (Dlgs n. 4 del 16/01/08) “al fine di garantire all’uomo che il
soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere
la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”. Difatti, l’obiettivo
della Transromanica è quello di focalizzare l’attenzione non solo sul patrimonio
storico artistico del romanico, ma anche sul territorio circostante a queste testimonianze del passato, spesso connotato da grande valenza ambientale, correlata
-in questo caso positivamente- da un mancato sviluppo industriale. La conoscenza, e dunque la valorizzazione con particolare accento sul turismo culturale
di queste aree del territorio piemontese, condurrà a due positivi risultati: in primis
il restauro o la manutenzione di queste storiche architetture, a volte in evidente
stato di abbandono o precaria conservazione, in pieno adempimento delle priorità della pubblica amministrazione di correlare gli interessi pubblici e privati
con l’obiettivo primario di garantire gli interessi alla tutela dell’ambiente e del
patrimonio culturale. In seconda battuta, volendo citare per esteso il comma 3
dell’art. 3 del succitato decreto legislativo, “data la complessità delle relazioni e
delle interferenze tra la natura delle attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito
delle risorse ereditate, tra quelle risparmiate e quelle da trasmettere, affinché
nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì
il principio di solidarietà per salvaguardare e migliorare la qualità dell’ambiente
anche in futuro”. Difatti il turismo culturale, cui è diretto il messaggio della Transromanica, potrà garantire un equilibrato sviluppo territoriale basato sulla crea-
zione di percorsi culturali, sostenuti da adeguata produzione di servizi: bed &
breakfast, agriturismo, pacchetti turistici che collimino le istanze di un turismo
lento con quelle di una rinnovata economia del territorio.
In questa ottica, nell’ambito della Settimana della Cultura 2009 indetta tradizionalmente dal Ministero per il Patrimonio Culturale, la Soprintendenza intende istituire la “Prima settimana del romanico”, indirizzando per l’anno in corso l’iniziativa
al territorio astigiano, ove sono presenti numerose testimonianze di romanico facenti parte della così detta “scuola del Monferrato”, delle quali il complesso di
Vezzolano costituisce prezioso monumento di riferimento.
Molte delle piccole chiese delle campagne astigiane sorgono in paesaggi vitivinicoli di rara bellezza, tali da proporli alla candidatura per l’inserimento nei siti
UNESCO, e l’obiettivo del progetto è di ampliare la conoscenza di questo patrimonio anche a livello europeo (il sito della Transromanica lo scorso anno ha
contato circa 5 milioni di link), nella certezza che lo sviluppo culturale porterà alla
salvaguardia del territorio con auspicabili benefici per le generazioni future.
Questa iniziativa culturale prevede una serie di conferenze sul tema del romanico
a Vezzolano e nel Museo di Sant’Anastasio ad Asti, nella cripta di Sant’Anastasio
(Asti), concerti di musiche medioevali, organizzazione di itinerari nelle colline
astigiane, sia a piedi, o in bicicletta, alla scoperta dei monumenti romanici e dei
prodotti enogastronomici del territorio. E inoltre la circolazione della mostra “Non
solo Vezzolano. Proposte d’itinerari nei paesaggi del romanico astigiano”, ideata
nell’intento di valorizzare monumenti romanici meno conosciuti di Vezzolano,
ma altrettanto importanti e collocati in ambienti naturali di grande valenza paesaggistica.
Queste iniziative, inserite all’interno della “Prima settimana del romanico astigiano”, costituiscono un esempio di valorizzazione culturale attraverso il turismo
culturale, strumento oggi fondamentale nella convinzione che i monumenti “iacent nisi patent”. Il programma, attraverso il sito web della Transromanica, sarà
pubblicizzato in tutta Europa, con ricaduta positiva sull’economia del territorio.
281
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Il Convento di San Giovanni a Saluzzo (CN)
Elena Frugoni
Cenni storici
Il convento di San Giovanni ha origini molto antiche. La chiesa è stata fondata
alla fine del Duecento e conserva all’interno preziosi cicli ad affresco quattrocenteschi attribuiti a Pietro da Saluzzo e la cappella funeraria dei marchesi di Saluzzo, gioiello di arte tardo gotica borgognona. Dalla navata sinistra si accede al
chiostro a pianta quadrata edificato a partire dal 1466 per volontà del marchese
Ludovico I. È delimitato da un porticato ad archi acuti sostenuti da colonnine
con capitelli decorati con gli stemmi delle famiglie che avevano contribuito alla
sua costruzione. Dal chiostro si entra quindi nel refettorio sulla cui parete di fondo
campeggia una Crocifissione dipinta nel XVI secolo e nella sala capitolare che
ospita la cappella funebre dei Cavassa. Al piano superiore si trovano le celle dei
frati domenicani parzialmente trasformate nel corso dell’Ottocento e del Novecento quando il convento è passato ai Servi di Maria, attuali proprietari.
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali
Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendente:
Francesco Pernice
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220411- Fax 011 4361484
[email protected]
Progetto:
Ufficio tecnico del Comune di
Saluzzo, arch. Flavio Tallone, dott.
Alessandro Scanavino, dott.
Giuseppe Sorosio, geom. Joram
Oderda, p.i. Marcello Nova
Direzione scientifica:
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici del
Piemonte, arch. Elena Frugoni.
Soprintendenza per i Beni Storici,
Artistici e Etnoantropologici del
Piemonte, dott. Bruno Ciliento
Soprintendenza per i Beni
Archeologici del Piemonte e del
Museo delle Antichità Egizie,
dott.ssa Egle Micheletto
Direzione Lavori:
arch. Flavio Tallone
Imprese esecutrici:
Opere di restauro e adeguamento:
Battistino e Bramardi di Simondi
Geom.Riccardo in raggruppamento
con Fantino Costruzioni s.p.a.
Opere di restauro delle superfici
decorate: ditta Diemmeci
282
Interventi
Nei primi anni del Duemila, i Servi di Maria lasciarono in comodato d’uso al Comune di Saluzzo il convento, esclusa la chiesa, consentendo l’avvio di un ampio
programma di recupero.
Il primo lotto di lavori, iniziato nel 2005 e concluso nel 2007, è stato finalizzato
al restauro e all’adeguamento impiantistico delle sale auliche al piano terreno
che ospitano attività culturali e delle celle dei frati al livello soprastante destinate
ad uso turistico e ricettivo. Nei due successivi interventi portati a termine nel febbraio del 2009, si è proceduto con il restauro degli intonaci, delle superfici decorate e degli elementi lapidei del chiostro e della cappella Cavassa.
La metodologia e le scelte operative, concordate con gli enti di tutela che seguirono costantemente l’opera in tutte le sue fasi da quella progettuale a quella di
cantiere, furono indirizzate alla conservazione e alla valorizzazione del complesso nei suoi aspetti storici, materici e cromatici più significativi. In alcuni ambienti oggetto di risanamento è stata eseguita un’accurata indagine archeologica
mentre tutte le superfici intonacate sono state sondate con saggi stratigrafici ed
analisi chimico-fisiche. Tutto ciò consentì di riscoprire interessanti apparati decorativi fino ad allora del tutto sconosciuti come gli affreschi con motivi floreali
sulle facciate prospicienti il chiostro e le fasce con mattoni e girali dipinti nei sottarchi del porticato. Sono state infine recuperate le cromie originali e molti particolari del ciclo decorativo e dei marmi intarsiati nella cappella Cavassa.
In conclusione, questi lavori hanno permesso di adeguare la struttura alle nuove
destinazioni d’uso coniugando esigenze funzionali e aspetti normativi con la
conservazione degli elementi artistici caratterizzanti il complesso.
Piano strategico di valorizzazione dei Beni Culturali
per i comuni di Bianzè, Crescentino, Fontanetto Po,
Lamporo, Livorno Ferraris, Palazzolo Vercellese, Ronsecco,
Trino Vercellese (VC)
Gianni Bergadano
Il Coordinatore nella redazione del Piano Strategico di Valorizzazione dei Beni
Culturali della Bassa Vercellese ha rappresentato un’occasione di confronto, di
dibattito, di collaborazione tra enti, in un tema, quello della “ricerca applicata”
nell’analisi dei BB.CC, non sempre comunemente frequentato da una Soprintendenza. Il tema si inserisce all’interno della consolidata corrente analitica che,
nello scorso ventennio, ha investito importanti aree europee soggette a processi
di forte trasformazione sociale, economica ed urbanistica (Liverpool, Birningham,
Barcellona, Lione, Torino, Urbino ecc.) con Piani di Strategia che vedevano i
BB.CC. al centro di una rinnovata consapevolezza circa la loro importanza nel
partecipare attivamente a tali mutazioni. Il Piano della Bassa Vercellese ipotizza,
dunque, un forte azione verso il Patrimonio Culturale intesa sia come forma di
tutela e di conservazione, sia come produzione di nuova cultura e di gestione e
valorizzazione dei depositi culturali esistenti.
I BB.CC. sono intesi ed indagati nella loro più ampia estensione, con particolare
riferimento al ruolo dei centri storici e del paesaggio ed ai confini della tutela, la
dimensione del patrimonio immateriale. Si è cercato, per quanto possibile, di
rendere il P.S. strumento conoscitivo e “progettuale”, globale.
Lo spazio correttamente (ri)-qualificato e tutelato dei centri storici è da tempo
universalmente considerato elemento fondamentale sia per l’instaurarsi di una
soddisfacente qualità della vita (benessere individuale e sociale), che per consentire l’avvio di processi di sviluppo culturale ed economico vincolati anche al
territorio circostante. In questa direzione il non sempre felice realizzarsi di processi di trasformazione dell’ambiente urbano, investito da processi legati ai forti
cambiamenti economici e sociali, in particolare del secolo scorso, non solo ha
spesso indebolito l’identità culturale delle comunità, ma ha talvolta sottratto ai
centri storici il primario ruolo sociale di poli attrattori di riferimento per le periferie
e le campagne circostanti, ruolo storicamente loro delegato. Il Piano, propone,
dunque, un processo di re-equilibrazione tra i bisogni sociali, l’attività economica
e la tutela del paesaggio urbano, segnalando il possibile attivarsi di percorsi di
trasformazione dei centri storici vercellesi, secondo un modello di sviluppo sostenibile, con attenzione ad analoghe esperienze europee occorse negli ultimi
trent’anni. Le indicazioni così emerse consentono alle comunità il loro utilizzo all’interno di successivi strumenti di studio e di pianificazione (Programmi Integrati
di Sviluppo Locale, Piani di Arredo Urbano, Piani Regolatori e Regolamenti Edilizi,
Piani del Colore, Piani Viabilistici, ecc.).
Il paesaggio vercellese caratteristico, quello della risaia, è analizzato e riconosciuto non come realtà oggettiva ed indipendente, ma come fenomeno culturale
al quale l’analista, nel cogliere l’interrelazione tra fenomeno naturale ed antropico,
attribuisce un valore. Il risultato delle forti sue trasformazioni avvenute nel corso
del Novecento, spesso sull’onda di un processo di destoricizzazione e di riduzione di ampie porzioni agricole a maglia di funzioni, secondo un processo tipico dell’utopia modernista, è individuato. Ad esso si suggerisce un percorso
differente, consapevoli che il perseguimento della ricomposizione dei valori tradizionali del paesaggio, culturali e formali, permette l’attivarsi d’un percorso d’individuazione dell’identità “dimenticata”. La conoscenza e l’apprezzamento del
paesaggio implicano dunque uno stretto rapporto, senza il quale è vano cogliere
la vulnerabilità del paesaggio stesso e valutare l’impatto degli interventi proposti,
Soprintendenza per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL PIEMONTE
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici del Piemonte
Direttore Regionale:
Liliana Pittarello
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emanuela Zanda
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220440-457
Fax 011 5220433
[email protected]
www.piemonte.beniculturali
Soprintendenza
per i Beni Architettonici
e Paesaggistici del Piemonte
Soprintendente:
Francesco Pernice
Piazza San Giovanni, 2
10122 Torino
Tel. 011 5220411
Fax 011 4361484
[email protected]
283
anche quando potenzialmente positivi. Ma non solo: nel concepire tale percorso
si ipotizza una possibile strategia paesistica nella pianificazione territoriale, argomento quanto mai d’attualità, dove il paesaggio (urbano e “naturale”) è sempre
maggiormente avvertito quale tema politico di interesse generale.
Il progressivo aprirsi del dibattito sui BB.CC., in Italia ed all’estero, al tema dell’”immateriale” implica forme di relazione e di studio fortemente orientate verso i beni
culturali ed in particolare verso i beni cosiddetti “intangibili”, oggetto caratteristico nell’agire in “messa in strategia” propria di un PS., uno dei primari tentativi
d’azione del nostro lavoro. Tale orientamento di studio, anche come tentativo di
contribuire a colmare una lacuna (in passato anche normativa ed a livello internazionale), sposta il dibattito della tutela e della valorizzazione a vantaggio delle
pratiche, delle rappresentazioni, delle espressioni, delle conoscenze e dei saperi
(conseguentemente di strumenti, oggetti, artefatti e spazi loro associati) che le
comunità riconoscono come facenti parte del loro specifico percorso culturale,
ottenuto dalla costante interazione, di generazione in generazione, tra natura e
storia. Un processo che, fuori dalla dimensione folclorica, tenda a conferire pari
dignità a queste forme culturali rispetto a quelle di carattere monumentale.
Mi auguro, pertanto, che il PS consenta alle realtà locali una lettura del territorio sempre più attenta e consapevole ed evidenzi come i BB.CC., col rappresentare intimamente l’identità storicamente consolidata di una comunità, la sua storia, i suoi valori,
possano ancor maggiormente formare elemento di crescita sociale, civile ed economica, quando correttamente valorizzati, secondo loro natura. La natura di un’identità creata, mantenuta e trasmessa a vantaggio anche delle generazioni future.
In ultimo, mi sia consentito ancora un ringraziamento particolare al Soprintendente Francesco Pernice come pure ai colleghi Piero Aebischer, Emanuela Zanda,
Andrea De Pasquale, Filippo Maria Gambari e Massimiliano Caldera per i loro preziosi consigli, come pure agli architetti estensori del Piano, Ivano Verra e Massimo
Casolari, per la loro professionale ed infaticabile collaborazione “sul campo”.
284
La tomba dell’Atleta di Taranto al World Art Museum
di Pechino. L’Atleta di Taranto
Augusto Ressa
Il 20 dicembre 2007, dopo circa sette anni di attesa, è stata riaperta al pubblico
una prima sezione del rinnovato Museo Archeologico Nazionale di Taranto.
È ben noto che il MARTA costituisce uno dei più importanti musei archeologici
del mondo specie per la ricchezza di documenti custoditi, riferiti alla cultura
della Magna Grecia.
Insieme ai famosi ori di età ellenistica, da sempre la maggiore attrazione, fra i reperti esposti, è rappresentata dalla cosiddetta Tomba dell’Atleta, rinvenuta a Taranto nella prima metà del ‘900.
L’insieme monumentale, databile alla fine del VI secolo a.C., inizi V sec. a.C., è
costituito dal sarcofago in pietra dipinta, chiuso da un coperchio a doppio spiovente composto da due sezioni apribili, entro cui si conserva, integro, lo scheletro dell’atleta, da un unguentario (alabastron) e da tre anfore panatenaiche, più
un frammento di una quarta, dipinte da un lato con scene che illustrano le specialità del pentathlon, nelle quali l’atleta risultò vincitore, dall’altro con l’effigie di
Atena.
Lo scheletro è stato oggetto di approfonditi studi condotti con sofisticati metodi
d’indagine scientifica dalle Università italiane ed inglesi, che hanno consentito
di risalire alle possibili fattezze dell’atleta, alle sue qualità atletiche nei singoli
agoni sportivi, ed al suo regime alimentare.
Questi studi sono stati fra l’altro riportati in un interessante filmato-documentario
realizzato dalla BBC, trasmesso dalle maggiori reti televisive di tutto il mondo.
Le ricerche finora condotte portano alla conclusione che ci troviamo di fronte ad
una figura leggendaria, probabilmente fra i più celebrati e famosi vincitori dei
giochi olimpici dell’antichità.
La coincidenza della riapertura del Museo Nazionale Archeologico di Taranto
nell’anno delle Olimpiadi di Pechino, ha costituito così occasione per diffondere
la conoscenza dell’Atleta e, per estensione, del MARTA, oltre che del patrimonio
culturale italiano, ristabilendo un suggestivo legame con il passato ed il presente
dei giochi olimpici.
Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Puglia
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici per le Province di Lecce, Brindisi
e Taranto
Museo Archeologico Nazionale di Taranto
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA PUGLIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Puglia
Direttore Regionale:
Ruggero Martines
Coordinatore
per la Comunicazione:
Emilia Simone
Via Dottula, Isolato 49
Tel. 080 5285111
Fax 0805281114
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Puglia
Soprintendente:
Giuseppe Andreassi
Via Duomo, 33
74100 Taranto
Tel. 099 4713511
Fax 099 4600126
[email protected]
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici
per le Province di Lecce,
Brindisi e Taranto
Sorprintendente:
Attilio Maurano
Via Niccolò Foscarini, 2/b
73100 Lecce
Tel. 0832 305081
Fax 080 241046
[email protected]
Museo Archeologico
Nazionale di Taranto
Direttore:
Antonietta dell’Aglio
Via Cavour, 10
73100 Taranto
285
L’idea – Il Progetto
Il progetto di esporre a Pechino l’Atleta di Taranto ha costituito una straordinaria opportunità per pubblicizzare all’interno di una vetrina internazionale il MARTA (Museo
Nazionale Archeologico di Taranto), da poco riaperto al pubblico e per offrire un’immagine di alto profilo culturale della Puglia in una occasione di portata planetaria.
L’iniziativa ha ottenuto il pieno sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e l’adesione della Regione Puglia (Assessorati al Turismo e alla Cultura) e
della Comunità Europea. Sicchè, nel giro di poco più di tre mesi dallo scambio
di idee fra la Soprintendenza B.A.P. di Lecce, Brindisi e Taranto e la Direzione Regionale per i Beni e le Attività Culturali della Puglia e dopo soli due incontri romani, di cui uno con la delegazione cinese intervenuta apposta per firmare
l’accordo, il 10 luglio 2008 l’Atleta raggiungeva finalmente Pechino.
In quei tre mesi era stata realizzare in tempo record da Ditta pugliese specializzata (DIGITARCA snc, di Mola di Bari), una copia del sarcofago e dello scheletro,
ricorrendo alla tecnica di rilevamento con laser scanner 3D., già impiegata con
successo nel nuovo allestimento del MARTA, per la replica di una delle quattro
cariatidi dell’ipogeo di Vaste conservata in originale presso il Museo Castromediano di Lecce, e per la riproduzione, da una copia di età romana, della testa colossale dell’Heracle di Lisippo divenuta simbolo del museo. Non si è voluto cioè
rischiare di danneggiare nel trasporto, gli originali, vista la fragilità e l’unicità dei
reperti. Non dimentichiamo che quello di Taranto è ad oggi l’unico scheletro al
mondo di atleta dell’antichità pervenuto integro.
