UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ANCONA FACOLTÀ DI ECONOMIA Corso di Laurea in Economia e Commercio LA MINIERA DI CABERNARDI E IL SETTORE DELLO ZOLFO IN ITALIA FRA FINE ‘800 E LA METÀ DI QUESTO SECOLO Relatore: Tesi di laurea di: Chiar.mo Prof. Franco Amatori Giovanna Leonori Anno Accademico 1996/97 1 INDICE LA MINIERA DI CABERNARDI E IL SETTORE DELLO ZOLFO IN ITALIA FRA FINE ‘800 E LA META’ DI QUESTO SECOLO INTRODUZIONE CAPITOLO 1 : 90 ANNI DI STORIA 1.1 Le origini della miniera 1.2 La gestione Trezza-Albani 1.3 I primi 16 anni sotto la guida della “Montecatini” 1.4 Gli anni ’30 1.5 Seconda Guerra Mondiale e prima fase post bellica 1.6 Gli ultimi anni di vita della miniera CAPITOLO 2 : IL SETTORE 2.1 L’industria mineraria: peculiarità e sviluppo 2.2 La legislazione mineraria 2.3 Uso dello zolfo 2.4 Il contesto italiano 2.4.1 Confronto tra la Sicilia e l’area Marche-Romagna 2.4.2 Le miniere di zolfo dell’Irpinia e della Calabria 2.5 Il conteso internazionale 2.5.1 I due maggiori produttori di zolfo: Stati Uniti e Italia 2.5.2 Gli altri Paesi CAPITOLO 3 : I LAVORATORI 3.1 Il lavoro all’interno della miniera 3.2 Attività lavorative di superficie 3.3 Infortuni CAPITOLO 4: LA MINIERA E CABERNARDI 2 4.1 Sviluppo socio economico 4.2 Problemi ecologici 4.3 Conseguenze della chiusura CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA 3 INTRODUZIONE Lo zolfo ha costituito per un lungo periodo la maggiore risorsa mineraria nazionale sia per l’entità della produzione che per l’impiego di manodopera. L’industria solfifera italiana per secoli ha avuto un ruolo fondamentale in campo internazionale, la sola Sicilia, fino al 1912, mantenne il primato mondiale nella produzione ed esportazione di zolfo. Tuttavia l’estrazione di questo minerale è avvenuta anche in altre regioni italiane come nelle Marche, in Romagna, in Campania, in Calabria oltre che, seppur limitatamente in Toscana. Dopo la Sicilia, la maggiore industria estrattiva di zolfo si è sviluppata nelle Marche. La storiografia economica non ha mai dedicato particolare attenzione all’attività estrattiva e di lavorazione dello zolfo nelle Marche. Eppure produrre zolfo non è stato un fatto marginale nel contesto, prevalentemente agricolo dell’economia marchigiana. Basti pensare che la miniera di Cabernardi (sita nel comune di Sassoferrato in provincia di Ancona) e quella di Perticara (in provincia di Pesaro nel Montefeltro) erano di gran lunga le più grandi imprese industriali della regione. Cabernardi, la più produttiva e profonda miniera di zolfo d’Italia, nei suoi novant’anni di vita (1870-1959), ha garantito la piena occupazione in un comprensorio dove al lavoro in miniera non c’era alternativa se non la disoccupazione e l’emigrazione. A causa dell’esaurimento dei giacimenti ma soprattutto per motivi economici, nelle Marche e nel resto d’Italia, l’industria solfifera ora non esiste più. Risulta estremamente interessante e utile ricostruire, con il presente lavoro, la storia di un mondo scomparso: quello della miniera di Cabernardi e del settore dello zolfo in Italia fra fine ‘800 e la metà di questo secolo. Un settore scarsamente conosciuto in Italia e che è stato soprattutto trattato dal punto di vista geologico e mineralogico. Lo scopo di questo studio è quello di analizzare, dal punto di vista economico, sociale e culturale, le caratteristiche peculiari dell’industria solfifera sia a livello locale che nazionale ed internazionale. 4 Essendo ormai trascorso circa un quarantennio dalla chiusura della miniera, è facile intuire che per reperire il materiale utile alla stesura di questo lavoro è stata necessaria una paziente e laboriosa ricerca. Infatti con la scioglimento delle società concessionarie quasi sempre è andata dispersa o, purtroppo, distrutta gran parte della documentazione tecnica ed amministrativa. Le fonti più continue di notizie sono costituite dalle Relazioni sul Servizio Minerario (con la denominazione, dal 1891, di Rivista del Servizio Minerario) pubblicate annualmente dal Ministero di Agricoltura Industria e Commercio a cura del Corpo delle miniere che riuniscono le informazioni elaborate, distretto per distretto, dagli ingegneri minerari e dai funzionari in forza presso tale organo statale. Mentre per gli anni ’50 si è rivelata molto utile la rivista mensile L’industria mineraria. Si è cercato di coniugare, a una grande mole di informazioni tecniche, un’attenta elaborazione dei dati attraverso il confronto tra fonti di diversa natura: l’Archivio Storico Comunale di Sassoferrato, il museo della miniera di zolfo di Cabernardi, le informazioni scientifiche e tecniche pubblicate su riviste specialistiche, articoli comparsi su periodici specializzati in storia locale, contributi di ordine demografico e legislativo. La ricerca si è svolta anche sul piano della fonte orale, raccogliendo, confrontando ed analizzando le testimonianze dei minatori ancora in vita. La tesi è suddivisa in quattro capitoli. Nel primo viene ripercorsa la storia della miniera di Cabernardi: le origini, lo sviluppo, la fine. Nel secondo capitolo si è preso in esame il settore dello zolfo. Sono state confrontate le varie aree produttive a livello locale, nazionale ed internazionale per metterne in evidenza i punti forti e deboli, e per capire quali sono state le cause che hanno portato alla fine dell’industria solfifera italiana. Nel terzo capitolo si sono analizzate le attività che si svolgevano nella miniera e le dure e pericolose condizioni di lavoro. Nel quarto capitolo vengono prese in considerazione le conseguenze, dal punto di 5 vista economico e sociale e culturale, della nascita, dello sviluppo e della chiusura della miniera per il territorio e la popolazione di Cabernardi. 6 CAPITOLO PRIMO LA MINIERA DI CABERNARDI: UN PROFILO STORICO 1.1 LE ORIGINI DELLA MINIERA Il bacino solfifero che alimentò l’importante centro minerario di Cabernardi-Percozzone forma un’ellisse allungata che si estende dal torrente Cesano ( Pergola) fino alla valle del Sentino (Sassoferrato) per una lunghezza totale di otto chilometri. L’area mineraria interessa per la massima parte il Comune di Sassoferrato e solo in parte i comuni di Pergola e Arcevia. La scoperta del giacimento di Cabernardi avvenne nel 1870 in maniera del tutto casuale. Esistono due differenti versioni in proposito. Secondo la prima l’affioramento di zolfo fu notato per la prima volta durante l’aratura di un campo1, la seconda invece attribuisce il merito del ritrovamento ad un contadino, il quale constatò che una sorgente di acqua non poteva essere utilizzata per abbeverare gli animali in quanto emanava cattivo odore2. Si rivolse perciò al parroco di Cabernardi Don Tommaso Vitaletti che richiese un intervento di esperti di Arcevia. Nel 1873 i sigg. Bruni e Togni di Arcevia chiesero ed ottennero la concessione di una ricerca denominata “Ca’ Fabbri, Brecciatina, Cabernardi”3. In precedenza a causa degli scarsi affioramenti di superficie della formazione gessosa solfifera nessun tentativo di ricerca era stato svolto. Il sig. Ricchi, associatosi ai due ricercatori, realizzò una discenderia 1 Cfr., AA.VV., La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell’ Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, p. 110. 2 Cfr., P. Mattias, G. Crocetti, A. Scicli, Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p. 115. 3 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1877, p.44 7 di 85 metri senza però incontrare il giacimento solfifero così, nel 1875, il Ricchi abbandonò la società cedendo i suoi diritti al sig. Dellamore, fratello del noto scopritore e dirigente delle miniere del Cesenate, il quale preferì intraprendere una nuova discenderia e alla profondità di 10 metri rinvenne un ricco strato di zolfo di circa due metri. Tuttavia l’esplorazione che ne seguì mise in evidenza la scomparsa dello strato alla profondità di 18 metri. Dellamore tentò altre ricerche mediante una galleria a 2 chilometri a SO di Cabernardi ed altre sul lembo orientale ma non fu trovato alcun indizio di zolfo. Dopo questi insuccessi la società abbandonò l’impresa e la concessione di ricerca venne rilevata nel 1878, da una ditta tedesca, costituita dai sigg. F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard4. Tra Otto e Novecento molte delle iniziative imprenditoriali più interessanti nelle Marche si devono ad operatori stranieri5. L’Italia era ancora un Paese periferico rispetto all’Europa industrializzata e presentava il grave problema di scarsezza di risorse finanziarie. In questa situazione si può ben comprendere come il capitale italiano disponibile venisse maggiormente attratto da investimenti con immobilizzi a più breve termine e minor rischio rispetto all’industria estrattiva. Quest’ultima, soprattutto nella fase di ricerca, sempre fonte di spese a pieno rischio, era caratterizzata da un elevato grado di aleatorietà per cui veniva lasciato spazio ai capitali stranieri6. Molto interessati al settore dello zolfo furono in particolare tedeschi, francesi ed inglesi data la scarsa presenza del minerale nei rispettivi Paesi7. 4 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1886, p. 11. 5 Cfr., M. Moroni, Il farsi delle maggiori imprese, in S. Anselmi (a cura di), L’industria nella provincia di Pesaro e Urbino, 1995, p. 93. 6 Cfr., P. Corna Pellegrini, Il progresso tecnologico nell’industria mineraria, 1960, p. 11. 7 ...la Società Picard, dal 1838, sfrutta lo zolfo della miniera di Perticara... E. Sori, Dalla manifattura all’industria (1861-1940), in S. Anselmi (a cura di), Storia di Italia. Le regioni dall’unità a oggi: le Marche, 1987 p. 357. ...nell’estrazione e lavorazione dello zolfo si impegnarono alcuni investitori francesi, tanto che nel 1885 si costituisce la società franco-italiana degli zolfi in Pesaro... M. Moroni, Il farsi delle maggiori imprese, cit., p. 93. 8 I nuovi imprenditori proseguirono le ricerche negli stessi punti esplorati dal Dellamore (Ca’ Fabbri, Poggiolo e Casella). A Ca’ Fabbri si scavò una discenderia di 300 metri diretta verso il centro del bacino e una serie di gallerie e pozzetti. Nonostante le difficoltà incontrate a causa di fratture e faglie si pervenne alla scoperta di un importante giacimento la cui potenza era di 9 e 15 metri rispettivamente alle profondità di 85 e 110 metri8. Tutti i lavori si svilupparono sempre in terreni asciutti e solo nella galleria più profonda (185 metri) si ebbe un’erogazione di acqua salata che causò la sospensione dei lavori. Dopo due mesi l’acqua si esaurì, ciò fece presumere che si trattava di un serbatoio di poca importanza. Durante gli scavi furono frequenti le emissioni di gas grisou seguite talvolta da esplosioni. Nel 1883 vi fu un’imponente fuoriuscita di gas, di tale intensità e violenza che per più di un mese i lavori in galleria furono interrotti. Ciò poteva indicare, basandosi su esperienza passata, che si trattava di una mineralizzazione particolarmente consistente infatti quando i lavori ripresero portarono alla luce uno strato solfifero della potenza media di 10 metri e per quantitativi di circa 240.000 tonnellate di minerale9. La ditta si affrettò a chiedere la dichiarazione di scoperta che venne accordata con D.R. 16/04/1886. Con successivo D.R. 5/09/1888 la concessione della miniera Cabernardi, con un’estensione di superficie pari a 395.66 ettari, venne accordata all’ Azienda Solfifera Italia (Schwefelgewerkschaft “Italia”) con sede a Coblenza (Germania)10. Tale Società fu appositamente costituita dagli imprenditori F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard. Fino al 1886 , i lavoratori che avevano prestato la loro opera nell’attività mineraria risultavano mediamente una cinquantina all’anno, mentre a partire dal 1887, anno in cui figuravano 96 addetti, il numero crebbe fino a stabilizzarsi intorno a 150 per tutta la decade di fine secolo. 8 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1886, p. 13. 9 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario, 1883, p. 6. 10 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1888, p. 8 9 La scoperta dell’importante giacimento premiò non solo la perseveranza ma anche l’intelligente direzione e l’oculata organizzazione del lavoro dei ricercatori che, dopo un decennio di studi ed ingenti spese, riuscirono a localizzare il minerale nonostante una fitta rete di dislocazioni e faglie. La struttura venne potenziata con la costruzione di impianti per la coltivazione della miniera e di un pozzo, denominato “pozzo I” o Boschetti dal nome del direttore della miniera, che si collegava con diversi livelli di gallerie già in gran parte tracciati11. Si iniziò la coltivazione al 1° livello di uno strato di 9 metri che produsse solo 33.5 tonnellate di zolfo grezzo, mentre negli anni 1876-78, durante la gestione Dellamore, si erano ottenute 196 tonnellate di zolfo. Il minerale estratto veniva trattato nei sedici “calcaroni” presenti all’esterno della miniera a cui se ne aggiunsero altri cinque nel 188912. Nello stesso anno furono ultimati i lavori di costruzione della raffineria di Bellisio Solfare, di proprietà della stessa Azienda Solfifera Italia, alla quale dovevano essere destinato lo zolfo di Cabernardi. La scelta dell’ubicazione della raffineria rispondeva da tre motivi ben precisi. In primo luogo, Bellisio (circa 300 metri s.l.m.) dista solo 4 km in linea d’aria da Cabernardi (circa 400 metri s.l.m.). Tale collocazione geografica rendeva più semplice ed economico il trasporto del minerale grezzo. In secondo luogo, a quei tempi la questione della forza motrice aveva una notevole importanza e quindi l’ubicazione era stata determinata dalla convenienza di sfruttare l’energia idraulica del fiume Cesano che attraversa Bellisio13.Infine, il terzo motivo era dettato dalla possibilità di collegare la miniera e la raffineria con gli scali commerciali più importanti infatti Bellisio si trovava lungo la ferroviaria secondaria Fabriano - Urbino ultimata nel 189814. Durante la 11 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1886, p. 13 12 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1889, p. 163 13 Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit.,p.144. 14 La linea Urbino-Fabriano fu costruita a intero carico dello stato e concessa a una delle più grandi compagnie di quell’epoca: la Rete Adriatica. Il progetto iniziale prevedeva un chilometraggio più lungo Fabriano-Sant’Arcangelo di Romagna. Tra Sant’Arcangelo di Romagna e Urbino è esistita una ferrovia 10 costruzione di questo tronco ferroviario le autorità locali si interessarono per ottenere una stazione, non progettata, a Bellisio che fu inserita e realizzata. Nel 1892 la raffineria veniva ingrandita con l’aggiunta di 6 “storte”15, arrivando così a 24 “storte” capaci di distillare 24 tonnellate di zolfo al giorno. Sin dal 1890 si era progettata una galleria per facilitare le vie di comunicazione, che partendo dal pozzo I, doveva terminare presso la raffineria di Bellisio. Tale galleria, oltre a costituire una comoda e diretta via con lo stabilimento di Bellisio, avrebbe permesso l’investigazione di tutta la parte più profonda del lembo orientale del bacino minerario16. Tuttavia il progetto non fu mai realizzato, infatti nella Rivista del Servizio Minerario del 1894 si legge: riguardo alla galleria progettata...consta allo scrivente che l’esecuzione di tale opera grandiosa fu aggiornata in attesa di una felice soluzione della crisi industriale che ora trattiene qualunque coltivatore da simili imprese dispendiose 17 . Una “regolare” coltivazione del 1° livello della miniera iniziò solo nel 1889. Con una produzione di 2732 tonnellate di zolfo grezzo, il nuovo centro produttivo di Cabernardi si profilò subito molto importante per il distretto minerario marchigiano-romagnolo tanto da far superare alle miniere marchigiane per la prima volta la produzione delle miniere romagnole. Nelle Marche, oltre a Cabernardi, erano presenti altre due importanti miniere: Perticara nel Montefeltro e San Lorenzo in Zolfinelli nell’Urbinate18. fantasma: interamente costruita (ponti, gallerie, stazioni etc.) non vide mai il binario. Tra Fermignano Cagli e Pergola non fu ricostruita dopo la guerra. Cfr., P. Galante, A. Minetti, Le ferrovie dell’Appennino Centrale in “Proposte e ricerche” n°20, 1988, pp.260,261,262. 15 Lo zolfo bruno dei “calcaroni” doveva essere purificato mediante distillazione servendosi di forni a storte di ghisa. 16 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1893, p. 29 17 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1894, p.27. 18 “Le fonti archivistiche e rari lavori a stampa hanno fatto conoscere l’esistenza di solfatare attive fin dal secolo 16° a Maiano di Sant’Agata ed a Perticara nel Montefeltro e, nel secolo 17°, a Rocca Contrada nell’Anconitano, a San Lorenzo in Zolfinelli nell’Urbinate e a Castellina di Macerata (Feltria) nel Montefeltro. ” M. Battistelli, L’estrazione degli zolfi nelle Marche, in “Quaderni di Proposte e ricerche” n°20, 1988, p. 227. 11 Cabernardi nacque in un periodo in cui l’industria dello zolfo italiano stava attraversando una grave crisi per il continuo ribasso dei prezzi che, dopo una breve ripresa nel biennio 1891-1892, toccò il fondo nel triennio 1893-189519. Dopo il 1875 l’intera economia mondiale cadde in uno stato di profonda depressione; in quasi tutti i Paesi si ebbe una generale contrazione dei prezzi che, pur attraverso oscillazioni, si protrasse fino al 1898. L’industria solfifera siciliana, che collocava l’80% della sua produzione all’estero, subì le vicende dell’economia mondiale ancor più degli altri settori dell’economia italiana così, mentre dal 1881 al 1886 i prezzi dei prodotti industriali in Italia ricevettero un sensibile incremento, quelli dello zolfo subirono dal 1883 al 1895 un continuo ribasso: la discesa dei prezzi, comune agli Stati Uniti, alla Francia, all’Inghilterra, massimi clienti dello zolfo siciliano, colpì parimenti quest’ultima merce20. La riduzione del prezzo delle piriti, verificatosi soprattutto dopo l’intensificazione della produzione di quelle spagnole, ebbe un ruolo principale nel determinare la riduzione del prezzo dello zolfo. Salvo quelle pochissime industrie che avevano bisogno di acido solforico purissimo per ottenere l’acido citrico e certi prodotti medicinali, tutte le fabbriche di acido solforico in Europa avevano sostituito allo zolfo le piriti. Di conseguenza la diminuita esportazione di zolfo in Europa aveva determinato la formazione di enormi riserve che potevano essere smaltite soltanto a prezzi molto inferiori. Il prezzo dello zolfo grezzo risultò di 124.51 lire a tonnellata nel periodo 1860-1875, di 100.48 lire nel decennio successivo e di 75.44 lire nel periodo 1886-1895, con un minimo di 55.69 lire nel 189521. L’andamento della produzione siciliana dal 1876 al 1882 per quanto contrassegnato da forti oscillazioni, rivelò una tendenza all’aumento favorendo così la formazione di enormi riserve. Nel periodo 1883-1890 la tendenza generale della produzione fu invece alla 19 Cfr., M. Battistelli Gli zolfi di Cabernardi, in A. Antonietti (a cura di), La montagna appenninica in età moderna, in Quaderni di “Proposte e ricerche”, n°4, 1988b, p. 272. 20 Cfr., F. Squarzina, Produzione e commercio dello zolfo in Sicilia, 1963, pp. 79,80. 21 Ibid. p.80. 12 diminuzione. Nel 1890, ridottesi notevolmente le scorte si verificò un rialzo dei prezzi che si accentuò nell’anno successivo passando da 65.36 lire del 1889 a 77.65 lire del 1890 e arrivando a 112.57 lire nel 1891. Il rialzo provocò però un aumento di produzione prontamente seguito da forti ribassi di prezzo che si accentuarono dal 1893 al 1895 per il permanere di elevate giacenze nonostante che la produzione e l’esportazione si bilanciassero22. L’industria solfifera siciliana, costituendo circa il 90% della produzione nazionale, era di gran lunga la più rilevante per l’Italia per cui le variazioni dei prezzi sottostavano alle sue condizioni. Di conseguenza l’industria solfifera del distretto marchigiano-romagnolo attraversò un periodo di lunga crisi dovuta principalmente al continuo ribasso dei prezzi dello zolfo e accentuata dall’impossibilità di ridurre i costi di produzione per la grande profondità e disposizione dei giacimenti23. A partire dal 1879 e fino al 1898 si registrò nel distretto una tendenza generale di diminuzione nella produzione. In particolare nel decennio 1878-1887 si passò dalle 39069 alle 21663 tonnellate annue di zolfo grezzo con una diminuzione di circa il 45%. Nel 1888, nonostante la chiusura di numerose miniere del Cesenate e dell’Urbinate, la produzione si mantenne di poco inferiore all’anno precedente a causa della preferenza che lo zolfo delle Marche e della Romagna incontrava sui mercati interni ed esteri a motivo delle sue qualità intrinseche e dell’alto grado di perfezione raggiunto nella lavorazione24. Alla fine del 1889 con la recrudescenza della malattia della vite per lo straordinario fulmineo sviluppo della peronospera nei vigneti europei le quantità di zolfo ammassate nei magazzini cominciarono a essere smaltite. Cosicché nel 1890 e 1891 quasi tutto lo zolfo prodotto nel distretto marchigiano-romagnolo fu consumato nella solfurazione della vite nelle regioni vinicole della Toscana, del Piemonte 22 Cfr., F. Squarzina, Produzione e commercio, cit., p.80. In quel periodo la profondità media delle miniere siciliane era di 80 metri mentre nelle Marche e in Romagna si arrivava a circa 300 metri. Cfr., R. Gualtieri, La genesi dello zolfo italiano, in “L’Industria mineraria”, 1950, p.92. 24 Cfr., F. Bonelli, Il commercio estero dello stato pontificio nel secolo XIX, in Archivio economico dell’unificazione italiana serie I volume XI, fascicolo II. 13 23 e del Lazio25. Dopo la breve ripresa del 1891-1892 l’industria dello zolfo italiana peggiorò nel triennio 1893-1895 mentre quella del distretto marchigiano-romagnolo si mantenne a livello degli anni passati grazie alla miniera di Cabernardi che mostrò un trend produttivo crescente per tutto l’ultimo decennio dell’800. La nuova miniera marchigiana superò senza grosse difficoltà la sfavorevole congiuntura in atto grazie alla ricchezza del giacimento e alla elevata resa in zolfo del minerale. Nel 1895 detta resa era del 17.58%, mentre nelle miniere di Perticara e San Lorenzo in Zolfinelli, insieme, e con gli stessi apparecchi di fusione era del 12.53% e in quelle di Romagna era mediamente dell’11.46%. Nello stesso anno era altissima la produttività del lavoro degli operai che realizzarono 28 tonnellate annue di zolfo pro capite, mentre con pari tecnologie di scavo e di fusione del minerale, nelle sole due altre miniere attive nelle Marche se ne ottennero 8.16 tonnellate e nel cesenate appena 3.6326 . Nel 1896 le aumentate richieste del mercato interno per usi agricoli e industriali nonché la costituzione della Società Anglo-sicula per il commercio degli zolfi italiani determinarono un rapido e consistente aumento dei prezzi. Mentre la produzione di zolfi in Italia aumentò del 14% nel distretto marchigiano-romagnolo la ripresa del mercato dello zolfo esercitò una considerevole influenza soltanto nello sviluppo della miniera di Cabernardi. La produzione in detta miniera, che nell’anno appena trascorso era poco al di sopra delle 5000 tonnellate di zolfo grezzo, iniziò il suo trend ascendente che la portò in breve tempo a spingersi assai oltre il 50% dell’intero prodotto regionale con l’impiego di una manodopera da 3 a 5 volte inferiore numericamente a quella utilizzata complessivamente nelle altre 4 miniere attive. A conferma di ciò nel 1897 la produzione della miniera di Cabernardi, “ la più importante di tutte ”, salì a più di 8000 tonnellate di zolfo greggio. “ Il minerale si conserva sempre di una 25 Tali regioni venivano raggiunte per via di terra con trasporti ferroviari dalle stazioni di Ravenna, Faenza, Cesena e Rimini. Altro zolfo andava all’estero via mare ma rappresentava appena 1/10 del totale. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1891, p. 36. 26 Cfr., M. Battistelli, Gli zolfi di Cabernardi, cit., p.272. 14 ricchezza eccezionale sicché, anche da questo lato, l’industria del Azienda Solfifera Italia attinge alimento per una vita rigogliosa come del resto lo prova il suo assurgere in pochi anni in un grado eminente fra le molte altre congeneri della stessa regione continentale adriatica ”27. 1.2 La gestione Trezza-Albani Al termine della severa crisi economica e bancaria (1888-95) e in particolare dello stato di profonda depressione in cui si venne a trovare l’industria solfifera italiana nell’ultimo ventennio dell’800 che aveva portato al fallimento di numerose società estrattive, le migliorate condizioni economiche favorirono una complessa riorganizzazione e concentrazione delle imprese. Con la comparsa di medi e grandi gruppi industriali italiani nell’età del “decollo” (1896-1914) questi presero il sopravvento sulle iniziative straniere28 così nel 1899 la ditta Cav. Luigi Trezza di Bologna, in commercio Miniere Solfuree TrezzaRomagna, rilevò la concessione del centro minerario di Cabernardi dalla Società tedesca Azienda Solfifera Italia. La ditta Trezza aveva già acquistato nel 1892 le miniere della Società Generale Zolfi e della Cesena Sulphur Company entrambe fallite nel 188729. Avendo acquistato nel 1899 anche le miniere appartenenti alla Società Miniere Zolfuree di Romagna, posta in liquidazione dal 1896, la ditta Trezza era diventata proprietaria di quasi tutte le principali miniere di zolfo del distretto marchigiano-romagnolo possedendo ben 11 27 Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1897, p.33. 28 Cfr., E. Sori, op. cit., p. 358. 29 La Cesena Sulphur Company possedeva le seguenti miniere: Boratella I, BorelloTana, Polenta, Ca’di Guido e Montecodrizzo. Mentre alla Società Generale Zolfi apparteneva la sola miniera di Boratella II. Cfr., S. Lillotti (a cura di), La Miniera tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, 1989, p. 423. 15 concessioni30. Il passaggio di proprietà implicò anche un aumento di lavoratori nella miniera. Già nel 1900 gli addetti erano circa 200, raggiunsero quota 300 solo 2 anni dopo e successivamente il numero si mantenne su quest’ultimo livello fino alla I Guerra Mondiale. A Cabernardi, i nuovi imprenditori dettero forte impulso alla coltivazione: nel 1899 era già attivo il quarto livello e la produzione aveva raggiunto 8970 tonnellate di zolfo fuso con l’impiego di soli 157 minatori, ciò testimoniava l’elevato rendimento della più ricca e promettente miniera del distretto31. Per il trasporto del minerale furono costruiti nel 1901 dei piccoli piani inclinati fra i cantieri e le gallerie prolungandoli fino ai livelli dei superiori piani di lavorazione che si succedevano ad ogni 25 metri di altezza cosicché mentre prima era possibile solo il trasporto del minerale con carriole a mano, ora invece ogni cantiere era munito di rotaie che permettevano ai vagoncini di arrivare dalle gallerie di carreggiatura sino ai sovrastanti cantieri di lavoro32. Interessanti ricerche vennero condotte nel 1902 e nel 1903 a sud di Cabernardi per risolvere i complessi problemi che presentava l’andamento stratigrafico di questo importante bacino, rintracciando lo strato solfifero dopo che era stato interrotto al quinto livello da una grande faglia e permettendo quindi al pozzo I di raggiungere il settimo livello33. Nel 1904 la ditta Trezza si fuse con la Società Miniere Solfuree Albani e assunse la denominazione di Società Anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna. Quest’ultima, in seguito alla fusione, venne in possesso delle miniere denominate San 30 Sette delle quali risultavano nel 1899 produttive (Cabernardi, Perticara, Marazzana, Boratella I, Boratella II, Ca’di Guido e Busca) e 4 in via di preparazione e di esplorazione (Percozzone, Luzzena Formignano, Polenta e Borello-Tana). Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1899, p. 25. 31 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1899, p. 26. 32 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1901, p. 22. 33 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1902, p. 27 e 1903, p. 26. 16 Lorenzo in Zolfinelli, Cavallino, Gallo, Schieti e Morcia situate in provincia di Pesaro nonché delle raffinerie e i molini di Pesaro e Cesena appartenute alla Soc. Albani34. La nuova Società concentrò i suoi sforzi nella promettente miniera di Cabernardi. Ad affiancare l’unico pozzo ne venne costruito, nel 1904, un secondo (chiamato in seguito pozzo Donegani) soddisfacendo così l’esigenza di introdurre i materiali di riempimento attraverso una via che non fosse più la vecchia discenderia fino ad allora utilizzata, non più adatta a questo compito per l’aumentata profondità delle lavorazioni35. Sempre nel 1904 fu introdotta per la prima volta l’energia elettrica che inizialmente servì ad alimentare un ventilatore installato alla bocca di una galleria per il riflusso dell’aria. Il suo più utile impiego lo trovò però due anni più tardi quando, per ovviare alle difficoltà dei trasporti, si realizzò una teleferica che, con una portata di 50 tonnellate e uno sviluppo di 3450 metri, collegava la miniera con la raffineria e con la stazione ferroviaria di Bellisio-Solfare36. Ciò costituiva un notevole progresso economico e pratico in quanto, per raggiungere detta località, fino ad allora erano stati utilizzati lenti mezzi di trasporto a traino animale lungo un percorso di circa 6 km di strade male agevoli. Lo zolfo estratto veniva fuso in immediata prossimità del pozzo per mezzo di “calcaroni” e “forni Gill”, colato in stampi dove si formavano i cosiddetti “pani” inviati alla raffineria. Solo una piccolissima parte era lasciata grezza, mentre lo zolfo raffinato nella vicina Bellisio raggiungeva per ferrovia il porto di Ancona. I mercati più serviti erano quelli italiani; in essi il raffinato veniva acquistato per usi agricoli, massimamente quale 34 Casa Albani (casa nobiliare dell’800) era un gigantesco aggregato esteso in tutta la provincia di Pesaro che comprendeva miniere e raffinerie di zolfo, opifici meccanici, molini, fabbriche di maioliche e ceramiche, cartiere, fornaci da laterizi e da gesso e gualchiere. Cfr., E. Sori, op. cit., p. 352. Nel 1884 aveva costituito la Società anonima Miniere Solfuree Albani alla quale parteciparono, con quote più che rilevanti, capitali extra regionali apportati dal Credito Lombardo e dalla Banca di Credito Italiana (11000 azioni su 25000). Cfr., P. Sabbatucci Severini, L’evoluzione industriale nella provincia di Pesaro e Urbino, in Anselmi S. (a cura di) L’industria nella provincia di Pesaro e Urbino, 1995, p. 103. 35 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1904, p. 29. 36 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1906, p. 22. 17 antiparassitario della vite, e industriali, per lo più per essere utilizzato nelle fabbriche di acido solforico, di perfosfati e di polveri piriche. Nella raffineria di Bellisio parte dello zolfo raffinato, mediante particolari lavorazioni, dava luogo a qualità superiori oppure, con l’aggiunta di altre sostanze venivano creati prodotti speciali quali: lo zolfo ventilato, ramato o acido. Questi ultimi, preparati con tanta cura da presentarsi in uno stato di estrema finezza, riscuotevano particolare favore presso le varie regioni vinicole italiane ed estere dove venivano quotati in maniera superiore agli altri prodotti consimili permettendo, di conseguenza, alla società produttrice di poter fissare il prezzo di vendita con una certa indipendenza rispetto alle oscillazioni del valore dello zolfo37. Per quanto riguarda la quantità di zolfo grezzo prodotta da Cabernardi sotto la gestione Trezza-Albani, i dati statistici indicano dal 1899 fino al 1914 un trend generalmente in ascesa nonostante alcune oscillazioni. Stessa cosa può dirsi per la produzione complessiva del distretto marchigiano-romagnolo. 37 Cfr., G. Testoni, Alcune notizie sugli zolfi italiani, 1913, p. 36. 18 Il calo produttivo di Cabernardi nel 1901 fu causato dalla sospensione di tutti i lavori nel terzo livello della miniera a causa di un incendio verificatosi al principio dell’anno38. Dal 1902 la produzione continuò a crescere sino a superare le 12500 tonnellate nel 1905: ben poca cosa rispetto alla produzione nazionale di cui rappresentava solo il 2.2% ma un risultato di rilievo se rapportato alla produzione complessiva delle 13 miniere marchigiane e 38 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1901, p. 21. 19 romagnole in attività, che non eguagliava per sole 300 tonnellate . La diminuzione sensibile nella produzione di Cabernardi nel 1906 dipese soprattutto da uno sciopero che la costrinse per 2 mesi all’inattività e solo in misura minore dalla nuova crisi dell’industria solfifera italiana. Infatti, mentre diminuivano notevolmente le esportazioni di zolfo italiano negli Stati Uniti e in Francia, la domanda interna era in aumento e continuava a prediligere i prodotti delle raffinerie marchigiane e romagnole. Il ristagno produttivo dell’anno seguente fu invece conseguenza, seppur indiretta, del peggioramento della crisi derivante dalla cessata esportazione negli Stati Uniti. Tale Nazione, una tra le più importanti importatrici del minerale italiano, aveva scoperto importanti giacimenti di zolfo nel Texas e nella Louisiana. Nel 1904 vi fu la prima esportazione di zolfo americano in Europa infrangendo il monopolio siciliano. Di conseguenza i prezzi scesero a 95 lire nel 1907 e la produzione siciliana diminuì39. In queste condizioni la Società Trezza-Albani era restia ad aumentare la produzione in quanto temeva che la Sicilia si orientasse maggiormente verso il mercato interno. Infatti, anche se lo zolfo siciliano era di minor qualità rispetto a quello dell’area marchigiana-romagnola, la coltivazione in quest’ultima, per la particolare conformazione geologica implicava una spesa quasi doppia rispetto alla Sicilia. Negli anni successivi la produzione di Cabernardi e del distretto marchigiano-romagnolo, al contrario dell’andamento della produzione siciliana e quindi nazionale, dopo la contrazione del 1909 dovuta a un’interruzione dei lavori a Cabernardi, aumentò progressivamente fino al 1914. Ciò confermava l’esistenza per le Marche e la Romagna di una nicchia di mercato grazie alle produzioni speciali destinate all’agricoltura40. Dal 1915 e per tutta la durata della Prima Guerra Mondiale, a causa della scarsità di manodopera maschile, si registrò 39 F. Squarzina, Produzione e commercio, cit., p. 100. Basti pensare che mentre il valore medio unitario dello zolfo grezzo si mantenne fra un minimo di lire 95 nel 1909 e un massimo di lire 97 nel 1914, il valore medio unitario del raffinato e di quello macinato fu rispettivamente di lire 110 e 140.(Valori tratti da Rivista del Servizio Minerario per gli anni considerati). 20 40 un’inversione di tendenza sia nella produzione del distretto che, in particolare, nella miniera di Cabernardi dove nel 1917 furono sospesi i lavori di ricerca della vicina miniera di Percozzone per poter impiegare tutto il personale nell’estrazione dello zolfo41. 1.3 I PRIMI 16 ANNI SOTTO LA GUIDA DELLA “MONTECATINI” Nel 1917 la Montecatini, Società Generale per L’Industria Mineraria, assunse il controllo del gruppo minerario Cabernardi-Percozzone e di tutte le altre miniere e raffinerie appartenenti alla Società Anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna42. Nonostante la ricchezza dei giacimenti di zolfo posseduti dalla Società Anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna che avrebbe potuto assicurare all’azienda un brillante avvenire, gli eredi dei Trezza e degli Albani vendettero la maggioranza delle azioni alla Società Montecatini a prezzi fallimentari. Questo affare così disastroso per i venditori si può probabilmente attribuire, in parte, all’incapacità dei nuovi rappresentanti della Società che non erano degli attenti imprenditori come i loro padri, ed in parte all’abilità dei dirigenti della Montecatini43. Non bisogna dimenticare che a capo della Montecatini vi era già l’ing. Guido Donegani, uomo di statura non comune e con uno spiccato senso degli affari. Nel 1917 la Società Montecatini aveva anche acquistato la quasi totalità della Società Mineraria Siciliana e una larga partecipazione alla Società Solfifera Siciliana. In tal modo la Montecatini, la quale rivelava la tendenza propria delle grandi imprese minerarie moderne ad attenuare l’alea insita nell’esercizio di questa industria con una molteplicità di esercizi 41 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1917, p.8. 42 Oltre alle miniere di Cabernardi e Percozzone la Società Anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna possedeva quelle del Cesenate (Formignano e Busca) quelle del Montefeltro (Perticara e Marazzana) e le raffinerie di Bellisio Solfare, Cesena e Pesaro. 43 Cfr., P. Mattias, G. Crocetti, A. Scigli, op. cit., p. 48 21 dello stesso prodotto, assumeva il controllo del 50% della produzione italiana di zolfo44. La Montecatini si assicurava così l’accesso diretto ad un’importante fonte di materie prime che veniva ad integrare la fornitura delle piriti toscane nella produzione di acido solforico per l’industria chimica45. Inoltre lo stato di guerra aveva accresciuto la necessità di zolfo a causa dell’enorme bisogno di esplosivi. Il primo problema che la nuova gestione dovette affrontare a Cabernardi era la scarsità di manodopera maschile che era stata la causa della caduta di produzione da 14680 tonnellate del 1914 a 9508 tonnellate del 1918, anno in cui si ebbe la necessità di impiegare 200 prigionieri di guerra e 60 donne. Con la smobilitazione dell’esercito il problema non era ancora risolto. Nella Rivista del Servizio Minerario del 1919 si legge infatti che “ la produzione di Cabernardi fu ostacolata in principio dell’anno dalla deficienza di manodopera e per la stessa ragione si dovettero sospendere i lavori nella miniera Percozzone”. Inoltre “per rendere possibile il necessario aumento di manodopera” la Montecatini stava costruendo un “villaggio operaio”. Dall’inizio del 1919 e fino al 1922 si presentava, come del resto in tutta Italia, un ben più grave problema: le rivendicazioni operaie per l’aumento delle mercedi. Durante la guerra i prezzi erano saliti precipitosamente a causa della forte inflazione (dalle 97 lire del 1914 raggiunsero le 420 lire nel 1918) ma le società esercenti ottennero buoni guadagni perché gli operai, lavorando sotto la dura legge militare e la minaccia della revoca degli esoneri, si dovevano accontentare di salari strettamente commisurati al costo della vita. A Cabernardi il 24 gennaio 1919 gli operai, ormai svincolati dalla soggezione alla legge militare, organizzati nella locale Unione Professionale del Lavoro, presentarono una domanda di aumento dei salari nella misura del 35% per alcune categorie e del 25% per tutte le altre. Dopo lunghe 44 A. Damiano, Guido Donegani, 1957, pp. 43,44. Nel 1913 era entrata nel mondo della chimica compiendo il primo passo verso l’integrazione verticale della produzione con la partecipazione alla Società per lo sviluppo dei superfosfati e prodotti chimici italiani. L’acido solforico è il punto di partenza per ottenere numerosi prodotti chimici come concimi ed esplosivi. Cfr., V. De Michele, A. Ostroman, L’attività estrattiva della Montecatini dal 1888 al 1938, p. 28. 22 45 trattative e senza alcuno sciopero si giunse ad un concordato sulle nuove tariffe per le paghe e i cottimi con decorrenza 1° maggio e venne concessa la giornata lavorativa di 8 ore. L’anno seguente con l’accentuarsi della svalutazione ci furono 15 giorni di ostruzionismo in seguito ai quali si stabilì un aumento salariale generale del 25%. Pochi mesi dopo, con uno sciopero di 25 giorni, gli operai ottennero un aumento del 20% rispetto al precedente accordo e il riconoscimento delle Commissioni Interne. Il 31 agosto 1921 in conseguenza della denuncia da parte della Montecatini dei concordati vigenti per la crisi che si stava manifestando nell’industria solfifera, si concordò una riduzione dell’indennità caroviveri del 23%. Due mesi dopo tutti gli operai entrarono in sciopero per ottenere l’abolizione del concordato; l’astensione dal lavoro si concluse il 23 novembre con il raggiungimento di un accordo che, oltre ad annullare il concordato del 31 agosto, aumenta del 6% tale indennità. Dopo un primo sciopero in aprile del 1922, terminato con la precisa applicazione di concordati allora vigenti, ne seguì un secondo a luglio al quale la Montecatini rispose duramente; dapprima con una serrata e in seguito con il licenziamento di tutto il personale. Il 20 agosto riaprì la miniera con una nuova assunzione del personale e con nuove condizioni di lavoro tra cui una riduzione del salario del 20%. Nonostante i numerosi scioperi, dal 1919 al 1921, la produzione della miniera continuò a crescere e raggiunse nuovamente gli elevati livelli ottenuti prima della guerra. Tabella 1.2 Produzione di zolfo grezzo dal 1919 al 1922. Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del Servizio Minerario, per gli anni considerati Anno Produzione Zolfo grezzo (tonnellate) di N° di operai Cabernardi-Percozzone 1919 13455 680 1920 13899 840 23 1921 15232 815 1922 14530 679 Nel 1922 si registrò invece una leggera diminuzione dovuta in parte alla difficile situazione creatasi tra i lavoratori e la Società Montecatini ed in parte all’acuta crisi in cui l’industria solfifera italiana si venne a trovare per la schiacciante concorrenza americana che aveva sottratto alla Sicilia i principali e tradizionali Paesi consumatori di zolfo. Il decennio 1923-32 fu caratterizzato da un notevole miglioramento delle condizioni generali nel mercato dello zolfo. Aumentarono le esportazioni verso i Paesi dell’Europa orientale dato che quelli occidentali erano stati conquistati dagli Stati Uniti. A livello nazionale un forte impulso alla produzione fu stimolato principalmente dallo sviluppo dell’industria chimica. Già dal 1919 lo zolfo e l’acido solforico da esso ottenuto iniziarono ad essere impiegati in misura crescente per prodotti chimici per le industrie con conseguente aumento della loro domanda anche per produzioni al di fuori dei fertilizzanti e degli anticrittogamici46. Questi ultimi continuarono comunque ad avere una fondamentale importanza dal momento che le 38000 tonnellate di zolfo raffinato, prodotte dalla Montecatini nel 1921, rappresentarono quasi la totalità dello zolfo impiegato in agricoltura e che il 54% della popolazione italiana viveva grazie all’agricoltura47. Le miniere marchigiane furono in grado di rispondere prontamente alle richieste del mercato e videro in 10 anni triplicare la loro produzione. 46 47 Cfr., A. Damiano, op. cit., p.56. Ibid., pp.55,62. 24 Tabella 1.3 Produzione di zolfo grezzo dal 1923 al 1933. Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del Servizio Minerario, per gli anni considerati Anno Produzione di Zolfo N° operai di Produzione del Produzione zolfo grezzo (tonnellate) Cabernardi- distretto grezzo in Italia Cabernardi-Percozzone Percozzone marchigiano- (tonnellate). romagnolo (t.) 1923 19378 672 38716 256342 1924 21005 654 43438 294899 1925 21904 636 52962 263591 1926 24762 688 62402 271393 1927 29566 793 68000 305629 1928 33450 845 71600 296107 1929 37220 880 76404 323835 1930 43083 1051 91300 350093 1931 40413 1001 92338 352946 1932 48921 984 108013 349976 1933 54165 1116 103234 376623 In particolare, il gruppo minerario Cabernardi-Percozzone registrò un incremento produttivo continuo eccezion fatta per il 1931 a causa di un incendio di vaste proporzioni48. La produzione, che nel 1923 era di 19387 tonnellate di zolfo grezzo, nel 1933 oltrepassò le 54000 tonnellate, accrescendo così l’importanza di questa miniera rispetto sia al distretto a cui apparteneva che all’intera produzione nazionale. Nonostante il trend ascendente di quest’ultima, la miniera di Cabernardi riuscì ad aumentare la sua quota relativa di produzione nazionale che passò dal 7.5% del 1923 al 14% del 1933. La crescente intensità 48 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1931, p.11. 25 estrattiva permise l’assorbimento di tutta la manodopera disponibile. Nella miniera di Cabernardi si dovette assumere personale dalla Sicilia e dalla Sardegna dato che gli operai della zona erano già stati tutti impiegati limitando fortemente il fenomeno migratorio e la disoccupazione. Gli ottimi risultati ottenuti si dovevano solo in parte alla positiva congiuntura in atto mentre erano da attribuirsi in massima parte al grado di efficienza raggiunto dalla miniera dopo la tenace e costosa opera di valorizzazione. Terminata la guerra la Società Montecatini aveva dato inizio ad un vasto programma di ammodernamento degli impianti, di riordinamento delle coltivazioni danneggiate dagli affrettati e disordinati lavori del periodo bellico, di ampliamento delle esplorazioni e di sfruttamento più razionale49. Il primo intervento di rilievo era stato l’introduzione nel 1918 della perforazione meccanica ad aria compressa in sostituzione parziale del piccone e della barramina50. Nel 1919 le due miniere di Cabernardi e Percozzone facenti parte dello stesso bacino solfifero, per la prima volta vennero messe in comunicazione per mezzo di un piano inclinato che partendo dal 7° livello della miniera di Cabernardi raggiungeva il 6° livello dell’adiacente Percozzone51. Per quanto riguarda la miniera di Percozzone, le prime ricerche di cui si ha documentazione sicura furono svolte nel 1874 e cioè prima ancora di Cabernardi dalla ditta tedesca, costituita dai Sigg. F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard che aveva rilevato alcuni permessi all’estremità nord-ovest del bacino 8 km a nord di Sassoferrato. I lavori scoprirono un limitato lembo del giacimento presso la località Vigne 250 metri , ad ovest di 49 <<Anche in questo campo è tutta una rivoluzione tecnica quella che è stata da noi compiuta, essa ci ha permesso di triplicare la nostra produzione del 1920 sino a farle raggiungere il terzo di quella totale italiana(gli altri due terzi sono dati dalla Sicilia, la terra tradizionale degli zolfi), e di aprire per la prima volta (dal 1925 in poi) al prodotto marchigiano-romagnolo il mercato di esportazioni. Il che ci è stato possibile solo attraverso il rilievo e la partecipazione a raffinerie francesi, delle quali ci siamo serviti per avviare in Francia oltre 200 mila quintali annui di zolfi greggi>> Lettera di commiato di Guido Donegani ai lavoratori ed agli azionisti della Montecatini, in A. Damiano, op. cit., p. 151. 50 Asta di ferro, assai pesante e manovrata a braccia, utilizzata per fare fori nella roccia ad uso delle mine. 51 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1919, p. 5. 26 Percozzone e nella località Cantarino, 750 metri a sud-est di Percozzone, contenente uno strato mineralizzato di circa 3 metri Ciò permise la dichiarazione di scoperta e di conseguenza la concessione mineraria venne accordata con D.R. 6 giugno 187852. Negli anni dal 1876 al 1885 si ebbe una produzione di circa 800 tonnellate ; in questo periodo furono scavati circa 1200 metri di gallerie distribuite su tre livelli con brevi tratti di discenderie e con pozzetti di collegamento53. Dal 1885 la miniera rimase inattiva per lunghi anni poiché la Società era incerta nell’affrontare ricerche profonde assai onerose. Solo più tardi negli ultimi anni della gestione della Società Trezza-Albani fu scavato un pozzo per l’estrazione in una zona più a sud dei lavori precedenti. All’epoca della cessione della miniera alla Società Montecatini (1917), Percozzone era totalmente inattiva e nessun mezzo di fusione era stato costruito. La Montecatini, dopo aver fatto eseguire molti sopralluoghi da esperti, arrivò alla conclusione che la miniera poteva essere opportunamente valorizzata perché le precedenti ricerche non erano state esaurienti. I risultati apparvero anzi tali da decidere di creare a Percozzone una vera miniera indipendente dotata all’esterno di servizi meccanici e di sistemi di sicurezza affinché il lavoro potesse svolgersi nelle migliori condizioni possibili. Infatti la produzione, iniziata nel 1921 con sole 1568 tonnellate di zolfo fuso, raggiunse nove anni dopo le 16446 tonnellate moltiplicando per dieci la quantità iniziale54. Tra i lavori di attrezzamento ed organizzazione eseguiti per consolidare l’efficienza della miniera, si ricordano: la sostituzione del vecchio argano a vapore del pozzo di estrazione con un argano elettrico, l’installazione un potente impianto per la produzione di aria compressa, opportuni accorgimenti per l’areazione indipendente delle vie di uscita degli operai in caso di incendi e in particolare l’apertura di 52 E’ probabile che la dichiarazione di scoperta della miniera abbia stimolato la ricerca di altri giacimenti nelle aree circostanti; infatti, osservando i dati forniti dagli annali relativi l’attività mineraria, molte altre località emergono a testimonianza di richieste, rinnovi, proroghe di permessi di ricerca. Tra la fine degli anni settanta e la meta degli ottanta ( dell’800) vi è un consistente numero di aree interessate all’indagine: Cabernardi, Ca’Fabri, San Paolo, Casale, Casettone, S. Stefano, S. Giovanni, Palazzo ed altre ancora. 53 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, per gli anni considerati. 54 Cfr., AA.VV. La Società Montecatini, cit., p. 115. 27 due comunicazioni con la miniera di Cabernardi. Una di queste, come detto in precedenza, fu ultimata nel 1919. L’altra, la grande galleria Donegani, costruita nel 1933, era un’arteria per transito e trasporto, dotata di doppio binario e interamente murata che permetteva di estrarre il minerale sia di Cabernardi che di Percozzone da uno qualunque dei tre pozzi di estrazione delle due miniere e pertanto di utilizzare in pieno, in caso di bisogno, tutti gli impianti di fusione esistenti55. Le due miniere, specialmente dopo che i sotterranei furono collegati, costituirono un’unica unità produttiva. Nel 1922 cominciarono a diffondersi, per vari usi, numerosi motori elettrici che utilizzavano l’energia elettrica necessaria fornita dalla Società Unione Esercizi Elettrici56. Nello stesso anno entrò in esercizio il primo tratto di una lunga discenderia murata per assicurare l’introduzione in miniera dei materiali di riempimento ricavati dai “rosticci” della fusione del minerale. In precedenza i materiali venivano introdotti dal pozzo II che, dopo l’entrata in esercizio della discenderia venne restaurato ed adibito all’estrazione che non poteva più essere svolta dal solo pozzo I. Nel pozzo II venne sostituita la macchina a vapore preesistente con un argano azionato da motore elettrico mentre al pozzo I ciò non fu possibile poiché il Corpo Reale delle Miniere per ragioni di sicurezza non lo permise. Era infatti rischioso affidarsi unicamente a motori elettrici per lo sgombero dei minatori dai sotterranei in caso di necessità perché l’energia elettrica era suscettibile di interruzioni. E’ vero che la legge di polizia mineraria prescriveva una via d’uscita di sicurezza, ma questa via a Cabernardi si snodava attraverso antichi lavori e non dava sufficienti garanzie per una rapida evacuazione dei sotterranei57. Negli anni successivi i pozzi I e II furono approfonditi 55 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1933, p.15. 56 L’energia elettrica che era fornita dalla Società Unione Esercizi Elettrici alla tensione di 30000 volt veniva trasformata in una prima cabina centrale mediante tre trasformatori di 500 Kva ciascuno da 30000 a 6000 per essere così erogata a tre sottostazioni (600/500) poste rispettivamente nei centri di consumo delle miniere Cabernardi e Percozzone e nella raffineria di Bellisio. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1922, p. 6. 57 Cfr., A. Scicli, I giacimenti e le vicende dell’industria solfifera della regione Marche, dattiloscritto in Museo Storico Minerario di Perticara, numero unico p. 153. 28 fino a raggiungere nel ’33 la profondità di 460 metri58. Sia per la rilevante profondità delle coltivazioni sia per prevenire gli effetti di frequenti incendi e di emissioni di gas la ventilazione aveva un’importanza fondamentale. La Società Montecatini si preoccupò di ingrandire e ricostruire le vie di riflusso interamente murate e le dotò di aspiratori e, per garantirne il funzionamento in caso di mancanza di corrente, fu installata una centrale elettrica azionata da un motore Diesel59. Un’altra novità introdotta a scopo di sicurezza nella procedura di estrazione del minerale fu quella di non effettuare più scavi verticali ( perpendicolari al terreno) ma di operare scavi longitudinali rispetto ai vari livelli di lavoro. Questa nuova metodologia serviva innanzitutto a prevenire il cosiddetto “effetto chioppo” che poteva dar luogo a pericolosissimi incidenti. Infatti, con la vecchia tecnica di scavo, era frequente il distacco di blocchi prismatici di minerale (chioppi) dovuti alla compressione che questo aveva all’interno del filone. Con i tagli longitudinali si andava a diminuire la pressione del minerale e a scaricarla in zone non praticate dai minatori.60 Per estendere il campo di lavoro e conoscere in precedenza le disponibilità per il futuro, la Società Montecatini aveva intrapreso numerosi e rilevanti lavori di ricerca e aveva anche provveduto ad ingrandire le proprietà del sottosuolo incorporando i permessi di ricerca che limitavano verso sud le concessioni. Il moltiplicarsi dei cantieri di lavoro richiese l’impianto di un numero adeguato di forni fusori (“calcaroni” e forni Gill) con tutti gli annessi impianti per l’aspirazione, condensazione dei fumi e soffiatoi studiati appositamente per aumentare la potenzialità e diminuire il costo del trattamento. 58 La potenzialità dei pozzi era molto elevata e la loro velocità di servizio era in media di 6 metri al secondo. L’estrazione avveniva mediante gabbie a due scomparti. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 111. 59 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1926, pp. 12,13. 60 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1926, p. 11. 29 La logica di rimodernamento generale riguardò anche le raffinerie di zolfo di proprietà della stessa Società perché questo settore di attività era considerato complementare e integrativo della produzione mineraria61. In questi primi 16 anni (1917-33) di gestione, la Società Montecatini oltre ad aver apportato alla miniera numerose e notevoli innovazioni, aveva dato grande impulso ai lavori di preparazione, manutenzione e coltivazione. Mentre, all’epoca dell’acquisto (1917) , le coltivazioni arrivavano sino all’undicesimo livello, nel 1933 si spingevano fino al 16° (-186 slm.) ed erano già tracciati i livelli 17°,18° e 19° (-276 slm.)62. Considerando che i pozzi esterni si trovavano ad una quota di circa 400 metri sul livello del mare, la miniera aveva raggiunto una profondità totale di circa 676 metri tanto da rappresentare la più grande e profonda miniera d’Italia. 1.4 GLI ANNI ’30 La crisi dell’economia mondiale in seguito al crollo di Wall Street (’29) fece sentire i suoi effetti anche nel settore dello zolfo. Dal 1930, dopo parecchi anni di ininterrotto aumento delle vendite, era iniziato un radicale mutamento nel consumo mondiale di zolfo sia per usi agricoli che industriali data la generale contrazione dei consumi che si ripercosse su tutte le materie prime63. Nonostante una notevole contrazione dei prezzi, l’industria solfifera italiana, nei primi due anni di crisi, non fu particolarmente colpita, infatti la sua produzione si mantenne pressoché costante soprattutto grazie alle miniere del distretto marchigiano61 La lavorazione dello zolfo fu concentrata presso le raffinerie di Bellisio, Cesena e Pesaro abbandonando le raffinerie di Faenza e Murano che per la loro posizione e per altri fattori locali non presentavano convenienza di funzionamento. In particolare a Bellisio vennero attuati notevoli trasformazioni e rinnovi di impianti. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 144. 62 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1933, pp. 12,13. 63 Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo e pirite nel secolo XX, parte seconda dal 1921 al 1944, in “L’industria mineraria”, giugno 1960, p. 419. 30 romagnolo che furono in grado di compensare la continua, seppur non molto rilevante, contrazione della produzione siciliana64. Nel 1932 la situazione iniziò a peggiorare perché gli Stati Uniti, che insieme all’Italia erano tra i principali Paesi produttori ed esportatori di zolfo in tutto il mondo, riuscivano a collocare il loro prodotto a un prezzo più concorrenziale per i minori costi di produzione65. Nello stesso anno fallirono le trattative con i rappresentanti dell’industria solfifera statunitense per assicurare alla produzione italiana una quota più rispondente alle sue necessità. L’industria dello zolfo italiano subì un grave colpo nel 1933 a causa della svalutazione del dollaro che determinò un forte ribasso nelle quotazioni dello zolfo americano e di conseguenza quello italiano continuò la sua discesa passando dalle 400 lire del 1932 alle 300 del 193366. Il governo intervenne costituendo nel dicembre 1933 l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano67 per collocare tutto lo zolfo prodotto in Sicilia e nel resto d’Italia sia sul mercato interno che nell’esportazione opponendo così alla concorrenza statunitense un fronte unico e un diretto appoggio governativo. Venne innanzitutto stabilita la gestione commerciale accentrata dello zolfo prodotto dalle miniere nazionali. Se ne conferiva l’esclusività ad un ente (l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano) a 64 Per la produzione italiana e quella del distretto marchigiano-romagnolo dal 1929 al ’33 si veda la tabella 1.2. 65 Gli Stati Uniti già dal 1914 avevano superato l’Italia ponendosi al primo posto nel mondo nella produzione esportazione dello zolfo. Negli Stati Uniti e nel Golfo del Messico erano stati scoperti enormi giacimenti che per la loro configurazione geologica permettevano l’uso di metodi estrattivi con più alto rendimento e con costi molto minori. In particolare era stato inventato un metodo rivoluzionario (Frasch) consistente nel giacimento, per mezzo di pozzi trivellati, vapore d’acqua che fonde sul posto il minerale il quale viene successivamente pompato in superficie. Le condizioni geologiche delle miniere italiane ne impedivano l’utilizzo: qui occorreva estrarre lo zolfo con faticosi e costosi lavori in sotterraneo, con pericolo per improvvisi crolli e per la fuoriuscita di gas tossici e infiammabili. 66 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1933, p. 14. 67 L’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano che entrò in funzione subito dopo la pubblicazione (22 dicembre 1933) del decreto-legge che lo istituiva (r.d.l. 11 dicembre 1933 numero 1699), era amministrato da un consiglio composto di un presidente e di nove membri nominati dal Ministro per le Corporazione e di concerto con il Ministro per le Finanze. Sei membri del consiglio erano designati dalla Confederazione degli industriali, uno dalla Confederazione dei lavoratori dell’industria, uno dal Istituto nazionale per gli scambi con l’estero e uno dal Banco di Sicilia. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo, cit. p. 428. 31 disposizione del quale doveva essere posto lo zolfo ricavato dalla lavorazione di tutte le miniere d’Italia. Inoltre si stabiliva per ciascuna miniera un limite massimo di produzione annua che poteva essere messo a disposizione dell’Ufficio per la vendita in comune (contingentamento della produzione nelle miniere). .Infine si garantiva ai produttori la liquidazione di un prezzo minimo per ogni tonnellata di zolfo entro la quota di produzione annua riscontrata come contingente (prezzo minimo garantito). Il contingentamento della produzione doveva essere stabilito avendo riguardo alle condizioni generali del mercato solfifero e alle quantità di zolfo esistenti nel Regno. Essendosi però autorizzato l’Ufficio a garantire ai produttori determinati prezzi minimi, il contingente venne fissato fino al 1936 con modalità più restrittive. Il meccanismo ideato per la limitazione della produzione fu assai semplice: ciascun produttore fu autorizzato a mettere a disposizione del nuovo ente per la vendita una quantità di zolfo che non poteva superare annualmente per le miniere siciliane, la produzione media annua ottenuta negli ultimi tre esercizi del Consorzio obbligatorio (1930-32) e per le miniere dell’Italia continentale quella media del triennio 1930-32. Nell’adottare la decisione di limitare la produzione, il governo, preoccupandosi soprattutto di assicurare la continuità del lavoro in tutte le miniere, escluse il ricorso a provvedimenti intesi a favorire il risanamento dell’industria, quale quello di concentrare la produzione nelle miniere che per le loro condizioni naturali o tecniche avrebbero potuto, con un aumento considerevole della produzione, ridurre i costi e continuare tranquillamente la propria attività anche in quel periodo di crisi. Non solo si preferì assicurare, entro certi limiti, il lavoro a ciascuna miniera, ma per non creare disparità di condizioni fra i gestori di una sola miniera e quelli di più miniere, i quali avrebbero potuto sostituire quantità di produzione ad alto costo con quantità ottenibili a costo minore, fu perfino esclusa la facoltà di operare compensazioni fra le produzioni di diverse miniere gestite da uno stesso esercente. 32 Per il sistema di contingentamento adottato la limitazione della produzione colpì nel primo periodo di applicazione (fino al 1936) le miniere più fertili, con un più elevato grado di meccanizzazione, con uno stato avanzato dei lavori di ricerca e preparazione e con buone condizioni di viabilità. La miniera di Cabernardi, assommando a sé tali caratteristiche positive che le avevano permesso un elevato e crescente livello produttivo fino al 1933, fu costretta a ridurre la sua produzione. Tabella 1.4 Produzione di zolfo grezzo dal 1933 al 1940. Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del Servizio Minerario, per gli anni considerati Anno Produzione di Zolfo Produzione del Produzione zolfo grezzo (tonnellate) distretto grezzo in Italia Cabernardi-Percozzone marchigiano- (tonnellate) romagnolo (t.) 1933 54165 103234 376623 1934 47991 90585 343388 1935 49219 88489 311950 1936 52404 98742 327568 1937 54050 88791 343525 1938 67436 122938 380345 1939 64000 115991 355826 1940 64924 111517 330695 Come si può notare dalla tabella 1.3 La quantità di zolfo grezzo prodotta dal centro minerario Cabernardi-Percozzone passò dalle 54162 tonnellate del 1933 alle 47991 tonnellate del 1934 con una diminuzione di circa il 9% . Nei due anni successivi, nonostante che la produzione si mantenesse ancora ad un livello inferiore rispetto al 1933, si registrò comunque un trend in ascesa. Probabilmente dovuto al fatto che durante il corso dei singoli esercizi l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano procedette a parziali revisioni dei contingenti iniziali delle singole miniere al fine di facilitare quelle che presentavano la 33 possibilità di un maggiore e più economico sfruttamento. Ciò poté realizzarsi senza superare il contingentamento globale di ciascun esercizio poiché talune miniere per diminuita capacità produttiva o per cause di forza maggiore non erano state in grado di coprire il contingente loro assegnato. Nel 1937 la quantità di zolfo grezzo prodotta da Cabernardi-Percozzone poté nuovamente toccare le 54000 tonnellate del 1933. Motivo di tale miglioramento è da attribuirsi all’aumento di contingenti di produzione che l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano operò dal 1937 al 1940, anno in cui il contingentamento della produzione venne abolito68. Dal 1937 infatti, dopo la fine delle sanzioni economiche inflitte all’Italia, si verificò un’eccezionale richiesta di zolfo da parte dei consumatori esteri69. Anche all’interno si ebbe un considerevole aumento della domanda di zolfo che divenne ancora più sostenuto nel 1938 soprattutto da parte dell’industria bellica per cui era necessario stimolare al massimo la produzione delle miniere italiane. A tale richiesta furono in grado di rispondere solo le miniere di Cabernardi e Perticara (Marche) dato che quelle siciliane, a causa dell’arretratezza degli impianti e di una inadeguata organizzazione, non potevano sostenere un improvviso aumento di produzione e che dal 1937 ripresero la via del declino. Il gruppo minerario Cabernardi-Percozzone raggiunse la massima produzione mai verificatasi fornendo 67436 tonnellate di zolfo grezzo, tale quota oltre a rappresentare più del 50% della complessiva produzione del distretto marchigiano-romagnolo (i cui principali Paesi importatori erano: Francia, Germania, Inghilterra, Finlandia, Brasile e Grecia)70 era pari a circa il 18% dell’intera produzione italiana di zolfo. Una cifra davvero straordinaria se si considera che nel 1938 erano attive in tutto il Regno ben 136 miniere di cui 128 in Sicilia. 68 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1937 p. 452 e 1940 p. 545. 69 Il cosiddetto “allineamento” della lira disposto con il d.l. 5 ottobre 1936 n.1745 che diminuì il ragguaglio aureo in misura uguale a quella intervenuta di fatto per il dollaro ebbe lo scopo di attenuare le difficoltà nello svolgimento dei rapporti economici con l’estero e specialmente degli scambi commerciali. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo, cit., p. 431. 70 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1938, p. 487 34 Secondo una pubblicazione dell’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano nel 1938 Cabernardi-Percozzone risulta essere la miniera più produttiva d’Italia. Tabella 1.5 Produzione delle principali miniere di zolfo nell’anno 1938 Fonte: “L’Industria mineraria, 1938”. Denominazione Provincia Ditta esercente Ton. Cabernardi-Percozzone Ancona Montecatini 68.000 Perticara Pesaro-Forlì Montecatini 49.000 Trabia Imera Caltanissetta Soc. Imera 32.000 Grotta Calda Pietragrossa Enna Soc. Zolfifera siciliana 25.000 Tallarita Imera Caltanissetta Soc. Imera 18.000 Cozzo-Disi Madonna Agrigento S.A. Cozzo-Disi 18.000 Gibisa S.Michele Agrigento Miccichè G.&C. 14.000 Trabonella Caltanissetta S.A. Min. Trabonella 14.000 Min Montagna Aragona Agrigento E. M. M. Aragona 12.000 Floristella Enna Pennisi A.&C. 12.000 Colle Croce Gruppo N.S. Palermo Guernari Ferrara & C 8.500 Il numero degli addetti nella miniera che aveva già oltrepassato quota 1000 nel 1930, giunse a 1546 unità nel 1938. Le coltivazioni continuarono nei livelli 14°,15°,16°,17° e furono intensificate nella zona della piega del giacimento al 18° livello. Alla quota del livello 19°, posta a circa 700 metri di profondità, lo scavo della galleria principale con tre distinti avanzamenti sviluppò il nuovo livello per la lunghezza complessiva di 300 metri mentre la discenderia di esplorazione partendo dal 23° livello raggiunse la quota del 27°. Fra i nuovi impianti di notevole importanza è da segnalare la costruzione al 13° livello della grande cabina interna di trasformazione dell’energia elettrica che sostituì la vecchia cabina del 35 pozzo interno Mezzena resa ormai insufficiente dal crescente bisogno di energia elettrica del sotterraneo71. La necessità di ricostruire le riserve di minerale solfifero che si stavano esaurendo con il procedere delle attivissime coltivazioni motivò la Società Montecatini a sviluppare nell’anno un vasto piano di sondaggi; solo nelle adiacenze di Cabernardi furono avviate sette ricerche72. Dati i particolari risultati positivi di una di esse, venne richiesta un’altra concessione, denominata “Caparucci”, accordata con D.M. 20/04/1940 per la durata di 30 anni. In pratica si trattò di un ampliamento della concessione Cabernardi poiché la poca produzione fu estratta attraverso i vecchi pozzi ed il minerale veniva trattato negli impianti della stessa miniera73. Nei due anni successivi la produzione della miniera si mantenne su ottimi livelli, basti pensare che le 64000 tonnellate di zolfo grezzo del 1939 e le 64924 del 1940 oltre a rappresentare più della metà della produzione del distretto marchigiano-romagnolo erano pari a circa il 19% della produzione italiana. 1.5 SECONDA GUERRA MONDIALE E PRIMA FASE POST-BELLICA Le fasi belliche recano con sé, come noto, stravolgimenti sociali legati a fattori diversi. Uno dei più evidenti può considerarsi la diminuzione di manodopera attiva, costretta ad arruolarsi e, magari, mai più inseribile nei vecchi ruoli. Come era già avvenuto durante la Prima Guerra Mondiale anche durante il Secondo Conflitto Mondiale la produzione della 71 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1938, p. 488. 72 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1938, p. 477. 73 La Società Montecatini aveva ottenuto in base alla legge n.1443 del 29/07/1927 la concessione perpetua delle due miniere Percozzone e Cabernardi. La legge mineraria, in seguito, stabilì che le concessioni accordate erano solo temporanee; se la Montecatini avesse chiesto l’ampliamento della concessione Cabernardi avrebbe perduto il diritto alla perpetuità. Cfr., P. Mattias, G. Crocetti, A. Scicli, op. cit., p. 124. 36 miniera Cabernardi-Percozzone diminuì notevolmente nonostante le forti richieste provenienti dalla Germania e dai consumatori nazionali. Fra le cause di tale decremento oltre alla scarsità di manodopera si possono annoverare anche la difficoltà di reperire legname, combustibile, carburanti e altre materie prime necessarie a questa industria, il problema dei trasporti, l’irregolarità o la sospensione di energia elettrica e tutti i possibili danneggiamenti causati da calamità belliche. Nel triennio 1941-43 nonostante il calo produttivo, la quantità di zolfo grezzo prodotto era infatti passata dalle 64924 tonnellate del 1940 alle 55963 tonnellate del 1941 per poi scendere alle 45874 tonnellate del ’42 ed infine alle 42350 tonnellate del ’43, il centro minerario Cabernardi-Percozzone contribuì per il 55% alla produzione del distretto la quale a sua volta costituiva circa il 40% dell’intera produzione nazionale74. Tabella 1.6 Produzione di zolfo grezzo dal 1941 al 1950. Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del Servizio Minerario, per gli anni considerati 74 Bisogna considerare comunque che la diminuzione della produzione, in Sicilia fu molto più rapida portandosi a sole 51720 tonnellate del 1943. Ciò significa che per la prima volta la produzione del distretto marchigiano-romagnolo superava quella della Sicilia. 37 Anno Produzione di Zolfo Produzione del Produzione zolfo Prezzo in lire per grezzo (tonnellate) distretto grezzo in Italia tonnellata Cabernardi-Percozzone marchigiano- (tonnellate). romagnolo (t.) 1941 55963 99047 299009 422 1942 45874 83379 226994 630 1943 42330 79297 137934 830 1944 19156 39848 _____ 1200 1945 4714 4714 75177 5000 1946 29778 50976 143861 9100 1947 33850 58924 157761 22800 1948 36339 66392 174968 28420 1949 41562 75390 201455 28420 1950 43667 79829 224088 28420 L’attività della miniera nel 1944 fu dal principio dell’anno fortemente ostacolata da interruzioni di fornitura di energia elettrica a causa delle vicende belliche75. L’11 gennaio riattivate le linee elettriche Fabriano-Bellisio che erano state danneggiate da una bufera di neve, dopo due ore restavano nuovamente interrotte in seguito ad un’incursione aerea su Fabriano. Non si fece in tempo a riprendere il lavoro il mattino del 15 che nel pomeriggio altre incursioni aeree lasciavano nuovamente la miniera senza energia elettrica. Il 19 gennaio si riprese il lavoro con turni regolari ma le sera stessa i tre trasformatori installati nella cabina elettrica di Bellisio che alimentava il gruppo minerario vennero fatti saltare dai partigiani. Ne seguì una nuova sospensione del lavoro, e le previsioni del momento erano poco ottimistiche; occorreva tempo per riattivare la cabina, dal momento che non si disponeva di sufficienti trasformatori di riserva. Il posto risultava a tutti gli effetti indifeso, 75 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1944, p. 428. 38 perciò venne disposta un’efficace vigilanza degli impianti, con personale delle miniere in sostituzione dei carabinieri di Bellisio che erano rimasti disarmati76. Fino al 14 Giugno, data in cui si dovettero sospendere i lavori, sempre per mancanza di energia elettrica, furono svolte ben poche attività che portarono ad una produzione nell’anno di sole 19156 tonnellate. Sempre nel 1944 i tedeschi distrussero gli impianti esterni di Cabernardi e anche quelli di Perticara e Formignano77. La decisione di distruggere “solo” gli impianti esterni, e quindi tutti i macchinari e i materiali per l’estrazione senza però distruggere le gallerie, fu molto probabilmente una scelta strategica. I tedeschi sapevano bene che la distruzione totale delle miniere avrebbe costituito una grave perdita. Mentre agli alleati queste riserve di zolfo non interessavano, dato che gli Stati Uniti ne possedevano grandi quantità, i tedeschi pensavano invece che in caso di vittoria sarebbero stati in grado di riattivarle e di potersene servire. Nel 1945 nella miniera di Cabernardi-Percozzone si procedette con intensità ai lavori di ricostruzione degli impianti esterni. Ai primi di agosto, ultimata la linea elettrica di alimentazione (ad alta tensione), furono ripresi i lavori in sotterraneo, con produzioni gradatamente crescenti, che a fine d’anno avevano raggiunto le 500 tonnellate giornaliere. L’estrazione, inizialmente effettuata per mezzo del solo pozzo II, nei primi di novembre, poté usufruire anche del pozzo I dopo la completata riparazione della macchina di estrazione a vapore. La riparazione dell’argano del pozzo Percozzone non era stata ancora completata, tuttavia i lavori furono ripresi facendo affluire la produzione ai pozzi di Cabernardi attraverso la grande arteria di comunicazione “Donegani” del 13° livello. Fu così possibile ottenere, nel 1945, 4714 tonnellate di zolfo grezzo che rappresentava anche la produzione del distretto dato che Cabernardi era l’unica miniera attiva nell’anno78. 76 Cfr., Museo della Miniera di Zolfo di Cabernardi, Lettera del direttore del gruppo minerario Cabernardi-Percozzone,del 22 gennaio 1944, ing. Zamboni, indirizzata al Corpo delle miniere del Distretto di Bologna. 77 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1944, p. 429. 78 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1945, p. 440. 39 Durante il 1946 le coltivazioni furono gradualmente riaperte con il progredire della ripresa delle varie gallerie, riflussi e vie di estrazione. Vennero eseguite molte importanti riparazioni: aggiustati alcuni tratti pericolanti del riflusso “Nevola” dove anche le scalette per transito personale furono in più punti riaperte, iniziati i lavori di sgombero della discenderia “Sniz”, importante via di riflusso dello sviluppo di 850 metri, in gran parte franata durante l’abbandono della miniera. All’esterno proseguì il lavoro di ricostruzione degli impianti e, particolarmente nella stazione di compressione aria per i servizi interni, della nuova cabina di trasformazione e della nuova linea elettrica Bellisio-Cabernardi. Vennero anche ultimati gli impianti della nuova centrale termica di riserva, azionata da un motore Diesel Tosi, nonché quelli delle officine. A causa della minor spinta dei terreni rispetto alla confinante miniera Cabernardi, il sotterraneo “Percozzone” fu riattivato con maggior rapidità e , alla fine dell’anno, erano in attività tutte le vecchie coltivazioni79. La guerra non risparmiò nemmeno le raffinerie di zolfo di Bellisio e Cesena che vennero completamente distrutte sia dai bombardamenti aerei sia ad opera di mine80. A Bellisio risultavano completamente distrutti i reparti di raffinazione, di sublimazione e di produzione di fiori di zolfo lavati, la cabina elettrica di trasformazione, due grandi magazzini, 6000 tonnellate di zolfo in stoccaggio, il mulino adibito alla macinazione e due ponti sul fiume Cesano. Parziale distruzione subirono i reparti di macinazione, i magazzini delle scorte, il piano inclinato collegante la raffineria con la stazione ferroviaria, le macchine utensili delle officine e la stazione d’arrivo della teleferica. Ciò nonostante, nel 1947, era già stata completamente ricostruita e l’attività era ripresa a pieno ritmo81. 79 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1946, pp. 478,479. 80 Cfr., Montecatini, La Montecatini ricostruisce, 1947, p. 16. 81 Ibid., p. 16. 40 Dal 1947, anno in cui la miniera venne completamente riattivata, fino al 1950 il gruppo Cabernardi-Percozzone aumentò progressivamente la propria produzione82 tuttavia non riuscì più a ripetere gli elevatissimi risultati ottenuti nel periodo pre-bellico. 1.6 ULTIMI ANNI DI VITA DELLA MINIERA L’industria solfifera italiana nel periodo post-bellico attraversò uno stato di nuova e più grave crisi perché ormai il prezzo dello zolfo nazionale non era più competitivo. In realtà i prezzi non erano più stati competitivi a livello internazionale fin dai tempi della svalutazione del dollaro del ’33 ma, come si è visto, la politica protezionistica aveva consentito ugualmente alle miniere italiane di sopravvivere grazie soprattutto al meccanismo del prezzo minimo garantito83. D’altro canto però la protezione della debole industria solfifera italiana ebbe sicuramente degli effetti economici negativi. Innanzitutto, garantendo sicuri profitti ai produttori e svincolandoli da una sana e diretta competizione a livello nazionale ed internazionale, sicuramente non li incentivava ad attuare un vasto 82 Passò dalle 33850 tonnellate del ’47 alle 43667 tonnellate del ’50 contribuendo per il 55% alla produzione del distretto. Vale la pena ricordare che anche la resa del minerale in tale miniera fu sempre superiore a quella delle altre miniere del distretto. 83 L’art. 10 del d.l. 11/12/1933 che garantiva la liquidazione di un prezzo minimo per tonnellata per ciascun produttore (limitatamente alla quota di produzione assegnatagli) e che lo Stato si sarebbe fatto carico della differenza che fosse risultata tra il prezzo minimo garantito e il ricavo netto definitivo (salvo rivalsa sulle vendite future)stabiliva la sua operatività per un periodo non oltre il 31/07/1935. Persistendo il basso ricavo delle vendite degli zolfi, la garanzia del prezzo minimo venne autorizzata fino al 1937. Successivamente venne stabilito (r.d.l 1/03/1938 n. 260) un concorso dello Stato, anziché la garanzia di un prezzo minimo, fino ad un massimo di 25 lire a tonnellata e per l’importo complessivo di 10 milioni di lire per gli anni 1938 e 1939, qualora il ricavo netto per tonnellata risultasse inferiore a determinati prezzi. Nel 1940 la garanzia del prezzo minimo venne disposta per la durata di 10 anni consecutivi dall’Ente Zolfi Italiani (EZI) nato nel ’40 in sostituzione dell’Ufficio per la vendita degli zolfi italiani. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo, cit., pp. 431,432. 41 campo di ricerche e aggiornamento tecnologico in modo da ottenere una riduzione sensibile nei costi di produzione. Persistevano invece un’estrema arretratezza degli impianti, specialmente in Sicilia, e mancavano moderni metodi di coltivazione e di fusione che avrebbero assicurato un rendimento in zolfo più elevato. In tali condizioni, l’industria solfifera continuava a presentare il grave problema degli alti costi di produzione che oltretutto cercava di compensare attraverso bassi salari. Inoltre contribuì a mantenere alto il livello dei prezzi di vendita dello zolfo. I prezzi medi interni, a causa dell’inflazione e dei maggiori costi di produzione passarono da 385 lire la tonnellata nel 1938 a 961 lire nel ’43, raggiunsero poi 11808 lire nel ’46 e 33579 lire nel ’50 ( si veda tabella 1.6 ). Di conseguenza i consumatori di zolfo e i numerosi consumatori di prodotti nella cui fabbricazione lo zolfo entra direttamente furono pertanto obbligati a pagare prezzi più alti di quelli che si avrebbero avuti in condizioni di libero mercato. La produzione italiana post-bellica fu notevolmente inferiore a quella pre-bellica e vi era scarsa richiesta di zolfo italiano da parte dei principali Paesi consumatori che orientavano i loro acquisti sempre più verso gli Stati Uniti dal momento che il divario di prezzo nei confronti dello zolfo americano era notevolmente aumentato. Gli Stati Uniti furono perfettamente in grado di rimpiazzare l’Italia. Infatti oltre a soddisfare il crescente consumo interno seppero soddisfare le accresciute richieste dei Paesi consumatori verso i quali le esportazioni dalle 638000 tonnellate del 1938 si portarono a 933400 tonnellate nel 1945 raggiungendo 1453878 nel 194984. La situazione del settore solfifero italiano sembrava non avere alcuna speranza di miglioramento ma nel secondo semestre del 1950 si presentarono nuove condizioni favorevoli. In occasione della guerra di Corea, gli Stati Uniti, che stavano accantonando scorte di zolfo, furono costretti ad adottare forti misure restrittive per le loro 84 La produzione statunitense di zolfo era in continua espansione: dalle 2124000 tonnellate del 1939 giunse gradualmente a 3270000 tonnellate del 1944 portandosi dopo soli tre anni a 4512482 tonnellate e conseguendo il record produttivo nel 1948 con quasi cinque milioni di tonnellate (4947000). Cfr., Lo zolfo negli Stati Uniti, in “L’Industria mineraria”, novembre 1950 p. 450. 42 esportazioni85.Di conseguenza ci fu una forte richiesta dello zolfo italiano da parte dei principali Paesi consumatori, in particolare l’Inghilterra. Anche all’interno aumentò la domanda a causa della crescita del consumo in agricoltura dei polisolfuri per l’assenza del solfato di rame e in molte industrie manifatturiere specialmente nella produzione di fibre tessili (e quindi della materia prima solfuro di carbone). Nei primi mesi del 1951 l’O.E.C.E. invitò il governo italiano ad aumentare la produzione solfifera per sostenere l’aumento delle richieste e portarla entro il 1952 a 400000 tonnellate (circa il doppio di quella del 1950). Tuttavia il gruppo minerario Cabernardi-Percozzone non poté trarre considerevole profitto dalla favorevole congiuntura in atto perché la miniera versava ormai in un avanzato stato di impoverimento. Le ricerche effettuate, sia all’interno che nelle zone circostanti, dalla Società Montecatini negli ultimi cinque anni avevano dato scarsi risultati facendo prevedere assai prossimo il suo esaurimento86 Di conseguenza si sarebbero dovuti prendere i necessari provvedimenti di riduzione della attività estrattiva, che ovviamente si sarebbero ripercossi sul livello occupazionale. Tali prospettive scatenarono un prevedibile malcontento, con conseguenti azioni di protesta da parte dei lavoratori, 85 In parte la riduzione delle esportazioni americane furono dovute, oltre alle necessità belliche, al progressivo esaurimento di alcuni giacimenti sfruttati. Cfr., L. Gerbella, Provvedimenti per il riassetto dell’industria solfifera, in “L’Industria mineraria”, novembre 1950, p. 441. 