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FORUM 1
“PEDIATRIC PUZZLES. APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE CON…”
Giovedì, 13 novembre 2014
Presidente: A. Vitale
14,30 – 15,30
Moderatori: G. Ricciardi, M. Ruggeri
16,00 – 18,00
Moderatori: A. Podestà, M. Papa
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APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE CON… DISIDRATAZIONE
Luciano Beccaria, Claudia Addis
SC Pediatria, Ospedale Alessandro Manzoni, Lecco
La disidratazione è una delle più frequenti cause di accesso alle strutture di Pronto Soccorso pediatrico, in
particolare del bambino nella prima infanzia. Essa si verifica quando la perdita di liquidi totali è superiore
all’introduzione dei liquidi e in genere diventa clinicamente evidente quando le perdite superano il 5% del peso
corporeo. La perdita di fluidi avviene principalmente dal:

tratto gastroenterico (diarrea, vomito, gastroenterite)

cute ( febbre, ustioni)

rene ( glicosuria nel diabete mellito, diabete insipido, terapia diuretica)
La mancata introduzione di liquidi può essere:

Per impossibilità ad assumere liquidi (infezioni al cavo orale, distress respiratorio, cardiopatie)

Per incapacità ad alimentarsi ( neonato/prima infanzia, coma , maltrattamento)
Tale condizione comporta rischi potenzialmente gravi in relazione al grado di disidratazione e può necessitare di
trattamento in urgenza. Lo stato di idratazione viene più spesso valutato attraverso uno score clinico basato sui
principali segni (frequenza respiratoria e cardiaca, turgore cutaneo , tempo di riempimento capillare, valutazione
di occhi, mucose, lacrime) rilevabili con un adeguato esame obiettivo, mentre mancano chiare relazioni tra stato
di disidratazione ed esami ematochimici che dunque risultano non necessari se non in casi particolari
(disidratazione severa, alterato stato di coscienza, perdite prolungate e profuse, presenza di comorbidità).
La terapia della disidratazione si avvale della somministrazione di liquidi in quantità e composizione tali da far
fronte alle necessità cliniche del bambino. In genere va sottolineato che la terapia di prima scelta della
disidratazione lieve/moderata è la somministrazione di liquidi per bocca. La reidratazione orale è
sostanzialmente sovrapponibile per efficacia alla terapia endovenosa, presenta minori complicanze, minori
rischi di eventi avversi, ha minore costo ed è meno traumatica per il piccolo paziente. La terapia orale è pertanto
la prima scelta in caso di disidratazione lieve/moderata, in particolare laddove sia possibile la somministrazione
di liquidi per via orale. La terapia endovenosa deve essere avviata in caso di fallimento della terapia reidratante
orale, in caso di stato di shock o disidratazione grave con condizioni generali scadenti o in caso di comorbidità
gastroenterologiche (presenza di malattie gastriche o intestinali).Anche in presenza di vomito è possibile tentare
una reidratazione per via orale con assunzione di liquidi a piccoli sorsi ripetuti, eventualmente associando
terapia antiemetica (ondasetron).
Quando necessaria la terapia endovenosa si fonda sui seguenti principi:

In caso di shock è imperativo somministrare prontamente 20 ml/kg di soluzione fisiologica facendo
seguire una reidratazione secondo le norme di seguito riportate

I tentativi di calcolare analiticamente il deficit di acqua sono in genere poco produttivi e larga parte
della letteratura consiglia un approccio pragmatico basato sulla somministrazione di liquidi e sali da modificare
in relazione all’andamento clinico e agli esami eseguiti nel followup (mantenimento + 50ml/kg in caso di
disidratazione modesta; mantenimento + 100 ml/kg in caso di disidratazione severa con shock)

Controllare frequentemente la glicemia capillare per il rischio di ipoglicemia durante l’infusione di
soluzioni prive di glucosio.

E’ utile somministrare soluzioni a concentrazione di sodio simili alla soluzione fisiologica con aggiunta
di glucosio al 5% con l’obiettivo di correggere eventuali diselettrolitemie. Tale correzione va eseguita
lentamente (almeno 48 ore) in quanto correzioni rapide della natremia possono associarsi a gravi effetti
collaterali (edema cerebrale, convulsioni, mielinolisi pontina centrale)

L’aggiunta di potassio nella soluzione deve essere effettuata con cautela e dopo verifica della ripresa
della diuresi. Solo in caso di chetoacidosi diabetica, dove è sempre presente una importante ipokaliemia durante
la reidratazione, è utile aggiungere quantità più importanti di potassio (40 mEq/l)

É preferibile utilizzare soluzioni precostituite minimizzando la preparazione estemporanea delle stesse
essendo questa legata al rischio di gravi eventi avversi solitamente legati ad errori di preparazione delle
soluzioni

In caso di acidosi lieve è in genere sconsigliabile la somministrazione di larghe quantità di bicarbonati
per i rischi ad essi connessi (spesso sovrastima del deficit, importante carico di sodio, rischi di ipopotassiemia) .
In caso di acidosi lieve la somministrazione di liquidi e il ripristino di un adeguato volume circolante sono di per
sé sufficienti a migliorare il pH ematico. In caso di chetoacidosi diabetica l’aumento della concentrazione di
glucosio nei liquidi da somministrare con contemporanea aumento della dose di insulina migliora di per sé il pH
ematico. La correzione con bicarbonati può essere indicata in patologie renali quali acidosi tubulare e
disidratazione in corso di acidosi lattico-metaboliche. La supplementazione si calcola con la formula:
- (deficit teorico di HCO3 in mEq/l) = 1/3 di eccesso base x kg
Si inizia con somministrazione della metà del deficit in infusione e.v. lenta in 2 ore in soluzione 1:1 con
soluzione fisiologica, il resto nelle restanti 22 ore.
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
In caso di disidratazione iponatriemica lieve-moderata asintomatica si infonde soluzione fisiologica +
glucosio 5% cercando una correzione della natremia in 24-48 ore. In caso di iponatriemia grave sintomatica è
richiesta una correzione con soluzione ipertonica infondendo in 1-4 ore tanto più rapidamente quanto più grave è
l’iponatriemia soluzione salina ipertonica (NaCl 3%: 3mEq/ml) ottenuta diluendo sol. glucosata 5% con NaCl
[mEq di Na da infondere in 24 ore = (125 – Na attuale) x Kg x 0,6]

In caso di disidratazione ipernatremica è necessaria una lenta correzione in 48-72 ore, a seconda
dell’entità dell’ipersodiemia, per evitare l’edema cerebrale (non superare riduzioni di 12 mEq/L in 24 ore)
Utilizzare anche in questo caso soluzione fisiologica + glucosio al 5% con aggiunta di KCl e Calcio. Controllare
glicemia e calcemia per il rischio di episodi ipoglicemici o ipocalcemia. In caso di disidratazione ipernatremica
avvisare rianimatore per alta mortalità

In caso di chetoacisodi diabetica la somministrazione di liquidi deve accompagnarsi a terapia insulinica
per via ev a basso dosaggio (0,1 U/kg/ora) evitando boli di insulina all’inizio della reidratazione. La
somministrazione di liquidi non deve in genere superare 4 L/mq/die per il rischio di edema cerebrale. In caso di
riduzione della glicemia al di sotto di 300 mg/dl è necessario utilizzare glucosio 5% per evitare ipoglicemia ed
aumentare ulteriormente la concentrazione di glucosio se persiste pH basso.
In merito verranno presentati casi clinici esplicativi.
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IL DOLORE TORACICO NEL BAMBINO
Domenico Minasi*, Elda Pitrolo**
*UOC di Pediatria-ASP di Reggio Calabria
** Università degli Studi di Messina, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Scuola di Specializzazione in Pediatria
Il dolore toracico è un sintomo comune in età pediatrica e rappresenta una causa frequente di richiesta di visita
medica sia tra i pediatri di famiglia che in pronto soccorso. Negli USA, dopo il soffio cardiaco, è il motivo più
abituale di visita cardiologica .
A causa della nota associazione dolore toracico - malattia cardiovascolare-morte improvvisa nell’adulto , spesso
enfatizzata da campagne di educazione sanitaria pubblica, il dolore toracico rappresenta una fonte di allarme a
tutte le età anche se nel bambino è raramente associato a pericolo di vita. In età pediatrica infatti il dolore
toracico è più comunemente benigno, autolimitante, spesso non causato da una malattia per cui la possibilità
che possa avere un’ origine cardiaca è molto più bassa rispetto all’adulto .
Un’accurata anamnesi è fondamentale nell’approccio clinico al bambino con dolore toracico per analizzarne le
caratteristiche, la localizzazione ,la durata, le variazioni in relazione a fattori diversi, se isolato o associato ad
altri sintomi.
Anche l’esame obiettivo deve essere condotto con cura tenuto
conto che nel 40-60% dei casi risulta normale. In questi casi la definizione di dolore di natura “non organica”
deve comunque rimanere sempre una diagnosi di esclusione.
Il dolore toracico del bambino può essere causato da fattori diversi (Tab. 1 ). Il più comune è il dolore idiopatico
(12-85%), seguito da quello muscolo-scheletrico (15-32%) e da quello polmonare (12-21%).
Tab 1
CAUSE DI DOLORE TORACICO NEL BAMBINO
Cardiaco: aritmie, patologie cardiache acquisite (pericarditi, vasculiti, cardiomiopatie), patologie cardiache
congenite, soprattutto dopo intervento chirurgico.
Respiratorio: infezioni, patologie della pleura, asma, inalazione di corpo estraneo, pneumotorace o
pneumomediastino, irritazione da inalanti, respiro disfunzionale, ad esempio da iperventilazione, neoplasia
toracica
Gastrointestinale: reflusso gastroesofageo, esofagite, gastrite, spasmo esofageo, acalasia, corpo estraneo
esofageo, pancreatite, ascesso sotto diaframmatico.
Muscoloscheletrico: sindromi dolorose a carico delle coste e delle articolazioni (sindrome di Tietze,
costocondrite, traumi, sindrome da scivolamento costale); a carico dello sterno; a carico della muscolatura
toracica ed intercostale; a carico della colonna dorsale (traumi, tumori, infezioni ecc).
Psicogeno: respiro disfunzionale
Altre cause : dolore da sviluppo mammario, da herpes zoster, “Precordial catch”
Le cause cardiache sono invece più rare (<4%) ma potenzialmente letali per cui devono essere prontamente
individuate. In tal senso una particolare attenzione va rivolta a quei bambini che hanno un’anamnesi familiare
positiva per morte improvvisa o per infarto acuto del miocardio , per aritmie o cardiomiopatie, che hanno una
patologia cardiaca precedentemente diagnosticata ,che presentano un soffio cardiaco oppure sintomi specifici che
devono sempre essere accuratamente indagati (Tab 2 ).
Tab 2
SINTOMI CHE IMPONGONO UN APPROFONDIMENTO DIAGNOSTICO
dolore precordiale opprimente a sinistra o nell’area sottosternale
dolore irradiato al braccio sinistro, alla mandibola ,al collo, al dorso o all’addome
dolore che esordisce con lo sforzo e diminuisce a riposo
dolore associato a vertigini o a sincope, a nausea o sudorazione
palpitazioni ,cianosi, alterazioni nell’obiettività cardiaca
Il dolore toracico cardiovascolare può essere causato da processi infiammatori del pericardio o del miocardio,
oppure da aritmie o da disfunzione ischemica ventricolare . In questi casi è caratteristicamente un dolore
profondo, che dà una sensazione di soffocamento o schiacciamento , che può essere scatenato da uno sforzo
fisico , dal freddo, da stati emotivi o da pasti abbondanti.
Anche la cardiopatie congenite, in particolare le lesioni ostruttive di grado severo (stenosi aortica, stenosi
sottovalvolare aortica, stenosi polmonare) , possono causare dolore toracico. Il dolore ha spesso un carattere
anginoso ed è sostenuto da un meccanismo ischemico. L’ischemia miocardica può ugualmente determinare
dolore toracico nelle cardiomiopatie dilatative, sia ipertrofiche che dilatative, con o senza sforzo o aritmia, e
nella coronaropatie (origine anomala, fistola, aneurisma e stenosi, anomalie di decorso).
Un dolore toracico può presentarsi in circa il 20% del pazienti con prolasso della valvola mitralica .E’ spesso un
dolore vago, di breve durata, localizzato alla punta senza un costante rapporto con sforzo o emozione, talvolta
associato ad aritmia , probabilmente legato all’ischemia dei papillari o dell’endomiocardio.
Le indagini strumentali devono essere effettuate sulla base del sospetto clinico emerso dall’anamnesi e
dall’esame obiettivo. L’RX torace e l’ECG rappresentano quelle di primo livello. La radiografia del torace è
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spesso normale ma può essere utile per rassicurare il paziente e la sua famiglia oltre che per escludere cause
respiratorie o anomali strutturali della gabbia toracica. L’ECG, normale in moltissimi studi sul dolore toracico in
età pediatrica, consente di evidenziare un’eventuale ischemia, anomalie strutturali o disturbi del ritmo e deve
essere sempre eseguito se c’è un minimo sospetto.
Se l’anamnesi familiare e patologia prossima e remota sono negative, in presenza di esame obiettivo negativo e
ecg ed rx torace negativo, la possibilità che il dolore toracico sia di origine cardiaca è praticamente nulla.
Bibliografia
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8) O’Connor M, McDaniel N, Brady WJ.
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Miscellanea: dolore da sviluppo mammario. Da herpes zoster. “Precordial catch” o “fitta di Texidor”, dolore ben
localizzato e di breve durata che colpisce soprattutto bambini tra i 6 e 12 anni ed origina verosimilmente dalla
pleura parietale o da uno spasmo muscolare; di solito non si irradia e peggiora con l’inspirazione profonda.
Dolore puntorio (stitch), che si localizza nella parte inferiore del torace o al fianco durante un esercizio fisico
effettuato a breve distanza da un pasto o dall’assunzione di liquidi.
A causa della ben nota associazione
dolore toracico > malattia cardiovascolare/morte improvvisa negli adulti,
il dolore toracico rappresenta una fonte di allarme in etàTuttavia nei bambini la possibilità che un dolore toracico
sia cardiaco è
molto più bassa rispetto agli adulti. Riferire routinariamente un dolore toracico allo specialista non è una buona
idea: umenta la preoccupazione dei familiari e crea un sovraccarico ingiustificato sul sistema sanitario.
CAUSE PIU’ FREQUENTI DI DOLORE TORACICO NEI BAMBINI
Costocondrite (9-22%)
Patologia della parete toracica (trauma o stiramento muscolare) (21%)
Malattie respiratorie (soprattutto se associate a tosse) (15-21%)
Possibili cause di dolore toracico:
Idiopatico 12-85% Muscoloscheletrico 15-31% Polmonare 12-21% Psichiatrico 5-17% Gastrointestinale 4-7%
Cardiaco 0- 4% Altro 4-21%
Il dolore toracico nella popolazione pediatrica è raramente associato a pericolo di vita.Tuttavia, quando presente,
una pronta identificazione è necessaria per evitare guai…
Costocondrite: normalmente gonfiore in corrispondenza delle articolazioni costo sternali. Forma particolare la
sindrome di Tietze che interessa la seconda e terza articolazione costale.
Muscoloscheletrico: spesso secondarie a stiramenti muscolari. Talvolta associate a malformazioni della cassa
toracica.
Respiratorie: affaticamento muscoli respiratori ed irritazione pleurica.
Gastrointestinale: spesso correlati a all’introduzione del cibo. Esofagite da sospettare nei bambini con dolore
urente sottosternale che peggiora con la posizione declina o con la pressione addominale.
Psicogene: spesso associato ad evento traumatizzante o luttuoso.
Cause cardiache Rare (<4%) ma potenzialmente letali… !!!!!
Dolore toracico cardiovascolare può essere causato da disfunzione ischemica ventricolare, processo
infiammatorio pericardico o miocardico o aritmia.
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Un dolore anginoso tipico è localizzato nel precordio o nell’area sottosternale, irradiato al collo, alla mandibola,
alle braccia, al dorso o all’addome.
La caratteristica è un dolore profondo, fortemente pressorio, che dà la sensazione di soffocamento o
schiacciamento.
Uno sforzo, il freddo, stati emotivi o grossi pasti possono scatenarlo.
CARDIOPATIE CONGENITE
Lesioni ostruttive di grado severo (stenosi aortica, stenosi sottovalvolare aortica, stenosi polmonare, vasculopatia
polmonare, Eisenmenger).
Stenosi lievi non sono in grado di determinare ischemia.
Cause: aumentata domanda di ossigeno per tachicardia ed aumento pressorio.
Tipo di dolore: spesso tipico anginoso
PROLASSO VALVOLA MITRALICA
E’ riportato nel 20% dei pazienti.
Spesso vago, di breve durata, localizzato all’apice senza un costante rapporto con sforzo o emozione,
probabilmente è legato all’ischemia dei papillari o all’endomiocardio.
Talvolta associato ad aritmia.
Spesso sono associate malformazioni toraciche che possono dare origine al dolore toracico.
Cardiomiopatie
Sia le dilatative che le ipertrofiche possono causare dolore per ischemia
con o senza sforzo o aritmia.
CORONAROPATIE
Origine anomala, fistola, aneurisma e stenosi(Kawasaky), anomalie di decorso.
Il dolore è tipicamente anginoso, tra i vari esami di routine spesso utile il cateterismo cardiaco.
ABUSO DI COCAINA
1 Step: esclusione delle 3 cause più frequenti di precordialgie rappresentate da costocondrite, cause muscolo
scheletriche e malattie respiratorie. Possono essere escluse dall’anamnesi e dall’esame obiettivo.
2 Step: esclusione di cause cardiache (0-4%). RX torace ed ECG sono necessari in aggiunta all’anamnesi ed
attento esame obiettivo.
3 Step: escluse le precedenti si indaga su malattie di altri apparati incluse le forme psicogene e idiopatiche.
STORIA E NATURA DEL DOLORE: natura del dolore, sintomi associati, fattori precipitanti e qualità del
dolore.
Importante ricordare che il dolore cardiaco è spesso da sforzo ed il tipo è pressorio o schiacciamento
non trafittivo.
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Il dolore toracico in età pediatrica è frequente e per lo più benigno. Un’attenta anamnesi ed un esame obiettivo
accurato sono cruciali per identificare tempestivamente i casi ad alto rischio che rendono necessaria
un’immediata valutazione specialistica con conseguente diagnosi e trattamento.
Un rapporto a lungo termine con i pazienti e le loro famiglie è necessario allo scopo di rassicurarle e permettere
una risoluzione dei sintomi.
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L’ARTRITE IDIOPATICA GIOVANILE, ASPETTI CLINICI E TERAPEUTICI
Valeria Gerloni
Reumatologia Pediatrica, Istituto Ortopedico Gaetano Pini,
Dipartimento e Cattedra di Reumatologia dell’Università di Milano
L'Artrite Idiopatica Giovanile (AIG) è la più frequente malattia reumatica dell’infanzia e dell’adolescenza. È
definita dalla comparsa di un’artrite ad eziologia ignota, della durata di almeno 6 settimane, che insorge entro il
compimento del 16° anno d’età, deve essere esclusa ogni altra causa nota di artrite.
È una delle più comuni malattie croniche in età pediatrica, la sua incidenza varia tra 7 e 21 nuovi casi su 100.000
bambini all’anno e la prevalenza tra 121 e 220 su 100.000 bambini.
L'AIG è una malattia autoimmune (con l'esclusione della forma sistemica che oggi tende ad essere considerata
una patologia autoinfiammatoria espressione di un'alterazione della risposta immunitaria innata) ed è espressione
di un complesso trait genetico.
Nella patogenesi giocano un ruolo importante sia un’anomala immunoregolazione sia la produzione di citochine.
L’attivazione dei linfociti T, caratterizzata da un pattern di produzione citochinica di tipo Th1 tipico della
risposta d’ipersensibilità ritardata o cellulo-mediata, è un momento fondamentale nella patogenesi dell’AIG.
Viceversa le citochine Th2, presenti nel liquido sinoviale solo in minima quota, sembrerebbero essere associate
con una malattia più benigna (oligoarticolare, non erosiva e autolimitantesi.
Dall'altro canto, la presenza in circolo di auto-anticorpi non organo-specifici, quali Anticorpi Antinucleari
[ANA], Fattore Reumatoide [FR], Anticorpi anti-peptide citrullinato ciclico [anti-CCP], e di immuno-complessi
suggerisce il possibile ruolo anche di un'alterazione dell'immunità umorale. La maggior parte dei bambini con
AIG risultano sieronegativi con i comuni test per l'evidenziazione del FR (Latex-test o RA-test e Waaler-Rose),
ma sono sieropositivi per i cosiddetti FR nascosti, evidenziabili con altre metodiche non routinarie.
Il possibile ruolo scatenenante delle infezioni è suffragato dall'osservazione che l'AIG è particolarmente
frequente nei bambini che presentano quadri di immunodeficienza, quali soprattutto il deficit selettivo di IgA, e
che un’artrite cronica simil-reumatoide si manifesta nei bambini con ipogammaglobulinemia. L’infezione più
spesso chiamata in causa, come possibile momento scatenante o patogenetico, in particolare per la forma
sistemica, è quella da Parvovirus B19, ma in alcuni casi è stata documentata anche un'infezione persistente da
virus della rosolia, e questo virus è stato isolato dalla membrana sinoviale di alcuni bambini con AIG. E’
documentato il possibile esordio di un’AIG dopo le vaccinazioni (morbillo, rosolia, parotite, epatiteB), ma anche
al contrario la guarigione della malattia dopo infezioni virali e vaccinazioni (in particolare morbillo e antimorbillo).
Il significato dell'associazione con particolari alleli HLA non è ancora del tutto noto. Questi alleli potrebbero
presentare con maggior efficienza gli antigeni patogeni alle cellule immunocompetenti. Un'altra ipotesi deriva
dall'osservazione che due proteine del virus di Ebstein-Barr presentano omologie di sequenza con gli alleli del
sistema HLA associati con l'AIG oligoarticolare, per cui i linfociti T attivati dall'incontro con l'antigene esogeno
(le proteine del virus di Ebstein-Barr) manterrebbero uno stato di attivazione anomala e persistente, secondario al
riconoscimento delle proteine self (gli antigeni HLA).
In conclusione, si può ipotizzare che un agente infettivo che colpisce un bambino in un momento di vulnerabilità
(condizionato dall'età, dall'immaturità immunologica, da una malattia intercorrente, dalla precedente esposizione
antigenica, o dalla particolare predisposizione immunogenetica) dia luogo alla patologia.
Anche per le forme associate con l'HLA B27 si pensa che nella patogenesi abbia un ruolo centrale un
meccanismo geneticamente determinato. All'associazione con questo HLA potrebbe essere correlata
un'infiammazione sub-clinica del tratto gastroenterico. Un’ipotesi patogenetica è quella di un meccanismo
d’immunità crociata sulla base di un mimetismo molecolare tra una sequenza aminoacidica di alcune specie di
Klebsiella e certe molecole HLA B27.
Caratteristiche cliniche
Già nel secondo semestre di vita si può vedere l’esordio di un’AIG, soprattutto delle forme oligo o
pauciarticolari (EOPA= Early Onset Pauciarthritis) e delle forme sistemiche, che sono le forme più tipiche
dell’età pediatrica. Il picco dell’età d’esordio è tra 1 e 3 anni, e questa distribuzione è particolarmente
pronunciata nelle bambine con Oligoartrite, un secondo picco è intorno ai 9 anni, il contributo dei maschi e delle
femmine a questo secondo picco è all’incirca uguale, questo picco in fase prepuberale potrebbe rappresentare
l’esordio precoce delle forme correlate all’HLA B27. La forma sistemica e la poliarticolare non presentano un
picco d’insorgenza (la sistemica presenta un lieve aumento della frequenza d’insorgenza prima dei 4 anni).
Considerando tutte le forme di AIG, le femmine sono circa il doppio dei maschi, nella forma poliarticolare le
femmine sono il triplo dei maschi, per la forma oligoarticolare questo rapporto sale fino a circa 7:1, mentre la
forma sistemica colpisce maschi e femmine in egual proporzione.
Come nell'adulto, caratteristica comune del dolore articolare infiammatorio è la sua presenza, associata a rigidità
articolare, soprattutto al risveglio mattutino e dopo periodi di prolungata immobilità (“morning stiffness” e
“gelling”), mentre durante la giornata c’è un progressivo, più o meno rapido, miglioramento fino alla risoluzione
dei sintomi.
La sede di gran lunga più frequentemente interessata dall’artrite nel bambino è il ginocchio, soprattutto nelle
forme oligoarticolari e all’esordio della malattia. Tipico delle forme giovanili è l’interessamento delle
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Articolazioni Temporo-Mandibolari (ATM) (presente, quasi costantemente, anche se spesso in modo
asintomatico all’esordio, in tutte le forme di AIG) e l’interessamento del rachide cervicale a livello delle
interapofisarie (a differenza di quanto avviene nell’adulto dove vediamo coinvolta l’articolazione atlanteepistrofeo). A volte, una tenosinovite isolata (ad esempio una tenosinovite degli estensori del polso) può
rappresentare il quadro di esordio. Molto frequente è la cisti sinoviale di Baker al cavo del poplite. E' invece
assente la sindrome del tunnel carpale, comune nell’adulto. Solitamente l’artrite ha un andamento recidivante
con periodi in cui i sintomi si attenuano, o spariscono, e altri in cui si riacutizzano. La riacutizzazione spesso
avviene dopo una malattia infettiva (influenza, tonsillite, varicella) o senza cause apparenti. Alcuni bambini
possono presentare solo uno o pochi episodi di riacutizzazione, in altri, invece, l’artrite ha un’evoluzione cronica
e può persistere attiva anche in età adulta.
Classificazione (categorie ILAR)
Secondo la classificazione ILAR del 2001 (Edmonton, seconda revisione dei criteri di Durban 1997) l’Artrite
Idiopatica Giovanile viene suddivisa in 7 categorie.
1) Artrite Sistemica o morbo di Still, rappresenta il 10-20% dell’insieme dell’AIG. Può insorgere lungo l’intero
arco dell'età pediatrica, già dal 2° semestre di vita. L'esordio dopo l'adolescenza (morbo di Still dell'adulto) è
raro. La diagnosi poggia sulla presenza di 2 criteri maggiori obbligatori, febbre e artrite, più almeno uno di 4
criteri minori: rash, linfoadenopatia generalizzata, epato-splenomegalia, sierositi.
La febbre dell’AIG sistemica, perché abbia valore di criterio classificativo, deve durare complessivamente
almeno due settimane e deve essere presente, con puntate quotidiane, per almeno 3 giorni consecutivi. La febbre
può accompagnare o precedere l'esordio dell'artrite, è solitamente molto elevata (39-40°C), tipicamente
intermittente, a puntate uni o biquotidiane, e si ripete in modo "curiosamente regolare" ("curiously regular",
come già aveva sottolineato G.F. Still), tutti i giorni solitamente alla stessa ora, con un andamento che è
altamente evocatore per la diagnosi. La febbre, solitamente, si accompagna a una maggior intensità del dolore
articolare e al caratteristico rash. La febbre di solito dura poche ore e poi, anche spontaneamente, la temperatura
ritorna a valori normali, o addirittura subnormali, soprattutto nei casi trattati con salicilati o FANS.
L’artrite, necessaria per la diagnosi, solitamente è presente fin dall’inizio, o compare poco dopo l’esordio
febbrile, ma è possibile che l’intervallo tra la comparsa dell’artrite e l’esordio febbrile sia più prolungato (è stata
descritta una latenza tra l’esordio febbrile e la comparsa dell’artrite fino a 10 anni), sono questi i casi che
presentano le maggiori difficoltà diagnostiche e che venivano un tempo indicati con l’eponimo di sindrome di
Wissler-Fanconi. L’artrite solitamente diventa preminente nel quadro clinico quando le manifestazioni
sistemiche regrediscono.
Il rash è presente dal 50 al 90% dei casi, ha l’aspetto morbilliforme di maculo-papule rosacee, discrete o
confluenti, è ubiquitario, ma localizzato soprattutto al tronco e alla radice degli arti, solitamente è evanescente, si
accompagna alle puntate febbrili e scompare nel giro di poche ore, solo occasionalmente è pruriginoso, può
essere evocato dallo sfregamento della cute.
Possono essere presenti (50-75% dei casi), soprattutto nelle fasi d’esordio e di riacutizzazione della malattia, altri
sintomi sistemici come l’epatomegalia e soprattutto la linfoadeno e spleno-megalia, che possono essere
veramente marcate, generando il dubbio diagnostico di una forma linfomatosa o di una Leishmaniosi, e possono
persistere anche nelle fasi di cronicizzazione. Possono essere interessate tutte le stazioni linfonodali superficiali
(comprese le epitrocleari) e profonde (come le mesenteriche il cui coinvolgimento può essere responsabile di
quadri di dolore addominale acuto).
L’interessamento sierositico, soprattutto sotto forma di pericardite essudativa, è un sintomo molto frequente (3550%), meno frequenti la pleurite (30%) e la peritonite sterile. Il dolore addominale, da peritonite sterile o adenite
mesenterica, talora simulante un quadro di addome acuto, è presente nel 10% circa dei casi.
Le alterazioni di laboratorio consistono in un'importante elevazione dei reattanti della fase acuta (VES, PCR,
fibrinogeno e ferritina) con leucocitosi neutrofila, trombocitosi e grave anemia microcitica iposideremica.
L’iperferritinemia spiccatissima, in particolare, è un elemento estremamente evocatore della diagnosi di morbo
di Still. Solitamente sono assenti gli ANA e non è stata dimostrata per questa forma alcuna sicura associazione
con gli antigeni d’istocompatibilità di classe II.
Schematicamente possono essere distinti 3 tipi d'evoluzione dell’AIG sistemica: a) tipo I - poussée sistemica
monociclica che guarisce senza esiti; b) tipo II - pousseés sistemiche policicliche che guariscono senza esiti o
con esiti articolari più o meno importanti; c) tipo III - poliartrite cronicamente attiva con conseguenze muscoloscheletriche destruenti e invalidanti.
2) Poliartrite Sieronegativa rappresenta circa il 30% delle forme di AIG. Criterio classificativo è l’interessamento
all’esordio (primi sei mesi) di almeno 5 articolazioni, ma spesso sono affette, sin dall’esordio o nel decorso
successivo, molte o moltissime articolazioni. Spesso l'esordio è insidioso e indolente, talora sono presenti modici
sintomi sistemici (febbricola, astenia, anoressia, irritabilità, stentato accrescimento staturo-ponderale).
Solitamente, all'inizio sono colpite soprattutto le grosse articolazioni periferiche (ginocchio, polso, gomito e
caviglia) e in modo non così rigorosamente simmetrico come nelle forme di AR dell'adulto, successivamente, e
in genere nelle forme più gravi, possono essere interessate anche numerose piccole articolazioni delle mani e dei
piedi. La deformazione ad asola o "en bouttonière" (flessione delle interfalangee prossimali e iperestensione
delle distali) è possibile nelle forme giovanili, come in quelle dell’adulto, mentre la deformazione a collo di
cigno (iperestensione delle interfalangee prossimali e flessione delle distali) è assente nell’AIG. Il rachide
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cervicale, le ATM e le coxo-femorali sono spesso colpite, mentre la spalla lo è molto raramente.
Sono abbastanza frequenti le tenosinoviti delle mani, sia dorsale degli estensori del polso sia volare dei flessori
delle dita.
Gli ANA sono positivi nel 25% circa dei casi. È’ possibile, nelle forme ANA positive, la complicanza oculare,
sotto forma di irido-ciclite cronica (ICC), ma con frequenza inferiore rispetto all’Oligoartrite.
In buona parte dei casi la prognosi a lungo termine è discretamente favorevole, ma si può evidenziare un subset
che evolve verso una grave poliartrite destruente con importante rigidità e contratture come nell’Artrite
Sistemica e la Poliartrite sieropositiva.
Un fattore prognostico negativo è l'interessamento delle coxo-femorali che quasi inesorabilmente porta a gravi,
invalidanti lesioni distruttive.
3) Poliartrite Sieropositiva, rappresenta circa il 5% o meno dell’insieme dell’AIG, si presenta solitamente
nell'adolescenza, raramente prima degli 8 anni, ed è del tutto sovrapponibile all'AR dell'adulto per la
predilezione del sesso femminile, l'interessamento simmetrico, precocemente erosivo, delle piccole articolazioni
delle mani e dei piedi, l'interessamento dell’articolazione atlo-epistrofica, la sindrome del tunnel carpale, le
possibili complicanze extra-articolari [quali noduli reumatoidi, vasculiti e fibrosi polmonare], l’associazione con
l’HLA DR4 o DR1. La prognosi è grave perché la forma tende a mantenersi persistentemente attiva fin nell'età
adulta, con gravi esiti invalidanti. A questa forma soltanto, secondo la classificazione Europea, andrebbe
riservata la definizione di Artrite Reumatoide Giovanile in senso stretto.
4) L’Oligoartrite, è la forma più frequente (50-75% dei casi) per definizione possono essere colpite all'esordio
(primi sei mesi) fino ad un massimo di 4 articolazioni. Si distinguono due sottocategorie: l’Oligoartrite
Persistente, quando anche nel decorso successivo non vengono interessate più di quattro articolazioni, e
l’Oligoartrite Estesa, quando invece vengono interessate dopo la fase d'esordio 5 o più articolazioni.
Nell'ambito di questa forma è compresa quella che le classificazioni precedenti indicavano come Pauciartrite di
Tipo I o Uveitis Related Arthritis che colpisce soprattutto le bambine in età prescolare, con un picco d'età
d'esordio intorno ai 3 anni (EOPA), e si associa in un'elevata percentuale di casi alla positività degli ANA e
all'interessamento oculare in forma di Uveite anteriore cronica (UAC) o Irido-Ciclite-Cronica (ICC).
Nella maggioranza dei casi l’Oligoartrite interessa il ginocchio, molto spesso come unica localizzazione
asimmetrica e poi la caviglia, ma può colpire anche qualche piccola articolazione delle mani o dei piedi, tuttavia
sempre in modo limitato e tendenzialmente asimmetrico. Le ATM sono spesso colpite, più spesso in modo
asimmetrico, determinando nell'apertura della bocca una caratteristica deviazione della mandibola verso il lato
affetto. L'anca è praticamente sempre risparmiata, come lo è la spalla.
L'andamento è recidivante, la prognosi articolare è buona, se viene messo in atto un tempestivo e adeguato
trattamento. La prognosi oculare può essere grave. Nell’Oligoartrite Estesa solitamente l'estensione dell'impegno
articolare oltre le 4 articolazioni avviene nel primo anno di malattia, l'andamento tende ad essere cronico e
possono svilupparsi col tempo lesioni strutturali anche importanti.
Nell’Oligoartrite gli indici d’infiammazione possono essere del tutto normali così come invece possono essere
nettamente elevati soprattutto nella fase iniziale di malattia, non esiste una regola. È definita per queste forme
l'associazione con l’HLA DR5 (in particolare l’allele DRB1*1104), DR8 (in particolare DRB1*0801) e il DPw2.
5) Artrite correlata all’entesite, Sindrome Sieronegativa-Entesite-Artrite (SEA) o Enthesitis Related Arthritis
(ERA) secondo la definizione dell'ILAR, viene considerata l'equivalente nel bambino della Spondilite
Anchilosante dell’adulto (SA). Molti dei ragazzi con SEA/ERA non presentano l'interessamento delle sacroiliache che è necessario per porre la diagnosi di Spondilite Anchilosante Giovanile (SAG) secondo i criteri di
NewYork, inoltre, benché i ragazzi con SEA/ERA possano sviluppare una spondilite in età adulta, l'impegno
assiale del rachide non è mai presente nell'età infantile. L’ERA è definita secondo i criteri ILAR dalla presenza
di artrite più entesite oppure di artrite o entesite più almeno 2 su 5 criteri minori: dolore alla pressione delle
sacroiliache e/o dolore lombosacrale di tipo infiammatorio, HLA B 27 positivo, storia familiare positiva per
patologie correlate all'HLA B27 in almeno un parente di primo grado, Uveite Anteriore Acuta (UAA)
sintomatica, esordio dell'artrite in un maschio maggiore di 6 anni. Il FR è per definizione negativo e gli ANA lo
sono quasi sempre.
L’ERA solitamente colpisce maschi puberi o prepuberi, dopo i 10 anni d'età, e si manifesta come un'oligoartrite
asimmetrica degli arti inferiori, soprattutto delle grosse articolazioni periferiche (ginocchio e caviglia), ma anche
delle metatarso-falangee, interfalangee dei piedi e intertarsiche. Anche le coxo-femorali sono spesso interessate e
possono essere la localizzazione d'esordio della malattia (a differenza dell’Oligoartrite che eccezionalmente, e
solo tardivamente, può coinvolgere questa sede). Un'altra manifestazione caratteristica è l'impegno doloroso
delle costo-sternali, delle sterno-clavicolari e delle costo-trasversarie che può associarsi con una limitazione della
capacità di espansione della gabbia toracica.
L'artrite si associa con elevata frequenza (60% circa) ad entesite, caratteristicamente una manifestazione precoce
della malattia, più frequente che nella SA dell'adulto. Il dolore entesitico, in particolare la talalgia può essere
molto intenso e disabilitante, talora cronicizza e si associa ad erosioni e proliferazioni ossee.
La dattilite (tumefazione di un intero dito della mano o del piede, cioè estesa oltre il limite anatomico
dell'articolazione) dovuta alla combinazione di sinovite articolare e tenosinovite dei tendini flessori è frequente
(25%). Viene considerata un particolare tipo d'entesite. La tenosinovite dei flessori è frequente anche nelle altre
forme di AIG, ma nell’ERA il processo infiammatorio coinvolge non solo la guaina sinoviale dei tendini ma
anche i tessuti molli circostanti. La tenosinovite dei flessori delle dita si accompagna all’evidenza radiologica di
periostite (mentre è importante sottolineare che la presenza di periostite in altre sedi articolari deve spostare il
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sospetto diagnostico verso patologie infettive o neoplastiche).
Anche se il quadro clinico preminente nel bambino è quello dell'artrite periferica oligoarticolare e non della
sacroileite, questa è possibile, e relativamente frequente (50%), anche nei casi senza successiva evoluzione
spondilitica. La sacroileite è spesso monolaterale, può essere clinicamente manifesta (25%) con dolore gluteo di
variabile intensità, caratteristicamente monolaterale alternante, che talora si irradia alla faccia posteriore della
coscia non oltre la rima articolare del ginocchio (cosiddetta "sciatica mozza"), oppure può essere dimostrata solo
radiologicamente (33%). Con l'evoluzione in anchilosi la sacroileite diventa asintomatica. L’ERA può andare
incontro a remissione persistente e apparentemente definitiva guarigione, oppure può avere un decorso
recidivante.
Un aspetto particolare dell’ERA è l'interessamento del piede a livello delle metatarso-falangee e delle
interfalangee che in circa la metà dei casi può presentare l'aspetto di un'artrite erosiva (artrite erosiva del piede).
La prognosi funzionale articolare è solitamente buona eccetto che per l'interessamento delle anche e la possibile
evoluzione spondilitica.
Nel 10-20% dei casi, soprattutto se HLA B27 positiva, l’ERA si associa a Uveite Anteriore Acuta (UAA), che
raramente può precedere l'esordio delle manifestazioni muscolo-scheletriche, solitamente recidivante,
monolaterale (ma spesso alternante nell'uno e nell'altro occhio), sintomatologicamente molto evidente (dolore,
fotofobia, iniezione congiuntivale, visione offuscata, blefarospasmo), ma che tende a regredire spontaneamente,
o con terapia topica steroidea, e senza esiti, nell'arco di 2-4 mesi. La prognosi oculare è solitamente buona.
Le manifestazioni cardiovascolari (insufficienza aortica) e le anomalie della funzionalità respiratoria sono
descritte anche nelle forme giovanili, ma sono meno frequenti che nell'adulto.
6) L'Artrite Psoriasica Giovanile (APsG) è abbastanza rara (1,7-15% di tutte le forme di AIG), è definita,
secondo la classificazione ILAR, dalla presenza di artrite più psoriasi oppure di artrite più almeno 2 di 3 criteri:
dattilite, anomalie ungueali (pitting od onicolisi), storia familiare positiva per psoriasi in un parente di primo
grado confermata dal medico. La diagnosi di APsG può quindi essere posta anche se il bambino non presenta, o
non presenta ancora, le manifestazioni cutanee della psoriasi. Non esiste parallelismo tra l'entità della psoriasi e
dell'artrite, la prima può essere minima o limitata (solo psoriasi ungueale o al capillizio). La diagnosi è ovvia
quando artrite e psoriasi si presentano contemporaneamente (<10-30% dei casi), oppure se la psoriasi precede
l'artrite (30% dei casi), ma spesso l'artrite precede le manifestazioni cutanee (30-50% dei casi). La malattia
predilige il sesso femminile (F/M=1,6), soprattutto nelle forme a esordio precoce, e può insorgere a qualsiasi età
con una distribuzione bimodale dell'esordio con un primo picco nell'età prescolare (soprattutto bambine) e un
secondo picco intorno ai 10 anni.
In molti casi l’APsG, come definita dall’ILAR, assomiglia in tutto all’AIG Oligoarticolare per la presenza di
ANA (25%) e la complicanza oculare in forma di ICC (14-18%). All'esordio la malattia si manifesta più spesso
come una monoartrite o un'oligoartrite asimmetrica o una dattilite, presente nel 30-50% dei casi, con il tipico
aspetto di dito a salsicciotto, più spesso del piede. L'andamento può essere recidivante, oppure persistente con
impegno poliarticolare aggiuntivo, ma con distribuzione più spesso asimmetrica. Le articolazioni più
frequentemente colpite sono, nell'ordine: il ginocchio, la caviglia, le interfalangee della mano, il polso, le
metacarpo e metatarso-falangee, le ATM, le interfalangee del piede, l'anca e il gomito. La tumefazione isolata di
una sola interfalangea della mano o del piede è suggestiva per APsG. I cingoli pelvico e scapolare sono
relativamente risparmiati. Talora l'artrite ha carattere distruttivo e dislocante. Relativamente raro è l'impegno
delle sacro-iliache ed eccezionale l'evoluzione spondilitica. Anche l'evidenza clinica di un'entesite è insolita,
mentre sono possibili tenosinoviti isolate non associate a dattilite (dei flessori delle dita, estensori dei piedi,
tibiale posteriore e peronei).
7) Artrite Indifferenziata. In questo gruppo viene classificata l’artrite che non soddisfa i criteri classificativi delle
altre categorie o soddisfatta i criteri di due o più categorie.
Terapia
La terapia farmacologia si basa inizialmente (e solo per il più breve tempo possibile, nell’attesa degli
accertamenti volti a formulare una diagnosi d’esclusione) sui farmaci anti-infiammatori non-steroidei o FANS.
Quelli più usati nell’AIG sono: naprossene (15-20 mg/kg/die), ibuprofene (30-40 mg/kg/die), flurbiprofene (57,5 mg/kg/die), indometacina (3-5 mg/kg/die). Solo per il meloxicam esiste un trial controllato che dimostra nel
bambino con AIG l'efficacia e sicurezza di un FANS ad azione più selettiva.
Gli steroidi devono essere utilizzati in condizioni di particolare gravità (malattia sistemica attiva e non altrimenti
controllabile, impegno articolare invalidante che costringa all’allettamento, uveite refrattaria) o come “bridge
therapy” all’inizio dell’approccio terapeutico, nell’attesa della risposta ai i cosiddetti “farmaci di fondo” o
“Disease Modifying Anti-Rheumatic Drugs (DMARDs). Una volta ottenuto l’effetto desiderato è importante che
il dosaggio degli steroidi venga progressivamente, anche se lentamente, ridotto fino alla sospensione, per evitare
i suoi effetti secondari, particolarmente dannosi nel bambino, quali il ritardo/arresto della crescita staturale e il
mancato raggiungimento del picco ideale di massa ossea o addirittura la perdita di massa ossea e le fratture
vertebrali.
La seconda categoria di farmaci che abbiamo a disposizione per curare l’AIG sono i DMARDs (metotrexate,
ciclosporina, idrossiclorochina, leflunomide, azatioprina). Questi farmaci, sono anche chiamati farmaci ad
“azione lenta” (slow acting antirheumatic drugs) in quanto la loro efficacia si manifesta in pieno solo dopo 3-6
mesi di terapia e perciò vanno, inizialmente, associati ai FANS e/o al prednisone, che danno un sollievo
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immediato ai sintomi e, per quando riguarda il prednisone, sembra impedire o ridurre nelle forme precocemente
aggressive il danno erosivo.
Tutte le forme, indipendentemente dal quadro d’esordio, possono evolvere verso una poliartrite cronica erosiva,
ma non disponiamo ancora di sicuri criteri prognostici che ci consentano di individuarle e trattarle precocemente
con le terapie più aggressive, con l’intento di prevenirne gli esiti invalidanti.
Fino all’inizio del 2000 gli unici DMARDs approvati per l’AIG, erano il Metotressato (MTX) e la salazopirina.
Il MTX si è imposto come DMARD di prima scelta per le forme a evoluzione poliarticolare. Tuttavia, alcuni
bambini non hanno un’adeguata risposta, pur incrementando le dosi, e molti sviluppano un’intolleranza, con
nausea e vomito (“nausea anticipatoria”) e malessere generale, con meccanismo centrale riflesso, che rendono
impossibile la prosecuzione del trattamento. Per altri DMARDs, o non esiste l’evidenza della loro efficacia,
mancando studi clinici controllati, come per i sali d’oro iniettabili e la ciclosporina, oppure, in studi controllati,
si sono dimostrati inefficaci come la penicillamina, l’idrossiclorochina, i sali d’oro per os e le immunoglobuline
umane endovenose ad alte dosi. Questo ha portato a sperimentate, in casi refrattari e gravi, anche un approccio
terapeutico più aggressivo con il trapianto di cellule staminali autologhe. Tuttavia, i benefici di queste opzioni
terapeutiche rimangono discutibili e in ogni caso la percentuale dei casi responders ai DMARDs non supera il
60-70%. La terapia dell’AIG, quindi, è spesso molto problematica e gli insuccessi non rari: prima dell'epoca
delle terapie anti-TNF, a cinque anni dall’esordio, più del 25% delle poliartriti e quasi il 50% delle forme
sistemiche, presentava limitazioni funzionali, e quasi i 2/3 di queste forme presentavano lesioni articolari
radiograficamente evidenti. C’è stato, dunque, spazio negli ultimi anni, per sperimentare le terapie
anticitochiniche (anti-TNF in particolare) e anti-linfociti, più selettive ed efficaci dei DMARDs convenzionali.
Attualmente sono pubblicati i risultati degli studi controllati, randomizzati e multicentrici del trattamento
dell’AIG, con gli inibitori del TNF (Etanercept, Infliximab, Adalimumab), l’inibitore dell’IL-6 (Tocilizumab),
l’inibitore dell’IL-1 (Canakinumab) e con l’inibitore del linfocitaT (Abatacept).
L’Etanercept, che è stato il primo approvato e quindi il più utilizzato nella pratica clinica, può essere
somministrato come mono-terapia, tuttavia, la combinazione degli antagonisti del TNF con i DMARDs sembra,
in genere, aumentarne l’efficacia e la sicurerzza. L’Etanercept si è rivelato efficace e sicuro anche quando
combinato con MTX, con MTX più idrossiclorochina, con MTX più salazopirina e con leflunomide. Nell’età
evolutiva, una precoce introduzione dell’Etanercept, sopprimendo l’infiammazione e favorendo il risparmio
steroideo, sembrerebbe ridurre il rischio di osteoporosi e di deficit della crescita.
Le esperienze con l'anticorpo monoclonale umanizzato anti-TNF Infliximab sono state meno numerose, in
quanto non approvato dalla FDA e dall'EMEA per l’uso nell’AIG ma solo per il trattamento dell'UAC che si
associa all'AIG. Ma sin dalle prime esperienze cliniche, tra cui la nostra, l’inibizione del TNF con l’anticorpo
chimerico monoclonale, associato a MTX (la combinazione con MTX è la regola) ha portato nell’AIG attiva e
refrattaria al MTX e uno o più altri DMARDs, a una riduzione clinicamente sorprendente, dell’attività di
malattia, associata a un miglioramento della qualità di vita. Già subito dopo le prime infusioni, la maggioranza
dei pazienti riferisce un miglioramento del dolore e della rigidità mattutini e una riduzione dell’astenia.
Anche l’inibizione del TNF con l’anticorpo monoclonale umano Adalimumab, sia da solo, sia in combinazione
con MTX, ha portato, a un rapido miglioramento dei sintomi clinici e dei parametri di laboratorio
L’inibizione del TNF sembra essere meno efficace sui sintomi sistemici (rash e febbre) dell’AIG sistemica che
non sull’artrite, e le recidive febbrili sono frequenti pur continuando la terapia. I pazienti con AIG sistemica ad
evoluzione poliartritica, che non presentano più sintomi sistemici, possono, invece, avere una risposta clinica
paragonabile a quelli delle altre categorie ILAR.
La scarsa efficacia dell’inibizione del TNF sull’attività sistemica dell’AIG, era ipotizzabile sulla base delle
osservazioni che indicavano l’IL-6 come principale responsabile delle manifestazioni sistemiche della malattia,
osservazioni confermate dalla drammatica efficacia su queste manifestazioni dell'anticorpo monoclonale
umanizzato Tocilizumab (inibitore di IL-6).
Più recente è la dimostrazione dell'importanza patogenetica dell'IL-1 nell'AIG sistemica e quindi dell'efficacia
terapeutica della sua inibizione sia con l'antagonista recettoriale Anakinra, l'Anakinra attualmente è entrato nella
pratica clinica del trattamento della fase sistemica dell'AIG sistemica non responsiva, sia con l’anticorpo
monoclonale anti il-1 Canakinumab.
L’efficacia dell’inibizione del TNF sull’UAC, che spesso complica l’AIG oligoarticolare, non è chiara, anzi,
sono stati descritti casi di riattivazione o di esordio di questa complicanza dopo l’inizio della terapia, in
particolare con l’Etanercept. l’Etanercept sembra inefficace nella prevenzione delle recidive dell’ICC. Invece, vi
sono studi clinici e una vasta esperienza clinica nei centri di riferimento terziari, sull’efficacia degli anticorpi
monoclonali anti-TNF (Infliximab e Adalimumab).
Il TNF ha un ruolo importante anche nella patogenesi dell’entesite, la sua inibizione, sia con Infliximab sia con
Etanercept, è efficace sull’artrite e l’entesite nelle ERA refrattarie. In queste forme, inoltre, l’Infliximab sembra
essere efficace anche nella terapia dell’uveite anteriore acuta.
Con il sempre più vasto impiego dei biologici, sono emersi alcuni rari EA, che non erano apparsi nei trial clinici
pilota. Tuttavia, molti di questi (ad esempio: linfomi e infezioni) possono essere associati sia con la patologia di
per sé sia con le concomitanti e precedenti terapie immunosoppressive.
Generalmente, la tollerabilità della terapia anti-TNF nell’AIG è buona. Il più comune EA sia con l’Etanercept
che con Adalimuab sono le per lo più lievi e transitorie reazioni cutanee nella sede dell’iniezione. Con
l’Infliximab, il più comune EA è la reazione all'infusione (RI) con sensazione di costrizione toracica, dispnea,
arrossamento del volto e orticaria. I secondi più frequenti EA, con entrambe le terapie, sono state manifestazioni
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di coinvolgimento del SNC (da segni aspecifici, come emicrania, vertigini, astenia, iperattività e ansia, a casi più
rari di sindromi da amplificazione del dolore, importanti alterazioni comportamentali come un’inusuale
aggressività, sindromi neuro-psichiatriche maggiori come attacchi di panico, depressione, sindromi ossessivocompulsive e infine a rarissimi segni neurologici organici quali neurite ottica, sintomi di demielinizzazione).
Particolarmente temuta è la potenziale azione pro-infettiva degli inibitori del TNF e dell’IL-6 (più sicuri in
questo senso sembrano essere gli inibitori dell’IL-1 che tuttavia sono indicati solo nel trattamento delle forme
sistemiche). Nell’AIG sono state riportate per lo più infezioni delle vie respiratorie superiori o delle vie urinarie,
facilmente curate con la terapia antibiotica, ma anche rari casi di gravi sepsi. Attualmente il FDA richiede che il
trattamento sia temporaneamente sospeso in corso di episodi infettivi, e questa è la regola nella pratica clinica
nell’AIG. Una particolare preoccupazione in età pediatrica è l’azione immunodepressiva dei farmaci biologici in
bambini esposti al virus della varicella. Attualmente si consiglia di vaccinare i bambini non-immuni almeno tre
mesi prima di iniziare la terapia oppure, qualora siano stati esposti al contagio, o sviluppino la varicella durante
la terapia con anti-TNF, di sottoporli subito alla profilassi con immunoglobuline iper-immuni e/o ad
un’aggressiva terapia anti-virale.
La somministrazione di vaccini vivi, ai bambini che assumono gli anti-TNF, è controindicata, sarebbe preferibile
che essi fossero stati sottoposti a tutti i vaccini obbligatori, prima di iniziare la terapia.
Nella esperienza del nostro Dipartimento (che comprende un’Unità pediatrica e due dell’adulto) le infezioni
gravi sembrano essere più frequenti nell’AR che non nell’AIG. I bambini affetti da AIG, infatti, hanno meno
opzioni terapeutiche, l’unico DMARD dimostratosi efficace e sicuro in un ampio trial controllato è il MTX, per
questo motivo i bambini spesso ricevono l’indicazione alla terapia anti-TNF in una fase più precoce di malattia
che non gli adulti e sono, quindi, meno esposti a precedenti trattamenti immunosoppressivi di lunga durata e
all’immunodepressione cronica dovuta alla persistente e incontrollata attività di malattia.
Uno dei più gravi EA dell’inibizione del TNF è la potenziale riattivazione di una tubercolosi latente,
principalmente con l’Infliximab, ma è quasi completamente scomparso da quando è stato reso obbligatorio lo
screening e, nel caso di un risultato positivo della Mantoux, la profilassi anti-TBC.
Un’altra preoccupazione con l’inibizione del TNF è la sua potenziale azione di indirizzare la risposta immune
dal braccio Th1 a quello Th2 e, dunque, di favorire la produzione di anticorpi e il nuovo esordio, o il
peggioramento, di patologie allergiche o autoimmuni. Questo è il caso soprattutto dell’Infliximab a causa della
sua prolungata soppressione della risposta Th1. Lo sviluppo di auto-anticorpi, tuttavia, raramente è seguito dallo
sviluppo di una sindrome lupus-like.
Rara ma temibile la possibile comparsa, di malattia infiammatoria (asettica) intestinale, con dolori addominali e
diarrea cronica in pazienti sicuramente affetti da forme di AIG che non avevano mai sofferto di sintomi che
potessero far ipotizzare una malattia infiammatoria cronica intestinale sub-clinica pre-esistente.
Casi di mielodeppressione, con leucopenia, trombocitopenia o pancitopenia, sono stati osservati solo raramente
nell’AIG trattata con gli anti-TNF, la neutropenia è invece più frequente nel trattamento con Tocilizumab.
L’inibizione selettiva della costimolazione del linfocita T con Abatacept ha dimostrato di essere
terapeuticamente efficace e sicura nell'AIG poliarticolare refrattaria, in uno studio controllato randomizzato in
doppio cieco e nell'estensione in aperto ha mantenuto efficacia e sicurezza anche nel lungo termine. Abatacept è
stato approvato per l'impiego come biologico di seconda linea nei casi che hanno fallito gli anti-TNF ed è
generalmente ben tollerato.
CONCLUSIONI
Oggi abbiamo a disposizione un numero crescente di farmaci biologici anticitochine e antilinfociti (nota:
Rituximab non è stato studiato nell'AIG) che impiegati precocemente e razionalmente, sembrano in grado di
prevenire il danno invalidante a livello muscoloscheletrico, oculare e sistemico a cui potrebbe condurre la storia
naturale dell'AIG.
Attualmente, nell'UO di Reumatologia dell’età evolutiva del nostro Istituto, che ha una esperienza nell'impiego
dei biologici nell'AIG iniziata nel 1999, con oltre 350 casi trattati con uno o più biologici per complessivi oltre
750 cicli di trattamenti, nei casi che hanno fallito il MTX, applichiamo la flow chart qui riportata (fig.1)
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16
APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE CON STROKE
Salvatore Renna – M. Bertamino
UOSD Area Critica della Medicina d’Urgenza
DEA-IRCCS “G.Gaslini”- Genova
Lo stroke è una “sindrome clinica caratterizzata dalla rapida insorgenza di segni neurologici focali o di
una disfunzione cerebrale diffusa, della durata di almeno 24 ore o con esito mortale, senza cause apparenti
al di fuori di un’origine vascolare”- OMS
Ciò che caratterizza lo stroke (detto anche ictus) è pertanto un quadro clinico caratterizzato da insorgenza acuta
di segni neurologici focali che persistono per un periodo superiore a 24 ore e che possono essere caratterizzati da
emiplegia, segni piramidali, afasia, crisi convulsive ed evidenza neuroradiologica di una lesione
ischemica/emorragica.
Esso è dovuto ad un’occlusione improvvisa, in genere per presenza di un embolo o trombo, di un'arteria (stroke
arterioso) o di una vena (trombosi dei seni venosi), oppure da improvvisa rottura di un vaso (stroke emorragico).
EPIDEMIOLOGIA
Lo stroke nei bambini ha una incidenza, secondo la letteratura mondiale, compresa tra 2,6-6,4 casi su 100000
bambini per anno. In Canada sono stimati essere 3,3/100.000/anno gli stroke ischemici pediatrici, con un
rapporto tra stroke arteriosi e venosi di 3:1. e lieve predominanza maschile (60%) negli infarti ischemici
arteriosi. In una recente revisione retrospettiva di un’ampia casistica di pazienti pediatrici con stroke emerge che
il 45 % di infarti cerebrali in età evolutiva si verifica entro i primi 5 anni di vita.
OUTCOME

Exitus → 5-28% ( → dati più recenti 2-11%)