Del complesso monumentale abbiamo però portato in Cina le tre anfore panatenaiche originali, che costituivano il trofeo destinato al campione.
Anche dell’unguentario rinvenuto all’interno del sarcofago, è stata portata a Pechino una copia realizzata dal laboratorio di restauro del MARTA.
La sede dedicata all’iniziativa, concessa dalla Cina è una intera sala del modernissimo World Art Museum di Pechino, dove è allestita una mostra temporanea
di arte antica, con reperti provenienti dall’area del Mediterraneo e dal Sud America, dove il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha organizzato un percorso
espositivo tematico dal titolo “Giochi ed Atleti” dedicato allo sport ed alle discipline olimpiche nel mondo antico.
Il museo è in una posizione strategica, poco distante (come puo’ esserlo, beninteso, in una città immensa con oltre diciassette milioni di abitanti) dalla piazza
Tienanmen e collocata al margine di un grande parco curatissimo e frequentatissimo, il cui cielo è animato mattina e sera da aquiloni. Sulle superfici pavimentali
dei viali in granito bocciardato, i calligrafi compongono con grandi pennelli intinti
nell’acqua degli stagni, evanescenti ideogrammi.
Il progetto di allestimento prevedeva la collocazione del sarcofago al centro
della sala, con il coperchio aperto per consentire la visione dello scheletro, e la
disposizione delle anfore in quattro vetrine angolari, suggerendo la posizione
del rinvenimento. La quarta anfora è a noi pervenuta sottoforma di un piccolo
frammento scarsamente leggibile, per cui si è deciso, con la direttrice del
MARTA, dott.ssa Antonietta Dell’Aglio, di proporre al suo posto, la riproduzione
di una delle anfore integre, in terracotta con rifinitura neutra.
Per consentire la visione dello scheletro ai bambini ed ai diversamente abili, si
è ideata una sorta di vela triangolare, al di sopra del sarcofago, dotata di superfici
riflettenti inclinate. Su tre lati della sala, lungo le pareti tinteggiate di nero, mega
stampe digitali che ripropongono le scene dipinte sulle anfore, i rilievi di scavo,
ed immagini di Taranto e del MARTA, con il famoso orecchino a navicella ed il
nucifrangibulum messi in evidenza.
Il quarto lato accoglie uno schermo sul quale va ininterrottamente in onda il filmato della BBC, posto fra le foto d’epoca del rinvenimento.
286
Nei fatti il progetto è stato solo in parte rispettato e si è dovuto sul momento attuare una soluzione con solo due vetrine, più grandi, che contengono due anfore
ciascuna, rinunciando inoltre alle superfici riflettenti, ottenendo tuttavia un risultato complessivo di grande suggestione.
Poco male, vorrà dire che la soluzione ideata per Pechino sarà proposta nella
sua interezza nell’allestimento del secondo piano del MARTA che avvieremo nel
prossimo anno.
Il nostro Atleta, restato a Pechino fino a gennaio 2009 su richiesta delle autorità
cinesi che evidentemente hanno apprezzato l’iniziativa, ha attratto giornalmente
migliaia di visitatori.
Il rilievo Laser Scanner 3D dell’impianto osseo e del sarcofago
Premessa
La tecnologia Laser Scanner 3D permette di rilevare a distanza la morfologia di qualsiasi oggetto, attraverso un pennello di luce che scivola sulle superfici da rilevare.
Attraverso un maggiore o minore raffittimento della maglia di scansione è possibile effettuare sia rilievi generali che di dettaglio in corrispondenza di elementi
architettonici particolarmente complessi o significativi. L’insieme di tutti i punti rilevati costituisce una “nuvola di punti”, ovvero la “immagine solida” fedele dell’oggetto.
Gli Scanner 3D di tipo terrestre si dividono in tre grandi famiglie:
Corto raggio (portata nell’ordine di max di 1 metro);
Medio raggio (portata nell’ordine di max di 80 metri);
Lungo raggio (portata nell’ordine di max di 1 km);
Il sistema colleziona misure di geometrie 3D alla velocità di 20.000 sino a 500.000
punti al secondo. Ogni raggio restituisce, oltre alle 3 coordinate del punto di
maglia rilevato, sia il valore di riflettanza (quantità di raggio laser che torna all’origine, che varia a seconda la natura del materiale, della sua lavorazione superficiale
e dello stato di degrado) e sia il colore reale tramite applicazione di fotografia.
Lo scanner è motorizzato ed è in grado di spazzare un angolo giro.
Rilievo impianto osseo
Lo strumento impiegato per il rilievo delle ossa dell’Atleta è un tipo di Scanner
3D di corto raggio. Precisamente lo scanner 3d impiegato è dotato di due piccole videocamere che tramite triangolazione ottica consentono di acquisire il
modello tridimensionale dell’oggetto sino a 20.000 punti al secondo, con una
precisione del decimo di millimetro. Mentre il fascio laser scivola sulla superficie,
in tempo reale, viene visualizzato il modello 3D su computer. Sono state rilevate
tutte le ossa una per una, al fine di ottenere l’impianto osseo completo.
Rilievo Sarcofago
Lo strumento utilizzato appartiene agli scanner di medio raggio (portata max 80
metri) e permette di rilevare a distanza la morfologia di una struttura architettonica, attraverso un pennello di luce che scivola sulle superfici da rilevare.
Lo strumento ha una precisione di 1.5 mm ad una distanza di 80 m. Il sistema colleziona misure di geometrie 3D alla velocità di 500.000 punti al secondo. Ogni
raggio restituisce, oltre alle 3 coordinate del punto di maglia rilevato, sia il valore
di riflettanza (quantità di raggio laser che torna all’origine il quale varia a seconda
della natura del materiale, della sua lavorazione superficiale e dello stato di degrado) e sia il colore reale tramite applicazione di fotografia. Lo scanner è motorizzato ed è in grado di spazzare un angolo giro.
287
Ricostruzione del modello virtuale
L’attività ha avuto come fine la creazione di un modello virtuale degli elementi rilevati. Il lavoro è consistito nel ricondurre tutte le scansioni ad un unico sistema
di riferimento locale, tramite diverse tecniche dette di registrazione delle nuvole
di punti. In seguito si è proceduto alla creazione dei modelli tridimensionali
solidi delle ossa e del sarcofago (come mostra l’immagine in basso) ed alla loro
messa a punto per la ricostruzione fisica tramite macchina a controllo numerico.
Il modello 3D è stato arricchito da texture (pelle reale); tale tecnica ha consentito
di creare un mondo virtuale del tutto identico alla realtà (sia per forma geometrica
che per colori delle superfici).
Riproduzione fisica mediante prototipazione – Reverse Engineering
Sarcofago
Tale tecnica è detta Reverse Engineering e permette di riprodurre, in diversi materiali (legno, pietra, metallo, plexiglass, resine, ecc..), i modelli tridimensionali
acquisiti tramite tecnologia Laser Scanner 3D.
Le riproduzioni possono essere fresate in diverse scale, sino ad arrivare all’ uno
a uno, come nel caso dell’Atleta di Taranto. In tale caso è stata utilizzata una
resina ad alta densità (220 kg/mc) e sono occorse circa 200 ore di lavorazione
macchina.
Impianto osseo
La Prototipazione Rapida (RP) è una tecnologia innovativa che rende possibile la
produzione, in poche ore e senza l’uso di utensili, di oggetti di geometria comunque complessa, direttamente dal modello matematico dell’oggetto. Dopo
il primo sistema prodotto nel 1988 sono stati sviluppati circa una ventina di altri
sistemi caratterizzati da piccole varianti che hanno interessato dapprima le industrie automobilistiche ed aereospaziali, per poi andare a diffondersi in moltissimi
altri settori quali prodotti di largo consumo, giocattoli, computer, gioielli, medicina ecc. Visto la complessa geometria delle ossa dell’Atleta, per la loro riproduzione è stata utilizzata una stampante 3D che ha riprodotto gli elementi
scansionati.
La stampante 3D utilizza una robusta materia plastica in ABS, per consentire agli
utenti di testare funzionalità, forma e idoneità delle stampe 3D. Il modello di
stampante 3D impiegato integra un sistema automatico di rimozione del supporto solubile che facilita enormemente il processo di progettazione, riducendo
i tempi tecnici per lo sviluppo di prototipi con forme geometriche più complesse. La stazione SST è un sistema di mescolamento che impiega un bagno di
acqua calda e sapone per eliminare automaticamente le strutture di supporto.
Ideazione: Direzione Regionale
Beni Culturali e Paesaggistici
della Puglia – Ruggero Martines
Progetto dell’allestimento:
Augusto Ressa
Soprintendenza BAP delle
Province di Lecce Brindisi
Taranto.
Progetto scientifico:
Antonietta Dell’Aglio, Direttrice
del Museo Nazionale
Archeologico di Taranto.
Promotori: Ministero per i Beni
e le Attività Culturali, Comunità
Europea, Regione Puglia
288
Bari - Teatro Piccinni - Il comodino e il suo restauro
Rosanna Gnisci - Antonella Di Marzo
Il termine “comodino” può risultare misterioso a molti; si tratta, in generale, di un
tipo di oggetto, la cui nascita risale al XIX secolo, in tela dipinta decorata, che si
configura come un sipario supplementare e parallelo rispetto a quello principale.
Veniva utilizzato, e, talvolta, viene ancora utilizzato in taluni teatri, allo scopo di
celare al pubblico i cambiamenti di scena tra un atto e l’altro, o nel corso della
rappresentazione ed è collocato in modo sensibilmente arretrato rispetto al sipario principale.
Il comodino e il sipario principale hanno funzioni complementari, ma del tutto
autonome.
Il sipario- dal latino siparium, dal verbo separare, con evidente allusione alla sua
funzione- ha proprio il compito di separare la sala teatrale dal palcoscenico e ricopre così due ruoli: uno pratico -sottrarre la scena alla curiosità del pubblico
durante l’afflusso degli spettatori- ed uno psicologico e illusorio: concentrare
l’attenzione sulla scena nel momento dell’inizio della rappresentazione.
A fine Ottocento e inizi Novecento la funzione del sipario, che trae le sue origini
ideali nella festa rinascimentale, si precisa: al sipario principale si affida il precipuo compito di mediazione tra pubblico e rappresentazione e al sipario secondario, comodino – sipario di comodo -, si assegna la funzione di regolare i
tempi dello spettacolo. E’ così che, accanto ai sipari principali, attualmente detti
storici - teloni istoriati da artisti di chiara fama e di buon livello-, utilizzati all’inizio
e alla fine della rappresentazione, assumono un ruolo importante i comodini,
spesso decorati, talvolta invece costituiti da semplici velari di velluto, che sostituiscono il sipario principale tra un atto e l’altro e fra le varie scene del medesimo atto, e così, nello scandire i ritmi dello spettacolo assolvono anche alla
funzione di evitare al sipario principale di logorarsi eccessivamente a causa delle
continue “calate”.
La nascita del comodino, nella forma che noi oggi conosciamo, era stata, per
così dire, preannunciata da esempi di ‘sipari di servizio’ diversi nei teatri europei
già dalla seconda metà del Settecento e da qualche caso sporadico, con carattere di eccezionalità, nei secoli precedenti; si era, tuttavia, trattato perlopiù non
di una grande tela, ma di una sorta di prospettiva dipinta davanti alla quale recitavano alcuni attori, mentre nella zona centrale del palcoscenico si provvedeva
a cambiare la scena.
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Puglia
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA PUGLIA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
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Ruggero Martines
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per la Comunicazione:
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per i Beni Storici Artistici
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della Puglia
Soprintendente:
Fabrizio Vona
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Fax 080 5285214
289
Nelle decorazioni dei comodini prevalgono scene che fanno riferimento genericamente al Parnaso o a fatti storici cittadini; al centro, o più raramente a destra
e a sinistra, del comodino è presente un’apertura praticabile, munita di una tendina in velluto, detta siparietto, dalla quale si affacciano gli attori per ringraziare
e salutare il pubblico.
Il restauro del comodino del Teatro Piccinni è stato eseguito, tra il maggio 2007
e il marzo 2008, dalla Ditta GER-SO s.r.l.; della direzione scientifica dell’intervento
si sono occupate coloro che scrivono; l’intervento è stato finanziato dal Comune
di Bari.
L’intervento di restauro più semplice sarebbe stato quello di intervenire sul manufatto, disinteressandosi del ripristino della sua funzione all’interno del teatro.
In questo modo, come spesso accade, si sarebbe dato luogo ad un restauro
musealizzante che, nel prescindere da ogni riflessione su quello che era stato
l’antico senso scenico dell’oggetto, lo avrebbe relegato al ruolo di semplice fondale dipinto: un dipinto, dalle dimensioni enormi, ma pur sempre un dipinto.
Il principio ispiratore del restauro è stato invece quello di ripristinare la funzionalità dell’oggetto, certo una funzionalità desueta: il pubblico è avvezzo ad assistere a cambi di scena a sipario aperto ed è avvezzo a vedere gli attori
ringraziare il pubblico facendo capolino sul proscenio da una fessura aperta tra
i due lembi al centro del sipario. Ma il restauro si pone in questo caso come una
sorta di restauro filologico, nel senso della filologia dell’apparato scenico, nelle
sue trasformazioni dettate dall’evolvere del teatro d’opera.
Il comodino del Teatro Piccinni venne realizzato negli anni 1913-’14 da Antonio
Lanave in occasione dei lavori di ristrutturazione del Teatro.
Antonio Lanave, pittore nato a Bari nel 1878 e qui morto nel 1953, è stato allievo
di Raffaele Armenise e con lui collaborò alla decorazione del Teatro Petruzzelli.
Pittore-decoratore rinveniente dalla solida tradizione ottocentesca, Lanave
esplica la sua maestria soprattutto negli interventi di finitura e decorazione di
spazi architettonici realizzati in quegli anni; in questo tipo di imprese egli mette
in luce la sua competenza di altissimo artigianato, dimostrando una conoscenza
non comune dei numerosi aspetti tecnici che accompagnano imprese decorative
caratterizzate sempre da vastità di proporzioni e complessità di interventi.
Il comodino del Teatro Piccinni raffigura un giardino di ambientazione classica.
La decorazione del comodino è parte di una tipologia che trova vasta diffusione
nella seconda metà dell’Ottocento, la cui caratterizzazione travalica i confini locali,
e, sulla scorta di esempi che circolavano tra gli artisti e dello scambio di modelli, permette, fino ai primi anni del Novecento, la permanenza in sostanziale continuità di
una tradizione consolidata: la scena progettata da Lanave, nel suo generico rimando
al Parnaso, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti nel melodramma – siamo in
pieno verismo -, stabilisce un rapporto armonico con il carattere ancora sostanzialmente settecentesco che avevano le grandi sale da musica. L’esecuzione dell’opera
è tuttavia condotta con il peculiare carattere della pittura del Lanave che si qualifica
nel disegno puntuale, nella pennellata larga e fluente, nell’uso di colori freschi e vivaci che hanno la capacità di rischiarare il teatro a sipario chiuso.
Il restauro ha permesso il recupero totale di questa opera: è stata ripristinata non
soltanto la sua facies estetica, ma anche la sua funzione e, come abbiamo detto,
il comodino è pronto per svolgere di nuovo il suo precipuo compito in teatro.
Il comodino del Teatro Piccinni di Bari è un’opera che rientra nella tipologia dei
dipinti su tela ma si differenzia per la vastità della superficie- 120 metriquadratie per la finalità funzionale.
Per questo motivo si è reso necessario approntare una metodologia di intervento
che prevedesse l’impiego di materiali appositamente formulati per il tipo di restauro specifico.
290
Il supporto del dipinto, eseguito a tempera, è costituito da molteplici strisce di
tela poste verticalmente, cucite nella lunghezza e sostenuto da due staggioni
posti ai margini estremi, l’uno con funzione di irrigidimento del margine superiore
e di aggancio dei tiri per il sollevamento “ in prima “, l’altro ad appesantire il margine inferiore per conferire tensione e stabilità alla tela.
Purtroppo, quest’ultimo, ha subito nel tempo una forte deformazione creando
dilatazioni anomale alla tela ed in particolar modo in corrispondenza dell’apertura centrale.
La tela del nostro manufatto ha perso, con il passare del tempo, le proprie caratteristiche meccaniche e conseguentemente si sono creati allentamenti e deformazioni che, come nel nostro caso, hanno provocato la perdita di pellicola
pittorica; ulteriori perdite di colore sono da imputare a fenomeni di decoesione
piuttosto avanzati dovuti alla natura organica dei leganti impiegati per la composizione dei colori.
Il supporto era ulteriormente indebolito dalla presenza di lacerazioni, fortunamente di limitata estensione, fatto salvo quella creata dall’apertura centrale che
costituiva in origine la porta sulla quale era applicato un tendaggio oggi andato
perduto.
Un’altra causa di pronunciato degrado era da attribuire alle infiltrazioni di acqua
che hanno provocato la formazione di numerose gore con la conseguente alterazione cromatica della superficie.
Per il resto si notava un diffuso deposito di polvere e fumi che alterava per la
quasi totalità la cromia dell’opera.
Lo scopo del restauro è stato, pertanto, quello di ridare consistenza al film pittorico ed alla sua preparazione, creando un nuovo sostegno alla tela di supporto
mediante l’applicazione di una nuova tela di cotone applicata con resine acriliche termoplastiche secondo il metodo del sottovuoto.
Questa operazione ha consentito di mantenere inalterata l’elasticità della tela dipinta affinché questa potesse continuare senza danni la sua originale movimentazione.
Vista la grande dimensione della tela da foderare e vista la necessità di alterare
il meno possibile il peso del manufatto, si è deciso di utilizzare, come peraltro
già ampiamente sperimentato in occasione del restauro di altri sipari storici, numerosi teli di cotone “Venezia” uniti tra di loro.
Preliminarmente, è stata eseguita la pulitura meccanica della pellicola pittorica da
fumi e sporco grasso, seguita dal fissaggio del colore e consolidamento del suo
supporto mediante applicazione di idonei materiali.
L’ultima fase dei lavori ha visto l’esecuzione del restauro pittorico delle lacune
mediante il sistema della reintegrazione in tono e sottotono, scelto come soluzione idonea per il recupero della integrale leggibilità dell’opera.
Il fissaggio finale della superficie mediante l’impiego di resine acriliche in soluzione, applicate a spruzzo, ha di fatto completato le fasi di intervento.
L’ultima operazione, non certo meno importante, è stata la sostituzione degli
staggioni con nuovi in alluminio anodizzato certamente più leggeri e meno interessati da fenomeni di dilatazione.
È stata, infine, ricostituita, sempre in alluminio, la cornice della porta centrale in
corrispondenza della quale è stato inserito un idoneo tendaggio di colore neutro.
