Fondazione Istituto “mons. F. Tomadini”
SPIRITUALITA’ DEL SACERDOTE TOMADINI
PREMESSA
Parlare della spiritualità di don Francesco Tomadini è un rischio: dire poco o nulla.
In apparenza, almeno secondo i canoni ufficiali, non c’è traccia di spiritualità in Lui
se la spiritualità di un prete la si deduce da quello che ha scritto, per averlo prima
detto. Non c’è in giro (a parte il suo testamento) uno straccio di predica, una griglia di
esercizi spirituali, un pezzo di lettera a chiunque, tanto meno un quadro pedagogico.
La sua spiritualità sta tutta nel FARE bene il bene. E allora, se dovessi esprimere con
un titolo ad effetto chi è stato il Tomadini, direi così:”Un prete secolare friulano che
ha prodotto non carta ma carità”.
BIBLIOGRAFIA
1. JACOPO PIRONA, Ricordazione della vita santa di Francesco Tomadini, 1864.
2. NICOLO’ MANTICA, Ospizio degli orfanelli Monsignor Tomadini, 1893.
3. ATTILIO FRANZOLINI, L’opera di Mons. Francesco Tomadini, 1906.
4. L. BELLINA - I. DONATO, Il Tomadini e la sua opera, 1957.
5. S. PORISIENSI – G. ZARDI, Il Tomadini, 1983.
LA VITA.
Francesco Tomadini nasce a Udine in “Piazza delle erbe” da famiglia benestante
nel 1782. Orfano di mamma, il suo volto sarà velato da una patina di melanconia, il
cuore trapassato da una vena di sofferenza mai superata. A 22 anni, nonostante che il
padre fosse titubante, entra in noviziato dai Cappuccini a Bassano del Grappa. Ma
dopo 9 mesi viene allontanato causa la malferma salute. Troppo fragile per la vita del
convento…di allora. Vivrà 80 anni. Un record nell’800! Alla faccia dei giudici della
sua incerta salute. A 26 anni, dopo 4 anni di intensi studi teologici, in casa, seguito da
un sacerdote, diventa prete. Non ha studiato in Seminario. Sono belli i fiori di serra,
ma anche quelli del campo hanno il loro fascino.
La bufera napoleonica costrinse l’Arcivescovo in carica a dichiarare Sua Cappella
personale la Chiesetta del Cristo in centro città e a nominare il prete novello don
Francesco RETTORE della stessa . Vi rimase oltre 40 anni. Subito si dedicò al suo
dovere: confessioni, messe, devozioni, carità, confraternita, lavori di manutenzione
ordinaria e straordinaria. Le cose normali di una pastorale normale, grigia, monotona
ma efficace come pioggia leggera ed insistente a primavera.
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Ma un’idea fissa frullava nella mente del giovane prete: far tornare a Udine quei
Cappuccini che l’avevano rifiutato (senza acrimonia) e che Napoleone aveva cacciati
dalla città. L’operazione riuscì nel 1831. Fu un giorno di godimento spirituale per don
Tomadini, che aveva dedicato energie, soldi e persino ore lavorative, operaio tra gli
operai, per far su il convento di via Ronchi. Il merito andò tutto al Vescovo, che
celebrò un pontificale megagalattico, di quelli di allora, che adesso ritornano. Lui,
con lo stile scarno di chi rifugge dal protagonismo narcisista, rimase in disparte. E
sarebbe rimasto (come dal 1808 al 1831) un bravo prete, un raffinato padre spirituale,
un delicato confessore se le circostanze della vita non l’avessero “costretto” ad un
dinamismo impensabile, dato il suo carattere schivo e la sua costituzione fisica.