Esiti neurologici motori e/o cognitivi, epilessia → 50 – 73%

Ricorrenza totale: 20 – 33 % → 66% in 5 aa nei soggetti con anomalie vascolari identificate.
Lo stroke in età pediatrica è una condizione patologica rara ma certamente sotto diagnosticata e, di conseguenza,
spesso soggetta a malpractice. L’incidenza in età pediatrica è aumentata negli ultimi anni soprattutto per la
maggiore sopravvivenza dei pazienti affetti da patologie predisponenti (es.cardiopatie congenite, anemia a
cellule falciformi, etc) e anche per lo sviluppo e la maggiore utilizzazione di tecniche diagnostiche specifiche
quali TC, RM angiografia, eco-doppler.
E’ una delle dieci cause di morte più frequenti in pediatria.
ASPETTI CLINICI ESSENZIALI
Nella maggioranza dei casi (85 % circa) lo stroke è provocato da ischemia (infarto cerebrale). Le emorragie
rappresentano il restante 15 % circa e sono distinte in cerebrali ( 10 % ) e sub aracnoidee ( 5 % ).
La diagnosi differenziale tra ictus ischemico ed emorragico è difficilmente eseguibile solo con dati clinicoanamnestici, per cui il supporto delle indagini strumentali (Tomografia computerizzata e Risonanza magnetica) è
indispensabile.
Talvolta altre patologie neurologiche non vascolari possono simulare un ictus ponendo problemi di diagnosi
differenziale (neoplasie, lesioni infettive o infiammatorie, patologia traumatica, crisi epilettiche di diversa
origine, emicrania); è pertanto necessaria un'attenta e sensibile capacità clinica.
Le condizioni predisponenti includono un ampio spettro di malattie come: malformazioni cardiache, anemia a
cellule falciformi, infezioni, vasculopatie e anomalie del collagene, alterazioni dell'emostasi; peraltro circa la
metà degli eventi ischemici insorgono in bambini senza precedenti o coesistenti patologie significative.
L'insorgenza di ictus nei bambini si deve raramente a fattori di rischio “tradizionali” come l'ipertensione o il
diabete. Lo stroke pediatrico risulta in genere dalla presenza simultanea di molteplici fattori, per cui è necessaria
una valutazione approfondita. Il sospetto dello stroke da parte dei genitori e degli operatori sanitari
dell'urgenza/emergenza è spesso tardivo, evidenziando la necessità di una maggiore consapevolezza e
formazione sull'argomento.
Molte situazioni in pediatria possono simulare un quadro di stroke ma la diagnosi di certezza necessita di
neuroimmagini che non sempre sono disponibili tempestivamente in tutti gli ospedali e richiedono inoltre, quasi
sempre, la sedazione dei bambini.
Le immagini radiologiche delle arterie coinvolte nell’infarto rivelano condizioni patologiche vascolari nell’80%
dei casi; uno stato di ipercoagulabilità associato a fattori di rischio protrombotico sembra essere determinante al
fine dell’evento.
Nel 15-36% dei bambini con Stroke ischemico e in circa l’11% di quelli con Stroke emorragico non si riesce ad
identificare l’eziologia; sono pertanto definiti “criptogenici”e quindi “sine causa” identificata.
Ulteriori zone grigie sull'argomento sono il trattamento, attualmente basato solo su raccomandazioni di esperti, e
la mancanza di database nazionali per individuare le patologie più a rischio e attivare efficaci programmi di
prevenzione.
Lo stroke pediatrico ha spesso grosse ricadute sulla qualità di vita dei bambini che ne sono colpiti e delle
famiglie, che dovranno dedicare molte risorse per l'assistenza in acuto e per la lunga riabilitazione. Sul piano
17
sociale i costi dell'assistenza ad uno stroke pediatrico sono stati stimati intorno ai 20000-30000 Euro, ma la cifra
può superare i 100000 Euro per la gestione della riabilitazione.
18
FLOW-CHART STROKE
In caso di accettazione di paziente trasferito da altro centro (allegato 1)
Stabilizzazione del paziente e monitoraggio continuo funzioni vitali
Posizionamento accesso venoso
02 terapia
Esami ematochimici basali
alterazione stato di
coscienza/coma
Ipotensione
acidosi
quadro convulsivo
A
M
M
I
S
S
I
O
N
E
 Trp anticomiziale
BDZ: - via rettale
- ev
Terapia infusionale:
20’ ripetibili
segni di lato
intubazione e ventilazione
assistita
Ev. Ricovero UTI
soluzione fisiologica 10 cc/kg in
Primi dati anamnestici di inquadramento: traumi?cardiopatie o malattie sistemiche
note o in atto? farmaci ? intossicazioni? Valutaz. cardiologica ed ecocardio se
cardiopatia cianogena o portatore di protesi endovascolare
TC CEREBRALE
EMORRAGIA, INFARTO
ESTESO, LESIONE EVOLUTIVA,
O SEGNI DI
IPERTENSIONE ENDOCRANICA
E
N
T
R
O
2
4
h
Ricovero UTI
NEGATIVA
Iniezione
MDC
infarcimento
emorragico
su danno ischemico
mannitolo 1 gr/ kg ev
NCH
Consulto NCHEMATOL.
per valutare opportunità
terapia antitrombotica
NEGATIVA
Ricovero c/o
Medicina d’Urgenza o UTI
Terapia farmacologica:
 antibiotica/ antivirale
antipiretica/anticomiziale/
steroidea
 valutazione neurologica
 Trp antitrombotica: EBPM ( deltaparina ) : 1 mg/kg/12 h (sino ad
esclusione eziopatogenesi cardiologica ) poi Cardioaspirina 3-4
mg/kg/die
19
E
N
T
R
O
Esecuzione di esami di II
livello (allegato 4)
Diagnosi differenziale
(allegato 3)
Scheda anamnesi (allegato 2)
Consulenza neurologica
+ EEG per escludere
encefalite
o focolai epilettogeni
4
8
h
RMN encefalo
Visualizzazione del fatto
ischemico entro 30’ minuti
dall’evento.
• RM con studio della
perfusione → necessario
accesso venoso che permetta
infusione
• Angio RMN
Consulenza infettivologica
Liquor?
Valutazione cardiologica
• Ecocardiogramma (+/- mdc) in urgenza se
portatore di protesi endovascolare o
cardiopatia cianogena.
• Ecografia transesofagea (su indicazione del
cardiologo)
Allegati
n. 1
In caso di trasferimento del paziente da altra struttura sanitaria:
necessario colloquio telefonico tra anestesista e medico di PS dell’Istituto con il medico e/o l’anestesista della
struttura che invia il paziente al fine di:
•
conoscere modalità ed orario di esordio della sintomatologia e terapie effettuate
•
valutare la necessità di effettuare il trasporto avendo già provveduto all’intubazione e all’applicazione di
monitoraggio della saturazione del paziente
n. 2
Raccolta anamnestica (scheda anamnesi)
traumi?cardiopatie note?sintomi sistemici? malattie in atto o note? terapia in atto? varicella nell’ultimo anno?
familiarità per trombofilie, eventi tromboembolici, fatti emorragici o patologie neurologiche o
autoimmunitarie? possibili intossicazioni?
n. 3
Diagnosi differenziale: gravi squilibri idroelettrolitici, epilessia, encefaliti, emicrania, patologie espansive
intracraniche, ascessi cerebrali, idrocefalo scompensato, intossicazioni, malattie metaboliche
n. 4
Esami di II livello: profilo autoanticorpale: Ab antifosfolipidi (aCL, GPI e LAC) , ANA, dsDNA, ANCA, ENA,
C3e C4; colesterolo totale, trigliceridi, Apo A1 e B, LipoproteinaA; determinazione omocisteinemia basale;
emoglobinopatie; ammoniemia; screening tossicologico su urine; Ab vs VZV; test gravidanza; screening
trombofilico (compilare scheda) , dosaggio FX basale e dopo 4h dalla trp anticoagulante
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21
APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE CON… IPEREOSINOFILIA
Momcilo Jankovic
Clinica Pediatrica – Università di Milano-Bicocca / Fondazione MBBM, c/o Ospedale S.Gerardo, Monza
L'aumento del numero degli eosinofili nel sangue è un segno caratteristico di alcune malattie come quelle da
ipersensibilità e da parassitosi. In questi casi l'eosinofilia costituisce un valido parametro diagnostico ed un
importante marker per il follow-up della malattia. In alcune condizioni, invece, l'eosinofilia pone importanti
problemi diagnostici e terapeutici.
La corretta interpretazione di una eosinofilia richiede, sempre un'accurata indagine clinico-anamnestica, la
revisione di numerosi processi patologici e ragionate indagini di laboratorio e strumentali.
In rari casi, come nella sindrome ipereosinofilia idiopatica, l'etiologia rimane oscurata. Queste condizioni
richiedono un' accurato follow-up per evidenziare e trattare precocemente i danni d'organo causati dal persistere
dell'eosinofilia e perchè possono procedere l'insorgenza di patologie e linfoproliferative.
Inquadramento clinico
L'entità e la durata dell'eosinofilia forniscono un importante orientamento diagnostico tanto da parlare di
“piccola e grande” eosinofilia.
Le eosinofilie reattive e secondarie possono essere inquadrate come segnalato in tabella 1.
Eosinofilie reattive o secondarie
Le forme reattive coinvolgono l'eosinofilo nel suo aspetto funzionale come cellula difensiva (malattie infettive,
parassitarie, neoplastiche), flogistica (allergie) e antiflogistica (smorzare le reazioni abnormi) oppure
rappresentano un epifenomeno secondario alla produzione abnorme di citochine eosinofilopoietiche (neoplasie).
Il limite tra funzione utile e nociva degli eosinofili è molto sfumato. In ogni caso l' ipereosinofilia può
modificare o addirittura essere responsabile degli aspetti più salienti del quadro clinico.
Le reazioni di ipersensibilità (tipo I, II, III, IV) sono coinvolte nella patogenesi della maggior parte dei quadri
clinici associati ad ipereosinofilia. L'eosinofilo in queste situazioni svolge un ruolo da protagonista nel
determinare il quadro clinico. A livello bronchiale per esempio, è responsabile tramite i suoi mediatori del
quadro asmatico e del danno dell'epitelio con conseguente esposizione delle terminazioni nervose sensitive ad
agenti ambientali ed ai mediatori della flogosi determinando così l'iperreattività bronchiale prolungata. Anticorpi
monoclonali diretti verso l'ICAM-1, una proteina che media la migrazione tessutale degli eosinofili, evita la
reazione asmatica da challenge allergenico. Le malattie da ipersensibilità di tipo II (da autoanticorpi) e situazioni
autoimmunitarie più complesse che comprendono anche le reazioni di tipo III (da immunocomplessi) e di tipo
IV (cellulo-mediate) sono associate ad eosinofilia più o meno marcata.
Eosinofilia è costantemente presente in alcune malattie infiammatorie del connettivo come la malattia di ChurgStrauss, la fascite eosinofila di Shulman, la sindrome eosinofilia-mialgia associata all'ingestione di triptofano e
nella “sindrome da olio tossico” espressione di una risposta allergica o di una azione tossica diretta degli olii
cottura e che si esprime clinicamente come la sclerosi sistemica progressiva.
22
In questi casi il quadro clinico predominante rende logica o comunque attesa l'eosinofilia che così non pone
problemi diagnostici. Nei casi di atopie (asma, allergie alimentari) l'eosinofilia segue fedelmente l'espressione
clinica rappresentando così un'utile indice di follow-up. L'entità dell'eosinofilia associata ad asma deve far
considerare nell'iter diagnostico altre patologie.
Malattie infettive
Gli eosinofili partecipano attivamente ai processi infettivi; Si riscontrano aumentati come numero in circolo
soprattutto nel periodo di convalescenza ed è un segno prognostico favorevole, mentre eosinopenia si riscontra
durante il periodo febbrile della malattia come è classicamente descritto nel tifo. Nelle infezioni virali il riscontro
di eosinofilia è raro. Eosinofilia soprattutto midollare è presente in corso di infezioni da HIV. Marcata eosinofilia
in corso di infezioni batteriche è rara e si può ricondurre a fenomeni di ipersensibilità verso antigeni batterici o ai
farmaci usati per il trattamento; più raramente ad immunodeficienza. In corso si scarlattina e di altre infezioni da
Streptococco emolitico di gruppo A, può essere presente eosinofilia di piccola entità che scompare con il
trattamento antibiotico. Nel periodo neonatale l'eosinofilia è comunemente associata alla presenza di infezioni.
Eosinofilia (500-1.000/mmc) è presente in corso di polmonite da Clamidia. Nelle Aspergillosi e
Coccidioidomicosi l'eosinofilia è costantemente presente e può raggiungere i 40-50.000/mmc. La patogenesi
riconosce anche in questi casi reazioni di ipersensibilità di tipo I, III, e IV.
Parassitosi
L'eosinofilia è tipicamente presente in corso di infezioni parassitarie (tabella 2) soprattutto in quelle che
presentano un ciclo tessutale.
L'eosinofilia ematica è scarsa e assente nel caso in cui i parassiti sono presenti esclusivamente nel lume
intestinale come nelle infestazioni da ossiuri, tenie, tricocefalo o nel caso della presenza di cisti idatidee nei
tessuti. In questi ultimi casi l'eosinofilia si rende evidente quando le cisti si rompono e può anche raggiungere
entità notevoli.
Le infezioni da protozoi non causano eosinofilia, tranne nel caso dell'Isospora belli, un coccidio intestinale.
Per alcune infestazioni l'eosinofilia è così marcata da porre importanti quesiti diagnostici. In altri casi
l'infestazione dà un quadro clinico che può indirizzare verso diagnosi errate (asma, malattie oculari, malattie
neurologiche). Una strongyloidiasi interpretata come asma e trattata con steroidi può precipitare nella sindrome
da iperinfezione caratterizzata da invasione sistematica del parassita nei vari organi.
Tale sindrome è associata ad alta mortalità. La localizzazione retinica da parte dei parassiti come la Toxocara
canis o cati pone problemi diagnostici con diversi processi flogistici e neoplastici dell'occhio. Localizzazioni
oculari si verificano anche nella filariasi. La miasi sottocutanea da tumori migranti, può dare dolori addominali e
toracici, in alcuni casi danni oculari e interessamento del SNC con quadri clinici che vanno dall'atassia
all'emiparesi, alla meningite a liquor limpido, più spesso con pleicocitosi eosinofila.
Nelle parassitosi oltre all'ipereosinofilia i livelli di IgE sono costantemente aumentati.
L'infestazione intestinale da nematodi è stata associata alla sindrome da disfunzione piastrinica acquisita con
eosinofilia (porpora eosinofila) probabilmente da immunocomplessi.
Malattie neoplastiche
L'eosinofilo esprime attività tumoricida e così l'eosinofilia può essere la conseguenza della risposta immune.
Spesso l'eosinofilia è invece conseguente alla produzione abnorme da parte delle cellule neoplastiche di fattori di
crescita e chemiotattici ed è stata associata a cattiva prognosi. E' frequente un parallelismo tra eosinofilia e
l'evoluzione della malattia e la risposta alla terapia. L'eosinofilia è frequente nei carcinomi broncogeni,
intestinali, pancreatici e della cervice uterina; nelle neoplasie vascolari, nei melanomi, neoplasie del SNC.
23
Ben nata è l'associazione di alcuni casi di leucemia linfoblastica acuta (LLA) e di ipereosinofilia. La patogenesi
viene ricondotta all'iperproduzione di IL-3, Il-%, e GM-CSF da parte di T-linfociti normali che reagiscono
contro antigeni leucemici o da parte delle stesse cellule leucemiche. L'eosinofilia è stata descritta soprattutto in
casi di LLA con anomalie citogenetiche 5q q 14q. Il gene GM-CSF è localizzato sul cromosoma n°5q 31.1. La
traslocazione del gene alla banda 14q 32.3 potrebbe comportare la deregolazione del gene GM-CSF tramite la
sequenza enhancer del gene delle catene pesanti delle immunoglobuline presente in questo sito.
Eosinofilia di entità variabile può essere presente in corso di malattia di Hodgkin, nei linfomi linfoblastici a
cellule T, nella Leucemia Linfoblastica a cellule T ed inoltre in corso di mieloma multiplo, malattia di
Waldenstrom e malattia delle catene pesanti. In alcuni casi di linfomi T l'ipereosinofilia è correlata
all'iperproduzione di GM-CSF, IL-3 o IL- 5 da parte dei linfoblasti T.
Eosinofilia anche di notevole entità (50-80%) è stata riscontrata nella linfoadenopatia angioimmunoblastica con
disproteinemia. Anche in questi casi l'eosinofilia segue l'andamento della malattia.
Nelle forme mieloproliferative come nella Leucemia Mieloide Cronica l'eosinofilia è correlata all'aumento totale
del numero dei leucociti con una percentuale relativa invariata.
Nella Leucemia Acuta Mieloide (LAM) M4 esiste una variante denominata leucemia acuta mielomonocitica con
eosinofili anormali (M4 Eo) in cui oltre il 30% della cellularità midollare è costituita da eosinofili atipici sia dal
punto di vista morfologico che citochimico senza tuttavia marcata eosinofili periferica. Nella LAM M4 Eo sono
stati osservati anomalie del cromosoma 16: inv(16)(p13;q22); del (16) (q22); t(16,16)(p13;q22).
L'esistenza di una vera e propria leucemia eosinofila come entità distinta è avvalorata da alcuni casi riportati che
presentavano anomalie citogenetiche, morfologiche-ultrastrutturali ed evoluzione simile a quella degli altri
disordini mieloproliferativi. La leucemia eosinofila è caratterizzata da segni clinici e di laboratorio di invasione
midollare con anemia e piastrinopenia e presenza nel midollo, in circolo e nei tessuti di eosinofili immaturi.
Caratteristicamente, come nella sindrome eosinofila idiopatica, anche nella leucemia ad eosinofili sono presenti
alti livelli sierici di vit B12.
Nella policitemia vera idiopatica può essere presente eosinofilia ematica che invece manca nelle poliglobuline
secondarie.
L'eosinofilia in corso di neoplasie consegue anche ai trattamenti terapeutici quali reazioni allergiche al
Methotrexate ed ai trattamenti radianti.
Immunodeficienze
Numerose sindromi da immunodeficienza (S. di Wiskott-Aldrich. S. di Job, S. Iper-IgE, deficit selettivo di IgA)
si accompagnano ad eosinofilia ematica. Spesso sono presenti lesioni cutanee ed infezioni gravi. L'eosinofilia
può essere la conseguenza dei disordini immunitari o la reazione ad infezioni da opportunisti.
Eosinofilia è caratteristicamente presente nella sindrome di Omenn (SCID con eosinofilia), che insorge in
pazienti con deficit immunitari. La malattia ha carattere familiare con trasmissione autosomica recessiva.
Clinicamente si evidenzia fin dai primi mesi di vita con eritrodermia e desquamazione cutanea diffusa, diarrea
con proteino-dispersione, linfoadenomegalia ed epatosplenomegalia e infezioni gravi.
Malattie endocrine
Le malattie associate ad ipo-produzione di corticosteroidi presentano caratteristicamente eosinofilia ematica
sottolineando ulteriormente il ruolo dei corticosteroidi nella regolazione del numero e delle infezioni degli
eosinofili. Alcuni farmaci, come la benzodiazepine, che soni implicati nella modificazione centrale della
produzione del Corticotropic Releasing Hormone (CRF), possono contribuire all'espressione di situazione
cliniche come la sindrome mialgia-ipereosinofilia-triptofano.
Forme iatrogene
Eosinofilia più o meno marcata si riscontra in numerosi quadri clinici da ipersensibilità a farmaci, quali lo shock
anafilattico, dermatiti allergiche, citopenie immuni, epatite, infiltrati polmonari fugaci tipo Loeffler.
L'associazione epatite-eosinofilia depone per una patologia epatica scatenata da farmaci piuttosto che da agenti
infettivi.
Una chiara associazione è stata messa in evidenza tra l'uso di triptofono e la sindrome eosinofilia mialgia.
Eosinofilia si riscontra nei soggetti splenectomizzati soprattutto per la diminuzione dell'eliminazione degli
eosinofili; nei soggetti sottoposti ad emodialisi probabilmente per fenomeni di ipersensibilità ai prodotti usati, in
soggetti esposti a radiazioni ionizzanti.
Forme familiari e costituzionali
L'eosinofilia familiare, ad eredità autosomica dominante, si riscontra in più membri della famiglia senza essere
associata a processi patologici: il fenomeno potrebbe essere legato a modesti deficit corticosurrenalici.
Le forme costituzionali idiopatiche sono caratterizzate da eosinofilie di riscontro spesso occasionale, senza
alcuna connessione con processi patologici e con un andamento benigno.
Forme idiopatiche
La sindrome ipereosinofila idiopatica (HES) è caratterizzata da persistente, e marcatissima eosinofilia con
infiltrazione di eosinofili in un solo organo o apparato o sistemica. Il quadro clinico presenta notevoli variazioni
individuali. Non esistono test diagnostici specifici e per definizione la condizione è caratterizzata da eosinofilia
24
ematica superiore a 1500/mmc, che dura per più di 6 mesi e con dati clinici e di laboratorio di infiltrazione e di
danno d'organo, in assenza di una qualsiasi causa nota di ipereosinofilia.
Nella maggior parte dei casi di HES la proliferazione degli eosinofili è probabilmente la reazione ad una agente
sconosciuto piuttosto che un'espansione clonale. Nel midollo osseo la serie eosinofilia è notevolmente aumentata
percentualmente ma presente in tutti gli stadi maturativi. Tuttavia alcuni di questi pazienti presentano anomalie
citogenetiche e possono evolvere in crisi blastiche. In alcuni casi la HES ha preceduto o mascherato una LLA o
una LMA.
Clinica delle ipereosinofilie
Qualunque sia la causa dell’ipereosinofilia il contenuto dei granuli degli eosinofili gioca un ruolo importante
nella patogenesi del danno d’organo che comunque è molto più marcato nelle ipereosinofilie di lunga durata
come quelle idiopatiche o da disordini mielo-proliferativi.Forme localizzate di solito conseguono ad un insulto
scatenante locale con richiamo attivo in loco degli eosinofili.Il quadro clinico è correlato agli organi colpiti.
Nella fasi iniziali della HES può essere presente una sintomatologia varia ed aspecifica rappresentata da
anoressia, calo ponderale, febbre con sudorazione notturna, astenia, dolori addominali ricorrenti e talora episodi
diarroici, dolore toracico e dispnea, tosse persistente, mialgie, prurito con o senza rash cutanei o angioedema,
sofferenze neurologiche. I dati di laboratorio possono evidenziare anemia, trombocitopenia, ipercoagulabilità.
Nella HES affluiscono tuttavia una serie di patologie con caratteristiche diverse nei confronti dell’evolutività e
della prognosi.
- Un gruppo di pazienti asintomatici o con quadro clinico prevalentemente polmonare o con angioedema e con
presenza di alti livelli di IgE con decorso spontaneo e favorevole e con buona risposta ai cortisonici
- Un secondo gruppo è costituito da pazienti sintomatici con coinvolgimento d’organo che può essere
responsabile di un decorso severo.
- Un terzo gruppo (25%) presenta un marcato quadro proliferativo con marcata epatosplenomegalia, anemia e
piastrinopenia. Tra i dati di laboratorio è caratteristica l’elevazione dei livelli sierici di vitamina B12.
La persistenza dell’eosinofilia comporta l’insorgenza di danno d’organo soprattutto cardiaco, ma qualsiasi
organo o tessuto può essere colpito prevalentemente o nell’ambito di un quadro sistemico (sintomatologia
neurologica, gastrointestinale, urinaria, epatica e più raramente cutanea). La malattia richiede trattamento ed un
accurato monitoraggio clinico-strumentale, soprattutto ecocardiografico.
Il danno cardiaco può evolvere attraverso 3 stadi: 1° stadio è quello della necrosi che si verifica già dopo una
media di circa 1-2 mesi dall’inizio dell’ipereosinofilia; 2° stadio è caratterizzato dalla progressione delle lesioni
del 1° stadio e si riscontra nei pazienti con una durata media dell’eosinofilia di circa 10 mesi; il 3° stadio è
caratterizzato dalla progressione in fibrosi con alterazione delle corde tendinee e conseguente insufficienza
valvolare mitralica e/o tricuspidale e inoltre dalla insorgenza di cardiomiopatia restrittiva.
Le manifestazioni neurologiche
Sono rappresentate da: 1. Attacchi ischemici (TIA ricorrenti e ictus) da tromboemboli originati dal ventricolo
sinistro in corso di trombosi endocardica; 2. Encefalopatia con disturbi del comportamento forse da ricondursi
all’azione neurotossica dei prodotti dei granuli eosinofili; 3. Neuropatie periferiche con deficit sensori e
parestesie dolorose, anche loro da ricondurre alle neurotossine contenute nei granuli degli eosinofili.
Lesioni cutanee
Soprattutto di tipo orticarioide e angioedematoso e di tipo papulo-nodulari pruriginose ed edematose. La
sindrome orticaria-angioedema è ben distinta dalle forme di ipereosinofilie.
L’apparato respiratorio
Risulta frequentemente coinvolto.L’asma allergico è senza dubbio la forma più frequente. Ricordiamo il
cosiddetto polmone eosinofilo secondo la classificazione di Fraser; nella sindrome di Loffler sono presenti
infiltrati polmonari fugaci associati ad ipereosinofilia.; la broncopolmonite allergica fungina più frequentemente
da Aspergillus Fumigatus e meno frequentemente da Candida appare il risultato di reazioni da ipersensibilità; la
polmonite cronica eosinofila ad eziologia sconosciuta e caratterizzata da eosinofilia persistente e da infiltrati
tipicamente localizzati nelle zone periferiche del polmone.; nella HES il polmone è coinvolto nel 40% dei casi;
nella sarcoidosi polmonare un terzo dei casi presenta ipereosinofilia.
Manifestazioni oculari
Disturbi della visione dovuti ad anomalie della coroide da lesioni vasculitiche, tromboemboli e trombosi locali.
Ricordiamo la localizzazione oculare in corso di Toxocariasi (larva migrans oculare) che può provocare la
formazione di granulomi retinci , di lesioni coroidee ed anche di gravi endoftalmiti essudative.
Manifestazioni gastrointestinali
La gastrite eosinofila, ad eziologia sconosciuta. Da dolori addominali , nausea, vomito, diarrea e perdita di peso.
Possono essere associati eczema, rinite ed asma. Una marcata infiltrazione della sierosa intestinale può
comportare l’insorgenza di ascite eosinofila.
25
L’apparato urinario
Lesioni vascolari renali mediate dagli eosinofili o da emboli e con possibile insorgenza di cistite eosinofila. Ciò
provoca disuria, dolori addominali e spesso ematuria. La cistite eosinofila in età pediatrica è stata descritta con
un’importante frequenza in soggetti sottoposti ad interventi chirurgici vescicali. Eosinofilia e danno renale può
essere presente in corso di processi vasculitici.
ITER DIAGNOSTICO
Cenni di terapia
Nelle eosinofilie secondarie o reattive la terapia è diretta verso la causa scatenante.
Nella HES la terapia tende a bloccare la progressione del danno d’organo soprattutto cardiaco e in definitiva a
migliorare sostanzialmente la prognosi.
Pazienti con eosinofilia idiopatica senza danno d’organo non necessitano di alcun trattamento ma andranno
valutati periodicamente (ogni 2-4 mesi) clinicamente , ematologicamente e con indagini strumentali per giungere
ad un eventuale inquadramento diagnostico o per appurare precocemente un danno d’organo. I corticosteroidi
sono i farmaci di prima scelta nel trattamento dei pazienti con HES. La risposta quando si verifica avviene già
nelle prime ore. Indi si scala lentamente lo steroide arrivando alla dose minima efficace anche per lunghi tempi.
Gli agenti chemioterapici e biologici rappresentano l’alternativa ai corticosteroidi nei pazienti non responsivi o
che non presentano un miglioramento significativo entro 3-6 mesi. L’Idrossiurea (HU) come prima scelta indi la
Vincristina (VCR) , la Mercaptopurina (6-MP) e l’Etoposide (VP-16) sono altri farmaci utilizzabili in sequenze
differenti o in mantenimento di terapia.
Tra gli alchilanti annoveriamo il Clorambucil mentre sono stati utilizzati anche Interferone alfa e Ciclosporina
con possibili risposte favorevoli. Il trattamento dell’HES comprende anche l’uso di anticoagulanti per controllare
il rischio di tromboembolismo. La cardiochirurgia è indicata nei pazienti con marcata compromissione valvolare
o con trombosi o fibrosi endomiocardica e migliora sostanzialmente la prognosi di questi pazienti.
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APPROCCIO CLINICO AL PAZIENTE CON ARITMIA
Savina Mannarino
Cardiologia Pediatrica , Clinica Pediatrica Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
Il ritmo cardiaco è generato dal nodo senoatriale, situato a livello dell’atrio destro in prossimità dello sbocco
della vena cava superiore. La frequenza cardiaca media è significativamente più elevata durante la vita
intrauterina rispetto a quella postnatale passando da circa 160 bpm a 20 settimane di età gestazionale a circa 120
bpm alla nascita. A partire dal primo giorno di vita si assiste ad un nuovo incremento delle frequenza cardiaca ,
che raggiunge un picco durante il primo e secondo mese per poi ridursi nuovamente tornando ai valori registrati
alla nascita dal sesto mese. Dal sesto mese in poi rimane stabile e quindi lentamente si riduce dopo il primo anno
di vita per l’ azione progressiva del sistema parasimpatico mediata dallo sviluppo dell’innervazione vagale del
nodo del seno (5). Tab 1
Tab 1- La frequenza cardiaca:
Valori di normalità della frequenza cardiaca
Età
0-3 mesi
3 mesi-2aa
2-10 anni
>10 anni
Veglia
100-190
80-150
75-110
55-90
Riposo
80-180
70-120
60-90
50-90
Sotto sforzo
Fino a 200
Fino a 200
Fino a 200
Fino a 200
I DISTURBI DEL RITMO CARDIACO
Tachicardia e Bradicardia: con questi termini ci riferiamo ad un ritmo sinusale con frequenza cardiaca
rispettivamente superiore ed inferiore al limite di normalità per l’età. Il termine aritmia sottintende invece un
alterazione del ritmo cardiaco, cioè va utilizzato in tutte quelle condizioni in cui si perde la regolarità di sequenza
e morfologia del tracciato. Parleremo di tachiartmia e bradiaritmia in presenza rispettivamente di
un’alterazione del ritmo cardiaco ad alta frequenza e di un’alterazione del ritmo associata ad una riduzione della
frequenza cardiaca.
CLASSIFICAZIONE
Le aritmie possono essere distinte in :
1) Alterazioni della regolarità del ritmo: battiti ectopici o extrasistoli sopraventricolari e ventricolari
2) Alterazioni del ritmo cardiaco a frequenza cardiaca aumentata
a) Tachiartmie o Aritmie ipercinetiche a loro volta distinte in sopraventricolari a QRS stretto, quali la
tachicardia parossistica sopraventricolare (TPSV con rientro da via acessoria AVRT, con rientro nodale
AVNRT, tachicardia incessante PJRT); la tachicardia ectopica atriale; il flutter atriale
N.B. talvolta anche le tachicardie sopraventricolari possono presentarsi con un QRS largo se c’è
conduzione aberrante
b ) Ventricolari: a QRS largo originano a valle del nodo A-V
3) Alterazioni del ritmo cardiaco a frequenza cardiaca ridotta
1- Pause
2- Bradiaritmie o Aritmie Ipocinetiche: BAV di I°, II°, III° (1%)
LE EXSTRASISTOLI sono battiti ectopici prematuri (depolarizzazione precoce ed autonoma di una regione
del muscolo cardiaco diversa dal tessuto di conduzione) ad origine atriale (extrasistoli sopraventricolari) o
ventricolare.
Le extrasistoli sopraventicolari sono frequenti, si tratta generalmente di battiti ectopici sporadici che insorgono
in cuori sani e presentano un’ottima prognosi. Le ectopie sopraventricolari isolate e non associate a condizioni
patologiche non richiedono terapia antiaritmica e non influiscono negativamente sulla prognosi del paziente .
Tuttavia occasionalmente i battiti atriali quando origino troppo precocemente vengono bloccati. Se questo
fenomeno si verifica a ciclo bigemino, si parla di bigeminismo atriale bloccato, e determina la comparsa di una
bradicardia (< 60-70 bpm). Nel neonato la diagnosi differenziale con la bradicardia sinusale è importante dal
momento che il bigeminismo atriale bloccato è più frequentemente benigno e non necessita di terapia.
Le extrasistoli ventricolari possono precedere la comparsa di aritmie più gravi e/o coincidere, se associate a
cardiopatie congenite, con il peggioramento della situazione emodinamica. Possono infine associarsi a
dismetabolismi, diselettrolitemie ed intossicazione digitalica. La comparsa di frequenti extrasistoli ventricolari
impone un’ approfondimento diagnostico.
ALTERAZIONI DEL RITMO CARDIACO A FREQUENZA CARDIACA AUMENTATA
TACHIARITMIE
Flutter Atriale: generalmente si presenta con una frequenza atriale di circa 400 bpm con conduzione
atrioventricolare 2:1, tuttavia può essere presente anche un blocco di grado più elevato che determina una
27
frequenza ventricolare quasi normale. questa aritmia può presentarsi sia in epoca fetale che nel neonato con
cuore altrimenti sano e la terapia per il ripristino del ritmo sinusale può prevedere l’uso di digossina,
amiodarone o la cardioversione elettrica (8). Può essere ben tollerato, anche asintomatico, se c’è un blocco AV
di alto grado, se la conduzione è al contrario di 1:1 rapidamente compariranno i segni di scompenso cardiaco.
Terapia: Il flutter atriale è meno responsivo alla terapia rispetto alla tachicardia sopraventricolare, tuttavia è
facilmente controllabile dopo la nascita mediante pacing transesofageo o cardioversione elettrica. Nella gestione
terapeutica è bene ricordare che non bisogna ridurre farmacologicamente la frequenza del flutter senza
simultaneamente bloccare il nodo AV (tale principio va osservato nella gestione terapeutica di tutte le
tachiaritmie atriali). Per tale motivo la Flecainide che è in grado di ridurre la frequnza del flutter , andrebbe
sempre associata alla digitale. I farmaci antiaritmici più indicati per la terapia del flutter atriale fetale sono la
digossina e il sotalolo [5, 19]. La diagnosi differenziale con TPSV è importante e può essere rapidamente
dimostrata in epoca postnatale mediante la somministrazione di un bolo di adenosina e.v, questo farmaco è in
grado di bloccare transitoriamente la conduzione lungo il nodo, rilevando la presenza molti battiti atriali per un
solo complesso QRS.
Tachicardia Atriale Ectopica è invece caratterizzata dall’insorgenza dell’impulso a livello di un focus atriale
diverso dal nodo del seno; quando si presenta in forma sostenuta può essere difficile da controllare
farmacologicamente e può condurre alo sviluppo di una cardiomiopatia dilatativa. Lo scopo del trattamento è
quello di rallentare la conduzione atrioventricolare si possono utilizzare beta-bloccanti, farmaci antiaritmici di
classe IC, amiodarone; la digossina e i farmaci di classe IA sono poco efficaci in questi casi (8).
Tachicardia Parossistica Sopraventricolare (TPSV)
Tachicardia da Rientro Atrioventricolare è la forma più frequente tra le tachicardie sopraventricolari
neonatali. Il circuito di rientro può comprendere la via nodo-hissiana e una ( o più) via accessoria atrioventricolare (fascio di Kent). La via accessoria può essere manifesta/non manifesta/occulta (quando la
conduzione attraverso la via è possibile solo in senso retrogrado, in questo caso la presenza della via si palesa
solo durante l’episodio aritmico). La conduzione può essere ortodromica se la conduzione AV avviene lungo via
nodo-hissiana (QRS stretto) e antidromica se la conduzione AV avviene lungo via accessoria. L’incidenza è di
0.1-0.3% , nel 20-32% dei pazienti vi sono altri difetti di struttura del cuore associati (anomalia di Ebstein,
trasposizione corretta dei grandi vasi). La terapia si avvale di diverse opzioni:
1) Manovre di stimolazione vagale (diving reflex) 2) Adenosina 3) Farmaci classe IC: flecainide propafenone
che bloccano la via accessoria 4) altri farmaci quali betabloccanti come il sotalolo 5) Ablazione trans catetere
PJRT o tachicardia di Coumel è una forma particolare di tachicardia da rientro atrioventricolare caratterizzata
da una via accessoria a bassa frequenza conduzione che presenta un andamento incessante.
All’elettrocardiogramma si riscontra una onda P neg in DII, DIII, aVF, un intervallo RP > PR.
ALTERAZIONI DEL RITMO CARDIACO A FREQUENZA CARDIACA RIDOTTA
La BRADICARDIA SINUSALE viene definita come un ritmo sinusale ad una frequenza inferiore al limite di
normalità. Nel neonato si parla di bradicardia per frequenze inferiori agli 80 bpm.
Le cause possono essere di origine cardiaca ed extracardiaca: l’ipossia è una causa comune soprattutto quando è
secondaria ad apnea, displasia broncopolmonare, broncopolmonite, emorragia polmonare, pneumotorace. Altre
cause di bradicardia sono: sepsi (fasi tardive), alterazioni a carico del SNC da danno neurologico con
depressione del centro cardio-acceleratore, meningiti, aumento della pressione intracranica, ipotermia, farmaci,
ipotiroidismo congenito. Inoltre l’ipertono vagale caratteristico del pretermine rappresenta un altro fattore di
rischio, l’immaturità del sistema nervoso simpatico determina, infatti, una risposta vagale esagerata a numerosi
stimoli (ostruzione delle vie aeree, intubazione naso e oro tracheale, aspirazione delle vie aeree, posizionamento
di sondino naso gastrico, reflusso gastroesofageo, compressione oculare, sbadiglio, evacuazione).
I BLOCCHI ATRIOVENTRICOLARI riconoscono tre meccanismi patogenetici fondamentali:
ainterruzione della via di conduzione
bprolungamento del periodo refrattario in una o più parti del sistema di conduzione ( fisiologico durante
il sonno, diversi farmaci sono in grado di prolungere il periodo refrattario: digitale, beta bloccnati,
alcuni calcio antagonisti)
criduzione della velocità di conduzione dell’ impulso
IL BLOCCO ATRIOVENTRICOLARE (BAV) CONGENITO È CLASSIFICATO IN BASE ALLA
SEVERITÀ
1- PRIMO GRADO è caratterizzato da un allungamento dell’intervallo PR che riflette un ritardo di conduzione
piuttosto che un reale blocco. Cause acquisite di BAV sono: ipertono vagale, iper/ipo-kaliemia, ipermagnesemia,
effetto terapeutico o sovradosaggio di farmaci (digossina, altri farmaci antiaritmici). A volte è associato ad
alcune cardiopatie congenite: DIA (ostium primum e secundum), canale atrioventricolare, ventricolo destro a
doppia uscita (VDDU), anomalia di Ebstein, trasposizione corretta delle grandi arterie.
2- DI SECONDO GRADO SI DISTINGUONO 2 TIPI
•
Mobitz 1 (Wenchebach): progressivo allungamento del tratto PR, fino a che un onda P non è condotta ai
ventricoli Reperto di normalità durante il sonno (ad es. si ritrova nella lettura di tracciati Holter ECG)
Può essere associato a: ipertono vagale negli atleti, terapie farmacologiche, diselettrolitemie, miocardite
•
Mobitz 2: una o più onde P consecutive non sono condotte ai ventricoli
-Blocco atrioventricolare 2:1: uno stimolo atriale su 2 non è condotto ai ventricoli
28
-BAV di II grado si definisce avanzato se più onde P consecutive non sono seguite da QRS (3:1, 4:1).
3- DI TERZO GRADO: Dissociazione completa tra onde P e complessi QRS (cioè tra frequenza atriale e
ventricolare). Il ritmo di scappamento può essere giunzionale (QRS stretto) o ventricolare (QRS largo).
BAV III può essere congenito:
•
malattie autoimmuni materne (Ab anti-Ro/SSA e anti-La/SSB)
•
sindrome QT lungo
•
cardiopatie congenite (50% casi): sindrome polisplenia (isomerismo atriale sinistro), trasposizione
corretta delle grandi arterie, pervietà del dotto arterioso, DIA, fibrosi endomiocardica, cuore
univentricolare
acquisito:
•
post-chirurgico in cardiopatie congenite con interventi che richiedono chiusura difetti settali anche con
device, resezione subaortica, sostituzione valvola aortica
•
infezioni: miocarditi
•
farmaci, intossicazioni e avvelenamenti
FATTORI PROGNOSTICI NEGATIVI in presenza di un BAV di terzo grado:
1frequenza cardiaca inferiore a 50bpm
2la presenza di idrope/scompenso cardiaco
3negatività materna per gli anticorpi anti RO
4l’associazione con le cardiopatie congenite
Indicazioni all’ impianto del PM sono costituite da: sincope o presincope, frequenza ventricolare minore della
media per l’età, pausa > 3,5 sec all’ECG, allungamento del QTc > 500 msec, insufficienza mitralica, battiti
ectopici frequenti e/0 complessi, scompenso cardiaco
QUANDO UN’ARITMIA È PERICOLOSA? L’EFFETTO DELETERIO DELL’ARITMIA DIPENDE
1- valore di frequenza cardiaca: una frequenza cardiaca inferiore a 40 bpm o superiore a 220 bpm determina una
portata cardiaca inadeguata (essendo Q0 gittata sistolica per la frequenza cardiaca ricordiamo che la portata
normale per un neonato a termine è di circa 150-200ml/kg/minuto)
2- durata
3- presenza di patologie associate
cardiopatie congenite ( TGA, Malattia di Ebstain si associa a WPW nel 30-40% dei casi)
squilibri elettrolitici
insufficienza renale, m. metabolica, m. polmonare
intossicazione da farmaci (tutti i farmaci anti aritmici se sovra dosati diventano pro aritmici)
Quando è necessario un trattamento immediato? In presenza di instabilità emodinamica
Ipoperfusione (capillary refill prolungato pallore e/o sub cianosi periorale, estremità fredde,
iporeattività)
Ipotensione (polso piccolo)
Scompenso cardiaco imminente o presente (si parla di scompenso quando la gittata cardiaca è
insufficiente per mantenere tutte le funzioni metaboliche dell’organismo)
Shock (si parla di shock quando la gittata cardiaca è insufficiente a mantenere le funzioni vitali
dell’organismo)
PROGNOSI: nella maggior parte dei casi le turbe del ritmo hanno una buona prognosi, regredendo
spontaneamente nei primi mesi di vita, talvolta nel neonato in assenza di diagnosi e terapie adeguate possono
essere rapidamente fatali.
29
LE SPECIALITÀ PEDIATRICHE
Giovanni Corsello
Presidente SIP
Il corso evolutivo del bambino è caratterizzato da una serie di processi di crescita e di sviluppo biologicamente
complessi nei quali si intrecciano problematiche di interesse plurispecialistico. Si tratta di tematiche con
peculiarità cliniche e biologiche che distinguono la specialità pediatrica dal corrispettivo dell’adulto in termini di
conoscenze e di competenze. Il bambino non è un piccolo adulto, ma una entità unica non riproducibile nelle
altre età della vita.
Del resto anche il percorso evolutivo storico della pediatria come disciplina medica, partito dalla medicina
clinica dell’età evolutiva, si è aperto in rapporto all’evoluzione delle conoscenze e della ricerca, alle specialità
pediatriche, che hanno consentito di rispondere in modo efficace alle esigenze di salute dei neonati, dei bambini
e degli adolescenti con malattie croniche e rare, orami intorno al 15% dei soggetti in età evolutiva.
Non ultimo, la tutela delle specialità pediatriche si pone come esigenza formativa nel percorso delle scuole di
specializzazione in pediatria e in sede di educazione medica continua. Bisogna infatti prevedere che la rete
formativa delle scuole di specializzazione comprenda anche rotazioni in diversi settori specialistici, differenziati
scuola per scuola sulla base della tipologia assistenziale e di ricerca e con standard chiari, condivisi e accreditati.
In questo contesto, si rende necessario il mantenimento dei 5 anni della durata delle scuole di specializzazione in
pediatria e sono auspicabili nuovi strumenti (master, certificazioni di corsi di perfezionamento organizzati da
società scientifiche dell’area pediatrica) per mantenere il livello attuale raggiunto dalle specialità pediatriche in
Italia e per potenziarlo in rapporto anche allo shortage dei pediatri, che entro 15 anni verosimilmente ridurrà del
40% il numero dei pediatri in attività rispetto ai dati attuali (8.000 vs 14.000).
Le specialità pediatriche vanno tutelate e rafforzate anche nell’ottica di un lavoro multidisciplinare e integrato,
che metta in relazione anche il territorio e l’ospedale, secondo un logica di transitional care per le malattie
croniche e rare in cui il coinvolgimento del medico di medicina generale e dello specialista dell’adulto giocano
un ruolo strategico per gestire gli adolescenti e traghettarli verso l’età adulta in un contesto di rete organizzata di
servizi.
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FORUM 2
“UPDATE IN PNEUMO-ALLERGOLOGIA”
Giovedì, 13 novembre 2014
Presidente: G. Ricci
14,30 – 16,00
Moderatori: L. Calzone, G. Tancredi
16,30 – 18,00
Moderatori: C. Caffarelli, G.C. Indirli
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L’OSSIGENOTERAPIA E LA PULSIOSSIMETRIA NELLA PRATICA CLINICA
Emanuela di Palmo, Luca Bertelli, Salvatore Cazzato
Unità Operativa di Pediatria, Policlinico S. Orsola-Malpighi,
Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna
La respirazione è il processo fisiologico che trasporta i gas respiratori dall’atmosfera alle cellule e viceversa. La
concentrazione di ossigeno (O2) nell'aria ambiente è pari al 21% e la pressione parziale (PO2) è circa 160 mmHg
a livello del mare. Il vapor acqueo, che alla temperatura corporea di 37 °C è di 47 mmHg, riduce le
concentrazioni dei gas nell’aria inspirata e quindi le relative pressioni parziali. La quantità di O2 nel sangue è
determinata dalla PO2 alveolare, dalla quantità di emoglobina nel sangue e dalla sua affinità per l’O2. Negli
alveoli polmonari la PO2 è pari ai due terzi di quella del gas inspirato e quando il sangue è in equilibrio con O2,
l'emoglobina è satura al 100% e ogni grammo di emoglobina contiene 1,34 ml di O2.
L’insufficienza respiratoria è l’incapacità di mantenere l’omeostasi degli scambi gassosi (O2 e CO2). Nella
pratica clinica, a livello del mare, sono comunemente accettati come criteri diagnostici di insufficienza
respiratoria la presenza nel sangue arterioso di una pressione parziale di ossigeno (PO2) inferiore a 60 mmHg e/o
una pressione parziale di anidride carbonica (PCO2) superiore a 50 mmHg.
La conseguente diminuzione della concentrazione di ossigeno nel sangue arterioso (ipossiemia) determina una
alterazione dell’ ossigenazione tissutale (ipossia), che può o meno essere associata ad una ridotta eliminazione di
anidride carbonica (ipercapnia).
Il sistema respiratorio è composto in maniera schematica dalla pompa ventilatoria deputata alla ventilazione, e
dalle vie aeree e parenchima polmonare preposto allo scambio gassoso. La pompa ventilatoria comprende i
centri di controllo del respiro localizzati a livello del sistema nervoso centrale, dai fasci nervosi (midollo spinale
e nervi periferici) che connettono i centri di controllo ai muscoli respiratori, dai muscoli respiratori stessi e dalla
parete toracica.
Pertanto, a seconda che il danno interessi il polmone, determinando principalmente alterazione del rapporto
ventilazione/perfusione o la funzione di pompa ventilatoria con conseguente ipoventilazione alveolare, si
possono distinguere due tipi di insufficienza respiratoria (IR) :
-IR di tipo 1 (parziale) ipossiemica (PO2 <60 mmHg) e normo/ipocapnica;
-IR di tipo 2 (totale) ipossiemica-ipercapnica (PCO2 >45-50 mmHg).
Inoltre, in relazione alla modalità di insorgenza dei sintomi, l’insufficienza respiratoria può essere classificata
come acuta in cui vi è compromissione della funzione respiratoria in un periodo temporale molto breve
(ore/giorno) e spesso di entità grave, e cronica a lenta insorgenza (settimane/mese) di minore severità per la
presenza di meccanismi di compenso. Infine, IR cronica riacutizzata è dovuta al deterioramento acuto di una
insufficienza respiratoria cronica sottostante.
Ossigenoterapia e modalità di somministrazione
Per ossigenoterapia si intende la somministrazione di ossigeno a concentrazioni superiori al 21% che è quella
dell’aria ambiente.
Per le caratteristiche proprie della curva di dissociazione dell’emoglobina si deduce che a valori di PO2 >90
mmHg l’emoglobina è satura al 95% e la curva assume un andamento praticamente piatto. Di conseguenza, un
aumento della PO2 determinerà un minimo incremento della concentrazione di ossigeno nel sangue. Al
contrario,per valori di PO2 al di sotto di 60 mmHg, ogni ulteriore caduta della PO2 produce una variazione
molto marcata della saturazione (SaO2 <90%) con evidenti ricadute sull’ossigenazione tissutale. I segni e
sintomi di insufficienza respiratoria sono riportati in tabella 1.
Lo scopo dell’ossigenoterapia inalatoria è quello di evitare l’instaurarsi dell’ipossia e il rischio di arresto
cardiaco, aumentando la PO2 inspirata, con incremento del gradiente di pressione di ossigeno attraverso la
membrana alveolo-capillare. L’inizio dell’ossigenoterapia è indicato per valori di PO2 <60 mmHg, per
saturazione di O2 <92% e in tutte quelle situazioni cliniche in cui è sospettabile una condizione di ipossia.
Particolare attenzione deve essere posta nei casi di IR tipo 2 in cui vi è ipercapnia, poiché la somministrazione
O2 attenua o abolisce lo stimolo alla ventilazione peggiorando nei soggetti con ipoventilazione cronica la
ritenzione di anidride carbonica. Valori di PCO2 >90 mmHg conducono a depressione del sistema nervoso
centrale e conseguente arresto respiratorio. In questi casi la somministrazione di ossigeno deve essere effettuata
consensualmente alla correzione dell’ipercapnia mediante supporto ventilatorio artificiale.
La modalità di somministrazione dell’ossigeno è funzione di diversi fattori quali le frazioni inspiratorie di O2
(FiO2) che si intendono raggiungere, la tollerabilità del sistema da parte del bambino, la durata del trattamento e
il tipo di insufficienza respiratoria (tabella 2).
Un’adeguata umidificazione dell’ossigeno è consigliata per flussi superiori a 1L/min e umidificazione a caldo
per flussi di 4L/min o superiori al fine di evitare alterazioni della clearance muco-ciliare, secchezza delle
secrezioni tracheo-bronchiali, formazione di tappi di muco, infezioni e/o atelettasie.
Nuove tecnologie di riscaldamento ed umidificazione permettono di somministrare ossigeno ad alto flusso in cui
la velocità di flusso supera il picco di flusso inspiratorio del paziente. Infatti, flussi oltre 2 L/min nei neonati e 6
L/min negli adulti necessari per soddisfare le richieste inspiratorie senza penetrazione dell’aria ambiente, non
sono possibili con la terapia mediante cannula nasale standard.
Pulsossimetria
Il funzionamento si basa sul principio del differente assorbimento della luce dell’emoglobina ossigenata rispetto
a quella ridotta.
32
I più comuni pulsiossimetri utilizzano una fonte luminosa costituita da due led che emettono fasci di luce a
lunghezza di onda di 660 nm (rossa) e 940 nm (infrarossa) da un lato del sensore e dall’altro lato cattura la
frazione non assorbita della luce emessa per ciascuna lunghezza di onda. L’ossiemoglobina assorbe
preferenzialmente la luce nello spettro dell’infrarosso mentre l’emoglobina ridotta la luce rossa e sulla base di
questa differenza viene calcolata il livello di saturazione di O2. In presenza di emoglobine disfunzionali (es.
metaemoglobina, carbossiemoglobina) che assorbono la luce a lunghezza d’onda sovrapponibile a quella
dell’emoglobina ossidata e ridotta la lettura della saturazione di O2 non risulta attendibile.
La saturazione di O2 (SaO2) basale nei neonati a termine durante il primo anno di vita è circa 97-98% e solo nel
5% dei bambini sani la SaO2 è inferiore al 90% per un periodo superiore al 4%. La SaO2 basale mediana nei
bambini sani maggiore di un anno di età è del 98% con un 5° percentile di 96-97%. Infine, un bambino sano di
età compresa tra 5-11 anni spende non più del 5% del tempo con SpO2 < 94% durante il sonno.
Condizioni che possono alterare la saturimetria sono rappresentati da artefatti da movimento, mal posizione del
sensore, ipoperfusione (shock, ipovolemia, ipotermia), vasocostrizione periferica (es. indotto dal freddo), edema
(per dispersione della luce nel tessuto edematoso), anemia severa.
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33
34
LE ALTE
Luana Nosetti
Clinica Pediatrica Università degli Studi dell'Insubria - Ospedale di Circolo Fondazione Macchi, Varese
Clinica Pediatrica Università degli Studi dell’Insubria Ospedale di Circolo Fondazione Macchi Varese
ALTE è l’acronimo di Apparent Life-Threatening Event, termine che si può tradurre come “Evento
Apparentemente Rischioso per la Vita”. L’acronimo fu coniato nel 1986 da un comitato appositamente costituito
in seno al National Institutes of Health (NHI) per descrivere un episodio che ha spaventa l’osservatore
caratterizzato dalla variabile associazione di: apnea (centrale od occasionalmente ostruttiva), variazione del
colorito cutaneo (cianosi, pallore o eritrosi), marcata alterazione del tono muscolare (ipo o ipertono), apparente
soffocamento. Si può presentare durante il sonno, la veglia o durante il pasto. In alcuni casi l’episodio si risolve
spontaneamente, in altri casi grazie a un immediato intervento dell’osservatore, in casi più gravi sono necessarie
manovre rianimatorie energiche da parte dei soccorritori, fino alla rianimazione cardiopolmonare.
L’incidenza di ALTE è molto variabile si parla di valori compresi tra 0.58 e 2.46/1000 nati vivi. Se si analizzano
casistiche relative agli accessi in dipartimenti di emergenza-urgenza si parla di incidenza compresa tra0.6-0.8%.
Altro aspetto rilevante è l’impatto emotivo che questi episodi possono avere sul nucleo familiare, per il timore
di una loro possibile recidiva.
ALTE non è una diagnosi ma rappresenta una manifestazione clinica e come tale richiede una valutazione
sistematica per accertarne la causa scatenate. Nonostante un rigoroso approccio diagnostico il 50% degli ALTE
rimane inspiegato e classificato come idiopatico (IALTE Idiopatic Apparent Life-Threatening Events) I più
frequenti problemi associati agli ALTE da causa nota sono di tipo gastroenterico (50% circa), neurologico
(30%), respiratorio (20%), cardiovascolare (5%), metabolico ed endocrino (<5%) o altri diversi problemi tra cui
l’abuso .
Estremamente importante è la raccolta anamnestica dettagliata, l’esame obiettivo accurato ed un percorso
diagnostico seguendo protocolli precisi, codificati dalle Linee guida nazionali della SIP per la gestione di casi di
ALTE. L’ ospedalizzazione è necessaria se il bambino ha necessitato manovre di rianimazione , se è
pretermine, se ha meno di 1 mese di vita, se ha presentato episodi recidivanti di ALTE o per la scarsa
compliance della famiglia. Una volta ricoverato il bambino può essere sottoposto a monitoraggio
cardiocircolatorio associato a pulsossimetria per almeno 24 ore per evidenziare eventuali apnee patologiche e/o
episodi di ipossiemia. Dovranno essere effettuati alcuni esami di base che sono ritenuti fondamentali quali
l’esame emocromocitometrico con formula leucocitaria, elettrolitemia, glicemia, PCR, EGA, Esame urine ed
ECG. Altri esami andranno scelti in base alla storia clinica ed all’esame obiettivo del piccolo. Riteniamo utile
l’esecuzione di una polisonnografia completa anche su NAP in quanto ci può permettere di discriminare la
natura delle eventuali apnee registrate, personalizzando il percorso successivo. La sfida è di ridurre il numero di
IALTE. Solo un attento studio del caso e una scelta mirata di esami di II e III livello ci può consentire di
identificare cause precise e se possibile instaurare eventuali trattamenti farmacologici o comportamentali.
L’indicazione ad effettuare un monitoraggio cardio-respiratorio e pulsossimetrico domiciliare con allarmi ha lo
scopo di rilevare apnee e/o ipossiemie intermittenti e a volte diventa parte integrante di un percorso di followup che spesso permette di arrivare a formulare una precisa diagnosi. Le indicazione ad un monitoraggio
domiciliare sono costituite da lattanti con ALTE grave, IALTE e bambini pretermine sintomatici. La sua durata
non deve essere inferiore alle 6 settimane e richiede periodici controlli clinici associati ad una valutazione di
eventuali episodi presentati e alla lettura ed interpretazione dei tracciati registrati dallo strumento a domicilio
non automatica ma effettuata da personale esperto.
35
LA DISPNEA CUTA
Teresa Salerno, Renato Cutrera
U.O.C. Broncopnemologia, Dipartimento Medicina Pediatrica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS,
Roma
L'American Thoracic Society definisce la dispnea come: "Un'esperienza soggettiva di disagio nel respiro che
consiste in sensazioni qualitativamente distinte che variano di intensità". Altre definizioni la descrivono come
"difficoltà a respirare", "respirazione disordinata o inadeguata", "consapevolezza della difficoltà di respiro” e
come la sensazione di "respiro corto".
Si tratta di un sintomo soggettivo, è quindi difficile darne una definizione univoca; impropriamente vengono
usate espressioni come “respiro affannoso” o “fame di aria”.
La dispnea può presentarsi:
• Inspiratoria (da ostacolo nelle vie aeree superiori), espiratoria (da ostacolo nelle vie aeree inferiori),
mista (da patologie cardiorespiratorie)
• Da sforzo o a riposo
• Ad insorgenza acuta, cronica o ad andamento recidivante
L’aumento della profondità degli atti respiratori, spesso associato ad un aumento della frequenza respiratoria
(tachipnea) può verificarsi a qualunque età e può essere dovuta sia a cause respiratorie che extrapolmonari.
Per definire la dispnea è necessario conoscere i valori normali di frequenza respiratoria in età pediatrica (Tabella
1).
Qualunque causa di ostruzione delle vie aeree nel neonato può determinare dispnea, sebbene l’esordio
improvviso sia più probabilmente dovuto ad infezioni o a patologie cardiache. L’acidosi è una causa di dispnea
da malattie extrapolmonari e può verificarsi sia a causa di patologie metaboliche congenite sia per la
disidratazione.
Raramente nei neonati ma più comunemente nei bambini e negli adoloscenti, la dispnea è associata con la
chetoacidosi come sintomo di esordio del diabete non controllato. Nell’infanzia, cosi come nell’adolescenza,
l’asma acuta può essere una causa di dispnea e le intossicazioni acute (ad esempio da salicilati) possono anche
manifestarsi con la dispnea.
La cianosi e l’emottisi, insieme alla dispnea, si manifestano spesso per embolia polmonare, dovuta sia a traumi
degli arti inferiori, sia a patologie cardiache, coagulopatia familiari e non.
L’ansia (iperventilazione da attacchi di panico) e l’ingestione di sostanze (ad esempio i tentativi di suicidio con i
salicilati) sono cause molto più comuni nell’adolescenza.
TABELLA 1: VALORI NORMALI DELLA FREQUENZA RESPIRATORIA IN BASE ALL’ETA’
ETA’
RESPIRI/MINUTO
Nascita-6 settimane
35-60
6-1 anno
40
2-6 anni
30
6-10 anni
25
>10 anni
20
36
RACCOMANDAZIONI SULLA TERAPIA SOSTITUTIVA DELL’ALLERGIA AL LATTE
Alessandro Fiocchi
Department of Allergy at the Pediatric Hospital Bambino Gesù, Roma
Ormai tutti sanno che l’allergia alimentare è disciplinata da linee-guida il cui obiettivo è quello di mettere ordine
in un campo fervido di ricerca, nuove idee, ed opinioni. Così fervido da mettere a volte i pediatri in dubbio
davanti ai singoli pazienti, che possono essere confusi da risposte difformi ricevute da diversi esperti.
Ascoltiamo le voci dei nostri genitori:
- “a me il mio pediatra ha detto di anticipare l’introduzione del pesce, per prevenire l’allergia alimentare”
“a me il mio ha detto di posticiparla…”
- “il mio bimbo è allergico all’uovo, il mio pediatra mi ha detto che posso dargli il panettone” “davvero?
Ma sai che il mio mi ha detto il contrario?”
Alzi la mano chi non ha avuto a che fare con opinioni da discutere, temperare, orientare. Questo ci mette in
difficoltà e nuoce all’immagine del pediatra presso i suoi pazienti.
In realtà, ferma restando la cittadinanza di ogni opinione, oggi i pediatri hanno uno strumento che li può
orientare; sono le linee-guida. Negli ultimi anni sono uscite parecchie linee-guida, un numero tale da fare
osservare che siamo di fronte ad una vera febbre1. E sono in particolare uscite linee-guida fatte con il metodo
GRADE, un metodo che a partire dagli anni’90 ha rivoluzionato il campo. Si tratta delle linee-guida americane
NIAID, di quelle inglesi e, per l’allergia alle proteine del latte vaccino (APLV), delle linee-guida DRACMA.
Sono poi uscite reviews ed anche linee-guida che non usano questo metodo; non ne parleremo.
Le raccomandazioni GRADE per l’allergia al latte
Il sistema GRADE si è venuto strutturando a partire dal 1991 come una sistema in grado di superare una serie di
problemi che si presentavano con le precedenti linee-guida. Non voglio qui entrare nei dettagli tecnici, ma in una
parola si tratta di rendere le evidenze di letteratura fruibili in termini di processo decisionale. Davanti a questo o
quel bambino, con questo o quel problema di supposta allergia alimentare, qual è la decisione giusta da
prendere? Questa è una domanda che ci facciamo ogni giorno davanti ad ogni paziente, a cui le linee-guida ci
aiutano a rispondere senza obbligarci a conoscere i minimi dettagli della letteratura – cosa ormai impossibile.
Sono state costruite così:
a. è stato costituito un panel di esperti
b. questo ha deciso di usare la metodologia GRADE per definire alcune questioni diagnostiche e
terapeutiche4,5,6,7,8.
c. Il panel ha definito i quesiti clinici sui quale deve essere formulata la raccomandazione, cioè: “nel caso
di un bambino con la seguente condizione, qual è l’intervento diagnostico o terapeutico migliore
rispetto ad un intervento di controllo?”
d. Il panel ha anche definito in quale popolazione di soggetti la raccomandazione si applica (nel nostro
caso, i bambini con allergia al latte immediata)
e. Ed ha definito quali sono gli outcomes che vengono valutati per eseguire la comparazione; cioè che
cosa ci aspettiamo da un intervento medico. Nel nostro caso, che caratteristiche deve avere una formula
per essere considerata un buon sostituto del latte?
Ciò fatto, il pannello di evidenziologi ha percorso l’intera letteratura biomedica per individuare tutti gli effetti
favorevoli e non, determinati dall’intervento in questione. In questa fase sono state considerate in primo luogo le
più recenti revisioni sistematiche che rispondessero alle domande cliniche rilevanti, poi l’analisi è stata estesa ai
singoli trials clinici ed eventualmente agli studi osservazionali per stabilire una stima complessiva d’effetto per
l’intervento in questione. Questo è stato integrato da una valutazione qualitativa delle prove scientifiche e delle
loro eventuali limitazioni dettagliata e critica, un caposaldo del modello GRADE e la base per formulare un
giudizio di attendibilità delle stime rinvenute. Così i membri del pannello si sono visti restituire un sommario
esaustivo e trasparente della letteratura, pronta per essere trasformata in ponderate raccomandazioni. È evidente
che la raccomandazione dipende dall’importanza relativa degli outcomes: pertanto sono stati per ogni domanda
clinica distinti outcomes importanti ed essenziali (critici) da outcomes importanti ma non essenziali ed outcomes
non importanti; il giudizio complessivo di importanza relativa per ciascun outcome è stato espresso su una scala
crescente da 1 a 9 dal GRADE Working Group, in funzione del punteggio fornito separatamente dai singoli
componenti del panello.
Così la formulazione delle raccomandazioni è dipesa dal bilancio tra aspetti favorevoli (benefits) e non
favorevoli (downsides) collegati all’intervento, senza tralasciare l’impatto che possono avere le preferenze dei
pazienti, i costi ed altri fattori da valutare caso per caso. La forza di queste raccomandazioni è tanto maggiore
quanto più è netto e chiaro il suddetto bilancio.
Le revisioni sistematiche prodotte per DRACMA.
Dunque le linee-guida, un tempo generate dal consenso di esperti, e come tali possibilmente biassate da vari
fattori interferenti (un esempio per tutti: linee-guida, peraltro eccellenti, sponsorizzate da aziende produttrici di
formule ipoallergeniche), hanno ora assunto una struttura di massima trasparenza. La loro struttura è il risultato
37
del parere dell'intero gruppo di lavoro. I membri del gruppo GRADE hanno esplicitamente valutato l'importanza
di tutti i risultati graduandoli su una scala da 1 a 9, dove l'estremità superiore della scala (7-9) individua i risultati
di fondamentale importanza per il processo decisionale, le valutazioni da 4 a 6 rappresentano risultati che sono
importanti, ma non critici e le valutazioni da 1 a 3 sono elementi di importanza limitata. Abbiamo preparato tre
revisioni sistematiche mirate sulle problematiche coperte dalle linee-guida (la diagnosi, l'uso di formule e
l’immunoterapia della APLV). Abbiamo sviluppato i profili di evidenza GRADE (sintetizzati in tabelle) per i
quesiti clinici basati sulle revisioni sistematiche. Le sintesi delle evidenze sono state riviste dai membri del
gruppo che hanno espresso commenti ed incluso correzioni. Abbiamo valutato la qualità delle evidenze secondo
la metodologia descritta dal GRADE system, in cui sulla base di espliciti criteri metodologici essa viene
classificata come "alta", "moderata", "bassa" o "molto bassa". Il gruppo di lavoro linee-guida DRACMA ha
rivisto le sintesi delle evidenze e le bozze delle linee-guida, e ha formulato le sue raccomandazioni incluse le
considerazioni esplicite di qualità delle evidenze, benefici, danni, oneri, costi, valori e preferenze. Si è raggiunto
il consenso su tutte le raccomandazioni. Nel documento l’espressione "valori e preferenze" si riferisce al peso
relativo che si attribuisce a particolari benefici, danni, oneri e costi per determinare il loro bilanciamento. Si è
utilizzato il percorso decisionale descritto in precedenza per determinare la forza delle raccomandazioni 1,10. Le
informazioni disponibili, per il gruppo, sui costi della diagnosi e del trattamento dell'allergia al latte vaccino IgEmediata sono scarse ed è molto probabile che esse varino notevolmente tra le differenti aree geografiche e
giurisdizioni. Il costo, pertanto, svolge un ruolo limitato in queste raccomandazioni; non però così limitato da
non farci prendere in considerazione le spese e i costi delle risorse.
Se per il singolo paziente il costo potrebbe non essere un problema quando la strategia della prestazione od il
trattamento è fornito a prezzo ridotto o gratuito, tuttavia medici e pazienti devono considerare le conseguenze
sulle risorse locali in sede di interpretazione di queste raccomandazioni. Per le raccomandazioni forti abbiamo
usato la dicitura "raccomandiamo", per le raccomandazioni condizionate la dicitura "si consiglia". Sulla base di
questo metodo abbiamo risposto al seguente quesito: le formule a base di aminoacidi, di proteine di latte vaccino
altamente idrolizzate, di soia, di riso possono essere usate nei bambini affetti da allergia IgE mediata alle
proteine di latte vaccino?
Quali outcomes contengono le raccomandazioni per la terapia sostitutiva.
Cosa è importante per la scelta di una formula sostitutiva? Le caratteristiche individuate dal gruppo GRADE
sono riportate nella tabella. Per ciascuna caratteristica, si tratta di un effetto riportato in almeno un lavoro
scientifico sull’argomento. Al panel clinico è stato chiesto di dare un punteggio alle possibili conseguenze
negative dell’uso di una formula sostitutiva, e ciascuno ha fornito separatamente la sua classifica. Su queste
caratteristiche sono state impostate le raccomandazioni.
Tabella 1 – Caratteristiche indesiderabili di una formula sostitutiva. Cioè: cosa una formula non deve
comportare?
Importanza
Sintomi gravi di APLV (edema laringeo severo, asma grave, anafilassi)
9
Reazione allergica alle proteine nella formula
7
Sintomi di APLV di media gravità (edema laringeo lieve, asma lieve)
7
Scarso accrescimento
7
Enteropatia, entero-proctocolite
7
Deficits nutrizionali di proteine e lipidi
7
Deficit di ferro, calcio, vitamina D, minerali, vitamine
7
Riduzione dello z-score peso/altezza
7
Sintomi lievi di APLV (eritema, orticaria, angioedema, prurito, vomito, diarrea, rinite,
7
congiuntivite)
Riduzione della qualità di vita del paziente
6
Aumento della durata di APLV
6
Gusto sgradevole (il bambino potrebbe rifiutare la formula)
6
Riduzione della qualità di vita dei genitori
6
Cross-reattività con il latte vaccino
5
Aumento dell’uso di risorse (costi)
5
Eccesso ponderale
5
Sviluppo di sensibilizzazione secondaria alle proteine della formula
5
Quindi ad esempio la palatabilità ha pesato meno del rischio nutrizionale, e quello che più è richiesto è stato che
la formula non riproduca i sintomi della APLV: soprattutto quelli gravi, ma neanche gli altri. Allora perché la
meno reattogena delle formule, la miscela di aminoacidi, è stata riservata alle forme gravi di APLV? Non
certamente per il rischio nutrizionale che genera; anzi, è stato rilevato che la crescita, misurata come peso di
bambini alimentati con miscele di aminoacidi confrontati a bambini alimentati con idrolisati di proteine del latte,
è adeguata, benché i risultati pubblicati siano “imprecisi”.
Vediamo in dettaglio le raccomandazioni:
38
Raccomandazione 1
In bambini con alto rischio di reazione anafilattica (pregressa storia di anafilassi) si suggerisce l’uso di formule a
base di aminoacidi, a meno che non stiano già utilizzando formule altamente idrolizzate (raccomandazione
condizionale/evidenza di qualità molto bassa).
Valori e preferenze.
Questa raccomandazione assegna un valore relativamente alto al rischio di una reazione anafilattica ed un valore
relativamente basso al costo delle formule a base di aminoacidi .
Commento: in ambienti controllati si può considerare appropriato un pasto di prova con formula altamente
idrolizzata.
Raccomandazione 2
In bambini con basso rischio di reazione anafilattica (non storia precedente di anafilassi) si suggerisce l’uso di
formule altamente idrolizzate (raccomandazione condizionale/qualità dell’evidenza molto bassa).
Valori e preferenze.
Questa raccomandazione assegna un valore relativamente alto al costo delle formule a base di aminoacidi in
situazioni dove il costo è elevato. In situazioni in cui il costo degli aminoacidi è basso, entrambi possono essere
usati.
Dunque è stato anche il costo ad orientare le raccomandazioni: infatti, dopo un survey sui prezzi a livello
globale, è stato osservato che la formula di aminoacidi costava più del doppio (318 contro 149 € per
bambino/mese, valori rilevati nell’agosto 2009), generando un importante consumo di risorse. È anche stato
sottolineato anche che questa stima può solo grossolanamente servire come guida per decisioni in altri contesti: i
costi diretti misurati in un unico Paese e giurisdizione ad un certo punto nel tempo certamente non sono
applicabili a tutte le situazioni. Nel documento, il costo è stato stimato considerando che i bambini riportati in
letteratura (età media 8 mesi) consumassero circa 750 mL di formula ogni giorno.
Latte/formula
Costo per litro (€)
Costo al mese (€)
Latte vaccine
0.9
20
Latte formulato
Formula di soia
Idrolisato estensivo di proteine del latte
Idrolisato di riso
2.0
5
6.5
6
45
112
135
135
Miscela di aminoacidi
14
318
Se la formula di soia costa meno.
Mi è capitato di presentare le linee-guida DRACMA in contesti in cui il costo delle formule è radicalmente
differente da quello del resto del mondo. Ad esempio, il costo della formula di soia è nettamente più basso in
Paesi come l’Iran ed il Brasile rispetto al costo delle formule idrolisate. In questi Paesi non vi è idrolisato di riso.
Il reddito medio pro-capite è assai più basso di quello europeo ed americano (per ora…). In queste situazioni,
come può variare la raccomandazione 7.3? leggiamola:
“In bambini con allergia IgE-mediata alle proteine del latte si suggerisce l’uso di formule altamente idrolisate
piuttosto che formule di soia (raccomandazione condizionale/qualità dell’evidenza molto bassa)
Valori e preferenze
Questa raccomandazione assegna un valore relativamente alto all’evitare reazioni avverse alle proteine della soia
ed un valore relativamente basso all’accettazione ed al costo dell’idrolisato. In situazioni in cui questo non sia un
problema la scelta può essere ragionevolemente equivalente”.
Dunque, sappiamo che la soia può dare più reazioni dell’idrolisato. Questa raccomandazione è certamente adatta
per Paesi del mondo maturi, con un buon reddito pro-capite: in altre parole presumiamo di muoverci in un
contesto in cui la bassa differenza di prezzo, e la buona disponibilità economica delle famiglie, valorizza la
sicurezza della formula idrolisata rispetto a quella di soia. Dunque stiamo dicendo: “se devi scegliere una
macchina, la differenza di qualità tra una Mercedes ed una Great Wall vale la differenza di prezzo; anche se
costa il doppio, compra la Mercedes”. Già, ma se mi trovo davanti una famiglia o una regione o una nazione in
cui mediamente il reddito può permettere al massimo una Great Wall? O se la differenza di prezzo tra la Great
Wall e la Mercedes è di tre volte? In questo caso ovviamente dirò: “piuttosto che andare a piedi, comprati una
Great Wall”. Questa è la situazione in parecchi Paesi del mondo. Qui la raccomandazione deve essere applicata
diversamente. Vi sono poi Paesi nei quali esistono tali differenze sociali per cui si dovrebbero fare
raccomandazioni diverse per diverse fasce di reddito: pensiamo ad esempio ad alcuno Paesi arabi.
39
Ecco perché in Brasile, in Iran, in una parte dei medesimi Stati Uniti la raccomandazione 7.3 può essere
applicata diversamente. Tuttavia debbo ammettere che non abbiamo ancora un modello matematico che ci
consenta di porre l’asticella all’altezza giusta situazione per situazione, né forse mai lo avremo perché valori e
preferenze sono refrattari alla sistematizzazione matematica.
E in Italia?
Applicando la raccomandazione alla situazione italiana di febbraio 2012, questi sono i valori:
Latte/formula
Latte vaccino
Latte formulato in polvere (Nidina 1 o Humana1)
Latte formulato in polvere 2 (Transilat o Mellin 2)
Latte formulato liquido 1 (Primigiorni, Mellin 1)
Latte formulato liquido 2 (Transilat o Mellin 2)
Formula di soia (Isomil)
Idrolisato di riso
Costo per litro (€)
1.65
2.8
2.0
4.1
2.4
6
7.5
Costo al mese (€)
37
63
45
92
54
135
168
Idrolisato estensivo di proteine del latte (Nutramigen)
Idrolisato estensivo di proteine del latte (Hypolac)
Idrolisato estensivo di proteine del latte (Althera)
Miscela di aminoacidi (Neocate)
Miscela di aminoacidi (Nutramigen AA)
6.3
9.4
9
18.4
16.9
143
212
202
406
380
*Fonte: farmacia “Spina“, Monza, visitata il 1 febbraio 2012
Come si vede, i valori italiani riflettono grossomodo quelli mondiali con l’eccezione della formula di latte
formulato in polvere e di quello liquido – ma questa è un’altra, ben nota, storia. Ora, che cosa succede in altri
contesti, per esempio in un contesto in cui il latte di soia costa relativamente meno? E che succede se i prezzi
delle formule cambiano? Si tratta di questioni non trascurabili ed anzi interessanti, perché – a differenza delle
linee-guida tradizionali basate solo sulla evidenza di efficacia e tollerabilità dei prodotti farmaceutici – le lineeguida GRADE contengono in sé il meccanismo per adattarsi a queste variazioni. Lo contengono nella misura in
cui esplicitano valori e preferenze, nella misura in cui includono anche le opinioni dei pazienti, nella misura in
cui contengono anche il valore economico delle formule, le evidenze sulla palatabilità, sulla capacità delle
formule di migliorare la qualità di vita del paziente e della sua famiglia.
Come cambia la situazione in Italia con la variazione di prezzo?
Con il 1° febbraio si è registrata una variazione importante dei prezzi delle formule speciali. Si tratta della
riduzione del 30% del costo di una miscela di aminoacidi, che quindi non costerà più 2 volte rispetto
all’idrolisato di caseina e 3 volte rispetto a quello di sieroproteine, ma solo 1.4 rispettivamente e 2 volte di più.
Come questo potrà sbilanciare le raccomandazioni per la formula sostitutiva? Vediamole, applicandole al
contesto italiano. Torniamo alle raccomandazioni: la raccomandazione 1 ovviamente non cambia.
Raccomandazione 2
In bambini con basso rischio di reazione anafilattica (non storia precedente di anafilassi) si suggerisce l’uso di
formule altamente idrolizzate (raccomandazione condizionale/qualità dell’evidenza molto bassa).
Valori e preferenze.
Questa raccomandazione assegna un valore relativamente alto al costo delle formule a base di aminoacidi in
situazioni dove il costo è elevato. In situazioni in cui il costo degli aminoacidi è basso, entrambi possono essere
usati”.
Sicché il bambino con basso rischio di reazione anafilattica ha l’indicazione di un idrolisato basata
esplicitamente sul fattore limitante “costo”. Dunque, nel nostro caso lo spostamento del costo sposterà la
raccomandazione. Di quanto? Di quel tanto che una famiglia ritiene di potersi permettere nel momento in cui, a
fronte di un problema clinico rilevante, riduce il rischio di reazioni alla formula dal 10% (tale è la definizione di
rischio per le formule idrolisate di proteine del latte) a 0. In altre parole, davanti ad un bambino con dermatite
atopica da APLV, sarà più facile da domani consigliare una miscela di aminoacidi rispetto ad un idrolisato di
proteine del latte vaccino. I fattori dell’equazione che scatta in testa ad ogni singolo medico saranno come
sempre parecchi, ma certo includeranno: gravità della condizione, disponibilità economica stimabile della
famiglia, disponibilità psicologica della famiglia ad affrontare un fallimento dietoterapeutico, probabilità di un
rifiuto del bambino dovuto a scarsa palatabilità della formula sostitutiva.
40
Va detto che in questo caso la situazione è complicata dal fatto che sul mercato italiano, a differenze di quello di
molti altri Paesi, esiste anche la formula idrolisata di riso che – ad oggi – non ha dati pubblicati di reazioni
avverse ed i cui dati nutrizionali sono giudicati dalla revisione sistematica di DRACMA paragonabili a quelli
degli idrolisati di proteine del latte. Quindi sotto il profilo della tollerabilità questa formula deve – fino a prova
contraria – essere considerata identica alla miscela di aminoacidi; il costo comparativo della miscela di
aminoacidi passa in questo caso da 2.3 ad 1.6 volte, restando perciò nettamente superiore. Tuttavia pesa
sull’idrolisato di riso la scarsezza di studi, che rende il computo dei suoi parametri di crescita “impreciso”.
Come ci comporteremo dunque?
Alla fine le basi del nostro ragionamento non saranno differenti, perché non sono variate le condizioni di base.
La formula scelta sarà la più tollerata e la più adeguata dal punto di vista nutrizionale. In quest’ultimo aspetto, la
miscela di aminoacidi non ha nulla di meno degli idrolisati. Le linee-guida DRACMA non intendono imporre
uno standard di cura per i singoli paesi e giurisdizioni, né per singole patologie. Esse riportano come esempio
una tabella delle raccomandazioni per patologia, in cui le miscele di aminoacidi sono di prima indicazione per
l’anafilassi e per l’esofagite eosinofila. Nelle altre condizioni si propone come prima scelta l’idrolisato di
proteine, del riso o del latte. Tuttavia con il cambio di prezzo, o il rimborso delle formule, aumenteranno
certamente i casi in cui la miscela di aminoacidi viene proposta anche a bambini con dermatite atopica grave,
patologie gastroesofagee o patologie intestinali. Potrà in altre parole succedere quello che capita già in Paesi
dove i costi sono più equilibrati, come la Germania, dove i dati di vendita delle formule speciali sono
completamente differenti da quelli italiani: in termini di volume, 2/3 del mercato sono aminoacidi e un terzo
idrolisati.
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IMMUNOTERAPIA SPECIFICA TRA ATTUALITÀ E PROSPETTIVE
Giovanni Battista Pajno, Lucia Caminiti, Giuseppe Crisafulli
Dipartimento di Pediatria- Uos Allergologia Pediatrica- Policlinico Universitario “G. Martino”, Messina
L’immunoterapia allergene specifica (ITS) rappresenta l’unico trattamento che può modificare la storia naturale
e l’evoluzione delle malattie allergiche IgE mediate e pertanto deve essere considerata per il trattamento dei
pazienti con patologia allergica. L’ITS è risultata efficace per il trattamento della rinite allergica , della
congiuntivite allergica, dell’asma allergico , dell’allergia causata dal veleno di Imenotteri.
Essa è stata utilizzata nella pratica clinica per il trattamento di pazienti adulti e di pazienti pediatrici.
Attualmente la stima della frequenza delle malattie allergiche IgE mediate nella popolazione Europea raggiunge
il 30 % per la rinite e/o congiuntivite allergica. Il 20% presenta asma allergico, e 15 % malattie allergiche
cutanee come dermatite atopica estrinseca oppure orticaria IgE mediata. Anche l’allergia alimentare ha
presentato negli ultimi anni un aumento della prevalenza e dell’incidenza soprattutto nella popolazione
pediatrica.
Lo stile di vita compresa l’alimentazione nei paesi occidentali , l’inquinamento ambientale , l’urbanizzazione di
vasti stati della popolazione hanno contribuito all’aumento della frequenza delle malattie allergiche . Queste
caratteristiche dei paesi industriali e post-industriali non sembrano , nei prossimi anni, suscettibili di variazioni
significative. Pertanto l’ITS che ha l’obiettivo di curare i sintomi delle allergie e prevenire la progressione, ha
un ruolo importante per un a adeguato “management” delle malattie allergiche IgE mediate.
L’immunoterapia sottocutanea (SCIT) e l’immunoterapia sublinguale (SLIT) rappresentano le due vie di
somministrazione attualmente disponibili per la pratica clinica. Recentemente , dopo anni di utilizzo in Europa ,
la SLIT è stata approvata per il trattamento della rinite e dell’asma allergico anche in Usa. Nell’ultimo decennio
una nuova forma di immunoterapia allergene specifica è stata
sperimentata per il trattamento delle allergie alimentari IgE mediate. L’immunoterapia orale (OIT)
che prevede la somministrazione del vaccino per via orale , cominciando da dosi molto basse che vengono
aumentate gradualmente:, è basata sul presupposto che l’assunzione per via orale e il successivo assorbimento
di un determinato alimento per via intestinale , rappresenti la via naturale per raggiungere la tolleranza per un o
più allergeni alimentari.
In conclusione , l’obiettivo che “ immunoterapie” possano diventare più efficaci e sicure sembra più vicino e
realizzabile, di quanto previsto in passato . Particolarmente in età pediatria gli effetti dell’ITS potrebbero essere
duraturi nel tempo e migliorare la qualità della vita dei bambini e delle loro famiglie.
43
FORUM 3
“UPDATE IN NEONATOLOGIA”
Giovedì, 13 novembre 2014
Presidente: A. Colombo
14,30 – 15,45
Moderatori: C. Mamì, G. Vetrano
16,15 – 17,15
Moderatori: C. Lovati, M. Giozani
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ADATTAMENTO NEONATALE E STABILIZZAZIONE DEL NEONATO CRITICO
Giovanna Mangili, Diego Minghetti
Usc Patologia Neonatale E Tin Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo
Circa il 95% dei parti consente la nascita di un neonato perfettamente sano che non necessiti di alcuna manovra
rianimatoria. Anche se sono un evento raro, le difficoltà di adattamento alla vita extra-uterina possono però
condizionare in modo drammatico il futuro dei neonati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità calcola che
circa il 5% dei nuovi nati possa necessitare di manovre di rianimazione; nel nostro Paese verosimilmente la
necessità di manovre rianimatorie alla nascita ha una frequenza minore (2-3%) per il progressivo
miglioramento delle cure, ma ciò non toglie che un numero significativo di neonati necessitino di manovre
salvavita nei primissimi istanti della loro esistenza. Anche la stessa organizzazione delle cure perinatali ha
contribuito, parallelamente all’avanzamento tecnologico, a migliorare l’outcome neonatale .La centralizzazione
delle gravidanze a rischio infatti mira ad assicurare che l’evento nascita avvenga nella struttura ospedaliera più
adeguata alle esigenze cliniche di madre e neonato; malgrado lo sforzo della rete ostetrica, è stimato che circa
l’1% delle emergenze neonatali non possa però essere previsto. Può accadere perciò che un neonato venga alla
luce in un ospedale che non possieda le attrezzature e le competenze per poterlo assistere adeguatamente.
Il Servizio di Trasporto d’Emergenza Neonatale (o STEN) rappresenta in questi casi un importante ed
indispensabile anello della rete organizzativa ostetrico-neonatologica, che ormai da decenni è adottato da tutte le
nazioni e le società evolute dal punto di vista sanitario.
Nel 2010 (Neonatal Resuscitation: 2010 International Consensus on Cardiopulmonary Resuscitation and
Emergency Cardiovascular Care Science With Treatment Recommendations. Circulation. 2010;122:S516-S538)
sono state ridefinite le linee guida della rianimazione neonatale.
Rispetto alle linee guida precedenti del 2005, queste sono le più importanti novità:
•
La progressione verso la fase successiva dopo una prima valutazione iniziale è definita dalla
valutazione simultanea di due caratteristiche vitali: frequenza cardiaca e respiro. L’ossimetria dovrebbe essere
utilizzata per la valutazione dell’ossigenazione, poiché la valutazione del colore è attualmente considerata poco
affidabile.
•
Per i bambini nati a termine, è meglio iniziare la rianimazione con aria invece che con ossigeno al
100%.
•
La somministrazione di ossigeno supplementare deve essere regolata miscelando ossigeno ed aria e la
concentrazione deve essere guidata dall’ossimetria.
•
Le prove disponibili non supportano l’aspirazione endotracheale di routine per i neonati con
liquido amniotico tinto di meconio, anche quando il neonato è depresso.
•
Il rapporto di compressione-ventilazione rimane 3:1, a meno che sia noto che l'arresto è di eziologia
cardiaca; in tal caso dovrebbe essere considerato un rapporto superiore.
•
L’ipotermia terapeutica deve essere considerata per i neonati nati a termine o vicino al termine con
confermata encefalopatia ipossico-ischemica moderata-grave.
•
È opportuno prendere in considerazione la sospensione della rianimazione se non si rileva alcuna
frequenza cardiaca per più di 10 minuti.
•
Il clampaggio del funicolo deve essere ritardato per almeno 1 minuto nei neonati che non necessitano
di rianimazione.
Valutazione ed intervento iniziali
I neonati a termine che respirano o piangono ed hanno un buon tono muscolare devono essere asciugati e tenuti
caldi. Queste azioni possono essere fatte con il neonato appoggiato sul petto della madre e non richiedono la
separazione di madre e bambino.
Tutti gli altri neonati devono essere valutati per determinare la necessità di una o più delle seguenti procedure in
sequenza:
A. Primi passi della stabilizzazione (asciugare e fornire calore, garantire una corretta posizione, valutare le vie
respiratorie, stimolare il respiro)
B. Ventilazione
C. Compressioni toraciche
D. Farmaci o espansione di volume
La progressione verso il passo successivo è basata inizialmente sulla simultanea valutazione di due
caratteristiche fondamentali: frequenza cardiaca e respiro. La progressione avviene solo dopo il
completamento della fase precedente. Sono necessari circa 30 secondi per completare ciascuno dei primi due
passi, rivalutare e decidere se passare a quello successivo.
Questi quindi gli aspetti che, in emergenza, devono essere esaminati e supportati: Termico. Respiratorio.
Emodinamico. Metabolico. Infettivo. Neurologico.
La Stabilizzazione termica
Il mantenimento della temperatura corporea entro certi limiti è condizione necessaria per la sopravvivenza. Il
45
range di temperatura “core” normale del neonato è 36.5 - 37.7 °C. Uno stress da freddo può manifestarsi se la
temperatura corporea si abbassa a 36.0 °C. Si definisce ipotermia lieve una temperatura - , C
l’ipotermia è considerata moderata tra 32 e 35,9 °C, grave al disotto di 32 °C. Il neonato infatti, soprattutto
nei primi minuti dopo la nascita, disperde calore con facilità secondo tutte le modalità fisiche (evaporazione,
conduzione, convezione, irraggiamento, etc.) Per questa ragione va posta grande attenzione nel limitare questo
fenomeno: asciugare il piccolo ridurrà l’evaporazione e la convezione, porlo sotto una fonte di calore radiante o
in una culla termica ridurrà la conduzione e l’irraggiamento. La perdita di calore infatti comporta, nel neonato,
acidosi, ridotto apporto ematico periferico per vasocostrizione, metabolismo anaerobio, ipoglicemia, aumento
del dispendio energetico. Il neonato a termine sano si trova nelle condizioni di benessere termico per temperature
ambientali di 24-26°C se vestito, 33 °C nudo. Più cala l’età gestazionale, maggiore sarà la temperatura ideale.
Inoltre il neonato prematuro va incontro a evaporazione con maggiore facilità rispetto al neonato a termine e per
questo motivo è necessaria un’umidificazione elevata dell’aria.
Consigli pratici durante l’assistenza e la stabilizzazione:
mantenere una temperatura adeguata in Sala Parto e nel locale dove avviene la stabilizzazione (22°-24°C). Per il
parto del neonato pretermine, l’OMS prescrive una T° di 25-28 °C - fornire calore utilizzando isole neonatali a
calore radiante o incubatrici a doppia parete preferibilmente dotate di servocontrollo in base alla temperatura
cutanea - posizionare panni caldi sul piano di appoggio - evitare il contatto con attrezzature fredde - eseguire le
manovre all’interno dell’incubatrice, tenendo aperti gli oblò solo per il tempo indispensabile, oppure su lettini
con pannelli radianti tenendo sollevate le antine laterali per ridurre gli spostamenti di aria – monitoraggio della
temperatura cutanea (tra 36,2° e 36,5°C a neonato nudo) - umidificare e se possibile riscaldare i gas respiratori se i tempi per la stabilizzazione pre-trasporto sono prolungati preferire sempre l’incubatrice che garantisce
adeguate percentuali di umidità (fino a 80-90% in prematuri di peso <1000 g, tra 70-80% in prematuri tra 1000 e
2000 g). Inoltre per il neonato altamente pretermine < 28 settimane di e.g. : utilizzare sacchetti di plastica
trasparenti in cui porre il neonato: questo accorgimento riduce notevolmente le perdite evaporative e convettive
ed evita anche lo stress di un’asciugatura vigorosa - utilizzare cappellini dello stesso materiale - ricordarsi di
preriscaldare l’incubatrice da trasporto.
Nel caso di parto imprevisto in ambiente extra-ospedaliero occorre accendere il riscaldamento del locale o
del veicolo e asciugare il neonato con asciugamani, coperte, abiti puliti. Ricordare che il corpo della madre può
essere usato come fonte di calore.
Nei neonati con sofferenza asfittica nati dopo la 36ma settimana di e.g., in vista di un possibile trattamento
ipotermico è opportuno mantenere il neonato già durante la stabilizzazione e il trasporto a temperatura corporea
più bassa (fino a 35°C) spegnendo le fonti di calore (Ipotermia passiva). Un raffreddamento attivo con mezzi
fisici (es. ghiaccio sintetico) è raramente indicato, e potrebbe anzi provocare un raffreddamento eccessivo (overcooling) e anche lesioni cutanee da contatto diretto. Mentre nell’ipotermia terapeutica il riscaldamento avviene a
velocità non superiore a 0.5°C/ora, nell’ipotermia accidentale la velocità di riscaldamento non è definita.
Un riscaldamento troppo rapido può risultare in un deterioramento metabolico, emodinamico e respiratorio; è
necessario quindi progredire incrementando la temperatura lentamente monitorando la risposta del neonato al
cambiamento termico in corso.
La stabilizzazione respiratoria
La sindrome da distress respiratorio (RDS) prevede come principale causa l’immaturità polmonare e la carenza
del surfattante endogeno, e quindi si presenta prevalentemente nel neonato pretermine. Tuttavia la riduzione
della capacità funzionale residua per l’inattivazione e l’alterata produzione di surfattante può coesistere con altre
cause di distress respiratorio nel neonato a termine, come accade nella sindrome d’aspirazione di meconio
(SAM) o in un'infezione a carico del polmone(alveolite) Esistono poi cause cardio- circolatorie, malformative o
neuromuscolari di distress respiratorio che richiedono comunque un supporto respiratorio nella fase di
stabilizzazione in attesa delle cure intensive, se necessarie, e della diagnostica specialistica. La corretta
valutazione del distress respiratorio permette di identificare e affrontare prontamente le condizioni a rischio che
richiedono decisioni tempestive per l’intervento terapeutico più appropriato. Utile può essere associare un
punteggio alla meccanica respiratoria ,definito dalla scala di Silverman, ai parametri vitali del neonato.
Distress respiratorio
Assente - SapO2>85% FR<60/min
Moderato - SapO2<85% FR<60/min
Grave - apnea, gasping intubazione
Una radiografia del torace resta elemento fondamentale per l'inquadramento del problema con possibile riscontro
di disegno polmonare fine tipo “vetro smerigliato” da broncogramma aereo neiquadri di RDS, di opacità focali
e asimmetriche dei campi polmonari (SAM, polmonite o malformazioni), di presenza di aria libera intra-pleurica
(PNX), mediastinica o pericardica o l'eventuale alterazione della silhouette cardiaca (cardiopatia congenita,
scompenso...)
L'Utilizzo di ossigeno supplementare
In neonati a termine che ricevono rianimazione alla nascita con ventilazione a pressione positiva, è meglio
cominciare con aria piuttosto che con ossigeno 100%. Se nonostante un'efficace ventilazione non c'è aumento
della frequenza cardiaca o se l'ossigenazione (guidati dall’ossimetria) rimane inaccettabile, dovrebbe essere
46
considerato l'utilizzo di una maggiore concentrazione di ossigeno. Poiché molti bambini prematuri < 32
settimane di gestazione non raggiungeranno le saturazioni desiderate in aria, può essere data con giudizio una
miscela di ossigeno e aria (idealmente con la guida della pulsossimetria), partendo da una FiO2 pari a 0.30-0.40.
Dovrebbero essere evitati sia l’iperossiemia e l’ipossiemia. Se non è disponibile una miscela di ossigeno e l'aria,
la rianimazione deve essere iniziata con l'aria.
Target di saturazione preduttale dopo la nascita, al disotto dei quali avviare la
somministrazione di O2 (Kattwinkel, Pediatrics 2010)
Strategie di ventilazione
Le strategie di ventilazione sono state esaminate dai seguenti punti di vista:
1.
caratteristiche dei primi atti respiratori assistiti e ruolo della pressione positiva di fine espirazione
(PEEP).
2.
pressione positiva continua delle vie aeree (CPAP) durante e dopo la rianimazione
3.
dispositivi per assistere la ventilazione.
Assistenza ai primi atti respiratori Non ci sono attualmente ancora prove per sostenere l'uso di pressioni di
inflazione superiori a quelle necessarie per ottenere il miglioramento della frequenza cardiaca o l’espansione del
torace. Ciò di solito può essere raggiunto nei neonati a termine con una pressione di 30 cm H2O e in neonati
pretermine sono pressioni da 20 a 25 cm H2O. Non ci sono prove per sostenere o confutare l’utilizzo della PEEP
durante la rianimazione dei neonati a termine. Nei neonati pretermine un piccolo studio non ha mostrato un
beneficio da PEEP durante l'iniziale stabilizzazione nel ridurre il numero di bambini che hanno richiesto
intubazione in sala parto . La PEEP è probabilmente utile durante la stabilizzazione iniziale del pretermine con
apnea che necessitano di ventilazione a pressione positiva e dovrebbe essere utilizzata se è disponibile
l'attrezzatura adatta.
CPAP Neonati pretermine con attività respiratoria spontanea che hanno distress respiratorio possono essere
supportati con CPAP o intubazione e ventilazione meccanica. La scelta più appropriata può essere guidata dalla
competenza e dalle preferenze locali.
Attrezzatura per la ventilazione assistita La ventilazione del neonato può essere eseguita efficacemente con
pallone flusso-dipendente, pallone autogonfiabile, o rianimatore a T a pressione limitata. La maschera laringea
può essere considerata durante la rianimazione del neonato, se la ventilazione con maschera non ha successo e
l'intubazione tracheale o non ha successo o non è praticabile. La maschera laringea può essere considerata
un’alternativa alla maschera per la ventilazione a pressione positiva per i neonati con peso > 2000 g o con età
gestazionale > 34 settimane. Attualmente sono limitate le prove per valutare il suo utilizzo per i neonati di minor
peso e minor età gestazionale. La maschera laringea può essere considerata un’alternativa secondaria
all’intubazione endotracheale ed alla rianimazione neonatale.
Il rilevamento della CO2 espirata in aggiunta alla valutazione clinica è raccomandato come il metodo più
affidabile per confermare posizionamento del tubo endotracheale nei neonati con circolazione valida.
La tachipnea transitoria del neonato
La TTN è detta anche sindrome del polmone bagnato a causa del ritardato riassorbimento del liquido polmonare.
In genere la diagnosi definitiva viene posta a posteriori, ad esaurimento del processo transizionale di adattamento
feto-neonatale. Il trasferimento del neonato a termine o late preterm con distress respiratorio lieve sin dalla
nascita è una questione importante per i centri di 1° livello. Diagnosi: Tratti fondamentali per la diagnosi sono la
tachipnea e l’accentuazione della trama polmonare periilare all’RX. Fattori di rischio principali: prematurità e
taglio cesareo Trattamento: la regola delle 2-3 ore di osservazione dopo l’esordio dei sintoni, associata
all’andamento clinico, alla satO2 in rapporto al fabbisogno d’ossigeno, all’EGA e all’RX, può orientare la
decisione verso la permanenza o il trasferimento. Se la sintomatologia tende a limitarsi a modesti segni di
distress senza progressione dei sintomi e minima ossigeno-dipendenza, ne segue solitamente miglioramento con
completa risoluzione entro 48 ore. Può essere utile la consultazione del centro UTIN di riferimento nei casi ai
limiti dell’assistenza nel punto nascita.
47
La sindrome d’aspirazione di meconio (SAM)
Tipica dei neonati a termine e post-termine, si presenta nel 2- 5% dei neonati con liquido amniotico (LA) tinto. Il
distress respiratorio è una combinazione di diversi meccanismi quali l’aspirazione di materiale ostruttivo ed
irritante, l’asfissia e l’ipertensione polmonare. Diagnosi: basata sul dato anamnestico di LA tinto aspirato dalle
prime vie aeree, sulle manifestazioni di distress respiratorio e sulle opacità polmonari grossolane all’RX.
Trattamento: L’aspirazione endotracheale nel neonato depresso non è raccomandata di routine; può essere
valutata da parte dell’operatore la necessità di procedere ad aspirazione del meconio dalla trachea purché tale
manovra non ritardi significativamente l’avvio della ventilazione . In caso di difficoltà a visualizzare la
trachea non si deve perdere tempo con ulteriori tentativi ma si deve avviare rapidamente la ventilazione.
Per ridurre l’insorgere di ipertensione polmonare è essenziale provvedere prontamente ad una buona
ossigenazione. Vanno evitate l’acidosi e l’ipotensione ed in valutazione della fisiopatologia del distress può
essere indicata la somministrazione di surfattante endotracheale in attesa di trattamento specifico in TIN. I dati in
letteratura invece non danno franche raccomandazioni in merito al lavaggio bronco-alveolare con surfattante
diluito.
La polmonite/alveolite
La polmonite batterica e lo shock settico sono un’altra possibile causa di distress respiratorio nel neonato a
qualsiasi età gestazionale e può evolvere dalla nascita nei primi giorni di vita. Gli Streptococchi di gruppo B
(GBS) sono i patogeni più comuni, seguiti dagli Escherichia Coli. Diagnosi: La polmonite connatale da GBS
all’esordio non è distinguibile dall’RDS classica da deficit di surfattante. Elementi diagnostici sono l’aumento
della proteina C reattiva e dei leucociti; la positività degli esami colturali è fondamentale ma tardiva. Fattori di
rischio principali: prematurità, pPROM o PROM >18h, iperpiressia materna.
Prevenzione dell’infezione da GBS screening universale con t. retto vaginale materno a 35-36 sett. e.g.,
trattamento antibiotico intra-partum (adeguato se praticato almeno 4h prima del parto). Trattamento:
penicillina/ampicillina + aminoglicoside previa esecuzione delle colture, assistenza respiratoria non diversa
dall’RDS, possibile surfattante nei casi più severi.
PNEUMOTORACE - PNX spontaneo: insorge poco dopo la nascita. Sintomatico nel 10% dei casi, quasi
sempre normoteso, tende a risoluzione spontanea senza necessità di drenaggio. PNX in distress respiratorio:
spesso è evento critico, e secondario a ventilazione in isola neonatale. Fondamentale per la diagnosi e il
trattamento è il sospetto precoce basato su: Peggioramento respiratorio improvviso – ovattamento dei toni
cardiaci all'auscultazione con murmure ridotto- Mancato miglioramento dell’ossigenazione nonostante adeguata
ventilazione. Rapida definizione del problema e necessità di drenaggio in estemporanea della falda aerea onde
evitare eventuale tamponamento cardiaco associato.
La Stabilizzazione emodinamica
Il circolo ha la funzione di garantire un’ adeguata perfusione ed una ossigenazione degli organi vitali. Lo stato di
shock può quindi essere definito come uno stato patologico in cui si verifica insufficiente ossigenazione e
nutrizione dei tessuti. Si definisce ipotensione una PA media inferiore al 10° centile che corrisponde nelle prime
48 ore di vita ad un valore pari all’età gestazionale espressa in settimane. L’ipotensione severa e prolungata può
portare ad ipoperfusione cerebrale e danno neurologico. Fondamentale ai fini pratici oltre al dato anamnestico
(emorragia, asfissia o somministrazione di farmaci), rimane quindi l’esame clinico con il tempo di refilling > 3
secondi, il polso debole, la cute fredda e/o pallida, la marezzatura cutanea, la letargia, la tachipnea, la
tachicardia, l’oliguria, l’incremento dei lattati sierici e la progressiva acidosi metabolica ad anion gap aumentato
e l’iperkaliemia. Si distinguono per definizione tre tipi di shock:
Shock ipovolemico da perdite emorragiche acute durante il parto (distacco di placenta, traumi funicolari...)
post-natali ( emorragia cerebrale, polmonare...)o perdite “funzionali” (PNX iperteso, PDA, ecc).
Shock cardiogeno da asfissia ( riduzione della contrattilità miocardica), da ipossia ed acidosi ( insufficienza
respiratoria severa, grave alterazione elettrolitica...), o da malformazione congenita.
Shock settico che si esprime come shock distributivo ma che può comprendere anche tutti i meccanismi
descritti.
Le procedure consigliate prevedono:
-Espansione di volume
10-20 ml/Kg di soluzione fisiologica in 20-30 minuti; La velocità di somministrazione dipende dalla severità
della situazione e può anche essere più veloce. L’uso di emoderivati (plasma, globuli rossi concentrati) ha come
indicazione unicamente la correzione di deficit coagulativi e/o di grave anemia.
-Amine vasoattive Utili soprattutto nello shock ipovolemico e nello shock settico
Dopamina 5-20 mcg/Kg/minuto (da utilizzare se prevale vasodilatazione)
Dobutamina 5-20 mcg/Kg/minuto (da utilizzare se prevale ipoperfusione e vasocostrizione)
Se terapia inefficace pur con alte dosi ed in presenza di grave compromissione clinica associare dopamina e
dobutamina o adrenalina 0,05 mcg/Kg/minuto fino a 1 mcg/Kg/minuto.
Attenzione: il cuore del neonato è “nuovo” e non ha mai problemi di pompa se non secondari ad altri eventi
patologici che vanno corretti se possibile (alterazioni elettroliti, acidosi..). Inoltre il cuore del neonato lavora già
a livello funzionale molto alto, vicino alla capacità massima di contrattilità, e quindi ha scarsa riserva funzionale
contrattile.
- Monitorare e correggere acidosi metabolica
48
La Stabilizzazione metabolica
Valutare sempre all’emogas analisi di controllo l’equilibrio della componente metabolica ( Eccesso di basi,
Bicarbonati , acido lattico e calcolo dell’anion gap), la glicemia ed il pannello elettrolitico - utile la lettura
dell’emogas arterioso eseguito da funicolo.
il neonato a termine sano è lievemente acidotico nelle prime ore, ma con un maggior recupero di bicarbonato e
con una ventilazione efficace il pH sale al normale range di 7.35-7.45 entro le prime 48 ore di vita. L’acidosi
respiratoria (pH ridotto, CO2 aumentata, BE normale) è solitamente modificabile e correggibile con una buona
ventilazione. L’ Acidosi metabolica (pH ridotto, CO2 normale, BE ridotto), di solito si verifica nel neonato a
asfittico, con quadro tanto più severo quanto più lungo è stato lo stato ipossico in utero. La correzione dello stato
di acidosi (se pH < 7.20 e BE <12 mEq/L) si esegue con NaHC03: 2mEq/kg/dose; va comunque ricordato che
questo ha soprattutto effetto cosmetico e non correttivo sull’eventuale eziologia dell’acidosi riscontrata; inoltre
attualmente la somministrazione di bicarbonato è sempre meno consigliata per le possibili alterazione osmotiche
ed il possibile danno a carico del parenchima cerebrale soprattutto in caso di prematurità.
Il riscontro d’ipoglicemia (da possibile ridotto apporto di glucosio, limitata disponibilità di glicogeno, aumento
dell’insulinemia per diabete gestazionale materno…) deve essere corretta con infusione in bolo lento e.v. (10
minuti) di soluzione glucosata al 10% a 2 ml/kg ( pari a 200 mg/kg di glucosio) con monitoraggio glicemico
seriato a valutazione del fabbisogno glucidico effettivo e stretto monitoraggio clinico a valutazione di possibile
sintomatologia clinica correlata. si considera un valore glicemico ottimale superiore a 45 mg/dl con un
fabbisogno teorico pari a 4-6 mg/kg/min di glucosio. L’ipoglicemia persistente associata a fabbisogno glucidico
elevato devono porre il sospetto di malattia congenita del metabolismo con una rivalutazione complessiva del
neonato e con l’esecuzione di esami metabolici di primo livello a definizione del quadro (lattacidemia,
ammoniemia, chetoni urinari ed eventuale richiesta di screening allargato su cartoncino di Guhtrie)
La stabilizzazione neurologica
I problemi neurologici che più frequentemente devono essere affrontati durante la stabilizzazione possono,
semplificando, es- sere distinti in base all’età gestazionale del neonato. Premesso che la nascita pretermine (< 32
settimane di e.g.) dovrebbe avvenire in un centro di 3° livello, si può affermare che nel prematuro la
stabilizzazione neurologica coincide essenzialmente con una adeguata stabilizzazione respiratoria,
cardiocircolatoria e metabolica: laddove infatti sono presenti scambi gassosi appropriati, pressione arteriosa
adeguata all’e.g. e valori glicemici nella norma, il rischio neurologico connesso all’e.g. si riduce. E’ quindi
importante ricordare:
mantenere una saturazione corretta per evitare il danno ipossico, ma ricordarsi che valori elevati espongono il
prematuro a rischio di iperossia altrettanto dannosa ed è quindi necessario utilizzare la minima FiO2 efficace
ottenuta con miscele aria-O2
ipercapnia e ipocapnia sono entrambe dannose: pCO2 > 55 mm Hg aumentano il rischio di emorragia cerebrale,
mentre pCO2 < 30 mm Hg sono correlate a un maggior rischio di ischemia
l’ipoglicemia se persistente può essere responsabile di danni permanenti al SNC
l’ipotensione marcata e persistente, ma soprattutto le oscillazioni della pressione sistemica si ripercuotono in
pericolose oscillazioni del flusso cerebrale
Le emorragie peri-intraventricolari, il cui rischio è inversamente proporzionale all’e.g. e al peso alla nascita,
possono esordire nel 50% dei casi nel primo giorno di vita ma raramente, nelle prime ore di vita: la
sintomatologia clinica è aspecifica (alterazioni dello stato di coscienza, ipotonia, ridotta motilità spontanea ecc).
Nel neonato a termine i principali problemi da affrontare nel corso della stabilizzazione sono rappresentati
dall’asfissia intrapartum e dalle convulsioni. L’asfissia intrapartum ha un’incidenza del 3-4/1000 nati vivi ed è
responsabile di encefalopatia ipossico-ischemica (EII). Durante la il trattamento dell’insulto asfittico comprende
il mantenimento dei parametri vitali e metabolici e l’eventuale trattamento delle convulsioni. Il corretto
svolgimento della stabilizzazione nelle prime ore di vita può essere essenziale nel ridurre il rischio di danno
neurologico permanente. Dopo la necrosi neuronale “diretta” avvenuta per l’insulto ipossico-ischemico, questa
può proseguire per un periodo variabile da 6 a 100 ore per lo stabilirsi di un danno da riperfusione, nonostante la
ripresa dei parametri vitali. L’ipotermia cerebrale è riconosciuta attualmente come la terapia più efficace in
caso di EII moderata o severa, se il trattamento viene iniziato prima delle 6 ore di vita.
È compito quindi dei centri di 1° e 2° livello individuare il più precocemente i possibili candidati al trattamento
ipotermico,avviare l’ ipotermia passiva con spegnimento delle fonti di calore ed inviare in un timing corretto il
paziente presso un centro di 3° livello per proseguire il trattamento ipotermico in forma attiva.
DUE SITUAZIONI PARTICOLARI
Il neonato chirurgico
Le problematiche relative al neonato chirurgico rappresentano per un Pediatra impegnato in una Patologia
Neonatale di primo o secondo livello, situazioni cliniche che richiedono un impegno considerevole. Da ciò
l’importanza della messa in atto di procedure adeguate alla patologia chirurgica, che possano concorrere al buon
esito della patologia. Sinteticamente quindi vengono affrontate le procedure da attivare nel caso delle patologie
chirurgiche più frequenti.
Atresia esofagea. Per atresia esofagea si intende un mancato sviluppo della canalizzazione dell’esofago. Oggi
viene distinta in base a criteri anatomici in atresia esofagea con o senza fistola tracheoesofagea. Può essere
49
presente un sospetto prenatale legato alla mancata visualizzazione della bolla gastrica e alla presenza di
polidramnios. Il sospetto può essere confermato clinicamente dalla mancata progressione del sondino nasogastrico, la conferma strumentale è poi radiologica mediante una radiografia torace-addome. In presenza di aria
nelle anse intestinali si sospetta una atresia esofagea con fistola (TOF). Qualora le condizioni del neonato lo
consentano, soprattutto in caso di TOF, è preferibile mantenere il neonato in aria ambiente per evitare di
sovradistendere lo stomaco. E’ Indicato il posizionamento di un sondino naso-gastrico in modica aspirazione,
Utile una copertura antibiotica ad ampio spettro.
Ernia diaframmatica. Per ernia diaframmatica si intende un difetto del muscolo diaframmatico che comporta
uno spostamento di organi, normalmente contenuti nella cavità addominale, all’interno della cavità toracica. Il
difetto più frequente coinvolge l’emidiaframma di sinistra (o ernia di Bochdalek). Oggi il sospetto di ernia
diaframmatica viene posto nella quasi totalità dei casi in epoca fetale, per cui la gravidanza deve essere inviata
ad un Centro di terzo livello per la programmazione del timing del parto e dell’assistenza specifica. Nonostante
ciò, una difficoltà respiratoria ingravescente nell’iimmediato post-nascita, associata ad un addome
particolarmente “avvallato” dovrà far sospettare un possibile difetto del muscolo diaframmatico. Le procedure
diagnostiche da mettere in atto riguarderanno solamente un Rx torace-addome in due proiezioni: anteroposteriore e laterale. Questo esame confermerà la diagnosi. La problematica principale una volta acquisita la
diagnosi sarà legata alle procedure di ventilazione meccanica del neonato. In tutta la gestione del paziente con
ernia diaframmatica, il chirurgo svolge un ruolo di “attesa”, entrando in scena solo quando il neonatologo
confermerà un quadro di stabilizzazione. In presenza di stabilità respiratoria, sarà sufficiente posizionare un SNG
a caduta, trattandosi comunque di uno stato di “pseudo-ostruzione” intestinale ed avviare una terapia antibiotica
ad ampio spettro di copertura.
Gastroschisi. Per gastroschisi si intende un difetto della parete addominale anteriore attraverso il quale i visceri
addominali risultano erniati all’esterno. Il difetto può essere alla sinistra del moncone ombelicale (più
frequentemente) o a destra. La cura maggiore dovrà essere riposta nella gestione delle anse intestinali evitando
stiramenti o torsioni che comporterebbero uno stato di sofferenza ischemica dell’intestino erniato. La matassa
intestinale dovrà essere avvolta in garze bagnate di fisiologica calda, ricoperte e riposte in uno strato di plastica
possibilmente, allertando il Chirurgo (o Centro di riferimento) ed attivando l’immediato trasferimento del
paziente. Sarà anche importante posizionare un sondino naso-oro gastrico (SNG), iniziare una terapia antibiotica
ad ampio spettro accertandosi di mantenere sempre umide e calde le garze fino all’arrivo nel Centro di
Riferimento.
Onfalocele. Per onfalocele si intende un difetto della linea mediana attraverso il quale i visceri intestinali
trovano erniazione. Nell’onfalocele si ha sempre la presenza di un sacco amniotico che isola il contenuto erniato
dall’esterno ed è quindi urgenza solitamente differibile. Dovrà essere cura del Pediatra quindi far sì che tale
sacco non si lesioni, trattandolo con garze bagnate di fisiologica calda, cercando di ottenere una medicazione
modicamente compressiva che rimanga verticale rispetto all’asse del neonato. Anche in questo caso è
consigliabile posizionare un SNG a caduta ed iniziare una terapia antibiotica ad ampio spettro. Qualora il sacco
amniotico nella procedura del parto o nella fase di gestione perinatale si rompesse, i protocolli di gestione sono
simili a quelli descritti per la gastroschisi, diventando un’emergenza chirurgica.
Estrofia della vescica. Per estrofia della vescica si intende una mancata chiusura della sinfisi pubica con
erniazione della vescica che apparirà aperta ventralmente. La diagnosi prenatale prevede un’incidenza maggiore
di mancato riconoscimento del difetto. Il neonatologo dovrà aver cura della porzione erniata medicandola con
garze bagnate di fisiologica calda, ricoperte, se possibile, da un film di plastica al fine di evitare la dispersione
del calore attraverso la mucosa vescicale estroflessa. Verrà quindi contattato il Centro di riferimento per il
trasporto immediato del paziente; l’intervento verrà eseguito come urgenza differibile e preferibilmente entro 48
ore dalla nascita.
Mielomeningocele. Per mielomeningocele si intende un difetto legato alla mancata chiusura del sacco durale. Se
vi fosse rottura del sacco durante le manovre di parto con esposizione di fibre nervose, dovrà essere applicata in
sede di lesione una medicazione con garze bagnate di fisiologica calda con attivazione immediata del centro di
riferimento. Esami diagnostici da delegare al Centro di riferimento l'ecografia la RMN dell'addome e della pelvi.
Il neonato cardiopatico
Il Distress Respiratorio, la cianosi e l’eventuale stato di Shock possono sottendere ad una cardiopatia neonatale.
Sintomo “Secondario” può essere il riscontro di un soffio cardiaco; segno che comunque deve essere indagato
nell’eventuale stabilità del paziente.La sopravvivenza del neonato dipende da 3 fattori:
il rapido riconoscimento della cardiopatia
la stabilizzazione delle condizioni cliniche
il celere invio del neonato in un centro cardiologico-cardiochirurgico di III° livello
Fondamentale quindi:
- la misurazione della pressione arteriosa agli arti superiori ed inferiori e la palpazione dei polsi periferici;
- Il monitoraggio delle SatO2 pre e post-duttale
- Il controllo degli elettroliti plasmatici
- Lo stato metabolico del paziente
- Il posizionamento di una linea venosa possibilmente la vena ombelicale;
- La valutazione di eventuale necessità di supporto respiratorio con intubazione o somministrazione di -ossigeno
50
(da evitare se dotto-dipendenza sistemica e in cardiopatie con fisiopatologia uni ventricolare senza ostacolo al
flusso polmonare).
Nel sospetto di cardiopatie dotto-dipendenti, infondere prostaglandine E1 (PGE1) alla dose iniziale di 0,050,1 mcg/kg/min infusione EV continua che va ridotta a 0,01-0,02 mcg/kg/min dopo stabilizzazione del
paziente.In caso di mancata risposta la dose va aumentata fino a 0,4 mcg/kg/min. Effetti collaterali comuni, l’
apnea (12%),la febbre (14%), il flushing (10%).
In caso di cianosi centrale va posta la diagnosi differenziale con malattie polmonari e depressione del SNC.
L’orientamento diagnostico si basa principalmente su riscontro di tachipnea senza rientramenti intercostali,
possibile auscultare un soffio continuo (pervietà del Bo tallo), talora non udibile; anomalia dell’aia cardiaca e
della vascolarizzazione polmonare al controllo radiologico; alterazioni al tracciato ECG. Nelle severe ostruzioni
all’efflusso destro lo shunt attraverso il dotto è sinistro-destro; Se vi è cianosi differenziale va valutata la
saturazione distrettuale: valori più elevati agli arti superiori rispetto inferiori sono legati a uno shunt destrosinistro a livello del dotto di Botallo e va quindi ipotizzatata presenza di un’ ipertensione polmonare o di una
cardiopatie con severa ostruzione all’efflusso sinistro.
Cardiopatie con severa ostruzione all’efflusso sinistro (stenosi aortica neonatale severa, coartazione aorta,
interruzione arco aortico, cuore sinistro ipoplasico)
I neonati affetti presentano colorito pallido-grigio dovuto a ridotta perfusione sistemica, scarsa ossigenazione
tissutale e vasocostrizione periferica; dotto-dipendenza sistemica: la pervietà del dotto di Botallo mantiene la
perfusione sistemica. Lo shunt attraverso il dotto è destro-sinistro; differenza di saturazione con valori più elevati
agli arti superiori rispetto agli inferiori; polsi periferici alterati: piccoli nella stenosi aortica, più deboli gli
inferiori nella coartazione aortica, più deboli i superiori nel cuore sinistro ipoplasico se dotto pervio; pressione
arti superiori maggiore di 10-15 mmHg rispetto agli arti inferiori suggerisce coartazione aortica, uguali pressioni
non la escludono; frequentemente oliguria, tendenza all’acidosi metabolica, epatomegalia secondaria a
scompenso; congestione venosa polmonare da aumento del post-carico del ventricolo sinistro al quadro
radiologico. La chiusura del dotto induce ipotensione fino allo shock, edema polmonare, acidosi metabolica
intrattabile, morte del paziente. Può essere quindi necessaria una terapia di supporto con inotropi (dobutamina
10mcg/kg/min associato a dopamina a 3-5 mcg/kg/min), diuretico( furosemide 1- 2 mg/kg) e bicarbonato di
sodio 1 mEq/kg ev.
Cuore sinistro ipoplasico - Una circolazione post-natale in questa patologia dipende da tre fattori maggiori: un
adeguato difetto interatriale, la pervietà del dotto di Botallo ed elevate resistenze vascolari polmonari.
L’obbiettivo è quello di mantenere la portata polmonare (QP) uguale alla portata sistemica (QS) (QP/QS circa 1).
Gli interventi terapeutici sono costituiti dal mantenere elevate le resistenze polmonari e basse le resistenze
sistemiche; mantenere saturazione tra 75-85%;in presenza di bassa gittata infondere dopamina a 3-5 mcg/kg/min
(evitare alti dosi di inotropi che aumentano RVS e determinano un aumento del flusso polmonare a sfavore di
quello sistemico QP/QS>1); potrebbero essere necessari diuretici per diminuire il sovraccarico del ventricolo
destro e la stasi polmonare; non usare FIO2 > 21% e mantenere pressione sistemica media tra 40 e 50 mmHg; se
il flusso polmonare è eccessivo (QP/QS >1), la satura- zione 90% e la pressione diastolica bassa considerare
intubazione ed ipoventilazione elettiva per aumentare la PCO2; se il flusso polmonare è basso (condizione rara
QP/QS <1), la saturazione <70-75% valutare pervietà del dotto di Botallo e presenza di difetto interatriale
restrittivo.
Nel 2012 il CDC ha definito l’utilità e l’applicabilità dello Screening per l’individuazione di cardiopatie critiche
neonatali; Screening applicabile su neonati altrimenti sani, non invasivo, bedside, attraverso la misurazione della
saturazione arteriosa tramite pulsossimetria. il TARGET: identificazione di malformazioni cardiovascolari
critiche.
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IL LATE PRETERM
Massimo Agosti
Neonatologia, Terapia Intensiva Neonatale e Pediatria del Verbano Ospedale “F. Del Ponte” - Varese
Introduzione e definizioni
Si definiscono neonati “late-preterm" (LP) tutti i neonati di età gestazionale compresa fra le 34 e le 36+6
settimane di età gestazionale; questo gruppo di neonati costituisce nel loro insieme circa il 70 % di tutti i
neonati pretermine.
Rispetto ai neonati a termine, i LP presentano un aumentato rischio di morbidità e mortalità; manifestano un
maggior numero di complicazioni dopo la nascita, rappresentate da comparsa di distress respiratorio, ittero
con necessità di fototerapia, ipoglicemia, instabilità termica e difficoltà nell’alimentazione. Tutto questo si
traduce in un aumento della degenza ospedaliera ed in un aumentato rischio di riospedalizzazione successiva
alla dimissione, prevalentemente per ittero, difficoltà nell’alimentazione, disidratazione/calo ponderale.
Questo rischio è maggiore nei LP che sono allattati al seno alla dimissione, nati da madri primipare con
complicazioni durante il parto/travaglio.
La termoregolazione
Le difficoltà nella termoregolazione rappresentano una problematica frequente nei LP; questi neonati hanno
infatti un ridotto strato di grasso sottocutaneo, un’epidermide immatura che costituisce una barriera inefficace
alla perdita di calore. Se i neonati LP sono stabili così come la loro madre, subito dopo la nascita possono
essere avviati alle procedure di “bonding”, compresa la marsupioterapa in modo da favorire il mantenimento
della temperatura corporea, favorendo l’attaccamento madre-bambino e l’inizio dell’allattamento al seno che
anche in questa categoria di neonati deve essere promosso quanto prima, entro le 2 ore dalla nascita.
Il metabolismo
I LP hanno un aumentato rischio di ipoglicemia, perché sono in possesso di minori riserve di glicogeno e
perché i meccanismi epatici metabolici sono immaturi. Tale rischio è ancora più alto nei LP che presentano
un basso peso alla nascita (< 2500 g), in quelli con un ritardo di crescita intrauterino (IUGR) e nei piccoli per
l’età gestazionale (SGA).
In questa categoria di neonati è necessario quindi, valutare il livello di glicemia nelle primissime ore dopo la
nascita e successivamente monitorarlo nelle ore successive. I LP stabili devono iniziare ad alimentarsi al seno
precocemente (entro 2 ore dalla nascita) e, se tendenti all’ipoglicemia, proseguire con una regolare
alimentazione precoce.
La condizione respiratoria
Rispetto ai neonati a termine, i LP presentato un aumentato rischio di comparsa di distress respiratorio,
tachipnea transitoria, malattia delle membrane ialine, insufficienza respiratoria; il rischio di tali
complicazioni aumenta nei nati da taglio cesareo in assenza di travaglio. E’ da segnalare inoltre un aumentato
rischio di comparsa di apnee della prematurità, bradicardia e SIDS.
Ittero
Diversi studi hanno documentato che i LP hanno un aumentato rischio di comparsa di iperbilirubinemia ed un
aumentato rischio di fototerapia. Il minore intake di latte nei primi giorni di vita ed il più lento passaggio di
meconio attraverso il canale intestinale, aumentano la circolazione enteroepatica della bilirubina; questo in
aggiunta ad una ridotta attività dell’enzima uridil-glucoronil-transferasi, tipica del neonato pretermine,
spiegano l’aumentata incidenza di questa condizione rispetto al neonato a termine.
Il rischio di comparsa di ittero può essere in parte ridotto migliorando l’alimentazione e la produzione di latte
e prevenendo l’eccessivo calo ponderale del neonato nei primi giorni dopo la nascita. Permettere alla diade
madre-bambino di rimanere insieme in ospedale per un tempo maggiore, rinviando la dimissione a 4-5 giorni
dopo la nascita, e misurare la bilirubina per via transcutanea alla dimissione quando ormai è verso la fase di
massimo picco, riduce di molto il rischio di riospedalizzazione per ittero dopo la dimissione.
Infezioni
Anche per quanto riguarda le infezioni, i neonati LP presentano un aumentato rischio di incidenza rispetto
alla popolazione a termine. Le infezioni materne possono indurre un parto pretermine o la rottura prematura
della membrane; il tampone vagino-rettale materno per Streptococco beta emolitico di gruppo B (SGB) è
generalmente eseguito verso le 36 settimane di età gestazionale, così molto spesso questo fattore di rischio
risulta sconosciuto. Per tutti i LP in cui lo screening materno per SGB risulta positivo o assente, e la
profilassi materna antibiotica intra-partuum risulta incompleta o assente, può essere consigliabile
l’esecuzione di una PCR a 12-18 ore di vita. Tutti i possibili segni clinici d’infezione come il distress
respiratorio, le apnee, la tachicardia, la scarsa perfusione, la letargia, l’ipotonia, l’instabilità termica, devono
essere comunque adeguatamente indagati.
54
Problemi neurologici
Durante le ultime 6-8 settimane di gestazione, il neonato acquisisce più di un terzo del volume cerebrale
finale e la sostanza bianca aumenta di circa cinque volte. Durante questa fase si verifica una maturazione
significativa delle strutture cerebrali incluse le connessioni neuronali e le giunzioni sinaptiche. I neonati LP
possono essere meno pronti a rispondere agli stimoli esterni dell’ambiente ed a regolare i processi interni e
così anche più vulnerabili al danno cerebrale ed alla comparsa di disabilità neurologiche. Questi neonati
presentano generalmente un ridotto tono muscolare, spesso i loro patterns di suzione-deglutizione-respiro
possono essere disorganizzati. Per l’immaturità del sistema autonomico, essi possono rispondere in maniera
inadeguata agli stimoli con frequenze cardiache più alte o più basse, respirazione anomala, desaturazioni,
rigurgiti.
In ogni caso, questa categoria di neonati mostra un'aumentato rischio di emorragia intraventricolare e PVL
rispetto ai neonati a termine. Per tale motivo, tutti i neonati LP è preferibile che vengano sottoposti ad
un’ecografia transfontanellare eseguita prima della dimissione ospedaliera e inclusi in un follow-up
neonatologico e neurocomportamentale.
Ricovero e degenza
Fermo restando che esistono diverse modalità di approccio al problema nelle diverse realtà ospedaliere,
presso la nostra U.O. è previsto che i neonati LP di 35 e 36+6 settimane di età gestazionale, possano essere
seguiti al nido in regime di rooming-in con la madre, salvo la comparsa di patologie che necessitino di
un'osservazione specifica. Permettere infatti al neonato di effettuare il rooming-in con la madre è dimostrato
che favorisca, come nei neonati a termine, l’attaccamento madre-bambino e l’inizio precoce dell’allattamento
al seno. E’ necessario tuttavia che venga fornito quotidianamente il giusto supporto medico ed infermieristico
al bambino ed alla madre. Questi neonati pur essendo seguiti al nido come i neonati a termine, costituiscono
tuttavia come una categoria “a rischio”; pertanto, tutti i giorni vengono valutati per ciò che riguarda le
condizioni generali, il peso, l’alimentazione ed in particolare la suzione al seno, offrendo il giusto sostegno
ed aiuto per le problematiche ad esso correlate. Al di sotto di un peso < 2000 g, il ricovero in Patologia
Neonatale può essere discusso collegialmente in base alle condizioni generali.
Nutrizione ed allattamento
I LP sono neonati ancora immaturi che devono confrontarsi con minori riserve energetiche e per contro con
un’aumentata domanda energetica; devono confrontarsi con diminuite competenze nell’alimentazione e con
una madre che spesso presenta un rischio di insufficiente produzione di latte. I LP più frequentemente
presentano una suzione debole, una bocca più piccola, dei movimenti orali incoordinati. Molti di questi
neonati possono presentare difficoltà nell’ottenere un’adeguata quantità di nutrimento se trattati come i
neonati a termine e soprattutto se allattati esclusivamente al seno. Per questo motivo è di fondamentale
importanza che madre e bambino sia completamente competente nell’allattamento al seno prima della
dimissione dall’ospedale. Le madri devono pertanto essere istruite sulle posizioni opportune dell’allattamento
così come sull’importanza della durata e della frequenza dei pasti. Fino a quando il peso non inizia ad
aumentare e l’allattamento non è bene avviato, i LP dovrebbero essere allattati almeno 7-8 volte al giorno.
Tutte le mamme che presentano un ritardo nella produzione del latte, i cui neonati hanno una suzione
debole/problematica o che ricevono una supplementazione, devono essere incoraggiate ad iniziare a estrarre
il proprio latte almeno ogni 3 ore, preferibilmente con un tiralatte elettrico. L'alimentazione precoce deve
essere impostata con una formula post-discharge (PDF) che per composizione appare più adeguata ai
fabbisogni metabolici di questi neonati.
Dimissione
I genitori devono essere informati fin dal primo colloquio/visita che i neonati LP hanno bisogno, rispetto ai
neonati a termine, di un periodo più lungo per imparare ad alimentarsi autonomamente. I genitori devono
essere informati su quante volte il loro neonato deve essere allattato, quando l’uso del tiralatte possa essere
sospeso e, se una supplementazione venga data, quanto e per quanto tempo debba essere proseguita.
La durata dell’ospedalizzazione di questi neonati è stata a lungo dibattuta. Anche se la maggior parte dei LP
non necessita di cure intensive ed in apparenza sono sani, non sono necessariamente pronti dopo 2-3 giorni di
vita ad essere dimessi. Si è visto che la morbidità neonatale aumenta nei neonati LP allattati al seno, dimessi
precocemente dall’ospedale.
La dimissione deve avvenire quando il neonato è in una situazione di aumento di peso consolidato e con
un'alimentazione ben avviata.
Quindi prima della dimissione è necessario che il neonato abbia mostrato un adeguato pattern di crescita, una
buona competenza nella suzione/allattamento, una stabilità nella termoregolazione e nei parametri cardiorespiratori.
I neonati LP devono essere dimessi dall’ospedale con un appuntamento (entro 2-3 giorni dalla dimissione)
presso il loro consultorio di zona, dal Pediatra curante o, laddove presente, da un ambulatorio
dell’allattamento per la valutazione del peso, dell’alimentazione e dell’ittero. Ad alcune mamme può essere
consigliato di continuare a tirare il latte fin quando non sia stata dimostrata un’alimentazione adeguata.
Deve essere intrapresa, come per i neonati a termine, una supplementazione con vitamina D (in quantità non
inferiore alle 400 UI); eventuale vitamina K in base al tipo di latte assunto al momento della dimissione.
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Letture consigliate
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WA: A recommendation for the definition of "late preterm" (near-term) and the birth weightgestational age classification system. Semin Perinat 2006;30:2
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term and preterm pregnancies”. Arch Gynecol Obstet 2010 Apr
56
APPROCCIO ALLE MALATTIE METABOLICHE AD INSORGENZA NEONATALE
Dr. Marco Spada
Clinica Pediatrica, Università di Torino
Ospedale Infantile Regina Margherita
AOU Città della Salute e della Scienza di Torino
Le malattie metaboliche ereditarie con le oltre 300 differenti patologie descritte costituiscono uno dei capitoli più
vasti della moderna pediatria. E’ importante ricordare che da questa disciplina nasce il concetto e la pratica dello
screening neonatale di massa con l’insuperabile modello della fenilchetonuria, si sviluppa la dietoterapia delle
malattie pediatriche, prende avvio la terapia enzimatica sostitutiva che ha permesso di curare le prime malattie
genetiche su base eziopatogenetica.
L’identificazione delle malattie metaboliche ereditarie ad esordio precoce rappresenta una delle sfide più
complesse per il neonatologo sia per gli immediati risvolti terapeutici che possono portare alla prevenzione di
danni cerebrali o d’organo sia per gli importanti aspetti di counselling genetico che derivano da una diagnosi
corretta di una malattia metabolica.
Ai fini di un orientamento eziologico più agevole, le malattie metaboliche ad esordio neonatale possono essere
ricondotte a 6 sindromi cliniche principali:
1) le encefalopatie acute senza intervallo libero, già evidenti alla nascita o a poche ore dalla nascita,
2) le encefalopatie acute con intervallo libero, caratterizzate da un esordio clinico dopo le prime 24-48 ore
di vita,
3) le epatopatia acute neonatali,
4) le ipoglicemie neonatali,
5) le cardiomiopatie e le turbe del ritmo neonatali,
6) l’idrope feto-neonatale non-immune.
In ognuno di questi contesti clinici il neonatologo deve sempre considerare in diagnostica differenziale l’ipotesi
di una malattia metabolica ereditaria e ogni neonato “critico” in attesa di un inquadramento eziologico definitivo
deve essere sottoposto immediatamente alle indagini metaboliche di primo e secondo livello.
Riteniamo mandatorio effettuare in ogni sospetto clinico:
1) Esami di primo livello presso laboratorio dell’urgenza e/o al letto del paziente :
a) emogasanalisi
b) ammoniemia
c) glicemia
d) INR
e) Ricerca rapida chetoni nelle urine
f) Ricerca immediata eventuale odore anomalo delle urine
2) Esami specifici di secondo livello:
a) Aminoacidi plasmatici
b) Acilcarnitine su spot di sangue
c) Acidi organici urinari
Il bilancio biologico diagnostico dovrà comunque essere ultimato con la determinazioni di altri metaboliti
specifici, a seconda del contesto clinico.
Il rapido inquadramento clinico-biologico permetterà nella maggior parte delle situazioni di poter dare avvio alla
strategia terapeutica più appropriata.
57
TRATTAMENTO NON FARMACOLOGICO DEL DOLORE NEL NEONATO
Roberto Antonucci1, Luca Antonucci2
1
Unità Operativa Complessa di Nido, Neonatologia e Pediatria, P.O. “Nostra Signora di Bonaria”, San Gavino
Monreale, ASL 6 Sanluri
2
Studente, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Cagliari
Dolore nel neonato
Il dolore è stato definito “un’esperienza sensoriale o emozionale sgradevole associata ad un reale o potenziale
danno tissutale”.
La sensazione di dolore può essere causata da stimoli meccanici, termici o chimici. Gli stimoli lesivi applicati
sulla cute o sui tessuti attivano particolari recettori somatosensitivi, detti nocicettori, nei quali si generano dei
segnali che vengono poi trasmessi al SNC attraverso vie nervose afferenti. Il SNC è capace di modulare i segnali
nocicettivi provenienti dalla periferia, e quindi la risposta al dolore, tramite l’attivazione di vie discendenti
inibitorie.
Diversi neurotrasmettitori sono coinvolti nella percezione del dolore. Il principale tra essi è rappresentato dalla
Sostanza P, che è localizzata a livello della prima sinapsi dei neuroni sensoriali delle corna dorsali del midollo
spinale, e viene rilasciata elettivamente in risposta agli stimoli nocicettivi. Un ruolo rilevante è svolto anche da
altri neurotrasmettitori, peptidici (oppiacei endogeni) e non peptidici (serotonina, noradrenalina ecc.).
Studi di neurofisiologia hanno dimostrato che il neonato possiede tutte le competenze anatomo-funzionali
necessarie per percepire, condurre e decodificare lo stimolo doloroso. La trasmissione dell’impulso nocicettivo
nel neonato avviene prevalentemente attraverso le fibre amieliniche C responsabili del dolore “secondario”, ossia
il dolore di tipo lento, sordo, diffuso e duraturo.
Nei neonati, ed in particolare nei prematuri, i sistemi di controllo sulla trasmissione dello stimolo doloroso sono
immaturi sia a livello spinale che sopra-spinale, da cui l’accentuata sensibilità al dolore presente in età neonatale.
Uno stimolo doloroso può evocare risposte fisiologiche, biochimiche e comportamentali. Le risposte
fisiologiche, conseguenti ad una stimolazione simpatica globale, interessano l’apparato cardiovascolare
(tachicardia, fluttuazioni della pressione arteriosa, ridotto flusso ematico periferico e variazioni del colorito
cutaneo) ed altri apparati (variazioni della frequenza respiratoria, riduzione della SaO2, aumento della pressione
intra-cranica, sudorazione palmare, nausea, vomito, midriasi).
Le risposte biochimiche ad uno stimolo doloroso consistono essenzialmente in un’aumentata increzione di alcuni
ormoni (Cortisolo, Epinefrina, Norepinefrina e GH), in una ridotta increzione di altri ormoni (Prolattina e
Insulina) e nell’attivazione del catabolismo proteico.
Tra le principali risposte comportamentali al dolore vi sono l’aumentata attività della muscolatura mimica
facciale, il pianto, l’aumento dei movimenti corporei, l’irrequietezza/insonnia ed improvvise variazioni dello
stato comportamentale.
Il neonato può provare diversi tipi di esperienze dolorose: dolore da manovre assistenziali, esame clinico o
manipolazioni (pretermine); dolore acuto, procedurale (puntura del tallone, venipuntura, puntura lombare ecc.);
dolore post-operatorio; dolore secondario ad alcune patologie (NEC, meningite, osteomielite); dolore associato
alla ventilazione meccanica; iperalgesia prolungata a seguito di stimoli dolorosi acuti e ripetuti.
I neonati ricoverati in Unità di Terapia Intensiva Neonatale (UTIN) sono quelli più frequentemente sottoposti a
procedure dolorose. Nello studio di Barker & Rutter [1], ogni neonato in UTIN è stato sottoposto mediamente a
61 procedure (punture del tallone nel 56% dei casi), la maggior parte delle quali eseguite nella prima settimana
di vita.
Nel neonato sottoposto a procedure potenzialmente dolorose o a trattamenti cronicamente dolorosi, oppure
affetto da condizioni patologiche come la NEC, dovrebbe essere eseguita una valutazione del dolore con appositi
strumenti (scale del dolore). Quantificare il dolore con tali strumenti consente infatti di controllare l’efficacia
degli interventi adottati (comportamentali, ambientali e farmacologici) e di modulare questi ultimi in funzione
delle necessità del paziente. Le scale del dolore più utilizzate nel neonato (Premature Infant Pain Profile,
Neonatal Facial Coding Scale, Neonatal Infant Pain Scale e CRIES Score) si basano su differenti combinazioni
di indicatori fisiologici, biochimici e comportamentali.
Dolore in epoca neonatale e sviluppo neuro comportamentale
I dati della letteratura indicano che il dolore sperimentato in epoca neonatale, in special modo dai neonati
prematuri, ha effetti a lungo termine.
Neonati sottoposti a cure intensive tra 28 e 32 sett. di età postconcezionale (PC) dimostrano, dopo puntura del
tallone, una ridotta risposta comportamentale ed un’aumentata risposta cardiovascolare rispetto ai controlli nati a
32 sett. di gestazione [2]. In neonati di peso molto basso alla nascita (VLBW), i più significativi fattori associati
ad un’alterata (attenuata) reattività comportamentale ed autonomica al dolore, a 32 sett. di età PC, sono un
maggior numero di precedenti procedure invasive e l’età gestazionale alla nascita; al contrario, la precedente
somministrazione di morfina si associa ad una risposta “normalizzata” (aumentata) [3].
Hack et al. hanno documentato che i neonati di peso alla nascita < 750 gr. con SNC integro sono a rischio di
disfunzioni neuro-comportamentali e scarsa performance scolastica, e che un ruolo importante al riguardo è
svolto dalle esperienze sensoriali precoci sgradevoli [4]. Inoltre, all’età di 8-10 anni, i bambini nati pretermine
mostrano una maggiore reattività somatica di fronte a scene dolorose rispetto ai coetanei nati a termine [5].
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Adolescenti nati con un peso estremamente basso (ELBW) presentano maggiore morbilità e valutano la loro
qualità di vita, in termini di salute, come significativamente inferiore a quella dei teenagers di controllo [6]. Ex
neonati VLBW, valutati in epoca adolescenziale, dimostrano un maggior numero di tender points ed una più
bassa soglia degli stessi rispetto ai coetanei nati a termine [7].
Management del dolore in età neonatale
E’ oggi disponibile una serie di interventi, farmacologici e non farmacologici, i quali, se utilizzati
appropriatamente, consentono di attenuare e possibilmente eliminare le sensazioni dolorose e la sofferenza
causate nel neonato dagli stimoli più vari.
La terapia farmacologica del dolore è generalmente riservata ai neonati con dolore moderato-severo. Gli
oppiacei, e più precisamente la morfina, rappresentano la prima e più studiata opzione farmacologica. D’altro
canto, la ricerca su altri farmaci analgesici è scarsa [8]. L’efficacia di vari metodi non farmacologici per il
controllo del dolore è stata ampiamente studiata. Tuttavia, un approccio di ricerca sistematica ed evidenze
cumulative sono disponibili solo per il saccarosio orale [9]. La ricerca su altri metodi non farmacologici è
incoerente e più disorganica [10,11]. Nel 2011, una Cochrane review ha valutato l’efficacia degli interventi non
farmacologici (esclusi l’allattamento al seno, il saccarosio e la musicoterapia) per il trattamento del dolore acuto
procedurale in bambini di età da 0 a 3 anni. Sono stati analizzati 51 studi, per un totale di 3396 partecipanti. I
risultati dello studio indicano che alcuni interventi non farmacologici (in particolare la suzione non nutritiva, la
kangaroo care ed il swaddling/facilitated tucking) possono essere utilizzati per ridurre significativamente i
comportamenti associati a procedure acutamente dolorose, sia in neonati (pretermine e a termine) che in bambini
di età <3 anni [12].
Il principale motivo di preoccupazione nella ricerca sulla terapia del dolore sembra essere l’inadeguata
conoscenza riguardo agli aspetti della sicurezza dei differenti metodi impiegati, dato che gli studi si sono
focalizzati principalmente sull’efficacia di essi.
Nel 2008, la Società Italiana di Neonatologia [13] ha pubblicato delle Linee Guida per la prevenzione ed il
trattamento del dolore nel neonato, in cui sono stabilite le misure più efficaci per ciascuna procedura o
condizione responsabile di dolore. Più recentemente, il Gruppo di studio di Analgesia e Sedazione della Società
Italiana di Neonatologia [14] ha pubblicato Linee Guida, basate sull’evidenza e sulla pratica clinica, per la
prevenzione ed il controllo del dolore procedurale nel neonato.
Nella successiva sezione saranno discusse dettagliatamente le principali misure non farmacologiche attualmente
in uso per il controllo del dolore in età neonatale, mentre non verrà descritta in questa sede la terapia
farmacologica, la cui trattazione va oltre gli scopi del presente articolo.
Misure non farmacologiche per il controllo del dolore
Prevenire, limitare o evitare gli stimoli che possono essere percepiti come nocivi rappresenta il modo più
efficace per trattare il dolore. Prima di ogni test diagnostico su sangue o di ogni terapia invasiva ci si dovrebbe
domandare: “è realmente necessario?”
Numerose misure non farmacologiche sono oggi disponibili per attenuare il dolore nel neonato (tab. 1). Esse
andrebbero ad accentuare l’attività endogena delle vie inibitorie discendenti, modulando così la risposta al dolore
attraverso variazioni nell’attenzione e ridotta trasmissione del dolore. Le misure non farmacologiche sono facili
da somministrare al letto del paziente, hanno minimi effetti avversi e non richiedono monitoraggio intensivo.
Tuttavia, da sole, non sono sufficienti ad alleviare il dolore acuto, se di grado moderato-severo; in tal caso, esse
possono essere utilizzate come misure complementari alla terapia farmacologica.
Tab. 1.
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Principali misure non farmacologiche per il controllo del dolore nel neonato
Interventi ambientali
Posizionamento
Fasciatura (swaddling)
Rannicchiamento facilitato (facilitated tucking)
Saturazione sensoriale
Musicoterapia
Kangaroo care
Allattamento al seno
Suzione non nutritiva (succhiotto, tettarella)
Soluzioni dolci per os (Saccarosio o Glucosio)
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Interventi ambientali
Alcuni interventi ambientali possono essere particolarmente utili per prevenire o attenuare il dolore nel neonato.
Tra essi vi sono la limitazione delle procedure dolorose o stressanti, il raggruppamento delle attività assistenziali
infermieristiche, il rispetto dei periodi di riposo del paziente e la delicata manipolazione di esso. Inoltre, è utile
ridurre, per quanto possibile, l’esposizione del paziente a luci brillanti e/o rumori intensi.
Posizionamento
Il posizionamento è un fattore ritenuto capace di modificare la percezione del dolore nel neonato, fornendo a
quest’ultimo confini fisici e, nel contempo, mantenendo una posizione flessa simile a quella assunta in utero. La
stimolazione termica e tattile fornita dal posizionamento può modificare il meccanismo del “gate control” e
quindi alterare la trasmissione del dolore [15].
Fasciatura (swaddling)
La fasciatura è una misura utilizzata in neonati e lattanti, e finalizzata al loro comfort. Una coperta o un lenzuolo
vengono avvolti strettamente intorno al neonato per limitare il movimento delle sue estremità superiori ed
inferiori. La fasciatura è stata usata tradizionalmente per aiutare il neonato a mantenere stabile la temperatura
corporea, per fornirgli una sensazione di sicurezza o per tranquillizzarlo quando piange, consentendo alle sue
mani un facile accesso per la suzione e l’auto-consolazione. E’ stato documentato che, nei neonati a termine, la
fasciatura induce il sonno, riduce la frequenza cardiaca e promuove la regolarità del respiro in assenza di
stimolazioni esterne [16]. Si è ipotizzato che gli effetti calmanti della fasciatura derivino dalla sensazione di
contenimento che essa induce, mimando l’analoga sensazione che i feti sperimentano in utero [17]; tali effetti
possono essere importanti per il neonato che sperimenta il dolore procedurale.
Rannicchiamento facilitato (facilitated tucking)
E’ una tecnica che include sia il contatto che la posizione [17-19], ed è finalizzata a migliorare il comfort del
neonato. Tale tecnica può essere eseguita dall’infermiera o può essere insegnata al genitore, per favorire il
coinvolgimento della famiglia nella “care” del neonato [20]. L’infermiera o il genitore tiene il neonato in
posizione laterale, flessa (simil-fetale), ponendo una mano sulla testa del neonato e l’altra sui suoi piedi [19].
Questa postura, ottenuta sostenendo il corpo del neonato, può aumentare la sua capacità di controllare il dolore.
Inoltre, il contatto cutaneo ed il sostegno posturale, applicati simultaneamente, possono avere un effetto
sinergico nell’alleviare il dolore procedurale [20]. Alcuni studi hanno dimostrato che il facilitated tucking
allevia il dolore durante la puntura del tallone [17,18] e dopo aspirazione endotracheale [19] nei neonati
pretermine. Il facilitated tucking, inoltre, riduce il tempo di perturbazione del sonno ed i cambiamenti di stato del
sonno durante i 15 minuti successivi alla puntura del tallone, se confrontato con la normale assistenza
infermieristica di routine senza tucking [18].
Saturazione sensoriale
La saturazione sensoriale è una metodica strutturata su basi neurofisiologiche, sperimentata su nati a termine e
pretermine. Essa si basa sul presupposto che il cervello è in grado di “filtrare” gli stimoli sensoriali provenienti
dalla periferia (“gate control system”). Pertanto, se adeguatamente stimolati, gli organi di senso possono
“saturare” i recettori centrali causando un ingorgo sensoriale che esclude ulteriori input, e specificamente lo
stimolo nocicettivo.
Nel 2001, Bellieni et al. [21] studiarono l’effetto della saturazione sensoriale (combinazione di varie modalità
sensoriali) nel ridurre gli score del dolore in neonati pretermine, mettendo a confronto tale metodica con nessun
trattamento, con glucosio al 10% per os, con la suzione e con la combinazione di suzione e glucosio. Secondo la
definizione di saturazione sensoriale fornita dagli stessi autori, vennero attuate simultaneamente le seguenti
misure: il neonato veniva collocato in posizione flessa con gli arti portati verso la linea mediana, mentre gli si
parlava faccia a faccia, gli si massaggiava la faccia e la schiena con mani profumate di olio per neonati, e gli si
somministrava per os glucosio al 10%. Tali stimolazioni sensoriali annullarono quasi completamente il dolore. In
uno studio successivo, gli stessi autori presero in esame l’uso del glucosio al 33% in combinazione con la
saturazione sensoriale su neonati a termine, ottenendo una sostanziale cancellazione della risposta al dolore [22].
Musicoterapia
Un altro intervento utilizzato per dare sollievo ai neonati in NICU è la musica. La musicoterapia è un intervento
globale impiegato per modificare l’ambiente intorno al neonato piuttosto che focalizzarsi su uno specifico fattore
stressante. La musicoterapia in NICU viene usata per mascherare stimoli ambientali dannosi come luci brillanti e
suoni intensi, e allo stesso tempo per confortare i neonati attraverso la modulazione del loro stato
comportamentale [23]. Tale tecnica può avvalersi di suoni intrauterini, ninne nanne, musica strumentale, musica
vocale, o di una combinazione di essi.
Kangaroo care
La kangaroo care (KC), detta anche contatto “pelle a pelle”, è stata usata per la prima volta nel 1979 come
strumento per fornire calore a neonati di basso peso alla nascita [24]. Questa tecnica è ora utilizzata per la
promozione del bonding madre-bambino e dell’allattamento al seno, per migliorare il controllo della temperatura
e per ridurre il dolore procedurale. Il neonato, coperto solo dal pannolino e da una cuffietta, viene posto prono tra
60
i seni della madre, in posizione verticale (petto contro petto), e fissato con una fascia al torso nudo materno.
Questo posizionamento fornisce il massimo contatto “pelle a pelle” tra genitore e bambino [25]. La KC fornisce
al neonato stimolazioni multisensoriali (emozionale, tattile, olfattiva, uditiva, visiva e termica), che si ipotizza
modulino ed inibiscano la percezione dolorosa, riducendo la risposta del neonato agli stimoli dolorosi [26]. La
KC è un efficace metodo per l’attenuazione del dolore nei neonati pretermine durante la puntura del tallone
[26,27]. La riduzione del dolore è più consistente nei parametri comportamentali che in quelli fisiologici [24,28].
Allattamento al seno
L’allattamento al seno (AS) aggiunge alla KC due potenziali componenti di attenuazione del dolore: latte e
suzione. In neonati a termine, l’AS si è dimostrato capace di attenuare sia le componenti comportamentali che
quelle fisiologiche del dolore procedurale, se confrontato con l’holding, il posizionamento, il succhiotto, il
placebo o nessun intervento. In alcuni studi, la somministrazione di una soluzione dolce ha mostrato un’efficacia
simile a quella dell’AS nel ridurre il dolore [29,30]. In un altro studio, l’effetto dell’AS è stato perfino maggiore
di quello del saccarosio orale, quando somministrato nel 3° giorno post-natale [31]. Il trial randomizzato
controllato di Leite et al. [30] suggerisce che l’effetto dell’intervento (AS) è correlato alla durata, alla dose e alla
frequenza della suzione. Va rilevato che tutti gli studi citati sono stati condotti su neonati a termine, e ciò è
comprensibile considerando le problematiche connesse all’AS nei neonati pretermine.
Una recente Cochrane Review sull’argomento conclude che, se disponibili, l’AS o il latte materno (LM)
dovrebbero essere usati per attenuare il dolore procedurale in neonati sottoposti a singole procedure dolorose,
essendo da preferire a placebo, posizionamento o nessun intervento. Inoltre, secondo gli autori, la
somministrazione di glucosio/saccarosio ha un’efficacia analgesica simile a quella dell’allattamento al seno [32].
A tutt’oggi, l’efficacia del LM sul dolore procedurale nei neonati pretermine è stata valutata solo in un limitato
numero di studi e, pertanto, sarebbe auspicabile che anche tale popolazione neonatale venisse ulteriormente
indagata al riguardo.
Suzione non nutritiva
La suzione non nutritiva (NNS), evocabile posizionando un succhiotto in bocca al neonato, può essere utilizzata
come tecnica analgesica non farmacologica. La suzione è ritenuta capace di indurre una sensazione di calma nel
neonato [33]. L’uso del succhiotto si è dimostrato in grado di ridurre efficacemente il distress comportamentale e
fisiologico in neonati pretermine durante la puntura del tallone [33-35]. Inoltre, nei neonati pretermine, l’NNS
non sembra avere alcun effetto negativo a breve termine [36].
Gli effetti dell’NNS non sembrano essere mediati dalle vie oppioidi poiché essi non regrediscono col naloxone, e
perché l’effetto analgesico cessa una volta che la suzione termina [37].
L’uso del succhiotto ha il vantaggio di poter essere facilmente combinato con l’uso di una soluzione dolce per
os. Associando le 2 tecniche si ottiene un effetto sinergico, con una riduzione del dolore superiore a quella
indotta singolarmente dall’una o dall’altra tecnica [33,37]. Tuttavia, l’effetto sinergico richiede una suzione
frequente ed intensa, che talora è assente nei neonati pretermine [38,39].
Saccarosio per os
Da molti anni è noto che le sostanze dolci hanno effetti analgesici e calmanti sul neonato. L’uso del saccarosio
per os rappresenta l’intervento sul dolore più studiato in Neonatologia. I primi trials che hanno valutato gli
effetti di questa sostanza nel neonato risalgono alla fine degli anni ’80. A tutt’oggi, oltre 100 trials randomizzati
e controllati hanno studiato gli effetti analgesici e calmanti del saccarosio nel neonato [40]. Nel 2004, una prima
Cochrane review sull’argomento ha evidenziato l’efficacia del saccarosio orale nel ridurre significativamente le
risposte dolorose indotte dalle comuni procedure assistenziali (ad es. puntura del tallone e venipuntura) in
neonati e piccoli lattanti. In particolare, i neonati trattati con una soluzione di saccarosio prima di una procedura
dolorosa presentano significative riduzioni del pianto, delle peculiari espressioni mimiche del volto (grimacing),
della frequenza cardiaca, e dei punteggi che quantificano l’intensità del dolore [41]. L’efficacia del saccarosio
orale nel ridurre il dolore procedurale nel neonato è stata successivamente confermata da due review
sistematiche [42,43] e da una metanalisi [44].
Recentemente, Slater et al. [45] hanno studiato l’attività del cervello e del midollo spinale dopo una procedura
dolorosa acuta, in neonati trattati con saccarosio per os. In questo studio, il saccarosio non ha influenzato
significativamente l’attività nei circuiti nocicettivi cerebrali o midollari dei neonati, benchè esso abbia ridotto il
comportamento doloroso di questi ultimi. Sulla base dei risultati ottenuti, gli Autori si interrogano se il
saccarosio sia davvero un efficace analgesico oppure attenui soltanto le risposte comportamentali al dolore.
L’effetto analgesico del saccarosio raggiunge un picco circa 2 minuti dopo la somministrazione per os e dura
diversi minuti. Inoltre, tale effetto si modifica con l’età: è evidente nel periodo neonatale, attenuandosi poi
progressivamente fino a scomparire a 4-6 mesi di vita.
Il meccanismo che sta alla base dell’analgesia indotta dal saccarosio nel neonato non è del tutto chiarito: il senso
del gusto è coinvolto in tale meccanismo, ma un ruolo chiave sembra essere svolto dall’attivazione del sistema
oppioide endogeno (rilascio di beta-endorfine).
L’efficacia del saccarosio orale nel trattamento del dolore procedurale neonatale è ben documentata per la
puntura del tallone e la venipuntura. Tuttavia, il suo uso a scopo analgesico è stato proposto anche per altre
procedure quali aspirazione, inserimento di un sondino nasogastrico o orogastrico, iniezione intramuscolare o
sottocutanea, inserimento di una linea venosa, esame oculare e cambio di medicazione [46]. Inoltre, il saccarosio
61
rappresenta un’efficace ausilio alle misure di analgesia farmacologica durante procedure di maggiore invasività
[46].
Per l’analgesia procedurale, si utilizza generalmente un volume variabile da 0,1 a 2 mL (a seconda dell’età
gestazionale del neonato) di una soluzione di saccarosio al 24%. La soluzione può essere somministrata per via
orale con diverse modalità: (a) sulla lingua (con siringa); (b) in bocca (con siringa), stimolando poi la suzione
non nutritiva con un succhiotto; (c) facendo succhiare un succhiotto precedentemente immerso in una soluzione
di saccarosio.
A tutt’oggi, il saccarosio orale sembra essere sicuro ed efficace nell’attenuare il dolore conseguente a singole
procedure. Tuttavia, si rendono necessarie ulteriori ricerche per stabilire l’effetto di ripetute somministrazioni di
saccarosio sugli “outcomes” immediati e a lungo termine, specie nei neonati con estrema prematurità.
Un trial randomizzato, controllato, in doppio cieco, di Johnston et al. [47] ha studiato gli outcomes
neuroevolutivi in neonati di età gestazionale <31 settimane, trattati per os con saccarosio a scopo analgesico
(analgesia procedurale). I peggiori scores di outcome neuroevolutivo sono stati osservati nei neonati che avevano
ricevuto un maggior numero di dosi di saccarosio. Un’analisi secondaria dei dati ottenuti, condotta
successivamente dagli stessi autori, ha documentato che i neonati a maggior rischio di scores neuroevolutivi
peggiori erano quelli che avevano ricevuto più di 10 dosi nelle 24 ore [48].
Preoccupazioni in merito agli effetti dell’uso prolungato di saccarosio sugli outcomes neuroevolutivi sono state
espresse anche da Holsti & Grunau [49], i quali suggeriscono che la regolazione della dopamina possa essere
disturbata dall’assunzione di dosi ripetute di saccarosio al 24%, con conseguente interferenza con lo sviluppo
motorio e dell’attenzione.
Conclusioni
La falsa credenza che il neonato fosse incapace di percepire il dolore ha fatto sì che quest’ultimo sia stato a
lungo sottovalutato nell’assistenza in ambito neonatale. E’ invece ben dimostrato che il neonato possiede tutte le
competenze anatomo-funzionali necessarie per percepire il dolore, e che il dolore sperimentato in età neonatale,
specie dai prematuri, può avere effetti negativi a lungo termine.
Il dolore procedurale è la principale fonte di dolore nei neonati pretermine o in quelli affetti da patologie. Tali
neonati vengono sottoposti a numerose punture del tallone, aspirazioni tracheali, punture venose e arteriose,
intubazioni tracheali ed introduzione di sondini gastrici. L’uso di scale standardizzate per la valutazione del
dolore e l’adozione di misure per la prevenzione ed il trattamento di esso rappresentano quindi vere priorità
assistenziali in Neonatologia. Ciononostante, la consapevolezza del personale sanitario riguardo alle
problematiche inerenti il dolore nel neonato è ancor oggi limitata. Una buona pratica medica ed una corretta
condotta sul piano etico richiedono che tutte le procedure dolorose non essenziali vengano evitate ove possibile e
che, laddove siano clinicamente indicate delle procedure invasive, si riduca il dolore e lo stress da esse indotti,
attraverso l’impiego di idonee misure farmacologiche e non.
Diversi interventi non farmacologici sono efficaci nel ridurre il dolore procedurale nel neonato, e offrono alcuni
vantaggi quali semplicità, accessibilità, facile impiego e necessità di un minimo dispendio di fatica e di tempo;
inoltre, essi consentono di ridurre, se non annullare, il ricorso ai farmaci analgesici. Le numerose misure non
farmacologiche attualmente disponibili per l’uso neonatale comprendono interventi ambientali, swaddling,
facilitated tucking, saturazione sensoriale, kangaroo care, allattamento al seno, suzione non nutritiva e soluzioni
dolci per os. Tra tali misure, il saccarosio orale costituisce uno degli interventi di scelta, essendosi dimostrato
sicuro ed efficace per attenuare il dolore derivante da singole procedure dolorose. Tuttavia, resta da chiarire
l’effetto di ripetute somministrazioni di saccarosio sugli outcomes immediati e a lungo termine, specie nei
neonati estremamente prematuri.
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64
COME NON FARSI "SFUGGIRE" UNA CARDIOPATIA CONGENITA NEL NEONATO.
Y.Sadou
Ospedale Giovanni XXIII - Bergamo
Introduzione
I difetti cardiaci congeniti non sono difetti anatomici fissi che appaiono subito dopo la nascita, ma un gruppo di
anomalie dinamiche che iniziano durante la vita fetale e si modificano in modo significativo durante lo sviluppo
postnatale. Questi cambiamenti sono il risultato delle trasformazioni che accadono nella circolazione dopo la
nascita.
Le condizioni circolatorie postnatali possono mascherare la presenza di difetti cardiaci gravi come quelli il cui
equilibrio emodinamico dipende dalla presenza di shunt fetale, e non appaiono fino a diversi giorni dopo la
nascita, una volta completata l'adattamento alla vita extra uterina.
L'esame clinico del neonato alla nascita è il metodo semplice e, resta essenziale per riconoscere la cardiopatia
prima della comparsa dei sintomi, ma un esame fisico normale nei primi giorni di vita non esclude un difetto
cardiaco grave.
Ritardo nella diagnosi, oltre ad aumentare la mortalità, è responsabile di morbilità e disabilità importante.
Epidemiologia
Prematurità e malformazioni cardiovascolari sono le due cause più comuni di mortalità neonatale, e i difetti
cardiaci congeniti sono responsabili di oltre la metà dei decessi.
La prevalenza delle cardiopatie congenite è stimata da vari studi da 5 a 12/1000 nati vivi e rappresenta fino a 130
su 1000 aborti spontanei o nati morti.
Diversi fattori di rischio materni sono riconosciuti come le infezioni (rosolia nel 35% dei casi, citomegalovirus,
herpes, coxsaskie), patologie materne (diabete, fenilchetonuria, malattie sistemiche come il lupus) e l'uso di
sostanze durante la gravidanza (alcool, anfetamine, idantoina, litio, trimetadone).
Le aberrazioni cromosomiche e sindromi monogeniche (mutazione di un singolo gene) sono all’origine di certe
cardiopatie. La percentuale varia secondo il tipo di malattia cardiaca: meno del 10% per la gran parte, ma può
raggiungere proporzioni maggiori in alcune malattie cardiache. (Tabella I e II)
65
Classificazione
La diversità dei difetti cardiaci è ampia a causa delle numerose combinazioni possibili che possono interessare
diverse strutture e segmenti del cuore (atri, ventricoli, pareti, grandi arterie, vene, valvole). Esistono diverse
classificazioni, ma nessuna è completa per soddisfare i diversi specialisti allo stesso tempo, in base all’approccio
scelto si può classificare secondo i meccanismi patogenetici (classificazione patogenetica), analisi segmentale
sequenziale (classificazione anatomica) o fisiologica (approcciò clinico)
Nella pratica clinica la classificazione fisiologica è quella più adatta per le sue implicazioni cliniche.
L’espressione clinica dei difetti cardiaci congeniti che si verificano nel periodo neonatale varia da forme lievi a
forme critiche. Sono considerati come cardiopatie critiche i difetti cardiaci che sono a rischio di vita per il
neonato e richiedono un intervento immediato, molto spesso si tratta di cardiopatie dotto-dipendente. La dottodipendenza è l'elemento chiave di molte malformazioni cardiache congenite a espressione neonatale. In queste
malformazioni il dotto arterioso è l'unico modo per mantenere la perfusione sistemica, polmonare o
entrambi (Tabella III).
Presentazione delle cardiopatie congenite
Quando le cardiopatie congenite sono classificate secondo il loro disturbo fisiologico, abbiamo tre grandi
categorie o presentazioni:
1.
Situazioni d’ipossiemia
a. ostruzione del ventricolo destro
b. ostruzione venosa polmonare
c. lesione mista
2.
Situazioni d’ipoperfusione sistemica
a. ostruzione sinistra
b. anomalia miocardica
3.
Situazioni di shunt sinistro-destro significativo che si sviluppa gradualmente con la caduta delle
resistenze vascolari polmonari
66
Tabella III. Classificazione funzionale delle cardiopatie congenite.
Diagnosi
La diagnosi di una malformazione cardiaca può essere fatta prima della comparsa dei sintomi (screening in caso
di presenza di altre malformazioni, anomalie cromosomiche) o in presenza dei seguenti segni:

