Il quaderno didattico A Pavia sulle orme dei Longobardi è stato elaborato dalla prof.ssa Elena Necchi, docente di scuola secondaria, che lo ha gentilmente messo a disposizione di studenti e docenti interessati all’argomento. A PAVIA SULLE ORME DEI LONGOBARDI Percorso interdisciplinare per la Scuola secondaria di Primo Grado A cura di Elena Necchi In copertina: Parigi, Biblioteca Nazionale (miniatura del secolo XVI): Carlo Magno conquista la città di Pavia e pone fine al regno dei Longobardi 2 INDICE INTRODUZIONE p. 4 I. UN POPOLO VENUTO DAL NORD p. 5 II. PAVIA CAPITALE p. 13 III. IN CAMMINO p. 15 IV. AL LAVORO p. 38 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE p. 39 3 INTRODUZIONE Il presente opuscolo è un itinerario in Pavia e provincia alla scoperta delle testimonianze del glorioso passato della città quale capitale del regno longobardo per due secoli (572 – 774). Non ci riferiamo a evidenze di grande imponenza monumentale, bensì a frammenti architettonici, scultorei e pittorici quasi sempre nascosti sotto il peso di costruzioni più recenti, le quali talvolta rischiano talvolta di sovrapporsi irreparabilmente alle tracce di un passato ormai remoto ma meritevole di essere richiamato alla memoria. Destinatari sono tutti, ma soprattutto i giovani studenti delle scuole dell’obbligo. La scelta di rivolgersi ai giovani deriva in gran parte dalla constatazione di come, troppo spesso, i ritmi della quotidianità impediscano di rivolgere lo sguardo al passato e alle nostre matrici culturali. Così, per molti dei nostri studenti la città diventa luogo di un frenetico pellegrinaggio le cui tappe sono scandite solamente da negozi e luoghi di divertimento. Senza assumere toni polemici o antiprogressisti, desideriamo fornire un piccolo contributo alla formazione nelle nuove generazioni dell’attitudine a una più consapevole fruizione del loro territorio, animata da un occhio attento a cogliere le vestigia delle più lontane radici. 4 I UN POPOLO VENUTO DAL NORD 1. DALLA SCANDINAVIA AL CENTRO EUROPA Secondo antiche tradizioni i Longobardi in origine si chiamavano winnili e abitavano la Scandinavia meridionale. Sotto la guida dei fratelli Ibor e Aio, figli di Gambara, migrarono verso sud, sulle coste meridionali del Mar Baltico, e si stabilirono in Scoringa (l'area della foce dell'Elba o, più probabilmente, la fascia costiera di fronte all'isola di Rügen). Presto vennero in conflitto con i vicini Vandali, anch'essi Germani, e si trovarono in difficoltà poiché il loro valore non bastava a compensare l'esiguità numerica. Narra la leggenda che i capi dei Vandali pregarono Odino di concedere loro la vittoria, ma il dio supremo disse che avrebbe decretato la supremazia del popolo che avesse visto per primo il mattino della battaglia. Gambara ed i figli invece ricorsero alla moglie di Odino, Frigg, che diede loro il consiglio di presentarsi al sorgere del sole, uomini e donne insieme, le donne coi capelli sciolti fin sotto il mento come fossero barbe. Al sorgere del sole Frigg fece sì che Odino si girasse dalla parte dei Winnili, e questi quando li vide chiese: "Chi sono quelli con le lunghe barbe?" (cfr. antico germanico Langbärte). Al che la dea rispose: "Poiché gli hai dato un nome, concedi loro anche la vittoria". Il primo contatto dei Longobardi con i Romani risale al 5 d. C., durante la campagna germanica di Tiberio. Erano stanziati sul basso corso dell'Elba, nell'attuale Germania settentrionale, e furono descritti come più feroci ancora degli altri Germani. Vennero quindi inclusi fra le popolazioni coinvolte nella prima campagna (167–169) di combattimenti fra le legioni romane di Marco Aurelio e numerosi popoli, tra cui spiccavano Marcomanni, Quadi, Vandali e Sarmati, i quali premevano ai confini dell'Impero romano. La guerra, che chiudeva un lunghissimo periodo di pace, mise in evidenza il valore dei Longobardi, e al tempo stesso consentì loro di conoscere nuove regioni, di apprendere nuove tattiche militari e, soprattutto, di arricchirsi con le razzie. Dopo la sconfitta dei Marcomanni, rimasero presso l'Elba fino alla seconda metà del IV secolo, anche se la loro migrazione verso sud aveva già avuto avvio agli inizi del III. 5 2. MIGRAZIONE VERSO SUD Fig. 1 La migrazione dei Longobardi Per il periodo successivo la storia dei Longobardi è sostanzialmente sconosciuta. Nella seconda metà del IV secolo furono cristianizzati da monaci ariani, i quali professavano una fede religiosa differente rispetto al cattolicesimo della Chiesa di Roma: si opponevano al dogma della Trinità, proclamato al Concilio di Nicea del 325, secondo il quale il Padre e il Figlio sarebbero uguali. Nella stessa fase si avviò anche la trasformazione della loro organizzazione tribale verso un sistema guidato da un gruppo di duchi che comandavano proprie bande guerriere sotto un sovrano, il quale ben presto si trasformò in un re vero e proprio: eletto, come generalmente accadeva in tutti i popoli indoeuropei, per acclamazione dal popolo in armi, aveva un controllo generalmente debole sui duchi. Nel 488-493 i Longobardi "ritornarono" alla storia, stanziati nelle terre lasciate libere dai Rugi nel Norico (corrispondente all'attuale Bassa Austria). Per la prima volta entrarono in un territorio marcato dalla civiltà romana. In quel momento, infatti, a causa delle lotte in Italia fra Odoacre e Teodorico, si era verificato un vuoto di potere a nord del Danubio. All'epoca, i Longobardi erano ormai una vasta tribù che, nel corso di progressivi spostamenti, aveva inglobato o sottomesso diversi individui, gruppi e forse anche intere tribù, germaniche o di altra origine, incontrate durante la migrazione. Giunti nel Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i nuovi vicini, gli Eruli, e finirono per stabilirsi nel territorio detto situato ad oriente di Vienna. Sotto il re Tatone, sfidato e insultato dal re degli Eruli Rodolfo, si sollevarono e li sterminarono, eliminando anche lo stesso Rodolfo (508). La sconfitta degli Eruli fu tale da causare la scomparsa di questo popolo dalle cronache, mentre i Longobardi accrebbero la loro ricchezza ed importanza in modo considerevole. Tra l’altro, il contatto con gli Eruli permise ai Longobardi di aderire progressivamente al cattolicesimo fin dal VI secolo. Verso il 510 Tatone fu ucciso dal nipote Vacone, che si autoproclamò re e, assicuratosi un potere su un territorio che dalla Boemia arrivava all’odierna Ungheria, divenne uno dei più importanti sovrani d'Europa. Alla sua morte (540) il figlio Valtari era minorenne, e quando anni dopo morì il suo reggente, Audoino usurpò il trono ignorando i diritti dei Letingi. La 6 situazione politica erodeva lo spazio di manovra dei Longobardi, col sempre crescente potere dei Franchi, i quali, accordatisi con il nuovo re ostrogoto Totila, erano riusciti a occupare il Norico e a fare ulteriori passi in Italia settentrionale, mettendo così anche a rischio i piani dell’imperatore d’Oriente Giustiniano sull'Italia. Audoino cambiò totalmente il quadro delle alleanze del predecessore, accordandosi (nel 547 o nel 548) con Giustiniano per occupare, in Pannonia, la Provincia Savia (il territorio che si stende fra i fiumi Drava e Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente contro i vecchi alleati Franchi e Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di comunicazione sicure con l'Italia. Nel 567 un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da ovest, gli Avari da est) si concluse con due sanguinose battaglie, entrambe fatali ai Gepidi, che scomparivano così dalla storia. Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il loro territorio, salvo il litorale dalmata che tornò ai Bizantini. 