Il quaderno didattico
A Pavia sulle orme dei Longobardi
è stato elaborato dalla prof.ssa Elena Necchi, docente di scuola secondaria,
che lo ha gentilmente messo a disposizione
di studenti e docenti interessati all’argomento.
A PAVIA SULLE ORME DEI LONGOBARDI
Percorso interdisciplinare per la Scuola secondaria di Primo Grado
A cura di Elena Necchi
In copertina: Parigi, Biblioteca Nazionale (miniatura del secolo XVI): Carlo Magno
conquista la città di Pavia e pone fine al regno dei Longobardi
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INDICE
INTRODUZIONE
p. 4
I.
UN POPOLO VENUTO DAL NORD
p. 5
II.
PAVIA CAPITALE
p. 13
III.
IN CAMMINO
p. 15
IV.
AL LAVORO
p. 38
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
p. 39
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INTRODUZIONE
Il presente opuscolo è un itinerario in Pavia e provincia alla scoperta delle testimonianze
del glorioso passato della città quale capitale del regno longobardo per due secoli (572 –
774). Non ci riferiamo a evidenze di grande imponenza monumentale, bensì a frammenti
architettonici, scultorei e pittorici quasi sempre nascosti sotto il peso di costruzioni più
recenti, le quali talvolta rischiano talvolta di sovrapporsi irreparabilmente alle tracce di un
passato ormai remoto ma meritevole di essere richiamato alla memoria. Destinatari sono
tutti, ma soprattutto i giovani studenti delle scuole dell’obbligo. La scelta di rivolgersi ai
giovani deriva in gran parte dalla constatazione di come, troppo spesso, i ritmi della
quotidianità impediscano di rivolgere lo sguardo al passato e alle nostre matrici culturali.
Così, per molti dei nostri studenti la città diventa luogo di un frenetico pellegrinaggio le
cui tappe sono scandite solamente da negozi e luoghi di divertimento. Senza assumere
toni polemici o antiprogressisti, desideriamo fornire un piccolo contributo alla
formazione nelle nuove generazioni dell’attitudine a una più consapevole fruizione del
loro territorio, animata da un occhio attento a cogliere le vestigia delle più lontane radici.
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I
UN POPOLO VENUTO DAL NORD
1. DALLA SCANDINAVIA AL CENTRO EUROPA
Secondo antiche tradizioni i Longobardi in origine si chiamavano winnili e abitavano la
Scandinavia meridionale. Sotto la guida dei fratelli Ibor e Aio, figli di Gambara,
migrarono verso sud, sulle coste meridionali del Mar Baltico, e si stabilirono in Scoringa
(l'area della foce dell'Elba o, più probabilmente, la fascia costiera di fronte all'isola di
Rügen). Presto vennero in conflitto con i vicini Vandali, anch'essi Germani, e si
trovarono in difficoltà poiché il loro valore non bastava a compensare l'esiguità
numerica. Narra la leggenda che i capi dei Vandali pregarono Odino di concedere loro la
vittoria, ma il dio supremo disse che avrebbe decretato la supremazia del popolo che
avesse visto per primo il mattino della battaglia. Gambara ed i figli invece ricorsero alla
moglie di Odino, Frigg, che diede loro il consiglio di presentarsi al sorgere del sole,
uomini e donne insieme, le donne coi capelli sciolti fin sotto il mento come fossero
barbe. Al sorgere del sole Frigg fece sì che Odino si girasse dalla parte dei Winnili, e
questi quando li vide chiese: "Chi sono quelli con le lunghe barbe?" (cfr. antico
germanico Langbärte). Al che la dea rispose: "Poiché gli hai dato un nome, concedi loro
anche la vittoria". Il primo contatto dei Longobardi con i Romani risale al 5 d. C.,
durante la campagna germanica di Tiberio. Erano stanziati sul basso corso dell'Elba,
nell'attuale Germania settentrionale, e furono descritti come più feroci ancora degli altri
Germani. Vennero quindi inclusi fra le popolazioni coinvolte nella prima campagna
(167–169) di combattimenti fra le legioni romane di Marco Aurelio e numerosi popoli,
tra cui spiccavano Marcomanni, Quadi, Vandali e Sarmati, i quali premevano ai confini
dell'Impero romano. La guerra, che chiudeva un lunghissimo periodo di pace, mise in
evidenza il valore dei Longobardi, e al tempo stesso consentì loro di conoscere nuove
regioni, di apprendere nuove tattiche militari e, soprattutto, di arricchirsi con le razzie.
Dopo la sconfitta dei Marcomanni, rimasero presso l'Elba fino alla seconda metà del IV
secolo, anche se la loro migrazione verso sud aveva già avuto avvio agli inizi del III.
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2. MIGRAZIONE VERSO SUD
Fig. 1 La migrazione dei Longobardi
Per il periodo successivo la storia dei Longobardi è sostanzialmente sconosciuta. Nella
seconda metà del IV secolo furono cristianizzati da monaci ariani, i quali professavano
una fede religiosa differente rispetto al cattolicesimo della Chiesa di Roma: si
opponevano al dogma della Trinità, proclamato al Concilio di Nicea del 325, secondo il
quale il Padre e il Figlio sarebbero uguali. Nella stessa fase si avviò anche la
trasformazione della loro organizzazione tribale verso un sistema guidato da un gruppo
di duchi che comandavano proprie bande guerriere sotto un sovrano, il quale ben presto
si trasformò in un re vero e proprio: eletto, come generalmente accadeva in tutti i popoli
indoeuropei, per acclamazione dal popolo in armi, aveva un controllo generalmente
debole sui duchi. Nel 488-493 i Longobardi "ritornarono" alla storia, stanziati nelle terre
lasciate libere dai Rugi nel Norico (corrispondente all'attuale Bassa Austria). Per la prima
volta entrarono in un territorio marcato dalla civiltà romana. In quel momento, infatti, a
causa delle lotte in Italia fra Odoacre e Teodorico, si era verificato un vuoto di potere a
nord del Danubio. All'epoca, i Longobardi erano ormai una vasta tribù che, nel corso di
progressivi spostamenti, aveva inglobato o sottomesso diversi individui, gruppi e forse
anche intere tribù, germaniche o di altra origine, incontrate durante la migrazione. Giunti
nel Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i nuovi vicini, gli Eruli, e finirono per
stabilirsi nel territorio detto situato ad oriente di Vienna. Sotto il re Tatone, sfidato e
insultato dal re degli Eruli Rodolfo, si sollevarono e li sterminarono, eliminando anche
lo stesso Rodolfo (508). La sconfitta degli Eruli fu tale da causare la scomparsa di questo
popolo dalle cronache, mentre i Longobardi accrebbero la loro ricchezza ed importanza
in modo considerevole. Tra l’altro, il contatto con gli Eruli permise ai Longobardi di
aderire progressivamente al cattolicesimo fin dal VI secolo. Verso il 510 Tatone fu
ucciso dal nipote Vacone, che si autoproclamò re e, assicuratosi un potere su un
territorio che dalla Boemia arrivava all’odierna Ungheria, divenne uno dei più importanti
sovrani d'Europa. Alla sua morte (540) il figlio Valtari era minorenne, e quando anni
dopo morì il suo reggente, Audoino usurpò il trono ignorando i diritti dei Letingi. La
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situazione politica erodeva lo spazio di manovra dei Longobardi, col sempre crescente
potere dei Franchi, i quali, accordatisi con il nuovo re ostrogoto Totila, erano riusciti a
occupare il Norico e a fare ulteriori passi in Italia settentrionale, mettendo così anche a
rischio i piani dell’imperatore d’Oriente Giustiniano sull'Italia. Audoino cambiò
totalmente il quadro delle alleanze del predecessore, accordandosi (nel 547 o nel 548)
con Giustiniano per occupare, in Pannonia, la Provincia Savia (il territorio che si stende
fra i fiumi Drava e Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente contro i
vecchi alleati Franchi e Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di
comunicazione sicure con l'Italia. Nel 567 un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da
ovest, gli Avari da est) si concluse con due sanguinose battaglie, entrambe fatali ai
Gepidi, che scomparivano così dalla storia. Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il
loro territorio, salvo il litorale dalmata che tornò ai Bizantini.