soffio cardiaco

cianosi

riduzione della perfusione sistemica

tachipnea/distress respiratorio
Pertanto, l'esame clinico per la diagnosi di cardiopatia deve essere focalizzata su:

la colorazione cutanea in cerca di cianosi,

la palpazione dei polsi e l’analisi della circolazione periferica alla ricerca dei segni di
ipoperfusione sistemica,

la respirazione in cerca di un tachipnea,

l’auscultazione in cerca di soffi o rumori
Soffi
La prevalenza dei soffi nel neonato varia dallo 0,9% al 77,4%, poiché solo il 2% è innocente, la scoperta di un
soffio è spessa il primo segno di cardiopatia.
Anche se è molto difficile ascoltare un bambino che piange, respira forte e veloce, l’auscultazione cardiaca
rimane un momento cruciale durante la visita di ogni neonato, essa dà la possibilità di diagnosticare un’anomalia
cardiaca in anticipo. L'assenza di soffio non esclude una condizione cardiaca grave e l'intensità del soffio non è
correlata alla gravità della lesione.
La scoperta di un soffio dipende molto dall'abilità dell'esaminatore e della sua esperienza, ma anche dal
momento dell’auscultazione e della sua ripetizione, perché alcuni difetti cardiaci soffiano solo al momento del
verificarsi dei cambiamenti circolatori postnatali (caduta delle resistenze vascolari polmonari).
Una volta riconosciuto il soffio, è necessario differenziare quello patologico dall’innocente. Ci sono diverse
caratteristiche che permettono di differenziarli (Tabella IV).
67
Tabella IV. Caratteristiche differenziali dei soffi.
Il soffio patologico è l'espressione di un'anomalia anatomica ma non è sinonimo di significativo e la maggior
parte sono ascoltabile durante il primo mese di vita (fatta eccezione per il difetto inter-atriale).
Ci sono diversi focolai da ascoltare riguardanti le strutture cardiache sottostanti e sono indicativi di determinate
condizioni, ma tutto il torace deve essere ascoltato incluso il dorso e non dimenticare il cranio (soffio continuo in
caso di malformazione arterio-venosa cerebrale.)
L'unico soffio funzionale nel neonato alla nascita e quello prodotto dall’accelerazione fisiologica nei rami
polmonari, si tratta di un soffio sistolico di 1 - 3/6 d’intensità, a destra e a sinistra dalla base del torace (sottoclavicolare), spesso con irradiazione verso l’ascella e la schiena, che scompare durante i primi 6 mesi di vita. È
considerato anche come fisiologici nei primi 3 - 4 giorni, un soffio meso-olodiastolico di 2 - 3/6 alla base sinistra
(succlavia) in presenza di un dotto arterioso ancora pervio.
Riduzione della perfusione sistemica
La palpazione dei polsi
La palpazione dei polsi nel neonato e un atto fondamentale, questa fase dell’esame fisico visto la sua difficoltà
richiede gentilezza, perseveranza e pazienza, perché non rilevare un polso, può essere un segnale di allarme.
E' essenziale identificare e confrontare i polsi degli arti superiori (radiale, brachiale) con quelli degli arti inferiori
(femorale, pedidio, tibiale posteriore). Spesso nel neonato è più facile sentire il polso del piede rispetto a quello
femorale.
In più di rilevare il polso, la sua qualità deve essere attentamente osservata, in quanto riflette lo stato di
perfusione sistemica.
Le anomalie dei polsi sono (Fig 1):
a.
riduzione di tutti i polsi : in caso di collasso o stenosi valvolare aortica critica;
b.
riduzione / abolizione dei polsi negli arti inferiori: coartazione aortica, anomalie dell'arco aortico;
c.
accentuazione di tutti gli impulsi (polsi scoccante): furto diastolico (dotto arterioso pervio, tronco
arterioso comune, insufficienza aortica, finestra aorto-polmonare ..)
d.
accentuazione del polso carotideo e diminuzione degli altri polsi: tipico delle fistole arterio-venose
cerebrali.
Fig. 1. Anomalie dei polsi.
68
Da ricordare purtroppo che la presenza dei polsi agli arti inferiori non esclude una coartazione aortica o
un’ostruzione sistemica finche, il dotto arterioso rimane aperto.
Misurazione della pressione sanguigna.
La misurazione della pressione sanguigna (PA) è un complemento essenziale alla palpazione dei polsi, deve
interessare le quattro arti. Normalmente la pressione degli arti inferiori è leggermente superiore, se invece, c'è
una differenza (gradiente di pressione) di oltre il 15% tra la pressione arteriosa sistolica degli arti superiori
rispetto a quelli inferiori devi farci sospettare la presenza di una coartazione aorta.
La misurazione della pressione arteriosa serve anche a valutare la pressione differenziale (differenza tra sistolica
e diastolica). Normalmente la pressione differenziale è pari a 1/3 della pressione sistolica. Le variazioni di questa
in termini di aumento o diminuzione sono patologiche (Fig. 2).
Fig. 2. Variazione della pressione arteriosa sistemica differenziale.
Scompenso cardiaco / collasso
L’insufficienza cardiaca o scompenso cardiaco è l’incapacità del cuore a garantire e mantenere un’adeguata
perfusione e distribuzione di ossigeno ai tessuti.
Nel neonato questa condizione si verifica nei seguente situazione:

sovraccarico di volume: shunt sinistro-destro (compresi fistole arterio-venose), insufficienza valvolare,

sovraccarico di pressione: ostacolo all’eiezione sistemica (ostruzioni sinistre),

alterazione primaria della funzione miocardica (anomalie miocardiche),

la combinazione di questi fattori.
Quasi tutti i difetti cardiaci con flusso sistemico insufficiente (sovraccarico di pressione) accadono nella prima
settimana di vita, rispetto a quelli con sovraccarico di volume che si verificano spesso dopo la prima settimana
alla caduta delle resistenze vascolari polmonari (Tabella. V).
Tabella V. Età all’esordio dello scompenso/collasso secondo il tipo di cardiopatia.
Infatti, nelle cardiopatie con shunt sinistro-destro indipendentemente dal livello di comunicazione (tranne il
difetto inter-atriale), lo shunt è determinato da due fattori: la dimensione della comunicazione e la differenza di
resistenza tra il settore polmonare e sistemico.
Se il difetto settale è grande, il rapporto delle resistenze vascolari polmonari (RVP)/resistenze vascolari
sistemiche (RVS) determina la direzione e il volume dello shunt e in conseguenze le manifestazioni cliniche.
69
I sintomi dello scompenso cardiaco.
Nel neonato, la stagnazione o scarso accrescimento ponderale è uno dei segni non cardiologici importanti a
prendere in considerazione. E’ la conseguenza delle difficolta di alimentazione e dell’aumento dei bisogni
metabolici. Così come le infezioni respiratorie ricorrenti (la congestione polmonare aumenta la pressione nei
vasi e capillari polmonari creando una compressione delle vie aeree poco rigide a questa età).
Sospettare sempre uno scompenso cardiaco in un neonato che si stanca, suda (sulla fronte) durante i pasti e ha un
tirage intercostale. Va ricordato che la respirazione rapida per 5-10 min. al termine del pasto è normale, ma una
frequenza respiratoria superiore a 40 / min. a riposo non è normale.
L'esame fisico può rivelare:

tachipnea,

pallore, cute marezzata e grigiastra, polsi flebili, lento tempo di riempimento cutaneo, ipotensione,

osservare e palpare l’itto precordiale. E’ l’impulso cardiaco sistolico che solleva una superficie della
parete toracica in corrispondenza della punta cardiaca. Un precordium iperattivo è caratteristico di un
sovraccarico di volume (shunt sinistro-destro, insufficienza valvolare),

ritmo di galoppo,

epatomegalia,

presenza di un soffio, in caso di uno scompenso grave il soffio può scomparire, e diventare percepibile
solo dopo il recupero di una funzione normale

segni specifici secondo la causa, ad esempio assenza di polsi negli arti inferiori in caso di coartazione
dell'aorta.
Ricordate che tachipnea e tachicardia sono spesso i primi segni di uno scompenso cardiaco e devono fare sempre
parte della diagnosi differenziale di un distress respiratorio, asfissia o sepsi.
Cianosi
La cianosi è una colorazione blu della pelle e delle mucose per la presenza di più di 5 g / dl di emoglobina
deossigenato nella circolazione venosa periferica, è un segno fisico di grande rilevanza clinica quando è
presente.
Il suo riconoscimento dipende dall’acutezza e la capacità dell'osservatore, ma anche delle condizioni dell'esame,
è molto più difficile riconoscerla se è lieve, luce bassa o in bambini con pelle molto pigmentata.
Clinicamente la cianosi è riconoscibile quando la saturazione arteriosa di ossigeno (SaO2) è sotto 85%. Le
strutture che meglio esprimono la cianosi, sono quelli con poco tono vasocostrittore, rallentamento della
circolazione, come la punta della lingua, le gengive e la mucosa orale che non sono così influenzate dal colore o
dell’origine etnica.
E 'importante valutare il neonato non solo a riposo, ma anche durante i pasti o il pianto, condizioni che hanno più
probabilità di rivelare una cianosi centrale discreta.
Da solo l’ossimetro oculare (occhio nudo) non è sufficiente a rilevare la cianosi, perché la rivelazione stessa è
molto dipendente dalla concentrazione di emoglobina del soggetto.
In un neonato anemico la cianosi è clinicamente evidente all’occhio solo a desaturazione significativa (SaO2
bassa), a l'opposto di un neonato polyglobulico dove basta una lieve desaturazione per essere rilevabile ad
occhio nudo.
Infine, in tutti i casi in cui vi è dubbio sulla presenza di cianosi, è indispensabile utilizzare un saturimetro per
confermarla, esso consente la misurazione della saturazione di ossigeno dell'emoglobina nei capillari sanguigni,
definita come la saturazione pulsata di ossigeno (SpO2) è molto vicino alla SaO2.
Un SaO2 <95% non è mai normale in un neonato apparentemente sano dopo le prime sei ore di vita.
Una volta riconosciuta la cianosi clinicamente, è necessario controllare con il saturimetro di quale cianosi si
tratta, perché abbiamo tre tipi di cianosi:

cianosi periferica o acrocianosi: in questo caso la SaO2 è normale, la cianosi è limitata alle dita delle
mani e piedi, la lingua e le mucose sono normali.
Si tratta di un disturbo vasomotorio periferico accentuato con il freddo, la policitemia.

cianosi centrale: si tratta di una cianosi totale, la SaO2 è bassa.

cianosi differenziale: è una cianosi di origine centrale con una differenza di saturazione tra il tronco e la
parte inferiore del corpo, è limitata dalla posizione anatomica del dotto arterioso pervio. E da qui che
deriva l’espressione di SaO2 pre e post-dotto, clinicamente rappresentato dalla saturazione degli arti
superiori (SaO2 pre-duttale) e degli arti inferiori (SaO2 post-duttale). Ciò richiede di misurare
sistematicamente la saturazione ai quattro arti che normalmente si sovrappongono, la presenza di una
differenza è un elemento importante per la diagnosi:

SaO2 degli arti superiori più alta degli inferiori: riflette la presenza di un dotto aperto con
shunt destro sinistro in caso d’ipertensione arteriosa polmonare, coartazione aortica o
interruzione dell'arco aortico.

SaO2 degli arti superiori più bassa degli inferiori: situazione rara, definita anche cianosi
differenziale reverse, presente in caso di trasposizione delle grosse arterie (TGA con
ipertensione arteriosa polmonare o TGA con coartazione aortica o interruzione dell’arco
aortico.
70
Cause della cianosi
Del punto di visto fisiopatologico un neonato con cardiopatia congenita è cianotico per due motivi:

una miscela di sangue venoso ed arterioso con eiezione di sangue sistemico desaturato: sono le
cardiopatie cianogene con aumento del flusso polmonare. In questi casi molto spesso la SaO2 non è
troppo bassa, è quasi normale. Perciò, una SaO2 del 90% non esclude del tutto una cardiopatia
cianogena.

riduzione del flusso polmonare: sono le cardiopatie cianogene con ostruzione della via polmonare. Il
flusso polmonare è garantito dal dotto arterioso o da collaterali sistemiche-polmonare.
Diagnosi di una cardiopatia cianogena.
Una volta confermata la cianosi, il passo successivo è quello di differenziare la cianosi d’origine cardiaca dalle
altre cause.
Una vasta gamma di malattie può simulare una cardiopatia cianogena (cause respiratorie, metaboliche,
ematologiche, neurologiche ...), ma ciò che riproduce al meglio una cardiopatia sono le patologie polmonari, in
particolare quando cianosi e dispnea si associano.
Il modo di presentazione, presenza o assenza di distress respiratorio, sono gli elementi che ci possono guidare a
riconoscere la cardiopatia.
Secondo il modo di presentazione è possibile riconoscere una cianosi:

intermittente, più comune nei casi di disturbi neurologici (apnee)

continua: generalmente d’origine respiratorio o cardiaca

durante i pasti: fistola esofago-tracheale, reflusso gastroesofageo

improvvisa: pneumotorace

scompare al pianto: atresia delle coane

migliora al pianto: respiratoria o neurologica

aumenta al pianto: cardiologica
La presenza o l'assenza di distress respiratorio.
Generalmente la cianosi di una cardiopatia congenita è isolata, poca o nessuna difficoltà respiratoria. Siamo
davanti ad un neonato blu in modo immutabile, che non dà l'impressione di essere malato.
Tuttavia la presenza di distress respiratorio non è così discriminante per escludere una cardiopatia. Un terzo delle
cardiopatie cianogene è accompagnato da sintomi respiratori. Allo stesso modo, se la ritenzione di CO2 è di
solito presente nei casi di patologia polmonare, qualche grave cardiopatie cianogene possono avere una marcata
ipercapnia. Le difficoltà sorgono anche quando cardiopatia e patologia polmonare coesistono.
Test d’iperossia.
E' indicato come una prova per distinguere la cianosi cardiaca e respiratoria (polmonare o vascolare). Ogni
neonato cianotico deve essere sottoposto al test, consiste nel fare respirare il neonato per almeno 10 minuti con
una FiO2 del 100% e poi valutare il risultato misurando la PaO2 pre e post dotto arterioso. Il test è considerato
positivo se la PaO2 supera 150 mmHg e quindi la cianosi è d’origine respiratoria, è negativo se la PaO2 è
inferiore a 100 mmHg, in questo caso si tratta di una cardiopatia. E 'considerato inconcludente quando la PaO2 è
tra i 100 -120 mmHg.
Anche se spesso in pratica si utilizza il saturimetro, la stima transcutanea non è in alternativa precisa per
l’emogasanalisi (PaO2). Infatti, secondo la curva di dissociazione di ossiemoglobina, una SaO2 al 100% non
implica necessariamente una PaO2 normale, perché l'emoglobina è completamente satura di ossigeno quando la
PaO2 supera i 75 mmHg e quindi concludere erratamente ad un test di iperossia positivo. Comunque il
saturimetro rimane valido nel caso in cui la SaO2 non si normalizza con il test.
Interpretazione del test d’iperossia (Fig. 3).
Le cardiopatie cianogene hanno uno shunt fisso (sangue arterioso e venoso misto), che non consente alla PaO2
(SpO2) di aumentare con la somministrazione di O2, mentre in caso di patologia polmonare l’iperossia aumenta
la diffusione alveolo-capillare e l'ossigenazione del ritorno venoso polmonare, e di conseguenza la PaO2.
71
Fig. 3. Interpretazione del test d’iperossia.
Certamente il test d’iperossia è utile, ma ha alcune limitazioni, ci possono essere falsi positivi o negativi
(soprattutto se si considera la SaO2). In alcune cardiopatie cianogene l’O2 agisce come un modulatore delle
RVP, abbassandole aumenta il flusso polmonare e dunque mostrare un miglioramento della SaO2 (falso
positivo). Come ci possono essere falsi negativi nei casi di gravi malattie respiratorie in cui la cianosi persiste o
si modifica lievemente con una FiO2 del 100%.
Tuttavia, è con la combinazione di diversi parametri che si può arrivare alla diagnosi di una cianosi cardiaca
(Tabella V).
Tabella VI. Diagnosi differenziale tra cianosi respiratoria e cardiaca (* non sempre).
Conclusione.
La diagnosi delle cardiopatie in epoca neonatale è una prova difficile e spetta al pediatra sapere cogliere i primi
indizi di patologia.
Perché, una cardiopatia critica misconosciuta o diagnosticata tardivamente comporta un serio rischio di
mortalità, morbilità e handicap evitabili con una diagnosi precoce.
La diagnosi delle cardiopatie congenite richiede dunque un’attenta osservazione clinica e perspicacia nel valutare
l’obiettività cardiovascolare alla nascita, ma per escludere queste anomalie non è sufficiente il primo esame alla
nascita è necessario rivalutare il neonato dopo la sua dimissione dal nido. Sicuramente lo screening con il
saturimetro (pulsossimetria) per tutti neonati prima della dimissione può essere di aiuto.
72
ECOGRAFIA DELL'ENCEFALO, UTILE STRUMENTO NELLA DIAGNOSI DELLA PATOLOGIA
NEUROLOGICA: CASI CLINICI
Carlo Poggiani, Bruno Drera
U.O. di Neonatologia e Patologia Neonatale con T.I.
Istituti Ospitalieri di Cremona
L'ecografia transfontanellare rappresenta la metodica di imaging dell'encefalo di prima scelta nel neonato
pretermine e, sebbene con alcune limitazioni, nel neonato a termine in casi specifici.
Di routine l'esame ecografico viene eseguito tramite la fontanella anteriore che rimane aperta nei neonati a
termine fino a circa nove mesi di età, mentre nei prematuri e in quelli con un aumento della pressione
intracranica, la finestra acustica può rimanere aperta per periodi di tempo molto più lunghi. In casi particolari,
quando possibile, lo studio ecografico può essere portato a termine con successo insonando la fontanella
posteriore e la sutura squamosa. Per ottenere immagini che comprendano tutte le strutture analizzabili, è
necessario eseguire la scansione dell'encefalo in modo sequenziale in senso antero-posteriore nel piano coronale
e poi, sul piano sagittale, dalla linea mediana alle regioni più laterali, o viceversa (figura).
Tutti i nati pretermine dovrebbero essere sottoposti a indagine ecografica entro 24 ore di vita, o entro le prime 2
ore se compromessi, e successivamente in terza, settima, quattordicesima e ventottesima giornata di vita. A
completamento, nei gravi prematuri con un'età gestazionale inferiore a 28+6 è indicata una risonanza magnetica
dell'encefalo a 40 settimane di età gestazionale corretta.
Nei nati a termine l'ecografia dell'encefalo risulta necessaria in condizioni specifiche:
- in neonati con diagnosi prenatale di presunta anomalia cerebrale
- in caso di una condizione sindromica sospetta o accertata
- nel sospetto di infezione congenita (TORCH)
- in corso di infezione e/o sepsi
- nei neonati con Indice di Apgar inferiore a 7 nel 1° minuto
- nei neonati candidati a ipotermia con timing specifico
- in caso di convulsioni o anomalie del tracciato se sottoposti a EEG
- nei neonati che, indipendentemente dall'età gestazionale, abbiano avuto una RDS.
L'emorragia intracranica (ICH) è una delle principali cause di morbidità e mortalità nel neonato, soprattutto in
quello prematuro. L'ecografia ha dimostrato di avere un'ottima sensibilità e precisione nella rilevazione di ICH,
specialmente in quelle subependimali e intraventricolari. Inoltre, l'ecografia presenta i vantaggi della sicurezza
degli ultrasuoni e di poter essere eseguita in un'unità di terapia intensiva neonatale senza spostare il neonato (e le
apparecchiature di supporto vitale) in locali diversi dalla TIN.
Nel neonato prematuro l'ICH di solito si verifica entro i primi 3 giorni di vita. I fattori di rischio includono la
prematurità (meno di 32 settimane di gestazione), il basso peso alla nascita (meno di 1500 grammi), il sesso
73
(maschio: femmina - 2: 1), gravidanze multiple, trauma al momento del parto, travaglio prolungato, alterazioni
della coagulazione, pneumotorace, pervietà del dotto arterioso, e in generale fattori associati a un aumento o a
una diminuzione del flusso sanguigno intracerebrale. Dal punto di vista ecografico l'ICH è stata suddivisa in
quattro gradi.
La classificazione delle emorragie è quella di Papile, modificata (1).
Grado I
(incidenza sul totale delle emorragie 40%)
Emorragia della zona germinativa (GMH) con o senza
minima emorragia intraventricolare (IVH) (<10%)
Grado II
(incidenza 25%)
IVH con interessamento 10-50% area ventricolare
Grado III
(incidenza 20%)
IVH con interessamento > 50%
Grado III e annotazione separata (Grado IV)
(incidenza 15%)
Ecodensità periventricolari da infarto emorragico
La dilatazione ventricolare che si può presentare nel 35% dei neonati con emorragia si risolve spontaneamente
nel 65% dei casi, sebbene vada attentamente monitorata sia perchè può evolvere in un idrocefalo postemorragico
sia perchè può correlare con un aumentato rischio di deficit neuromotorio, neurosensoriale o di apprendimento.
Una delle manifestazioni del danno ipossico-ischemico nel neonato prematuro è la leucomalacia periventricolare,
conseguenza della necrosi della sostanza bianca profonda che di solito avviene all'angolo esterno dei corni
frontali dei ventricoli laterali e a livello delle radiazioni ottiche adiacenti al trigono. Il primo segno ecografico di
PVL è costituito da ecodensità nella materia bianca periventricolare bilateralmente. Queste alterazioni di solito si
sviluppano entro i primi 10 giorni di vita. In casi più severi, la PVL acquista un aspetto microcistico o con
lesioni cistiche più estese e diffuse.
L'ecografia cerebrale è l'esame di prima scelta nella conferma o nella ricerca di eventuali malformazioni
cerebrali, che possono essere suddivise in due grandi gruppi: sovratentoriali e sottotentoriali.
Tra le anomalie sovraentoriali della linea mediana la malformazione di più frequente riscontro è l'agenesia
completa o parziale del corpo calloso. Ecograficamente l'agenesia del corpo calloso è diagnosticata tramite segni
diretti (mancanza della banda sonolucente del corpo calloso con una disposizione radiale dei solchi cerebrali
intorno al tetto del terzo ventricolo) e indiretti, tra i quali la colpocefalia, l'obliterazione del cavum del setto
pellucido, l'elevazione e la dilatazione del 3° ventricolo e il decorso anomalo dell'arteria pericallosa. L'agenesia
del corpo calloso può essere isolata oppure associarsi ad altre malformazioni intra- o extra-cerebrali, ad
aneuploidie, malattie metaboliche o monogeniche.
Altre malformazioni sovratentoriali diagnosticabili sono l'oloprosencefalia, l'agenesia del setto pellucido, la
displasia setto-ottica, malformazioni artero-venose (la più frequente delle quali è la dilatazione aneurismatica
della Grande Vena di Galeno) e difetti della girazione. Fra questi, un esempio è la lissencefalia, un grave
disturbo della migrazione neuronale caratterizzato da circonvoluzioni corticali assenti (agiria) o diminuite
(pachigiria) e da una corteccia ispessita. Sono stati descritti diversi tipi di lissencefalia: isolata o associata a
malattie monogeniche, cromosomiche, distrofie muscolari, e malattie metaboliche (disordini dei perossisomi o
mitocondriali). Nella forma isolata il gene più spesso implicato è LIS1, responsabile della forma autosomica
recessiva, mentre il secondo gene più spesso in causa, doublecortina (DCX), è responsabile della forma Xlinked. Nel periodo neonatale il quadro clinico è caratterizzato da ipotonia, disturbi neuromotori, disturbi
dell'alimentazione e respiratori. Le crisi epilettiche sono presenti in oltre il 90% dei bambini con lissencefalia,
con una insorgenza nei primi sei mesi di vita in circa il 75% dei casi.
Le malformazioni sottotentoriali della fossa cranica posteriore comprendono la malformazione di Chiari, di
Dandy-Walker, l'ipoplasia cerebellare e l'ipoplasia pontocerebellare.
Ancora, l'ETF può essere di grande aiuto nell'iter diagnostico nel sospetto clinico di malattie neurocutanee
(anomalie cerebrali associate a ipomelanosi di Ito o alle lesioni corticali caratteristiche della sclerosi tuberosa) o
nel sospetto di disordini congeniti del metabolismo. In particolare, si possono riscontrare segni ecografici
altamente suggestivi, se non addirittura patognomici, che possono agevolare il processo diagnostico come nel
caso della malattia di Canavan, della sindrome di Zellweger o di altre leucodistrofie.
L'ETF è di grande valore per la valutazione delle infezioni intracraniche nel neonato. Fra queste la meningite
batterica neonatale è una malattia grave, spesso associata a danni neurologici permanenti nonostante la terapia
antibiotica precoce. Circa il 25% dei neonati con sepsi batterica, sostenuta più frequentemente da Streptococcus
Agalactiae ed E. Coli, può sviluppare meningoencefalite. Lo spettro dei reperti ecografici è legato
all'infiammazione, all'edema e alla vasculite comuni a tutte le infezioni cerebrali e comprende: iperecogenicità
dei solchi, raccolte fluide extra-assiali, idrocefalo, ventricolite, anormale ecogenicità parenchimale, ascessi
intraparenchimali, ed encefalomalacia.
74
Le infezioni intracraniche perinatali possono anche essere secondarie ad agenti virali o protozoari. Queste
infezioni, che possono essere acquisite in utero, durante il parto, o nelle prime settimane di vita, sono più
frequentemente riconducibili a infezioni del complesso TORCH come il Toxoplasma gondii, rosolia,
citomegalovirus e herpes simplex virus di tipo 2. Se acquisita in utero, l'infezione di uno di questi organismi può
causare errori di sviluppo e lesioni distruttive nel cervello.
Bibliografia
Brain lesions in preterm infants: initial diagnosis and follow up. Argyropoulou MI, Pediatr Radiol (2010)
40:811-818
Imaging the premature brain: ultrasound or MRI ?. de Vries LS, Benders MJ, Neuroradiology (2013) 55:S13S22
Neonatal neurosonography. Riccabona M, Eur J Radiol (2014) 83:1495-506
Cranial ultrasonography in neonates: role and limitations. van Wezel-Meijler G, Steggerda SJ, Leijser LM,
Semin Perinatol (2010) 34:28-38.
75
LETTURA MAGISTRALE
“CHRONIC COUGH IN CHILDREN”
Giovedì, 13 novembre 2014
19,00 – 19,30
Relatore: A.B. Chang
76
CHRONIC COUGH IN CHILDREN
Anne B. Chang
Queensland Children’s Respiratory Centre, Royal Children’s Hospital, Brisbane, Queensland, and Menzies
School of Health Research, Darwin, Northern Territory, Australia.
Summary points
 The paradigm of managing cough in children differs from that in adults.1
 Reasons that underpin this rationale include the known physiological differences that influence etiological
factors, outcome measures and investigation tests of children compared to adults. 2
 The constructs used in children are overlapping and based on duration of cough, likelihood of an underlying
cause being present (specific and non-specific cough) and cough at is recognizable from its characteristics. 3
 Asthma is a common cough of chronic cough in adults. In children the evidence that most non-specific
cough (ie dry cough without any other symptoms) in children is not asthma is reflected in clinical and
community epidemiological studies and randomized controlled trials. 4
 However, a number of children with chronic cough do have asthma but these children have additional
symptoms that are revealed only with detailed history taking.
 Clinicians should be cognizant of the ‘time to response’.5 If any medications are used, it should be
introduced on a trial basis with early review (2-4 weeks) and cessation of medication if the cough does not
respond to asthma therapy. Failure to do so will result in escalation of medication dose with the risk of
significant side effects.
 A recently completed multi-centre randomized controlled trial6 involving 272 children with chronic cough
(>4 weeks duration) in 5 major Australian centers has shown that management of children with chronic
cough, in accordance with a standardized clinical algorithm (compared to usual treatment) improves clinical
outcomes. A standardized clinical algorithm can be feasibly used in a multi-centre setting.
 Newly appreciated important contributors to chronic cough in children include protracted bacterial
bronchitis7 with or without tracheomalacia.8
References
1. Chang AB. Therapy for cough: where does it fall short? Expert Rev Respir Med 2011;5:503-13.
2. Chang AB. Pediatric Cough: Children Are Not Miniature Adults. Lung 2010;188:S33-40.
3. Chang AB, Landau LI, van Asperen PP, et al. The Thoracic Society of Australia and New Zealand. Position
statement. Cough in children: definitions and clinical evaluation. Med J Aust 2006;184:398-403.
4. Weinberger M, Abu-Hasan M. Pseudo-asthma: When Cough, Wheezing, and Dyspnea Are Not Asthma.
Pediatrics 2007;120:855-64.
5. Chang AB, Glomb WB. Guidelines for evaluating chronic cough in pediatrics: ACCP Evidence-Based
Clinical Practice Guidelines. Chest 2006;129:260S-283.
6. Chang AB, Robertson CF, et al. Can a management pathway for chronic cough in children improve clinical
outcomes: protocol for a multicentre evaluation. Trials 2010;11:103.
7. Chang AB, Redding GJ, Everard ML. State of the Art - Chronic wet cough: protracted bronchitis, chronic
suppurative lung disease and bronchiectasis. Pediatr Pulmonol 2008;43:519-31.
8. Kompare M, Weinberger M. Protracted Bacterial Bronchitis in Young Children: Association with Airway
Malacia. J Pediatr 2012;160:88-92.
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SEZIONE 1
“IN CASE YOU MISS IT”
Venerdì, 14 novembre 2014
Presidente: A. Urbino
8,00 – 9,20
Moderatori: G. Bracaglia, V. Flacco
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TERAPIA DEL DOLORE NELLE PROCEDURE DIAGNOSTICHE
Andrea Messeri ([email protected])
Servizio terapia del dolore & cure palliative
aou meyer – Firenze
Il dolore da procedura è quella sofferenza dovuta a interventi diagnostici o terapeutici che i bambini devono
affrontare e che è spesso causa di preoccupazione più della malattia stessa. I bambini che arrivano in ospedale
sono spesso già spaventati, hanno dolore, ferite e presentano una sofferenza generalizzata.
Sebbene il dolore legato alle procedure rappresenti esperienza di breve durata, le procedure effettuate senza un
adeguato controllo del dolore possono causare nel bambino ansietà, che a sua volta può incrementare il dolore
delle procedure seguenti, alterare la relazione con gli operatori sanitari e ridurre la compliance terapeutica.
Inoltre il trauma subìto provoca poi nel bambino un timore diffuso di affrontare qualsiasi evento medico
successivo. Le procedure che si attuano creano angoscia e stress non solo nei bambini e nei loro genitori ma
anche negli operatori sanitari che le praticano.
Le procedure dolorose che si fanno in ospedale possono essere più o meno invasive ma per tutte è possibile
garantire il controllo del dolore e della paura. Le situazioni più frequenti che richiedono un controllo del dolore e
della paura sono: la venipuntura, le procedure dolorose in oncoematologia e in pronto soccorso, le medicazioni
chirurgiche, le medicazioni dei bambini ustionati, gli esami endoscopici e radiologici.
In alcune malattie, soprattutto in quelle croniche, come la leucemia, le gravi ustioni, le procedure dolorose
devono essere ripetute molte volte, per dei mesi o a volte anche degli anni, prima della guarigione del bambino.
In queste situazioni vengono percepiti come l’aspetto più doloroso della malattia
Per il trattamento del dolore da procedure in pediatria è opportuno seguire alcuni principi di base.
È innanzi tutto fondamentale preparare il bambino e i genitori con interventi specifici. Dobbiamo assicurare il
massimo trattamento del dolore e dell’ansia da prima procedura in modo da ridurre l’insorgere dei sintomi da
ansia anticipatoria.
E’ importante per il bambino la presenza del genitore, al quale deve essere assegnato un ruolo specifico durante
la procedura
Dobbiamo inoltre assicurarci che vi sia una buona abilità manuale in coloro che eseguono le procedure
pediatriche ed effettuare una valutazione dei comportamenti del bambino per stimare l’efficacia del trattamento
del dolore e dell’ansia.
Gli obiettivi del contenimento della sofferenza e del dolore nel bambino sottoposto a procedure dolorose sono
essenzialmente:
1. Minimizzare il dolore, cioè fare in un’unica volta le varie procedure dolorose previste, come i prelievi di
sangue e le punture lombari, in modo da limitare il numero delle procedure stesse.
2. Massimizzare la collaborazione con il paziente, dare una tempestiva informazione ai genitori e al
bambino, illustrando quelli che saranno i loro ruoli, anche attraverso aiuti audio-visivi.
3. Minimizzare il rischio per il paziente, devono essere disponibili e funzionanti un adeguato monitoraggio e
una attrezzatura di rianimazione; interventi di tipo psicologico possono aiutare a ridurre il bisogno di
interventi farmacologici.
79
EFFETTO PLACEBO
Elisa Carlino
Department of Neuroscience,
University of Turin Medical School
Definire un farmaco è solitamente molto semplice: infatti per farmaco si intende una molecola che induce uno
specifico effetto biologico attraverso l’attivazione di specifici sistemi neurotrasmettitoriali. Definire un placebo è
più difficile. Le definizioni date sono svariate e spesso generano fraintendimenti che modificano il significato
stesso del termine, la sua connotazione ed il suo impatto nel panorama scientifico e culturale.
Solitamente il termine placebo viene usato per indicare una sostanza o, più un generale, un trattamento inerte
prescritto in assenza di una reale terapia per compiacere il paziente. Nonostante il placebo non contenga di per sé
un principio attivo, quando un paziente lo riceve, è possibile che egli percepisca un reale miglioramento della
propria patologia (e.g. una riduzione della percezione del dolore). Questo miglioramento viene definito effetto
placebo. Questa definizione di placebo come sostanza inerte porta a diversi fraintendimenti. Una prima
confusione riguardo ai termini placebo ed effetto placebo deriva dall’utilizzo del placebo nei trial clinici. Il
gruppo placebo viene infatti utilizzato per testare la superiorità del farmaco rispetto al trattamento con placebo,
in questo caso chiamato “dummy”. Nell’ambito dei trial clinici, il principale obiettivo è provare la superiorità del
farmaco, senza cercare di capire i meccanismi neurobiologici che portano ad un miglioramento quando si riceve
un placebo. Una seconda confusione deriva dalla tradizionale associazione del placebo ad “una pillola di
zucchero”, quando, in realtà, somministrare un placebo ad un paziente significa simulare una reale terapia.
Infatti, durante un trattamento medico, ad esempio durante la somministrazione di un antidolorifico, il paziente
riceve il principio attivo del farmaco (ad esempio la morfina) ed insieme percepisce differenti stimoli contestuali,
come l’aspetto fisico del trattamento (forma ecolore del farmaco), la modalità di somministrazione del
trattamento, l’informazione verbale fornita dall’equipe medica e le proprie aspettative riguardo all’esito della
terapia. Quando un trattamento reale è sostituito da un trattamento placebo, il principio attivo del farmaco non è
più presente ma le informazioni del contesto psicosociale rimangono invariate. Questo significa che il paziente si
aspetta di ricevere un trattamento e si aspetta dei risultati positivi. L’effetto placebo rappresenta, quindi, l’effetto
del contesto psicosociale positivo che accompagna una terapia. Se un contesto positivo può produrre effetti
positivi, un contesto negativo può produrre effetti negativi. In questo caso, vengono utilizzati i termini nocebo ed
effetto nocebo.
Studiare l’effetto placebo non è facile. Infatti, quando si considera il miglioramento clinico che si verifica nel
gruppo placebo, è necessario considerare che ci sono diversi fattori che possono confondersi con l’effetto
placebo. Tali fattori sono, ad esempio, la regressione verso la media, la storia naturale della patologia in esame,
le fluttuazioni casuali e la presenza di bias ed errori di misurazione fatti dal medico o dal paziente. Questi fattori
hanno un’importanza notevole per chi lavora sull’effetto placebo perché si tratta di fattori da controllare ed
escludere per studiare la vera “risposta placebo”.
La ricerca sull’effetto placebo si è sviluppata notevolmente negli ultimi venti anni in diversi contesti e con
diverse procedure sperimentali. Ciò che oggi risulta chiaro è che non esiste un solo effetto placebo ma diversi
effetti placebo che si possono studiare in diverse condizioni sperimentali e cliniche. L’analgesia da placebo, e
l’opposta iperalgesia da nocebo, sono i fenomeni maggiormente studiati sia in contesti sperimentali dove il
dolore viene indotto, sia in contesti clinici in cui il dolore è una condizione patologica da trattare. In entrambi i
casi sono stati applicati approcci farmacologici e di neuro immagine per studiare non solo la risposta placebo
riferita dal paziente in termini di riduzione del dolore, ma anche le basi neurofisiologiche che la governano.
Scienziati e clinici hanno studiato l’effetto placebo anche in altre condizioni mediche come il morbo di
Parkinson, la depressione, l’ansia, le risposta immunitarie, la secrezione ormonale ed anche la performance
motoria. Da un lato, un primo aspetto fondamentale della ricerca sul placebo consiste nel capire quando e come
si possa indurre un effetto placebo, comprendendone i meccanismi psicologici e fisiologici. Dall’altro, è
altrettanto fondamentale capire come utilizzare queste conoscenze nella pratica clinica. In ambito pediatrico, ad
esempio, la possibilità di utilizzare dei metodi per ridurre l’uso di farmaci (ad esempio alternare il farmaco al
placebo) mantenendo un miglioramento sintomatologico nel bambino, rende lo studio del placebo ancora più
interessante e pragmatico.
Diversi modelli psicologici sono stati proposti per descrivere gli effetti placebo e nocebo. Il primo modello
descrive questi effetti come la conseguenza di un processo di apprendimento (come nel modello di
condizionamento classico), mentre il secondo modello considera l’importanza di processi cognitivi di alto livello
(modello dell’aspettativa).
Secondo il modello di condizionamento classico, dopo ripetute associazioni di uno stimolo neutro (ad esempio
un suono) con uno stimolo sensoriale (ad esempio la vista del cibo) che produce, di per sé, una risposta
(salivazione), la presentazione del solo stimolo neutro produrrà la risposta. E’ possibile elicitare un effetto
placebo utilizzando lo stesso principio di condizionamento. Ad esempio, è stato dimostrato che gli aspetti
contestuali di un trattamento, come la forma ed il gusto del farmaco ma anche la ritualità del trattamento,
possono indurre delle risposte placebo da condizionamento se precedentemente associati ad ingredienti attivi
presenti nel farmaco.
Secondo il modello dell’aspettativa, l’effetto placebo è generato dalle aspettative e dalle credenze che il paziente
sviluppa durante una terapia. Diversi fattori influenzano queste aspettative, come le informazioni verbali che il
paziente riceve, le emozioni che sperimenta durante il trattamento e le precedenti esperienze di terapia. Se
80
l’apprendimento ha un ruolo più importante quando una terapia mira a produrre un esito positivo, l’ansia sembra
giocare un ruolo maggiore nel favorire esiti negativi.
Le prime prove neuro farmacologiche che hanno dimostrato l’esistenza di un substrato chimico del fenomeno
placebo sono state ottenute nel campo dell’analgesia da placebo. Ad oggi, molte ricerche hanno confermato il
modello secondo il quale la secrezione di oppioidi endogeni è l’evento centrale della modulazione del dolore da
parte del placebo, unito all’attivazione delle vie discendenti antinocicettive come substrato anatomico. In diversi
studi, per esempio, si è potuto osservare che l’analgesia da placebo può essere bloccata dalla somministrazione
di naloxone, noto farmaco ad azione antioppioide. Inoltre, effetti facilitanti l’analgesia da placebo si sono
osservati in seguito alla somministrazione di proglumide, un antagonista della colecistochinina (CCK). Questo
dato suggerisce che l’analgesia da placebo sia influenzata dagli oppioidi endogeni che la favoriscono e
dall’azione della CCK che la inibisce. Recentemente è stato anche dimostrato il coinvolgimento del sistema
cannabinoide. Infatti si è visto che l’analgesia da placebo può essere bloccata anche dalla somministrazione di
rimonabant, noto farmaco antagonista del sistema cannabinoide.
Oltre alla farmacologia, diverse tecniche di bioimmagine e di mappatura cerebrale, come la tomografia ad
emissione di positroni, la risonanza magnetica funzionale, e l’elettroencefalografia hanno fornito un importante
contributo alla comprensione dell’effetto placebo. Diversi studi hanno dimostrato che le aree cerebrali attive
durante l’analgesia da oppioidi e quelle attive durante l’analgesia da placebo sono in gran parte sovrapposte,
comprendendo parte del substrato anatomico del sistema oppioide. Inoltre si è visto che le aree frontali, come la
corteccia dorso laterale prefrontale e la corteccia cingolata anteriore, svolgono un ruolo predominante
nell’analgesia da placebo. In seguito ad inibizione temporanea di tali aree, infatti, la risposta placebo viene
abolita. L’elettroencefalografia, inoltre, ha dimostrato che la riduzione di dolore che il paziente prova in seguito
alla somministrazione di un placebo è correlata alla modificazione di potenziali evocati (potenziali evocati laser),
fornendo basi oggettive alla sola risposta soggettiva riferita verbalmente dal soggetto.
In generale, lo studio dell’effetto placebo ha sia aumentato la nostra conoscenza della complessa relazione tra i
processi cognitivi ed i sottostanti sistemi cerebrali, sia fornito importanti spunti per la clinica. Per esempio,
attraverso lo studio dei meccanismi dell’apprendimento tramite condizionamento classico, è possibile ridurre
l’utilizzo di farmaci, grazie alla prescrizione alternata di farmaci e placebo. Inoltre, le recenti scoperte mettono in
luce l’importante ruolo dell’aspettativa e di come questa possa essere modulata dalla relazione medico-paziente.
Allo stesso modo, i clinici dovrebbero cercare di evitare il più possibile effetti nocebo, riducendo le aspettative
negative dovute ai possibili effetti collaterali di una terapia. Per questi motivi, lo studio dell’effetto placebo
sembra essere di cruciale importanza sia nella moderne neuroscienze che nella pratica medica. Nel primo caso,
rappresenta infatti un modello eccellente per studiare differenti meccanismi cerebrali. Nel secondo, rappresenta
invece uno strumento nell’armamentario clinico per aumentare l’efficacia di ogni trattamento medico.
Referenze
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neuroscience”. Curr Op Anaestesio l24, 540-544.
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81
LESIONI CUTANEE E MALATTIE SISTEMICHE
May El Hachem
U.O. C. di Dermatologia
Dipartimento Medicina Pediatrica: Coordinatore: Prof. A.G. Ugazio
Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
La cute è implicata nelle malattie sistemiche in 2 modi:
a. alcune patologie dermatologiche, in particolare le genodermatosi coinvolgono anche altri organi e
richiedono un approccio multidisciplinare diagnostico e terapeutico;
b. alcune manifestazioni cutanee costituiscono una spia diagnostica molto importante di patologie,
talvolta molto gravi.
Il gruppo di patologie in cui il contributo del dermatologo è importante è vasto, ma è rappresentato
principalmente da:
1. Genodermatosi
2. L’immunodeficit primitivo
3. Le malattie metaboliche
4. Sindromi genetiche (S. neurocutanee, ecc…)
5. Le neoplasie cutanee o sistemiche (linfoma cutaneo, istiocitosi a cellule di Langerhans, ecc.)
6. La S. di Stevens-Johnson, SSSS, Lyell, ecc…
L’osservazione della lesione cutanea non deve quindi mai prescindere dal contesto generale, anamnestico ed
obiettivo, del bambino. Il consulto multidisciplinare favorisce spesso una diagnosi corretta.
Essendo la cute un organo visibile, il riconoscimento delle lesioni cutanee permette spesso una diagnosi e
quindi un approccio terapeutico precoci della malattia di base.
82
SEZIONE 1
“CALL FOR ACTION IN PEDIATRIA”
Venerdì, 14 novembre 2014
Presidente: G. Rondini
10,20 – 11,20
Moderatori: L. Bernardo, A. Carlucci
83
LE CURE PEDIATRICHE: DALLE PROBLEMATICHE DEL PASSATO ALLE PROSPETTIVE
FUTURE
Francesco Paravati, Antonio Belcastro, Massimo Bisceglia, Paola Chiarello, Anastasia Cirisano, Nicola
Lazzaro, Luigi Mesuraca, Vincenzo Antonio Poerio
UOC Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale S. Giovanni di Dio, Crotone
Nei prossimi anni si realizzerà una diversa organizzazione della Pediatria Ospedaliera nel nostro Paese. La
riduzione drammatica della natalità, l’attuale crisi economica e l’applicazione delle recenti normative relative
alla chiusura dei punti nascita inferiori ai 500 -1000 parti, la riduzione generale dei posti letto che riguarda anche
quelli pediatrici, gli standard ospedalieri del decreto Balduzzi determineranno una riduzione dei reparti pediatrici
con la scomparsa delle Unità Operative degli ospedali periferici (zonali) ed anche di alcune terapie intensive
neonatali di ridotte dimensioni e con basso indice assistenziale. Si amplieranno quindi i bacini d’utenza e la
maggior parte delle Unità Operative Pediatriche (con bacini di utenza di 150-300.000 abitanti) avranno annesso
il punto nascita. È evidente, che questo modello generale andrà adattato in fase attuativa alle diverse esigenze
delle singole realtà regionali. L’obiettivo di questo processo sarà indirizzato non solo ad una sensibile riduzione
dei costi di gestione, ma anche all’acquisizione di una maggiore professionalità degli operatori, legata alla più
numerosa e complessa casistica trattata.
Cambierà anche il modello assistenziale secondo criteri più stringenti di appropriatezza e l’assistenza ospedaliera
sarà prevalentemente indirizzata a pazienti con patologie croniche, croniche riacutizzate o acute che richiedano
un’intensità di cura che la riorganizzazione delle cure territoriali (case della salute, Unità di cure territoriali,
hospice, etc) non potrà garantire. Al contrario le patologie più gravi, che necessitano di alta specializzazione ed
interventi multispecialistici, saranno gestite in centri di riferimento regionali/extraregionali in un sistema di rete
integrata che preveda anche il ricorso ad un trasporto specialistico (Sistema di Trasporto in Emergenza
Neonatale -STEN). Anche la terapia intensiva pediatrica, oggi limitata ad alcune realtà, dovrà essere incentivata
in un’ottica regionale o pluriregionale, considerato che, allo stato attuale, un elevato numero di bambini vengono
trattati impropriamente nelle terapie intensive dell’adulto.
Al bambino ed all’adolescente in ospedale saranno sempre di più garantite le migliori cure disponibili ed il
ricovero in strutture dedicate, fin dall’accesso in Pronto Soccorso, dove sarà un pediatra a valutare il bambino
anche nei centri che non sono dotati di Pronto Soccorso Pediatrico. Inoltre l’esigenza di appropriatezza nel
ricovero implementerà l’utilizzo di forme assistenziali diverse dal ricovero ordinario quali Osservazione Breve
Intensiva, Day Service, oggi già presenti nella maggior parte dei Presidi Ospedalieri.
Il ricovero interesserà malattie genetiche, immunologiche, reumatologiche, neuropsichiatriche, con disabilità
complesse ed avverrà in reparti strutturalmente dedicati, con personale formato per l’assistenza del bambino e
della sua famiglia. Sarà data ancora una maggiore attenzione alle problematiche connesse con l’umanizzazione
delle cure e relative alla comunicazione, al trattamento del dolore, al sostegno ai problemi psicologici, alla
disabilità, ai soggetti “fragili”etc.
L’innovazione tecnologica, oltre a migliorare gli aspetti organizzativi e gestionali e potenziare l’attività
diagnostica e terapeutica, consentirà di supportare in maniera più adeguata le problematiche assistenziali di
pazienti con problemi complessi. Infatti progetti di telemedicina, consulenze online, App per medici e pazienti,
etc. sono già stati realizzati ed altri sono in corso di realizzazione in alcune realtà nazionali.
Anche la fase di dimissione del paziente pediatrico farà parte di un sistema integrato a rete che determinerà una
continuità di cure tra l’ospedale ed il territorio, a volte necessario anche per garantire piani assistenziali
programmati individualmente.
Tale riorganizzazione delle cure ospedaliere pediatriche incontrerà sicuramente delle difficoltà nella
realizzazione nel breve termine anche per la forte disomogeneità esistente oggi nell’erogazione delle cure nelle
diverse Regioni. L’attuale congiuntura economica determinerà inoltre la necessità di sacrifici anche in campo
sanitario. Anche per il blocco del turnover del personale vigente nelle regioni in piano di Rientro sarà un
problema da affrontare nell’immediato, tenuto conto che l’età media dei pediatri ospedalieri del SSN è molto alta
e il numero dei ricambi programmati è decisamente inferiore a quelli che lasceranno la professione.
Occorre quindi, aumentare le azioni per mantenere l’efficienza delle attività assistenziali, attuando tutte le
strategie necessarie in grado di garantire, anche con risorse inferiori, gli stessi livelli assistenziali attuali
nell’ottica di una più ampia tutela del diritto alla salute dei pazienti in età pediatrica.
Bibliografia
1. Accordo della Conferenza Unificata Stato-Regioni G.U: 18.1.2011 - Linee di indirizzo per la
promozione ed il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell'appropriatezza degli interventi
assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo.
2. Regolamento recante “Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi
relativi all'assistenza ospedaliera, in attuazione dell'articolo 1, comma 169 della legge 30.12.2004, n.
311" e dell'articolo 15, comma 13, lettera c) del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95 convertito, con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135”. Conferenza Delle Regioni E Delle Province
Autonome 14/097/SR17/C7 del 5 agosto 2014
3. Libro bianco 2011, La salute dei bambini. Stato di salute e qualità dell’assistenza della popolazione in
età pediatrica nelle regioni italiane.
4. D. Minasi, F. Paravati. Per una nuova pediatria ospedaliera in ”Il futuro della Pediatria”- Hygeia Press
2009
84
SEZIONE 2
“PROBLEMI CORRENTI IN PEDIATRIA”
Venerdì, 14 novembre 2014
Presidente: G. Claps
8,00 – 9,20
Moderatori: S. Barberi, G. Cavagni
85
IL BAMBINO IMMIGRATO E LE ANEMIE
Santoro Nicola, Del Vecchio Giovanni Carlo
Unità Operativa Pediatrica “Federico Vecchio” Azienda Ospedaliero Universitaria Consorziale Policlinico di
Bari
E’ esperienza comune degli operatori sanitari registrare l’incremento dei bisogni assistenziali degli immigrati in
generale e dei bambini immigrati in particolare (1, 2).
Vi sono paesi che da tempo hanno affrontato e trovato risposte adeguate a tale situazione (vedi USA) e paesi che
iniziano a farlo.
Recentemente il sistema sanitario Canadese ha avvertito l’esigenza di individuare delle priorità e delle linee
guida condivise in tale ambito (3, 4) che oltre ad occuparsi di malattie infettive richiamano l’attenzione sulle
anemie.
Quest’ultimo problema se si considera la popolazione pediatrica dei rifugiati, tra l’altro caratterizzata nel nostro
paese da una percentuale crescente di minori non accompagnati, è solitamente multifattoriale. Tra le cause
acquisite si segnalano la malaria, la carenza di ferro e le parassitosi. La carenza di ferro è per lo più di tipo
nutrizionale ma può essere presente una componente data dalla perdita ematica intestinale. Altre cause di anemie
da considerare sono rappresentate dalle emoglobinopatie (Africani, Asiatici) e casi da intossicazione da piombo.
Le emoglobinopatie sono state individuate come problematica rilevante anche dal Gruppo di Lavoro Nazionale
per il Bambino Immigrato della SIP (5), considerando che esse impegnano in maniera trasversale, TerritorioOspedale, il nostro sistema sanitario passando per i servizi dell’urgenza (6, 7, 8) (vedi soprattutto drepanocitosi).
Nella presentazione si tratteranno pertanto tali aspetti dando rilievo tra le anemie acquisite alla anemia
sideropenica (9, 10) e tra quelle ereditarie alla malattia drepanocitica (11), non tralasciando le anemie spia di
malattia oncologica accennando ai problemi pratici ed etici che tali forme comportano (12, 13).
La peculiarità della anemie sideropeniche nei bambini immigrati è data da particolari aspetti nutrizionali, dalle
abitudini alimentari e dalle parassitosi intestinali.
La malattia drepanocitica (SCD) è caratterizzata da un’anemia emolitica cronica ereditaria che comprende
diverse forme, tutte determinate dalla presenza di un’emoglobina anomala, l’Hb S.
Una mutazione puntiforme che sostituisce l’adenina del 6° codone del gene β con la timina (GAG→GTG) è
responsabile dell’inserimento, in posizione 6 della catena β della globina di una valina idrofoba e con carica
neutra al posto dell’acido glutammico idrofilo e con carica negativa.
L’HbS possiede proprietà chimico-fisiche diverse dalla normale HbA che comportano una lieve instabilità e una
spiccata tendenza, in condizioni di ipossia, a formare lunghi polimeri all’interno dei globuli rossi i quali si
deformano assumendo il caratteristico aspetto a “falce”(sickle).
L’anomalia, similmente alla β talassemia, con la quale interagisce interessando lo stesso gene, si eredita con
modalità autosomica recessiva.
La condizione di portatore eterozigote (sickle cell trait, SCT) in cui un allele è S e l’altro è A è per lo più
asintomatico, può presentare qualche disturbo in particolari condizioni, ma va tenuto in conto al fine di
identificare i soggetti portatori e quindi le coppie a rischio di procreare figli affetti da SCD.
Gli individui che ereditano da entrambi i genitori il gene S sono affetti dalla forma omozigote della malattia
(HbSS).
Gli individui che ereditano un allele S da uno dei genitori e un allele β talassemico sono degli eterozigoti
composti. Essendo attivo solo (nella forma S-β°th) o prevalentemente (nella forma S- β+th) il gene S,
l’emoglobina sintetizzata è in larga misura HbS e di conseguenza il quadro clinico è simile alla forma omozigote
SS.
I soggetti che ereditano un allele S e un allele portatore di un’altra variante che interagisce con l’HbS (HbC,
HbDPunjab, HbOArab, HbLepore-Boston) sono anch’essi affetti da una condizione clinica che rientra nella
SCD. La diagnosi clinica di una malattia che si presenta in maniera proteiforme è spesso non semplice,
soprattutto nelle emergenze che, interessando svariati organi, possono simulare altre condizioni.
Elementi clinici significativi che possono suggerire la diagnosi sono:
- anamnesi: gruppo etnico, anemia emolitica cronica, dolori ricorrenti, infezioni ricorrenti, episodi di
priapismo, sindrome mani-piedi nei primi 2 anni di vita;
- esame obiettivo: pallore, sub ittero o ittero franco, splenomegalia;
- possibile presentazione confondente: crisi aplastica, osteomielite, broncopolmonite, stroke, sequestrazione
splenica.
Diagnosi differenziale: altre anemie emolitiche, addome acuto, pancreatite, astinenza da sostanze stupefacenti,
maltrattamento e abuso infantile, malattie infiammatorie sistemiche, artrite settica.
Per tale patologia particolare importanza riveste lo “screening neonatale”, punto di avvio ideale della
“comprehensive care”, che comprende la diagnosi precoce, l’instaurazione tempestiva di misure profilattiche,
quali la profilassi con penicillina e le vaccinazioni (rischio di sepsi legata ad asplenia funzionale), l’educazione
sanitaria specifica e il monitoraggio delle funzioni d’organo, a partire dalla prevenzione primaria dello stroke.
Lo screening può essere mirato o universale. Nel primo caso sarà ristretto ai figli di soggetti a rischio come di
recente è stato attuato nella provincia di Modena (14) dove sono state arruolate 469 madri di paesi sub-sahariani
ed i loro neonati, per lo screening di varianti emoglobiniche mediante HPLC. Delle 469 donne coinvolte, 330
(70.36%) hanno acconsentito al test. 92 (27.88%) sono risultate portatrici di varanti emoglobiniche, 48 neonati
(51%) di queste portatrici sono risultati portatori e 9 (9.6%) malati (HbSC, HbSS).
86
Un utile strumento per la gestione della malattia drepanocitica in età pediatrica è rappresentato dalle
specifiche raccomandazioni emanate dall’AIEOP (15).
Bibliografia
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15. http://www.aieop.org/files/files_htmlarea/tutto%20giu12.pdf
88
PROBIOTICI: INDICAZIONI E LIMITI
Prof. Michele Miraglia del Giudice
Dipartimento della donna del bambino e di chirurgia generale e specialistica
Seconda Università di Napoli
Le malattie allergiche sono notevolmente aumentate negli ultimi anni in tutti i paesi occidentali ed e’ probabile
che le cause di questo incremento debbano essere ricercate tra i cambiamenti che si sono verificati nell’ambiente
e nello stile di vita (1). Nelle prime epoche della vita, una riduzione della colonizzazione microbica intestinale,
conseguente al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, rappresenta una delle ipotesi maggiormente
accreditate per spiegare questo fenomeno (2-3). La flora batterica intestinale svolge infatti un ruolo di primo
piano non solo nella maturazione delle risposte umorali, in modo particolare le IgA, ma anche nella
polarizzazione del sistema immune promuovendo lo sviluppo del profilo citochinico Th1 o Th2 (4). E’ oramai
noto che il fenotipo Th2 rappresenta un marker di allergia in quanto associato a un’aumentata produzione di IgE
ed eosinofili mentre il profilo citochinico Th1 esercita soprattutto una funzione di Killing intracellulare.
Nella patologia allergica i probiotici si sono dimostrati in grado di ripristinare la permeabilita’ intestinale
(aumentata nelle allergie alimentari), migliorando le difese immunologiche della mucosa intestinale (IgA) e
riducendo la risposta infiammatoria attraverso un’azione inibente sulle citochine pro-infiammatorie (4). E’ stata
infatti dimostrata in vitro un’azione inibente dei probiotici sull’IL-4 (5) ma anche in vivo su altri marker di
infiammazione atopica (6). Studi clinici hanno dimostrato inoltre l’efficacia dei probiotici nel trattamento del
bambino con eczema atopico (7). Infine, per quanto riguarda la profilassi primaria, la supplementazione con
probiotici prima e dopo la nascita in bambini con elevato rischio di atopia si e’ dimostrata in grado di ridurre lo
sviluppo di dermatite atopica in modo significativo rispetto al placebo (8).
In conclusione, alla luce di queste considerazioni e con il conforto di ulteriori esperienze e’ probabile che in un
prossimo futuro i probiotici possano esercitare un ruolo di primissimo piano modificando cosi’ la storia naturale
delle malattie allergiche.
Bibliografia
1. Aberg N, Hasselmar B, Aberg B, Eriksson B Increase of asthma, allergic rhinitis and eczema in swedish
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89
INFEZIONI RESPIRATORIE RICORRENTI: TRATTARE O NON TRATTARE?
Paola Marchisio
UOSD Pediatria ad Alta Intensità di Cura Università degli Studi di Milano Fondazione IRCCS Cà Granda
Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
Le infezioni respiratorie presentano la massima incidenza in età pediatrica e in particolare nei primi anni di vita.
Secondo tre delle varie definizioni riportate in letteratura, un bambino con infezioni respiratorie ricorrenti (IRR)
presenta:
un numero di infezioni respiratorie 6/anno

un numero di infezioni respiratorie che coinvolgono le alte vie aeree (IVAS) 3/mese, tra settembre e

aprile
un numero di infezioni delle basse vie aeree 3/anno

In base all’età, nella letteratura internazionale viene definito con IRR un bambino di età inferiore ai 3 anni che
presenta almeno 8 IVAS/anno, un bambino di età uguale o superiore ai 3 anni che presenta almeno 6 IVAS/anno
e, indipendentemente dall’età, un bambino con 2 IVAS, inclusa la polmonite di comunità (CAP)/anno, in
assenza di una patologia di base che possa giustificare la ricorrenza di infezioni.
La CAP è una delle più comuni malattie dell’età pediatrica, seconda causa di morte nei bambini che vivono nei
Paesi in via di sviluppo e una delle più frequenti ragioni di richiesta di assistenza ospedaliera nei Paesi
industrializzati (in Europa si calcolano 2,5 milioni di casi con ricoveri nel 3-18% dei casi).
Nell’80% dei casi gli agenti eziologici delle IRR sono rappresentati dai virus, in particolare virus respiratorio
sinciziale, virus influenzali e parainfluenzali, adenovirus e rhinovirus. Altre importanti cause sono i batteri quali
lo Streptococcus pneumoniae, che rappresenta il principale agente eziologico della CAP, Mycoplasma
pneumoniae, Haemophilus influenzae e Streptococcus pyogenes.
Le IRR comportano conseguenze per il bambino (malessere fisico nelle fasi acute di malattia, alterata qualità di
vita per la medicalizzazione, disturbo dell’evoluzione psicologica), un uso inappropriato di antibiotici che si
traduce in aumento delle resistenze ed effetti collaterali, un uso inappropriato di altri farmaci quali mucolitici,
steroidi e terapie alternative (CAM), costi sociali ed economici (consulti di specialisti, accessi in PS, frequenti
ospedalizzazioni, malessere psicologico della famiglia, assenze da scuola e perdita di lavoro dei genitori).
Il primo passo da valutare nel tentativo di contenere l’impatto delle IRR è rappresentato dai fattori di rischio, un
lungo elenco in cui, a fattori già identificati negli anni ’90 (frequenza di asilo nido, scuola materna, abitudine al
fumo dei conviventi, presenza in famiglia di fratelli più grandi, microinquinamento domestico e residenza in aree
ad elevata industrializzazione), si sono aggiunti, negli ultimi anni, fattori come socializzazione precoce,
prematurità, basso peso alla nascita, sesso maschile, riduzione dell’allattamento materno, fumo in gravidanza,
presenza di muffe/umidità nelle abitazioni, allergia/atopia, omissione di vaccinazioni e, secondo recenti studi,
bassi livelli di vitamina D.
L’esposizione ai fattori di rischio deI bambino, che per l’immaturità del suo sistema immunitario presenta una
aumentata suscettibilità alle infezioni, favorisce lo sviluppo di infezioni virali che, a loro volta, determinano un
immunodeficit secondario transitorio di 2 a 4 settimane, che dovrebbero essere di convalescenza. La
riesposizione del bambino ai fattori di rischio prima di questo intervallo fa sì che il ciclo si perpetui.
Peraltro, fattori di rischio quali età, sesso maschile, allergia, stagione, predisposizione genetica, fratelli più
grandi non sono modificabili.
Le IRR rappresentano, pertanto, un problema di elevata complessità, che va affrontato riconoscendo che questi
bambini presentano deficit immunitari minori, transitori, e cercando di integrare le nuove conoscenze nella
pratica clinica quotidiana.
Uno studio (Chinese Journal of Biochemical Pharmaceutics 2012; 23), che ha confrontato l’effetto di pidotimod
e aminopeptide splenico su sintomi e livelli di citochine Th1/Th2 in bambini con IRR, ha dimostrato una
significativa riduzione di IL-4 e un significativo aumento di IFN-γ (p<0,01 vs basale e vs gruppo controllo) nel
gruppo trattato con pidotimod. In bambini con polmonite refrattaria da Mycoplasma pneumoniae uno studio
cinese (YanYong-Dong, J Clin Pediatr 2008; 26) ha dimostrato che il trattamento con Pidotimod 400 mg x 2 x 1
mese e 400 mg/die per 1 mese ha determinato un significativo (p<0,05) aumento della percentuale di CD3, CD4
e del rapporto CD4/CD8.
Per quanto riguarda gli studi su bambini italiani, dati preliminari di uno studio del gruppo del Prof. Marseglia di
Pavia, prospettico, randomizzato controllato, a gruppi paralleli, su 102 bambini con IRR (età media circa 5 anni),
indicano l’effetto protettivo di pidotimod (1 flaconcino/die per 60 giorni) nel ridurre la frequenza di infezioni
delle alte e basse vie respiratorie in età pediatrica.
Obiettivi dello studio CAP-PED condotto presso la UOSD Pediatria ad alta intensità di cura della ondazione
IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico sono: 1) valutare la risposta clinica, in termini di
raggiungimento della stabilità, 2)valutare gli effetti clinici del trattamento con pidotimod in aggiunta alla terapia
antibiotica sui marker infiammatori (PCR, PCT) e 3) analizzare gli effetti immunomodulatori di pidotimod in
aggiunta alla terapia antibiotica in pazienti affetti da CAP.
Sono stati inclusi in questo studio pilota, monocentrico, randomizzato in doppio cieco, controllato, 20 bambini
ricoverati per CAP nell’inverno 2013-2014. Il protocollo dello studio ha previsto la randomizzazione al
trattamento con sola terapia antibiotica (Amoxicillina + Acido clavulanico 80 mg/kg/die per os in 3
somministrazioni/die in associazione a claritromicina 15 mg/kg/die in 2 somministrazioni/die per os per 10-14
90
giorni) o con terapia antibiotica + pidotimod (400 mg x 2 volte/die per os per 10 giorni). Al basale e dopo 3, 5 e
21 giorni giorni sono state effettuate valutazioni immunologiche.
I risultati preliminari dimostrano che pidotimod è in grado di esercitare un effetto immunomodulatore nel
bambino con polmonite in fase acuta di malattia. In particolare, pidotimod:
induce la maturazione delle cellule dendritiche

up-regola l’espressione dei TLR, stimola la produzione di IL-12 e TNF-α, attivando una risposta immune