86 Nel 1946, all’estremo nord del giacimento, una nuova ricerca confermava che nella zona, una grande faglia limitava lo strato ad un esiguo spessore superficiale. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1946, p. 479. L’anno successivo al livello 14° fu iniziato lo scavo di una galleria nello strato a sud della discenderia S. Giovanni riscontrandolo quasi sterile con solo discontinue tracce di minerale. Al 19° livello fu proseguito lo scavo verso sud della galleria (di livello), riscontrando, alle traverse 46, 49 e 51, scarsamente mineralizzata la parte dello strato a letto. Complessivamente, nel 1947, furono scavati per ricerca metri 1308. “ Gli scarsi risultati conseguiti fanno tuttavia prevedere assai prossimo l’esaurimento della miniera”. Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1947, pp. 482,483. Nel 1948, le ricerche, S. Giovanni e S. Eutizio, a nord ovest della concessione, “ devono considerarsi ormai negative e se ne prevede pertanto l’abbandono ”.Anche la ricerca Radicosa, ad ovest del giacimento, iniziata nel mese di luglio, non riscontrò tracce di mineralizzazione. Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “ Rivista del Servizio Minerario”, 1948, pp. 478,485. Nel 49’ e nel 50’ le ricerche si concentrarono verso sud, allo scopo di esplorare il giacimento in questa direzione dove sembrava esserci possibilità di rinvenire zone mineralizzate. Quest’ultime, nei punti dove furono trovate, erano, purtroppo, fortemente assottigliate. Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1950, p. 495. 43 interventi sindacali e di rappresentanti dello Stato che, proprio all’inizio della nuova congiuntura favorevole per l’industria dello zolfo, non potevano rassegnarsi alla probabile imminente chiusura della miniera. Miravano invece alla salvezza del centro minerario che aveva garantito un elevato numero di posti di lavoro in un comprensorio dove al lavoro in miniera non c’era alternativa se non la disoccupazione e l’emigrazione. Considerando il numero di addetti alla miniera, che aveva oltrepassato le 1000 unità già nel 1930 e che dal 1930, escluso ovviamente il periodo bellico, si era attestato ad un livello superiore alle 1500 unità, si comprende l’importanza che la miniera aveva per i Comuni la cui economia gravitava attorno al bacino minerario di Cabernardi. In circa 80 anni di attività la miniera aveva procurato un certo benessere alle cittadine di Pergola, Arcevia, San Lorenzo in Campo e soprattutto Sassoferrato dove oltre ai salari dei minatori contribuiva a creare un notevole movimento commerciale l’afflusso delle famiglie dei tecnici, dirigenti e funzionari del gruppo minerario stesso. In difesa della miniera si raggiunse un’unità di forze locali sia politiche (PCI, PSI, PSDI, PRI e DC) sia sindacali con l’adesione di tutte le organizzazioni e si costituirono alcuni comitati cittadini87. Il 2 luglio 1950 fu indetta dai sindacati e dalla Commissione Interna la prima conferenza di produzione di Cabernardi88 nella quale venne delineata la linea da seguire per la difesa ed il potenziamento delle risorse minerarie locali. I lavoratori chiedevano innanzitutto che la Montecatini attuasse un piano organico di ricerche all’interno della miniera e nelle zone limitrofe dove si supponeva esservi del minerale utilmente coltivabile. Proponevano, inoltre, un programma di studi per l’impiego di metodi più moderni per l’estrazione e la fusione ed una coltivazione più razionale del giacimento che consentisse di prolungare il più possibile la vita della miniera89. Chiedevano infine il 87 Compito dei comitati cittadini era di dirigere tutta l’azione di difesa della miniera, richiamando l’attenzione delle autorità competenti e del governo e soprattutto cercando di sensibilizzare al problema della miniera tutta la popolazione della zona. 88 Cfr., «L’Unità», 3 luglio 1950. 89 Le maestranze locali accusavano la Montecatini di sfruttamento indiscriminato (“a rapina”) del giacimento. Specialmente in periodi di favorevole congiuntura a 44 miglioramento delle condizioni di lavoro l’abolizione del cottimo individuale e la creazione di un premio di produzione collettivo. Il 20 dicembre dello stesso anno ebbe luogo a Pesaro un convegno economico in cui si invitava il governo allo stanziamento di fondi adeguati per incentivare la Società Montecatini al rinnovamento degli impianti di produzione e all’attuazione di nuove ricerche90. La decisione di procedere ad interventi mirati più sostanziali per indurre la Montecatini a considerare le proposte sindacali venne presa il 14 gennaio 1951 durante il convegno economico di Cabernardi91. A metà marzo iniziò la cosiddetta “lotta dei 100 giorni”, una protesta operaia sotto forma di non collaborazione attuata con sospensioni di lavoro regolate da turni, che causò una riduzione della produzione di circa il 35%92. Come risposta la Società ridusse le retribuzioni del 10% e tolse la 14° mensilità ai sorveglianti che avevano aderito allo sciopero93. Ciò nonostante le agitazioni proseguirono ed il 12 luglio si conclusero le trattative che portarono alla risoluzione delle controversie di natura più prettamente sindacale come: la riforma del cottimo, l’aumento delle retribuzioni e l’adozione delle 48 ore sindacali per tutti94. Mentre rimasero irrisolti i nodi centrali della mobilitazione riguardanti la ristrutturazione della miniera e la ripresa delle ricerche. loro avviso i banchi di minerale venivano coltivati solo nelle parti migliori causando così gravi sprechi e accelerando il processo di esaurimento. Cfr., V. Sebastiani, Salviamo la miniera, in “La miniera” organo unitario dei lavoratori, Cabernardi, 14 febbraio 1952, p. 1. 90 Cfr., «L’Unità», 21 dicembre 1950. 91 Cfr., «L’Unità», 15 gennaio 1951. 92 Tale agitazione operaia interessò, seppur in misura minore, anche le miniere di Perticara (PS) e Formignano (FO) appartenenti alla stessa Società. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “ Rivista del Servizio Minerario”, 1951,p. 498. 93 Non solo nella zona mineraria ma anche in altre località, varie categorie di lavoratori dimostrarono la loro solidarietà. In particolare si ricorda lo sciopero di 3 ore dei lavoratori dell’industria e degli autoferrotranvieri nelle due provincie di Ancona e Pesaro il 13 giugno. Cfr., «L’Unità», 7 luglio 1951. 94 Ai cottimisti spettò un aumento medio di 70 lire giornaliere, agli altri operai un aumento medio di 30 lire giornaliere e ai lavoratori, non direttamente legati al ciclo produttivo, un aumento di premio di mancanza di cottimo di un minimo di 75 lire. Cfr., «L’Unità», 13 luglio 1951. 45 La Società Montecatini, dato lo stato di esaurimento della miniera, riteneva ormai logico non investire risorse nel bacino minerario di Cabernardi. La posizione dell’azienda non mutò di fronte alla favorevole congiuntura internazionale del 1951, a causa dell’evidente carattere temporaneo dell’instabilità del mercato internazionale dello zolfo. Inoltre le strategie del vertice aziendale, negli anni della ricostruzione, avevano previsto un cambiamento nelle caratteristiche del gruppo. Mentre prima della guerra vi era ancora una massiccia presenza del settore minerario e la centralità della produzione di perfosfati, dopo il 1950, la Società mostrava chiaramente il suo preminente interesse per la chimica ed in particolare per le nuove opportunità tecnologiche offerte dalla petrolchimica aprendo a Ferrara nel 1950 il primo complesso petrolchimico europeo95. Tra luglio 1951 ed aprile 1952 si tennero dibattiti e convegni tesi a dimostrare la necessità e l’urgenza di interventi di ripresa dell’industria solfifera nella zona attraverso nuove ricerche, modernizzazione e razionalizzazione degli impianti minerari e dei metodi di fusione. A Pesaro, il 15/07/1951 si tenne il Convegno Interregionale per il potenziamento delle risorse solfifere delle Marche e della Romagna, al quale presenziarono il Ministro dell’Industria e Commercio Togni ed il Presidente dell’EZI Volpe. Il convegno, richiamato l’alto interesse economico e sociale che il problema minerario rivestiva per le Marche e la Romagna ove, anche a giudizio dei tecnici, esistevano larghe possibilità di sfruttamento dello zolfo, auspicò che i previsti organi locali di potenziamento e di propulsione delle varie iniziative (ufficio e commissione consultiva dell’ E.Z.I nella zona delle Marche, ufficio distaccato del distretto minerario di Bologna, commissione locale per la raccolta e coordinazione dei progetti da trasmettere alla commissione centrale) fossero al più presto costituiti96. Sempre a Pesaro, il giorno 22 dello stesso mese fu indetta la prima Conferenza Interregionale dello 95 Cfr. F. Amatori (a cura di), Montecatini 1886-1966. Capitoli di storia di una grande impresa, 1990, pp. 59, 60. 96 Cfr., Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Atti del convegno interregionale per il potenziamento delle risorse solfifere delle Marche e della Romagna, Pesaro 1951, pp. 36, 37. 46 zolfo alla quale seguirono le conferenze economiche di Pergola (20/04/1952) e di Arcevia (27/04/1952). Il 12 agosto 1951, intanto, veniva approvata la legge nazionale sul finanziamento dell’industria solfifera97 che prevedeva innanzitutto la concessione di prestiti per l’ammontare di 9 miliardi di lire al fine di consentire l’esecuzione delle opere minerarie comprese nel piano generale di rimodernamento delle miniere predisposto dagli industriali, con l’ausilio dell’ Ente Zolfi Italiani. In secondo luogo, l’erogazione di uno stanziamento per l’ammontare di 950 milioni di lire, a fondo perduto, in favore dell’Ente Zolfi Italiani, per l’esecuzione di rilevazioni geofisiche, geologiche e di sondaggi, nonché di studi intesi a migliorare la resa di processi di estrazione dello zolfo dal minerale. Infine la concessione di prestiti per l’ammontare di 6 milioni di dollari per l’acquisto di macchinari ed attrezzature da miniera. In seguito a tale legge l’EZI organizzò a Pergola un ufficio distaccato dell’ente ed iniziò gli studi geologici e geofisici nel territorio di Cabernardi. Dopo una prima fase di lavori, nell’aprile 1952 i geologi dell’EZI stabilivano che la mineralizzazione si riduceva alla zona finora coltivata. Anche la Società Montecatini, che nello stesso tempo aveva effettuato altri lavori di ricerca98 giunse alle stesse conclusioni. Il 3 maggio del 1952 la Società Montecatini comunicò di dover procedere, a partire dal 16 del mese in corso, al licenziamento di 860 minatori (il 50% della manodopera impiegata) adducendo come principale motivazione l’esaurimento del giacimento la cui potenzialità residua veniva stimata in 200.000 tonnellate di minerale99.Lo stesso maggio la Società si rivolgeva ai lavoratori sottolineando la necessità di riduzione dell’organico per l’esaurimento del giacimento. Dichiarava di aver tentato quanto era possibile per assicurare 97 Il disegno di legge era già stato approvato il 12 ottobre 1950. Per il suo contenuto si veda L. Gerbella, Provvedimenti per il riassetto dell’industria solfifera in L’industria mineraria novembre 1950, p. 441. 98 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1951,p. 501 e 1952 p. 527. 99 Cfr., «L’Unità», 4 maggio 1952. 47 alle maestranze la continuità del lavoro ma le circa 200000 tonnellate ancora sfruttabili, se gestite con il ritmo occupazionale in corso, si sarebbero esaurite più o meno in 200 giornate di lavoro. Nel frattempo l’ufficio EZI nelle Marche ( Pergola) , istituito nel 1951 con il compito di coordinare gli interventi di ricerca di nuovi giacimenti, veniva soppresso e trasferito in Sicilia. Cominciava a delinearsi chiaramente la prospettiva dell’imminente chiusura. Alcuni tecnici dell’Ufficio Provinciale del Lavoro vennero inviati nella zona per aprire dei cantieri-scuola capaci di accogliere i lavoratori licenziati ed in paese giunsero nuovi contingenti di Carabinieri100. La risposta dei lavoratori non si fece attendere. Il 5 maggio era già stato fissato uno sciopero di protesta, contro il prospettato licenziamento, da tenersi nei giorni 8 e 9 maggio. Inoltre fu programmato un convegno interprovinciale per il giorno 11 maggio nel teatro comunale di Sassoferrato.101 Lo scopo era quello di esaminare la situazione, precisare le iniziative che si ritenevano necessarie per evitare la smobilitazione dell’attività e sollecitare l’incremento della produzione solfifera. Nonostante l’invito mosso dai due sindacati (CISL e UIL) affinché gli operai non partecipassero alla lotta, oltre il 90% di essi aderì alla proposta indetta dalla CGIL. Il 20 maggio ci fu una grande manifestazione, a Cabernardi, a cui parteciparono oltre 5000 persone per reclamare la revoca totale dei licenziamenti102. Lo stesso giorno, la Società Montecatini accettò di aprire le trattative per poi romperle definitivamente pochi giorni più tardi rifiutando la possibilità di formare una commissione di controllo della capacità residua della miniera e procedendo alla notifica dei primi 550 licenziamenti. Non appena saputo che le trattative in corso erano state interrotte, il 28 maggio 1952 alle ore 22.00 160 minatori anziché abbandonare la miniera per cessato turno di lavoro avevano dato inizio alla sua 100 Cfr., «L’Unità», 7 maggio 1952. Cfr., Archivio Storico Comunale di Sassoferrato, documento stampato a cura del comitato di difesa delle miniere Cabernardi e Percozzone, 1951, categoria 11, classe II, fasc. 2. 102 Cfr., «L’Unità» 22 maggio 1952. 48 101 occupazione rimanendo nelle gallerie del 13° livello a circa 500 metri di profondità mentre 137 operai occupavano all’esterno la miniera per proteggerli e assisterli103. Ebbe così inizio la lotta dei cosiddetti “sepolti vivi”104 che durò 40 giorni. Già il giorno seguente l’occupazione la Montecatini aveva spedito 200 lettere di licenziamento. I primi giorni di Giugno dal Ministero dell’Industria venne la disponibilità ad accertare, tramite apposita commissione, la tesi avanzata dalla Montecatini di un prossimo esaurimento della miniera. L’ispezione, che avrebbe dovuto durare 10 giorni, era subordinata allo sgombero totale della miniera e i lavoratori in sciopero, durante tale periodo, avrebbero goduto di un compenso in relazione alle ferie maturate con l’eventuale riassunzione qualora la tesi della Montecatini fosse risultata infondata. Sulla revoca dei licenziamenti il sindacato si divise: la CGIL si oppose per insufficienti garanzie mentre CISL e UIL accettarono insieme alla Montecatini la proposta governativa. La divisione si estese anche a livello politico e la DC ritirò la propria adesione dal Comitato di Difesa della miniera. Iniziarono così le fasi più aspre dell’occupazione: continuò il presidio dei pozzi e l’invio di generi alimentari ai “sepolti vivi”. Numerose manifestazioni di solidarietà si tennero all’esterno e il caso Cabernardi cominciò ad assumere rilevanza nazionale105. L’Ufficio del Lavoro di Ancona decise di convocare le parti per iniziare un dialogo costruttivo ma la Montecatini rifiutò di incontrarsi con la GCIL, ritenuta responsabile della situazione. Diversi sindaci delle provincie di Ancona e Pesaro, seriamente preoccupati per le ripercussioni sulle attività produttive e commerciali della zona e quindi sul danno economico che avrebbe prodotto la chiusura della miniera, si rivolsero al Presidente della Camera dei Deputati (Gronchi). 103 Cfr., P. Marinelli, A mille metri sottoterra resistono i minatori di Cabernardi, in «L’Unità», 31 maggio 1952. 104 Qualche titolo tra i tanti: “ Viaggio sulla terra dei sepolti vivi”, in Vie nuove,6 luglio 1952; “Sciopero generale ad Ancona dei sepolti vivi”, in: «L’Unità», 8 giugno 1952. 105 Cfr., S. Sebasianelli, La solidarietà con i lavoratori in lotta da 14 giorni, in «L’Unità», 12 giugno 1952. 49 Il Ministero degli Interni e la Società Montecatini agirono indipendentemente in un unica direzione e con lo stesso scopo: far cessare l’occupazione. La Direzione della miniera cominciò a interrompere a tratti l’erogazione della luce elettrica e la ventilazione della miniera, la Polizia impedì ogni comunicazione con l’interno sia di notizie sia di generi alimentari106. Il 5 luglio si raggiunse finalmente un accordo tra le parti che si impegnavano ad attenersi alla decisione della Commissione Ministeriale riguardo le condizioni produttive della miniera. Dopo 40 giorni di dura lotta qualche risultato era stato ottenuto: il dilazionamento della chiusura della miniera e la riduzione dei licenziamenti107. Degli 860 licenziamenti annunciati 400 furono effettivi, ovvero tutti gli occupati, mentre circa 500 minatori furono trasferiti. Lo spostamento dei lavoratori avvenne progressivamente dalla fine del ‘52 al ‘64. La maggior parte (250 nuclei familiari) andarono a lavorare nello stabilimento petrolchimico di Ferrara, altri nelle miniere siciliane o nelle miniere di pirite in Toscana, altri ancora a Trento. La Commissione Ministeriale espresse pareri analoghi a quelli della Montecatini . Già nel 1952 era stato messo in rilievo dall’EZI come le condizioni favorevoli per l’industria solfifera, determinatesi in seguito alla crisi coreana, si fossero gradualmente annullate. Durante il 1953 le difficoltà di collocare lo zolfo italiano nei mercati internazionali aumentarono con il crescere delle esportazioni dello zolfo americano. La produzione del minerale in Italia continuò a segnare un’inesorabile contrazione. A Cabernardi l’attività della miniera, sebbene ridotta, continuò fino al 1954. Gli operai da circa 1700 passarono a 814 e la produzione totale da 20000 tonnellate a 12500 tonnellate mensili. Contemporaneamente si procedeva alla sistemazione del personale: circa 100 operai furono collocati in pensione di invalidità mentre altri ancora furono trasferiti. 106 Cfr., P. Ingrao, Meravigliosa lotta a Cabernardi dei minatori “sepolti vivi”, in «L’Unità», 2 luglio 1952. 107 Cfr., S. Sebasianelli, Firmato l’accordo con la Montecatini. I minatori di Cabernardi salgono vittoriosi dai pozzi, in «L’Unità», 6 luglio 1952. 50 Rimasero in miniera 181 minatori, gli indispensabili per procedere alla chiusura avvenuta definitivamente nel 1959. 51 CAPITOLO SECONDO IL SETTORE 2.1 L’INDUSTRIA MINERARIA: PECULIARITÀ E SVILUPPO L’industria mineraria, per le sue peculiari caratteristiche, si differenzia nettamente dalle altre attività industriali. L’attività mineraria inizia con la ricerca, necessaria ad individuare il giacimento. Questa fase di lavoro, sempre fonte di spese a pieno rischio, è caratterizzata dalla massima aleatorietà, che per altro resta il carattere dominante dell’attività anche quando, ad una ricerca terminata con esito positivo, fa seguito lo sfruttamento del giacimento108. Quella della prima ricerca è quasi sempre una storia di lavoro improbo; molte volte i ricercatori si succedono gli uni agli altri, ognuno portando il proprio contributo di studi e di capitali, finché qualche volta il successo è raggiunto. Inoltre, a completare le ricerche, anche dopo i risultati incoraggianti dei sondaggi, occorre sempre sviluppare lavori di esplorazione diretta con pozzi, gallerie ecc. per mettere in evidenza un quantitativo di minerale sufficiente a dare, secondo i preventivi dei costi di produzione, un equo interesse al capitale impiegato. A volte la presenza di fattori negativi può portare anche all’abbandono di giacimenti utili, per l’impossibilità di superare gli ostacoli che si frappongono alla coltivazione. Eppure la speranza di realizzare alti profitti, quali sono spesso consentiti da buoni giacimenti, esercita una notevole attrattiva tanto da vincere il timore della sempre possibile perdita totale dei capitali investiti nelle ricerche. Non è infrequente il caso che nella stessa area abbandonata dopo sfortunati lavori di più ricercatori, un ultimo abbia 108 Cfr., G. Rolandi, Problemi dell’industria mineraria, in «L’Industria mineraria», giugno 1967, p. 214. 52 conseguito risultati brillanti. Talvolta la scoperta e il prolungamento della vita di una miniera e quindi dell’impresa mineraria è dovuta a cause del tutto fortuite. Il progresso scientifico e tecnico ha indubbiamente permesso di limitare, anche se non di eliminare, l’alea della ricerca, sia facilitando il rinvenimento di nuovi giacimenti, sia permettendo la coltivazione dei giacimenti così detti poveri, ossia a basso tenore, o difficili. Si deve alle più precise conoscenze geologiche e geofisiche, al perfezionamento degli strumenti per i rilevamenti geofisici, se l’industria mineraria ha potuto far fronte al progressivo esaurimento dei giacimenti essendo sempre più costretta a utilizzare quelli un tempo non ritenuti interessanti, più complessi e situati a maggior profondità e non di rado posti a maggior distanza dai luoghi di consumo. L’esaurimento di giacimenti un tempo importanti e la messa in valore di nuovi ha provocato passaggi di potenze minerali da un Paese all’altro come è accaduto per la produzione dello zolfo dell’Italia, che fino ai primi anni del secolo godeva di una posizione di quasi monopolio mentre già negli anni ’50 rappresentava solo il 4% di quella mondiale, ottenuta per circa il 95% negli Stati del Texas e della Louisiana (USA)109. Una ricerca positiva mette in luce un nuovo giacimento ma, evidentemente vincola la futura attività al luogo ove il giacimento stesso è stato individuato. A differenza della generalità delle altre industrie, quella delle miniere non ha possibilità di scelta circa il luogo dove far sorgere la propria impresa, non può scegliere le condizioni più favorevoli al suo sviluppo e sfruttare le economie esterne che potrebbero essere rappresentate da forza motrice a buone condizioni, vicinanza dagli stabilimenti di trasformazione o di consumo, vicinanza a centri di rifornimento di materiale che le occorrono, presenza di una buona rete stradale e ferroviaria. Spesso i giacimenti si trovano in località isolate, per lo più montagnose e lontane dai centri abitati. In tali condizioni, l’impresa mineraria deve affrontare e risolvere i problemi relativi: alle costruzioni di strade per allacciare la miniera alla più prossima via di comunicazione, 109 Cfr., F. Squarzina, Alcune considerazioni sui caratteri distintivi dell’industria mineraria, aprile 1950, p. 126. 53 alla necessità di tenere scorte di riserva, officine di riparazione, fabbricati per gli uffici, magazzini, abitazioni e assistenza del personale. Tutto ciò richiede ingenti immobilizzazioni che per forza di cose aumentano a mano a mano che la miniera si sviluppa per impianti destinati all’estrazione e alla preparazione dei minerali estratti, con sempre maggior fornitura di energia, nonché di nuove e perfezionate attrezzature nel sottosuolo che va sempre più estendendosi e approfondendosi110. Inoltre la rete di gallerie sotterranee facendo da drenaggio alle acque superficiali rende il terreno secco e non più coltivabile per cui l’esercente della miniera deve pagare somme sempre crescenti al proprietario della superficie per i danni provocati tanto che nella maggior parte dei casi ne risulta più economico l’acquisto. In molte industrie, il costo di produzione (a parità di costo delle materie prime, della manodopera ecc.) tende a diminuire nel tempo perché in generale migliora l’organizzazione e diminuiscono le quote d’ammortamento. Nelle miniere invece, col procedere della coltivazione, i costi tendono sempre a crescere: con l’aumento della profondità e l’estensione dei lavori, aumentano progressivamente le spese di trasporto111 lungo le gallerie, quelle di estrazione dai pozzi e tutte le spese di manutenzione. Anche nella fase di coltivazione permane un alto grado di rischio di incidenti imprevedibili che possono compromettere l’andamento delle lavorazioni e richiedere l’installazione di impianti imprevisti e l’ammortizzo di nuove spese. Durante la coltivazione del giacimento continua la fase di ricerca, con le relative spese, per mettere in evidenza la continuità del giacimento e per sostituire con nuovi campi di sfruttamento quelli che vanno esaurendosi. Tuttavia le valutazioni delle riserve minerarie e della produzione media futura presenta gravi difficoltà112. 110 A volte le difficoltà, particolarmente quelle connesse alla mancanza di trasporti economici per minerali di limitato valore o la scarsità d’acqua, sono tali da sconsigliare l’apertura di una miniera anche se il giacimento si mostra promettente. 111 Molte volte lo spostamento di qualche centro di lavorazione impone nuovi impianti di trasporto come teleferiche ecc. 112 La conoscenza soltanto approssimata della consistenza del giacimento rende difficile la determinazione di un adeguato coefficiente di rendimento. 54 Il dubbio sulla estensione del giacimento e sulla qualità del minerale estraibile, i rischi inerenti all’estrazione, ai costi e ai materiali futuri impongono l’applicazione di quote d’ammortamento più alte di quelle applicate da molti altri tipi d’impresa. Come si può notare la miniera oltre a richiedere un forte impiego anticipato di capitale per l’apertura, ha bisogno di continui investimenti non solo per conseguire un ampliamento delle dimensioni dell’azienda, ma per la necessità di assicurare la vita stessa della miniera. Nell’industria mineraria non è possibile trasferire o recuperare tutto il capitale investito se non attraverso uno sfruttamento del giacimento per la cui coltivazione esso è stato speso. Di qui l’opportunità di una particolare cautela nell’attivare l’investimento. L’impossibilità di svincolare il capitale investito nella ricerca e nella prima coltivazione mineraria porta, a volte, a mantenere in funzione una miniera economicamente passiva, nella speranza, ad esempio, di un rialzo delle quotazioni del minerale. Ciò si verificò per l’industria solfifera siciliana, la quale per quasi tutto l’ultimo quarto del secolo scorso segnò incrementi produttivi nonostante il quasi continuo ribasso dei prezzi113. Anche le variazioni nella domanda dei prodotti minerari hanno ripercussioni differenti da quelle che si riscontrano generalmente per i prodotti delle altre industrie. Di fronte ad un rapido aumento nel consumo di minerale, l’industria delle miniere ha contro di sé l’elemento tempo richiesto dai lavori necessariamente lenti di ricerca e preparazione. Per cui non riesce ad adattare prontamente l’offerta alla domanda e di conseguenza si ha un forte aumento del prezzo del minerale. Inversamente, il persistere dell’offerta in un periodo di contrazione della domanda accentua la caduta dei prezzi, il che rende ancora più difficile l’esercizio della miniera. Tutte le attività industriali possono, per cause diverse, essere colpite da una crisi che le porti a una sospensione temporanea; ma per una miniera la sospensione dei lavori può avere anche conseguenze particolarmente gravi. Per essere tenuta in condizioni da poter 113 F. Squarzina, Alcune considerazioni, cit., p. 127. 55 riprendere la propria attività, la miniera richiede continue e importanti manutenzioni114. Tutto il lavoro passivo del periodo di sospensione e di attesa presuppone una spesa difficilmente sopportabile dalle miniere di piccola o modesta consistenza le quali anche di fronte alla ripresa dei prezzi dei minerali si trovano impreparate essendo in ritardo con le ricerche e le preparazioni. Talvolta quindi un eventuale ripresa dei lavori può presentare un insieme di difficoltà tecniche e finanziarie tali da rendere impossibile la ripresa stessa senza un nuovo apporto di capitale115. Un’altra particolarità dell’industria mineraria risiede nel fatto che mentre una qualunque industria costituisce una proprietà che almeno teoricamente non può estinguersi e può anche trasformarsi, una miniera ha un’esistenza che più o meno rapidamente si avvia verso l’esaurimento: il minerale estratto ovviamente non si riforma e quindi la miniera si impoverisce sempre più. Dal punto di vista economico la miniera è un capitale e il suo sfruttamento costituisce un reddito, ma al termine dello sfruttamento il capitale stesso risulta estinto: nel minerale estratto si ha nello stesso tempo il reddito della miniera e una porzione dello stesso capitale di cui è costituita. Alla fine del periodo produttivo gli impianti minerari perdono quasi totalmente il loro valore. Nullo resta il valore dei lavori in sotterraneo (gallerie, pozzi, ecc.), limitato quello dei fabbricati a causa della loro ubicazione116, e modesto diviene pure il valore dei macchinari in quanto, generalmente non sono convertibili ad altri usi da quelli specifici per i quali erano stati realizzati. Rispetto a molte industrie manifatturiere, che hanno la possibilità di impiegare i propri impianti per produzioni differenti adattandosi alle variazioni della domanda dei prodotti, nell’industria mineraria la possibilità di produzioni alternative è interamente preclusa: la produzione del minerale è ovviamente l’unica attività possibile. 114 Se la manutenzione non è stata continua la sistemazione delle parti franate e di quelle invase dalle acque possono richiedere anche lunghi periodi di lavoro e di relative spese. 115 D’altra parte la legge mineraria italiana imponeva al concessionario di tenere attiva la miniera, pena la decadenza della concessione. Per la legge del 1927 il sottosuolo appartiene allo Stato che concede a terzi la ricerca e l’estrazione dei minerali ma impone ai concessionari un’attività continuativa di coltivazione, in vista del superiore interesse nazionale, che a volte inevitabilmente contrasta con quello dell’imprenditore. Si veda il paragrafo 2.2 . 116 Salvo in caso che la zona mineraria sia anche zona agricola o sede di altre industrie. 56 A causa dell’elevata alea insita nell’attività mineraria una caratteristica di quest’ultima è la tendenza alla concentrazione industriale e al monopolio. Non soltanto per avere maggiore disponibilità di capitale e minore difficoltà di reperire fonti di finanziamento ma soprattutto per la possibilità di compensare le perdite di una miniera con i profitti delle altre diminuendo così il rischio totale dell’impresa. Ogni miniera infatti, anche se dello stesso minerale, possiede una sua precisa individualità dovuta al tipo di giacimento (più o meno profondo) alla purezza, alla ricchezza del minerale e alla sua posizione geografica (variazione nella incidenza dei costi di trasporto, approvvigionamento ecc.). Ognuno di questi fattori ha una relazione e connessione precisa con il costo di produzione il quale può risultare molto diverso da un periodo di tempo all’altro e da miniera a miniera, pur mantenendo costanti i prezzi unitari ed i costi di lavorazione. In Italia dall’800 fino al 1960 si possono identificare 3 principali fasi dell’evoluzione storica dell’attività mineraria. Una prima fase in cui l’iniziativa mineraria venne limitata da evidenti circostanze. La mancanza di un’industria manifatturiera sviluppata portava a una scarsa richiesta di materia prima e si rendeva quindi necessaria l’esportazione dei minerali estratti, con conseguenti forti costi addizionali (in quanto i minerali sono generalmente da considerarsi merce povera dal punto di vista del trasporto) e rischi maggiori per l’instabilità degli sbocchi. I costi di produzione erano aggravati dalla mancanza di economie esterne per cui l’impresa mineraria era spesso ostacolata dalle deficienze di mezzi di trasporto e comunicazione e dalle difficoltà di reperire mano d’opera specializzata. In una tale situazione si può ben comprendere come il poco risparmio disponibile venisse maggiormente attratto da altri investimenti, con immobilizzi a più breve termine e minor rischio, lasciando quindi spazio ai capitali stranieri, meglio disposti a correre l’alea insita nell’attività mineraria e più interessati a disporre di nuove fonti di materie prime. Infatti è in generale, al capitale straniero che si deve l’inizio della prima vera industria estrattiva 57 italiana, anche se non sono mancati esempi di industriali italiani che si sono dedicati con successo a questa attività117. Una seconda fase in cui si verificò un sempre più attivo interesse per l’attività mineraria, perché le migliorate condizioni economiche interne e lo sviluppo dell’industria in genere avevano portato ad una maggiore richiesta di materie prime. Così accanto alle prime imprese minerarie, in genere di medie dimensioni, erano sorte molte altre piccole industrie che, utilizzando mezzi tecnici talvolta anche abbastanza modesti, avevano potuto prosperare grazie ad una direzione razionale ed efficace effettuata personalmente dall’imprenditore. La terza fase è stata caratterizzata sia da una concentrazione industriale, seppur non eccessiva, sia dal sempre maggior interesse che lo Stato ha avuto per questa industria. Per quanto concerne la variazione delle dimensioni delle aziende che operavano nel settore si può dire che l’industria di grandi dimensioni è andata sempre più affermandosi poiché aveva maggiore disponibilità di capitale. L’intervento dello Stato nell’industria mineraria non si è limitato ad una forma indiretta ma in molti casi ha stimolato ed appoggiato o addirittura intrapreso in proprio gli investimenti. Durante gli anni tra le due guerre si delinearono interventi pubblici diretti, in particolare nel settore del carbone ,dei minerali metallici ed degli idrocarburi118. Mentre in questi settori lo Stato interveniva come imprenditore per sviluppare produzioni ritenute essenziali per i bisogni nazionali, nel settore dello zolfo doveva affrontare il problema posto dall’industria privata siciliana con capacità produttiva largamente eccedente i bisogni nazionali ed alle prese con croniche difficoltà di sbocchi119. Ciò di cui aveva veramente bisogno l’industria mineraria italiana non era una mera politica protezionistica, d’altra parte incompatibile con la crescente apertura dei mercati, ma bensì di 117 Cfr., P. Corna Pellegrini, Il progresso tecnologico nell’industria mineraria, Milano, 1960,p. 11. Le imprese pubbliche relative al settore del carbone erano state coordinate nel 1935 nella Azienda Carboni Italiani. Nel 1936 veniva costituita l’Azienda Minerali Metalli Italiani che coordinava le relative imprese pubbliche. Nel 1927 veniva istituito l’AGIP. 119 Cfr., G. Fuà, La politica mineraria nei Paesi dell’Europa meridionale in «L’Industria mineraria», giugno 1957, p. 400. 58 118 una politica di sostegno dello Stato. Quest’ultimo doveva puntare a concentrare, se non a circoscrivere, l’intervento alla fase della ricerca di nuovi giacimenti120. E’ opportuno considerare che nel quadro degli investimenti quelli impegnati nella ricerca sono cospicui in termini assoluti e relativi per cui si poneva il problema di interventi di politica economica per evitare la stagnazione di tale settore. Questo problema era stato risolto con tempestività negli Stati Uniti, nel 1915, con l’istituzione dell’abbuono per esaurimento121 e con la messa a punto (anche in altri Paesi) di incentivazione diretta della ricerca mineraria. L’esperienza italiana in tale materia era limitata, per lo meno fino agli anni ’60, alle Regioni a statuto speciale ed era caratterizzata da una certa varietà di disposizione la cui efficacia veniva fortemente limitata dalla modestia dei mezzi finanziari disponibili. In conclusione si può riconoscere un discreto sviluppo dell’industria mineraria italiana fino agli anni ’60, accentuatosi in particolare nel primo dopoguerra. Si deve anche ricordare che tale sviluppo era da considerarsi ancora modesto se confrontato con quello di altri Paesi industrializzati, e con lo sviluppo dell’economia italiana nel suo insieme. L’attività mineraria negli anni ’60 non costituiva un settore fondamentale della nostra economia. Basti pensare che il reddito del lavoro minerario non era che l’1% di quello nazionale e l’occupazione operaia, in questa industria, rappresentava circa lo 0,7% della popolazione attiva totale122. Caratteristico risulta poi il fatto che l’occupazione della manodopera praticamente non presentò segni di sviluppo dall’inizio del secolo fino agli anni ’60 (pur essendosi verificate notevoli oscillazioni nel tempo e nel rapporto tra occupati nelle miniere e nelle cave). Nel sessantennio considerato, la popolazione italiana era invece passata da 31 a 50 milioni. 120 Cfr., D. Cuzzi, L’intervento pubblico nella ricerca mineraria in «L’Industria mineraria», novembre 1965, p. 569. L’abbuono per esaurimento era una detrazione percentuale sul reddito tassabile che si concedeva per conservare all’impresa mineraria la disponibilità di somme da investire nella ricerca. Cfr., R. Rossano, La legislazione statale delle miniere in «L’Industria mineraria», giugno 1965, p. 322. 122 Contro l’1,7% negli Stati Uniti, l’1,8% in Francia, il 3,8% nel Regno Unito, il 5,4% nel Belgio. In Italia, le miniere propriamente dette (metallifere e non metallifere) contribuivano al reddito totale dell’industria mineraria per circa il 40% ma occupavano circa il 90% del personale. Il resto era dato dalle fonti energetiche. Cfr., D. Cuzzi, Sulla localizzazione dell’industria estrattiva in Italia in «L’Industria mineraria», aprile 1963, p. 198. 59 121 Tabella 2.1 Numero di addetti a miniere e cave. Fonte: Servizio statistico del Corpo delle miniere. Anni Totale Miniere Cave 1890-1900 90/100000 - - 1900-1910 125000 - - 1918 100000 63500 36500 1926 120000 52900 67100 1933 80000 34000 46000 1938 140000 83300 57100 1941 171500 132000 39500 1944 73000 52500 20500 1949 104400 66000 38400 1952 122700 70600 52100 1956 117800 58400 59400 Nel primo decennio del secolo XX l’occupazione aumentò fortemente; fenomeno comune anche agli altri settori industriali in relazione allo sviluppo dell’attività produttiva e al miglioramento della situazione economica del Paese, prolungatosi fino allo scoppio del primo conflitto mondiale. La guerra 1915-18 condusse ad una diminuzione dell’occupazione complessiva (anche se la riduzione fu particolarmente sensibile per le cave). Negli anni successivi l’occupazione operaia presentava un incremento che raggiunse il punto più elevato nel 1926. In seguito si verificò una forte flessione dovuta alla crisi internazionale (e nazionale) che fece registrare il punto più basso nel ’33. La favorevole evoluzione della congiuntura economica mondiale e gli indirizzi di politica autarchica impressi all’economia nazionale, permisero un forte incremento nell’occupazione operaia fino ai primi anni della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941 infatti venne raggiunto il numero massimo degli occupati, nel periodo considerato, principalmente per l’aumento dell’occupazione nelle miniere di minerali interessanti l’economia bellica. Nel ’44 la guerra fece segnare la più bassa occupazione operaia ma la ripresa post bellica fu sollecita ed intensa. Negli anni successivi si registro invece una contrazione dovuta soprattutto alla riduzione verificatasi nelle miniere di combustibili fossili. 60 Mentre per l’industria mineraria in generale si può parlare di una certa staticità dell’occupazione, nel settore dello zolfo l’occupazione operaia si è andata gradualmente riducendo sia in via assoluta che relativa. Tabella 2.2 Numero di addetti, produzione e resa media per operaio nel settore dello zolfo. Fonte: Servizio statistico del Corpo delle miniere. Anni Addetti Produzione Resa tonnellate tonnellate annue per operaio con 2000 ore lavoro 1905 34000 550000 - 1913 15000 390000 - 1922 7000 167000 - 1938 15600 380000 24,41 1940 18000 330000 - 1941 18700 330000 15,07 1944 73000 77000 10,60 1949 13400 201000 15,09 1952 15600 230000 14,80 1956 12000 210000 - In via assoluta dai 34000 addetti nei primi anni del secolo si passò ai 12000 del 1956; riduzione verificatasi attraverso alti e bassi dominati da un netto trend di contrazione. In via relativa, da circa il 50% dell’occupazione totale nelle miniere nazionali del 1905 si scese a circa il 20% del totale nel 1956. Sino ad ora si è parlato genericamente degli addetti all’industria mineraria italiana fino agli anni ’60, è necessario però distinguere fra le varie unità operanti nel settore, in relazione alla dimensione di impresa per mettere in luce quella tendenza alla concentrazione industriale di cui si è già accennato. Il censimento industriale del 1951 ha rilevato che, su un totale di 6196 ditte aventi per oggetto l’attività mineraria in Italia, 5232 avevano un numero di addetti inferiore a 11 con un totale di occupazione di sole 14623 unità mentre 117 avevano 61 un numero di addetti superiore a 100 con un totale di 58199 unità impiegate. Risulta quindi evidente la differenziazione esistente tra le molte piccolissime unità, che spesso avevano un carattere nettamente artigianale e le poche grandi società che gestivano le miniere di maggior importanza. Queste avrebbero potuto disporre dei capitali necessari all’acquisto di attrezzature e macchinari più complessi al fine di allineare i costi di produzione a quelli ottenuti nelle miniere estere. In realtà, però, l’industria mineraria italiana utilizzò con ritardo i progressi tecnici e meccanici messi in atto dalle “molto più grandi” imprese straniere, essenzialmente perché le risorse minerarie italiane erano di gran lunga inferiori a quelle dei maggiori Paesi minerari del mondo. 