3. L’INVASIONE DELL’ITALIA
Sconfitti i Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per Alboino, che al loro posto
aveva dovuto permettere l’insediamento dei meno pericolosi Avari; dalla feroce
campagna non aveva ricavato nient'altro che gloria. I suoi vassalli, che vedevano gli
Avari impossessarsi del bottino per cui avevano combattuto, cominciarono a mostrarsi
poco convinti della sua guida. Decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia,
appena devastate dalla sanguinosissima Guerra gotica e quindi meno pronte ad una
difesa a oltranza. Per guardarsi le spalle, si accordò ancora con gli Avari, che poterono
stanziarsi nella Pannonia (odierna Ungheria), lasciata dai Longobardi (e quindi tagliare le
linee di comunicazione di Bisanzio); in caso di ritorno dei precedenti proprietari, gli
Avari avrebbero dovuto restituire la regione. Nella primavera del 568 i Longobardi,
sempre guidati da Alboino, invasero l'Italia attraversando l'Isonzo. Insieme a loro c'erano
contingenti di altri popoli, come ventimila Sassoni che per lo più rimasero sempre in
qualche modo separati da loro (fino a che lo scoppio di disaccordi sul loro diritto a non
essere assorbiti non portò alla loro ritirata a nord delle Alpi, nel 573). La prima città a
cadere nelle mani dei longobardi fu Cividale del Friuli (Forum Iulii), dove Alboino insediò
un nipote come duca. Poi cedettero, in rapida successione, Aquileia, Treviso, Vicenza,
Verona. Nel settembre 569 aprirono le porte Milano e Lucca. Dopo tre anni di assedio,
nel 572 anche Pavia cadde e Alboino ne fece il centro più importante del suo regno, una
capitale. Gli Ostrogoti che erano rimasti in Italia non opposero strenua resistenza, vista
la scelta fra cadere in mano ai Longobardi, dopotutto Germani come loro, o restare in
quelle dei Bizantini. Alcune eccezioni tuttavia si verificarono. I Longobardi proseguirono
la loro conquista discendendo la penisola fino nell'Italia centro–meridionale. I Bizantini
non riuscirono a resistere agli invasori perché erano carenti di truppe e perché erano
impegnati in altre operazioni di guerra, ma conservarono alcune zone costiere dell'Italia
continentale: l'Esarcato (la Romagna, con capitale Ravenna), la Pentapoli (comprendenti
i territori costieri dell’Emilia-Romagna e delle Marche e le cinque città di Ancona,
Pesaro, Fano, Senigallia e Rimini), parte del Lazio e dell’Italia meridionale (le città della
costa campana, Salerno esclusa, la Puglia e la Calabria). Così l'Italia si trovò divisa tra i
conquistatori giunti dal nord e i Bizantini, secondo confini che nel corso del tempo
subirono notevoli oscillazioni. I nuovi venuti si ripartirono tra la Langobardia Major
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(l'Italia settentrionale e il Ducato di Tuscia) e Langobardia Minor (i ducati di Spoleto e
Benevento), mentre la terra rimasta sotto controllo bizantino (Romània) aveva come
fulcro l'Esarcato di Ravenna. Nel 572, dopo la capitolazione di Pavia e la sua elevazione
a capitale del regno, Alboino cadde vittima di una congiura ordita a Verona dalla moglie
Rosmunda e da alcuni guerrieri. Il regno di Alboino aveva segnato un ritorno
dell’arianesimo a scapito della fede cattolica, in quanto il sovrano, per reazione contro il
tradimento da parte dell’imperatore bizantino, si era apertamente schierato contro la
Chiesa di Roma.
Fig. 2 I domini longobardi alla morte di Alboino (572)
Più tardi, nello stesso anno, i duchi acclamarono re Clefi. Il nuovo sovrano estese i
confini del regno, completando la conquista della Tuscia, e tentò di continuare
coerentemente la politica di Alboino, eliminando l'antica aristocrazia latina per acquisirne
terre e patrimoni. Clefi fu ucciso, forse su istigazione dei Bizantini, nel 574; i duchi non
nominarono un altro re e per un decennio regnarono da sovrani assoluti nei rispettivi
ducati (Periodo dei Duchi). Nel 584 i duchi, davanti alla chiara necessità di una forte
monarchia centralizzata per far fronte alla pressione dei Franchi e dei Bizantini,
incoronarono re Autari e gli consegnarono metà dei loro beni. Il sovrano riorganizzò i
Longobardi e il loro insediamento in forma stabile in Italia e assunse il titolo di Flavio,
con il quale intendeva proclamarsi anche protettore di tutti i romani. Nel 590 sposò la
principessa bavara Teodolinda. Autari morì in quello stesso 590 e a succedergli fu
chiamato il duca di Torino, Agilulfo, che sposò a sua volta Teodolinda (fu lei stessa a
sceglierlo come nuovo marito e sovrano, secondo la leggenda): le nozze vennero
celebrate a Lomello. L'influenza della regina sulla politica di Agilulfo fu notevole, e le
decisioni principali vengono attribuite a entrambi. Alla morte di Agilulfo, nel 616, il
trono passò al figlio minorenne Adaloaldo, e Teodolinda, reggente, proseguì la sua
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politica, suscitando però una sempre più decisa opposizione tra i Longobardi; il conflitto
esplose nel 624 e fu capeggiato da Arioaldo, che nel 625 depose Adaloaldo e si insediò al
suo posto. Nel 636 gli successe l'ariano Rotari, duca di Brescia, che regnò fino al 652 e
conquistò quasi tutta l'Italia settentrionale, occupando Oderzo e la Liguria. La sua
memoria è legata al celebre Editto, un insieme di leggi promulgato proprio a Pavia nel
643. Fu la prima raccolta scritta delle leggi e delle consuetudini dei Longobardi.
Precedentemente, in assenza di una raccolta scritta, le leggi potevano subire delle
modifiche dovute alla loro trasmissione orale. La stesura per iscritto ne avrebbe garantito
la conservazione secondo le intenzioni di che le promulgava.
Nell’Editto, alla faida, un tipo di vendetta privata che consentiva di farsi giustizia da sé, si
sostituiva il sistema del guidrigildo, che stabiliva un versamento di somme di denaro come
riparazione al danno arrecato. Il testo è conservato in manoscritti raccolti in importanti
biblioteche. Bisogna ricordare infatti che per tutto il Medio Evo i libri venivano scritti a
mano su fogli dei pelle di animali (di solito pecore) rilegati in cuoio. Dai manoscritti
dell’Editto gli studiosi hanno ricavato delle edizioni a stampa più facilmente leggibili.
Fig. 3 I domini longobardi alla morte di Rotari (652)
Nel 653, con Ariperto I, ritornava sul trono la dinastia Bavarese, segno del prevalere
della fazione cattolica su quella ariana. Nel 712 salì al trono Sul trono salì Liutprando, e il
suo regno fu il più lungo di tutti quelli Longobardi in Italia. Il suo popolo gli riconobbe
audacia, valore militare e lungimiranza politica, ma a questi valori tipici della stirpe
germanica Liutprando, re di una nazione ormai in stragrande maggioranza cattolica, unì
quelle di piissimus rex (sovrano religiosissimo). La sua alleanza con i Franchi, coronata da una
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simbolica adozione del giovane Pipino il Breve, e con gli Avari, ai confini orientali, gli
consentì di avere le mani libere nello scacchiere italiano. Nel 726 si impadronì di molte
città dell'Esarcato e della Pentapoli, atteggiandosi a protettore dei cattolici; per non
inimicarsi il papa, tuttavia, rinunciò all'occupazione di Sutri, che restituì non
all'imperatore ma agli apostoli Pietro e Paolo. Questa donazione, nota come Donazione di
Sutri, fornì il precedente legale per attribuire un potere temporale al papato, che avrebbe
infine prodotto lo Stato della Chiesa. Negli anni successivi Liutprando portò anche i
ducati di Spoleto e di Benevento sotto la sua autorità: mai nessun re longobardo aveva
ottenuto simili risultati. La solidità del suo potere si fondava, oltre che sul carisma
personale, anche sulla riorganizzazione delle strutture del regno che aveva intrapreso fin
dai primi anni. Dopo la morte di Liutprando (744) una rivolta destituì suo nipote
Ildebrando e insediò al suo posto il duca del Friuli, Ratchis, che tuttavia si dimostrò un
sovrano debole. Cercò sostegno presso la piccola nobiltà e i Romanici, inimicandosi la
base dei Longobardi che lo costrinse presto a tornare all'offensiva e ad attaccare la
Pentapoli. Il papa lo convinse a desistere e il suo prestigio crollò; i duchi elessero come
nuovo re suo fratello, Astolfo, e Ratchis si ritirò a Montecassino.
Fig. 4 I domini longobardi dopo le conquiste di Astolfo (751)
Astolfo, espressione della corrente più aggressiva dei duchi, intraprese una politica
espansionistica e all'inizio colse notevoli successi, culminati nella conquista di Ravenna
(751); le sue campagne portarono i Longobardi a un dominio quasi completo dell'Italia,
con l'occupazione (750-751) anche dell'Istria, di Ferrara, di Comacchio e di tutti i
territori a sud di Ravenna fino a Perugia, mentre nella Langobardia Minor riuscì a imporre
il suo potere anche a Spoleto e, indirettamente, a Benevento. Proprio nel momento in
cui Astolfo pareva ormai avviato a vincere tutte le opposizioni su suolo italiano, Pipino il
Breve, nuovo re dei Franchi, si accordò con papa Stefano III che, in cambio della
solenne unzione regale, ottenne la discesa in Italia dei Franchi. Nel 754 l'esercito
longobardo fu sgominato dai Franchi e Astolfo dovette accettare consegne di ostaggi e
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cessioni territoriali. Due anni dopo riprese la guerra contro il papa, che richiamò i
Franchi. Sconfitto di nuovo, Astolfo dovette accettare patti molto più duri: Ravenna
passò al papa, incrementando il nucleo territoriale del Patrimonio di San Pietro e il re
dovette accettare una sorta di protettorato. Alla morte di Astolfo, nel 756, Ratchis uscì
dal monastero e tentò, inizialmente con qualche successo, di ritornare sul trono. Si
oppose Desiderio, duca di Tuscia, che riuscì a ottenere l'appoggio del papa e dei Franchi.