Ditta esecutrice del restauro:
GER-SO s.r.l. - Presidente:
Luigi Soligo
Alta Sorveglianza:
Rosanna Gnisci
Antonella Di Marzo
291
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Sardegna
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA SARDEGNA
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Beni Culturali e Paesaggistici
della Sardegna
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Coordinanatore:
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09126 Cagliari
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Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Sardegna
Soprintendente:
Fulvia Lo Schiavo
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Tel. 070 605181
Fax 070 658871
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Il restauro e l’esposizione dei relitti del porto di Olbia
Rubens D’Oriano
Lo scavo del porto di Olbia
Nel corso di tre campagne di scavo, tra l’agosto 1999 e il dicembre 2001, fu condotta l’indagine archeologica dell’intero tracciato (m 380x20x4 di profondità media
fino alla roccia) del tunnel che collega il porto di Olbia alle strade extraurbane.
Oltre a una strabocchevole massa di materiale, sono state rinvenute 24 porzioni,
da molto grandi (m 15x5) a molto piccole (m 2x1) di navi di quattro fasi cronologiche:
- 2 onerarie di età neroniano-vespasianea, affondate a causa di un’alluvione che
ha anche causato la rovina di un cantiere navale
- 11 onerarie affondate all’ormeggio in porto durante l’attacco dei Vandali a
Olbia alla metà del V sec. d.C., che determinò la crisi della città romana e che
si iscrive nella più complessiva strategia militare che inflisse il colpo mortale all’Impero Romano d’Occidente
- 3 di fine IX-inizi XI sec., adibite ai traffici locali nel golfo di Olbia e usate, ormai
in abbandono, nell’ XI-XII sec. come base di una colmata di bonifica che riattivò il porto, inagibile per l’innalzamento del fondale dovuto alla presenza dei
relitti di V sec. e al fango che essi trattenevano. L’opera era funzionale alla ripresa dei traffici transmarini di cospicuo impegno in seguito all’alleanza tra il
Giudicato di Gallura, con capitale proprio a Olbia (allora Terranova), e la repubblica di Pisa.
- 3 di XI, XIV e XV sec. probabilmente affondate per accidenti vari presso l’approdo.
Le altre 5 sono porzioni minori dei suddetti relitti.
Lo scavo è di primario livello non solo per gigantismo di dimensioni e per risultati,
ma anche sul piano delle acquisizioni storiche, fornendo una “fotografia” di due
eventi di svolta dell’evoluzione culturale mediterranea: la fine dell’Impero di Roma
e la rivoluzione dei traffici marittimi all’avvento delle “Repubbliche marinare”.
Di primario livello sono altresì le acquisizioni riguardanti la tecnologia navale:
- l’inedito rinvenimento di un cantiere navale che, oltre a utensili vari, restituisce
per la prima volta elementi di gru
- due alberi di nave, lunghi m 7,80 e m 7,90, per la prima volta conservati in tali
dimensioni (finora si conoscevano due porzioni di lunghezza inferiore al
metro)
- quattro aste di timoni lunghe poco più di m 8 ognuna, finora note solo dalle
navi di Nemi e andate perdute nell’incendio del 1944.
- caratteristiche di passaggio tra la tecnica costruttiva greco-romana e quella
medievale-moderna nei relitti di metà V sec. d. C.
Asportazione, trattamento conservativo e musealizzazione dei relitti
I relitti sono stati asportati dal terreno smontandone le parti costitutive, soluzione
che tanti pregevoli risultati ha dato in passato. L’alternativa in voga negli ultimi
decenni in Italia era rappresentata, al momento dello scavo, dai gusci di vetroresina che inglobano il relitto intero, e che dovrebbero consentirne il trattamento
per imbibizione mediante tubicini flessibili tra le due intercapedini. Essa è stata
tuttavia scartata poiché per nessuno dei relitti, per i quali è stato perseguito questo sistema di asportazione dal terreno e successivo trattamento, era possibile,
all’inizio dello scavo di Olbia come ancor oggi, conoscere l’esito del lavoro.
Per il trattamento conservativo si è sperimentato un procedimento innovativo
messo a punto dalla Ditta “Legni e Segni della Memoria” di Salerno che ne ha curato l’esecuzione. Il risultato è del tutto soddisfacente e molto positive sono state
292
le prove di caratterizzazione fisico-meccanica e chimica dopo il trattamento,
per le quali i reperti testati danno reazioni del tutto simili a quelle del legno fresco, effettuate da M. Fioravanti e M. Togni del DIRSTAF dell’Università di Firenze.
Il 13 dicembre 2007 sono stati esposti al pubblico nel Museo Archeologico di
Olbia i primi due relitti così restaurati e riassemblati: uno dei grandi relitti affondati
dai Vandali nel V sec. d.C. e uno dei più piccoli relitti medievali. Nonostante si
tratti di un lavoro di certo perfettibile (alcune ordinate hanno subito una qualche
disidratazione in deposito successivamente al trattamento e indipendentemente
da esso a causa di un incidente tecnico), sarà perdonata la punta di orgoglio
con la quale sottolineiamo che si tratta dei primi relitti esposti al pubblico di
quanti recuperati in Italia nell’ultimo trentennio.
Tempi e costi finora sostenuti
Scavo- risultati: area scavata m 380x20x4 di profondità media fino alla roccia
(= 30.400 metri cubi), 24 relitti di dimensioni dai m. 2x1 ai m. 15x5, 600 casse di
reperti selezionati; tempi :lavoro vivo un anno e mezzo distribuito su due anni e
mezzo; costo: 1.700.000 €
Restauro e musealizzazione primi 2 relitti-risultati: esposizione di uno dei grandi
relitti di V sec. d. C. e un piccolo relitto medievale (i primi dell’ultimo trentennio
in Italia); tempi: lavoro vivo 2 anni e mezzo distribuiti su 5 anni e mezzo; costo:
310.000 € trattamento e musealizzazione dei due relitti, più 260.000 € messa in
sicurezza, debatterizzazione, analisi specie vegetali, curve dendro ecc. di tutti
i legni rinvenuti
Lavori in corso e programmi
Le sale del Museo Archeologico di Olbia sono predisposte per l’esposizione di
altri 2 dei relitti affondati dai Vandali (è in lavorazione il più grande tra quelli rinvenuti) e di un altro di quelli medievali, assieme ad altri elementi significativi quali
uno degli alberi e uno dei timoni. Per un altro relitto l’ipotesi in campo è la futura
fruizione presso il Museo Archeologico Nazionale di Sassari. Alcune possibilità
in Olbia sono offerte da un grande capannone ex-militare di buon pregio architettonico dei primi del ‘900 - inserito in una amena area di verde cittadino che
sta per divenire un parco urbano - ora usato come deposito delle casse contenenti i legni da trattare e che ci si propone di attrezzare a laboratorio-museo visitabile dal pubblico mediante passerelle sospese.
Responsabile progetto:
Rubens D’Oriano
In spendita attualmente:
2 milioni € per restauro relitti
300.000 € per restauro
del capannone storico di Olbia
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Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Sardegna
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Beni Culturali e Paesaggistici
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Porto Torres (SS). Colonia Iulia Turris Libisonis.
Cantiere di Restauro del Ponte Romano
Antonietta Boninu, Antonella Pandolfi
La costruzione del ponte si colloca nel corso del I secolo d.C., tra i primi interventi edificatori compresi nella pianificazione urbanistica della Colonia Iulia Turris
Libisonis, fondata da Ottaviano Augusto su un primo ed embrionale impianto
voluto e promosso da Giulio Cesare.
La monumentale infrastruttura collega il settore occidentale dell’entroterra della
regione Nurra con la città portuale, scavalcando l’asta fluviale del Riu Mannu,
presso la foce sul Golfo dell’Asinara, fungendo da elemento di cucitura tra territorio ed impianto urbanistico.
Il ponte è costruito con calcare di estrazione locale, lavorato in blocchi, impiegato in diverse apparecchiature murarie, prevalente l’opera quadrata.
La costruzione è stata inserita armonicamente nel contesto paesaggistico, in rispetto dell’andamento del suolo, mediante un’articolazione decrescente da
ovest verso est delle sette arcate, con una carreggiata lunga 135 metri, il cui percorso, in lieve pendenza verso est, consentiva un’immediata, ampia percezione
visiva della città, giungendo dalle aree periurbane ed extraurbane occidentali.
Una serie di essenziali finiture e soluzioni decorative conferivano all’opera ingegneristica una rigorosa ed elegante resa stilistica.
Pregressi interventi di restauro hanno alterato morfologicamente il monumento
in alcune componenti, ma non hanno inciso o compromesso l’impianto strutturale portante originario.
Dal luglio 2008 un cantiere di restauro è attivo per l’esecuzione di un intervento sul
monumento, finalizzato all’indagine e alla conservazione dell’elevato della struttura.
Ad integrazione è previsto un intervento alla base delle pile nell’ambito di un
progetto di risanamento del corso d’acqua.
Il programma degli interventi è stato articolato tra la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Sardegna - Sassari e il Comune di Porto Torres, con finanziamenti
dello Stato e della Regione Autonoma della Sardegna.
Il primo intervento è dato dallo studio dell’opera archeologica e insieme architettonica finalizzato all’individuazione delle esigenze di conservazione, sviluppatosi in un progetto preliminare di monitoraggio.
L’esito di tale intervento, realizzato nell’arco di un anno, ha indicato i settori critici
del manufatto, comprendenti lacune, fessurazioni e perdita di materiale costitutivo della struttura.
Successivamente il primo progetto di restauro ha concentrato l’attenzione sul
settore orientale con le quattro arcate colmate da un interrimento progressivo
registrato fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento. E’ da rilevare inoltre che nel
corso dei secoli non è stato mai realizzato un progetto complessivo di conservazione della notevole struttura architettonica, mentre ci si è limitati a successive
riprese di alcuni blocchi delle pile e delle arcate, alcune integrazioni e al rifacimento del parapetto.
Nella realtà, quindi, del ponte si conoscevano i risultati macroscopicamente individuati ed essenzialmente riconducibili all’impianto originario, mentre non era
stata condotta alcuna indagine archeologica finalizzata a documentare e a collocare il ponte nel contesto originario funzionale.
Nella previsione di effettuare stralci di intervento consequenziali ed interconnessi
il settore orientale offriva le caratteristiche per il recupero dei dati archeologici –
architettonici nell’insieme del settore sopra quota del fiume, e quindi pile, arcate,
muri di contenimento, carreggiata e parapetti.
Nell’affidare ad una lettura inscindibile per le parti costitutive si è proceduto all’esecuzione di una documentazione analitica che ha registrato le stratigrafie verticali e lo stato di degrado.
La complessità propria della struttura architettonica ha coinvolto archeologi, architetti, ingegneri, analisti chimici che hanno interagito per le finalità di un progetto che possa costituire il primo intervento, calibrato anche sulle successive
disponibilità finanziarie.
Il cronoprogramma dei lavori previsto nel progetto è stato adattato sul campo alle
esigenze rivelatesi fin dalla prima analisi delle superfici e degli elementi architettonici, condotta sui ponteggi verticali e trasversali che hanno “rivestito” le prime
quattro arcate orientali.
La mappa del degrado registrata e l’analisi delle stratigrafie verticali hanno condotto ai puntuali interventi di reversibilizzazione di improprie tamponature, di
integrazioni, di cuciture, di stilatura dei giunti, di consolidamento e di pulitura
delle superfici
La compresenza in cantiere di archeologi, architetti, ingegneri, analisti, rilevatori,
operatori specializzati ha garantito anche una verifica delle ipotesi di soluzioni
delle puntuali problematiche, indirizzate ad interventi non prevedibili nella fase
progettuale
Nell’analisi stratigrafica i paramenti dei muri di contenimento, le corone e gli
intradossi delle arcate sono stati presi in esame scomponendo le diverse apparecchiature murarie individuate in ogni loro elemento singolo. In tale intervento capillare si sono individuate le basi del parapetto originario, eseguito
con ricorsi di piccoli blocchi di calcare, sostituiti e ricoperti da un’apparecchiatura muraria costituita da pietrame di piccole dimensioni legato con
malta, integrata da numerose superfetazioni per risarcire cedimenti e crolli.
Nella sede carrabile è stato eseguito lo scavo archeologico che ha asportato un
consistente deposito stratificatosi con manti di asfalto e terra compattata che occludevano la carreggiata realizzata con basolato. I lavori eseguiti dalla sommità
della IV arcata verso est hanno messo in luce la pavimentazione, che registra una
consistente pendenza verso est con un dislivello superiore al metro. Gli elementi
litici della carreggiata, in calcare e prevalentemente in trachite, presenta una singolare compattezza che rassicura sullo stato di conservazione dell’estradosso
delle quattro arcate indagate.
Lo stato attuale, nella fase finale dei lavori, nell’interesse della conservazione
295
dell’opera architettonica, impone la prosecuzione con almeno altri due progetti
per l’indagine delle tre arcate occidentali e delle basi delle pile. Per quest’ultimo,
in particolare, il progetto è condizionato dalla necessaria deviazione del corso
delle acque per la ricerca sullo stato di conservazione degli elementi architettonici portanti e delle interrelazioni tra questi.
Per questioni connesse alla sicurezza dei cittadini che visitano il monumento, si
è completata la risarcitura di tutti i parapetti, protetti alla sommità da un conglomerato in cocciopesto impermeabilizzato, che evita il ruscellamento delle acque
meteoriche direttamente sugli elementi verticali. Si è inoltre assicurato il convogliamento delle acque di superficie verso il corso fluviale.
Le garanzie dei risultati dell’intervento di restauro si fondano soprattutto su un lavoro di studio e di progetto condotto da tecnici dell’Archeologia e da tecnici
dell’Architettura che hanno apportato le proprie competenze negli elaborati progettuali e nelle operazioni del cantiere, sottoponendo sempre le decisioni e le soluzioni alla rispondenza con quanto il monumento progressivamente restituisce.
Il progetto ha coinvolto le
Istituzioni, Soprintendenza
per i Beni Archeologici della
Sardegna – Sassari, Comune di
Porto Torres, Soprintendenza
per i Beni Architettonici e per
il Paesaggio della Sardegna Cagliari, Sede Operativa di
Sassari, con le responsabilità
specifiche affidate ai funzionari,
ai progettisti e Direttori dei
Lavori e agli archeologi e
rilevatori che hanno operato
sul campo.
Direzione per la
Soprintendenza per i Beni
Archeologici Antonietta
Boninu, con la collaborazione
di Salvatore Francesco Satta,
Giantonello Sanna,
Luciano Serio, e, per parti
della documentazione,
di Claudio Carta.
Progettisti: Alessandro Fadda,
Riccardo Fais, Giovanni Leoni,
Giovanni Masia, Paolo Gavino
Satta. Direttore dei Lavori
Giovanni Masia,
con la collaborazione dei
coprogettisti. Coordinatore dei
lavori archeologici: Antonella
Pandolfi, con la collaborazione
per la mappatura del degrado,
per lo scavo archeologico, per
l’analisi delle stratigrafie
verticali, per la
documentazione: Franco Usai,
Luca Angius, Enrico Petruzzi,
Natalia Sannai, con la
partecipazione di Daniela
Deriu, Mariella Campus, Elena
Marongiu. Impresa esecutrice
Pavan, S. r. l., di Cagliari,
con la Direzione Tecnica
di Antonio Maria Vascellari.
296
Dalla Sardegna sculture nuragiche.
Monte e’ Prama – Prenda e’ Zenia
Antonietta Boninu, Andreina Costanzi Cobau
L’Accordo di Programma Quadro tra Stato e Regione in materia di Beni Culturali ha
registrato in Sardegna una stagione ricca di contributi e partecipazione delle Istituzioni per costruire un piano di intervento condiviso e altamente qualificato nelle
proposte progettuali. Per il progetto di restauro delle sculture di Monte e’ Prama
di Cabras, Oristano, note per gli esemplari esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, l’interesse è stato notevole poiché si è attribuita una valenza
identitaria particolare rispetto ad altri documenti archeologici. Indubbiamente i significativi frammenti, busti, teste, braccia e modellini di nuraghe, hanno alimentato
motivate attese e richieste di informazione sull’intero ritrovamento.
Al momento della scoperta e delle indagini successive sul campo 1974-1979, la
quantità e le dimensioni dei frammenti identificati, e non, comportavano oneri e
spazi non disponili ne’ reperibili. Il Laboratorio di restauro allestito nel Centro di
Conservazione ubicato a Sassari, Li Punti, in tre padiglioni dell’ospedale psichiatrico, edificato dalla Provincia e proposto alle Amministrazioni Pubbliche fin dal
completamento della costruzione, immersa in un uliveto secolare, ha approntato
idonei locali per accogliere anche notevoli quantità di materiali archeologici. La
scheda per il progetto dell’Accordo di Programma Quadro è stata sostenuta da
una forte ed esplicita volontà del Presidente della Regione Renato Soru già al momento dell’insediamento, e dell’assessore per I Beni Culturali Elisabetta Pilia, e
dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Dipartimento per la Ricerca, Innovazione e Organizzazione, Servizio II, Intese Istituzionali e rapporti Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica nelle persone di Maria Grazia
Bellisario e Beatrice Smeriglio. In Sardegna, il Direttore Regionale, Paolo Scarpellini, nel 2003, ha incaricato per la predisposizione degli atti, per la definizione dei
progetti e per i rapporti con la Regione il funzionario Anna Paola Loi che ha operato con competenza e lungimiranza. Nello stesso anno la relazione scientifica e
tecnica è stata redatta da Antonietta Boninu, che dal giugno 2004, per incarico
del Direttore Regionale Antonio Giovannucci, ha sostituito Anna Paola Loi nel coordinamento dell’attività APQ, per la sottoscrizione dell’accordo, il 30 settembre
2005 da parte del Mibac e della Regione. L’Atto Integrativo 2006 ha destinato un
secondo finanziamento per il restauro delle sculture di Monte e’ Prama. Il 3 maggio 2006, in concomitanza con la stesura del progetto preliminare, il laboratorio
delle sculture, in realtà una consistente distesa di frammenti, è stato aperto al
pubblico, perché si potessero seguire tutte le fasi delle lavorazioni, a partire dalla
numerazione finalizzata alla identificazione univoca di ogni singolo reperto. La dimensione del progetto, i tempi cogenti del finanziamento, la notevole rilevanza
scientifica e la complessa problematica hanno suggerito la formulazione di un
bando per l’appalto-concorso, con l’impegno della redazione del progetto definitivo-esecutivo, conclusosi con l’individuazione del contraente nella ditta specializzata prima classificata.
Dal 15 novembre 2007, il CCA Centro di Conservazione Archeologica, di Roma,
ha dato il via al progetto di conservazione e restauro dei frammenti lapidei, con
la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Sassari e Nuoro, prima e successivamente, con gli stessi responsabili, della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Sardegna.