3. L’INVASIONE DELL’ITALIA Sconfitti i Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per Alboino, che al loro posto aveva dovuto permettere l’insediamento dei meno pericolosi Avari; dalla feroce campagna non aveva ricavato nient'altro che gloria. I suoi vassalli, che vedevano gli Avari impossessarsi del bottino per cui avevano combattuto, cominciarono a mostrarsi poco convinti della sua guida. Decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia, appena devastate dalla sanguinosissima Guerra gotica e quindi meno pronte ad una difesa a oltranza. Per guardarsi le spalle, si accordò ancora con gli Avari, che poterono stanziarsi nella Pannonia (odierna Ungheria), lasciata dai Longobardi (e quindi tagliare le linee di comunicazione di Bisanzio); in caso di ritorno dei precedenti proprietari, gli Avari avrebbero dovuto restituire la regione. Nella primavera del 568 i Longobardi, sempre guidati da Alboino, invasero l'Italia attraversando l'Isonzo. Insieme a loro c'erano contingenti di altri popoli, come ventimila Sassoni che per lo più rimasero sempre in qualche modo separati da loro (fino a che lo scoppio di disaccordi sul loro diritto a non essere assorbiti non portò alla loro ritirata a nord delle Alpi, nel 573). La prima città a cadere nelle mani dei longobardi fu Cividale del Friuli (Forum Iulii), dove Alboino insediò un nipote come duca. Poi cedettero, in rapida successione, Aquileia, Treviso, Vicenza, Verona. Nel settembre 569 aprirono le porte Milano e Lucca. Dopo tre anni di assedio, nel 572 anche Pavia cadde e Alboino ne fece il centro più importante del suo regno, una capitale. Gli Ostrogoti che erano rimasti in Italia non opposero strenua resistenza, vista la scelta fra cadere in mano ai Longobardi, dopotutto Germani come loro, o restare in quelle dei Bizantini. Alcune eccezioni tuttavia si verificarono. I Longobardi proseguirono la loro conquista discendendo la penisola fino nell'Italia centro–meridionale. I Bizantini non riuscirono a resistere agli invasori perché erano carenti di truppe e perché erano impegnati in altre operazioni di guerra, ma conservarono alcune zone costiere dell'Italia continentale: l'Esarcato (la Romagna, con capitale Ravenna), la Pentapoli (comprendenti i territori costieri dell’Emilia-Romagna e delle Marche e le cinque città di Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia e Rimini), parte del Lazio e dell’Italia meridionale (le città della costa campana, Salerno esclusa, la Puglia e la Calabria). Così l'Italia si trovò divisa tra i conquistatori giunti dal nord e i Bizantini, secondo confini che nel corso del tempo subirono notevoli oscillazioni. I nuovi venuti si ripartirono tra la Langobardia Major 7 (l'Italia settentrionale e il Ducato di Tuscia) e Langobardia Minor (i ducati di Spoleto e Benevento), mentre la terra rimasta sotto controllo bizantino (Romània) aveva come fulcro l'Esarcato di Ravenna. Nel 572, dopo la capitolazione di Pavia e la sua elevazione a capitale del regno, Alboino cadde vittima di una congiura ordita a Verona dalla moglie Rosmunda e da alcuni guerrieri. Il regno di Alboino aveva segnato un ritorno dell’arianesimo a scapito della fede cattolica, in quanto il sovrano, per reazione contro il tradimento da parte dell’imperatore bizantino, si era apertamente schierato contro la Chiesa di Roma. Fig. 2 I domini longobardi alla morte di Alboino (572) Più tardi, nello stesso anno, i duchi acclamarono re Clefi. Il nuovo sovrano estese i confini del regno, completando la conquista della Tuscia, e tentò di continuare coerentemente la politica di Alboino, eliminando l'antica aristocrazia latina per acquisirne terre e patrimoni. Clefi fu ucciso, forse su istigazione dei Bizantini, nel 574; i duchi non nominarono un altro re e per un decennio regnarono da sovrani assoluti nei rispettivi ducati (Periodo dei Duchi). Nel 584 i duchi, davanti alla chiara necessità di una forte monarchia centralizzata per far fronte alla pressione dei Franchi e dei Bizantini, incoronarono re Autari e gli consegnarono metà dei loro beni. Il sovrano riorganizzò i Longobardi e il loro insediamento in forma stabile in Italia e assunse il titolo di Flavio, con il quale intendeva proclamarsi anche protettore di tutti i romani. Nel 590 sposò la principessa bavara Teodolinda. Autari morì in quello stesso 590 e a succedergli fu chiamato il duca di Torino, Agilulfo, che sposò a sua volta Teodolinda (fu lei stessa a sceglierlo come nuovo marito e sovrano, secondo la leggenda): le nozze vennero celebrate a Lomello. L'influenza della regina sulla politica di Agilulfo fu notevole, e le decisioni principali vengono attribuite a entrambi. Alla morte di Agilulfo, nel 616, il trono passò al figlio minorenne Adaloaldo, e Teodolinda, reggente, proseguì la sua 8 politica, suscitando però una sempre più decisa opposizione tra i Longobardi; il conflitto esplose nel 624 e fu capeggiato da Arioaldo, che nel 625 depose Adaloaldo e si insediò al suo posto. Nel 636 gli successe l'ariano Rotari, duca di Brescia, che regnò fino al 652 e conquistò quasi tutta l'Italia settentrionale, occupando Oderzo e la Liguria. La sua memoria è legata al celebre Editto, un insieme di leggi promulgato proprio a Pavia nel 643. Fu la prima raccolta scritta delle leggi e delle consuetudini dei Longobardi. Precedentemente, in assenza di una raccolta scritta, le leggi potevano subire delle modifiche dovute alla loro trasmissione orale. La stesura per iscritto ne avrebbe garantito la conservazione secondo le intenzioni di che le promulgava. Nell’Editto, alla faida, un tipo di vendetta privata che consentiva di farsi giustizia da sé, si sostituiva il sistema del guidrigildo, che stabiliva un versamento di somme di denaro come riparazione al danno arrecato. Il testo è conservato in manoscritti raccolti in importanti biblioteche. Bisogna ricordare infatti che per tutto il Medio Evo i libri venivano scritti a mano su fogli dei pelle di animali (di solito pecore) rilegati in cuoio. Dai manoscritti dell’Editto gli studiosi hanno ricavato delle edizioni a stampa più facilmente leggibili. Fig. 3 I domini longobardi alla morte di Rotari (652) Nel 653, con Ariperto I, ritornava sul trono la dinastia Bavarese, segno del prevalere della fazione cattolica su quella ariana. Nel 712 salì al trono Sul trono salì Liutprando, e il suo regno fu il più lungo di tutti quelli Longobardi in Italia. Il suo popolo gli riconobbe audacia, valore militare e lungimiranza politica, ma a questi valori tipici della stirpe germanica Liutprando, re di una nazione ormai in stragrande maggioranza cattolica, unì quelle di piissimus rex (sovrano religiosissimo). La sua alleanza con i Franchi, coronata da una 9 simbolica adozione del giovane Pipino il Breve, e con gli Avari, ai confini orientali, gli consentì di avere le mani libere nello scacchiere italiano. Nel 726 si impadronì di molte città dell'Esarcato e della Pentapoli, atteggiandosi a protettore dei cattolici; per non inimicarsi il papa, tuttavia, rinunciò all'occupazione di Sutri, che restituì non all'imperatore ma agli apostoli Pietro e Paolo. Questa donazione, nota come Donazione di Sutri, fornì il precedente legale per attribuire un potere temporale al papato, che avrebbe infine prodotto lo Stato della Chiesa. Negli anni successivi Liutprando portò anche i ducati di Spoleto e di Benevento sotto la sua autorità: mai nessun re longobardo aveva ottenuto simili risultati. La solidità del suo potere si fondava, oltre che sul carisma personale, anche sulla riorganizzazione delle strutture del regno che aveva intrapreso fin dai primi anni. Dopo la morte di Liutprando (744) una rivolta destituì suo nipote Ildebrando e insediò al suo posto il duca del Friuli, Ratchis, che tuttavia si dimostrò un sovrano debole. Cercò sostegno presso la piccola nobiltà e i Romanici, inimicandosi la base dei Longobardi che lo costrinse presto a tornare all'offensiva e ad attaccare la Pentapoli. Il papa lo convinse a desistere e il suo prestigio crollò; i duchi elessero come nuovo re suo fratello, Astolfo, e Ratchis si ritirò a Montecassino. Fig. 4 I domini longobardi dopo le conquiste di Astolfo (751) Astolfo, espressione della corrente più aggressiva dei duchi, intraprese una politica espansionistica e all'inizio colse notevoli successi, culminati nella conquista di Ravenna (751); le sue campagne portarono i Longobardi a un dominio quasi completo dell'Italia, con l'occupazione (750-751) anche dell'Istria, di Ferrara, di Comacchio e di tutti i territori a sud di Ravenna fino a Perugia, mentre nella Langobardia Minor riuscì a imporre il suo potere anche a Spoleto e, indirettamente, a Benevento. Proprio nel momento in cui Astolfo pareva ormai avviato a vincere tutte le opposizioni su suolo italiano, Pipino il Breve, nuovo re dei Franchi, si accordò con papa Stefano III che, in cambio della solenne unzione regale, ottenne la discesa in Italia dei Franchi. Nel 754 l'esercito longobardo fu sgominato dai Franchi e Astolfo dovette accettare consegne di ostaggi e 10 cessioni territoriali. Due anni dopo riprese la guerra contro il papa, che richiamò i