Il 1836 fu anno tragico per la città di Udine. Scoppiò il colera. Una emergenza dai
contorni drammatici. L’Arcivescovo impiantò da subito una Commissione diocesana
e comunale con diramazioni nelle parrocchie, una vera Charitas ante litteram. Nella
Commissione venne chiamato don Tomadini con l’incarico specifico degli orfani
maschi. Le cronache del tempo attestano nel mese di agosto nella sola Udine-città
311 orfani maschi. Le orfane furono affidate alla Casa delle derelitte fondata da don
Luigi Scrosoppi, oggi santo e protettore del Seminario.
Don Francesco Tomadini, non per rispondere ad una vocazione carismatica verso i
giovani, ma perché coinvolto in quella Commissione, da frate in convento diventò
prete di strada. (PIRONA, pag.. 14). Il prete buono, pacifico, tranquillo, con una
vocazione inceppata alla contemplazione ed all’ascesi è violentemente spostato sul
piano della assistenza, in un calvario di sofferenza e di amarezze senza limiti, poiché,
in 15 anni, fu sfrattato con i suoi orfani da ben 3 ambienti presi in prestito od in
affitto (Vecchio Ospedale, Caserma di Sant’Agostino, Casa di riposo), fino alla
chiusura del cosiddetto “Ospizio degli orfanelli”, nel 1851. Laddove tutto sembrò
franare, anche se Mons. Tomadini cominciò a meditare la creazione di un vero e
proprio Istituto per orfani e bisognosi, mentre i suoi ragazzi li collocava presso
buone famiglie.
Nel 1855 riscoppia il colera con virulenza accentuata rispetto al precedente del
1836. E il Tomadini, di nuovo, sbalzato dal suo luogo di preghiera, a soccorrere
orfani e bisognosi. Finalmente, nel 1856, trova “casa” per i suoi orfani, in quella
struttura, che dopo la sua morte sarà l’Orfanotrofio Tomadini, oggi Polo economicogiuridico della Università di Udine, proprio in via Tomadini.
Aveva 74 anni quando lasciò la Chiesetta del Cristo e andò ad abitare con i suoi
orfani nel nuovo Istituto. Quasi un imput di riflessione per un clero d’oggi, avanzato
negli anni, ma ancora capace, se lo vuole, di profezia (senza clamori), di missione
(senza sussulti), di impegno pastorale (senza rimpianti) per essere sentinelle dell’
Evangelo sul territorio! Come dire: “Tenete duro. Non mollate. Vivrete a lungo”.
Morì il 30 dicembre 1862. (MANTICA, pag. 19).
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ABBOZZO DI UNA IPOTETICA SPIRITUALITA’
1. “Maria costretta a fare anche la parte di Marta”.
C’è un passaggio nella sua vita che voglio sottolineare per introdurre un primo dato
sulla sua spiritualità. Nel 1938 l’Arcivescovo volle farlo canonico onorario. Lui tentò
di rifiutare in tutti i modi, non tanto per umiltà pelosetta di chi dice “no” e pensa “sì”,
ma perché era sua intenzione dedicarsi alla vita contemplativa, passata l’emergenza
del colera (aveva 56 anni), forse in quello stesso convento dei Cappuccini di via
Ronchi, che lui stesso aveva contribuito a costruire.
Ed ecco il punto di riflessione: propenso per natura all’ascesi, fu costretto alla
operosità. Voleva appartenere a Dio nella contemplazione e fu inchiodato all’azione.
Un bel esempio di spiritualità sacerdotale secolare. Il prete nel “secolo”, più che
elemosinare i carismi di congregazioni religiose o di movimenti ecclesiali, dovrebbe
RI-TROVARE le coordinate di una SUA specifica spiritualità: immerso nel
dinamismo pastorale (disponibile con la gente e per la gente senza orari) ma con una
forte tensione contemplativa, perché è solo la contemplazione ad essere risorsa per
l’azione pastorale. Marta e Maria insieme. Il sacerdote Tomadini ne è stato un fulgido
esempio, anche se sfuggito alle cronache degli altari e dunque, in un certo senso,
perso alla memoria della sua Diocesi. (PIRONA, pag. 11-12).