Studio e documentazione, conservazione e restauro, comunicazione e diffusione
sono le attività sulle quali il programma dei lavori è basato, con l’obiettivo di restituire le sculture alla presentazione al pubblico con musealizzazione. Il cantiere
è stato organizzato anche per le visite, su prenotazione.
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Sardegna
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA SARDEGNA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Sardegna
Direttore Regionale:
Elio Garzillo
Coordinanatore:
Sandra Violante
Via dei Salinieri, 20-22
09126 Cagliari
Tel. 070 34281
Fax 070 34282091
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Sardegna
Soprintendente:
Fulvia Lo Schiavo
Piazza S. Agostino, 2
07100 Sassari
Tel. 079 206741
Fax 079 232666
[email protected]
Sede Operativa di Cagliari
Piazza Indipendenza, 7
07100 Sassari
Tel. 070 605181
Fax 070 658871
[email protected]
297
I lavori sono iniziati con lo studio dei documenti di scavo e dei risultati delle
analisi scientifiche eseguiti sulle superfici lapidee. Durante lo studio diretto dei
reperti sono state rilevate le forme di degrado, le tracce di lavorazione originali
ed i segni storicizzati ancora conservati. Fotografie digitali, mappature grafiche,
filmati e schede descrittive sono gli strumenti su cui questo studio si basa. Le
schede seguono il reperto come si trattasse di una cartella clinica e lo accompagnano durante l’intero trattamento. Le analisi scientifiche forniscono risposte a
domande quali la composizione della pietra, la provenienza del materiale utilizzato dagli scultori, la storia conservativa dei frammenti attraverso le forme di degrado delle superfici. L’elemento costitutivo delle sculture è dato da un
biocalcare, di provenienza geografica localizzata nelle immediate vicinanze del
sito di ritrovamento dei frammenti, ove affiorano i calcari micritici organogeni
miocenici. Questi materiali sono caratterizzati dalla presenza, nella loro tessitura,
di microfossili marini riferibili ai foraminiferi. Le analisi scientifiche rilevano anche
tracce di un incendio, che in antico ha modificato chimicamente la parte più superficiale della pietra e ne ha annerito il materiale al di sotto dei depositi carbonatici terrosi. Tutti questi dati sono stati raccolti in un database in grado di gestire
le informazioni alfanumeriche, grafiche e fotografiche, che compongono l’archivio degli oltre 5000 frammenti.
L’intervento di conservazione e restauro è iniziato con la pulitura delle superfici lapidee. Questa avviene attraverso l’asportazione selettiva dei soli depositi di sporco;
è rispettosa delle superfici originali, della patina di eventuali coloriture e tiene conto
dello stato di conservazione del materiale originale e della sua peculiare fragilità.
L’operazione è eseguita mediante fasi progressive, a partire dalle attività più delicate
ad effetto più blando, per procedere con interventi sempre più efficienti in relazione
al tipo di depositi da rimuovere. Il processo inizia con la rimozione a secco dei depositi terrosi presenti sui frammenti utilizzando bisturi, pennellesse e aspiratori.
298
Segue un ciclo di esposizione dei frammenti ad acqua atomizzata, in grado di solubilizzare dolcemente le incrostazioni di sporco senza danneggiare la superficie
originale della pietra. Conclude il processo di pulitura una lunga azione meccanica
eseguita con bisturi, specilli in legno e spazzolini. Altre tecniche di pulitura, come
ad esempio l’utilizzo di solventi chimici, sono limitate a casi specifici che presentano
particolari depositi superficiali.
Per lo stato di conservazione dei frammenti la ricerca degli attacchi è stata
un’operazione molto impegnativa: la ricerca di frammenti combacianti richiede
metodo rigoroso, studio approfondito e un occhio allenato e competente, sia
dal punto di vista archeologico che tecnico. Ad oggi sono stati trovati più di
1000 frammenti che combaciano tra di loro e si sono potute ricostruire tre diverse
tipologie iconografiche di statue e modellini di nuraghe, monotorre e polilobato.
Gli attributi identificano: i cosiddetti pugilatori, che avanzavano protetti da uno
scudo sulla testa e con le mani rivestite da grossi guantoni; gli arcieri, armati da
arco, faretra e frecce ed, infine, i semplici guerrieri, con scudo e spada.
Oggi la prima fase di ricerca degli attacchi è stata completata e il processo di “rimettere in piedi” i frammenti è entrato nella fase esecutiva, e si stanno realizzando
i supporti che dovranno sostenere le sculture in esposizione.
I risultati del programma di conservazione hanno probabilmente superato ogni
aspettativa: sono state ricostruite ventitre statue; alcune di queste sono composte
anche da cinquanta frammenti e raggiungono pesi a volte superiori ai 250 chilogrammi.
Il programma-progetto di conservazione, denominato Monte ‘e Prama – Prenda ‘e
Zenia, è fortemente indirizzato verso la comunicazione e la diffusione. I lavori in
corso sono stati ininterrottamente aperti al pubblico e numerose iniziative culturali
sono state organizzate a margine del programma tecnico. Il titolo dell’iniziativa,
letteralmente: Monte delle Palme – Preziosità di una Genìa, intende sottolineare il
filo conduttore del progetto: rinsaldare il rapporto tra le sculture e i cittadini; riscoprire il contesto di appartenenza dei reperti e il loro significato storico; sottolineare il valore del messaggio culturale, e della fragilità della materia antica.
Il tradizionale cantiere di conservazione e restauro è stato trasformato in una Galleria Laboratorio, nella quale il pubblico può osservare dal vivo le attività in corso.
Il visitatore, quando entra nella Galleria, si trova avvolto in un grande scenario naturale, che ripropone l’ambiente ed il contesto di provenienza delle sculture.
All’interno il visitatore può assistere e parlare con i conservatori al lavoro, e accompagnato da visite guidate, può partecipare ad alcune delle attività organizzate.
Attraverso la pagina web www.monteprama.it chiunque può seguire i particolari
dell’intervento in corso: fino ad oggi oltre 6000 utenti hanno visitato il sito. Le
varie conferenze stampa sul progetto hanno visto la partecipazione di tutti gli
organi di stampa dell’isola e molti nazionali. La risposta del pubblico è alta e
partecipe: più di 2000 persone tra adulti e ragazzi hanno usufruito delle visite guidate e molto alto è stato il livello di partecipazione attraverso messaggi e lettere
ricevute nella casella di posta collegata al sito, [email protected]. Si conferma
così quanto vivo sia il desiderio di approfondire la conoscenza della preziosa
collezione scultorea, e si conferma che l’apertura al pubblico dei cantieri di conservazione è sempre una scelta condivisa e apprezzata, oltre che doverosa.
299
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Sardegna
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA SARDEGNA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Sardegna
Direttore Regionale:
Elio Garzillo
Coordinanatore:
Sandra Violante
Via dei Salinieri, 20-22
09126 Cagliari
Tel. 070 34281
Fax 070 34282091
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Sardegna
Soprintendente:
Fulvia Lo Schiavo
Piazza S. Agostino, 2
07100 Sassari
Tel. 079 206741
Fax 079 232666
[email protected]
Sede Operativa di Cagliari
Piazza Indipendenza, 7
07100 Sassari
Tel. 070 605181
Fax 070 658871
[email protected]
300
Arzachena. Nuraghe e Villaggio La Prisgiona
Angela Antona, Luigi Piras
I lavori in corso di realizzazione del Parco Archeologico di Capichera (Arzachena, OT), perseguono l’obiettivo di valorizzare l’ampio e maestoso complesso
del quale il nuraghe La Prisgiona costituisce il fulcro. Costruito su un affioramento
granitico, presenta un mastio centrale circondato da un bastione che ingloba nel
suo svolgersi diverse torri. Una cortina muraria a doppio paramento, provvista
all’esterno di un rifascio a grossi blocchi poligonali, racchiude un ampio cortile
sviluppato a ridosso dei versanti est e sud del bastione. All’esterno si estende il
villaggio, del quale si sono rilevate circa un centinaio di capanne.
I lavori di scavo e di consolidamento hanno fino ad ora interessato il nuraghe col
bastione ed un insieme di capanne costruite a ridosso della fronte est. L’indagine
stratigrafica ha consentito la lettura di diverse fasi costruttive, dalla Media Età del
Bronzo del XIV secolo a.C. alla prima Età del Ferro, con la testimonianza anche
di una frequentazione di Età Romana imperiale sui crolli ormai plurisecolari delle
strutture nuragiche.
Le operazioni in corso vedono il realizzarsi di uno studio interdisciplinare che,
oltre ad aArcheologi e Restauratori coinvolge, fra gli altri, Tecnologi dei Materiali.
Infatti, le problematiche di carattere statico emerse a La Prisgiona hanno richiesto
l’osservazione e l’approfondimento da parte degli specialisti soprattutto delle tematiche relative all’impiego di malte di terra cruda nelle strutture murarie, riscontrati
sia nel nuraghe che nelle capanne. Infatti, malte di fango argilloso sono state individuate ancora in situ sia all’interno delle masse murarie, sia a chiudere, insieme
alle pietre di zeppatura, gli inevitabili vuoti dovuti all’impiego di blocchi non sagomati. Lo studio e le sperimentazioni sul campo ed in laboratorio effettuati su
campioni di terra prelevati sia all’esterno che all’interno del nuraghe e delle sue
murature, nonchè in giacimenti di argillosi situati a poca distanza dal sito, hanno
suggerito, per i consolidamenti, l’impiego dei materiali naturali più idonei.
In particolare, la “terra” a disposizione in prossimità del sito presenta una buona
presenza di argilla, di tipo illitico, che le conferisce una forza legante ed una plasticità che ne consente l’impiego senza sostanziali interventi correttivi con additivi in passato sperimentati in altre situazioni (lattice acrilico, calce etc.).
Utilizzando un sottile granulato derivante dal disfacimento del granito locale è risultata possibile la preparazione di malte che presentano deformazioni limitate
ed una stabilità di azione delle acque molto limitata. Inotre, la resistenza meccanica adeguatamente bassa può consentire, se richiesto, un facile allontanamento senza sottoporre a stress i materiali originari con i quali le malte sono a
contatto.
Una serie di manufatti non vascolari, taluni informi altri sagomati, realizzati impiegando “terra” come materiale di base, sono stati oggetto di indagini archeometriche che hanno chiarito la composizione mineralogica, le caratteristiche
porosimetriche, il comportamento ad alta temperatura in ambienti ossidanti o riducenti. Sulla base di questi dati, integrati dallo studio morfologico dei reperti,
è stato spesso possibile individuare la funzione dei medesimi, legata a vari aspetti
della tecnica costruttiva quali coperture di capanne, pavimenti, intonaci e parti
di strutture di combustione o di cottura. Le indagini in questione hanno consentito fra l’altro di attribuire ai resti di un vano di cottura un cumulo di mattoni crudi
individuato all’interno di una capanna.
Collateralmente al cantiere di scavo, un laboratorio destinato alle operazioni preliminari di restauro dei materiali ceramici opera dietro le direttive di Restauratori
della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Sassari, coadiuvati da personale
in possesso di adeguata ed idonea professionalità.
La congerie sempre più abbondante dei materiali venuti in luce richiede infatti un
impegno continuativo, che consente una diagnostica immediata, cui seguono appropriati interventi di conservazione. La finalità che si persegue, e che ha ottenuto
fino ad oggi i risultati sperati, è quella di mostrare alla collettività, alla chiusura dei
lavori, i reperti rinvenuti, senza dovere passare attraverso le non quantificabili giacenze in magazzini di salubrità non sempre ottimale per i reperti.
Fra le forme ceramiche di maggiore spicco fino ad oggi ricomposte, sono di particolare evidenza alcuni dolii con orlo ingrossato e distinto ed anse ad X, caratterizzati dalla presenza di chiodi e grappe di restauro in piombo sulle pareti e
sul fondo, effettuati dal vasaio nuragico successivamente alla cottura. Tali elementi, infatti, risultano disposti a rafforzare cedimenti strutturali dei grandi recipienti o ad interrompere screpolature e filature verificatesi sulle pareti.
Questa particolarità si è evidenziata soprattutto in uno dei dolii ricomposto nella
quasi totale completezza.(AA)
L’intervento di restauro di quest’ultimo è stato avviato con la realizzazione di un
saggio di pulitura effettuato con H2O, pennello e spazzolino morbido, integrato
con la pulitura meccanica con bisturi, a causa della particolare durezza delle incrostazioni soprattutto lungo le linee di frattura. Questa caratteristica ha richiesto
la preliminare applicazione di tamponi di EDTA Sale bisodico allo scopo di rendere più cedevoli al bisturi i depositi più resistenti. La successiva ricerca dei
frammenti pertinenti e la loro ricomposizione sono avvenute con molte difficoltà,
a causa delle dimensioni del reperto e della particolare frammentarietà.
Tale operazione è stata effettuata con Paraloid B72 a caldo.
Considerata la presenza di numerose lacune, è stato necessario realizzare delle integrazioni di sostegno che consentissero la stabilità del reperto. Tali risarcimenti
sono stati effettuati con gesso dentistico per conferire maggiore resistenza alla
struttura, ricoperto con cera I 76 di opportuno colore, di spessore di circa 4 mm.
Si è reso opportuno inoltre, vista la particolare incoerenza delle linee di frattura,
stuccarle con la citata cera. (L.P.)
301
Un altra forma di particolare spicco è rappresentata da un’olla biansata, proviene
dalla “capanna delle riunioni”. Di rilievo speciale in quanto funzionale a rituali
specifici del vano, è alta oltre cinquanta centimetri, caratterizzata da bocca stretta
con orlo distinto e dotata di un’ampia tesa provvista di quattro fori passanti, applicata al di sopra della spalla. Ma ciò che rende ancora più particolare il vaso è
la decorazione in rilievo, costituita da una sequenza articolata di elementi inediti:
presenta un elemento a cerchio non conchiuso, con estremità rastremate, al quale
si innesta inferiormente un listello verticale che si conclude ad angolo retto con
un segmento triangolare. A quest’ultimo se ne contrappone un altro analogo, distanziato dal precedente da una marcata depressione sull’argilla fresca. Questo
articolato elemento decorativo si ripete per quattro volte sulle pareti del vaso, in
altrettanti punti diametralmente opposti: due di essi sono disposti al di sopra
delle anse. La decorazione si arricchisce di altri simboli: un insieme di sei bastoncelli applicati sull’argilla fresca, tre dei quali con incisioni oblique che compongono una decorazione a spina di pesce. Un altro elemento è rappresentato
da una forma a calice dai contorni morbidi, con la parte superiore ad andamento
obliquo e con una lunga protuberanza inferiore. Infine, nello spazio compreso
fra quest’ultimo ed uno dei simboli “corniformi”, un serpente con testa schiacciata e coda rastremata è reso in modo sorprendentemente naturalistico. (A.A.)
La prolungata giacitura dei numerosi frammenti in terreno acido, quale è quello
granitico, è all’origine di fenomeni di degrado con perdita, in alcune aree, di materiali costituenti superficiali. Le linee di frattura, in molti casi arrotondate, evidenziano inoltre la particolare eterogeneità dell’impasto per la presenza di
numerosi “inclusi” feldspatici. Piccole macchie nere presenti sulle superfici sembrerebbero attribuirsi ad ossidi di manganese.
I numerosissimi frammenti, sottoposti a pulitura con H2O e, ove necessario, con
bisturi, sono stati sottoposti a consolidamento con Paraloid B72 al 5% in soluzione alcolica, vista la particolare friabilità sopra accennata. Le caratteristiche suddette hanno reso particolarmente difficoltosa la loro ricomposizione, effettuata
con Paraloid B72 concentrato, a caldo. La presenza di numerose lacune che non
consentivano stabilità al reperto ha richiesto la realizzazione di alcune integrazioni di sostegno con Cera I 76 di opportuno colore. (L.P.)
Direttore Archeologo
Angela Antona
Direttore Restauratore Luigi Piras
Assistente Tecnico-Scientifico
Franca Liliana Casiddu
Collaboratori:
Valentina Filigheddu,
Nadia Addis, Claudia Casalloni,
Emanuela Corda, Efisia Farris,
Francesca Sesuru, Rita Giorgioni
Lo studio relativo ai materiali
da costruzione è stato eseguito
dal Dipartimento di
Geoingegneria e Tecnologie
Ambientali e dal Dipartimento
di Ingegneria Chimica
e Materiali dell’Università
di Cagliari.
302
Cagliari - Basilica Mauriziana di Santa Croce
Lucia Siddi
Il lungo e complesso lavoro di restauro ha consentito di restituire alla cittadinanza,
in particolare al quartiere di Castello, un edificio storico di grande rilevanza artistica e storica (esso sorge, infatti, quasi certamente sui resti dell’antica sinagoga
ebraica), chiuso ormai da oltre dieci anni a causa dello stato di estremo degrado
in cui si trovava la Basilica e gli arredi in essa custoditi. L’intervento è stato progettato e realizzato dalla ex Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggio,
Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Cagliari e Oristano che, dal
28 febbraio 2008, è stata divisa in Soprintendenza Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Sardegna e in Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici della Sardegna. La gran parte dei lavori, comunque, apparteneva alla
categoria OS2 (Beni Artistici e Storici).
La chiesa, ricostruita e ampliata nella prima metà del Seicento insieme all’annesso
Collegio su commissione dell’Ordine gesuitico, passò allo Stato nel 1773, dopo
la soppressione dell’Ordine, e venne donata dal re Vittorio Emanuele I all’Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, che ancora la detiene, nel 1809.
Gli interventi sono iniziati con l’eliminazione dell’umidità di risalita mediante la
realizzazione di un vespaio areato. Durante l’esecuzione dei lavori di scavo, indispensabili per poter procedere al lavoro suddetto, sono venuti alla luce i resti
di un precedente edificio con ingresso sulla via Corte d’Appello (probabilmente
l’antica sinagoga ebraica), numerosi resti scheletrici posti su diversi strati sovrapposti, alcune lastre tombali riutilizzate e la tomba del padre Giovanni Battista
Vassallo, appartenente all’ordine della Compagnia di Gesù, morto in odore di
santità nella seconda metà del Settecento. Sono stati restaurati gli intonaci esterni
ed interni dell’edificio e dell’ala dell’annesso chiostro e sono state revisionate le
coperture.
Le decorazioni pittoriche delle volte a botte della navata centrale a finto cassettonato con stucchi, realizzate a secco nel 1849 da Ludovico Crespi, in pessimo
stato di conservazione e molto lacunose, sono state consolidate, pulite e reintegrate pittoricamente, così come le decorazioni delle cappelle laterali.
Sono stati smontati, restaurati e rimontati i sei grandi altari barocchi in marmi policromi, eseguiti da maestranze liguri e lombarde intorno alla metà del Settecento,
e l’ottocentesco altare maggiore. Anche la monumentale bussola lignea poli-
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Sardegna
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DELLA SARDEGNA
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303
Restauro architettonico,
delle tempere murali e di tutto
l’arredo ligneo e marmoreo,
comprese le sculture lignee
e i dipinti su tela.