prevalentemente Th1.
In conclusione si può affermare che l’’impatto delle IRR in età pediatrica indica la necessità di un intervento
preventivo basato sul contenimento dei fattori di rischio, peraltro non sempre e non tutti modificabili, e
sull’utilizzo di prodotti standardizzati adatti alla nostra popolazione, con solide evidenze di immunostimolazione
derivate da studi specifici. Inoltre i risultati preliminari di studi sui bambini italiani indicano l’effetto protettivo
di pidotimod in termini di riduzione delle IRR.
91
SEZIONE 2
“DISTURBI NEUROLOGICI MUSCOLARI”
Venerdì, 14 novembre 2014
Presidente: S. Vendemmia
10,20 – 11,40
Moderatori: M. Aversa, L. Greco
92
COSA SAPERE E COSA FARE DI FRONTE AL BAMBINO CON SOSPETTA SINDROME
MALFORMATIVA
Sara Casagranda, Angelo Selicorni
U.O.S Genetica Clinica pediatrica, Fondazione MBBM, Clinica Pediatrica A.O. S Gerardo Monza
Introduzione: circa il 3-5% dei nati vivi presenta uno/più difetti congeniti che possono sia essere isolati che
rappresentare l’espressione di una condizione sindromica. Il pediatra non specialista ha il compito essenziale di
porre il fatidico “sospetto diagnostico” di un quadro sindromico, valorizzando gli elementi clinici che esso potrà
riconoscere per inviare il bambino a chi avrà competenza e capacità per dare una risposta precisa. Obiettivi:
Obiettivo di questo lavoro è quindi identificare gli elementi clinici e quelle attenzioni metodologiche
indispensabili per permettere al pediatra di attivare il percorso diagnostico che potrà portare a riconoscere un
paziente potenzialmente affetto da sindrome malformativa complessa, al fine di impostare un follow-up specifico
in relazione alle complicanze cliniche note della condizione diagnosticata ed offrire una consulenza genetica
adeguata sia ai genitori che ad altri familiari.
Cosa sapere: Si definisce malformazione maggiore un’anomalia strutturale di un qualsiasi organo o apparato
creatasi nel corso dell’organogenesi (4°- 8° settimana gestazionale), con gravità e ricadute clinico-prognostiche
estremamente variabili. Si definisce invece malformazione minore un difetto congenito di scarso significato
medico-chirurgico che può comunque avere importanza estetica. Infine, si definisce sindrome malformativa un
quadro clinico caratterizzato dalla presenza contemporanea di più difetti della morfogenesi, anomalie minori e/o
difetti antropometrici a cui si possono associare anomalie in difetto o in eccesso dello sviluppo staturo-ponderale
e anomalo sviluppo psicomotorio; questo insieme di problemi riconosce un’unica causa, spesso, ma non sempre,
legata ad un’anomalia del patrimonio genetico del soggetto affetto.
Le basi eziologiche dei difetti congeniti possono essere distinte in genetiche, non genetiche e multifattoriali. Le
condizioni genetiche possono essere secondarie ad anomalie cromosomiche numeriche e/o strutturali. Molte
condizioni sindromiche o difetti congeniti funzionali sono invece secondarie a mutazioni di singoli geni che
possono segregare all’interno dei ceppi familiari con modalità di trasmissione autosomica (dominante o
recessiva) o legata al cromosoma X (dominante o recessiva). Esiste inoltre un crescente numero di fenotipi
patologici il cui difetto di base interessa regioni sottoposte al fenomeno dell’imprinting genomico, che è un
meccanismo biologico di espressione differenziale del patrimonio genetico a seconda della sua derivazione
paterna o materna.
La maggioranza dei quadri malformativi isolati riconosce un’eziologia multifattoriale, derivando dall’azione
combinata di fattori genetici predisponenti e fattori di origine ambientale mentre la maggiior parte dei quadri
sindromici ha specifiche basi genetiche. Esistono infine condizioni malformative secondarie all’esposizione
materna in gravidanza ad agenti teratogeni (es. farmaci, alcol o droghe), ad infezioni virali (es. TORCH) o a
malattia cronica.
La conferma della diagnosi clinica di molte sindromi avviene attraverso la dimostrazione del suo difetto genetico
di base attraverso l’uso di test appropriati. È importante che il medico ed il pediatra abbiano una chiara
consapevolezza delle potenzialità di queste indagini e dei problemi interpretativi che esse pongono, magari non
per gestire direttamente la richiesta e l’iter diagnostico ma per poter affiancare la famiglia nel complesso
percorso diagnostico supportando lo specialista nella comunicazione dei risultati alla famiglia.
È certamente importante quindi fornire alcune indicazioni pratiche sull’uso dei più comuni test diagnostici
genetici, partendo dall’indagine citogenetica. Il cariotipo permette di evidenziare eventuali anomalie
cromosomiche numeriche o strutturali entro certe dimensioni 5-10Mbasi, utilizzando cellule capaci di dividersi
(linfociti, fibroblasti cutanei, midollo osseo, villi coriali placentali o amniociti) La FISH (fluorescent in situ
hybridization) consente di individuare in modo mirato e specifico anomalie cromosomiche strutturali di
dimensioni < 4-5 Mbasi, identificando riarrangiamenti cromosomici criptici o subtelomerici. L’arrayCGH (o
cariotipo molecolare) identifica la presenza di sbilanciamenti quantitativi di materiale cromosomico attraverso
un’analisi comparativa dell’intero genoma tra un DNA da testare ed un DNA controllo, con un livello di
risoluzione 200-300 K basi . Da ultimo le analisi molecolari consentono invece di studiare in modo specifico
alterazioni di singole informazioni genetiche responsabili di malattia. Il dato ormai acquisito e costante è che il
singolo quadro clinico possa essere secondario alla possibile mutazione di più geni (magari appartenenti al
medesimo pathway biochimico) e che l’insieme dei test disponibili possa spesso non arrivare a coprire il 100%
dei pazienti con diagnosi clinica corretta
Cosa fare: il percorso clinico in ambito di genetica segue il classico schema dell’approccio medico ad un
problematica ed è fondato sui seguenti passaggi essenziali: anamnesi, esame obiettivo, fase di studio con
programmazione di accertamenti, diagnosi, comunicazione della diagnosi. Il tutto inizia quindi con un’accurata
raccolta anamnestica familiare di almeno 3 generazioni. In particolare, dopo aver escluso la consanguineità di
coppia, si indagherà sulla presenza di soggetti con quadri malformativi isolati/complessi, ritardo mentale,
problemi neurofunzionali visivi/uditivi, epilessia, disturbi dell’accrescimento o altre malattie genetiche note.
Sarà inoltre importante considerare elementi d’allarme presenti nell’anamnesi gravidica, come alterazioni
dell’accrescimento intrauterino, quadri malformativi ecografici, positività di screening prenatali anche senza la
dimostrazione di una anomalia cromosomica, assunzione materna di sostanze stupefacenti/alcool così come lo
stato immunitario verso le infezioni del gruppo TORCH. Come ovvio, anche l’anamnesi fisiologica
(accrescimento postnatale, sviluppo psicomotorio) e patologica di ogni paziente può fornire elementi di allarme
nei confronti di un potenziale quadro sindromico. Proseguendo la visita pediatrica, si passa poi al classico esame
93
obiettivo iniziando dai parametri auxologici di base. Qualunque anomalia dell’accrescimento staturo-ponderale e
della circonferenza cranica, isolata o combinata, deve sempre attirare l’attenzione del pediatra. Il ritardo di
accrescimento è, però, una caratteristica di assai frequente riscontro in ambito sindromico e può avere una
insorgenza prenatale o rendersi evidente a partire dai primi mesi/anni di vita. In caso di bassa statura sarà utile
verificare il target familiare e la presenza di sproporzione arti/ tronco. In caso di brevità relativa degli arti sarà
utile verificare se essa interessa i segmenti prossimali (rizomelia), mediali (mesomelia) o le estremità
(acromelia). Per contro dovrò essere valorizzato anche un iperaccrescimento, soprattutto se non secondario ad
una caratteristica familiare, differenziando tra le forme armoniche con rapporto span/altezza conservato
(span=apertura delle braccia) o disarmonico con aumento del rapporto span/altezza. Proseguendo si indagherà
circa la presenza di anomalie dello sviluppo psicomotorio. L’assoluta maggioranza dei pazienti con anomalie
dello sviluppo psicomotorio riconosce una causa genetica con una probabilità direttamente proporzionale alla
gravità del ritardo e alla contemporanea presenza di altri segni di allarme. La presenza di una malformazione
maggiore deve sempre far sorgere il dubbio che essa possa essere la punta più evidente di un quadro sindromico.
Inoltre, la visita pediatrica andrà completata da un accurato esame obiettivo dismorfologico, che è certamente
frutto di allenamento ed esperienza ed è appannaggio prevalentemente di coloro che svolgono in modo
specialistico l’attività di genetica clinica. E’ però importante che ogni medico possa avere una infarinatura di
base nel riconoscimento della presenza di anomalie minori nei propri pazienti perché queste stesse, soprattutto se
associate ad altri problemi clinici maggiori, possono aumentare la probabilità che il bambino sia affetto da un
quadro sindromico. Il paziente va quindi osservato con attenzione a partire dal viso, sia in proiezione anteroposteriore che laterale, per poi proseguire con le altre parti del corpo valutando questi tratti somatici anche nel
contesto della fisionomia familiare. E’ bene ricordare che la presenza di più anomalie contemporanee
appartenenti alle aree sopra citate ( crescita, sviluppo psicomotorio, tratti somatici, malformazioni maggiori,
complicanze mediche significative) è fortemente sospetta per avere una causa comune e , quindi, poter
rappresentare l’espressione di una sindrome malformativa meritevole di approfondimento in ambito
specialistico
Conclusioni: il percorso che può portare alla diagnosi di una condizione sindromica può essere lungo,
complesso, e gravato da un alto indice di insuccesso (circa 30%dei casi). La sua importanza per il bambino e la
sua famiglia giustificano però una attenzione specifica da parte del pediatra non specialista il cui ruolo di
sentinella clinica, di primo attivatore del sospetto clinico e di affiancamento della famiglia stessa in un cammino
spesso lungo in termini temporali e certamente rilevante sul piano emozionale, è indispensabile.
94
COSA SAPERE E COSA FARE DI FRONTE AL BAMBINO CON SOSPETTA MIOPATIA
Stefano Carlo Previtali
Neuromuscular Repair Unit, Institute of Experimental Neurology (INSPE)
Division of Neuroscience and Dept. of Neurology,
San Raffaele Scientific Institute, Via Olgettina 60, 20132 Milano, Italy
Abstract
Il processo diagnostico delle miopatie in età infantile segue in buona parte le stesse regole che si applicano per le
miopatie dell’adulto. Deficit motori, atrofia e/o atonia muscolare, ed elevati valori degli enzimi muscolari
(tipicamente CK) costituiscono più spesso il primo indizio di un’alterata funzione del sistema muscolare
scheletrico. Nella prima infanzia un deficit muscolare si può manifestare come grave ipotonia, deficit della
suzione, pianto flebile, generale ridotta motilità, ed un ritardo nello sviluppo delle tappe motorie.
Le cause possono essere molteplici, anche se, a queste età, più frequentemente ci si trova di fronte ad una forma
ad eziologia genetica o dismetabolica. Tra le forme genetiche più frequenti: le distrofinopatie, la distrofia facioscapolo-omerale, la distrofia miotonica di Steinert, le miopatie e distrofie congenite, ed alcune forme di distrofia
dei cingoli. Tra le forme dismetaboliche più frequenti le glicogenosi, in particolare la forma di tipo 2 (o di
Pompe), le encefalo-miopatie mitocondriali, che spesso si associano a disturbi del sistema nervoso centrale,
endocrino e cardiaco, e le forme legate al metabolismo degli acidi grassi e dei grassi neutri.
Meno frequenti, ma spesso più subdole, sono le miopatie disimmuni, che necessitano di una diagnosi rapida ed
appropriata al fine di somministrare una terapia mirata, prima che il quadro possa precipitare con gravi
conseguenze cardio-respiratorie.
Non bisogna dimenticare che anche nell’età infantile, il distiroidismo è frequente causa di miopatia, spesso
confusa con una forma infiammatoria. Il ripristino di una normale funzionalità tiroidea risolve anche il quadro
muscolare.
Forme infettive, spesso virali, possono essere causa di miopatie acute. Si tratta nella maggior parte dei casi di
forme che si risolvono autonomamente, e che necessitano unicamente idratazione, antidolorifici, e solo
raramente terapie mirate antivirali o antibiotiche.
La diagnosi differenziale riguarda più spesso l’esclusione di una malattia della placca neuro-muscolare, le
neuropatie (più spesso genetiche), e le gravi forme di amiotrofia spinale (SMA).
L’approccio diagnostico dipende dal sospetto e dall’età del paziente, e spesso richiede l’intervento di una equipe
multidisciplinare.
95
LA SINDROME DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITÀ
Dott.ssa Monica Saccani
Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza – Centro di Riferimento per l’ADHD
AO San Paolo - Milano
Il disturbo da Deficit d’attenzione/iperattività (ADHD) è una sindrome che include compromissioni a carico di
diversi ambiti funzionali, di per sè caratteristici dello sviluppo sia normale che atipico. Caposaldi di tale disturbo
sono difficoltà nelle funzioni attentive, di autoregolazione e autocontrollo, e in quelle più specificatamente
relative al funzionamento esecutivo.
Negli ultimi 25 anni la ricerca sull’ADHD si è caratterizzata per i notevoli risultati raggiunti nella descrizione
genetica, neurobiologica e neuropsicologica del disturbo così come nella chiarificazione delle
multidimensionalità della sua struttura fenotipica.
Nonostante gli avanzamenti relativi alle caratteristiche neurobiologiche dell’ADHD i cambiamenti nella
descrizione comportamentale del disturbo si sono poco modificati e i due domini comportamentali
dell’inattenzione e dell’iperattività/impulsività rimangono saldamente presenti anche nel nuovo sistema di
classificazione recentemente pubblicato (DSM 5, 2013).
L’ADHD ha esordio nell’infanzia (in genere entro i 12 anni di età secondo la classificazione DSM 5, entro i 7
anni secondo DSM IV-TR). La sintomatologia neuropsicologica e comportamentale ha natura pervasiva e
persistente, riguarda diversi contesti di vita, non è riferibile a altri disturbi e determina una significativa
compromissione funzionale.
La prevalenza del disturbo è stimata nelle diverse nazioni tra il 5 e il 7% nei bambini e adolescenti (età 4-17
anni). La prevalenza in Europa è intorno al 5% ma gli studi epidemiologici europei sono scarsi. La diversa
prevalenza nelle varie nazioni sembra riflettere differenze metodologiche e culturali e una variabilità nell’uso
dei sistemi di classificazione per la diagnosi. (1)
È riportata una maggiore prevalenza nel sesso maschile (6-9:1 nei campioni clinici, 4:1 in quelli epidemiologici)
rispetto a quello femminile.
I sintomi chiave dell’ADHD – inattenzione, iperattività/impulsività – contribuiscono in modo variabile alla
presentazione clinica del disturbo nel singolo individuo. Le differenti caratteristiche possono compromettere il
funzionamento e la qualità della vita in modo diverso e è perciò importante effettuare una valutazione accurata
delle caratteristiche sintomatologiche del singolo soggetto. (1,2)
Attualmente non vi è un unico strumento di riferimento per la diagnosi di ADHD. NICE (National Institute for
Health and Care Excellence) (2) e altri sistemi di linee guida raccomandano che per effettuare la diagnosi di
ADHD si faccia riferimento al Diagnostic Statistical Manual of Mental Disorder (DSM) di cui è stata
recentemente pubblicata la nuova edizione (DSM 5) o all’International Classification of Mental and Behavioral
Disorder (ICD - 10) (3,4,5).
L’ICD – 10 si riferisce al disturbo ADHD come Disturbo ipercinetico (HKD), termine di uso frequente in
Europa e incluso nelle linee guida cliniche sviluppate dall’European Network for Hyperkinetic Disorders
(EUNETHYDIS). Questo sistema di classificazione descrive il Disturbo ipercinetico come una compromissione
grave e persistente dello sviluppo psicologico caratterizzata dalla “combinazione di un comportamento iperattivo
scarsamente modulato con una marcata inattenzione e una mancanza di perseveranza nell'esecuzione di un
compito; pervasività in diverse situazioni e persistenza nel tempo di queste caratteristiche comportamentali”.
Il DSM 5 è pubblicato dall’American Psychiatric Association nel 2013. Definisce l’ADHD come un “pattern
persistente di inattenzione e/o iperattività-impulsività” che interferisce con lo sviluppo, la cui sintomatologia è
presente in due o più contesti (scuola, casa, o lavoro), e impatta negativamente sul funzionamento sociale,
accademico e occupazionale. I sintomi devono essere presenti prima dei 12 anni.
Al di là del sistema di classificazione utilizzato le caratteristiche descritte per l’ADHD sono simili con
l’eccezione che il sistema di classificazione ICD 10 richiede che tutte e tre le caratteristiche – inattenzione
iperattività impulsività – siano presenti. Il disturbo ipercinetico può essere considerato un sottotipo severo di
ADHD e praticamente tutti i casi di HKD sono compresi nella più ampia definizione di ADHD del DSM.
Etiologia
L’ADHD è una condizione a genesi complessa e multifattoriale. Gli studi familiari, gemellari e adottivi
forniscono l’evidenza che fattori genetici giocano un ruolo sostanziale nella trasmissione familiare dell’ADHD
con un’ereditabilità stimata del 70 -76%.
Gli studi di genetica molecolare supportano il coinvolgimento dei geni associati con la trasmissione nelle vie
dopaminergiche e nelle vie serotoninergiche e colinergiche. Gli studi di meta-analisi confermano che i geni
DAT1 (dopamine transporter-1), DRD4, DRD5 (dopamine D4 and D5 receptors), 5HTTPLR (serotonintransporter-linked polymorphic region), 5-hydroxytryptamine (serotonin) receptor 1B HTR1B (5hydroxytryptamine (serotonin) receptor 1B), e SNAP25 (synaptosomal-associated protein 25) sono marcatori
comunemente associati a ADHD. (6)
96
Tuttavia pochi studi sono stati replicati e le meta-analisi suggeriscono che, in ogni caso, le diverse varianti
genetiche per ADHD, nonostante l’elevata ereditabilità citata, rendono conto di meno del 5% della variabilità
genetica in ADHD (Neale et al. 2010) (7)
Accanto all’origine presumibilmente genetica del disturbo è stata riportata una considerevole evidenza del
coinvolgimento di fattori ambientali di rischio per lo sviluppo di ADHD. Tra questi l’esposizione al tabacco,
alcool e contaminanti ambientali durante la gravidanza, il basso peso alla nascita e la prematurità, l’esposizione a
avversità psicosociali durante l’infanzia. (8,9)
La suscettibilità individuale per ADHD è determinata quindi da un insieme complesso di fattori interagenti.
Questo renderebbe conto della notevole eterogeneità fenotipica del disturbo e della presenza di differenti
sottotipi clinici.
Diverse evidenze indicano che l’ADHD è correlato a un deficit di funzionamento esecutivo. I dati tuttavia non
sono conclusivi, registrandosi in diversi studi di neuroimaging funzionale pattern di associazione/dissociazione
differenti tra deficit di determinate funzioni esecutive e ADHD (es. funzioni inibitorie vs set shifting). Gli studi
più recenti testimonierebbero il coinvolgimento della corteccia del cingolato posteriore e della corteccia
prefrontale mediale da un lato e di quella prefrontale dorsolaterale dall’altro, confermando la complessità della
relazione tra diagnosi di ADHD e stato delle funzioni esecutive (10).
Valutazione e diagnosi
L’assessment e la diagnosi di ADHD sono processi che tipicamente coinvolgono passaggi multipli.
L'assessment comporta la valutazione clinica del soggetto, attraverso la somministrazione di rating sales (Scale
Conners, ADHD-RS, SDAG, SDAI), di interviste semistrutturate (K-SADS) e di test cognitive e
neuropsicologici, e la valutazione del funzionamento nei diversi contesti, attraverso la raccolta di informazioni
da più fonti, genitori, insegnanti, altre figure educative.
L’inattenzione si caratterizza per la facile distraibilità, l’incapacità a sostenere lo sforzo cognitivo prolungato, la
difficoltà a portare a termine le consegne, le difficoltà di organizzazione e pianificazione.
L’iperattività è caratterizzata da irrequietezza motoria fino a attività motoria incongrua rispetto al contesto,
difficoltà a impegnarsi in giochi quieti e/o frequente passaggio da una sequenza di gioco a un’altra, logorrea.
L’impulsività è caratterizzata da difficoltà a controllare il comportamento con incapacità a differire la risposta, a
rispettare i turni, tendenza a interrompere gli altri, scarsa capacità di riflessione.
Il disturbo determina conseguenze sia a livello scolastico che sociale con significativa compromissione del
funzionamento.
In una elevata percentuale di casi l’ADHD si associa a altri disturbi (comorbidità) tra cui i più frequenti sono il
disturbo oppositivo-provocatorio, il disturbo della condotta, i disturbi dell’apprendimento (circa l’80% dei
soggetti con ADHD ha una diagnosi aggiuntiva e il 60% ha più di due diagnosi) (11, 12).
Decorso
Il Disturbo da Deficit di attenzione/iperattività (ADHD) può avere conseguenze a lungo termine sul
funzionamento e la qualità della vita del soggetto ed è ampiamente riconosciuto che il disturbo può persistere in
età adulta causando ulteriore compromissione. (1,5) .
I tre sintomi cardine dell’ADHD (inattenzione, iperattività, impulsività) pur essendo strettamente correlati sono
predittivi di differenti compromissioni funzionali e probabilmente hanno differenti correlati neurobiologici. In
particolare, i sintomi di inattenzione – disorganizzazione esecutiva sono predittivi di difficoltà scolastiche e negli
studi in generale, e di alcune difficoltà sociali (quelle per lo più relative alla trascuratezza delle relazioni con i
pari). I sintomi di iperattività/impulsività sono predittivi di comportamenti aggressivi, discontrollo
comportamentale, rifiuto da parte dei coetanei. Ciò nonostante i differenti sottotipi sono instabili nel tempo e le
difficoltà a identificare le implicazioni genetiche e neurobiologiche del disturbo stanno a indicare la necessità di
caratterizzare il disturbo in modo più complesso.
Trattamento
Il trattamento dell’ADHD è di tipo multimodale e prevede che, dopo un accurata valutazione e diagnosi, si adotti
un approccio terapeutico centrato sul paziente, che

identifichi i bisogni del paziente e della famiglia,

si basi sulla condivisione degli obiettivi,

sviluppi un piano di trattamento individualizzato,

valuti periodicamente sia il quadro clinico che la risposta al trattamento in modo da assicurare un
periodico riaggiornamento degli obiettivi.
Gli interventi comprendono terapie farmacologiche e trattamenti non farmacologici.
Una review sistematica delle linee guida conferma che gli psicostimolanti sono generalmente il farmaco di prima
scelta (2,11). In Italia sono disponibili il metilfenidato a rilascio immediato e a rilascio prolungato. Il
meccanismo d’azione è il potenziamento delle vie dopaminergiche.
Anche farmaci in grado di modulare l’azione noradrenergica sono indicati nel trattamento dell’ADHD e tra essi
in particolare l’atomoxetina.
Tutte le linee guida segnalano inoltre che la gestione ottimale dell’ADHD dovrebbe sempre includere interventi
di tipo psicoeducativo e cognitivo - comportamentale con o senza associazione di terapia farmacologica. Tuttavia
i risultati riportati in letteratura e relativi all’efficacia dei diversi trattamenti cognitivo-comportamentali rivolti al
97
paziente non sono definitivi e se da un lato indicano un insieme effetti positivi sul senso di competenza
genitoriale (parent training) non sembrano avere efficacia sulla riduzione dei sintomi ADHD (13).
Lo sviluppo di un piano di trattamento multimodale richiede che siano considerati diversi fattori:

le caratteristiche specifiche del paziente (età, sottotipo di ADHD, presenza di comorbidità) (2)

preferenze del paziente e dei suoi genitori

la presenza di indicatori per il trattamento farmacologico e in caso positivo la formulazione del farmaco
più adeguata (sulla base dell’esigenza di flessibilità, necessità di copertura per la gran parte della giornata,
ecc).(2,14,15)
Secondo le linee guida NICE (2010) e le European clinical guidelines for hyperkinetic disorder (ESCAP) (2004)
il trattamento farmacologico è considerato di prima scelta nei casi di ADHD severo o di Disturbo ipercinetico,
mentre le forme di ADHD lieve o moderato non trovano nel farmaco l’indicazione principale. Gli interventi di
parent training e i programmi educativi associati a eventuali trattamenti cognitivo - comportamentali per il
bambino sono i trattamenti di elezione in questi casi; essi vanno comunque sempre associati, in un piano di
trattamento multimodale, alla terapia farmacologica.
In Italia la prescrizione di terapia farmacologica per ADHD deve seguire le indicazioni derivanti dall’istituzione
del Registro Nazionale Metilfenidato presso l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che “vincola la prescrizione del
metilfenidato/atomoxetina alla predisposizione di un piano terapeutico semestrale da parte del Centro clinico
accreditato (Centro di riferimento), per garantire l’accuratezza diagnostica e evitare l’uso improprio del
medicinale» (GU 3/10/2003, GU s. n. 95, 24/04/2007), e al consenso informato dei genitori su modello
predisposto da ISS (16).
L’assessment pretrattamento farmacologico comprende la raccolta di un’anamnesi completa, che ponga
particolare attenzione alla familiarità per patologie cardiache e cardiovascolari e alla presenza di episodi in
anamnesi suggestivi di anomalie cardiovascolari (es. sincope da esercizio), l’esecuzione di una visita medica,
con rilevazione delle curve di crescita per peso e altezza e dei dati di frequenza cardiaca e pressione arteriosa. È
previsto l’ECG prettrattamento e l’assessment del rischio di drug misuse /diversion negli adolescenti.
Il monitoraggio della terapia farmacologica segue precise raccomandazioni dell’ISS (controllo a 7 giorni, 1
mese, 6-12-18-24 mesi) e dovrebbe mantenersi per almeno 2 anni.
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98
I DISORDINI DEL NEUROSVILUPPO: IL PARADIGMA DEI DISORDINI DELLO SPETTRO
AUTISTICO
Daria Riva
Fondazione Irccs Neurologico C.Besta - Milano
I disturbi del neurosviluppo sono un gruppo di condizioni con esordio nel periodo dello sviluppo. Si manifestano
nell’infanzia anche molto precocemente e sono caratterizzati da deficit che causano disfunzionalità multiple
interagenti far di loro. Alcuni di questi malfunzionamenti possono essere preponderanti su altri ed anche
all’interno dello stesso dominio affliggere un certo tipo di comportamento rispetto ad altri comportamenti .
Anche l’estensione del deficit comprende una vasta gamma di condizioni che vanno da deficit molto selettivi
come certi disturbi dell’apprendimento o del controllo delle funzioni esecutive, fino a deficit pervasivi che
alterano estesamente molte delle componenti del funzionamento cognitivo e del comportamento (come lo spettro
dei disordini autistici e la disabilità intellettiva).
Accanto a questo va ricordata anche la complessità multicomponenzionale per cui accanto ad un disturbo è
spesso presente anche un altro disturbo clinico, che non costituisce comunque parte integrante della condizione.
Si deve considerare che tutti questi disturbi sono causati da una complessa eziologia in cui accanto ad una
predisposizione genetica ereditata o de novo, si affianca un ruolo non ancora del tutto chiarito dell’ambiente, ma
dimostrato per alcune sostanze con forte evidenza, che causano un alterazione dello sviluppo cerebrale nelle sue
fasi più precoci. Questa alterazioni anatomiche e neuro-trasmettoriali canalizzano lo sviluppo cognitivo e
comportamentale in una direzione così forte da compromettere anche altre traiettorie di sviluppo.
L’autismo (spettro dei disordini autistici) è un disturbo neuro evolutivo, con una prevalenza stimata di ca 0,5 per
1000 soggetti. Le sue caratteristiche e le ricerche relative possono costituire un prototipo per la comprensione dei
disordini del neurosviluppo.
Il disordine è caratterizzato da deficit della relazione , della comunicazione verbale e da un ristretto range di
interessi. E’ spesso in comorbidità con la disabilità intellettiva e con altri disturbi psichiatrici. Sono centinaia i
geni trovati in associazione alla malattia , ma non è tuttora chiara la genetica del disturbo. La complessità
eziologica sembra agire soprattutto sulla connettività cerebrale e di conseguenza sull’effetto formante
dell’informazione sulla corteccia .
Si ipotizzano tre teorie che possono spiegare la complessità, anche genetica, del disturbo: a) disfunzioni di
sistemi neurali locali versus sistemi distribuiti ; b)ncapacità di rilevare informazioni sinaptiche salienti dal
rumore di fondo; c) la ratio maschi : femmine di 4:1, che traduce l’influenza degli ormoni sessuali.
Tutta quanto detto va nella direzione di trovare una terapia per il disordine. Attualmente è noto che solo
interventi riabilitativi precoci e ben strutturati possono cambiare in parte l’evoluzione di una condizione che dura
tutta la vita.
99
BERGAMO COUGH SEMINAR 2014
“RETHINKING COUGH”
Venerdì, 14 novembre 2014
Presidenti: F. Cardinale, A. Kantar
13,30 – 15,00
Moderatori: A. Barbato, F. Midulla
16,00 – 17,30
Moderatori: A. Martelli, G. Rossi
100
COUGH RECEPTORS
Maria Gabriela Belvisi
Imperial College London
Cough is the most common respiratory complaint for which medical attention is sought [1] and often presents as
the first and most persistent symptom of many respiratory diseases (e.g. common cold, lung infections, asthma,
COPD, pulmonary fibrosis, bronchiectasis, lung cancer) and some non-respiratory disorders (gastro-oesophageal
reflux, post-nasal drip). Chronic cough of various aetiologies is a common presentation to specialist respiratory
clinics, and is reported as a troublesome symptom by 7% of the population [2]. Treatment options are limited.
A recent meta-analysis concluded that over the counter (OTC) cough remedies are ineffective [3] and there is
increasing concern about the use of OTC therapies in children. Despite its importance our understanding of the
mechanisms which provoke cough is poor.
The respiratory tract is innervated by sensory afferent nerves which are activated by mechanical and chemical
stimuli [4]. Activation of capsaicin-sensitive C-fibres and acid-sensitive, capsaicin-insensitive mechanoreceptors
innervating the larynx, trachea, and large bronchi regulate the cough reflex [4,5]. Endogenous inflammatory
mediators are often elevated in respiratory disease states. For example, higher concentrations of PGE 2 [6] and
BK [7] have been found in the airways of patients with asthma and chronic obstructive pulmonary disease
(COPD). Both PGE2 and BK are also known to cause cough by stimulating airway sensory nerves [8,9].
Furthermore, increased PGE2 levels have been found in idiopathic cough and cough associated with post nasal
drip, gastroesophageal reflux disease, cough variant asthma and eosinophilic bronchitis [10]. Although we do
have some information regarding which G protein-coupled receptors (GPCRs) are activated by these endogenous
tussive agents it is still unclear what post receptor signalling pathways are involved.
Recently, ion channels of the Transient Receptor Potential (TRP) class such as TRPV1 have been implicated in
the afferent sensory loop of the cough reflex [11, 12] and in the heightened cough sensitivity seen in disease [13].
TRPA1 is a Ca2+-permeant non-selective channel with 14 ankyrin repeats in its amino terminus which also
belongs to the larger TRP family. TRPA1 channels are activated by a range of natural products found in mustard
oil, garlic and cannabis [14-16] and by environmental irritants (eg. acrolein) [17-19], and is primarily expressed
in small diameter, nociceptive neurons [20]. It has been demonstrated that stimulating TRPA1 channels activates
vagal broncho-pulmonary C-fibers in rodent lung [19-21] causing cough both in guinea-pig models and in
normal human volunteers [21]. The TRPV4 channel is also widely expressed in mammalian tissues including
lung, heart, kidney, sensory neurons, sympathetic nerves, brain, skin, intestine, salivary gland, sweat glands,
inner ear, endothelium and fat tissue. In the lung, TRPV4 is detected by RT-PCR in a human bronchial epithelial
cell line and in cultured human airway smooth muscle cells [22-24]. In addition, we have preliminary data to
suggest that TRPV4 may be present on vagal sensory nerve endings and may be involved in the activation of
lung specific afferents in response to endogenous stimuli such as hypotonicity. Another TRP channel, TRPM8,
has also been suggested to be involved in modulation of the cough reflex. However, in this case anti-tussive
activity has been suggested following activation of the channel with agonists such as menthol [25, 26]. Recent
studies have investigated the mechanism underlying the antitussive action of menthol, which is frequently used
in many over–the–counter preparations for cold and cough treatments. Based on a series of studies performed on
conscious and anaesthetized guinea pigs, and using single cell RT PCR method it has been proposed that the
antitussive action of menthol is mediated by nasal trigeminal afferents and in particular by a subpopulation of
TRPV1-/TRPM8+ expressing neurons and clinical studies have now been performed which support this
mechanism [27, 28].
Although many exogenous stimuli are known to activate particularly TRPA1 and TRPV1, it is still unknown
how cough and other reflexes are elicited in health and disease by endogenous agents, and whether these ion
channels are involved. We have provided evidence that TRP ion channels may have a role as common effectors
for tussive agents. Furthermore, models of exaggerated cough have now been developed in our laboratory which
may help to identify novel disease relevant targets.
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102
COUGH HYPERSENSITIVITY
Alyn Hugh Morice
University of Hull, Cottingham, UK
Previous paradigms of cough
Chronic cough, that is cough lasting greater than an arbitrary eight weeks in duration, has previously have been
considered to be a symptom of some other condition. Obvious examples would be lung cancer, acute infection,
or Chronic Obstructive Pulmonary Disease. However in the 1970s and 80s clinicians and particularly Richard
Irwin recognised at that patients were presenting with a chronic cough who at first glance had no obvious
underlying cause for their complaint. In these patients intensive investigation and therapeutic trials led to the
hypothesis that these patients had one of three underlying conditions: a form of the asthma, rhinitis which in
early American literature was originally called Post Nasal Drip Syndrome or more recently Upper Airways
Cough Syndrome, and finally Gastro-Oesophageal Reflux Disease. These three conditions were called the Triad
of chronic cough.
Whilst it is true that, for example, some patients presenting with an isolated chronic cough which is dry in
nature, and without any chest x-ray abnormalities may show some aspects of asthma, in reality one of the
cardinal features of asthma, bronchoconstriction, is rarely present. Similarly in the cough associated with rhinitis,
sinus infection is rare. Only a small fraction of patients with obvious gastrointestinal precipitation of cough e.g.
when eating food, exhibit symptoms such as heartburn to point to acid reflux disease. Thus the patients are rarely
fitted neatly to the existing disease boxes and some patients have none of the features of these conditions. These
patients were then coined as having chronic idiopathic cough. To many of us working in cough clinics this
system of classification became increasingly unsatisfactory.
ERS task force on the cough hypersensitivity
In 2001 the ERS Scientific Committee approved a task force to characterise a new paradigms for the
understanding of chronic cough which has been termed the Cough Hypersensitivity Syndrome. The concept is
that the irritation leading to chronic cough is invested in the hypersensitivity of the afferent nerves in the upper
airways rather than in a specific provoking condition. The task force met and undertook a comprehensive review
of the current literature and from this instructed and refined a set of key thematic questions covering the
aetiology, diagnosis, and treatment of chronic cough. Key Opinion Leaders were identified and a questionnaire
constructed from the topics identified with which to elicit their opinions. 44 opinion leaders from 14 countries
were interviewed.
This and the associated paper along with an accompanying editorial are published in the November 2014 edition
of the European Respiratory Journal. Cough Hypersensitivity Syndrome was defined as a clinical syndrome
characterised by troublesome coughing often triggered by low levels of thermal, mechanical, or chemical
exposure. All but one of the KOLs agreed with this concept. Thus CHS appears to be a well recognised concept
with a general acceptance. There was also a general agreement that CHS could overlap with other conditions.
Thus a patient could have airflow obstruction either fixed as in COPD or variable as in asthma and also have
CHS, but it was the latter which was causing the coughing.
With regard to the mechanism of the CHS, all agreed that this was a different phenomenon from the bronchial
hyperresponsiveness seen for example with methacholine challenge. CHS is hypersensitivity of the afferent
nerves, whereas methacholine or histamine hyperresponsiveness is an intrinsic motor function of the
neuromuscular unit within the bronchus. What was more difficult to define is the anatomical location of this
hypersensitivity. It was considered possible that it could reside in the irritant receptors, particularly of the TRP
family. It is undoubtedly true of that agonists of TRPV1 or TRPA1 evoke cough when inhaled in man, however
emerging evidence from the use of the newly developed antagonists of these receptors indicates that blockade of
these receptors does not diminish chronic cough in the clinic.
Work arising from the task force output, a survey of over 10,000 patients presenting to cough clinics around the
globe indicate that whilst chronic cough is equally present in boys and girls it is twice as frequent in the women
as men. Using fMRI we demonstrate that the somatosensory cortex in women stimulated by a tussive signal from
capsaicin inhalation is twice as large as that in the men. This suggests that the hormonal changes of puberty may
cause a central sensitisation of the cough perception in women and this has been suggested to be due to an
evolutionary response preventing aspiration during pregnancy.
Inflammation was thought to play an important role in priming the airway nerves themselves rather than
receptors. Recent evidence using the P2 X3 ATP receptor antagonist AF 219 suggests that release of cellular
ATP by inflammation may be a possible mechanism for inducing afferent neuronal hypersensitivity.
103
Phenotypes of cough
The form of inflammation causing cough hypersensitivity may vary with the “asthmatic” sub type present in
approximately 10 to 20% of patients as eosinophilic inflammation. As in the classic eosinophilic airway
inflammation of asthma this responds to steroid treatment, but of the KOLs a significant number felt that a
formal trial of oral steroid therapy should not be routinely used. It was suggested that measures such as a
peripheral blood eosinophilia or high levels of expired nitric oxide provided a better routine clinical test. To
avoid over treating the majority of patients who do not have eosinophilic inflammation some form of diagnostic
test should be performed in the patient with chronic cough. In the clinic only a minority of patients with chronic
cough have some form of “asthmatic cough”.
The remaining patients have a mainly neutrophilic inflammation and opinions were divided as to the importance
of non-acidic gaseous reflux as the primary driver. Recent research however demonstrates that the overwhelming
majority of patients with intractable cough have some form of the oesophageal dysmotility either within the body
of the oesophagus or at the gastro-oesophageal junction.
Given that non-acid reflux was recognised it was perhaps surprising that the majority of the KOLs felt that
proton pump inhibitors were an effective treatment. Two recent RCTs demonstrated no effect of PPIs on chronic
cough and indeed blocking acid may lead to an increase in aspiration pneumonia. Alternative treatments such as
metoclopramide, domperidone, and the macrolide antibiotics are recommended. The diagnosis of oesophageal
dysmotility as a guide to this therapy can be aided by the use of questionnaires such as HARQ, available on the
website www.issc.info
Alternative drug therapies such as antihistamines and low dose morphine can be used to suppress the cough
reflex in the remaining patients unresponsive to pro-motility agents. Nonpharmacological treatments include
speech therapy and weight loss in those who are obese.
Conclusion
By applying of the Cough Hypersensitivity Syndrome in our diagnostic workup allows a logical explanation of
previous mysterious symptoms to the patient. We know that it is a common syndrome and this can provide a
great comfort to the patient. We have some targeted therapy available at the present time, but with this increase
in our understanding better treatments will become available in the future.
104
EFFECT OF VIRAL UPPER RESPIRATORY TRACT INFECTION ON COUGH REFLEX
SENSITIVITY
Peter V. Dicpinigaitis, MD
Albert Einstein College of Medicine and Montefiore Medical Center
Bronx, New York, USA
Abstract
Acute viral upper respiratory tract infection (URI; common cold) is among the most common medical conditions
affecting man, with cough being a typical feature of the associated syndrome. Studies employing capsaicin
inhalation challenge to measure cough reflex sensitivity have demonstrated a transient tussive
hyperresponsiveness induced by URI that reverts to normal by 4-8 weeks post infection. Mechanisms proposed
to explain the induction of cough by URI include a number of infection-associated airway effects, such as
enhanced release of cytokines, neurotransmitters, and leukotrienes; increased neural receptor levels; reduced
activity of neutral endopeptidases; transient modulation of afferent neural activity; mucus hypersecretion; and,
possibly, effects on cholinergic motor pathways. Recent studies evaluating urge-to-cough (UTC), the sensation
of irritation preceding the motor act of coughing, have demonstrated that URI induces a transient enhancement
of UTC analogous to the effect observed on cough reflex sensitivity. The recently introduced concept of the
Cough Hypersensitivity Syndrome may provide an explanation for the commonly observed clinical phenomenon
of acute viral URI triggering what will develop into chronic, refractory cough in a subgroup of patients.
Introduction
Cough is among the most common reasons for which patients worldwide seek medical attention [1]. Most cases
of acute and subacute cough are due to acute viral upper respiratory tract infections (URI), otherwise known as
the common cold. Given the sheer enormity of the problem of common cold worldwide, the medical and
economic implications of cough due to this condition are of tremendous significance. Not only does acute cough
due to URI result in tremendous financial expenditure, but the available treatments for acute cough are limited
by lack of efficacy or, as in the case of opiates, for example, intolerable side effects at antitussive doses [2,3].
Measurement of cough reflex sensitivity
Measurement of cough reflex sensitivity has allowed insight into the effects of viral URI on human cough reflex
sensitivity. Among the various provocative agents used for induction of cough in the laboratory, capsaicin, the
pungent extract of red chili peppers, has gained favor as the tussive agent of choice, given its ability to induce
cough in a safe [4], dose-dependent and reproducible manner [5,6]. The typical end points of capsaicin
inhalation challenge are C2 and C5, the concentrations of capsaicin inducing 2 or more, and 5 or more coughs,
respectively.
Effect of viral URI on cough reflex sensitivity
Employing capsaicin inhalation challenge to measure cough reflex sensitivity, O’Connell and colleagues initially
demonstrated that cough reflex sensitivity is transiently enhanced in otherwise healthy subjects during acute viral
URI, compared with the post-recovery state [7]. These findings were subsequently confirmed in a similar
population [8], as shown in Figure 1, with C5 significantly decreased (cough reflex sensitivity enhanced) during
URI compared with repeated measurement after recovery (4-8- weeks post-URI).
A recent study was the first to perform multiple cough reflex sensitivity measurements during the acute
phase of viral URI in otherwise healthy subjects [9]. Capsaicin cough challenge, performed twice during the first
8 days of acute URI, demonstrated stability of cough reflex sensitivity during acute URI, with subsequent
diminution (increased C5) post-recovery [9]. This observation is of significance to future investigators evaluating
the effect of a pharmacological intervention on acute cough, as changes in cough reflex sensitivity can be
assumed to reflect the effect of the study drug, rather than significant, naturally occurring fluctuations in cough
reflex sensitivity occurring during the early stages of acute URI.
Effect of drugs on cough reflex sensitivity during URI
Relatively few studies have evaluated the effect of a drug on cough reflex sensitivity during URI. The widely
used expectorant, guaifenesin, has been shown in two clinical trials to inhibit cough reflex sensitivity in subjects
with acute viral URI, but not in healthy volunteers [10,11]. Similarly, the anticholinergic bronchodilator,
tiotropium, has been shown to suppress cough reflex sensitivity in otherwise healthy nonsmokers with acute
URI, but not in healthy controls [12]. Interestingly, the antitussive effect of tiotropium occurred without
demonstrable bronchodilation, thus highlighting the concept that tiotropium may have pharmacological effects
beyond that of reversal of pathological airway obstruction [13]. Notably, both of these agents inhibited capsaicin
sensitivity in subjects with URI, whose cough reflex sensitivity was transiently enhanced, whereas the drugs had
no effect in healthy volunteers, whose cough reflex was at its baseline. These observations raise the concept that
105
subjects with pathologically enhanced cough reflex sensitivity, rather than healthy volunteers, comprise the
optimal study population for clinical trials evaluating potential antitussive agents [14].
A recently completed study demonstrated the ability of the first-generation antihistamine, diphenhydramine, to
inhibit cough reflex sensitivity in otherwise healthy adults with acute viral URI [15]. Although first-generation
antihistamines are widely used for acute cough as well as chronic cough due to upper airway cough syndrome,
previously known as postnasal drip syndrome [2], to the author’s knowledge this study is the first to demonstrate
cough inhibition by a first-generation antihistamine in acute pathological cough (Figure 2).
Mechanisms of enhanced cough reflex sensitivity during viral URI
Numerous mechanisms have been proposed to explain the transient cough and enhancement of cough reflex
sensitivity associated with acute viral URI [16]. Direct effects of the viral infection on airway epithelium include
inflammation and cytokine release. Other airway effects of URI include increase in neurotransmitter levels, such
as Substance P; reduced activity of neutral endopeptidases; increased neural receptor levels (NK-1); and,
transient modulation of airway neural activity. Increased leukotriene production and mucus hypersecretion are
likely additional contributors to cough induction. Viral infections induce bronchoconstriction and airway
hyperresponsiveness through their influence on cholinergic pathways, but the significance of these effects on
cough and cough reflex sensitivity remains to be elucidated (Table 1).
It is of interest, and likely quite significant, that many patients presenting with chronic cough relate the onset of
their longstanding condition to an episode of URI. The newly emerging concept of the Cough Hypersensitivity
Syndrome [17-20] suggests that an underlying hypersensitivity of the cough reflex potentiates the effect of an
exogenous stimulus such as acute viral URI, resulting in refractory, chronic cough in a particular subgroup of
individuals whereas the same stimulus causes a merely transient cough in the great majority of the population.
Effect of viral URI on the urge-to-cough sensation
Recently, increasing interest has focused on the sensation of irritation that precedes the motor act of coughing;
this phenomenon has been termed the urge-to-cough [21-24]. Studies employing functional magnetic resonance
imaging in subjects administered inhaled capsaicin have demonstrated that the urge-to-cough sensation is
associated with activations in a variety of cortical brain regions [25,26]. As is the case with the motor cough
reflex, acute viral URI has been demonstrated to induce a transient enhancement of the urge-to-cough sensation
[8]. As shown in Figure 1, urge-to-cough, as measured by Cu, the lowest concentration of capsaicin inducing the
urge-to-cough sensation without an associated motor cough [24], is significantly enhanced during URI compared
to the post-recovery state.
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25 Mazzone SB, McLennan L, McGovern AE, et al. Representation of capsaicin-evoked urge-to-cough in
the human brain using functional magnetic resonance imaging. Am J Respir Crit Care Med
2007;176:327-332.
26 Leech J, Mazzone SB, Farrell MJ. Brain activity associated with placebo suppression of the urge-tocough in humans. Am J Respir Crit Care Med 2013;188:1069-1075.
Table 1
Proposed mechanisms of virus-induced cough*
effects on airway epithelium - inflammation and cytokine release
(IL-1, TNF-α, IL-6, IL-8, GRO-α, IL-11, RANTES, GM-CSF, eotaxin)
increased airway neurotransmitter levels - Substance P
reduced activity of neutral endopeptidases in airway
increased neural receptor levels (NK-1)
modulation of afferent neural activity (transient)
? effect on cholinergic motor pathways (bronchoconstriction, airway hyperresponsiveness)
increased leukotriene production
mucus hypersecretion
*adapted from reference 16
Legend – Figure 1
Mean values for log C5 (open circles) and log Cu (solid circles) during viral upper respiratory tract infection
(URI) and after recovery (4-8 weeks after URI). Error bars indicate ±SEM. Values were significantly lower (i.e.,
sensitivity enhanced) during URI. *p=0.046; **p=0.001. C5 was affected to a greater degree by URI than was Cu
(p=0.044). (from ref. 8).
107
2
1
0
placebo
Dx
Dph
Legend – Figure 2
Values for cough reflex sensitivity to capsaicin (log C5) determined 2 hours after ingestion of diphenhydramine
(Dph), dextromethorphan (Dx), and placebo in adult nonsmokers with acute viral upper respiratory tract
infection. Cough reflex sensitivity was significantly inhibited (log C 5 increased) after diphenhydramine (p<0.01).
Error bars represent ±SEM.
108
COUGH SUPPRESSION THERAPY
Dr Surinder S Birring
King’s College Hospital, London
[email protected]
Cough suppression therapy (CST), also known as cough suppression physiotherapy and speech pathology
management is a promising non-pharmacological therapeutic option for patients with refractory chronic cough. It
has largely been developed and evaluated in adult patients. CST may consist of education, improving laryngeal
hygiene and hydration, cough suppression techniques, breathing exercises and counselling. It is an out-patient
therapy delivered in 2-4 sessions. There is evidence to support the efficacy of CST: three randomised controlled
trials have reported a significant reduction in cough symptoms and other studies have reported improved cough
related quality of life, reduced cough reflex hypersensitivity and cough frequency. The mechanism of action of
CST is not clear, but it has been shown to reduce cough reflex sensitivity, paradoxical vocal fold movement
(PVFM) and extrathoracic hyperresponsiveness. Further research is needed to determine the optimal components
of CST, the characteristics of patients in whom it is most effective and to increase the understanding of its
mechanisms of action. The effectiveness of CST in other respiratory conditions such as asthma should also be
investigated. It is likely that CST is delivered to children with refractory cough by a range of speech and
physiotherapists, nurses and psychologists. A structured programme of CST for children should be developed
and evaluated.
Table 1. Cough suppression therapy components for adults with cough.
Components
Techniques
Education
Cough reflex and cough reflex hypersensitivity.
Negative effects of repeated coughing.
Principals of voluntary control of cough.
Laryngeal Hygiene and hydration
Promote nasal breathing
Avoid smoky environments
Increase frequency and volume of water intake
Cough Control
Teach patients to identify their cough triggers.
Teach patients to suppress their cough at the first urge to cough by
using techniques:
Substitute cough: Forced swallow. Distraction: Sucking sweets, Sipping
water.
Where possible, relaxed throat breathing, pursed lip breathing,
breathing pattern retraining.
Psycho-Educational Counselling
Behaviour modification: reducing over-awareness of the need to cough.
Encouraging voluntary control of cough.
Setting realistic timeframes and goals.
Reinforcement of techniques.
Stress and anxiety management
Address adverse symptoms
109
THE MUCUS BARRIER AND RESPIRATORY INFECTIONS
David J. Thornton
Wellcome Trust Centre for Cell-Matrix Research, Faculty of Life Sciences, University of Manchester,
Manchester, UK.
The mucus barrier provides a dynamic, protective interface between tissues and the outside
environment. Innate defence mechanisms in the respiratory tract are centred on this barrier, which plays a key
role in protection from infectious and environmental challenges1. The components of mucus in terms of water,
salts and in particular, secreted glycoproteins and proteins (at least 250 distinct molecular species) 2 come
together to form a physical barrier armed with anti-microbial activity Transport of mucus out of the airways by
mucociliary clearance and cough is critical for health, and accumulation of mucus, with non-optimal transport
properties, is a pathologic feature of airway diseases such as cystic fibrosis (CF) and chronic obstructive
pulmonary disease (COPD). In CF, accumulation of mucus results in adherence of mucus to the airway
epithelium, blocking small airways and providing an environment within which bacteria can flourish. This leads
to infection, inflammation and a cycle of airway damage and mucus accumulation, key aspects of morbidity and
mortality in this disease3.
The mucin glycoproteins are the major determinants of the physical properties of mucus in the healthy
airways. These very large polymeric molecules are synthesized by specialized secretory cells in the surface
epithelium and submucosal glands and are secreted in response to a stimulus, for example, bacterial
lipopolysaccharide (LPS). The airway mucus gel is comprised of a heterogeneous mixture of two mucin
glycoproteins, MUC5AC and MUC5B4. The roles of these two mucins are yet to be fully elucidated. MUC5B,
the predominant mucin in health, is indispensible for mucociliary clearance that controls bacterial infection 5. In
contrast, MUC5AC is a more minor component of healthy mucus that is up-regulated during infection6 and
allergic airway inflammation7.
My presentation will focus on how changes to the hydration and pH of the airway surface liquid into
which MUC5AC and MUC5B are secreted impact on the barrier, transport, and anti-microbial properties of the
mucus barrier. These aspects of mucus barrier function will be discussed in the context of CF.
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K.A., Grubb, B.R., O’Neal, W.K., Flores, S.C., Cota-Gomez, A., Lozupone, C.A., Donnelly, J.A.,
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Roy, S.N. Alexander, S.J. Moghaddam, et al. 2007. Central role of Muc5ac expression in mucous
37, 273–290.
110
RESPIRATORY INFECTION AND BACTERIAL BIOFILM
Prof Mark L Everard
School of Paediatrics and Child Health, University of Western Australia,
Princess Margaret Hospital for Children, Perth Australia
Acute pulmonary infections are responsible for an enormous burden of morbidity and death amongst infants and
children. The WHO estimate that, worldwide, lower respiratory tract infections due to streptococcus
pneumonia, respiratory syncyctial virus, haemophilus influenza type B as well as many other pathogens causing
pneumonia and related acute lower respiratory tract infections kill more than 1.1 million children under 5 years
of age and LRTIs remain the leading cause of death in children.
Understandably, in light of the burden placed on medical services and the unacceptable mortality noted
particualrly in resource poor countries, much of the literature regarding ‘lung infections’ has concentrated on
acute severe infections such as pneumonia and ‘acute bronchiolitis’. With good supportive care for viral induced
illnesses such as bronchiolitis and the use of standard antibiotic therapy for bacterial pneumonia the mortality
associated with these acute illnesses is very low, developed countries though deaths still occur. With resolution
of an acute pneumonic episode the majority of subjects return to normal function and activity with no discernible
effects.
Chronic infections of the lung have received much less attention outside the setting of TB and cystic fibrosis. In
the later condition persistent infection of the conducting airways has been recognised as key component of the
pulmonary disease for many decades and is believed to play a major role in the progressive pulmonary damage
characterised pathologically by bronchiectasis. While all respiratory clinicians are aware of bronchiectasis
developing due causes other than cystic fibrosis there has been a lack of clarity about the interaction of
‘infection’ and the ‘bronchiectasis’. To many the purulent sputum is a consequence of distorted and damaged
airways. However bronchiectasis is not a disease – there any many subjects who remain well for long periods
despite evidence of bronchiectasis. The dis-ease is largely attributable to a persistent or recurrent bronchitis
which, in most cases, drives the development and progression of the structural changes affecting the airways in
those with bronchiectasis.
The vicious circle hypothesis proposed by Cole P and others to explain the development of bronchiectasis
suggests that a circle of impaired mucocillary clearance contributing to airways infection resulting in
inflammation leading to damage to the airway which in turn impairs mucocillary clearance. This hypothesis
does not suggest that ‘bronchiectasis’, which is after all not a diagnosis but a radiological or pathologic
description, develops suddenly with infection being secondary but rather proposes prolonged periods [months,
years or decades] of on-going or recurrent infection. That there exists a period of chronic infection and
inflammation prior to the development of radiologically evident bronchiectasis is supported by studies in
children from the mid C20th when children underwent bronchograms for presumed bronchiectasis. In a large
cohort in whom bronchiectasis was not identified follow up 3 years later indicated that the pathology had
progressed to overt bronchiectasis in a large proportion of these children.
Impairment of mucocillary clearance can occur in those with a significant viral LRTI [most common in the first
2 years of life, congenital abnormalities such as tracheomalacia, toxins produced during pertussis infections,
airways damage due to inhaling toxins associated with tobacco smoke etc. Less commonly the impaired
mucocillary clearance is due to the dehydration of the luminal fluid in patients with CF and impaired ciliary
function in PCD. In other subjects immunodeficiencies initiate the circle buy permitting the establishment of
infection that causes inflammation and damage to the mucosa. It should be acknowledged that occasionally
severe insults such as PVL staph pneumonia or non-infected inflammatory conditions can occasionally lead to
bronchiectasis but these are very much the minority
The introduction of antibiotics in the 1940’s and 1950’s transformed the lot of children with bronchiectasis and
‘pre-bronchiectasis’ with hospital admission rates for ‘bronchiectasis’ falling dramatically over a decade. The
widespread use of antibiotics, together with the natural tendency for symptoms to become less troublesome in
subjects with bronchiectasis during the 2nd to 4 th decades led to ‘bronchiectasis’ becoming an ‘orphan’ disease,
at least in developed countries.
Lack of recognition of the underlying process resulting in the development of dilated conducting airways and in
particular a belief that bacteria caused acute severe disease that was easily recognised led many to believe that
‘bronchiectasis’ was disease, failing to recognise that the dis- ease – the coughing, malaise and acute
exacerbations, are due to the chronic bacterial bronchitis. Indeed, many with, ‘bronchiectasis’, experience no
dis-ease for years at a time if at all.
The presumed ‘chronic infection’ has generally been hard to explain on the basis of the known dynamics of
bacterial population during acute illnesses such as pneumonia [affecting the respiratory zone rather than the
conducting airways] and the confusion has been compounded by the idea of commensal colonisation being
111
distinct from disease. More recently it has been recognised that the common pathogens observed in those with a
persistent or recurrent bacterial bronchitis are able to exist in both traditional planktonic forms and within
biofilms, their behaviour being quite different in each state. Planctonic bacteria generally replicate rapidly,
induce an intense inflammatory response and in the context of the lungs generally cause a severe febrile illness
affecting predominantly the respiratory zone. Biofilms contain populations of bacteria [often mixed] within a
matrix generated by the bacteria, frequently also incorporating host material such as neutrophil DNA. The
complex structures attain a significant size; bacteria turn over slowly and are protected against both host
defences and agents such as antibiotics. The creation of biofilms involves signalling molecules released by
bacteria which exert their actions on a population of bacteria when the density of bacteria in a location reaches a
certain level [quorum sensing]. In response to these molecules bacteria switch from the aggressive planktonic
form to the more quiescent form resident in the biofilm adopting a state that provides sanctuary awaiting the
opportunity, under favourable conditions, to start releasing more planktonic form which can colonise other areas
of the airway or be transmitted to another host. It should be recognised that the biofilms can develop within
epithelial cells as well as between and on the surface of these cells. Moreover biofilms can form in the lumen at
a distance fromt eh surface as is characteristic of Pseudomonas A biofilms in patients with CF.
The formation of biofilms by bacteria as a mechanism for resisting adverse environmental factors dates back
more than 4.5 billion years. Initially biofilms provided and still provide protection against clearance from an
environment by rivers, tides or wind. Biofilms are ubiquitous and it should be no surprise that certain
organisms are particularly adept at using this mechanism to provide itself with a survival advantage in the lower
airways as well as in the ears and sinuses. It appears that the most important trigger for release of planktonic
forms of the organism is the advent of a respiratory viral infection though the mechanisms have not been fully
explored. One feature of organisms such as Non-typable haemophilus influenza [NTHi] is that as a biofilm it
attempts to down regulate inflammation – during ‘exacerbations’ of symptoms in those with PBB including
those with ‘COPD’ it is likely that some of the symptoms are due to the virus per se but that much of the
increased morbidity is due to the inflammation associated with increased load of planktonic organism. In
children with a ‘cold’ the SNOT score correlates closely with the bacterial load of NTHi and/or Strep.
pneumionae and/or Moraxella suggesting that the bacteria are contributing significantly to the severity of the
‘cold’. Under conditions of neutrophilic inflammation with increased mucus production coughing and sneezing
conditions ae ideal for disseminating both virus and bacteria and hence it is not surprising that there may be
synergistic interactions across a range of micro-organisms.
With increasing recognition of the complexities and dynamic structure of the lung ‘microbiome’ it is recognised
that many of the organisms that may be pathogenic as virulent planktonic organisms or indolent biofilms also
appear to be present as part of a ‘healthy’ community and much is still to be learnt of how these complex
communities self-regulate in health and why a ubiquitous bacteria ‘turns bad’. In pathogenic situations it
appears that a reduction in diversity is common generally accompanied by an increase in the burden of certain
‘pathogenic’ organisms.
Understanding the challenges posed when attempting to treat biofilms explains many of the features of
symptoms and responses to treatment in children and adults with a persistent bacterial bronchitis irrespective of
whether they have radiological ‘bronchiectasis’.
Amongst the population of developing countries in South East Asia and indigenous populations in the Americas
and Australia persistent bacterial bronchitis continues to be common and responsible of considerable morbidity
and high levels of bronchiectasis being observed in studies. In developed countries, as noted above, the
condition appeared to largely disappear with the widespread use of antibiotics in the community but its
prevalence appears to have increased substantially over the past decade or so. The reason for this is unclear with
possibilities including better recognition, reduced antibiotic prescribing for ‘viral infections’ resulting in more
children developing a bacterial bronchitis and the possibility that the HiB vaccine and conjugated pneumococcal
vaccines are addressing organisms responsible for severe acute infections but inadvertently promoting the
opportunity for organisms from the same family with lower virulence but greater biofilm generating capacity
being to occupy a niche in the airway.
Understanding the nature of the vicious cycle model of bacterial bronchitis and the development of airways
abnormalities that can go on to result in bronchiectasis suggests treatment involves eradicating ‘infection’,
enhancing mucocillary clearance and potentially inhibiting inflammation. Killing the organisms in biofilms
require high doses for a period of time – in those that respond it is rare for the cough [a marker of inflammation]
to resolve before 10 -14 days. At this point the airways are unlikely to have a healthy phenotype. The airways
do appear to be capable of considerable repair should the driver be removed [it is not uncommon for
‘bronchiectasis’ to disappear in children treated aggressively]. However the airways are at risk of further
infection by these ubiquitous organisms prompting many to recommend longer course of antibiotics. The
evidence base for this is non-existent in large part because of the failure of granting bodies to recognise its
importance and partly because the disease is manifest across a broad spectrum of severities and response to
112
therapy varies widely. Quite how much this variability is attributable to disease and how much to patient
adherence is unclear.
The author’s approach is to view cough as a marker of inflammation – in the absence of cough the airways are
probably repairing themselves while the inflammation leading to cough is at best impeding repair at in many
cases adding to the damage. For some subjects aggressive two week courses intermittently for a period appears
sufficient to establish a cure while for others prolonged courses preventing re-establishing infection appears
necessary. The risk benefits of the approaches are open to debate. Azithromycin is widely used, in part for its
‘anti-inflammatory’ actions but macrolide resistance as well as the potential for side effects such as impact on
hearing need to be considered. We recognise that asthmatics range from the occasional symptoms with colds
and exercise on a cold day to frequent exacerbations and manage patients accordingly with prn Ventolin through
to high dose combination therapy and even agents such as anti-IgE therapy. The same tailored approach appears
to be appropriate for the biofilm disease affecting the conducting airways.
In terms of the future management of biofilm disease there is increasing interest in agents that can disrupt the
film making eradication of the organisms easier and agents that may influence the behaviour of the organism by
interfering with their normal collaborative communication strategies. If and when these approaches reach
clinical practice is at best uncertain and hence early recognition and treatment remains a key objective.
Currently we continue to use techniques designed to identified aggressive pathogens and do not have a clear
means of determining whether organisms capable of forming biofilms are indeed behaving in this way.
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113
PROTRACTED BACTERIAL BRONCHITIS (PBB)
Anne Bernadette Chang
Royal Children’s Hospital Brisbane and Menzies School of Health Research Darwin, Australia
Persistent bacterial bronchitis (PBB) sometimes truncated to protracted bronchitis is a pediatric condition
clinically defined as (a) the presence of isolated chronic (>4 weeks) wet/moist cough, (b) resolution of cough
with antibiotic treatment and (c) absence of pointers suggestive of an alternative specific cause of cough. This
condition has long been recognized by pediatric pulmonologists but has only been adequately characterized (by
broncho-alveolar lavage and clinically) since 2006. PBB has been officially recognized by the cough guidelines
of the Thoracic Society of New Zealand and Australia, the British Thoracic Society and was referred to in the
American College of Chest Physicians guideline.
Children with PBB are typically young (<5 years of age, median age-3years). They have a chronic wet cough
and some parents may report a ‘wheeze’ which is actually a rattle (reflective of airway secretions) and not a true
wheeze. Systemic effects are generally minimal or non-specific such as tiredness or lack of energy. Like children
with chronic cough, children with PBB have significant morbidity. Parents typically have seen multiple medical
practitioners for their child’s chronic cough in the last 12-months. In PBB the child’s cough resolves only after a
prolonged course (at least 10-14 days) of appropriate antibiotics. The diagnosis of PBB should only become
definite when the response to treatment is dramatic, i.e. the child becomes asymptomatic. When a typical course
(5 days) of antibiotics is used, the cough either relapses quickly, or slightly subsides but does not resolve
completely. Airway neutrophilia is present and common respiratory pathogens are found in the endobronchial
infection; H. Influenza, S. Pneumoniae and M. catarrhalis. Their chest x-rays may be reported as ‘normal’ but
usually show peribronchiolar changes. In some children, co-existent tracheobronchomalacia is present. The
mechanisms underpinning the development and the natural history of PBB are unknown. Published studies have
shown up-regulation of innate markers reflective of infection in the BAL of children with PBB; TLR 2 and 4,
human defensin-2 and mannose binding protein. Recently we have also shown that PBB is characterised by
increased IL-1β pathway activation. IL-1β and related mediators were associated with BAL neutrophils, cough
symptoms and disease recurrence, providing insight into PBB pathogenesis.
Recurrent episodes of PBB and/or wet cough not resolving to simple therapies should prompt further evaluations
of other causes of chronic wet cough (aspiration, chronic suppurative lung disease and bronchiectasis).
Management of PBB is essentially the same as that for bronchiectasis. Managing PBB is important as it is
curable and it is likely that non-treatment may lead to development of CSLD in some children.
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114
AN APPROACH TO AND CARING FOR CHILDREN WITH PROBLEM COUGHING: A PERSONAL
PRACTICE
Michael D Shields MD, FRCP, FRCPCH
Professor of Child Health, Queen’s University Belfast &
Consultant in Paediatric Respiratory Medicine, Royal Belfast Hospital for Sick Children
Centre for Infection & Immunity, Queen’s University Belfast, Health Sciences Building,
97 Lisburn Road, Belfast, Bt7 9BL, N Ireland, UK - Email: [email protected]
Conflict of Interest
MD Shields – declares no conflict of interest relevant to this review.
MD Shields has received honoraria (from Glaxo Smith Kline, AstraZeneca, Novartis, Merck Sharp Dohme) for
talks given at educational meetings. He has received sponsorship from the same companies to attend the ERS,
EAACI and BTS annual educational meetings. He has attended an advisory board meeting for Boehringer
Ingelheim.
An approach to and caring for children with prolonged problem coughing: a personal practice
The context for this talk is the child referred from general practice or primary care to a Paediatric outpatient
clinic because of problem coughing and in a country where Cystic Fibrosis is screened for at birth.
The underlying principle for the management of cough is first to find the cause and then, where possible,
specifically treat the cause. Unfortunately the underlying diagnosis in chronic cough can be difficult to determine
and for many there are no specific or effective treatments available.
A full history and clinical examination, including height and weight centiles (with or without simple
investigations such as a CXR and spirometry) is first taken in order to determine whether the child has an
obvious specific condition. Some examples are given in Table 1 and more detailed information can be obtained
from published cough guidelines (1, 2, 3).
When a specific condition is suspected targeted investigations and trials of treatment can be carried out.
Table 1 (some examples of conditions that can be diagnosed from the history & examination)
Cough variant or predominant asthma:
When a child with atopic eczema and allergic rhinitis has a recurrent problem cough with exercise and at
night out with an URTI then cough variant asthma should be suspected. Spirometry and SpT may be
indicated and the effects of a trial of anti-asthma treatment recorded. The presence of confirmed wheezing
makes the diagnosis more secure.
Post nasal drip (upper airways syndrome):
A child with atopic eczema and seasonal allergic rhinitis presents with a persistent ‘clearing the throat’ cough
and has the transverse nasal crease associated with the allergic salute likely has post nasal drip. A trial of
intranasal steroids and/or an antihistamine is warranted.
Pertussis:
Following an URTI a young child develops a violent spasmodic cough that occurs in kinks and cause
cyanosis and the cough spasms are followed by an inspiratory whoop and vomiting – whooping cough is the
likely diagnosis. No treatment is particularly beneficial and family support may be needed.
Retained inhaled foreign body:
A previously well child develops a problem cough following shelling and eating Pistachio nuts. The cough
persists and sometimes is associated with wheezing and the child has suffered several lower respiratory tract
infection. Given the very acute onset of symptoms a retained inhaled foreign body needs removed by
bronchoscopy.
Primary ciliary dyskinesia:
A child with dextrocardia has been coughing since the day he was born. He has always had a snuffly nose
and has experienced numerous upper and lower respiratory tract infections and has a chronic daily wet
cough.
Recurrent pulmonary aspiration:
A child with learning disabilities and cerebral palsy chokes and splutters while feeding, has experienced
recurrent pneumonias and coughs easily with movement or swallowing. Observation of feeding (Video
fluoroscopy) and swallowing studies will be needed and treatments geared to preventing aspiration during
swallow or secondary to gastro-oesophageal reflux started.
Psychogenic cough:
An otherwise well child develops a prolonged bizarre honking cough. The cough becomes very loud when
the child’s attention is brought towards the cough. The cough, while very loud, causes the child no distress
(la belle indifference) and disappears when the child becomes engrossed in some interesting activity and does
not disrupt sleep.
115
In some cases it is not possible to fit the coughing child into a specific condition and I generally decide during
the initial consultation whether the child is otherwise well and healthy apart from the cough or whether there are
features suggestive of ill health that will definitely warrant further investigations (eg failure to thrive, chest
deformity, finger clubbing, a relentlessly progressive cough).
In otherwise well children I next try to determine whether the cough is wet and productive or dry and nonproductive. Parents seem able to describe this clearly or by noticing phlegm in coughing that precipitates
vomiting. Parents can also clearly report that a dry cough becomes wet when such a child develops an acute
URTI.
A prolonged cough in an otherwise well child who has no pointers to a specific disease has been called ‘isolated
non-specific cough’. This seems to carry a good prognosis for resolution that occurs naturally but over time.
Non-specific coughing in an otherwise well child
Multiple studies have shown that 10% of children who cough with an acute URTI are still coughing after 25
days (4,5). Ten percent of infants with acute bronchiolitis are estimated to still be coughing at 21 days although
it should be improving for the majority (5). The cough typically abates over time. This is called ‘post-viral
cough’ as it is thought that most of these coughs are triggered by a viral infection. Recent studies from western
countries have shown that Pertussis is a significant causative agent in older children and adolescents. Pertussis
likely now accounts for up to one third of cases (6,7,8,9). Mycoplasma, RSV and Influenza are among the other
respiratory viruses that can cause a prolonged cough (7).
Practice point

Older children may not have the classical clinical features of pertussis (whooping, spasmodic cough,
post tussis vomits). This has recently been excellently reviewed (8).

Confirming a pertussis diagnosis is worthwhile. This reduces the need for further investigations,
reduces parental worry and can allow parents to stop pressing doctors for antibiotics and other
ineffective treatments. Serial blood tests, swab PCR testing or a saliva sample can be used (5,6). The
diagnostic test used to confirm recent pertussis infection should be non-invasive and simple to obtain.
The saliva test developed and reported seems simple and potentially useful in primary care (9).
Some children seem to have recurrent bouts of such coughing (recurrent cough) and a recurrent cough may be
reported as chronic. In the case of children who have recurrent problem coughing after each acute URTI but
with no other asthma pointers in order to exclude cough variant asthma I recommend starting a ‘trial of antiasthma therapy’. I typically use an Inhaled Corticosteroid (ICS) given regularly (eg Budesonide 400 micrograms
/ day) along with a when required bronchodilator for 3 months. If the trial of anti-asthma works it should be
stopped and only restarted if coughing restarts. A second good response is suggestive of cough variant asthma.
I generally do not give a trial of gastro-oesophageal reflux therapy in such cases unless there are symptoms of
reflux.
I believe that it is safe practice to observe children who are otherwise well, have no specific disease pointers,
have a normal CXR and a dry cough and await the occurrence of natural resolution. However, the natural
resolution should be confirmed.
Wet cough in an otherwise well child
A wet productive cough suggests mucous hypersecretion with a persistent bacterial airway wall infection.
Not infrequently a young child (pre-school) with a constantly rattly chest and persistent wet cough is referred.
These children are typically thriving and appear otherwise well. I make the diagnosis of persistent bacterial
bronchitis (PBB). I arrange for a CXR and try, with the help of a physiotherapist, to get a sputum sample or
cough swab for bacterial culture and respiratory viral PCR testing. Given that the 3 typical bacteria associated
with PBB are Pneumococcus, Haem Influ’ and Moraxella I recommend a 2-4 week treatment of Coamoxiclav.
Practice point
 I use a simplified explanation of this condition to parents as follows: the child has had a series of viral
respiratory infections and the airway wall lining hasn’t had time to heal and repair (explain about the
ciliary system) and unfortunately the airway wall has now become colonized and infected by bacteria.
In order to eradicate the bacterial the parents need to ensure that the antibiotic is given as a complete the
course.
 I investigate children for other causes of chronic suppurative lung disease if 1] the cough fails to
respond, 2] becomes recurrent, 3] the children are older. Investigations include tests for immune
deficience, cystic fibrosis, primary ciliary dyskinesia, recurrent aspiration along with a CT scan and / or
116
bronchoscopy.
References and essential reading
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Chang AB, Glomb WB. Guidelines for evaluating chronic cough in pediatrics: ACCP evidence-based
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Goldsobel AB, Chipps BE. Cough in the Pediatric population. J Pediatr 2010; 156(3): 352-358.
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prospective cohort study in primary care. BMJ 2006; 33: 174-177
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children with persistent cough in England. A Retrospective analysis. Pediatric Infectious Disease Journal
2011; 30: 1047-1051
Cornia PB, Adam L. Hersh BA et al. Does This Coughing Adolescent or Adult Patient Have Pertussis?
JAMA. 2010;304(8): 890-896.
Wang K et al. Whooping cough in school age children presenting with cough in UK. BMJ 2014; 348: g3668
117
CORSI PRATICI
basati sulla simulazione per medici e infermieri
“HANDS ON”
Venerdì, 14 novembre 2014
Coordinatori: R. Agostiniani, A. Mazza, G. Pellegrini
13,30 – 18,00
118
LA NASAL CPAP E LA BILEVEL NASAL CPAP
Pierpaolo Monaco
Carefusion, Clinical & Product Specialist
LA CPAP NASALE
Introduzione
Ogni anno, nel mondo, circa 15 milioni di neonati, quasi 1 su 10, nasce prematuramente 1.
I neonati prematuri o di basso peso alla nascita (LBW o ELBW) sono ad alto rischio di problemi respiratori a
causa dello sviluppo polmonare insufficiente.
Le condizioni respiratorie patologiche comuni nei neonati includono apnea della prematurità, sindrome da
distress respiratorio (RDS), tachipnea transitoria (TTN), sindrome da aspirazione di meconio, edema polmonare
etc.
Queste condizioni sono spesso associate ad una riduzione della capacità polmonare e della capacità funzionale
residua (FRC)1-2 e molti di questi neonati necessitano di supporto respiratorio.
La sindrome da distress respiratorio (RDS) è una condizione che ostacola la normale respirazione a causa di una
scarsa produzione di surfattante naturale.
Circa il 50% dei neonati partoriti a 26-28 settimane di gestazione e il 30% dei neonati partoriti a 30-31 settimane
di gestazione sviluppa la sindrome da distress respiratorio 2.
Per fornire supporto respiratorio al paziente si può scegliere fra varie opzioni. Come trattamento iniziale per i
neonati con problemi respiratori si utilizza da tempo la ventilazione meccanica tramite vie aeree artificiali.
L'intubazione presenta però una vasta gamma di problematiche in pazienti di ogni tipo e nei neonati prematuri i
problemi sono particolarmente complessi. Date le potenziali complicanze dell'intubazione, particolarmente
complesse nei neonati, molti medici scelgono, per i pazienti che respirano spontaneamente, un approccio meno
invasivo basato sulla pressione positiva continua delle vie aeree (CPAP).
Vantaggi
La nCPAP consiste nell'applicazione di una pressione positiva alle vie aeree di un neonato che respira
spontaneamente per favorire il reclutamento alveolare e garantire un adeguato scambio gassoso, riducendo allo
stesso tempo il lavoro respiratorio.
La nCPAP è un flusso di gas continuo somministrato attraverso le cannule nasali inserite nelle narici del neonato
o una maschera nasale posizionata attorno al perimetro del naso. La pressione positiva, in genere da 4 cmH2O a
8 cmH2O, agisce da splint per evitare il collasso degli alveoli e diminuire il lavoro respiratorio durante la
respirazione spontanea, permettendo cosi al neonato di conservare preziose calorie che potrebbero essere
utilizzate per importantissimi processi di crescita e guarigione.
I vantaggi della CPAP sono molteplici:
• Aumento della capacità funzionale residua (FRC) con reclutamento alveolare che permette di lavorare nella
parte media della curva P/V
• Aumento e mantenimento del volume polmonare
• Aumento della capacità polmonare
• Riduzione del lavoro respiratorio (WOB), della resistenza delle vie aeree e del mismatch V/Q
• Utilizzo di una procedura non invasiv
• Semplifica l'applicazione
• Riduzione dei costi
• Prevenzione del fallimento dell'estubazione in alcuni neonati
• Stabilizzazione del diaframma, delle vie aeree e della parete toracica
• Riduzione dell'incidenza della malattia polmonare cronica (CLD)
Il diagramma seguente riassume gli effetti fisiologici della CPAP nasale3,4-10:
119
L'ECOGRAFIA POLMONARE IN PEDIATRIA E NEONATOLOGIA:
NUOVE PROSPETTIVE DIAGNOSTICHE
Mariano Manzionna, Vincenzo Basile
UO Pediatria PO Monopoli ASL BA
INTRODUZIONE
Fino a 10 anni fa la ecografia del torace era considerata una metodica impossibile da attuarsi, in quanto si
riteneva che il polmone non fosse esplorabile con gli ultrasuoni. A seguito dell’evoluzione tecnologica, delle
conoscenze e delle esperienze acquisite (il primo a sperimentare fu Lichtenstein, medico intensivista parigino ),
con la commercializzazione di ecografi con risoluzione sempre più alta, oggi è diventata una metodica di facile
esecuzione ed con una buona affidabilità diagnostica. Attualmente, per approfondire e valutare la maggior parte
delle patologie polmonari in età pediatrica, viene utilizzata la radiografia del torace, metodica che senza dubbio
presenta dei vantaggi legati alla sua panoramicità ( è ancora considerata il gold standard), ma che presenta dei
limiti legati principalmente alla impossibilità di chiarire la natura ( liquida o solida) e la pertinenza anatomica
(pleurica o parenchimale) di una radiopacità. La ET viene in soccorso della radiografia, riuscendo a distinguere,
in base alle caratteristiche ecografiche, tra focolai flogistici, atelectasie e versamenti pleurici. Peraltro il sottile
spessore della parete toracica e la limitata estensione della superficie da esaminare, ne facilitano la esecuzione in
età pediatrica ed inoltre il minore volume polmonare aumenta la probabilità che una eventuale lesione entri in
contatto con la pleura, requisito fondamentale per visualizzazione ecografica. Il basso costo, la disponibilità, la
rapidità di esecuzione e la ripetibilità ne suggeriscono una più ampia applicazione in pediatria, associato al
vantaggio di non essere ionizzante per il piccolo paziente.
LA TECNICA
Le dimensioni del torace del bambino consentono l’impiego di sonde lineari ad alta frequenza ( 7.5-10-12 mhz),
ponendo il bambino in posizione supina, prona o in decubito laterale. Una prima fase, considerata di
esplorazione generale, prevede scansioni longitudinali nei campi polmonari anteriori, laterali e posteriori, lungo
le linee anatomiche (parasternale, medioclaveare, ascellare, paravertebrale), procedendo dall’alto in basso; la
seconda fase prevede, invece, scansioni locali (longitudinali, trasversali ed oblique) laddove si sia riscontrata una
anomalia. Zone di difficile visualizzazione sono le zone posteriori coperte dalla scapole, le regioni periclaveari,
le regioni apicali, le regioni precordiali.
E’ necessario, però, eseguire immagini in cui i piani di scansione abbiano un preciso orientamento; nelle
scansioni longitudinali la parte craniale della immagine viene riprodotta a sinistra dello schermo (figura 1),
mentre nelle scansioni trasversali a sinistra dello schermo viene rappresentata la parte destra del paziente (figura
2)
ASPETTI ECOGRAFICI POLMONE NORMALE
Il polmone normale riflette quasi completamente il fascio ultrasonoro a causa del salto di impedenza acustica tra
i tessuti molli della parete toracica e l’aria contenuta nei polmoni.
La ET è una analisi di artefatti creati dalla interazione fascio US-aria. Il fascio ultrasonoro incontra la linea
pleurica, struttura altamente impedente e riflettente, per cui il fascio continua a rimbalzare tra superficie
impedente e sonda, generando echi multipli in profondità della linea pleurica (linee A o riverberi orizzontali), in
un parenchima polmonare amorfo, relativamente ecogeno, a vetro smerigliato (figura 3). Nel complesso i 2
foglietti pleurici appaiono come un’unica immagine lineare iper-riflettente, la linea pleurica, in corrispondenza
della quale, ad ogni atto respiratorio, è visibile lo scorrimento della pleura viscerale sulla parietale (Lung
sliding). Le linee B o artefatti verticali originano da foci fortemente risonanti o riverberanti in sede pleurica o
sub-pleurica (edema dei setti interlobulari), sono espressione di interstiziopatia ed il loro numero e la loro
compattezza ben si correlano alla gravità del quadro clinico (figura 4). Le coste, importante punto di repere,
assorbono completamente il fascio US, creando un cono d’ombra posteriore ed oscurando la linea pleurica solo
nella loro parte ossea (figura 5).
POLMONE DEL NEONATO
Il polmone sano del neonato non differisce da quello dell’adulto, con la presenza di Linee A, sliding o gliding
sign, linea pleurica iperecogena. L’esame viene eseguito con il neonato in posizione supina, eseguendo scansioni
longitudinali e trasversali, visualizzando le aree posteriori in decubito laterale o prono. La sonda utilizzata è la
lineare con frequenza 10-12Mhz. Alla nascita è possibile evidenziare artefatti a coda di cometa o linee B, tipici
di una interstiziopatia, anche in neonati perfettamente sani (residui di liquido polmonare di cui il polmone fetale
è ricco). A 2 ore dalla nascita si possono trovare linee B numerose, non compatte, che nello stesso nato a 18 ore
dalla nascita, sono nettamente diminuite.
ASPETTI ECOGRAFICI PATOLOGICI
I processi intrapolmonari possono essere rilevati ecograficamente solo quando raggiungono la pleura viscerale o
attraverso la eventuale finestra acustica rappresentata da un’area di parenchima consolidato o da un versamento
pleurico. L’addensamento (epatizzazione o riempimento alveolare di fibrina, trasudato, essudato, sangue che
sostituisce l’aria), se raggiunge la linea pleurica, come di solito avviene in età pediatrica, appare in ecografia
120
come un’area strutturata del polmone ( lobare o segmentaria o subsegmentaria), ipoecogena rispetto al
parenchima sano, di forma varia con ecostruttura disomogena, a bassa impedenza acustica, con caratteristico
rinforzo o iperecogenicità posteriore alla lesione (figura 6). Nella polmoniti interstiziali la ET mostra numerose
linee B ed una linea pleurica ispessita e di aspetto irregolare, con eventuali piccole aree ipoecogene subpleuriche di consolidazione parenchimale (figura 7).
La linea pleurica che sovrasta l’area addensata appare interrotta o meno ecogena ed all’interno della zona
addensata è possibile dimostrare anche bronchi ( spots iperecogeni o broncogrammi aerei), vasi (ipoecogeni,
evidenziabili con il doppler), broncogrammi fluidi (ipoecogeni, tipici delle polmoniti ostruttive). E’ possibile,
inoltre, in base ad alcune caratteristiche ecografiche, fare una diagnosi differenziale tra polmonite ed atelectasia.
La ET mostra, inoltre, una elevata sensibilità nella diagnosi di versamenti pleurici, riuscendo ad individuare
anche versamenti di 3-5 ml, al contrario della radiografia del torace dove, per avere una obliterazione del seno
costo-frenico, sono necessari almeno 200 cc di liquido.
Importante è anche il contributo data dalla ET nella diagnostica di molte patologie neonatali ( tachipnea
transitoria, malattia delle membrane ialine, pneumotorace, ernia diaframmatica e c.a.m.), ognuna con un suo
quadro ecografico caratteristico, sempre confortato comunque dalla clinica.
CONCLUSIONI
La attendibilità della ET in età pediatrica è di circa il 90% per la patologia parenchimale e del 100% per la
patologia pleurica. Questi dati ci confermano come la ET rappresenti il futuro nella diagnostica delle patologie
polmonari dell’età infantile, in quanto metodica a basso costo, affidabile, ripetibile, non ionizzante (importanza
della radioprotezione) ed utile, inoltre, nella valutazione longitudinale di molte patologie.
Le immagini ecografiche vanno comunque interpretate nel contesto clinico, non tralasciando, in alcune
situazioni, la esecuzione della radiografia del torace, considerata, ancora oggi, il gold.standard.
Figura 1
Scansione longitudinale in cui la parte sinistra dello schermo rappresenta la parte craniale del paziente, mentre la
parte destra dello schermo rappresenta la parte caudale
121
Figura 2
Scansione trasversale in cui la parte sinistra dello schermo rappresenta la parte destra del paziente, mentre la
parte destra dello schermo rappresenta la parte sinistra del paziente
Figura 3
Scansione trasversale in cui si evidenzia la linea pleurica con al di sotto riverberi orizzontali o linee A
122
Figura 4
Scansione longitudinale a livello della parte cartilaginea delle coste (non oscurano la linea pleurica), con cono
d’ombra posteriore
Figura 5
Linea B o artefatto verticale, espressione di interstiziopatia, a partenza da foci riverberanti o risonanti in sede
pleurica o subplaurica
123
Figura 6
Area di consolidamento parenchimale con linea pleurica ipoecogena o assente, con al di sotto di essa area
ipoecogena a margini irregolari con all’interno spots iperecogeni ( aria intrappolata) ed iperecogenicità
retrolesionale
Figura 7
Polmonite interstiziale con linea pleurica ispessita, linee B numerose e compatte a partenza da foci riverberanti
pleurici o subpleurici, piccolo addensamento subplaeurico espressione di microatelectasia
124
TRIAGE PEDIATRICO
Emanuela Piccotti
Pronto Soccorso DEA Pediatrico – Istituto G. Gaslini – Genova
Triage deriva dal termine francese “ trier” scegliere, selezionare, smistare…: questo termine era riferito alla
scelta qualitativa dei prodotti in ambito commerciale. Il suo primo utilizzo in campo sanitario risale alle guerre
napoleoniche dove i feriti, sul campo di battaglia, venivano suddivisi in base al rapporto gravità delle ferite e/o
percentuale di sopravvivenza secondo le conoscenze e le risorse disponibili a quel tempo. Dalla medicina
militare il concetto di triage è stato traslato nell’ambito dell’attività di gestione delle urgenze ed emergenze civili
e viene utilizzato per classificare le persone infortunate e/o affette da malattie e predisporne, nel modo più veloce
possibile, rispetto alla gravità delle condizioni cliniche , la terapia, il trasporto e il ricovero in ambiente adeguato.
Il triage ospedaliero è un processo introdotto negli USA negli anni 50 per dare adeguata risposta assistenziale al
crescente aumento del numero degli utenti afferenti ai dipartimenti di emergenza e al crescente numero di casi
non urgenti e consiste essenzialmente nella selezione dei pazienti che affluiscono alla struttura di Pronto
Soccorso, attribuendo una priorità di accesso alla visita medica a coloro che si trovano in condizioni di maggior
urgenza.
Il Triage di Pronto Soccorso, viene per la prima volta citato nella normativa italiana, nel D.P.R 226 del 27 marzo
1992, con la identificazione degli obiettivi del processo.
Gli obiettivi dell’attività di triage si possono riassumere quindi nel “mantenere l’effetto dell’efficienza del
Pronto soccorso” e nel “ridurre al minimo possibile il ritardo dell’intervento sul paziente che giunga in
emergenza”
Recentemente ( Raccomandazione Ministeriale n. 15 , Febbraio 2013 ) è stato sottolineato un altro aspetto
interessante che rientra negli obiettivi “garantire che i pazienti ricevano il livello e la qualità di cura più
appropriate alle loro necessità, in relazione alla migliore utilizzazione possibile delle risorse disponibili (o
destinabili)”.
Si distinguono essenzialmente tre modalità di triage:
triage telefonico, svolto dalla Centrale operativa 118 in base ad un'intervista strutturata (DISPATCH) ;
triage sul posto, svolto sul luogo dell’evento dall’èquipe dei mezzi di soccorso;
triage di Pronto Soccorso, svolto all’interno di una struttura sanitaria da personale infermieristico.
Dal punto di vista logistico e organizzativo il triage si differenzia in:
1. Extraospedaliero o preospedaliero, articolato in una fase di triage effettuata dalla Centrale operativa 118 ed
in una fase di triage sul posto.
2. Ospedaliero, cioè quello effettuato dai Pronto soccorso, che si articola in una fase di triage che si svolge
all’arrivo del paziente e prevede la valutazione sulla porta, la raccolta dei dati, la decisione sull’attribuzione del
codice di priorità e in una fase di rivalutazione del paziente che avviene durante il periodo di attesa della visita
medica .
Il Pronto Soccorso è per definizione un’area critica, in quanto struttura deputata ad accogliere l’urgenza e
l’emergenza sanitaria 24 ore su 24. Per area critica viene inteso, l’ambito operativo deputato a garantire livelli
ottimali di assistenza rispondendo, in modo soddisfacente, ai bisogni espressi e non espressi del malato in
condizioni critiche. Nel settore pediatrico esiste, in questo ambito, grande disomogeneità organizzativa in
quanto sono rappresentate a livello nazionale almeno 4 tipologie di modello
-
Dipartimento Emergenza e Accettazione pediatrica con PS pediatrico ( presenti solo in alcune regioni
italiane): Pediatra presente h24 - accoglienza e gestione di tutti i codici colore
Pronto soccorso pediatrico istituzionale inserito in Dipartimento di Emergenza Generale: Pediatra
presente h24 – accoglienza di tutti i codici colore con percorsi condivisi con PS generale
Pronto Soccorso pediatrico funzionale in collaborazione con Pronto Soccorso Generale: pediatra
presente almeno h12 – percorsi condivisi con P. S. generale
Pronto Soccorso Generale con Consulenza Pediatrica: percorsi condivisi con PS generale
Se poniamo la nostra attenzione ai dati relativi alla tipologia ed al numero degli utenti afferenti alle strutture di
Pronto soccorso, comprendiamo come, analogamente a quanto succede per il paziente adulto, il bambino viene
condotto in PS in una logica di netto sovrautilizzo della struttura: In Italia, ogni anno, circa 5.000.000 di bambini
accedono al PS . La distribuzione di questi accessi rientra per l’ 80-90% in una fascia di priorità bassa; la fascia
di pazienti pediatrici in emergenza /urgenza ( codici rossi- gialli ) esprime in prevalenza patologia respiratoria
e neurologica e, in ambito chirurgico- traumatologico politrauma e trauma cranico.
Tale distribuzione dei codici pone l’equipe di PS di fronte a frequenti problemi di gestione del paziente e rende
necessari continui rapporti con la pediatra di famiglia per garantire la continuità assistenziale.
Il Triage pediatrico, alla porta del PS, diventa uno strumento fondamentale per una specifica valutazione delle
esigenze di salute del bambino e per l’avvio corretto e sicuro del percorso assistenziale.
L’area di pronto soccorso deve prevedere uno spazio specifico dedicato al triage infermieristico.
125
La zona di triage deve essere chiaramente identificabile come primo punto di riferimento in Pronto Soccorso e
quindi situata in posizione centrale tra l’ingresso pedonale, dei mezzi di soccorso e le sale mediche e chirurgiche
di primo intervento.
Una idonea cartellonistica deve essere presente allo scopo di informare dettagliatamente i pazienti e gli
accompagnatori sul modello organizzativo adottato e sulle finalità dello stesso.
In zona di triage è indispensabile disporre di strumenti per il rilievo dei parametri vitali, di una fonte per
l’erogazione di ossigeno, di materiale per piccola medicazione ed eventuale immobilizzazione e strisce reattive
per sangue e urine, di sistemi di comunicazione telefonica con linee preferenziali esterne ed interne.
L’infermiere di triage , protagonista del processo , costituisce una figura nuova di operatore sanitario, una sorta
di infermiere di “ front office” specificamente formato per prendere in carico il paziente pediatrico e la sua
famiglia all’arrivo in Pronto Soccorso. L’infermiere stesso,una volta escluso uno stato di necessità assistenziale
assoluta ( codice rosso “alla porta”), identifica il sintomo principale, conduce una breve intervista con i genitori/
accompagnatori del paziente e assegna il codice di priorità alla visita medica sulla base di protocolli prestabiliti e
concordati con i dirigenti del servizio e aziendali. Si intende, attraverso questa modalità organizzativa,
l’implicito compito di accoglienza e presa in carico del bambino da parte della struttura sanitaria, funzionale sia
al percorso assistenziale che ai bisogni di sostegno e rassicurazione che il gruppo parentale esprime. Il triagista
si occupa inoltre di sorvegliare l’attesa, di rivalutare i pazienti, di fornire informazioni e chiarimenti ai pazienti
e ai famigliari.
In sintesi l’infermiere non elabora una diagnosi, ma valuta i pazienti , le loro condizioni, e il quadro di una
possibile evoluzione a breve o medio termine operando la selezione con la finalità di stabilire delle priorità
alla visita medica. Il processo ( triage globale come da normativa nazionale: LINEE GUIDA SUL “TRIAGE”
INTRAOSPEDALIERO PER GLI UTENTI CHE ACCEDONO DIRETTAMENTE IN PRONTO SOCCORSO”, 2001) si fonda
sulle informazioni rilevabili
dall’esame visivo (valutazione alla porta),
dalla raccolta dati (valutazione soggettiva ed oggettiva), per raggiungere
la decisione di Triage, (codice colore), e procedere poi alla prevista
rivalutazione
L’intera attività valutativa di Triage è guidata da protocolli, specificamente formulati e condivisi con il direttore
del servizio, che l’infermiere è tenuto ad utilizzare. E’ necessario inoltre che l’infermiere triagista sia in
possesso di alcuni requisiti considerati irrinunciabili:




Diploma di infermiere professionale / pediatrico
Esperienza minima di sei mesi in Pronto Soccorso
Addestramento in BLS/PBLS
Certificazione teorico- pratica in triage pediatrico
Ad oggi i codici di priorità previsti dalla normativa italiana sono :
codice ROSSO:
pazienti con compromissione di almeno una funzione vitale (respiratoria –
cardiocircolatoria – neurologica) e/o alterazione di uno o più parametri
vitali.; il personale, nel più breve tempo possibile, accoglie il paziente
nell’ambulatorio a più alta tecnologia
codice GIALLO
viene assegnato a pazienti con sintomi e/o lesioni gravi per i quali può essere
presente una alterazione ma non ancora una compromissione di una delle
funzioni vitali. Il tempo di attesa è ridotto al minimo. Il personale di
accoglienza si appresta ad una rivalutazione ogni 5 min dei parametri e della
situazione clinica.
codice VERDE
viene assegnato a pazienti con funzioni e parametri vitali normali, ma con
sintomatologia ad insorgenza acuta, che necessita di inquadramento. La
rivalutazione è prevista ogni 30/40 min.
codice BIANCO
viene assegnato a pazienti con funzioni e parametri vitali normali, con
sintomatologia non rilevante e ad insorgenza non acuta, che potrebbe essere
valutata in percorsi alternativi. Il personale garantisce la risposta sanitaria
dopo aver risolto i codici a priorità più alta. Per questo codice- colore non è
prevista rivalutazione se non “ a richiesta” degli accompagnatori.
La documentazione di triage viene di norma gestita attraverso il sistema informatico di PS . In assenza di
informatizzazione è necessario poter disporre di apposite schede cartacee sulle quali annotare i dati soggettivi e
oggettivi rilevati al paziente da utilizzare come strumento di passaggio di informazioni all’equipe di assistenza
ma anche come memoria storica.
126
La scheda di triage costituisce a tutti gli effetti un documento integrante della cartella del paziente e come tale
deve essere conservato secondo le norme di legge vigenti .
Formazione
La formazione in Triage è ritenuta fondamentale trasversalmente al personale sanitario coinvolto nella gestione
dell’Emergenza/Urgenza .
La necessità di una specifica formazione in Triage pediatrico nasce dalle peculiarità del bambino
nelle sue caratteristiche dell’età evolutiva, che presentano parametri fisiopatologici diversi dall’adulto.
La Formazione abilitante deve avvenire attraverso la partecipazione ad un corso certificato teorico-pratico di
preparazione e ad un periodo di affiancamento a tutor esperto.
Obiettivi Educativi Specifici : acquisire una metodologia rigorosa di valutazione basata sull’utilizzo
dell’intervista, dell’osservazione e della rilevazione di dati obiettivi ( parametri vitali);
acquisire capacità relazionali finalizzate alle gestione di situazioni critiche e di conflitto considerando le
dinamiche psicologiche che si sviluppano nel “contesto” triage tra operatori, con l’utente e verso famigliari e/o
accompagnatori; approfondire gli aspetti relativi all’autonomia ed alla responsabilità professionale con
particolare attenzione alle problematiche legali derivate dall’attività di triage; acquisire la metodologia per la
progettazione e l’aggiornamento dei protocolli di valutazione in triage, in coerenza con le linee di indirizzo
internazionali, nazionali e regionali; acquisire le metodologie per il miglioramento della qualità applicato ad un
sistema di triage; possibili indicatori di efficacia, efficienza e performance.
I contenuti di carattere teorico saranno completati da esercitazioni pratiche ( simulazione ) e, prima della fase di
autonomia professionale, deve essere prevista una fase di affiancamento con un tutor esperto (on the job). Le
abilità saranno mantenute attraverso un re- training da effettuarsi ogni 3 anni ( Linee Guida Didattiche Triage
Pediatrico – SIMEUP)
Valutazione e verifica di qualità
Tutti i sistemi di triage devono prevedere e realizzare attività di verifica di qualità con monitoraggio continuo di
una serie di parametri quantizzabili in grado di valutare l’andamento del processo.
Indicatori di qualità più significativi : concordanza tra codice di triage e valutazione medica dell’urgenza ,
sottostima e sovrastima, tempo di attesa in relazione al codice colore, monitoraggio della qualità percepita
(customer satisfaction) .
Al momento non è stato individuato un pannello di indicatori omogeneo per l’intero territorio nazionale
Nuove proposte
( a cura del Coordinamento Nazionale Triage di Pronto Soccorso- Linee d’ indirizzo per l’ attività di Triage di
Pronto Soccorso - Luglio 2012)
Mentre nel recente passato l’attenzione di amministratori e professionisti era prevalentemente rivolta al
problema della attivazione del triage in PS, oggi è necessario riflettere se e come i sistemi di triage raggiungono
gli obiettivi che si sono posti; è anche possibile e opportuno discutere sulle procedure in atto e sulle
caratteristiche del sistema di accettazione e selezione dei pazienti al fine di garantire la coerenza con le linee
guida nazionali e la letteratura, lavorando per la creazione di un modello nazionale condiviso che tenga conto
anche delle significative modifiche che riguardano l’intero sistema sanitario.
I tempi sono maturi per realizzare un confronto a livello nazionale volto a definire un modello concettuale
uniforme, capace di trovare applicazione pratica presso tutte le realtà operative, attento alle esigenze locali ma
garante di principi e criteri condivisi
Avvio dei flussi di trattamento
Il moderno modello di assistenza sanitaria ospedaliera , basato sui livelli di intensità di cure, si sta affermando
un po’ ovunque e impone una sempre maggior efficacia ed efficienza nei percorsi . Viene richiesta una
ottimizzazione dei tempi e un impegno di risorse congruente e appropriato per i bisogni individuati.
Il triage, in una logica di flessibilità e integrazione professionale sempre più ampia, potrebbe essere delegato,
una volta assegnato il codice di priorità, ad avviare il percorso appropriato, tra quelli previsti all’organizzazione,
agevolando e velocizzando il trattamento. Ovviamente l’attivazione dei flussi di trattamento necessita di un
processo formativo specifico e la redazione di appositi protocolli
Modifica sistema di codifica
Alla luce dell’ esperienza maturata negli anni, nell’intento di uniformarsi alle principali evidenze scientifiche
internazionali, viene proposta l’adozione di un sistema di codifica a 5 livelli di priorità (da Monitor , Anno XI
numero 29 , 2012 - Trimestrale dell’Agenzia nazionale per i Servizi Sanitari Regionali)
127
Verifica di qualità
Allo scopo di mantenere adeguate performance professionali e del sistema organizzativo si propongono
modalità di monitoraggio del sistema triage su due livelli:
• livello aziendale: incontri fra operatori per la realizzazione di audit professionali attraverso discussione di
casi, eventi critici, sentinella ed analisi di dati statistici;
• livello regionale con la individuazione di criteri di valutazione definiti e condivisi
 appropriatezza dell’attribuzione del codice di priorità (es: n. totale di codici emergenza, urgenza, etc
assegnati coerenti con il protocollo di attribuzione dei codici colori in rapporto al n. totale di codici
emergenza, urgenza etc assegnati)
 n. totale di schede triage con concordanza tra problema principale e categoria di diagnosi
di uscita per il dato periodo in rapporto al n.totale di schede triage per il dato periodo
 tempi di attesa per codice di priorità ( indicatore di processo)
 esito in ricovero ( indicatore di esito)
Sulle proposte indicate e ulteriori integrazioni e modifiche sta attivamente discutendo il Gruppo di Lavoro Linee
Guida Nazionali OBI - Aggiornamento Linee Guida Triage costituito da :
 MINISTERO della SALUTE
 AGENAS (Agenzia Nazionale per I Servizi Sanitari)
 AcEMNC (Academy of Emergency Medicine and Care)
 ANIARTI (Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica)
 ANMDO (Associazione nazionale dei Medici delle Direzioni Ospedaliere
 FIMEUC (Federazione Italiana di Medicina della Emergenza Urgenza e delle Catastrofi)
 GFT (Gruppo Formazione Triage)
 SIMEU (Società Italiana di Medicina Emergenza Urgenza)
 SIMEUP (Società Italiana di Medicina Emergenza Urgenza Pediatrica)
 SPES (Sindacato Professionisti Emergenza Sanitaria)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
-Linee guida sul Sistema di emergenza sanitaria . Atto di Intesa Stato Regioni, G.U. 17/5/1996
-G.F.T. (Gruppo Formazione Triage). Triage Infermieristico. Milano: MacGrow-Hill, 2000: 3-119
-Atto di Intesa Ministero della salute conferenza Stato Regioni, G.U. n°285, 7/12/2001
-Cardoni G. e coll: Il Triage pediatrico: Pediatria d’Urgenza , 8,13-22, 2001
-Zangardi T, Da Dalt L.: Il Triage Pediatrico , Piccin , 2008
-Commissione Triage Pediatrico della SIMEUP: Manuale Formativo di Triage Pediatrico, Lingomed 2009
-Linee d’indirizzo per il triage in pronto soccorso. Proposta del Coordinamento nazionale Triage di
Pronto Soccorso . Monitor XI , 29 , 2012
128
COME LEGGERE UNA RADIOGRAFIA
Beatrice Tagliaferri
Ospedale Fatebenefratelli, Unità Operativa di Radiologia – Responsabile di Struttura Semplice di TAC
La radiografia del torace è l'indagine radiologica di più frequente esecuzione la pratica clinica.
Essa si base sul utilizzo dei raggi X che sono radiazioni ionizzanti e permette di visualizzare le strutture del
torace, in particolare
-il polmone
-il cuore e i vasi sanguigni del mediastino.
-alcune strutture scheletriche come le coste e le vertebre di un tratto della colonna vertebrale.
Il ricorso all’ indagini radiologiche rappresenta un elemento consolidato nella prassi medica, giustificato da
sicuri vantaggi clinici per il paziente, tali da controbilanciare di gran lunga il modesto rischio dovuto alle
radiazioni. Si deve comunque ricordare che anche le più piccole dosi di radiazioni non sono interamente prive di
rischio.
Una piccola parte delle mutazioni genetiche e dei tumori che si riscontra nella popolazione può essere attribuita
alle radiazioni di origine naturale.
Le esposizioni mediche a scopo diagnostico che costituiscono la principale sorgente di esposizione della
popolazione alle radiazioni artificiali, raggiungono la quota di circa un sesto alla dose di radiazioni naturali cui è
esposta la popolazione.
Particolare attenzione viene posta per la radioprotezione del piccolo paziente coprendo addome e pelvi con
schermi piombati. Inoltre con l'uso di fasci radiogeni collimati e filtrati la dose assorbita per una radiografia del
torace è pari a quella assorbita dal fondo naturale in pochi giorni.
Una indagine si può comunque definire utile quando il suo risultato, positivo o negativo che sia, cambierà la
gestione del paziente o confermerà la diagnosi del medico.
La maggiore sensibilità alle radiazioni di organi e ossa in fase di sviluppo, le aspettative di vita maggiori dei
bambini e la vasta gamma di habitus corporei che questa fascia demografica di pazienti si trova a vivere implica
non che non è appropriato utilizzare le stesse tecniche di acquisizione e gli stessi i parametri di elaborazioni delle
immagini impiegati per gli adulti.
Come leggere una radiografia del torace?
Prima di tutto è necessario comprendere come si forma un’immagine radiografica.
Per fornire elevata qualità delle immagini con utilizzo più efficiente delle esposizione a radiazioni, è importante
affrontare ogni fase del ciclo di formazione delle immagini come parte di un sistema completo. Il processo di
formazione delle immagini è suddividibile per la sua natura stessa in tre fasi distinte: acquisizione delle
immagini, elaborazione per la visualizzazione e di infine revisione e valutazione.
L'aspetto di un'immagine radiografica utilizzata per fini diagnostici dipende dalle caratteristiche del paziente,
ovvero dalle interazioni tra raggi X e i diversi tessuti del paziente, e dalle caratteristiche del sistema di
rilevazione.
Questi due fattori - contrasto del soggetto dovuto al paziente e contrasto del rilevatore o pellicola - determinano
il contrasto radiografico. Variando parametri quali il tempo di esposizione, la distanza, kV e mA si modifica
l'immagine.
La radiografia tradizionale produce un’immagine bidimensionale ottenuta dalla proiezione di un segmento
corporeo tridimensionale.
La continua evoluzione tecnologica ha portato sempre al maggior utilizzo della radiografia digitale.
La radiologia digitale si basa sull'utilizzo di strumentazioni all'avanguardia per l'acquisizione delle immagini.
Le tecnologie digitali permettono infatti di ottenere immagini utili alla diagnosi evitando errori di esposizione,
non rari in ambito radiologico ed ottenendo esami utilizzando la più bassa dose radiogena possibile.
L’applicazione della radiografia digitale CR (Computed Radiography) si differenzia da quella convenzionale per
tipo di supporto, sviluppo e analisi; rimane invariata la metodologia d’esposizione.
La radiografia convenzionale utilizza un supporto detto film o pellicola, il cui strato sensibile, composto da
cristalli d’argento, cattura la radiazione sotto forma d’immagine latente. Il meccanismo d’esposizione dei plate è
il medesimo con la sola differenza che i cristalli d’argento sono sostituiti da cristalli di fosforo.
Al termine dell’esposizione il plate viene scannerizzato, operazione che non richiede alcun tipo di prodotto
consumabile né camera oscura. Durante la scansione i cristalli del plate vengono colpiti da un laser ed emettono
una luce blu che viene catturata da un fotomoltiplicatore e trasformata in immagine digitale che sarà analizzata al
monitor e salvata nel computer.
Con radiografia digitale si indica quindi la modalità digitale di acquisizione dall'immagine RX che, a differenza
della meno recente tecnica analogica, permette di sfruttare software e hardware abili all'archiviazione di
immagini e alla loro modificazione post-acquisizione.
•
•
L’aspetto delle immagini digitali può essere variato dall’operatore dopo che le stesse sono state
ottenute.
Il processo di modifica e visualizzazione di dati digitali permette di esaltare alcune informazioni
129
•
contenute nell’immagine e sopprimerne altre ( es. rumore di fondo)
Vi è la possibilità di migliorare il contrasto
L’apparecchio usato per eseguire una radiografia del torace è formato dal tubo a raggi X e dalla cassetta
radiografica.
I raggi X prodotti dal tubo radiogeno attraversano il paziente venendo in parte attenuati ed in parte
completamente assorbiti in base alla costituzione della struttura corporea attraversata.
In particolare, l’osso assorbe la maggior parte delle radiazioni e nelle immagini radiografiche appare bianco,
mentre l’aria lascia passare i raggi X ed appare nera.
In una radiografia del torace, quindi, le strutture scheletriche sono bianche mentre il polmone che contiene aria
appare scuro; i tessuti molli che hanno un comportamento intermedio tra l’osso e l’aria assumono varie
gradazioni di grigio.
L'immagine radiologica è complessa, formata dalla sovrapposizione e dalla giustapposizione di molteplici
immagini elementari, ciascuna di esse corrispondente alla proiezione di una struttura anatomica. Le
composizioni fisico-chimiche di queste ultime sono varie, ma. dal punto di vista radiologico, sono quattro gli
elementi principali che permettono di individuarle.
1)L’aria:L'aria contenuta nell'albero aereo, trachea, bronchi, e negli alveoli, ha una densità bassa e rappresenta
circa il 92% del volume totale del parenchima polmonare. 2)Il grasso:Il grasso ha una densità media. Nel torace
il suo volume non è considerevole, ma gioca un ruolo importante dal punto di vista radiologico in quanto
"riveste" avvolgendole diverse strutture. La sua densità, più elevata di quella dell'aria, lo fa apparire
radiologicamente più opaco quando questi ultimi sono a contatto.3)L’acqua:L'acqua costituisce nel corpo umano
la maggior parte di numerosi elementi composti, e prima di tutto, del sangue.
L'acqua costituisce allo stesso tempo una parte importante delle masse muscolari, poichè questi tessuti
contengono il 79% d'acqua . Il sangue e i muscoli hanno quindi una densità simile . Il loro aspetto radiologico ha
una densità ottica praticamente identica.
Non solamente i vasi e il cuore, ma anche le lesioni del parenchima polmonare si traducono sul radiogramma in
opacità della stessa densità. Sono infatti anch'esse delle strutture "idriche", sia che si tratti di proliferazioni
cellulari, di un infiltrato edematoso dell'interstizio o di un riempimento degli alveoli.
4)Il calcio:Il calcio si trova essenzialmente nei tessuti ossei. Le ossa costituiscono gli elementi più "opachi" in un
radiogramma del torace normale.
Nel paziente adulto la radiografia del torace viene eseguita, se possibile, in posizione eretta.
Generalmente vengono effettuate 2 proiezioni: una frontale e una laterale.
Per eseguire la proiezione frontale, detta proiezione PA (postero-anteriore), il paziente viene appoggiato con la
parete toracica anteriore alla cassetta radiografica, le mani vengono posizionate sui fianchi e le braccia spostate
in avanti per evitare che l’immagine delle scapole si sovrapponga a quella del parenchima polmonare.
La proiezione laterale (LL) viene eseguita facendo appoggiare al paziente il fianco alla cassetta e sollevando le
braccia.
Subito prima di acquisire l’immagine al paziente viene chiesto di compiere una inspirazione profonda e poi di
mantenere l’apnea per alcuni secondi.
In determinate circostanze può essere necessario acquisire ulteriori radiogrammi utilizzando proiezioni
particolari.
Qualora il paziente non sia in grado di mantenere la posizione eretta la radiografia del torace viene eseguita a
paziente supino; in questo caso la cassetta radiografica è posizionata al di sotto del corpo del paziente.
Utilizzando attrezzature particolari è possibile eseguire anche radiografie del torace al letto del paziente qualora
il malato non possa essere trasportato in Radiologia.
E’ evidente che queste procedure non sempre sono applicabili ai bambini, specie se piccoli.
A volta è necessario adottare ulteriori accorgimenti e proiezioni per ovviare alla mancanza di collaborazione del
piccolo paziente:
La proiezione in decubito laterale viene eseguita con paziente sdraiato sul fianco.
La proiezione obliqua è una proiezione ruotata a metà tra quella frontale e quella laterale. È utile per localizzate
eventuali lesioni ed la sovrapposizione di altre strutture.
Nella PA abbiamo diverse zone "cieche" (retromediastiniche, retrodiaframmatiche). Il ricorso alla visione in LL
andrebbe limitata nei pazienti pediatrici ma è in ogni caso necessaria in tutti i casi in cui ci sia una qualsiasi
immagine nella PA da dover posizionare spazialmente sull'asse della profondità.
Merita in oltre un discorso a parte la necessità a volte inderogabile di eseguire un radiogramma in fase
espiratoria ( ostruzione bronco principale da C.E. , pneumotorace)
Comunque fondamentale è la simmetria dell'incidenza: i due emitoraci devono essere simmetrici e senza
rotazioni . Nella PA il modo più efficace per rilevarlo è verificare la simmetria tra le articolazioni sterno-claveari
(ASC) e la linea mediana.
Nella L-L i due emitoraci devono perfettamente sovrapposti. Per verificare la simmetria si valutano le arcate
costali posteriori che devono essere sovrapposte.
130
SEMEIOTICA RADIOLOGICA:
Nel torace esistono quindi favorevoli condizioni di contrasto naturale create dalla aria contenuta nei polmoni, in
base alle quali la semplice indagine diretta consente di apprezzare la maggior parte delle numerose formazioni
che partecipano alla sua costituzione anatomica.
La semeiotica radiologica dei polmoni comprende lo studio:
- della trasparenza diafania polmonare
- della topografia lobare
- dei bronchi della distribuzione bronchiale
- del disegno polmonare
- degli ili polmonari
La diafania polmonare è in funzione dell'aria contenuta degli alveoli, la cui quantità dipende dalla ventilazione.
La radiografia del torace è di solito la prima indagine diagnostica per sintomi quali tosse, febbre, dolore
toracico, traumi toracici.
Conoscere la localizzazione precisa di una lesione intratoracica è molto importante, per evitare di attribuire
un’immagine radiografica anomala all’organo errato.
Durante la valutazione del radiogramma devono quindi essere presi in considerazione gli elementi semeiotici
fondamentali che costituiscono l’immagine dell’apparato respiratorio e della gabbia toracica.
•
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•
•
•
•
Trachea e grossi bronchi
Mediastino
Polmoni
Pleura
Diaframma
Coste
Nel corso della relazione verrà esaminata mediante esempi radiografici la semeiotica radiologica patologica.
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SEZIONE 1
“FOCUS ON…”
Sabato, 15 novembre 2014
Presidente: P. Di Pietro
8,00 – 10,00
Moderatori: A. Di Paolo, A. Soresina
132
NUTRIZIONE NEL PRIMO ANNO DI VITA
Elvira Verduci
Ricercatore Universitario Pediatria Dipartimento Scienze della Salute Ospedale San Paolo Università degli Studi
di Milano
Non vi è alcun dubbio che gli ultimi decenni siano stati caratterizzati da grandi conquiste sia nel versante
scientifico che in quello tecnologico in generale. Anche il settore della nutrizione ha beneficiato di questo
progresso. Si tratta, peraltro, di una “evoluzione” e non di una “rivoluzione”: rimangono saldi, infatti, i principi
fondamentali sui quali si basa la Nutrizione. Il concetto di nutrizione è ovviamente interdisciplinare e integrativo
di acquisizioni di origine diversa che conducono ad applicazioni pratiche di educazione alimentare con la finalità
di perseguire, attraverso la risposta fisiologica, un ottimo stato di salute e di benessere nel singolo e nella
popolazione.
L’alimentazione in età pediatrica ha acquisito oggi notevole importanza per le valenze non solo preventive ma
anche costitutive del futuro individuo. Una particolare attenzione va oggi ai modelli alimentari delle prime
epoche (e ancora più indietro alla vita fetale stessa) in base all’ipotesi del “programming” nutrizionale. Esistono
quindi periodi critici dello sviluppo del bambino (dalla gravidanza ai primi anni di vita) in cui l’intervento
nutrizionale può condizionare la salute del futuro adulto ed in cui gli alimenti da proporre al bambino devono
essere scelti con speciale cura ed attenzione perché possano rispondere in maniera ottimale alle esigenze
nutrizionali e di sicurezza specifiche di un organismo in crescita ed intrinsecamente vulnerabile. Espressione di
questa attenzione verso la popolazione sono i nuovi livelli di assunzione di riferimento di nutrienti. Per i primi
anni di vita, incluso il primo, notevolmente cambiati sono i fabbisogni sulla base delle recenti evidenze
scientifiche. Anche nella patologia le recenti novità in termini di nutrizione rivestono un ruolo fondamentale
nella prevenzione e nel trattamento di alcune patologie. Qui ricordiamo il campo delle allergie. Non esistono
evidenze certe che posticipare o eliminare l’introduzione dei cibi allergenici possa prevenire o ritardare lo
sviluppo di allergia. Non c’è evidenza scientifica riguardo al fatto che ritardare o eliminare alimenti
potenzialmente allergizzanti, riduca il rischio di allergie, sia nei lattanti considerati a rischio che in quelli che non
lo sono.
In conclusione è necessario garantire al lattante un’alimentazione sicura da un punto di vista
microbiologico e tossicologico, variata e nutrizionalmente adeguata in termini di assunzione di energia,
macro e micronutrienti per il corretto sviluppo del suo organismo.
133
FOCUS ON: DISLIPIDEMIE
Ornella Guardamagna
Università degli Studi di Torino
Il tema delle dislipidemie è strettamente correlato a quello della prevenzione cardiovascolare il cui obbiettivo è
quello di ridurre il rischio di eventi vascolari cardiaci (malattia coronarica/infarto miocardico) o cerebrali (ictus).
Questi ultimi sono riconducibili all’aterosclerosi, lento processo degenerativo della parete vascolare, per lo più
sintomatico nell’adulto benchè ad esordio precoce in età pediatrica.
I fattori di rischio cardiovascolare associati ad aterotrombosi sono numerosi (dislipidemie, diabete, ipertensione,
patologie renali, disendocrine, infiammatorie, stili di vita errati) ed in particolare lo sono le patologie che
intervengono precocemente. Tra queste le dislipidemie primitive costituiscono una condizione di elevato rischio
cardiovascolare (CV) il cui modello naturale è fornito dall’ipercolesterolemia familiare (IF).
La colesterolemia è individuata quale unico fattore di rischio indipendente nel maschio in età pediatrica e
numerose evidenze sono fornite da studi prospettici quali Bogalusa, Muscatine e Young Finns Study che hanno
dimostrato come le dislipidemie di natura familiare siano presenti già nel bambino, persistano nel tempo e siano
predittive di danno vascolare subclinico.
Tali studi hanno dimostrato la presenza di placche fibrose nell’aorta e coronarie e la presenza di ispessimento
dell’intima media della parete vascolare delle carotidi in soggetti ipercolesterolemici.
134
Le linee guida, introdotte sin dal 1992 hanno posto l’accento sulla necessità di individuare soggetti
ipercolesterolemici, di impostare un trattamento dietetico e farmacologico e più recentemente di ridurre il rischio
CV attraverso la valutazione di tutti i fattori di rischio eventualmente identificabili. L’obbiettivo è quello di
praticare la prevenzione primordiale.
La diagnosi del soggetto dislipidemico pediatrico richiede un inquadramento del soggetto finalizzato ad
escludere forme secondarie di dislipidemia distinguendo i difetti geneticamente trasmessi o primitivi. A tale
scopo è necessario effettuare un’attenta valutazione della storia familiare estesa a tre generazioni, avere
conferma dei livelli sierici di colesterolo totale, HDL-colesterolo e trigliceridi (da cui è calcolabile LDLcolesterolo), considerando i percentili adatti per sesso ed età del soggetto.
135
Il fenotipo clinico fornisce elementi utili solo raramente ed in presenza di forme rare, molto precocemente
sintomatiche (omozigote IF, tangier, sitosterolemia, difetto di lipoproteinlipasi o di lipasi acida). La
sovrapposizione di livelli sierici di LDL colesterolo osservati nella popolazione IF eterozigote e non IF indica la
potenziale difficoltà diagnostica. Quest’ultima è superabile mediante l’analisi molecolare del recettore per LDL
colesterolo ( Guardamagna O, Restagno G, Rolfo E et al J. Pediatr. 2009;155(2):199–204) benchè possano
esservi incongruenze tra diagnosi biochimica e genetico-molecolare (European Atherosclerosis Society
Consensus Panel. Eur Heart J. 2013 Dec;34(45):3478-90). L’utilizzo di score diagnostici (Simon Broome) che
includono i diversi parametri sopraindicati, può facilitare la diagnosi.
Va peraltro sottolineato che a fronte della necessità di una precisa identificazione di soggetti IF solo in una
minima percentuale (<1%) di pazienti è diagnosticato in Italia.
Un aspetto attuale e dibattuto riguarda lo screening dell’ipercolesterolemia familiare ed in particolare la pratica
dello screening selettivo ( da applicare a figli di genitori IF con la pratica del cascade screening o diagnosi
molacolare applicata ai relati in primo grado) o di quello esteso alla popolazione generale. A tal proposito il
comportamento differisce in diversi stati EU (Kusters DM, de Beaufort C, Widhalm K, Guardamagna O et al
Arch. Dis. Child. 2012 Mar;97(3):272–6) ed USA.
Il trattamento di IF prevede di introdurre uno stile di vita corretto che include alimentazione ed attività motoria:
l’alimentazione, normocalorica, prevede un contenuto di grassi non superiore al 28-30% delle calorie totali
giornaliere e di un contenuto di colesterolo pari a 100 mg/1000 kcal; può avvalersi inoltre dell’integrazione con
fitosteroli (alla dose di 1-1.6 g/die). L’efficacia di tale approccio è data dalla riduzione di LDL colesterolo pari
mediamente al 10% ed al 16% con l’esclusiva alimentazione corretta o con l’aggiunta di fitosteroli
rispettivamente (Guardamagna O, Abello F, Baracco V et al. Acta Diabetol. 2011 Giu;48(2):127–33). In caso di
livelli elevati di colesterolemia sierica LDL, poco responsivi alle precedenti misure, e soprattutto se la storia
familiare è importante per eventi CV precoci, l’American Academy of Pediatrics fornisce indicazioni circa
l’impiego di statine (pravastatina in prima scelta) per le quali è previsto l’utilizzo dopo l’età di 10 anni se LDL
colesterolo supera livelli sierici di 190 mg/dl, o 160 mg/dl con due fattori di rischio aggiuntivi o 130 mg/dl se
coesiste diabete. Le statine utilizzate vantano un’esperienza decennale, sono ben tollerate e non influiscono
negativamente sulla crescita; inoltre potrebbero limitare il danno dovuto all’accumulo tissutale di LDL
colesterolo.
136
Il punto critico inerente la terapia con statine è tuttavia rappresentato dall’effetto clinico a lungo termine per il
quale a tuttora mancano dati certi e per i quali si ipotizza una riduzione di eventi CV nell’età adulta dei soggetti
IF pediatrici.
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SEZIONE 1
“MEET THE SPECIALIST”
Sabato, 15 novembre 2014
Presidente: G. Temporin
11,00 – 13,00
Moderatori: M. Gnecchi, E. Saullo
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CRANIOFACIOSTENOSI: CARATTERIZZAZIONE E TRATTAMENTO
Antonino Cassisi, Antonino Puccio, Francesco Ruscitti, Alberto Barbaglio, Vincenzo Bondì
Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII, Bergamo
Per craniofaciostenosi si intende la fusione precoce di una o più suture a carico delle ossa che compongono il
distretto cranio-facciale. Le craniofaciostenosi sono caratterizzate da un’anomala forma della testa che può
comportare, se non trattata, deficit neurologici e dello sviluppo. L’incidenza è di circa 1 / 2.500 nati vivi. Sono
comunemente classificate in semplici e complesse, sulla base del numero di suture coinvolte nel processo di
prematura fusione; in primarie e secondarie, a seconda che riconoscano cause intrinseche o estrinseche ; in
isolate o non sindromiche e sindromiche, queste ultime associate a difetti cognitivi e/o altri aspetti malformativi
in particolare degli altri e del volto. L’85% dei casi di craniofaciostenosi è ritenuta isolata o non sindromica.
Craniofaciostenosi semplice viene definita quella situazione patologica in cui solamente una sutura è chiusa
precocemente, complessa quando sono coinvolte più suture; in genere quest’ultima situazione viene osservata in
quadri sindromici. Le ossa che compongono la volta cranica sono separate da suture; fisiologicamente ne
distinguiamo due coronali (tra le ossa frontali e quelle parietali), una metopica (tra le ossa frontali), una sagittale
(tra le ossa parietali) e due lambdoidee (tra l’osso occipitale e le due ossa parietali). La forma e le dimensioni
definitive della volta cranica dipendono principalmente dalle pressioni esercitate sul tavolato interno delle ossa
craniche; il cervello in espansione esercita forze tensive sulle suture, stimolando la crescita ossea . La normale
fusione di una sutura (che avviene tra i 2 ed i 7 anni per la sutura metopica, nell’età adulta per le altre) avviene
secondariamente alla perdita delle forze di separazione che risulta in una diminuita crescita ossea; a contribuire
alla fusione di una sutura sono chiamati fattori vascolari, ormonali, genici e meccanici.
Dal punto di vista clinico si possono avere i seguenti quadri: Scafocefalia (chiusura della sutura sagittale),
Trigonocefalia (chiusura della sutura metopica), Plagiocefalia anteriore e posteriore (chiusura di una sutura
coronale o di una sutura lambdoidea), Brachicefalia (chiusura di entrambe le sutura coronali).
La diagnosi, clinica e strumentale (l’indagine di scelta è la TAC 3D) deve distinguere in particolare le forme da
posizione (molto frequenti le plagiocefalie), in cui è presente una deformazione cranica ma non associata a reale
patologica fusione di una sutura cranica. Le craniostenosi sono una patologia complessa che necessita della
cooperazione di più specialisti che formino un team. Il “timing” dell’intervento chirurgico varia in base al tipo di
craniostenosi ed alla sua severità. E’ considerata un’urgenza la presenza di segni di ipertensione endocranica
(papilledema, compressione del nervo ottico, clinica), in questi casi si interviene al momento della diagnosi,
altrimenti, generalmente, si attendono i 9 – 11 mesi di età.
L’obiettivo della chirurgia è di asportare la sutura fusa e rimodellare le ossa malformate in modo da rimuovere la
costrizione del cervello sottostante e ottenere una normale e simmetrica conformazione cranio facciale.
Per far ciò occorre conoscere a fondo quelle che sono le caratteristiche che contraddistinguono le singole
situazioni, i principi base della tecnica chirurgica e, soprattutto, la storia naturale delle patologie.
139
LA DEFORMITÀ TORACICA
Dott. Michele Torre
Chirurgia Pediatrica
Team Vie Aeree
Istituto G. Gaslini, Genova
Le deformità della parete toracica comprendono un ampio spettro di affezioni, che presentano come fattore
eziologico una qualche alterazione nello sviluppo o nella morfologia della gabbia toracica. E’ difficile valutare
con precisione l’incidenza globale di tali anomalie, anche perchè molti casi lievi sfuggono a qualsiasi
valutazione e registrazione. Le malformazioni della parete toracica sono nel loro complesso frequenti, anche se
la necessità di provvedimenti terapeutici o di ulteriori indagini va riservata a quei pochi casi con anomalie
evidenti.
Sorprendentemente non esiste una classificazione delle malformazioni della gabbia toracica riconosciuta nella
letteratura internazionale e utilizzata in maniera univoca.
La classificazione più chiara e pratica, da un punto di vista del trattamento chirurgico, ci sembra essere quella
proposta recentemente da Acastello, che seguiremo anche noi in questa trattazione. La classificazione di
Acastello suddivide le malformazioni della gabbia toracica in 5 tipi, a seconda della porzione interessata dalla
malformazione:
-
Tipo I : cartilaginee
Tipo II: costali
Tipo III: condrocostali
Tipo IV: sternali
Tipo V: clavicoloscapolari
Non fanno invece parte di questa trattazione, ma le citiamo in quanto possono essere confuse clinicamente con le
precedenti, le malformazioni acquisite della gabbia toracica, per esempio quelle post-chirurgiche. Di tutte le
malformazioni congenite della parete toracica, le più frequenti, circa il 90% del totale, sono rappresentate da
quelle del gruppo 1, in particolare il pectus excavatum. Seguono il pectus carinatum e la sindrome di Poland.
Tipo I: malformazioni cartilaginee
Pectus excavatum
Viene anche chiamato torace a imbuto, o del calzolaio, ed è la più frequente delle malformazioni congenite della
parete toracica. E’ caratterizzato dalla depressione o spostamento in senso posteriore dello sterno, che si trova
più vicino del normale alla colonna vertebrale. Può essere simmetrico o asimmetrico, in quest’ultimo caso lo
sterno ruota sul suo asse sagittale, generalmente verso destra, producendo un’asimmetria toracica evidente.
L’incidenza è variabile a seconda dei lavori, dal 2% allo 0,3%. E’ molto più frequente nel sesso maschile, e nel
30-40% dei casi si presenta in forma familiare. Nel 30% circa dei casi si manifesta in associazione ad altre
anomalie o sindromi, tra cui citiamo la scoliosi (almeno nel 15% dei casi), il prolasso mitralico, la sindrome di
Marfan.
L’eziologia del pectus excavatum è sconosciuta, ma chiaramente l’anomalia si riscontra a livello delle cartilagini
costali. L’associazione con alcune malattie muscoloscheletriche, come la sindrome di Marfan, e la frequente
presentazione familiare, fa pensare effettivamente ad un’anomalia congenita, forse su base genetica, a carico del
tessuto connettivo.
La presentazione clinica può essere varia. Nel 90% dei casi si manifesta entro il primo anno di vita. La gravità
della presentazione è molto variabile, nella quasi totalità dei casi la depressione sternale tende a progredire, in
qualche caso rimane stabile, ma non è possibile che migliori spontaneamente. Si può classificare il pectus
excavatum a seconda della gravità in lieve (se la depressione non supera i 2 cm.), moderata, se compresa tra 2 e
3 cm. e grave oltre i 3 cm., oppure a seconda della forma dell’escavazione, in localizzata (“punch shape”),
diffusa (“saucer shape”), o a “gran canyon”. Una distinzione importante anche ai fini delle implicazioni
terapeutiche è quella in forme simmetriche (circa il 40%) e asimmetriche (60% dei casi). Nelle ragazze con
pectus asimmetrico si osserva sempre un’ipoplasia della ghiandola mammaria destra.
La postura di questi pazienti è tipica, con le spalle inclinate in avanti in un atteggiamento cifotico. In molti
pazienti le cartilagini inferiori sono prominenti.
I sintomi del pectus excavatum possono essere del tutto assenti, almeno nei primi anni di vita. A volte si ha
l’impressione, di fronte a un paziente con malformazione anche molto evidente, che si tratti di un problema
fondamentalmente estetico e non funzionale. In realtà, ad un’attenta anamnesi, spesso si evidenziano sintomi del
tutto caratteristici di questa anomalia, che si renderanno evidenti in particolare quando il paziente si avvicina alla
pubertà e spesso diventano sempre più importanti e fastidiosi. I sintomi sono la diretta conseguenza della
compressione esercitata dallo sterno (visibile ad esempio alla RM o TC del torace) sui polmoni e, soprattutto, sul
cuore, in particolare sul ventricolo destro.
Il sintomo più frequente, presente in circa il 70% dei pazienti, è la dispnea da sforzo, che non impedisce le
normali attività quotidiane, ma si può rendere evidente quando al paziente è richiesta una prestazione maggiore,
come durante una prova sportiva. In genere negli sport in cui il paziente è in posizione eretta, come per esempio
la corsa, si osservano le maggiori limiazioni, mentre negli sport come il nuoto in cui il corpo si trova in posizione
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orizzontale i pazienti incontrano minor difficoltà, probabilmente per un grado minore di compressione sul cuore.
Altri sintomi respiratori più raramente osservati nei pazienti con pectus excavatum sono infezioni respiratorie
ricorrenti, atelettasie, asma.
In una minoranza di pazienti sono presenti sintomi cardiovascolari, in particolari aritmie, mentre è più frequente
riscontrare un senso di costrizione sopra lo sterno, e qualche volta una vero e proprio dolore, in particolare in
certe posizioni.
Ma il motivo più frequente per cui i pazienti giungono all’osservazione dello specialista, è sicuramente, il
disagio psicologico di tale malformazione. Questi pazienti, in genere a partire dagli 8-10 anni, si vergognano e
spesso rifiutano di spogliarsi in pubblico, di andare al mare, e possono arrivare ad avere una bassa autostima, o
veri e propri sindromi depressive. In molti casi durante la pubertà questo disagio si rende insopportabile, e rende
il rapporto con i coetanei del sesso opposto impossibile o molto difficile. Il disagio di questi pazienti è spesso,
stranamente, ignorato o comunque minimizzato dai genitori e dai pediatri curanti, che si interessano quasi
esclusivamente dell’eventuale compromissione della funzione cardiovascolare e respiratoria. I ragazzi con pectus
excavatum si trovano spesso soli ad affrontare il loro problema, anche perchè esso stesso tende a renderli
introversi e timidi. Il senso di disagio e isolamento si fa ancora più profondo in quanto il pectus excavatum è una
malformazione poco conosciuta dai medici, che in molti casi purtroppo non sanno dare le giuste informazioni ai
pazienti e alle loro famiglie, quando non danno suggerimenti palesemente sbalgiati. Ad esempio, è molto
comune che i pazienti giungano allo specialista dopo che il pediatra e a volte altri specialisti abbiano detto loro
di non preoccuparsi perchè con il tempo la malformazione sarebbe guarita, quando invece, nella quasi totalità dei
casi, peggiora progressivamente. Altra convinzione molto diffusa e falsa è che con opportuni esercizi
fisioterapici o attività sportiva il pectus excavatum possa scomparire. Nella nostra esperienza ciò non è mai
successo, e i pazienti e le famiglie spesso non fanno altro che perdere anni e speranze dietro trattamenti inutili e a
volte anche costosi.
La valutazione del paziente con pectus excavatum si basa innanzitutto sulla visita. Bisogna informarsi sulla
familiarità della malformazione ed indagare eventuali altre anomalie associate. L’ispezione e palpazione del
torace permetterà di classificare il pectus excavatum in base alle gravità, tipo e simmetria.
La radiografia toracica potrà evidenziare la morfologia sternale e costale, alterazioni polmonari importanti, e
l’eventuale dislocamento del cuore verso sinistra, ma in genere non fornisce informazioni molto utili e pertanto
si può anche omettere.
La funzione cardiorespiratoria si deve valutare, nei pazienti al di sopra dei 6 anni, con prove di funzionalità
respiratoria e da sforzo che potranno evidenziare ad esempio deficit volumetrici polmonari di tipo restrittivo, e
con l’ecocardiografia Doppler, che potrà eventualmente documentare una compressione cadiaca, oltre che un
prolasso della valvola mitralica.
L’esame radiologico più importante nei casi di pectus excavatum è sicuramente la TC o la RM del torace. A
causa della sua invasività in termini di dose radiante la RM è preferibile. La RM cardiaca, in casi selezionati,
fornisce informazioni molto importanti sulla dinamica cardiaca. Nei pazienti con pectus excavatum il cuore
molto spesso si trova spinto e dislocato verso l’emitorace sinistro, e, meno frequentemente, sono presenti
compressioni polmonari con atelettasie. La TC o la RM del torace permette, inoltre, di calcolare l’indice di
Haller riconosciuto internazionalmente come indice di gravità del pectus excavatum. L’indice di Haller si calcola
dividendo il diametro trasverso del torace per il diametro anteroposteriore (la distanza tra corpo vertebrale e
sterno), calcolato nel punto di maggior profondità del pectus excavatum. Quando il valore ottenuto supera i 3,25
si ritiene che il pectus excavatum sia severo e pertanto ci sia un’indicazione alla correzione chirurgica.
L’indicazione chirurgica si basa sulla gravità della malformazione e sui sintomi. I pazienti sintomatici con forme
severe sono sempre da correggere chirurgicamente. I pazienti con indice di Haller patologico ma asintomatici
possono essere operati, soprattutto se sono molto motivati per correggere il difetto estetico. La conformazione
asimmetrica della malformazione può essere considerato un fattore aggravante. Nelle femmine l’ipoplasia
mammaria può costituire un’indicazione chirurgica di per sè. In ogni caso è necessario valutare bene
l’indicazione operatoria con il paziente e con la sua famiglia. Raramente è necessario l’intervento chirurgico
nelle forme lievi, con indice di Haller minore di 3. Nella nostra esperienza l’intervento si rende necessario in
circa la metà dei casi che si presentano con diagnosi di pectus excavatum. L’unica alternativa potenzialmente
efficace per il trattamento del pectus excavatum lieve è l’utilizzo della Vacuum Bell, che, applicata alla parete
anteriore del torace, attraverso la creazione di un vuoto, esercita sulla parete stessa una trazione verso l’esterno.
Dopo mesi o anni di terapia la Vacuum Bell può in qualche modo correggere la malformazione in alcuni casi. In
ogni caso ci sembra utile ribadire che l’attività sportiva non può far scomparire un pectus excavatum, nè
migliorarlo in maniera significativa. La correzione chirurgica del pectus ha una lunga storia. Il primo intervento
fu eseguito nel 1911 da Meyer. Successivamente si cercava di correggere la malformazione mediante trazione
esterna. A partire dagli anni ’40 si introdusse il principio della resezione delle cartilagini costali e
dell’osteotomia sternale. Il contributo maggiore nella chirurgia del pectus excavatum è stato senza dubbio ad
opera di Ravitch, che nel 1949 ha proposto un intevento ai cui principi si sono ispirati quasi tutti gli interventi
proposti nel corso dei successivi 40 anni. L’intervento di Ravitch consisteva nella resezione delle coste
malformate con il loro pericondrio, la separazione del processo xifoideo dallo sterno e dei fasci intercostali dallo
sterno, e l’osteotomia trasversale per anteriorizzare lo sterno, che veniva fissato senza supporti con fili metallici
o di seta. Modifiche successive miravano a ridurre l’invasività del’intervento di Ravitch. In tutti questi interventi
vengono rimosse le cartilagini anomale, che successivamente ricrescono, a partire dai nuclei di accrescimento,
141
andando a riarticolarsi con lo sterno in maniera rettilinea e non più, come in precedenza, incurvandolo verso
l’interno.
Negli ultimi anni un nuovo intervento ha rivoluzionato totalmente la chirurgia del pectus excavatum. Si tratta
dell’approccio miniinvasivo, proposto da Nuss nel 1998. Il suo intervento si basa sulla malleabilità della gabbia
toracica presente nei pazienti pediatrici ma in minor misura anche nei pazienti adulti, come dimostrato per
esempio dagli anziani in cui una malattia polmonare come l’enfisema riesce a deformare in pochi mesi o anni la
conformazione della gabbia toracica, che diventa tipicamente a forma di botte. Nuss ha pensato che non è
necessario rimuovere le cartilagini anomale, ma deformarle attraverso l’inserimento di una barra curva di acciaio
inserita dietro lo sterno che le spinga in fuori. La barra si inserisce attraverso due piccole incisioni laterali sul
torace e sotto visione toracoscopica attraverso un’ottica inserita da una terza incisione di 5 mm. La barra curva
viene ruotata di 180 ° e si ottiene immediatamente la correzione della malformazione. Se necessario, nelle forme
severe e in cui tutto lo sterno è infossato, si possono posizionare anche due barre. La barra va mantenuta per
circa 3 anni, e poi rimossa attraverso un secondo intervento molto più semplice e breve. Questo spazio di tempo
serve per consolidare la correzione dando il tempo alla gabbia toracica di rimodellarsi secondo la nuova
conformazione, perchè, una volta rimossa la barra, il torace non torni a infossarsi. Durante i 3 anni il paziente
può svolgere una vita normale, e può praticare anche sport, evitando sport di contatto violento quali le arti
marziali.
I vantaggi dell’approccio miniinvasivo di Nuss sono una maggior rapidità dell’intervento, una minor dissezione
dei muscoli del torace, senza necessità di rimuovere cartilagini costali, e, soprattutto, l’assenza totale di cicatrici
anteriori.
L’età ideale per la correzione con tecnica di Nuss è di 12-14 anni, poichè il torace è ancora molto malleabile ma
le cartilagini costali saranno già in parte calcificate, quando si rimuoverà la barra, dopo tre anni. L’intervento in
età troppo precoce rischia di dar luogo alla recidiva, una volta rimossa la barra. I limiti di tale tecnica sono
invece ritenuti l’età adulta e le forme asimmetriche severe, ma in realtà si tratta di limiti relativi, in quanto anche
adulti e pazienti con pectus molto asimmetrico possono essere operati con buoni risultati. Nella nostra esperienza
l’intervento di Nuss è divenuto ormai l’intervento di elezione nella quasi totalità dei pazienti affetti da pectus
excavatum.
I risultati della correzione chirurgica, sia degli interventi tradizionali che dell’intervento mininvasivo di Nuss,
sono molto buoni. In genere nelle casistiche di tutti i centri sono descritti risultati ottimali o molto buoni in circa
il 90% dei pazienti. Le recidive sono molto poche (meno del 5%), e le complicanze, in particolare emorragie,
dislocazioni della barra, infezioni, cheloidi, raccolte sottocutanee, sono contenute.
Nelle femmine postpuberi con asimmetria mammaria, la correzione del pectus excavatum riesce a correggere
completamente o quasi l’ipoplasia mammaria, che spesso è meno grave di quello che appaia prima della
chirurgia. In caso in cui la paziente necessiti di un intervento di mastoplastica per asimmetria mammaria
persistente si può realizzare nello stesso tempo della chirurgia per il pectus o successivamente.
La complicanza più temibile, sebbene eccezionale , della tecnica di Nuss è la lesione cardiaca nel passaggio della
barra retrosternale, di cui, in tutto il mondo, sono stati riportati casi sporadici, in particolare prima dell’adozione
dell’ausilio dell’ottica toracoscopica per osservare direttamente la barra durante il passaggio.
Pectus carinatum
Il pectus carinatum è una malformazione della gabbia toracica caratterizzata dalla protrusione dello sterno in
senso anteriore, ad opera delle cartilagini anomale, con aumento del diametro anteroposteriore. Pur essendo
praticamente l’opposto del pectus excavatum, secondo alcuni il pectus excavatum e il carinatum potrebbero
essere due aspetti dello stesso tipo di patologia, come supportato dal fatto che in alcune famiglie si osservano
casi di entrambe le malformazioni.
Il pectus carinatum si può classificare in 4 forme:
1) Forma condroxifoidea (inferiore) o tipo 1: la più frequente, con protrusione di sterno e cartilagini
costali, o solo del processo xifoideo
2) Forma condromanubriale (superiore) o tipo 2: protrusione del manubrio sternale (molto rara)
3) Forma asimmetrica: si osserva la protrusione di alcuni segmenti costali da un lato, con rotazione dello
sterno verso il lato opposto, che a volte si presenta lievemente depresso. Questa è una forma abbastanza
frequente.
4) Forma mista, detta anche sindrome di Currarino Silverman, dalla loro descrizione nel 1958. In questa
variante, alla protrusione sternale superiore, come nella forma condromanubriale, si associa
l’escavazione inferiore. Si tratta percio’ di uno sterno che, visto di lato, ha una conformazione ad S. È
una malformazione che riunisce in sè un pectus carinatum superiore e un pectus excavatum inferiore.
Lo sterno in questi pazienti risulta anche più corto e largo, e la malformazione è sempre simmetrica.
Come per il pectus excavatum, non si conosce la causa del pectus carinatum. Apparentemente, le cartilagini
costali sono ugualmente anomali per morfologia e caratteristiche anatomopatologiche in entrambe le
malformazioni (necrosi asettica, disorganizzazione cellulare), fattore che confermerebbe l’ipotesi che si tratti di
manifestazioni distinte dello stesso tipo di patologia. Come il pectus excavatum, è più frequente nel sesso
maschile, nel 40% circa sono forme familiari, e può presentarsi occasionalmente in associazione a sindrome di
Marfan, scoliosi, cardiopatie. La sindrome di Currarino Silverman in particolare si associa più frequentemente a
malformazioni cardiache, sindrome di Noonan o Turner.
142
La presentazione clinica del pectus carinatum è differente dal pectus excavatum, in quanto il carinatum si
manifesta in età successiva, in generale attorno ai 6-8 anni, e si mantiene poco evidente fino alla pubertà, quando
si assiste ad un notevole e rapido peggioramento. In genere, nei casi in cui si rende necessario il trattamento
chirurgico, ciò avviene non prima dell’inizio della pubertà.
Nei pazienti affetti da pectus carinatum è meno frequente la dispnea da sforzo, ma più frequente il dolore
precordiale. Ugualmente presente in quasi il 100% dei pazienti, come nel pectus excavatum, un disagio
psicologico più o meno importante.
La valutazione, come nel pectus excavatum, è principalmente clinica, ma nei casi chirurgici la TC fornisce
informazioni utili al chirurgo sulla morfologia della gabbia toracica.
L’indicazione chirurgica si basa sulla gravità della malformazione e sui sintomi. Nelle forme asimmetriche
l’indicazione può essere più larga. Anche nel pectus carinatum non tutti i pazienti necessitano di intervento
chirurgico, che va deciso, caso per caso, dopo lungo colloquio con il paziente e la sua famiglia.
La toracoplastica a cielo aperto, è sovrapponibile a quella già descritta per il pectus excavatum, e prevede la
resezione di alcune cartilagini costali, e la fissazione dello sterno tramite punti o barra metallica.
Un’alternativa non chirurgica per la correzione del pectus carinatum è rappresentata da alcuni sistemi
compressivi esterni (corsetti) che, portati per molte ore al giorno per lungo periodo, sembrano poter correggere
anche definitivamente la malformazione. È necessario però confezionare il corsetto in maniera personalizzata, a
seconda del tipo di malformazione e del suo grado di simmetria, e regolare la compressione progressivamente.
Per ottenere buoni risultati è necessario molta compliance da parte del paziente. Anche per il pectus carinatum
sono state proposte tecniche miniinvasive, che prevedono il posizionamento di una barra curva al di sopra dello
sterno, che crei una compressione interna (Abramson) o la resezione per via toracoscopica delle cartilagini
anomale (Varela-Torre). I risultati degli interventi sono molto buoni in circa il 90% dei casi, come per il pectus
excavatum. Le forme più difficili da correggere sono quelle asimmetriche e le Currarino Silverman.
Tipo II: malformazioni costali
In questo gruppo rientrano molte anomalie di scarsa rilevanza clinica (coste bifide, fusioni costali, coste
soprannumerarie).
La sindrome di Jeune, detta anche distrofia toracica asfissiante, benchè molto rara (1 caso ogni 100000 nati vivi)
riveste una certa importanza per l’estrema gravità della compromissione respiratoria. È stata descritta da Jeune
nel 1954, è su base autosomica recessiva, e si caratterizza per un torace molto ristretto con addome prominente.
Entrambi gli assi toracici sono ridotti, e le coste sono orizzontali, cosicchè i movimenti respiratori sono
inefficaci. Le coste sono caratteristicamente corte e larghe, con cartilagini irregolari e abbondanti. A seconda
della morfologia toracica e del grado di compromissione respiratoria si distinguono una forma maggiore (70%
dei casi) in cui c’è un’alta mortalità nei primi mesi di vita per insufficienza respiratoria, e una forma minore
(30%), in cui le coste sono meno colpite, i sintomi molto scarsi o assenti, e la sopravvivenza è prolungata. In
alcuni casi è associata una nefropatia o un’epatopatia grave, che conducono rispettivamente a insufficienza
renale e cirrosi epatica. Possono associarsi difetti di ossificazione a carico delle estremità con difetti di
accrescimento.
La diagnosi è essenzialmente clinica, e sarà confermata dalla radiografia del torace
Il trattamento è necessario solo per la forma maggiore. Il principio è quello di espandere la gabbia toracica. Si
può realizzare una sternotomia mediana, che viene mantenuta divaricata da una protesi metallica, che in seguito
si sostituisce con tessuto osseo omologo. Alternativamente, si possono realizzare interventi a livello delle coste,
con divisioni condrocostali multiple ed embricazione dei monconi costali contigui. I risultati sono variabili. La
prognosi dipende dal grado di compromissione respiratoria presente alla nascita. Recentemente è stato proposto
l’utilizzo di un espansore verticabile impiantabile tra le coste (VEPTR, vertical expandable prosthetic titanium
rib), che progressivamente espanda il torace.
Tipo III: malformazioni condrocostali
Sindrome di Poland
La sindrome di Poland prende il nome da Alfred Poland che la descrisse nel 1841, anche se in realtà altri casi
sporadici erano stati descritti in precedenza. Poland descrisse una costellazione di molte anomalie, tra cui
l’assenza dei muscoli grande e piccolo pettorale e sindattilia. In seguito la sindrome di Poland si è arricchita nel
corso degli anni di altre caratteristiche. Si definisce come unàanomalia congenita unilaterale della parete toracica
caratterizzata da variabile grado di ipoplasia/aplasia toracica con interessamento costale, del muscolo grande
pettorale (in genere del capo sternocostale) e del piccolo pettorale, della ghiandola mammaria e del capezzolo,
con o senza coinvolgimento dell'arto superiore (brachisindattilia) ipsilaterale. Come criterio diagnostico
obbligatorio per la sindrome di Poland è necessario osservare aplasia o ipoplasia del muscolo grande pettorale e
almeno un’anomalia associata. Tra queste, le più frequenti sono aplasie/ipoplasie costali, depressioni della parete
toracica, atelia o amastia, assenza di peluria ascellare, ipoplasia del grasso sottocutaneo, ipoplasia del radio e
malformazioni della mano. Le malformazioni a carico della mano sono molto varie e non correlate con la gravità
delle malformazioni toraciche.
L'incidenza della sindrome di Poland è stimata attorno a 1/30.000 nati vivi. In realtà è una stima probabilmente
inesatta per difetto, dovuta alla mancanza di lavori epidemiologici recenti su questo argomento, e al mancato
riconoscimento della sindrome in molti casi.
143
Il lato destro è colpito più spesso rispetto a quello sinistro e i maschi sono più frequentemente affetti, con un
rapporto tra maschi e femmine di 3 a 2. In genere la sindrome di Poland si presenta in forma sporadica, ma sono
descritti rari casi familiari (4%).
La causa della sindrome di Poland è sconosciuta. L’anomalia è congenita e insorge nella vita embrionale.
Secondo un’ipotesi cui si è dato molto credito, potrebbe essere provocata, in alcuni casi, da un'anomalia della
vascolarizzazione fetale con ischemia a carico del territorio tributario delle arterie succlavia, vertebrale, e/o di
uno dei loro rami durante lo sviluppo fetale.
La presentazione clinica della sindrome di Poland è molto varia. Alla nascita la sindrome di Poland può passare
inosservata, specialmente se non sono presenti anomalie dell’arto superiore. L’anomalia dell’area pettorale, che
appare più depressa, è sempre presente, ma può sfuggire ad un’ispezione non accurata del torace. Se sono
presenti anomalie costali (in meno del 30% dei casi nella nostra casistica) la depressione è molto evidente, e si
può assistere a fenomeni di erniazione del polmone attrvaerso il difetto costale e il caratteristico respiro
paradosso (con l’inspirazione si accentua la depressione della parete toracica, che invece si esteriorizza durante
l’espirazione forzata), particolarmente durante il pianto. L’asimmetria toracica si rende più evidente con la
crescita del paziente. L’agenesia della muscolatura pettorale, anche se spesso molto evidente, non crea deficit
funzionali e di forza a carico dell’arto superiore. Qualche volta, in genere dopo i 5-6 anni, anche lo sterno può
rimanere coinvolto, e risultare in una forma asimmetrica di pectus excavatum a carinatum, in genere a causa di
una rotazione dello sterno.
Nelle femmine (nel 100% dei casi secondo la nostra esperienza), al momento della pubertà si osserva marcata
asimmetria mammaria, per l’ipoplasia dal lato interessato. Nelle forme severe la ghiandola mammaria e il
capezzolo sono totalmente assenti.
La diagnosi in genere è clinica. Bisogna tenere presente la variabilità clinica della sindrome, ma deve essere
ricercata in particolare l’ipoplasia del muscolo grande pettorale, le eventuali anomalie costali e le malformazioni
associate dell’arto superiore omolaterale. Lo studio per immagini è importante, per valutare esattamente tutte le
anomalie presenti. L’ecografia della muscolatura toracica, in mani esperte, potrà non solo confermare la diagnosi
mediante la dimostrazione dell’agenesia del muscolo grande pettorale, ma anche estendere lo studio agli altri
muscoli della parete toracica, che possono essere in qualche caso affetti. L’estensione delle anomalie riveste
importanza anche in vista di un intervento ricostruttivo.
La radiografia del torace potrà confermare agenesie costali (in genere evidenti già all’esame obiettivo) e rivelare
una destrocardia, da ricercare sempre nei pazienti con sindrome di Poland a sinistra.
Le indicazioni al trattamento chirurgico della deformità toracica nella sindrome di Poland sono la correzione
dell’agenesia costale (per conferire protezione ai visceri del torace o coregere la dinamica respiratoria paradossa)
e dell’eventuale anomalia sternale associata (pectus carinatum, excavatum). L’agenesia cosle si corregge con
protesi o trasposizione di coste autologhe, l’anomalia sternale con gli stessi interventi descritti in precedenza per
il pectus carinatum o excavatum.
In età adolescenziale ed adulta, in genere le indicazioni chirurgiche non sono di natura funzionale, bensì estetica,
per correggere la deformità estetica del torace, e l’ipoplasia o aplasia mammaria e del capezzolo. Mentre un
tempo si riteneva che gli interventi di chirurgia plastica andassero eseguiti solamente a pubertà conclusa, nella
nostra opinione il percorso chirurgico va iniziato già durante lo sviluppo puberale, anche per ridurre i possibili
problemi psicologici e comportamentali, a volte molto severi, in particolare nel sesso femminile. Vogliamo
sottolineare come la valutazione clinica dei pazienti con sindrome di Poland e il loro trattamento debba essere
multidisciplinare. Il gruppo di specialisti che prende in carico questi pazienti deve includere il genetista,
l’ortopedico, il chirurgo pediatra, il chirugo plastico, il chirurgo della mano, lo psicologo. Sono da valutare
molto positivamente anche le associazioni di famiglie di pazienti affetti, in quanto svolgono un ruolo di supporto
e di informazione spesso indispensabile e favoriscono l’integrazione completa di questi bambini nella dinamica
della società.
Tipo IV: malformazioni sternali
Difetti di fusione sternale
La più frequente di queste malformazioni è il cleft sternale (sterno bifido), che consiste in un difetto sternale
mediano, paziale o totale, risultato di un disturbo dello sviluppo embriologico dello sterno. Lo sterno infatti nella
vita embrionale si crea per fusione delle bande mesenchimali laterali, e un difetto in questo processo crea una
mancata fusione dei due “emisterni”. È ritenuta in assoluto un’anomalia rara, anche se la sua incidenza non è
conosciuta. È molto più frequente nelle femmine, la presentazione è in genere sporadica ma esiste un caso
familiare descritto. Sono rare le anomalie cardiache associate. Sono frequenti invece anomalie cutanee quali nevi
connettivali, bande simil cicatriziali che si estendono sulla linea mediana, onfaloceli, anomalie vascolari
cervicofacciali . La prognosi è buona e la malformazione è normalmente asintomatica. È usuale notare la
protrusione dei visceri mediastinici attraverso il difetto sternale durante l’espirazione, e l’introflessione durante
l’inspirazione. A volte questo movimento dei grossi vasi e del cuore durante la respirazione causano una difficile
ritorno venoso, con sintomi di sovraccarico ventricolare destro, cianosi, dispnea, aritmie e altre alterazioni
circolatorie. L’elettrocardiogramma mostra anomalie della conduzione ventricolare ed extrasistoli. Il difetto
sternale può causare anche instabilità della parete toracica, con diminuita ventilazione polmonare e perdita di
forza e del riflesso della tosse, con predisposizione alle infezioni respiratorie ricorrenti. L’intervento chirurgico
144
va eseguito in epoca precoce, possibilmente neonatale, per prevenire lesioni al cuore ed ai grossi vasi, ai quali
manca la protezione ossea. L’intervento precoce permette di ottenere una chiusura primitiva agevole, ed un’età
in cui, per la flessibilità delle strutture anatomiche, non si hanno conseguenze negative dall’aumento delle
pressioni intratoraciche. I risultati sono generalmente buoni.
Le deformità post-chirurgiche, per esempio quelle post-sternotomia o post-toracotomia per correzione di atresia
esofagea o malformazioni polmonari, sono al giorno d’oggi evitabili con le nuove tecniche di chirurgia miniinvasiva toracoscopica che rendono possibile ad esempio la correzione dell’atresia esofagea e delle
malformazioni polmonari in quei centri con elevata esperienza in questo campo.
145
FOCUS SULLA CATARATTA CONGENITA: dal riflesso rosso alla terapia antiambliopica
Prof. Paolo Nucci
Clinica Oculistica Ospedale San Giuseppe Università di Milano - Via San Vittore 12, 20123 Milano
www.paolonucci.it
Università di Milano, Az.Osp. San Paolo - U.D. Oftalmologia Pediatrica e Strabismo - Via Di Rudinì, 8 Milano
I più recenti protocolli internazionali prevedono l’esecuzione del test del riflesso rosso per tutti bambini entro i
primi due mesi di vita, lo scopo è individuare precocemente le opacità dei mezzi diottrici ed affrontare per
tempo tutte le condizioni che determinino deprivazione visiva, in particolare la cataratta congenita, per la quale
è possibile intervenire e migliorare la prognosi, sempre drammatica se l’intervento è eseguito dopo le prime 16
settimane di vita.
Il test deve essere effettuato più volte per i primi tre anni di vita dal pediatra di famiglia che segue il bimbo, onde
riconoscere precocemente anche il retinoblastoma che sovente si manifesta più tardi con leucocoria.
La rivista americana Pediatrics ha pubblicato nel 2002 un “policy statement” dell’American Academy of
Pediatrics (AAP) nel quale suggerisce indicazioni e tecniche da utilizzare nell’esecuzione del test del Riflesso
Rosso o red reflex (RR) in età infantile.
A questo proposito è necessario che si ricordi che cosa sono e come devono esser intesi questi “policy
statements”: si tratta di una serie di principi organizzativi e linee guida, a cura dell’associazione dei pediatri
americani, finalizzati a stabilire opportunità e protocolli che il pediatra è invitato (non obbligato) a seguire per
offrire un’assistenza aggiornata e qualitativamente migliore e così preservare la salute del bambino e gestire al
meglio le patologie. Per quanto i “policy statements” siano numerosi è ovvio che non possano coprire tutto
l’ambito della pratica clinica e siano precipuamente dedicati ad argomenti di rilievo e controversi.
Evidentemente l’AAP, con questo articolo, ha voluto segnalare alla comunità scientifica, il ruolo primario del
pediatra nella detezione precoce di alcune patologie oculari e stabilire una metodica d’esame in grado di
aumentare il valore predittivo del test.
In letteratura si trovano pochissime pubblicazioni che valutino sensibilità e specificità del RR nella diagnosi
precoce della cataratta congenita e del retinoblastoma, mentre è esperienza comune ad ogni oftalmologo che
esiste un certo numero di pazienti che il RR non aiuta ad individuare (falsi negativi) ed altri nei quali
erroneamente segnala un’anomalia che poi si rivela inesistente (falsi positivi). Controversa è anche la metodica
utilizzata, tant’è che se pure alcuni ancora, soprattutto in Italia, si ostinano ad insegnarlo e praticarlo senza
dilatazione farmacologica (ma solo in ambiente oscurato) in alcuni stati americani (California) è oggi eseguito
obbligatoriamente dopo aver instillato gocce midriatiche.
Non sono giustificati i timori di effetti collaterali con l’impiego di tropicamide allo 0.5%. Problemi sulla
frequenza e sul ritmo cardiaco sono inesistenti con questo farmaco se non è associato a simpaticomimetici, ed
anche le forme urticarioidi o dermatitiche sono appannaggio dell’atropina e del ciclopentolato mentre sono
rarissimi e del tutto innocenti con la tropicamide.
In questa sede vorremmo sottolineare pure che , sebbene l’indagine sia divenuta parte dell’armamentario
semeiologico del pediatra di famiglia, sarebbe opportuno eseguirla, per garantire una maggiore efficacia e
penetrazione nella popolazione pediatrica, alla nascita.
Esistono diverse ragioni che giustificano lo screening neonatale del riflesso rosso nel contesto dei reparti di
maternità:
1.
non tutti i bimbi accedono all’ambulatorio del PdF nelle prime 16 settimane di vita, periodo in cui è
cruciale eseguire la chirurgia nelle forme di cataratta monolaterale.
2.
l’esame in dilatazione farmacologica è più facile e pratico se gestito in ambiente ospedaliero.
3.
immediata possibilità, utilizzando percorsi noti, di attivare nel reparto di neonatologia un consulto con
lo specialista, senza impegnare il PdF ad attivarsi per rivalutazioni urgenti.
4.
rapida organizzazione delle procedure per l’inquadramento e l’eventuale trattamento chirurgico del
neonato affetto.
5.
Organizzazione di protocolli specifici che possono supportare comunque il pdf in caso di riscontro
successivo.
6.
Minore incidenza di errori, e condivisione delle eventuali responsabilità, se esiste un “double check”
che coinvolga neonatologo e pediatra di famiglia.
E’ opportuno in questa sede sottolineare pure alcuni aspetto controversi nell’ambito della pratica del test. Quali
sono le ragioni per cui è possibile male interpretare un RR, e quali eventi possono rappresentare fattori di rischio
nella valutazione erronea del test?
Pupille miotiche
Il neonato, soprattutto nei primi giorni di vita, a causa della ipoattività simpatica e per la fisiologica prevalenza
del vago nel suo tipico stato di semiveglia, presenta una miosi marcata, e anche la permanenza in un ambiente
oscurato può non modificare questa condizione e non rendere evocabile il RR. Tra l’altro la luce
dell’oftalmoscopio, che il piccolo fissa immediatamente, può accentuare, attraverso il riflesso fotomotore, la
costrizione pupillare. Questa situazione è ovviabile con la instillazione in entrambi gli occhi di tropicamide 0.5%
15’ prima della visita.
146
Riflesso brunastro del fondo
I soggetti molto pigmentati possono, in luogo del classico riflesso rosso, presentare un riflesso bruno-marrone
che spesso non si distingue dal colore irideo. In questi casi è opportuno dilatare la pupilla ed utilizzare una luce
alogena che rende più luminoso il RR.
Dimensioni ridotte ed evoluzione successiva dell’opacità
Una opacità di piccole dimensioni o se “a vetro smerigliato”, anche se centrali, posson esser misconosciute se
non si utilizza un biomicroscopio, ovvero un sistema di visualizzazione ingrandente. L’esperienza in qualche
caso aiuta a riconoscere anche le piccole alterazioni della trasparenza, ma si tratta di un problema che trae in
inganno anche gli osservatori più esperti.
Eccentricità dell’opacità
Si tratta di un evento comune sia nelle cataratta congenite periferiche e corticali, sia nei piccoli retinoblastomi
non situati al polo posteriore. Il RR segnala soltanto, è bene ricordarlo, dei disturbi centrali o paracentrali.
Valutazione non comparativa del RR
Evocare un RR monocularmente, senza effettuare una valutazione comparativa, può indurre a giudicare presente
e normale un RR che invece in valutazione comparativa si può cogliere meno luminoso ed anomalo. Questa
manovra è inoltre utile perché una differente lucentezza a volte segnala una anisometropia o uno strabismo, e
rende comunque opportuno un controllo specialistico.
Modificazione nel tempo
Un RR normale, o evocabile senza difficoltà, può nel tempo modificarsi e divenire patologico. Un esame
precoce, non seguito da altre valutazioni può non essere sufficiente. L’esperienza clinica segnala che alcuni
pazienti, esaminati nelle prime settimane di vita, che non presentavano alcun problema, a distanza di pochi mesi
hanno manifestato una leucocoria marcata. Il fenomeno è legato all’aumento delle dimensioni del tumore
retinico nel retinoblastoma o al peggioramento dell’opacità lenticolare nella cataratta congenita.
Riteniamo fondamentale che il Ministero, attivi, facendo propri i “policy statement” dell’AAP, le procedure per
la esecuzione del RR nell’ambito dei reparti di neonatologia, pianificando protocolli di standardizzazione della
tecnica ed una capillare e meticolosa opera di formazione del pediatra, nel tentativo di aumentare il valore
predittivo di un test che, utilizzato al meglio, può contribuire significativamente a ridurre gli effetti drammatici
di patologie come il retinoblastoma e la cataratta congenita.
In conclusione, pur sottolineando quanto controverso e problematico sia l’iter di chi oggi si deve occupare di
questo problema, il concorso di neonatologo e pediatra di famiglia è fondamentale per ottenere una efficace
detezione precoce della cataratta congenita e del retinoblastoma finora demandate esclusivamente allo specialista
oftalmologo.
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147
VALUTAZIONE POSTURALE DEL PIEDE E DELLA COLONNA IN ETÀ EVOLUTIVA.
Antonio Memeo*, Elena Panuccio*
*Struttura Dipartimentale di Ortopedia e Traumatologia Infantile– Istituto G.Pini
La postura è di vitale importanza ai fini di un corretto equilibrio dell’organismo e per ridurre l’incidenza di
diverse malattie sia nel bambino che nell’adulto.
Il sistema posturale è un insieme molto complesso che schematicamente si compone da: sistema nervoso centrale
e periferico, il piede, i muscoli, le articolazioni, l’occhio, il sistema cutaneo, l’apparato stomatognatico (sistema
occlusale e lingua), l’orecchio interno.
Il sistema nervoso centrale utilizza le informazioni ricevute da occhio, pianta dei piedi e cute in primo luogo, per
avere la consapevolezza della posizione del corpo nello spazio e poter impostare correttamente quanto voluto nei
confronti del mondo esterno e di se stesso.
Se, nel tempo, sorgono problemi a qualsiasi livello, in un primo momento il sistema descritto cercherà di
“compensare” in qualche modo, fino a quando potrà, successivamente si instaureranno alcuni cambiamenti
patologici come: vizi di appoggio plantare, spalla più alta, rotazioni del bacino, atteggiamenti scoliotici, testa
inclinata.
Questa introduzione è necessaria per inquadrare l’importanza dell’esame obiettivo ortopedico di un soggetto in
accrescimento, che deve essere basato sulla conoscenza profonda delle modificazioni morfo-strutturali del
soggetto correlate alla sua età. I fattori che influenzano la crescita corporea sono basati fondamentalmente su :
l’iperplasia, l’ipertrofia e l’osteogenesi che determina la maturazione scheletrica. Questi cambiamenti sono legati
direttamente a fattori genetici ed ambientali che interagiscono con la mediazione ormonale. L’accrescimento è
costante ma asincrono in base la fascia di età appartenente. Per tale motivo non si può effettuare nei soggetti in
accrescimento un esame obiettivo standardizzato, ma deve essere legato alle varie fasi dello sviluppo.
Quindi esisterà una valutazione per il neonato, una per il bambino ed infine una per l’adolescente. L’esame
posturale riveste importanza soprattutto nel bambino nel quale vanno valutati attentamente gli atteggiamenti
degli arti inferiori in carico e la posizione del piede nello spazio durante la deambulazione, mentre
nell’adolescente maggiore attenzione va posta all’esame del rachide che è l’ultimo a svilupparsi definitivamente.
Per evitare i problemi sopra elencati ed altri di vario ordine, è opportuno che durante la crescita il bambino venga
sottoposto a controlli posturali. Tutto ciò permette di valutare l’eventuale necessità di trattamenti per correggere
i difetti suindicati effettuando una terapia della postura.
148
SEZIONE 2
“MALATTIE INFETTIVE VECCHIE E NUOVE SFIDE”
Sabato, 15 novembre 2014
Presidente: M. Duse
8,00 – 10,00
Moderatori: D. Perri, P. Zucchinetti
149
MALATTIE INFETTIVE EMERGENTI NEL NEONATO IN TERAPIA INTENSIVA
Alessandro Borghesi, Margherita Pozzi e Mauro Stronati
Neonatologia, Patologia Neonatale e Terapia Intensiva, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
Introduzione: cenni di epidemiologia e diffusione delle resistenze agli antibiotici
La resistenza batterica agli antibiotici è un problema di portata globale. I Centers for Disease Control and
Prevention (CDC) di Atlanta stimano che circa 2 milioni di persone ogni anno negli Stati Uniti d’America
(USA) contraggano un’infezione da microrganismi multi-resistenti e che questi causino ogni anno, in USA ed
Europa, circa 48.000 decessi (1–3).
I ceppi resistenti agli antibiotici vengono solitamente isolati in ambito nosocomiale ed includono, tra quelli di
interesse neonatologico: Enterococcus faecium vancomicina-resistente (vancomycin-resistant enterococcus,
VRE), Staphylococcus aureus meticillino-resistente (methicillin-resistant S. aureus, MRSA), Enterobacteriaceae
produttrici di β-lattamasi a spettro esteso (extended spectrum β-lactamase, ESBL), Klebsiella pneumoniae
produtrice di carbapenemasi (KPC), ed Acinetobacter baumanii, Pseudomonas aeruginosa, ed Enterobacter
species resistenti a diverse classi di antibiotici, raggruppati con l’acronimo “patogeni ESKAPE” (4,5).
Le strategie di prevenzione delle infezioni, quale, primo fra tutti, il lavaggio delle mani per ridurre la
trasmissione nosocomiale dei microrganismi, sono essenziali per ridurre il rischio di diffusione di germi multiresistenti non solo su scala locale (nelle unità di terapia intensiva neonatale, UTIN) ma anche su scala mondiale.
Il primo ceppo di Klebsiella portatore del gene KPC che conferisce resistenza ai carbapenemi è stato isolato nel
2000 da un campione raccolto nel 1996 in un ospedale del North Carolina; nel 2003 batteri KPC-positivi sono
stati isolati in un ospedale di New York City (NYC) e, nel 2007, il 21% dei ceppi di Klebsiella isolati negli
ospedali di NYC erano portatori del gene di resistenza; il viaggio degli stessi ceppi è poi continuato oltreoceano
per giungere in Israele, e da Israele in altri paesi tra cui l’Italia, la Colombia, il Regno Unito e la Svezia. È del
2008 la scoperta di un altro ceppo di Klebsiella, portatore del gene di resistenza NDM, emerso in India e
diffusosi rapidamente al Regno Unito (6).
Il rischio di infezioni da parte di tali germi nelle UTIN è elevato. Un recente studio condotto da Giuffré et al. in
una UTIN riporta la colonizzazione, da parte di K. pneumoniae produttrice di KPC, di 10 neonati su 54
ricoverati nel periodo tra il 18 settembre ed il 14 novembre 2012, senza che si verificassero tuttavia casi di
infezione (7). In un altro studio condotto da Poirel et al., Enterobacteriaceae carbapenemi-resistenti sono state
isolate da 22 campioni prelevati da pazienti ospedalizzati tra gennaio ed aprile 2013 in diversi reparti di un
ospedale universitario di Istanbul; i ceppi comprendevano: K. pneumoniae produttore di carbapenemasi OXA48, NDM-1, e KPC-2, E. cloacae produttore di NDM-1, ed E. coli produttore di OXA-48. Un ceppo di E.
cloacae produttore di NDM-1 è stato isolato nella UTIN dell’ospedale, ed i batteri isolati corrispondevano ad un
unico cluster, sottolineando la facilità con cui avviene la trasmissione orizzontale di ceppi resistenti nelle UTIN
(8).
Uso eccessivo ed indiscriminato degli antibiotici come causa principale dell’emergere delle resistenze
L’utilizzo eccessivo ed indiscriminato degli antibiotici negli ospedali, sul territorio in regime di ambulatorio e,
fuori dal contesto sanitario, nelle fattorie per favorire la crescita degli animali, ha generato negli anni passati una
forte pressione selettiva sui microrganismi, favorendo l’emergere dei ceppi resistenti (9).
L’emergere di resistenze avviene naturalmente non appena l’antibiotico viene utilizzato. La scoperta della
resistenza alla penicillina avvenne nel 1940, prima della sua introduzione nel mercato; ceppi resistenti alla
vancomicina, introdotta nel 1958, furono scoperti già nel 1960; la scoperta della resistenza ai macrolidi avvenne
del 1955, pochi anni dopo la sua introduzione nel mercato che fu nel 1951; per citare alcuni degli antibiotici
maggiormente utilizzati in terapia intensiva neonatale (10).
Già Alexander Fleming, scopritore del lisozima e della penicillina, avvertiva, in un’intervista del 1945 al New
ork Times, che era opportuno ridurre l’uso della penicillina per rallentare lo sviluppo delle resistenze (6).
I CDC riportano che, in generale, più della metà dei pazienti ospedalizzati riceve almeno un antibiotico nel corso
della degenza, e di questi circa i due terzi riceve antibiotici ad ampio spettro (2). Specificamente per le UTIN,
uno studio condotto da Tsai et al. descrive 1106 episodi di batteriemia in 8 anni nella loro UTIN: il 35,5% era
causato da batteri Gram negativi, ed il 18,6% da ceppi multi-resistenti; il più frequente meccanismo di resistenza
era la produzione della ESBL (67,1%), soprattutto da parte di K. pneumoniae (59,6%). Dato ancora più
importante, all’analisi multivariata gli autori identificano l’esposizione alle cefalosporine di terza generazione
(P<0.001) ed ai carbapenemi (P=0.017) come fattori di rischio indipendenti per la comparsa di resistenze (11).
Lo European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), stilando una lista di paesi europei per utilizzo
giornaliero di antibiotici in ordine decrescente, identifica l’Italia come uno dei paesi in cui è più elevato il
consumo: in media 26-30 dosi giornaliere per 1000 abitanti tra il 2008 ed il 2010, contro le 11-15 dosi
giornaliere per 1000 abitanti consumate nello stesso periodo in Olanda, paese più virtuoso della classifica (10)
(Figura 1).
150
Figura 1. Uso di antibiotici in regime ambulatoriale (extra-ospedaliero), espresso come dosi giornaliere per 1000
abitanti. Da “WHO. The evolving threat of antimicrobial resistance - Options for action” (12).
Fonte: riprodotto ed adattato da “European Surveillance of Antimicrobial Consumption (ESAC) earbook 2009.
ESAC, 2009 (http://www.esac.ua.ac.be/main.aspx?c=*ESAC2&n=50036, accessed 9 January 2012)”.
http://www.cddep.org/resistancemap
http://www.esac.ua.ac.be/main.aspx?c=*ESAC2&n=50036
Riduzione dell’arsenale terapeutico contro i germi multi-resistenti
In parallelo con l’emergere di microrganismi resistenti e conseguente riduzione dei mezzi terapeutici a
disposizione per combattere le infezioni batteriche, l’arsenale a disposizione si sta progressivamente riducendo
anche a causa degli scarsi investimenti da parte delle industrie farmaceutiche nella scoperta di nuove molecole
antibiotiche (10).
Secondo dati dei CDC, nei primi anni ’80, precisamente tra il 1980 ed il 1984, la Food and Drug Administration
(FDA) ha approvato 19 nuove molecole; negli anni 1985–1989 11 nuove molecole, così come nei periodi 1990–
1994 e 1995–1999. Il numero di nuove molecole approvate si è ridotto a sole 4 negli anni 2000–2004, 3 negli
anni 2005–2009; ed un solo nuovo antibiotico è stato approvato nel periodo 2010–2012 (10).
Le ragioni della difficoltà nella scoperta di nuovi antibiotici sono molteplici (13), e comprendono:
i) Necessità di utilizzare, per colpire cellule procariotiche, concentrazioni elevate di farmaco, di ordine
micromolare, mediamente 2-3 volte più alte delle concentrazioni di farmaci “tipici” che agiscono contro bersagli
di cellule eucariotiche;
ii) Difficoltà nella scoperta di farmaci attivi nei confronti dei batteri Gram negativi (a causa della presenza della
membrana esterna, assente nei batteri Gram positivi, che rende difficoltosa la penetrazione del farmaco);
iii) Ragioni di ordine farmacocinetico: la molecola, per avere adeguati assorbimento, distribuzione tissutale, ed
eliminazione, deve avere caratteristiche molecolari e fisiche che rispettino le 5 regole empiriche di Lipinski;
iv) Trial clinici: l’attività degli antibiotici nei confronti di batteri multi-resistenti sarebbe difficile da dimostrare
in vivo, poiché la maggior parte delle infezioni sono ancora sostenute da germi sensibili agli antibiotici in
commercio e la selezione dei pazienti sarebbe molto difficoltosa;
v) Ragioni di ordine economico: le terapie antibiotiche sono di solito somministrate per cicli brevi, ed anche
laddove se ne dovesse prolungare la durata, la comparsa di resistenze ne limiterebbe l’uso a lungo termine. Al
contrario, farmaci come gli antiipertensivi, gli antiinfiammatori, i farmaci per ridurre la colesterolemia e i
farmaci per il diabete, utilizzati per anni o per decenni, sono nettamente più redditizi. Ne è conseguito, negli
scorsi decenni, il progressivo disinteresse delle industrie farmaceutiche negli investimenti sulla scoperta di nuove
molecole antibiotiche.
Il quadro che emerge è quello di un mondo in cui l’arsenale per combattere i microrganismi è sempre più povero
di mezzi: da un lato lo scarso investimento delle industrie farmaceutiche nella scoperta di nuove molecole,
dall’altra la circolazione su scala mondiale di batteri resistenti a pressoché tutti gli antibiotici già in commercio.
Strategie per rallentare l’emergenza e limitare la diffusione dei germi multi-resistenti
Per affrontare una simile situazione è necessario un intervento globale e multidisciplinare. Durante il “World
Health Day” dell’OMS del 2011, in linea con la strategia globale dell’OMS del 2001 (The 2001 WHO global
strategy) per il contenimento delle resistenze agli antimicrobici, sono stati definiti i domini di intervento per
rallentare l’emergere delle resistenze e ridurre la diffusione dei microrganismi resistenti: i) sorveglianza
dell’utilizzo degli antimicrobici e delle resistenze; ii) utilizzo razionale e regolamentazione; iii) controllo
dell’utilizzo degli antimicrobici negli allevamenti di animali; iv) prevenzione e controllo delle infezioni: v)
promozione di innovazione; vi) coinvolgimento della politica (12).
151
Di fronte alla minaccia della diffusione delle resistenze agli antibiotici e della riduzione del numero di molecole
a disposizione per combattere le infezioni da microrganismi multiresistenti dobbiamo agire soprattutto su tre
obiettivi:
1) facilitare e promuovere la scoperta di nuove molecole antimicrobiche;
2) ridurre l’emergere di ceppi resistenti mettendo in atto un efficace “antibiotic stewardship program” e
programmi di educazione per la riduzione dell’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti animali;
3) sviluppo di trattamenti e strategie preventive alternativi
1) È di fondamentale importanza che i governi stessi promuovano la scoperta di nuove molecole garantendo che
le industrie farmaceutiche abbiano un ritorno finanziario, che riporterebbe l’interesse delle industrie nel settore
senza incentivare l’utilizzo smodato degli antibiotici (1,3). Attualmente solo poche molecole delle cellule
batteriche vengono utilizzate come bersaglio di antibiotici, mentre esistono almeno 200 molecole conservate ed
essenziali per le funzioni cellulari batteriche che hanno la potenzialità di diventare target di nuovi antibiotici
(13). Da soli, però, tali nuovi antibiotici, benché più che mai necessari, non offrono una soluzione definitiva al
problema: probabilmente non saranno economici e, soprattutto, è inevitabile che anche essi, dopo un certo
periodo di utilizzo, perdano la loro efficacia e vengano neutralizzati da nuovi meccanismi di resistenza (14).
Ove possibile, in particolar modo nelle terapie intensive neonatali, l’attenzione dovrebbe essere massimamente
focalizzata sulla prevenzione più che sul trattamento delle infezioni. Tutti i presidi preventivi, primo fra tutti il
lavaggio delle mani, dovrebbero essere massimamente incentivati negli ospedali (15).
2) È necessario che la prescrizione degli antibiotici sia strettamente regolamentata. Risulta evidente che non è
più sufficiente sensibilizzare i singoli medici ed affidare loro la gestione delle terapie antibiotiche.
Un documento recentemente pubblicato sul sito dei CDC incoraggia l’adozione, in ogni ospedale, di un
“Antibiotic Stewardship Program”, con la creazione di infrastrutture che migliorino la collaborazione tra le
strutture competenti e guidino i medici nelle prescrizioni, operando mediante un programma di sorveglianza sia
al momento della prescrizione che nel corso del trattamento (http://www.cdc.gov/media/releases/2014/p0304poor-antibiotic-prescribing.html) (2). i CDC indicano quali siano i punti chiave da rispettare nella attuazione di
una stewardship degli antibiotici: i) è necessario che vi sia un impegno concreto da parte della dirigenza
dell’ospedale, che deve mettere a disposizione risorse umane, finanziarie e tecnologiche dedicate; ii) è richiesta
la nomina di un leader medico che si faccia responsabile dei risultati complessivi, e iii) di un leader farmacista,
con competenze farmacologiche, dedicato alla prescrizione antibiotica; iv) si richiede un intervento concreto, che
si svolga mettendo in atto almeno una azione volta a migliorare le prescrizioni (es. rivalutazione delle
prescrizioni a 48 ore al fine di scegliere il farmaco, la dose e la durata del trattamento); v) i pattern di
prescrizione e di resistenza vanno sottoposti ad un attento monitoraggio; vi) ai clinici deve essere fornito un
adeguato feedback, ovvero dei report regolari sullo stato delle resistenze; vii) ed infine è di fondamentale
importanza l’educazione del personale sanitario sulla comparsa di resistenze e sulla prescrizione giudiziosa. I
CDC proseguono poi con un ulteriore passo, suggerendo che gli elementi della stewardship siano verificati
mediante una checklist, che serva a determinare sistematicamente che gli elementi e le azioni chiave per una
prescrizione antibiotica ottimale siano presenti, e che serva a guidare i medici nella prescrizione e limitare l’uso
eccessivo degli antibiotici negli ospedali
(http://www.cdc.gov/getsmart/healthcare/implementation/checklist.html) (2).
Tutto ciò è valido anche in ambito neonatologico dove, con le dovute differenze necessarie alla gestione dei
piccoli pazienti, gli esperti si muovono per definire gli aspetti principali di un programma di stewardship
antibiotica da adottare nelle terapie intensive neonatali (16,17).
Benchè i CDC siano consapevoli che non tutti i punti possono essere rispettati in tutti gli ospedali e che si deve
tener conto, nella realizzazione di una stewardship, delle realtà locali, rimane certo che gli elementi presenti nella
checklist si sono dimostrati efficaci nel migliorare l’uso degli antibiotici garantendo la qualità nelle cure e
proteggendo al tempo stesso pazienti ed antibiotici.
Da ultimo, non meno importante, è necessario segnalare come gli organi di controllo stiano mettendo in atto
misure e normative che permettano di ridurre l’uso degli antibiotici nelle fattorie: si stima che in pressoché tutti i
paesi europei vi sia stata una riduzione del consumo annuale di antibiotici nelle fattorie tra il 2010 ed il 2011
nonostante il consumo sia ancora elevato (9).
3) Lo sviluppo di nuovi trattamenti o strategie preventive potrebbe permettere di ridurre l’utilizzo degli
antibiotici. Tali nuovi trattamenti dovrebbero avere ridotto potenziale di instaurare una resistenza e
svolgerebbero la loro funzione potenziando la risposta immunitaria dell’ospite verso un patogeno o limitando
l’accesso dei microrganismi ai nutrienti loro necessari. Tra le possibili terapie che in futuro potrebbero essere
introdotte nella pratica clinica neonatologica vi sono anticorpi monoclonali anti-microbici, infusioni di globuli
bianchi (es. linfociti specifici anti-microbici), farmaci in grado di sottrarre nutrienti ai batteri, ma anche agenti
biologici in grado di alterare la capacità dei batteri di innescare l’infiammazione o causare infezione e farmaci in
grado di modulare la risposta infiammatoria dell’ospite (es. agonisti o antagonisti delle citochine). Tali
trattamenti potrebbero limitare la patogenicità dei microrganismi senza esercitare al tempo stesso una pressione
selettiva che induca resistenza (18).
Conclusioni
L’emergenza di resistenze batteriche agli antibiotici è un problema urgente, che interessa in modo diretto i
piccoli pazienti ricoverati nelle UTIN. La riduzione delle resistenze o il rallentamento della loro comparsa
devono essere affrontate ad un livello locale e ad un livello globale, con l’intervento coordinato di governi e
152
organi di controllo, tra cui i CDC, ECDC e OMS, per studiare le misure più adeguate a contrastare su più fronti
l’emergere di ceppi batterici multi-resistenti. Tali misure dovranno includere strategie che prevengano il
diffondersi delle resistenze, che facilitino lo sviluppo di nuove molecole antibiotiche, e che promuovano la
ricerca di terapie antimicrobiche innovative.
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153
INQUADRAMENTO CLINICO DELLE FEBBRI PERIODICHE/RICORRENTI
Marco Cattalini, Alessandro Plebani
Clinica Pediatrica, Università degli studi di Brescia
Per un pediatra, l’evenienza quotidiana più comune è quella di trovarsi a dover diagnosticare la causa di una
febbre. Nella maggior parte dei casi il quadro clinico è facilmente identificabile e sulla base del solo esame
obiettivo e/o di pochi e semplici esami di laboratorio e/o strumentali è possibile porre una diagnosi definitiva ed
impostare una corretta terapia.
Vi sono tuttavia una minoranza di casi in cui la febbre rappresenta se non l’unico, il sintomo dominante e la sua
origine di tutt’altro che immediata identificazione. Nel caso poi tale situazione tenda a prolungarsi oltre pochi
giorni (FUO: Fever of Unknown Origin) richiede estesi approfondimenti diagnostici.
Altro scenario frequente in un ambulatorio di pediatria è quello di un bambino con manifestazioni febbrili che
apparentemente sono riconducibili ad entità cliniche banali (come la faringotonsillite febbrile), ma che
colpiscono l’attenzione perché si ripresentano ripetutamente nel corso del tempo in maniera stereotipata.
Proprio partendo dall’osservazione di quadri clinici caratterizzati dal ripetersi di episodi febbrili ricorrenti, a
partire dagli anni ’80, sono state descritte alcune sindromi, inizialmente definite febbri periodiche. Il termine
febbri periodiche, per quanto aspecifico, rendeva ragione della caratteristica principale che accomuna queste
sindromi, anche se ognuna di esse presenta segni e sintomi caratteristici, derivanti da uno stato di infiammazione
sistemica. Queste malattie sono la Febbre Familiare del Mediterraneo, la TNF Receptor Associated Periodic
Syndrome (TRAPS) il Deficit di Mevalonato-Kinasi (MKD, o Sindrome da Iper-IgD), le Criopirinopatie. I
progressi delle tecniche di biologia molecolare hanno poi permesso in questi ultimi anni la fine caratterizzazione
non solo delle mutazioni genetiche responsabili di ognuna di queste patologie (che quindi attualmente sono
anche identificate con il termine di Febbri Periodiche Monogeniche), ma anche la comprensione dei meccanismi
eziopatogenetici alla loro base. Proprio sulla base della caratterizzazione dell’eziopatogenesi è stata definita una
nuova classe di malattie: le malattie autoinfiammatorie, di cui queste sindromi possono essere considerate il
paradigma. Si definisce sindrome autoinfiammatoria una sindrome caratterizzata da episodi spontanei di
infiammazione sistemica, in assenza di autoanticorpi o linfociti autoreattivi. Lo studio di malattie così rare come
le sindromi autoinfiammatorie ha quindi permesso di identificare un meccanismo, di pertinenza dell’immunità
innata, con cui il nostro sistema immunitario genera infiammazione. L’esportazione di questo meccanismo per la
comprensione di malattie ben più comuni come la gotta o il diabete non insulino-dipendente, hanno
rappresentato progressi rilevanti nel campo della medicina, permettendo di individuare nuovi target terapeutici.
La maggior parte delle febbri periodiche sono malattie rare, tanto che un pediatra potrebbe anche non incontrarne
mai una nel corso della sua attività, tuttavia la loro conoscenza può permettere una diagnosi precoce,
fondamentale per evitare le complicanze a lungo termine di tali patologie, oltre che evitare lunghi e faticosi iter
diagnostici ai bambini affetti. L’approccio diagnostico alle febbri periodiche monogeniche si base
fondamentalmente sulla conduzione di un’attenta anamnesi e di uno scrupoloso esame obiettivo, che permettano
di guidare la diagnosi differenziale tra le numerose patologie che possono presentarsi con febbre in età
pediatrica. Un corretto approccio non potrà mai prescindere da un’attenta anamnesi che descriva con precisione
le caratteristiche della febbre (temperatura raggiunta, ritmo circadiano, durata degli episodi, durata del periodo
intercritico). Questi primi dati permetteranno già di escludere dalla diagnosi differenziale le FUO, condizioni
non infrequente nell’età pediatrica, sottesa da molteplici cause, ma di cui la ciclicità non fa parte. Una volta
escluse le FUO il pediatra dovrà prendere in considerazione tutte le cause infettive, autoimmuni, neoplastiche
che possano determinare un quadro di febbre ricorrente, ancora una volta facendosi guidare dal quadro clinico.
Infine, una volta escluse queste possibili cause di febbre ricorrente, verrà naturale pensare che il quadro clinico
sia secondario ad episodi di “autoinfiammazione”. Molto spesso infatti è proprio il carattere “autogenerantesi”