2. “Spiritualità friulana?”.
Non ha lasciato nulla di scritto. Lo dicevo in premessa. La sua vita, una predica
vivente. Ora, se “cultura friulana” significa:”Poche parole, molti fatti!”, il Tomadini
ha fatto centro. Un autentico prete di spiritualità friulana, per il quale tra il dire ed il
fare non c’è di mezzo il mare, semplicemente, perché non c’è il “dire”, ma SOLO IL
FARE. Vogliamo farlo “patrono”, così, veloce veloce, di tanti preti , che lavorano
senza telecamera appresso? In realtà, poi, non è altro che la “logica eucaristica”: la
forza sta nel silenzio operoso. Ciò che si vede è poco o nulla. Ciò che realmente “è”,
è vita spezzata per altri.
3. “Il carisma dell’obbedienza”.
Nessun furore carismatico in Lui! Non risponde a qualcosa che ha dentro. Voleva
essere frate ma non vi riuscì! Risponde ad una chiamata e alle necessità del presente.
E’ il suo Vescovo che intuisce in Lui capacità insospettate. E Lui non fa quello che
gli piace, ma quello che deve, e lo fa con passione tale che dà l’impressione reale che
gli piaccia. Come attore di una regia più alta. Il meglio di sé lo dà nell’obbedienza al
suo Vescovo. Per cui si potrebbe dire che il suo CARISMA e forse quello dei preti
secolari (e per questo spero di non passare per un baciapile) è l’OBBEDIENZA per
un MINISTERO. I preti non dovrebbero preoccuparsi dei “loro” carismi. La “palla”
del gioco sta nei piedi, o se preferite, nel cuore del Vescovo, chiunque egli sia,
cacciatore di carismi, selezionatore di talenti, più simile al Commissario tecnico della
Nazionale che ad un Allenatore di squadra legata ad un Club calcistico.
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Un ragionamento personale… a margine.
Realisticamente, di noi preti, vien da pensare:”Gli ultimi dei moikani”. Dopo di
noi, non il diluvio, ma forse un altro modello di prete. Quale sarà il modello non mi
interessa. So bene, però, che, se viene messo in discussione il “modello tridentino”,
noi possiamo comunque lasciare in eredità una SENSIBILITA’.
Due difetti da evitare.
IPOCRISIA. Un virus patogeno del mondo clericale. Può essere contenuto, non
eliminato, come gli afidi nelle rose. Siamo un po’ tutti a rischio narcisismo, anche
perché celibi e dunque primedonne, ma dovremmo quanto meno camuffarlo o meglio
convertirlo in protagonismo che produce nella normalità, senza intristire nel groviglio
dell’EFFIMERO, secondo difetto. I pizzi. Le fasce. La casule griffate. Il technicolor.
La liturgia in quanto tale è solo rigorosa, sobria, essenziale. Quando diventa barocca
finisce con l’essere spettacolo.
Due virtù da praticare e da lasciare in eredità ai futuri presbiteri.
ACCOGLIENZA. Virtù umana. Virtù divina. Siamo stati accolti e scelti da Dio
al di là delle nostre debolezze, o, forse, proprio per le nostre debolezze, in modo che
appaia chiara la Sua potenza. Accoglienza, dunque, nei confronti della nostra gente. Il
nostro popolo sta dentro il vortice di una crisi di identità, che soffoca la speranza. La
gente, in apparenza gaudente, soffre, sta male dentro. Vive preoccupata di tante cose,
di troppe cose, persino (e qui il cortocircuito) di cose inutili. Per questo, spesso è
stressata. Dunque: va amata, va accolta. Non va giudicata, tanto meno disprezzata.