Franchi. Sconfitto di nuovo, Astolfo dovette accettare patti molto più duri: Ravenna passò al papa, incrementando il nucleo territoriale del Patrimonio di San Pietro e il re dovette accettare una sorta di protettorato. Alla morte di Astolfo, nel 756, Ratchis uscì dal monastero e tentò, inizialmente con qualche successo, di ritornare sul trono. Si oppose Desiderio, duca di Tuscia, che riuscì a ottenere l'appoggio del papa e dei Franchi. I Longobardi gli si sottomisero e Ratchis ritornò a Montecassino. Desiderio riaffermò il controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete di monasteri governati da aristocratici longobardi e arrivando a patti con il nuovo papa, Paolo I. Sviluppò una disinvolta politica matrimoniale sposando una figlia al duca di Baviera Tassilone e un'altra, di nome Ermengarda o Desiderata, al futuro Carlo Magno. Nel 771, la morte del fratello Carlomanno lasciò mano libera a Carlo Magno che, ormai saldo sul trono, ripudiò la figlia di Desiderio. L'anno successivo un nuovo papa, Adriano I, del partito avverso a Desiderio, pretese la consegna di alcuni territori promessi mai ceduti dal sovrano Longobardo e portandolo così a riprendere la guerra contro le città della Romagna. Carlo Magno venne in aiuto del papa e tra il 773 e il 774 scese in Italia e conquistò la capitale del regno, Pavia. Il figlio di Desiderio, Adelchi, trovò rifugio presso i Bizantini; Desiderio e la moglie furono deportati in Francia. Carlo si fece chiamare da allora Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum (Re dei Franchi e dei Longobardi per grazia di Dio), realizzando un'unione personale dei due regni, mantenendo le leggi longobarde, ma riorganizzando il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi. Così crollava la Langobardia Maior (Longobardia Maggiore). I domini longobardi dell'Italia centromeridionale (quella che si chiamava Langobardia Minor (Longobardia Minore), rispetto a quella più vasta del settentrione), subirono destini differenti. Il Ducato di Spoleto cadde immediatamente in mano franca, mentre quello di Benevento si mantenne autonomo. Il duca Arechi II, al potere al momento del crollo del regno, aspirò inutilmente al trono reale; assunse poi il titolo di principe. Nei secoli seguenti gli Stati longobardi del meridione (dal Principato di Benevento si staccarono presto il Principato di Salerno e la Signoria di Capua) furono travagliati da lotte interne e da contrasti con le potenze maggiori (il Sacro Romano Impero e l'Impero bizantino), con i vicini ducati campani della costa e con i Saraceni. Vennero infine (XI secolo) assorbiti dai Normanni, come tutta l'Italia meridionale. Benevento, conquistata da Roberto il Guiscardo nel 1053, entrò a far parte dello Stato pontificio, anche se continuarono a essere nominati duchi longobardi (direttamente dal papa) fino al 1081. Sempre dopo il Mille, il Principato di Salerno, sotto il principe Guaimario IV, si espanse ed inglobò quasi tutta l'Italia meridionale continentale (1050); tuttavia anche questo principato divenne normanno con l'arrivo di Roberto il Guiscardo, che sposò Sichelgaita (figlia di Guaimario IV). Nel 1139 il principato (che fu anche chiamato "longobardo-normanno") evolse nel Regno di Sicilia (durato - con vari nomi - sette secoli, fino al 1861). La persistenza di Stati autonomi permise ai Longobardi di salvaguardare una propria identità culturale e mantenne gran parte dell'Italia del Sud nell'orbita culturale occidentale, anziché in quella bizantina. 4. LA SOCIETÀ LONGOBARDA 11 I Longobardi si definivano gens Langobardorum: una gens, quindi, ovvero un gruppo di individui che aveva ben chiara la consapevolezza di formare una comunità e convinto di condividere un'ascendenza comune. Questo, tuttavia, non significava che fossero un gruppo etnicamente omogeneo; durante il processo migratorio inclusero al loro interno individui isolati o frammenti di popoli incontrati durante i loro spostamenti, soprattutto attraverso l'inserimento di guerrieri. I Longobardi erano un popolo in armi guidato da un'aristocrazia di cavalieri e da un re guerriero. Il titolo non era dinastico ma elettivo: l'elezione si svolgeva nell'ambito dell'esercito, che fungeva da assemblea degli uomini liberi (arimanni). Alla base della piramide sociale c'erano i servi, che vivevano in condizioni di schiavitù; a livello intermedio si trovavano gli aldii, che avevano limitata libertà ma una certa autonomia in ambito economico. Al momento dell'invasione dell'Italia (568), il popolo era suddiviso in varie fare, raggruppamenti familiari con funzioni militari che ne garantivano la coesione durante i grandi spostamenti. A capo di ogni fara c'era un duca. In Italia le fare si insediarono sul territorio ripartendosi tra gli insediamenti fortificati già esistenti e una prima fase respinsero ogni commistione con la popolazione di origine latina (i Romanici), arroccandosi a difesa dei propri privilegi coltivando così i tratti che li distinguevano sia dai loro avversari Bizantini sia dai Romanici: la lingua germanica, la religione pagana o ariana, il monopolio del potere politico e militare. L'irruzione dei Longobardi sulla scena italiana sconvolse i rapporti sociali della Penisola. La maggior parte del ceto dirigente latino (i nobiles) fu uccisa o scacciata, mentre i pochi scampati dovettero cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro beni, secondo il procedimento dell'hospitalitas. Gradualmente i nuovi venuto si amalgamarono con la popolazione italica, e la conversione al cattolicesimo accelerò questo processo. II PAVIA CAPITALE 12 Durante la dominazione longobarda in Italia Pavia divenne una città importante e, a partire dal VII secolo, si affermò come indiscussa capitale, superando per importanza città come Milano, Brescia e Monza, dove i Longobardi hanno lasciato importanti tracce della loro dominazione. Fu proprio la nostra città a cadere nelle mani dei Franchi, guidati da Carlo Magno (774). In epoca longobarda Pavia era una città fatta di case di fango con tetti di paglia, raggruppate intorno a poche costruzioni di pietra: il Palazzo reale, che era abitazione del re e sede amministrativa, le torri delle mura di difesa, il ponte romano e i resti antichi, usate come cave di materiale peri nuovi edifici. Arroccata sul terrazzo fluviale di 12 m, al di sopra della portata delle piene, era ben difesa anche dalla sua posizione tra due solchi vallivi profondamente incisi. La città continuava a essere suddivisa dalle due strade principali risalenti all’epoca romana: il cardo, corrispondente all’attuale corso Strada Nuova e il decumano, sul quale si sono sovrapposti gli attuali corsi Cavour e Mazzini. Queste due antiche assi viarie suddividevano la città in quattro quadranti: nord – est e nord-ovest, sud-est e sud-ovest. Dapprima i Longobardi si stanziarono a sud-est, in un quartiere quasi a sé, poi gradualmente si estesero anche nel resto del centro cittadino, fondendosi con gli abitanti locali di antica origine italica. Fino al VII secolo Pavia continuò a chiamarsi Ticinum. Poi all’antico nome si affiancò gradualmente quello di Papia, e quando nel XIII secolo si affermò la leggenda della fondazione di una primitiva Papia vegia per opera di una tribù di Galli nei pressi dell’attuale località Santa Sofia a tre chilometri dalla città attuale, il nuovo toponimo Papia aveva ormai soppiantato l’antico Ticinum. Purtroppo non rimangono molte tracce immediatamente visibili dell’illustre passato longobardo di Pavia. Infatti molto degli antichi palazzi sono andati distrutti per il trascorrere del tempo o in seguito a eventi catastrofici, come le invasioni straniere, gli incendi o il terremoto che nel 1117 colpì diverse città dell’Italia settentrionale: alcuni sono stati ricostruiti, di altri rimane solo qualche debole traccia o ricordo. È comunque possibile ricostruire l’aspetto della capitale attraverso i segni ancora presenti nel tessuto urbano. Ci lasceremo guidare da diverse tipologie di fonti utili a tracciare il nostro percorso: 13 • FONTI ICONOGRAFICHE Immagini dipinte o scolpite appartenute a edifici, soprattutto chiese. In genere, visti i secoli trascorsi e le modifiche subite dai monumenti, si conservano solo dei frammenti o parti ridotte. • FONTI EPIGRAFICHE Le epigrafi sono iscrizioni incise su pietra allo scopo di ricordare re, regine, principi, principesse, nobili, vescovi o altri personaggi