ISSN 2039-6503 OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA n. 4 - ottobre-dicembre 2013 Anno VI - n. 4 - ottobre-dicembre 2013 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Avvocatidifamiglia L’Osservatorio associazione forense specialistica Diritto all'anonimato della partoriente e corte costituzionale Mantenimento e spese straordinarie La verità imposta ai coniugi nel processo di separazione Avvocatidifamiglia OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA Avvocati di famiglia Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Nuova serie, anno VI, n. 4 - ottobre-dicembre 2013 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma Amministrazione Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Centro studi giuridici sulla persona Via Nomentana, 257 - 00161 Roma Tel. 06.44242164 - Fax 06.44236900 ([email protected]) Direttore responsabile avv. Gianfranco Dosi ([email protected]) Comitato esecutivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia avv. Gianfranco Dosi (Roma) avv. Claudio Cecchella (Pisa) avv. Franca Ferrara (Cagliari) avv. Matilde Giammarco (Chieti) avv. Michela Labriola (Bari) avv. Giancarlo Savi (Macerata) Comitato dei probiviri dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia avv. Massimo Bisson (Milano) avv. Angela Chimento (Catania) avv. Michela Fugaro (Verona) avv. Francesca Salvia (Palermo) avv. Raffaella Zadra (Bolzano) Redazione Maria Giulia Albiero, Germana Bertoli, Claudio Cecchella, Maria Stella Ciarletta, Emanuela Comand, Gianfranco Dosi, Matilde Giammarco, Michela Labriola, Claudia Romanelli, Francesca Salvia, Giancarlo Savi Coordinamento redazionale avv. Maria Limongi Impaginazione e Stampa EUROLIT S.r.l. 00133 Roma - Via Bitetto, 39 - Tel. 06.2015137 ([email protected]) SOMMARIO Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Sommario Editoriale La scuola di formazione e di aggiornamento per avvocati dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia 2 (Gianfranco Dosi) Approfondimenti Lo status di figlio 64 (Germana Bertoli) La successione dei figli nati fuori dal matrimonio dopo la legge 219/2012 71 (Bianca Santoro e Antonella Molica) Studi e ricerche Modalità di determinazione e versamento dell’assegno di mantenimento e delle spese straordinarie per il coniuge e per i figli. Confronto giurisprudenziale e prassi sul diritto di famiglia 4 (Riccardo Leonetti) Le nuove ipotesi di indegnità a succedere tra le poche luci e le tante ombre allungate dal nuovo art. 448 bis c.c. sul principio di equiparazione degli status di filiazione 24 (Giuseppe Palazzolo) Dibattito Nota critica alla verità imposta ai coniugi sotto sanzione penale nei procedimenti per separazione 34 (Claudio Cecchella) Corte Costituzionale La Corte Costituzionale rimedita l’anteriore indirizzo sulla rigida irreversibilità dell’opzione materna per l’anonimato di genitura 38 (C. Cost., 22 novembre 2013 n. 278) (Giancarlo Savi) In libreria La riforma della filiazione, 1° quaderno della Scuola di formazione dell’Osservatorio sul diritto di famiglia 81 (Mauro Paladini e Claudio Cecchella) La Famiglia Composita. Un’indagine sistematica sulla famiglia ricomposta: i neo coniugi o conviventi i figli nati da precedenti relazioni e i loro rapporti 81 (Dario Buzzelli) Il divorzio collaborativo 82 (Olga Anastasi) Le carte storiche dei diritti. Raccolta di Carte, Dichiarazioni e Costituzioni con note esplicative 83 (Alarico Mariani Marini e Umberto Vincenti) Formulario del matrimonio canonico 83 (Mauro Agosto Rosaria Capozzi) Dossier La Convenzione di Istanbul adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 sulla prevenzione e il contrasto alla violenza alle donne e alla violenza domestica (ratificata dall’Italia con le legge 27 giugno 2013, n. 77) 39 Giurisprudenza La destinazione degli assegni familiari nella separazione coniugale 58 (Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2013, n. 12770) Il punto di vista (Giancarlo Savi) 59 ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 1 EDITORIALE GIANFRANCO DOSI LA SCUOLA DI FORMAZIONE E DI AGGIORNAMENTO PER AVVOCATI DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA Il Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 13 dicembre 2013 ha deliberato l’iscrizione dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia nell’elenco delle associazioni forensi specialistiche maggiormente rappresentative. 