Hanno bisogno, tutti, di sentirsi accolti da un prete, che non si scandalizza mai di
niente, che chiama alla santità di vita (che lui stesso pratica con molta fatica), ma che
sa aspettare con ritmi e tempi che sono di Dio, prima che dell’uomo. E’ la pedagogia
di Javhè. Quanta pazienza nell’aspettare il popolo di Israele e non proprio con
risultati brillanti, se Suo Figlio l’hanno crocifisso, perché si dichiarò quello che era:
Dio in terra.
DISPONIBILITA’. Come quella di una casalinga non frustrata. Senza orari.
Sempre, sia pure con qualche pausa distensiva e riflessiva. A disposizione di quello di
cui c’è bisogno, anche delle banalità, tali ai nostri occhi, non proprio agli occhi di chi
ci chiede qualcosa. Come il medico condotto di un tempo. Aveva sotto gli occhi non
il computer, ma l’anamnesi dei suoi pazienti, spesso da ascoltare o consolare più che
da guarire. Ascoltare. Senza guardare di soppiatto l’orologio, quasi a dire che sto
facendo finta di ascoltare perché tengo fretta. “La Parrocchia in missione!”. Adesso
lo si ripete alla noia. E va bene. Ma non disprezziamo la “Parrocchia dei servizi”.
Servire non è svilire. E’ “mariano”. La missione è anche saper cogliere il momento
opportuno e le occasioni di passaggio al pronto soccorso della vita. La missione è
innanzitutto “diaconia”, verso vicini e lontani. E allora i preti dovrebbero essere
“diaconi” più che “gestori del sacro”. E quando invecchiano, dovrebbero diventare
più capaci di accoglienza e di disponibilità, perché più sapienti e più pazienti. Carichi
di misericordia.
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EVOLUZIONE DELL’OPERA DI MONS. TOMADINI
Non mi addentro in una “rivisitazione storica”. Non ne sono capace. E se lo fossi ,
mi dilungherei troppo. Sottolineo alcune “figure storiche”, alcune “peculiarità”,
alcuni “snodi”.
A) FIGURE STORICHE.
1. Eugenio Blanchini. Fu Vice-Direttore prima di essere Parroco a San Giorgio,
quando il Vice era tutto, perché il Direttore era uno dei Parroci cittadini oppure
un Canonico ed aveva solo la pura rappresentanza dell’Istituto, in quanto
garante dell’indirizzo educativo. Onori, senza oneri. Anche se alcuni Direttori
erano “grandi figure” del clero udinese: mons. Carlo Filipponi; can. Filippo
nob. Elti; mons. Francesco Tosolini; mons. Pietro Dell’Oste; mons. Giovanni
Marcon; mons. Giuseppe Miningher.
2. Isidoro Donato. Il “grande” Direttore stimato ed amato da tutti. Ancor oggi nel
cuore di tanti ex-allievi ormai avanzati in età. Una vita spesa tutta al “Tom”, da
giovane chierico, da censore, da vice-direttore ed, infine, da 1° Direttore a
vivere in Istituto, con tutte le responsabilità. Oneri ed onori.
3. Primo Fabbro. Autorevole e nobile figura del Clero friulano. Già pensionato
(!), dopo la lunga esperienza educativa a Cividale, rilanciò l’opera costruendo
il Nuovo Tom in via Martignacco, là dove , oggi, siamo riuniti.
B) PECULIARITA’.
1. Difficoltà economiche. Appartengono al “patrimonio genetico” dell’Opera, al
suo d.n.a. Una specie di maledizione-benedizione. Sempre a rischio. L’Opera
rinasce come per un “miracolo”, l’unico, per quanto ne sappiamo, del
Fondatore.
2. Comunità sacerdotale. Nel vecchio Tom (anni 50) era una prassi: alcuni
sacerdoti (Vale, Zenarola, per citarne due) non parroci, ma impegnati in
attività comunque pastorali, abitavano al Tom. Che sia una prospettiva per i
parroci della città e dintorni, in un prossimo futuro? Magari sospinti solo da
necessità pratiche: pappa pronta, biancheria pulita, pantaloni stirati, vigilanza
notturna?