degli episodi e la ripetizione degli episodi in maniera stereoptipata che attira il medico e porta a considerare una
forma di febbre periodica monogenica. Questa ipotesi verrà anche suffragata da esami di laboratorio in grado di
documentare l’elevazione degli indici di flogosi e la negatività di colture e autoanticorpi durante gli episodi
febbrili. La prima condizione da escludere in questi casi è la PFAPA, patologia piuttosto frequente. In questo
caso la sola osservazione delle caratteristiche cliniche, accompagnata da un diario clinico che testimoni l’estrema
regolarità degli episodi (clockwork), permette di giungere ad una diagnosi. La pronta decapitazione degli episodi
febbrili con l’utilizzo di steroide il primo giorno di febbre, permette di confermare tale diagnosi.
Una volta esclusa la PFAPA è necessario guidare la diagnosi differenziale tra le varie forme di febbre periodica
monogenica. Sebbene ad una prima valutazione queste malattie possano sembrare difficilmente differenziabili,
poiché la gran parte degli organi ed apparati coinvolti è sovrapponibile, un’attenta valutazione delle
caratteristiche cliniche di ogni bambino, permetterà agevolmente la conduzione della diagnosi differenziale. In
generale l’approccio migliore, a nostro avviso, è l’osservazione delle caratteristiche della febbre e la ricerca di
eventuale familiarità. Successivamente andranno studiati attentamente i segni e sintomi associati ad ogni
episodio febbrile, alla ricerca di quelli più caratteristici di ognuna delle febbri periodiche monogeniche. Una
volta identificata la febbre periodica monogenica più probabile, l’analisi di mutazione del gene coinvolto,
permetterà di giungere ad una diagnosi definitiva.
154
LE INFEZIONI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE
Susanna Esposito
Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura, Università degli Studi di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda
Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
Le infezioni del sistema nervoso centrale dell’età pediatrica, considerate fino dall’inizio dell’era antibiotica
malattie pressoché costantemente mortali, conservano ancor oggi una prognosi tutt’altro che favorevole, dal
momento che, dei circa 1-2 milioni di casi che ogni anno si verificano in tutto il pianeta, almeno 135.000 vanno
incontro a morte e una percentuale non inferiore al 30% presenta reliquati neurologici di gravità più o meno
elevata. L’apparente contrasto tra la sempre maggiore disponibilità di possibilità terapeutiche teoricamente
efficaci, compresa quella di antibiotici e antivirali attivi sui patogeni più spesso responsabili, ed il permanere di
un rischio di evoluzione negativa estremamente elevato nasce soprattutto dal fatto che il danno prodotto da
queste malattie non dipende dall’azione diretta dei patogeni responsabili ma è prevalentemente legato alle
reazioni infiammatorie indotte dalla presenza batterica, reazioni che, una volta innescate, si mantengono
indipendentemente dal permanere degli agenti infettivi. Da qui la considerazione che gran parte del danno
neurologico evidenziabile in corso e a valle delle infezioni del sistema nervoso centrale si stabilisce prima
dell’inizio della terapia antinfettiva e può procedere fino a concretarsi in lesioni estremamente gravi anche
quando l’intervento terapeutico ha eliminato gli agenti patogeni. Se a ciò si aggiunge il fatto che tutti i batteri più
spesso presenti hanno recentemente sviluppato resistenze agli antibiotici di più largo uso, si comprende come la
possibilità di eliminare totalmente il rischio di una prognosi spesso fortemente negativa non può derivare dal
solo utilizzo di farmaci o di altri mezzi terapeutici ma deve soprattutto basarsi sulla prevenzione della malattia
stessa. Tutto questo spiega l’estremo interesse rivolto da tutta la categoria pediatrica alle misure di profilassi,
siano esse rappresentate dall’uso di antibiotici e antivirali o siano esse fondate sull’impiego di vaccini rivolti
contro i singoli agenti batterici.
155
SEZIONE 2
“PEDIATRIA OSPEDALIERA OGGI”
Sabato, 15 novembre 2014
Presidente: R. Longhi
11,00 – 13,00
Moderatori: A. Correra, G.G. Parisi
156
SISTEMI QUALITÀ PER LA PEDIATRIA OSPEDALIERA
Gianluigi Gargantini
Direttore del Dipartimento Materno Infantile
Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi
Il contesto generale
L’importanza di assicurare la qualità in ambito sanitario non è un concetto nuovo, ma il suo significato si è
progressivamente evoluto negli anni sia in termini di definizione di qualità , e quindi di aree di applicazione, che
di metodologia di approccio (miglioramento continuo). Nell’ultimo decennio, a livello internazionale, le
politiche sanitarie si sono fortemente orientate e impegnate nell’obiettivo di erogare cure qualitativamente
elevate, sempre più disegnate sulla centralità del paziente e di ridurre i costi non necessari.
La letteratura si è pertanto arricchita di esempi di approcci metodologici e strategie evidence based di
implementazione della qualità, condotte a vari livelli di sistema (nazionale, regionale, locale) che rappresentano
un importante riferimento per i professionisti.
Ma qual’ è il nostro vissuto, in tema di qualità? La maggior parte dei professionisti è convinta di operare sempre
con la massima attenzione ed accuratezza e che ogni bambino riceva la miglior cura possibile; d’altra parte anche
i manager della sanità sono sicuramente convinti di scegliere sempre per il meglio. Tuttavia quando si effettuano
valutazioni nell’ambito dell’intero sistema si rileva una significativa variabilità nella qualità delle cure e
nell’esperienza dei pazienti. Questo gap è essenzialmente determinato dal fatto che i professionisti non misurano
sistematicamente i propri risultati poiché spesso non hanno adeguate conoscenze e/o i supporti necessari per
farlo.
Se il concetto di medicina basata sull’evidenza ha richiesto anni per essere accettato dai professionisti, è
verosimile che anche la cultura relativa alla promozione della qualità necessiti di tempi lunghi per entrare nella
pratica professionale. L’Institute of Medicine afferma che nuove conoscenze evidence based possono richiedere
fino a 17 anni di tempo prima di essere completamente acquisite dai professionisti.
Per superare questa lacuna in molti Paesi, negli ultimi anni, è stato dato un significativo impulso alla formazione,
inserendo nei programmi di studio sia sessioni didattiche che la partecipazione a progetti di miglioramento,
attraverso l’utilizzo di specifici strumenti quali ad esempio le Break-through Series sviluppate nel 1995
dall’Institute for Healthcare Improvement. La stessa Accademia Americana di Pediatria, nel 2002, ha inserito
come quarto punto del programma per il mantenimento della Certificazione Professionale la capacità di valutare
e migliorare la qualità, promovendo lo sviluppo di appositi strumenti per le diverse subspecialità pediatriche.
Una recente indagine condotta negli Usa a livello nazionale, mediante questionario, evidenzia che l’85% dei
Direttori di Scuole Pediatriche dichiara la presenza di questo tema nei programmi di insegnamento, con
orientamento alla metodologia del miglioramento continuo nel 66% delle realtà. Il 70% dei residenti afferma che
il training sul miglioramento continuo è ben organizzato e risponde alle loro aspettative; il 75% si considera
pronto ad utilizzare gli strumenti del miglioramento nella pratica (1-2).
Le strategie per migliorare la qualità
Prima di affrontare le specificità della pediatria, è importante porre l’attenzione su alcuni fattori di carattere
generale, che risultano essere elementi critici perchè il miglioramento possa davvero realizzarsi nella pratica, e
che sono così sintetizzabili:
-riconoscere la nostra responsabilità per migliorare il sistema in cui lavoriamo; concetto chiaramente espresso
da P. Batalden (Senior dell’Institute for Healthcare Improvement):“We all have two jobs: to do our work and to
improve it”
-misurare le cose utili e carenti nella singola realtà con criterio di priorità e con approccio patient centered
(tipologia di indicatori tuttora carente per alcuni settori assistenziali pediatrici);
-attuare una appropriata leadership: i migliori risultati sono raggiunti là dove chi ha la responsabilità di governo
si adopera per creare un contesto culturale e organizzativo che aiuti tutti i professionisti a modificare i
comportamenti (sostenere la capacità di lavorare in gruppo, flessibilità, promuovere senso di fiducia e sostegno,
supporto, ecc), favorendo il lavoro di team. Le organizzazioni in sanità sono un’insieme complesso e il risultato
della singola azione è determinato dalle interazioni tra le diverse componenti del sistema; in quest’ottica è quindi
fondamentale l’integrazione collaborativa tra clinici e manager per definire progetti di miglioramento e
sviluppare nuovi approcci da una prospettiva più ampia;
-coinvolgimento e alleanza con pazienti e famiglie (condivisione delle informazioni e delle decisioni, con il
contributo di ciascuno dalla propria prospettiva);
-valorizzazione dei giovani professionisti quali possibili catalizzatori del cambiamento, creando una cultura
aperta che favorisca l’innovazione e la sperimentazione. Vi sono esempi di sviluppo di piattaforme
specificatamente finalizzate alla condivisione e pubblicazione di nuove idee e progetti di miglioramento (es.
Running Horse Group) (3).
157
La qualità in pediatria
Il concetto di qualità in pediatria è sintetizzabile nei termini di “assistenza appropriata e costruita attorno alla
centralità del bambino/adolescente e della sua famiglia”,i cui principi generali sono sanciti dalla Convenzione
Internazionale ONU sui diritti dei bambini e ulteriormente dettagliati nella Carta Europea dei diritti dei bambini
in ospedale (4).
L’applicazione di questi diritti nell’ambito dei setting di cura per acuti è considerata come acquisita, in realtà
questi aspetti necessiterebbero di sistematiche analisi, che invece sono scarsamente rappresentate nella
letteratura di interesse assistenziale e sono solitamente condotte in ambiti limitati e con metodi di misura non
standardizzati. (5-6)
La pediatria ha da sempre affermato la specificità delle cure al bambino/adolescente e alla sua famiglia,
individuando l’area pediatrica quale ambito in cui poter garantire un’adeguata risposta ai loro peculiari bisogni.
A fronte di un significativo impegno a diffondere questo modello, che è stato anche raccomandato in vari
documenti di programmazione sanitaria, a partire dal Progetto Obiettivo Materno Infantile – P.S.N. 1998-2000,
non si è tuttora realizzata una sua estesa applicazione (solo il 72.2% dei soggetti 0-17 anni è ricoverato in
reparti di area pediatrica; il 16% in età 15-17 anni). In Regione Lombardia, dove il ricovero dei minori in reparti
di area pediatrica è espressamente indicato tra i requisiti di accreditamento delle strutture ospedaliere (1998), la
situazione, seppur migliore rispetto al dato nazionale, necessita tuttora di significativa implementazione con una
percentuale di ricovero pari a 76.7% nel 2013 (0-1mese: 99.5%; 1-5aa; 85%, 6-14aa: 63,9%; 15-17aa: 38.4%).
I tassi di ospedalizzazione, sebbene in progressiva riduzione, sono tuttora elevati in rapporto agli standard
europei e presentano significativa variabilità tra le diverse regioni. Nel rapporto annuale sull’attività di ricovero
ospedaliero (dati SDO 2013) sono riportati i seguenti tassi di ospedalizzazione per fasce di età: età <1anno:
417,3%° ;1-4aa: 68%°; 5-14aa: 36,5%°;15-17aa: 43,3%° (dato riferito all’anno 2012).
Relativamente all’appropriatezza assistenziale, recenti ricerche condotte in ambito nazionale, evidenziano, anche
nel nostro Paese, la presenza di un significativo gap tra raccomandazioni evidence based e pratica clinica, con
significativa variabilità tra le diverse realtà. (7-8)
Per quanto riguarda infine gli aspetti relativi ad accoglienza e supporto ai bambini/adolescenti e alle loro
famiglie, l’indagine conoscitiva condotta nell’ambito della Società Italiana di Pediatria nel 2010, riferita a 237
reparti pediatrici, evidenzia ampie aree che necessitano di miglioramento.
Queste criticità e le raccomandazioni per il loro superamento sono riportate nel 7° Rapporto di aggiornamento
sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, elaborato dallo specifico
Gruppo di Lavoro (CRC) e presentato a Roma nel giugno 2014. E’ indubbia quindi la necessità di attivare
sistematiche analisi e di promuovere progetti di miglioramento.
Gli strumenti per la qualità
Negli ultimi anni si è sviluppato un gran numero di metodi e strumenti di misura per migliorare la qualità, ma
questi strumenti hanno tutti la stessa efficacia nella nostre realtà? Spesso le organizzazioni attivano programmi
di miglioramento condotti con successo in altre realtà, senza però riuscire ad ottenere i medesimi risultati. La
scelta della strategia appropriata, infatti, necessita di informazioni relative al contesto in cui la si vuole applicare.
Vi è evidenza, ad esempio, come lo stesso audit, che rappresenta un elemento chiave nel processo di
miglioramento, possa risultare strumento inefficace ad indurre il cambiamento in assenza di strutturazione
specificatamente orientata al miglioramento. Vanno quindi attentamente analizzate le condizioni locali che
potrebbero influenzare i risultati a cui siamo interessati (quali ad esempio: caratteristiche della leadership,
formazione del personale, disponibilità di risorse e supporti adeguati, presenza di un sistema di feedback delle
performance) e, poiché le nostre organizzazioni costituiscono un insieme di interazioni tra diverse componenti
del sistema, è necessario non limitarsi ad una analisi di micro contesto operativo, ma estenderla al contesto nel
suo complesso. A questo proposito è in atto la ricerca di strumenti per la misura delle caratteristiche del contesto
(Standards for Quality Improvement Reporting Excellence) che consenta di individuare gli elementi
condizionanti il risultato delle iniziative di miglioramento continuo.(9)
- La certificazione “All’altezza dei bambini”
Molti Paesi hanno definito standards che consentissero la traduzione dei principi espressi nella Carta dei diritti
del bambino/adolescente in ospedale nella pratica clinica; nel 2008 la Società Italiana di Pediatria (SIP) e la
Fondazione Associazione Bambino in Ospedale, con il supporto di Progea & Joint Commission International,
hanno elaborato uno specifico manuale in cui sono esplicitati i requisiti da soddisfare e hanno avviato un
programma di accreditamento volontario dei reparti pediatrici cui hanno attualmente aderito 10 strutture.
La definizione di un set di requisiti che devono essere soddisfatti per garantire qualità e sicurezza dei pazienti
pediatrici, indipendentemente da dove esse abbiano luogo, e che rappresentino riferimento comune, è
indispensabile per il superamento della estrema eterogeneità che caratterizza le strutture pediatriche del nostro
Paese. La traduzione di concetti teorici, peraltro universalmente condivisi, in azioni da attuare, con specifici
elementi misurabili, consente l’avvio di un processo di miglioramento certificato
(www.allaltezzadeibambini.org).
158
- I network
Il Network collaborativo rappresenta uno strumento di provata efficacia che si è progressivamente sviluppato in
ambito pediatrico; in occasione del Meeting Nazionale sui Network collaborativi per il miglioramento, promosso
nel novembre 2011, dall’American Board of Pediatrics, si è affermato che esso dovrebbe essere parte essenziale
nella pratica pediatrica, al pari dell’uso dello stetoscopio. Questo modello è raccomandato anche dall’Institute of
Medicine e dal Patient Centered Outcomes Research Institute. Esso consente, attraverso lo scambio di
esperienze tra i professionisti, la diffusione delle migliori pratiche assistenziali, la collaborazione attiva dei
pazienti e delle loro famiglie e la ricerca, nello sforzo comune di migliorare i risultati e generare nuova
conoscenza. Alcune esperienze hanno dimostrato anche significativa riduzione dei costi dell’assistenza. Va
rilevata la sostanziale differenza tra network collaborativi finalizzati alla diffusione di conoscenze (quali i Rapid
Learning Networks) a tempo limitato, solitamente 12-18 mesi, da quelli finalizzati al miglioramento, che
rimangono attivi fino al raggiungimento dei risultati prospettati. Elementi indispensabili al loro successo sono:
focus su un problema di impatto elevato; supporto di esperti sia in area clinica che in strategie di miglioramento,
che possano garantire idee evidence based, training e coaching; individuazione di elementi misurabili e sistema
di raccolta dati con feed back in tempo reale; attività collaborative (es. workshop, seminari mensili via web,
interventi di formazione nelle singole realtà operative); supporto di infrastrutture. (10-11)
A titolo esemplificativo ricordiamo alcune esperienze che danno evidenza di quanto sopra riportato:
Il network della Physician Hospital Organization (PHO) nel 2003 ha attivato un programma di miglioramento
del trattamento dell’asma e ha attualmente un impatto su circa 13.00 bambini asmatici, di cui il 94% riceve una
cura corretta. Il California Perinatal Quality Care Collaborative (CPQCC) network, attivatosi nel 1997 come
ramificazione del Vermont Oxford, ha come obiettivo il miglioramento della qualità assistenziale e degli
outcomes perinatali in California e rappresenta più del 90% dei neonati di peso molto basso. Tra i risultati
ottenuti: riduzione del 78.9% delle infezioni associate a catetere centrale, allattamento materno alla dimissione
del 64.9%, 74% di normotermia nei neonati rianimati in sala parto. Il network Solutions for Patient SafetY (SPS)
degli ospedali pediatrici dell’Ohio in 24 mesi di attività ha ottenuto la riduzione del 60% delle infezioni dei siti
chirurgici e del 34.5% degli eventi avversi da farmaci, con conseguente diminuzione delle degenze in ospedale e
risparmio superiore a 11.8 milioni di dollari. (12)
Nella realtà pediatrica italiana questo modello operativo si è attivato in epoca più recente rispetto ad altre realtà
internazionali ed è tuttora poco rappresentato, in parte per una consapevolezza ancora insufficiente
dell’importanza di documentare i risultati della propria attività clinica, in parte per la mancanza dei supporti
necessari. Accanto ad alcuni network finalizzati a patologie ad elevata complessità, va ricordata l’attivazione,
nel giugno del 2009, da parte del Gruppo di Studio per il Miglioramento della Qualità, della Società Italiana di
Pediatria, di un network pediatrico con l’obiettivo di coinvolgere in un processo di miglioramento i reparti di
pediatria ospedaliera su patologie di maggior impatto nella pratica clinica. L’importanza che tali iniziative siano
acquisite e adeguatamente supportate dalle Società Scientifiche ci viene esemplificato dall’esperienza del
Pediatric Research in Inpatient Settings (PRIS) network, che ha attivato tre progetti nell’ambito della Pediatria
ospedaliera: “The Prioritization Project” con una prima fase di individuazione dei patologie mediche e
chirurgiche ad elevata prevalenza, elevati costi e/o variabilità nell’utilizzo di risorse e una seconda fase per la
misura della qualità e della variazione nell’utilizzo di risorse per chetoacidosi diabetica, tonsillectomia,
appendicite e polmonite; “The Pediatric Health Information System Plus” finalizzato alla raccolta di dati clinici
(compresi laboratorio, microbiologia, radiologia, ecc,) per studi comparativi di efficacia; “Accelerating Safe
Sign-outs” focalizzato alla valutazione degli outcomes. (13)
Bibliografia:
1-K.Mann, M.Craig, J.Moses
Quality improvement educational pratices in Pediatric residency programs:survey of pediatric
directors
Acad Pediatr 2014 Jan-Feb, 14 (1), 23
2-M.Craig, L.Garfunkel, C.baldwin, K.Mann, J.Moses, J.Co, A.Blumkin, P.Szilagyi
Pediatric residents education in quality improvement:a national survey
Acad Pediatr 2014, 14 (1), 54-61
3-R.Klaber, D. Roland
Delivering quality improvement: the need to believe it is necessary
Arch Dis Child 2014, 99:177
4-Committee on Hospital Care and Institute for Patient and Family Centered Care
Patient-and family-centered care and the pediatrician’s role.
Pediatrics 2012 129:394-404
5-M.Kelly, S.Jones , V.Wilson, P.Lewis
How children’s rights are constructed in family-centered care: a review of the literature
program
159
J Child Health Care 2012, 16,190
6-M.Kelly, S.Jones , V.Wilson, P.Lewis
How children’s rights are constructed in family-centered care: a review of the literature
J Child Health Care 2012, 16,190
7-P. Ferrante, M. Cuttini, T. Zangardi, C. Tomasello, G. Messi, N. Pirozzi, V. Losacco, S. Piga, F. Benini ,The
PIPER Study Group
Pain management policies and practices in pediatric emergency care: a nationwide survey of Italian hospital
BMC Pediatr. 2013 Sep 10;13:139
8-A.L.Vecchio, I.Liguoro, D. Bruzzese, R.Scotto, L.Parola, G.Gargantini, A.Guarino
Adherence to guidelines for management of children hospitalized for acute diarrhea
Pediatr Infect Dis J. 2014, May 14.
9-K.McDonald
Considering context in quality improvement interventions and implementation: concepts, framework and
application
Academ Pediatr 2013, 13, 6, S45
10-C.Lannon,P.Miles
Pediatric collaborative improvements networks: bridging quality gaps to improvement health
outcomes
Pediatrics 2013, 131, S 187
11-C.Clancy, P.Margolis, M.Miller
Collaborative networks for both improvement and research
Pediatrics 2013, 131, S210
12-A.Billet, R.Colletti, K.Mandel, S.Muething, P.Sharek,m C.Lannon
Exemplar pediatric collaborative improvement networks: achieving results
Pediatrics 2013, 131, S196
13-D.Tamara, M.Simon, A.Starmer, P.Conway, C.Landrigan, S.Shah, M.Shen et all.
Quality improvement research in pediatric hospital medicine and the role of the Pediatric Research in Inpatient
Settings (PRIS) Network
Acad Pediatr, 2013, 13, 66, S54
160
IL NETWORK PEDIATRICO
Dott. Luciana Parola
U.O. Pediatria e Neonatologia con Patologia Neonatale, Ospedale di Magenta
AO “Ospedale Civile di Legnano”
PREMESSA
Il fondamento etico della ricerca della qualità in medicina è ribadito nella “Carta della professionalità medica”,
elaborata dalla Federazione Europea di Medicina Interna, dall’American College of Physicians-American
Society of Internal Medicine (ACP-ASIM) e dall’American Board of Internal Medicine (ABIM):
“I Medici devono adoperarsi affinché la qualità delle cure migliori costantemente”.
Questo impegno non implica soltanto assicurare competenza clinica, ma anche collaborare con altri
professionisti per ridurre l’errore medico, aumentare la sicurezza dei pazienti, minimizzare l’utilizzo eccessivo
delle risorse sanitarie e ottimizzare gli esiti della cura
E’ noto come qualunque iniziativa finalizzata al miglioramento della qualità debba necessariamente prevedere
strumenti per il monitoraggio dei risultati e come la verifica della propria attività da parte dei professionisti
rappresenti il fondamento su cui si basa il miglioramento continuo. Da numerose segnalazioni in letteratura si
rileva come in molte realtà la disponibilità di Linee Guida abbia modificato solo parzialmente e in modo assai
variabile la pratica clinica, mentre vi è evidenza che progetti collaborativi condivisi dedicati al miglioramento
della qualità su specifici problemi abbiano prodotto effetti positivi nelle misure di esito e processo.
La realtà attuale dell'assistenza è caratterizzata da una significativa variabilità nell'erogazione delle cure, con
difficoltà a trasferire le conoscenze scientifiche disponibili nella pratica clinica, e da una limitata disponibilità di
risorse.
Database clinici dedicati (network) consentono l'attivazione di flussi informativi per descrivere i processi
assistenziali e gli esiti relativi a casistiche di dimensioni significative e il confronto tra pari. Fondamentale è il
ritorno delle informazioni alle unità partecipanti per indurre i cambiamenti: audit and feedback
I NETWORK PEDIATRICI NEL MONDO
Per network si intende una libera e volontaria associazione tra professionisti, finalizzata al miglioramento delle
prestazioni sanitarie e della loro appropriatezza per la cura di una determinata categoria di pazienti attraverso un
programma coordinato di ricerca, formazione e miglioramento della qualità. Come supporto per le proprie
attività il network deve gestire un database con gli elementi specifici (indicatori di processo, outcomes clinici,
ecc.) inerenti al problema ed in cui sono contenute le informazioni che consentono l'analisi sui punti di forza e
sui punti di debolezza del sistema monitorizzato e la valutazione degli elementi di variabilità del processo
assistenziale e di outcome clinico tra le unità operative collegate alla rete.
Per il corretto funzionamento di una rete di lavoro, è fondamentale che i dati elaborati siano disponibili per tutti i
centri partecipanti: così sì garantisce un chiaro riconoscimento del contributo di ciascuno e si consente il
continuo monitoraggio dei propri risultati clinici o delle proprie procedure, anche in rapporto alle altre realtà
operative aderenti al network, che va quindi considerato patrimonio comune.
In ambito internazionale, iniziative di misura della qualità in pediatria sono state attivate in epoche successive a
quanto realizzato per la popolazione adulta e gli indicatori validati sono tuttora riferiti ad un numero limitato di
condizioni. A partire da metà anni ’80, sono presenti rilevanti esperienze di raccolta dati a rete nell’ambito di
progetti collaborativi finalizzati al miglioramento.
Il Vermont Oxford Network, attivato nel 1988, è il più importante database internazionale di neonati di peso
molto basso, cui nel 2005 ha aderito la Società Italiana di Neonatologia.
In ambito pediatrico nel 1986 nasce in Inghilterra l’Unità di Sorveglianza Nazionale cui seguono analoghe
iniziative in diversi Stati che portano alla costituzione, nel 1998, dell’International Network of Paediatric
Surveillance Units (INoPSU).
Il Canadian Paediatric Surveillance Program, a partire dal 1996, ha attivato una raccolta dati relativa a 37
condizioni patologiche cui partecipano più di 2.500 pediatri.
Ci sono numerosi network per la messa a rete e la ricerca nell’ambito delle malattie rare.
Il PRIS (Pediatric Research in Inpatient Settings), fondato nel 2001, è considerato il più grande network di
ricerca riguardo la degenza pediatrica nel mondo. Comprende circa 500 hospitalist e 50 centri pediatrici negli
Stati Uniti e in Canada. Si occupa di patologie sia acute che croniche e di elaborazione di strategie di
applicazione dei risultati della ricerca comparativa per produrre risultati migliori per i bambini ricoverati e le
loro famiglie. Gran parte del lavoro iniziale di PRIS ha permesso di individuare l'enorme differenza tra i vari
ospedali nei processi e negli esiti di cura per una varietà di condizioni pediatriche acute e croniche. Obiettivo è
quindi la riduzione della variabilità nelle cure attraverso l'identificazione delle migliori pratiche e la
standardizzazione delle stesse al fine di migliorare i risultati e ridurre i costi.
Il PECARN (Pediatric Emergency Care Applied Research Network) è un network per la ricerca in medicina
d'urgenza pediatrica negli Stati Uniti.
Esperienze simili si sono progressivamente diffuse in vari Paesi. Una recente revisione della letteratura ha
documentato come questi progetti, che incoraggiano i gruppi a scambiare e condividere esperienze e buone
pratiche, hanno effetti positivi sulle misure di processo ed esito.
161
IL NETWORK PEDIATRICO NAZIONALE
Il Gruppo di Studio per la Qualità e l’Accreditamento ha attivato nel giugno 2009 il Network Nazionale aperto a
tutte le Pediatrie Ospedaliere relativamente a 4 patologie: Asma acuto (età >2 anni), Meningite batterica (età >28
giorni), Porpora Trombocitopenica Idiopatica (1° episodio), Diabete tipo 1 (esordio con o senza chetoacidosi),
selezionate in rapporto a prevalenza, gravità, riscontro di significativa variabilità clinica nella gestione delle
stesse. E’ stato utilizzato uno strumento informatico per la raccolta dati mediante schede condivise con le
Società Scientifiche degli specifici settori specialistici e costruite in rapporto a percorsi assistenziali evidence
based disponibili in letteratura. La scelta delle Linee Guida ha avuto, come punto di riferimento, la loro
valutazione secondo il metodo AGREE. Nel 2011, è stata aggiunta la scheda sulla gastroenterite acuta. L'intera
raccolta dati è terminata nel 2013, avendo fornito dati sufficienti per individuare, sia a livello macro
(regionale/nazionale) che micro (intra-ospedaliero) i punti critici su cui intervenire per migliorare l'adesione alle
LG.
Nel corso della raccolta dati i risultati sono stati disponibili e discussi in varie riunioni scientifiche, la sintesi
definitiva è disponibile sul sito networkpediatrico.sip.it. nella sezione “Pubblicazioni”.
E' stato messo a punto un programma automatico di analisi statistiche che consente a ciascun centro partecipante
di accedere al report costantemente aggiornato dei propri dati e di confrontarlo con quello relativo a tutta la
casistica regionale e/o nazionale afferente al network. Il programma è inoltre strutturato per la comparazione
differenziata negli anni e in rapporto a fasce di età per asma (2-5 anni, > 5 anni) e diabete (<3 anni, 3-5 anni, >5
anni). Ciascun centro può inoltre accedere all'archivio di tutte le proprie schede inserite e ai dati relativi alla
propria casistica, con possibilità di scaricarli. Specifiche analisi dei dati, finalizzate ad evidenziare i punti di
forza e i punti di debolezza del sistema monitorato, vengono condotte annualmente con il supporto del Comitato
Scientifico.
RISULTATI
I Centri partecipanti sono stati 128, le schede inserite 1340 (Figura 1, Tabella 1)
I ricoveri totali nei Centri aderenti sono stati 157037.
Figura 1. Distribuzione geografica dei
Centri partecipanti
patologie
Asma > 2 anni
PTI
Diabete tipo 1 - esordio
Meningite batterica > 1 mese
Gastroenterite acuta < 5 anni
N Centri
74
61
59
58
31
N Schede
431
73
228
88
620
Tabella 1. Schede inserite
I dati complessivi sono a disposizione sul sito www.networkpediatrico.sip.it. In questa sede verranno descritti
alcuni dati sintetici sulle principali patologie oggetto del network.
162
ASMA BRONCHIALE ETA’ > 2 ANNI
La Tabella 2 mostra alcuni risultati del network sull’asma bronchiale (431 pazienti).
L’80% dei soggetti si rivolge spontaneamente direttamente all’ospedale. Se ciò può rappresentare un indice della
gravità dell’episodio, più frequentemente è la conseguenza dell’assenza di un piano predefinito con il pediatra
curante per il trattamento dell’attacco acuto e di una verifica della capacità della famiglia ad effettuare
correttamente la terapia. Più della metà dei casi osservati (55%) ha un’anamnesi positiva per asma. Inoltre il 20%
di questi ha già avuto un ricovero nei 12 mesi precedenti, evento che rappresenta un indicatore di scarso
controllo domiciliare della malattia;
La SaO2 viene rilevata nel 95% dei casi ma la FR, fondamentale per un accurata definizioni clinica, viene
rilevata solo nel 64% dei casi all’ingresso.
Circa la metà dei soggetti esegue un controllo radiologico, indipendentemente dall’età e dal dato anamnestico di
asma nonostante ci sia evidenza che la radiografia del torace nel bambino con asma acuto non apporta
informazioni aggiuntive e pertanto non dovrebbe essere effettuata di routine,
Relativamente al trattamento, va rilevato un appropriato utilizzo dell’ossigenoterapia in rapporto ai valori di
saturimetria riscontrati all’ingresso. I farmaci beta 2 agonisti, cardine nella terapia dell’asma, sono stati
somministrati nella quasi totalità dei pazienti e prevalentemente per via aerosolica: l’uso di spray pressurizzato e
distanziatore è invece piuttosto limitato. Si evidenzia un elevato utilizzo dei cortisonici, che vengono
somministrati in modo tempestivo e per via orale in una alta percentuale di casi. Si segnala tuttavia un uso
incongruo della terapia cortisonica sistemica, che da Linee Guida andrebbe prescritta a pazienti con asma di
grado moderato e grave ma che è stata invece somministrata anche a bambini con asma lieve. Si segnala inoltre
un discreto uso di steroidi inalatori nonostante la scarsa indicazione clinica nel trattamento dell’asma acuto.
Significative criticità emergono relativamente alla dimissione, che deve essere occasione per aiutare i bambini e
le loro famiglie a prevenire ulteriori episodi. La consegna di istruzioni scritte per i comportamenti da attuare in
caso di accesso acuto avviene solo in circa metà dei bambini e ben il 46% di soggetti viene dimesso senza un
piano di trattamento scritto.
Analoghe considerazioni emergono sulle modalità di follow up, dove la programmazione di un controllo sia
presso il curante che presso lo specialista si verifica solo nel 27% dei casi. Questi aspetti danno ragione
dell’elevato numero di bambini che, pur con patologia già nota, si rivolgono all’ospedale, senza neppur avere
iniziato un trattamento domiciliare, e della significativa percentuale di ricovero ripetuto. E’ quindi indispensabile
migliorare l’integrazione tra ospedale e territorio nell’ambito di percorsi assistenziali condivisi che assicurino
una adeguata presa in carico dei pazienti evitando l’inappropriato accesso alle strutture ospedaliere.
GASTROENTERITE ACUTA
Le Tabelle 3,4,5 mostrano alcuni dati raccolti nel network gastroenterite acuta età<=5 anni (612 casi).
163
Tabella 3
Tabella 4
Tabella 5
164
Questi dati mostrano un eccesso di ricoveri per gastroenterite acuta (30-60% inappropriati), un eccesso di
indagini diagnostiche, in particolare coproculture, un uso eccessivo di farmaci. Un percorso di miglioramento
porterebbe quindi a benefici per i pazienti ma anche a un notevole risparmio economico.
DIABETE MELLITO TIPO 1 ALL’ESORDIO, CON O SENZA CHETOACIDOSI
Tabella. Distribuzione pazienti secondo il valore di pH all’ingressso
Valore pH all’ingresso
<7,00
7,00
<7,10
7,10
<7,20
7,20
<7,30
7,30
<7,35
7,35<7,40
7,40
Numero pazienti
7
32
16
30
45
73
25
%
3
14
7
13
20
32
11
I dati si riferiscono a 228 casi.
Si è avuta una prevalenza nel sesso maschile: 120 maschi e 102 femmine.
L’accesso spontaneo al P.S. si verifica nel 43% dei casi, questo può stare a indicare una carenza di attenzione e
una scarsa conoscenza del problema sul territorio.
Per quanto riguarda la durata dei sintomi pre-ricovero, il 33% dei casi li fa risalire ad almeno 15 giorni prima.
Poliuria e polidipsia vanno di pari passo, se non per una segnalazione di polidipsia più precoce; nel 4% dei casi, i
sintomi erano presenti da oltre 2 mesi. La durata dei sintomi pre-ricovero 15 giorni è decisamente elevata;
anche questo dato indicherebbe una scarsa attenzione da parte del curante e delle famiglie.
La gravità dei sintomi all’ingresso, rappresentata dalla presenza di shock, coma, disidratazione sopra il 10% non
è trascurabile: il 7% presenta segna di shock e l' 8% è gravemente disidratato.
E’ da sottolineare la carenza nella rilevazione dei parametri vitali: la frequenza respiratoria viene registrata solo
in poco più di un terzo dei pazienti all’ingresso.
L’alterazione dei parametri di laboratorio all’ingresso indica che il 37% si presenta con un pH inferiore a 7,30 (e
il 24 % sotto 7,20).
L’Hb glicata nel 64% dei casi si colloca nel range tra 10 e 15%, ma nel 9% è oltre il valore di 15%.
La quota maggiore di pazienti, 52%, si presenta all’esordio con una glicemia >400 mg/dl e <=600 mg/dl. Il 20%
>600 mg/dl.
La chetonemia è stata rilevata solo in 47 pazienti (33,5%) nonostante questo parametro venga indicato nelle linee
guida perché più significativo del ripristino dell’equilibrio metabolico. La sua scomparsa anticipa anche di 24
ore quella dei chetoni urinari e consente l’eventuale più rapida sospensione della terapia endovenosa.
Tra le complicanze viene confermata la presenza di ipopotassiemia (9%). E’ segnalato un caso di edema
cerebrale (con pH <7,20).
La degenza media è di 9 giorni. Alla dimissione è prescritta nella maggior parte dei casi insulina sottocute
(89%) ed è interessante il dato del 2% dei soggetti dimesso con insulina in microinfusore.
L’8% dei soggetti è trasferito in altri centri pediatrici e/o di riferimento. Un solo soggetto è stato trasferito in
rianimazione. La maggior parte dei soggetti viene seguita presso il proprio Ambulatorio specialistico. La
rilevazione di questi dati ha messo in evidenza i punti critici e indicato le aree di miglioramento, in particolare:
, nonché delle famiglie per
all’ingresso, prestare più attenzione agli aspetti relativi all’idratazione e all’inizio della somministrazione di
insulina, utilizzare la chetonemia nella gestione dell’esordio, aumentare l’integrazione ospedale – territorio nel
follow up.
PORPORA TROMBOCITOPENICA IDIOPATICA
Tabella 6: Distribuzione delle modalità di trattamento nei casi di PTI
Terapia
Numero
%
Ig 0.8 g/Kg per 1 g
30
41
Ig 2 g/Kg in 2-5 gg
13
18
Metilprednisolone 15 mg/Kg ev per 3 gg
7
9,5
Ig 0,8 g/Kg + cortisone
7
9,5
Ig 2 g/Kg + cortisone
4
5,5
Ig 0,8 g/Kg – Ig 2 g/Kg
2
2,75
Cortisone (altri schemi)
2
2,75
Nessuna terapia
8
11
I dati si riferiscono a 73 casi. Non è stata rilevata prevalenza di sesso: dei 73 casi, 36 sono maschi e 37
femmine. Nel 100% dei casi si è trattati di ricovero ordinario. La sintomatologia manifestata dai pazienti
165
all’ingresso è stata lieve (A) in 34 casi e media (B) in 39 casi; non sono segnalati casi con sintomatologia grave.
In 47 casi (64.38%) i valori di piastrine erano < 10000 e in 15 casi (20.55%) 10000 e <20000. Sono stati
ricoverati anche 9 pazienti con piastrine > 20000 e 2 con piastrine > 50000.
Tra gli esami eseguiti all'ingresso: emocromo nella quasi totalità dei casi, striscio periferico nell’ 80,6% dei casi,
anche se secondo le linee guida dovrebbe essere valutato sempre. I test di coagulazione, non utili secondo le
linee guida, vengono eseguiti in circa il 60% dei casi. La ricerca degli anticorpi antipiastrine anche se effettuata
nel 36,1% , non risulta necessaria per la diagnosi.
La sierologia infettiva viene effettuata nel 74% , aspirato midollare nel 29 %.
La terapia prevalente è stata quella con immunoglobuline.
La maggior parte dei pazienti (74%) è stata dimessa con un numero di piastrine superiore a 50.000.
Non sono stati segnalati decessi, la maggior parte dei pazienti è stata dimessa direttamente dal reparto accettante
mentre 4 sono stati trasferiti presso un altro Centro.
MENINGITI BATTERICHE (ETA' > 28 GIORNI)
I dati si riferiscono a 88 casi totali.
La maggioranza dei casi è costituito da maschi: 58 maschi (67%) e 28 femmine (33%).
Al momento del ricovero, il 50% dei pazienti ha già iniziato una terapia antibiotica.
L'86 % ha effettuato la rachicentesi all’ingresso in Ospedale.
L’esame colturale del liquor è stato eseguito per tutti i pazienti, l’emocultura per il 91% dei casi.
La ricerca degli antigeni batterici e la PCR su liquor sono state effettuate rispettivamente nel 67% e 42% dei
bambini, mentre la PCR su sangue nel 33%. L’esame batterioscopico è stato eseguito nel 81% dei casi.
L’agente eziologico non è stato identificato in 27 pazienti (31%).
Distribuzione % degli agenti eziologici: streptococcus pneumoniae 20, n. meningitidis 34, haemophilus
influenzae 1, altro 14, non identificato 31.
Dei casi con eziologia nota, il 55% avevano l’esito dell’antibiogramma disponibile entro 3 giorni.
Nel 64% dei soggetti l’antibiotico è stato somministrato entro un’ora dal sospetto diagnostico.
Il trattamento con desametasone e.v. è stato effettuato nel 64% dei pazienti.
24 pazienti hanno eseguito una seconda rachicentesi.
Il 64% dei pazienti (56 casi) non ha avuto complicanze, tra i restanti bambini sono state osservate DIC (5), shock
(3), SIADH (2), febbre persistente (4), convulsioni (8), emorragia cerebrale (2), altro (18).
78 pazienti sono stati dimessi guariti (89%) e 5 (6%) con deficit neurologici; 5 pazienti sono stati trasferiti: 1 in
rianimazione, 2 in neurochirurgia, 1 in reparto infettivologia, 1 in altro reparto pediatrico.
37 pazienti hanno eseguito i potenziali evocati durante il ricovero mentre ad altri 37 pazienti sono stati
programmati dopo la dimissione.
La durata media della degenza è stata di 16 giorni.
Non vi sono stati decessi.
A 37 pazienti sono stati programmati i potenziali evocati dopo la dimissione.
La rilevazione di questi dati ha messo in evidenza i punti critici e indicato le aree di miglioramento, in
particolare: al momento del ricovero tutti i pazienti hanno effettuato la coltura del liquor cefalorachidiano e la
quasi totalità l’emocoltura, nel 30% circa dei casi non è stato però possibile diagnosticare l’agente causale della
meningite. Nella nostra casistica, quasi la metà dei pazienti era già in trattamento antibiotico al momento
dell’arrivo in Ospedale; è quindi auspicabile aumentare il ricorso alla PCR, in modo da incrementare il numero
di casi ad eziologia confermata. La tempestività di inizio del trattamento antibiotico intra-ospedaliero potrebbe
essere migliorata, (il 30% circa dei pazienti ha ricevuto la prima dose dopo più di un’ora dal ricovero).
CONCLUSIONI
Lo strumento del network ci sembra di importanza fondamentale per valutare il proprio operato e mettere in atto
iniziative di miglioramento. E’ inoltre possibile una valutazione comparativa dei propri dati con quelli nazionali
o regionali e con se stessi nel tempo. La disponibilità di dati complessivi può essere inoltre utilizzata dalle
società scientifiche per mettere in campo iniziative di formazione mirate sui bisogni ed eventuali modifiche
organizzative basate su dati recenti.
L’ obiettivo futuro è promuovere una partecipazione il più allargata possibile al Network così che
possa acquisire valenza rappresentativa delle realtà pediatrica italiana e possa costituire strumento
efficace per migliorare l’appropriatezza di scelte non soltanto cliniche, ma anche programmatiche e
organizzative.
Implementare una modalità assistenziale univoca nelle diverse realtà regionali e nazionali acquisisce una forte
valenza etica, l'applicazione delle linee guida ha permesso risparmio di risorse (es. riduzione del n. di
radiografie del torace in soggetti affetti da asma) , riduzione del disagio e del rischio per il paziente
ospedalizzato, riduzione dei costi.
PROGETTI FUTURI
Nel 2014 sono state elaborate due nuove schede per iniziare l’osservazione di due patologie che impegnano dal
punto di vista clinico e sono tuttora oggetto di controversie per gli aspetto diagnostici e terapeutici:
166
BRONCHIOLITE e ALTE (Apparent life threatening event).
E’ nostro obiettivo promuovere una partecipazione il più allargata possibile al Network così che possa
acquisire valenza rappresentativa delle realtà pediatrica italiana e costituire strumento efficace per
migliorare l’appropriatezza di scelte non soltanto cliniche, ma anche programmatiche e organizzative.
BIBLIOGRAFIA
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Physicians-American Society of Internal Medicine, European Federation of Internal Medicine, “Medical
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Guida SIP
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enphasis on behavioural characteristics”, European Journal of Pediatrics, 2002, 161: 330-6
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Care 2006; 29,5: 1150-
167
L’INFORMAZIONE ED IL CONSENSO ALL’ATTO MEDICO
Andrea Minarini
Unità Operativa Complessa
Medicina Legale e Mediazione dei Conflitti Azienda USL di Bologna
Nel novero dell’accettazione al trattamento sanitario che il paziente esprime in maniera libera, dopo essere stato
informato su modalità di esecuzione/benefici/effetti collaterali/rischi prevedibili/esistenza di valide alternative
terapeutiche, si identificano due diverse funzioni tra loro connesse: l’informazione e il consenso.
L’informazione è finalizzata a fornire al paziente adeguate conoscenze sul suo stato di salute e sul
trattamento terapeutico che lo riguarda e deve essere resa in modo completo, pur tenendo conto delle condizioni
sociali e culturali di chi la riceve.
Il consenso è finalizzato a promuovere la partecipazione attiva del paziente al percorso terapeutico e a
consentirgli l’esercizio delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, con particolare riferimento a quelli in
materia di salute e disposizione del proprio corpo.
L’acquisizione del consenso all’atto medico costituisce fondamento di legittimità dell’intervento
terapeutico e per questo è posto come obbligo in capo al medico responsabile.
168
L’ASSICURAZIONE DEL MEDICO OSPEDALIERO
Paolo D’Agostino
Università degli Studi di Torino, Facoltà di Giurisprudenza e Facoltà di Medicina e Chirurgia
La nuova normativa in materia di responsabilità professionale del dipendente ospedaliero e la successiva
giurisprudenza in materia, hanno determinato una sempre maggiore esposizione diretta da parte del
professionista sanitario a dover fronteggiare autonomamente le richieste di risarcimento dei danni.
A fronte di questo incremento di profili di responsabilità, le assicurazioni diffuse si fanno sempre più
inconsistenti ed inefficaci: un mercato che si riduce sempre di più e che offre sempre di meno anche alle
associazioni come, ad esempio, la SIP la cui convenzione assicurativa presenta una efficacia di copertura che, di
anno in anno, si restringe sempre di più.
Nel frattempo si sono aperti due tavoli ministeriali dedicati all'argomento i cui lavori - non ancora ultimati - non
sembrano volgere verso lidi più sereni e risolutivi dei problemi emergenti.
In questo quadro, occorre avere consapevolezza dell'ampiezza del rischio connesso alla attività professionale
(anche per il dipendente ospedaliero) e cercare strumenti assicurativi adeguati ed idonei a fronteggiare il
fenomeno.
169
ABSTRACT
170
1 P - DESCRIZIONE DI UN CASO DI RABDOMIOLISI ACUTA
Claudia Addis, Donata Panzeri, Laura Garini, Chiara Sciuto
SC Pediatria, Ospedale Alessandro Manzoni, Lecco
Introduzione e risultati: Descrizione di caso clinico di rabdomiolisi acuta (maschio, età 14 mesi) giunto al ns
Pronto Soccorso per febbre elevata da 2gg, segni di flogosi respiratoria trattato con paracetamolo alternato ad
ibuprofene. Anamnesi remota e famigliare negative per patologie di rilievo o malattie ereditarie. L’esame
obiettivo evidenziava segni respiratori con lieve tachipnea e rumori grossolani variabili alla auscultazione
polmonare, senza segni di disidratazione e assenza di segni meningei ROT presenti, ipostenia generalizzata. Gli
esami ematici eseguiti evidenziano indici di flogosi poco elevati (PCR 0,58 mg/dl; leucociti 10.600/mmc;
neutrofili 68%), aumento grave delle transaminasi (GOT 2944U/L GPT 1234 U/L) , nomali valori di gammaGT.
E’ stata avviata una diagnosi differenziale delle forme di ipertransaminasemia con esecuzione di dosaggio
ematico di paracetamolo (sospetta intossicazione da paracetamolo) risultato nella norma (2ug/ml) e normalità di
ulteriori esami di funzionalità epatica (bilirubina, ammonio, indici di sintesi proteica quali albuminemia e
coagulazione). Il valore di CPK riscontrato in fase acuta è risultato di 86415 U/L è stata posta diagnosi di
rabdomiolisi acuta ( mioglobinemia 5403 mcg/L mioglobinuria 28265 mcg/L). Durante il ricovero ha ricevuto
terapia idratante spinta per favorire una diuresi forzata , non si sono manifestate alterazioni della funzionalità
renale e dell’equilibrio elettrolitico e il dosaggio degli enzimi muscolari si è lentamente portato a livelli vicini
alla normalità (alla dimissione CPK 465 UI/ml). Il bambino è stato dimesso con diagnosi di rabdomiolisi acuta in
corso di infezione respiratoria (RSV positivo) con indicazione a ripetere assunzione di paracetamolo in ambiente
protetto per escludere comunque evento avverso legato all’assunzione del farmaco (casi di rabdomiolisi da
paracetamolo). Dopo circa 10 giorni ha eseguito assunzione di una dose di paracetamolo con successivo
dosaggio seriato di CPK risultato nella norma.
Dopo circa 2 mesi il piccolo è tornato presso il ns Pronto Soccorso perché la madre ha notato astenia in corso di
febbre. Anche in questo caso sono stati eseguiti esami ematici che riconfermano la presenza di aumento del CPK
(6483 U/L). Visto la ricaduta della sintomatologia si pone il sospetto di una miopatia ereditaria/metabolica
CAUSE DI RABDOMIOLISI
Miosite virale
Trauma
Malattie tessuto connettivo
Disordini metabolici :
 Ipokaliemia
 Deficit di aldolasi A
 Deficit di CPTII
 DKA
 Malattia di McArdle
Sono state pertanto eseguiti controlli cardiologici con esito di normalità, ecografia addominale senza alterazioni
ecografiche di fegato e milza e ricerche metaboliche che mostrano una alterazione del dosaggio della
acilcarnitina compatibile con un difetto della beta ossidazione mitocondriale (aumento degli esteri saturi e
insaturi della carnitina a 16 e 18 atomi di carbonio). L’analisi di biologia molecolare ha confermato il deficit
totale di CPTII (entrambi i genitori sono portatori sani). Al piccolo che gode di buona salute , vengono dati delle
istruzioni dietetiche e consiglio di idratare con liquidi zuccherati abbondantemente durante gli episodi febbrili.
In caso di comparsa di astenia utile idratazione ev per favorire normalizzazione dei valori di CPK
Discussione: E’ stato descritto un caso di deficit di CPTII (enzima CPTII catalizza la formazione dell’acilcoenzimaA a partire dall’acilcarnitina e coenzima A). In tali casi si determina una limitazione del metabolismo
lipidico in particolari in condizioni di aumentata richiesta metabolica (digiuno protratto, infezioni febbrili,
attività fisica intensa) casi in cui può verificarsi rabdomiolisi. Per tale condizione non esiste un trattamento
risolutivo: utile è una dieta povera di lipidi e ricca di carboidrati, con pasti frequenti soprattutto in condizioni di
stress.
Bibliografia: Longo N, et al.: Disorders of carnitine transport and the carnitine cycle. Am J Med Genet. 2006;
15:77-85
171
2 P - BAMBINI ITALIANI E IMMIGRATI IN PRONTO SOCCORSO:
DATI DEL PRONTO SOCCORSO PEDIATRICO DI SERIATE (BG)
Monica Airoldi*, Antonio Clavenna**, Maurizio Bonati**, Stefania Bolognini*, Francesca Cortinovis*, Maura
Li Destri*, Marco Negro*, Ilaria Pacati*, Moira Pinotti*, C. Ghitti*
* Unità Operativa di Pediatria, Azienda Ospedaliera "Bolognini" di Seriate, Bergamo
**Laboratorio di Salute Materno Infantile, Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" di Milano
INTRODUZIONE Negli ultimi anni si è verificato un notevole incremento del numero di accessi nei servizi
Pronto Soccorso (PS) Pediatrico, con un ricorso eccessivo e spesso inappropriato, soprattutto da parte degli
immigrati rispetto alla popolazione residente sia in Italia (1) che in altri paesi (2-3).
Obiettivo dello studio è stato di analizzare le caratteristiche degli accessi al PS Pediatrico dei pazienti italiani e
immigrati al fine di evidenziare eventuali differenze tra le due popolazioni.
MATERIALI E METODI
Sono stati analizzati retrospettivamente gli accessi presso il PS Pediatrico dell’Ospedale Bolognini di Seriate in
provincia di Bergamo, dove la popolazione immigrata rappresenta circa 11% dei residenti, di 4 mesi indice
(Aprile, Luglio, Ottobre, Dicembre) dell’anno 2013.
RISULTATI
Gli accessi totali analizzati sono stati 3385, di cui 1628 (48%) di cittadini immigrati. Suddividendo gli accessi
per fasce d’età, sono state osservate differenze nei bambini di età <1 anno (23% immigrati versus 16% italiani;
χ2=37, p<0,001) e negli adolescenti 12-17 anni (6% immigrati versus 13% italiani; χ2=42; p<0,001), non
associate al genere.
La frequenza degli accessi durante i giorni festivi (34% immigrati versus 33% italiani) e la distribuzione per
fasce orarie tra immigrati e italiani non è risultata differente.
Alla dimissione le patologie respiratorie rappresentavano la principale causa di accesso per entrambe le
popolazioni (33% per gli immigrati e 29% per gli italiani). L’accesso per disturbi gastroenterici è stato più
frequente per gli immigrati (18 vs 13%, χ2=18, p<0,001), mentre quello per traumi e ingestione/inalazione di
corpi estranei è stato maggiore per gli italiani (12 vs 7%; χ2=27, p<0,001).
Dopo la visita in PS sono stati ricoverati il 4% degli immigrati ed il 3% degli italiani.
CONCLUSIONI
Lo studio ha evidenziato un maggiore accesso in PS Pediatrico dei bambini immigrati rispetto alla popolazione
residente italiana.
Infatti, nonostante gli immigrati rappresentino solo l’11% dei residenti totali, il numero degli accessi al PS
Pediatrico dei bambini immigrati è sovrapponibile a quello degli italiani.
L’utilizzo inadeguato del PS Pediatrico da parte delle famiglie immigrate potrebbe essere ricercato: nelle diversa
percezione della malattia (allarmismo per patologie curabili che nei paesi in via di sviluppo possono causare
pericolo di vita), nell’ abitudine acquisita nel paese d’origine a recarsi nei luoghi di primo soccorso (spesso unica
struttura sanitaria fuori dalle grandi città), in una difficoltà nel mantenere continuità con il Pediatra di base da
parte dei genitori (ad es. rispettare orari e giorni previsti per le visite), nella possibilità di accesso anche per
bambini non regolarmente iscritti al Servizio Sanitario Nazionale e in una possibile maggiore tendenza dei
bambini immigrati ad ammalarsi per via di precarie condizioni di vita.
I nostri dati, pertanto, suggeriscono alcune riflessioni su eventuali provvedimenti operativi da realizzare per
rispondere in modo più efficace al tipo di esigenza sanitaria che la popolazione immigrata richiede (ad es.
diversa organizzazione dell’assistenza territoriale, diversa articolazione degli orari di apertura degli ambulatori,
etc…).
BIBLIOGRAFIA
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172
3 P - ESPERIENZA CON MICROINFUSORE PORTATILE IN BAMBINI DIABETICI NELLA PRIMA
INFANZIA
Luciano Beccaria, Anna Cogliardi, Alessandra Giardelli
SC Pediatria, Ospedale Alessandro Manzoni, Lecco
Introduzione: La terapia insulinica nella prima infanzia presenta peculiari difficoltà legate alla necessità di
usare minime dosi di insulina (frazioni di unità), ai rischi di danni cerebrali connessi con eventuali episodi
ipoglicemici e all’imprevedibilità nell’assunzione dei pasti. Si vuole descrivere in questo lavoro le problematiche
riscontrate nella terapia insulinica con microinfusore portatile in una serie di 3 bambini osservati presso il ns
Centro con quadro di diabete mellito tipo 1 o di diabete neonatale.
Materiale e metodi: Da settembre 2008 sono stati diagnosticati presso il ns Centro, 4 bambini di età inferiore a
2 anni con diabete mellito di cui 3 con diabete tipo 1 (positività di autoanticorpi anti-pancreas, C-peptide
negativi, chetosi), 1 bambino con diabete neonatale (negatività degli autoanticorpi antipancreas, C-peptide
negativo, chetosi). Per un dropout precoce vengono presentati i dati di tre casi (P1: esordio diabete a 39 gg di
età- sempre in terapia con microinfusore; P2 esordio diabete a 23 mesi di età – già affetta da celiachia – sempre
in terapia con microinfusore; P3 esordio diabete a 13 mesi di età, trattata con terapia convenzionale per 9 mesi e
con microinfusore dall’età di 22 mesi). In tutti i casi la terapia insulinica è stata suddivisa in un ritmo base con
aggiunta di boli ad ogni pasto. La dose di insulina è stata modificata sulla base delle glicemie capillari ei valori
target di glicemia sono stati modificati in relazione all’andamento clinico e ai rischi di ipoglicemia. L’ago
cannula per la somministrazione di insulina è stata posizionata ai glutei o in addome e veniva programmato
cambio di ago ogni 3 gg circa o prima in caso di necessità. L’alimentazione è stata nella maggior parte dei casi
mantenuta invariata e in genere le abitudini alimentari non sono state modificate rispetto a prima della diagnosi:
2 dei 3 casi praticano counting dei CHO dopo corso dedicato. In tutti casi è stata praticata istruzione intensiva
circa l’uso dell’apparecchio e sul comportamento da tenere a domicilio per modificare la dose di insulina ed
evitare episodi ipoglicemici.
Risultati: La terapia con microinfusore portatile è risultata nel complesso ben accettata permettendo un
adeguato controllo della glicemia e una migliore qualità di vita (3 su 3 casi hanno scelto di proseguire
indefinitamente la terapia con microinfusore). L’emoglobina glicosilata è risultata compatibile con un buon
controllo della malattia diabetica in tutti i casi (LM ha avuto valori medi di emoglobine glicosilate di 7,7% range 5,7 – 8,8%: NF ha avuto valori di emoglobine glicosilate di 7.8% - range 7.2 – 8,4%: SC ha presentato un
valore medio di 7,9% – range 7,4 – 8,7% comunque inferiori a quelli riscontrati in terapia tradizionale – 9,4%).
Anche le crisi ipoglicemiche sono risultate rare e ben controllate (nessun caso di ipoglicemia grave). Le
maggiori difficoltà sono state riscontrate nella gestione dell’agocannula per le difficoltà al posizionamento (in
genere preferiti nella tenera età agocannule ad inserimento manuale e obliquo). In un caso è stata osservata netta
tendenza alla riduzione della glicemia ad ogni cambio di agocannula che ha richiesto strategie ad hoc per evitare
ipoglicemie. In tutti pazienti trattati si è osservato un notevole numero di misurazioni glicemiche giornaliere
(superiori a 10/die).
Discussione: La terapia insulinica condotta con microinfusore portatile appare come la terapia di prima scelta in
bambini nella prima infanzia in particolare per la possibilità di somministrare frazioni di unità altrimenti non
possibili con terapia tradizionale. Richiede necessariamente adeguate capacità tecniche da parte dei famigliari
oltre un’educazione intensiva circa l’uso dello strumento e circa il comportamento da tenere a domicilio. Il
followup domiciliare richiede appoggio intensivo da parte del personale medico e infermieristico oltre a sostegno
psicologico per la famiglia.
Bibliografia: (1) Berghaeuser MA et al: Continuous subcutaneous insulin infusion in toddlers starting at
diagnosis of type 1 diabetes mellitus. A multicenter analysis of 104 patients from 63 centres in Germany and
Austria. Pediatr Diabetes. 2008;9(6):590-5; (2) Fuld K et al: Insulin pumps in young children. Diabetes Technol
Ther. 2010;12 Suppl 1:S67-71; (3) Beardsall K et al.: Neonatal diabetes and insulin pump therapy. Arch Dis
Child Fetal Neonatal Ed. 2011;96(3):F223-4
173
4 P - ENTERORRAGIA NEONATALE DA IPLV
Massimo Bisceglia, Paola Chiarello, Caterina Crugliano, Nicola Lazzaro, Luigi Mesuraca, Vincenzo Antonio
Poerio, Francesco Paravati
UOC Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale S. Giovanni di Dio, Crotone
INTRODUZIONE : L'intolleranza alle proteine del latte vaccino (IPLV) è una patologia tipica del lattante che
presenta segni e sintomi successivi all'introduzione di proteine del latte. Può essere o meno IgE mediata. La
sintomatologia conseguente all’introduzione dell’alimento indirizza verso la diagnosi, che si avvale, nelle forme
IgE mediate, dei test specifici cutanei e ematici (Prick, RAST), il gold standard è rappresentato dal challenge.
CASI CLINICO: N.P. Nato a termine da gravidanza normocondotta, primogenito. Peso nascita gr 3750. Apgar
81-95. Nessun problema perinatale, allattato precocemente al seno. In seconda giornata la madre, con l'intenzione
di integrare il proprio latte, somministra al piccolo autonomamente latte adattato. In seguito alla seconda
somministrazione dell'alimento, dopo circa 6 ore, compaiono tracce di sangue nelle feci. Nella notte
l'enterorragia è imponente. Il neonato viene ricoverato ed esegue emocromo, prove di coagulazione, esami
infettivologici, ripetuti ogni 24 ore, che risultano sempre nella norma. Nessun segno clinico all'ispezione e
valutazione della regione anale. Viene introdotto a scopo diagnostico e terapeutico latte ad idrolisi spinta di
proteine latte vaccino (LV), con una pressoché immediata risoluzione della sintomatologia emorragica. Anche la
madre è posta a dieta priva di proteina del latte vaccino (allattamento misto). Incautamente, la nutrice, in quinta
giornata, si alimenta con un notevole intake di proteine del LV. A distanza di poche ore il piccolo presenta
nuovamente sangue nelle feci. La nutrice viene nuovamente invitata a eliminare tali alimento dalla dieta con un
miglioramento rapido della sintomatologia.
CONCLUSIONI: La diagnosi presuntiva di IPLV si basa sulla consequenzialità dell’introduzione delle PLV e
l’insorgenza della sintomatologia, sebbene non sempre necessariamente eclatante. Nei reparti di neonatologia
tale evenienza non è particolarmente comune, ma, come descritto con la nostra segnalazione, va annoverata nel
computo delle diagnosi differenziali nelle patologie gastroenterologiche e allergiche neonatali.
BIBLIOGRAFIA
1. Pediatrics 2006; 117 (4) 760-8
2. Ann Allerg Asthma Immunol 2013; 111:574-5
174
5 P - OCCHIO CHE È TORNATA LA LUE
Massimo Bisceglia, Antonio Belcastro, Anastasia Cirisano, Giuseppe Frandina, Vincenzo Antonio Poerio,
Concetta Rosso, Francesco Paravati
UOC Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale S. Giovanni di Dio, Crotone
INTRODUZIONE: La sifilide congenita è ancora oggi causa di morbilità e mortalità. I dati epidemiologici in
USA riportano un’incidenza di 8,7 casi / 100.000 nascite nel 2010. In Italia l'incidenza è di 0.86/100.000 con una
prevalenza di gravide pari allo 0.44% di siero positività e del 5.8% nelle donne provenienti dal Centro-Sud
Africa .
L’infezione fetale può causare abortività nelle prime 14 settimane di gestazione e sindrome clinica alla nascita
che può essere caratterizzata da: prematurità, basso peso alla nascita, epatosplenomegalia, linfoadenomegalia,
idrope, eruzioni maculo-papulari muco-cutanee, rinite, demineralizzazione ossa lunghe, sindrome nefrosica,
anemia, leucopenia/leucocitosi, trombocitopènia, e neurosifilide nelle forme precoci, vasculiti, cheratiti, deficit
neurologici nervi cranici, periostiti, e sindromi neurologiche nelle forme tardive, che interessano circa il 40% dei
neonati non trattati. La diagnosi si basa su test non treponemici (VDRL e RPR) e test treponemici (FTA- ABS,
TP-PA, MHATP) oltre che la ricerca nel sangue e liquor del Treponema e la PCR. Il trattamento prevede
l'utilizzo della penicillina G.
CASI CLINICI: Riportiamo tre casi di neonato da madre affetta da Sifilide osservati in soli 3 mesi (lugliosettembre 2014), di contro ad un solo caso registrato in tutto il 2013. Dei tre casi riferiti, solo una delle gravide
era stato trattata in gravidanza.
Caso 1: Neonato a termine, genitori italiani, madre con VDRL positiva nell’ultimo trimestre. Nessun problema
neo e perinatale. Esami treponemici escludono infezione congenita. Trattato con penicillina G per 10 gg.
Caso 2: Neonato a termine. Sepsi perinatale. Ittero. Leucocitosi. Madre extra-comunitaria, non trattata in
gravidanza. Esami treponemici e non negativi. Trattamento con penicillina G per 10 gg.
Caso 3 : neonato a termine, madre extra-comunitaria non trattata in gravidanza (VDRL positiva, TPHA 1:320,
FTA-Abs IgG reattivo medio, FTA-Abs IgM negativo). Esami treponemici neonatali: Anti Sifilide IgM e IgG
positivi, TPHA 1:160, FTA-Abs IgG reattivo debolmente, FTA-Abs IgM negativo. Clinicamente ittero, lieve
epatosplenomegalia. Trattato con penicillina G per 14 gg.
Follow up a tre mesi per il caso 1 e 3 negativo.
CONCLUSIONI: Il rischio di trasmissione di sifilide congenita è particolarmente alto, se la madre non è
trattata. Si tratta di una patologia ri-emergente alla luce delle ondate di clandestini che giungono in tutta Italia. Il
nostro centro è certamente più coinvolto per la contiguità con il centro di prima accoglienza presente ma
l'immigrazione è un problema ubiquitario in Italia che coinvolge ed interessa tutti gli ospedali ed i pediatri.
La sorveglianza delle gravidanza a rischio è d'obbligo, ma per i neonatologi e pediatri la malattia deve rientrare
nelle diagnosi differenziali in caso di manifestazioni cliniche diverse che comprendano febbre, eruzioni cutanee,
sintomi ossei ed alterazioni emocrocitometriche in genere.
BIBLIOGRAFIA
1. Infect Dis Obstet Gynecol 2012;4:430
2. Sex Transm Infect. Dec 2007; 83(7): 590–591.
3. BMJ 2002. 3241324–1327
4. Sex Transm Dis 2005. 32220–226
5. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed. 2012 May;97(3):F211-3.Italian Neonatal Task Force of Congenital Syphilis
for The Italian Society of Neonatology – Collaborative Group
175
6 P - COMPRESSIONE TRACHEALE LIEVE DA ARTERIA ANONIMA ABERRANTE E TOSSE
CRONICA NEI BAMBINI
Michele Ghezzi (1), Michela Silvestri (1), Oliviero Sacco (1), Serena Panigada (1) e Giovanni A. Rossi (1)
(1) U.O. Pediatria ad indirizzo pneumoallergologico, Istituto Giannina Gaslini, Genova
Introduzione
Una delle più frequenti anomalie dei vasi mediastinici è rappresentata dalla arteria anonima aberrante (AAA).
Nei soggetti con questa condizione l’arteria origina dalla porzione sinistra dell’arco aortico e, spostandosi a
destra, passa davanti alla trachea determinando una compressione di grado variabile. Nei bambini con AAA uno
dei sintomi più frequenti è la tosse secca persistente/ricorrente. [1] Non ci sono dati sulla frequenza di riscontro
di tale anomalia in bambini affetti da tosse secca persistente/ricorrente.
Materiali e metodi Abbiamo raccolto retrospettivamente i dati di pazienti valutati nel corso di 3 anni dal
gennaio 2010 al dicembre 2012 per tosse secca persistente/ricorrente e valutato l’incidenza di riscontro di
anomalie dei vasi mediastinici e in particolare tra queste di compressione tracheale daAAA. Sono state raccolte
informazioni sui sintomi di presentazione e la presenza di comorbidità.
Risultati Sono stati inclusi nello studio 209 pazienti. In 68 pazienti è stata riscontrata un’anomalia dei vasi
mediastinici con conseguente compressione tracheale. La presenza di AAA è stata rilevata in 54 pazienti, l’arco
aortico destro in 8, il doppio arco aortico in 4 e l’arteria succlavia aberrante in 2. Valutando alla TC del torace il
grado di severità della compressione tracheale nei pazienti con AAA, 47 pazienti mostravano una compressione
di grado lieve, 6 di grado moderato e un 1 paziente di grado severo (figura 1). Tuttavia, in tutti questi bambini il
grado di restrizione del lume tracheale alla broncoscopia era risultato maggiore in espirazione e/o tosse per la
presenza concomitante di tracheomalacia. In 21 pazienti con AAA sono state riscontrate comorbidità che
comprendevano atopia, ostruzione bronchiale reversibile e reflusso gastroesofageo. Solo in 8 pazienti è stato
necessario intervenire con l’intervento di aortopessi mentre tutti gli altri pazienti sono stati trattati
farmacologicamente e hanno presentato un graduale miglioramento della sintomatologia.
Discussione Una condizione di compressione tracheale, seppur di grado lieve, può essere riscontrata in diversi
pazienti con tosse secca cronica/persistente. L’identificazione di tale condizione può spiegare l’origine dei
sintomi evitando ulteriori indagini non necessarie e trattamenti non efficaci.
Figura 1 A. Grado di compressione tracheale nei pazienti affetti da AAA B. Grado di compressione tracheale
nei pazienti affetti da AAA, suddivisi per fasce d’età
Bibliografia
[1] Gardella C, Girosi D, Rossi GA, Silvestri M, Tomà P, Bava G, Sacco O. Tracheal compression by aberrant
innominate artery: clinical presentations in infants and children, indications for surgical correction by aortopexy,
and short- and long-term outcome. J Pediatr Surg. 2010; 45: 564-73.
176
7 P - TOSSE E SINDROME RESTRITTIVA IN UN ADOLESCENTE
Valentina De Vittori, Marzia Duse, Giovanna De Castro, Maddalena Mercuri, Luciana Indinnimeo, Anna Maria
Zicari, Caterina Lambiase, Annalisa Di Coste, Giancarlo Tancredi
Un ragazzo di 12 anni con tosse, rinite stagionale e familiarità per atopia, giunge alla nostra osservazione per una
valutazione per l’idoneità sportiva agonistica. In anamnesi riferita una lieve difficoltà nell’apprendimento. I
parametri antropometrici sono nei limiti della norma (Altezza 90° percentile, Peso 75° percentile, BMI 20.62).
Le prove di funzionalità respiratoria (PFR) evidenziano un deficit ventilatorio restrittivo di grado moderato
(FEV1 64.4% predetto, FVC 67.7% predetto, FEV1/FVC 96.3% predetto, MEF50 55.8% predetto, TLC 57.1%
predetto, LCI 275.5% predetto, FRC 28.7% predetto; DLCO 78.2% predetto); le prove allergiche cutanee
risultano positive per inalanti.
Inizia la terapia di fondo con CSI per tre mesi (budesonide 200 mcg due volte/die) e salbutamolo al bisogno. Al
successivo controllo al termine della terapia, il ragazzo riferisce persistenza dei sintomi (tosse secca
prevalentemente diurna); le PFR confermano il precedente quadro funzionale. Il test da sforzo massimale su
treadmill rivela una discreta tolleranza allo sforzo, assenza di aritmie e la spirometria eseguita prima e dopo test
da sforzo non mostra variazioni significative dei parametri spirometrici (FEV 1).
Per la persistenza del quadro, il ragazzo esegue esami infettivologici, immununologici ed il test del sudore che
risultano nei limiti della norma. La HRTC polmonare non evidenzia alterazioni di rilievo.
Le patologie polmonari di tipo restrittivo in età pediatrica sono poco frequenti, sebbene siano comuni a patologie
respiratorie parenchimali polmonari, pleuriche o extrapolmonari. Sono caratterizzate da una ridotta compliance
toraco-polmonare, aumento del lavoro respiratorio e rapporto ventilazione/perfusione inadeguato.
All’età di 14 anni, con un quadro clinico polmonare in via di definizione, durante una visita pediatrica, viene
rilevato un ridotto volume testicolare rispetto all’età (< 4 ml); pertanto il ragazzo è sottoposto ad una
valutazione endocrinologica dove esegue studio del cariotipo che consente di fare diagnosi di sindrome di
Klinefelter.
Nei pazienti affetti da questa anomalia cromosomica, che ha una prevalenza di 1 su 500 neonati maschi, si
osservano frequentemente patologie croniche polmonari, soprattutto di tipo restrittivo. Le cause più frequenti di
questa associazione sono: l’obesità, che può portare ad ipossiemia per alterazione del rapporto
ventilazione/perfusione e le anomalie come cifoscoliosi o pectus escavatum che possono alterare la compliance
della parete toracica. Tuttavia nel nostro paziente il deficit restrittivo potrebbe essere correlato ad una diminuita
elasticità della matrice del polmone con riduzione della compliance polmonare, ad una maggiore rigidità della
gabbia toracica e alla debolezza muscolare, fenomeni verosimilmente legati al deficit di Testosterone.
177
8 P - DESCRIZIONE DI UN CASO DI PSEUDOLITIASI BILIARE REVERSIBILE DA
CEFTRIAXONE (CFTX) IN UN LATTANTE DI 5 MESI
G.Parisi, M. Grasso
Introduzione: Schaad nel 1986 ha descritto il primo caso di calcolosi colecistica reversibile in associazione a
terapia con CFTX, scoperta per caso in un adolescente sottoposto ad un “follow-up” ecografico per un ascesso
splenico. Da allora, numerosi altri casi analoghi sono stati descritti in età pediatrica ed adulta. Ne riportiamo un
caso venuto alla nostra osservazione.
Case-report: C.B., di mesi 5 e gg 18, convocato a controllo ecografico per una condizione di malattia da reflusso
gastro-esofageo ecograficamente di entità “lieve” e che aveva presentato, dopo una fase lunga di apparente
normalizzazione, vomito e lievi segni dispeptici. L’anamnesi familiare è positiva per litiasi renale nella madre (di
anni 23) e litiasi colecistica in 2 prozie materne. Il bambino aveva praticato terapia con CFTX im al proprio
domicilio, al dosaggio di 75mg/Kg/die (750mg/die) per 10 gg per una riferita “bronchite diffusa”, terapia
conclusa 10gg prima del controllo ecografico sopra riportato. Non si sono praticati esami di laboratorio o
consulenze particolari, dato l’immediato orientamento verso la giusta diagnosi (pseudolitiasi biliare reversibile),
a causa della richiamata memoria di un precedente caso già descritto anni prima e di cui gli aspetti ecografici
coincidevano con quelli rilevati sul paziente oggetto della presente descrizione. A conferma di ciò, gli esami
ecografici di controllo, praticati 8, 15 e 22 gg dopo il primo, mostrano graduale riduzione di volume ed
ecogenicità della formazione calcolotica fino alla sua completa scomparsa, accompagnata da un rapido recupero
dell’abituale benessere personale.
Risulati-discussione:l’andamento clinico e l’evoluzione ecografica, mentre dimostrano incontrovertibilmente
l’esattezza della diagnosi, richiamano nel contempo molte riserve nei riguardi della tesi di Shiffmann, che ha
sostenuto (1990) con dati extrapolati da studi “in vitro” su bile umana che il rischio di sviluppo di calcoli biliari
indotto da CFTX aumenta linearmente per un problema di solubilità, passando da una solubilità totale nella bile
per dosaggi ≤ 1g/die, in corrispondenza dei quali il sale CFTX-calcio ionizzato viene espulso dal lume
colecistico completamente prima della dose successiva, ad una insolubilità a dosi superiori ( 2g), per le quali il
sale precipiterebbe nella bile, formando granuli di varia dimensione. I pseudo calcoli sono nella maggior parte
dei casi asintomatici, comparendo in media 9 giorni dall’inizio della terapia (4-22gg) e scomparendo in media
15gg (2-63gg) dalla sua sospensione. Il meccanismo di formazione consiste nell’interferenza del farmaco ad alte
dosi con la secrezione degli acidi biliari, riducendone la concentrazione a livello colecistico e legandosi
competitivamente il CFTX con la maggiorata quota di calcio ionizzato libero (che normalmente si lega agli acidi
biliari), con conseguente precipitazione sotto forma di pseudo calcoli di CaCFTX per superamento del quoziente
di solubilità. I precipitati possono avere o non avere “cono d’ombra” in rapporto alle loro dimensioni.
La comunemente asserita sostanziale benignità della condizione è stata messa in dubbio dalla segnalazione di
Robertson et al. del primo caso (Pediatrics, 1996) di coledocolitiasi ostruente associato a pseudolitiasi da CFTX,
che ha richiesto rimozione chirurgica del calcolo incuneato nel coledoco con colecistectomia, rendendo reale – in
termini di emergenza chirurgica- un rischio non percepito come effettivo nella pratica clinica giornaliera. A
prescindere da questo elemento, che comunque è meglio conoscere, il pediatra che intraprenda un trattamento
antibiotico con CFTX, deve essere consapevole dell’entità clinica-ecografica descritta, al fine di evitare
interventi diagnostici e terapeutici invasivi, disturbanti e non necessari. È ancora opportuno curare una adeguata
idratazione ed evitare il digiuno prolungato e/o la sottoalimentazione durante il trattamento, considerando inoltre
che i dosaggi riferiti nel nostro caso (così come quelli relativi alla segnalazione di Benedetti et al., che hanno
verificato la comparsa di pseudolitiasi per un dosaggio di CFTX di 800mg/die) rendono più ampia la fascia di
pazienti a cui estendere il concetto di rischio per la condizione in questione, soprattutto in caso di contemporanea
presenza, singola o combinata, di fattori “favorenti” la colelitiasi, a cominciare dalla familiarità.
L’ampio spettro di azione, la sua lunga emivita plasmatica, la buona distribuzione nei liquidi e tissutale, il
superamento della barriera emato-liquorale, la facilità di somministrazione hanno contribuito a rendere il CFTX,
cefalosporina di III generazione, molto utilizzato, particolarmente in età pediatrica. Questi innegabili vantaggi
non esimono il pediatra dal continuarne l’impiego, ma gli segnalano l’opportunità durante lo stesso di un
atteggiamento “di vigilanza” nei confronti e dell’insorgenza e dell’evoluzione dell’entità clinico-ecografica
descritta.
Bibliogafia essenziale: -Benedetti M, Michielutti F, Bergamo A et al.: “Pseudolitiasi reversibile durante terapia
con CFTX in età pediatrica: descrizione di un caso clinico”. R.I.P., 1993; 19:688-690
-Parisi G, Rojo S, Mancinelli C, et al: “Descrizione di un caso di pseudolitiasi biliare reversibile da CFTX in età
pediatrica: è opportuna una maggiore attenzione al problema?”. Min. Ped., 1997; 49: 499-504
178
9 P - MAI FERMARSI AL PRIMO RISULTATO, MA COMPLETARE L’ITER DIAGNOSTICO
Paola Maggi, Amalia Napoli, Marina Testa, Luciano Beccaria
SC Pediatria, Ospedale Alessandro Manzoni, Lecco
Introduzione: Descrizione di un caso (maschio, 9a) condotto alla nostra osservazione per ipostenia e parestesie
all’emilato sinistro preceduto da cefalea.
Risultati: In anamnesi familiare parente di terzo grado con ictus, non familiarità per cardiopatie ischemiche,
coagulopatie ereditarie, ipercolesterolemia, epilessia e diabete. In anamnesi patologica remota riferiti dall’età di
5 anni episodi di cefalea frontale gravativa senza aura, responsivi a terapia analgesica. All’obiettività buone le
condizioni generali, parametri cardiaci e respiratori normali, PA 107/58 mmHg (50-75 percentile), obiettività
cardiaca, toracica ed addominale normale, deficit stenico arto superiore ed inferiore sinistro con slivellamento
alla manovra di Mingazzini.
E’ stata eseguita TAC cerebrale con evidenza di aree ipodense ischemiche a sede temporo-basale dx e talamica
omolaterale. Il quadro ecocardiografico, l’ecodoppler transcranico con bubble test, l’ecodoppler tsa sono risultati
negativi come pure lo screening trombofilico, infettivologico metabolico (EAB, assetto lipidico), reumatologico,
immunologico. Le analisi molecolari per alfa galattosidasi e Melas sono risultate negative. L’AngioRMN
cerebrale ha mostrato lesioni ischemiche subacute, bilaterali, nel territorio di distribuzione del circolo posteriore.
Da considerare la genesi trombo-embolica. E’ stata intrapresa terapia con acido acetilsalicilico.
Dopo alcuni giorni dal ricovero comparsa di episodi di disorientamento, amnesia e parestesie interpretate come
equivalenti epilettici, per cui si è intrapresa terapia antiepilettica con oxcarbazepina. La valutazione
dell’AngioRMN di controllo (ad una settimana dall’episodio acuto) ha evidenziato ricanalizzazione del tratto
distale dell’arteria cerebrale posteriore.
Dopo quindici giorni sono comparsi disartria, rallentamento dell’eloquio, atassia cerebellare con impossibilità a
deambulazione autonoma. E’ stata pertanto eseguita nuova angioRM dei vasi del collo che ha evidenziato una
dissecazione dell’arteria vertebrale destra con nuova area di lesione ischemica cerebellare destra (in tale fase
iniziata terapia con enoxaparina sodica e successivamente con warfarin). A seguire si è osservato
miglioramento neurologico con ripresa del linguaggio, della parola scandita e della deambulazione autonoma.
Alla dimissione sono persistiti emiparesi sinistra ed atassia.
La dissecazione delle arterie cervicali è una delle possibili cause di stroke ischemico come riportato nella
classificazione di Wraige 2005 (1). In campo pediatrico (2) Fullerton ha evidenziato che su 102 pazienti
pediatrici con stroke da dissecazione dei vasi cervicali il 69% era di origine traumatica, mentre nel 31% dei casi
era spontanea. Condizioni predisponenti riconosciute sono: S.di Marfan ,S.di Enhelrs Danlos, Osteogenesi
imperfetta, displasia fibromuscolare, deficit di alfa 1 antitripsina, coartazione dell’aorta, S. di Moya-Moya,
emicrania, estrema tortuosità delle arterie, aterosclerosi, infezioni, LES, rene policistico, necrosi cistica della
media. La diagnostica comprende anche accertamenti di neuroimaging. La terapia si avvale dell’uso di eparina
(3).
Discussione: L’insegnamento che ci ha dato questo caso è che il paziente con stroke ischemico deve essere
sottoposto ad un completo work up diagnostico in quanto possono sussistere più cause e/o fattori di rischio a
giustificare il quadro.
Bivbliografia: (1) Wraige E. et al Dev Med Child Neurol 2005;47:252-256; (2) Fullerton HJ et al Arterial
dissection and stroke in children Neurology 2001; 57: 1155-1160; (3) Diagnosi e terapia dello stroke ischemico
pediatrico in fase acuta Linea guida SIP-SIMEUP-SINP 2007
179
10 P - CROMOSOMI ED IPOTONIA
Martignoni Laura1, Pietrangiolillo Zaira 1, Zagni Giulia 1, Predieri Flavia1, Iughetti Lorenzo 1,2.
(1)
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia
(2)
U.O. Pediatria, Az. Osp. Universitaria, Policlinico Modena
Con il termine “floppy infant” si intende un quadro di ipotonia generalizzata a riscontro precoce (alla nascita o
nei primi mesi di vita), dove l’ipotonia è definita come la resistenza alla mobilizzazione passiva. Tale quadro
emerge facilmente attraverso un semplice esame neurologico sul neonato/lattante, a cui va affiancata una
valutazione più globale di reattività, suzione e movimenti spontanei. Molto più complesso è scoprire la causa
dell’ipotonia, soprattutto per le numerose variabili anamnestiche da valutare. Tra i dati prenatali sono
fondamentali la qualità/quantità dei movimenti attivi fetali, la parte presentata al parto, la presenza di poli/oligoidramnios. Tra i parametri perinatali invece va indagata la presenza di traumi da parto, di
ipossia/encefalopatia ipossico-ischemica o di acidosi cordonale. Fondamentale è inoltre l’anamnesi familiare per
malattie neuromuscolari. Un accorgimento fondamentale infine consiste valutare l’ipotonia neonatale dopo la
stabilizzazione del paziente e soprattutto al raggiungimento del termine di età post-concezionale, per evitare di
incorrere in bias da fattori di confondimento.
Descriviamo il caso di M., nato a 35 settimane di età gestazionale da taglio cesareo urgente per tracciato
cardiotocografico non rassicurante e liquido lievemente tinto di meconio (M1). In anamnesi gravidica emergeva
una condizione di malnutrizione durante la gravidanza causata da pregresso intervento di bendaggio gastrico per
obesità eseguito due anni prima, con conseguenti vomiti ricorrenti. Non venivano rilevati altri fattori di rischio
intrapartum. Alla nascita il neonato appariva vigoroso con necessità unicamente di aspirazione dalle prime vie
aeree di esigue quantità di liquido amniotico lievemente tinto di meconio (Apgar 1’:8; 5’:9).
Il peso alla nascita risultava essere pari a 1910 g, all’8° percentile per età gestazionale. Durante i primi giorni di
degenza veniva riscontrata ipotonia assiale, associata a cute lievemente marezzata e difficoltà di suzione al
biberon. Visto il quadro di malnutrizione materna e l’emoconcentrazione riscontrata agli esami ematici si
attendeva il termine di età post-concezionale per intraprendere ulteriori approfondimenti diagnostici. A 37
settimane di età post-concezionale persisteva moderato ipotono assiale e ai cingoli, con motilità spontanea
povera e atteggiamento in prevalente estensione degli arti. La suzione era inoltre esauribile con necessità di
completare i pasti mediante sondino oro-gastrico a caduta.
Abbiamo deciso pertanto di avviare accertamenti in merito all’ipotonia persistente. L’ecografia cerebrale
eseguita alla nascita e ripetuta a 38 settimane di età post-concezionale risultava nella norma. Per escludere cause
infettive e infezioni congenite venivano eseguiti screening settico e ricerca di antigene precoce CMV su urine,
risultati negativi. Dalla 38° settimana di età post-concezionale abbiamo assistito ad un graduale miglioramento
della suzione per cui è stato possibile rimuovere il sondino oro-gastrico con completamento del pasto al biberon.
Tale miglioramento era accompagnato da una lieve risoluzione dell’ipotonia, seppur persisteva atteggiamento in
iperestensione e cute lievemente marezzata. La restante obiettività era nella norma e il neonato iniziava a
crescere in peso, per cui abbiamo proceduto alla dimissione a domicilio.
L’esito del cariotipo, avuto in post-dimissione, è risultato patologico per presenza di cariotipo maschile con
polisomia X omogenea (47, XXy), compatibile con diagnosi di sindrome di Klinefelter.
La sindrome di Klinefelter è il più comune disordine a carico dei cromosomi sessuali, che colpisce 1:500-1:1000
pazienti di sesso maschile. Grazie agli attuali strumenti di diagnosi prenatale si possono oggi valutare in maniera
retrospettiva segni clinici più o meno aspecifici, che possono contribuire ad una diagnosi post-natale precoce. Il
fenotipo della sindrome di Klinefelter si sta infatti dimostrando sempre più ampio e comprensivo di segni clinici
che esulano anche completamente dalla sfera endocrino-sessuale. Da uno studio di coorte pubblicato sulla rivista
Pediatrics nel 2008 è emerso che 42 su 55 pazienti pediatrici con sindrome di Klinefelter arruolati (76%)
presentavano riduzione del tono muscolare, senza correlazione tra grado dell’ipotonia e livelli in circolo di
testosterone. Da un altro studio retrospettivo (Visootsak et al, 2001) si è concluso che segni precoci della
Sindrome di Klinefelter, riscontrabili anche in età neonatale e nei primi mesi di vita, possono essere ridotta
circonferenza cranica, ipotonia lieve-moderata, ipospadia e criptorchidismo. In uno studio retrospettivo in cui
veniva valutata la percentuale di determinati segni clinici in bambini con diagnosi prenatale di sindrome di
Klinefelter (Samango-Sprouse and Rogol, 2002) è emerso che il 68% di questi pazienti presentava ipotonia del
tronco. Di fronte pertanto ad un quadro di ipotonia persistente nel neonato/lattante, è fondamentale non
dimenticare i disordini dei cromosomi sessuali, a fronte soprattutto di un quadro lieve-moderato.
-
John B. Bodensteiner et al: The Evaluation of the Hypotonic infant. Semin Pediatr Neurol, 2008
Martha et al: Effect of Ascertainment and Genetic Features on the Phenotype of Klinefelter Syndrome, The
Journal of Pediatrics, 2008
Aksglaede et al: 47,XXY Klinefelter Syndrome: Clinical characteristics and Age-Specific
Recommendations for Medical Management, American Journal of Medical Genetics Part C, 2013
R Vaan Torn: Clinical approach to the floppy child, 2004
180
11 P - IPERTENSIONE ARTERIOSA SEVERA TRANSITORIA E SOSPETTA PATOLOGIA
REUMATOLOGICA
Valeria Pansini (1), Ugo Giordano (2), Ippolita Rana (1), Maria Rosaria Marchili (1), Giuseppe Merico (3),
Alberto Villani (1).
1 - Dipartimento di Medicina Pediatrica – UOC Pediatria Generale e Malattie Infettive; Ospedale Pediatrico
Bambino Gesu’ IRCCS – Roma
2 - Dipartimento di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica; Ospedale Pediatrico Bambino Gesu’ IRCCS –
Roma
3 - Ospedale SS Annunziata, Taranto
INTRODUZIONE - Giunge a ricovero PG di anni 11 per riferito prurito intenso ai palmi delle mani comparso il
03/06. I genitori riferiscono che dal 30/05 il bambino aveva manifestato dolore alle mani che si risolveva dopo
assunzione di ibuprofene. In seguito alla risoluzione del dolore comparsa di prurito, per cui sono stati
somministrati dapprima cetirizina, poi oxatomide e betametasone senza beneficio sulla sintomatologia.
Precedente accesso al ns DEA (09/06) dove sono stati eseguiti esami ematochimici risultati nella norma; dimesso
con terapia antistaminica ed indicazione ad eseguire visita reumatologica eseguita in data 10/06 che ha escluso
condizioni di interesse reumatologico e ha confermato la necessità di eseguire terapia antistaminica, proseguita
sempre senza beneficio. I genitori riferiscono la costante assenza di lesioni cutanee ai palmi delle mani. Il
bambino trae giovamento solo con l'immersione delle mani in acqua fredda. Nei giorni precedenti al ricovero
riferita deprivazione di sonno a causa del prurito, con scosse agli arti della durata di pochi secondi per cui è stata
intrapresa terapia con Diazepam senza miglioramento clinico.
MATERIALI E METODI – Nel corso del ricovero sono stati eseguiti i seguenti esami diagnostici:
ECOGRAFIA ADDOME COMPLETO: negativa tranne per piccola milza accessoria al polo inferiore splenico.
Regolare la distribuzione dei segnali vascolari al completamento color-Doppler in sede intraparenchimale. Non
campionabili le arterie renali all'origine dall'aorta addominale per il meteorismo. IR a livello intraparenchimale
lievemente più bassi che di norma (0.4). ECOGRAFIA TIROIDEA: negativa. TC CEREBRALE: negativa
tranne per la presenza di materiale flogistico che occupa parzialmente i seni mascellari. TC TORACE: Negativa.
TC ADDOME SUP. E INF. (SENZA E CON CONTRASTO): Doppia arteria renale bilateralmente, con regolare
calibro e opacizzazione, esenti da stenosi focali. Vena renale sinistra a decorso anteriore rispetto all'aorta con
aspetto appena stirato allo sbocco in vena. Reni e surreni nella norma. V.DERMATOLOGICO: bambino con
astenia muscolare marcata, mani calde al termotatto, leggermente in flessione, edematose, unghie a vetrino
d'orologio. Non si osserva infiammazione periungueale. All'esame capillaroscopico si osserva: numero normale
delle anse capillari; anomalie delle anse che appaiono allungate con ectasia apicale; flusso ematico corpuscolato.
Il quadro non presenta neoangiogenesi. Le alterazioni presenti, seppur compatibili anche con acrocianosi,
potrebbero essere spia di un esordio di patologia reumatica. Da rivedere tra 6 mesi. ECOCARDIOGRAMMA:
Esclude anomalie congenite. Evidenza di ventricolo sinistro di aspetto ipertrofico con spessori parietali ai limiti
superiori. Ai limiti superiori le dimensioni dell'aorta ascendente. MONITORAGGIO PA 24 ORE: Evidenza di
ipertensione arteriosa sisto-diastolica di grado severo, costante nel corso della registrazione. Rialzo pressorio
notturno. Si segnala ritmo cardiaco tachicardico (FC media 24 ore: 140 bpm). Inizia quindi terapia medica con
Amlodipina, Metoprololo e Doxazosina fino a normalizzazione dei valori.
RISULTATI - Durante il ricovero le condizioni cliniche di Pietro sono progressivamente migliorate con
risoluzione graduale della sintomatologia a carico delle mani e ripresa del normale ritmo sonno-veglia. Per il
riscontro di valori pressori persistentemente elevati è stato sottoposto a valutazioni cardiologiche seriate ed è
stata impostata una terapia antipertensiva variata nel corso della degenza fino alla normalizzazione dei parametri
pressori. Nel corso della degenza sono stati eseguiti esami laboratoristici e strumentali volti alla definizione
eziologica che hanno messo in evidenza livelli di metanefrina ai limiti alti della norma e livelli di normetanefrina
superiori alla norma per cui si è posta indicazione a ripetere il dosaggio. In data 03/07 eseguita flebografia
selettiva delle vene renali con prelievo di renina, risultata uguale sia a dx che a sx. Il bambino è stato dimesso
con triplice terapia antiipertensiva con programma di follow-up multi specialistico. CONTROLLO
AMBULATORIALE DOPO SETTE GIORNI: Viene ripetuto il monitoraggio PA 24 ore che consiglia riduzione
dell’Amlodipina per valori diurni inferiori al 50° centile. Ripetizione di tutti gli esami ematochimici risultati
alterati nel corso del ricovero risultati poi nella norma (renina, aldosterone, catecolamine urinarie risultati nella
norma). Nel corso dell’estate è stata progressivamente ridotta la terapia sulla base di regolari misurazioni
domiciliari fino a nuovo controllo ambulatoriale a due mesi dalla dimissione dopo COMPLETA sospensione
della triplice terapia che conferma la normalità dei valori pressori e l’assenza di sintomatologia alle mani
(pruriginosa/dolorosa).
DISCUSSIONE - In letteratura non esistono descrizioni di casi di ipertensione arteriosa severa associata a
prurito incoercibile limitato alle mani. E’ evidente la presenza di anomalie della vascolarizzazione renale che, in
età pediatrica, sono state associate ad ipertensione arteriosa [1], confermata in questo caso anche dalla presenza
di ipertrofia ventricolare sinistra e iniziale dilatazione dell’aorta ascendente. Al momento il paziente, senza
alcuna terapia, presenta valori pressori nella norma. Il follow-up al momento è trimestrale. Speculiamo che
fattori esterni (virali? ambientali?) possano avere contribuito al marcato, temporaneo, incremento dei valori
pressori e di frequenza cardiaca, verosimilmente accentuato dalle anomalie vascolari renali congenite.
BIBLIOGRAFIA
[1] Giordano U et al: Relationships between renal vasculature abnormalities and arterial hypertension in children
and adolescents. Cardiology in the Young 2014; 24: S1 pag S59
181
12 P - UNA DIAGNOSI IMMEDIATA DI UNA CARDIOPATIA MOLTO RARA
Luigi Mesuraca, Antonio Belcastro, Massimo Bisceglia, Giuseppe Frandina, Anastasia Cirisano, Caterina
Crugliano, Vincenzo Antonio Poerio, Francesco Paravati
U.O.C. Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale “S. Giovanni di Dio”, Crotone
Introduzione : Il Tronco arterioso comune (TAC) è una malformazione cardiaca rara (il 2% delle cardiopatie
congenite) ed è il risultato della mancata settazione del tronco arterioso primitivo, dal quale normalmente
originano l’aorta e l’arteria polmonare. Sulla base dell’origine dei rami polmonari rispetto al tronco comune, si
distinguono quattro tipi di Truncus (I-IV). E’ sempre presente un ampio D.I.V. sottoaortico e la valvola truncale
è spesso displasica e presenta steno- insufficienza della stessa. L’instaurarsi della malattia vascolare polmonare è
assai precoce e la correzione chirurgica deve essere effettuata nel periodo neonatale. Le anomalie del tratto di
efflusso del cuore sono una caratteristica frequente nella Sindrome di Di George (SDG), contraddistinta da una
specifica alterazione genetica riconosciuta in una delezione in emizigosi del cromosoma 22, al locus 22q11.2,
che comporta un difetto embriogenetico delle strutture derivate dalla terza e quarta tasca branchiale. La SDG è
caratterizzata da ipo/aplasia del timo, ipo/aplasia delle paratiroidi, anomalie cardiache e dismorfismi facciali.
Caso clinico: Descriviamo il caso del piccolo Pasquale, nato a termine (peso: 2,900 Kg) da parto spontaneo e
gravidanza normocondotta (diagnostica fetale riferita nella norma) con primi atti fisiologici nella norma. Per la
presenza di scarsa reattività con tono muscolare valido e di un soffio mesosistolico di 3/6 sul mesocardio, viene
effettuato esame emogasanalitico che mostra valori nei limiti della norma (SatO2 98% ; pH 7.4; pO2 65 mm hg;
pCO2 30mm hg), Rx Torace che evidenzia “modesta cardiomegalia” ed ecocardiogramma che mostra: Situs
solitus, normali ritorni venosi sistemici e polmonari, D.I.V. sottoaortico con ampiezza di 6 mm, Tronco arterioso
unico con valvola displasica (quattro lembi) insufficiente con arterie polmonari destra e sinistra che nascono
molto ravvicinate tra loro dalla parete dorsale del tronco. Posta diagnosi di Truncus tipo II, il piccolo quindi
viene trasferito presso il più vicino Centro di Cardiochirurgia pediatrica, dove dopo dieci giorni viene sottoposto
ad intervento di correzione chirurgica. Contestualmente vengono effettuate indagini genetiche che permettono di
porre diagnosi di SDG
Conclusioni: Il Tronco arterioso comune ha un ‘incidenza di 1:11.000 nati (nati vivi, nati morti e interruzioni di
gravidanza dopo diagnosi prenatale), può associarsi nel 10% dei casi ad interruzione dell’arco aortico, il
trattamento chirurgico precoce permette di conseguire un basso tasso di morbilità e mortalità (5%) nelle
casistiche selezionate, invece senza l’intervento di correzione chirurgica l’exitus avviene quasi sempre nel primo
anno di vita. Pur considerando una malformazione cardiaca molto rara ed in assenza di una diagnosi prenatale,
è importante una diagnosi tempestiva dopo la nascita, anche in presenza di segni e sintomi clinici sfumati come
nel nostro caso, al fine di poter garantire l' intervento di correzione chirurgica in tempi rapidi.
Bibliografia
- Barata IA, (Aug 2013). ”Cardiac emergencies.” .Emergency medicine clinics of North America 31 (3):
677-704.
- “Persistent Truncus Arteriosus: Congenital Cardiovascular Anomalies : Merck Manual Professional”
Retrieved 2007-11-04
- “eMedicine-Truncus Arteriosus : Article by Doff Mc Elhinney, MD” Retrieved 2009-10-02
- Rodefeld M, Hanley F (2002).”Neonatal Truncus Arteriosus repair: surgical tecniques and clinical
management. “ Semin Thorac Cardiovasc. Surg Pediatr Card Surg Annu 5 (1) : 212-7.
182
13 P - ENCEFALOPATIA ACUTA SU BASE VEROSIMILMENTE IMMUNOLOGICA:
DESCRIZIONE DI UN CASO
Anastasia Cirisano, Paola Chiarello, Giuseppe Frandina, Nicola Lazzaro, Luigi Mesuraca, Concetta Rosso,
Raffaele Falsaperla**, Ferdinando Scalia**, Salvatore Bagalà*, Francesco Paravati