2 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 EDITORIALE La scuola centrale di formazione e di aggiornamento dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia costituita il 21 maggio 2011 - promuove un corso biennale rivolto ad avvocati iscritti all’associazione con il seguente programma: I PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DI FAMIGLIA E IL RUOLO DELL’AVVOCATO Roma - Via Cavour 50 Programma del primo anno I. Venerdì 21 febbraio (ore 15-19) Sabato 22 febbraio 2014 (ore 9-13) Il processo camerale nel diritto di famiglia II. Venerdì 28 marzo 2014 (ore 15-19) Sabato 29 marzo 2014 (ore 9-13) L’affidamento dei figli III. Venerdì 23 maggio (ore 15-19) Sabato 24 maggio 2014 (ore 9-13) Il processo di separazione e divorzio IV. Venerdì 27 giugno 2014 (ore 15-19) Sabato 28 giugno 2014 (ore 9-13) L’esecuzione e l’attuazione dei provvedimenti Venerdì 26 settembre 2014 (ore 15-19) Sabato 27 settembre 2014 (ore 9-13) Le obbligazioni di mantenimento Venerdì 24 ottobre (ore 15-19) Sabato 25 ottobre 2014 (ore 9-13) La filiazione VII. Venerdì 21 novembre (ore 15-19) Sabato 22 novembre 2014 (ore 9-13) Trasferimenti e attribuzioni patrimoniali VIII. Venerdì 12 dicembre (ore 15-19) Sabato 13 dicembre 2014 (ore 9-13) La mediazione familiare V. VI. Le modalità di partecipazione e di iscrizione verranno comunicate ai soci dell’Osservatorio ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 3 STUDI E RICERCHE MODALITÀ DI DETERMINAZIONE E VERSAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DELLE SPESE STRAORDINARIE PER IL CONIUGE E PER I FIGLI. CONFRONTO GIURISPRUDENZIALE E PRASSI SUL DIRITTO DI FAMIGLIA DOTT. RICCARDO LEONETTI GIUDICE DEL TRIBUNALE DI TRANI MODALITÀ DI DETERMINAZIONE E VERSAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DELLE SPESE STRAORDINARIE PER IL CONIUGE E PER I FIGLI1 Premessa. Dei due profili - personale e patrimoniale - in cui è dato scomporre il regime convenzionale o giudiziale della separazione personale o del divorzio tra i coniugi, quello solitamente oggetto di maggiore attenzione, anche da parte dei mezzi di informazione di massa, è senz’altro il profilo dei rapporti personali, più direttamente involgente diritti di rilievo costituzionale, in particolar modo in presenza di prole minore di età. Tuttavia da qualche tempo, anche per via della negativa situazione economica in cui versa il Paese, l’attenzione si va sempre più concentrando sugli aspetti economici della crisi coniugale, oggetto di continui interventi della Suprema Corte e quotidiano terreno di confronto nelle aule dei Tribunali di tutta Italia. Le molteplici e variegate conseguenze della crisi economica, infatti, non soltanto costituiscono circostanze sopravvenute che i coniugi obbligati al mantenimento pretendono di far valere al fine di ottenere una riduzione del loro impegno economico in 4 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 favore dei beneficiari, ma possono incidere anche sotto altri connessi profili: si pensi, ad esempio, alla delicata questione del contemperamento - in un contesto caratterizzato da disoccupazione endemica da un lato e forme di lavoro precario e sottopagato dall’altro - tra l’interesse del figlio maggiorenne ad essere mantenuto dai genitori sino al raggiungimento dell’indipendenza economica, e il contrapposto interesse di questi ultimi (spesso a loro volta in difficoltà economica ovvero impegnati a mantenere la nuova famiglia costituita dopo la crisi coniugale), a non essere gravati dal dovere di assistenza materiale in favore di soggetti ormai dotati di capacità lavorativa, talora addirittura più dei genitori da cui vorrebbero continuare ad essere mantenuti. Le principali e più dibattute questioni in tema di determinazione e versamento dell’assegno di mantenimento costituiranno, appunto, l’oggetto della presente relazione, che si sforzerà di tenere fede all’approccio suggerito dal titolo dell’incontro, ossia quello strettamente pratico-operativo, attraverso la ricognizione delle pratiche giudiziali e degli orientamenti della giurisprudenza in materia. 