2.2 LA LEGISLAZIONE MINERARIA In tutte le Nazioni la ricerca e lo sfruttamento delle sostanze minerali sono regolate da speciali disposizioni legislative. I principi fondamentali sono due: il primo e’ quello fondiario sul quale si uniformava anche l’antico ius romano in cui il possesso di un terreno o fondo comprende cioè non soltanto il suolo vegetale, ma anche il sottosuolo con tutti i giacimenti minerari che ci sono inclusi e fino a qualsiasi profondità. L’altro principio si basa sulla demanialità del sottosuolo, in forza del quale i giacimenti sono considerati come res nullius e soggetti a legislazione speciale. In Italia l’unificazione del diritto minerario fu realizzata nel 1927, con D.R. 29 luglio 1927 n° 1443, recante norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere del Regno. Era dovuto trascorrere poco meno di un settantennio dal compimento dell’unità nazionale al raggiungimento dell’unità legislativa in campo minerario in quanto fra i primi 62 provvedimenti legislativi del Regno d’Italia ci fu quello di mantenere in vigore tutte le leggi e i regolamenti minerari vigenti nei vari stati italiani prima dell’unificazione politica. Pertanto fino al 1927 si applicavano nel territorio nazionale ben 12 leggi minerarie diverse, ispirate a principi diversi123. In particolare nelle Marche con decreto 13 novembre 1860 fu estesa la legge sardolombarda del 20 novembre 1859 n°3755 ispirata al cosiddetto principio “industriale” per il quale la disponibilità della miniera spettava allo Stato che ne faceva la concessione allo scopritore o in sua vece, a chi aveva i mezzi tecnici e finanziari adeguati. Tale legge dava piena libertà a chiunque di ricercare le sostanze minerali in qualunque fondo salvo munirsi di autorizzazione (“concessione di ricerca”) del prefetto del distretto, e a pagare un’indennità al proprietario del fondo per i danni arrecati. Quando le ricerche avessero sufficientemente accertata la possibilità di una regolare coltivazione, constatata da visita o parere dell’ingegnere delle miniere, la miniera era dichiarata concessibile. La concessione veniva fatta dal governo a titolo perpetuo, a meno che non venisse in seguito pronunciata la decadenza per abbandono di lavorazione oltre il biennio. Lo Stato percepiva una quota di utili ragguagliata al 3% sul prodotto annuo della miniera124. 123 1) La legge sardo-lombarda del 20 novembre 1859, vigente nel Piemonte, Liguria, Lombardia e nelle Marche. Il decreto parmense del 21 giugno 1852, vigente nelle province di Parma e Piacenza. La legge generale montanistica austriaca del 23 maggio 1854, vigente nella provincia di Mantova, nel Veneto e nei territori di Trento, della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara. La legge italica del 9 agosto 1901, vigente nelle province di Modena e Reggio. Il sistema pontificio, vigente nelle province di Bologna, Ferrara e Ravenna, nel territorio di Pontecorvo e in quello dell’ex ducato di Benevento. La legge lucchese del 3 maggio 1847, vigente nella provincia di Lucca e nella provincia di Massa Carrara. Il così detto sistema estense illimitato (nessuna legge; dominio assoluto del principe sulle miniere), vigente nel territorio di Aulla, Castiglione, Castelnuovo di Garfagnana, Vagli. La legge I febbraio 1751, per le cave di marmo nelle vicinanze del Carrarese ed il regolamento 14 luglio 1846, per quelle del Massese. Il motuproprio granducale del 13 maggio 1788, vigente nelle provincie di Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Siena, Lucca. Nell’Isola d’Elba e nel territorio di Piombino i minerali di ferro erano riservati al demanio (sovrano rescritto del 28 ottobre 1856). Il sistema pontificio, regolato con R.D. 23 marzo 1865, vigente nella provincia di Forlì per il quale si applicava come norma regolamentare la legge del 1859. Il sistema pontificio, regolato con R.D. 17 giugno 1872, vigente nelle provincie di Roma e Perugia (per il quale si applicava come norma regolamentare la legge del 1859). La legge borbonica del 17 ottobre 1826 ed il relativo regolamento del 3 ottobre 1875, vigenti nell’ex Regno delle Due Sicilie. Cfr. A. Di Marzo, L’industria mineraria, Napoli, 1905, pp. 45,46. 124 Cfr., G. Cagni, Miniere di Zolfo in Italia, Milano, 1903, pp. 249,250. 63 Vi erano speciali disposizioni concernenti la sicurezza delle persone. Era proibito lasciare discendere e lavorare nelle miniere i ragazzi di età inferiore a 10 anni. In caso di infortunio, il coltivatore doveva informare subito il sindaco del Comune e l’ingegnere delle miniere inoltre aveva l’obbligo di conservare negli stabilimenti i mezzi necessari al soccorso. Nelle miniere della Romagna125 vigeva il sistema pontificio che si basava sul principio della regalìa secondo il quale le miniere spettavano al Principe e sopra di essa non aveva alcun diritto il proprietario del suolo all’infuori del danno a lui arrecato con l’esercizio minerario. Il principio di regalìa non derivava la sua legittimità da leggi scritte né veniva applicato secondo modalità prestabilite, né in modo unitario e armonico ma risultava da antiche126 bolle papali e da consuetudini, che lo rendeva ancora più assoluto e incontrastato. I modi e le condizioni di coltivazione erano lasciati interamente all’arbitrio della pubblica autorità e perciò differivano notevolmente da caso a caso; le concessioni erano, non di rado, vincolate al soddisfacimento di determinate tasse o prestazioni, si prescrivevano sovente norme e cautele di varia natura ma non esisteva parità di trattamento127. Per le miniere di zolfo della Sicilia era vigente il rescritto sovrano dell’8 ottobre 1808, integrato dal successivo datato 30 aprile 1852, secondo il quale il proprietario del fondo aveva disponibilità del sottosuolo in cui rinveniva zolfo però era necessario uno speciale permesso del governo che non poteva essere accordato a terzi, detto di “aperietur”, dietro pagamento di una tassa per il diritto di regalìa spettante allo Stato128. Il sistema fondiario, che aveva per fondamento il diritto di proprietà, era manifestamente irrazionale e antisociale e arrecò in Sicilia gravi inconvenienti. Come é facile capire, questo mosaico di leggi non poteva che creare grande confusione e i vari governi, che si succedettero dall’Unita d’Italia, tentarono ripetutamente di unificare la 125 Tranne la provincia di Forlì dove con R.D. 23 marzo 1865 si stabilì che alle miniere di ogni specie che da allora in poi venissero esplorate ed aperte erano applicate le norme della legge Sardo-Lombarda. Cfr., F. Squarzina, La legislazione mineraria nei vari stati italiani, in «L’Industria mineraria», febbraio 1958, p. 96. 126 La più antica legge del governo pontificio era quella di Giulio II del 21 aprile 1510 che dichiarò tutte le miniere di diritto sovrano. Cfr., F. Squarzina, La legislazione mineraria, cit., p.93. 127 Cfr., F. Bo P. Tappari, La legislazione mineraria dell’Italia, Torino, 1830, p. 751. 128 Cfr., Riforma Mineraria, disegno di legge presentato al governo all’assemblea regionale siciliana il 13 luglio 1949, Palermo, 1949, p. 8. 64 legislazione mineraria ma non mancarono gli ostacoli frapposti dai grandi proprietari terrieri, specialmente della Sicilia, che non intendevano rinunciare ai loro antichi privilegi. Così tutti i disegni di legge incontrarono una tenace opposizione che fece naufragare uno dopo l’altro, i numerosi progetti presentati129. Solo con il Regio Decreto del 27 luglio 1927 n° 1443 (Gazzetta Ufficiale n°194 del 23 agosto 1927) fu possibile mettere ordine in questa complessa materia unificando la legislazione mineraria sul principio della demanialità del sottosuolo, pur rispettando i diritti acquisiti130. La corrente sostenitrice del regime demaniale, che aveva trovato, dopo la Prima Guerra Mondiale e specialmente con il fascismo, il più valido incoraggiamento nell’indirizzo pubblicistico al quale era stata allora improntata in ogni campo la legislazione del paese, era prevalsa, e la legge del 1927 segnò la fine, nel regime minerario, del sistema fondiario131. La miniera non era più vista come un bene facente parte del patrimonio individuale o come una concessione del principe. Era ritenuta un bene che dal punto di vista individuale rappresentava spesso, oltre che il risultato di studi e di conoscenze specifiche, il coronamento di lunghe e costose ricerche. Mentre per la Nazione “è fonte di ricchezza, che deve essere coltivata e vigilata nel suo sfruttamento, nello stesso interesse generale..., lo Stato non può disinteressarsene: ha il dovere, anzi, di intervenire”132. Tra le principali disposizioni della legge unificatrice (D.R. 29 luglio 1927 n°1443) si trova innanzitutto una distinzione delle sostanze minerali in due categorie: miniere e cave. Per i 129 Benché sia da ritenersi prevalente, nel lungo periodo, la tendenza all’unificazione legislativa, non mancarono vivaci opposizioni. Non tanto per l’essenza stessa dei contrasti teorici inerenti ai diversi regimi, quanto per considerazioni relative alle situazioni giuridiche e di fatto, che ne erano derivate nel tempo e che sembrava difficile modificare senza gravi lesioni di diritti acquisiti da tempo immemorabile e danni per lo stesso esercizio minerario. Cfr., R. RomoliVenturi, Promemoria sulla unificazione del diritto minerario italiano, in “L’Industria Mineraria”, aprile 1965, p.185. 130 “Purtroppo questa legislazione è stata nuovamente stravolta con l’istituzione delle regioni a statuto speciale che hanno facoltà di legiferare in fatto di miniere e, lo hanno fatto senza limitazioni, pur mantenendo il principio della demanialità del sottosuolo”. A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della Regione Emilia Romagna, 1972, Modena, p. 714. 131 Attuando una disciplina che lasciava l’amministrazione arbitro della ricerca e della coltivazione della miniera e toglieva ai già proprietari, che venivano riconosciuti come concessionari perpetui, la disponibilità di esse. Cfr., Riforma Mineraria, cit., p. 9. 132 Relazione ministeriale che accompagnava il disegno di legge relativo alla delega al governo del Re per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere del Regno, presentato alla Camera dei Deputati nella seduta 21 maggio 1926. 65 minerali appartenenti alla prima categoria è consentita la ricerca solo a chi sia munito di permesso da rilasciarsi dal Ministero per l’Industria e per il Commercio quando si tratti di minerali di interesse nazionale e dall’ingegnere capo del distretto minerario per i minerali d’interesse locale. Una volta scoperto il giacimento, il ricercatore ha diritto ad ottenere la concessione, sempre che abbia le capacità tecniche ed economiche, requisiti necessari anche per l’ottenimento del permesso di ricerca. La concessione è temporanea133 e la sua durata è stabilita dall’amministrazione mineraria in relazione all’importanza del giacimento scoperto. La concessione cessa per scadenza del termine o per decadenza (una delle cause di decadenza è di non tenere in attivo la miniera avuta in concessione). Anche se la legge unificatrice in realtà non fa riferimento esplicito alla demanializzazione del sottosuolo, l’art. 826 del codice civile (1942) dichiara che le miniere fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato. Il che significa, secondo la dottrina più autorevole, che lo Stato non può alienarlo e deve disporne in via di concessione governativa. In materia di polizia delle miniere e delle cave sino al 1958 veniva applicata la legge 30 marzo 1893 n°184 e il relativo regolamento 10 gennaio 1907 n°152 che nonostante avevano ben assolto il loro compito, richiedevano un necessario aggiornamento per le mutate condizioni dell’industria estrattiva, soprattutto per il massiccio impiego di mezzi meccanici e dell’energia elettrica. Il D.P.R. 9 aprile 1959 n°128 ha essenzialmente lo scopo di provvedere a tutelare la incolumità e la salute dei lavoratori nel rispetto della sicurezza dei terzi e garantire il buon governo dei giacimenti minerari in quanto appartenenti al patrimonio dello Stato. La vigilanza per l’applicazione di tali norme spetta al Ministero dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato che le esercita a mezzo di prefetti e degli uffici distrettuali del Corpo delle miniere. 133 “ Le concessioni minerarie, date senza limite di tempo, in base alle leggi fino ad ora vigenti, sono mantenute come concessioni perpetue...” art. 53. 66 A proposito di quest’ultimo si ricorda che nel Regno di Sardegna già nel 1822 fu istituito un Corpo di ingegneri delle miniere (che avevano principalmente il compito di eseguire i saggi chimici dei campioni minerari ricavati dalle miniere che erano chieste in concessione al governo). Tale Corpo era fin dal 1848 sotto la dipendenza del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio134 . A mano a mano che le provincie d’Italia si univano al Regno, la circoscrizione dei distretti minerari del Corpo delle miniere venivano stabilite ed applicate in modo da poter convenientemente servire allo sviluppo e alla regolarità del servizio minerario. Compiuta l’Unità d’Italia, fu istituito un ufficio minerario anche a Roma, aggiungendolo a quelli di Ancona, Cagliari, Caltanissetta, Genova, Milano, Napoli, Torino e Vicenza. Con il R.D. 10 agosto 1886 l’ufficio di Ancona fu trasferito a Bologna con l’aggiunta delle provincie di Bologna, Modena e Reggio Emilia che furono staccate dal distretto di Firenze. Nel 1923 il Corpo delle miniere passò alle dipendenze del Ministero dell’Economia Nazionale, nel 1930 del Ministero delle Corporazioni per essere assegnato poi, nel 1946, al Ministero dell’Industria e del Commercio. Nel 1936 gli uffici del Corpo delle miniere risultavano costituiti, al centro, dall’Ispettorato Tecnico delle Miniere e dall’Ufficio Geologico, ed alla periferia, dai 12 distretti minerari (Bologna, Caltanissetta, Carrara, Firenze, Iglesias, Milano, Napoli, Padova, Roma, Torino, Trento e Trieste)135. Tra i compiti del Servizio Minerario rientravano l’applicazione delle leggi e dei regolamenti, la vigilanza sull’andamento generale dell’attività mineraria, l’esecuzione delle relative ispezioni, lo studio dei problemi tecnici ed economici concernenti l’attività mineraria, lo studio dei giacimenti sotto l’aspetto minerario, l’organizzazione e la direzione 134 Cfr., A. Sabella, Il Corpo delle Miniere nei suoi 100 anni di attività, in «L’Industria mineraria», giugno 1958, p. 321. Le circoscrizioni minerarie nel 1960 risultavano essere costituite da 14 distretti, con l’aggiunta di Bergamo e Grosseto. Cfr., F. Squarzina, I servizi statali delle miniere e della geologia, in «L’Industria mineraria», luglio 1961, p. 421. 67 135 delle ricerche e delle coltivazioni minerarie che lo Stato intendeva condurre direttamente all’estero, la raccolta e la elaborazione dei dati tecnici ed economici sull’industria mineraria e la pubblicazione delle relative statistiche. 2.3 USO DELLO ZOLFO Lo zolfo è uno dei minerali più anticamente conosciuti. Già nel 2000 a.C. era adoperato per sbiancare il lino e sembra che, nella stessa epoca, cinesi e indiani lo usassero per fabbricare polvere pirica. I colori delle pitture egizie di circa 1600 anni a.C. erano fatti con miscele nelle quali era presente lo zolfo. I greci e i romani ne riconoscevano alcune proprietà. Omero lo nomina come disinfettante e Dioscoride mette in luce i suoi pregi dermatologici sotto forma di unguenti e cerotti. Nell’antichità classica era bruciato nelle cerimonie religiose di purificazione. In agricoltura serviva ad allontanare gli insetti nocivi e fin dai tempi di Catone lo si usava largamente nella coltura della vite e per la chiarificazione dei vini. I romani se ne servivano per sbiancare le stoffe di lana (con l’anidride solforosa ottenuta bruciando lo zolfo), nella preparazione di materiali incendiari per la guerra e per la fusione delle statue di bronzo. Usavano anche fili impregnati di zolfo per accendere fuochi ed avvolgere fiaccole136. Costituiva inoltre uno dei principali ingredienti per la fabbricazione di mastici per incollare oggetti di ceramica. E’ ovvio che il suo consumo debba essere stato assai modesto. Un incremento si ebbe nel XIV secolo con l’invenzione della polvere pirica della quale lo zolfo è il costituente principale. Ma il suo maggior 136 Cfr., F. Squarzina, Industria e legislazione mineraria in Italia. Parte I - Età antica, Faenza, 1954. 68 sviluppo cominciò solo nel XVIII secolo137, quando si iniziò la fabbricazione su larga scala dell’acido solforico, del quale a quei tempi costituiva l’unica materia prima. E’ da ritenere quindi che prima del XVIII secolo la produzione mondiale, proveniente in gran parte dalla Sicilia, fosse assai limitata. Anche nei primi anni del secolo successivo il modesto sviluppo mondiale dell’industria non richiedeva grandi quantitativi di zolfo per la fabbricazione dell’acido solforico. Solo dopo il 1830, evidentemente come conseguenza del maggior sviluppo industriale provocato dalla invenzione della macchina a vapore, le miniere di zolfo crebbero sempre più di numero138. Per tutto il corso dell’800 aumentò l’importanza dell’acido solforico per la sua funzione insostituibile come intermediario nella lavorazione industriale di un numero sempre più alto di sostanze organiche. Tanto che il grado di industrializzazione di una Nazione si poteva valutare dal suo consumo di acido solforico. Circa il 75% andava consumato per la fabbricazione di concimi chimici perfosfati139, il resto veniva assorbito dall’industria degli esplosivi, dei grassi, dei fiammiferi, di prodotti farmaceutici e veterinari, del legno, della carta, dei tessuti (i lanifici, cotonifici e setifici ne utilizzavano le proprietà decoloranti) ed altre industrie chimiche come quella dei coloranti e dei solfati di soda (per la fabbricazione dei saponi, vetri, cristalli e stoviglie)140. Nella preparazione dell’acido solforico, che assorbiva quasi tutto lo zolfo di Sicilia, dal 1850 cominciò a sostituirsi e a diffondersi rapidamente l’impiego della pirite141. Questa, contrariamente allo zolfo, era molto più diffusa nelle varie Nazioni ed era meno soggetta a brusche oscillazioni di prezzo. Lo zolfo italiano non risentì particolarmente della concorrenza delle piriti poiché, nello stesso tempo, si verificò un aumento dell’impiego per uso agricolo. In Inghilterra nel 1847 si manifestò per la prima volta la malattia della vite, 137 La fabbricazione dell’acido solforico con l’impiego di zolfo cominciò nel 1736. Cfr., M. Gatto, Condizioni tecniche dell’industria solfifera siciliana in L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino,1925, p. 18. 139 Cfr., V. De Michele A. Ostroman, Minerali e sviluppo. L’attività estrattiva della Montecatini dal 1888 al 1938, Milano, 1987, p. 12. 140 Cfr., G. Cagni, op.cit., p. 221. 141 Cfr., G. Oddo, Impiego del minerale di zolfo di Sicilia per la preparazione dell’acido solforico, Roma, 1908, p. 367. 69 138 chiamata correntemente crittogama (oido)142. Prese subito proporzioni considerevoli e si estese rapidamente in Francia, Italia, Spagna, Svizzera, Germania ecc. Lo zolfo in polvere risultò essere l’unico rimedio possibile e dopo pochi anni la solforazione della vite divenne una pratica generale in tutte le Nazioni. Conferma di ciò si trova nel numero della Rivista del Servizio Minerario relativo all’anno 1893. Dove è riportato il consuntivo di una indagine, disposta dal Ministero, per avere notizie complete circa gli usi dello zolfo italiano nei vari paesi di destinazione. Tale relazione mostra in maniera evidente come l’impiego di gran lunga prevalente sia quello in campo agricolo per la solforazione della vite, mentre ad enorme distanza segue l’industria dell’acido solforico143. Come si è visto, lo zolfo verso il 1900, era stato quasi completamente sostituito dalla pirite per la fabbricazione dell’acido solforico e stava per esserlo anche per gli altri campi (in cui la sostituzione era possibile), ma riprese terreno, specialmente in America, da quando il processo Frasch permise di produrlo a basso costo. Cosicché già dagli anni ’30 la produzione mondiale di zolfo tornava ad avere il suo massimo impiego nella fabbricazione dell’acido solforico144. Al secondo posto si trovava l’industria della cellulosa al solfito (soprattutto in Canada, Paesi Scandinavi e Baltici) mentre al terzo posto, con una quota del 15% vi era l’uso come anticrittogamico nella viticoltura (specialmente in Italia, Francia e negli altri Paesi mediterranei). Ciò che determinava l’evoluzione del consumo di zolfo era quindi l’orientamento della produzione di acido solforico che rappresentava, in Europa come altrove, dal 70% all’85% della produzione mondiale di zolfo negli anni ’50145. 142 Cfr., Lo zolfo in agricoltura, Ufficio Sulphur, Roma 1909, p. 6. Le 57311 tonnellate considerate risultavano così impiegate: 51125 tonnellate per la solforazione della vite, 1980 tonnellate per la fabbricazione di acido solforico, 1800 tonnellate per quella del solfuro di carbonio, 886 tonnellate per la produzione dei fiammiferi, 668 tonnellate per la solforazione delle botti, 332 tonnellate per la polvere pirica, 80 tonnellate nel caucciù vulcanizzato, 37 tonnellate per preparati farmaceutici e le restanti 403 tonnellate per impieghi diversi. 144 Per quanto riguarda il consumo di zolfo dei singoli Paesi, va notato che esso dipendeva oltre che dallo sviluppo dell’industria, principalmente dalla preferenza che i fabbricanti di acido solforico davano allo zolfo oppure alle piriti. Gli Stati Uniti, che erano al primo posto fra i Paesi consumatori di zolfo, fabbricavano con questo più del 65% del loro acido solforico mentre la Germania usava piriti per più dell’80% e l’Italia per una percentuale ancora maggiore. 145 Cfr., Prospettive del mercato mondiale dello zolfo, in «L’Industria mineraria», settembre 1959, p. 600. L’acido solforico a sua volta, veniva utilizzato per fertilizzanti (40%) per altri prodotti chimici (20%) come detergenti sintetici, resine sintetiche, rivestimenti di protezione, catalizzatori per l’industria petrolifera, riduzione dell’alluminio, prodotti farmaceutici, insetticidi e antigeli. L’8% per pitture ed altri pigmenti (vernici, tessuti artificiali, carte da parati, 70 143 La curva della produzione mondiale di acido solforico tra il 1880 (1,8 milioni di tonnellate) e il 1920 (8 milioni di tonnellate) presentava un andamento corrispondente ad un aumento annuo medio del 4%. Dopo un intervallo di diminuzione fino verso il 1932 (10 milioni di tonnellate), la curva riprendeva una accentuata ascesa, raggiungendo dal 1947 (22 milioni di tonnellate), il prolungamento teorico di quella precedente, ossia un aumento annuo medio del 5,6%146. Di conseguenza la produzione mondiale di zolfo che nel 1900 era di 580000 tonnellate passava a circa 3 milioni di tonnellate nel 1930, toccava gli 8,4 milioni nel 1947, raggiungendo le 15 milioni di tonnellate nel 1957. E’ necessario precisare che a tale enorme sviluppo della produzione mondiale non ha contribuito solo lo zolfo nativo, ma anche altre fonti di zolfo: zolfo ottenuto dalle piriti e zolfo di recupero (da gas naturale, dalla raffinazione del petrolio ecc.). 2.4 IL CONTESTO ITALIANO Anche se nel territorio nazionale è nota la presenza di una vasta gamma di minerali dai più poveri ai più pregiati, raramente hanno dato luogo a giacimenti di importanza economica; si dice infatti che “l’Italia è ricca di miniere povere”. Fra i minerali più importanti, sia per l’entità della produzione che per lo sviluppo dei lavori e l’impiego di manodopera come pure per l’origine antica dell’industria, vi è indubbiamente lo zolfo che costituì per un lungo periodo la maggiore risorsa mineraria nazionale, oltre ad essere stata la più importante fonte produttiva mondiale. inchiostri), il 2% per ferro e acciaio (automobili, accessori, prodotti galvanici); un ulteriore 8% per rayon e pellicole (pneumatici, cellophane, pellicole fotografiche) e il restante 2% per benzine (lubrificanti ed altri prodotti raffinati). L’impiego dello zolfo elementare rappresentava il 20% ed era così suddiviso: pasta di legno 6%, solfuro di carbonio 3%, prodotti chimici 6%, ; altre industrie 7%. 146 Cfr., Il mercato mondiale dello zolfo, in «L’Industria mineraria», ottobre 1959, p. 711. 71 Esistono in Italia come in altri Paesi, depositi di zolfo di origine vulcanica che, seppure hanno fornito oggetto di sfruttamento (Toscana, Lazio, Campi Flegrei, isole Eolie ecc.), sono stati coltivati solo saltuariamente e non hanno fornito che produzioni trascurabili. I soli giacimenti coltivati con una certa continuità che hanno fornito importanti produzioni largamente esportate sono quelli sedimentari localizzati soprattutto in Sicilia, nelle Marche e nella Romagna ed infine nell’Irpinia e nella Calabria. Tralasciando per ora queste due ultime, la cui produzione non ha mai oltrepassato il 4% di quella nazionale e di cui si farà cenno alla fine di questo paragrafo, in Italia i poli produttivi dello zolfo sono stati essenzialmente due: la Sicilia e l’area Marche-Romagna. Comunque è nell’isola che si è avuta una enorme concentrazione di miniere e la provenienza della maggior parte dello zolfo italiano. Del resto, la Sicilia mantenne per secoli il predominio mondiale della produzione e della esportazione dello zolfo. Fino al 1900 infatti la produzione siciliana non solo rappresentava oltre il 90 % della produzione italiana ma era anche pari agli 8/10 dell’intera produzione mondiale147. Successivamente si ridusse l’importanza relativa della Sicilia rispetto all’Italia infatti dal 1938 in poi ne costituiva solamente 2/3 del prodotto totale. La mano d’opera occupata nei primi anni del secolo era di circa 30000 unità corrispondente a circa la metà della occupazione totale delle miniere nazionali, dal 1913 fino agli anni ’50 gli operai occupati nell’industria dello zolfo siciliano si erano ridotti a poco più di 10000148. Complessivamente, la coltivazione dei giacimenti di zolfo del polo marchigiano-romagnolo ha assunto nell’arco di un secolo circa, livelli produttivi sempre più alti sia in termini relativi che assoluti. Rispetto alla produzione nazionale, infatti lo zolfo marchigiano-romagnolo è passato dal 5% del 1860 a più del 30% del 1938 attestandosi su questa cifra fino agli anni ’50 con quantitativi compresi fra le 7500 e le 123000 tonnellate annue ed una mano d’opera occupata fra le 900 e le 4000 unità. La miniera di Cabernardi che risultò essere la più profonda e più produttiva d’Italia contribuì sempre per oltre il 50% 147 148 Cfr., M. Gatto, op. cit., p.19. Cfr., E. Cianci, L’occupazione operaia nelle miniere e nelle cave, in «L’Industria mineraria», dicembre 1953, p. 584. 72 alla produzione del distretto a partire dai primi anni del XX secolo (solo una decina di anni successivi alla concessione di coltivazione). 2.4.1 Confronto tra la Sicilia e l’area Marche-Romagna Oltre alla quantità prodotta ed al numero di addetti occupati, esistevano moltissime diversità tra le due maggiori aree distrettuali solfifere italiane: numero e dimensione delle miniere, struttura della proprietà, grado dello sviluppo tecnico raggiunto, condizioni di lavoro e di vita della manodopera, struttura ed organizzazione del commercio, intervento dello Stato. Una delle cause che favorì un maggior sviluppo dell’industria dello zolfo marchigianoromagnolo rispetto a quella siciliana è da ricercarsi nella differente legislazione mineraria. Come si è visto, prima dell’unificazione della legislazione mineraria del 1927 mentre nel distretto marchigiano-romagnolo si applicava già il principio della demanialità delle miniere, in Sicilia invece vigeva il sistema fondiario che si rivelò un vero ostacolo per l’industria solfifera siciliana. Tale sistema considerava il sottosuolo come facente parte della proprietà di superficie per cui la proprietà mineraria era divisa in un gran numero di piccoli proprietari. Di conseguenza ciò ha favorito la nascita in Sicilia , accanto a poche miniere di grandi dimensioni site in alcuni latifondi, di molte piccole miniere. Queste a mano a mano che diventavano più profonde richiedevano spese sempre crescenti per cui alcune miniere venivano abbandonate mentre la maggior parte erano costrette a produrre ad alti costi dato che la loro dimensione impediva di organizzare coltivazioni razionali sia nei riguardi della sicurezza che della conservazione dei giacimenti e dell’economicità dell’esercizio. Succedeva spesso che una persona che voleva prendere in gestione un’area mineraria andava incontro a difficoltà insormontabili perché i proprietari del sottosuolo che spesso arrivavano ad una quarantina non si mettevano d’accordo e per lo stesso motivo era molto 73 difficile aumentare l’estensione di una miniera149. In Sicilia erano pochi i proprietari che si occupavano direttamente delle loro miniere. Dalla Rivista del Servizio Minerario del 1927 si rileva infatti che, mentre le miniere attive nell’isola erano ben 403, quelle gestite direttamente dai proprietari erano appena 46. Generalmente la forma di contratto preferita dai proprietari per dare in concessione le proprie miniere era la “gabella” (affitto) che costituiva un altro grave inconveniente per l’industria solfifera siciliana. Infatti i proprietari delle miniere richiedevano agli affittuari (“gabellotti”) degli esorbitanti pagamenti in natura (“estagli”) che potevano arrivare anche al 40% della produzione e quindi assorbivano quasi interamente l’utile del gabellotto, il quale doveva apportare il capitale necessario e si faceva carico di tutte le spese e dei rischi connessi all’attività mineraria150. I contratti di gabella erano oltretutto di breve durata. Variando dai 9 ai 12 anni non consentivano neppure la possibilità di ammortizzare i capitali impiegati per gli impianti occorrenti (che alla fine del contratto dovevano passare al proprietario della miniera). Si comprende quindi come tutto ciò andasse a scapito del buono andamento dei lavori e della sicurezza, poiché il gabellotto per ricavare un reddito ragionevole, non aveva altra scelta che quella di coltivare a “rapina” per nulla curandosi dei danni che arrecava al giacimento e cercando, per quanto gli riusciva, di ridurre al minimo le spese di impianto. La legge del 1927, che uniformò tutta la Nazione al sistema demaniale di fatto non cambiò la particolare situazione delle miniere siciliane151 per cui la gabella continuò ad essere diffusa e praticata. Anche se diversi provvedimenti legislativi, susseguitisi dal 1916 al 1940, ridussero gradualmente la misura degli estagli (canoni di affitto) portandoli al 5% della produzione152. 149 Cfr., L. Valenti, Le miniere di zolfo in Sicilia, Torino, 1925, p. 23. Il gabellotto non sempre, anzi difficilmente aveva i mezzi per affrontare tutte le spese necessarie, si rivolgeva quindi a veri e propri usurai che offrivano il denaro ad un tasso che poteva anche raggiungere il 60%. Inoltre il conduttore della miniera veniva obbligato mediante contratto scritto a servirsi per un numero stabilito di anni dello stesso usuraio, che si arrogava anche il diritto di sorvegliare la produzione, su cui manteneva delle ipoteche come garanzia del denaro sborsato. Cfr., G. Candura, Miniere di zolfo in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1990, p. 61. 151 Conferì la concessione perpetua delle miniere ai proprietari del soprassuolo che potevano anche trasmetterla in eredità. 152 Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, cit., p. 22. 74 150 Totalmente diversa era la situazione nel distretto marchigiano-romagnolo dove, previa concessione governativa, si poteva disporre liberamente del sottosuolo senza alcuna ingerenza dei proprietari del suolo (salvo ovviamente il risarcimento danni). Ciò rese possibile la coltivazione di un numero molto più limitato di miniere (in tutto circa una ventina) ma di dimensioni medie e grandi rispetto alla Sicilia153. Le miniere del distretto marchigiano-romagnolo furono sempre nelle mani di poche regolari società o di facoltosi industriali che erano in grado di gestirle efficacemente e che disponevano di capitali e capacità tecniche. Non a caso infatti queste miniere furono sempre le prime in Italia ad applicare ogni innovazione in campo tecnico e meccanico. In Sicilia, invece, fu molto più lento il diffondersi di progressi tecnici nelle miniere di zolfo per varie circostanze come la scarsità di vie di comunicazione e di energia elettrica ma soprattutto perché in molti casi più che ad una vera industria mineraria ci si trovava di fronte ad un artigianato minerario con conseguenti effetti deleteri sia sulla organizzazione tecnica delle miniere che sulle condizioni di lavoro e di vita della manodopera. L’operaio delle miniere siciliane aveva un salario che spesso non bastava ai bisogni della famiglia. Queste miniere furono tristemente famose per la terribile piaga del “trasporto a spalla” del minerale al quale venivano adibiti ragazzi in tenera età. Da un rapporto del 1894 dell’ispettore delle miniere Mazzuoli154 si apprende che l’età minima dei trasportatori, detti “carusi”, prima della legge155 del 1886 era di 7 ed anche 6 anni. Il lavoro disumano al quale erano sottoposti questi fanciulli consisteva nel trasportare a spalla il minerale dall’interno 153 Nel distretto marchigiano-romagnolo quasi sempre un intero giacimento veniva sfruttato da una sola miniera o da un gruppo di miniere gestite da un’unica società mentre in Sicilia uno stesso giacimento era sfruttato da numerose miniere gestite da altrettanti numerosi proprietari e gabellotti. 154 Cfr., L. Mazzuoli, Notizie e studi sulle condizioni dell’industria dello zolfo in Sicilia, Ministero di Agricoltura Industria e Commercio (a cura di), Roma, 1894, pp. 81,82. 155 La legge Grimaldi del 11 febbraio 1886 n°3657 sul lavoro dei fanciulli vietava l’ammissione al lavoro negli opifici industriali, nelle cave e miniere, dei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso minori degli anni 9 compiuti o dei 10 nel caso di lavori sotterranei. I fanciulli dagli anni 9 ai 15 non potevano essere impiegati in tali lavori se non quando risultasse da certificato medico che essi erano sani ed adatti al lavoro cui venivano destinati. Nei lavori pericolosi ed insalubri non potevano impiegarsi fanciulli dell’uno e dell’altro sesso al disotto del quindicesimo anno d’età se non entro certi limiti e con determinate cautele. I fanciulli tra il nono e il decimo anno non potevano essere impiegati, in una giornata, che per otto ore di lavoro. Cfr., Veridicus, Il trasporto a spalla e l’occupazione di manodopera minorile nelle zolfare siciliane, in «L’Industria mineraria», giugno 1952, p. 218. 75 all’esterno della miniera. Percorrevano le strette e basse gallerie, scavate a scalini alti, con pendenze talora ripidissime. Dalle profonde gallerie, dove il caldo era umido e opprimente, uscivano all’aperto nudi, ad una temperatura assai inferiore a quella dell’interno, ansanti e pieni di sudore. Passati poi, bruscamente e in tutte le stagioni, all’esterno dovevano rimanerci per un certo tempo perché dovevano percorrere dei lunghi tratti prima di giungere nel luogo designato per il deposito e l’accatastamento del minerale. Il carico che erano obbligati a trasportare variava naturalmente a seconda dell’età e della forza del fanciullo ma era in media (dai 30 ai 50 chili) non inferiore a quello del suo corpo. Difficilmente un ragazzo sottoposto a tali pesanti lavori cresceva di sana costituzione, più spesso il loro corpo presentava gravi deformazioni scheletriche, la spina dorsale era irrimediabilmente curvata ed era molto diffuso il rachitismo156. Il caruso non aveva rapporti di lavoro con il coltivatore della miniera ma soltanto con il “picconiere” (termine siciliano per indicare il minatore) che lo reclutava. Bisogna aggiungere che le condizioni del picconiere erano tutt’altro che brillanti, egli seppure lavorava a cottimo e quindi con una certa autonomia faticava sodo per otto, dieci ore e più, con un guadagno piuttosto modesto e non si trovava certo in condizione di essere generoso con i carusi. I picconieri li assumevano sotto la loro direzione pagando ai loro genitori una somma anticipata (i cosiddetti “soccorsi”). Si trattava di una vera e propria schiavitù economica: i carusi non potevano più lasciare i picconieri che li avevano ingaggiati prima di aver saldato il debito contratto. Si stabiliva così fra il “datore” di lavoro ed il ragazzo una dipendenza da cui quest’ultimo difficilmente riusciva a svincolarsi, non essendo la famiglia in grado di restituire l’anticipo ricevuto. Sotto l’aspetto umanitario le condizioni di lavoro dei carusi si protrattesero inalterate per le miniere sprovviste di estrazione meccanica fino ai primi decenni di questo secolo. 156 Prova manifesta di ciò offriva le statistiche della leva dalle quali si rileva che in alcune provincie dove esistevano molte miniere (come a Caltanissetta), i riformati per imperfetto sviluppo, per anemia, per deformazioni permanenti del torace e delle vertebre e per altre deformazioni scheletriche, superavano ¼ dei visitati. Cfr., E. Camerana, Studio sulle condizioni di sicurezza delle miniere e delle cave in Italia, Corpo Reale delle Miniere (a cura di), Roma, 1894, pp. 42,48. 76 Nonostante le acerbe critiche anche dall’estero, le autorità non seppero impedire questa specie di tratta. Non mancarono gli interventi governativi ma le leggi sul lavoro dei fanciulli non furono mai sufficientemente osservate. Le poche ispezioni risultavano spesso infruttuose per la solidarietà che si creava tra tutti gli interessati : esercenti, picconieri, carusi e loro famiglie. La spiegazione di questo triste fenomeno va ricercata nello stato di miseria delle famiglie contadine ed operaie delle zone centrali dell’isola, nelle condizioni economiche degli esercenti e di conseguenza nelle condizioni tecniche dell’industria. Quest’ultima per il frazionamento della proprietà mineraria e per il modo di lavorazione non poteva permettersi, per ogni miniera, un impianto meccanico157. A partire dal 1926 l’energia elettrica si diffuse rapidamente in molte miniere siciliane e si può ritenere che nel 1935 quasi tutti gli impianti minerari fossero già elettrificati158 di modo che i carusi andarono man mano scomparendo. Soltanto pochissime miniere e molte ricerche minerarie a carattere artigianale, ubicate a notevole distanza dalle reti di distribuzione dell’energia elettrica e non disponendo gli operatori di mezzi finanziari idonei per l’allacciamento, continuarono fino agli anni ’50 a praticare il barbaro trasporto a spalla. Però l’età dei carusi era stata notevolmente aumentata e portata a 16 anni159. Per le Marche e per la Romagna non si hanno notizie di un simile procedimento, nemmeno nelle lavorazioni antiche. Quando non esisteva la macchina a vapore, che comunque fu 157 Sebbene fosse stato calcolato che, per una profondità di un centinaio di metri, il costo del trasporto a spalla era circa doppio di quello che sarebbe risultato con l’estrazione meccanica. 158 Mentre nel 1920 lo zolfo mediante estrazione meccanica era pari al 72% del totale, nel 1935 ammontava al 96%. L’attività dell’Ente autonomo per il progresso tecnico ed economico dell’industria solfifera siciliana, istituito nel 1919, venne inizialmente rivolta specialmente ad agevolare attuazione dell’elettrificazione dei servizi delle miniere di zolfo. Dopo lunghi studi condotti insieme alla Società generale elettrica della Sicilia per valutare la convenienza degli esercenti a procedere all’elettrificazione, nel 1926 venne stipulata una convenzione con la quale l’Ente contribuiva all’impianto della rete con un versamento di 8 milioni. Nel 1931 ebbe inizio l’erogazione di energia elettrica alle miniere di zolfo ai termini della accennata convenzione. Cfr., F. Squarzina, Istituzioni per il miglioramento tecnico ed economico dell’industria solfifera, in “L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, febbraio 1941, a. XIX, p. 63. 159 Si ricorda che con legge 19 giugno 1902 n° 242 venne portata agli anni 12 l’età minima per l’ammissione dei fanciulli (ambo i sessi) ai lavori non sotterranei, mentre vennero esclusi dai lavori sotterranei i fanciulli di età inferiore ai 13 anni (inferiore ai 14 ove non esistesse trazione meccanica). Con la legge 26 aprile 1934 n° 653 si stabiliva poi il divieto di adibire minori di 16 anni nei lavori sotterranei. Cfr., Veridicus, art. cit, p.218. 