importanti. • FONTI SCRITTE La più importante è la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono. In essa si raccontano le vicende del popolo, talvolta mescolate a leggende, dalla prima migrazione dalla Scandinavia fino al regno di Liutprando, morto nel 744, quindi trenta anni prima dell’arrivo dei Franchi a Pavia. Ma chi era questo Paolo Diacono? Nacque verso il 725 a Cividale del Friuli, dove intraprese gli studi in una scuola religiosa. Verso il 744 si trasferì a Pavia per completare la propria istruzione: apprese la teologia e la lingua greca. Qui conobbe Adelperga, una delle figlie di re Desiderio, e, quando la principessa sposò il duca Arechis II, egli la seguì a Benevento. In onore della nobildonna compose la prima opera: Adelperga pia ( La pietosa Adelperga). Con la caduta del regno longobardo si fece monaco benedettino e si recò alla corte di Carlo Magno per intercedere a favore del fratello Arichis, che si era ribellato ai Franchi. Rimase legato al nuovo re fino alla morte nel 799, un anno prima dell’incoronazione di Carlo quale sovrano del Sacro Romano Impero (25 dicembre 800). Oltre alla Storia dei Longobardi e a La pietosa Adelperga, il letterato compose: la Storia romana, la Storia dei vescovi di Metz, un manuale di grammatica, un Omeliario (sermoni per la messa) e altre composizioni sacre e profane. 14 III IN CAMMINO Iniziamo ora un percorso alla ricerca delle testimonianze della Pavia longobarda. Ci faremo guidare soprattutto dalla Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, il quale , oltre al palazzo reale, ricorda otto chiese, alcune delle quali sono scomparse, mentre di altre rimangono tracce archeologiche nelle cripte. Un’importante raccolta di reperti provenienti da antiche costruzioni di epoca longobarda è conservata presso la Sezione Longobarda dei Musei Civici del Castello Visconteo. Per scoprire queste testimonianze dovremo fare molta attenzione e… molta strada! PRIMA TAPPA : VIA ALBOINO Iniziamo il nostro percorso in Piazza Berengario. Risaliamo attraverso le viuzze del centro cittadino e raggiungiamo la via Alboino, che ricorda l’antico sovrano longobardo. A sinistra, sulla parte di un palazzo medievale ora ristrutturato notiamo il cartello «Reggia di Alboino». Ma attenzione! Il re non abitava qui, è solo una leggenda, in quanto il Palazzo reale sorgeva a qualche isolato di distanza. Fig. 5 Bifora sulla facciata della cosiddetta Reggia di Alboino 15 Arriviamo in fondo e passiamo in corso Garibaldi. Sul muro della casa d’angolo alla nostra sinistra notiamo un lapide che ricorda l’entrata dei Longobardi a Pavia nel 572, proprio dove sorgeva la Porta San Giovanni. Ecco la traduzione: Questa fu già un tempo la Porta dell’antichissima città regale, sul cui limitare, dopo un duro assedio di tre anni e sei mesi e dopo che era stato fatto un patto vitale e onorevole per gli abitanti, il cavallo del re Alboino, mentre il violatore del trattato [il re] vi sedeva sopra, stramazzò al suolo suscitando grande stupore. Fig. 6 Lapide che ricorda l’ingresso a Pavia di Alboino Questo episodio è ricordato nella famosa leggenda del cavallo di Alboino narrata da Paolo Diacono ( Storia dei Longobardi, libro II, cap. 27): Fonte letteraria IL CAVALLO DI ALBOINO Sopportato un assedio di tre anni e alcuni mesi, la città di Pavia alla fine si arrese ad Alboino e ai Longobardi assediatori. Mentre Alboino stava per fare il suo ingresso dalla porta detta di San Giovanni, nella parte orientale della città [dove ci troviamo noi adesso], il cavallo gli stramazzò proprio nel mezzo della porta e, benché incitato dagli sproni e pungolato da più parti da colpi d’asta, non riusciva a rialzarsi. Allora uno dei Longobardi così parlò al re: “Ricordati, o mio re e signore, quale voto facesti. Infrangi quel voto così spietato e potrai entrare in una città il cui popolo è cristiano”. 16 Alboino aveva fatto voto di passare a fil di spada tutta quella popolazione che non aveva voluto cedergli. Non appena lo ebbe rotto, impegnandosi invece a perdonare ai cittadini, subito il cavallo si rialzò, e Alboino potè entrare in città dove non recò danno a persona, mantenendo così la sua promessa. Allora tutto il popolo accorse al palazzo fatto costruire un tempo da Teodorico, e cominciò a darsi animo dopo tante miserie e a guardare al futuro con rinnovata speranza. Ora proseguiamo il nostro tragitto. Attraversiamo il corso e inoltriamoci in una viuzza che sale verso nord. SECONDA TAPPA: VIA E PIAZZA PORTA PALACENSE Ci troviamo in via Porta Palacense, che immette nell’omonima piazzetta. Fig. 7 Edificio con l’indicazione topografica «Piazza Porta Palacense» Sai che cosa significano questi toponimi? Letteralmente equivalgono a «piazza e via della Porta del Palazzo». Di quale palazzo si trattava? Era la reggia fatta edificare sotto il regno del sovrano ostrogoto Teodorico, della quale i Longobardi si impossessarono al loro arrivo a Pavia nel 572: servì come abitazione dei re e sede amministrativa, con gli uffici del tesoro, la cancelleria e il tribunale. Il re Pertarito (682-688) vi fece aprire una porta, appunto la Porta Palacense. Ascoltiamo ancora Paolo Diacono (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro V, capitolo 36): 17 Testo 2. Fonte letteraria La Porta Palacense In quel periodo il re fece costruire a Pavia, vicino alla reggia, una porta detta perciò Palatina, di mirabile fattura. Il palazzo, andato distrutto nel 1024, non esiste più. Ma continuiamo la nostra ricerca. TERZA TAPPA: LA CRIPTA DI SANTA MARIA ALLE CACCE Proseguiamo di qualche metro e giriamo a destra in via Adeodato Ressi, Sulla targa, sotto il nome attuale, leggiamo la dicitura «Ex via dei Goti», in ricordo degli antichi dominatori che precedettero i Longobardi. Sbuchiamo in via Volta. Vedi quel grosso edificio di fronte? Ci dirigiamo proprio lì. Si tratta dell’attuale Scuola Media «Felice Casorati». Ma dove sono i resti longobardi? Entriamo senza disturbare da uno dei cancelli in ferro battuto risalenti all’Ottocento. Noterai che il cortile, di forma quadrata con al centro una fontanella, è circondato da un porticato. Anticamente l’edificio era sede di un monastero. Fig. 8 Porticato di Santa Maria alle Cacce 18 Percorriamo l’atrio del lato sinistro fino a una porticina di legno. Oltrepassiamola e iniziamo a scendere. Ci troviamo in un ambiente molto particolare. È una cripta, termine di derivazione greca che significa «nascosto». Anticamente le cripte erano luoghi sotterranei costruiti sotto il presbiterio (parta riservata agli ecclesiastici) delle chiese: qui venivano conservate le reliquie, parti del corpo o degli abiti che si credevano appartenute ai santi. Il luogo in cui ci troviamo risale proprio all’epoca del dominio longobardo. La chiesa originaria sarebbe infatti stata fatta edificare nell’VIII secolo da Ratchis. Questi, dopo essere stato sovrano per breve tempo, cedette la corona al fratello Astolfo e si ritirò presso il convento di Montecassino, seguito dalla moglie Tassia e dalla figlia Rottruda, le quali trovarono ospitalità nel vicino convento della Plumbariola. Nel 756 Ratchis tornò a Pavia per contendere il regno, ma per poco tempo, e alla fine ritornò definitivamente a Montecassino. La chiesa in cui ci troviamo fu dapprima intitolata «Santa Maria fuori dalla Porta», in quanto si trovava appena fuori dalla Porta Palacense. Poi prevalse la dedica a «Santa Maria delle Cacce», per ricordare il luogo dove il re veniva a cacciare. La forma della cripta riconduce all’epoca longobarda: un corridoio rettilineo nel quale, a oriente, si saldavano due absidi laterali. Alza un po’ gli occhi e osserva. Vedi quel capitello in marmo cipollino? Risale al VI secolo e dovette essere riutilizzato per l’edificio dell’VIII secolo. La struttura subì trasformazioni nel XVI secolo, quando venne edificata al chiesa che si trova sopra le nostre teste. Dopo una serie di traversie il monastero è stato adibito a ospitare vari ordini di scuole. La cripta è stata scoperta durante i lavori di restauro del 1936. Fig. 9 Cripta di Santa Maria alle Cacce 19 Torniamo in superficie. Prima di proseguire andiamo a vedere il lato della chiesa seicentesca affacciato su via Scopoli. Vedi quella finestra a incasso? Apparteneva alla chiesa fatta costruire da Ratchis. Fig. 10 Monofora dell’antica chiesa di Santa Maria alle Cacce Adesso raggiungiamo il lato opposto e incamminiamoci per corso