3. Esperienza dei “chierici-assistenti”. Quasi sempre per non poter pagare la retta
in Seminario tanti “chierici-teologi” lavoravano (e studiavano!) come
educatori al Tom, mentre frequentavano i corsi in Seminario. Tra di voi i
testimoni! Chissà se anche i nostri pochi seminaristi, a stretto giro di gomito
con 270 studenti universitari (coetanei studenti che studiano) non
rafforzerebbero la loro vocazione? Sicuramente costerebbero di meno in
termini economici.
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C) SNODI.
1. 1938. Le solite difficoltà economiche nella gestione dell’Istituto. Riparte un
terzo tentativo di affidare ai Salesiani l’Opera. Il primo tentativo già nel 1880:
esiste una lettera firmata da don Michele Rua (vivente don Bosco) che declina
l’offerta “causa penuria di personale”. Il secondo nel 1931: alcuni ispettori
salesiani visitarono l’Orfanotrofio con il permesso dell’Arcivescovo ed il
muso duro del Direttore mons. Marcon e del Vice-Direttore don Florida,
nonché la stizza dei Parroci urbani. Nel 1938, complice il sindaco avv.
Candolini parte il terzo tentativo. (I Salesiani arriveranno l’anno dopo nel
1939, ma al Bearzi.). Anche in questo caso il Vescovo di allora parve
favorevole: una rogna in meno. I vescovi ne hanno tante e li affascina l’idea
di liberarsi di qualcuna. Ci fu allora una vera e propria ondata di ribellione da
parte del clero cittadino. Non se ne fece nulla. Il “Tom” rimase saldamente
ancorato alla Diocesi, tramite il Vescovo già dichiarato “Tutore specialissimo”
nel Testamento del Fondatore. Don Bellina e Mons. Donato ebbero a
scrivere:”Così venne sventato definitivamente il pericolo di una cessione del
Tomadini ad Istituzioni estranee alla nostra Diocesi”. (pag. 112). In proposito
occorre ricordare che nel 1906 il Direttore mons. Tosolini, parroco di San
Quirino, per aver tentato di affidare l’Opera ai Padri Giuseppini, dovette
dimettersi.
2. Fine anni 60. Il vecchio Tom e tutte le proprietà immobiliari sparse per il
Friuli vengono vendute per costruire il Nuovo. E’ quello che stanno facendo,
oggi, il Renati e il Di Toppo. Il privato è un po’ più veloce!
3. Anni 80. Tremano i polsi. Siamo quasi al collasso. Per un attimo tutto sembra
franare. Ma la Provvidenza c’è! L’Università di Udine piomba in località
Rizzi. Il Tom è salvo ed avviato a Collegio Universitario. Mamma
Provvidenza si chiama Regione: L.R. 4/1991, art. 23-24.
4. 31 dicembre 2002: de-pubblicizzazione del Tom. Nel 1896 il Tomadini fu
costretto a diventare una IPAB (Istituzione Pubblica Assistenza Beneficenza)
in seguito alla Legge Crispi del 1890. Cent’anni dopo, nel 1990, tale Legge fu
dichiarata incostituzionale. E dunque, “ope legis”, il Tomadini si è trasformato
in Fondazione di Diritto Privato, iscritta nel Registro della Regione al nr. 60, il
31-12-2002. E così il 1° maggio 2003 la Fondazione ha potuto essere eretta
canonicamente ad Ente ecclesiastico per decreto dell’Arcivescovo mons.
Pietro Brollo. Ormai il Tom è parte integrante della Diocesi anche sul piano
formale. Sta, credo, anche dentro il piano pastorale diocesano.
Don Luciano Segatto
Udine, 30-dicembre-2004.
Nel ricordo di mons. F. Tomadini, nato alla vita eterna il 30 dicembre 1862.
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