77 introdotta nella miniera di Perticara già nel 1848, venivano usate carriole, vagoncini su binari di legno e traini animali160. Nelle varie regioni solfifere italiane il commercio dello zolfo ha avuto sempre un andamento e caratteristiche molto difformi. Il commercio dello zolfo delle Marche e della Romagna, sia per il metalloide esportato all’estero (Olanda, Inghilterra e Francia) che per quello destinato ad altre regioni italiane ( soprattutto Toscana, Lombardia, Piemonte) già nel secolo XIX era nelle mani dei produttori. Questi ultimi, nella seconda metà del secolo scorso erano costituiti da poche ditte esercenti l’industria dell’estrazione e della lavorazione dello zolfo, che collocavano la maggior parte del loro prodotto solo dopo la raffinazione e quasi esclusivamente per usi agricoli. Tale caratteristica si è poi accentuata dal 1904, quando la produzione e la lavorazione dello zolfo passò sotto la gestione di una sola società. In Sicilia invece, il commercio dello zolfo costituì sempre un’attività nettamente distinta da quella industriale. I produttori non provvidero mai, se non eccezionalmente, a stabilire rapporti diretti con i consumatori e a lavorare o far lavorare direttamente il loro prodotto. Non bisogna dimenticare che i numerosi piccoli produttori, fino agli ultimi anni del secolo scorso, fornivano all’incirca l’80% della produzione dell’isola161. Per la limitata singola quantità prodotta, gli esercenti non erano in grado di attuare il commercio dello zolfo, destinato ad industrie consumatrici situate per la quasi totalità all’estero. Tra i produttori e i consumatori esistevano tre principali categorie di intermediari: sensali, magazzinieri-commercianti ed esportatori162. I sensali curavano i rapporti tra i produttori residenti nel centro dell’isola e i magazzinieri e gli esportatori che avevano i loro depositi in prossimità dei porti. I magazzinieri-commercianti oltre ad occuparsi del magazzino apparivano come commercianti di zolfo sul mercato. Il commercio di esportazione veniva effettuato da alcune ditte straniere e da poche grandi imprese 160 Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia Romagna, op. cit., p. 41. Cfr., F. Squarzina, Custodia e classificazione degli zolfi grezzi italiani, in “L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, giugno 1941, a. XIX, p.204. 162 Cfr., L. Delabretoigne, Brevi cenni sulla storia e sulle condizioni del commercio solfifero in Sicilia, in L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925, pp. 328-333. 78 161 esportatrici con sede prevalentemente a Messina e Catania. Disponevano di adeguati mezzi finanziari e compravano e vendevano zolfo per proprio conto. Gli esportatori, essendo in numero molto limitato, abusavano della loro posizione praticando ai produttori prezzi notevolmente inferiori a quelli quotati giocando spesso al ribasso, assecondati dai magazzinieri. Questi avevano interesse a mantenere bassi i prezzi perché, tra le varie attività svolgevano anche quella di usurai nei confronti dei gabellotti facendo loro anticipazioni a tassi elevatissimi. Anche il sistema degli affitti a breve scadenza era causa dell’instabilità dei prezzi. In periodi di minore domanda l’affittuario a breve scadenza (gabellotto) non poteva rallentare la produzione, avendo interesse a produrre la maggior quantità possibile di zolfo e necessità di collocare, per mancanza di capitali, immediatamente il suo prodotto. Proprietari e gabellotti preferivano quindi vendere a basso prezzo, piuttosto che pagare alti interessi sopra i capitali avuti in anticipo. Nel ventennio 1874-1895, nonostante la produzione e esportazione siciliana aumentassero notevolmente, i prezzi subirono frequenti e notevoli oscillazioni (da 142 lire a 55,75 lire la tonnellate) dovute alle peculiari condizioni in cui si svolgevano nell’isola la produzione e il commercio di zolfo163. Vari rimedi vennero proposti per regolare e migliorare l’organizzazione commerciale ma risultarono inefficaci a causa dell’ostacolo insormontabile costituito dalla fitta rete di interessi creatasi da tempo attorno agli intermediari che, come si è visto, erano stretti da vincoli di affari con i produttori164 . Una certa disciplina delle vendite si ebbe nel 1896 con la costituzione della Società anonima, Anglo-Sicilian Sulphur Company, che per un decennio accentrò nelle proprie mani gran parte della produzione dell’isola. Tale esperimento di controllo della produzione e del commercio dello zolfo si 163 Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, art. cit., p. 24. “nell’industria dello zolfo prima nasce l’acconto e poi la merce. Senza l’acconto non si lavorerebbe nelle solfare”, G. Pagano, La crisi solfifera in Sicilia, 1895, p. 72. 79 164 dovette all’iniziativa di un gruppo di industriali inglesi165 e alla ditta siciliana Florio (una delle poche che oltre ad essere proprietaria ed esercente di miniere era anche esportatrice). La Società, avendo stipulato contratti con il 65% dei produttori dell’isola che si obbligavano a venderle zolfo a prezzi prefissati, riuscì a mantenere per un decennio i prezzi ad un livello costante e abbastanza remunerativo (circa 96 lire la tonnellate). A ciò aveva contribuito anche il governo che, nel 1896, per consentire alla Società di corrispondere ai produttori un maggior prezzo, abolì il dazio di esportazione di 11 lire la tonnellate e abolì pure tutte le tasse dirette e indirette governative e comunali sulla produzione e il commercio dello zolfo, istituendo in loro sostituzione una tassa speciale di 1 lira per tonnellate di zolfo esportato166. Se il successo dell’Anglo-Sicula fu innegabile167 tuttavia non poté impedire la formazione di elevate giacenze. La Società infatti non riuscì a limitare la produzione poiché qualunque riduzione della parte controllata (65%) sarebbe stata compensata dalla maggiore produzione della parte non controllata. L’Anglo-Sicula era stata costretta ad accantonare parte dello zolfo da essa acquistato e che non poteva essere offerto senza provocare un abbassamento dei prezzi e, a lungo termine, il fallimento dell’impresa dato che la produzione superava largamente l’esportazione. Tali elevate giacenze (anche nei magazzini dei produttori non vincolati alla Società) costituivano una seria minaccia all’avvenire dell’industria solfifera, ancora ben lontana dall’aver raggiunto un assetto economico ed un progresso tecnico soddisfacenti, mentre si profilava la minaccia della perdita del mercato degli Stati Uniti, cioè dello sbocco 165 Alcuni industriali inglesi avevano scoperto un processo per estrarre lo zolfo dai residui della fabbricazione della soda. Tale processo, oggi di nessuna importanza, fu posto in pratica e favorito dal rialzo dei prezzi dello zolfo nel 1890 procurando un notevole successo economico. Ma il successivo ribasso dei prezzi rendeva proibitiva l’applicazione del nuovo processo per cui questi avevano tutto l’interesse a valorizzare gli zolfi siciliani. Cfr., F. Squarzina, Produzione e commercio dello zolfo in Sicilia nel secolo XIX, Torino, 1963, p. 94. 166 E’ necessario specificare che provvedimento governativo del 1896 era valido esclusivamente per la Sicilia. Solo con R.D. 28-1-1906 il regime di tassa unica di £. 1 fu esteso in tutta Italia ponendo così rimedio allo spareggio tributario che aveva sicuramente facilitato la Sicilia rispetto al distretto marchigiano-romagnolo. 167 Nel suo periodo di attività (1896-1906) l’industria solfifera siciliana raggiunse la sua massima efficienza produttiva. Il numero delle solfare attive, dalla media annua di 479 nel decennio 1887-96, si elevò a 711 nel periodo 1897-1907. La produzione da 350000 a 508000 tonnellate con un massimo di oltre 537000 nel 1901. L’esportazione di zolfo grezzo e lavorato da 354000 a 475000 tonnellate con un massimo di 560000 tonnellate nel 1900. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio “Relazione sul Servizio Minerario”, per gli anni considerati. 80 di gran lunga più importante per lo zolfo siciliano. Tutto ciò indusse i produttori a chiedere al governo l’istituzione di un consorzio obbligatorio per la totalità dei proprietari ed esercenti di solfare. L’Anglo-Sicula fu posta in liquidazione e il governo, con legge 15 luglio 1906, istituì il Consorzio Obbligatorio Solfifero Siciliano con il quale cessò il regime di libertà delle vendite dello zolfo grezzo. Il Consorzio nacque fra il consenso generale non solo dei produttori e degli esercenti ma anche dei lavoratori, i quali speravano che la disciplina totalitaria delle vendite avrebbe consentito un miglioramento dei ricavi e quindi anche dei salari. Tuttavia il provvedimento legislativo venne approvato con grandi esitazioni sia per la sua importanza che per il suo carattere eccezionale e senza precedenti legislativi. Lo scopo del Consorzio, come quello dei cartelli in generale, era di mantenere un prezzo “normale” dello zolfo e di combattere la sovrapproduzione. Ma a differenza dei cartelli nati dalla libera volontà dei produttori, il Consorzio Siciliano fu imposto dallo Stato168. La legge istitutiva del Consorzio infatti stabiliva che i proprietari o possessori e gli esercenti delle solfare presenti e future erano costituiti di diritto in consorzio. Solo ad esso spettava il diritto di vendita e la facoltà di limitare la produzione. Ciò significava andare contro il diritto di disporre della cosa propria ma veniva giustificato con il principio che il diritto privato doveva sottostare alle esigenze della pubblica utilità169. L’attività del Consorzio (1906-1932) nel complesso aveva avuto effetti positivi sull’industria solfifera siciliana. Innanzitutto permise di adeguare la produzione alle possibilità di assorbimento del mercato (per mezzo delle limitazioni) e rese possibile lo smaltimento degli stock, ereditati dall’Anglo-Sicula, senza ribassi e crisi. Inoltre stabilì accordi con i produttori statunitensi. Infine rese possibile il finanziamento all’industria solfifera all’infuori dell’usura. Vennero infatti stabilite speciali disposizioni per facilitare il 168 I corpi amministrativi del consorzio erano il consiglio di amministrazione, a cui erano conferiti i poteri dell’assemblea generale, e il comitato dei delegati. Alcuni membri del consiglio e del comitato erano nominati dal Ministro dell’Agricoltura, dal Banco di Sicilia e dalle quattro Camere di Commercio delle provincie solfifere. Gli altri componenti erano eletti dai consorziati. Il direttore generale del consorzio, presidente del consiglio di amministrazione, era nominato e revocato dal governo. Gli atti dell’amministrazione consortile erano sottoposti all’approvazione governativa. Il consorzio era sotto la vigilanza del Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio e del Ministero del Tesoro. Cfr., Legge 30 giugno 1910, n°361, D.L. 11 gennaio 1923 n°202. 169 Cfr., Atti parlamentari, Senato e Camera Deputati, Leg. XXII, doc. 311-A. 81 credito da parte del Banco di Sicilia e furono conferiti due milioni a fondo perduto per la costituzione di una Banca autonoma di credito minerario per la Sicilia che facesse anticipazioni ai produttori con un tasso di interesse non superiore al 5%170 Fino alla Prima Guerra Mondiale le vendite e le esportazioni effettuate dal Consorzio si mantennero a livelli elevati. Nell’esercizio 1909-10 le vendite salirono a 410000 tonnellate, in quello successivo balzarono a 817000 tonnellate mentre nel 1911-12 segnarono la pur sempre rilevante cifra di 603000 tonnellate .Lo stock di zolfo che ancora nel 1910 superava largamente il mezzo milione di tonnellate , allo scoppio della guerra si era ridotto a 263000 tonnellate. Le esportazioni si mantennero elevate e nel triennio 1911-1913 sorpassarono la produzione. La perdita del grande mercato dell’America del Nord venne parzialmente compensata dall’aumento di 500000 tonnellate in media annua, dal 1907 al 1913, verificatosi nel consumo di quella parte di mercato internazionale che, per gli accordi con i produttori americani, era riservato allo zolfo italiano. Aumentarono anche le esportazioni verso la Francia (per la prosperità sopravvenuta in quegli anni nell’industria vinicola) e verso quelle Nazioni che impiegavano zolfo esclusivamente a scopi industriali (Austria, Russia, Norvegia e Svezia). Nel 1916 le esportazioni erano dirette soprattutto in Francia, Inghilterra e Russia dovuta al maggior impiego di zolfo per usi bellici, oltre che in Australia, Algeria, Tunisia, Sud Africa e altri Paesi. La produzione invece registrò un progressivo calo causato soprattutto dalla mancanza di mano d’opera sia per il conflitto bellico, ma anche per l’emigrazione prevalentemente transoceanica e perciò di carattere permanente. Si pensi che fino al 1913, in soli 10 anni, il numero di operai occupati fu più che dimezzato. Nel 1920 i mercati extra europei passarono sotto il dominio della concorrenza americana e nel 1921 anche i principali e tradizionali paesi consumatori di zolfo vennero sottratti alla Sicilia. Per cui nel 1922 la Sicilia si trovò in uno stato di profonda depressione dovuta anche alle serrate delle miniere, ai frequenti e lunghi scioperi e allo squilibrio tra costi e ricavi. 170 Cfr., L. Valenti, op. cit., p.163. 82 Nonostante i nuovi accordi con i produttori americani la tendenza della produzione fu alla diminuzione e si mantenne tale fino al 1926. L’intima debolezza dell’industria che aveva impedito in passato un decisivo miglioramento dell’organizzazione delle miniere, si era accentuata nel periodo post bellico per lo sfavorevole rapporto tra costi e ricavi. Infatti nel 1925 mentre i ricavi erano quadruplicati rispetto al 1913, i salari erano quintuplicati, il costo delle assicurazioni sociali enormemente accresciuto, i prezzi dei materiali e del combustibile aumentati di dieci volte. La rivalutazione della lira del 1926 (“quota 90”) si ripercosse gravemente sui ricavi dell’industria solfifera siciliana, la quale collocava all’estero gli 8/10 della sua produzione171. Il governo favorì la riduzione delle retribuzioni dei lavoratori, dispose la riduzione degli “estagli”, dei contributi per la previdenza sociale, delle tariffe ferroviarie; i prezzi dei materiali discesero notevolmente, ma la riduzione dei costi non riuscì a compensare la diminuzione dei ricavi. Comunque l’industria solfifera siciliana riuscì a fronteggiare la nuova crisi soprattutto grazie alla sezione di credito minerario del Banco di Sicilia, dotata di maggiori mezzi172 per cui dal 1927 fino al 1931 la tendenza alla produzione fu all’aumento. Una nuova e grave crisi colpì questo settore nei primi anni ’30 in conseguenza della recessione dei consumi mondiali e della progressiva svalutazione del dollaro173. Fallito anche l’accordo con i produttori statunitensi il governo decise lo scioglimento e la messa in liquidazione del Consorzio (R.D.L. 20 luglio 1932 n°945) e quindi i produttori siciliani ripresero piena libertà di commercio. Tale stato di cose durò poco più di un anno dopo di che fu la maggioranza degli stessi produttori siciliani a chiedere nuovamente l’intervento del governo174. 171 Il cambio medio del dollaro che nel 1926 era stato di 25,72 lire discese a 19,71 lire nel 1927 e nel triennio successivo fu in media di 19,07 lire. 172 Cfr., R.D.L. 25 marzo 1927, n°432. 173 Il cambio medio del dollaro nel 1932 era di 19,46 lire mentre quello del 1934 di 11,69 lire. 174 Dei circa 130 produttori siciliani 120 erano piccoli industriali, prevalentemente a carattere artigiano che incontravano gravi difficoltà per collocare il prodotto. Cfr., C. Faina, Il commercio degli zolfi italiani, in “L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, maggio 1939, p. 214. 83 Fino a quell’epoca lo Stato aveva seguito direttamente l’evoluzione tecnica, economica e commerciale della Sicilia con interventi di assistenza e di organizzazione della vita di quell’industria. Interventi ed assistenza che ebbero forme concrete attraverso il Consorzio Obbligatorio e relative iniziative di assestamento come: rilievi di stock, anticipi, sovvenzioni e facilitazioni per l’elettrificazione. L’industria solfifera continentale, al contrario, aveva fondato la sua evoluzione e svolto il suo programma con mezzi propri e senza alcun ricorso all’intervento statale175. Dal 1933 con la costituzione dell’Ufficio per la Vendita dello Zolfo Italiano e poi nel 1940 con l’Ente Zolfi Italiani, lo Stato intervenne direttamente anche nell’industria solfifera continentale. Infatti tutto lo zolfo estratto dalle miniere italiane doveva essere consegnato all’Ente di diritto pubblico che provvedeva a collocarlo sia sul mercato interno che in quello estero con propria e diretta organizzazione. Si comprende quindi che di vera e propria concorrenza tra distretto marchigiano-romagnolo e Sicilia si possa parlare solo fino al 1933. Come si è visto, l’area solfifera marchigiano-romagnola presentava sicuramente numerosi vantaggi: dimensione media e grande delle miniere, migliori vie di comunicazione, l’esistenza di ditte esercenti con disponibilità di capitale e capacità imprenditoriali che permettevano una migliore organizzazione tecnica e lavorativa nelle miniere176. Inoltre erano perfettamente in grado di collocare nel mercato i loro prodotti e di coordinare l’industria estrattiva con quella delle lavorazioni. In Sicilia, però, i giacimenti di zolfo, oltre ad essere più numerosi, presentavano più ricchi strati di minerale e soprattutto si trovavano ad una profondità molto minore177. La manodopera era sicuramente più a buon mercato per cui gli esercenti realizzavano un miglior prezzo di costo malgrado gli aggravi derivanti dagli “estagli”. Nei primi anni di 175 Cfr., AA.VV., La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell’Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, p. 105. 176 I mezzi finanziari disponibili furono tempestivamente impiegati nella meccanizzazione delle miniere e nello sviluppo di lavori di ricerca e di preparazione, lavori che consentirono il progresso tecnico delle aziende. 177 Di fronte ad un massimo di circa 200 metri di profondità delle miniere siciliane, quelle del distretto marchigianoromagnolo potevano anche ad un massimo di 750 metri come nel caso di Cabernardi ciò implicava maggior costi di produzione. 84 questo secolo era stato calcolato che il costo di produzione dello zolfo grezzo delle miniere del distretto marchigiano-romagnolo implicavano una spesa quasi doppia a quella richiesta in Sicilia178. Non bisogna dimenticare che l’industria solfifera siciliana, per quantitativi di produzione del grezzo, era di gran lunga la più rilevante per l’Italia per cui le miniere continentali, per quanto riguarda la quotazione del prezzo dello zolfo e le sue frequenti oscillazioni, dovevano sottostare alle condizioni imposte dall’isola. Per tutti questi motivi le miniere dell’Italia centrale avevano pochissime possibilità di competere con la Sicilia per il commercio dello zolfo grezzo (per lo meno fino agli anni ’20 quando la Montecatini aveva aperto nuovi sbocchi allo zolfo grezzo sia nel mercato interno, destinandolo ai suoi stabilimenti chimici, sia in quello esterno grazie a particolari accordi stipulati con i raffinatori francesi179). Il loro forte vantaggio competitivo risiedeva nella vendita di prodotti raffinati e “speciali” destinati ad uso agricolo180. Il settore dello zolfo raffinato era stato sempre considerato complementare ed integrativo alla produzione mineraria sia perché concepito come principale fase di sbocco sia perché la conduzione delle raffinerie era nelle mani delle stesse imprese estrattive. In Sicilia l’industria dello zolfo lavorato sorse solo negli ultimi anni del secolo scorso181 e si mantenne sempre separata da quella estrattiva. Negli anni ’20 l’industria della raffinazione, esercitata in Sicilia da un ristretto numero di imprese dotate di adeguati mezzi finanziari, aveva raggiunto un grande sviluppo182. Per il distretto marchigiano-romagnolo non costituì una seria minaccia perché oltre il 70% della produzione dei raffinati siciliani veniva esportata (soprattutto in Grecia, Germania, Austria e Inghilterra) mentre i suoi prodotti 178 Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1902, p. 26. La Francia non disponeva di zolfo grezzo ma aveva un’industria di raffinazione. La Montecatini dal 1927 al ’33 era riuscita (attraverso rilevazioni, partecipazioni maggioritarie ecc.) a disporre di 5 complessi di raffinerie francesi. Tale azione era intesa soprattutto a creare l’assorbimento di zolfo grezzo italiano nel mercato francese fino allora dominato dagli Stati Uniti e lasciato solo marginalmente alla Sicilia. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 150. 180 Come si è visto nel I capitolo i prodotti raffinati e “speciali” riscuotevano un particolare favore presso i consumatori che si traduceva in una notevole differenza di prezzo rispetto allo zolfo grezzo siciliano permettendo quindi ai produttori di poter fissare il prezzo di vendita con una certa indipendenza rispetto alle oscillazioni del valore del grezzo. 181 La prima grande raffineria fu impiantata nel 1878 presso Catania da una società francese. Cfr., M. Gatto, Condizioni tecniche dell’industria solfifera siciliana, in L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925, p. 53. 182 La produzione dei raffinati che fino al 1893 si era mantenuta al disotto del 10% della produzione totale di zolfo, aveva raggiunto il 22% nel 1900 e il 30% nel 1925. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit.,p. 423. 85 179 erano quasi interamente destinati al mercato interno in particolare nelle regioni vinicole della valle del Po e della Toscana. Inoltre la Montecatini aveva provveduto a stabilire accordi, prima, con l’Unione Raffinerie Siciliane e successivamente con la Federazione Opifici Raffinerie di Zolfo e Affini (F.O.R.Z.A.)183. L’industria di raffinazione, sotto la gestione Montecatini, aveva raggiunto un’efficienza strutturale e commerciale tale che nel 1932 partecipava alla produzione nazionale di zolfo raffinato nella misura di circa il 50%184. La situazione subì un notevole peggioramento con l’intervento dello Stato del ’33 e del ’36. Infatti non solo veniva a rompersi il nesso diretto del passaggio della materia prima da miniera a raffineria, dato che tutto lo zolfo grezzo doveva essere consegnato all’Ufficio, ma la materia prima doveva essere acquistata presso l’ente stesso ad un prezzo superiore a quello che l’Ufficio pagava ai produttori. La nuova disciplina della produzione nel mercato dello zolfo grezzo portò anche allo scioglimento della F.O.R.Z.A. e quindi alla rottura dell’equilibrio interno di concorrenza. A causa del grande divario venutosi a creare tra capacità produttiva degli impianti di raffinazione e possibilità di collocamento dello zolfo raffinato, l’approvvigionamento di zolfo grezzo agli stabilimenti di lavorazione venne limitato e regolato nel 1936185. Di conseguenza i produttori di zolfo raffinato furono costretti a sospendere l’attività di un notevole numero di impianti e a ridurre i quantitativi di lavorazione e di vendita. 2.4.2 Le miniere di zolfo dell’Irpinia e della Calabria 183 Nell’intento di eliminare la concorrenza tra loro, i raffinatori siciliani avevano costituito la Unione Raffinerie Siciliane già dal 1913 e successivamente (dopo la I Guerra Mondiale) si erano riuniti in una società anonima denominata F.O.R.Z.A. che accentrò la lavorazione del grezzo e la vendita dei lavorati. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit.,p. 424. 184 Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 139. 185 I quantitativi di zolfo grezzo che l’Ufficio cedeva agli stabilimenti suddetti non doveva superare, per ogni esercizio, la quantità media che l’Ufficio aveva consegnato a ciascun stabilimento nei 3 esercizi dal 1933 al 1936. Si veda R.D.L. 15 ottobre 1936 n°1937. 86 I giacimenti solfiferi del distretto di Napoli erano concentrati in Irpinia (provincia di Avellino) e in Calabria (provincia di Catanzaro). L’estrazione di zolfo in quest’area assunse un’importanza tale da guadagnare il primo posto nella produzione mineraria del Mezzogiorno (esclusa ovviamente la Sicilia)186. Nonostante ciò la produzione di zolfo fuso del distretto di Napoli (Irpinia e Calabria) costituiva solo una piccola percentuale dell’intera produzione nazionale. Basti pensare che la loro produzione di zolfo fuso raggiunse il suo massimo nel 1941 (allorché la provincia di Avellino diede circa 9767 tonnellate e quella di Catanzaro 2531 tonnellate) pari in totale al 4,1% della produzione nazionale. Irpinia La scoperta dei giacimenti solfiferi dell’Irpinia (nella valle del Sabbato, nel tratto tra Tufo e Altavilla Irpina) risalgono al 1866, quando Di Marzo, uno dei proprietari terrieri del luogo, intraprese alcuni lavori di esplorazione. Visti i favorevoli risultati raggiunti da Di Marzo, i proprietari dei terreni limitrofi (Capone, Sillitti e D’Agostino) seguirono il suo esempio e avendo rinvenuto zolfo nel sottosuolo delle loro proprietà si costituirono in società. Successivamente, nella stessa zona, sorse una terza miniera appartenente a Zampari, ex ingegnere del Corpo delle miniere, il quale per avere più larghe disponibilità finanziarie costituì la Società Francesco Zampari e C. Mentre i Di Marzo continuarono a gestire separatamente la propria miniera, le altre due società, nel 1877, si fusero assumendo prima la denominazione di consorzio delle Miniere Solfifere di Altavilla Irpina e più tardi quella di Credito Immobiliare. Riunirono le contigue escavazioni formando un’unica miniera. La direzione tecnica dei lavori venne affidata all’ing. Zampari al quale si deve l’ideazione e l’attuazione nell’Irpinia dell’estrazione meccanica del minerale e delle acque. Il numero degli operai che nel 1878 lavoravano per conto del Consorzio era di 251, dei quali 184 addetti ai lavori della miniera e i rimanenti 67 adibiti al trasporto ai mulini e alla macinazione. 186 Cfr., Felice Ippolito, L’industria estrattiva nel Mezzogiorno, in «L’Industria mineraria», luglio 1950, p. 236. 87 Nella miniera Di Marzo, attorno alla stessa epoca, lavoravano in media 56 operai adibiti esclusivamente ai lavori interni poiché gli altri servizi erano stati dati in appalto. In entrambe le miniere si lavorava per 300 giornate all’anno e con un orario di lavoro giornaliero di 10 ore187. Nel 1899 entrò in esercizio una nuova miniera gestita dalla ditta Capone, la quale ebbe vita autonoma fino al 1919 quando si fuse con la Società di Credito Immobiliare, sotto la denominazione di Società Autonoma Industria Mineraria (S.A.I.M.). Nelle miniere dell’Irpinia restarono quindi in attività due ditte che sfruttavano il giacimento solfifero della vallata del Sabbato e cioè la S.A.I.M. e la Società anonima miniere Di Marzo. La Di Marzo si era dedicata esclusivamente alla estrazione di minerale di zolfo che, successivamente era posto in commercio macinato e ventilato per usi viticoli del Meridione. Il minerale di zolfo estratto dalla S.A.I.M., in parte veniva macinato allo stato naturale e messo in vendita con il nome di zolfo ventilato e in parte mandato ai forni fusori ottenendo zolfo fuso in pani, il quale a sua volta parzialmente si vendeva in tale stato e parzialmente passava ai forni di purificazione, producendo così zolfo doppio raffinato e purificato188. Sia la S.A.I.M. che la Di Marzo ebbero una produzione ininterrotta dalla loro fondazione fino agli anni ’60 e furono in grado di riprendere prontamente l’attività dopo i gravi danni subiti, soprattutto agli impianti esterni, dalle truppe tedesche in ritirata. Tuttavia il sistema di coltivazione delle miniere fu per lungo tempo irrazionale. Le lavorazioni non avendo per oggetto un prestabilito piano di coltivazione furono ben lontane dall’offrire quell’insieme di regolarità e coordinamento indispensabile per assumere un proficuo e duraturo sfruttamento. Negli anni ’20 cominciarono gradualmente ad essere introdotti sistemi di coltivazione e lavorazione più razionali. L’abbattimento del minerale si operò fino al 1927 con l’aiuto di mine, in fori praticati a mano, a partire da tale anno venne introdotta la perforazione meccanica. Continui miglioramenti vennero apportati anche alle 187 188 Cfr., Le miniere di zolfo dell’Irpinia, in «L’Industria mineraria», gennaio 1963, p. 25. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit., p. 427. 88 attrezzature interne ed esterne raggiungendo un buon livello già alla fine degli anni ’30. In quel periodo il personale occupato all’interno delle miniere risultava essere di circa 250 addetti che lavoravano 8 ore al giorno divisi in 3 turni189. Tra i progressi in campo minerario si devono ricordare quelli apportati da Fiorentini (18731938), un tecnico romagnolo che contribuì alla valorizzazione delle miniere di zolfo in Irpinia. Il Fiorentini, fino al 1919, fu direttore tecnico della miniera della ditta Capone nella quale già nel 1906 introdusse una sua importante innovazione tecnica istallando degli apparecchi di lavaggio detti poi “lavaggi Fiorentini”190. Nel rapporto del Distretto Minerario di Napoli del 1915 viene riferito che gli effetti ottenuti dal metodo Fiorentini superavano ogni aspettativa poiché oltre ad evitare danni all'agricoltura si aveva il vantaggio di aumentare la produzione di zolfo (dato che il sistema permetteva di recuperare lo zolfo condensato che si formava nel tratto tra i forni e l'apparecchio di lavaggio191). L’andamento della produzione sino alla Seconda Guerra Mondiale fu alquanto irregolare in dipendenza del fatto che la produzione del minerale fu fortemente influenzata dalle condizioni generali del mercato e dalla produzione delle miniere siciliane. Mentre variazioni annuali di minore entità erano da attribuirsi a incidenti locali. Tabella 2.3 Produzione di zolfo dell’Irpinia. Fonte: L’industria mineraria, gennaio 1963, p. 26. 189 Cfr., L. Maggiore, Le miniere di solfo dell’Irpinia, in “L’industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, agosto 1937, p.267. 190 In Irpinia, come nel resto d’Italia, per separare lo zolfo estratto dal sottosuolo dalla ganga (roccia sterile) che lo contiene venivano usati appositi forni fusori, i calcaroni e forni Gill. Entrambi presentavano il grave inconveniente, durante la fusione, di sprigionare e liberare nell'atmosfera una forte quantità di anidride solforosa, gas molto deleterio per l'agricoltura. Per cui in tutte le miniere di zolfo d'Italia gli esercenti erano costretti a dover risarcire i danni provocati all'agricoltura. Proprio per evitare tali danni il Fiorentini aveva messo a punto un dispositivo mediante il quale il gas solforoso dei forni veniva aspirato da tre ventilatori e fatto disciogliere nell'acqua fredda avvalendosi di un canale derivato dal fiume Sabbato. 191 Lo zolfo di recupero, che rappresentava il 5% dello zolfo totale prodotto dai forni era di elevata purezza per cui veniva raccolto in fornelle e messo in commercio. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1917, pp. 176-179. 89 Anni Zolfo fuso tonnellate Zolfo macinato tonnellate 1934 1935 1936-40 1941-45 1946-50 1951-55 1956-60 1961 4370 4600 7436 7364 9156 9584 6641 4991 22170 19039 18730 27032 17590 23801 20972 17849 La massima produzione di zolfo fuso si ebbe nel 1951 con 10660 tonnellate mentre quelle di minerale di zolfo macinato nel 1944 con oltre 32000 tonnellate . Calabria Le prime ricerche furono effettuate nel territorio di Strongoli (Catanzaro) al principio del secolo XIX. Altri lavori di una qualche intensità furono intrapresi attorno al 1848 nel territorio del Comune di Melissa (Catanzaro) anche se si può parlare di una vera e propria estrazione di zolfo solo a partire dal 1880192. In Calabria le difficoltà inizialmente incontrate per la messa in valore dei giacimenti solfiferi furono pressoché identiche a quelle della Sicilia: mancanza assoluta di viabilità, di abitazioni, di acqua, di energia elettrica, manodopera scarsamente qualificata priva della più elementare assistenza. Anche qui le prime ricerche si dovettero a gruppi di operai che, previ accordi con i proprietari del terreno, iniziarono le ricerche agevolati dal fatto che in molte località i giacimenti erano affioranti. La scarsità di mezzi finanziari costrinse ben presto questi modesti esercenti a rivolgersi ai cosiddetti “sborsanti” i quali provvedevano a fornirli dei fondi occorrenti e che a poco a poco subentravano alle singole iniziative trattando direttamente con i proprietari del suolo, occupandosi della vendita dello zolfo, anticipando le paghe agli operai. A questi era lasciata completamente la conduzione dei lavori che procedevano sempre più caotici e malsicuri, con pregiudizio per l’integrità e la sicurezza del 192 Cfr., A. Scicli, I giacimenti solfiferi della Calabria, Bologna, 1955, p. 20. 90 giacimento, non avendo i coltivatori altra preoccupazione che quella di trarre il maggior utile immediato possibile con la minima spesa. Per tutte queste gravi difficoltà l’industria non riuscì ad espandersi e ad affermarsi economicamente. La più importante miniera di zolfo della Calabria era quella di Comero, scoperta nel 1888. Dopo soli 10 anni la produzione aveva raggiunto le 3560 tonnellate di zolfo grezzo con l’impiego di 183 operai che l’anno successivo aumentarono a 270 193 . Ma a causa della cattiva conduzione dei lavori la produzione subì frequenti crisi. Nel 1891 si verificò il crollo generale del sotterraneo e nel 1820 ogni attività fu sospesa a causa di un secondo crollo. Si può dire che il disordine nella coltivazione si protrasse fino al 1949 quando la miniera venne ceduta ad una società formata da un gruppo di tecnici e finanziatori siciliani. Sotto la loro gestione la miniera fu posta in condizioni di fornire un’adeguata produzione che, dopo pochi anni di esercizio, oltrepassò (nel 1954) le 4000 tonnellate con l’impiego di 200 operai. Ma ormai l’industria solfifera italiana si trovava in uno stato di crisi irreversibile. La produzione delle miniere calabresi fu sempre relativamente esigua come riportato nella seguente tabella: Periodi 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50 1951-54 Tonnellate 8083 5206 4762 3617 1437 2335 1421 23568 2.5 IL CONTESTO INTERNAZIONALE 193 Cfr., Le miniere di zolfo della Calabria, in «L’Industria mineraria», gennaio 1963, p. 23. 91 Lo zolfo, conosciuto ed utilizzato da tempi remoti, acquistò nell’800 e durante questo secolo un importanza sempre maggiore. Oltre all’utilizzo in agricoltura era entrato in numerosissimi processi di fabbricazione diventando uno dei principali minerali per uso industriale. Di fronte all’enorme crescita della domanda mondiale di zolfo, la produzione passò dalle 580000 tonnellate del 1900 alle 15 milioni di tonnellate nel 1957. Fino ai primi anni di questo secolo la Sicilia mantenne il predominio assoluto della produzione ed esportazione per cui l’Italia produceva circa l’80% dello zolfo mondiale. Modeste produzioni provenivano da Spagna, Francia, Austria, Germania, Cile ecc. (qualche migliaio di tonnellate ciascuno) mentre il Giappone (con le sue 15-20 mila tonnellate) seppur ad una certa distanza veniva subito dopo l’Italia. Gli Stati Uniti però, fino ad allora grandi consumatori di zolfo, avevano scoperto importanti giacimenti nel Golfo del Messico. L’industria solfifera americana si sviluppò rapidamente negli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra Mondiale con notevoli mezzi finanziari e in condizioni naturali e tecniche (processo Frasch) tali da porre termine per sempre al monopolio italiano dello zolfo. In meno di 10 anni la produzione statunitense raggiunse e superò quella italiana, nel corso del primo conflitto mondiale giunse a 1 milione di tonnellate, toccò i 2 milioni nel 1923, i 3.5 milioni nel 1942, i 4.5 nel 1945 fino a superare i 5 milioni negli anni ’50. I bassi prezzi dello zolfo americano avevano scoraggiato per molto tempo le ricerche negli altri Paesi, in quanto non si nutriva la speranza di scoprire giacimenti di coltivazione altrettanto economica. Con la guerra di Corea e la conseguente esigenza di riarmo, gli Stati Uniti, che fino a quel momento avevano rifornito i principali Paesi consumatori di zolfo, furono costretti a limitare le loro esportazioni. Ciò favorì una forte ripresa della ricerca di nuovi giacimenti che portò a interessanti scoperte nel Messico. Negli anni ’50 la struttura della produzione mondiale mutò profondamente sia per la rapida ascesa della produzione messicana, che era arrivata ad occupare il secondo posto nel mondo, 92 sia per l’entrata sul mercato di una nuova fonte di zolfo. Accanto alla prevalente produzione di zolfo nativo (estratto dai giacimenti) si sviluppò quella di zolfo di recupero. A partire dall’ultimo dopoguerra si erano intensificati nel mondo gli studi e la messa a punto di impianti di recupero dello zolfo da gas naturali, dalla raffinazione del petrolio, dai gas di fonderia e da tutti gli altri gas di rifiuto che contenevano materia solforosa in quantità apprezzabile. Alcune Nazioni, come Germania e Inghilterra, avevano ricavato, da questi recuperi, zolfo in quantità quasi sufficiente al proprio fabbisogno interno potendo così ridurre le proprie importazioni dagli U.S.A. . La notevole produzione di zolfo, ottenuta dal recupero di gas naturale, prima in Canada e poi in Francia, aveva permesso a questi due Paesi di passare da tradizionali importatori a grandi produttori mondiali. L’Italia, che fino al 1954 occupava il secondo posto tra i produttori mondiali, sia pure ad enorme distanza dagli U.S.A., era passata al terzo posto nel 1955 superata dal Messico e al sesto nel 1959 superata da Francia, Canada e Giappone194. 2.5.1 I due maggiori produttori di zolfo: Stati Uniti e Italia Come si è detto, nel secolo scorso, gli Stati Uniti costituivano il più importante mercato di sbocco dello zolfo siciliano fino al ritrovamento dei grandi giacimenti solfiferi del Golfo del Messico. Il giacimento di zolfo della Louisiana era stato scoperto accidentalmente nelle trivellazioni eseguite per la ricerca del petrolio. Riconosciutane subito l’importanza per quantità e qualità del prodotto, che in alcuni strati si trovava quasi puro, nel 1870 si costituiva una prima Società (Calcasieu Suplhur and Mining Company) per coltivarlo195. Dopo alcuni anni, non riuscendo a raggiungere il giacimento (anche se si trovava a circa 100 metri di profondità) la 194 Cfr., Associazione Mineraria Italiana, L’industria mineraria e metallurgica negli ultimi 5 anni, in «L’Industria mineraria», luglio 1960, p. 484. 195 Cfr., G. Oddo, op. cit., p. 364. 93 Società dovette abbandonare l’impresa. Non ebbero fortuna nemmeno i tentativi effettuati nel 1886 dalla Louisiana Sulphur Company e nel 1889 dalla American Sulphur Manufacturing Company Nonostante i notevoli mezzi impiegati e l’intervento di tecnici esperti, non si riusciva a raggiungere lo strato solfifero per l’impossibilità di attraversare un potente deposito di sabbie acquifere mobili. La soluzione venne trovata dal geniale chimico tedesco-americano Herman Frasch il quale costituì la Union Sulphur Company (della quale era presidente ed aveva una partecipazione del 50%) e nel 1959 acquistò i terreni interessati196. Il Frasch abbandonato ogni tentativo di raggiungere il giacimento mediante un pozzo ordinario, pensò invece di liquefare lo zolfo nello stesso strato mediante l’immissione attraverso pozzi trivellati di acqua calda sotto pressione (alla temperatura di 150°C), portando quindi alla superficie lo zolfo liquido con apposite pompe197. L’intuizione era giusta ma dovettero passare circa 10 anni di costosi tentativi per perfezionarla. Il problema principale era quello di poter disporre di energia a basso costo e di molta acqua198. Si superò l’inconveniente dell’energia con la sostituzione del petrolio al carbon fossile (più tardi il metano ha sostituito il petrolio) grazie al rinvenimento di un ricco deposito di petrolio nella stessa zona. L’acqua invece venne trasportata dal fiume Houston (con la costruzione di un apposito canale lungo circa 10 chilometri). Rispetto ai metodi tradizionali, di estrarre cioè il minerale dal sotterraneo con il successivo trattamento mineralurgico per separare lo zolfo dal minerale che lo contiene, il processo 196 Negli Stati Uniti i proprietari del suolo disponevano anche del sottosuolo. Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia-Romagna, cit., pp. 30-36. 197 Il processo Frasch consiste nel trivellare un pozzo nel terreno sino a raggiungere il letto del giacimento e nell’introdurre nel pozzo un sistema di tubi coassiali. Nel primo spazio anulare, a partire dall’esterno, si immette acqua surriscaldata che fonde lo zolfo e gli consente di salire nel secondo spazio anulare sotto la pressione dell’aria compressa introdotta attraverso il tubo centrale. Lo zolfo viene quindi estratto fuso e fatto colare in grandi serbatoi all’esterno dove si consolida. Cfr., A. Beragozzi, L’industria mineraria siciliana nel dopoguerra, in «L’Industria mineraria», agosto 1961, p. 485. 198 Per avere l’idea della quantità d’acqua e di energia necessarie, basti pensare che per ogni foro occorreva una batteria di 16 caldaie della potenza complessiva di 2400 Hp. Il forte consumo di combustibile, che era allora il carbon fossile proveniente dall’Alabama, era impiegato nel rapporto di una tonnellata per ogni 3 di zolfo. 94 Frasch offriva il grande vantaggio di operare a cielo aperto e di richiedere un impiego minimo di manodopera. In Italia questo processo non è stato mai applicato per le particolari condizioni geologiche dei giacimenti ma soprattutto per il fatto di non poter disporre di combustibile a basso costo e di sufficienti quantitativi di acqua. Il processo Frasch si rivelò da subito molto vantaggioso. La produzione americana di zolfo ottenuta con tale processo, in meno di 10 anni di attività, raggiunse e superò nel 1912 (con ben 786605 tonnellate) per la prima volta quella italiana. “Dietro queste fredde cifre si cela la drammatica storia di uno dei più vecchi e grandi monopoli del mondo”199 . Italia U.S.A. 6000000 5000000 4000000 3000000 2000000 1000000 1950 1947 1944 1941 1938 1935 1932 1929 1926 1923 1920 1917 1914 1911 1908 1905 0 Già nel 1905 il costo di produzione dello zolfo con il metodo Frasch era pari a meno della metà di quello siciliano per cui, nonostante i costi di trasporto, poteva essere venduto nei porti europei a prezzo molto inferiore200. 199 W. Haynes, The stone that burns, New York, 1947, p. 70. Nei porti europei veniva venduto a 39,46 lire contro le 55 lire dello zolfo siciliano al porto più vicino. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1905, p. 43. 