I Longobardi gli si sottomisero e Ratchis ritornò a Montecassino. Desiderio riaffermò il
controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete
di monasteri governati da aristocratici longobardi e arrivando a patti con il nuovo papa,
Paolo I. Sviluppò una disinvolta politica matrimoniale sposando una figlia al duca di
Baviera Tassilone e un'altra, di nome Ermengarda o Desiderata, al futuro Carlo Magno.
Nel 771, la morte del fratello Carlomanno lasciò mano libera a Carlo Magno che, ormai
saldo sul trono, ripudiò la figlia di Desiderio. L'anno successivo un nuovo papa, Adriano
I, del partito avverso a Desiderio, pretese la consegna di alcuni territori promessi mai
ceduti dal sovrano Longobardo e portandolo così a riprendere la guerra contro le città
della Romagna. Carlo Magno venne in aiuto del papa e tra il 773 e il 774 scese in Italia e
conquistò la capitale del regno, Pavia. Il figlio di Desiderio, Adelchi, trovò rifugio presso
i Bizantini; Desiderio e la moglie furono deportati in Francia. Carlo si fece chiamare da
allora Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum (Re dei Franchi e dei Longobardi per grazia di
Dio), realizzando un'unione personale dei due regni, mantenendo le leggi longobarde, ma
riorganizzando il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi. Così crollava la
Langobardia Maior (Longobardia Maggiore). I domini longobardi dell'Italia centromeridionale (quella che si chiamava Langobardia Minor (Longobardia Minore), rispetto a
quella più vasta del settentrione), subirono destini differenti. Il Ducato di Spoleto cadde
immediatamente in mano franca, mentre quello di Benevento si mantenne autonomo. Il
duca Arechi II, al potere al momento del crollo del regno, aspirò inutilmente al trono
reale; assunse poi il titolo di principe. Nei secoli seguenti gli Stati longobardi del
meridione (dal Principato di Benevento si staccarono presto il Principato di Salerno e la
Signoria di Capua) furono travagliati da lotte interne e da contrasti con le potenze
maggiori (il Sacro Romano Impero e l'Impero bizantino), con i vicini ducati campani
della costa e con i Saraceni. Vennero infine (XI secolo) assorbiti dai Normanni, come
tutta l'Italia meridionale. Benevento, conquistata da Roberto il Guiscardo nel 1053, entrò
a far parte dello Stato pontificio, anche se continuarono a essere nominati duchi
longobardi (direttamente dal papa) fino al 1081. Sempre dopo il Mille, il Principato di
Salerno, sotto il principe Guaimario IV, si espanse ed inglobò quasi tutta l'Italia
meridionale continentale (1050); tuttavia anche questo principato divenne normanno con
l'arrivo di Roberto il Guiscardo, che sposò Sichelgaita (figlia di Guaimario IV). Nel 1139
il principato (che fu anche chiamato "longobardo-normanno") evolse nel Regno di Sicilia
(durato - con vari nomi - sette secoli, fino al 1861). La persistenza di Stati autonomi
permise ai Longobardi di salvaguardare una propria identità culturale e mantenne gran
parte dell'Italia del Sud nell'orbita culturale occidentale, anziché in quella bizantina.
4. LA SOCIETÀ LONGOBARDA
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I Longobardi si definivano gens Langobardorum: una gens, quindi, ovvero un gruppo di
individui che aveva ben chiara la consapevolezza di formare una comunità e convinto di
condividere un'ascendenza comune. Questo, tuttavia, non significava che fossero un
gruppo etnicamente omogeneo; durante il processo migratorio inclusero al loro interno
individui isolati o frammenti di popoli incontrati durante i loro spostamenti, soprattutto
attraverso l'inserimento di guerrieri. I Longobardi erano un popolo in armi guidato da
un'aristocrazia di cavalieri e da un re guerriero. Il titolo non era dinastico ma elettivo:
l'elezione si svolgeva nell'ambito dell'esercito, che fungeva da assemblea degli uomini
liberi (arimanni). Alla base della piramide sociale c'erano i servi, che vivevano in
condizioni di schiavitù; a livello intermedio si trovavano gli aldii, che avevano limitata
libertà ma una certa autonomia in ambito economico. Al momento dell'invasione
dell'Italia (568), il popolo era suddiviso in varie fare, raggruppamenti familiari con
funzioni militari che ne garantivano la coesione durante i grandi spostamenti. A capo di
ogni fara c'era un duca. In Italia le fare si insediarono sul territorio ripartendosi tra gli
insediamenti fortificati già esistenti e una prima fase respinsero ogni commistione con la
popolazione di origine latina (i Romanici), arroccandosi a difesa dei propri privilegi
coltivando così i tratti che li distinguevano sia dai loro avversari Bizantini sia dai
Romanici: la lingua germanica, la religione pagana o ariana, il monopolio del potere
politico e militare. L'irruzione dei Longobardi sulla scena italiana sconvolse i rapporti
sociali della Penisola. La maggior parte del ceto dirigente latino (i nobiles) fu uccisa o
scacciata, mentre i pochi scampati dovettero cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro
beni, secondo il procedimento dell'hospitalitas. Gradualmente i nuovi venuto si
amalgamarono con la popolazione italica, e la conversione al cattolicesimo accelerò
questo processo.
II
PAVIA CAPITALE
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Durante la dominazione longobarda in Italia Pavia divenne una città importante e, a
partire dal VII secolo, si affermò come indiscussa capitale, superando per importanza
città come Milano, Brescia e Monza, dove i Longobardi hanno lasciato importanti tracce
della loro dominazione. Fu proprio la nostra città a cadere nelle mani dei Franchi, guidati
da Carlo Magno (774).
In epoca longobarda Pavia era una città fatta di case di fango con tetti di paglia,
raggruppate intorno a poche costruzioni di pietra: il Palazzo reale, che era abitazione del
re e sede amministrativa, le torri delle mura di difesa, il ponte romano e i resti antichi,
usate come cave di materiale peri nuovi edifici. Arroccata sul terrazzo fluviale di 12 m, al
di sopra della portata delle piene, era ben difesa anche dalla sua posizione tra due solchi
vallivi profondamente incisi.
La città continuava a essere suddivisa dalle due strade principali risalenti all’epoca
romana: il cardo, corrispondente all’attuale corso Strada Nuova e il decumano, sul quale si
sono sovrapposti gli attuali corsi Cavour e Mazzini. Queste due antiche assi viarie
suddividevano la città in quattro quadranti: nord – est e nord-ovest, sud-est e sud-ovest.
Dapprima i Longobardi si stanziarono a sud-est, in un quartiere quasi a sé, poi
gradualmente si estesero anche nel resto del centro cittadino, fondendosi con gli abitanti
locali di antica origine italica. Fino al VII secolo Pavia continuò a chiamarsi Ticinum. Poi
all’antico nome si affiancò gradualmente quello di Papia, e quando nel XIII secolo si
affermò la leggenda della fondazione di una primitiva Papia vegia per opera di una tribù di
Galli nei pressi dell’attuale località Santa Sofia a tre chilometri dalla città attuale, il nuovo
toponimo Papia aveva ormai soppiantato l’antico Ticinum.
Purtroppo non rimangono molte tracce immediatamente visibili dell’illustre passato
longobardo di Pavia. Infatti molto degli antichi palazzi sono andati distrutti per il
trascorrere del tempo o in seguito a eventi catastrofici, come le invasioni straniere, gli
incendi o il terremoto che nel 1117 colpì diverse città dell’Italia settentrionale: alcuni
sono stati ricostruiti, di altri rimane solo qualche debole traccia o ricordo. È comunque
possibile ricostruire l’aspetto della capitale attraverso i segni ancora presenti nel tessuto
urbano. Ci lasceremo guidare da diverse tipologie di fonti utili a tracciare il nostro
percorso:
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• FONTI ICONOGRAFICHE
Immagini dipinte o scolpite appartenute a edifici, soprattutto chiese. In genere, visti i
secoli trascorsi e le modifiche subite dai monumenti, si conservano solo dei
frammenti o parti ridotte.
• FONTI EPIGRAFICHE
Le epigrafi sono iscrizioni incise su pietra allo scopo di ricordare re, regine, principi,
principesse, nobili, vescovi o altri personaggi importanti.
• FONTI SCRITTE
La più importante è la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono. In essa si raccontano le
vicende del popolo, talvolta mescolate a leggende, dalla prima migrazione dalla
Scandinavia fino al regno di Liutprando, morto nel 744, quindi trenta anni prima
dell’arrivo dei Franchi a Pavia.