Finanziamento Presidenza
Consiglio dei Ministri
(8 per mille e gioco del Lotto)
di € 1.293.137,00
Avvio e conclusione dei lavori:
15.09.2004/6.07.2007
Responsabile
del procedimento:
Lucia Siddi
Progettisti: Lucia Siddi –
Gabriele Tola
Impresa: Associazione
temporanea di Imprese (ATI):
Pietro Dalla Nave, Abacus,
Paolo Oggiano e G.A.Pilloni
304
croma, risalente ai primi decenni del XIX secolo, è stata smontata, disinfestata,
consolidata, pulita e rimontata nella sede originaria. Sono state completamente
restaurate anche due piccole paratore lignee che arredano la sagrestia. Tra gli arredi, si è proceduto al restauro di undici sculture lignee intagliate e policromate,
risalenti al XVII-XIX secolo, la cui pulitura, in alcuni casi, ha consentito di recuperare la splendida cromia originaria in oro zecchino e lacche, e sono stati recuperati nove dipinti ad olio su tela risalenti ad un periodo che va dal XVII al XIX
secolo.
L’intervento più significativo e complesso è stato senz’altro quello relativo al recupero delle decorazioni delle volte della navata centrale che, in questa circostanza, si è deciso di presentare in dettaglio. I dipinti murali sono stati realizzati
a tempera per velature sovrapposte (con legante costituito da colla animale) su
un intonaco con aggiunta di stoppa e polvere di marmo. Sotto le pitture in finto
cassettonato sono apparse piccole porzioni di decorazioni più antiche eseguite
ad affresco e a mezzo fresco, con motivi decorativi simili a quelli sovrapposti.
L’infiltrazione dell’acqua piovana aveva seriamente compromesso il ciclo pittorico: l’intonachino si presentava in gran parte decoeso dal supporto, con la perdita di numerose porzioni di colore e strati preparatori; i bruni, i rossi e i gialli
apparivano particolarmente deturpati da abrasioni e muffe. Dopo le prime indagini conoscitive quali l’osservazione a luce naturale e radente, alcuni saggi di
consolidamento della pellicola pittorica con Acril 33 e dei saggi di pulitura a
secco e con acqua e desogen, si è proceduto con un immediato consolidamento per nebulizzazione delle parti che spolveravano. I sali solubili sono stati
estratti con l’applicazione di carta giapponese e acqua demineralizzata. Gli strati
preparatori, invece, sono stati consolidati con iniezioni di emulsione acrilica diluita e, più in profondità, con infiltrazioni di leganti idraulici e inerti selezionati. I
depositi incoerenti sono stati rimossi a secco, mentre quelli coerenti sono stati
asportati con impacchi di alcool etilico. Le numerose lacune sono state stuccate
con malta idraulica e inerti idonei per colorazione e granulometria e reintegrate
pittoricamente con colori ad acquarello e a tempera, applicati a velatura con
pennelli e spugne naturali. Le lacune di grandi dimensioni, che potevano essere
ricostruite, sono state colmate con la realizzazione del disegno (copiato dalle
parti originali) applicato sul nuovo intonaco con la tecnica dello spolvero, successivamente coperto con colori dati a velatura. La protezione di tutta la superficie dipinta è stata data a spruzzo con emulsione acrilica.
Le decorazioni delle volte erano arricchite da stucchi di forme diverse : tondi e
quadrati con foglie d’acanto e motivi floreali, mancanti quasi del 50%. Essi erano
stati realizzati a stampo con gesso alabastrino caricato con fibre di stoppa e con
l’applicazione della foglia di orone su un bolo arancione. Il fissaggio al supporto
murario era costituito da un perno di legno e da staffe in ferro a forma di L. Gli
elementi quasi staccati o gravemente decoesi sono stati staccati e sono state
consolidate con emulsione acrilica diluita le sottili fessurazioni presenti. Le staffe
in ferro sono state trattate con antiossidante e protette con uno strato di Paraloid
B72. Per consentire una corretta lettura ed omogeneità dell’intera decorazione,
si è ritenuto necessario procedere alla ricostruzione delle forme mancanti mediante calchi che sono stati successivamentee dorati su una base di bolo. L’ancoraggio al muro, infine, è avvenuto con l’utilizzo di staffe in ottone.
Il restauro dei dipinti murali di Costantino Spada
nella Basilica del Sacro Cuore a Sassari
Laura Donati
Quello di Costantino Spada (1922-1975) è un nome poco noto fuori di Sardegna.
Eppure appartiene ad un artista di grande capacità tecnica e ideativa, che per la
pittura sassarese del Novecento ha costituito un punto di riferimento imprescindibile e fondamentale. Suo è uno dei maggiori progetti decorativi sacri eseguiti
nell’Isola lo scorso secolo: la decorazione della Basilica del Sacro Cuore a Sassari,
realizzata a partire dal 1962 e fatta oggetto lo scorso anno di un intervento di restauro finanziato dalla DARC, la Direzione Generale per la qualità e la tutela del
paesaggio, dell’architettura e dell’arte contemporanea.
Ciò che colpisce maggiormente chi visiti la basilica è l’unitarietà del programma
dottrinario alla base della decorazione, che interessa ogni elemento dell’edificio:
la struttura architettonica, gli affreschi, i mosaici, le vetrate istoriate, il portale, il
contesto urbanistico. Ideatore del programma decorativo, volto a mostrare la
presenza del messaggio divino nella storia umana, il dialogo tra la Chiesa e
l’uomo, fu il parroco di allora, Antonio Piga. Costantino Spada eseguì, con l’aiuto
di un solo collaboratore, i dipinti murali, che si estendono nel transetto e nell’abside, e i cartoni per le vetrate ed i mosaici.
L’intervento di restauro, resosi necessario a seguito di infiltrazioni di acque meteoriche dalle coperture, si è concentrato sul catino absidale ospitante una monumentale Crocefissione realizzata quasi interamente “a fresco” (mq 144 circa),
delimitata da una fascia musiva. Più che di un restauro vero e proprio, si è trattato
di una manutenzione volta a prevenire i danni che l’umidità avrebbe inesorabilmente causato all’affresco.
Se la prevenzione del degrado purtroppo non sempre fa notizia, l’importante
contributo di questo lavoro è stata la possibilità di rilevare alcuni elementi stilistici
di un certo interesse legati alle tecniche esecutive. Le mappature realizzate nel
corso dell’intervento hanno reso graficamente le aree nelle quali si evidenzia l’utilizzo dei cartoni con incisioni dirette, quelle che presentano incisioni indirette,
e le zone abbozzate direttamente senza l’ausilio dei cartoni, come accade nel
caso del ritratto del committente, il parroco Piga, che salì sul ponteggio per farsi
ritrarre dal vero. Sono state inoltre evidenziate le “giornate”, di maggiore estensione nelle parti con figurazioni più rade, di dimensioni limitate dove la decorazione diviene più articolata.
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
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Queste mappature, confrontate con i rilievi che ci si propone di eseguire sugli
altri numerosi cicli ad affresco eseguiti a Sassari dall’artista, saranno di notevole
importanza per ricostruire l’evoluzione tecnica della pittura di Costantino Spada
a partire dal 1940, anno in cui, giovanissimo, decorò la sacrestia della chiesa di
San Donato.
Descrizione dell’intervento
Considerata la dislocazione dei dipinti murali - a circa m. 13 di altezza ed in
parte al di sopra di un altare marmoreo di grandi dimensioni - le operazioni sono
state eseguite per mezzo di una piattaforma aerea con braccio mobile (un ponte
mobile sviluppabile modello CS, tipo 170). Il presbiterio insiste su una cripta e
l’alloggiamento di un ponteggio fisso avrebbe gravato con un peso eccessivo
sul pavimento.
La superficie pittorica del catino absidale è stata interamente spolverata con pennellesse morbide e pulita a secco con spugne Wishab per rimuovere i depositi
incoerenti di particellato atmosferico. Delle infiltrazioni a siringa di emulsione
acrilica diluita sono state eseguite lungo i bordi delle fessurazioni per consolidare
le zone di intonaco decoeso. Per il consolidamento della superficie pittorica disgregata sono state eseguite delle applicazioni di emulsione acrilica per nebulizzazione e con carta giapponese. Infine, si è proceduto alla reintegrazione
pittorica a velatura con colori ad acquerello delle lacune dovute a cadute, abrasioni e sbiancamenti.
Sulla fascia musiva è stata eseguita una spolveratura con pennellesse morbide, effettuato il consolidamento delle tessere distaccate con infiltrazioni a siringa di
emulsione acrilica e poi rimosso il particellato atmosferico tramite l’utilizzo di
spugne Wishab. Delle stuccature con grassello e polvere di marmo bianco sono
state eseguite in corrispondenza delle mancanze delle tessere e della malta di
allettamento.
Progetto: Alma Casula,
Francesca Mureddu
Direzione Lavori: Laura Donati
Ditta esecutrice: Abacus, di
Nicoletta Naldoni
e Gerlinde Tautschnig
306
Il restauro di tre monumenti funerari del cimitero
di Buggerru
Marcella Serreli
Il restauro di tre monumenti funebri del cimitero del Comune di Buggerru è stato
sollecitato dalla necessità di tutelare la cultura materiale e immateriale del mondo
minerario sardo.
Si è svolto sul posto, non ha richiesto pertanto trasferimenti in laboratorio e le fasi
di lavoro si sono svolte in un ambiente protetto messo a disposizione dal Comune, all’interno dello stesso Cimitero.
Ciò ha permesso una sostenibilità economica, e soprattutto ha evitato rischi legati
allo smontaggio, all’imballaggio e al trasporto degli elementi dei monumenti.
Buggerru è un Comune situato sulla costa sud-occidentale dell’Isola, ha ormai interrotto la sua attività mineraria e tenta oggi, peraltro con ragione, di avviare
un’economia turistica che ben s’inserisce nel suo ricco ambiente naturale.
L’attenzione per un argomento vasto e delicato, che riflette una civiltà peculiare
come quella estrattiva nell’Isola, si inoltra in diverse direzioni. Gli aspetti storici
sono quelli dominanti e vedono proprio a Buggerru pagine intense per le conquiste sociali del lavoro; risale infatti al 1904 il primo sciopero italiano dei minatori
buggerrai.
Mentre l’attività produttiva è cessata da numerosi decenni, il centro abitato ha conservato le vestigia che contraddistinguevano Buggerru nel contesto minerario europeo, la società proprietaria Malfidano era francese e influenzava profondamente
anche la cultura del luogo che in Sardegna era nota come “ la piccola Parigi”.
L’ambiente attuale testimonia, nelle imponenti rovine e nelle sedi recuperate delle
strutture lavorative, la volontà di trasmettere un’epopea della miniera, densa di attrattiva per chiunque giunga nel posto.
Il Cimitero fa parte dell’itinerario culturale di Buggerru, la storia fatta dagli uomini
e dalle donne del paese ha forti rimandi nei monumenti funebri eseguiti da importanti maestranze.
La peculiarità delle sculture si basa sulla materia con cui sono state realizzate e
sull’ambiente in cui sono state inserite.
La discussione sulle opere prende avvio dagli autori, grandi scultori attivi in Sardegna tra la fine dell’Otto e i primi del Novecento, in particolare Giuseppe Sartorio di Boccioleto (Vercelli), nato nel 1854 e morto nel 1922, formatosi
nell’ambiente accademico torinese e in quello romano di San Luca. Nel 1885 inizia l’attività in Sardegna con l’importante commissione del monumento a Quintino Sella per la città di Iglesias, e prosegue con importanti opere celebrative per
piazze cittadine e cimiteri. Le sculture rappresentano il personaggio con particolare somiglianza e realismo, caratteristiche queste che gli permetteranno di contare su un vasto consenso di pubblico. In Sardegna Sartorio individua una specie
di pietra eletta per la lavorazione delle sue opere: la piroclastite, meglio nota localmente come “pietra di Serrenti”, dal nome del comune campidanese, in cui
sono concentrate le cave.
L’artista, che sceglieva con accuratezza i blocchi da scolpire, riusciva a dare particolare vitalità ai monumenti sia per le indubbie capacità di ripresa dei soggetti,
sia per la maestria con cui trattava la roccia, compiendo tratti di squisita finitezza
formale e lasciando in altri casi la superficie della pietra appena sbozzata o al suo
stato naturale.
La pietra di Serrenti e gli elementi in marmo di Carrara e il bardiglio, presenti nei
monumenti di Biggerru, nel contesto del recente restauro sono stati oggetto di indagini diagnostiche finalizzate all’acquisizione di elementi utili per gli interventi
conservativi. I risultati di laboratorio hanno analizzato lo stato dei materiali dando
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici
ed Etnoantropologici della Sardegna
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA SARDEGNA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Sardegna
Direttore Regionale:
Elio Garzillo
Coordinanatore:
Sandra Violante
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09126 Cagliari
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Fax 070 34282091
Soprintendenza
per i Beni Storici Artistici
ed Etnoantropologici
della Sardegna
Soprintendente:
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Via Cesare Battisti, 2
09123 Cagliari
Tel. 070 2010307
Fax 070 252277
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307
anche indicazioni sul loro deterioramento. Lo studio inoltre, ha permesso una
migliore conoscenza delle profonde competenze tecniche del Sartorio sulla
scelta dei blocchi da scolpire in perfetta armonia con l’ambiente naturale del
luogo.
Il cimitero infatti è realizzato nella parte alta di una collina, alla estrema periferia
del paese, con una straordinaria vista sul mare. Gli interventi del Sartorio hanno
una perfetta assimilazione nel contesto cimiteriale originario e dopo i recenti lavori di restauro e conservazione hanno acquisito ulteriore dignità culturale e ambientale.
Il restauro ha interessato tre monumenti funerari:
Monumento di Domenico Arizio, caporale di miniera. Opera di Giuseppe Sartorio, eseguita nel 1909.
L’opera è composta da tre volumi affiancati: in primo piano un basamento cilindrico in piroclastite, decorato a lato con gli strumenti del minatore e lapide dedicatoria frontale in marmo bardiglio sul quale è posto il busto del defunto in
marmo bianco di Carrara. A destra l’alta figura di un minatore realizzato in piroclastite e scolpita a tutto tondo. Il terzo volume è composto da blocchi in piroclastite lavorati ad imitazione della roccia viva e sovrapposti in modo da formare
una forma piramidale. Il monumento è delimitato da quattro pilastrini anch’essi
in piroclastite, uniti da una catena in ferro.
Il deterioramento del gruppo scultoreo è causato dalle escursioni termiche, dall’umidità, dall’attacco di microrganismi e dalla forte ventilazione, causata soprattutto dal maestrale, La piroclastite, più esposta all’erosione del vento, ha richiesto
maggiore attenzione per la perdita di inclusioni e noduli da cui è costituita. È
stata consolidata con infiltrazioni di microemulsione acrilica. Le stuccature in
malta delle giunzioni dei blocchi di piroclastite, sono state riprese con una malta
a base di calce, sabbia di fiume e polvere di marmo nero in assimilazione alla
malta originale.
Monumento di Maurizio Marchese, ingegnere del Genio Civile, opera di Giuseppe Sartorio del 1893.
L’opera è composta da tre elementi: il basamento a forma di sarcofago è costituito da blochhi di piroclastite lavorati ad imitazione della roccia. È arricchito da
un cartiglio in bronzo sulla parte anteriore. Una lapide dedicatoria in marmo di
308
Carrara con iscrizione incisa, sovrasta il sarcofago. Il terzo elemento è il ritratto del
defunto, incorniciato da rami di alloro e cipresso, in marmo di Carrara. Il monumento è delimitato da sei pilastrini in piroclastite uniti fra loro da aste tubolari in
ferro.
Le cause di deterioramento sono riconducibili a quelle del monumento dell’Arizio. Anche in questo caso la pietra di Serrenti, che sommariamente sbozzata costituisce il sarcofago, è stata interessata da eguale consolidamento.
La rottura in due parti del medaglione-ritratto, lavorato a rilievo in marmo bianco
di Carrara, ha suggerito l’inserimento di due perni in acciaio inox e l’ incollaggio
con resina epossidica. Il medaglione è stato poi fissato con due staffe d’acciaio
nella sua collocazione originaria previo risanamento del muro.
Monumento di Emile Dubreucq, di autore ignoto, del 1909.
Il sarcofago, realizzato in piroclastite, è ricoperto da una lapide in marmo bianco
di Carrara, incisa con una dedica in lingua francese.
La pietra di Serrenti, di qualità inferiore a quella dei monumenti del Sartorio, suggerisce la realizzazione di un altro autore. I danni concentrati sulle pareti del sarcofago, caratterizzati da gravi scagliature ed esfoliazioni della superficie, hanno
sollecitato un intervento di infiltrazione a siringa e applicazione a pennello di
una microemulsione acrilica. Le mancanze profonde sono state riempite con
malte assimilabili alla pietra.
Progettista, Responsabile del
procedimento - Marcella Serreli
Assistente Tecnico Scientifico Antonia Giulia Maxia
Direttore tecnico per gli
interventi strutturali - Stefano
Montinari
Restauro - Abacus - Gerlinde J.
Tautschnig
Indagini Diagnostiche,
Università di Cagliari - Paola
Meloni
309
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Toscana
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA TOSCANA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Toscana
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Mario Lolli Ghetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Rosalba Tucci
Lungarno A.M. dè Medici, 4
50122 Firenze
Tel. 055 27189766
Fax 055 27189700
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Toscana
Soprintendente:
Fulvia Lo Schiavo
Centro di Restauro del Legno
Bagnato, Pisa
Direttore:
Andrea Camilli
Via della Pergola, 65
50121 Firenze
Tel. 055 23575
Fax 055 242213
[email protected]
www.archeotoscana.beniculturali.it
310
Cantiere delle Navi Antiche di Pisa e Centro di Restauro del
Legno Bagnato
Andrea Camilli
Il Cantiere delle Navi Antiche di Pisa nasce da una scoperta casuale, effettuata nel
1998 in seguito a scavi assistiti per la realizzazione di un edificio per la stazione
ferroviaria di Pisa – San Rossore. Lo scavo è iniziato con le modalità dell’archeologia di emergenza, incentrandosi principalmente sull’identificazione ed il recupero dei beni presenti nell’area del cantiere, mettendo in luce un consistente
numero di relitti. La comprensione della reale dimensione del deposito ha successivamente motivato il necessario abbandono del metodo d’intervento iniziale,
la sistematizzazione del progetto di scavo e la programmazione sul lungo periodo del completamento dell’indagine sul contesto.
Il deposito è senza dubbio un unicum archeologico sotto numerosi punti di vista.