Mazzini, l’antico decumano, e attraversiamo la strada. Siamo passati nel quadrante Nord – Est. Anticamente alla sua estremità più settentrionale, oltre le mura cittadine, si trovava il cimitero dei Longobardi, i quali inizialmente non usavano i luoghi di sepoltura della popolazione cattolica locale presso la chiesa Santi Gervasio e Protasio, nel quartiere Nord – Ovest. Nel VII secolo (680 circa), sul cimitero longobardo la regina Rodelinda, moglie di quel Pertarito che fece erigere la Porta Palacense, fondò la chiesa di Santa Maria alle Pertiche, dove trovarono sepoltura la regina Ragintruda e il duca di Liguria Audoaldo, del quale si conserva l’iscrizione funebre. Più tardi venne annessa la cappella di S. Adriano, vero e proprio sepolcreto della famiglia reale: vi furono sepolti Ansprando e il figlio Liutprando, del quale avremo ancora modo di parlare. Ma perché intitolare un edificio religioso a Santa Maria alle Pertiche? Ci risponde Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro V, cap. 34) Testo 3. Fonte letteraria Santa Maria alle Pertiche Anche la regina Rodelinda, fuori dalle mura di Pavia, in località chiamata << Alle Pertiche>>, fece costruire con lavoro mirabile una basilica in onore della Santa Madre di Dio, e l’abbellì splendidamente. Quel luogo si chiama <<Alle Pertiche>>, perché una volta lì c’erano delle pertiche conficcate nel terreno, secondo un uso longobardo, e per questa 20 ragione: se uno moriva da qualche parte, in guerra o per qualunque altro accidente, i suoi parenti piantavano fra i loro sepolcri una pertica sulla cui sommità poi mettevano una colomba di legno rivolta verso il luogo in cui il loro caro era morto. Ciò per sapere da che parte riposasse. Purtroppo la chiesa, che doveva trovarsi sulla destra rispetto all’ingresso principale del Castello Visconteo, è stata demolita. Ma non siamo venuti qui sulle orme dei Longobardi? Non ci sono problemi! Proseguiamo lungo corso Mazzini, passiamo davanti al palazzo del Comune di Pavia. Sulla destra inizia la via Foro Magno, così chiamata forse in ricordo dello stanziamento in questo luogo di una faramannia, ovvero un insieme di nuclei familiari longobardi. Arriviamo all’incrocio con via Defendente Sacchi: qui, in occasione di opere di scavo, sono state rinvenute tre sepolture longobarde. Noi ora non entreremo in questa strada, ma raggiungiamo via Colonnello Galliano. Prima di girare a destra guardiamo di fronte a noi. Proprio lì, all’angolo fra corso Mazzini e via Felice Cavallotti, doveva terminare l’area occupata dalla reggia di Pavia ora scomparsa. Ora svoltiamo pure a destra, percorriamo la strada sino in fondo, attraversiamo la strada e inoltriamoci nella stradina che costeggia il Palazzo della Posta. QUARTA TAPPA: LA CRIPTA DI S. EUSEBIO Ed eccoci in piazza Leonardo da Vinci, celebre per le sue tre torri medievali, che al tempo dei Longobardi non erano ancora state costruite. Guarda alla tua sinistra. Vedi quell’enorme tetto? Si tratta della copertura moderna della cripta di S. Eusebio, scoperta nel secolo scorso. Usata come cattedrale dei Longobardi ariani, inizialmente doveva essere stata dedicata a S. Michele, loro santo patrono, mentre l’intitolazione a S. Eusebio venne adottata dopo la conversione al cattolicesimo, in ricordo del vescovo di Vercelli che aveva lottato contro il credo ariano. Sentiamo di nuovo la spiegazione di Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro IV, capitolo 42). Testo 4. Fonte letteraria La cripta di S. Eusebio In quel tempo quasi tutte le città del regno avevano due vescovi: uno cattolico, l’altro ariano. A Pavia, per esempio, ancor oggi si può vedere dove aveva il battistero il vescovo ariano, titolare della basilica di Sant’Eusebio, pur essendovi in città un altro vescovo, cattolico. Tuttavia il vescovo ariano di Pavia, Anastasio, convertitosi poi alla fede cattolica, resse la Chiesa di Cristo. Un operatore museale ci apre la cripta, solitamente chiusa e noi iniziamo a scendere dalla scaletta di ferro. All’esterno, accanto alle due porte laterali, notiamo i basamenti 21 della chiesa, sui quali si intravedono decorazioni con motivi geometrici di vari colori (blu, bianco, arancione). Fra le due porticine si vede, anche se murato, l’antico ingresso centrale. Entriamo da sinistra. Il luogo è un po’ buio, ma, se facciamo attenzione, possiamo scorgere interessanti reperti. La chiesa vanta origini longobarde, e per costruirla vennero riutilizzati materiali di epoca romana: mattoni e colonne provenienti da edifici preesistenti o caduti in disuso. L’edificio longobardo dei secoli VI-VII venne rifatto nell’XI secolo, e la cripta appartiene a questo periodo. Nel XVII secolo subentrò un altro rifacimento. Nel XX secolo l’edificio è stato demolito per costruire il Palazzo della Posta. La cripta è sta risparmiata e nascosta sotto una collinetta fino al 1968, quando è stata riscoperta. Lo spazio nel quale ci troviamo è diviso in cinque navate da dieci colonnine tutte diverse le une dalle altre, che reggono il soffitto a volta, su cui puoi ancora scorgere frammenti di pittura che rappresentano motivi religiosi. Come puoi notare, esse poggiano sull’originale pavimento in cocciopesto che si trova a un livello inferiore rispetto a quello attuale; solo quella posta a destra dell’altare mostra una base circolare in pietra. I capitelli, che derivano probabilmente dall’antica chiesa longobarda dei secoli VI-VII, sono oggi bianchi e presentano una decorazione particolare costituita da tante cellette geometriche, triangoli contrapposti, sovrapposti, oppure più arrotondati simili ad ali di cicala. Alcuni studiosi pensano che in origine fossero riempite di pasta di vetro colorata ( di rosso, blu, verde e giallo) e che così i capitelli somigliassero ai gioielli con i quali i Longobardi, uomini e donne, amavano adornarsi. Immagina come poteva apparire un tempo la cripta con i soffitti affrescati e le pareti decorate! Fig. 11 La cripta di S. Eusebio Ora dirigiti in fondo e guarda il pavimento ribassato: è realizzato con grossi mattoni, caratterizzati da un foro in cui è possibile inserire la mano per rendere più facile il trasporto, i cosiddetti mattoni manubriati. 22 Fig. 12 I mattoni manubriati Raggiungiamo di nuovo livello superiore, ritorniamo sui nostri passi, oltrepassiamo il Palazzo della Posta ed entriamo in via Mentana. Ci troviamo in Strada Nuova, l’antico cardo. Attraversiamo la strada e giriamo a sinistra. A circa venti metri troviamo un grosso incrocio, il punto di incrocio con l’antico decumano di epoca romana. Giriamo a destra e raggiungiamo Piazza della Vittoria. Incamminiamoci verso il palazzo medievale del Broletto e inoltriamoci a destra in via Omodeo. Ci troviamo nel quadrante Nord – Est della città. QUINTA TAPPA: I RESTI DI SANTO STEFANO Sulla sinistra notiamo delle parti più antiche rispetto al resto dell’edificio. Sono i resti del fianco nord della chiesa longobarda di Santo Stefano, costruita forse dal vescovo Damiano nel VII secolo quale prima cattedrale dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Stiamo costeggiando uno dei fianchi del Duomo. La costruzione attuale iniziò nel Rinascimento e prese il posto di due antiche chiese di origine longobarda: Santo Stefano, la prima cattedrale dopo la conversione dei Longobardi al cattolicesimo, e Santa Maria del Popolo, la cattedrale invernale fatta costruire qualche anno dopo dal nobile Anso. La costruzione dell’attuale Duomo, che sostituì le due preesistenti chiese, iniziò nel Rinascimento. Fig. 13 Fianco del Duomo con i resti dell’antica cattedrale di S. Stefano 23 La via Omodeo termina proprio con la piazza del Duomo. Raggiungiamo l’estremità opposta. La viuzza a sinistra porta in piazza Cavagneria. Qui, durante gli scavi archeologici, degli anni 1934-1935, emersero i resti di un battistero con esterno poligonale e interno circolare dedicato a San Giovanni, riservato agli uomini. Gli antichi battisteri erano costruzioni architettoniche separate o annesse alla chiesa principale. Generalmente sorgevano in luoghi termali, dai quali si ricavava l’acqua per il rito: la vasca era una struttura interrata con una ringhiera di marmo. SESTA TAPPA: LA CORONA DI TEODOLINDA Noi adesso svoltiamo a destra in via Teodolinda, la famosa regina longobarda che esercitò un ruolo fondamentale per la conversione dei Longobardi alla religione cattolica. Figlia di Garibaldo, duca di Baviera, sposò