Ma chi era questo Paolo Diacono? Nacque verso il 725 a Cividale del Friuli, dove
intraprese gli studi in una scuola religiosa. Verso il 744 si trasferì a Pavia per
completare la propria istruzione: apprese la teologia e la lingua greca. Qui conobbe
Adelperga, una delle figlie di re Desiderio, e, quando la principessa sposò il duca
Arechis II, egli la seguì a Benevento. In onore della nobildonna compose la prima
opera: Adelperga pia ( La pietosa Adelperga). Con la caduta del regno longobardo si fece
monaco benedettino e si recò alla corte di Carlo Magno per intercedere a favore del
fratello Arichis, che si era ribellato ai Franchi. Rimase legato al nuovo re fino alla
morte nel 799, un anno prima dell’incoronazione di Carlo quale sovrano del Sacro
Romano Impero (25 dicembre 800). Oltre alla Storia dei Longobardi e a La pietosa
Adelperga, il letterato compose: la Storia romana, la Storia dei vescovi di Metz, un manuale
di grammatica, un Omeliario (sermoni per la messa) e altre composizioni sacre e
profane.
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III
IN CAMMINO
Iniziamo ora un percorso alla ricerca delle testimonianze della Pavia longobarda. Ci
faremo guidare soprattutto dalla Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, il quale , oltre
al palazzo reale, ricorda otto chiese, alcune delle quali sono scomparse, mentre di
altre rimangono tracce archeologiche nelle cripte. Un’importante raccolta di reperti
provenienti da antiche costruzioni di epoca longobarda è conservata presso la
Sezione Longobarda dei Musei Civici del Castello Visconteo. Per scoprire queste
testimonianze dovremo fare molta attenzione e… molta strada!
PRIMA TAPPA : VIA ALBOINO
Iniziamo il nostro percorso in Piazza Berengario. Risaliamo attraverso le viuzze del
centro cittadino e raggiungiamo la via Alboino, che ricorda l’antico sovrano
longobardo. A sinistra, sulla parte di un palazzo medievale ora ristrutturato notiamo il
cartello «Reggia di Alboino». Ma attenzione! Il re non abitava qui, è solo una
leggenda, in quanto il Palazzo reale sorgeva a qualche isolato di distanza.
Fig. 5 Bifora sulla facciata della cosiddetta Reggia di Alboino
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Arriviamo in fondo e passiamo in corso Garibaldi. Sul muro della casa d’angolo alla
nostra sinistra notiamo un lapide che ricorda l’entrata dei Longobardi a Pavia nel
572, proprio dove sorgeva la Porta San Giovanni. Ecco la traduzione:
Questa fu già un tempo la Porta dell’antichissima città regale, sul cui limitare, dopo un duro assedio
di tre anni e sei mesi e dopo che era stato fatto un patto vitale e onorevole per gli abitanti, il cavallo
del re Alboino, mentre il violatore del trattato [il re] vi sedeva sopra, stramazzò al suolo suscitando
grande stupore.
Fig. 6 Lapide che ricorda l’ingresso a Pavia di Alboino
Questo episodio è ricordato nella famosa leggenda del cavallo di Alboino narrata da Paolo
Diacono ( Storia dei Longobardi, libro II, cap. 27):
Fonte letteraria
IL CAVALLO DI ALBOINO
Sopportato un assedio di tre anni e alcuni mesi, la città di Pavia alla fine si
arrese ad Alboino e ai Longobardi assediatori. Mentre Alboino stava per fare il
suo ingresso dalla porta detta di San Giovanni, nella parte orientale della città
[dove ci troviamo noi adesso], il cavallo gli stramazzò proprio nel mezzo della
porta e, benché incitato dagli sproni e pungolato da più parti da colpi d’asta,
non riusciva a rialzarsi. Allora uno dei Longobardi così parlò al re:
“Ricordati, o mio re e signore, quale voto facesti. Infrangi quel voto così
spietato e potrai entrare in una città il cui popolo è cristiano”.
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Alboino aveva fatto voto di passare a fil di spada tutta quella popolazione che
non aveva voluto cedergli. Non appena lo ebbe rotto, impegnandosi invece a
perdonare ai cittadini, subito il cavallo si rialzò, e Alboino potè entrare in città
dove non recò danno a persona, mantenendo così la sua promessa.
Allora tutto il popolo accorse al palazzo fatto costruire un tempo da
Teodorico, e cominciò a darsi animo dopo tante miserie e a guardare al
futuro con rinnovata speranza.
Ora proseguiamo il nostro tragitto. Attraversiamo il corso e inoltriamoci in una
viuzza che sale verso nord.
SECONDA TAPPA: VIA E PIAZZA PORTA PALACENSE
Ci troviamo in via Porta Palacense, che immette nell’omonima piazzetta.
Fig. 7 Edificio con l’indicazione topografica «Piazza Porta Palacense»
Sai che cosa significano questi toponimi? Letteralmente equivalgono a «piazza e via della
Porta del Palazzo». Di quale palazzo si trattava? Era la reggia fatta edificare sotto il regno
del sovrano ostrogoto Teodorico, della quale i Longobardi si impossessarono al loro
arrivo a Pavia nel 572: servì come abitazione dei re e sede amministrativa, con gli uffici
del tesoro, la cancelleria e il tribunale. Il re Pertarito (682-688) vi fece aprire una porta,
appunto la Porta Palacense. Ascoltiamo ancora Paolo Diacono (Paolo Diacono, Storia dei
Longobardi, Libro V, capitolo 36):
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Testo 2. Fonte letteraria
La Porta Palacense
In quel periodo il re fece costruire a Pavia, vicino alla reggia, una porta detta
perciò Palatina, di mirabile fattura.
Il palazzo, andato distrutto nel 1024, non esiste più.
Ma continuiamo la nostra ricerca.
TERZA TAPPA: LA CRIPTA DI SANTA MARIA ALLE CACCE
Proseguiamo di qualche metro e giriamo a destra in via Adeodato Ressi, Sulla targa,
sotto il nome attuale, leggiamo la dicitura «Ex via dei Goti», in ricordo degli antichi
dominatori che precedettero i Longobardi. Sbuchiamo in via Volta. Vedi quel grosso
edificio di fronte? Ci dirigiamo proprio lì. Si tratta dell’attuale Scuola Media «Felice
Casorati».
Ma dove sono i resti longobardi? Entriamo senza disturbare da uno dei cancelli in
ferro battuto risalenti all’Ottocento. Noterai che il cortile, di forma quadrata con al
centro una fontanella, è circondato da un porticato. Anticamente l’edificio era sede
di un monastero.
Fig. 8 Porticato di Santa Maria alle Cacce
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Percorriamo l’atrio del lato sinistro fino a una porticina di legno. Oltrepassiamola e
iniziamo a scendere. Ci troviamo in un ambiente molto particolare. È una cripta,
termine di derivazione greca che significa «nascosto». Anticamente le cripte erano
luoghi sotterranei costruiti sotto il presbiterio (parta riservata agli ecclesiastici) delle
chiese: qui venivano conservate le reliquie, parti del corpo o degli abiti che si
credevano appartenute ai santi. Il luogo in cui ci troviamo risale proprio all’epoca del
dominio longobardo. La chiesa originaria sarebbe infatti stata fatta edificare nell’VIII
secolo da Ratchis. Questi, dopo essere stato sovrano per breve tempo, cedette la
corona al fratello Astolfo e si ritirò presso il convento di Montecassino, seguito dalla
moglie Tassia e dalla figlia Rottruda, le quali trovarono ospitalità nel vicino convento
della Plumbariola. Nel 756 Ratchis tornò a Pavia per contendere il regno, ma per
poco tempo, e alla fine ritornò definitivamente a Montecassino.
La chiesa in cui ci troviamo fu dapprima intitolata «Santa Maria fuori dalla Porta», in
quanto si trovava appena fuori dalla Porta Palacense. Poi prevalse la dedica a «Santa
Maria delle Cacce», per ricordare il luogo dove il re veniva a cacciare.
La forma della cripta riconduce all’epoca longobarda: un corridoio rettilineo nel
quale, a oriente, si saldavano due absidi laterali. Alza un po’ gli occhi e osserva. Vedi
quel capitello in marmo cipollino? Risale al VI secolo e dovette essere riutilizzato per
l’edificio dell’VIII secolo. La struttura subì trasformazioni nel XVI secolo, quando
venne edificata al chiesa che si trova sopra le nostre teste. Dopo una serie di traversie
il monastero è stato adibito a ospitare vari ordini di scuole. La cripta è stata scoperta
durante i lavori di restauro del 1936.
Fig. 9 Cripta di Santa Maria alle Cacce
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Torniamo in superficie. Prima di proseguire andiamo a vedere il lato della chiesa
seicentesca affacciato su via Scopoli. Vedi quella finestra a incasso? Apparteneva alla
chiesa fatta costruire da Ratchis.