Si tratta sostanzialmente di un consistente spessore di depositi di fondale fluviale
a matrice sabbiosa e limosa, alternati con complessi strati argillosi e sabbiosi di
origine alluvionale, all’interno dei quali sono conservate almeno 30 imbarcazioni,
tra quelle intere (almeno 9) e quelle in pezzi o semplicemente indiziate. La particolarità del deposito e la presenza di falde di acqua, microfiltrate dalla sabbia,
hanno consentito uno notevole grado di conservazione dei materiali organici,
sia a livello di imbarcazioni che di reperti organici minori (suppellettili di bordo,
oggetti in vimini ed in cuoio, contenuti delle anfore ecc.).
Il deposito archeologico, sulla base dei dati attualmente a disposizione, è da ritenersi un deposito di fondale fluviale, relativo ad un corso d’acqua minore (verosimilmente uno dei rami del Serchio), nel probabile punto di sbocco di uno
dei canali regolari inquadrati nella maglia centuriale pisana, a breve distanza dalla
città. Il rallentamento della corrente connesso con la confluenza dei corsi potrebbe aver generato un’area di addensamento, nella quale tendevano a raccogliersi i sedimenti e, di conseguenza, gli oggetti trasportati dalla corrente. In
concomitanza delle disastrose alluvioni dell’Arno (ne sono state identificate almeno sei), qui sono andate ad accumularsi, nel corso di almeno nove secoli, le
imbarcazioni, alcune delle quali ancora con i carichi a bordo.
Il contesto riveste considerevole importanza da un punto di vista archeologico
per una molteplicità di aspetti; anzitutto lo stato unico di conservazione delle imbarcazioni (la nave C, della quale è stato recentemente identificato il nome originale, Alkedo è sostanzialmente intatta, quasi completi gli scafi delle navi F, B,
I, D; si conservano grosse porzioni delle navi E, G, H, P ed A, numerosissime le
porzioni lignee riferibili ad altre imbarcazioni di vario tipo) ne fa una vera e propria enciclopedia dell’architettura navale.
La quantità di merci rinvenute fornisce un unico quadro dell’economia di un centro minore dell’occidente mediterraneo, così come le suppellettili di bordo e
gli oggetti di uso personale (sandali, casacche di cuoio), che forniscono preziosi
ed inediti dati sugli usi e costumi antichi. L’applicazione di nuove tecnologie
nell’ambito di un cantiere complesso, specie se questo riveste caratteri di una
certa urgenza, non è sempre facile né agevole; se da un lato, infatti, le sempre più
complesse modalità di spesa pubblica, con la loro tempistica e la loro macchinosità, conducono verso scelte obbligate ed espongono a forti critiche i diretti
responsabili dei cantieri, dall’altro mancano spesso voci univoche tali da fornire
indicazioni certe e chiare a cui fare riferimento, specie in un universo variegato
come quello della conservazione. La scelta generale effettuata sul cantiere pisano, quindi, è stata quella di mantenere la sperimentazione sul livello squisitamente meccanico e applicativo, mantenendo ed affinando tecnologie usuali o
già sperimentate con successo, ma affinandole e perfezionandole con la possibilità di un lavoro su larga scala e con risorse disponibili.
Ciò ha motivato la realizzazione di un centro dedicato alla applicazione su larga
scala delle metodologie di restauro del legno archeologico; il Centro di Restauro
del Legno Bagnato, che opera dal 2005 sul restauro di materiali organici provenienti da scavi in tutta Italia, oltre che, ovviamente dallo scavo delle navi, e serve
da supporto per percorsi formativi di professionalità collegate con il restauro e
le scienze applicate all’archeologia.
Attualmente il Centro di
Restauro del Legno collabora
con numerose strutture di
ricerca italiane e straniere.
311
Soprintendenza per i Beni Archeologici
della Toscana
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA TOSCANA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Toscana
Direttore Regionale:
Mario Lolli Ghetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Rosalba Tucci
Lungarno A.M. dè Medici, 4
50122 Firenze
Tel. 055 27189766
Fax 055 27189700
Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Toscana
Soprintendente:
Fulvia Lo Schiavo
Centro di Restauro del Legno
Bagnato, Pisa
Direttore:
Andrea Camilli
Via della Pergola, 65
50121 Firenze
Tel. 055 23575
Fax 055 242213
[email protected]
www.archeotoscana.beniculturali.it
*collaboratore SBAT
**Tecsette s.r.l.
312
Sperimentazione di tecnologia Laser scanner
e software per il restauro presso il Centro di Restauro del
Legno Bagnato, Pisa
Esmeralda Remotti*, Paolo Machetti**
Nell’ambito delle attività svolte dal Cantiere delle Navi Antiche di Pisa, sin dalle
prime fasi dei lavori, avviati come noto dal 1998, si è scelto di adottare, a fianco
della consueta documentazione grafica normalmente eseguita nel corso degli
scavi archeologici, tutte quelle tecniche, di tipo strumentale, che meglio si adattavano a restituire la pienezza delle informazioni necessarie ad una adeguata documentazione di reperti così particolari ed importanti. È stato così che il rilievo
delle imbarcazioni, eseguito sui relitti durante lo scavo, si è progressivamente
evoluto, nel corso di questi ultimi nove anni, con l’impiego di strumentazioni
dapprima di tipo squisitamente topografico, per poi passare all’utilizzo di più
moderni laser scanner. L’evoluzione strumentale ha chiaramente seguito il passo
dello sviluppo della moderna tecnologia e, assieme a nuove moli di dati, quantitativamente e qualitativamente sempre più numerosi, si sono andati delineando
nuovi problemi e soprattutto nuove domande, anche da un punto di vista dell’impostazione scientifica della ricerca. Come già sviluppato nell’intervento di A.
Camilli, nel Cantiere delle Navi Antiche di Pisa ad una prima fase di indagini direttamente scaturita dalle istanze di emergenza ed urgenza, è seguita una nuova
impostazione che ha visto, tra l’altro, la nascita, nella stessa sede, del Centro di
Restauro del legno Bagnato. Gli operatori che già seguivano nelle varie specialità
l’andamento dei lavori, e coloro che negli anni si sono aggiunti al gruppo originario, hanno dovuto sperimentare nuove soluzioni e rispondere a sempre nuove
problematiche. Tra queste la gestione dei dati di scavo e di quelli documentali
riguardanti i numerosissimi reperti rinvenuti, e si ricorda a questo proposito che
tra le peculiarità di questo sito archeologico vi è proprio la conservazione di materiali di natura organica di estrema rarità e delicatezza, ma anche i problemi
connessi con la diagnostica del degrado, la conservazione, il restauro ed il mantenimento di questo e di altri generi di manufatti antichi.
Per rispondere ad almeno alcune di queste problematiche, presso lo CNAP(1) è
stato avviato, da poco più di un anno, un progetto per la documentazione dei
reperti di natura organica, sulla base di tecnologie avanzate ed innovazione informatica. Tale progetto persegue due indirizzi differenti ma complementari: ra-
zionalizzare le metodologie di documentazione grafica e scientifica dei manufatti
archeologici di natura organica, ampliando le possibilità di diffusione delle informazioni ed amplificandone la confrontabilità scientifica con altri soggetti interessati da un lato, ed al contempo sviluppare strumenti di monitoraggio e controllo
dei reperti durante le varie fasi del restauro, ottimizzandone i risultati ed amplificando al massimo gli sforzi sperimentali e l’esperienza acquisita nel tempo all’interno del Centro di Restauro.
La base di partenza è costituita dall’acquisizione dei modelli tridimensionali dei
reperti attraverso l’utilizzo di tecnologia Laser Scanner. Questa tecnologia, che da
qualche anno ha visto una sempre maggior diffusione in campo archeologico, soprattutto nel rilievo architettonico monumentale, presenta numerosi vantaggi. Sicuramente i più evidenti sono costituiti dalla netta riduzione dei tempi di rilievo
su superfici molto ampie e, spesso, di difficile accesso, a fronte di una alta precisione dei risultati ottenuti. Inoltre la possibilità di produrre, a partire dal modello
tridimensionale, planimetrie e sezioni da infiniti punti di vista, rende vantaggiosa
l’applicazione di questo metodo su oggetti di grandi dimensioni, come nel caso
specifico del Cantiere di San Rossore, i relitti delle navi romane.
Per quanto riguarda le imbarcazioni è stato utilizzato uno scanner laser 3d che,
utilizzando la tecnologia del “tempo di volo” (TOF), permette di misurare oggetti
distanti fino ad alcune centinaia di metri, con precisioni millimetriche. Un ambito
meno sviluppato dell’applicazione del metodo di rilievo con scanner laser è
quello riguardante oggetti di dimensioni piccole e molto piccole, con caratteristiche di dettaglio molto elevato. È in questa direzione che si è incentrata la ricerca, con la convinzione che, in questi particolari casi, il vantaggio maggiore
sia offerto dall’alto gradi di precisione ottenibile, molto al di là di quanto sia possibile ottenere con un disegno tradizionale anche in presenza di operatori professionisti molto esperti. L’applicazione di metodi tradizionali infatti è giustificata
ed auspicabile ove la simmetria dell’oggetto, e la relativa rilevanza di rappresentare integralmente la sua superficie, rendono superfluo l’utilizzo di tecniche complesse(2). Al contrario, l’importanza di disporre della rappresentazione vettoriale
di ogni singola parte che costituisce il manufatto di natura organica spesso è fondamentale alla comprensione della funzione specifica e della catena operativa
di manifattura, in altre parole alla corretta comprensione del reperto stesso.
Il rilievo dei reperti organici ed in genere di tutti gli oggetti di piccola e media dimensione richiede indubbiamente un’accuratezza molto più elevata che permetta di restituire un modello finale 3d, ricco di particolari e perfettamente
identico all’originale, oltre alla necessità di escludere qualsiasi sistema di rilievo
che presupponga un contatto diretto della strumentazione con l’oggetto. Questo
ha condotto alla scelta dell’impiego di uno scanner che garantisse un elevata accuratezza (mm 0,05): uno strumento ottico a triangolazione, in grado di fornire
un idoneo modello geometrico tridimensionale del reperto.
L’immagine bidimensionale dei pattern deformati viene acquisita da una videocamera digitale ed elaborata con tecniche matematiche. Si dovrà effettuare più misure, da diversi punti di vista, al fine di coprirne tutta la superficie; le varie
acquisizioni, chiamate range maps, verranno poi messe insieme per ricostruire il
modello intero dell’oggetto. Una volta ottenuto il modello completo allineato è
necessario eliminare i punti ridondanti e procedere alla formazione di un reticolo,
passando da un modello costituito da punti ad una vera e propria superficie.
La sperimentazione è stata avviata, ad oggi, su manufatti di varia tipologia e funzione, tra cui alcuni cesti, spazzole e cuoi probabilmente riferibili ad indumenti.
Uno dei potenziali limiti dell’utilizzo di questa tecnologia è costituito dal fatto
che la visualizzazione, la gestione e l’analisi di questi modelli tridimensionali, richiede la conoscenza e la disponibilità di software applicativi molto complessi
313
1
2
Si desidera ringraziare, per il
supporto fornito nell’ambito
di questa sperimentazione, il
personale della SBAT e, in
particolare, G. Giachi, P.
Pallecchi, F. Fiesoli, F. Gennai
e A. Sentineri
Naturalmente l’impiego di
queste tecnologie nella
riproduzione di altri tipi di
materiali, quali ad es. la
ceramica o i metalli, offre
vantaggi di tipo diverso che
non vengono trattati in
questa sede
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Illustrators & Surveyors, 1987
314
e costosi che, di fatto, ne limitano l’utilizzo da parte degli studiosi e degli operatori del settore.
Per questo motivo il secondo passo previsto dalla sperimentazione in corso
presso lo CNAP è costituito dalla creazione del software applicativo dedicato,
Virtual View, la cui peculiarità principale è la semplicità di utilizzo e la facilità di
esecuzione di operazioni basilari, in modo da poter essere destinato anche ad
utenti non particolarmente esperti nell’utilizzo di software grafici. Questo software si propone quindi come complemento al servizio di rilevazione tridimensionale di reperti archeologici, costituendo un valido strumento di supporto per
il loro studio. Tramite l’acquisizione dei modelli 3D di formato standard, le funzioni dedicate alla visualizzazione permettono di poter interagire col modello
muovendolo in tutte le direzioni rispetto all’osservatore. E’ possibile applicare
differenti texture di colore al modello, con lo scopo di enfatizzare eventuali dettagli necessari alla miglior comprensione ed allo studio dell’oggetto stesso. Essenziale per un utilizzo completo della scansione tridimensionale è la possibilità
di effettuare delle misurazioni con una precisione molto elevata: si possono valutare tutte le caratteristiche metriche dell’oggetto nel suo insieme (come altezza,
spessore, ecc.) e misurare dettagli, come gli spessori di ogni singola fibra che
compone, ad esempio, un cesto. Sono in fase di sviluppo ulteriori prestazioni riguardanti output di stampa ed esportazione.
Come accennato, la scelta di procedere con una documentazione di questo
tipo, oltre ad essere finalizzata ad ottenere uno standard documentale di alto livello, è mirata all’ottenimento di nuove informazioni utili soprattutto nel campo
del restauro dei reperti.
L’esperienza acquisita presso lo CNAP ha mostrato come i reperti in legno e fibra
organica bagnati siano soggetti a deformazioni ed oscillazioni dimensionali anche
molto significative, con picchi critici in varie fasi, dalla scoperta alla definitiva
collocazione museale.
L’aver effettuato sin dalla scoperta “in situ”, una documentazione grafica ad alta
precisione di questo tipo ha il vantaggio di poter utilizzare gli stessi dati anche
per monitorare nel tempo l’oggetto: attraverso l’ausilio di un ulteriore specifico
software, può essere eseguita un’analisi di confronto tridimensionale, per verificare e calcolare le deformazioni positive e negative che si verificano su un oggetto. Questa tecnologia, che viene identificata con il nome di “Analisi della
Deviazione Standard”, simula il confronto tra modelli fisici, acquisiti in fasi diverse, con un apprezzamento di deformazioni fino mm 0,05. Il percorso che
permette di monitorare la conservazione del reperto ha inizio a partire dalla
prima scansione effettuata, che costituisce la base per i successivi controlli e ve-
rifiche: il confronto fra modelli può essere eseguito in tutte le fasi che intercorrono
dal ritrovamento “in situ” al processo di restauro/consolidamento, alle vicende
espositive e museali del manufatto. In pratica, i modelli virtuali ottenuti vengono
importati nel software e sovrapposti; il software è quindi in grado di misurare in
diverse posizioni la variazione di forma nel pezzo restaurato, esprimendola attraverso differenti metodi di visualizzazione.
Grazie quindi all’introduzione della tecnologia di analisi dello STD Deviation, è
possibile analizzare le variazioni di forma e dimensioni del reperto, così da poter
disporre di un costante monitoraggio sulla risposta ai trattamenti di consolidamento, sulla sua conservazione nel corso del tempo, nonché acquisire informazioni qualitativamente e quantitativamente mai ottenute prima, permettendo una
valutazione delle attuali metodologie di restauro su reperti organici.
Con l’impiego di un ulteriore software, in grado di simulare varie modificazioni
di forma ed apparenza degli oggetti scansionati, i modelli di rilievo tridimensionale possono essere impiegati per ricostruire e simulare virtualmente l’aspetto
originale di reperti ormai parzialmente perduti o fortemente deformati rispetto
alla morfologia originaria. Il processo virtuale può essere eseguito sul reperto
prima di un eventuale intervento integrativo, oppure permettere la lettura delle
deformazioni subite e, attraverso una sorta di “rimessa in forma”, di procedere ad
integrazione delle parti mancanti, ipotizzandone il volume e l’aspetto originari.
Nel caso di reperti riferiti a resti di abbigliamento, una particolare funzione, definita “object collision”, è in grado automaticamente di riconoscere ed utilizzare
la propria banca dati, riferita ai parametri dimensionali di un corpo umano piuttosto che a forme solide geometriche.
Il modello virtuale perfettamente fedele all’originale, può essere infine impiegato
come base informativa per la successiva fase di riproduzione del modello reale
a scopo didattico o espositivo.
Il processo ritenuto più idoneo per la maggior parte dei reperti è stato quello
della prototipazione rapida, realizzata mediante una stampante foto-polimerica,
grazie ad una combinazione di fine sviluppo chimico, meccanico ed elettronico
di precisione avanzata. Un software dedicato supporta tutto il processo, gestendone le geometrie complesse, come cavità, sporgenze, rientranze e le sezioni a
parete sottile. Il controllo di tutti questi parametri permette di ottenere un oggetto
perfettamente identico all’originale.
L’utilizzo di queste tecnologie, divenute oggi facilmente disponibili, apre quindi
nuove possibilità nel campo della documentazione archeologica e del restauro.
Per i manufatti in materiale organico, ci sembra veramente auspicabile la diffusione su ampia scala di sistemi di restituzione grafica basati su scansioni tridimensionali, con la possibilità di rendere graficamente dettagli tecnico-strutturali
che con un disegno manuale di tipo tradizionale non è possibile ottenere, migliorando la confrontabilità dei dati anche tra contesti differenti ed il monitoraggio completo degli oggetti, nel loro restauro ma anche nelle fasi espositive future.
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mestiere, Siena 2001
315
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico,
Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale
della città di Firenze
Progetto di Restauro della Villa Medicea di Careggi
Storici, Artistici ed Etnoantropologici)
Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici,
Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Firenze, Pistoia
e Prato (con esclusione della città di Firenze, per le competenze sui Beni
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELLA TOSCANA
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
della Toscana
Direttore Regionale:
Mario Lolli Ghetti
Coordinatore
per la Comunicazione:
Rosalba Tucci
Lungarno A.M. dè Medici, 4
50122 Firenze
Tel. 055 27189766
Fax 055 27189700
Soprintendenza per i Beni
Architettonici, Paesaggistici,
Storici, Artistici ed
Etnoantropologici di Firenze
(con esclusione della città,
per le competenze sui Beni
Storici, Artistici ed
Etnoantropologici),
Pistoia e Prato
Soprintendente:
Paola Grifoni
Piazza Pitti, 1
50122 Firenze
Tel. 055 265171
Fax 055 219397
[email protected]
Soprintendenza Speciale per
il Patrimonio Storico, Artistico
ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale
della città di Firenze
Soprintendente:
Cristina Acidini
Via della Ninna, 5
50122 Firenze
Tel. 055 23885
Fax 055 2388699
[email protected]
www.polomuseale.firenze.it
316
La villa di Careggi, fin dalla metà degli anni novanta, è stata oggetto di alcuni interventi di restauro promossi dalle Soprintendenze fiorentine, finalizzati alla salvaguardia degli ambienti più significativi per evitare che pervenissero a un così
accentuato stato di degrado da perdere irrimediabilmente parte dei loro caratteri
costruttivi e del loro valore artistico.
Tali lavori, riguardanti sia la struttura che gli apparati decorativi, hanno avuto inizio con
un pronto intervento relativo alle pitture murali dello studiolo e alla revisione delle
coperture della loggia ionica, e sono poi proseguiti con il restauro dell’intero corpo
di fabbrica della loggia, della sala terrena e del cortile di Michelozzo.