1. L’ASSEGNO ALLA PROLE MINORE D’ETÀ 1.1 Generalità. Con riferimento ai rapporti tra genitori e figli, la riforma del 2006 (L.8.2.06 n. 54) ha introdotto, per i profili economici come per quelli personali, una specifica disciplina, che ha trovato collocazione all’interno delle disposizioni codicistiche in materia di separazione, ma che è applicabile, per espressa previsione dell’art.4 co.2 della legge di riforma, anche in sede di divorzio, con susseguente implicita abrogazione delle disposizioni in materia già contenute nella L.898/70. Con specifico riguardo alla prole minorenne, la particolare intensità dell’esigenza di protezione di tale categoria di soggetti deboli determina l’applicabilità, anche in punto di disciplina dei rapporti economici, di regole caratterizzate dalla presenza di penetranti poteri officiosi del giudicante, sul presupposto dell’inopportunità di una scelta che lasci la materia al dominio di principi tipicamente privatistici. Tipica espressione di questo approccio è l’inapplicabilità, al mantenimento della prole minorenne, del principio della domanda, potendo il giudice prevedere l’obbligo di mantenimento a prescindere da ogni iniziativa di parte2. Altro importante profilo pubblicistico in materia è l’ampliamento dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudicante. Il fulcro di tali poteri è rinvenibile nell’art.155 sexies cc, a mente del quale il giudice, prima di adottare i provvedimenti di cui all’art.155 cc, può disporre, anche d’ufficio, mezzi di prova (procedendo altresì all’ascolto del minore se dodicenne o infradodicenne capace di discernimento). È dubbio se tale potere officioso soggiaccia STUDI E RICERCHE ai generali limiti temporali previsti in via generale dall’art.183 co.7 cpc; dubbio che ad avviso di chi scrive va sciolto nel senso dell’inoperatività di ogni termine preclusivo (salvo il rispetto del contraddittorio), considerati da un lato la superiore esigenza di tutela della prole, dall’altro l’immanenza, in materia, del principio tempus regit actum. In concreto il giudicante, nell’esercizio dei suoi poteri istruttori, potrà, al fine di ricostruire la situazione economica del’obbligato: assumere prove testimoniali; esaminare le dichiarazioni reddituali e gli altri documenti (la cui mancata produzione ex art.5 co.9 L. divorzio costituisce argomento sfavorevole di prova ai sensi e per gli effetti dell’art.116 cpc); interrogare liberamente i coniugi; ordinare ai coniugi o a terzi esibizioni documentali (estratti conto, visure immobiliari, estratti conto, contratti di lavoro e di locazione, contratti di finanziamento, fatture, fotografie, bilanci ecc.); disporre informative presso terzi (banche, enti previdenziali, uffici del registro) ex art. 213 c.p.c.; disporre indagini mediante di Finanza3; disporre CTU; avvalersi di presunzioni, che in materia hanno grande rilevanza, specialmente in contesti sociali e territoriali in cui i redditi non dichiarati (c.d. “in nero”) sono la regola4. 1.2 Rapporto tra mantenimento diretto ed assegno perequativo. La disciplina dei provvedimenti economici da assumere, riguardo ai figli minorenni, nei giudizi di separazione (e di divorzio) è tutta contenuta nei commi 2 e 4 dell’art.155 cc.. Tale disposizione afferma che spetta al giudice stabilire non soltanto la misura, ma anche il modo in cui ciascun genitore deve contribuire al mantenimento della prole; che, salvi accordi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascun genitore vi provvede in misura proporzionale al proprio reddito; e che, ove necessario al fine di realizzare il principio di proporzionalità, il giudice stabilisce un assegno periodico, determinato sulla base di cinque criteri: 1) esigenze attuali del figlio; 2) tenore di vita da lui avuto durante la convivenza matrimoniale; 3) tempi di permanenza dello stesso presso ciascun genitore; 4) risorse economiche di ciascun genitore; 5) valenza economica dei compiti domestici di ciascun genitore5. Tra breve verrà approfondito ciascuno dei suddetti criteri. Prima, però, occorre evidenziare il punto critico della disciplina sopra descritta, costituito dal rapporto tra il mantenimento diretto e l’assegno determinato a titolo di contributo al mantenimento. In proposito, dopo l’avvento nel 2006 dell’affidamento condiviso come modalità elettiva di affidamento della prole (in quanto maggiormente funzionale alla realizzazione del diritto indisponibile della prole alla c.d. bigenitorialità, ossia ad essere educato e curato da entrambi i genitori attraverso una loro frequentazione equilibrata sul piano qualitativo e/o quantitativo), si sarebbe portati a pensare che la modalità normale ed esaustiva di assolvimento dell’obbligo di mantenimento dei figli sia divenuta quella del mantenimento in via diretta degli stessi da parte di ciascun coniuge. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 5 STUDI E RICERCHE Così, tuttavia, non è: non soltanto perché continua a ribadire nei suoi più recenti arresti6 che il giudicante conserva, anche in regime di affidamento condiviso, un’ampia discrezionalità circa la misura e il modo di contribuzione al mantenimento da parte di entrambi (tanto da poter ritenere irrilevante il fatto che per un certo tempo il figlio stia presso il genitore non collocatario, dando esclusivo rilievo agli altri criteri7); ma anche e soprattutto perché la previsione del mantenimento diretto come forma esclusiva di mantenimento, con esclusione di ogni forma perequazione economica, postula due circostanze entrambe di rara verificazione: un’assoluta equivalenza dei redditi e delle sostanze dei coniugi; e, soprattutto, una sostanziale equivalenza dei tempi di permanenza della prole presso ciascun genitore. Sotto quest’ultimo aspetto, invece, nella prassi si suole cumulare alla previsione dell’affidamento condiviso un regime di collocazione (eufemisticamente qualificato come “prevalente”) marcatamente squilibrato in favore di uno soltanto dei genitori, di regola la madre, regime cui segue una disciplina del diritto di visita del genitore non collocatario sovente consistente in una frequentazione limitata a pochi giorni e poche ore settimanali, ad alcuni giorni alternati nelle feste canoniche, e ad una o due settimane nel periodo estivo. È chiaro che un simile assetto dei tempi di frequentazione finisce per influire in maniera decisiva anche sulla regolamentazione dei rapporti econo6 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 mici: nel senso che il genitore non collocatario, gravato da oneri minimi di mantenimento diretto dei figli pur affidati anche a lui, finisce per dovere compensare lo squilibrio in moneta sonante, in base al criterio sopra indicato dei “tempi di permanenza”, ed avuto riguardo agli altri criteri di determinazione e, in particolare, del criterio proporzionale-reddituale (Cass. 23411/09). In altre parole, a causa del concreto atteggiarsi dell’affidamento condiviso ciò che è regola (il mantenimento diretto, salva integrazione per tenere conto della diversità di reddito) finisce per diventare eccezione, e comporta una monetizzazione, spesso neppure voluta, del gap di frequentazione della prole da parte dei due coniugi. È bene intendersi: la sperequazione dei ruoli trova numerose ed oggettive giustificazioni: l’esigenza che i figli siano radicati presso una sola abitazione ed abbiano un unico centro d’interessi; la necessità, in caso di figli piccoli, di rispettare la loro fisiologica esigenza di vicinanza alla madre. Ma, nei non rari casi in cui tali esigenze non sussistano o comunque non siano avvertite come stringenti da entrambi i coniugi (si pensi al caso di figli ormai adolescenti che abbiano ormai metabolizzato la situazione di conflitto tra i loro genitori), il coniuge penalizzato, di solito il padre, tende ad invocare un riequilibrio dei tempi di frequentazione della prole, in modo da attenuare i propri obblighi perequativi, anche nel sospetto che l’altro coniuge possa utilizzare impropriamente il danaro ricevuto per i bisogni dei figli8. STUDI E RICERCHE 1.3 Criteri legali di determinazione dell’assegno. Deve comunque prendersi atto del fatto che ad oggi, nella pratica giudiziaria, il mantenimento diretto non è praticamente mai considerato una modalità esclusiva di contributo al mantenimento della prole, sostituendosi o comunque affiancandosi a tale modalità la previsione di un assegno perequativo a carico del soggetto non collocatario9; assegno il diritto al quale è soggetto alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c. decorrente dalla scadenza di ciascun rateo mensile10, e che ha natura sostanzialmente alimentare, ciò valendo ad escludere la compensazione (artt.1246 n. 5 cc e 445 cc), con conseguente inefficacia di eventuali autoriduzioni dell’assegno da parte dell’obbligato per tenere conto di propri controcrediti11. Al fine di quantificare la misura dell’assegno di mantenimento, il principale criterio è costituito dalle risorse economiche di ciascun coniuge. In proposito, è importante sottolineare che