Fig. 10 Monofora dell’antica chiesa di Santa Maria alle Cacce
Adesso raggiungiamo il lato opposto e incamminiamoci per corso Mazzini, l’antico
decumano, e attraversiamo la strada. Siamo passati nel quadrante Nord – Est. Anticamente
alla sua estremità più settentrionale, oltre le mura cittadine, si trovava il cimitero dei
Longobardi, i quali inizialmente non usavano i luoghi di sepoltura della popolazione
cattolica locale presso la chiesa Santi Gervasio e Protasio, nel quartiere Nord – Ovest.
Nel VII secolo (680 circa), sul cimitero longobardo la regina Rodelinda, moglie di quel
Pertarito che fece erigere la Porta Palacense, fondò la chiesa di Santa Maria alle Pertiche,
dove trovarono sepoltura la regina Ragintruda e il duca di Liguria Audoaldo, del quale si
conserva l’iscrizione funebre. Più tardi venne annessa la cappella di S. Adriano, vero e
proprio sepolcreto della famiglia reale: vi furono sepolti Ansprando e il figlio
Liutprando, del quale avremo ancora modo di parlare. Ma perché intitolare un edificio
religioso a Santa Maria alle Pertiche?
Ci risponde Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro V, cap. 34)
Testo 3. Fonte letteraria
Santa Maria alle Pertiche
Anche la regina Rodelinda, fuori dalle mura di Pavia, in località chiamata <<
Alle Pertiche>>, fece costruire con lavoro mirabile una basilica in onore della
Santa Madre di Dio, e l’abbellì splendidamente.
Quel luogo si chiama <<Alle Pertiche>>, perché una volta lì c’erano delle
pertiche conficcate nel terreno, secondo un uso longobardo, e per questa
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ragione: se uno moriva da qualche parte, in guerra o per qualunque altro
accidente, i suoi parenti piantavano fra i loro sepolcri una pertica sulla cui
sommità poi mettevano una colomba di legno rivolta verso il luogo in cui il
loro caro era morto. Ciò per sapere da che parte riposasse.
Purtroppo la chiesa, che doveva trovarsi sulla destra rispetto all’ingresso principale
del Castello Visconteo, è stata demolita.
Ma non siamo venuti qui sulle orme dei Longobardi? Non ci sono problemi!
Proseguiamo lungo corso Mazzini, passiamo davanti al palazzo del Comune di Pavia.
Sulla destra inizia la via Foro Magno, così chiamata forse in ricordo dello
stanziamento in questo luogo di una faramannia, ovvero un insieme di nuclei familiari
longobardi. Arriviamo all’incrocio con via Defendente Sacchi: qui, in occasione di
opere di scavo, sono state rinvenute tre sepolture longobarde. Noi ora non entreremo
in questa strada, ma raggiungiamo via Colonnello Galliano. Prima di girare a destra
guardiamo di fronte a noi. Proprio lì, all’angolo fra corso Mazzini e via Felice
Cavallotti, doveva terminare l’area occupata dalla reggia di Pavia ora scomparsa. Ora
svoltiamo pure a destra, percorriamo la strada sino in fondo, attraversiamo la strada e
inoltriamoci nella stradina che costeggia il Palazzo della Posta.
QUARTA TAPPA: LA CRIPTA DI S. EUSEBIO
Ed eccoci in piazza Leonardo da Vinci, celebre per le sue tre torri medievali, che al
tempo dei Longobardi non erano ancora state costruite. Guarda alla tua sinistra. Vedi
quell’enorme tetto? Si tratta della copertura moderna della cripta di S. Eusebio,
scoperta nel secolo scorso. Usata come cattedrale dei Longobardi ariani, inizialmente
doveva essere stata dedicata a S. Michele, loro santo patrono, mentre l’intitolazione a
S. Eusebio venne adottata dopo la conversione al cattolicesimo, in ricordo del
vescovo di Vercelli che aveva lottato contro il credo ariano. Sentiamo di nuovo la
spiegazione di Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro IV, capitolo 42).
Testo 4. Fonte letteraria
La cripta di S. Eusebio
In quel tempo quasi tutte le città del regno avevano due vescovi: uno cattolico,
l’altro ariano. A Pavia, per esempio, ancor oggi si può vedere dove aveva il
battistero il vescovo ariano, titolare della basilica di Sant’Eusebio, pur
essendovi in città un altro vescovo, cattolico. Tuttavia il vescovo ariano di
Pavia, Anastasio, convertitosi poi alla fede cattolica, resse la Chiesa di Cristo.
Un operatore museale ci apre la cripta, solitamente chiusa e noi iniziamo a scendere
dalla scaletta di ferro. All’esterno, accanto alle due porte laterali, notiamo i basamenti
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della chiesa, sui quali si intravedono decorazioni con motivi geometrici di vari colori
(blu, bianco, arancione). Fra le due porticine si vede, anche se murato, l’antico ingresso
centrale. Entriamo da sinistra. Il luogo è un po’ buio, ma, se facciamo attenzione,
possiamo scorgere interessanti reperti. La chiesa vanta origini longobarde, e per
costruirla vennero riutilizzati materiali di epoca romana: mattoni e colonne provenienti
da edifici preesistenti o caduti in disuso. L’edificio longobardo dei secoli VI-VII venne
rifatto nell’XI secolo, e la cripta appartiene a questo periodo. Nel XVII secolo subentrò
un altro rifacimento. Nel XX secolo l’edificio è stato demolito per costruire il Palazzo
della Posta. La cripta è sta risparmiata e nascosta sotto una collinetta fino al 1968,
quando è stata riscoperta. Lo spazio nel quale ci troviamo è diviso in cinque navate da
dieci colonnine tutte diverse le une dalle altre, che reggono il soffitto a volta, su cui puoi
ancora scorgere frammenti di pittura che rappresentano motivi religiosi. Come puoi
notare, esse poggiano sull’originale pavimento in cocciopesto che si trova a un livello
inferiore rispetto a quello attuale; solo quella posta a destra dell’altare mostra una base
circolare in pietra. I capitelli, che derivano probabilmente dall’antica chiesa longobarda
dei secoli VI-VII, sono oggi bianchi e presentano una decorazione particolare costituita
da tante cellette geometriche, triangoli contrapposti, sovrapposti, oppure più arrotondati
simili ad ali di cicala. Alcuni studiosi pensano che in origine fossero riempite di pasta di
vetro colorata ( di rosso, blu, verde e giallo) e che così i capitelli somigliassero ai gioielli
con i quali i Longobardi, uomini e donne, amavano adornarsi. Immagina come poteva
apparire un tempo la cripta con i soffitti affrescati e le pareti decorate!
Fig. 11 La cripta di S. Eusebio
Ora dirigiti in fondo e guarda il pavimento ribassato: è realizzato con grossi mattoni,
caratterizzati da un foro in cui è possibile inserire la mano per rendere più facile il
trasporto, i cosiddetti mattoni manubriati.
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Fig. 12 I mattoni manubriati
Raggiungiamo di nuovo livello superiore, ritorniamo sui nostri passi, oltrepassiamo il
Palazzo della Posta ed entriamo in via Mentana. Ci troviamo in Strada Nuova,
l’antico cardo. Attraversiamo la strada e giriamo a sinistra. A circa venti metri troviamo
un grosso incrocio, il punto di incrocio con l’antico decumano di epoca romana.
Giriamo a destra e raggiungiamo Piazza della Vittoria. Incamminiamoci verso il
palazzo medievale del Broletto e inoltriamoci a destra in via Omodeo. Ci troviamo
nel quadrante Nord – Est della città.
QUINTA TAPPA: I RESTI DI SANTO STEFANO
Sulla sinistra notiamo delle parti più antiche rispetto al resto dell’edificio. Sono i resti
del fianco nord della chiesa longobarda di Santo Stefano, costruita forse dal vescovo
Damiano nel VII secolo quale prima cattedrale dopo la conversione dei Longobardi
al cattolicesimo. Stiamo costeggiando uno dei fianchi del Duomo. La costruzione
attuale iniziò nel Rinascimento e prese il posto di due antiche chiese di origine
longobarda: Santo Stefano, la prima cattedrale dopo la conversione dei Longobardi al
cattolicesimo, e Santa Maria del Popolo, la cattedrale invernale fatta costruire
qualche anno dopo dal nobile Anso. La costruzione dell’attuale Duomo, che sostituì
le due preesistenti chiese, iniziò nel Rinascimento.
Fig. 13 Fianco del Duomo con i resti dell’antica cattedrale di S. Stefano
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La via Omodeo termina proprio con la piazza del Duomo. Raggiungiamo l’estremità
opposta. La viuzza a sinistra porta in piazza Cavagneria. Qui, durante gli scavi
archeologici, degli anni 1934-1935, emersero i resti di un battistero con esterno
poligonale e interno circolare dedicato a San Giovanni, riservato agli uomini. Gli
antichi battisteri erano costruzioni architettoniche separate o annesse alla chiesa
principale. Generalmente sorgevano in luoghi termali, dai quali si ricavava l’acqua per
il rito: la vasca era una struttura interrata con una ringhiera di marmo.