L’attuale piano di restauro della villa nasce invece dalla volontà della Regione Toscana, proprietaria dell’immobile dal 2004 che, al fine di conservare il complesso
e renderlo nuovamente fruibile, ha dato avvio a una proficua collaborazione tra
enti pubblici, incaricando la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici,
Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Firenze, Pistoia e Prato della stesura del
progetto esecutivo di restauro e la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze per
quanto concerne il progetto di restauro degli apparati decorativi.
Il progetto, basato sul principio della conservazione totale, nel rispetto della
struttura originaria e delle sue successive stratificazioni, prevede, oltre al ripristino
degli interni, anche il restauro della copertura e delle facciate, interventi utili ad
arginare l’avanzato stato di degrado e a preservare le caratteristiche di grande rilievo architettonico che contraddistinguono l’edificio, legato alla storia della famiglia Medici e dei proprietari che si sono succeduti.
Tali interventi saranno preceduti da una campagna di indagini diagnostiche tese
alla valutazione del comportamento strutturale, tanto per l’effetto dei carichi statici che per l’effetto dell’azione sismica al fine di valutare specifiche operazioni
di consolidamento.
All’interno della villa i saggi già condotti sugli intonaci delle numerose stanze
hanno evidenziato le varie manomissioni che il complesso ha subito nel tempo
rivelando, in alcuni vani, l’esistenza di apparati decorativi perfettamente leggibili
e ben conservati sotto le attuali tinteggiature che l’intervento di restauro riporterà
alla luce restituendoli alla visione del pubblico.
Inoltre, per quanto riguarda la pavimentazioni, le prime indagini effettuate hanno
evidenziato al di sotto di coloriture ottocentesche la presenza della originaria
pigmentazione alla veneziana.
Nell’ambito del progetto generale di recupero della villa è stata prevista – da
un’apposita Commissione composta da rappresentati della proprietà e delle Soprintendenze fiorentine – una futura destinazione museale con l’individuazione
di specifici percorsi per la visione dei prestigiosi ambienti favorendo, così come
previsto dalla normativa in materia di beni culturali, la fruibilità del complesso. La
villa di Careggi, infatti, rappresenta per la città di Firenze un bene di capitale importanza sia per la storia racchiusa tra le sue mura sia per il profilo artistico e architettonico delle sue strutture.
Si prevede inoltre, di destinare gli ambienti del sottotetto, ad accogliere l’esposizione permanente dei modelli lignei della mostra del “Giardino Storico Italiano”
del 1931, attualmente depositati presso la villa Medicea della Petraia.
La futura destinazione del complesso comporterà, pertanto, anche un’adeguata
trasformazione funzionale dell’edifico sia sotto l’aspetto impiantistico che tecnologico con interventi mirati che, nel rispetto dell’impianto originario, adattino la
struttura alla prospettiva della nuova funzione.
Progetto di restauro della villa
Soprintendenza per i Beni
Architettonici, Paesaggistici,
Storici, Artistici ed
Etnoantropologici di Firenze
(con esclusione della citta’, per
le competenze sui beni storici,
artistici ed etnoantropologici),
Pistoia e Prato
Soprintendenza Speciale per il
Patrimonio Storico, Artistico ed
Etnoantropologico e per il Polo
Museale della città di Firenze:
Soprintendente Cristina Acidini
Progettazione e
coordinamento.
Restauro architettonico:
Vincenzo Vaccaro
Restauro apparati decorativi:
Mirella Branca
Collaborazione alla
progettazione. SBAPSAE Franco Vestri, Francesco
Fortino, Rosella Pascucci, Mauro
Masini
Regione Toscana
Direzione Generale delle
Politiche formative, beni ed
attività culturali -Settore Beni
Paesaggistici Massimo Gregorini
317
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL’UMBRIA
Archivio di Stato di Perugia. Intervento
di disinfestazione di materiale archivistico mediante
trattamento anossico
Archivio di Stato di Perugia
Maria Grazia Bistoni
Direzione Regionale
per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Umbria
Direttore Regionale:
Francesco Scoppola
Piazza IV Novembre, 36
06123 Perugia
Tel. 075 575061
Fax 075 5720966
[email protected]
Direzione Generale
per gli Archivi
Direttore Generale:
Luciano Scala
Via Gaeta, 8a
00185 Roma
Tel 06 4969928
Fax 06 4882358
Archivio di Stato di Perugia
Direttore:
Clara Cutini Zazzerini
Piazza Giordano Bruno, 10
06100 Perugia
Tel. 075 5724403-5731549
[email protected]
archivi.beniculturali.it/aspg
318
Durante una ricognizione effettuata dal personale del laboratorio di Legatoria e
Restauro in alcuni dei depositi in cui è conservato materiale archivistico di particolare antichità e pregio, è stata rilevata, nella primavera scorsa, la presenza di
anobidi allo stato di larve e di insetto adulto. Si trattava di un attacco iniziale in
quanto i controlli di routine all’interno dei depositi sono frequenti e accurati, soprattutto in presenza di registri di grande formato, rilegati in assi di legno e tela
(catasti medioevali) o in assi di legno e pelle (consigli comunali) o in tutta pelle
(catasto pontificio settecentesco). E sono proprio il legno e le colle animali presenti all’interno delle legature ad attirare gli insetti e a costituire il necessario substrato in cui le colonie potrebbero insediarsi e proliferare. Si rendeva, pertanto,
necessaria una disinfestazione, da effettuarsi al più presto e in modo radicale, ma
la qualità del materiale interessato, ricco di decorazioni policrome e di miniature
e le giuste preoccupazioni di salvaguardia dell’ambiente, sconsigliavano l’uso
di qualunque gas che avrebbe potuto comportare un rischio, anche remoto, per
i manufatti, per le persone e per l’ambiente.
Dopo un’accurata indagine sui procedimenti in uso, la scelta è caduta sul Sistema
Zero2 proposto dalla ditta CI.A.R.T., un metodo che utilizza l’anossia per disinfestare beni culturali di particolare pregio. È, infatti, provato che riducendo la
presenza di ossigeno a valori inferiori allo 0,1% si ottengono condizioni letali
per qualunque specie di parassita. Basta, quindi, prolungare tale condizione
oltre la durata del ciclo biologico di un insetto per provocare la morte degli individui adulti e delle larve e per impedire la schiusa delle uova. La sottrazione di
ossigeno viene effettuata da uno speciale filmoplast entro cui viene avvolto il
materiale infestato, a formare “bolle” saldate ermeticamente; non vi è alcuna immissione di gas (nemmeno di azoto) e, conseguentemente, non si ha rilascio in
atmosfera di sostanze tossiche o da smaltire. Inoltre, non è stato necessario trasferire la preziosa documentazione dalla sede di conservazione in quanto il trattamento è stato effettuato nei locali seminterrati dell’Archivio stesso, dotati di un
microclima idoneo e costante.
Ai primi di novembre, grazie anche alla collaborazione fornita dalla Scuola di Lingue Estere dell’ Esercito Italiano, con sede in città, che ha messo a disposizione
alcuni militari per l’inscatolamento e il trasferimento del materiale nei locali prescelti, è stato effettuato il trasloco e sono state realizzate le “bolle”. I circa quattromila pezzi archivistici prelevati sono stati avvolti e sigillati in sette involucri di
grandi dimensioni (circa 6-7 metri per 2 di base e 2 di altezza) e lasciati per otto
settimane in condizioni di anossia. La presenza di ossigeno, che all’ inizio del trattamento oscillava tra il 17% e il 21%, è scesa sotto lo 0,5% nel giro dei primi 3-4
giorni stabilizzandosi, poi, tra lo 0,4% e lo 0,1%. Le condizioni ambientali, monitorate da termometri e termoigrometri inseriti in ciascuna bolla, indicavano una
temperatura e umidità pressoché costante, compresa tra i 16 e i 18°, la prima, e
tra il 57% e il 65% la seconda, con tendenza alla stabilizzazione assoluta.
Il personale tecnico dell’ Archivio di Stato di Perugia ha registrato e comunicato
quotidianamente, ove possibile anche per via telematica, i dati relativi a temperatura e umidità.
Nella seconda settimana di gennaio i tecnici della ditta hanno aperto le “bolle”,
lasciando il materiale nei locali di disinfestazione, ove è stato tenuto “in osservazione” per trenta giorni, durante i quali sono stati effettuati continui controlli per
verificare l’eventuale presenza di tracce di vita superstiti sul materiale trattato.
Sono stati rinvenuti alcuni insetti morti, ancora una volta in corrispondenza delle
legature ed entro un piatto, ma, per il resto, nessuna traccia di attività vitale. Trascorso il periodo di “osservazione”, nei giorni dal 9 al 13 febbraio, tutti i pezzi
sono stati ricollocati nei depositi di provenienza che, nel frattempo, erano stati
opportunamente trattati con presìdi medico - sanitari tradizionali.
Le caratteristiche dell’intervento, i cui vantaggi sono indiscutibili sotto ogni punto
di vista, meritano di essere fatte conoscere affinché anche nel trattamento dei
beni culturali si diffonda l’uso di metodiche sempre meno invasive e assolutamente compatibili con la presenza del personale e degli operatori e la salvaguardia dell’ ambiente.
319
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL VENETO
Biblioteca Marciana
La Biblioteca Marciana
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
del Veneto
Direttore Regionale:
Ugo Soragni
Coordinatori
per la Comunicazione:
Walter Esposito e Luigi
Marangon
Palazzo ex Reale
Piazza San Marco, 63
301224 Venezia
Tel. 041 3420101
Fax 041 3420122
[email protected]
Direzione Generale per i Beni
Librari, gli Istituti Culturali
ed il Diritto d’autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 3216779
Fax 06 3216437
[email protected]
Biblioteca Nazionale
Marciana
Direttore:
Maria Letizia Sebastiani
Piazzetta S. Marco, 13/a
ingresso dal Museo Correr Ala Napoleonica
30124 Venezia
Tel. 041 2407223
Fax 041 5238803
[email protected]
marciana.venezia.sbn.it
320
La Biblioteca Marciana (o Libreria di S. Marco) sorse in seguito alla donazione
del cardinale greco Bessarione, che nel 1468 offrì alla Repubblica di Venezia la
sua raccolta di circa 1.000 codici latini e soprattutto greci, affinché con essa si istituisse una biblioteca pubblica. Per ospitare il prezioso dono, lo Stato Veneto affidò a Jacopo Sansovino la costruzione di un grandioso edificio di stile classico,
che sorse fra il 1537 e il 1553 sulla Piazzetta San Marco di fronte al Palazzo Ducale.
La sala destinata ai libri venne decorata da tele del Tintoretto, del Veronese e di
altri pittori del Rinascimento, mentre nell’Antisala, ornata da un dipinto di Tiziano,
trovò posto alla fine del Cinquecento il Museo Statuario della Repubblica. I due
ambienti sono oggi sede di mostre e fanno parte del percorso integrato dei
Musei di Piazza San Marco. Successivamente alla donazione bessarionea la Marciana incrementò le sue raccolte grazie a numerose donazioni (tra le più importanti quelle di G. Contarini, G. Fabrici d’Acquapendente, G. B. Recanati, T. G.
Farsetti, A. Svajer, G. Nani), nonché per effetto dell’obbligo imposto agli stampatori di depositarvi un esemplare di ogni libro pubblicato (legge veneta del
1603). Dopo la caduta della Repubblica, la Biblioteca si accrebbe a seguito della
concentrazione in essa di parte delle biblioteche degli enti religiosi soppressi in
epoca napoleonica, fra cui particolarmente importante quella dei Domenicani
osservanti alle Zattere (Gesuati) in cui era confluita la ricca raccolta di A. Zeno.
Tra i lasciti ottocenteschi si ricordano quelli di G. A. Molin, G. Contarini, G. Rossi.
La Marciana rimase nella sua sede originaria fino al 1811; in quell’anno essa fu, per
decreto del Regno Italico, trasferita a Palazzo Ducale. Nel 1904 la sede della Biblioteca fu spostata nell’edificio della Zecca anch’esso costruito dal Sansovino:
qui oggi sono collocati i depositi librari, le sale di lettura e gli uffici. Nel 1924 la
Biblioteca riebbe anche il palazzo della Libreria e ottenne in aggiunta parte dell’edificio delle Procuratie Nuove. Ricchissima per quanto riguarda la cultura greca,
la storia veneta e l’editoria veneta, la Marciana (accresciutasi nel XX secolo attraverso importanti le donazioni di E. Teza e A. Tursi) svolge una funzione importante al servizio degli studiosi di tutto il mondo. Patrimonio: 900.000. ca. volumi
di cui 13.000 ca. manoscritti, 2.883 incunaboli, 24.055 cinquecentine, 3.731 periodici (quasi 900 correnti). Accesso banche dati su CD-Rom e in linea.
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DEL VENETO
Il restauro della Legatura bizantina con Cristo benedicente
e Vergine Orante della Biblioteca Nazionale Marciana di
Venezia*
La legatura preziosa del codice Lat. I, 100 è una delle cinque opere di oreficeria
bizantina un tempo appartenenti al Tesoro della basilica di San Marco come coperte di codici liturgici latini e greci, e assegnate alla Biblioteca Marciana tra il
1801 e il 1803 per volere del governo austriaco.
Realizzata in argento dorato e oro, con placche smaltate con tecnica cloisonné,
pietre preziose verdi e rosse tagliate a cabochon o a tavola con un gradino, e piccole perle, la sua manifattura è stata collocata dagli studiosi nella Costantinopoli
a cavallo tra il X e l’XI secolo. Essa misura, distesa, 30 x 47 cm.
I due piatti anteriore e posteriore mostrano al centro rispettivamente Cristo benedicente che regge un libro e la Vergine orante con un drappo bianco, la
mappa, legata alla cintura, contornati da una ricca serie di medaglioni: dieci apostoli, il profeta Elia e l’arcangelo Gabriele intorno al Cristo; i santi Giovanni Battista,
Giovanni Crisostomo, Gregorio, Basilio, Nicola, due apostoli, i genitori di Maria e
del Battista e l’arcangelo Michele intorno alla Vergine.
Giunto a Venezia secondo modi e momenti non precisati, questo capolavoro di
oreficeria ha legato al suo interno codici diversi nel corso dei secoli. Nel secondo
quarto del Trecento infatti un Evangelistarium ad usum ecclesiae Sancti Marci,
sontuosamente miniato su pergamena, veniva realizzato secondo il rito proprio
della basilica di San Marco e abbinato alla coperta bizantina.
Gravemente consumato dall’azione delle muffe, danno presente del resto in tutti
gli altri codici contenuti nelle legature preziose provenienti dal Tesoro della Basilica, il Lat. I, 100 negli anni ‘30 del Novecento venne scucito, integralmente restaurato e dotato di una moderna legatura nel Laboratorio dell’Abbazia basiliana
di Grottaferrata, mentre la coperta è stata da allora conservata staccata e distesa.
Gli smalti erano stati invece consolidati all’inizio degli anni ‘80 con Paraloid B72
al 3% in tricloroetano.
Il problema maggiore rimanevano però i depositi di sporcizia, polveri, materiali
resinosi, l’ossidazione diffusa delle superfici dorate che aveva appiattito la lettura
dell’opera, e gli accumuli di prodotti di alterazione dei metalli quali efflorescenze
saline, dannosi per la conservazione e che compromettevano la qualità estetica
dell’insieme.
Biblioteca Marciana
Silvia Pugliese
Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici
del Veneto
Direttore Regionale:
Ugo Soragni
Coordinatori
per la Comunicazione:
Walter Esposito e Luigi
Marangon
Palazzo ex Reale
Piazza San Marco, 63
301224 Venezia
Tel. 041 3420101
Fax 041 3420122
[email protected]
Direzione Generale per i Beni
Librari, gli Istituti Culturali
ed il Diritto d’autore
Direttore Generale:
Maurizio Fallace
Via Michele Mercati, 4
00197 Roma
Tel. 06 3216779
Fax 06 3216437
[email protected]
Biblioteca Nazionale
Marciana
Direttore:
Maria Letizia Sebastiani
Piazzetta S. Marco, 13/a
ingresso dal Museo Correr Ala Napoleonica
30124 Venezia
Tel. 041 2407223
Fax 041 5238803
[email protected]
marciana.venezia.sbn.it
321
* Tratto da M. Yanagishita,
S.Pugliese, Il restauro della
Legatura bizantina con
Cristo benedicente e
Vergine Orante della
Biblioteca Nazionale
Marciana di Venezia,
«Patrimonio di oreficeria
adriatica. Rivista di arti e
cultura», a. II, n. 2 (2008)
<http://www.oreficeriadriat
ica.it/>
Settore Educazione Formazione
Referente:Annalisa Cipriani
Coordinatrice Nazionale:Elena
Gaudio
Responsabile:Aldo Riggio
Via Sicilia 66
00187 Roma
[email protected]
322
La mostra Byzantium 330 – 1453, allestita a Londra dalla Royal Academy of Arts
dall’ottobre 2008 al marzo 2009, è stata l’occasione per intervenire con una sponsorizzazione sostenuta in buona parte dall’ente organizzatore della mostra.
Sono state inoltre realizzate nuove teche completamente trasparenti in plexiglas
per tutte e cinque le legature preziose marciane, per la loro conservazione sia nei
depositi sia in caso di mostra, in modo tale da proteggere meglio le superfici
metalliche da interazioni con il microclima degli ambienti espositivi.
L’intervento conservativo è stato eseguito dalla restauratrice di opere di oreficeria
Mari Yanagishita.
Esso è consistito in un pulitura approfondita e rispettosa della patina delle superfici metalliche, delle pietre e delle perle, eseguita dapprima con asportazione
meccanica e quindi con vari solventi applicati mediante tamponi di cotone idrofilo (diluente nitro, tricloroetilene, white spirit, ammoniaca al 5% in soluzione acquosa, etanolo, acetone e acqua demineralizzata); sono stati quindi
puntualmente verificati la stabilità meccanica di tutti gli elementi e lo stato di
conservazione degli smalti, risultato ottimo ad eccezione della placca con la
Vergine orante, dove sono presenti cadute e la superficie risulta ruvida. Per tale
motivo si è deciso di rimuovere dalle superfici smaltate il consolidante applicato
in passato, utilizzando acetone applicato a tampone.
Infine, in alcuni punti dove il filo che fissa le perle si presentava danneggiato e
lacunoso si è provveduto a integrarlo con nuovo filo d’argento 925/1000.
Il contributo costante di Italia Nostra al restauro dei Beni Culturali in Italia e all’estero, attraverso l’Associazione Europa Nostra di cui è membro fondatore,
nell’edizione odierna del Salone dell’Arte del Restauro, trova testimonianza a
campione nelle realtà regionali, dove l’Associazione ha promosso e attivato, risorse economiche e competenze scientifiche, sensibilizzato e responsabilizzato
gli Enti Locali per il recupero, restauro e messa in sicurezza del Patrimonio artistico presente sul loro territorio, con applicazioni diverse per tecnologie, materiali, processi diagnostici.