nel 589 Autari, re dei Longobardi, e, dopo la sua morte (590), il suo successore Agilulfo (morto a Milano fra il 615 e il 616). Con l’aiuto del pontefice Gregorio Magno, si impegnò nella conversione del popolo longobardo dal culto ariano al cattolicesimo, contribuendo a raddolcire i rapporti con le popolazioni locali. Rimasta di nuovo vedova, resse il regno assumendo il ruolo di regina dei Longobardi in nome del figlio Adaloaldo. Morì nel 625. Il suo ritratto letterario è contenuto nell’opera di Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro IV, capitolo 6,). Testo 5. Fonte letteraria Teodolinda Per questa regina la Chiesa […] conseguì molti vantaggi […] Dopo che il re, mosso dalle salutari insistenze di Teodolinda, si fu convertito alla fede cattolica, donò molti possedimenti alla Chiesa […] . A Pavia la sovrana preferì Monza, dove fece erigere la basilica di San Giovanni, cui donò preziosi tesori, come la corona ferrea. Tuttavia la città la ricorda con affetto. Lo si nota, per esempio, dall’intitolazione di questa via. Ma c’è di più! Proseguiamo tenendo la destra e guardiamo i numeri civici. Ecco il 27! Alt! L’Edificio è di struttura medievale. Avviciniamoci al cancello. Che cosa vedi sul muro di fronte? Proprio la riproduzione in cotto della corona ferrea conservata nel Duomo di Monza! 24 Fig. 14 Monza, Tesoro del Duomo: La corona di Teodolinda Fig. 15 Riproduzione in cotto della corona SETTIMA TAPPA: SANT’AGATA AL MONTE Arrivati in fondo alla via, giriamo a sinistra in via Frank e proseguiamo. Ci troviamo in una piazzetta circondata da alcuni palazzi antichi. C’è anche un ospedale, la Clinica Morelli. Anticamente su questo luogo sorgeva la chiesa di Sant’Agata al Monte, fatta erigere nel VII secolo dal già ricordato re longobardo Pertarito in una circostanza narrata da Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro, capitolo V, capitolo 34). Testo 6. Fonte letteraria Sant’Agata al Monte Non appena assunta la dignità reale, nello stesso tratto lungo il Ticino da dove una volta era fuggito, Pertarito fece costruire, al suo Signore e Liberatore e in onore di Sant’Agata vergine e martire, un monastero che si chiama Nuovo. In esso, dopo averlo arricchito di ornamenti e di benefici, raccolse molte vergini. Qui divenne badessa Teodote, la sorella del sovrano, e, più tardi, vi trovò sepoltura Cuniperga, figlia del re Cuniperto, del quale sentiremo parlare alla prossima tappa. Il nome Sant’Agata al Monte ricorda la dedicazione alla vergine omonima e l’ubicazione in cima a un poggio per chi proveniva dal Ticino. Infatti, la strada che costeggia la clinica e che porta sul Lungo Ticino risulta ancora oggi in notevole pendenza. OTTAVA TAPPA: IL MONASTERO DI TEODOTE (S. MICHELE ALLA PUSTERLA) Ora torniamo indietro e percorriamo la via Frank fino in fondo. Giriamo a sinistra e, tenendo il lato sinistro, raggiungiamo il numero civico 26, che corrisponde al 25 Seminario Vescovile. Che cosa ci sarà? Leggi la targhetta sulla sinistra «Mon. S. Maria Teodote alla Pusterla sec. XV. Resti di epoca longobarda sec. VIII». Suoniamo il campanello. Ci apre un custode, avvertito per tempo del nostro arrivo. Siamo introdotti in un bel chiostro disposto su due piani, realizzato nella seconda metà del Quattrocento: il piano inferiore è aperto e forma un porticato, mentre quello superiore è chiuso su tre lati. Il porticato è formato da ampie arcate che si appoggiano si sottili colonnine. Ogni arcata è decorata con formelle a bassorilievo in terracotta che rappresentano angioletti. Sopra a ogni colonnina ci sono figure di monaci in preghiera, e tra un arco e l’altro si trovano tondi raffiguranti altri monaci a mezzobusto. Possiamo osservare anche dei dipinti, la maggior parte andati persi; sulle volte del porticato rimangono alcune decorazioni con il simbolo del sole. E i Longobardi? Un attimo di pazienza! Ci arriviamo! Entriamo nel cortile e guardiamo alla nostra destra. Il muro non è lineare. Vediamo tre croci in cotto e gli attacchi di un’antica torre (scoperti nel 1968), che doveva fungere anche da porta della cinta di mura: si tratta molto probabilmente dei resti della ricostruzione bassomedievale di una preesistente struttura. Fig. 16 Croce in cotto Sul retro, attraverso una botola, si accede in un ambiente particolare: i resti della chiesa di S. Michele alla Pusterla, all’interno del convento di Santa Maria Teodote. Gli scavi del 1970 hanno portato alla luce i resti di quella che doveva essere una chiesa a tre navate. Il nome Pusterla deriva dal latino pusterula, che significa « porta», quella che probabilmente si apriva nella torre. Ma per prudenza non scendiamo e ci accontenteremo del pannello illustrativo. Ma chi era questa Teodote cui venne dedicato il convento? Non è la sorella di re Pertarito, divenuta monaca di a S. Agata, ma probabilmente una sua omonima di 26 qualche anno più giovane. Sentiamo di nuovo Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro V, capitolo 43). Testo 7. Fonte letteraria Il monastero di Teodote Il re Cuniperto sposò Ermelinda, di stirpe anglosassone. Costei, avendo visto al bagno [nelle terme del Palazzo reale] Teodote, una fanciulla di mobilissima stirpe romana, di corpo assai leggiadro e con i capelli biondi e lunghi fin quasi ai piedi, ne lodò la bellezza al marito. Il quale, pur fingendo di infastidirsi a questi discorsi della moglie, tuttavia s’infiammò d’ardente passione per la fanciulla. Senza che passasse molto tempo, una volta che era andato a caccia in un bosco che si chiama Urbe, ordinò a sua moglie Ermelinda di raggiungerlo. Quindi, di notte, tornò a Pavia e, fattasi venire Teodote, giacque con lei, mandandola poi in un monastero di Pavia al quale rimase il nome della fanciulla. Una volta rinchiusa nel convento di Santa Maria, la povera Teodote dovette forse ricevere conforto materno dall’omonima badessa, passata da Sant’Agata al nuovo monastero. Con il passare del tempo la Teodote più giovane, diventata lei pure badessa, fece erigere un oratorio dedicato a San Michele, il patrono dei Longobardi. Di Cuniperto e del monastero di Teodote sentirai parlare di nuovo ai Musei Civici. NONA TAPPA: IL MONASTERO DEL SENATORE Ora dobbiamo proseguire il nostro itinerario. Usciamo dal Seminario e risaliamo per via Menocchio. Arriviamo all’angolo con via Parodi e guardiamo di fronte. Proprio lì il 27 novembre 714 il nobile di origine romana Senatore e la moglie Teodolinda fondarono nella propria casa il monastero femminile di Santa Maria, nel quale divennero monache Sinelinda e Liceria, rispettivamente figlia e sorella di Senatore. I resti si trovano nella cantina di uno dei palazzi che vediamo davanti a noi. A Senatore è anche intitolata la viuzza che dal lato sinistro di via Parodi raggiunge corso Cavour. Troveremo le lastre della tomba di questo benefattore ai Musei Civici. DECIMA TAPPA: SAN GIOVANNI DOMNARUM Ora raggiungiamo proprio il corso, l’antico decumano, lo attraversiamo e ci portiamo nel quadrante nord - ovest. Entriamo nella via Del Carmine, ma non ci dirigiamo verso la famosa chiesa trecentesca. Giriamo subito in via San Giovanni ad Fontes, tradotto «San Giovanni presso le Fonti», che ricorda le fonti termali che anticamente occupavano questa zona della città. Siamo sul retro dei magazzini Coin. Un attimo! Sulla sinistra c’è un cortile al quale si accede salendo qualche gradino. Ma è il sagrato di una chiesa, una delle più antiche di Pavia! Fu infatti fondata intorno al 650 dalla 27 regina longobarda Gundeperga, figlia della regina Teodolinda, sul luogo di un complesso termale romano ormai caduto in disuso, dal quale vennero ricavati mattoni e colonne per la nuova costruzione. Che cosa ci dice Paolo Diacono? (Storia dei Longobardi, libro IV, capitolo 34). Testo 8. Fonte letteraria San Giovanni Domnarum Arioaldo [Paolo Diacono dice Rodoaldo] dunque, salito al trono dopo la morte del padre, sposò Gundeperga, figlia di Agilulfo e Teodolinda, la quale, così come la madre aveva fatto a Monza, fece costruire a Pavia una basilica in onore del beato Giovanni Battista, decorandola mirabilmente d’oro, d’argento e di tendaggi e arricchendola senza misura in ogni cosa necessaria: ed è in questa chiesa che ora il suo corpo riposa. La dedica della chiesa a San Giovanni Domnarum significa letteralmente San Giovanni delle Donne, in quanto, con molta probabilità, vi era annesso un battistero femminile: resti di