SESTA TAPPA: LA CORONA DI TEODOLINDA
Noi adesso svoltiamo a destra in via Teodolinda, la famosa regina longobarda che
esercitò un ruolo fondamentale per la conversione dei Longobardi alla religione
cattolica. Figlia di Garibaldo, duca di Baviera, sposò nel 589 Autari, re dei
Longobardi, e, dopo la sua morte (590), il suo successore Agilulfo (morto a Milano
fra il 615 e il 616). Con l’aiuto del pontefice Gregorio Magno, si impegnò nella
conversione del popolo longobardo dal culto ariano al cattolicesimo, contribuendo a
raddolcire i rapporti con le popolazioni locali. Rimasta di nuovo vedova, resse il
regno assumendo il ruolo di regina dei Longobardi in nome del figlio Adaloaldo.
Morì nel 625.
Il suo ritratto letterario è contenuto nell’opera di Paolo Diacono (Storia dei Longobardi,
libro IV, capitolo 6,).
Testo 5. Fonte letteraria
Teodolinda
Per questa regina la Chiesa […] conseguì molti vantaggi […] Dopo che il re,
mosso dalle salutari insistenze di Teodolinda, si fu convertito alla fede
cattolica, donò molti possedimenti alla Chiesa […] .
A Pavia la sovrana preferì Monza, dove fece erigere la basilica di San Giovanni, cui
donò preziosi tesori, come la corona ferrea. Tuttavia la città la ricorda con affetto. Lo
si nota, per esempio, dall’intitolazione di questa via. Ma c’è di più! Proseguiamo
tenendo la destra e guardiamo i numeri civici. Ecco il 27! Alt! L’Edificio è di struttura
medievale. Avviciniamoci al cancello. Che cosa vedi sul muro di fronte? Proprio la
riproduzione in cotto della corona ferrea conservata nel Duomo di Monza!
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Fig. 14 Monza, Tesoro del Duomo:
La corona di Teodolinda
Fig. 15 Riproduzione in cotto della
corona
SETTIMA TAPPA: SANT’AGATA AL MONTE
Arrivati in fondo alla via, giriamo a sinistra in via Frank e proseguiamo. Ci troviamo
in una piazzetta circondata da alcuni palazzi antichi. C’è anche un ospedale, la Clinica
Morelli. Anticamente su questo luogo sorgeva la chiesa di Sant’Agata al Monte, fatta
erigere nel VII secolo dal già ricordato re longobardo Pertarito in una circostanza
narrata da Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro, capitolo V, capitolo 34).
Testo 6. Fonte letteraria
Sant’Agata al Monte
Non appena assunta la dignità reale, nello stesso tratto lungo il Ticino da
dove una volta era fuggito, Pertarito fece costruire, al suo Signore e Liberatore
e in onore di Sant’Agata vergine e martire, un monastero che si chiama
Nuovo. In esso, dopo averlo arricchito di ornamenti e di benefici, raccolse
molte vergini.
Qui divenne badessa Teodote, la sorella del sovrano, e, più tardi, vi trovò sepoltura
Cuniperga, figlia del re Cuniperto, del quale sentiremo parlare alla prossima tappa. Il
nome Sant’Agata al Monte ricorda la dedicazione alla vergine omonima e l’ubicazione
in cima a un poggio per chi proveniva dal Ticino. Infatti, la strada che costeggia la
clinica e che porta sul Lungo Ticino risulta ancora oggi in notevole pendenza.
OTTAVA TAPPA: IL MONASTERO DI TEODOTE (S. MICHELE ALLA
PUSTERLA)
Ora torniamo indietro e percorriamo la via Frank fino in fondo. Giriamo a sinistra e,
tenendo il lato sinistro, raggiungiamo il numero civico 26, che corrisponde al
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Seminario Vescovile. Che cosa ci sarà? Leggi la targhetta sulla sinistra «Mon. S. Maria
Teodote alla Pusterla sec. XV. Resti di epoca longobarda sec. VIII». Suoniamo il
campanello. Ci apre un custode, avvertito per tempo del nostro arrivo. Siamo
introdotti in un bel chiostro disposto su due piani, realizzato nella seconda metà del
Quattrocento: il piano inferiore è aperto e forma un porticato, mentre quello
superiore è chiuso su tre lati. Il porticato è formato da ampie arcate che si
appoggiano si sottili colonnine. Ogni arcata è decorata con formelle a bassorilievo in
terracotta che rappresentano angioletti. Sopra a ogni colonnina ci sono figure di
monaci in preghiera, e tra un arco e l’altro si trovano tondi raffiguranti altri monaci a
mezzobusto. Possiamo osservare anche dei dipinti, la maggior parte andati persi; sulle
volte del porticato rimangono alcune decorazioni con il simbolo del sole.
E i Longobardi? Un attimo di pazienza! Ci arriviamo! Entriamo nel cortile e
guardiamo alla nostra destra. Il muro non è lineare. Vediamo tre croci in cotto e gli
attacchi di un’antica torre (scoperti nel 1968), che doveva fungere anche da porta
della cinta di mura: si tratta molto probabilmente dei resti della ricostruzione
bassomedievale di una preesistente struttura.
Fig. 16 Croce in cotto
Sul retro, attraverso una botola, si accede in un ambiente particolare: i resti della
chiesa di S. Michele alla Pusterla, all’interno del convento di Santa Maria Teodote. Gli
scavi del 1970 hanno portato alla luce i resti di quella che doveva essere una chiesa a
tre navate. Il nome Pusterla deriva dal latino pusterula, che significa « porta», quella
che probabilmente si apriva nella torre. Ma per prudenza non scendiamo e ci
accontenteremo del pannello illustrativo.
Ma chi era questa Teodote cui venne dedicato il convento? Non è la sorella di re
Pertarito, divenuta monaca di a S. Agata, ma probabilmente una sua omonima di
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qualche anno più giovane. Sentiamo di nuovo Paolo Diacono (Storia dei Longobardi,
libro V, capitolo 43).
Testo 7. Fonte letteraria
Il monastero di Teodote
Il re Cuniperto sposò Ermelinda, di stirpe anglosassone. Costei, avendo visto
al bagno [nelle terme del Palazzo reale] Teodote, una fanciulla di mobilissima
stirpe romana, di corpo assai leggiadro e con i capelli biondi e lunghi fin quasi
ai piedi, ne lodò la bellezza al marito. Il quale, pur fingendo di infastidirsi a
questi discorsi della moglie, tuttavia s’infiammò d’ardente passione per la
fanciulla. Senza che passasse molto tempo, una volta che era andato a caccia
in un bosco che si chiama Urbe, ordinò a sua moglie Ermelinda di
raggiungerlo. Quindi, di notte, tornò a Pavia e, fattasi venire Teodote, giacque
con lei, mandandola poi in un monastero di Pavia al quale rimase il nome
della fanciulla.
Una volta rinchiusa nel convento di Santa Maria, la povera Teodote dovette forse
ricevere conforto materno dall’omonima badessa, passata da Sant’Agata al nuovo
monastero. Con il passare del tempo la Teodote più giovane, diventata lei pure
badessa, fece erigere un oratorio dedicato a San Michele, il patrono dei Longobardi.
Di Cuniperto e del monastero di Teodote sentirai parlare di nuovo ai Musei Civici.
NONA TAPPA: IL MONASTERO DEL SENATORE
Ora dobbiamo proseguire il nostro itinerario. Usciamo dal Seminario e risaliamo per
via Menocchio. Arriviamo all’angolo con via Parodi e guardiamo di fronte. Proprio lì
il 27 novembre 714 il nobile di origine romana Senatore e la moglie Teodolinda
fondarono nella propria casa il monastero femminile di Santa Maria, nel quale
divennero monache Sinelinda e Liceria, rispettivamente figlia e sorella di Senatore. I
resti si trovano nella cantina di uno dei palazzi che vediamo davanti a noi. A Senatore
è anche intitolata la viuzza che dal lato sinistro di via Parodi raggiunge corso Cavour.
Troveremo le lastre della tomba di questo benefattore ai Musei Civici.
DECIMA TAPPA: SAN GIOVANNI DOMNARUM
Ora raggiungiamo proprio il corso, l’antico decumano, lo attraversiamo e ci portiamo
nel quadrante nord - ovest. Entriamo nella via Del Carmine, ma non ci dirigiamo
verso la famosa chiesa trecentesca. Giriamo subito in via San Giovanni ad Fontes,
tradotto «San Giovanni presso le Fonti», che ricorda le fonti termali che anticamente
occupavano questa zona della città. Siamo sul retro dei magazzini Coin. Un attimo!
Sulla sinistra c’è un cortile al quale si accede salendo qualche gradino. Ma è il sagrato
di una chiesa, una delle più antiche di Pavia! Fu infatti fondata intorno al 650 dalla
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regina longobarda Gundeperga, figlia della regina Teodolinda, sul luogo di un
complesso termale romano ormai caduto in disuso, dal quale vennero ricavati
mattoni e colonne per la nuova costruzione.
Che cosa ci dice Paolo Diacono? (Storia dei Longobardi, libro IV, capitolo 34).