l’obbligo di contribuzione va stabilito autonomamente con riguardo al rapporto tra ciascun genitore e la prole, senza possibilità di valutazione comparativa tra i due coniugi. Ciò comporta anzitutto che, se un coniuge ha maggiori possibilità economiche rispetto all’altro, non basta che contribuisca al mantenimento della prole paritariamente rispetto all’altro, trovando l’obbligo da cui è gravato il limite piuttosto nelle sue possibilità economiche, secondo il principio generale espresso dall’art.148 c.c.; né esiste, secondo l’opinione prevalente (solidamente basata sull’inequivoca formula della legge), una misura massima di tale assegno, che va dunque tarato sulle possibilità economiche dell’obbligato, quali esse siano, senza che se ne possa disporre la riduzione sul rilievo, pur ragionevole, che un simile assegno sarebbe diseducativo perché troppo elevato12. Ne consegue inoltre, con riguardo al coniuge con minori possibilità economiche, che il fatto che l’altro abbia maggiori risorse giova al figlio beneficiario, ma non vale certo a sollevare il genitore meno dotato dall’obbligo di contribuire anch’egli al mantenimento del figlio, in proporzione ovviamente alle sue risorse13. In quest’ottica di completa indifferenza alla situazione dell’altro coniuge, si comprende perché la giurisprudenza abbia sempre considerato irrilevanti, ai fini della determinazione degli obblighi di un coniuge verso la prole, tutte le vicende che comportino un risparmio di spesa per l’altro coniuge affidatario (ess.: casa data in comodato da parente14; convivenza more uxorio con un compagno che provveda al mantenimento del figlio15). Per motivi eguali e contrari, sono invece considerate rilevanti, in linea di principio, le circostanze e situazioni che incidano, in senso negativo o positivo, sulla situazione economica del coniuge obbligato. Si è pertanto affermata la rilevanza del sopravvenuto obbligo di mantenimento di un figlio naturale concepito dall’obbligato fuori dal matrimonio16; così come si è chiarito che la circostanza dell’ assegnazione al coniuge affidatario della casa familiare in proprietà, esclusiva o comune, all’altro coniuge, incide senz’altro sulla determinazione dell’obbligo di quest’ultimo, in particolare risultando equo ridurre l’assegno di un importo corrispondente al valore locativo della quota di immobile di proprietà dell’obbligato non assegnatario, sul presupposto che la dazione in godimento costituisce modalità di (parziale) adempimento dell’obbligo di mantenimento17. Quanto al concreto contenuto da assegnare al criterio in esame, la S.C. ha sempre adottato un’interpretazione estensiva, in quanto ha ritenuto, nonostante il richiamo al solo “reddito” contenuto nell’incipit del comma 4 dell’art.155 cc, che rilevino a tal fine non soltanto i redditi (in un’ampia accezione, comprensiva di tutti i flussi reddituali18 derivanti da lavoro autonomo o subordinato o da trattamenti previdenziali), ma anche il lavoro casalingo svolto dal coniuge a beneficio dei figli (d’altra parte espressamente ritenuto suscettibile di valutazione economica dal n.5 della disposizione), le “sostanze” e ogni altra utilità. In quest’ampia accezione, rilevano dunque: il valore intrinseco degli immobili in proprietà, anche se improduttivi, purchè suscettibili di essere impiegati direttamente o convertiti19; le quote di partecipazione sociale; gli utili derivanti dall’investimento di capitali; il capitale derivante dalla vendita di beni20; le rendite Inail21; i proventi di qualsiasi natura22. La S.C. ha inoltre chiarito che il parametro di riferimento è costituito non soltanto dai redditi e dalle sostanze dell’obbligato, ma anche dall’astratta capacità lavorativa del medesimo, tenuto a metterla a frutto al fine di reperire mezzi di sostentamento non solo per sé ma anche per i propri figli minori23. Ne deriva che neppure lo stato di disoccupazione (a maggior ragione se volontaria o addirittura preordinata a sottrarsi agli obblighi di mantenimento) rileva al fine della soppressione del contributo al mantenimento, salva ovviamente l’incidenza sulla quantificazione del contributo, ove la mancanza di occupazione sia incolpevole; a meno che l’obbligato riesca a superare la presunzione iuris tantum di capacità di occuparsi, dimostrando le ragioni per cui non riesce a trovare utile impiego (es. una malattia). Nella prassi giudiziaria, i predetti