95 200 Di fronte ai carichi di zolfo americano che cominciarono ad arrivare a Marsiglia nel 1905 e alla forte contrazione dell’esportazione del prodotto siciliano negli U.S.A.201, l’Anglo-Sicula stipulò un primo accordo provvisorio (nel 1905) con la Union Sulphur Company. Con tale accordo, L’Anglo-Sicula si impegnava a non spedire, nel 1906, più di 75000 tonnellate negli U.S.A. e la Società americana a non inviare, nello stesso periodo, zolfo in Europa e negli altri mercati mondiali202. Nel 1906, con lo scioglimento dell’Anglo-Sicula e la costituzione del Consorzio Obbligatorio Solfifero Siciliano, il problema di stabilire intese con la concorrente produzione americana passò a quest’ultimo ente. Così, con atto di governo del febbraio 1908, fu concluso un secondo accordo con la Union Sulphur Company i cui patti principale erano tre. In primo luogo l’assegnazione dei quantitativi, da collocarsi in ciascun esercizio nel mercato mondiale, per 2/3 al Consorzio e per l’altro terzo alla Union Sulphur Company. In secondo luogo la fissazione di prezzi minimi ed eventuali variazioni dei prezzi da concordarsi fra le due parti. Infine l’istituzione di un ufficio di propaganda (ad Amburgo) per l’aumento dell’impiego dello zolfo in campo industriale ed agricolo. Tale convenzione, che doveva avere durata decennale, venne invece denunciata nel 1913 dalla Società americana a causa dell’applicazione del Clayton Act del 1914 contro i trust negli Stati Uniti, ma la motivazione di fondo era da attribuirsi alla concorrenza di una nuova grande impresa, la Freeport Sulphur Company, che avrebbe reso vano l’accordo. Questa costituita nel 1911 aveva iniziato lo sfruttamento, con il processo Frasch203, di un nuovo e importante giacimento a Brazos, nel Texas, ottenendo in breve tempo, a basso costo, un’elevata produzione. 201 L’esportazione dello zolfo di Sicilia in America che nel 1902 era di 176845 tonnellate, scese, nel 1906, a 5835 tonnellate. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del servizio minerario”, 1906, p. 58. 202 L’industria solfifera siciliana ancora nel triennio 1902-04 collocava in Nord-America, che da tempo costituiva il principale sbocco della sua produzione, oltre 147000 tonnellate di zolfo in media annua, cioè 1/3 delle sue esportazioni. Dal 1907 per gli accordi intervenuti, venne completamente sostituita in quel mercato dalla produzione locale. Cfr., L. Delabretoigne, op. cit, p. 357. 203 La Union Sulphur Company aveva accusato la nuova compagnia di violazione del brevetto Frasch ma la U.S.Circuit Court, nel 1918, decise che il processo Frasch non era brevettabile per cui avrebbe potuto essere usato, e fu effettivamente usato, in tutti gli altri giacimenti solfiferi presso la costa del Golfo del Messico. L. Cfr., L. Delabretoigne, op. cit, p. 395. 96 La rottura degli accordi aveva fatto perdere alla Sicilia una quota elevata delle sue esportazioni ma la situazione dell’industria solfifera italiana sembrò migliorare durante la Prima Guerra Mondiale, e più ancora con l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto. Nel periodo bellico, infatti, la produzione americana seppure in continua ascesa era assorbita per la massima parte dal consumo interno enormemente sviluppatosi soprattutto per l’impiego dello zolfo nella fabbricazione di esplosivi e in quella di acido solforico. Intanto nel 1917 era sorta una nuova potente Società, la Gulf Texas Sulphur Company, per lo sfruttamento di un altro importante giacimento presso Matagorda nel Texas, la cui capacità totale era stata stimata circa 10 milioni di tonnellate di zolfo fuso, e che iniziò a produrre nel 1919204. Di conseguenza l’intera produzione americana, ottenuta da sei miniere, era controllata per il 99,5% da sole tre grandi compagnie. Queste ultime, data la loro enorme produzione, al termine della guerra cominciarono a farsi “seria” concorrenza in tutti i mercati mondiali. I prezzi dello zolfo diminuirono e la Sicilia, che come si è visto produceva a costi ben più alti, attraversò una grave crisi. All’inizio del 1922, il Consorzio aveva tentato nuove trattative con i concorrenti americani ma senza alcun successo poiché gli stessi produttori statunitensi non erano d’accordo tra loro. Avvalendosi del Webb-Pomerene Act, del 10 aprile 1918, che non solo permetteva, ma anzi agevolava (in determinate condizioni e con determinate forme) le associazioni commerciali per l’esportazione dagli Stati Uniti, le tre compagnie americane costituirono, nel settembre del 1922, un cartello sotto forma di Società anonima, la Sulphur Export Corporation, SULEXCO, per esportare in comune lo zolfo di loro produzione. L’anno successivo (nel 1923) fu finalmente possibile concludere un accordo tra il Consorzio e la SULEXCO. L’intesa, della durata di otto anni (quattro più quattro rinnovabili tacitamente), prevedeva che dal mercato mondiale dello zolfo fossero esclusi: l’Italia con le sue dipendenze e colonie, l’America del Nord, Cuba, le isole presso la costa del Canada. Gli altri Paesi restavano assegnati alla SULEXCO per una quota di esportazione del 75% e al Consorzio 204 Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, cit., p. 34. 97 per il rimanente 25%205. Infine i prezzi e le altre condizioni di vendita dovevano essere fissati dalle parti contraenti. Si deve ricordare che il Consorzio e la SULEXCO avevano assunto la garanzia reciproca del computo nelle proprie quote di esportazione di quelle effettuate da qualsiasi produttore o venditore rispettivamente italiano o americano. Ciò se non costituiva un grave problema per la SULEXCO che aveva il controllo di oltre 9/10 dell’intera produzione statunitense, presentava maggiori difficoltà per il Consorzio che controllava all’incirca i 3/4 della produzione italiana206. Negli anni ’20, le miniere del distretto marchigiano-romagnolo, sotto la gestione Montecatini, avevano visto aumentare considerevolmente la loro produzione, che, diventata esuberante al consumo nazionale, era stata collocata nei mercati esteri. Il Consorzio condusse trattative con gli americani per un aumento della quota italiana, ma l’accentuarsi della depressione economica mondiale dei primi anni ’30 nonché l’intervento nel mercato degli Stati Uniti di altri due produttori, la Jefferson Lake Oil Company e la Duval Texas Sulphur Company, aumentarono le difficoltà per un accordo e le trattative fallirono. Nel 1933, con la costituzione dell’Ufficio per la Vendita dello Zolfo Italiano, il governo aveva esteso il vincolo consortile alla Montecatini e agli altri produttori di zolfo dell’Italia continentale, mentre un certo controllo sui produttori americani indipendenti fu effettuato dalla SULEXCO, includendoli nella propria quota di esportazione dei mercati di vendita a condizione che essi osservassero i prezzi di cartello. Ciò aveva reso possibile la conclusione di un nuovo accordo tra l’Ufficio e la SULEXCO entrato in vigore nel 1934. Tale intesa, che era tacitamente prorogabile di anno in anno, non recava modifiche strutturali rispetto a quella del 1923 se non per quanto riguarda la ripartizione dei mercati di vendita: si assicurò, 205 L’esportazione degli zolfi grezzi nei singoli mercati doveva tenere conto nei limiti del possibile, dei vantaggi che arrecava a ciascuna delle parti contraenti la propria posizione geografica in relazione ai vati Paesi di consumo. Mentre l’esportazione degli zolfi grezzi doveva essere contenuta nei limiti stabiliti per ciascun esercizio e singolarmente per ogni Paese importatore, quella degli zolfi lavorati non era soggetta a tale disposizione purché la loro esportazione sommata a quella dei grezzi rientrasse nella percentuale globale singolarmente per l’Italia e per gli Stati Uniti. Cfr. L. Valenti, op. cit., p. 197. 206 Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit., p. 420. 98 infatti, alla produzione italiana una soddisfacente quota nei diversi mercati del mondo. Per quanto concerne i prezzi, i produttori statunitensi pur avendo consentito qualche miglioramento207 furono sempre restii ad aumentarli in quanto temevano di provocare e incrementare la concorrenza di altre fonti di zolfo. L’Ufficio comunque riuscì ad applicare prezzi superiori a quelli di cartello in molti Paesi (Austria, Ungheria, Iugoslavia, Grecia, Romania, Persia, India e, dal 1937 in poi, anche in Francia e Germania). La convenzione che legava produttori americani e italiani venne sospesa, di comune accordo, nell’ottobre del 1939 a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Durante il periodo bellico, mentre la produzione italiana veniva quasi annullata, quella degli Stati Uniti si espandeva sempre più riuscendo a soddisfare sia il crescente consumo interno che le maggiori richieste dei principali Paesi consumatori. Successivamente non fu più possibile ripristinare alcuna convenzione con i produttori americani dato che il prezzo dello zolfo statunitense, pur tenendo conto delle spese di trasporto ai porti europei, era pari a circa la metà di quello italiano. Fu sempre valida l’affermazione allora fatta dal Frasch secondo cui lo zolfo degli Stati Uniti poteva essere consegnato ai porti siciliani a prezzi di concorrenza con lo zolfo dell’isola208. Tutti gli accordi avevano aiutato a far superare momentaneamente all’industria solfifera italiana le ricorrenti crisi a cui era soggetta. A medio e lungo termine però si ripresentavano i soliti problemi mai risolti: l’arretratezza sia per quanto concerne lo sviluppo tecnico e organizzativo delle lavorazioni minerarie che per quanto riguarda il mancato sviluppo delle ricerche. Una nuova possibilità per l’industria solfifera italiana venne offerta dalla crisi coreana. Mentre nei primi mesi del 1950 il collocamento dello zolfo italiano sui mercati esteri era molto difficile, dopo che gli Stati Uniti, per la politica di riarmo, limitarono notevolmente le 207 I prezzi praticati dal cartello americano, e che all’atto della costituzione dell’Ufficio erano notevolmente discesi, vennero subito migliorati. 208 Cfr., Associazione mineraria italiana, L’industria mineraria italiana nel 1950, in «L’Industria mineraria», luglio 1951, p. 269. 99 proprie esportazioni molti Paesi si rivolsero all’Italia. Quest’ultima, anche se aumentò la produzione e l’esportazione209 non riuscì comunque a far fronte alla crescente domanda. D’altronde si trattava di un evento transitorio e pertanto non conveniva esporre forti capitali non ammortizzabili in brevissimo tempo. Infatti alla fine della guerra di Corea, con la ripresa su vasta scala delle esportazioni statunitensi, i prezzi precipitarono e l’industria solfifera italiana subì una nuova grave crisi. Il minor costo dello zolfo di recupero e di quello Frasch, oltre al naturale esaurimento ed impoverimento dei giacimenti italiani con l’aumento della profondità, aveva portato alla chiusura di numerose miniere. In Sicilia, alla fine degli anni ’50, lo zolfo costituiva ancora una delle attività più importanti per numero di aziende operanti e per il complesso di maestranze occupate (circa 10000 dipendenti) per cui molte miniere, venivano mantenute in vita, anche se con forti perdite, per pure ragioni sociali210. Nel marzo del 1960, gli Stati membri della CEE, nel firmare l’accordo riguardante la fissazione di una parte della tariffa doganale comune prevista dal Trattato che istituiva la Comunità Economica Europea, considerando, al momento della fissazione di un dazio nullo per lo zolfo grezzo, che in tale materia sorgevano problemi particolari, avevano firmato per lo zolfo italiano un accordo particolare211. Esso prevedeva in primo luogo l’isolamento del mercato italiano dello zolfo per un periodo di otto anni sia nei confronti degli altri Paesi della comunità (Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) che rispetto ai Paesi terzi. Dal canto suo, il governo italiano assicurava che le consegne effettuate dall’Ente Zolfi ai fini dell’esportazione di prodotti trasformati, non sarebbero state effettuate ad un livello inferiore al prezzo mondiale. In secondo luogo veniva stabilito l’intervento della Banca Europea per gli Investimenti, ai fini del finanziamento delle operazioni di modernizzazione 209 Le consegne effettuate dall’E.Z.I. all’estero salirono dalle 75000 tonnellate del ’49 alle 210000 del ’50. Ma già nel 1951 ridiscesero a 74000 e a 50600 nel 1952. Cfr., Associazione mineraria italiana, L’industria mineraria italiana nel 1952, in «L’Industria mineraria», agosto 1953, p. 361. 210 Cfr., F. Lanza di Scalea, Zolfo di recupero e zolfo nativo in Sicilia in «L’Industria mineraria», aprile 1959, pp. 221222. 211 Cfr., L. Gerbella, La Comunità Economica Europea e l’inserimento dell’industria estrattiva italiana nel Mercato Comune in «L’Industria mineraria», novembre 1960, p. 809. 100 delle miniere di zolfo, della creazione di industrie trasformatrici e di lavori di infrastruttura. Inoltre gli Stati membri si impegnavano a rendere possibile interventi a carattere sociale da parte della Comunità per il licenziamento dei minatori e la formazione professionale dei loro figli. Infine era prevista la creazione di un comitato destinato a promuovere l’iniziativa privata e a favorire lo sviluppo nell’ambito di un programma regionale in Sicilia. Le industrie estrattive italiane, per essere inserite nel Mercato Comune dovevano mettersi in condizione di vendere i prodotti a prezzi internazionali. Protezioni doganali non erano più possibili anche perché, nel nuovo clima instaurato in Europa, era assurdo continuare a far pagare ai consumatori italiani lo zolfo molto più caro rispetto agli altri Paesi del MEC. Per cui si giunse alla fine dell’industria solfifera italiana e alla conseguente liquidazione dell’EZI che venne sciolto con legge 12 marzo 1968 n°411 con la quale venne anche abolito il divieto di importazione dello zolfo212. 2.5.2 Gli altri Paesi Giappone Lo zolfo era una delle più importanti ed abbondanti risorse naturali del Giappone. Si ha notizia del suo sfruttamento sin dal XVIII secolo e si ritiene che esso fosse esportato in Cina già nel secolo XIII213. 212 213 Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della Regione Emilia Romagna, 1927 Modena, p. 68. Cfr., Prospettive della produzione giapponese in «L’Industria mineraria», aprile 1954, p. 223-224 101 Nei primi due decenni di questo secolo la coltivazione dello zolfo fu molto intensificata e il Giappone divenne il terzo produttore mondiale (dopo Stati Uniti e Italia) con circa 50000 tonnellate annue che salirono ad oltre 100000 durante la Prima Guerra Mondiale. A quell’epoca, data la scarsità dei consumi interni, la maggior parte dalla produzione veniva esportata principalmente in Australia e in Cina. Negli anni seguenti la Prima Guerra Mondiale la produzione, dopo essersi mantenuta per qualche tempo intorno alle 35000 tonnellate, andò gradualmente aumentando fino a 70000 tonnellate nel 1928, ridiscese nel periodo della crisi internazionale per riprendersi dopo il 1932. Anni 1925 1926 1927 1928 1929 1930 1931 1932 1933 1934 1935 1936 1937 1938 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 1946 1947 1948 1949 1950 Produzione ton. (1000) 47,8 47,9 61,3 70,2 62,0 61,5 62,4 84,4 116,8 139,8 167,9 203,4 229,9 226,6 199,6 191,3 196,8 168,1 152,2 76,5 41,0 22,1 29,1 40,6 62,4 92,6 Esportazione ton. (1000) 4,11 4,07 3,85 5,32 10,44 5,92 14,18 25,99 32,11 45,71 54,60 71,87 55,84 31,24 27,94 17,29 16,70 18,34 17,45 7,25 3,59 2,55 2,00 0,60 0,02 0,51 Consumo ton. (1000) 43,7 43,8 57,5 64,9 51,5 55,6 48,2 58,4 84,7 94,1 113,3 131,5 174,0 195,3 171,6 174,0 122,5 163,9 156,4 91,0 37,4 19,6 27,1 45,0 61,4 93,0 102 1951 1952 142,4 179,4 42,69 140,3 135,6 Lo sviluppo dell’industria del rayon e della carta214infatti aveva creato una notevole domanda interna che portò ad un aumento della produzione sino alle 200000 tonnellate negli anni immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo erano attive circa 25 imprese minerarie ed impiegavano metodi e raffinazioni alquanto arretrati. Dopo la cessazione quasi completa della produzione, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’industria cominciò a riprendersi. Tuttavia, dati gli alti costi di produzione, lo zolfo Giapponese non era in grado di tornare sui mercati d’esportazione a prezzi concorrenziali. Per cercare di migliorare la situazione, grazie all’appoggio governativo, fu iniziato un programma di riorganizzazione e modernizzazione dell’industria solfifera. Alcune miniere marginali vennero chiuse e furono sperimentati nuovi metodi per aumentare la produttività e diminuire i costi. Negli anni ’50, mentre alcuni produttori continuavano ad impiegare (per il trattamento del minerale) un metodo simile al procedimento dei “calcaroni”, usati in Italia, oltre l’80% dello zolfo Giapponese era ottenuto mediante i metodi (più moderni) di distillazione215. Nonostante ciò nei primi anni ’60, il prezzo dello zolfo giapponese era ancora al di sopra di quello mondiale e le importazioni erano soggette ad autorizzazione ministeriale216. La maggior parte della produzione era consumata all’interno e risultava fortemente dipendente dall’industria delle fibre tessili e dalla fabbricazione della carta. Il 50% della produzione era dovuta a due Società: la Mtsuo (30%) e la Hokkaido (20%); il 214 Oltre a tali usi che rappresentavano la maggior parte dei consumi interni di zolfo (l’acido solforico veniva prodotto dallo zolfo nativo soltanto in quantità trascurabili) esisteva una domanda di zolfo per l’agricoltura, la gomma e i prodotti chimici. 215 Cfr., G. Masobello, Comportamento dei minerali di zolfo nel trattamento per distillazione totale e riscaldamento indiretto, in L’Industria mineraria, gennaio 1955, p. 1. Per un approfondimento sul metodo di distillazione si vedano: - R. Gualtieri, Sulla distillazione dello zolfo dal minerale, in L’Industria mineraria, giugno 1953, pp. 270 ss. - C. Garbato, Estrazione dello zolfo dai suoi minerali per distillazione, in L’Industria mineraria, marzo 1954, pp. 133 ss. 216 Cfr., Produzione ed importazione del Giappone in «L’Industria mineraria», maggio 1965, p. 278. 103 resto era ottenuto da piccoli e medi produttori, spesso finanziariamente assistiti dalle industrie consumatrici217. Le miniere erano numerose ma generalmente di limitata entità e venivano coltivate in sottosuolo. Tutti i giacimenti giapponesi di zolfo erano di origine vulcanica per cui si differenziavano profondamente da quelli italiani e da quelli della costa del Golfo del Messico. Data la loro varietà e molteplicità venivano classificati in 4 tipi principali: Flows, giacimenti di sublimazione, sedimentari, di impregnazione. Quest’ultimo, che era il più diffuso (90%), poteva fornire contemporaneamente zolfo e pirite. Messico Nel territorio messicano si riscontrarono pressoché tutti i tipi di giacimenti minerari di zolfo: di origine vulcanica, di rocce sedimentarie (formazione gessose-solfifere) e di formazione salina. Nessuno dei giacimenti di origine vulcanica ebbe una certa importanza economica, mentre tra quelli di rocce sedimentarie uno solo venne coltivato (con lavori in sotterraneo) fin dal primo decennio di questo secolo. Nonostante si trattasse di un potente banco di zolfo per di più ubicato in una posizione favorevole (praticamente al centro del Paese) la sua produzione e quindi quella complessiva del Messico, era ancora nel 1948 assai modesta (2100 tonnellate) e parecchio inferiore ai consumi interni. La situazione mutò molto rapidamente perché nel giro di pochi anni furono scoperti tre importanti giacimenti di zolfo di formazione salina e quindi dello stesso tipo di quelli della Louisiana e del Texas218. I lavori di preparazione furono prontamente sviluppati e nel 1954 iniziò la prima estrazione di zolfo col processo Frasch fuori dagli Stati Uniti. La produzione di zolfo Frasch era completamente controllata da Società statunitensi. Tre principali 217 218 Cfr., Lo zolfo nativo in Giappone, in «L’Industria mineraria», luglio 1959, p. 469. Cfr., Nascita dell’industria solfifera nel Messico in «L’Industria mineraria», ottobre 1956, p. 740. 104 compagnie coltivavano i giacimenti del Messico: la Pan American Sulphur Company, la Mexican Gulf Sulphur Company e la Gulf Sulphur Corporation219. La produzione messicana crebbe ad un ritmo tanto elevato da far raggiungere al Paese, nel 1960, (solo dopo 6 anni) il secondo posto mondiale dopo gli Stati Uniti. Anni 1954 1955 1956 1957 1958 Produzione 83086 492000 692000 974000 1236483 Esportazione 50 184185 481568 876499 1066345 Come si nota dalla tabella la maggior parte dello zolfo estratto veniva destinato all’esportazione. I maggiori importatori erano: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Australia. Altra fonte di produzione di zolfo (non compresa in tabella) era in Messico il recupero da gas naturali e dalla raffinazione del petrolio greggio. L’ente statale Petroleos Mexicanos, nello svolgimento della sua attività estrattiva e di raffinazione del petrolio e dei derivati, recuperava circa 80 tonnellate al giorno di acido solforico220. Lo zolfo di recupero dal gas naturale e di raffineria e l’estrazione di alcune quantità di minerale di zolfo coprivano la maggior parte dei bisogni messicani. Canada Negli anni ’50 il consumo di zolfo era notevolmente cresciuto sia in relazione all’aumentato fabbisogno di una delle industrie chiave del Paese, quella della pasta di legno al solfito, sia per la crescente richiesta dell’industria dell’uranio che era una delle principali consumatrici di acido solforico della Nazione. Con un consumo medio annuo di poco inferiore alle 219 Dal punto di vista dell’effettivo centro di interessi, due di queste società erano nell’Texas (Dallas e Houston, centro di produzione e lavorazione della gomma sintetica) e una, la Mexican Gulf Sulphur era a New York. Cfr., Controllo della produzione messicana in «L’Industria mineraria», novembre 1956, p. 825. 220 Cfr., Produzione del Messico in «L’Industria mineraria», maggio 1956, pp. 370-371. 105 500000 tonnellate, il Canada era diventato il sesto consumatore mondiale di zolfo e il consumo pro capite (di circa 118 lb.) era il più alto del mondo 221. Non possedendo zolfo nativo, per rispondere alla crescente domanda interna, il Paese aveva registrato importanti progressi nella produzione di zolfo di recupero. Fra i vari interessanti sviluppi che si erano avuti in questo campo, di importanza del tutto particolare era il rapido aumento del recupero dello zolfo dal gas naturale. Nei grandi campi metaniferi dell’Alberta, ai due modesti impianti già esistenti, se ne aggiunsero tre nel 1957 e successivamente altri cinque nel 1960. Anni 1957 1958 1959 1960 Zolfo di recupero 107400 209900 327500 487900 altri 770219 778482 721424 675000 totale 877619 988382 1048924 1162900 Come si nota dalla tabella, la produzione di zolfo di recupero in soli 4 anni era quasi quintuplicata. Tale notevole crescita era dovuta per la massima parte al recupero di zolfo da gas naturale. Infatti la produzione di recupero del 1960 risultava essere costituita da gas naturale per 445900 tonnellate, da raffinerie di petrolio per 32000 tonnellate e da solfuri metalliferi per 10000 tonnellate. Un’altra importante fonte di zolfo era rappresentata dalla pirite (e pirrotite). Già nel secolo scorso veniva utilizzata per la produzione dell’acido solforico in alternativa allo zolfo ma solo negli anni ’30 notevoli quantità di pirite cuprifera erano in grado di produrre, attraverso particolari processi, lo zolfo elemento (abbinato all’estrazione del rame). Nella voce “altri” della tabella precedente viene compreso appunto lo zolfo contenuto nella pirite (in media circa 500 mila tonnellate) oltre ad una più modesta produzione (circa 200 mila tonnellate) di zolfo ottenuto come sottoprodotto dai gas di fonderia222 221 Cfr., L’industria Canadese dello zolfo nel 1959 e nel 1960, in «L’Industria mineraria», luglio 1961, p. 467-468. Lo zolfo recuperato dai gas di fonderia, sotto forma di acido solforico o di anidride solforosa liquida, era ottenuto in Canada per i 2/3 circa nella grande fonderia di piombo e zinco, sita a Trail della Consolidated Mining And Smelting 106 222 Francia In Francia erano noti quattro giacimenti di zolfo, tutti con minerale a tenore assai basso (810 %) e oggetto, fino alla Seconda Guerra Mondiale, di limitate e saltuarie coltivazioni. L’impossibilità di importare dai fornitori abituali di zolfo e cioè Stati Uniti e Italia, aveva determinato, nel periodo 1939-46, un nuovo interesse per le miniere francesi. Nel 1941 fu costituita, con l’appoggio governativo, la Società Languedocienne per ricercare e sfruttare i giacimenti di zolfo nativo di Narbona. Il costo di produzione fu inizialmente molto elevato a causa della povertà del minerale. Tuttavia esso diminuì gradualmente grazie ai costanti miglioramenti della coltivazione, sino a raggiungere il livello dello zolfo italiano di importazione. Per aumentare la “ricchezza” del minerale, la Società aveva adottato il processo di flottazione223 per mezzo del quale otteneva un concentrato in zolfo del 80% circa. Il concentrato era poi sottoposto ad ulteriore raffinazione con un procedimento originale, messo a punto dalla Società nel 1949, che permetteva il raggiungimento di una purezza di circa il 99,5%, quale era richiesta da molti consumatori224. La produzione, espressa in zolfo puro, era andata rapidamente aumentando da 200 tonnellate nel 1945-46 (l’impianto di flottazione fu avviato appunto nel 1945) a 14847 nel 1951 e circa 20000 nel 1952225. Di fronte al fabbisogno nazionale complessivo la produzione di queste miniere era minima, ma in caso di difficoltà poteva sempre costituire una fonte di approvvigionamento per la viticoltura (come era stato dimostrato durante la Seconda Guerra Mondiale quando aveva contribuito a salvare i vigneti francesi). Per soddisfare il consumo interno, la Francia, durante gli anni ’50, importava annualmente circa 250000 tonnellate di zolfo nativo (di cui 100000 assorbite dalla viticoltura) e circa Co., e per il resto dalle fonderie della International Nickel Co. Cfr., Lo zolfo nel Canada in L’Industria mineraria, luglio 1958, p. 437-438. 223 Cfr., P. Audibert, La flottazione dei minerali di zolfo, in «L’Industria mineraria», ottobre 1952, p. 387. 224 Cfr., J. Dessèvre, Come ottenere zolfo puro partendo dai concentrati di flottazione, in «L’Industria mineraria», ottobre 1954, p. 593. 225 Cfr., Lo zolfo in Francia in «L’Industria mineraria», marzo 1953, p. 144. 107 400000 tonnellate di zolfo contenuto nelle piriti226. Questa situazione era destinata a cambiare molto rapidamente in quanto nel 1951 era stato scoperto a Lacq un grande giacimento di gas naturale. La Società nazionale dei petroli d’Acquitania, nel 1957 riuscì a recuperare lo zolfo proveniente dalla depurazione del gas naturale di Lacq dopo aver superato difficoltà tecniche veramente elevate. La messa a punto dell’impianto fu possibile grazie all’applicazione del metodo Parson che assicurava il massimo di resa in zolfo insieme ad un elevato recupero termico. Il rendimento della conversione in zolfo aveva superato ogni previsione ottenendo il metalloide ad una purezza di oltre il 99,5%. L’impianto inoltre presentava due favorevoli caratteristiche: aveva le attrezzature disposte all’esterno ed era fortemente automatizzato227. La produzione del giacimento di Lacq si sviluppò molto rapidamente : Anni 1958 1959 1960 Produzione 132000 437000 950000 La Francia, come il Canada, aveva saputo approfittare delle nuove possibilità offerte dal recupero di zolfo da gas naturale. Da tradizionale importatore era entrata, alla fine degli anni ’50 tra i primi 5 produttori di zolfo al mondo. L’importanza della scoperta di Lacq andava oltre il quadro nazionale dato che forniva all’economia europea una fonte di approvvigionamento per una delle materie prime chiavi dell’industria chimica: lo zolfo. 226 227 Cfr., Sul giacimento gassifero di Lacq in «L’Industria mineraria», marzo 1957, p. 212. Cfr., Il recupero dello zolfo dal gas Lacq in «L’Industria mineraria», gennaio 1959, p. 56. 108 CAPITOLO TERZO I LAVORATORI Nella miniera di Cabernardi, come in molte altre miniere, esisteva una complessa organizzazione del lavoro nella quale era possibile distinguere quattro principali classi di lavoratori: il personale tecnico, la sorveglianza, il personale amministrativo e gli operai addetti all’interno e all’esterno della miniera. Il personale appartenente a ciascuna classe era rigidamente ripartito secondo mansioni ben definite per cui esistevano numerose categorie di lavoratori. Il personale designato alla direzione e controllo era composto dalle seguenti figure professionali228: direttore, vice direttore, capo servizio principale, capo servizio e assistente tecnico. Si trattava di personale prettamente tecnico costituito da ingegneri e periti minerari. Il loro impiego era obbligatorio in ciascun bacino di estrazione (dove variavano di numero secondo l’importanza di esso) ed erano responsabili dell’attività della miniera. Visitavano il sotterraneo per poche ore al giorno, dando le opportune disposizioni su ogni lavoro necessario mentre spettava ai sorveglianti il compito di far eseguire gli ordini impartiti. Quest’ultima classe di lavoratori era composta da: capo sorvegliante, sorvegliante, capo squadra, guardia giurata e guardiano. La sorveglianza, sia all’interno che all’esterno della miniera, serviva anche per far rispettare tutte le norme di sicurezza sul lavoro. Vi erano, poi, guardie diurne e notturne, che armate vigilavano costantemente per evitare che fossero rubati zolfo o arnesi da lavoro. Un ulteriore compito della sorveglianza consisteva nel controllare l’applicazione del regolamento interno di disciplina: turni ed orari di lavoro in primo luogo. I turni un tempo due (di 10 o anche 12 ore), per l’applicazione della giornata 228 Cfr., Direzione delle miniere di Cabernardi, Regolamento disciplina per le miniere di Cabernardi, Pergola, 1946, p. 6 109 interno di lavorativa di 8 ore divennero in seguito 3, facendo sì che l’attività non avesse soste tranne chiaramente la domenica ed i giorni festivi o quelli in cui il lavoro era reso impossibile da incidenti, guasti e riparazioni agli impianti principali. Venti minuti prima dell’inizio di ogni turno, all’esterno della miniera, il sorvegliante faceva l’appello del personale, distribuendo le forze nei vari posti di lavoro. Gli addetti all’interno della miniera dovevano invece presentarsi mezz’ora prima presso la “lampisteria” dove venivano muniti di lampada , elmetto e maschera antigas, oggetti che potevano essere ritirati presentando una “placca” numerata e, a fine turno, dovevano essere riconsegnati. Superati i dieci minuti di ritardo era prevista l’ammonizione o una multa sino ad un massimo del 10% della paga di fatto. La stessa punizione era stabilita in caso di mancata o negligente attuazione di una disposizione ricevuta o in caso di scarso rendimento giornaliero mentre a furti o risse seguiva l’immediato licenziamento. Il personale amministrativo era certamente quello che aveva minor contatti diretti con la miniera. Era rappresentato da contabili e da altri impiegati che avevano i loro uffici in appositi edifici. Tra le varie mansioni doveva tenere conto individualmente di ogni singolo lavoratore segnando le giornate di lavoro, gli oggetti forniti a ciascuno, le ritenute ed ogni cosa che valesse a poter stabilire con esattezza la paga che spettava ad ogni singolo operaio. La classe di lavoratori più numerosa era costituita dai minatori e dalle altre categorie di addetti che svolgevano le proprie mansioni all’interno o all’esterno della miniera. 3.1 IL LAVORO ALL’ INTERNO DELLA MINIERA All’interno della miniera, il primo turno (06-14) vedeva in attività soprattutto i minatori veri e propri nei cantieri di abbattimento. Vi erano poi turni pomeridiani (14-22) e notturni (22- 110 06) questi ultimi con ridotta presenza di personale, durante i quali l’attività non riguardava tanto l’estrazione del minerale, quanto la realizzazione di interventi di riparazione. Il lavoro dei minatori consisteva nell’abbattimento del minerale. Per frantumare il blocco mineralizzato furono sempre utilizzate le mine che venivano introdotte in fori praticati nella roccia. Inizialmente tali fori erano scavati con martello e scalpello ma già dal 1918 cominciarono ad essere usati martelli pneumatici ad aria compressa. Per garantire maggiore sicurezza, il brillamento delle mine e quindi le esplosioni avvenivano solo durante il primo turno di lavoro. In questo modo ogni cantiere aveva un periodo di 16 ore di riposo per consentire l’assestamento del terreno. Inoltre i minatori avevano tutto l’interesse di lasciare il cantiere a fine turno nelle migliori condizioni di sicurezza dovendo ritornarvi il giorno successivo. Il metodo di coltivazione adottato nella miniera di Cabernardi fin dal suo avvio era il cosiddetto sistema “a ripiena”. Si procedeva abbattendo il minerale esistente tra le gallerie precedentemente formate ed utilizzate poi per il servizio di estrazione. Per riempire i vuoti di scavo, al minerale abbattuto si sostituiva minerale sterile, (rosticci229), fatto provenire dall’esterno. Il sistema per ripiena era considerato il migliore230 per utilità, sicurezza ed economia. Dava infatti la possibilità di estrarre tutto il minerale che si incontrava, procedendo al taglio con la massima esattezza e regolarità. Se il “ripieno” era ben fatto la compressione si verificava gradualmente e il consolidamento avveniva senza compromettere la stabilità e la sicurezza della miniera. Con il procedere dei lavori, la configurazione del 229 I rosticci non erano altro che lo scarto dei forni per la fusione del minerale. Tale materiale subiva un sufficiente grado di cementazione in seguito ad operazioni di irrorazione per cui si rivelava particolarmente utile per riempire i vuoti di scavo. 230 Il metodo di coltivazione seguito nelle più antiche miniere di zolfo delle Marche, della Romagna e della Sicilia fino a tutto il secolo scorso era quello denominato per “camere e pilastri”. Le camere corrispondevano alla massa di minerale estratto, mentre i pilastri erano i supporti lasciati a sostegno delle volte delle camere stesse. In genere i pilastri venivano ricavati nelle zone meno ricche di minerale, dando così origine ad un insieme irregolare connesso con la distribuzione non uniforme della mineralizzazione. In seguito alla casualità di distribuzione dei pilastri e alla loro irregolarità di esecuzione, spesso si verificavano crolli i cui effetti si risentivano anche in superficie. Cfr. ,G. Candura, Miniere di zolfo in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1990, p.81. 111 sotterraneo mutava continuamente assumendo un aspetto quasi casuale. Ogni 15-30 metri in verticale, venivano formate le gallerie di allungamento (o livelli) da cui si dipartivano traverse che raggiungevano lo strato solfifero. Ogni cantiere di abbattimento veniva armato e dotato di binari per trasportare terra, roccia e naturalmente minerale solfifero. Tale materiale veniva caricato su carrelli o vagonetti dai “manovali carreggiatori”. Questi erano a stretto contatto con i minatori con i quali formavano coppie di lavoranti, un capo-compagnia e un aiutante, che operavano insieme ed avevano in comune i carrelli per il materiale estratto. I due ruoli erano contrassegnati da altrettanti numeri che dovevano essere segnati a gessetto sulla parete del carrello.Solo così, all’esterno, il “marcatore” avrebbe potuto attribuire il carico alla compagnia per la relativa ricompensa, dato che il lavoro si svolgeva a cottimo. Il carico in arrivo all’esterno veniva controllato dal marcatore, il quale aveva anche la facoltà di scartarlo se ritenuto troppo povero. Un intervento di questo tipo, come si può immaginare, non era tuttavia auspicabile perché avrebbe scatenato discussioni serie e situazioni poco piacevoli. Una volta riempiti i vagonetti, era compito di un’altra categoria di lavoratori, “i vagonieri”, trasportarli verso i punti di raccolta del materiale ossia in prossimità dei pozzi e delle discenderie. Questa attività era meno pesante di quella del minatore e del carreggiatore. Maggior fatica si aveva soltanto per rimettere sulle rotaie il vagone che per una mossa brusca fosse uscito fuori mentre per trainare i vagonetti era comune l’impiego di cavalli, muli e asini231. Gli animali, una volta introdotti nella miniera, non ne uscivano più se non in punto di morte o già deceduti. Essi venivano sottoposti a turni di lavoro di 8 ore e poi 231 Testimonianza di Angelo Ruzziconi, di anni 82, ha lavorato nella miniera di Cabernardi per 20 anni ricoprendo diverse mansioni, incontrato il 16 maggio 1997 a Cantarino (Sassoferrato). 112 alloggiati per riposare nelle stalle sotterranee predisposte allo scopo. La biada arrivava dall’esterno regolarmente e questo servizio si svolgeva nelle ore pomeridiane o notturne quando era sospeso il ciclo importante della brillatura delle mine e dell’estrazione del minerale. Se la vita di miniera prostrava le persone, il destino degli animali non era certo migliore: chiusi per sempre nelle cavità sotterranee convivevano con eserciti di topi in condizioni invivibili di temperatura ed umidità e, a causa della scarsa luce, erano destinati alla cecità perpetua. L’impiego di animali, soprattutto muli e asini, era talmente esteso da dare origine ad un importante mansione, appunto quella del mulattiere e conduttore di asini. Questi erano annoverati nell’elenco delle mansioni e percepivano una specifica paga , che però era di almeno il 30% più bassa di quella dei minatori. Dopo il 1919, questa categoria di lavoratori, non è più distinta, per cui si può pensare che stesse perdendo importanza, anche per l’introduzione graduale di mezzi meccanici. In realtà alcuni servizi non vennero mai completamente meccanizzati, ad esempio i trasporti interni, i quali continuarono ad essere effettuati anche con l’ausilio di cavalli e muli fino alla chiusura della miniera. Negli anni ’30, in alternativa agli animali, erano usati piccoli locomotori per cui nacque una nuova categoria di lavoratori “i locomotoristi”. Si trattava però di un lavoro alquanto nocivo dato che, per le 8 ore di lavoro, erano costretti a respirare fumo di nafta232. Tutto il materiale che proveniva dai livelli più profondi della miniera, tramite le discenderie e il pozzo interno Mezzena (che dal 13°livello raggiungeva il 18°), veniva fatto confluire alla grande galleria Donegani del 13° livello (livello base). In questa galleria, della lunghezza di 2 km e dotata di doppio binario, i vagonetti venivano portati in prossimità dei due pozzi “esterni” che mettevano in comunicazione l’esterno con il 13° livello. L’addetto al pozzo caricava i vagonetti nelle gabbie233 (ascensori) manovrate dagli “arganisti”234. 232 Testimonianza di Francesco Sonaglia, di anni 78, ha lavorato nella miniera dal 1933 al 1959 ricoprendo le mansioni di (in ordine di tempo) addetto alla cernita, locomotorista e arganista, inoltre fu segretario della Commissione Interna per sette anni, incontrato il 9 maggio 1997 a Cabernardi. 233 Ogni gabbia aveva due piani che venivano utilizzati anche per il trasporto del personale 113 Questi ultimi facevano parte della categoria dei “macchinisti” i quali avevano il compito di provvedere al funzionamento delle macchine di ogni tipo. Ispezionavano e ripulivano continuamente i congegni per poter segnalare tempestivamente l’eventualità di qualche guasto ed evitare danni alla vita degli operai. Per aver un quadro completo del lavoro all’interno della miniera bisogna infine ricordare che esistevano altre categorie di lavoratori come gli addetti alla manutenzione e riparazione il cui compito non riguardava direttamente l’estrazione dello zolfo, ma era comunque ritenuto indispensabile per mantenere condizioni di lavoro ottimali. Tra le varie categorie di lavoratori che prestavano servizio all’interno della miniera la più numerosa era quella dei minatori che rappresentavano circa il 50% degli addetti235. I minatori avevano un’alta professionalità dovuta all’esperienza maturata durante un lungo periodo di apprendimento prima all’esterno e successivamente all’interno della miniera. A loro erano affidate le più importanti e pericolose mansioni e di conseguenza percepivano i salari più alti come si può vedere dalla seguente tabella. Tabella 3.1 Mercedi giornaliere medie dei lavoratori all’interno della miniera di Cabernardi, con decorrenza dal 1° maggio 1919. Fonte: Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1919. Mansioni 234 Mercede giornaliera (lire) «...ho lavorato 3 anni come arganista al pozzo Mezzena, fare l’arganista era un lavoro di responsabilità non indifferente...era gravoso, a limite della sopportazione, perché il ritmo del lavoro era vertiginoso; il rumore dell’argano era assordante. Al termine della giornata, ti fischiavano le orecchie come una sirena; alcuni miei colleghi divennero ben presto sordi». Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit. 235 Cfr. ,Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1936, p. CDV. 114 Sorveglianti 12-14 Minatori al minerale 14,39 Minatori allo sterile 13,18 Manovali carreggiatori 10,64 Manovali riempitori 9,74-10,94 Muratori armatori 9-11 Ricevitori 11,25 Acquaroli e raccoglitori 4,80-6,00 Portieri 4,50 Manovali diversi 4,80-7,00 La contrattazione del salario avveniva in modo individuale, tra il datore di lavoro e il minatore come controparte. La contrattazione collettiva vera e propria si sviluppò solo dopo la Prima Guerra Mondiale236. Dunque anche l’industria estrattiva doveva essere regolamentata attraverso contratti collettivi che stabilissero minimi salariali validi per tutta la categoria. Tuttavia la stagione contrattuale fu breve ed i contratti che vennero rinnovati durante il periodo fascista subirono consistenti riduzioni, quello dei minatori subì una contrazione del 25%.Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo il periodo della ricostruzione, e anche della tregua salariale, che durò praticamente fino al 1947, le retribuzioni reali dei lavoratori addetti all’industria mineraria segnarono un notevole miglioramento rispetto a quelle del 1938. Infatti, nel 1950, a fronte dell’aumento del costo della vita pari a 46 volte quello del 1938, risultava che, in provincia di Ancona, le 236 Cfr. ,G. Canali, Rapporti di lavoro, in S. Lolletti (a cura di), La miniera tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, Bologna, 1991, p. 156. 115 retribuzioni erano aumentate (dal 1938 al 1950) di 86 volte per gli operai qualificati dell’interno (minatore, armatore, ecc.) e di 95 volte per i manovali237. Le condizioni di lavoro all’interno della miniera erano particolarmente pesanti. Solo uomini forti e coraggiosi potevano svolgere un lavoro così duro e pericoloso che li costringeva a stare per lungo tempo a centinaia di metri di profondità, e senza luce naturale. I lavoratori della miniera operavano all’interno seminudi, date le condizioni esasperate di caldo e umidità, provvedendo, di tanto in tanto a “svuotare le scarpe” zuppe di sudore. Il bisogno di assumere nuovo liquido veniva soddisfatto bevendo acqua portata dall’esterno in apposite fiasche panciute rivestite di legno. Queste erano dotate di apertura molto stretta in modo che l’acqua uscisse poco per volta e non venisse consumata troppo rapidamente. Nel sotterraneo i minatori conducevano una vita penosa, eppure, amavano sinceramente il loro lavoro e la loro miniera. Erano orgogliosi del proprio mestiere; preferivano i pericolosi lavori all’interno e si sentivano dequalificati quando erano costretti a lavorare all’esterno della miniera anche per periodi brevi. In caso di necessità, tutti, dal minatore all’ultimo manovale non esitavano a mettere a repentaglio la propria vita sia per soccorrere i compagni in difficoltà che per salvare la loro fonte di lavoro. Nonostante che nel sottosuolo il lavoro si svolgesse in forma pressoché individuale esisteva una forte solidarietà tra i lavoratori che si esprimeva anche con l’aiuto verso gli infortunati e i malati. Così ad esempio, non ancora costituite le Casse Mutue e le altre forme di assistenza, in caso di infortunio si facevano le collette per l’infortunato; e se i soldi non bastavano, la domenica, si girava di casa in casa, e ciascuno integrava il già dato, come e quando poteva, con offerte in natura. Anche dopo un grave incidente minerario, i minatori ritornavano alla stessa fatica e quasi mai veniva loro in mente di cambiare mestiere. Infatti, contrariamente all’operaio che considera il lavoro come un mezzo necessario, il rapporto uomo-miniera era a carattere 237 Cfr. ,Associazione Mineraria Italiana, L’industria mineraria in Italia nel 1949 e nei primi sei mesi del 1950, in «L’Industria mineraria», agosto 1950, p. 276. 116 totale, vale a dire che il minatore pur essendo cosciente degli aspetti negativi del suo mestiere (fatica, pericolo, ambiente insalubre) ne era comunque orgoglioso238. 3.2 ATTIVITÀ LAVORATIVE DI SUPERFICIE All’esterno della miniera, la principale attività lavorativa riguardava il trattamento del minerale. Lo zolfo estratto non si trovava allo stato puro per cui, prima di essere inviato tramite teleferica alla raffineria e alla stazione ferroviaria di Bellisio, era sottoposto ad una fase preliminare di trattamento per separarlo dalle rocce che lo contenevano. Il sistema usato era la fusione che avveniva per mezzo di particolari forni: calcaroni e forni Gill. Il calcarone aveva una forma cilindrica in muratura con la base circolare inclinata verso un muretto di colatura239. Veniva caricato disponendo dapprima sul fondo grossi pezzi di minerale. Una volta riempita la base del forno, si gettava altro minerale in pezzi più piccoli fino a formare un mucchio conico che si copriva con uno strato minuto di “rosticci”. Il minerale solfifero veniva acceso dall’alto, nella parte opposta al muretto di colatura, per mezzo di fascine imbevute di zolfo. Il fuoco, moderato dal ricoprimento del cumulo, si estendeva lentamente dall’alto verso il basso. Dopo una quindicina di giorni, si forava il muretto (spillatura) e si faceva colare lo zolfo liquido. Questo scorrendo su una grossa incanalatura raggiungeva gli stampi dove, appena raffreddato, prendeva la forma di “pani”240. La durata della fusione, dal momento dell’accensione a quello in cui colava l’ultimo zolfo, variava con la capacità del calcarone. A Cabernardi ogni calcarone conteneva dalle 2500 238 Cfr. ,P. Audibert, Psicanalisi del minatore, in «L’Industria mineraria», luglio 1963, p.403. 239 Cfr. ,M. Gatto, Condizioni tecniche dell’industria solfifera siciliana in L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925 p. 38. 240 I pani del peso di circa 50 Kg ognuno erano di colore scuro perché contenevano residui bituminosi, solo con l’ulteriore raffinazione avrebbero acquistato il classico colore giallo. 117 alle 3000 tonnellate di zolfo grezzo e rimaneva in attività per 6 mesi per cui veniva allestito due volte l’anno. Il forno Gill poteva essere considerato un perfezionamento del calcarone241. Anche il forno Gill era basato sull’utilizzazione dello zolfo quale combustibile ma differiva dal calcarone perché la combustione veniva compiuta in un ambiente chiuso. Ogni singolo forno Gill era costituito da una camera (o cella) circolare, chiusa con pareti e volta in muratura; provvista delle aperture necessarie al carico e scarico del minerale, alla raccolta dello zolfo fuso e alla circolazione dei gas di combustione. Invece di una sola camera si dimostrò più conveniente usarne 2, 4 o 6 sia perché si poteva ottenere una produzione quasi continua (finita la combustione in una camera la si cominciava nell’altra) sia perché si poteva recuperare il calore di una camera facendolo passare in un’altra (aprendo gli appositi condotti di comunicazione). Nonostante la miglior resa in zolfo del forno Gill anche questo, come il calcarone, presentava il grave inconveniente di immettere nell’atmosfera notevoli quantità di anidride solforosa, ovviamente molto nociva per l’uomo e per l’ambiente. Inoltre, entrambi i forni, una volta uscito lo zolfo liquefatto, producevano una grande quantità di materiale di scarico (rosticci). Questo materiale veniva ammassato intorno alla miniera formando quella che veniva chiamata la “discarica della miniera”. Ciò contribuiva ad innalzare in modo innaturale la temperatura dell’aria circostante, fino a livelli troppo elevati durante la stagione calda, e con spiacevoli sbalzi termici in spazi ristretti durante la stagione fredda. I forni Gill presentavano il vantaggio di poter trattare piccole partite di minerale (venivano messi in attività 2 volte al mese). Tuttavia in miniere a grande produttività, come 241 I forni Gill e i calcaroni furono i due mezzi classici di trattamento del minerale adottati per lungo tempo fino alla scomparsa dell’industria solfifera italiana. Mentre il calcarone cominciò ad essere usato a partire dall’1850, il forno Gill comparve nel 1880 quando fu brevettato dal suo inventore ing. Roberto Gill. Cfr. , M. Gatto, Trattamento mineralurgico del minerale di solfo, Torino, 1928, p. 94. 118 Cabernardi, tenuto conto della estensione nonché dei costi di impianto dei forni Gill, veniva data una certa preferenza ai calcaroni242. Dai dati riportati nella Rivista del Servizio Minerario si deduce, infatti, che, nonostante aumentasse l’installazione dei forni Gill, il loro numero restò comunque subordinato a quello dei calcaroni243. A differenza di quanto avveniva all’interno della miniera, tra i lavoratori addetti alle mansioni di superficie era presente manodopera giovanile (ragazzi di età comunque non inferiore ai 14 anni) ed anche un numero ridotto (10-15) di donne adulte244. Naturalmente costoro erano per lo più addetti a mansioni meno gravose. Per alcuni il lavoro consisteva nel fare la cernita del minerale solfifero estratto per eliminare il pietrame manifestamente povero di zolfo. A fine giornata il materiale cernito veniva caricato sui vagonetti per essere poi inviato alla fusione: più vagonetti si riempivano più si guadagnava. Altri, invece, avevano il compito di impastare gli sterri245 con acqua formando le cosiddette “panotte” (di 10-15 Kg). Queste, una volta essiccate, venivano caricate nei forni in modo da rendere più consistente la resa in zolfo. L’operazione di caricamento dei forni veniva svolta da un’altra categoria di lavoratori “i riempitori” che avevano una grande pratica del loro mestiere, infatti la riuscita della fusione dipendeva dall’esatto riempimento dei forni. L’incarico di guidare l’operazione di fusione era affidato agli “arditori”, i quali cercavano di ottenere una 242 A Cabernardi i forni Gill avrebbero coperto una superficie quattro volte maggiore e non ci sarebbe stato spazio sufficiente per la loro installazione. Cfr. ,A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia-Romagna, Modena, 1972, p. 61. 243 Nel periodo di gestione dell’Azienda Solfifera Italia gli impianti di fusione erano costituiti esclusivamente da calcaroni: 16 nel 1888, 21 nell’anno seguente e 27 nel 1891. La prima installazione di forni Gill, a Cabernardi, risale al 1904. Nel 1914 mentre i forni Gill erano soltanto 5 i calcaroni risultavano una trentina. Nel 1937 il bacino di Cabernardi disponeva di 16 calcaroni, 8 batterie di forni Gill a 4 celle e una sestiglia di Gill. Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», per gli anni considerati. 244 Si trattava soprattutto di donne vedove e con figli a carico che non avevano nessun sostentamento dal momento che, a quei tempi, la pensione non c’era. Cfr. ,G. Stefanati, Cristalli nella nebbia minatori a zolfo dalle Marche a Ferrara, Ferrara, 1996, p. 31. 245 Nell’abbattimento e nel trasporto del minerale si formava una grande quantità di minerale minuto che veniva detto sterro. 119 buona solidificazione per poter avere la migliore qualità di zolfo. Era necessario che fossero persone intelligenti e molto esperte poiché tale operazione incideva direttamente sulla produzione. Per questo motivo il perito minerario li sorvegliava continuamente e impartiva loro direttive. L’attività degli arditori era continua, dovendo badare spesso a più forni sia di giorno che di notte. La vita lavorativa di superficie implicava anche ruoli non strettamente legati alla produzione di zolfo. Come si sa, un cantiere necessita di molte strutture, per essere autonomo. I fabbri erano indispensabili in ogni centro solfifero dato che dovevano riparare gli strumenti di lavoro dei minatori, arditori ed altre categorie di lavoratori oltre ai vagonetti a meno che non richiedessero l’opera di meccanici specializzati come tornitori e fonditori. C’erano infatti meccanici ed elettricisti di ogni tipo, il cui compito era di costruire pezzi di ricambio e di eseguire le riparazioni più complesse. I trasporti in superficie venivano effettuati con l’ausilio di muli o di piccoli locomotori il che implicava naturalmente l’impiego di mano d’opera per indirizzare gli animali o guidare i mezzi meccanici. Un elenco delle mansioni contrattuali previste nei lavori all’esterno della miniera e della paga base giornaliera del 1919 è riportato nella seguente tabella. 120 Tabella 3.2 Mercedi giornaliere medie dei lavoratori all’esterno della miniera di Cabernardi, in vigore con decorrenza dal 1° maggio 1919. Fonte: Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1919. Mansioni Mercede giornaliera (lire) Sorveglianti e guardiani 9-11 Macchinisti e fuochisti 6-12,80 Marcatori 8-10 Manovali carreggiatori 10,35 Falegnami 9-11 Fabbri 8-13 Muratori 5-8 Garzoni fabbri e falegnami 5-8 Manovali 3,50-9,99 Ricevitori ai pozzi 11,25 Caricatori calcaroni 9,16 Caricatori celle Gill 9,33 Abbadatori calcaroni 9,17 Abbadatori celle 9,10 Scaricatori calcaroni 9,71 Scaricatori celle 11,52 Manovali diversi 3,50-8 Per quanto riguarda gli “scaricatori dei calcaroni e celle Gill”, è necessario precisare che queste categorie di lavoratori scomparvero pochi anni dopo. Infatti, a Cabernardi, per la prima volta in Italia, furono applicati gli “scrapers”, macchinari per lo scarico dei rosticci dai forni fusori. Ciò permise non solo un forte risparmio di tempo, ma anche l’eliminazione del penoso e gravoso lavoro di scarico manuale246. I dati della tabella 3.2 sono direttamente comparabili con quelli riportati nella tabella 3.1 (relativa all’interno della miniera). E’ evidente che i minatori avevano una paga ben più alta 246 Cfr. , AA.VV. La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione del Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, p. 114. 121 di tutte le altre categorie di operai. Si può inoltre notare che la paga media giornaliera degli addetti all’interno (esclusi i minatori) era praticamente allo stesso livello di quella degli addetti all’esterno. Infine, non si riscontravano grandi differenze di guadagno tra i lavoratori che operavano all’esterno, neanche considerando gli addetti al trattamento del minerale rispetto a tutti gli altri. 3.3 INFORTUNI Il lavoro in miniera è normalmente ritenuto un’attività ad alto rischio per la salute e talora per la vita stessa. Effettivamente questa opinione è suffragata da molti episodi accaduti in varie miniere italiane e nel mondo, benché la specificità di un lavoro che si svolge sotto terra, ad una profondità anche di diverse centinaia di metri, sia tale da rendere ancor più tremenda l’immagine di una realtà già estremamente pesante. In confronto alle lavorazioni sotterranee per la coltivazione di altri minerali, le miniere di zolfo hanno sempre presentato maggiori difficoltà dovute a vari fattori, ma principalmente alla presenza di gas tossici e infiammabili ed alla frequenza di incendi del minerale. A Cabernardi, nel periodo di attività della miniera si sono verificati numerosi incidenti che hanno causato la morte di 130 lavoratori, oltre naturalmente alle migliaia di infortuni più leggeri. La Rivista del Servizio Minerario riporta puntualmente la statistica dei casi più gravi, cioè di quelli che hanno avuto come conseguenza morti o almeno feriti con lesioni permanenti247. Specialmente nei fascicoli relativi agli ultimi decenni del secolo scorso ed ai primi di questo secolo, il bollettino è assai dettagliato per cui è possibile trarre alcune considerazioni. Innanzitutto, la maggior parte degli incidenti avveniva all’interno della 247 «Beninteso oltre ai detti accidenti, si ebbero come sempre, numerosi casi di lesioni leggere, dei quali non si fa menzione dettagliata essendo essi da ritenere, in genere, come effetti, pressoché giornalieri e inevitabili del lavoro minerario». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1897, p. 21. 122 miniera, in particolare quelli mortali. Considerando le date in cui si verificarono gli incidenti, si nota un fatto curioso in quanto si ha una concentrazione nei primi quattro mesi dell’anno e nel mese di agosto. Sembrerebbe quindi esserci una relazione con l’alternarsi delle stagioni tuttavia c’è da considerare che il numero dei lavoratori presenti in miniera variava proprio con le stagioni, in funzione delle esigenze di lavoro nelle campagne. In tal senso i momenti più critici erano quelli della raccolta e trebbiatura del grano, nei mesi di giugno e luglio, e della raccolta e pigiatura dell’uva in autunno. Dal 1886 al 1910, gli infortuni furono complessivamente 23, con 6 morti e 21 feriti, in media 1 infortunio all’anno, 1 ferito ogni 14 mesi e 1 morto ogni 4 anni. Negli anni successivi il numero di infortuni aumentò molto; basti pensare che nel 1935 si aveva una media di circa 10 incidenti alla settimana e quasi 2 al giorno nel 1936. La pericolosità dell’attività mineraria risulta molto peggiorata negli anni ’30, anche tenendo conto del diverso numero di addetti nei due periodi. Nel ventennio a cavallo dei secoli XIX e XX, si ha una media di 200-250 lavoratori, di cui l’85% operava all’interno della miniera, mentre nel 1935 gli operai erano 939 di cui 625 (il 66%) operanti all’interno. Ne risulta quindi che nel primo caso i morti sono poco più di 1 all’anno ogni 1000 lavoranti, mentre nel 1935 il rapporto sale a 5,5 . Naturalmente questi valori diventano ancor più rilevanti (1,5 contro 9 circa) se si considera soltanto l’attività all’interno della miniera. Per quanto riguarda le cause tecniche degli infortuni, le più frequenti erano dovute a : scoppio di mine, esplosione di gas, accensione di grisou, asfissia per anidride solforosa, distacchi di roccia, incendi di varia natura e cadute accidentali. 123 L’impiego di esplosivi ha sempre rappresentato un pericolo, sia per l’accensione di gas infiammabili che per la facilità con cui le esplosioni di mine incendiavano il minerale ed il pulviscolo ricco di zolfo che in più o meno grande quantità si trovava in sospensione nell’atmosfera dei cantieri e dei sotterranei. Con gli esplosivi impiegati inizialmente nella miniera di Cabernardi, in particolare la polvere nera, il pericolo di incendi dopo lo sparo di mine si manifestava con molta frequenza. Successivamente, con l’impiego di un altro tipo di esplosivo (la grisoutine), si attenuarono in parte le probabilità di incendio anche se la ricchezza degli strati di minerale e l’aumento delle coltivazioni e conseguentemente dell’impiego di mine contribuirono ad aumentare il pericolo248. Furono quindi applicate alcune misure cautelari. Prima della carica, sia i fori per le mine che il fronte di abbattimento venivano bagnati poi le mine nei cantieri di abbattimento venivano fatte partire una per volta, e sempre in presenza del sorvegliante, all’inizio del turno di lavoro. Per aumentare la sicurezza, negli anni ’30, le mine venivano fatte esplodere elettricamente; metodo che presentava il vantaggio di eliminare la fiamma per l’accensione della miccia249. Inoltre, subito dopo lo sparo di ogni mina, i minatori del cantiere, muniti di maschere adatte per l’anidride solforosa, irroravano d’acqua il minerale caduto e i punti in cui si rilevava un principio d’incendio. 248 L’impiego di esplosivi, a Cabernardi negli anni ’30, aveva assunto notevoli proporzioni tanto che poteva oltrepassare 200 Kg al giorno ed anche se, come prescriveva il regolamento di polizia mineraria, non si poteva introdurre nel sotterraneo un quantitativo superiore al consumo giornaliero, tuttavia si trattava di una quantità notevole. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza nelle miniere di solfo, in «L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare», a. XIX, febbraio 1941, p. 44. 249 Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1937, p. 453 e 1938, p.489. 124 Il problema della mancanza di acqua rendeva più difficile l’operazione di spegnimento. In epoca anteriore alla Prima Guerra Mondiale l’acqua era trasportata per mezzo di botti o con vagonetti che venivano istallati nei pressi di ogni cantiere e riempiti prima dello sparo. L’acqua era prelevata con secchi e lanciata nelle zone incendiate. Si ricorreva anche a grossi stracci bagnati che venivano sbattuti contro le pareti incendiate. E’ quindi possibile immaginare quanto difficile e penoso fosse tale lavoro250, tanto più che per difendersi dall’anidride solforosa che si sprigionava, gli operai non disponevano di mezzi efficaci. Nel primo dopoguerra la miniera venne munita di una vasta rete di tubazioni d’acqua alimentata da grandi vasche di raccolta collocate all’esterno251. L’incendio di un cantiere poteva portare, come più volte avvenne, alla chiusura dell’intero sotterraneo con danni incalcolabili per l’industria e la maestranze. Nelle operazioni di spegnimento notevoli erano le difficoltà da affrontare e lo spirito di abnegazione richiesto agli operai, alcuni dei quali compirono atti di autentico eroismo, operando in ambienti resi infernali per il caldo, l’umidità, la polvere, il fumo e le esalazioni di gas nocivi. Nei numerosi incendi verificatisi nella miniera di Cabernardi non tutti erano da attribuirsi alle esplosioni di mine, infatti il minerale di zolfo poteva incendiarsi per varie cause anche dovute alla distrazione. Per cercare di eliminare questi pericoli innanzitutto era severamente proibito fumare nel sotterraneo252. Le lampade a fiamma libera costituivano un’ulteriore pericolo se gli operai che le adoperavano non usavano tutte le cautele, specialmente all’atto 250 «Il 21 luglio, nella miniera di Cabernardi, un minatore, per essere accorso troppo volenterosamente e senza preoccuparsi dell’esame del cantiere, a spegnere un principio d’incendio provenuto dallo sparo di una mina, rimase colpito ed ucciso da un masso caduto dalla volta del cantiere stesso dove era stata pochi momenti prima sparata la mina». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1900, p. 19. 251 In un primo tempo l’acqua si prelevava dalle tubazioni che correvano soltanto lungo le gallerie principali, ma in seguito l’impianto venne completato con diramazioni per tutti i cantieri di coltivazione che in tale modo potevano essere irrorati in qualsiasi momento da getti d’acqua a non meno di 15 atm. e con lancio di 20 metri di lunghezza. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza, cit., p. 43. 252 «dà luogo a immediato licenziamento l’essere trovato a fumare in miniera; alla sospensione da uno a tre giorni, l’essere trovato con fiammiferi o altri mezzi idonei a far fuoco in miniera o all’uscita di questa». Direzione delle miniere di Cabernardi, op. cit., p.9. 125 di assicurarle con l’apposito gancio alla parete delle gallerie. Questa causa di possibili incendi venne eliminata nel 1936 con la completa soppressione delle lampade a fiamma libera che furono sostituite con quelle elettriche (a pila), una per lavorante, le quali dovevano essere restituite all’uscita ed erano perciò contrassegnate dal numero di matricola personale253. Un tipo di lampada particolare era quella destinata al sorvegliante: era fatta a faretto e non a candela, ciò faceva sì che lo si potesse vedere a distanza. Un fenomeno che qualche volta aveva dato luogo a seri inconvenienti, nella miniera di Cabernardi, era rappresentato dall’incendio del minerale nei pozzi durante l’estrazione in seguito a violento urto della gabbia e conseguente rovesciamento del minerale contenuto nei vagonetti. Tale inconveniente causava scene di panico tra le maestranze per l’improvvisa notevole emanazione di anidride solforosa che disorientava gli operai i quali non conoscendo la causa, non sapevano da che parte dirigersi per mettersi in salvo254. Un’altra causa di numerosi infortuni spesso mortali era costituita dall’emissione di gas nocivi: anidride solforosa e grisou. L’anidride solforosa (o biossido di zolfo) si sprigionava da tutte le rocce contenenti zolfo allo stato puro, ma proveniva specialmente da combustione del minerale di zolfo. Questo gas tossico di odore irritante anche in percentuali minime nell’atmosfera poteva essere mortale per l’uomo. A contatto dell’umidità e dell’ossigeno dell’aria si trasforma parzialmente in acido solforico. Tale reazione avviene anche quando l’anidride solforosa va a contatto con parti umide del corpo: irrita infatti gli occhi e le vie respiratorie mentre a maggior concentrazione può provocare edema polmonare. In modica concentrazione provoca starnuti, tosse spasmodica e salivazione abbondante. Per cercare di 253 Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1936, p. 50. 254 E’ da notare che i due pozzi di estrazione a Cabernardi, detti pozzi esterni per distinguerli da quello interno, erano profondi 500 m.t. ognuno e mettevano in comunicazione l’esterno con il XIII livello (livello base) essendo i livelli superiori al XIII tutti esauriti. La velocità delle gabbie era notevole, raggiungendo la media di 12 m.t. al secondo e ciò spiegava la violenza dell’urto nel caso di inceppamento. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza, cit.,pag. 47. 126 limitare tali danni veniva fatto uso obbligatorio da parte degli operai di apposite maschere (anche se nell’ambiente in cui venivano usate non avevano grande efficacia). Il grisou era molto temuto per l’effetto, spesso letale, che produceva nei colpiti da bruciature anche di lieve entità. Non di rado avveniva che infortunati leggeri, che non avevano riportato bruciature ma che avevano soltanto inspirato il gas prodotto dall’esplosione, soccombevano dopo qualche tempo, pur non presentando alcun sintomo di gravità, tanto che avevano spesso potuto raggiungere a piedi le proprie abitazioni. La sostituzione delle lampade a fiamma libera con quelle elettriche a pila ed il brillamento elettrico delle mine si rivelarono utili anche per tentare di eliminare le cause di esplosione da grisou255. Nonostante i miglioramenti apportati dai metodi di coltivazione, i distacchi di minerale, che si verificavano durante l’abbattimento, continuarono ad essere la causa principale di infortuni. Si può infatti affermare che il numero di infortuni dovuti a distacco di minerale era circa pari al totale degli infortuni causati dagli incendi, scoppi di gas e asfissia per gas tossici. L’elevato ritmo di coltivazione e la profondità dei lavori, provocavano l’aumento continuo di spinte dei terreni e di conseguenza anche dei pericoli di distacchi di minerale256. Alternando il lavoro di abbattimento con periodi di inattività si otteneva una maggiore sicurezza. Non sempre però era possibile disporre di un numero di cantieri tale da consentire una certa rotazione, che non contrastasse con l’esecuzione di un determinato programma di 255 «...dovevano far sì che non capitassero disgrazie, ma invece, di disgrazie ne sono capitate tante. L’episodio che più mi è rimasto impresso è stato lo scoppio di grisou nell’anno 1937 che causò la morte di sette minatori. Quella volta, come in tutti i casi di incidenti mortali, la sirena suonava in un modo particolare, era un suono triste, allora tutta la popolazione capiva che c’era stato “il morto” e accorreva preoccupata per scoprire chi era quel “disgraziato”. Poi il lavoro veniva sospeso perché si doveva aspettare la Commissione per il controllo». Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit. 256 Una vera strage si verificò nel 1920 quando sette operai perirono travolti da un enorme blocco di roccia che si era distaccata dalla volta del cantiere. Un altro infortunio mortale, agghiacciante nella sua dinamica, toccò ad un minatore nel 1927 per la stessa causa. «Questi, per riposare, si era seduto su piano inclinato di scarico del minerale ai piedi del cantiere, “perfettamente” a riparo da eventuale caduta di minerale. Mentre se ne stava tranquillamente seduto si verificò il “chioppo”; un blocco tagliente di minerale staccatosi violentemente ed improvvisamente dal fronte di abbattimento imboccò come un proiettile il piano inclinato e colpì il povero minatore alla nuca recidendogli nettamente la testa che gli cadde in grembo». M. Battistelli, Gli zolfi di Cabernardi, in «Quaderni di Proposte e Ricerche», n°4, 1988b, p. 279. 127 produzione. La manutenzione delle lunghe gallerie presentava, specialmente nelle parti più profonde, gravi difficoltà per le sollecitazioni meccaniche e per le forti spinte laterali che subivano. Anche il rivestimento in muratura spesso cedeva alla pressioni laterali. Un valido risultato venne conseguito in quei tratti di gallerie più soggette a spinte e di più intenso traffico, usando un rivestimento speciale in tondini di legno257.Con questo sistema, le gallerie offrivano una grande resistenza alle pressioni e si mantenevano efficienti per molto tempo, pur riducendosi di sezione. La spesa era costituita soltanto dalla manodopera, dovendosi considerare di scarso costo il legname che veniva ricavato dai rifiuti delle armature258. La caduta del minerale non di rado provocava anche gli incendi facilitati da gas infiammabili nonché dalla eccezionale ricchezza del minerale e dall’abbondante polvere di zolfo che si sollevava in seguito alla sua caduta rendendo molto più grave l’incidente. Era accaduto infatti che minatori colpiti, impossibilitati a liberarsi dai blocchi di roccia, erano dovuti soccombere per effetto dell’anidride solforosa sviluppatasi subito dopo. Un elemento fondamentale per la salute e la sicurezza dei lavoratori nella miniera era la ventilazione del sotterraneo. Era un vero problema garantire l’aria necessaria alla normale ventilazione del sotterraneo perché bisognava tenere conto dei molti fattori che influivano sul consumo dell’aria quali, ad esempio, lo sparo di mine, piccoli e grandi incendi e la combustione del minerale. Molta aria era inoltre necessaria per abbassare la temperatura elevata dei cantieri e soprattutto rendere innocue le emanazioni di gas tossici ed esplosivi, sempre presenti nei sotterranei in quantità più o meno rilevante. A Cabernardi la ventilazione non fu mai sufficiente. Per un sotterraneo così vasto, fino al 1933 c’era una 257 Questi, lunghi 60 cm, venivano sistemati a raggiera, uno a contatto dell’altro, attorno alla sezione circolare della galleria e cementati insieme con malta costituita da “rosticci” convenientemente impastati con acqua. Cfr. , Mattias P., Crocetti G., Scicli A. , Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p.123. 258 I cantieri venivano fittamente armati con il legname in modo che i minatori potessero praticare i fori di mina a mezzo di lunghe barramine, mantenendosi possibilmente sempre al riparo delle armature. 128 sola presa d’aria259. L’aria immessa percorreva, in sottosuolo, circa 2 Km dopo aver ventilato numerosi cantieri distribuiti su diversi livelli. Nel 1934 entrò in esercizio un secondo riflusso (denominato Poggio), e nel 1936 una terza presa d’aria, la ventilazione migliorò ma per l’estensione dei lavori non poteva considerarsi ancora efficace260. Inoltre l’installazione di potenti aspiratori agli imbocchi provocava una velocità eccessiva delle correnti d’aria nelle vie di transito. L’aria raggiungeva anche una velocità di 8 m/s sollevando polvere e granuli di zolfo tanto da causare problemi ai minatori come: forte irritazione agli occhi e mal di testa. Per difendersi da tali inconvenienti venivano usati occhiali bordati di gomma, ma i vetri, appannandosi, riducevano la visibilità rendendo poco agevole il transito nelle gallerie e nei ripidi piani inclinati. Spesso per insufficiente ventilazione e per l’elevata temperatura alcuni cantieri dovevano essere chiusi. La temperatura media era di circa 30° C ma spesso si raggiungevano i 39° C con umidità oscillante tra 80-85%, di conseguenza, in alcune zone della miniera, il lavoro non poteva essere svolto per tempi superiori a 15-20 minuti. Le maestranze normalmente non si lamentavano per l’elevata temperatura, anzi molti la preferivano perché ottenevano un premio che poteva oltrepassare le 300 lire al giorno. Infatti il contratto collettivo del 28 novembre 1947 fra l’Associazione Industriali e la Camera Confederale del Lavoro della provincia di Ancona, stabiliva, ad integrazione del contratto nazionale, le seguenti percentuali d’aumento sulle retribuzioni di fatto (paga base, più contingenza ed eventuali premi) o sulle tariffe di cottimo261. 259 Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1933, p. 14. 260 Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», 1936, p. 49. 261 Cfr. , Museo della miniera di zolfo di Cabernardi, Rapporto sulla visita eseguita alle miniere di solfo Cabernardi dal Perito Capo A. Scicli del Corpo delle miniere (Distretto di Bologna) il 22-23-24 marzo 1949 per ispezione ordinaria. 129 Temperatura (C°) Maggiorazione del (%) 29 5 30 7 31 9 32 11 33 14 34 17 35 20 36 25 37 29 38 34 39-40 35 41-42 36 43-44 37 130 CAPITOLO QUARTO LA MINIERA E CABERNARDI 4.1 SVILUPPO SOCIO-ECONOMICO La scoperta della miniera di zolfo ha determinato un forte processo di trasformazione per il paese di Cabernardi apportando un notevole sviluppo economico e sociale. Fino ad allora la scarsa popolazione locale era dedita ad una attività agro-pastorale piuttosto arretrata. I piccoli appezzamenti di terreno, rudimentalmente coltivati, rendevano molto poco. Dalla scoperta della miniera la vita del paese, a poco a poco cambiò completamente. Per oltre cinquant’anni Cabernardi assunse un ruolo chiave, fu un riferimento obbligato in ambito occupazionale per tutti i Comuni limitrofi. Il richiamo occupazionale coinvolse, anche se in minima parte, molte regioni italiane; gran parte delle maestranze provenivano principalmente da vari Comuni delle due province marchigiane di Ancona e Pesaro e specificamente da Pergola, Arcevia, S. Lorenzo in Campo, Castelleone di Suasa, Genga, Serra S. Abbondio, oltre che naturalmente da Sassoferrato (Comune di appartenenza della frazione di Cabernardi). Per tutto il periodo tra le due guerre la produzione di zolfo, monopolizzata nelle Marche dalla Montecatini che nel 1917 aveva assorbito le miniere e le raffinerie marchigiane, conobbe una crescita assai forte. Cabernardi, che si rivelò la più produttiva miniera di zolfo d’Italia, registrò un trend ascendente e riuscì ad aumentare la sua quota relativa rispetto alla produzione nazionale, che passò dal 7.5% del 1923 al 14% del 1933 e raggiunse circa il 18% nel 1938. Il numero di addetti alla miniera che nel 1919 era pari a 680 persone giunse a 131 quota 1000 nel 1930 per poi attestarsi ad un livello non inferiore alle 1500 unità fino al 1951-52 quando erano occupati mediamente 1700 operai. A conferma di ciò il censimento del ’51 rivela che la produzione di zolfo nelle Marche contava 3196 addetti (22.6% del totale nazionale) localizzata nei due Comuni di Sassoferrato (AN) e Novafeltria (PS)262. L’importante ruolo svolto dal centro minerario è chiaramente indicato non solo dalla quantità estratta e dal numero di addetti, ma anche dalla maggior tenuta demografica della zona, in un periodo nel quale vi erano evidenti fenomeni di spopolamento delle zone dell’entroterra. Tabella 4.1 Popolazione residente nel comune di Sassoferrato e nella frazione di Cabernardi Fonte: Ufficio Anagrafe di Sassoferrato Anni 1871 1881 1901 1911 1921 1931 1936 1951 Sassoferrato 9020 9403 11235 12378 12610 12906 12996 13488 Cabernardi 426 512 665 870 1075 1285 1507 1733 Pop. Cab./pop. Sass. % 4.7 5.4 5.9 7.0 8.5 10.0 11.6 12.8 Come si può osservare dalla precedente tabella, la popolazione residente nel comune di Sassoferrato e nella frazione di Cabernardi, dal 1871 al 1951, mostra una continua crescita. Tale crescita demografica, specialmente per la frazione di Cabernardi, diventa molto più evidente nel periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale al 1951 e che corrisponde al massimo sviluppo della miniera. Questo assume ancora maggior importanza se si considera che le Marche furono interessate da un largo fenomeno di emigrazione. Come si può vedere dai dati riportati in Tabella 4.1, tra il 1861 e il 1981 la popolazione iniziale delle Marche di 908000 abitanti conobbe un 262 Cfr., Comitato regionale degli amministratori degli enti locali delle Marche, Situazione e prospettive dell'economia marchigiana, Ancona 1961, p. 217. 132 saldo naturale complessivo di 1163000 unità, di queste 659000 (57%) presero la via dell’esodo dalla regione. Tabella 4.2 Evoluzione demografica nelle Marche: movimento naturale e migratorio, 1861-1981. Fonti: Censimento generale della popolazione e Annuario statistico italiano, anni vari; Istat, Annuario di statistiche demografiche; voll. XXVI, 1977, pag. 16-17; XXXII, 1983, pag. 163-64. anni saldo naturale espatri rimpatri (3) _ saldo migratorio estero (4)=(3)-(2) _ saldo movimento sociale (5) -14 293 saldo migratorio interno (6)=(5)-(4) _ 1861-70 (1) 63 283 (2) _ 1871-80 49 504 _ _ _ -34 543 _ 1881-90 220 520 19 369 _ _ -104 223 _ 1891- compreso 49 200 _ _ compreso _ 1900 sopra 1901-10 127 384 221 519 127 075 -94 444 -71 142 23 302 1911-20 115 578 129 033 34 568 -94 465 -59 997 34 468 1921-30 155 742 76 431 26 441 -49 990 -116 465 -66 475 1931-35 66 004 5 098 5 074 -24 -27 796 -27 772 1936-40 162 841 2 368 3 206 838 -76 882 -54 115 1941-50 compreso 29 968 6 363 -23 605 compreso compreso sopra sopra sopra sopra 1951-60 92 168 65 373 31 491 -33 882 -108 709 -74 827 1961-70 79 312 62 534 59 536 -2 298 -66 894 -63 896 1971-80 30 406 20 660 28 906 8 246 22 091 13 845 Totale 1162 751 -658 853 Si trattò di emigrazione all’estero, che nel primo quindicennio del ‘900 e anche nel primo dopoguerra aveva superato il livello medio italiano, e di una emigrazione interna, verso altre regioni, che raggiunse il suo culmine nel secondo dopoguerra. 133 Nel complesso, mentre nel periodo 1901-1920 si sono avuti circa 350000 espatri nelle Marche, in gran parte concentrati nei primi 13 anni, se ne sono registrati 76000 nel decennio 1921-1930 e soltanto 7500 in quello successivo. Le destinazioni degli espatri erano soprattutto intercontinentali ma si ebbe anche un flusso verso i Paesi europei. La progressiva riduzione e fine dei flussi di emigrazione verso l’estero caratterizzò tutto il periodo tra le due guerre in cui però restò consistente l’esodo verso altre regioni italiane. Il periodo che va dal 1927 alla Seconda Guerra Mondiale, si caratterizza per le maggiori difficoltà di esodo. Il blocco totale degli espatri, le minor possibilità di impiego anche in altre zone del Paese (connesse all’aggravarsi ed al prolungarsi della recessione fino almeno al 1935) ed infine lo scoppio della guerra limitarono senza dubbio, rispetto al decennio precedente, la mobilità extra-regionale. Per quanto riguarda tale migrazione interna, dall’analisi dei dati censuari, si osserva che tra i nati nelle Marche residenti in altre regioni italiane, il Lazio si colloca al primo posto con oltre il 50% nel 1901, scende al 42% nel 1921 per risalire al 45% nel 1931 e al 50% nel 1951. Risulta quindi una prima emigrazione indirizzata in prevalenza verso aree rurali (campagna laziale). Successivamente si ha una ripresa dell'emigrazione collegata in questo caso al processo di urbanizzazione in atto, con i flussi rivolti prevalentemente verso Roma263. Infatti, all’inizio degli anni ’50, malgrado si fosse avuta una flessione dell’incremento naturale piuttosto forte tra il ’36 e il ’51 per l’incidenza della guerra, la popolazione delle Marche era a livelli insostenibili per le possibilità offerte dall’economia regionale264. Nell’entroterra marchigiano, pur restando l’agricoltura la base dell’economia locale, la miniera di Cabernardi non fu un fatto marginale ma un vero polo di attrazione di manodopera scongiurando o almeno limitando, specialmente nel periodo tra le due guerre, il fenomeno migratorio e la disoccupazione. 263 Cfr., E. Moretti, L'evoluzione demografica, in S. Anselmi (a cura di), L’industria nella provincia di Pesaro e Urbino, 1995, pp. 125-127. 264 Cfr. P. Magnarelli, M. Pacetti, Aspetti della società marchigiana dal fascismo alla Resistenza, pp. 19-20. 134 Negli anni ’20 il considerevole afflusso di lavoratori alla miniera aveva fatto sorgere ben presto il problema della mancanza di abitazioni. La Società Montecatini iniziò a costruire locali pubblici e case per le maestranze. Vennero edificate 3 case operaie a Cantarino, località ad ovest del paese265. Tra il 1924 e il 1929 fu particolarmente rilevante, a Cabernardi, la crescita edilizia. La Società Montecatini, infatti, secondo una logica di intervento globale nel territorio che caratterizzava ogni suo insediamento, anche a Cabernardi, a partire dagli anni ’20, aveva iniziato una radicale trasformazione che riguardava anche l’organizzazione quotidiana del minatore e della sua famiglia. La Società fece costruire spacci aziendali, circoli ricreativi, case e chiese, concesse pezzetti di terra e provvide all’istruzione scolastica, naturalmente differenziata, per i figli di operai ed impiegati266. Nel 1929 la Montecatini costruì gli edifici per le mensa e per la Cooperativa dei Minatori. Vi erano due distinte mense: una per gli operai e una per gli impiegati scapoli. Negli anni seguenti, per opera della Società, furono costruite altre case per gli operai della miniera in una zona che prese il nome di via Contrada Nuova ed edificati palazzi per gli impiegati in via Cafabbri. Nel 1933 sorse il villaggio denominato Cantarino, una vera e propria borgata operaia dotata di chiesa e di circolo ricreativo. Nella generalità dei casi gli edifici presentavano caratteri del tutto ordinari e si distinguevano soprattutto per l’estrema essenzialità e la perfetta funzionalità rispetto alle esigenze a cui dovevano rispondere. Le abitazioni degli operai, però, erano prive dei più indispensabili servizi igienici: gabinetti, acqua corrente. Per rimediare a ciò la Montecatini fece costruire nei pressi della miniera gabinetti e bagni 265 Cfr. Ministero di agricoltura Industria e Commercio, «Rivista del servizio minerario», 1920, p. 6. 266 Cfr. G. Stefanati, Cristalli nella nebbia minatori a zolfo dalle Marche a Ferrara, Ferrara 1996, pp. 32-33. 