un edificio di forma circolare sono emersi durante gli scavi effettuati nel 1957 nell’area antistante. Il toponimo può anche riferirsi al corteo di donne che solitamente accompagnava la regina. La facciata risale a una ricostruzione del sec. XV, e presenta tre eleganti rosoni in terracotta: quello sopra l’ingresso raffigura la donazione di Gundeperga, e purtroppo il trascorrere del tempo lo ha un po’ rovinato. Entriamo! La chiesa, dunque, fondata in epoca longobarda, avrebbe subito almeno due ricostruzioni: una nella prima metà del sec. XI e l'altra nei primi anni del XVII. Forse dopo il grave incendio di Pavia del 1004, il vescovo Rinaldo decise di ricostruire la basilica cadente e, secondo l'usanza dell'epoca, la riedificò reimpiegando molti elementi dell’edificio precedente, ma aggiungendo, ad esempio, sotto l'altare maggiore, una cripta "ad oratorio", del tipo che si diffonderà nelle chiese romaniche. Di questo rifacimento rimangono, chiaramente riconoscibili, anche il campanile – visibile da via Mascheroni -, la parte alta delle murature della navata maggiore, alcune fondamenta e poco più di una campata di quella che forse era la navata laterale destra, con alcuni avanzi di affreschi, che ricordano quelli della cripta: si trova a destra dell’ingresso, e, probabilmente, era parte dell’antico battistero. Nel 1611 il corpo della chiesa fu ricostruito come è oggi. Sempre conservando le linee della pianta primitiva, la nuova costruzione seguì gli schemi propri della Controriforma: una sola navata, affiancata da cappelle che si aprono sull'invaso principale con grandi arconi e collegate fra loro da passaggi più piccoli. Le cappelle occuparono in pianta la posizione delle antiche navate laterali. Si conservò la cappellina rinascimentale a sinistra, dove possiamo ammirare una raffigurazione della regina Gundeperga nell’atto di presentare a san Giovanni il modello della chiesa. La 28 cripta, l’unica parte rimasta intatta, scomparve sotto il pavimento - mentre nella chiesa romanica il presbiterio doveva essere sopraelevato - fu riempita di ossa e rimase quasi dimenticata. È stata riaperta al pubblico il 18 aprile 1914 in seguito agli scavi del sacerdote pavese Faustino Gianani. Fig. 17 Rilievo della cripta di S. Giovanni Domnarum Dai scendiamo! Che buio! Bisogna accendere la luce. E attenti agli scalini! Ci troviamo in un atrio che presenta due enormi piloni in muratura e frammenti in marmo di quattro colonne su cui si impostano le volte, allacciate alle pareti da alcuni pilastri. Vale la pena di osservare, a sinistra appena entrati nella cripta, un tratto di muratura a lisca di pesce, tipica orditura medievale. Fig. 18 Mattoni a spina di pesce 29 Siamo poi colpiti da una serie di interessantissimi affreschi romanici e dei secoli successivi, che rappresentano S. Invenzio, S. Siro, S. Gregorio Magno, S. Giovanni Battista, S. Teofilo e altri santi, ognuno contraddistinto da un’iscrizione dipinta. Lungo le pareti perimetrali si scorgono le tracce di una cortina affrescata, mentre qua e là sono numerose immagini di S. Biagio. II corpo di questo santo, veneratissimo nel Medioevo, è attualmente custodito sotto l'altare maggiore. Sì, ma noi cerchiamo i Longobardi! Ebbene, osservando i due pilastroni, si ha la chiara impressione che quello di destra abbia incorporato una fase più antica: tutta una parte è in muratura diversa. Se poi facciamo attenzione al basamento del giro absidale, è facile notare che la parte destra è nettamente diversa: su una pianta perfettamente circolare non c'è traccia di pilastrini sino a circa mezzo metro di altezza; non solo, ma troviamo formelle rotonde (suspensurae), recuperate da antichi edifici termali, come componenti essenziali del muro di fondazione. Fig. 19 Suspensurae Guarda anche i capitelli. Non ti sembrano più antichi delle colonne? Quasi certamente risalgono alla fondazione primitiva e vennero reimpiegati per la cripta dell’XI secolo. È probabile che questo in origine non fosse un ambiente sotterraneo: l'interramento progressivo basta a spiegare come un locale che prima era a piano terra possa coincidere oggi con una cripta. Vi sono due tracce di pavimentazione della chiesa: una molto antica, che dovrebbe corrispondere alla costruzione della cripta, al livello di un metro e venti sotto l'attuale, e un'altra più recente a soli cinquanta centimetri di profondità. 30 Fig. 20 Colonna con capitello di reimpiego Fig. 21 Altare con volte affrescate Ricordati che qui dovette essere sepolta la regina Gundeperga. A San Giovanni Domanrum è legato un altro fatto, riferito da Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro V, capitolo 40), e che ha come protagonista il prete Zenone. La vicenda avrebbe avuto luogo all’epoca della lotta fra re Cuniperto e l’usurpatore Alachi, duca di Trento. Testo 9. Fonte letteraria Il diacono Zenone Il re Cuniperto mandò ad Alachi un suo messo per sfidarlo a singolar tenzone: non c’era bisogno, gli fece dire, di mettere a repentaglio la vita di tanti uomini dei due eserciti. Ma Alachi rifiutò la sfida. E poiché uno dei suoi, un toscano, lo spronava, chiamandolo uomo forte e valoroso, ad affrontare arditamente Cuniperto, gli rispose: 31 «Cuniperto sarà un ubriacone e uno stupido, però è un individuo audace, di forza straordinaria. Quando suo padre era ancora vivo e noi molto giovani, certi montoni di straordinaria grandezza che c’erano a palazzo, lui, prendendoli per la lana della schiena, riusciva a sollevarli a terra a braccio teso: bravura di cui non fui mai capace». Parole alle quali il toscano replicò: «Se non hai il coraggio di affrontare Cuniperto a singolar tenzone, non mi avrai più mio amico e mio alleato». Così dicendo fuggì via e andò a rifugiarsi presso Cuniberto a cui narrò ogni cosa. Raccoltisi dunque i due eserciti nella piana di Cornate, già stavano per venire alla mani quando Zenone, diacono della Chiesa pavese e custode della basilica di San Giovanni Battista, posta dentro le mura della città e un tempo fatta edificare dalla regina Gundiperga, poiché amava il suo re e temeva che venisse ucciso durante il combattimento, andò a dirgli: «O re, la nostra vita sta tutta nella tua salvezza. Se tu morirai in battaglia, quel tristo Alachi ci farà perire tra i più diversi tormenti. Accetta perciò il mio consiglio: dammi la tua armatura, e io andrò a combattere contro quel tiranno. Se morirò, tu potrai rialzare egualmente le tue sorti. Se vincerò, la tua gloria sarà maggiore come di colui che ha vinto per mano di un servo». All’assoluto rifiuto del re, alcuni pochi fedeli che erano presenti, cominciarono a chiedere con le lacrime agli occhi di dare il suo consenso alla proposta del diacono. Alla fine, vinto, d’animo mite com’era, dalle loro preghiere e dalle loro lacrime, diede al diacono la sua corazza, l’elmo, gli schinieri e tutte le altre armi, mandandolo in battaglia in sua vece. Il diacono poi aveva la statura e lo stesso portamento del re: una volta che uscì armato dalla tenda, tutti lo presero per Cuniperto. Si venne dunque a battaglia e si combatté accanitamente. Alachi, che s’era volto soprattutto dove riteneva ci fosse il re, credendo d’uccidere Cuniperto, uccise invece il diacono Zenone. E avendo ordinato di tagliargli la testa perché tutti i suoi, una volta che fosse levata in cima a una lancia, gridassero: «Sia ringraziato Dio», trattogli l’elmo si rese conto invece d’aver ucciso un chierico. Allora furibondo gridò: «Ahimè, che non abbiamo risolto proprio niente se tutto il risultato di questa battaglia sta nell’aver ucciso un chierico». UNDICESIMA TAPPA: SAN FELICE Passiamo dalla parte opposta rispetto a quella da cui siamo entrati e ci troviamo in via Mascheroni. Percorriamola, ma prima di girare a destra voltiamoci verso il campanile romanico di San Giovanni Domnarum. Ora ci troviamo in via S. Invenzio. Davanti a noi c’è un muro: il fianco sud della chiesa del monastero di San Felice, fondata da Ansa, moglie del re longobardo Desiderio: compare nei documenti a partire dal 760 con la dedica al Salvatore e ai santi Pietro e Paolo; l’intitolazione a San Felice entrò in uso più tardi, quando ai Longobardi si sostituirono i Franchi di Carlo Magno. 