principi hanno portato i Tribunali italiani ad individuare un assegno minimo (normalmente di importo inferiore ai € 200,00 mensili per ciascun figlio, tanto più nei casi in cui vi siano più figli da mantenere) da porre a carico del genitore obbligato a prescindere da ogni prova circa la sua capacità reddituale; anche se la giurisprudenza di legittimità ha di recente ribadito che, in conformità con il principio di assoluta discrezionalità del giudice nel determinare modo e misura del mantenimento, ben può statuirsi che il genitore ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 7 STUDI E RICERCHE non collocatario assolva l’obbligo di mantenimento esclusivamente ospitando e mantenendo i figli in occasione delle loro visite, laddove le sue condizioni non gli permettano altro contributo24. Altro criterio di riferimento per la determinazione dell’assegno di mantenimento è quello delle esigenze attuali (alimentari, ma anche abitative, scolastiche, sportive, sanitarie, sociali, di assistenza morale e materiale) della prole beneficiaria. Il fatto che il legislatore faccia espresso riferimento alle sole esigenze “attuali” dei figli porta la maggioranza degli interpreti ad escludere la possibilità che possano considerarsi, a fini di quantificazione dell’assegno, anche le esigenze future della prole25. Peraltro l’aumento dei bisogni del figlio, non suscettibile di considerazione in sede di prima determinazione dell’assegno, può sempre essere portato all’attenzione del giudicante ai sensi dell’art.155 ter cc mediante istanza di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio; ed in tale sede non può che presumersi, in mancanza di elementi di segno contrario, che la crescita dei figli (ed in particolare il passaggio del minore alla fase dell’adolescenza) comporti, per via della maggiore tendenza alla socializzazione, unita all’ancora assoluta impossibilità di procacciarsi da sé forme di autonomia economica, maggiori bisogni economici26. Quanto infine al criterio secondo cui l’assegno deve garantire alla prole il mantenimento del medesimo tenore di vita cui era abituato nel periodo di convivenza con entrambi i coniugi, esso non costituisce un criterio assoluto, giacchè va contemperato con gli altri criteri e, in particolare, con quello del reddito dei genitori: nel senso che il tenore di vita anteatto va sì conservato, ma nei limiti di quanto consentito dai redditi dei coniugi, tenuto anche conto che, con la separazione, si produce normalmente, come effetto del venir meno dell’organizzazione domestica comune, un aumento delle spese sopportate da ciascun coniuge27. Nei suddetti limiti, peraltro, il criterio in discorso va parametrato alle potenzialità economiche dei genitori nel periodo di convivenza, sicchè deve tenere conto dei prevedibili sviluppi futuri delle condizioni economiche di ciascuno di essi28. 1.4 Gli accordi delle parti sul mantenimento della prole. La facoltà - sovente utilizzata dalle parti - di accordarsi sulle condizioni della loro separazione personale impone di esaminare la disciplina di tali accordi e i limiti cui essi soggiacciono. In proposito l’art.155, mentre in tema di accordi sui profili personali dispone che il giudice “ne prende atto se non contrari all’interesse dei figli”, in tema di accordi sul mantenimento dei figli minori, al co.4, parla di “accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti”. 8 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Non può ritenersi tuttavia, alla luce degli interessi pubblicistici ravvisabili in materia di mantenimento della prole, che la libertà negoziale dei coniugi sia assoluta. Così si è anzitutto escluso che la convenzione di separazione possa spingersi al punto di porre il mantenimento dei figli (e/o le spese straordinarie) interamente a carico di uno dei coniugi, in modo da liberare da ogni peso l’altro coniuge a prescindere dalle sue condizioni economiche, rilevandosi in proposito che il diritto ad essere mantenuti da un genitore è un diritto di credito esercitato dall’altro genitore iure proprio ma nell’interesse esclusivo del figlio beneficiario, sicchè non se può disporre, tanto meno in contrasto con l’interesse del minore29; salvo, secondo un’opinione, il caso limite del coniuge impossibilitato alla contribuzione, nel qual caso l’esenzione si atteggerebbe come condizione sospensiva dell’obbligo di mantenimento