Testo 8. Fonte letteraria
San Giovanni Domnarum
Arioaldo [Paolo Diacono dice Rodoaldo] dunque, salito al trono dopo la
morte del padre, sposò Gundeperga, figlia di Agilulfo e Teodolinda, la quale,
così come la madre aveva fatto a Monza, fece costruire a Pavia una basilica in
onore del beato Giovanni Battista, decorandola mirabilmente d’oro, d’argento
e di tendaggi e arricchendola senza misura in ogni cosa necessaria: ed è in
questa chiesa che ora il suo corpo riposa.
La dedica della chiesa a San Giovanni Domnarum significa letteralmente San Giovanni
delle Donne, in quanto, con molta probabilità, vi era annesso un battistero femminile:
resti di un edificio di forma circolare sono emersi durante gli scavi effettuati nel 1957
nell’area antistante. Il toponimo può anche riferirsi al corteo di donne che
solitamente accompagnava la regina. La facciata risale a una ricostruzione del sec.
XV, e presenta tre eleganti rosoni in terracotta: quello sopra l’ingresso raffigura la
donazione di Gundeperga, e purtroppo il trascorrere del tempo lo ha un po’ rovinato.
Entriamo! La chiesa, dunque, fondata in epoca longobarda, avrebbe subito almeno
due ricostruzioni: una nella prima metà del sec. XI e l'altra nei primi anni del XVII.
Forse dopo il grave incendio di Pavia del 1004, il vescovo Rinaldo decise di
ricostruire la basilica cadente e, secondo l'usanza dell'epoca, la riedificò reimpiegando
molti elementi dell’edificio precedente, ma aggiungendo, ad esempio, sotto l'altare
maggiore, una cripta "ad oratorio", del tipo che si diffonderà nelle chiese romaniche.
Di questo rifacimento rimangono, chiaramente riconoscibili, anche il campanile –
visibile da via Mascheroni -, la parte alta delle murature della navata maggiore, alcune
fondamenta e poco più di una campata di quella che forse era la navata laterale
destra, con alcuni avanzi di affreschi, che ricordano quelli della cripta: si trova a
destra dell’ingresso, e, probabilmente, era parte dell’antico battistero.
Nel 1611 il corpo della chiesa fu ricostruito come è oggi. Sempre conservando le
linee della pianta primitiva, la nuova costruzione seguì gli schemi propri della
Controriforma: una sola navata, affiancata da cappelle che si aprono sull'invaso
principale con grandi arconi e collegate fra loro da passaggi più piccoli. Le cappelle
occuparono in pianta la posizione delle antiche navate laterali. Si conservò la
cappellina rinascimentale a sinistra, dove possiamo ammirare una raffigurazione della
regina Gundeperga nell’atto di presentare a san Giovanni il modello della chiesa. La
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cripta, l’unica parte rimasta intatta, scomparve sotto il pavimento - mentre nella
chiesa romanica il presbiterio doveva essere sopraelevato - fu riempita di ossa e
rimase quasi dimenticata. È stata riaperta al pubblico il 18 aprile 1914 in seguito agli
scavi del sacerdote pavese Faustino Gianani.
Fig. 17 Rilievo della cripta di S. Giovanni Domnarum
Dai scendiamo! Che buio! Bisogna accendere la luce. E attenti agli scalini! Ci
troviamo in un atrio che presenta due enormi piloni in muratura e frammenti in
marmo di quattro colonne su cui si impostano le volte, allacciate alle pareti da alcuni
pilastri. Vale la pena di osservare, a sinistra appena entrati nella cripta, un tratto di
muratura a lisca di pesce, tipica orditura medievale.
Fig. 18 Mattoni a spina di pesce
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Siamo poi colpiti da una serie di interessantissimi affreschi romanici e dei secoli
successivi, che rappresentano S. Invenzio, S. Siro, S. Gregorio Magno, S. Giovanni
Battista, S. Teofilo e altri santi, ognuno contraddistinto da un’iscrizione dipinta.
Lungo le pareti perimetrali si scorgono le tracce di una cortina affrescata, mentre qua
e là sono numerose immagini di S. Biagio. II corpo di questo santo, veneratissimo nel
Medioevo, è attualmente custodito sotto l'altare maggiore. Sì, ma noi cerchiamo i
Longobardi! Ebbene, osservando i due pilastroni, si ha la chiara impressione che
quello di destra abbia incorporato una fase più antica: tutta una parte è in muratura
diversa. Se poi facciamo attenzione al basamento del giro absidale, è facile notare che
la parte destra è nettamente diversa: su una pianta perfettamente circolare non c'è
traccia di pilastrini sino a circa mezzo metro di altezza; non solo, ma troviamo
formelle rotonde (suspensurae), recuperate da antichi edifici termali, come componenti
essenziali del muro di fondazione.
Fig. 19 Suspensurae
Guarda anche i capitelli. Non ti sembrano più antichi delle colonne? Quasi
certamente risalgono alla fondazione primitiva e vennero reimpiegati per la cripta
dell’XI secolo. È probabile che questo in origine non fosse un ambiente sotterraneo:
l'interramento progressivo basta a spiegare come un locale che prima era a piano terra
possa coincidere oggi con una cripta. Vi sono due tracce di pavimentazione della
chiesa: una molto antica, che dovrebbe corrispondere alla costruzione della cripta, al
livello di un metro e venti sotto l'attuale, e un'altra più recente a soli cinquanta
centimetri di profondità.
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Fig. 20 Colonna con capitello di reimpiego
Fig. 21 Altare con volte affrescate
Ricordati che qui dovette essere sepolta la regina Gundeperga. A San Giovanni
Domanrum è legato un altro fatto, riferito da Paolo Diacono (Storia dei Longobardi,
libro V, capitolo 40), e che ha come protagonista il prete Zenone. La vicenda avrebbe
avuto luogo all’epoca della lotta fra re Cuniperto e l’usurpatore Alachi, duca di
Trento.
Testo 9. Fonte letteraria
Il diacono Zenone
Il re Cuniperto mandò ad Alachi un suo messo per sfidarlo a singolar tenzone:
non c’era bisogno, gli fece dire, di mettere a repentaglio la vita di tanti uomini
dei due eserciti. Ma Alachi rifiutò la sfida. E poiché uno dei suoi, un toscano,
lo spronava, chiamandolo uomo forte e valoroso, ad affrontare arditamente
Cuniperto, gli rispose:
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«Cuniperto sarà un ubriacone e uno stupido, però è un individuo audace, di
forza straordinaria. Quando suo padre era ancora vivo e noi molto giovani,
certi montoni di straordinaria grandezza che c’erano a palazzo, lui,
prendendoli per la lana della schiena, riusciva a sollevarli a terra a braccio
teso: bravura di cui non fui mai capace».
Parole alle quali il toscano replicò:
«Se non hai il coraggio di affrontare Cuniperto a singolar tenzone, non mi
avrai più mio amico e mio alleato».
Così dicendo fuggì via e andò a rifugiarsi presso Cuniberto a cui narrò ogni
cosa.
Raccoltisi dunque i due eserciti nella piana di Cornate, già stavano per venire
alla mani quando Zenone, diacono della Chiesa pavese e custode della
basilica di San Giovanni Battista, posta dentro le mura della città e un tempo
fatta edificare dalla regina Gundiperga, poiché amava il suo re e temeva che
venisse ucciso durante il combattimento, andò a dirgli:
«O re, la nostra vita sta tutta nella tua salvezza. Se tu morirai in battaglia, quel
tristo Alachi ci farà perire tra i più diversi tormenti. Accetta perciò il mio
consiglio: dammi la tua armatura, e io andrò a combattere contro quel tiranno.
Se morirò, tu potrai rialzare egualmente le tue sorti. Se vincerò, la tua gloria
sarà maggiore come di colui che ha vinto per mano di un servo».
All’assoluto rifiuto del re, alcuni pochi fedeli che erano presenti, cominciarono
a chiedere con le lacrime agli occhi di dare il suo consenso alla proposta del
diacono. Alla fine, vinto, d’animo mite com’era, dalle loro preghiere e dalle
loro lacrime, diede al diacono la sua corazza, l’elmo, gli schinieri e tutte le
altre armi, mandandolo in battaglia in sua vece. Il diacono poi aveva la statura
e lo stesso portamento del re: una volta che uscì armato dalla tenda, tutti lo
presero per Cuniperto.
Si venne dunque a battaglia e si combatté accanitamente.
Alachi, che s’era volto soprattutto dove riteneva ci fosse il re, credendo
d’uccidere Cuniperto, uccise invece il diacono Zenone. E avendo ordinato di
tagliargli la testa perché tutti i suoi, una volta che fosse levata in cima a una
lancia, gridassero: «Sia ringraziato Dio», trattogli l’elmo si rese conto invece
d’aver ucciso un chierico. Allora furibondo gridò:
«Ahimè, che non abbiamo risolto proprio niente se tutto il risultato di questa
battaglia sta nell’aver ucciso un chierico».