135 pubblici muniti di docce con acqua calda e fredda, dei quali potevano usufruire sia gli operai che le loro famiglie267. Lo sviluppo edilizio proseguì negli anni successivi per opera dell’INA-Case come per il villaggio Santa Barbara edificato in epoca più recente (1950-51). Intorno agli anni ’30 la Montecatini costruì un fabbricato ad uso degli operai e di tutto il paese: il Dopolavoro. Tale edificio era predisposto all’intrattenimento, vi erano un teatro ed una sala cinematografica dove il sabato e la domenica veniva proiettato un film. Si svolgevano attività ricreative organizzate da un Comitato dopolavoristico; in esso esercitavano due complessi da ballo ed anche una compagnia di filodrammatica molto rinomata nella zona composta esclusivamente dal personale di Cabernardi che si esibiva in spettacoli con un vasto repertorio. Venivano organizzate manifestazioni canore e feste da ballo anche in maschera a carnevale. Oltre ad un campo sportivo, Cabernardi aveva allora tre campi da tennis, due ad uso esclusivo degli impiegati, un campo da bocce ed un pattinaggio268. Anche il culto rientrava tra i settori di intervento della Montecatini: alle tre chiese preesistenti ne venne affiancata un’altra (nel 1933) in prossimità della miniera, di minuscole proporzioni ed a forma di antico tempietto, naturalmente dedicato a Santa Barbara, patrona dei minatori. Alla chiusura della miniera, nel suo interno, su delle lapidi, sono stati incisi i nomi dei 130 caduti sul lavoro negli 80 anni di attività. Il 4 dicembre di ogni anno si celebrava la festività di Santa Barbara, una ricorrenza molto sentita per le sue tradizioni, con una messa solenne e ed una processione con la statua della Santa portata a spalle dai minatori. L’atmosfera di festa era vivacizzata con lo sparo di mine 267 Cfr. AA. VV. La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell'Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, pp. 594-598. 268 «La Montecatini aveva una squadra di calcio molto forte che faceva un campionato di prima divisione, quella volta». Testimonianza di Angelo Ruzziconi, di anni 82, ha lavorato nella miniera di Cabernardi per 20 anni ricoprendo diverse mansioni, incontrato il 16 maggio 1997 a Cantarino (Sassoferrato). 136 e fuochi artificiali, di certo assai vicini, non solo simbolicamente, allo spirito del lavoratore di miniera. La banda musicale dei minatori prestava servizio tutta la giornata. La Direzione, in occasione della festività, offriva a tutte le maestranze un chilogrammo di carne e due litri di vino269. Al mattino si svolgeva la cerimonia di premiazione, da parte della Montecatini, degli operai e degli impiegati che avevano raggiunto i venti anni di anzianità di servizio. Un’altra manifestazione, che prevedeva la premiazione dei dipendenti che avevano compiuto 25 anni di anzianità, avveniva il 1° maggio270. Lo stesso giorno era prevista la premiazione degli “anzianissimi” ossia di coloro che avevano compiuto 45 anni di servizio271. Negli anni ’30 Cabernardi era dunque già dotata di tutti i servizi essenziali o almeno di quelli allora sentiti come tali. Erano sorti nuovi negozi: dall’unico esistente prima della scoperta della miniera si arrivò all’apertura di altri tre, che con l’aumentare del benessere poterono ingrandirsi. Tutti quanti vendevano diversi generi di merce. Tra essi vi era la Cooperativa dei Minatori, sorta per favorire i lavoratori. Le merci potevano essere acquistate a prezzi inferiori di circa un 10% di quelli correnti di mercato. Inoltre serviva ad equilibrare la distribuzione degli acquisti del personale attraverso opportune regolazioni e condizioni di credito, l’importo della spesa ivi fatta veniva mensilmente detratto dalla busta paga delle maestranze272. La Cooperativa 269 «...ero uno degli organizzatori della festa, e facevo anche parte della banda musicale, molto rinomata. Una settimana prima della festa si andavano a trovare nelle campagne, dai contadini, circa quindici vitelli. Due giorni prima di Santa Barbara questi animali venivano fatti scendere in piazza e si facevano passare per la via principale fino al macello». Testimonianza di Francesco Sonaglia, di anni 78, ha lavorato nella miniera dal 1933 al 1959 ricoprendo le mansioni di (in ordine di tempo) addetto alla cernita, locomotorista e arganista, inoltre fu segretario della Commissione Interna per sette anni, incontrato il 9 maggio 1997 a Cabernardi. 270 Il premio ai “fedeli della miniera” era fissato in misura pari a 30 giorni di retribuzione dell’operaio interessato. Era invece di 60 giorni di retribuzione quando il servizio era stato prestato presso la stessa impresa mineraria. Cfr. Associazione Mineraria Italiana, Contratto nazionale di lavoro per la corresponsione di un premio ai fedeli alla miniera 3 dicembre 1946, Faenza, 1946, p. 17. 271 Cfr. Montecatini Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica, I nostri Anziani, Milano, maggio 1950, p. 4. 272 «La Cooperativa vendeva di tutto, i dipendenti della Montecatini segnavano la spesa su un libretto, poi, alla fine del mese veniva trattenuta dallo stipendio. 137 comprendeva diversi reparti: stoffe, calzature, generi alimentari, un forno per il pane ed un macello con relativo mattatoio. Per chi non aveva mai avuto nulla, per chi vedeva come orizzonte lavorativo solo l’emigrazione, la Società Montecatini era considerata come entità benefattrice e, tra le due guerre, Cabernardi era vista come un’isola nel panorama generale marchigiano273. La diffusione dei mezzi motorizzati (motocicletta, scooter, automobile) tra i minatori era talmente elevata da portarsi alla media registrata negli Stati Uniti, ossia di un’unità ogni cinque abitanti274. Tutto ciò nonostante le condizioni inumane di lavoro a cui si deve aggiungere l’elevato rischio di incidenti anche mortali275. Una stima approssimata parla di oltre 130 morti presso la miniera di Cabernardi, per non contare le migliaia di infortuni oltre alle scontate malattie professionali. Quella della Montecatini comunque fu una vera e propria politica sociale che si identificava in lavoro-assistenza-Dopolavoro. L’assistenza sanitaria totale era già in atto a partire dal 1928 in tutti i suoi aspetti igienici, antinfortunistici e relativi servizi276. Nello stesso edificio degli uffici amministrativi erano stati costruiti un’infermeria ed un ambulatorio medico (nel 1920). Molta gente quando andava a ritirare la busta paga, che accadeva il 12 di ogni mese, non ci trovava molto visto la facilità di fare la spesa. Inoltre il giorno di paga a Cabernardi c’era il mercato con bancarelle e giostre». Testimonianza di Angelo Ruzziconi, cit. 273 «...quella volta chi lavorava in miniera era un “signore”, era considerato “qualcuno” perché, 50 anni fa, anche più, chi lavorava in miniera era fortunato. Avevamo una vita molto dura, ma guadagnavamo bene, intendiamoci per quei tempi! Le famiglie erano numerose e coloro che venivano licenziati “si strappavano i capelli” perché non sapevano dove andare a lavorare. Mio padre, che lavorava in miniera, si era raccomandato dal direttore per fare entrare anche me e i miei due fratelli...la Montecatini ha sparso il benessere in tutta la zona del nostro comprensorio ed in altre parti più lontane». Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit. 274 Cfr. «L’Unità», 15/05/1952. 275 Questo argomento è stato ampiamente trattato nel terzo capitolo. 276 Cfr. A. Damiano, Guido Donegani, 1957, pp. 114-115. 138 Vi era un medico chirurgo retribuito dalla Società, un dentista che faceva visite due volte a settimana ed un medico condotto che provvedeva alla salute dei cabernardesi. In un secondo momento venne anche aperta una farmacia277. L’infermeria era dotata di tutta la strumentazione necessaria per la piccola chirurgia d’urgenza, di impianti radiologici, di un ambulatorio da dentista e di altri servizi necessari. L’attività sanitaria assistenziale della Montecatini si diversificava in assistenza e controllo degli infortuni e delle forme morbose professionali, prevenzione ambientale, tecnica e personale degli infortuni, delle malattie professionali e comuni e assistenza nelle malattie comuni. Per quanto concerne il personale impiegatizio, il Gruppo aveva creato sin dal 1921 una Cassa di Previdenza che attraverso opportune intese con Enti Mutualistici metteva a disposizione del personale non soltanto le prestazioni ordinarie mediche, ma anche quelle di specialità, di intervento chirurgico e di assistenza ospedaliera. Per il personale operaio, sul piano dell’assistenza mutualistica, la Montecatini ebbe una sua propria organizzazione aziendale di Casse Mutue a partire dal maggio 1932278. A Cabernardi, nel 1934, esitevano due distinte istituzioni di previdenza a contributo paritetico: la Cassa Mutua Aziendale Malattie e la Cassa Pensione. La prima concedeva sussidi durante il periodo di malattia e provvedeva anche all’assistenza medica ed ospedaliera sia agli operai che alle loro famiglie. La seconda provvedeva a corrispondere pensioni (di 100 lire mensili) a quegli operai che, avendo raggiunto un’anzianità di servizio di 20 anni e compiuto il 60° anno di età, fossero divenuti inabili al lavoro279. 277 Testimonianza di Eleonora Casagrande Conti, che provenendo da una famiglia di minatori ha trascorso parte della sua vita a Cabernardi, incontrata il 10 maggio 1997 a Cabernardi. 278 Cfr. AA.VV. La Società Montecatini, cit., pp. 584-597. 279 A questo scopo «nel 1934 furono erogate circa 60000 lire. Entrambe le casse, le cui spese di amministrazione sono a carico della Società esercente le miniere, sono assai floride ed hanno accumulato cospicuo fondo di riserva che le mette a riparo da eventualità». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio minerario», 1934, p. CCCLXXIV. 139 L’intensa attività della miniera, come si è visto, fece affluire a Cabernardi un considerevole numero di maestranze che, in seguito, richiamavano dai vari paesi di origine le rispettive famiglie. Conseguenza di ciò fu l’enorme aumento della popolazione scolastica. Al posto di un’unica insegnante con solo le prime tre classi elementari che accoglieva alunni da tutte le zone limitrofe, si arrivò al considerevole numero di sette maestre a Cabernardi e alla costruzione di altri edifici scolastici nelle vicine frazioni. Fu costruito (1948-49) un nuovo edificio al centro del paese dato che il vecchio era ormai insufficiente, tanto che si era costretti a tenere le lezioni in alcune aule sparse in case private. In estate funzionavano le colonie montane e marine, finanziate sempre dalla Montecatini per i figli dei suoi dipendenti280. L’educazione pre-scolastica era affidata all’asilo delle Suore del Buono e Perpetuo Soccorso, sostenute finanziariamente dalla Montecatini, che accoglievano anche ragazze per perfezionamento in lavori di cucito e ricamo. La Montecatini interveniva nella vita del dipendente anche ai fini di assistenza familiare ed economica, sia con sussidi, che venivano assegnati previa riservata e opportuna istruttoria, sia con aiuti in varie circostanze come facilitazione di corsi di studio ai figli degli impiegati, appoggi a pratiche, concorsi in spese eccezionali. 4.2 PROBLEMI ECOLOGICI La miniera se da un lato influiva positivamente sulla vita del paese portando il benessere e la piena occupazione, dall’altro aveva comportato problemi di un certo rischio sia per le persone che operavano nel sottosuolo, sia per l’ambiente a causa dell’anidride solforosa che proveniva dalla fusione del minerale. I danni all’ambiente, ma soprattutto all’agricoltura, 280 Testimonianza di Marino Ruzziconi, figlio di minatore della miniera di Cabernardi, ha partecipato alle colonie estive della Montecatini, incontrato il 10 febbraio 1997. 140 venivano prodotti all’esterno della miniera dai processi di separazione dello zolfo dal minerale che lo contiene. E’ noto infatti che lo zolfo per la sua bassa temperatura di fusione, intorno ai 114 gradi, può essere estratto direttamente dalla roccia nella quale è incluso mediante riscaldamento in particolari forni o mediante la combustione diretta con produzione però di anidride solforosa (biossido di zolfo)281. Questo gas inquinante era liberato nell’atmosfera in quantità enormi dal grande apparato di forni fusori situati all’esterno della miniera di Cabernardi. Il fumo (termine dialettale per indicare l’anidride solforosa), sprigionato durante la fusione, si diffondeva dappertutto e il suo odore pungente si sentiva a distanza di chilometri, anche all’interno delle abitazioni. Talvolta la sua concentrazione nell’aria era talmente elevata che «le monete d’argento diventavano nere e così tutti gli oggetti»282. Il danno maggiore o quantomeno il più immediato era quello provocato all’agricoltura e alla flora, dalle piogge acide specialmente nel periodo di fioritura e allo spuntare dei primi germogli. In presenza di nebbia o di una fortissima umidità l’anidride solforosa si ossida trasformandosi prima in acido solforoso e successivamente, prendendo un nuovo atomo di ossigeno, in acido solforico. Questo acido agisce spesso con grande rapidità e talvolta, in poche ore, quando vi concorra un sufficiente grado di umidità, brucia e dissecca la vegetazione283. Vi sono due modi di danneggiamento alle piante: avvelenamento per assorbimento di anidride solforosa e l’azione caustica diretta dell’acido solforico. Quando la pianta assorbe l’anidride solforosa gassosa, ne risulta un ingiallimento e un rallentamento notevole in tutte le funzioni della pianta stessa. Nel caso invece che l’anidride solforosa si 281 Mattias P., Crocetti G., Scicli A. , Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p.21. 282 M. Battistelli, Gli zolfi di Cabernardi, in A. Antonietti (a cura di), La montagna appenninica in età moderna, in «Quaderni di Proposte e Ricerche», n. 4, 1988b, p. 279. 283 Cfr. A. Veggiani, Problemi ecologici connessi all'attività delle antiche miniere di zolfo del Cesenate, in S. Lillotti (a cura di), La miniera tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, Bologna, 1991, pp. 141-143. 141 trovi in presenza di acqua e si produca quindi una miscela di acido solforico, gli effetti più gravi che si hanno sono la caduta prematura e l’avvizzimento delle foglie ustionate284. A Cabernardi, come in altri centri minerari, il diffondersi dell’anidride solforosa era agevolato dalla posizione delle miniere. Queste ultime erano situate in zone collinari ed in presenza di piccole valli entro le quali l’anidride solforosa, essendo più densa dell’aria e non potendosi sollevare in alto, tendeva a dilagare. Di giorno si disperdeva ma la sera, con l’umidità ricadeva nelle campagne circostanti, bruciando ogni cosa per un raggio di circa dieci chilometri. Le liti tra i proprietari dei fondi agrari colpiti dal fenomeno e i conduttori di miniere sulfuree erano sempre state all’ordine del giorno fin dalla comparsa delle prime carcare (una sorta di piccoli calcaroni molto rudimentali) e più volte le autorità erano intervenute con provvedimenti legislativi atti a vietare la fusione in alcuni mesi dell’anno per dare modo ai nuovi germogli di prendere vigore. Questi provvedimenti, salutari per l’agricoltura ma dannosi per l’economia della miniera, su cui gravava anche il risarcimento dei danni ai proprietari dei fondi confinanti, fecero sì che le ditte esercenti le miniere acquistassero spesso i terreni maggiormente esposti all’azione del gas solforoso, terreni che lasciavano per lo più incolti o affittavano ad un canone irrisorio purché gli affittuari non pretendessero alcun risarcimento per “danni fumo”. Dei vari problemi connessi con l’esercizio dell’arte mineraria quello dell’inquinamento atmosferico nelle arie limitrofe alle miniere di zolfo non fu mai risolto. Solo la loro chiusura aveva restituito a quelle contrade il giusto equilibrio ecologico. Infatti, al cessare dell’attività estrattiva, si è assistito ad una naturale ricrescita della flora sostenuta anche da interventi di rimboschimento. 284 Cfr. U. Brizzi, Gli effetti vegetazione, Modena 1896, p.57. dannosi 142 dell’anidride solforosa sulla 4.3 CONSEGUENZE DELLA CHIUSURA Nel 1952 alla miniera di Cabernardi, dopo 80 anni di attività, iniziarono i primi licenziamenti e gli impianti cominciarono ad essere smantellati, in seguito ad una perizia tecnica della Montecatini che aveva dimostrato che i giacimenti di zolfo erano esauriti. La chiusura definitiva avvenne nel 1959285. Per la frazione di Cabernardi e per il suo Comune, Sassoferrato, questo fu un colpo quasi mortale, di cui risentì tutta la zona vicina. La miniera di zolfo rappresentava una delle poche grandi industrie delle Marche. In essa lavoravano circa 1700 operai (provenienti soprattutto da Sassoferrato, Pergola, Genga, Arcevia e zone limitrofe). Nella provincia di Ancona, prima della Seconda Guerra Mondiale, si trovavano attivi solo cinque stabilimenti aventi ciascuno una maestranza occupata superiore alle 1000 unità. La guerra provocò la scomparsa di due di quei stabilimenti: il Savoia-Marchetti di Jesi e il linificio di Senigallia286. Con la chiusura della miniera si assisteva alla scomparsa di un terzo stabilimento. La chiusura colpiva non solo gli addetti ma anche categorie economiche apparentemente lontane come i commercianti, gli artigiani, i lavoratori della terra. Minor occupazione significava minor giro di denaro e un danno economico che si ripercuoteva, in misura diversa, su tutta la zona. Nel secondo dopoguerra, infatti, l’attività industriale in questa zona aveva regredito (chiusura dei due pastifici e riduzione del personale del cementificio a Sassoferrato, chiusura di un cementificio, una fabbrica laterizi, un molino a cilindri e del grande 285 Per una più ampia trattazione sugli ultimi “turbolenti” anni di vita della miniera si veda il paragrafo 1.6. 286 Cfr. U. Massola, Liberare l’industria zolfiera dal laccio dei monopoli, Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella Seduta del 25 settembre 1952, p. 36. 143 stabilimento “Fiorentini” a Fabriano) e l’incidenza dell’industria sull’economia locale si era affievolita gradatamente287. Il comprensorio aveva man mano riacquistato tutte le caratteristiche di una zona montana depressa, ad economia principalmente agricola. A Fabriano gli unici complessi industriali di un certo rilievo ancora in piedi negli anni cinquanta erano le “Cartiere Miliani”, che però avevano bloccato le assunzioni, e “Merloni” (strumenti per pesare, mobili metallici, smalteria). Col passare degli anni, per iniziativa privata, erano sorti alcuni stabilimenti (complessi industriali Merloni di Albacina, Cerreto e Matelica, fabbrica pantofole di Serra dei Conti negli anni cinquanta, Calzaturificio “Wainer”, Cartiera del Sentino, attualmente chiusa, e fabbrica bombole della “A. Merloni” a Sassoferrato negli anni sessanta), l’iniziativa privata locale però, non è stata in grado da sola di industrializzare una zona ad economia agricola depressa: ci sarebbero voluti mezzi, facilitazioni e incoraggiamenti tali da spingere i privati a creare nuove fonti di lavoro. La scomparsa della miniera ha segnato l’arresto e la regressione della vita del paese di Cabernardi sotto tutti i punti di vista. Cessata l’unica fonte di lavoro, veniva di conseguenza a mancare la possibilità di rimanere a Cabernardi per tutti quelli che avevano una famiglia a carico e a tutti i licenziati non ancora pensionabili. La Montecatini aveva licenziato tutti coloro che avevano partecipato all’occupazione della miniera del maggio 1952 ossia 400 minatori. Tra i licenziati molti si trasferirono a Roma, a cercare fortuna, seguendo la scia migratoria della zona. La Montecatini trasferì i più giovani e meglio qualificati in altre miniere o stabilimenti di sua proprietà (Sicilia, Toscana, Veneto, Trentino, ecc.), in tutto 440 lavoratori, e mise a 287 Cfr. G. Castagnari, La montagna che piange, Fabriano, 1960, pp. 34-35. 144 riposo i più anziani con una modesta pensione. Circa 100 operai ottennero la pensione di invalidità. La maggior parte dei lavoratori (più di 300) vennero trasferiti a Ferrara (Pontelagoscuro). Il trasferimento al costituendo stabilimento petrolchimico di Ferrara ebbe inizio nell’ottobre 1952. Ad attuare il processo di mobilità fu la medesima azienda Montecatini, che deteneva entrambe le proprietà. Sulle prime, all’indomani della firma dell’accordo sulla chiusura, la Società Montecatini aveva offerto anche un incentivo ai minatori che decidevano di trasferirsi in altri stabilimenti, un compenso di 25000 lire, praticamente uno stipendio mensile. A coloro che scelsero Ferrara (l’alternativa era rappresentata soprattutto dalle miniere siciliane) veniva offerta anche un’integrazione mensile di circa 6000 lire per pagare l’affitto e la promessa che presto avrebbero avuto case proprie in area Pontelagoscuro, nei pressi dello stabilimento. Il primo nucleo trasferito era costituito da operai con un certo grado di specializzazione in officina o in falegnameria. Nel mese di novembre (1952) due lavoratori si affiancarono ai primi sei che già avevano raggiunto la città estense; ad essi seguirono nel dicembre altri 100 trasferimenti per divenire, negli anni successivi, un vero e proprio esodo, che coinvolse circa duecentocinquanta nuclei familiari. Nel 1954, mentre nella miniera di Cabernardi rimasero solo pochi lavoratori necessari per provvedere alla chiusura definitiva288, era ancora in atto il progressivo spostamento dei lavoratori a Ferrara. L’esodo verso Ferrara, complessivamente può dirsi concluso verso la metà degli anni ’60. Allo stabilimento ferrarese. Infatti, assunzioni 288 «...rimasero in miniera gli indispensabili, onde procedere alla chiusura; io fui tra questi. La prima fase di recupero iniziò all’interno. Il nostro compito era di riportare in superficie i materiali ancora in buono stato. Poi si passò all’esterno: si smontarono e recuperarono linee elettriche, tralicci in ferro, argani, motori, binari e altro. Tutto quanto poteva avere ancora un certo valore. Poi si passò alla chiusura in cemento dell’imboccatura delle discenderie e, per ultimo, quella dei due pozzi principali onde togliere qualsiasi pericolo. Il 6 maggio 1959 fui trasferito anch’io, andai alla miniera di bauxite della Montecatini a San Giovanni Rotondo dove vi rimasi fino alla pensione (1973)». Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit. 145 occasionali di personale proveniente dalle Marche si sono avute fino al 1964, spesso figli di minatori impiegati nel bacino di Cabernardi. E’ necessario precisare che, per i lavoratori, ottenere il trasferimento a Ferrara non era molto semplice. La Montecatini esigeva garanzie che si procurava tramite il parroco locale Don Rossetti se non direttamente dalla delegazione dei Carabinieri di Cabernardi. Gli occupanti della miniera o i figli di occupanti non avevano nessuna possibilità di essere assunti presso lo stabilimento di Ferrara. Sono noti pochissimi casi di marchigiani che si stabilirono, nella città estense, nonostante si fossero resi protagonisti delle lotte per impedire la chiusura della miniera, i quali comunque non ripresero mai a lavorare direttamente dalla Montecatini. Il fatto che i soli marchigiani che i ferraresi conobbero direttamente erano quelli che, per le ragioni più varie, non parteciparono, in prima persona, all’occupazione della miniera e che, durante gli scioperi degli anni ’60 (a Ferrara), si distinguevano con le frequenti azioni di crumiraggio, dettate dal timore di rivivere l’esperienza di Cabernardi, contribuì non poco all’incomprensione e alla diffidenza tra le due comunità, ritardandone l’integrazione289. Data la vastità dell’area di provenienza dei lavoratori (vari Comuni delle due province marchigiane di Ancona e Pesaro), tra gli stessi, costretti da un comune, amaro destino, spesso non esistevano rapporti antecedenti il loro “approdo” a Ferrara. Nel maggio 1954 vennero consegnati, alle famiglie marchigiane, gli alloggi appositamente edificati, nacque così il villaggio di Pontelagoscuro. Una comunità disgregata iniziò allora un lento, ma progressivo percorso di autoriconoscimento, forzatamente attivato da quello che venne poi definito il “villaggio dei marchigiani”290. Nella realtà del “villaggio” persistevano, e non poteva essere altrimenti, da un lato caratterizzazioni culturali impoverite dallo sradicamento forzato e dall’altro desideri 289 Testimonianza di Gino Mencarelli, di anni 77, ha lavorato nella miniera dall’età di 14 anni e dopo il 1952 è stato trasferito a Ferrara, incontrato il 31 ottobre 1996 a Cabernardi. 290 Cfr. G. Stefanati, op. cit., pp. 65-66. 146 d’affermazione e sensi d’orgoglio per la capacità di raggiungere traguardi culturali, economici e sociali in una “nuova terra”. Il processo di integrazione con la comunità ferrarese venne realizzato per fasi successive in oltre quarant’anni di convivenza e assunse, quasi paradossalmente, valenza secondaria rispetto al percorso di autoriconoscimento all’interno della comunità marchigiana di Pontelagoscuro. Il fatto di vivere aggregati costituiva agli occhi dei ferraresi sinonimo di comunità chiusa, a ciò contribuì inoltre la creazione del circolo Acli di Pontelagoscuro rivolto fondamentalmente ai marchigiani nel tentativo di ricostruire in buona fede un punto di aggregazione sociale sull’esempio del circolo Enal che già esisteva a Cabernardi. Tale circolo si poté costruire grazie all’intervento congiunto dei parroci di Cabernardi e di Pontelagoscuro che offrirono ampie garanzie alla Direzione della Montecatini di assoluta inattività sul piano politico-sindacale. Il circolo divenne punto di riferimento della componente maschile della comunità marchigiana e in esso si mantennero aspetti peculiari di socialità (come ad esempio alcuni particolari giochi di carte). Il circolo, in mancanza di sedi idonee, ospitò anche per alcuni anni corsi di scuola elementare; le stesse classi vennero affidate ad un’insegnante di origine marchigiana abitante del “villaggio”. Intanto a Cabernardi si assisteva al notevole fenomeno di spopolamento. Tra i pensionati che poterono restare al paese, molti decisero di arrotondare la piccola pensione dedicandosi all’agricoltura e alcuni riuscirono ad acquistare piccoli appezzamenti di terreno coltivabile. I negozi che erano prosperati durante la piena attività della miniera, furono forse i primi a risentire del cambiamento radicale avvenuto in paese. I cospicui guadagni di un tempo erano solo un sogno. 147 La Cooperativa di consumo dei minatori resse fino al 1966, ma già gradualmente aveva dovuto chiudere i reparti stoffe e calzature e limitarsi alla vendita di generi alimentari. Ora è stata trasformata in abitazione come, del resto, la mensa degli operai. Il cambiamento è stato sostanziale anche nel campo ricreativo. Scomparvero, man mano, tutte le attività del tempo libero: niente più partite di calcio, né pattinaggio. I giocatori di calcio infatti essendo lavoratori della miniera erano stati trasferiti altrove. Nel 1959 la Montecatini, quando ormai la miniera era stata chiusa , donò il Dopolavoro e il campo sportivo alla Parrocchia di Cabernardi. A questo punto il Dopolavoro divenne circolo Acli e fu associato alla Federazione provinciale291. Il circolo, che era stato il ritrovo dei cabernardesi per gran parte del tempo libero, si è ridotto oggi ad un semplice bar, aperto, ad eccezione del periodo estivo, solo nei giorni festivi in cui i pensionati vanno a fare qualche partita a carte e, tra una bevuta e l’altra, passano il loro tempo. Scomparve anche l’attività cinematografica. La filodrammatica invece è stata l’unica attività interrotta non per la chiusura della miniera, ma per trasferimento del direttore e di alcuni fra i migliori attori, nel 1932 alla miniera di Perticara. La scuola ha diminuito drasticamente la sua attività con un numero di insegnanti che, da sette è sceso a cinque e poi a tre. Uno dei lati buoni, forse l’unico che ha portato la chiusura della miniera, è il nuovo aspetto assunto dal paese che da arido che era, a causa dell’anidride solforosa, è diventato verdeggiante. Le abitazioni sono migliorate in seguito alle modifiche apportate dai proprietari che le hanno acquistate dalla Montecatini, ad un prezzo irrisorio. Anche se molte delle case sono adibite esclusivamente a dimora estiva per le ferie. 291 Testimonianza di Giuseppe Paroli, responsabile del “museo della miniera di zolfo di Cabernardi”, incontrato il 12 ottobre 1996 e il 9 maggio 1997 a Cabernardi. 148 La borgata Cantarino, realizzata in gran parte dalla Montecatini, nel periodo invernale si riduce a poche famiglie, ma in quello estivo prende l’aspetto di una volta, con tanta gente che vi ritorna per un momento di tranquillità e di riposo. Come si è visto, nel periodo di attività della miniera, la popolazione residente nella frazione di Cabernardi era notevolmente aumentata fino a raggiungere nel 1951 circa 1700 abitanti. Con la chiusura della miniera avvenne il processo inverso: incominciò il lento ma irrefrenabile spopolamento. Nel 1956, nonostante fossero già avvenuti numerosi trasferimenti del personale, Cabernardi contava ancora 1393 abitanti. Ciò si può spiegare tenendo conto che, in un primo momento, molti credevano che la crisi si sarebbe risolta o che comunque la Montecatini, memore degli anni d’oro della miniera, avrebbe fatto qualcosa per Cabernardi, che volesse riconvertire la miniera o comunque istallare qualche altra attività nel paese. Non essendosi verificata nessuna delle due ipotesi, si registrò un forte calo della popolazione che, in soli 5 anni, arrivò quasi a dimezzarsi scendendo a 731 abitanti nel 1961. Tale fenomeno di spopolamento non si limitò alla sola frazione di Cabernardi ma coinvolse tutto il circondario infatti la popolazione totale del Comune di Sassoferrato passò dalle 13488 unità del 1951 alle 8938 del 1961292. Con la scomparsa della miniera si sono avute, dunque, dannose conseguenze economiche che hanno peggiorato la già drammatica situazione del periodo nelle Marche. Tabella 4.3 Quozienti medi annui intercensuali (per 1000 abitanti) nelle Marche 1951-1991. Fonte: Istat. MARCHE 1951-1961 1961-1971 1971-1981 1981-1991 natalità 16.0 15.4 12.1 8.8 mortalità 9.0 9.5 9.8 9.9 saldo naturale 7.0 5.9 2.3 -1.0 292 Ufficio Anagrafe di Sassoferrato. 149 saldo migratorio -8.2 -5.0 1.5 2.2 saldo totale -1.2 0.9 3.8 1.2 Dalla Tabella 4.3, infatti, si nota che il saldo migratorio delle Marche fu fortemente negativo nel primo decennio (1951-1961) con conseguente flessione demografica. Tale andamento tende a ridursi nel successivo periodo (1961-1971) fino a diventare positivo negli anni ’70 e ’80 (il cambio di segno si registra nel 1972). A Cabernardi invece il numero degli abitanti ha continuato a diminuire fino ai nostri giorni quando ormai la popolazione si è ridotta a circa 400 unità293 per lo più costituita da persone anziane. 293 Tra cui gli ex paesani che, una volta raggiunto il limite di età pensionabile sono tornati a vivere a Cabernardi. 150 CONCLUSIONI Nonostante che l’industria solfifera italiana abbia svolto un ruolo di primo piano nel contesto internazionale, è stata sempre caratterizzata da un’intima debolezza. Negli ultimi decenni dell’ottocento, la Sicilia, che produceva oltre il 90% dello zolfo italiano, collocava il suo prodotto per la quasi totalità all’estero. Infatti la mancanza di industrie chimiche in Italia portava a una scarsa richiesta interna di zolfo per la fabbricazione di acido solforico. Di conseguenza, l’industria solfifera italiana, essendo fortemente dipendente dall’estero, era costretta a subire eventuali crisi ed instabilità dei mercati stranieri. Nei primi anni del secolo, gli Stati Uniti, che costituivano il cliente di gran lunga più importante dello zolfo siciliano, avevano scoperto enormi giacimenti del minerale nel Golfo del Messico. L’industria solfifera statunitense si sviluppò rapidamente, con notevoli mezzi finanziari e in condizioni naturali e tecniche tali da porre termine per sempre al monopolio italiano dello zolfo. I giacimenti americani, per la loro configurazione geologica, permettevano l’uso di metodi estrattivi con più alto rendimento, con costi minori e con il grande vantaggio di operare a cielo aperto. In Italia, invece, per le condizioni geologiche delle miniere ma soprattutto per l’arretratezza degli impianti e dei metodi di coltivazione, lo zolfo veniva estratto con faticosi e costosi lavori in sotterraneo. In poco tempo lo zolfo americano, avendo un prezzo inferiore, si affermò nei maggiori mercati internazionali. L’intervento dello Stato, che raggruppò i numerosi produttori siciliani nel Consorzio Solfifero Siciliano (1906-1932), permise di stabilire alcuni accordi con le società statunitensi. Nonostante ciò il prezzo dello zolfo italiano continuava ad essere sempre meno competitivo. Di fronte alla grave crisi in cui si venne a trovare l’industria solfifera italiana nei primi anni ’30, il governo istituì, nel 1933, l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano 151 per collocare tutto lo zolfo prodotto in Sicilia e nel resto d’Italia sia sul mercato interno che nell’esportazione opponendo così alla concorrenza americana un fronte unico e un diretto appoggio governativo. nLa politica protezionistica aveva consentito alle miniere italiane di sopravvivere grazie soprattutto al meccanismo del prezzo minimo garantito e aveva anche reso possibile nuove intese con i produttori americani. Ciò, però, aveva potuto far superare solo momentaneamente, all’industria solfifera italiana, le ricorrenti crisi a cui era soggetta. A medio e lungo termine si ripresentavano i soliti problemi mai risolti: l’arretratezza sia per quanto concerne lo sviluppo tecnico e organizzativo delle lavorazioni che per quanto riguarda il mancato sviluppo della ricerca. Ciò di cui aveva veramente bisogno l’industria solfifera italiana non era una mera politica protezionistica, d’altra parte incompatibile con la crescente apertura dei mercati, ma bensì di una politica di sostegno dello Stato. Quest’ultimo doveva puntare a concentrare, se non a circoscrivere, l’intervento alla fase della ricerca di nuovi giacimenti e ad incentivare l’aggiornamento tecnologico in modo da ottenere una riduzione sensibile nei costi di produzione. Negli anni ’50, mentre il prezzo del minerale americano era arrivato a costare meno della metà di quello italiano e alcuni Paesi cominciavano a produrre grandi quantità di zolfo di recupero, l’industria solfifera italiana, anche per il progressivo esaurimento dei giacimenti, si avviava inesorabilmente verso la fine. Cabernardi e gli altri centri minerari delle Marche e della Romagna, pur seguendo le sorti del settore dello zolfo italiano, avevano sempre conservato differenze sostanziali rispetto alla Sicilia come la dimensione media e grande delle miniere, l’esistenza di poche ditte esercenti con disponibilità finanziarie e capacità imprenditoriali che permettevano una migliore organizzazione tecnica e lavorativa nelle miniere. Inoltre erano perfettamente in grado di coordinare l’industria estrattiva con quella delle lavorazioni, gestita dalle stesse società concessionarie. Il loro forte vantaggio competitivo risiedeva nella vendita di prodotti 152 raffinati e “speciali” destinati ad uso agricolo. Avevano una minore dipendenza dall’estero in quanto collocavano la maggior parte della produzione sul mercato interno: lo zolfo raffinato veniva venduto principalmente nelle regioni vinicole italiane mentre quello grezzo era destinato agli stabilimenti chimici della Montecatini. Proprio sotto la guida della Montecatini, la miniera di Cabernardi aveva raggiunto il suo massimo sviluppo grazie a un vasto programma di ammodernamento e di valorizzazione. La Società Montecatini, intervenne anche sul piano della politica sociale, infatti, secondo una logica di intervento globale nel territorio che caratterizzava ogni suo insediamento, anche a Cabernardi, a partire dagli anni ’20, aveva iniziato una radicale trasformazione che riguardava anche l’organizzazione quotidiana del minatore e della sua famiglia. Negli anni ’30 Cabernardi era dunque già dotata di tutti i servizi essenziali o almeno di quelli allora sentiti come tali. Per chi non aveva mai avuto nulla, per chi vedeva come orizzonte lavorativo solo l’emigrazione, la Società Montecatini era considerata come entità benefattrice e tra le due guerre, Cabernardi era vista come un’isola nel panorama generale marchigiano. Tutto ciò nonostante le condizioni inumane di lavoro a cui si deve aggiungere l’elevato rischio di incidenti anche mortali. Una stima approssimata parla di oltre 130 morti presso la miniera di Cabernardi, per non contare le migliaia di infortuni e le scontate malattie professionali. Solo uomini forti e coraggiosi potevano svolgere un lavoro così duro e pericoloso che li costringeva a stare per lungo tempo a centinaia di metri di profondità, e senza luce naturale operando in ambienti resi infernali dal caldo, l’umidità, la polvere, il fumo e l’esalazione di gas nocivi. Malgrado questi tristi aspetti bisogna riconoscere che il settore dello zolfo ha rappresentato una delle principali fonti di occupazione e di sviluppo socioeconomico nelle aree che gravitavano intorno alle miniere. 153 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI FONTI - Archivio Storico Comunale di Sassoferrato (d'ora in poi ASCS), Lettera del Comitato Promotore della Conferenza Interregionale degli Zolfi al sindaco di Sassoferrato, 1951, categoria 11, classe II, fasc. 3. - ASCS, Lettera della Prefettura di Ancona al sindaco di Sassoferrato (P. 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Chioppo: improvviso e violento distacco dal fronte di abbattimento delle gallerie, di blocchi di minerale, dovuto all’azione di compressione del terreno incassante. Il fenomeno era accompagnato da forte scuotimento e da grande fragore, nonché da sprigionamento di idrogeno solforato e grisou, spesso in notevole quantità. Discenderia: galleria con gradini tagliati nella roccia, più o meno alti a seconda della inclinazione che comunque è elevata (variando dai 35° ai 55°). Faglia: lo spostamento intervenuto tra le parti di un giacimento che prima erano in contatto e che si scostarono secondo il piano inclinato di scivolamento di una parte sull’altra. Frasch (processo): metodo di estrazione e fusione del minerale. Lo zolfo si ottiene direttamente dal minerale fondendo il metalloide direttamente nel sottosuolo, mediante utilizzazione di vapore surriscaldato. Lo zolfo viene pompato all’esterno allo stato liquido già in uno stato di sufficiente purezza. Si veda il paragrafo 2.5.1. Galleria di riflusso: lunga galleria che andava dalla superficie alle varie parti del giacimento per permettere la circolazione dell’aria. Giacimento: deposito coltivabile di minerale. Di solito il giacimento non è costituito da un solo strato ma è diviso in parecchi strati da zone di materiali sterili. Piano inclinato: galleria avente un inclinazione molto minore rispetto alla discenderia. Potenza dello strato: è la sua grossezza o spessore misurato perpendicolarmente al suo piano di contatto con lo strato successivo di minerale. 169 Ricchezza del minerale di zolfo: rapporto che passa tra il minerale puro, che si può estrarre e la sua ganga o materiale sterile che lo contiene. Rosticci (o ginesi): materiale di scarto prodotto dal trattamento del minerale solfifero nei calcaroni e forni Gill. Veniva ammassato intorno alla miniera formando quella che veniva chiamata la “discarica della miniera”. Parte di esso, in seguito ad operazioni di irrorazione, subiva un sufficiente grado di cementazione per cui si rivelava particolarmente utile, nel metodo di coltivazione “a ripiena”, per riempire i vuoti di scavo all’interno della miniera. Storte: sono costituite da recipienti verticali svasati verso il basso con pareti spesse in ghisa per meglio resistere alle severe condizioni di corrosione dei vapori di zolfo ad alta temperatura, riscaldate esternamente con gas di combustione. I forni a storte di ghisa venivano usati nelle raffinerie per purificare lo zolfo mediante distillazione. Zolfo acido: si prepara facendo bollire una miscela costituita da una parte di calce viva, due parti di zolfo sublimato e 29 di acqua fin quando tutto lo zolfo si sia sciolto. Dopo filtrazione, si acidifica con acido cloridrico diluito con acqua e si essicca. Zolfo fuso: quello che, sottoposto a regolare calore in appositi forni, viene separato dalla ganga, e quasi privo di materie estranee, è inviato alla raffineria o direttamente messo in commercio. Zolfo grezzo: quello rinvenuto allo stato libero diffuso nella roccia calcarea, marnosa o gessosa, che non ha subito alcun trattamento ossia non è stato separato dalla ganga o roccia sterile, che lo contiene. Zolfo raffinato: quello che, pervenuto alla raffineria, viene sottoposto a nuova fusione per raggiungere un più elevato grado di purezza. Zolfo ramato: è una miscela di zolfo con solfato di rame (fino al 5%) e calce spenta (4050%). 170 Zolfo sublimato o fiori di zolfo: è il prodotto dello zolfo distillato cioè sottoposto ad alto calore e ridotto in vapori solforosi, i quali, raffreddandosi in appositi apparecchi, tornano a solidificarsi in cristalli purissimi. Zolfo ventilato: zolfo ottenuto mediante una corrente d’aria che ha permesso di selezionare solo i suoi granuli più fini. Tale zolfo viene usato unicamente come anticrittogamico; il suo pregio consiste nella finezza, a cui corrisponde una più elevata aderenza della polvere alle foglie di vite, precedente trattate con solfato di rame. 171