UOC Pediatria Neonatologia T.I.N., *U.O.C: Neuropsichiatria Infantile, Ospedale S. Giovanni di Dio, Crotone
*Unità Operativa di Pediatria e P.S.P. Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Vittorio Emanuele, Catania
PREMESSA L’encefalite: è una malattia infiammatoria acuta dell'encefalo dovuta a invasione virale diretta o ad
un processo di ipersensibilità causato da un virus. Può essere primitiva o costituire la complicanza secondaria di
un'infezione virale.
CASO CLINICO Sara, 2 anni e 6 mesi, giunge alla nostra osservazione per stato soporoso ed esantema
generalizzato. La piccola aveva presentato nei 3 giorni precedenti febbre elevata, vomito ed un probabile breve
episodio convulsivo la sera precedente il ricovero, trattato a domicilio con diazepam endorettale. All'ingresso la
paziente presentava marcata ipotonia generalizzata e stato soporoso
senza segni di irritazione meningea. Venivano eseguiti TC encefalo (negativa), EEG che mostrava segni di
alterazione corticosottocorticale diffusa, esame chimico-fisico e colturale del liquor (negativi), ricerca virologica
allargata (negativa), esami di routine nella norma.. Inizia terapia con ceftriaxone + desametazone+ acyclovir nel
sospetto di encefalite.
Nelle giornate successive si assisteva ad un graduale miglioramento della vigilanza, ma persistevano ipotonia
generalizzata marcata con ipostenia (la piccola non reggeva il capo, nè manteneva la posizione seduta, non
riusciva a girarsi nel letto), quasi assente la partecipazione all'ambiente, erano presenti movimenti stereotipati di
apertura della bocca con protrusione della lingua. Dopo 12 gg di degenza, per il persistere della sintomatologia,
la piccola veniva trasferita presso centro di Neurologia pediatrica. In tale sede venivano eseguiti RM encefalo ,
PCR per Herpes virus, amminoacidemia, aminoaciduria, aminoacidorachia, organicoaciduria, EMG, ricerca
degli anticorpi CASPR2, VOKCs, NMDA, risultati nella norma. Stante la negatività degli esami, veniva
intrapresa terapia con gammaglobuline e.v. alla dose di 2 gr/kg (due cicli a 7 giorni di distanza). Dopo tale
terapia la piccola presentava lento ma progressivo miglioramento delle condizioni generali fino ad una quasi
completa restitutio ad integrum delle funzionalità neuromotorie. Dopo un mese di degenza, la paziente veniva
rinviata presso la nostra U.O. con diagnosi di encefalopatia acuta su base verosimilmente immunologica, per il
proseguo del follow-up e della terapia riabilitativa. Negli ultimi controlli clinici la piccola non presenta
alterazioni neurologiche significative tranne un lieve ritardo del linguaggio.
DISCUSSIONE Segnaliamo questo caso in cui la diagnosi di encefalite su base verosimilmente immunologica
è stata formulata in base alla negatività degli esami e per la rapida risposta clinica in seguito alla
somministrazione delle immunoglobuline.
Bibliografia
Spatola M, Du Pasquier RA.
Immune system's role in viral encephalitis.
Rev Neurol (Paris). 2014;170(10):577-83
Britton PN, Dale RC, Booy R, Jones CA.
Acute encephalitis in children: Progress and priorities from an Australasian perspective.
J Paediatr Child Health. 2014 Jun 22.
183
14 P - IL CERCHIO DI GESSO DEL CAUCASO: GENITORI AGGUERRITI E BAMBINI CONTESI
Parisi Goffredo, Grasso Mario
Introduzione
“Il cerchio di gesso del Caucaso” è un’opera teatrale di B. Brecht del 1944, trasposizione di un’antica leggenda
orientale incentrata sull’amore genitoriale e la saggezza e sagacia del verdetto di un giudice, chiamato a
riconoscere la vera madre di un figlio conteso. Il riferimento artistico-letterario ben si presta ad introdurre la
problematica sottesa alla c.d. “Sindrome di Alienazione Parentale” o P.A.S., codificata nel 1985 da R. Gardner,
psichiatra forense alla Columbia University, e da allora più croce che delizia di famiglie, tribunali, psicologi e
società civile.
Tematica
Si sono passati in rassegna gli scritti più significativi prodotti sull’argomento dal mondo scientifico (contesto
legale, giudiziario, medico pediatrico, psicologico, psichiatrico, sociologico) ed i principali riferimenti legislativi
(legge 54/2006 sull’affido condiviso e successive proposte di legge modificative), nonché il tema della struttura
familiare post-separazione o divorzio da considerare “golden-standard” per l’affidamento del minore, alla luce
del suo diritto alla bi genitorialità e con riguardo a spazi, tempi e modalità di fruizione pratica realizzabili.
L’analisi e la chiave di lettura riflettono–pur nel rispetto delle esigenze di obiettività legate all’incandescenza
della materia- uno “stile di approccio” ermeneutico, euristico ed antropologico che promana dalla fondamentale
funzione di “advocacy” nei confronti del bambino (e la sua famiglia) che la moderna cultura dell’infanzia
assegna e sollecita al pediatra, assieme alla richiesta di un suo ruolo più attivo nella vicenda umana familiare e
giudiziaria, dalla sua insorgenza fino agli estremi sviluppi (fatti saldi ovviamente gli obblighi di legge relativi a
denuncia e segnalazione di reati).
Risultati-discussioni
Il destino finale della concettualizzazione di Gardner (relazione per versificata fra 3 attori principali, di cui 2 –
un genitore e un figlio- coalizzati ad escludere e “vilificare” l’altro genitore, in un intreccio relazionale spinto “in
extremis” fino all’assunzione da parte del figlio di un crudele non giustificato ruolo autonomo di “pensatore
indipendente” e “perverso polimorfo”, e col persistente contributo materno estremizzato al punto da meritarle la
attribuzione di “madre malevola”, definizioni che nella loro crudezza ed icasticità ripudiano totalmente una
volontà di estrema introspezione alla ricerca di un terreno psico-analitico e psico-dinamico in cui possa avvertirsi
un alito di sofferente solidarietà o un afflato di umana pietas, che illuminino e rendano comuni e degni di
memoria i destini dei “perdenti” e dei “battuti”) si può datare in tempi recentissimi (marzo 2014) alla ultima
edizione DSM-V della American Psychiatric Association, che sancisce in maniera netta ed irreversibile quello
che immaginificamente si può definire come il “crollo e disgregazione” di un monolito psico-giudiziario, che per
quasi 30 anni ha imperversato nelle aule dei tribunali col suo “malefico” manicheismo e con la sua granitica
compattezza, che tende a individuare sempre “due vittime ed un carnefice”, oppure “due carnefici ed una
vittima”, informando di sé e dei suoi devastanti effetti la sfera personale psicologica, sociale ed economica degli
attori coinvolti nella disputa.
Oggi, finalmente, grazie alla incorporazione nel DSM-V della alienazione parentale (A.P., terminologia da
preferirsi), non più integrale come strutturata da Gardner ma scomposta in frazioni, categorie e subspecificazioni, la lettura del fenomeno risulta più esatta ed aderente alle dinamiche individuali ed interattive tra i
singoli individui, che vengono a collidere e colludere in un incastro relazionale misconosciuto, complesso,
sfaccettato e più genuinamente e veridicamente specchio di una realtà che ci sensibilizza alle differenze e rende
più comprensibili a noi stessi ed agli altri il senso di quella umanità fragile, cangiante, multipla e continuamente
refratta che ci rende fratelli e sorelle o, all’occorrenza, nemici mortali. Metafore a parte, nella pratica è facile
prevedere di poter affrontare da oggi in maniera più efficace e produttiva la problematica, secondo una modalità
di approccio “caso per caso” che utilizza le diverse componenti di volta in volta esprimenti il coinvolgimento e
la qualità delle reazioni emotivo-comportamentali del figlio e le pulsioni legate ad una condizione psicopatologica del genitore che alimenta le reazioni stesse, con effetto disgregante. Un approccio “multi assiale”,
quindi, del fenomeno che sacrifica ogni riferimento ad una definizione e, di conseguenza, ad una “prassi
unificante” che, nei tempi, si è dimostrata inadatta a descrivere, integrare e comporre le controversie,
contenendone gli esiti distruttivi immediati (fenomeno della “nuova povertà” o vera e propria indigenza in cui
versano oggi quasi un milione di ex-coniugi, madri e soprattutto padri, ridotti in miseria e non più in grado di
garantire né il figlio co-affidato né se stessi) e a distanza (“outcomes” evolutivi sfavorevoli, ampiamenti
dimostrati nel figlio di genitori separati ed altamente conflittuali dalla letteratura scientifica più qualificata).
Conclusioni
La P.A. è un chiaro esempio di problematica per il cui trattamento è indispensabile una stretta cooperazione tra
sistema giuridico, psicologico e Stato. Gli psicologi hanno bisogno del potere del tribunale perché le loro
raccomandazioni siano attuate; i tribunali, invece, hanno bisogno che i professionisti mettano in atto le terapie
adeguate. Gli uni e gli altri hanno bisogno dello Stato per garantire sul piano del pensiero, legislativo ed attuativo
più ampi progetti/programmi di sostegno e recupero delle ex-parti in causa, in primis il bambino, prima vittima,
che non devono essere abbandonati a se stessi dopo la tempesta che ne ha sconvolto le vite. In quest’ottica, è del
tutto indispensabile lavorare per pervenire al tanto atteso Tribunale Unico per la Famiglia ed i Minori, sede
potenziale di centralizzazione, velocizzazione, specializzazione ed umanizzazione dei procedimenti (e questa è
una competenza squisitamente legislativa).
184
È auspicabile un maggior ricorso all’istituto della mediazione legale, se non pre-separazione/divorzio, almeno
certamente pre-affido condiviso, utile a cercare di ridurre il contenzioso e il disallineamento tra livelli diversi di
qualità di patrocinio assistenziale tra le parti, legati a livelli diversi di rappresentatività professionale e
disponibilità economiche. Tale sperequazione troppo spesso esita in logiche di “truth of triumph”, anziché in
“triumph of truth”, come nelle parole di un avvocato americano: “la P.A.S. è il sogno dell’avvocato della difesa:
più grande è la prova del crimine, più grande sarà la prova della difesa”.
È da ricercare un più maturo, responsabile e condiviso sforzo di giudici, avvocati e consulenti CTU e CTP, teso
al rinvenimento di un “collante etico comune”, finalizzato a fare emergere dal “deserto” della conflittualità (che
proprio in tribunale trova la sede naturale di estremizzazione di quella “guerra ritualizzata” tra ex-coniugi, in
ragione delle sue intrinseche caratteristiche di struttura e funzionamento) eventuali spazi residuali di genitorialità
positiva, su cui puntare per una azione “salvifica” e di recupero del diritto primario del bambino a ricevere
attenzione, sostegno, cure ed amore lungo tutto l’arco del suo cammino evolutivo, ed oltre.
È da sollecitare che le Istituzioni approntino sostanziali programmi di accompagnamento, supporto e indirizzo
sul piano psicologico, sociale ed economico per i c.d. “reduci” della P.A., finalizzati non ad astratti aspetti di
redenzione, perdonismo, socialitarismo ma semplicemente ad edificare un sistema di welfare più avanzato e
protettivo.
Sarà opportuno infine non “perdere d’occhio” l’esistenza e le competenze della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, sempre presente a rivalutare e spesso ribaltare le sentenze dei singoli Stati ed infliggere sanzioni, e
rivolgere massimo ascolto ed attenzione ad organizzazioni sovranazionali ed associazioni di volontariato non
governative più o meno note, come UNICEF, Colibri, Telefono Arcobaleno e – “last but not least”- Papi- gump,
recentemente scesa in campo per la tutela appassionata della bi-genitorialità e dei diritti dei Padri ex-coniugi,
passati attraverso l’esperienza devastante vissuta tra alienazione, tribunali ed esiti processuali, “più grigi ma non
domi”, come canta (il poeta) Claudio Baglioni, in difesa di principi e diritti comuni.
Bibliografia essenziale
- Gardner R.A.: “Recent trends in divorce and custody litigation”. Academy Forum (A Publication of the
American Academy of Psychoanalysis) 1985; 29: 3-7
- Kelly J.B., Johnston J.R.: “The alienated child: a reformulation of parental alienation syndrome”.
Family Court Review, 2001; 39: 249-67
- Bernet,W.: “Parental alienation disorder and DSM-V”. American Journal of Family Therapy, 2008; 36:
349-66
- Verde A., Passoni E.: “la consulenza tecnica di parte nelle cause di separazione e divorzio fra psicologia
forense e psicologia clinica”. Rassegna Italiana di Criminalogia, fasc. 3 n. 3/2009: 1-23
- Camerini G.B., Magro T., Sabatella U., Volpini L.: “La parental alienation: considerazioni cliniche,
nosografiche e psicologico-giuridiche alla luce del DSM-5”. Giorn. Neuropsich. Età Evolut., 2014; 341:
1-xxx
- Parisi G.: “Una pediatria per la società che cambia: criticità assistenziali attuali, “New-Morbidity”,
Sindrome di alienazione parentale. II Convegno Nazionale “Papi gump”- Diritti dei minori tra tutela e
violazione; Vasto, 6/09/2014 (Atti).
185
15 P - POLMONITI RICORRENTI E BRONCHIECTASIE (BE) NON CORRELATE A FIBROSI
CISTICA: STUDIO PEDIATRICO RETROSPETTIVO CASO-CONTROLLO
Mara Lelii, Benedetta Longhi, Claudio Codecà, Claudio Pelucchi1, Claudia Tagliabue, Maria Francesca
Patria, Susanna Esposito
Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura, Dipartimento di Fisiopatologia e dei Trapianti, Università degli Studi
di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano; 1Dipartimento di
Epidemiologia, IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Milano.
Introduzione
Le BE sono caratterizzate da una dilatazione bronchiale permanente, su base prevalentemente infiammatoria. La
loro frequenza risulta in costante aumento, anche per le migliorate capacità diagnostiche. Tra le cause che
sottendono lo sviluppo delle BE, le infezioni ricorrenti delle basse vie aeree, patologia relativamente frequente
anche nel bambino sano, costituiscono un importante fattore di rischio. Tuttavia non tutti i bambini affetti da
polmoniti ricorrenti sviluppano successivamente questa complicanza bronchiale. Scopo del lavoro è descrivere le
caratteristiche cliniche di bambini con polmoniti ricorrenti e BE e valutare la presenza di eventuali condizioni
che ne predispongono lo sviluppo.
Metodi
Abbiamo quindi studiato 21 casi (14 maschi, età media: 12.2  4.5 a) e 21 controlli affetti da polmoniti
ricorrenti, senza evidenzia di BE alla TC torace (13 maschi, età media: 9.2  3.9 a, p=0.03). I bambini affetti da
fibrosi cistica sono stati esclusi dallo studio. Tutti i soggetti esaminati sono stati indagati per deficit immunitario,
allergopatia, sinusite con sindrome rino-discendente, asma, discinesia ciliare primitiva (DCP), reflusso
gastroesofageo (GERD), cardiopatia; i dati clinici (età gestazionale, peso neonatale, età prima polmonite, n°
polmoniti ed episodi di wheezing prima della diagnosi, i valori di FEV1, FVC, FEF25-75 alla prima
spirometria) e demografici (n° fratelli, età inserimento in comunità) sono stati riportati in un database
appositamente sviluppato.
Risultati
Le BE erano di tipo cilindrico nell’ 85.7% ed avevano una distribuzione focale in 14/21 casi (66.6%),
unilaterale in 2/7 e bilaterale in 5/7. Una patologia predisponente è stata trovata nel 95% dei casi: sinusite
cronica nell’81%, wheezing/asma nel 71.4%, allergia nel 61.9%, GERD nel 28.6%, immunodeficit, cardiopatia
congenita e prematurità nel 14.3%. Solo un paziente era affetto da DCP. Nessun paziente presentava
malformazioni delle vie aeree o ritenzione di corpo estraneo. Non sono state trovate differenze nella prevalenza
della patologia predisponente tra casi e controlli. La spirometria, eseguita ad un’età media di 7 anni (range 5-12
anni) nei casi e di 6.8 anni (range 5-11 anni) nei controlli, mostrava valori di FEV1 e FEF 25-75
significativamente più bassi nei casi (FEV1: 77.9%, vs 96.8%, p=0.004; FEF 25-75: 69.3% vs 89.3% p= 0.048)
con reversibilità farmacologica nel 31% dei casi e nel 9% dei controlli.
Conclusioni
La sinusite cronica, la patologia ostruttiva delle vie aeree (asma/wheezing) e l’allergia sono le patologie più
rappresentate sia nei casi sia nei controlli. Rispetto ai controlli i casi sembrano avere una spirometria alterata,
prevalentemente in senso restrittivo, probabilmente preesistente allo sviluppo delle BE e verosimilmente non
correlata all’estensione del danno bronchiale, che nella nostra casistica è relativamente contenuto.
Bibliografia:
2) Chang AB, Brown N, Toombs M, Marsh RL, Redding GJ. Lung disease in indigenous children. Pediatr
Respir Rev 2014 doi: 10.1016/j.prrv.2014.04.016. [Epub ahead of print]
3) Patria MF, Longhi B, Tagliabue C, Tenconi R, Ballista P, Ricciardi G, Galeone C, Principi N, Esposito E.
Clinical profile of recurrent community-acquired pneumonia in children. BMC Pulm Med 2013; Oct 10;13:60.
doi: 10.1186/1471-2466-13-60.
186
16 P - UNA FEBBRE CHE NON PASSA
Pietrangiolillo Z. 1 , Predieri F.1, Martignoni L.1, Zagni G. 1, Di Biase A.R. 2, Iughetti L. 1,2
(1)
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia
(2)
U.O. Pediatria,Az. Osp. Universitaria, Policlinico Modena
X.Y., 14 mesi, veniva trasferito presso il nostro Ospedale per febbre da 10 giorni ed epatosplenomegalia, trattata
con amoxicillina senza beneficio.
All’ingresso in Reparto, il piccolo si presentava febbrile con pallore cutaneo, soffio sistolico 2/VI, più accentuato
all’apice, fegato palpabile a 3 cm dall’arcata e milza a 2 cm. Gli esami ematici mostravano un quadro di
pancitopenia (GB 5.28 migl/ul; N 24.7%, GR 3.47 mil/ul; Hb 7,3 g/dl, PLT 91 migl/ul), con incremento degli
indici di epatocitolisi (GOT 106 U/l; GPT 171 U/l) e di flogosi (PCR 3,16 mg/dl); l’ecografia addome
evidenziava epatosplenomegalia con milza disomogenea per presenza di diffuse lesioni nodulari ipoecogene;
ECG, ecocardiografia ed Rx torace nella norma.
In considerazione al quadro di epatosplenomegalia, febbre persistente e pancitopenia abbiamo effettuato:
sierologia microbiologica negativa per Borrelia, Bartonella, Leptospira, Toxoplasma, Leishmania Infantum;
mieloaspirato: “cellularità ridotta, serie midollari equilibrate, maturanti. Non si osservano immagini riferibili a
Leishmanie”; PCR su sangue midollare positiva per EBV (compatibile con riattivazione in corso di altra
infezione) e per Leishmania spp. negativa per CMV, HSV1, HHV6, Parvovirus B19, HHV8; PCR per
Leishmania su sangue periferico positiva. Fatta diagnosi di Leishmaniosi, è stata impostata terapia con
Amfotericina B liposomiale (Ambisome): 5 mg/kg/die ev il giorno 1 + 3 mg/kg/die ev nei giorni 2-7 e 14 e 21
con sfebbramento a 48 ore dall’inizio della terapia e miglioramento dell’epatosplenomegalia.
La leishmaniosi è una parassitosi, causata da protozoi del genere Leishmania trasmessi all’uomo da insetti
ematofagi, che trovano il serbatoio d’infezione in diversi mammiferi (cani, roditori, ecc). Interessa 12 milioni di
persone al mondo, principalmente nei Paesi in via di sviluppo e si può manifestare in 4 forme cliniche: cutanea,
muco cutanea, viscerale e cutanea diffusa.
La Leishmaniosi viscerale o Kala-azar, è sostenuta principalmente da L. infantum nel bambino e L.
donovani nell’adulto. Dopo l’inoculo nell’uomo i promastigoti perdono il flagello e vengono fagocitati dalle
cellule del reticolo-endoteliale in forma di amastigoti, si moltiplicano e, dopo aver distrutto la cellula ospite,
diffondono nei tessuti, trasportati dai macrofagi, localizzandosi a livello delle cellule reticolo-endoteliali di
fegato, midollo osseo, linfonodi, milza e reni. Sequestro splenico, emopoiesi inefficace per infiltrazione
midollare e produzione di IL-10 da parte dei macrofagi parassitati sono i principali meccanismi patogenetici alla
base della pancitopenia. A tali manifestazioni si possono associare ipergammaglobulinemia, epatosplenomegalia,
aumento delle transaminasi, e sintomi sistemici come febbre intermittente, perdita di peso, astenia,
linfadenopatia, diarrea ematica, ritardo di crescita ed elevato rischio di sovrainfezioni. Più frequentemente
colpisce bambini al di sotto dei 2 anni di età con sistema immunitario ancora immaturo, oppure soggetti
immunodepressi.
Gli amastigoti di Leishmania possono essere identificati direttamente o dopo cultura da campioni biologici: nelle
forme viscerali si esaminano l'aspirato splenico (esame più sensibile) o il midollo osseo (meno sensibile del
puntato splenico ma impiegata più spesso perché ritenuta meno pericolosa). Altra possibilità è la PCR su striscio
midollare o su sangue periferico. La conferma indiretta di infezione tramite ricerca di anticorpi specifici ha
sensibilità variabile e percentuale non trascurabile di falsi positivi.
Attualmente, in Italia, la terapia di scelta si basa sull’impiego di amfotericina B liposomiale. Gli schemi di
trattamento proposti in letteratura sono diversi: 3 mg/kg/die nei giorni 1-5, 14 e 21, oppure 3 mg/kg/die ev nei
giorni 1-5 e 10 oppure 10 mg/kg/die ev per 2 giorni, oppure 5 mg/kg/die ev il giorno 1 poi 3 mg/kg/die ev nei
giorni 2-7, 14 e 21. Il miglioramento clinico e la scomparsa di febbre si possono già osservare dopo una
settimana dall’inizio del trattamento, mentre la guarigione completa si ha generalmente dopo 4-6 settimane, con
progressiva normalizzazione del quadro ematologico e riduzione della splenomegalia.
-
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Elmahallawy EK, Sampedro Martinez A et al (2014): Diagnosis of leishmaniasis. J Infect Dev Ctries Aug
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infantile visceral leishmaniasis: the Italian experience. J Antimicrob Chemother 54;217
187
17 P - MORBO DI GRAVES E PERDITA DI PESO: SOLO IPERTIROIDISMO?
(Un caso di malattia di Graves e carcinoma papillare tiroideo in età pediatrica)
Moira Alessandra Pinotti 1, Francesca Cortinovis, 1, Fabiana Codazzi2, Ilenia Pirola3, Cesare Antonio Ghitti1
1
Unità Operativa di Pediatria A.O Bolognini di Seriate, 2 Unità Operativa di Radiologia A.O Bolognini di
Seriate, 3 Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Unità Endocrina e Metabolica, Università di Brescia
INTRODUZIONE. L’ipertiroidismo è un'entità clinica rara in età pediatrica ed ancora più rari sono i casi
segnalati in letteratura di carcinoma tiroideo nel contesto di malattia di Graves in pazienti pediatrici.
CASE REPORT: Un ragazzo rumeno di 15 anni, portatore di HBs antigene, viene ricoverato presso il nostro
reparto per un grave calo ponderale negli ultimi 3 mesi (circa 20 Kg), già indagato dal curante mediante esami
ematici di routine, risultati negativi. Nella sua storia familiare e personale non vi è nulla di significativo da
annotare, fatta eccezione per l’epatite B della madre. L’obiettività clinica all’ingresso risulta apparentemente
nella norma, ma i parametri vitali evidenziano tachicardia a riposo (FC 124 bpm) ed ipertensione arteriosa (P.A
147/88 mmHg). Gli esami di laboratorio vengono estesi alla funzionalità tiroidea con dimostrazione di un quadro
di ipertiroidismo conclamato associato alla presenza di anticorpi anti recettore del TSH (TRAb): viene posta
diagnosi di malattia di Graves ed intrapresa terapia con metimazolo, ben tollerata. L'ecografia tiroidea mostra
tuttavia la presenza di linfonodi cervicali a destra con caratteristiche sospette per malignità (figura): mentre il
quadro clinico è in progressivo miglioramento, il follow-up diagnostico prosegue con l'esecuzione di una
citologia agosaspirativa (FNAC) a carico di un linfonodo a livello VI destro, che evidenzia la localizzazione di
metastasi di tumore primitivo tiroideo papillare. Il ragazzo viene sottoposto a tiroidectomia totale associata a
linfoadenectomia cervicale destra ed a distanza di 2 mesi viene eseguita terapia con iodio 131 a scopo di
radicalizzazione della tiroidectomia e completamento della stadiazione. Il ragazzo gode attualmente di buona
salute ed è in terapia sostitutiva con levotiroxina associata a calcio carbonato e calcitriolo per ipoparatiroidismo
secondario transitorio. DISCUSSIONE: gli insegnamenti offerti da questo caso clinico sono fondamentalmente
due: innanzitutto il percorso diagnostico di un calo ponderale in un adolescente non può prescindere dalla
valutazione della funzione tiroidea anche in assenza dei tipici fattori di rischio (sesso femminile, familiarità per
tireopatie, coesistenza di altre patologie autoimmuni) e dei segni classici (gozzo). In secondo luogo accanto al
pediatra anche il radiologo svolge un ruolo chiave nella gestione di questi casi: le caratteristiche ecografiche
tipiche della malattia di Graves possono rendere più complessa l’interpretazione e quindi il riconoscimento di
quei caratteri indicatori di malignità istologica. Questa difficoltà, in aggiunta alla dibattuta associazione tra
malattia di Graves e carcinoma tiroideo ampiamente dibattuta nella popolazione adulta, impone un approccio
diagnostico aggressivo nei confronti di questi pazienti con l’esecuzione di FNAC nei casi dubbi.
Figura Linfonodi laterocervicali con componenti cistiche intranodali, tipiche del carcinoma papillare tiroideo
BIBLIOGRAFIA
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188
18 P - UN CASO RARO DI CONFUSIONE MENTALE IN UN ADOLESCENTE
Marco Pitea (1), Francesca Garbarino (2), Chiara Chantal Figini (1), Elisabetta Veronelli (1), Giovanni
Montrasio (1)
(1) Dipartimento Materno Infantile – UO di Pediatria - Azienda Ospedaliera Ospedale di Busto Arsizio –
Presidio di Saronno
(2) Unità di Terapia Intensiva Neornatale – Dipartimento Materno Infantile - Università degli Studi di Milano
Fondazione IRCCS ‘Ca Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano
INTRODUZIONE
L’incidenza dello stroke in età pediatrica è di 3-10 casi/100.000 bambini l’anno, in aumento negli ultimi decenni;
sebbene sia considerato raro ha una frequenza superiore ai tumori cerebrali ed è una delle prime 10 cause di
morte in età infantile.
METODI E RISULTATI
A.G. è un ragazzo di 16 anni, condotto in pronto soccorso per confusione mentale ed afasia. Alla visita si
presentava in lieve stato confusionale, spaventato: riferiva difficoltà nel pronunciare adeguatamente le parole
lette. L’eloquio era rallentato con lacune mnesiche, afasia e disfasia per alcuni vocaboli. L’esame neurologico è
risultato nella norma, così come la restante obiettività e i parametri vitali. Venivano eseguiti esami ematochimici
in urgenza, ricerca di sostanze stupefacenti sulle urine e TAC encefalo, risultati negativi. A. è stato quindi
successivamente sottoposto ad Angio-RM intracranica e RMN cerebrale con contrasto, che mostravano due aree
riferibili a lesioni ischemiche recenti. L’Ecocolordoppler TSA, l’ECG e l’ecocardiogramma transtoracico erano
privi di alterazioni. L’EEG basale rilevava modesti rallentamenti theta, talora di aspetto irritativo aspecifico,
prevalenti a livello emisferico sinistro. Veniva pertanto intrapresa terapia con Cardioaspirina ed Eparina a basso
peso molecolare (Enoxaparina). Lo screening trombofilico ha mostrato iperomicisteinemia ed elevazione del
fattore VIII (203%, v.n. 65-140%). Screening autoanticorpale nella norma. La ricerca di mutazioni della
MTHFR C667T è risultata positiva in omozigosi. Il bubble test è risultato patologico per cui ha eseguito
ecocardiogramma color-doppler transesofageo che evidenziava presenza di cribrosità del setto interatriale, con
shunt destro-sinistro.
A breve distanza è stata ripetuta RMN encefalo con contrasto con quadro precedente notevolmente migliorato e
riscontro a livello dell’emisfero cerebellare sinistro di alterazioni compatibili con antichi esiti ischemici.
Durante la degenza A. mostrava un progressivo miglioramento delle condizioni cliniche: l’eloquio era più
fluente, nonostante permanessero piccoli errori nella lettura. Dimesso con terapia antiaggregante al domicilio e
presa in carico in Centro di III livello.
DISCUSSIONE
I più frequenti fattori di rischio di stroke in età pediatrica sono rappresentati da cardiopatie, vasculopatie,
disordini ematologici e infezioni. L’associazione di più fattori predisponenti può determinare un aumento del
rischio di recidiva e di mortalità. E’ necessario, quindi, indagare tutte le possibili cause e intervenire su quelle
potenzialmente trattabili.
BIBLIOGRAFIA
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189
19 P - POLIURIA E POLIDIPSIA... MA NON DIABETE!
Predieri F.1, Martignoni L.1, Pietrangiolillo Z. 1, Zagni G. 1, Guerra A. 1,2, Dozza A. 1,2, Iughetti L. 1,2
(1)
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia
(2)
U.O. Pediatria, Az. Osp. Universitaria, Policlinico Modena
XY, 10 anni, accedeva al PS per polidipsia (circa 3.5 – 4 litri/die) associata ad enuresi dall’età di 3 anni, con
riscontro agli esami ematici di alterazione degli indici di funzionalità renale (creatinina 2.6 mg/dl, urea 99
mg/dl). Anamnesi famigliare negativa per patologie di pertinenza nefrologica. All’arrivo X si presentava in
buone condizioni generali e di idratazione, con obiettività generale nella norma. Crescita staturale ai percentili
superiori, in linea con il target genetico, lieve eccesso ponderale (peso 40 kg, altezza 142 cm, BMI 19.8, BSA
1.25 m2), prepubere. Gli esami ematochimici hanno confermato il quadro d’insufficienza renale con GFR
calcolato pari a circa 30 ml/min (insufficienza renale di grado moderato/severo) e hanno inoltre evidenziato
moderata anemia (Hb 11.1 g/dl, MCV 75.6 fl, sideremia 52 mcg/dl), incremento del valore di paratormone (PTH
409.7 pg/ml) con insufficienti livelli di vitamina D (11.7 ng/ml), iperuricemia (7.6 mg/dl), iperaldosteronismo (>
1000 pg/ml) e iper reninemia (310.2 microU/ml), nella norma gli elettroliti sierici. All’EGA venosa riscontro di
lieve acidosi metabolica con bicarbonati nella norma (pH 7.26, bicarbonati 25.7 mmol/L). All’esame urine
ipostenuria (PS 1005), iposmolarità (201 mOsm/kg), incremento della beta 2 microglobulina urinaria (16.30
mg/L). La raccolta urinaria delle 24 ore ha inoltre evidenziato la presenza la presenza di natriuria (FeNa 2.59),
potassiuria (FeK 48.4), UNa/UK 2.1, proteinuria (810 mg/die, 648 mg/m2/die, PrU/CrU 1.1), microalbuminuria
(> 70 mig/ml). Il monitoraggio pressorio si è mantenuto al di sotto del 90° percentile, l’holter pressorio è
risultato nella norma, la diuresi era di circa 4 ml/kg/h con corrispondente apporto idrico. L’ecografia renale ha
evidenziato la presenza di bilaterale diffusa ed uniforme iperecogenicità della componente corticale, suggestiva
di nefronoftisi, con reni di dimensioni nei limiti di norma. Il fondo oculare è risultato nella norma. Alla luce dei
dati anamnestici, laboratoristici e strumentali è stato posto il sospetto di nefronoftisi associata a quadro di
insufficienza renale cronica di grado moderato-severo. L’analisi genetica ha confermato mutazione a carico del
gene NPHP1. E’ stata impostata terapia con bicarbonato di sodio, eritropoietina, calcitriolo, solfato ferroso; dieta
iposodica e controllato apporto proteico.
La nefronoftisi (NPH) o malattia cistica autosomica recessiva della midollare renale è una nefropatia tubulointerstiziale cronica, principale causa di insufficienza renale cronica in bambini di età superiore ai 5 anni.
La prevalenza è 1/100.000 individui con un’incidenza del 10-15%. Condivide caratteristiche cliniche e
anatomopatologiche con altre malattie cistiche del rene, da cui tuttavia differisce per le ridotte dimensioni renali
e per la predominanza dei fenomeni fibrotici. Tutte le varianti di NPHP sinora descritte hanno in comune il
caratteristico pattern istologico di un diffuso infiltrato cellulare, con presenza di fibrosi, disintegrazione della
membrana basale tubulare, atrofia dei tubuli e formazione di cisti corticomidollari.
La modalità di trasmissione è autosomica recessiva e ad oggi sono stati identificati 9 geni responsabili di
diverse forme (NPH1-NPH9) di tubulo-interstiziopatie associate a varie manifestazioni extrarenali.
La malattia è eterogenea sia dal punto di vista clinico che genetico, ne sono descritte tre forme principali:
La nefronoftisi giovanile, denominata anche nefronoftisi tipo 1 (NPH1), costituisce la forma più frequente. Il
locus del gene è localizzato sul cromosoma 2q12-q13. Evolve verso l'insufficienza renale terminale prima dei
15 anni ed è la causa del 15% dei casi di insufficienza renale terminale infantile. I primi segni compaiono dopo i
2 anni, con un difetto di concentrazione dell'urina, responsabile della poliuria e della polidipsia, del ritardo della
crescita e del deterioramento progressivo della funzione renale, senza segni di malattie glomerulari. L'ecografia
renale evidenzia reni di dimensioni normali. Si possono associare sintomi extrarenali: degenerazione retinica,
deficit cognitivo, atassia cerebellare, anomalie ossee o coinvolgimento epatico.
La nefronoftisi infantile, denominata anche nefronoftisi tipo 2 (NPHP2), il cui gene è stato localizzato sul
cromosoma 9q22-q31, è una nefropatia tubulo-interstiziale cronica che si associa a microcisti corticali che
evolvono verso l'insufficienza renale terminale prima dei 5 anni.
La forma a esordio tardivo, detta anche nefronoftisi adolescenziale o di tipo 3 (NPHP3), è quella più rara, con
segni clinici e istologici simili a quelli della forma giovanile, ma l'insorgenza dell'insufficienza renale terminale
si verifica più tardi, mediamente a 19 anni.
L’ecografia è il mezzo diagnostico strumentale migliore per porre un sospetto diagnostico: nei casi in cui le
cisti sono assenti sono indicative immagini di reni iperecogeni, di dimensioni lievemente ridotte. Nel 70% dei
casi sono visibili cisti di diametro variabile da 1 a 15 mm, soprattutto alla giunzione corticomidollare e nella
midollare. Le cisti compaiono tardivamente, ma possono essere osservate anche in fase precoce di malattia.
Non sono al momento disponibili terapie specifiche, pertanto è importante effettuare una precisa diagnosi
con un attento follow-up presso centri specialistici per ritardare la progressione verso l'insufficienza renale
terminale e minimizzare le complicazioni secondarie.
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- Pathogenic NPHP5 mutations impair protein interaction with Cep290, a prerequisite for ciliogenesis.
Marine Barbelanne, Jenny Song et al. Hum Mol Genet. 2013 June 15; 22(12): 2482–2494
190
20 P - UNO NESSUNO CENTOMILA: UN CASO DI ERITEMA MULTIFORME
Mario Rubino(1), Monica Airoldi(1), Rosaria Longo(1), Moira Pinotti(1), Rita Pulvirenti(1), Silvia Rossi(1),
Alberto Rossi(2) Maria L. Scognamiglio(1), Cesare Ghitti(1).
(1)U.O. Pediatria, Azienda Ospedaliera Bolognini Seriate (BG).
(2)U.O. Medicina Interna Ospedale Alzano L.do (Bg), Azienda Ospedaliera Bolognini Seriate (BG).
INTRODUZIONE
L'eritema multiforme (E.M.) è una malattia infiammatoria immunomediata, caratterizzata clinicamente da
un'eruzione cutanea simmetrica con estensione delle lesioni sparse su tronco, volto e gambe, il più delle volte ad
esordio con una macula rossa o placche orticaroidi presenti anche sulle mucose in particolar modo sul margine
vermiglio delle labbra. Tale sintomatologia appartiene ad un ampio spettro clinico di malattie. [1]
MATERIALE E METODI
Nel febbraio 2014 giunge alla nostra osservazione Matteo 14 anni, di origine caucasica, in anamnesi neonatale e
patologica remota nulla di rilevante; con presenza di congiuntivite bilaterale, lesioni a bersaglio nelle regioni
palmo-plantare con elementi presenti in regione dorsale, sul viso e scrotale, mucosite al cavo orale, chelite e
fissurazione labiale (Vedi Figure). In anamnesi patologica prossima comparsa di febbre e tosse 4 giorni prima e
posto in trattamento con amoxicillina + ac clavulanico prima, ceftriaxone poi, e come antipiretico Metamizolo
Sodico. Riferito anche unica assunzione di paracetamolo-clorfeniramina (Zerinol). Gli esami di laboratorio
mostrano normalità di emocromo, Hb, PLT, elettroliti, marker epatici, fibrinogeno, ves, coagulazione, tampone
auricolare; virologici (HbsAg, EBV, HCV, HAV, CMV, HSV, Coxakie IgM dubbie, IgA ed IgG neg),
toxoplasma. Positivi invece PCR, IgM anti mycoplasma, esame colturale del tampone congiuntivale per
staphilococcus aureus. Per quanto riguarda gli esami strumentali: RX Torace, ECG, Ecocolor doppler cardiaco
negativi, all'Eco addome presenza di fegato ai limiti superiore di norma per dimensione e con ecostruttura a
caratteristico aspetto “a cielo stellato”, negativo il resto. Il ragazzo nel dubbio di una infezione batterica veniva
sottoposto a diversi trattamenti nel tentativo di risolvere il quadro clinico; pertanto come terapia veniva praticata
Azitromicina, Vancomicina, Netildex collirio, Vigamox collirio. Venivano eseguita anche consulenza
dermatologica che indirizzavano verso un E.M. e consulenze oculistiche per coinvolgimento oculare.
RISULTATI
Durante la degenza si è assistito ad un costante miglioramento delle condizioni generali e della sintomatologia
clinica, con lento ma costante miglioramento della congiuntivite e dell'E.M. anche a livello orale e scrotale.
DISCUSSIONE
Le ipotesi diagnostiche iniziali hanno preso in considerazione una staphylococcal scalded skin syndrome (SSSS),
non escludendo però una sindrome di Stevens-Johnson (SJ), o una Epidermiolisi bollosa tossica (EBT). Nel caso
di SSSS in realtà la non gravità della sintomatologia clinica, il non coinvolgimento sistemico, e nel nostro caso il
coinvolgimento della mucosa orale, (peraltro assente in corso di SSSS) , l'assenza di dolorabilità cutanea, o del
segno di Nikolsky [1], ci hanno fatto abbandonare tale ipotesi, orientandoci più su un SJ o EBT. Pertanto
abbiamo sospeso la terapia antibiotica intrapresa continuando con emollienti cutanei e durante la degenza
abbiamo assistito ad un lento ma costante miglioramento clinico. Nel corso degli anni, in base all'andamento
clinico, sono state identificate 3 varianti di E.M.: Classica, Ricorrente e Persistente.[2] Nel nostro caso si tratta di
una forma classica legata nel 90% dei casi ad infezioni di HSV o Mycoplasma. Non ci sono allo stato test
diagnostici specifici per E.M.; la diagnosi è puramente clinica e supportata, se necessario, dalla biopsia cutanea.
Il trattamento è sintomatico. Nei casi attribuibili a virus o batteri è utile l'utilizzo di antivirali o antibiotici; nei
casi attribuibili a reazioni avverse ai farmaci è necessaria invece l'immediata sospensione del farmaco ritenuto
responsabile [3]. Nel nostro caso è risultato positivo gli Ab-anti mycoplasma è stato riscontrato l'utilizzo di un
farmaco potenzialmente responsabile per E.M. Il paracetamolo-clorfeniramina. E' dunque probabile che nel
nostro paziente l'associazione temporanea di entrambi possa aver dato origine alla risposta immuno-mediata
responsabile dell' eritema multiforme.
BIBLIOGRAFIA
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191
21 P - IL METODO DELLA CONTA DEI CARBOIDRATI NELLA GESTIONE DEL DIABETE DI
TIPO 1
Ernesto Saullo (1), Mimma Caloiero (1), Anna Cerchiaro (2), Francesca Saullo (3), Raffaella Pulice (4)
(1) U.O. Pediatria, Presidio Ospedaliero “Giovanni Paolo II”, Lamezia Terme ASP CZ
(2) Servizio Dietetico, Direzione Sanitaria A.O. “Pugliese-Ciaccio”, Catanzaro
(3) Centro Regionale di Documentazione e Informazione sul Farmaco, Policlinico Universitario “Mater
Domini”, Catanzaro
(4) Corso di Laurea in Dietistica, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro, Dipartimento di Scienze
Mediche e Chirurgiche
INTRODUZIONE: la terapia nutrizionale riveste un ruolo essenziale nella gestione della malattia diabetica e del
suo autocontrollo, numerosi studi, infatti, hanno dimostrato che, se una corretta alimentazione si associa alla
terapia farmacologica ed educazionale può rappresentare un’ importante strumento per il raggiungimento di un
buon compenso metabolico. Nel 1994, l’American Diabetes Association (ADA), evidenzia l’importanza della
terapia dietetica (Medical Nutrition Therapy), non più vista come un rigido schema, spesso povero di carboidrati
ed uguale per tutti, ma come una terapia individuale e personalizzata, necessaria al paziente diabetico per
ottenere e mantenere il compenso metabolico ottimale, migliorare lo stato di salute e raggiungere i fabbisogni
nutrizionali individuali. Nel corso degli ultimi anni l’alimentazione del paziente diabetico è radicalmente
cambiata, si è passati da diete estremamente ipoglucidiche, per altro prive di benefici per il compenso glicometabolico specie nei diabetici di tipo 1, a schemi dietetici caratterizzati da quote costanti di carboidrati; i nuovi
approcci nutrizionali, come la “conta dei carboidrati”, si basano invece sulla pianificazione dei pasti e del loro
contenuto glucidico. I carboidrati rappresentano il principale nutriente che determina il fabbisogno insulinico per
ogni pasto effettuato, infatti, anche se parte delle proteine e dei grassi vengono metabolizzate in glucosio, il loro
apporto alla quantità di carboidrati assorbiti nel periodo post-prandiale è relativamente scarsa. Pertanto, il calcolo
dell’apporto glucidico di ogni pasto è di grande importanza per stimare in modo preciso il fabbisogno insulinico,
che viene adattato ai fabbisogni del paziente.
MATERIALE E METODI: l’U.O. di Pediatria del Presidio Ospedaliero di Lamezia Terme, avvalendosi del
supporto esterno di volontari esperti in Farmacologia e Dieteticqa, ha avviato un progetto di formazione rivolto
ai giovani pazienti diabetici afferenti al proprio reparto, ai quali sono state impartite le nozioni base relative alla
conoscenza dei carboidrati, al loro contenuto nei vari cibi ed all’individuazione del giusto bolo insulinico
calcolato in base alle necessità individuali e sulla risposta metabolica ai carboidrati, col fine di poter mettere il
pratica il metodo della “conta dei carboidrati”.
Per lo svolgimento del progetto sono stati reclutati; tenendo conto della compliance, del controllo glicemico ed
escludendo i nuovi esordi, 11 pazienti su 18, di età compresa tra i 3 ed i 18 anni, tra questi 6 sono portatori di
microinfusore. Per poter stabilire quanto, questo approccio nutrizionale, possa influire sul controllo della
glicemia post-prandiale e sulla qualità della vita dei nostri giovani pazienti abbiamo valutato: l’aderenza
terapeutica, il controllo glicemico e la compliance.
RISULTATI: in 9 hanno attuato una buona conta dei carboidrati, hanno partecipato con interesse alle attività
formative ed applicato con diligenza quanto imparato mostrando un’ottima compliance ed una buona aderenza
terapeutica, al contrario, 2 pazienti, entrambi in terapia multiniettiva, hanno mal gestito e rifiutato la metodica,
dimostrandosi spesso poco collaborativi. Il compenso metabolico è stato studiato mediante il valore
dell’Emoglobina glicata (Hbc), rilevato dopo 3 mesi dall’inizio del progetto, quest’ultimo, in chi ha seguito con
precisione e costanza la conta dei carboidrati si è notevolmente abbassato, non superando in generale il valore di
7.50. Nei pazienti non partecipanti il valore dell’Hbc si è dimostrato più alto, superando in alcuni casi il valore di
10.
DISCUSSIONE: la conta dei carboidrati si è dimostrata un utile strumento per un buon compenso metabolico di
bambini e giovani diabetici, la maggior parte dei partecipanti al progetto ha mostrato un’ottima compliance, più
evidente nei paziente più grandi. Alla luce dei risultati ottenuti, è in programma nel nostro centro uno studio atto
a valutare se la metodica della conta dei carboidrati possa essere attuata con maggiore facilità se ha inizio
all’esordio della patologia.
192
22 P - MONITORAGGIO 4 CANALI PER DIAGNOSI DEI DISTURBI RESPIRATORI DEL SONNO
NEI BAMBINI: CASISTICA del REPARTO di PEDIATRIA di CHIERI (ASLTO5)
Dottor Gian Maria Terragni - Inf. Donatella Ottonello, Inf. Elite Rotondo
S.C. di Pediatria- Osp. Maggiore di Chieri (TO)
INTRODUZIONE:
Nei bambini la causa più comune dei disturbi respiratori nel sonno è l’ostruzione delle vie aeree.
Questi disturbi possono essere classificati in:
a) russamento primario (russamento senza alterazione degli scambi gassosi);
b) UARS: sindrome da aumentate resistenze delle vie superiori (russamento con aumento del lavoro
respiratorio ed arousal notturni senza alterazione degli scambi gassosi);
c) OSAS: sindrome delle apnee ostruttive nel sonno (associata a ipossia e/o ipercapnia).
La sindrome delle apnee ostruttive nel sonno è definita come un disturbo della respirazione durante il sonno
caratterizzato dall'ostruzione parziale prolungata e/o completa ma intermittente delle alte vie aeree (apnee
ostruttive) che interrompono la normale ventilazione durante il sonno1.
E’ associata a sintomi notturni (russamento, respiro affannoso durante il sonno, episodi di apnea, enuresi,
dormire con collo iperesteso, sudorazione), a sintomi diurni (cefalea al risveglio, sonnolenza durante il giorno,
deficit di attenzione e problemi di apprendimento, iperreattività) e a segni come ipertrofia tonsillare, facies
adenoidea, scarso accrescimento, sovrappeso/obesità, ipertensione..2.
Il gold standard per la diagnosi di OSAS è la polisonnografia standard notturna ma se questa non è disponibile
altre metodiche sono utilizzate come screening come ad esempio la polisonnografia ridotta a 4 canali.
Uno studio italiano descrive una prevalenza delle OSAS dell'1.8% nella popolazione pediatrica 3.
Il reparto di Pediatria di Chieri dal 2008 esegue monitoraggi a 4 canali per valutare bambini con sospetto OSAS;
dall’inizio in collaborazione con il Centro Regionale di riferimento dell’OIRM poi con il reparto di ORL
dell’Ospedale di Moncalieri (ASLTO5) infine dal Giugno 2012 autonomamente.
MATERIALI e METODI
Il paziente viene inviato in ambulatorio della Pediatria di Chieri dal medico curante o dallo specialista ORL per
russamento e/o apnee notturne, previo appuntamento telefonico. Il posizionamento dell’apparecchiatura sul
paziente viene effettuato nelle ore pomeridiane da parte del personale infermieristico dell’ambulatorio che
istruisce i genitori sull’utilizzo dell’apparecchio. La registrazione viene avviata a domicilio la sera , dopo
l’addormentamento del bambino, e si conclude il mattino successivo.
Per la registrazione viene utilizzato apparecchio VITAGUARD 3100 (curva respiratoria impedenzometrica
toracica, ECG, saturimetria, pletismogramma).
RISULTATI
Sono stati eseguiti 228 monitoraggi dal Giugno 2012 ad Agosto 2014
Sono stati classificati secondo i criteri di Brouilette4 e in caso di positività la severità dell’OSAS è stata
classificata secondo il McGill oximetry score5.
Sono risultati :
Negativi
162 monitoraggi
(71%)
Intermedi
55 monitoraggi
(24%)
Positivi
21 monitoraggi
(9,2%)
DISCUSSIONE
I dati della nostra casistica permettono di affermare che l’invio del bambino che russa durante la notte per
eseguire un monitoraggio notturno è una giusta indicazione come riportato da Marcus et al. su Pediatrics 2012 6 e
rinnovato dalla Società Italiana di Pediatria sulla sua rivista “pediatria” gennaio – febbraio 2013.
BIBLIOGRAFIA:
1) American Academy of Pediatrics. Clinical practice guideline: diagnosis and management of childhood
obstructive sleep apnea syndrome. Pediatrics 2002;109: 704-12;
2)Villa MP et al. Linee guida per la diagnosi della sindrome delle apnee ostruttive nel sonno in età pediatrica.
Minerva Pediatr 2004;56:239-53;
3)Brunetti L, Rana S, Lospalluti ML et al. Prevalence of Obstructive Sleep Apnea Syndrome in a Cohort of
1,207 Children of Southern Italy. Chest 2001;120:1930-1935;
4)Brouillette RT et al: Nocturnal pulse oximetry as an abbreviated testing modality for pediatric obstructive
sleep apnea. Pediatrics 2000;105(2):405-12 ;
5)Gillian M. et al: Planning adenotonsillectomy in Children With Obstructive Sleep Apnea: the Role of
Overnight Oximetry Pediatrics 2004;113;
6)Marcus CLet all.Diagnosis and Management of Childhood Obstructive Sleep Apnea Syndrome.Pediatrics
2012;130;576.
193
23 P - UN CASO DI ASCESSO POLMONARE DA CANDIDA ALBICANS
Angelina Vaccaro, Francesco Vierucci, Raffaele Domenici
S.C. Pediatria, Ospedale San Luca, Lucca
Introduzione. L’ascesso polmonare è una condizione rara in età pediatrica. L’incidenza è di circa lo 0,7 per
mille.
Gli organismi responsabili dell’ascesso polmonare sono batteri aerobi gram positivi e negativi, anaerobi e
funghi. Gli agenti batterici più frequenti negli ascessi primari sono lo streptococcus pneumoniae e lo stafilococco
aureus, mentre negli ascessi secondari sono lo pseudomonas aeruginosa, la candida albicans e l'aspergillus.
Recentemente è stato segnalato anche un caso da mycoplasma pneumoniae.
Lo sviluppo di un ascesso polmonare può essere favorito da fattori predisponenti quali aspirazione polmonare in
bambini con anomalie di sviluppo neurologico, immunodeficienze congenite, immunosoppressione
farmacologica, alterazioni strutturali del polmone, fibrosi cistica, deficit di alfa-1-antitripsina. La mortalità si
aggira intorno al 5% ed è predominante in bambini con fattori predisponenti.
Caso clinico. Descriviamo il caso di un paziente di 20 anni, affetto da encefalopatia e tetraparesi spastica con
epilessia, accolto comunque nel reparto pediatrico per la patologia di base e la grave iposomia conseguente.
All’anamnesi emerge come da circa 15 giorni sia insorta febbre, persistente nonostante la terapia antibiotica
prescritta (azitromicina e ceftriaxone). All’ingresso il ragazzo presenta un quadro clinico di insufficienza
respiratoria acuta, con reperto ascoltatorio toracico caratterizzato dalla riduzione del murmure vescicolare
sull'emitorace destro con presenza di rantoli crepitanti diffusi. Gli esami ematochimici eseguiti evidenziano una
PCR elevata e leucocitosi neutrofila. Gli esami colturali su sangue ed aspirato bronchiale, le indagini
sierologiche, il quantiferon risultano normali. All’Rx torace si evidenzia un'area estesa e disomogenea di
addensamento parenchimale a livello del campo medio-inferiore destro con segni di disventilazione del
parenchima contiguo e innalzamento dell’emidiaframma omolaterale (Figura 1). Viene iniziata terapia
antibiotica con ciprofloxcina, teiclopenina e meropenem, quest'ultimo sostituito dopo qualche giorno con
piperacillina/tazobactam per scarso miglioramento clinico. La successiva TC torace evidenzia la presenza di una
grossolana lesione disomogenea di aspetto rotondeggiante del diametro di 9 cm che interessa il segmento
posteriore del lobo superiore destro ed il segmento apicale del lobo inferiore sempre a destra. La lesione presenta
multiple aree ipodense necrotico-colliquative ed escavazioni interne con associato ispessimento-versamento
intrascissurale. Addensamenti parenchimali sono presenti anche a sinistra (Figura 2). Le condizioni del ragazzo
si mantengono sempre molto gravi con febbre persistente e dispnea. Viene quindi eseguita una broncoscopia con
aspirazione di secrezioni purulente dal segmento apicale del BLISx, dal bronco intermedio/BLIDx. Data la
severità del quadro clinico non è possibile eseguire drenaggio dell'ascesso. Gli esami colturali sul BAL risultano
ancora negativi per germi comuni e BK, ma risultano positivi per la candida albicans. Alla terapia antibiotica in
atto viene associato il fluconazolo per via endovenosa e successivamente per os con netto miglioramento del
quadro clinico e radiologico. Al follow-up a distanza di tre mesi si conferma la normalizzazione dei test di
flogosi e del quadro radiologico.
Bibliografia
- Tan TQ, Seilheimer DK, Kaplan SL. Pediatric lung abscess. Clinical management and outcome. Pediatr Infect
Dis 1995; 14:51-5.
- Patradoon-Ho P, Fitzgerald DA. Lung abscess in children. Pediatric respir reviews 2007; 8: 77-84.
- Chan PC, Huang LM, Wu PS, Chang PY, Yang TT, Lu CY, Lee PI, Chen JM, Lee CY, Chang LY. Clinical
management and outcome of childhood lung abscess: a 16 year experience. J microbiol immunol infect 2005;
38: 183-8.
- Yen CC, Tang RB, Chen SJ, Chin TW. Pediatric lung abscess: a retrospective review of 23 cases. J microbiol
immunol infect 2004; 37: 45-9.
- Ruffini E, De Petris L, Candelotti P, Tulli M, Sabatini MR, Luciani L, Carlucci A. Lung abscess in a child
secondary to Mycoplasma pneumoniae infection. Pediatr Med Chir 2014; 36: 87-9.
Figura 1
Figura 2
194
24 P - CODICE ROSA: DUE ANNI E MEZZO DI ESPERIENZA
R. Domenici1, P. Banti2, F. Vierucci1, A. Vaccaro1, C. Papini3, M. Cavani3, M. Lenci4, L. Berti5
1. S.C. Pediatria, Ospedale San Luca, ASL 2 Lucca
2. S.C. Pronto Soccorso, Ospedale San Luca, ASL 2 Lucca
3. U.O. Assistenza Sociale Piana di Lucca, ASL 2 Lucca
4. S.C. Ostetricia e Ginecologia, Ospedale San Luca, ASL 2 Lucca
5. U.O. Neuropsichiatria Infantile, Ospedale San Luca, ASL 2 Lucca
Introduzione. Il Codice Rosa identifica un percorso di accesso al Pronto Soccorso riservato a tutti i soggetti che,
senza distinzione di genere o età, più facilmente possono diventare vittime di violenza altrui a causa della loro
condizione di fragilità, in particolare nell’ambito delle relazioni affettive e/o di fiducia. Rientrano in tale
categoria donne (circa l’80% delle vittime), uomini, bambini, anziani, immigrati, portatori di handicap, vittime di
discriminazioni razziali, religiose o omofobiche, etc.
Il Codice Rosa prevede l’attivazione sinergica di un gruppo operativo interforze composto dai rappresentati di
ASL (118, Dipartimento Ospedaliero Emergenza Urgenza, Dipartimento Materno Infantile, Dipartimento Salute
Mentale, UUFF Consultoriali), Procura, Forze dell’Ordine, Comune, Centro Antiviolenza, Centro per il recupero
dei soggetti maltrattanti e Case rifugio.
Metodi. Registrazione dei casi di Codice Rosa attivati presso la ASL2 di Lucca.
Risultati. Il Codice Rosa è attivo presso la ASL di Lucca dal 1° gennaio 2012. Nell’anno 2012 sono stati
registrati 250 Codici Rosa, dei quali 28 (11%) riguardanti soggetti in età pediatrica (16 casi di maltrattamento +
12 casi di abuso). Nel 2013 i Codici Rosa attivati sono stati 353 (+41.2% rispetto al 2012). La percentuale dei
casi riguardanti i bambini è risultata in lieve aumento (46 casi, pari al 13% del totale, di cui 35 casi di
maltrattamento e 11 casi di abuso). Infine, nel primo semestre del 2014 sono stati registrati 189 Codici Rosa, di
cui 19 (10%) riguardanti i bambini (18 casi di maltrattamento ed 1 caso di abuso).
Discussione. L’attivazione del Codice Rosa ha il triplice scopo di tutelare e mettere in sicurezza le vittime di
violenza ed assicurare alla giustizia gli autori dei reati stessi. Come dimostrano i dati della nostra realtà, il ricorso
al Codice Rosa è frequente (nel 2013 mediamente quasi un caso al giorno) ed in aumento. In particolare, i
bambini rappresentano una percentuale considerevole delle vittime di violenza.
L’attivazione di un percorso dedicato che comprende spazi appositi (la vittima accede in Pronto Soccorso nella
“stanza rosa”, ambiente protetto nel quale viene accolta con solerzia e discrezione per il tempo necessario per
ricevere le prime cure e consentire una solida e professionale acquisizione del quadro probatorio) e soprattutto la
presenza di una task force multidisciplinare operativa 24 ore su 24 rappresentano uno strumento fondamentale
per la gestione dei casi di violenza che avvengono nel nostro territorio.
350
300
250
200
150
100
50
0
2012
Bambini (abuso)
2013
Bambini (maltrattamento)
2014 (I semestre)
Adulti
195
25 P - LA PERTOSSE NEI LATTANTI DI ETÀ INFERIORE AI 90 GIORNI DI VITA:
UN’INFEZIONE POCO RICONOSCIUTA
Anna Chiara Vittucci1, Isabella Tarissi de Jacobis1, Valentina Spuri Vennarucci2, Annalisa Grandin1, Cristina
Russo2, Laura Lancella1, Alberto E. Tozzi3, Alberto Villani1.
1
U.O.C. di Pediatria Generale e Malattie Infettive, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
2
Unità di Virologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
3
Unità di Epidemiologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
Introduzione: Nonostante la vaccinazione, la pertosse continua a essere un’infezione diffusa in tutto il mondo
nella popolazione pediatrica e adulta con picchi ogni 3-5 anni e una stagionalità estivo-autunnale. Negli ultimi
anni in molti paesi Europei e degli Stati Uniti sono state segnalate numerose epidemie con un incremento
dell’incidenza di tale infezione. In Italia, invece, sebbene la notifica per infezione da Bordetella Pertussis sia
soggetta a notifica obbligatoria, dal 1998 non sono state riportate nuove epidemie e l’incidenza della pertosse
risultata in continua riduzione. E’ probabile quindi che molti casi di pertosse siano misconosciuti e non
diagnosticati. I lattanti al di sotto dei 3 mesi di vita, non avendo ancora ricevuto la vaccinazione sono a maggior
rischio di sviluppare tale infezione. Inoltre, in questa fascia di età, la severità del quadro clinico può essere
rilevante.
Scopo del nostro studio è stato quello di valutare il ruolo della Bordetella Pertussis (BP) nei lattanti di età ≤ ai 3
mesi ricoverati presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per sintomi respiratori e/o apnea e di valutare in
quanti di questi soggetti era stato posto il sospetto clinico all’ingresso.
Materiali e metodi: Con uno studio retrospettivo, abbiamo analizzato le cartelle di tutti i lattanti con età
inferiore ai 90 giorni di vita ricoverati da Marzo 2011 a Settembre 2013 presso il Dipartimento di Medicina
Pediatrica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma per sintomi respiratori e/o apnea a cui era stato
effettuato l’aspirato rinofaringeo per BP. Di ciascun paziente sono stati rilevati: sesso, età, manifestazioni
cliniche all’esordio, diagnosi all’ingresso e diagnosi di dimissione. In tutti i pazienti arruolati era stato eseguito
anche l’aspirato rinofaringeo per la ricerca dei principali virus respiratori (VR): Adenovirus, virus Influenza,
virus Parainfluenzae, Virus respiratorio sinciziale, Metapnemovirus, Coronavirus, e Rhinovirus.
Risultati: Nel periodo di studio, 215 pazienti ricoverati con età ≤ ai 3 mesi hanno eseguito l’aspirato
rinofaringeo per BP e VR. Di questi 53 sono risultati positivi per BP; 119 sono risultati positivi per VR (48 Virus
Respiratorio Sinciziale; 37 Rhinovirus; 9 Parainfluenzae; 4 Adenovirus; 4 Metapneumovirus; 3 Influenzae; 3
Coronavirus; 4 Rhinovirus + Adenovirus; 2 Rhinovirus + Coronavirus; 2 Virus Respiratorio Sinciziale +
Adenovirus; 2 Parainfluenzae + Metapmeumovirus; 1 Virus Respiratorio Sinciziale + Coronavirus). In 43 lattanti
l’ aspirato rinofaringeo è risultato negativo. Nella tabella è riportata la diagnosi di ammissione dei pazienti: il
sospetto clinico di pertosse all’ingresso, è stato posto solo in 22 soggetti. Di questi 16 sono risultati positivi per
BP (16%), 5 sono risultati positivi per VR, un paziente è risultato negativo sia per VR che BP. In tutti gli altri
soggetti con aspirato positivo per BP, invece, era stata posta all’ingresso diagnosi di bronchiolite (20 pz), apnea
non associata ad altra sintomatologia (8 pz), tosse (8 pz), febbre in lattante (1 pz).
Diagnosi di ingresso
N° pazienti
(215)
BP+
(53)
%
Bronchiolite
101
20
19,8
Apnea
41
8
19,5
Febbre in lattante
23
1
4,3
Sospetta pertosse
22
16
72,7
Tosse
19
8
42,1
Polmonite
4
0
0
ALTE
5
0
0
Discussione: I nostri dati dimostrano che la pertosse è un’infezione ancora presente in questa fascia di età non
coperta dalla vaccinazione e che le manifestazioni cliniche sono spesso atipiche e possono sovrapporsi con
quelle causate da altre infezioni respiratorie. La diagnosi clinica, quindi, può essere difficile e può sfuggire al
pediatra. La ricerca della PCR per BP su aspirato rinofaringeo è un test rapido e relativamente poco costoso; per
tale motivo riteniamo utile effettuare la ricerca della BP in tutti i lattanti ricoverati con sintomi respiratori e/o
apnea per poter trattare tempestivamente con terapia antibiotica tutti i soggetti con pertosse ed evitarne le
complicanze. Numerose strategie sono state proposte per prevenire tale infezione in questa fascia di età tra cui:
la rivaccinazione di adulti e adolescenti, la vaccinazione della gestante nel terzo trimestre di gravidanza ed infine
la “strategia cocoon” (guscio) che prevede la protezione indiretta del neonato attraverso l’immunizzazione della
popolazione che lo circonderà durante i primi mesi di vita. Tali strategie, una volta inserite concretamente nella
pratica clinica, permetteranno di incrementare notevolmente la protezione di neonati e lattanti e dunque un
miglior controllo della malattia.
Bibliografia
1. Noulivirta K, Kopen P, He Q et al. Bordetella pertussis infection is common in non vaccinated infants
admitted for bronchiolitis. Pediatr Infect dis J. 2010; 29:1013-1015.
2. Gonfiantini MV, Villani A, Gesualdo F, Pandolfi E, Agricola E, Bozzola E, Arigliani R, Tozzi AE.
Attitude of Italian physicians toward pertussis diagnosis. Hum Vaccin Immunother. 2013;9(7):1485-8
196
26 P - SCREENING DELLE EMOGLOBINOPATIE NEI NEONATI A RISCHIO
Sabrina Colombo (1), Matteo Castagno (1), Roberta Rolla (2), Mauro Zaffaroni (1),Barbara Grigollo (2), Carlo
Dellora (2), Gianni Bona (1), Giorgio Bellomo (2)
(1) Clinica Pediatrica e (2) Laboratorio Analisi, Sezione Ematologia
Azienda Ospedaliero-Universitaria “Maggiore” di Novara
INTRODUZIONE
Le emoglobinopatie (Hbpatie), in particolare drepanocitosi e talassemia, hanno assunto in Italia un’importanza
sempre maggiore negli ultimi anni per effetto dei flussi migratori provenienti da aree endemiche: Africa, Asia,
America Latina, Medio-Oriente, Caraibi, bacino del Mediterraneo, Italia e in particolare delta del Po, Sicilia e
Sardegna [1,2,3]. Scopo del presente studio è stato quello di valutare il razionale dell’esecuzione di uno
screening neonatale mirato ai neonati a rischio per Hbpatie, per identificare precocemente i soggetti omozigoti
affetti da queste patologie e quelli eterozigoti portatori di anomalie dell’emoglobina.
Figura 1 - Aree endemiche per Hbpatie.
MATERIALI E METODI
Presso il Punto Nascita di Novara, sono stati inclusi nello
studio i neonati con almeno un genitore straniero, proveniente
da aree ad alta prevalenza per Hbpatie e/o con anamnesi
familiare positiva per queste patologie. (Figura 1)
Sono stati arruolati 337 neonati (pari al 13,8% dei 2447
bambini nati nel periodo Dicembre 2012-Gennaio 2014, e
pari al 47,6% dei 710 neonati con almeno un genitore
straniero). I campioni ematici, raccolti in provetta
micrometodo da emocromo (400µL), previo consenso
informato dei genitori tradotto in diverse lingue, sono stati
analizzati mediante metodica HPLC Biorad Variant II.
RISULTATI
Dei 337 neonati arruolati, 35 (10,4%) sono stati esclusi in
quanto il campione ematico non era processabile. Tra i
rimanenti 302 soggetti, 72 provenivano dall’Africa SubSahariana, 103 dal Nord Africa, 84 dall’Asia, 20 dall’America
Latina e 19 dall’Italia.
232 soggetti (76,6%) presentavano un assetto emoglobinico
fisiologico. 20 (6,6%) neonati presentavano la variante HbS
allo stato eterozigote e 2 (0,7%) la variante HbC allo stato
eterozigote. Altri 48 (15,9%) soggetti presentavano un livello
di HbA0 <15%, in assenza di varianti emoglobiniche anomale,
suggestivo di eterozigosi per β talassemia, con indicazione ad
Figura 2 - Risultato screening
un ulteriore controllo a 6 mesi (Figura 2).
In nessuno dei soggetti studiati è stata identificata una variante
Hbpatie
emoglobinica in omozigosi.
In una famiglia con entrambi i genitori portatori di drepanocitosi, il test ha permesso di escludere nel neonato la
presenza di emoglobina S.
Considerando i risultati degli esami eseguiti durante la gravidanza dalle madri dei 337 neonati arruolati, 254 di
esse (75,4%) non presentavano alcuna variante emoglobinica patologica, 2 (0,6%) erano risultate portatrici della
variante HbS allo stato eterozigote, 1 (0,3%) eterozigote per emoglobina C e 80 (23,7%) erano le madri portatrici
di β talassemia.
DISCUSSIONE
Uno screening neonatale mirato, di facile esecuzione e a basso costo, permette la diagnosi precoce delle Hbpatie
nei neonati a rischio, ma i risultati ottenuti finora devono essere supportati da un’attenta analisi costo/beneficio,
per riuscire a identificare la metodica più efficace, sicura ed economicamente sostenibile per diagnosticare
precocemente queste importanti patologie.
BIBLIOGRAFIA
[1] Modell B et al, Bull World Health Organ. 2008; 86: 480-487.
[2] Roberts I et al, Haematologica 2007; 92: 865-871.
[3] Chang TP et al, Pediatr. Emerg. Care. 2013; 29: 781-786.
197
27 P - LIVELLI DI VITAMINA D MATERNI E NEONATALI: CORRELAZIONI TRA FOTOTIPO,
APPORTO DIETETICO E FARMACOLOGICO IN GRAVIDANZA
Erica Pozzi1, Mauro Zaffaroni1, Francesco Cadario1,2, Silvia Savastio1, Corrado Magnani3, Tiziana Cena3,
Severo Pagliardini4, Marco Bagnati5, Matteo Vidali5, Stella Pamparana1, Gianni Bona1
1
Clinica Pediatrica, Dipartimento di Scienze della Salute, UPO “A. Avogadro”, Novara, Italia; 2IRCAD (Interdisciplinary
Research Center of Autoimmune Diseases), Novara, Italia; 3Unità di Statistica Medica ed Epidemiologia dei Tumori,
Dipartimento di Medicina Traslazionale, UPO e CPO-Piemonte, Novara, Italia; 4Clinica Pediatrica, Centro screenings
neonatali, Università di Torino, Torino, Italia; 5Laboratorio analisi, Dipartimento di Scienze della Salute, UPO “A.
Avogadro”, Novara, Italia
INTRODUZIONE: la vitamina D viene principalmente sintetizzata a livello cutaneo tramite esposizione a raggi
UV a una particolare lunghezza d’onda (290-315 nm) e in parte viene assunta con la dieta. Il deficit di vitamina
D (<20 ng/ml) correla con un rischio aumentato di rachitismo ed osteoporosi, infezioni e malattie autoimmuni,
tra cui il diabete mellito di tipo 1 [1;2]. Molti studi dimostrano una stretta correlazione tra i livelli di vitamina D
durante la gravidanza e quelli nei neonati [3]. Il nostro studio ha lo scopo di analizzare i livelli di vitamina D
(25OHD) nelle donne italiane e straniere, e nei rispettivi neonati, che hanno partorito a Novara (Italia, 45°N di
latitudine).
MATERIALE E METODI: dal 1 aprile 2012 al 30 marzo 2013 sono state arruolate, previa firma del consenso
informato, mamme italiane e straniere e i loro rispettivi neonati. Criteri di inclusione: madri e neonati in buona
salute, a termine di gravidanza fisiologica e neonati con peso adeguato per l’età gestazionale. Sono state
arruolate 533 coppie mamma-neonato. I livelli di vitamina D sono stati valutati nella madre tramite prelievo
ematico e nel neonato tramite gocce di sangue raccolte su cartoncino e analizzate tramite spettrometria di massa
[4]. Il Paese di origine della madre, il fototipo cutaneo, l’apporto di vitamina D tramite la dieta e la
supplementazione durante la gravidanza sono stati valutati tramite questionari standardizzati sottoposti alle
madri durante la degenza.
RISULTATI: l’analisi di regressione multivariata, aggiustata per stagione, Paese di origine ed età materna, ha
mostrato associazione tra i livelli materni e neonatali di 25OHD (R-square:0.664).
I neonati italiani e le rispettive madri mostrano più
elevati livelli di vitamina D (34.4±19.2 and
44.9±21.2nmol/L), rispetto ai bambini nati da
madre straniera (rispettivamente 34.4±19.2 and
44.9±21.2nmol/L). Tutte le madri che hanno
assunto supplementi vitaminici contenenti vitamina
D hanno mostrato livelli più elevati di vitamina D
rispetto alle madri che non hanno eseguito
supplementazione (p<0.0001) e lo stesso è stato
osservato nei loro rispettivi neonati (p<0.0001).
DISCUSSIONE: lo studio ha confermato una
stretta correlazione tra i livelli materni e
neonatali di vitamina D. L’insufficienza di
vitamina D, soprattutto nella popolazione
migrante, è molto rappresentata in Piemonte.
La supplementazione durante la gravidanza, in
particolare nell’ultimo mese, è risultata efficace
per determinare i livelli materni e neonatali di
25OHD, indipendentemente dall’apporto
tramite la dieta. Possiamo concludere
affermando che nel nostro studio sono stati
evidenziati tre fattori strettamenti correlati a deficit di 25OHD: fototipo cutaneo, tradizioni culturali e mancata
supplementazione nell’ultimo trimestre di gravidanza.
Occorre pertanto sottolineare la necessità della profilassi con Vitamina D in tutte le madri e i bambini, con
particolare riguardo per quelli di origine straniera, non potendo influire sugli altri determinanti.
BIBLIOGRAFIA:
1. Wacker M. et al, Nutrients 2013;5(1): 111–148.
2. Kinder B. et al, Expert Rev Clin Immunol 2011;7:255-7.
3. Thorne-Lyman A. et al, Pediatr Perinat Epidemiology 2012, 26 (suppl. 1), 75-90.
4. Eyles DW et al, Paediatr Perinat Epidemiol. 2010;24(3):303-8. doi: 10.1111/j.1365-3016.2010.01105.x.
198
28 P - OUTCOME DEL NEONATO DA PARTO IN ANALGESIA
Valentina Chierici (1), Erica Pozzi (1), Agostina Marolda (1), Sandra Esposito (1), Alessia Pagani (1), Mauro
Zaffaroni (1), Gianni Bona (1)
(1) Clinica Pediatrica, AOU Maggiore della Carità, Novara, Italia.
INTRODUZIONE: presso il Punto Nascita di Novara il percorso nascita prevede che il parto possa essere
espletato in analgesia epidurale 24 ore su 24, su richiesta della madre, salvo indicazioni ostetrico-ginecologiche.
La primissima fase di vita extrauterina è di fondamentale importanza per il successivo sviluppo neurocomportamentale del neonato. Contatto precoce e suzione nelle prime 2 ore conferiscono un forte legame
reciproco tra madre e neonato. L’efficacia e l’esclusività dell’allattamento al seno alla dimissione dall’ospedale
rappresentano possibili misure indirette dell’intensità di tale legame [1]. Il presente studio è stato condotto allo
scopo di valutare se l’induzione dell’analgesia al parto può influire sul contatto precoce madre-bambino o
sull’outcome neonatale.
MATERIALI E METODI: sono stati considerati 374 bambini nati nel periodo 2013-2014, suddivisi in 2
gruppi rispetto al ricorso o meno dell’analgesia materna al parto. Per ciascun neonato sono stati valutati: tipo di
parto (eutocico, V.O., cesareo), età gestazionale, peso alla nascita, indice di Apgar, adattamento post-natale,
allattamento alla dimissione, allattamento al controllo (7-10 giorni), nazionalità della madre. Sono stati esclusi i
nati da parti cesarei di elezione e la presenza di patologie materne o fetali che non permettevano l’opzione del
parto in analgesia.
RISULTATI: si sono analizzati i dati di 187 bambini nati da parto in analgesia e 187 nati da parto senza
analgesia. Fra i parti in analgesia il 51.9% è stato eutocico (EU), il 12,5% distocico (VO) e il 35.6% cesareo
(TC), mentre nel gruppo senza analgesia epidurale i parti sono stati per l’84,6% EU, per il 5,8% VO e per il
9,6% TC [Figura 1]. Per quanto riguarda l’allattamento, al momento della dimissione il 74% dei nati da parto in
analgesia era allattato esclusivamente al seno (LM) e l’11,5% presentava un allattamento misto; i bambini nati
da parto non in analgesia erano allattati esclusivamente al seno per l’86,5%, nell’11,6% dei casi avevano un
allattamento misto e l’1,9% era allattato artificialmente [Figura 2]. Alla visita di controllo post-dimissione il
61,5% dei nati da parto in analgesia proseguiva allattamento con LM esclusivo, il 19.2% presentava un
allattamento misto (LM+LA1), mentre il 4,8% dei casi era alimentata con LA1. Tra i nati da parto non in
analgesia il 78,8% proseguiva LM esclusivo, il 17,4% LM+LA1 e il 3,8% LA1.
Dei nati da parto in analgesia il 25,9% è nato da madre straniera (di cui solo 8 madri di origine Africana), mentre
tra i nati da parto non in analgesia il 42,3% è di origine straniera.
100
100
80
80
60
60
40
40
20
20
0
0
EUTOCICO
CON ANALGESIA
VO
CESAREO
SENZA ANALGESIA
Figura 1. Modalità di espletamento del parto
MATERNO
CON ANALGESIA
MISTO
ARTIFICIALE
SENZA ANALGESIA
Figura 2. Allattamento alla dimissione
DISCUSSIONE: l’induzione dell’analgesia al parto nel presente studio non ha mostrato variazioni significative
rispetto all’outcome del neonato. Le madri straniere sono rappresentate in minore percentuale nel gruppo che ha
ricorso all’analgesia rispetto a quello non in analgesia, questo potrebbe influenzare il dato di un più diffuso
allattamento materno esclusivo riscontrato sia durante il ricovero che al controllo post-dimissione fra i bambini
nati da parto non in analgesia.
La disponibilità di un servizio di analgesia in sala parto 24 ore-24 ore rappresenta un indiscutibile vantaggio
nell’ambito del percorso nascita, ma ancora non viene fruito da molte donne straniere sia per la difficoltà di
comunicazione, sia per influenze tradizionali e culturali.
199
29 P - SCREENING ECOGRAFICO MIRATO PRECOCE DELLA DISPLASIA CONGENITA
DELL’ANCA
Mauro Zaffaroni, Alessia Pagani, Erica Pozzi, Valentina Chierici, Agostina Marolda, Sabrina Colombo, Alice
Spano, Gianni Bona.
Clinica Pediatrica – Azienda Ospedaliero-Universitaria “ Maggiore” di Novara
INTRODUZIONE
La Displasia Congenita dell’Anca (DCA) è tra le malformazioni osteoarticolari più frequenti in età neonatale
(0,15% dei neonati); deriva da un alterato sviluppo dell’articolazione, specialmente dell’acetabolo. È più
frequente nel sesso femminile; la razza caucasica presenta una certa familiarità nei discendenti diretti (circa
10%).
Le principali cause sono di tipo genetico (alterazioni di sviluppo della testa femorale, lassità della capsula
articolare, sindrome di Down o disordini neuromuscolari) oppure di tipo meccanico (macrosomia, posizione
assunta dalle anche durante la vita intrauterina, parto podalico, oligoidramnios) [1]. Se non trattata provoca
un’artrosi secondaria entro la III decade di vita.
Lo screening ecografico consente pertanto di fare diagnosi precoce; l'esame dovrebbe essere eseguito su tutti i
neonati entro il terzo mese di vita, specie su quelli che presentano fattori di rischio o segni clinici quali: manovra
di Ortolani o di Barlow positiva e malformazioni degli arti inferiori [2].
MATERIALI E METODI
Presso il Punto Nascita dell’AOU Maggiore della Carità di Novara nel periodo compreso tra Gennaio 2011 e
Agosto 2013, i neonati, che presentavano segni clinici o rischio anamnestico di Displasia Congenita, sono stati
sottoposti ad ecografia precoce (durante la degenza ospedaliera oppure entro il primo mese di vita).
I bambini risultati positivi allo screening secondo stadiazione di Graf sono stati poi sottoposti a successivo
controllo strumentale all’età di 1-2 mesi o a valutazione specialistica ortopedica in presenza di anche
patologiche.
RISULTATI
Su un totale di 5.553 bambini nati nel periodo preso in esame, 553 neonati (278 maschi e 275 femmine)
presentavano fattori di rischio clinico-anamnestici per DCA ed hanno eseguito ecografia precoce.
Indicazione all’esecuzione dell’esame ecografico precoce: manovra di Ortolani positiva o dubbia in 22 casi
(4%), presentazione podalica in 205 bambini (37%), macrosomia 114 neonati (20%), gemellarità in 73 casi
(13%), piede torto o altre anomalie ortopediche in 78 bambini (14%), oligoidramnios in 6 neonati (1%),
familiarità di primo grado per DCA in 91 casi
(16%).
I risultati dello screening ecografico sono
mostrati in Figura 1.
Nel 2% dei casi l’ecografia mostrava uno stadio
di Graf patologico (IIB, D, III), nella metà dei
quali in entrambi gli arti.
Per tutti i neonati con anche immature (stadio
IIA) è stata data indicazione di postura in
abduzione degli arti inferiori con panno morbido
o valutazione ortopedica e successivo controllo
ecografico a un mese.
21 bambini con DCA sono stati trattati fino a
completa risoluzione della displasia.
DISCUSSIONE
Lo screening per la DCA è sempre stato oggetto di dibattito. L’elevata percentuale di risoluzioni spontanee ha
portato a una notevole incertezza riguardo alla reale necessità di utilizzare uno screening per tutti i neonati.
I risultati ottenuti nel presente studio rilevano come l’indagine ecografica è la sola procedura che consente di
identificare le anche displasiche o instabili in età precoce per permettere un adeguato trattamento [3,4].
L’indagine ecografica va eseguita da operatori esperti per decidere le cure idonee. L’ottima prognosi osservata a
seguito del trattamento fin dalle prime settimane di vita rappresenta uno stimolo a eseguire lo screening dell’anca
il più precocemente possibile allo scopo di porre diagnosi e trattamento già in età neonatale con riduzione dei
tempi di cura e minori esiti a distanza.
BIBLIOGRAFIA
1. Shorter D, Hong T, Osborn DA, Evid Based Child Health 2013;8(1):11-54.
2. Roposch A, Liu LO, Protopapa E, Clin Orthop Relat Res. 2013;471(6):1946-1954.
3. Arti H, Mehdinasab SA, Arti S, J Res Med Sci. 2013;18(12):1051-5.
4. Omeroğlu H, J Child Orthop. 2014;8(2):105-13.
200
30 P - UN CASO DI PRIAPISMO POST-TRAUMATICO
Zagni Giulia 1, Martignoni Laura1, Pietrangiolillo Zaira 1, Predieri Flavia1, Repetto Paolo 3, Iughetti Lorenzo
1,2
.
(1)
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia
(2)
U.O. Pediatria,Az. Osp. Universitaria, Policlinico Modena
(3)
U.O. Chirurgia Pediatrica, Az. Osp. Universitaria, Policlinico Modena
Tommaso, 12 anni, giungeva alla nostra attenzione per priapismo persistente da 6 giorni, comparso in seguito a
trauma perineale avvenuto mentre si trovava in bicicletta, non associato a particolare sintomatologia di rilievo, in
particolare non riferiti dolore o disuria. All'esame obiettivo, si evidenziava pene prepubere in erezione, in
assenza di ematomi evidenti alla cute dell'asta o dello scroto; si segnalava solo minimo rigonfiamento alla base
dell'asta, come da verosimile lieve ematoma; inoltre, non si evocava dolore alla palpazione.
Il piccolo veniva, pertanto, valutato dal Chirurgo Pediatra, che poneva indicazione all'esecuzione di
ecocolordoppler del pene in urgenza, con riscontro di area di alterata vascolarizzazione con flusso turbolento
come da fistola artero-venosa a carico del corpo cavernoso di sinistra, con conservata vascolarizzazione in sede
distale. Si eseguiva, quindi, angiografia tramite accesso transfemorale destro e cateterizzazione dell'arteria
ipogastrica sinistra, con conferma della presenza di fistola artero-venosa ed embolizzazione della stessa mediante
Spongostan. Al termine della procedura, sia l'esame ecocolordoppler ripetuto nel tempo che l'esame
arteriografico dimostravano l'esclusione della fistola arterovenosa.
A distanza, tuttavia, di 7 giorni, Tommaso presentava recidiva di fistola: si eseguiva, quindi, in elezione, nuova
cateterizzazione dell'arteria ipogastrica sinistra, con successiva cateterizzazione super selettiva dell'arteria
cavernosa rifornente la fistola, riembolizzata con Spongostan. In seguito, durante la procedura, si tornava
sull'arteria ipogastrica sinistra, osservando precoce rivascolarizzazione della fistola: si decideva, infine, di
embolizzare il vaso arterioso afferente con colla acrilica diluita in Lipiodol. L'esame ecocolordoppler ripetuto nel
tempo e due controlli arteriografici successivi non hanno dimostrato ulteriore rifornimento della fistola
arterovenosa e, ad oggi, Tommaso è in buona salute e non ha presentato recidive.
Si definisce priapismo la completa o parziale erezione che persiste a più di 4 ore di distanza dallo stimolo
sessuale o che si verifica in assenza dello stesso. Nonostante il priapismo rappresenti una entità estremamente
rara all'interno della popolazione pediatrica, la causa principale è rappresentata dalle emoglobinopatie, prima fra
tutti l'anemia falciforme (67%), e disordini ematologici quali leucemie (15%). In particolare, in questo contesto il
50% dei casi è attribuibile alla Leucemia Mieloide Acuta e, seppur in percentuali nettamente inferiori, alla
Leucemia Linfoblastica Acuta e Mieloblastica Acuta.
Il priapismo è causato da uno squilibrio tra afflusso e deflusso venoso a livello dei corpi cavernosi; esiste il
priapismo a basso flusso (priapismo ischemico) o ad alto flusso (priapismo non ischemico).
Il priapismo a basso flusso è il risultato di fenomeni di congestione venosa e si manifesta come erezione rigida e
profondamente dolorosa. E' la variante più comune e rappresenta un'emergenza, in quanto può verificarsi danno
cellulare irreversibile con successiva fibrosi se non si interviene entro 24-48 ore. Le cause di priapismo
ischemico possono essere idiopatiche, secondarie a disordini ematologici, infiltrazione tumorale o iatrogene.
Il priapismo ad alto flusso, invece, differisce dal precedente in quanto si manifesta in seguito ad un aumentato
flusso arterioso all'interno dei sinusoidi dei corpi cavernosi. Questo tipo di priapismo si verifica spesso in seguito
a traumatismi che esitano in danni a carico delle arterie cavernose o elicine, con formazione di fistole arterovenose con successiva disregolazione del flusso all'interno dei corpi cavernosi. Quasi tutti i pazienti si
presentano con anamnesi positiva per trauma a carico della regione perineale ed una erezione incompleta e non
dolorosa. L'esame ecocolordoppler rappresenta il glod-standard per la diagnosi, in quanto altamente sensibile
alla ricerca di fistole arterio-lacunari/sinusoidali, con evidenza di flusso turbolento associato al caratteristico
stravaso di sangue da parte dell'arteria danneggiata.
La gestione conservativa per il priapismo ad alto flusso mediante compressione locale con ghiaccio, agonisti
alfa-adrenergici ed iniezione intracavernosa di fenilefrina o blu di metilene consente risultati limitati e solo
temporanei. La legatura chirurgica e la corporotomia esplorativa con chiusura microchirurgica delle fistole
arteriose rappresentano tecniche difficili e spesso associate ad elevate complicanze post-operatorie. Lo standard
care è rappresentato dalla angiografia pelvica con embolizzazione super selettiva dell'arteria rifornente la fistola.
-
Chung E., McKnight J., Hosken B.: “Post-traumatic prepubertal high-flow priapism: a rare
occurrence” - Pediatr Surg Int (2008) – 24: 379-381
Volkmer BG., Nesslauer T., Kraemer SC. Et al. : “Prepubertal high flow priapism: incidence,
diagnosis and treatment” - Journal of Urology (2001) – Vol. 66, 1018-1022
201
31 P - TRATTAMENTO MININVASIVO DEL PNEUMOTORACE RICORRENTE
NELL’ADOLESCENTE
E. Zolpi, S.F. Chiarenza,
U.O.C di Chirurgia Pediatrica Centro di Chirurgia Mininvasiva , Dipartimento materno-pediatrico, Ospedale
San Bortolo, Vicenza
INTRODUZIONE. Il pneumotorace spontaneo primitivo ( PPS): accumulo di aria nel cavo pleurico in assenza di
una causa traumatica o iatrogena o apparente patologia polmonare. Ha un’incidenza nella popolazione generale
abbastanza elevata (1.8-18 casi per 100000 abitanti per anno); in quella pediatrica è un fenomeno non comune;
nonostante la presentazione sia tipica, aspetti come l’epidemiologia, la patofisiologia e il trattamento di questa
condizione in età pediatrica rimangono ancora dibattuti.
OBIETTIVO. Quattro casi di PPS ricorrente (3 bilaterale 1 monolaterale) recentemente trattati presso il nostro
reparto ci hanno indotto ad una revisione della più recente letteratura.
MATERIALE E METODI. 1° caso : ragazza di 15 anni, la sua storia clinica esordisce con PNX sinistro dopo
attività fisica, trattato con posizionamento di drenaggio toracico; recidiva dopo 45gg. La TAC torace di
approfondimento non evidenzia anomalie del parenchima. La paziente viene sottoposta a decorticazione della
pleura per via toracoscopica senza evidenziare alterazioni del parenchima; dopo 4 mesi recidiva di PNX sinistro,
persistenza di air leak dopo 15 giorni. La TAC di rivalutazione evidenza piccola bolla subpleurica apice
polmonare. Eseguita pleurodesi chimica in toracoscopia. Dopo 1 mese episodio di PNX destro. Trattato con
posizionamento di drenaggio toracico; recidiva dopo 30 giorni con persistenza di air leak. Eseguito intervento di
apicectomia destra con scarificazione della pleura: evidenza di bolle subpleuriche all’apice polmonare.
2° caso: ragazzo di 17 anni esordisce con PNX destro comparso a riposo trattato con posizionamento di
drenaggio toracico, persistenza dopo 6 giorni di air leak; eseguita TAC torace con evidenza all’apice polmone
destro e sinistro di bolle subpleuriche. Eseguito intervento di apicectomia polmonare destra con scarificazione
della pleura. Dopo 16 giorni recidiva di PNX destro risolto con drenaggio toracico. Dopo 1 mese episodio di
PNX controlaterale non drenato. Eseguito intervento di apicectomia sinistra con exeresi di alcune bolle a carico
del lobo inferiore sinistro con scarificazione pleurica. Recidiva di PNX sinistro con falda apicale di 42mm,
trattato conservativamente.
3° e 4° caso di 13 e 15 anni che al terzo episodio di PNX spontaneo e valutazione radiologica con evidenza di
bolle apicali, sono stati sottoposti ad apicectomia toracoscopica.
RISULTATI. Non recidive a distanza nel follow-up (6mesi-6anni). Durata del drenaggio toracico: 3- 15gg.
Durata del ricovero: da 4 a 13gg.
CONCLUSION E DISCUSSIONE I. Il 70% dei pazienti con PPS non necessita di chirurgia ulteriore. In
letteratura pediatrica esistono ancora controversie riguardo il tipo di chirurgia per il PPS ricorrente. Nella
letteratura pediatrica vengono riportate casistiche piccole di PPS nei quali le tecniche chirurgiche adottate per la
prevenzione della ricorrenza, apicectomia del polmone, exeresi delle bolle, pleurodesi meccanica o chimica o la
combinazione di queste tecniche, sia per via open che attraverso accesso mininvasivo, dimostrano indici di
successo diversi. La toracoscopia per il trattamento del PPS ricorrente è stato riportato in età pediatrica già nel
1986. In un recente lavoro l’exeresi delle bolle associata a pleurodesi, sia meccanica che chimica è associata ad
outcome favorevole; la pleurodesi chimica appare avere meno rischi di ricorrenza ma un periodo di
ospedalizzazione più lungo.
202
32 P - NETWORK EPIDEMIOLOGICO PEDIATRICO ITALIANO IN MERITO A
PREVENZIONE INCIDENTI (SINIACA, INTEGRIS, JAMIE)
Carla Debbia, Alessio Pitidis*, …INFERMIERE …………….., Emanuela Piccotti, Salvatore Renna, Piero
Scarsi**, Piero Buffa**, Pasquale Di Pietro, Paolo Petralia***
Pronto Soccorso e Accettazione, Medicina d’Urgenza- IRCCS Istituto “G. Gaslini” Genova
*Direttore Responsabile Scientifico progetto CCM SINIACA-IDB Reparto Ambiente e Traumi Dipartimento
Ambiente e Prevenzione Primaria - Istituto Superiore di Sanità Roma
**UO Chirurgia - IRCCS Istituto “G. Gaslini” Genova
*** Direttore Generale -IRCCS Istituto “G. Gaslini” Genova
Introduzione Il Pronto Soccorso (PS) del IRCCS “G Gaslini” (IGG) è coinvolto dal 2006 con l’Istituto
Superiore di Sanità (ISS) nelle raccolte dati di PS inerenti gli incidenti domestici e stradali; integrato nel
2014 con intossicazioni, violenze ed autolesionismo. Gli infortuni sono un problema prioritario di sanità
pubblica, poiché rappresentano la 4.ta causa di morte in Europa dopo le malattie cardiovascolari, oncologiche
e respiratorie. In età pediatrica gli infortuni sono la 1.ma causa di morte in Europa e la 2.da in Italia (20,3%),
dopo le neoplasie ( 30,9%).
Materiali e metodi SINIACA è un sistema rilevazione dati nazionale informatizzato costituito dall’ISS sulla
base della Legge n. 493 del 3 Dicembre 1999, G.U. n. 303 del 28 Dicembre 1999, che indica le "Norme per
la tutela della salute nelle abitazioni e istituzione dell'assicurazione contro gli infortuni domestici" Di questa
Rete l’unico PS Pediatrico è l’IRCCS “G. Gaslini” che fornisce dati per circa il 40% dei dati nazionali sugli
incidenti in età pediatrica. La rete SINIACA è collegata al sistema Injury Database (IDB) Europeo, a cui
confluiscono tutti i dati forniti dalle Nazioni Europee. L’ IDB è un database europeo consultabile su internet,
sviluppato dalla DG SANCO (Salute e Protezione del Consumatore) nell’ambito del Programma di
Prevenzione degli Infortuni partito nel 1999, allo scopo di fornire un accesso centralizzato ai dati rilevati
dagli Stati Membri dell’Unione Europea (Raccomandazione Europea sulla Prevenzione degli Infortuni). Alla
rete di sorveglianza IDB contribuiscono oltre 100 ospedali in 22 Paesi europei; in Italia coinvolge 11
Regioni. I PS collegati forniscono trimestralmente, attraverso il sito informatico dedicato ISS, i propri dati e
da questo possono scaricare dati generali. Nell'ambito di un accordo con il Dipartimento Centrale di
Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute sono state studiate le informazioni sanitarie contenute
nelle Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) con i referti del PS, onde avere elementi sulla causa esterna
dell’incidente, ovvero il nuovo Progetto INTEGRIS http://www.rp/integris.eu, studio pilota condotto in 6
Paesi membri UE (A, DE, DK, IE, IT, UK) .
Risultati Il SINIACA ha stimato che in Italia ogni anno accedano in PS per incidente (o violenza) oltre
1.160.000 bambini (età 0-14) all'anno. Di questi circa il 31% cioè 365.000 bambini accedono al PS a causa di
un incidente domestico. Il tasso medio di accesso in PS per infortunio domestico è nei bambini <5 anni d'età (
maschi>femmine): 8.137 casi ogni 100 mila/anno. Il 50% degli incidenti domestici sono dovuti a caduta
(cadute dal fasciatoio 50% età 0-1 anno). <5 anni d'età: contatto corpo estraneo 4,8%; ustione 3,1%,
avvelenamento/intossicazione 2,8%). 10-14 anni: ferite 10,8%, fratture 9,8%. Attività svolta dal bambino
infortunato: gioco (40%). Oltre il 7% degli incidenti avvengono all'atto del nutrirsi. Luogo domestico di
maggior frequenza: < 5 anni d'età 40,0% camera da letto/soggiorno, il 16,4% in cucina e il 13,8% nelle altre
pertinenze interne dell'abitazione. Riguardo ai traumi in Pronto Soccorso si registra il 92,8% delle dimissioni
a domicilio: lesioni superficiali (24,2% contusioni, 15,3% fratture lievi e chiuse, principalmente a carico
degli arti superiori, 11,4% traumi cranici, 7,4% ferite al volto). La proporzione dei ricoveri è pari al 7,5%
degli accessi in PS. Una nota a parte merita il problema emergente dell’ingestione delle pile al litio, come
evento raro, ma straordinariamente pericoloso, se non letale, in continuo aumento per la straordinaria
diffusione di questi strumenti e le loro piccole dimensioni.
Discussione Il 16 e 17 Maggio 2014 l’ IRCCS IGG, con la collaborazione dell’AOPI (Associazione Ospedali
Pediatrici Italiani), dell’ISS ed il Ministero della Salute ha organizzato il Convegno Nazionale : “La
sorveglianza ospedaliera degli incidenti in Italia ed in Europa- I risultati del progetto CCM DSINIACA-IDB
e proposta di avvio di una rete di sorveglianza degli Ospedali Pediatrici Italiani”. Per prevenire questi
incidenti evitabili e loro morbosità è necessario rafforzare la sorveglianza epidemiologica. Durante il
Convegno sono intervenuti i Rappresentanti di tutti i PS Pediatrici dell’AOPI che intendono integrarsi nelle
rete di SINIACA e nella Rete Europea IDB. Parte dal Gaslini quindi la realizzazione di una Rete Pediatrica
Epidemiologica dei Pronto Soccorso degli Ospedali Pediatrici Italiani finalizzata alla sorveglianza degli
incidenti, costituendo insieme all' ISS un vero e proprio gruppo permanente di lavoro integrato a livello
europeo. Durante il Convegno inoltre si sono presi gli accordi per l’elaborazione delle Raccomandazioni
Internazionali per la Prevenzione Incidenti in età Pediatrica, con i Rappresentanti delle importanti Società
Scientifiche convenute
Bibliografia
http://www.iss.it/casa/?lang=1&tipo=11
http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=503&area=incidenti%20domestici&menu
=vuoto
http://www.ccm-network.it/dettaglioEvento.jsp?id=node/1901
203
33 P - MALARIA IN ETÀ PEDIATRICA: LA NOSTRA ESPERIENZA
Marta Odoni*, M.Cristina Villa*, Daniela Messina, Jorge Ruocco, Gloria Pianon, Ahmad Kantar*
*U.O. di Pediatria, Istituti Ospedalieri Bergamaschi, Policlinico San Pietro, Ponte San Pietro (BG)
Introduzione
Nel mondo si contano più di 200 milioni di casi di malaria all’anno; il 40% della popolazione mondiale vive in
aree in cui la malaria è endemica (gran parte dell’Africa, sub continente indiano, sud est asiatico, America latina,
parte dell’America centrale). Il contagio avviene attraverso la puntura di zanzare anofele; e’ provocata nell’uomo
da 4 tipi di plasmodi: Falciparum, Vivax, Malariae ed Ovale. Per la malaria non esiste alcun vaccino; per
prevenire l’infezione è necessario rispettare adeguate misure di prevenzione comportamentale ed effettuare la
profilassi farmacologica antimalarica. La malaria è scomparsa dal nostro paese a partire dagli anni 50; i casi di
malaria attualmente registrati in Italia sono di importazione. Negli ultimi anni l’incremento degli spostamenti
internazionali ha provocato un aumento dei casi di malaria in tutti i paesi europei, inclusa l’Italia. Descriviamo
l’epidemiologia dei casi di malaria diagnosticati presso la nostra UO di pediatria negli ultimi 8 anni.
Materiali e metodi
Analisi retrospettiva dei ricoveri per malaria presso la nostra UO di Pediatria dal Gennaio 2006 al Gennaio 2014;
sono stati analizzati i seguenti dati: soggiorno o provenienza da paesi endemici, presentazione clinica, diagnosi,
trattamento, eventuale utilizzo di chemioprofilassi antimalarica.
Risultati
Nel periodo compreso tra Gennaio 2006 al Gennaio 2014 sono stati diagnosticati 16 casi di malaria, tutti di
importazione. L’agente eziologico principale è il Plasmodium Falciparum (81%), seguito da Plasmodium Vivax
(12,5%) e Plasmodium Malariae (6,25%). La mediana dell’età dei bambini affetti è 9,7 anni; 10 bambini (62,5%)
erano residenti in Italia ed avevano effettuato un viaggio nel paese di origine con i genitori; 6 bambini erano
migranti (37,5%). I più comuni paesi di infezione erano Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal e Nigeria. La
mediana della parassitemia alla diagnosi è 1,5%, con valore massimo del 11%. La profilassi antimalarica era
stata effettuata nel 60% dei pazienti residenti in Italia, che avevano effettuato soggiorno in Africa. I sintomi di
presentazione sono risultati del tutto aspecifici (febbre nel 100 % dei casi, vomito nel 46%, tosse nel 30%,
astenia nel 30%). La durata del ricovero in media è stata di 7,2 gg. I pazienti hanno in media iniziato il
trattamento, differenziato a seconda del tipo di plasmodio, entro i 2 giorni dall’ingresso in reparto. Quattro
pazienti con grave quadro clinico (malaria cerebrale, parassitemia elevata, concomitante infezione tubercolare e
severa piastrinopenia) sono stati trasferiti presso altro Centro, provvisto di UO di rianimazione pediatrica.
Discussione
I bambini sono ad alto rischio di contrarre la malaria, possono ammalarsi rapidamente ed in modo grave; i
sintomi iniziali della malattia sono spesso aspecifici e possono essere confusi con quelli di una banale forma
influenzale; pertanto la semplice febbre in un bambino di ritorno da un viaggio in zona malarica (effettuato negli
ultimi 6 mesi) deve esser sempre considerata come potenziale sintomo di infezione malarica. La diagnosi viene
fatta mediante identificazione del parassita su striscio ematico; la terapia varia in base alla specie infettante, allo
stato clinico del bambino e alla suscettibilità presunta del parassita in base alla regione geografica di origine. La
specie piu’ aggressiva risulta essere il Falciparum, in linea con i dati della letteratura. Le famiglie non devono
sottovalutare il pericolo di infezione e in caso di viaggio in paesi endemici devono sottoporre i bambini ad una
corretta profilassi antimalarica.
Bibliografia
- WHO: 10 facts on malaria. Geneva: WHO Health Organisation; 2013
- Feachem RG et al. Shrinking the malaria map: progress and prospect. Lancet 2010; 376: 1566-1578
204
34 P - PROTOCOLLO STRATEGICO SPECIFICO PER IL TRATTAMENTO DI SINTOMI
PSICOSOMATICI CAUSATI DA UN ATTEGGIAMENTO IPERPROTETTIVO DEI GENITORI
IN BAMBINI CON SUPPOSTE AFFEZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Francesca Lecce e Ahmad Kantar
Centro di Terapia Strategica di Arezzo
Introduzione: Nel modello familiare iperprotettivo la coppia di genitori ha un superinvestimento nel figlio in
termini di cure e attenzioni. La risultanza è che i figli conducono le loro vite come se fossero rinchiusi in
“prigioni dorate” da cui è faticoso uscire sia per gratitudine che per inadeguatezza. In queste condizioni, i
pazienti sviluppano sintomi, quali la tosse persistente o il bisogno di schiarirsi la gola, che vengono talvolta
diagnosticate come patologie respiratorie.
Materiali e Metodi: Per risolvere tale problema, abbiamo applicato un protocollo innovativo basato su terapie
indirette (in assenza del paziente) da noi sviluppate. I risultati della nostra esperienza condotta in tre Ospedali
italiani su circa 100 soggetti con diagnosi di asma allergico o bronchiale dimostrano che agendo sui genitori è
possibile utilizzare un intervento efficace, rappresentato da manovre orientate a rompere quel meccanismo