Nel 2009 Italia Nostra è impegnata nella Campagna nazionale “ Paesaggi sensibili”
a favore dell’Art.9 della Costituzione in cui le attività di Ricerca scientifica e Tutela
del Patrimonio, trovano la loro ragione fondante.
Qualche esempio:
Lombardia-sezione di Milano “Il Contributo di Italia Nostra alla riscoperta della
Sala delle Asse nel Castello Sforzesco” con orgoglio, Italia Nostra grazie ancora
una volta all’attivazione del Fondo Monti, ha concorso insieme all’Opificio delle
Pietre dure di Firenze, all’indagine diagnostica per l’accertamento delle condizioni di conservazione degli affreschi violuti dal Moro ed eseguiti da Leonardo
da Vinci. Quest’opra vede adesso l’impegno diretto del MIBAC, e il finanziamento dell’Azienda energetica A2A, sponsor del restauro simbolo della città di
Milano perl’Expo 2015.
Toscana-sezioni dell’Isola d’Elba e Giglio “Campagna di sottoscrizioneper il restauro di tre preziose opere custodite nella chiesa di San Pietro Apostolo nell’Isola del Giglio”:
“Deposizione”Olio su tela scuola veneta , XVII secolo
Crocifisso eburneo già attibuito al Gianbologna, opera d’artista dell’area fiamminga, XVII secolo
“Annunciazione”Olio su tela, dipinto nella prima metà del XVII secolo
Emilia Romagna-sezione di Cesena gruppo di Sant’Arcangelo di Romagna e Sezione Vallate Uso Rubicone
“Recupero e messa in sicurezza del patrimonio ipogeo della città di Sant’Arcangelo”:
Dal 1987 l’Associazione ha promosso in collaborazione con il Comune, un attività
di rilievo sistematico degli Ipogei tufacei (grotte) del Colle Giove, completato
nel 1994 con il Servizio Provinciale Difesa del suolo di Rimini; da questa prima ini-
Italia Nostra
Associazione Nazionale Italia Nostra
Italia Nostra
Settore Educazione
Formazione
Referente:
Annalisa Cipriani
Coordinatore
Nazionale:
Elena Gaudio
Responsabile:
Aldo Riggio
Via Sicilia, 66
00187 Roma
[email protected]
323
ziativa è nata la riqualificazione e valorizzazione di percorsi ipogei, in un itinerario
che abbraccia oramai quattro regioni
(Emilia-Romagna, Marche, Basilicata, Puglia)
“Laboratorio diagnostico sul degrado del moderno”: in collaborazione con le
Università di Genova, Chieti, Torino. Primo campo di sperimentazione, le Colonie
marine, un patrimonio storico e architettonico della prima metà del 900.
Lazio-Sezione di Roma Progetti Settore nazionale Educazione Formazione:
“Recupero funzionale di organi idraulici nelle Ville storiche, l’esempio di Villa
Doria Phamphilj” dal Quirinale a Tivoli, gioelli di ingegno scientifico e artistico da
riportare al godimento pubblico
“Restauro cinematografico e audiovisivo del documentario Pasolini e la forma
della città” in collaborazione con Rai Teche e la Cineteca di Bologna. Una prima
proposta e attenzione allla salvaguardia dimateriali facilmente deteriorabili
“Il Suono della scienza”un progetto inerente la tutelA DEL Patrimonio archivistico
sonoro.Il campo applicativo di quest’indagine è circoscritto agli albori della produzione discografica, ancor prima del fonografo elettrico,, in cui la sopravvivenza
del documento è affidata esclusivamente alle testimonianze a stampa, pervenute(cilindri a cera,, lacche a 78 giri, rarissimi casi di matrici originali) in mancanza
dei master originali perduti e comunque precedenti alla registrazione elettrica
su nastro magnertico. Il Settore Educazione formazione in partner ship con un
prestigioso politecnico italiano, può coordinare un gruppo di ricerca in convenzione per esperimento d’avanguardi
324
L’Italia è considerata, non a torto, la culla della cultura occidentale. Il carattere
policentrico della nostra storia ha avuto come effetto di distribuire capillarmente
la produzione di beni mobili e immobili: degli ottomila comuni italiani, quasi
settemila sono stati fondati prima del XVI secolo, per cui tutto il nostro territorio
può essere considerato un paesaggio culturale, che testimonia l’incontro e la
contaminazione di tradizioni diverse. Purtroppo numerose opere d’arte di indubbio valore sono nascoste in centri minori, collocati fuori dai grandi circuiti e
rischiano di cadere nell’oblio e nel degrado. Salvalarte, la ‘veterana’ tra le iniziative di Legambiente sui beni culturali, vuole contribuire alla scoperta di questi tesori nascosti, alla loro tutela e alla loro valorizzazione, nella convinzione che il
recupero dei beni culturali (intesi anche come sapori, tradizioni, paesaggi) rappresenta la carta vincente per creare nuove forme di occupazione durevoli, per
costruire uno sviluppo economico solido e ambientalmente compatibile e per
trovare forza e fiducia nelle nostre radici culturali. Salvalarte nasce proprio da
questa consapevolezza e da questa sfida: trasformare il nostro patrimonio artistico da pesante eredità del passato a investimento per il futuro.
A Salvalarte, dal 1997 Legambiente ha affiancato una vasta azione nel campo
della protezione civile dedicata alla difesa del patrimonio culturale: le nostre
squadre, formate grazie alla collaborazione con il Dipartimento della Protezione Civile, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e numerosi Enti Locali,
sono intervenute in occasione del terremoto delle Marche e dell’Umbria e di
quello del 2002 in Molise, contribuendo alla messa in salvo e in sicurezza dei
beni culturali colpiti. Altro settore in cui Legambiente vuole tenere alta l’attenzione sono i musei, per questo dal 2001 Salvalarte ha lanciato la campagna
Salvailmuseo. Non sempre si considera che le opere d’arte esposte all’aperto
sono sottoposte agli agenti inquinanti come il particolato che annerisce i
marmi o l’anidride solforosa che corrode e sbriciola la pietra di statue e monumenti. Ma anche le strutture museali, pensate per proteggere capolavori del
passato dall’usura del tempo, non sempre riescono a sottrarsi alla pressione
dell’inquinamento atmosferico, che penetra in queste roccaforti dell’arte alterandone la qualità degli ambienti. In questi anni sono stati oltre i 30 i musei sottoposti a rilevamento. Infine, un ulteriore interesse di Legambiente è quello di
favorire modelli rispettosi e consapevoli di fruizione dell’immensa ricchezza
di arte e cultura custodita nel nostro Paese. Per questo dal 2003 promuove il
Decalogo Salvalarte, un codice di comportamento responsabile per la valorizzazione, tutela e fruizione dei luoghi e siti culturali che viene distribuito
nelle scuole nonché in alcuni musei che lo hanno “adottato”. Salvalarte, oltre
a denunciare ciò che non va, in numerose occasioni è riuscita a restituire pezzi
di storia. Sono ormai moltissimi i monumenti segnalati nel corso degli anni da
Legambiente, tesori che costituiscono la memoria di intere generazioni vissute
per secoli in comuni che hanno scritto la storia dell’Italia e che oggi rischiano
una perdita d’identità a causa di una forzata urbanizzazione centripeta. Nel
corso degli anni Salvalarte con i suoi dibattiti, conferenze e le sue iniziative di
sensibilizzazione è riuscita strappare al declino importantissime testimonianze
storiche come i bacini ceramici medievali del campanile di Sant’Oliva a Cori
(LT), databili tra il XII e XIV secolo e considerati la più antica testimonianza di
ceramica di età medievale nel Lazio. Molto belle anche le meridiane ad Arceto
(RE), dove sono state restaurate e bellissime meridiane, una ad ore francesi,
l’altra ad ore italiche, poste sulla facciata della Chiesa Parrocchiale di Arceto
in Scandiano. Altro esempio che potrebbe essere citato è l’affresco di Santa
Caterina d’Alessandria a Bodolato (CZ), un affresco del XV secolo restaurato
Legambiente
Legambiente
Responsabile Nazionale
Beni Culturali:
Federica Sacco
Via Salaria, 403
00199 Roma
06 86268367
06 86218474
[email protected]
www.legambiente.eu
325
e restituito alla fruizione dei cittadini. L’affresco è rimasto per anni coperto
sotto strati di stucco ed è stato rinvenuto per pura casualità.
Da questo contesto di interesse e di iniziativa, nasce la scelta di dedicare un
convegno al tema delle attività di restauro e di conservazione dei beni culturali,
che evocano al tempo stesso un’eccellenza italiana ma anche elementi di problematicità ambientale. Eccellenza perché l’Italia è riconosciuto in tutto il mondo
per avere scuole di Alta Formazione dove vengono insegnate le metodologie e
le tecniche di restauro più avanzate e da dove escono professionisti di assoluto
valore. Problematicità perché, per esempio, molte sostanze utilizzate nel restauro
possono recare danni alla salute degli operatori e anche per la delicatezza da osservare nello smaltimento dei materiali di restauro. Gli studi e le ricerche realizzati
in passato hanno condotto ad eliminare dal mercato numerosi prodotti pericolosi, ma la scommessa ancora da vincere è di raggiungere livelli più elevati di tutela della salute di chi lavora in questo campo. L’ambientalismo scientifico è da
sempre per Legambiente la base del modo d’intendere la propria missione. Affrontare il tema del restauro anche rispetto agli impatti ambientali e sanitari è una
naturale conseguenza di questo approccio. Questa riflessione viene dal fatto
che già da qualche anno la chimica verde viene considerata come un nuovo traguardo della ricerca e delle politiche industriali per sostituire quei prodotti di
origine sintetica o minerale a forte impatto ambientale e tossicità, con omologhi
prodotti di origine vegetale (dunque da materie prime rinnovabili) atossici e a
biodegradabilità molto elevata. Il ventaglio di tali prodotti è molto ampio: ad
esempio lubrificanti, coloranti, cosmetici, detersivi, fibre, fitofarmaci, materiali
isolanti, carburanti, combustibili e da qualche anno iniziano ad affacciarsi sul
mercato anche prodotti utilizzati per il restauro.
Inoltre non si deve dimenticare che la promozione di filiere locali di chimica
verde, oltre ad aprire nuove prospettive applicative con interessanti ricadute
economiche, può offrire un contributo decisivo a uno sviluppo più sostenibile
con alcuni obiettivi qualificanti quali: la riduzione dei fattori di rischio per la salute
dei cittadini e degli operatori connessi all’uso attuale di sostanze iperallergeniche
in numerosi processi produttivi, estrattivi e nei trasporti; inoltre la riduzione di
gravi problemi di inquinamento delle acque e dell’aria particolarmente accentuati
in alcuni distretti industriali causati dall’ impiego di derivati dagli idrocarburi e di
altri prodotti di sintesi.
L’intenzione è quella di focalizzare l’attenzione sugli aspetti critici per l’ambiente
e per la salute di alcune attività del mondo del restauro, evidenziando possibili
alternative per ridurre il rischio delle attività connesse al loro uso. Le problematiche relative alla salute dei lavoratori sono state recentemente trattate anche dall’Ispesl (una ricerca completata da questo Istituto ha definito il profilo di rischio
delle attività di restauro); a questo si lega anche il problema dell’utilizzo di sostanze tossiche disperse in ambiente che comportano un ingente costo sociale.
Con Salvalarte Legambiente, oltre ad occuparsi della tutela e della valorizzazione
del patrimonio artistico, vuole porre attenzione anche sulla tutela dell’ambiente
e dei restauratori.
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Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale è stato istituito nel 1969, precedendo in tal modo di un anno la Convenzione Unesco di Parigi del 1970, con
la quale si invitavano, tra l’altro, gli Stati Membri ad adottare le opportune misure
per impedire l’acquisizione di beni illecitamente esportati e favorire il recupero
di quelli trafugati, nonché a istituire uno specifico servizio a ciò finalizzato.
Il Comando, inserito funzionalmente nell’ambito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali quale Ufficio di diretta collaborazione del Ministro, svolge compiti
concernenti la sicurezza e la salvaguardia del patrimonio culturale nazionale attraverso la prevenzione e la repressione delle violazioni alla legislazione di tutela
dei beni culturali e paesaggistici. Il particolare settore di tutela è un comparto di
specialità che è stato affidato in via prioritaria all’Arma con Decreto del Ministero
dell’Interno del 12 febbraio 1992, successivamente ribadito con Decreto del 28
aprile 2006 del medesimo Ministero, che, nel confermare il ruolo di preminenza
dell’Arma nello specifico settore, ha attribuito al Comando CC TPC la funzione di
polo di gravitazione informativa e di analisi a favore di tutte le Forze di Polizia.
Il Comando è composto da militari in possesso di qualificata preparazione, acquisita
con la frequenza di specifici corsi in materia di “Tutela del Patrimonio Culturale”, organizzati d’intesa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. L’attuale articolazione del
Comando Carabinieri TPC prevede a livello centrale un Ufficio Comando, quale organo
di supporto decisionale del Comandante nell’azione di comando, controllo e coordinamento delle attività di istituto in Patria ed all’estero, un Reparto Operativo con una
competenza territoriale areale, nonché di coordinamento operativo sull’intero territorio
nazionale per le indagini di più ampio spessore (a sua volta suddiviso in tre sezioni
Antiquariato, Archeologia, Falsificazione e Arte Contemporanea) e, a livello periferico,
12 nuclei, con competenza regionale o interregionale, ubicati a Bari, Bologna, Cosenza,
Firenze, Genova, Monza, Napoli, Palermo, Sassari, Torino, Venezia ed Ancona, ed una
Sezione a Siracusa, di recente istituzione, alle dipendenze del Nucleo TPC di Palermo.
Reparto
Indirizzo
Telefono/Fax
e-mail
Competenze
territoriali
Comando CC
TPC Roma
Tel.06.6920301 [email protected]
Roma
Piazza di Sant’Ignazio, Fax 06.69203069
152
Reparto CC TPC
Roma
Roma,
Via Anicia, 24
[email protected]
Tel.06.585631
Fax 06.58563200
Lazio
Abruzzo
Nucleo CC TPC
Torino
Torino,
Via XX Settembre, 88
Tel.011.5215636 [email protected]
Fax 011.5170000
Piemonte
Valle D’Aosta
Nucleo CC TPC
Monza
Monza,
Via Brianza, 2
Tel.039.2303997 [email protected] Lombardia
Fax 039.2304606
Nucleo CC TPC
Venezia
Venezia
P.zza S. Marco, 63
Tel.041.5222054 [email protected]
Fax 041.5222475
Veneto
Trentino A. A.
F. V. Giulia
Nucleo CC TPC
Genova
Genova,
Via S. Chiara, 8
Tel.010.5955488 [email protected]
Fax 010.5954841
Liguria
Nucleo CC TPC
Bologna
Bologna,
Via Castiglione, 7
Tel.051.261385
Fax 051.230961
Nucleo CC TPC
Ancona
Ancona,
Via Pio II
Pal. Bonarelli
Tel.071/201322 [email protected]
Fax 071/2076959
Nucleo CC TPC
Firenze
Firenze,
Via Romana, 37/a
Tel.055.295330
Fax.055.295359
[email protected]
[email protected]
CCTPC
Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale
Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale
CCTPC - Comando Carabinieri
Tutela Patrimonio Culturale
Comandante
Gen. Giovanni Nistri
Piazza Sant’Ignazio, 152
00186 Roma
Tel. 06 6920301
Fax 06 69203069
[email protected]
www.carabinieri.it
Emilia
Romagna
Marche
Toscana
Umbria
327
Nucleo CC TPC
Napoli
Napoli,
Via Tito Angelici, 20
Tel.081.5568291 [email protected]
Fax.081.5784274
Campania
Nucleo CC TPC
Bari
Bari,
P.zza Federico II, 2
Tel.080.5213038 [email protected]
Fax.080.5218244
Puglia
Molise
Basilicata
Nucleo CC TPC
Cosenza
Cosenza,
Via Colletriglio, 4
Tel.0984.795548 [email protected]
Fax.0984.784161
Calabria
Nucleo CC TPC
Palermo
Palermo,
C.so Calatafimi, 213
Tel.091.422825
Fax.091.422452
Sezione CC TPC Siracusa,
P.zza Federico di
di Siracusa
Svevia snc
c/o Castello Maniace
Nucleo CC TPC
Sassari
Sassari,
Strada Prov.le
La Crucca, 3
[email protected]
Sicilia prov. di:
Agrigento
Caltannisetta
Enna
Palermo
Trapani
Tel.0931.463418 [email protected]
Fax.0931.461256
Sicilia prov. di:
Siracusa
Ragusa
Messina
Catania
Tel.079.3961005 [email protected]
Fax.079.395654
Sardegna
Il Comando CC TPC espleta i suoi compiti per la protezione e la salvaguardia del
patrimonio culturale attraverso molteplici modalità operative che possono riassumersi in:
- controlli di aree archeologiche e di attività commerciali, fisse e ambulanti;
- attività investigativa specialistica volta al recupero di beni culturali e oggetti
d’arte, anche attraverso il monitoraggio di siti web dedicati;
- gestione della Banca Dati dei beni culturali illecitamente sottratti (art.85 D.Lgs.
42/2004);
- consulenza specialistica a favore del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
e dei suoi organi territoriali.
In particolare, le attività condotte sono indirizzate principalmente a:
- individuare i responsabili dei reati perpetrati in danno dei beni culturali (quali
furti, ricettazioni, scavi archeologici illegali, falsificazioni) e deferirli all’Autorità
Giudiziaria;
- recuperare i beni culturali sottratti o esportati illecitamente dal territorio nazionale, estendendone le ricerche anche all’estero, nei limiti stabiliti dalle diverse
convenzioni e nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra gli Stati, attraverso
i Ministeri degli Affari Esteri e della Giustizia, nonché, mediante INTERPOL, con
le Forze di Polizia delle altre Nazioni;
- contribuire all’individuazione di violazioni alle norme di tutela paesaggistica;
- effettuare controlli in occasione di mostre e di mercati d’antiquariato, sui cataloghi delle più importanti case d’asta, anche on-line, nonché presso antiquari
e presso laboratori di restauro e di altri operatori del settore;
- effettuare servizi di prevenzione dei reati in aree archeologiche particolarmente
sensibili, in cooperazione con l’Arma territoriale, il Raggruppamento Aeromobili
Carabinieri, le pattuglie a cavallo ed altri mezzi dell’Arma, anche navali.
Il Comando CC TPC conduce attività all’estero, non solo nell’ambito della cooperazione internazionale di polizia, ma anche per:
- supporto speciali
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Opuscolo Ferrara 2009 - Ministero dei Beni e le Attività Culturali