32 L’edificio ospitò regine, principesse e nobildonne in visita a Pavia. Alcuni mattoni delle loggette cieche, devono sicuramente risalire alla fase più antica: lo dimostra la loro irregolarità. Fig. 22 Resti delle antiche mura del convento longobardo Ma entriamo dal portone della Facoltà universitaria di Economia e Commercio. Qualcuno ci sta aspettando. Veniamo introdotti in una sala di lettura ricavata nella chiesa di San Felice, ricostruita nei secoli XV, quando era badessa la nobile pavese Andriola De Barachis, e XVIII: anticamente doveva trattarsi di un edificio ad aula unica con tre absidi a oriente; i muri perimetrali ne recano traccia. Le pareti sono ancora ornate da affreschi. Ma attenzione! A destra, a un piano inferiore, si vedono tre fosse, scoperte negli anni 1996 – 1997, circondate da una ringhiera moderna: sono le tombe di tre monache che dimorarono qui all’epoca della fondazione del convento nell’VIII secolo; quella centrale, decorata, doveva essere stata riservata alla badessa Ariperga. Come puoi notare dalla tomba chiusa a sinistra, si trattava di sepolture dette «a cappuccina». 33 Fig. 23 Le tombe longobarde Naturalmente non manca la cripta! Ci troviamo in un ambiente molto suggestivo. Al periodo longobardo risalgono i capitelli delle colonne. Ma guarda, ci sono anche tre reliquiari dei secoli IX-X: servivano a contenere parti o frammenti di corpi venerati come santi. L’iscrizione ci spiega le loro vicissitudini: trasportate in Duomo nel 1787, vennero ricollocate qui nel 1940. Fig. 24 Una delle arche della cripta 34 Ora usciamo dal chiostro della facoltà di Lettere e Filosofia. Possiamo notare il porticato. Nei tondi tra le arcate si vedono i ritratti delle monache che abitarono in questo monastero nel XV secolo. Ora siamo in piazza Botta. Ci mancano altre due importanti tappe e dobbiamo percorrere un po’ di strada. Andiamo verso nord, attraversiamo il viale Matteotti e spostiamoci sull’altro lato. DODICESIMA TAPPA: SAN PIETRO IN CIEL D’ORO Ci troviamo sul sagrato della basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, una delle più famose e antiche della città. Il nome deriva dal suo soffitto completamente dorato. Il monumento primitivo, datato al VI secolo, raggiunse grande splendore sotto il regno del sovrano longobardo Liutprando (712-744), che la fece ingrandire e vi fece trasportare dalla Sardegna le reliquie del dottore della Chiesa Agostino d’Ippona. Accanto alla basilica il re fondò un monastero di monaci benedettini. Lo testimonia ancora Paolo Diacono (Storia dei Longobardi, libro VI, capitoli 48, 58). Testo 10. Fonte letteraria San Pietro in Ciel d’Oro Liutprando, venuto a sapere che i Saraceni, dopo avere devastato la Sardegna, infestavano anche i luoghi dove le ossa di Sant’Agostino vescovo erano già state trasferite e onorevolmente sepolte proprio per evitare la profanazione dei Barbari, inviò alcuni suoi ambasciatori che, mediante una forte somma, ottennero di poterle trasportare a Pavia. Qui Liutprando li fece inumare con tutti gli onori dovuti a tanto padre […]. Questo gloriosissimo principe, nei diversi luoghi dove soleva vivere, costruì molte basiliche in onore di Cristo. Eresse il monumento del beato Pietro che è chiamato «Cielo d’Oro». Nel 774 il re franco Carlo Magno, subentrato ai Longobardi, istituì una celebre scuola di studi superiori: la biblioteca fu danneggiata in seguito all’incendio divampato durante l’incursione degli Ungari nel 924. Nel X secolo l’abate francese Maiolo di Cluny promosse una riforma del monastero, che fu occupato dai Canonici Mortariensi nel 1213 e, dal 1518, dai Lateranensi, cui si deve la costruzione del grandioso convento a sinistra della basilica. 35 L’attuale chiesa è in stile romanico e fu consacrata da papa Innocenzo II nel 1132, per cui l’edificio longobardo è stato sostituito. Ma non preoccuparti! Rimane il ricordo di tre grandi personaggi legati al suo passato longobardo. Entrando è immediatamente visibile l’Arca marmorea con le reliquie di Agostino d’Ippona, che reca la data del 1362 ed è un capolavoro della scultura lombarda. Fig. 25 San Pietro in Ciel d’Oro: Arca di Agostino d’Ippona Alla morte re Liuprando venne sepolto all’interno del mausoleo di Sant’Adriano presso la basilica di Santa Maria alle Pertiche. Nel XII secolo le sue spoglie vennero furono trasferite all’interno di San Pietro in Ciel d’Oro, dove il sovrano aveva fatto riunire le reliquie di Sant’Agostino e di Severino Boezio. I resti del sovrano, dopo alterne vicende, sono ora ospitate sotto il pavimento dell’abside, dove, sulla destra, un pilastro reca l’iscrizione che possiamo tradurre così: Flavio Lyutprando è venerato in questa tomba, già inclito Re dei Longobardi, forte in armi, e vincitore in guerra. Lo confermano Sutri e Bologna, e Rimini, e le mura di Spoleto conquistata, perché sottomise queste città con la forza delle armi e Roma temè molto la sua forza, quando questo milite l’assediò. Poi tremarono i feroci Saraceni, che con solerzia assalì, quando premevano sui Franchi, ed egli volle aiutare Carlo. Solo egli aiutò gli Ungari e i Franchi, e tutti i vicini vivevano in pace nelle loro città. 36 DODICESIMA TAPPA: LA SEZIONE LONGOBARDA DEL CASTELLO VISCONTEO Ritorniamo in viale Matteotti e dirigiamoci verso il Castello Visconteo, fatto edificare nel Trecento su iniziativa di Galeazzo Visconti. Entrando dal cosiddetto Rivellino, raggiungiamo il chiostro, sul quale si affacciano diverse sale adibite a museo. A noi interessa la sezione longobarda. Vi troviamo reperti provenienti da monumenti longobardi perduti di Pavia e provincia: lastre tombali, iscrizioni funebri frammenti architettonici e scultorei di chiese e monasteri. Fra le epigrafi in onore di personaggi di nobile stirpe longobarda possiamo ammirare: • LASTRA DI RAGINTRUDA (da S. MARIA ALLE PERTICHE) • I BASSORILIEVI DELLE LASTRE TOMBALI DI TEODOTE CON FOGLIE, FIORI E ANIMALI FANTASTICI ( da S. MICHELE ALLA PUSTERLA) Fig. 26 Pavia, Musei Civici, Sezione longobarda: i plutei del monastero di Teodote LASTRA FUNEARIA DI CUNINPERGA (da S. AGATA AL MONTE) • LASTRA FUNERARIA DI AUDOALDO ( da S. MARIA ALLE PERTICHE) • SIGILLO TOMBALE DI SENATORE (da VILLAREGGIO) Nelle vetrine puoi anche notare alcuni manufatti dell’oreficeria longobarda. 37 AL LAVORO ESERCIZIO 1 Ora sei ritornato in classe. Scegli uno dei monumenti visitati e descrivilo. Ricordati di indicare: • Epoca • Committente (chi lo fece costruire) • Tracce superstiti • Motivi della scelta ESERCIZIO 2 Fra i brani riportati della Storia dei Longobardi di Paolo Diacono qui riportati scegline uno e riscrivilo dando al tuo racconto un’ambientazione moderna. BUON LAVORO!!! 38 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE • Ambaglio D. (a cura di), Opicino de Canistris (XIV sec.). Le lodi della città di Pavia, Pavia, edizioni Antares, 2004, pp. 7, 9, 13, 17, 19, 23, 27, 29, 31 • Andreolli Panzarasa M.P., C’era una volta Pavia … una “storia al femminile”, Pavia, Liutprand, 2004, pp. 27 - 28, 65 –111, 147 - 50, 156-62, 179 - 202 • Arecchi A. Un momento dell’architettura medievale pavese: la cripta di San Giovanni Domnarum, in «Pavia Economica», 24 (1969), pp. 74 - 80 • Arecchi A. (a cura di), Lomello, Abbiategrasso, Litografia Abbiatense, 1998 • Arecchi A., I Longobardi e Pavia capitale, Pavia, Liutprand, 2001 • Arecchi A., I mausolei dei re Longobardi a Pavia, Pavia, Liutprand, 2006, pp. 19 – 46, 51 - 53 • Assessorato alla Promozione delle Attività Culturali della Provincia di Pavia (a cura di), La Provincia di Pavia. Leggende e storie, Pavia, Vigevano, Punto & Virgola, 2004 • Ballada O., Historia di Pavia, Pavia, 1648 • Bartolini E. (a cura di), Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, testo latino a fronte, Milano, Tea, 1999 • Brambati M. –Comaschi C. – Dionigi F. – Rampi E. – Scipolo M. (a cura di), Scopri Pavia. Testi naturalistici Arianna Stoppo – disegni di A. Valente, Piacenza, Tip. Le.Co., 2002, pp. 74, 90, 100, 107, 122 • Ferraris A. (a cura di), La Via Francigena. Itinerario di Sigerio nella provincia di Pavia, Pavia, Nuova Tipografia Popolare, 19992, pp. 31 – 33, 42, 52, 54, 57 • Gianani F. La cripta di San Giovanni Domnarum e Scoperta di monete antiche nella Cripta di S. Giovanni Domnarum, << Bollettino della Società Pavese di Storia Patria>>, 14 (1914), pp. 256-58; 417-18 39 • Gianani F., Di un vetustissimo monumento sacro pavese : la cripta di S. Giovanni Domnarum, Pavia, Artigianelli, 1915 • Gianani F., Il «Monasterium Theodotis» sede attuale del Seminario Vescovile di Pavia, Pavia, Fusi, 1971, pp. 7-20 • Jarnut J. 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