autopoietico stabilitosi tra tentate soluzioni e persistenza del problema. Procedendo con la modalità di indagine
strategica (dialogo strategico) si rilevano le tentate soluzioni che i genitori mettono in atto per cercare di far
fronte al problema. Le ristrutturazioni eseguite in seduta hanno avuto il fine di far percepire ai genitori come i
loro comportamenti stavano costruendo proprio ciò che volevano evitare, ossia far sentire il proprio figlio malato
e inabile alla vita; inoltre si sono focalizzate nel trasmettere che solo attraverso un “osservare senza intervenire”
avrebbero potuto costruire un fronte genitoriale comune ed efficiente in grado di responsabilizzare e far
sperimentare un senso di capacità al figlio. Alla fine della seduta l’incontro si chiudeva con le seguenti tre
prescrizioni: a) squalificare il sintomo al fine di eliminare il vantaggio secondario, b) la congiura del silenzio
(evitare di parlare del problema) e c) la compilazione di un “diario della tosse” in cui vengono monitorati tutti i
sintomi nel tempo e nelle varie situazioni quotidiane.
Risultati: Dopo aver smontato, una ad una, le tentate soluzioni- nel giro di poche settimane la sintomatologia
scompare.
Discussione: Spesso questi genitori raccontano con voce pacata e serena, che se dovessero rivolgere lo sguardo
ai mesi passati non riuscirebbero a rivedere, oggi, quel tunnel senza via d’uscita. Infatti, come la nostra
esperienza ci suggerisce <<Più rapida è la soluzione –più i problemi appaiono lontani>>.
Bibliografia:
Nardone G. e coll. (2012), Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G. (1993), Paura, Panico, Fobie, Ponte alle Grazie, Firenze.
Nardone, G. (2003), Cavalcare la propria tigre, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G., Balbi, E. 2007, Solcare il mare all'insaputa del cielo, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G., De Santis, G. (2011), Cogito ergo soffro, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi R. (2001) Modelli di famiglia, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G., Salvini, A. (2004), Il dialogo strategico, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone, G., Salvini, A. (2012), Dizionario internazionale di psicoterapia, Garzanti, Milano.
Nardone, G., Watzlawick P. (1990), L'Arte del Cambiamento: manuale di terapia strategica e ipnoterapia senza
trance, Ponte alle Grazie, Firenze.
Watzlawick, P., Beavin J.H.., Jackson Don D. (1971) Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei
modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma.
Watzlawick, P., Nardone G., (1997) (a cura di), Terapia breve strategica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
205
35 P - MANAGEMENT DELLA TUBERCOLOSI INFANTILE: LA NOSTRA ESPERIENZA
M.Cristina Villa, Marta Odoni, Daniela Messina, Camillo Lovati, Ahmad Kantar
U.O. Pediatria Istituti Clinici Bergamaschi – Policlinico San Pietro (Ponte San Pietro, BG)
INTRODUZIONE
La tubercolosi (TBC) in età pediatrica rappresenta il maggior problema di sanità pubblica nel mondo: secondo
la World Health Organization (WHO) circa un milione di bambini di età inferiore ai 15 anni sviluppa la TBC
ogni anno nel mondo e i bambini contribuiscono per il 3-6% dei casi di TBC nei paesi sviluppati e per il 25% dei
casi nei paesi in via di sviluppo.
E’ dunque una problematica clinica che anche in Italia dobbiamo essere pronti a riconoscere e ad affrontare,
possibilmente con un management diagnostico terapeutico condiviso.
MATERIALI E METODI
Abbiamo voluto analizzare i casi di diagnosi di TBC avvenuti negli ultimi 6 anni nella nostra U.O. di Pediatria
analizzando dalle cartelle cliniche i dati anagrafici e anamnestici dei pazienti, il motivo di ricovero e il percorso
diagnostico-terapeutico effettuato.
Nella nostra U.O. sono stati diagnosticati 6 casi di infezione tubercolare dal gennaio 2008 al settembre 2014 su
un totale di 6376 ricoveri (0.1%)
RISULTATI
L’età dei nostri pazienti con diagnosi di TBC varia dai 4 ai 12 anni, 5 dei 6 bambini hanno origini africane, uno
è italiano. Tutti hanno un’anamnesi familiare muta per TBC o comunque per infezione respiratoria cronica, in
un caso un fratello era stato screenato per TBC per un caso scolastico ma era risultato negativo.
Il motivo di ricovero è stato diverso per ciascun paziente:
1) POLITRAUMA: all’RX torace calcificazioni linfonodali mediastiniche
2) FEBBRE PERSITENTE: eseguito RX torace ambulatoriale con riscontro di incremento dell’ilo dx
3) ADDOMINALGIA E STIPSI: all’anamnesi riferito che un mese prima aveva eseguito RX torace per
TORACALGIA con riscontro di incremento dell’ilo, in attesa di eseguire TC torace ambulatoriale
4) LINFOADENOPATIA LATEROCERVICALE : all’Rx torace riscontro di tumefazione mediastinica
5) MALARIA+BCP DX: all’Rx torace impegno mediastinico-ilare
6) TUMEFAZIONE DITA MANO DA MESI :all’esame obiettivo linfoadenopatia ascellare omolaterale
La diagnosi si è basata per tutti i pazienti sull’esecuzione del test cutaneo della tubercolina (intradermoreazione
di Mantoux) risultata positiva in 5/6 casi (diametro trasverso >10mm) e dubbia in un solo caso (diametro 510mm) , associata all’esecuzione di IGRA test (T-SPOT, Quantiferon) risultati positivi in tutti i casi.
Gli aspirati gastrici sono invece risultati tutti negativi. L’esame colturale su materiale bioptico linfonodale
eseguito in un caso è risultato positivo per PCR del M.tubercolare.
La TC toracica è stata eseguita in tutti i casi con conferma del quadro di malattia evidenziato all’RX ad
accezione che nel caso di TBC ossea; un caso presentava anche la TC addome patologica.
Sono state quindi poste rispettivamente diagnosi di TBC: MEDIASTINICA (2casi) – PRIMITIVA
POLMONARE- MILIARE-POLMONARE BACILLIFERA-OSSEA.
La terapia per ciascun paziente (concordata con il Centro di riferimento dell’Istituto di Villa Marelli
dell’Ospedale Ca’Granda di Milano) è stata l’associazione di isoniazide+rifampicina+pirazinamide peri primi
due mesi. Due pazienti sono poi stati trasferiti presso strutture specializzate per il quadro infettivo complicato.
DISCUSSIONE
Dalla nostra esperienza emerge come la presentazione clinica dei casi di TBC nei bambini può essere varia e
spesso sovrapponibile a diagnosi ben più frequenti in età infantile, a carico ad esempio dell’apparato respiratorio,
linfonodale, osseo. I dati anamnestici, le origini dei pazienti e spesso le immagini radiologiche ci possono aiutare
nell’indirizzare il nostro percorso diagnostico verso il sospetto di infezione tubercolare: la TBC deve quindi
rientrare anche nei nostri Reparti in diagnosi differenziale con le altre patologie pediatriche.
In accordo con le maggiori linee guida internazionali il test cutaneo con la tubercolina è un valido mezzo
diagnostico di TBC: nei paesi con alte risorse economiche è indicato utile essere associato all’esecuzione di un
IGRA test . L’esame colturale sarebbe necessario sempre per confermare la diagnosi di infezione tubercolare e
per la tipizzazione e sensibilizzazione del Micobattere:è noto però che i bambini sono scarsamente bacilliferi.
La TC torace è indicata in ogni caso di diagnosi di TBC.
L’approccio terapeutico con triplice terapia in età infantile è condiviso a livello internazionale, ad eccezione di
casi di confezione HIV o di TBC meningea/ossea (quadruplice terapia).
In considerazione del possibile continuo incremento della diffusione dell’infezione tubercolare nella popolazione
anche infantile in Italia sono auspicabili Linee Guida Pediatriche Italiane di management della TBC per
ottimizzare le risorse diagnostiche e terapeutiche nei nostri Reparti.
BIBLIOGRAFIA
Berti E,Galli L, Venturini E, De Martini M, Chiappini E BMC Infectious Diseases 2014,14 (S1:S3)
Piccini P, Chiappini E, Tortoli E, De Martino M, Galli L BMC Infectious Diseases 2014,14 (S1:S4)
206
1 R - LA GESTIONE OSPEDALIERA DEL DIABETE DI TIPO 1 ALL’ESORDIO NETWORK
PEDIATRICO NAZIONALE DI MONITORAGGIO
Mariangela Bosoni°, Elisabetta Racchi°, Dante Cirillo°, Alessandra Giovanna Perduca°, Gianluigi
Gargantini*, Patrizia Calzi§ Luciana Parola° e i componenti del Network Pediatrico
°UO Pediatria e Neonatologia, Ospedale “G.Fornaroli”, Magenta
* A.O della provincia di Lodi
§
U.O di Pediatria e Neonatologia ,Ospedale di Vimercate “A.O. Vimercate
INTRODUZIONE
L'esordio clinico del diabete di tipo1 avviene in genere acutamente e spesso con un grave squilibrio metabolico
(chetoacidosi diabetica) caratterizzato da iperglicemia e acidosi. Secondo gli attuali criteri la diagnosi si basa sul
riscontro di:glicemia > 11 mmol/L (200 mg/dl), pH venoso < 7,3 o bicarbonati < 15 mmol/L, chetonemia e
chetonuria. Una diagnosi tempestiva, prima che si instauri il quadro metabolico di acidosi, è auspicabile e deve
essere perseguita. Nell’ambito del Progetto NETWORK PEDIATRICO è stata elaborata una scheda raccolta dati
sulla gestione ospedaliera dei pazienti pediatrici con diabete di tipo 1 all’esordio al fine di valutare quanto le
indicazioni fornite dalle linee guida vengano applicate nella pratica clinica ospedaliera.
METODI
Sono stati inseriti nello studio pazienti di età pediatrica (inferiore ai 18 anni)con diabete di tipo 1 all’esordio. La
raccolta dati è stata effettuata tramite compilazione di schede online.
RISULTATI
Sono state raccolte 234 schede compilate da 28 Centri italiani. La popolazione era costituita da 126 maschi e 108
femmine di età compresa tra i 7 mesi e i 15 anni e 5 mesi . La durata dei sintomi pre diagnosi varia da 0 a 150
giorni con una media di 20 giorni. Il pH rilevato all’ingresso risultava inferiore a 7,30 (chetoacidosi) nel 37,2%
dei pazienti, con 4,3% di casi di chetoacidosi severa (pH<7). Nella casistica raccolta non è riferito alcun
decesso, ma un caso di edema cerebrale. I più significativi dati raccolti comprendono la mancata rilevazione di
parametri vitali in molti soggetti indipendentemente dalla gravità clinica (frequenza cardiaca rilevata nel 84% dei
pazienti, frequenza respiratoria nel 36%); lo scarso utilizzo (36%) della determinazione della chetonemia;
l’utilizzo dei bicarbonati nel 4,7% dei casi, compresi soggetti con pH>7,1 nonostante questa pratica sia
sconsigliata dalle Linee Guida; il riscontro di ipopotassiemia nel 10% dei casi, come da gestione non ottimale
della terapia;la dimissione con terapia insulinica multiiniettiva in quasi tutti i pazienti: il microinfusore è stato
utilizzato infatti in 4/234 pazienti (1,7%).
DISCUSSIONE
I dati raccolti sono descrittivi della diagnosi e trattamento del diabete tipo I all’esordio in ospedali periferici
italiani. I dati confermano la gravità della chetoacidosi diabetica, ancora oggi un grave problema diagnostico e
gestionale per i pronto soccorsi e le divisioni pediatriche. Dal confronto tra i quadri clinici di chi si presenta in
chetoacidosi diabetica e chi giunge all'osservazione con pH venoso > 7,30 è evidente come è nel primo gruppo
che si ha la grande maggioranza delle situazioni di shock, disidratazione, ipopotassiemia e coma. Fondamentale
quindi è giungere a un sospetto diagnostico e al conseguente accesso alle cure prima del deterioramento
metabolico. I nostri dati mostrano una durata dei sintomi prericovero ancora elevata. Una capillare azione
educativa sulla popolazione e sulla medicina territoriale potrebbe ridurre al minimo i casi clinici più severi
gravati da maggiori complicanze e che richiedono assistenza intensiva. . Si ritiene inoltre che un quadro iniziale
meno grave possa associarsi a un andamento anche successivo del diabete meglio controllabile e quindi, a
cascata, minor numero di ricoveri e minor gravità di complicanze. Questi dati indicherebbero inoltre la necessità
di un aggiornamento dei pediatri e informazione alla popolazione generale in modo da favorire una diagnosi
precoce.
BIBLIOGRAFIA
Wolfsdorf J et alDiabetic ketoacidosis in children and adolescents with diabetes. (ISPAD Clinica Practice
Consensus Guidelines 2009 Compendium) Pediatric Diabetes 10 (suppl 12): 118-133; 2009
207
2 R - LA GESTIONE OSPEDALIERA DELLA GASTROENTERITE ACUTA: NETWORK
PEDIATRICO NAZIONALE DI MONITORAGGIO
Alfredo Guarino*, Andrea Del Vecchio*, Mariangela Bosoni°, Elisabetta Racchi°, MT Ortisi§, Riccardo
Longhi§, Luciana Parola° e i componenti del Network Pediatrico
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II°, Napoli
°UO Pediatria e Neonatologia, Ospedale “G.Fornaroli”, Magenta, A.O. “Osp. Civile di Legnano”
§
A.O S. Anna, Como
INTRODUZIONE
La gastroenterite acuta (GEA) è una patologia ad alta incidenza in età pediatrica ed è causa di numerosi ricoveri
ospedalieri, visite mediche, indagini strumentali e prescrizione di farmaci. Nell’ambito del Progetto NETWORK
PEDIATRICO è stata elaborata una scheda raccolta dati sulla gestione ospedaliera dei pazienti pediatrici con
gastroenterite acuta. Lo strumento ha permesso di valutare quanto le indicazioni fornite dalle Linee Guida
ESPGHAN/ESPID siano state applicate nella pratica clinica ospedaliera. Le Linee Guida sottolineano in
particolare come nei pazienti con GEA senza altri fattori di rischio non siano indicate indagini laboratoristiche,
coprocolture, interruzione dell’alimentazione o cambiamento della dieta, né generalmente l’uso di farmaci.
METODI
Sono stati inseriti nello studio pazienti di età inferiore ai 6 anni ricoverati o trattenuti in osservazione breve
intensiva (OBI)per gastroenterite acuta. La raccolta dati è stata effettuata tramite compilazione di schede online.
L’aderenza alle Linee Guida è stata calcolata considerando come violazioni maggiori quelle che potevano
modificare negativamente il decorso della patologia, aumentare in maniera non necessaria il costo del
trattamento o che non rispettavano le raccomandazioni di alto grado. Sono state considerate invece violazioni
minori tutti gli interventi in contrasto con le raccomandazioni di basso grado.
RISULTATI
Sono state raccolte 612 schede compilate da 31 Centri italiani. La popolazione era costituita da 328 maschi e 284
femmine di età media 22.8±15.4 mesi. L’appropriatezza dei ricoveri è stata particolarmente bassa (346/602,
57.5%). Solo il 21% dei bambini (126/612) è stato gestito nel completo rispetto delle Linee Guida mentre nel
45% (274/612) l’aderenza alle indicazioni è stata solo parziale. Le principali violazioni delle Linee Guida
comprendevano la richiesta di indagini microbiologiche (>70%), cambiamenti della dieta (310; 27.6%),
prescrizione di antibiotici (17 %) e antidiarroici (6%).
DISCUSSIONE
Il network pediatrico si è rivelato un ottimo sistema di monitoraggio della gestione clinica del bambino con
gastroenterite, facendone emergere i punti di forza e le criticità su cui indirizzare interventi di miglioramento. I
nostri dati mostrano che, nonostante venga eseguito un adeguato inquadramento clinico della gravità di
patologia, i pazienti con gastroenterite acuta siano eccessivamente medicalizzati, ricoverati anche quando non
necessario e sottoposti in modo non adeguato a indagini diagnostiche, somministrazione di farmaci e
reidratazione endovenosa. Un percorso di miglioramento porterebbe non solo a benefici per i pazienti ma anche
a un notevole risparmio economico.
BIBLIOGRAFIA
1) Guarino A et al. European Society for Paediatric Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition/European
Society for Paediatric Infectious Diseases Evidence-based Guidelines for the Management of Acute
Gastroenteritis in Children in Europe, J PediatrGastroenterolNutr. 2008 May;46(5):619-21
2) Longhi R, Ortisi MT, Gargantini G, Minasi G, Matera N, Parola L. The Italian Pediatric Network, Italian
Journal of Pediatrics 2014, 40(Suppl 1):A38
208
3 R - QUANDO È IL CANE A FARLA DA PADRONE…L’ ECHINOCOCCOSI
Giuseppe Frandina, Paola Chiarello, Clara Chiarello, Anastasia Cirisano, Maurizio Cretella, Concetta Rosso,
Salvatore Sisia, Francesco Paravati
U.O.C. Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale “S. Giovanni di Dio”, Crotone
INTRODUZIONE. L’Echinococcosi o idatidosi è una malattia causata dallo stadio larvale di un cestode
appartenente alla specie Echinococcus granulosus. Il suo ciclo biologico è caratterizzato dalla formazione di cisti
larvali in vari organi di bovini,equini,caprini e ovini; allo stadio adulto è parassita dell’intestino tenue dei cani.
La malattia si trasmette all’uomo tramite contatto diretto o per ingestione di alimenti contaminati da feci
infestate. Nell’uomo, la larva determina la formazione di grosse cisti che coinvolgono il fegato (55-70%) e il
polmone (15-35%) con sede elettiva nel lobo inferiore destro ma anche, di rado, muscoli, reni, milza e SNC. La
sintomatologia è dovuta sia ad un’ azione compressiva locale sia a fenomeni generali di tipo allergico: grave
rischio è lo shock anafilattico in seguito a rottura delle cisti e disseminazione. Per la diagnosi assume grande
importanza la diagnostica strumentale oltre ai test immunologici. Il trattamento farmacologico prevede l’uso di
antiparassitari. Il farmaco d’elezione è l’Albendazolo.
Riportiamo 2 casi di echinococcosi cistica afferiti presso l’U.O. di Pediatria dell’Ospedale Civile di Crotone.
CASO 1 – LS , di anni 4, giunge alla nostra osservazione per eseguire ecografia addominale per tumefazione in
sede epigastrica, riferita in prima istanza ad ernia della parete addominale. L’esame evidenzia 4 cisti epatiche e 1
cisti splenica (Fig.1). All’anamnesi i genitori riferiscono che il bambino ha spesso giocato con un piccolo cane
randagio. Per sospetta idatidosi si eseguono Ab anti echinococco che risultano positivi (1:256). Si esegue TAC
Torace (Fig.2) - addome – encefalo che evidenzia: …presenza in campo polmonare sup. dx di formazione
rotondeggiante di 3.7 x 3.8 cm adesa alla parete anteriore a margini regolari a densità sovra liquida - …presenza
di grossolane formazioni a densità liquida nel parenchima epatico (4 cisti delle dimensioni medie di 3-4 cm) e
una a livello splenico di 9 cm.. Si instaura trattamento a lungo termine con Albendazolo per un periodo
complessivo di tre anni e tuttora in corso fino al prossimo controllo ecografico a distanza di un mese
dall’asportazione delle cisti epato-spleniche.
Figura 1
Figura 2
CASO 2 - G.P., di anni 10, giunge per difficoltà respiratoria, tosse, dolore emitorace dx, alitosi, condizioni
cliniche generali scadute. All'anamnesi: febbre per 3 gg la settimana precedente, ricomparsa di febbre a 41° C
dopo alcuni gg con tosse, vomito e secrezioni maleodoranti. L'RX torace eseguito esternamente evidenziava
pleuro-polmonite dx trattata a domicilio con amoxicillina da 5 gg. L'obiettività toracica evidenzia ridotta
penetrazione d'aria in regione medio-basale dx con gemiti, rantoli crepitanti e sfregamenti. Gli esami
ematochimici evidenziano leucocitosi neutrofila e PCR elevata. Si intraprende terapia con ceftriaxone e
claritromicina con miglioramento delle condizioni cliniche generali ma reperto toracico invariato. Si decide di
eseguire :TAC torace: ...lobo medio di area di consolidazione parenchimale D-max 70x78x75 mm, disomogenea
per la presenza nel contesto di strie iperdense e di immagini, aerea in apparente comunicazione con il bronco
segmentale mediale nel lobo medio…..Reazione pleurica a dx che assume aspetto saccato in sede posterobasale. Adenopatie mediastiniche. Eco addome: ampio versamento pleurico che risale in alto a
camicia.Ecocardiografia: modico versamento a livello della parete posteriore del ventricolo sinistro; Un
supplemento di anamnesi rivela che il paziente ha avuto spesso contatti con cani. Si decide di ricercare gli Ab
anti echinococco che risultano presenti (1:64).Si intraprende terapia con mebendazolo e cefixima e si invia il pz
per valutazione chirurgica presso centro di III livello extraregionale che conferma la necessità di intervento
chirurgico dopo terapia con albendazolo per 90 gg. Sottoposto ad intervento di lobectomia polmonare dx. viene
dimesso proseguendo la terapia antiparassitaria fino al controllo degli Ab anti-echinococco dopo 30 e 60 gg
risultati assenti.
DISCUSSIONE. La localizzazione multi-organo e al lobo polmonare sin dell’infezione è poco frequente in età
pediatrica. L’anamnesi si dimostra ancora una volta fondamentale per giungere in tempi brevi alla diagnosi.
L’indagine ecografica con il conforto dei test sierologici si conferma di grande utilità per una corretta diagnosi
nelle forme a localizzazione addominale fornendo dati simili a quelli rilevabili con la T.C.
Bibliografia:
Schipper HG, Kager PA: Diagnosis and treatment of hepatic echinococcosis: an overview. Scand J Gastroenterol
Suppl 2004; 50-5.
Schantz PM, Kern P & Brunetti E. "Echinococcosis". Capitolo 114 in: Tropical Infectious Diseases: Principles,
Pathogens & Practice, RL Guerrant, DH Walker & PF Weller, Eds. Churchill Livingstone/Elsevier, 2nd ed.,
2006, pp. 1304-1
209
4 R - FUNZIONALITÀ RESPIRATORIA IN BAMBINI CON DREPANOCITOSI: CONFRONTO TRA
SPIROMETRIA ED OSCILLOMETRIA AD IMPULSI
Pasquale Comberiati, Sofia Donatoni, Michele Piazza, Attilio L. Boner, Diego G. Peroni
Clinica Pediatrica, Università di Verona, Verona, Italia.
INTRODUZIONE
L’oscillometria ad impulsi (IOS) è una metodica non invasiva e validata per lo studio delle resistenze polmonari,
che a differenza della spirometria non necessita di un espirazione forzata e può quindi essere impiegata nei
bambini poco collaboranti od in età prescolare per studiare la funzionalità respiratoria [1]. Obiettivi dello studio:
confrontare i parametri dell’IOS e della spirometria nello studio della funzionalità respiratoria di bambini con
drepanocitosi (DP) e valutare l’eventuale influenza della durata della DP sulla funzionalità respiratoria.
METODI
In 28 bambini affetti da DP [n= 12 maschi, 43%; età mediana 9.5 anni, intervallo interquartile (IQR) 7-13] è
stata valutata la funzionalità respiratoria basale e 15 minuti dopo la somministrazione di 400µg di salbutamolo,
sia mediante IOS che spirometria. Per l’IOS i valori medi di resistenza sono stati calcolati alle frequenze da 5 a
20 Hz, nello specifico R5 ed R20.
RISULTATI
E’ emersa una significativa correlazione inversa tra i valori pre-β2 di FEV1 (mediana (M) 72.25; IQR 61.3-78.8)
e di R5 (M 125.3; IQR 104.7-159.4) (p=0.0003), cosi come tra i valori pre-β2 di FEV1 e di R20 (M 121.4; IQR
102.7-139.6) (p=0.018). Analogamente, è emersa una significativa correlazione inversa tra i valori post-β2 di
FEV1 (M 74.60; IQR 62.8-83.3) e di R5 (M 112.4; IQR 94.05-138.9) (p=0.0028), cosi come tra i valori post-β2
di FEV1 e di R20 (M 113.1; IQR 89.35-131.9) (p=0.0068). Infine, confrontando la durata della DP intesa come
l’età dei bambini, è emersa una significativa correlazione diretta tra i valori pre-β2 (M 107; IQR 98.7-131.7) e
post-β2 di R5 (M 99.3; IQR 80.1-115.3) e l’età (p=0,019 e p=0.002 rispettivamente). Simile correlazione si è
vista anche tra i valori pre-β2 (M 111.5; IQR 96.8-122.6) e post-β2 di R20 (M 99.1; IQR 86.50-122.4) e l’età
(p=0,0076 e p=0,0014, rispettivamente).
DISCUSSIONE
Si tratta del primo studio di confronto tra IOS e spirometria in bambini con DP. I nostri dati confermano la
sovrapponibilità di spirometria ed IOS per lo studio della funzionalità respiratoria nei pazienti con DP, già
evidenziata nei bambini asmatici [2]. Dal nostro studio è inoltre emerso un aumento delle resistenze
oscillometriche R5 e R20 correlato con la durata della DP. Al momento non ci sono studi longitudinali che
valutino la DP mediante l’oscillometria e la variazione delle resistenze R5 e R20 da noi osservata potrebbe
essere il punto di partenza per futuri studi di intervento terapeutico.
BIBLIOGRAFIA
[1] Beydon N, et al. J Resp Crit Care Med 2007;175:1304.
[2] Komarow HD, et al. Pediatr Pulmonol. 2012;47:18-26.
210
5 R - LUNG ULTRASOUND: A USEFUL TOOL IN DIAGNOSIS AND MANAGEMENT OF
BRONCHIOLITIS
Di Mauro Antonio1, Basile Vincenzo2, Scalini Egisto2, Comes Paolo3, Lofù Ignazio2, Tafuri Silvio4, Manzionna
Mariano2
1. Pediatric Unit, Department of Biomedical Science and Human Oncology, University of Bari “Aldo Moro”,
Bari, Italy
2. Pediatric Unit, Maternal and Child Health Department, “S. Giacomo” Hospital, ASL BA, Monopoli (Bari),
Italy
3. Radiodiagnostic Unit, “S. Giacomo” Hospital, ASL BA, Monopoli (Bari), Italy
4. Section of Hygiene, Department of Biomedical Sciences and Human Oncology, University of Bari “Aldo
Moro”, Bari, Italy
INTRODUZIONE: This was an observational cohort study of infants admitted to our Pediatric Unit with
suspected bronchiolitis, aimed to evaluate the accuracy of lung ultrasonography in the diagnosis and
management of bronchiolitis in infants.
MATERIALI E METODI: A physical examination and lung ultrasound assessment were performed on each
patient. An exploratory analysis was used to assess correspondence between the lung ultrasound findings and the
clinical evaluation and to evaluate the inter-observer concordance between the two different sonographs.
RISULTATI: 106 infants were studied (average age 71 days). According to our clinical score, 74 infants had
mild bronchiolitis, 30 had moderate bronchiolitis and 2 had severe bronchiolitis. 25 infants composed the control
group. Agreement between the clinical and sonographic diagnosis was good (90.6%) with a high inter-observer
ultrasound diagnosis concordance (89.6%).
Lung ultrasound permits the identification of infants who are in need of supplementary oxygen with a specificity
of 98.7 %, a sensitivity of 96.6 %, a positive predictive value of 96.6% and a negative predictive value of 98.7%.
An aberrant ultrasound lung pattern in posterior chest area was collected in 86% of infants with bronchiolitis. In
all patients clinical improvement at discharge was associated with disappearance of the previous LUS findings.
Subpleural lung consolidation of 1 cm or more in the posterior area scan and a quantitative classification of
interstitial syndrome based on intercostal spaces involved bilaterally, good correlate with bronchiolitis severity
and oxygen use.
DISCUSSIONE: The lung ultrasound findings strictly correlate with the clinical evaluations in infants with
bronchiolitis and permit the identification of infants who are in need of supplementary oxygen with high
specificity. Scans of the posterior area are more indicative in ascertaining the severity of bronchiolitis. Up to
date, LUS has to be considered as a rapidly expanding field and its use in pediatric care has to be implemented,
in order to minimize the use of ionizing radiation and the risk of cancer.
At present, LUS is not included in the management of bronchiolitis but if our results are further upholded in
larger, multicentric studies, the use of LUS could be routinely recommended in infants with clinical signs and
symptoms of suspected bronchiolitis.
BIBLIOGRAFIA: The role of chest ultrasonography in the management of respiratory diseases.
Multidisciplinary Respiratory Medicine 2013.
211
6 R - ANALISI DELLE SOTTOPOPOLAZIONI LINFOCITARIE DA SANGUE PERIFERICO IN
PAZIENTI CON BEHCET PEDIATRICO: UN NUOVO STRUMENTO DIAGNOSTICO?
Chiara Gorio, Paola Poli, Stefano Ghirardelli, Antonella Meini, Marco Cattalini, Daniele Moratto, Manuela
Baronio, Alessandro Plebani, Vassillos Lougaris
INTRODUZIONE:
La malattia di Behçet è una vasculite sistemica, che esordisce più frequentemente in soggetti giovani adulti, ma
può manifestarsi anche in età pediatrica. I criteri diagnostici utilizzati per i pazienti adulti non sempre sono
applicabili ai casi con esordio in età pediatrica e negli ultimi anni sono stati creati dei nuovi criteri diagnostici
specifici per questa categoria di soggetti (PED-BDIC). La patogenesi della malattia di Behçet non è nota. Studi
recenti mostrano che alla base di tale patologia possa esserci un disturbo del sistema immunitario e vi sono
alcune evidenze di un coinvolgimento dell’immunità adattativa. Dati sulle sottopopolazioni linfocitarie in
pazienti con malattia di Behçet sono riportati in un numero limitato di pazienti adulti, ma i dati in ambito
pediatrico sono ad oggi molto scarsi.
L'obiettivo del nostro studio è stato quello di valutare il profilo delle sottopopolazioni linfocitarie da sangue
periferico di pazienti con Behçet ad esordio pediatrico, con lo scopo di verificare l’eventuale presenza di
anomalie del sistema immunitario.
MATERIALI E METODI:
Nello studio sono stati reclutati 30 pazienti pediatrici con malattia di Behçet, afferenti al nostro Centro. I pazienti
sono stati divisi in 2 gruppi, in base all'età :< di 12 anni (gruppo 1) o > 12 anni (gruppo 2). Per ogni paziente
sono stati determinati i valori assoluti delle sottopopolazioni linfocitarie, mediante citometria a flusso
FACSCalibur (Becton Dickinson, CA). I dati ottenuti sono stati poi analizzati con il software “Cell Quest Pro”
(Becton Dickinson, CA) e processati con il software “FlowJo” (Tree Star , OR). I risultati ottenuti sono stati
comparati con controlli sani di età corrispondente.
RISULTATI:
Lo studio delle sottopopolazioni linfocitarie nei pazienti con Malattia di Behçet ha evidenziato notevoli
differenze rispetto ai controlli sani. Nei pazienti del Gruppo 1, sono state riscontrate delle alterazioni rispetto ai
controlli sani, sia a carico del comparto T, con una riduzione delle cellule CD4+ Naive, Central Memory ed
Effector Memory, delle cellule CD8+ totali ed Effector Memory, che a carico del comparto B, con un aumento
delle cellule B Switched memory. Nei pazienti appartenenti al Gruppo 2 si è evidenziata una riduzione delle
cellule CD4+ Naive e Central Memory, dei CD3+CD8+ totali e delle cellule T naive, mentre i valori dei linfociti
B sono risultati sovrapponibili ai controlli.
DISCUSSIONE:
In questo studio abbiamo per la prima volta dimostrato la presenza di alterazioni delle sottopopolazioni
linfocitarie nel sangue periferico di pazienti pediatrici affetti da malattia di Behçet. Tali anomalie sono più
significative nel gruppo di pazienti di età inferiore a 12 anni, e sembrano essere caratteristiche dei pazienti
pediatrici. Questi dati, se confermati in casistiche più ampie, potrebbero portare alla creazione di un’utile
strumento diagnostico per corroborare la diagnosi di Behçet pediatrico e suggerire nuovi modelli patogenetici.
BIBLIOGRAFIA:
Koné-Paut I. et al. “Registries in rheumatological and musculoskeletal conditions. Paediatric Behçet's disease: an
international cohort study of 110 patients. One-year follow-up data”, Rheumatology (Oxford). 2011
Jan;50(1):184-8.
Pineton de Chambrun M. et al.: “.New insights into the pathogenesis of Behçet's disease”, Autoimmun Rev.
2012 Aug;11(10):687-98.
212
7 R - RESISTENZA AI MACROLIDI IN BAMBINI CON POLMONITE ACQUISITA IN COMUNITÁ
DA MYCOPLASMA PNEUMONIAE: STUDIO DI 43 CASI
Maria Felicia Mastrototaro¹, Fabio Cardinale²
¹Ospedale SS Annunziata - Taranto; ²Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico-Giovanni XXIII - Bari
INTRODUZIONE: Il MP è uno dei più comuni agenti eziologici di CAP in bambini in età scolare e giovani
adulti ed i macrolidi rappresentano gli antibiotici di I scelta. I macrolidi inibiscono la sintesi proteica legandosi al
dominio V di 23S rRNA in corrispondenza dei codoni 2063 e 2064; queste posizioni sembrano fondamentali per
il legame (figura n°1); infatti, da tempo si sa che i meccanismi che conferiscono la più alta resistenza consistono
in una mutazione a carico di questi codoni, in particolare in una sostituzione di un residuo di A con un residuo di
G o C nei codoni 2063 e 2064. In realtà dal 2000 in poi si è assistito ad un’autentica esplosione di segnalazioni
di resistenza ai ML nel mondo, con percentuali che variano assai considerevolmente, dall’1% in Germania al 8090% in Cina e nell’est asiatico Lo scopo di questo studio è stato valutare la prevalenza in Italia di ceppi di MP
con mutazioni A2063G/A2064G e l’eventuale associazione delle mutazioni che conferiscono resistenza ai
macrolidi con i genotipi del Mycoplasma. Infine è stata valutata l’eventuale correlazione tra resistenza ai
macrolidi e outcome clinico e parametri di laboratorio e strumentali.
MATERIALI E METODI: Oggetto di studio sono stati 43 bambini con tampone nasofaringeo positivo per
Mycoplasma Pneumoniae afferiti per IBVR c/o la UO di Pneumologia dell’Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII
di Bari; 22 M (51%) e 21 F (49%); range di età: 15 mesi – 16 anni. Le manifestazioni cliniche presentate sono
state polmonite in 39 bambini (91%) e bronchite catarrale in 4 (9%). Le mutazioni A2063G/A2064G e i sottotipi
di MP sono stati individuati rispettivamente attraverso l’analisi molecolare del gene 23SrRNA di MP ed
utilizzando come target il nucleotide sottotipo-specifico del gene MPN528a in posizione 650584 del genoma
M129 (una A nei ceppi genotipo 1 e una C nei ceppi genotipo 2), mediante real-time-PCR.
RISULTATI: Le mutazioni che conferiscono resistenza ai macrolidi sono state rinvenute in 11 bambini (26%);
3 pazienti hanno acquisito la mutazione A2063G durante la terapia antibiotica. Non è emersa alcuna correlazione
tra la resistenza ai macrolidi ed il genotipo di MP (P > 0.05) e i parametri di laboratorio e i patterns radiologici
(P > 0.05). Infine i casi associati a resistenza alla claritromicina hanno presentato outcomes clinici meno
favorevoli rispetto a quelli osservati nei pazienti infettati da ceppi sensibili.
DISCUSSIONE: In questo studio abbiamo rilevato la circolazione anche in Italia di ceppi di Mycoplasma
Pneumoniae resistenti ai macrolidi, evidenziandone anche un'alta prevalenza rispetto ai dati riportati in altri
Paesi europei. Un risultato interessante di questo studio è l'acquisizione della mutazione A2063G in tre pazienti
durante il corso della terapia antibiotica. In teoria la resistenza ad un determinato antibiotico può dipendere dalla
esposizione dell’agente infettante a dosi subottimali dell’antimicrobico impiegato. Questa ipotesi non è valida,
visto che tutti e tre i pazienti hanno ricevuto una dose di 15 mg/Kg/die di claritromicina per os per almeno 10
giorni. Tuttavia, è possibile che le infezioni respiratorie siano dovute a una popolazione mista di ceppi resistenti
e sensibili e che la somministrazione del macrolide abbia selezionato le specie resistenti. Questo sottolinea
l’importanza di un test diagnostico rapido per individuare la resistenza ai macrolidi, ma anche la necessità di
ripetere il test in pazienti con infezioni gravi e con sintomi persistenti nonostante la terapia con macrolide in
modo tale da cambiare antibiotico al fine di ottenere una risposta clinica e microbiologica favorevole.
213
8 R - MUCORMICOSI RINO-OCULO-CEREBRALE RECIDIVANTE IN UN PAZIENTE AFFETTO
DA LEUCEMIA: CASE REPORT
Teresa Perillo (1), Francesco De Leonardis (2), Gianfranco Favia (3), Daniele RM (2), Koronoca R (1),
Giuseppe Giudice (4), Nicola Santoro (5)
(1) Medico in formazione specialistica Biomedicina Età Evolutiva, Università degli studi di Bari; (2) Dirigente
Medico Oncologia Pediatrica Policlinico di Bari; (3) Responsabile Odontostomatologia Policlinico di Bari (4)
Responsabile Chirurgia Plastica Policlinico di Bari; (5) Responsabile Oncologia Pediatrica Policlinico di Bari
Introduzione La mucormicosi è un'infezione fungina rara ma mortale causata da alcuni organismi dell'ordine
Mucorales. Dopo l’aspergillosi, è la seconda forma di micosi in ordine di frequenza che colpisce soggetti
immunocompromessi.Una diagnosi tempestiva, il trattamento immediato con antifungini ed un approccio
chirurgico aggressivo sono essenziali per prevenire eventuali disseminazioni, sebbene la sopravvivenza sia
tuttora bassa.1 Case Report Descriviamo il caso di una ragazza di 12 anni affetta da Leucemia Linfoblastica
Acuta tipo T (LLA-T) che stava effettuando chemioterapia secondo la Fase di Reinduzione del protocollo
AIEOP-BFM ALL 2009 per LLA-T. Nei giorni successivi alla somministrazione della II dose di VCR+ADM, la
piccola progressivamente ha sviluppato le seguenti tossicità: ematologica di grado IV, metabolica di grado IV(
trigliceridemia 2891 mg/dl ed iperglicemia > 500 mg/dl scarsamente responsiva alla terapia insulinica), epatica di
grado III (bilirubina tot. 4.5 mg/dl, yGT 1055 U/L), neuroendocrina di grado IV ( SIADH con Na+ <120 mEq/l),
neurologica periferica grado III e tossicità muscolo scheletrica di grado III (sindrome mialgica/miositica con
rabdomiolisi acuta (CPK 1082 U/L, mioglobina 258 ng/ml). Le indagini microbiologiche effettuate hanno rilevato
una riattivazione del virus di Epstein Barr, una positività dell’antigene sierico della Candida ed un Escherichia
Coli di tipo ESBL a livello del sangue, delle urine e del tampone faringeo. Sulla scorta dell’ABG ha iniziato
terapia antibiotica con meropenem e amikacina (introdotti inoltre L-Amb 3 mg/kg ed aciclovir). Nelle successive 48
ore si evidenziava una tumefazione edematosa dei tessuti periorbitari a sinistra come da iniziale cellulite orbitaria con
presenza di deficit dell’abduzione e dell’elevazione (si aggiungeva teicoplanina). Nelle 24 ore successive a tale
reperto la piccola presentava un episodio critico generalizzato susseguito da brevi episodi critici parziali subentranti a
tipo mioclonie. Eseguiva angio-RM encefalo e Tac del massiccio facciale che evidenziavano aree di alterato segnale in
corrispondenza della sostanza bianca sottocorticale frontale destra ed emisferica cerebellare bilaterale, edema dei tessuti
molli perioculari a sinistra, sinusite macellare a sinistra con concomitante erosione ossea ed etmoidite. Nei giorni
successivi, nonostante la negativizzazione degli esami colturali, si è assistito ad un rapido peggioramento delle
condizioni cliniche con comparsa agli esami radiologici di estensione del tessuto flogistico in sede retro-orbitaria
sinistra ed aumento del numero e dell’estensione delle lesioni della sostanza bianca in sede bilaterale. (Fig 1) E’
stato quindi effettuato un duplice intervento di debridment rino-endoscopico del seno mascellare, delle cellette
etmoidali, seguito da dacriorinocistostomia. Le indagini istopatologiche effettuate a livello dell’abbondante
tessuto necrotico prelevato, hanno confermato il sospetto clinico di Mucormicosi rino-oculo-cerebrale. Si
incrementava il dosaggio del L-Amb a 7,5 mg/kg e si associava caspofungina. Un mese dopo, si iniziava terapia
antifungina di mantenimento con Posaconazolo per via orale e, per remissione clinica di malattia a livello
midollare, si passava chemioterapia di Mantenimento. Le rivalutazioni radiologiche evidenziavano progressiva
lenta risoluzione dell’edema dei tessuti molli dell’ala del naso e peri-orbitario. Sei mesi dopo, abbiamo tuttavia
assistito ad una brusca riattivazione dell'infezione a livello palatale con massiva necrosi del mascellare ed
avulsione spontanea di 3 denti permanenti. (Fig 2) E’ stato quindi ripresa la terapia antifungina ev, interrotta la
chemioterapia ed effettuato intervento di emimaxillectomia sinistra con plastica ricostruttiva dell’emipalato e
della base dell’orbita. Attualmente, a distanza di 6 mesi da tale intervento, la paziente appare in buone condizioni
generali, senza esiti funzionali/estetici di rilievo ed il quadro infettivo appare sotto controllo. (Fig 3)
Conclusione Sebbene rara, la mucormicosi va inserita nella diagnosi differenziale dei dolori a livello del volto
nei pazienti pediatrici immunocompromessi. Il nostro caso dimostra che una diagnosi tempestiva, un approccio
multidisciplinare ed un rapido e radicale intervento terapeutico possono risultare essenziali in termini di
efficacia. Tuttavia tali sforzi non proteggono dal rischio di recidiva, che può comunque beneficiare dello stesso
approccio, sebbene in tal caso è spesso necessaria interruzione della chemioterapia ed intervento chirurgico
radicale.
Figura 1
Figura 2
Figura 3
1. Lewis RE, Kontoyiannis DP. Epidemiology and treatment of mucormycosis. Future Microbiol. September
2013;8(9):1163-75.
214
9 R - VALUTAZIONE DELL’IMMUNOFENOTIPO PERIFERICO ALL'ESORDIO DI LINFOMA DI
HODGKIN IN ETÀ PEDIATRICA: IMPATTO PROGNOSTICO.
Teresa Perillo°, Paola Muggeo*, Giampaolo Arcamone*, Chiara Novielli*, Rosamaria Daniele*, Nicola
Santoro^
Medico in formazione specialistica Pediatria, Università degli studi di Bari *Dirigente Medico Oncologia
Pediatrica Policlinico di Bari, ^Responsabile Oncologia Pediatrica Policlinico di Bari
Introduzione Il linfoma di Hodgkin (LH) è tra le neoplasie maligne che hanno registrato un più significativo
miglioramento in termini di prognosi negli ultimi decenni, con probabilità di guarigione che raggiungono il 90%.
La precoce identificazione dei pazienti a maggior rischio di malattia resistente consente di ottimizzare l'intensità
delle cure. In pt adulti sono state recentemente descritte come variabili prognostiche indipendenti all’esordio di
malattia la conta linfocitaria periferica (in particolare il rapporto CD4/CD19 (<10 vs >o= 10), il rapporto tra
conta assoluta di linfociti e monociti ed il loro singolo valore assoluto. 1,2 Lo scopo del nostro studio è stata la
valutazione del valore prognostico di parametri biologici quali conta periferica dei monociti, cellule Natural
Killer, linfociti B, rapporto CD3/CD19 e CD4/CD19 e linfociti/monociti alla diagnosi di malattia in 22 pt trattati
presso il nostro Centro tra il 2005 ed il 2014 per LH secondo protocollo AIEOP LH 2004 a cui è stato eseguito
immunofenotipo periferico alla diagnosi.
Materiali e metodi Abbiamo analizzato retrospettivamente i dati relativi a 21 pt (10 maschi, 11 femmine) affetti
da LH (età media alla diagnosi di 7 anni e 20 mesi). (Tabella 1). Al fine di stimare l’eventuale impatto
prognostico delle variabili da noi considerate, le abbiamo rapportate per ciascun pt all’esito della PET eseguita
dopo i primi due cicli di chemioterapia (INT-PET), all’eventuale intensificazione del programma terapeutico,
all'ottenimento dello stato di remissione (risposta completa (RC) o parziale (RP)) durante e al termine della
chemioterapia.
Risultati Dei parametri biologici da noi studiati, l’unico che influenza la prognosi di malattia in maniera
statisticativamente significativa nel nostro gruppo di pt è il rapporto CD4/CD19.Tale rapporto infatti, è risultato
inferiore a 10 (cut-off descritto in letteratura su pt adulti) in 18/21 pt, di cui 16/21 con risposta precoce all’intPET e remissione completa dopo terapia di prima linea. Al contrario, dei 3 pt con rapporto CD4/CD19>10 due
avevano una int-pet positiva ed uno dei due ha avuto anche necessità di chemioterapia intensificata (2 cicli IEP +
2 cicli DHAP), autotrapianto di cellule staminali, Radioterapia+ Bendamustina e successiva terapia con
brentuximab.
Conclusioni Il rapporto CD4/CD19, espressione dell’omeostasi immunologica, potrebbe avere un valore
prognostico nel LH pediatrico. La disponibilità di un marcatore biologico semplice che aiuti ad individuare
precocemente una malattia a comportamento più aggressivo può migliorare le possibilità di cura di quella
percentuale di pazienti attualmente a rischio prognosi infausta. I nostri dati preliminari sarebbe auspicabile che
fossero validati e confermati su una casistica pediatrica più ampia.
References
1 Peripheral blood CD4/CD19 cell ratio is an independent prognostic factor in classical Hodgkin lymphoma.
Gaudio F, Perrone T, Mestice A et al. Leuk Lymphoma. 2014 Jul;55(7):1596-601.
2 Peripheral blood lymphocyte/monocyte ratio at diagnosis and survival in classicalHodgkin's lymphoma.
Porrata LF, Ristow K, Colgan JP et al. .Haematologica. 2012 Feb;97(2):262-9.
PT1
PT2
PT3
PT4
PT5
PT6
PT7
PT8
PT9
PT10
PT11
PT12
PT13
PT14
PT15
PT16
PT17
PT18
PT19
PT20
PT21
STADIO
2A
2A
3A
4
3B
2A
2A
2A
2A
4
2B
4A
3B
3A
2A
2A
2B
3B
3B
2A
2B
GT
2
1
3
3
2
2
2
1
1
3
3
3
3
3
3
2
3
3
3
3
3
LINFOCITI
10310
2657
6883
1448
3706
1971
3342
2911
3117
1597
1272
1559
15631
9930
3487
1736
892
10350
4145
1804
1274
MONOCITI
3436
2656
292
304
506
1407
835
717
427
783
529
759
2188
509
917
560
460
598
482
812
910
NK
285
82
1598
101
392
157
vedi
116
138
311
50,8
218
276
281
104
209
71
1656
88
514
19,8
L/M
3,04
1
23,7
4,9
7,3
1,4
4
4
7,3
2
2,4
2,2
7,2
19,5
3,8
3,4
1,9
17,2
8,6
2,2
1,4
CD4/CD19
2
3.03
12,6
0,2
4,4
3
2,6
3,1
3,5
2,4
0,8
2,5
1,3
0
15
2,5
6
9,8
4,8
3,3
10,3
cd3/cd19
3,7
5,7
24,3
0,56
10,5
5,1
5
6,2
6,9
3,7
1,3
6
2,29
2,8
47,5
5,1
14,2
15,8
6
6,7
14,8
CD19
342
152
4030
869
144
295
232
349
416
261
522
218
594
234
69
257
44
7224
737
162
23
PET
NEG
NEG
POS
NEG
NEG
POS
NEG
NEG
POS
POS
NEG
NEG
NEG
NEG
NEG
NEG
POS
NEG
NEG
NEG
POS
INTENS
NO
NO
NO
SI
NO
NO
NO
NO
SI
NO
NO
NO
NO
NO
NO
NO
NO
no
NO
NO
SI
OUTCOME
RC
RC
RC
TMO
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
RC
TMO
215
10 R - IDENTIFICAZIONE DI FATTORI INDICATIVI DI ARTRITE IDIOPATICA GIOVANILE IN
UNA COORTE DI BAMBINI CON DOLORI OSTEOARTICOLARI
Paola Poli, Chiara Gorio, Elena Tononcelli, Antonella Meini, Alessandro Plebani, Marco Cattalini
Unità di Immunologia e Reumatologia Pediatrica, Spedali Civili di Brescia e Università degli Studi di Brescia
INTRODUZIONE
I dolori osteoarticolari sono un’evenienza comune nell’età pediatrica, una delle principali cause di riferimento al
pediatra di famiglia, che frequentemente richiede in seguito una valutazione reumatologica pediatrica. La
diagnosi differenziale dei dolori osteoarticolari è ampia, spaziando da condizioni benigne (come i “dolori di
crescita”) a condizioni potenzialmente letali (come le leucemie), ciò nonostante nella maggior parte dei casi una
corretta raccolta anamnestica permette di orientare la diagnosi differenziale nella maggior parte dei pazienti.
Scopo principale dello studio è stato il reclutamento di un gruppo di bambini inviati al nostro Centro per dolore
osteoarticolare, con lo scopo di identificare parametri ottenibili tramite la raccolta anamnestica in grado di
predire la diagnosi finale, in particolare la diagnosi di Artrite Idiopatica Giovanile (AIG).
Obiettivo secondario è stata la valutazione delle differenti eziologie del dolore osteoarticolare in una coorte di
bambini inviati per valutazione reumatologica pediatrica.
MATERIALI E METODI
I dati clinici di tutti i bambini inviati per artromialgie alla Reumatologia Pediatrica degli Spedali Civili di
Brescia tra il giugno 2011 e il dicembre 2013 sono stati registrati al momento della prima visita. È stato costruito
un database considerando: caratteristiche del dolore (frequenza, pattern, fattori precipitanti), tumefazione
articolare, rigidità mattutina, sintomi costituzionali (febbre, calo ponderale, sudorazione notturna e astenia),
esami di laboratorio (VES, PCR, ANA, Fattore Reumatoide), storia familiare per malattie autoimmuni. In
seguito alla formulazione della diagnosi finale, sono state costruite tre categorie: AIG, artrite post-infettiva,
cause non infiammatorie (es. dolori di crescita, anomalie posturali). Le tre categorie sono state quindi paragonate
rispetto ad ognuno dei parametri registrati, per verificare eventuali differenze nelle tre categorie. Infine è stato
costruito un modello, mediante regressione logistica multipla di tutti i parametri studiati, per identificare le
caratteristiche associate ad una diagnosi di AIG.
RISULTATI
In questo studio sono stati presi in considerazione 178 bambini valutati per dolore osteoarticolare. Le diagnosi
finali erano AIG (20%-36 bambini), artriti post-infettive (16%-28 bambini), cause non infiammatorie (64%-114
bambini). Il paragone fra le tre differenti categorie ha identificato un pattern di segni e sintomi specifici per
ognuna delle tre categorie. In particolare sono risultate altamente significative: la tumefazione articolare
persistente, il riposo come fattore precipitante, la presenza di rigidità mattutina ed il dolore persistente in
associazione alla diagnosi di AIG (p<0.001 per tutti i parametri); al contrario l’assenza di tumefazione
articolare, l’attività fisica come fattore precipitante, il dolore ricorrente pomeridiano o serotino sono risultati
statisticamente associati con la diagnosi di patologie non infiammatorie ( p<0.01 per tutti i parametri).
Successivamente, concentrando l’attenzione sulla diagnosi di AIG, è stata condotta una regressione logistica
multipla per analizzare l’impatto di ognuno dei parametri identificati sulla diagnosi finale, ottenendo la formula:
y = k + b1x1 + b2x2 + b3x3 + b4x4
(y= probabilità di ricevere una diagnosi di AIG; k=15.735; x1= pattern tumefazione articolare; x2= fattori
precipitanti; x3= rigidità mattutina; x4= frequenza dolore). Applicando questa formula in un bambino con dolore
osteoarticolare è possibile calcolare la probabilità che questi riceva una diagnosi finale di AIG, con una
sensibilità del 90.9% ed una specificità del 95,35%.
DISCUSSIONE
Il nostro studio ha evidenziato che, nonostante il dolore osteoarticolare sia una causa frequente di richiesta di
valutazione reumatologica, solo una minoranza di pazienti con questo disturbo riceverà una diagnosi finale di
AIG e che nella maggior parte dei bambini la causa dei dolori è non infiammatoria. Una valutazione dettagliata
della storia clinica è risultata uno strumento essenziale nell’approccio alla diagnosi differenziale. Con questo
studio è stata costruita una formula che permette di calcolare la probabilità che un bambino con dolore
osteoarticolare riceva una diagnosi finale di AIG. Naturalmente questa formula non può essere considerata come
sostituto di una valutazione medica specialistica, ma se i nostri risultati fossero confermati su più ampie
casistiche, potrebbe essere considerata come uno strumento utile ai pediatri di libera scelta per guidare gli
accertamenti necessari nel bambino che giunge per dolore osteoarticolare. Uno studio multicentrico, atto alla
validazione del presente score, è attualmente in corso.
216
11 R - WHEEZING RICORRENTE IN ETA’ PEDIATRICA POLIMORFISMI GENETICI E RISCHIO
ASSOCIATO
Claudia Tagliabue1, Valentina Ierardi1, Cristina Daleno1, Alessia Scala1, Leonardo Terranova1, Walter Peves
Rios1, Claudio Pelucchi2, Nicola Principi1, Susanna Esposito1
1
Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura, Dipartimento di Fisiopatologia e dei Trapianti, Università degli
Studi di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano; 2Dipartimento di
Epidemiologia, IRCCS Istituto Mario Negri per la Ricerca Farmacologica, Milano
Introduzione: Durante i primi anni di vita il wheezing rappresenta una patologia comune ma le ragioni alla base
dei diversi fenotipi non risultano completamente chiarite. Lo scopo di questo studio è stato quello di analizzare le
potenziali correlazioni tra il rischio di sviluppo di wheezing ricorrente e la presenza di specifici polimorfismi di
alcuni geni che regolano le funzioni del sistema immune e di studiare il ruolo che i diversi virus hanno e la loro
importanza, in associazione ai polimorfismi genetici, nel determinare la ricorrenza degli episodi.
Materiali e Metodi: Nello studio sono stati arruolati 119 bambini senza patologie croniche sottostanti che sono
stati ricoverati per il primo episodio di bronchiolite (74 dei quali hanno poi presentato wheezing ricorrente) e
119 soggetti di pari sesso ed età con un’anamnesi silente per patologia respiratoria e che sono stati selezionati
all’interno di un gruppo di pazienti ambulatoriali durante il periodo dello studio. Le due popolazioni in studio
sono state seguite per due anni; è stata eseguita, su campioni di sangue intero, la genotipizzazione di 47
polimorfismi nucleotidici in 33 geni.
Risultati: IL8-rs4073AT, VEGFA-rs833058CT, MBL2-rs1800450CT e IKBKB-rs3747811AT erano associati ad
un rischio significativamente aumentato di sviluppare wheezing (p=0,02, p=0,03, p=0,05 e p=0,0018), mentre
CTLA4-rs3087243AG e NFKBIB-rs3136641TT erano associati ad un rischio significativamente ridotto di
sviluppare wheezing (p=0,05 e p=0,04). IL8-rs4073AT, VEGFA-rs2146323AA e NFKBIA-rs2233419AG erano
associati ad un rischio significativamente aumentato di sviluppare wheezing ricorrente (p=0,04, p=0,04 e
p=0,03), mentre TLR3-rs3775291TC era associato ad un rischio significativamente ridotto di sviluppare
wheezing ricorrente (p=0,03). Nello studio relativo alle interazioni tra geni e ambiente, i rinovirus erano associati
a wheezing ricorrente in presenza di IL4Ra-rs1801275GG e G (odds ratio 6,03, 95% IC: 1,21-30,10, p=0,03) e di
MAP3K1-rs702689AA (OR 4,09, 95% IC: 1,14-14,61, p=0,03).
Discussione: Questo studio evidenzia una chiara relazione tra il rischio di wheezing ricorrente e i polimorfismi
di alcuni geni coinvolti nella risposta immune. Benchè siano necessari ulteriori studi per confermare questi
risultati, questi dati potrebbero risultare utili per una precoce identificazione dei soggetti a più alto rischio per lo
sviluppo di episodi ricorrenti di wheezing e, almeno in alcuni casi, di asma successivamente.
Bibliografia
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first six years of life. N Engl J Med 1995, 332:133-138.
2) Jackson DJ: Early-life viral infections and the development of asthma: a target for asthma prevention?
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3) Halfhide C, Smith RL: Innate immune response and bronchiolitis and preschool recurrent wheezing.
Pediatr Resp Rev 2008, 9:251-262.
4) Daley D, Park JE, He JQ, Yan J, Akhabir L, Stefanowicz D, Becker AB, Chan-Yeung M, Bossé Y,
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interactions of genetic polymorphisms in innate immunity genes with early viral infections and
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5) Borrego LM, Arroz MJ, Videira P, Martins C, Guimarães H, Nunes G, Papoila AL, Trindade H:
Regulatory cells, cytokine pattern and clinical risk factors for asthma in infants and young children with
recurrent wheeze. Clin Exp Allergy 2009, 39:1160-1169.
217
12 R - NECROTIZING GRANULOMAS OF THE LIVER CAUSED BY A SYSTEMIC BARTONELLA
VINSONII INFECTION: FROM CAT TO CHILD
ML Melzi1, G Bovo2, S Foresti3, A Cavallero4, R Corso5, A Ciervo6, F Mancini6, G Ferrari1, A D’Adda1, A
Biondi1
1.
Pediatric Department, Università Milano Bicocca, Fondazione MBBM, Monza, Italy
2.
Anatomical pathology, Ospedale S.Gerardo, Monza
3.
Infectious Diseases Department, Ospedale S.Gerardo, Monza
4.
Microbiology Laboratory, Ospedale S.Gerardo, Monza
5.
Radiology Department, Ospedale S.Gerardo, Monza
6.
Department of Infectious, Parasitic and Immune-mediated Diseases, Istituto Superiore di Sanità, Rome,
Italy
Introduction. Cat-scratch disease (CSD) is a benign disease manifested in most cases by self-limiting
lymphadenitis after an inoculation, usually inflicted by a cat. Bartonella henselae or Bartonella quintana are
generally the causative agents of the disease and laboratory confirmation of the diagnosis is possible by testing
the specific antibody response. Systemic infection has been reported in small series of immunocompetent and
immunocompromised children and generally has initial symptoms of prolonged fever and multiple
granulomatous lesions in liver and spleen. We describe the case of atypical and rare systemic Bartonella vinsonii
infection with liver involvement in a 11 years old girl in which the diagnosis was difficult because the negativity
of serological markers. The molecular detection of the Bartonella vinsonii sub. arupensis on liver specimen and
on cat blood sample, permitted the diagnosis of the etiologic agent and identification of the source of infection.
Case description. A girl, 11 years and 5 months old, was admitted to the Pediatric Department because of fever
lasting three weeks and multiple hepatic hypoechogenic lesions on abdominal ultrasound. NMR revealed
fibrotic-granulomatosis aspect of the lesions, more than ten, sized between 5-15 mm, except one in S6 of 45 mm.
General conditions of the girl were not compromised, she only suffered of abdominal pain. There was no
adenomegaly, whereas the liver was moderately enlarged with completely normal liver enzyme. Laboratory test
showed microcytic (69/fl) anemia (hemoglobin 10 g/dl), leukocytosis (12000 mm3) with neutrophilia (80%),
high sedimentation rate (93 mm/h) and high C reactive protein level (12 mg/dl, nv < 0.5),
hypergammaglobulinemia (2.1 g/dl) and hyper-IgG (2150 mg/dl). Multiple serologies for bacterial, mycotic and
viral infection were negative. Two serum samples, collected at the admission and two weeks later, were
examined for the presence of anti-B. henselae and anti-B. quintana IgG and IgM by using a commercial
immunofluorescence assay and resulted negative. Mantoux test and Quantiferon analysis were negative too. The
girl had a kitten at home and she has been scratched several times. The patient was treated with azithromycin ev
500 mg qd and doxycycline po 100 mg bid after culture of the blood, resulted negative. The girl underwent liver
niddle biopsy of the biggest lesion four days after the hospital admission. The histological examination revealed
inflammatory deposits, but no signs of granulomas. We performed also a bone marrow examination that
excluded hematological malignancies. After ten days persisting fever we decided to repeat the liver biopsy and
two new samples were got one in the healthy liver, the other through one of the more little lesions. The
histological examination this time revealed a stellate necrotizing granuloma surrounded by palisading epitheliod
cells. These results convinced us about the infective etiology of the lesions. Deparaffinized sections cut
containing representative samples of the lesions and the blood of the kitten were sent to the Istituto Superiore di
Sanità Department of Infectious Parasitic and Immune-Mediated Diseases of Rome for specific PCR assays of
Bartonella. The qualitative PCR analysis revealed specific DNA of B. vinsonii sub. arupensis in clinical and in
cat blood samples.
The child continued antibiotic treatment with azithromycin ev 500 mg qd until fever resolution, occurred four
weeks since the beginning of symptoms, and with doxycycline po 100 mg bid for six weeks. At the last followup, after six months, the hepatic lesions are improving, decreasing in number and dimensions.
The particularity of our case is in the unusually Bartonella species found that does not permit the diagnosis with
the conventional serological methods and the possibility to identify the bacteria with molecular tools in the tissue
and in the animal that gave the infection.
Bibliography
1. Systemic Bartonella henselae infection with hepatosplenic involvement. A.Ventura, F.Massei, T.Not,
M.Massimetti, R.Bassani, G.Maggiore. JPGN, 29 (1): 52-56, 1999.
1.
Ciervo A, Ciceroni L (2004). Rapid detection and differentiation of Bartonella spp. by a single-run realtime PCR. Mol Cell Prob 18, 307-312.
2.
Morick D, Baneth G, Avidor B, Kosoy MY, Mumcuoglu KY, et al. (2009). Detection of Bartonella spp.
in wild rodents in Israel using HRM real-time PCR. Vet Microbiol 139: 293–297.
218
13 R - DALLA SPLENOMEGALIA ISOLATA ALLA DIAGNOSI DI MALATTIA DI GAUCHER
Francesca Lotti°, Clementina Calabrese°, Giuseppina D'angelo°, Maria Pia Falcone°, Andrea Ciliberti*,
Raffaela De Santis*, Angela Maggio*, Matteo Maruzzi*, Lucia Miglionico*, Anita Spirito*, Massimo PettoelloMantovani°, Saverio Ladogana*
°Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Foggia
*U.O.C. Oncoematologia Pediatrica IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza-San Giovanni Rotondo
S.D., 3 anni e 3 mesi, di sesso femminile, giunge alla nostra osservazione per approfondimento diagnostico in
merito al rilievo lieve epatomegalia (fegato a 1-2 cm dall’arcata) e splenomegalia (milza a 4 cm).
Riferita vaga dolorabilità addominale, febbre saltuaria, tosse e positività della sierologia per Mycoplasma
pneumoniae, per cui ha effettuato terapia antibiotica.
All’ingresso in reparto buone condizioni cliniche generali, non dolorabilità addominale. Esame obiettivo:
epatosplenomegalia.
Anamnesi familiare positiva per trait talassemico.
Emocromo: Hb 11, GR 4.580000, Hct 35%, MCV 76,4, Piastrine 119000 (ricontrollate 149000) GB 10470;
formula leucocitaria: N 45%, L 48%, M 4%, E 1%, B 2%, SR: anisopoichilocitosi ++/-, rari dacriociti.
Funzionalità epatica, renale, elettrolitica e coagulativa normali. Bilancio marziale normale, ferritina 156 ,
reticolociti 72000. Abbiamo indagato sulle varie cause che sottendono una splenomegalia, in particolare
negativo lo screening infettivologico (HBV-HCV-HIV, EBV DNA, CMV DNA, Sierodiagnosi, TORCH) ed
immunologico (elettroforesi proteica, dosaggio Ig, autoanticorpi, complemento, IC), normali sottopopolazioni
linfocitarie, sierologia per celiachia, VES e PCR. Abbiamo escluso anche emoglobinopatie e anemie emolitiche
congenite che potessero giustificare una splenomegalia. Nel complesso non segni di ipersplenismo. Gli esami
strumentali eseguiti (RX, ETG, TAC total-body) confermavano lieve epatomegalia e splenomegalia (diametro
longitudinale 12 cm), assenza di altri reperti.
Abbiamo infine eseguito una biopsia ossea e un aspirato midollare: punctio sicca, si aspira midollo osseo con
emopoiesi normale e note di displasia eritroide: si notano alcune cellule istiocitarie con citoplasma schiumoso,
spesso con aspetto lamellare, raramente in attività emofagocitica. Il quadro citologico era sospetto per possibile
malattia d’accumulo, in primis malattia di Gaucher.
La biopsia ossea evidenziava una cellularità del 70% in gran parte rappresentata da elementi istiocitari di grossa
taglia con nucleo globoso, striature citoplasmatiche e fenotipo CD68KP1+, PGM1+, S-100 +/-, CD1a negativo,
CD4 negativo. Il quadro è ben compatibile con il sospetto clinico di malattia di Gaucher. Abbiamo richiesto la
valutazione della beta glucosidasi presso laboratorio di riferimento che ha confermato il sospetto ponendo
diagnosi di Malattia di Gaucher.
La Malattia di Gaucher, identificata per la prima volta nel 1882, è una patologia genetica rara da accumulo
lisosomiale causata dalla riduzione/mancata produzione della glucocerebrosidasi, enzima coinvolto nel
catabolismo dei glicosfingolipidi in zuccheri e grassi con conseguente accumulo del substrato, la
glucosilceramide, nei lisosomi dei macrofagi che, cosi ingrossati (cellule di Gaucher), si accumulano in diversi
organi, in particolare milza, fegato e midollo osseo, alterandone le normali funzioni.
Trasmessa con carattere autosomico recessivo la patologia è estremamente variabile con pazienti che possono
manifestare sintomi lievi fino a sviluppare condizioni incompatibili per la vita. Si può avere interessamento e
sintomatologia addominale, digestiva, osteoarticolare, ematologica, neurologica, polmonare, cutanea, renale,
metabolica con almeno tre fenotipi clinici: il tipo I (cronico, non neuropatico), il tipo II (acuto, neuropatico), il
tipo III ( subacuto, neuropatico).
La diagnosi precisa, spesso difficile quando la forma è paucisintomatica, è indispensabile per impostare un
trattamento sostitutivo. E’ importante considerare la malattia di Gaucher tra le possibili cause di splenomegalia
infantili anche in assenza di altri sintomi o segni clinici.
219
1 I - INTERCETTAZIONE PEGGIORAMENTO CLINICO NEL PAZIENTE PEDIATRICO
Silvana Zacco (1), Laura Guido (1), Elena Musso (1), Michela Uras (1), Anna Maria Sattanino (1)
(1) Struttura complessa Pediatria - Ospedale Maggiore di Chieri (TO), ASL TO5
Introduzione
Le evidenze scientifiche indicano che il peggioramento delle condizioni dei pazienti ricoverati talvolta non è
riconosciuto perché segni e sintomi vengono sottovalutati o perché non vengono messe in atto risposte in tempi
sufficientemente rapidi.
Materiali e Metodi
La Regione Piemonte con la D.G.R. n. 5-9887 del 27/10/2008, definisce le linee guida per l’organizzazione dei
sistemi di risposta alle emergenze intraospedaliere e demanda alle singole ASL l’attivazione di un piano
specifico relativo al miglioramento della risposta alle emergenze e alla prevenzione di eventi critici.
Il sistema “Met-Al” consente di riconoscere una situazione critica sulla base di criteri definiti e permette di
attivare la risposta operativa all’emergenza. Purtroppo il sistema “Met-Al” non trova applicazione
nell’emergenza/urgenza pediatrica per le caratteristiche peculiari dell’età.
Tra gli infermieri della SC Pediatria Chieri (TO) si è costituito un gruppo che, formatosi sulla base del
“Pediatric Alarm” sviluppato dall’O.I. Regina Margherita di Torino, ha elaborato un proprio sistema che
permette di attivare un coerente piano di monitoraggio e l’eventuale catena dell’emergenza.
I punti di forza del progetto sono:
la preparazione specifica in ambito
pediatrico, l’approccio multidisciplinare,
l’utilizzo di strumenti di lavoro specifici
come la scheda parametri appropriata e
personalizzata ed il metodo algoritmico.
( vedi immagine)
Il progetto è in fase di attuazione e prevede un corso di formazione specifico con accreditamento ecm, riservato
al personale medico-infermieristico della S. C. di Pediatria di Chieri, con proposta di estenderlo a livello
aziendale.
Risultati
Al termine della formazione tutto il personale della SC Pediatria parteciperà alla sperimentazione della scheda
mediante l’applicazione del metodo sul campo.
Discussione
Le evidenti difficoltà di applicazione del Met-Al in ambito pediatrico hanno stimolato il gruppo infermieristico
ad elaborare un progetto utilizzando la scheda di rilevazione parametri già presente nella cartella aziendale senza
apportare cambiamenti radicali ma solo opportune modifiche per dare il senso del miglioramento della qualità
assistenziale.
Bibliografia
D.P.R. n. 5-9887 del 27/10/2008;
Pediatri Alarm, A.O. Città della salute e della scienza, Torino;
Quaderno ARESS2/09 Emergenza Intraospedaliera: un progetto regionale di miglioramento del percorso
clinico – organizzativo.
220
2 I - PREVENZIONE DELLE CADUTE IN AMBITO PEDIATRICO
Laura Guido(1), Mara Frison (1), Silvia Di Lauro (1), Michela Marzolla (1), Anna Maria Sattanino(1)
SC Pediatria e Neonatologia Chieri (TO), ASL TO5
Introduzione
Il Ministero della Salute, tramite la raccomandazione n.13/2011, fornisce uno strumento per la prevenzione e la
gestione delle cadute in ambito sanitario.
Materiale e metodi
Tale raccomandazione ha fornito agli operatori sanitari uno strumento per evitare o minimizzare il rischio di
caduta del paziente. Nella nostra ASL si è quindi predisposto un protocollo per la prevenzione delle cadute.
La pubblicazione del protocollo (nel cui gruppo di lavoro non figurano operatori dell’Area Pediatrica) ha
suscitato perplessità, in quanto per bambini e neonati il rischio di caduta e la sua prevenzione presentano
considerazioni, valutazioni e precauzioni molto peculiari, che nella stesura del protocollo non sono state incluse.
Le S.C di Pediatria e Neonatologia di Chieri e Moncalieri dell’ASL TO5 hanno proposto di costituire un gruppo
di lavoro ad hoc per elaborare una procedura "mirata" a bambini e neonati per integrare il protocollo aziendale
attualmente limitato agli adulti.
La gestione dell’evento caduta nel paziente pediatrico dovrebbe prevedere l’impiego di strumenti e scheda di
reporting dell’evento specifici per l’età.
Nel frattempo la SC Pediatria Chieri ha avviato i seguenti provvedimenti:
Utilizzo della procedura infermieristica
dell’anno 2007 (Rev. 2008 e 2012) per la
corretta scelta del tipo di letto in base
all’età del bambino.
Cartellonistica nelle stanze di degenza
e regolamento di reparto che richiamano
alla responsabilità di chi presta assistenza
Risultati
Il gruppo aziendale sta lavorando per integrare la parte pediatrica nel protocollo già esistente;negli incontri del
gruppo del lavoro si è pensato di elaborare anche un documento informativo/educativo per i genitori per
prevenire le cadute sia in ospedale che a domicilio.
Discussione
Il confronto tra gli operatori ha evidenziato che il problema delle cadute è ampiamente trattato in ambito
geriatrico; con questo lavoro vorremmo sensibilizzare l’ambiente sanitario dei Presidi Ospedalieri non dedicati
specificamente all’infanzia alle necessità dell’area materno infantile.
Bibliografia
“Raccomandazione n°13, 2011 per la prevenzione e la gestione della caduta del paziente nelle strutture sanitarie”
Ministero della salute
DDR n° 45 27/01/2014 della Regione Piemonte
Protocollo aziendale “Prevenzione e gestione delle cadute della persona assistita in ospedale” Asl To5.
Protocollo SC Pediatria “L’assegnazione del posto letto al momento del ricovero, in base a età ed altezza del
bambino”.
www.infermieristicapediatrica.it
221
3 I - URGENZA PSICHIATRICA IN PEDIATRIA PROTOCOLLO D’INTERVENTO
INFERMIERISTICO
Maria Cristina Pappalardo1, Laura Longoni2 Simonetta Oriani2, Silvia Fiori3, Giuliana Trifirò4, Alberto
Martelli1
1
UOC Pediatria. Ospedale di Garbagnate Milanese. Azienda ospedaliera G. Salvini
2
UONPIA. Azienda ospedaliera G. Salvini
3
SITRA. Area salute mentale. Azienda ospedaliera G. Salvini
4
UOC Pediatria. Ospedale di Rho. Azienda ospedaliera G. Salvini
INTRODUZIONE
Da alcuni anni l’assistenza pediatrica in P.S. è anche rivolta a ragazzi/e, dai 14 ai 18 anni, che possono giungere
all’osservazione con patologia psichiatrica acuta. Purtroppo le UOC con letti di NPI in Lombardia sono solo tre
e pertanto il frequente successivo ricovero in Pediatria genera numerose criticità, anche in ambito
infermieristico, di difficile soluzione.
METODI
i
Seguendo esperienze analoghe in altri Paesi , in accordo con Regione Lombardia, è stato realizzato un progetto
innovativo attraverso cui sono state messe a disposizioni risorse che hanno consentito di comporre un team di
operatori costituito da un medico con specialità in NPI, due psicologi, un terapista della riabilitazione
psichiatrica e un’assistente sociale. Le UOC di Pediatria della nostra Azienda coinvolte in questo progetto sono
state quella di Garbagnate Milanese e quella di Rho. E’ stato realizzato un piano formativo, per il personale
infermieristico, che ha previsto l’utilizzo di lezioni tradizionali e di supporti realizzati con video mirati agli
aspetti principali d’intervento. E’ stato stilato un protocollo condiviso che ha previsto l’attivazione di questo
team ogni volta che il Pediatra di guardia, intercetta, in P.S., un caso con urgenza psichiatrica acuta. Il progetto è
attivo dal 1.2.2012 fino ad oggi ma la nostra osservazione è mirata a tutto l’anno 2013.
RISULTATI
Nel 2013, nelle due UOC di Pediatria, sono stati ricoverati n° 21 pazienti con età media di 15,4 anni (range da 11
a 18 anni). Le diagnosi principali di ricovero sono state: disturbi d’ansia, della personalità, della condotta
alimentare e del comportamento. La media delle giornate di ricovero è stata di 10,2 giorni. Dei 21 pazienti
ricoverati il 71% era di sesso femminile. Sono state anche effettuati N° 9 osservazioni breve intensive (OBI) per
pazienti con età media di 15,5 anni (range da 11 a 18 anni), per il 78% di sesso femminile.
DISCUSSIONE
La nostra esperienza ha permesso di migliorare la gestione infermieristica del ragazzo/a che giunge in P.S. con
urgenza psichiatrica acuta e viene successivamente ricoverato nel reparto di Pediatria. In particolare i vantaggi
riscontrati sono stati:
-
inizio di un percorso diagnostico-terapeutico per l’evento psichiatrico acuto già nei giorni di ricovero in
Pediatria;
la possibilità di concordare, con la struttura afferente nei casi di successivo trasferimento in NPI, un
intervento condiviso per una migliore gestione del caso, anche da un punto di vista infermieristico;
la presa in carico da parte di operatori sanitari che, non rispondendo a turnazioni, hanno garantito la
continuità nell’assistenza;
una valida collaborazione con il personale infermieristico della Pediatria che ha avuto modo di iniziare
un percorso di crescita nelle competenze professionali nella gestione di ragazzi/e in acuzia psichiatrica;
lo stesso team di operatori prende in carico il ragazzo/a nella fase del post-ricovero garantendo
ii
continuità assistenziale e determinando un considerevole risparmio di risorse .
Nella speranza e nell’attesa che vengano istituite nuove UOC di NPI con posti letto per ricovero ospedaliero,
auspichiamo che altre esperienze, analoghe alla nostra, possano incrementare la casistica osservata per poter
meglio verificare l’efficacia di tale intervento.
BIBLIOGRAFIA
1
Adkins-Bley K, et al. Stop the escalation before it begins by using the pediatric Behavior Response Team
protocol. J Healthc Risk Manag. 2012;32:30-3.
1
Hamm MP,et al. A systematic review of crisis interventions used in the emergency department:
recommendations for pediatric care and research. Pediatr Emerg Care. 2010;26:952-62.
222
4 I - MONITORAGGIO WEB DI PAZIENTI AFFETTI DA PATOLOGIE COMPLESSE RESIDENTI
IN STRUTTURA DEDICATA: CASA DI GABRI.
G. Bortolami1, St. Besseghini1, S. Besseghini2, F. Meroni1, M. Colonna3, A. Selicorni4
3
1
Infermiere presso Casa di Gabri, 2 Responsabile coop. Agorà 97, Challeng engineering s.r.l. Como, 4 Clinica
Pediatrica Fondazione MBBM, H S.Gerado Monza.
Casa di Gabri è una comunità socio-sanitaria accreditata con la Regione Lombardia a partire dal 2009.
Sperimenta un modello di accoglienza intermedia tra casa e ospedale, si rivolge a bambini ad alta complessità
assistenziale (sindromi, gravi sofferenze ipossico-ischemiche) e tecnologicamente dipendenti. Obiettivi
principali sono l’accoglienza costante per impossibilità di domiciliazione, l’eventuale accompagnamento
all’exitus, accompagnamento a domicilio o training per uso di device, periodi di ‘sollievo temporaneo’ alle
famiglie. Nel corso di questi 4 anni sono stati ospitati 18 bambini di cui 4 attualmente residenti. Le diagnosi
appartengono alle seguenti categorie: patologia sindromica/malformativa 8 pz (44,4%), sofferenze perinatali e
prematurità 8 pz (44,4%), cardiopatie 2 (11,2%). 9 bambini sono di nazionalità italiana e 9 provenienti da
famiglie di nazionalità straniera. 5 bambini (27,8%) sono stati accompagnati sino all’exitus, 9 (50%) sono stati
invece affidati alle loro famiglie o a famiglie adottive, 4 (22,2%) sono attualmente residenti . Utilizzando il
modello dei bisogni di assistenza secondo Marisa Cantarelli, prima teorica italiana di assistenza infermieristica,
abbiamo identificato 11 aree di necessità per ogni paziente: i bambini ospitati mostrano in media la necessità di
supporto per 7,4 bisogni (67,2%).
La struttura è gestita da infermieri h24, medico e rianimatore a chiamata. Peculiarità è l’utilizzo di un particolare
sito web per il monitoraggio delle condizioni dei piccoli pazienti e per la comunicazione tra infermieri e medici:
la Telemedicina.
La Telemedicina consente il ‘monitoraggio’ dei pazienti a distanza, in tempo reale (smartphone, tablet, pc...),
permette un rapido recupero dello storico del bambino e delle osservazioni infermieristiche, garantisce una
comunicazione più accurata con il personale infermieristico e consente una migliore comprensione della
necessità di valutazione diretta. Le informazioni presenti nel sito sono disponibili per i medici del 112 di Como,
quindi dati più dettagliati e immediati in caso di emergenza. È possibile la consulenza a distanza con specialisti
tramite l’osservazione di foto e video in diretta o in differita. In caso di visite extra ospedaliera garantisce il
recupero di informazioni e immagini. La Telemedicina è uno strumento integrativo, di supporto, chiaramente
non sostitutivo dell’intervento medico diretto. Le prospettive che si pone riguardano ipotesi di sperimentazione
e/o adattamento del software nella gestione domiciliare di bambini ‘complessi’ con coinvolgimento diretto anche
dei genitori.
223
5 I - CARE DEL NEONATO
Stefania Vrenna, Antonia Attinà, Serafina Barberio, Teresa Turrà, Natalina Corapi, Rita Fiorella Cortese,
Daniela Tudisco, D. Prestinice, Giovanna Annunziato, Simona Mosca, Teresa Oliverio, M. Adamo, Ornella
D’Oppido, Adriana Vizza, Antonella Lopez, Francesca Alessio, Daniela Passero, Maria Teresa Bennardi,*Sara
Battaglia, *Francesca Balzano, *Maria Paola Mazza.
Infermiere, *Puericultrice U.O.C. Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale “S. Giovanni di Dio”, Crotone
Introduzione: “Care” vuol dire prendersi cura del neonato riducendo al minimo gli effetti negativi legati al
distacco innaturale dalla mamma.
Oltre il 90% dei neonati richiede scarsa o nessuna assistenza, il restante 10% dei necessita, invece, di assistenza e
aiuto per iniziare a respirare per cui è necessaria la presenza almeno di una persona in grado di avviare la
rianimazione neonatale.Assistere il neonato significa offrirgli un supporto tecnico avanzato ed innovativo ed
entrare nel suo mondo, comprenderlo, rispettarlo, accompagnarlo verso la maturazione, consapevoli di operare
su un soggetto in divenire che, giorno dopo giorno, si organizza e cresce a livello psico-relazionale oltre che
fisico. Un significativo contributo alla comprensione e conoscenza del neonato lo hanno dato, negli anni ’60, il
Dr. Brazelton, pediatra americano, con la sua scala di valutazione del comportamento neonatale e,
successivamente nell’82, la dott.ssa Heidi Als, neuropsicologa, che elaborò la teoria sinactiva che conferisce una
vera “dignita” al neonato fino ad allora considerato un “contenitore passivo di stimoli esterni”. Tale opinione era
determinata dalla convinzione che il neonato possedesse terminazioni nocicettive ancora immature. Oggi, invece,
sappiamo che, i neonati non solo percepiscono dolore, ma anzi lo avvertono in modo più intenso rispetto ai
bambini più grandi.
La psicologa americana Heidelise Als ha dimostrato che le varie aree cerebrali del neonato che riceve
un’assistenza “coccolata” sviluppano meglio rispetto ad un’assistenza effettuata con i metodi tradizionali.
Nasce così la necessità di individualizzare l’assistenza, integrandola di umanizzazione per garantire il rispetto
della dignità del neonato restituendogli “il diritto alla miglior qualità di vita possibile”.
Obiettivi: Pianificare percorsi assistenziali individualizzati in base alla tipologia di nascita ed alle problematiche
legate ad essa. Assistere il neonato minimizzando i traumi ed accompagnando, nelle fasi successive del primo
mese di vita, i genitori facendogli vivere così l’esperienza di vita familiare serena e consapevole.
ASSISTENZA GLOBALE E CONDIVISA: Tutto inizia nell’ambiente sala parto caratterizzato da un’atmosfera
silenziosa, confortevole ed intima, con luci soffuse ed adeguata temperatura in relazione ai bisogni della
partoriente. E’ fondamentale la presenza di un parente e auspicabile avere una musica di sottofondo scelta della
donna. Unico fragore sarà quello del neonato che con il pianto annuncerà la sua nascita. E’ quello il momento
del miracolo della vita che, tutti gli operatori presenti, avranno come unico obiettivo: rispettare l’evento e
l’unicità mamma-bambino iniziando con lo skin to skin, durante il quale il contatto fisico mamma-neonato
avvierà la produzione dei feromoni, “gli ormoni dell’amore”, prima primordiale forma di intensa comunicazione.
Altro momento importante è il taglio del cordone, praticarlo rapidamente provocherebbe un forte dolore al
neonato al pari di un’amputazione, inoltre, alcuni ricercatori hanno calcolato che dopo un minuto dalla nascita al
bambino arrivano dal cordone circa 80 ml di sangue e dopo tre minuti circa 100 ml, basterebbe quindi contare
fino a 60....!
Le manovre successive assistenziali sull’isola neonatale prima ed in reparto poi, dovranno essere ispirati dalla
delicatezza e dolcezza ed accompagnati da voci e gesti dolci. Carezze prima, durante e dopo le manovre
caratterizzeranno un’assistenza coccolata che determinerà più tranquillità con conseguente minore incidenza di
pianto ed irritabilità rispettando il ritmo sonno-veglia del neonato stesso. Se le manovre non sono tollerate
(segni comportamentali di stress / alterazione dei parametri vitali) sarà necessario offrire intervalli di riposo (care
posturale, contenimento cutaneo, holding e wrapping, handling, gentle handling e minimal handling, esperienze
sensoriali –tattili). Importante la regolazione della temperatura ed umidita’ dell’ambiente e dell’incubatrice che
devono risultare adeguate ai bisogni del neonato.
Queste metodiche si basano su riconosciuti concetti neuro-fisiologici: il cervello del neonato filtra gli stimoli
periferici, sarà quindi utile stimolare dolcemente i sensi del neonato riducendo invece lo stimolo doloroso delle
procedure assistenziali. Il bambino alla nascita deve continuare a restare un unico essere con la madre, come
durante la gravidanza. Infatti si parla di gravidanza di 18 mesi: 9 dentro e 9 fuori.
La cura del neonato deve tener presente che egli è parte di una famiglia (diade /triade). Nell’ottica del “family
centered intervention” è fondamentale prendersi cura immediata della famiglia curandone l’accoglienza in
reparto. La mamma, durante l’esperienza della maternità, piena di dubbi e paure, dovrà essere accompagnata e
istruita sull’allattamento, l’accudimento del neonato, etc.
CONCLUSIONI:
Il bambino alla nascita appartiene ancora al mondo dal quale proviene, per cui lo si deve aiutare ad entrare
dolcemente nel mondo della materia.
La care del neonato è un dovere assistenziale dell’operatore sanitario che ha la responsabilità dello sviluppo
psico-neurologico non solo del neonato ma di tutta la famiglia.
La sinergia, la collaborazione ed il confronto sulle nuove procedure assistenziali con tutte le figure professionali
che lavorano intorno alla mamma ed al nascituro (professionisti del reparto di Ostetricia e della Sala parto)
saranno fondamentali per conferire coerenza e credibilità a tutti gli atti assistenziali ma, soprattutto, riuscendo ad
istruire in modo efficace la nuova famiglia nascente.
224
6 I - IL LATTE MATERNO FORMULA DIVINA PER IL CUCCIOLO DELL’UOMO TRA MITO,
STORIA E SCIENZA
Vincenzo Antonio Poerio - Antonia Attinà* - Maria Pia Adamo* - Francesca Alessio* - Giovanna Annunziato*
- Francesca Balzano** - Serafina Barberio* - Sara Battaglia** - Maria Teresa Bennardi* - Teresa Cannatelli*
- Francesca Cerrelli* – Daniela Clausi* - Natalina Corapi* - Rita Fiorella Cortese* - Maria D’Agostino* Pietro Del Libano* - Ornella D’Oppido* - Ivana Gualtieri* - Antonella Lopez* - Maria Paola Mazza** - Teresa
Oliverio* - Daniela Passero* - Donatella Prestinice* - Giuseppina Ribecco* - Costanza Rugna* - Teresa
Turrà* - Adriana Vizza* - Stefania Vrenna*- Francesco Paravati
Infermieri*, Puericultrici** U.O.C. Pediatria Neonatologia T.I.N., Ospedale San Giovanni di Dio, Crotone
“Egli mise in braccio alla sposa il figlio suo; ed ella lo strinse al seno odoroso, sorridendo fra il pianto; s’intenerì
lo sposo a guardarla, l’accarezzò con la mano”. In questi versi dell’Iliade di Omero che celebrano l’addio tra
Ettore e Andromaca sulle Porte Scee di Troia risiede il gesto poetico primigenio dell’allattamento del cucciolo
dell’uomo. Prima della scienza, prima della religione c’è il mito greco col suo splendore fantastico a spiegare
l’origine della cose e degli uomini, gli usi, i costumi e le leggi, l’origine della Medicina. Se volgiamo lo sguardo
indietro nel tempo, nel corso dei secoli, la superiorità dell’allattamento materno, riconosciuta da tutti i popoli
antichi e moderni, è stata ora decantata nei poemi, ora registrata nelle storie, ora consacrata nei riti religiosi, ora
sancita nei codici, sempre e dovunque elogiata, sostenuta e difesa da ogni classe di scrittori sacri e profani. Nella
preistoria l’allattamento al seno era l’unico modo conosciuto presso il genere umano di alimentare i figli. Da
quando Lucy, il più antico fossile umano scoperto, camminava accompagnata da altri ominidi in una piccola
valle del triangolo di Afar (Hadar, Etiopia) sono trascorsi tre milioni e mezzo di anni. La vita sociale e le
abitudini di Lucy ci sono completamente sconosciute ma di una cosa possiamo essere assolutamente sicuri: per i
suoi figli nel primo anno e probabilmente anche nel secondo anno di vita l’alimento base era il latte che le sue
mammelle erano capaci di fornire. Le narrazioni mitologiche sono assai ricche di riferimenti all’allattamento al
seno materno. Allorché la divina Era si accorse che il lattante attaccato al suo seno era Eracle, nato da uno dei
tanti amori adulterini del suo sposo Zeus con la bella ninfa Alcmena, lo allontanò da sé con rabbia. Ma il latte
continuò a sgorgarle dal seno lasciando una striscia bianca nell’universo. Da qui l’immaginosa e suggestiva
genesi della Via Lattea. Omero in Ecuba che allatta Ettore, in Euriclea che allatta Ulisse, in Penelope che allatta
Telemaco, in Era che allatta Efesto, in Andromaca che allatta Astianatte e in Afrodite che allatta Eros, fa nei suoi
versi immortali l’apoteosi del latte materno. La Bibbia sublimizza l’allattamento in Maria che allatta Gesù, nella
moglie di Abramo, Sara, che allatta Isacco e in Rebecca che allatta Giacobbe. Presso i Lacèdemoni allattare il
proprio figlio era un obbligo imposto dalle leggi di Licurgo e presso gli Ateniesi, secondo Demostene, era
tacciata di infamia la donna che allattava il figlio di un’altra donna. Nell’Età Imperiale Romana alle intrepide
donne Sabine che si gettavano sui campi di battaglia col piccolo attaccato al seno, si sostituiscono le languide
matrone imperiali che non si sognano nemmeno di nutrire col proprio latte il “Puer”. A tal proposito Giulio
Cesare è furibondo tanto che sbotta: “Le donne romane non hanno più dunque come un tempo dei bambini da
allattare e portare in braccio? Io vedo ovunque solo cani e scimmie”. Scemato di pregio con la corruzione e la
decadenza dell’Impero Romano, l’allattamento al seno torna in auge col Cristianesimo e vi si mantiene fino al
XVIII secolo. Nel Medioevo anche l’allattamento si impregna della nuova cultura cristiana. San Tommaso
elabora una teoria tanto interessante quanto fantasiosa sulla formazione del latte: dal momento che il ricco
alimento prodotto dal seno nutre il lattante così come il sangue lo ha nutrito nei “recessi segreti” del ventre
materno, il latte non è che sangue che ha subito una forte cottura e che poi ha preso un’altra strada sbiancando
all’aria. Tra il XII il XV secolo tornano in auge le balie soprattutto nelle famiglie agiate di ambiente urbano. I
moralisti come il celebre Savonarola si scagliano con violenza contro questa moda. L’allattamento baliatico era
molto diffuso presso la Corte di Francia. Pare che il solo Re allattato dalla madre sia stato Luigi IX detto il
Santo. Alla Nursery Reale, comunque, era difficilissimo accedere. La selezione del personale era piuttosto severa
come si intuisce dal profilo della “Ideale Regal Balia” tramandatoci da Alfonso Le Roy: età dai 29 ai 30 anni,
temperamento sanguigno, capelli neri o castano scuro, pelle bianca, costituzione forte e robusta, grassa e di
buono appetito ma di bocca buona, gaia e sempre pronta al riso e allo scherzo, alito, pelle e piedi ben olezzanti,
denti sani. E un seno all’altezza della situazione, soprattutto bella e piena di buon latte. Tra la fine del ‘700 e
l’inizio dell’’800 l’allattamento al seno torna ancora una volta in auge sia per i ragionevoli moniti di una cultura
più attenta all’infanzia, sia per gli sforzi della letteratura del tempo tesi a rappresentare l’immagine della donna
nella rassicurante versione borghese di “angelo del focolare”. Nel 1874 l’Assemblea Nazionale Francese votò
una legge per la promozione dell’allattamento al seno materno il cui relatore fu il grande Jean Jacques Rousseau.
Con la Rivoluzione Industriale, agli albori del XX secolo, si riduce drasticamente la percentuale di bambini
allevati al seno e ancor più si accorcia la durata dell’allattamento materno. Sulla falsariga di questo percorso
intrecciato di mitologia, leggenda e storia nasce spontaneo l’interrogativo riguardo la modernità del latte materno
nel Terzo Millennio. Attualmente si conoscono più di duecento componenti contenuti nel latte di mamma e altri
ne vengono individuati continuamente. Recente è la scoperta di acidi grassi in seno alla sua formula che
favoriscono la crescita del cervello e della retina con riflessi favorevoli sull’aumento dello sviluppo cognitivo e
della vista del bambino. Il latte materno è un alimento specie-specifico, della specie umana per il cucciolo
dell’uomo, rispondente alle sue esigenze biologiche e psicologiche secondo i dettami delle leggi della natura e
delle teorie evoluzionistiche. Solo nella specie umana, durante l’allattamento, mamma e bambino si guardano
negli occhi costituendo la “mirabile diade” madre-bambino rappresentata nei secoli in versi sublimi e nella
iconografia impeccabile e divina delle Madonne del Latte. L’allattamento al seno materno, quindi, è un atto
225
d’amore che sconfina nella spiritualità e il latte materno una “formula biologica” che anche nel Terzo Millennio
affascina per la sua perfezione. Una “formula divina” intesa come progetto inimitabile, insostituibile,
insuperabile la cui composizione è virtualmente impossibile da replicare dal pur grande genio dell’uomo. Pochi
eventi della storia umana hanno un fascino paragonabile agli eterni sforzi dell’uomo di curare i pazienti, guarire i
feriti, assistere i sofferenti. A tal riguardo le testimonianze delle conquiste dell’arte medica sono, nel loro
insieme, di una ricchezza davvero stupefacente. In questo ambito il latte materno con l’insieme delle sue
peculiarità, come una navicella, ha attraversato indenne i mari tempestosi della vicenda umana. Questo coacervo
di pensieri ci incita a proseguire nella promozione dell’allattamento al seno materno e nello studio della sua
formula alla ricerca di altri componenti sconosciuti in seno alla sua fantastica costellazione.
Bibliografia
1) A. Morelli, Dei e Miti - Fratelli Melita Editori, La Spezia 1987
2) A. Baricco, Omero, Iliade - Feltrinelli, Milano 2004
3) K. Kèrenyi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia - Il Saggiatore S.p.A., Milano 2002
4) B. Strauss, La Guerra di Troia - Editori Laterza, Roma-Bari 2007
5) G. Bartolozzi Pediatria, Principi e Pratica Clinica - Edizioni Edra Masson, Milano 2013
226
INDICE DEGLI AUTORI
227
Adamo M. (223)
Adamo M.P. (224)
Addis C. (2, 170)
Agosti M. (53)
Airoldi M. (171, 190)
Alessio F. (223, 224)
Annunziato G. (223, 224)
Antonucci L. (57)
Antonucci R. (57)
Arcamone G. (214)
Attinà A. (223-224)
Bagalà S. (182)
Bagnati M. (197)
Balzano F. (223-224)
Banti P. (194)
Barbaglio A. (138)
Barberio S. (223, 224)
Baronio M. (211)
Basile V. (119, 210)
Battaglia S. (223-224)
Beccaria L. (2, 172, 178)
Belcastro A. (83, 174, 181)
Bellomo G. (196)
Belvisi M.G. (100)
Bennardi M.T. (223, 224)
Bertamino M. (16)
Bertelli L. (31)
Berti L. (194)
Besseghini S. (222)
Besseghini St. (222)
Biondi A. (217)
Birring S.S. (108)
Bisceglia M. (83, 173, 174, 181)
Bolognini S. (171)
Bona G. (196, 197, 198, 199)
Bonati M. (171)
Bondì V. (138)
Boner A.L. (209)
Borghesi A. (149)
Bortolami G. (222)
Bosoni M. (206, 207)
Bovo G. (217)
Buffa P. (202)
Cadario F. (197)
Calabrese C. (218)
Caloiero M. (191)
Calzi P. (206)
Caminiti L. (42)
Cannatelli T. (224)
Cardinale F. (212)
Carlino E. (79)
Casagranda S. (92)
Cassisi A. (138)
Castagno M. (196)
Cattalini M. (153, 211, 215)
Cavallero A. (217)
Cavani M. (194)
Cazzato S. (31)
Cena T. (197)
Cerchiaro A. (191)
Cerrelli F. (224)
Chang A.B. (76, 113)
Chiarello C. (208)
Chiarello P. (83, 173, 182, 208)
Chiarenza S.F. (201)
Chierici V. (198, 199)
Ciervo A. (217)
Ciliberti A. (218)
Cirillo D. (206)
Cirisano A. (83, 174, 181, 182, 208)
Clausi D. (224)
Clavenna A. (171)
Codazzi F. (187)
Codecà C. (185)
Cogliardi A. (172)
Colombo S. (196, 199)
Colonna M. (222)
Comberiati P. (209)
Comes P. (210)
Corapi N. (223, 224)
Corso R. (217)
Cortese R.F. (223, 224)
Cortinovis F. (171, 187)
Cretella M. (208)
Crisafulli G. (42)
Crugliano C. (173, 181)
Cutrera R. (35)
D’Adda A. (217)
D’Agostino M. (224)
D’Agostino P. (168)
D’angelo G. (218)
D’Oppido O. (223, 224)
Daleno C. (216)
Daniele R.M. (213, 214)
De Castro G. (176)
De Leonardis F. (213)
De Santis R. (218)
De Vittori V. (176)
Debbia C. (202)
Del Libano P. (224)
Del Vecchio A. (207)
Del Vecchio G.C. (85)
Dellora C. (196)
Di Biase A.R. (186)
Di Coste A. (176)
Di Lauro S. (220)
Di Mauro A. (210)
Di Palmo E. (31)
Di Pietro P. (202)
Dicpinigaitis P.V. (104)
Domenici R. (193, 194)
Donatoni S. (209)
Dozza A. (189)
Drera B. (72)
Duse M. (176)
El Hachem M. (81)
Esposito S. (198)
Esposito Su. (154, 185, 216)
Everard M.L. (110)
Falcone M.P. (218)
Falsaperla R. (182)
Favia G. (213)
Ferrari G. (217)
Figini C.C. (188)
Fiocchi A. (36)
Fiori S. (221)
Foresti S. (217)
Frandina G. (174, 181, 182, 208)
Frison M. (220)
Garbarino F. (188)
228
Gargantini G. (156, 206)
Garini L. (170)
Gerloni V. (9)
Ghezzi M. (175)
Ghirardelli S. (211)
Ghitti C.A. (171, 187, 190)
Giardelli A. (172)
Giordano U. (180)
Giudice G. (213)
Gorio C. (211, 215)
Grandin A. (195)
Grasso M. (177, 183)
Grigollo B. (196)
Gualtieri I. (224)
Guardamagna O. (133)
Guarino A. (207)
Guerra A. (189)
Guido L. (219, 220)
Ierardi V. (216)
Indinnimeo L. (176)
Iughetti L. (179, 186, 189, 200)
Jankovic M. (21)
Kantar A. (203, 204, 205)
Koronoca R. (213)
Ladogana S. (218)
Lambiase C. (176)
Lancella L. (195)
Lazzaro N. (83, 173, 182)
Lecce F. (204)
Lelii M. (185)
Lenci M. (194)
Li Destri M. (171)
Lofù I. (210)
Longhi B. (185)
Longhi R. (207)
Longo R. (190)
Longoni L. (221)
Lopez A. (223, 224)
Lotti F. (218)
Lougaris V. (211)
Lovati C. (205)
Maggi P. (178)
Maggio A. (218)
Magnani C. (197)
Mancini F. (217)
Mangili G. (44)
Mannarino S. (26)
Manzionna M. (119, 210)
Marchili M.R. (180)
Marchisio P. (89)
Marolda A. (198, 199)
Martelli A. (221)
Martignoni L. (179, 186, 189, 200)
Maruzzi M. (218)
Marzolla M. (220)
Mastrototaro M.F. (212)
Mazza M.P. (223, 224)
Meini A. (211, 215)
Melzi M.L. (217)
Memeo A. (147)
Mercuri M. (176)
Merico G. (180)
Meroni F. (222)
Messeri A. (78)
Messina D. (203, 205)
Mesuraca L. (83, 173, 181, 182)
Miglionico L. (218)
Minarini A. (167)
Minasi D. (4)
Minghetti D. (44)
Miraglia del Giudice M. (88)
Monaco P. (118)
Montrasio G. (188)
Moratto D. (211)
Morice A.H. (102)
Mosca S. (223)
Muggeo P. (214)
Musso E. (219)
Napoli A. (178)
Negro M. (171)
Nosetti L. (34)
Novielli C. (214)
Nucci P. (145)
Odoni M. (203, 205)
Oliverio T. (223, 224)
Oriani S. (221)
Ortisi M.T. (207)
Ottonello D. (192)
Pacati I. (171)
Pagani A. (198, 199)
Pagliardini S. (197)
Pajno G.B. (42)
Pamparana S. (197)
Panigada S. (175)
Pansini V. (180)
Panuccio E. (147)
Panzeri D. (170)
Papini C. (194)
Pappalardo M.C. (221)
Paravati F. (83, 173, 174, 181, 182, 208, 224)
Parisi G. (177, 183)
Parola L. (160, 206, 207)
Passero D. (223, 224)
Patria M.F. (185)
Pelucchi C. (185, 216)
Perduca A.G. (206)
Perillo T. (213, 214)
Peroni D.G. (209)
Petralia P. (202)
Pettoello-Mantovani M. (218)
Peves Rios W. (216)
Pianon G. (203)
Piazza M. (209)
Piccotti E. (124, 202)
Pietrangiolillo Z. (179, 186, 189, 200)
Pinotti M.A. (171, 187, 190)
Pirola I. (187)
Pitea M. (188)
Pitidis A. (202)
Pitrolo E. (4)
Plebani A. (153, 211, 215)
Poerio V.A. (83, 173, 174, 181, 224)
Poggiani C. (72)
Poli P. (211, 215)
Pozzi E. (197, 198, 199)
Pozzi M. (149)
Predieri F. (179, 186, 189, 200)
Prestinice D. (223, 224)
Previtali S.C. (94)
Principi N. (216)
229
Puccio A. (138)
Pulice R. (191)
Pulvirenti R. (190)
Racchi E. (206, 207)
Rana I. (180)
Renna S. (16, 202)
Repetto P. (200)
Ribecco G. (224)
Riva D. (98)
Rolla R. (196)
Rossi A. (190)
Rossi G.A. (175)
Rossi S. (190)
Rosso C. (174, 182, 208)
Rotondo E. (192)
Rubino M. (190)
Rugna C. (224)
Ruocco J. (203)
Ruscitti F. (138)
Russo C. (195)
Saccani M. (95)
Sacco O. (175)
Sadou Y. (64)
Salerno T. (35)
Santoro N. (85, 213, 214)
Sattanino A.M. (219, 220)
Saullo E. (191)
Saullo F. (191)
Savastio S. (197)
Scala A. (216)
Scalia F. (182)
Scalini E. (210)
Scarsi P. (202)
Sciuto C. (170)
Scognamiglio M.L. (190)
Selicorni A. (92, 222)
Silvestri M. (175)
Sisia S. (208)
Spada M. (56)
Spano A. (199)
Spirito A. (218)
Spuri Vennarucci V. (195)
Stronati M. (149)
Tafuri S. (210)
Tagliabue C. (185, 216)
Tagliaferri B. (128)
Tancredi G. (176)
Tarissi de Jacobis I. (195)
Terragni G.M. (192)
Terranova L. (216)
Testa M. (178)
Tononcelli E. (215)
Torre M. (139)
Tozzi A.E. (195)
Trifirò G. (221)
Tudisco D. (223)
Turrà T. (223, 224)
Uras M. (219)
Vaccaro A. (193, 194)
Verduci E. (132)
Veronelli E. (188)
Vidali M. (197)
Vierucci F. (193, 194)
Villa M.C. (203, 205)
Villani A. (180, 195)
Vittucci A.C. (195)
Vizza A. (223, 224)
Vrenna S. (223, 224)
Zacco S. (219)
Zaffaroni M. (196, 197, 198, 199)
Zagni G. (179, 186, 189, 200)
Zicari A.M. (176)
Zolpi E. (201)
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