UNDICESIMA TAPPA: SAN FELICE
Passiamo dalla parte opposta rispetto a quella da cui siamo entrati e ci troviamo in via
Mascheroni. Percorriamola, ma prima di girare a destra voltiamoci verso il campanile
romanico di San Giovanni Domnarum. Ora ci troviamo in via S. Invenzio. Davanti a
noi c’è un muro: il fianco sud della chiesa del monastero di San Felice, fondata da
Ansa, moglie del re longobardo Desiderio: compare nei documenti a partire dal 760
con la dedica al Salvatore e ai santi Pietro e Paolo; l’intitolazione a San Felice entrò in
uso più tardi, quando ai Longobardi si sostituirono i Franchi di Carlo Magno.
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L’edificio ospitò regine, principesse e nobildonne in visita a Pavia. Alcuni mattoni
delle loggette cieche, devono sicuramente risalire alla fase più antica: lo dimostra la
loro irregolarità.
Fig. 22 Resti delle antiche mura del convento longobardo
Ma entriamo dal portone della Facoltà universitaria di Economia e Commercio.
Qualcuno ci sta aspettando. Veniamo introdotti in una sala di lettura ricavata nella
chiesa di San Felice, ricostruita nei secoli XV, quando era badessa la nobile pavese
Andriola De Barachis, e XVIII: anticamente doveva trattarsi di un edificio ad aula
unica con tre absidi a oriente; i muri perimetrali ne recano traccia. Le pareti sono
ancora ornate da affreschi. Ma attenzione! A destra, a un piano inferiore, si
vedono tre fosse, scoperte negli anni 1996 – 1997, circondate da una ringhiera
moderna: sono le tombe di tre monache che dimorarono qui all’epoca della
fondazione del convento nell’VIII secolo; quella centrale, decorata, doveva essere
stata riservata alla badessa Ariperga. Come puoi notare dalla tomba chiusa a
sinistra, si trattava di sepolture dette «a cappuccina».
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Fig. 23 Le tombe longobarde
Naturalmente non manca la cripta! Ci troviamo in un ambiente molto suggestivo.
Al periodo longobardo risalgono i capitelli delle colonne. Ma guarda, ci sono
anche tre reliquiari dei secoli IX-X: servivano a contenere parti o frammenti di
corpi venerati come santi. L’iscrizione ci spiega le loro vicissitudini: trasportate in
Duomo nel 1787, vennero ricollocate qui nel 1940.
Fig. 24 Una delle arche della cripta
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Ora usciamo dal chiostro della facoltà di Lettere e Filosofia. Possiamo notare il
porticato. Nei tondi tra le arcate si vedono i ritratti delle monache che abitarono in
questo monastero nel XV secolo.
Ora siamo in piazza Botta. Ci mancano altre due importanti tappe e dobbiamo
percorrere un po’ di strada. Andiamo verso nord, attraversiamo il viale Matteotti e
spostiamoci sull’altro lato.
DODICESIMA TAPPA: SAN PIETRO IN CIEL D’ORO
Ci troviamo sul sagrato della basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, una delle più
famose e antiche della città. Il nome deriva dal suo soffitto completamente dorato. Il
monumento primitivo, datato al VI secolo, raggiunse grande splendore sotto il regno
del sovrano longobardo Liutprando (712-744), che la fece ingrandire e vi fece
trasportare dalla Sardegna le reliquie del dottore della Chiesa Agostino d’Ippona.
Accanto alla basilica il re fondò un monastero di monaci benedettini.
Lo testimonia ancora Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro VI, capitoli 48, 58).
Testo 10. Fonte letteraria
San Pietro in Ciel d’Oro
Liutprando, venuto a sapere che i Saraceni, dopo avere devastato la Sardegna,
infestavano anche i luoghi dove le ossa di Sant’Agostino vescovo erano già state
trasferite e onorevolmente sepolte proprio per evitare la profanazione dei Barbari,
inviò alcuni suoi ambasciatori che, mediante una forte somma, ottennero di
poterle trasportare a Pavia. Qui Liutprando li fece inumare con tutti gli onori
dovuti a tanto padre […]. Questo gloriosissimo principe, nei diversi luoghi dove
soleva vivere, costruì molte basiliche in onore di Cristo. Eresse il monumento del
beato Pietro che è chiamato «Cielo d’Oro».
Nel 774 il re franco Carlo Magno, subentrato ai Longobardi, istituì una celebre scuola di
studi superiori: la biblioteca fu danneggiata in seguito all’incendio divampato durante
l’incursione degli Ungari nel 924. Nel X secolo l’abate francese Maiolo di Cluny
promosse una riforma del monastero, che fu occupato dai Canonici Mortariensi nel 1213
e, dal 1518, dai Lateranensi, cui si deve la costruzione del grandioso convento a sinistra
della basilica.
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L’attuale chiesa è in stile romanico e fu consacrata da papa Innocenzo II nel 1132, per
cui l’edificio longobardo è stato sostituito. Ma non preoccuparti! Rimane il ricordo di tre
grandi personaggi legati al suo passato longobardo. Entrando è immediatamente visibile
l’Arca marmorea con le reliquie di Agostino d’Ippona, che reca la data del 1362 ed è un
capolavoro della scultura lombarda.
Fig. 25 San Pietro in Ciel d’Oro: Arca di Agostino d’Ippona
Alla morte re Liuprando venne sepolto all’interno del mausoleo di Sant’Adriano presso
la basilica di Santa Maria alle Pertiche. Nel XII secolo le sue spoglie vennero furono
trasferite all’interno di San Pietro in Ciel d’Oro, dove il sovrano aveva fatto riunire le
reliquie di Sant’Agostino e di Severino Boezio. I resti del sovrano, dopo alterne vicende,
sono ora ospitate sotto il pavimento dell’abside, dove, sulla destra, un pilastro reca
l’iscrizione che possiamo tradurre così:
Flavio Lyutprando è venerato in questa tomba, già
inclito Re dei Longobardi, forte in armi,
e vincitore in guerra. Lo confermano Sutri e Bologna,
e Rimini, e le mura di Spoleto conquistata,
perché sottomise queste città con la forza delle armi
e Roma temè molto la sua forza, quando questo milite
l’assediò. Poi tremarono i feroci
Saraceni, che con solerzia assalì,
quando premevano sui Franchi, ed egli volle aiutare Carlo.
Solo egli aiutò gli Ungari e i Franchi, e tutti
i vicini vivevano in pace nelle loro città.
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DODICESIMA TAPPA: LA SEZIONE LONGOBARDA DEL CASTELLO
VISCONTEO
Ritorniamo in viale Matteotti e dirigiamoci verso il Castello Visconteo, fatto
edificare nel Trecento su iniziativa di Galeazzo Visconti. Entrando dal cosiddetto
Rivellino, raggiungiamo il chiostro, sul quale si affacciano diverse sale adibite a
museo. A noi interessa la sezione longobarda. Vi troviamo reperti provenienti da
monumenti longobardi perduti di Pavia e provincia: lastre tombali, iscrizioni
funebri frammenti architettonici e scultorei di chiese e monasteri.
Fra le epigrafi in onore di personaggi di nobile stirpe longobarda possiamo
ammirare:
• LASTRA DI RAGINTRUDA (da S. MARIA ALLE PERTICHE)
• I BASSORILIEVI DELLE LASTRE TOMBALI DI TEODOTE CON
FOGLIE, FIORI E ANIMALI FANTASTICI ( da S. MICHELE ALLA
PUSTERLA)
Fig. 26 Pavia, Musei Civici, Sezione longobarda: i plutei del monastero di Teodote
LASTRA FUNEARIA DI CUNINPERGA (da S. AGATA AL MONTE)
• LASTRA FUNERARIA DI AUDOALDO ( da S. MARIA ALLE
PERTICHE)
• SIGILLO TOMBALE DI SENATORE (da VILLAREGGIO)
Nelle vetrine puoi anche notare alcuni manufatti dell’oreficeria longobarda.
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AL LAVORO
ESERCIZIO 1
Ora sei ritornato in classe. Scegli uno dei monumenti visitati e descrivilo. Ricordati di
indicare:
• Epoca
• Committente (chi lo fece costruire)
• Tracce superstiti
• Motivi della scelta
ESERCIZIO 2
Fra i brani riportati della Storia dei Longobardi di Paolo Diacono qui riportati scegline
uno e riscrivilo dando al tuo racconto un’ambientazione moderna.
BUON LAVORO!!!
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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• Arecchi A. Un momento dell’architettura medievale pavese: la cripta di San Giovanni
Domnarum, in «Pavia Economica», 24 (1969), pp. 74 - 80
• Arecchi A. (a cura di), Lomello, Abbiategrasso, Litografia Abbiatense, 1998
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cura di), La Provincia di Pavia. Leggende e storie, Pavia, Vigevano, Punto & Virgola,
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Scopri Pavia. Testi naturalistici Arianna Stoppo – disegni di A. Valente, Piacenza,
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Cripta di S. Giovanni Domnarum, << Bollettino della Società Pavese di Storia
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Domnarum, Pavia, Artigianelli, 1915
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A Pavia sulle orme dei Longobardi