sino al perdurare della situazione di impossibilità contributiva. Analoghe ragioni portano a ritenere invalidi, per contrasto con l’interesse della prole e con il principio di proporzionalità funzionale a tale interesse, gli accordi volti a fissare un termine finale all’obbligazione di mantenimento del figlio, nonché quelli volti a stabilire un versamento una tantum satisfattivo del diritto della prole ad essere mantenuta. A diverse conclusioni deve pervenirsi in ordine alla questione della validità dei patti con cui si attribuiscano ai figli (o ci si impegni ad attribuire) diritti reali immobiliari a soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento. Infatti la giurisprudenza, inizialmente orientata in senso negativo30 in considerazione del silenzio serbato dalla legge sul punto e della natura indisponibile del diritto al mantenimento, in tempi più recenti ha modificato la propria posizione, ritenendo valida ed efficace, in linea di principio, un accordo volto alla liquidazione una tantum del credito a titolo di mantenimento31; con la precisazione che un siffatto accordo, non potendo porsi in contrasto con il principio di proporzionalità espresso dall’art.148 cc, viene concluso con l’implicita clausola rebus sic stantibus e, dunque, non impedisce al genitore collocatario, in caso di modifica della situazione di fatto esistente al momento dell’accordo, di chiedere ed ottenere, in aggiunta al trasferimento immobiliare già operato, la previsione di un assegno a titolo di contributo al mantenimento del figlio32. Siffatti accordi, aventi natura contrattuale e causa solutorio-compensativa33, devono avere, anche attraverso il loro recepimento nel verbale di udienza (avente natura di atto pubblico ai sensi dell’art.126 cpc) la forma scritta prescritta dalla legge per gli accordi di separazione (l’art.155 cc parla di accordi “sottoscritti”) e, più in generale per i trasferimenti immobiliari. Controverso è, peraltro, se tali accordi possano avere direttamente effetti reali o se, invece, debbano limitarsi a sancire l’impegno della parte ad operare STUDI E RICERCHE il trasferimento del diritto immobiliare attraverso un successivo atto dotato dei requisiti di legge. A fronte di un orientamento favorevole alla prima tesi34, tende a consolidarsi un contrario orientamento restrittivo, giustificato anche dalla difficoltà pratica per il giudicante, privo dei necessari mezzi organizzativi, di procedere ai controlli formali richiesti per tale tipo di negozi (verifica della titolarità del diritto oggetto del trasferimento, verifica dell’esistenza della concessione edilizia o in sanatoria prevista a pena di nullità dall’art.40 L.47/85, ecc.)35. 1.5 La decorrenza, l’adeguamento Istat, gli assegni familiari. L’assegno di mantenimento della prole decorre dal momento della domanda (e quindi dal momento del deposito del ricorso introduttivo del giudizio), e non già dalla data del provvedimento, provvisorio o definitivo, con cui esso viene determinato, stante il principio generale secondo il quale il tempo occorrente per far valere il diritto non deve pregiudicare il suo titolare, principio ribadito in tema di alimenti dall’art. 445 c.c.36; a condizione, però, che in quel momento già sussistessero i presupposti per la nascita del diritto, altrimenti l’assegno decorrerà dal momento del verificarsi di essi. Il tema della decorrenza dell’assegno di mantenimento della prole trova un elemento di complicazione nel fatto che spesso l’assegno determinato in sentenza è diverso, in senso ampliativo o al contrario riduttivo, rispetto a quello provvisoriamente fis- sato dal Presidente all’esito dell’udienza di comparizione dei coniugi innanzi a lui, sicchè si pone un problema di disciplina della successione tra i due trattamenti economici. In proposito, se la sentenza determina una variazione in peius dell’assegno stabilito in sede presidenziale, il suddetto principio di retroattività della statuizione giudiziale al momento della domanda va contemperato con il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento37, e quindi con il relativo regime di irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di tali prestazioni; da ciò derivando che chi abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le maggiori prestazioni previste in sede interinale non può essere costretta a restituirle, tanto meno se esigue e dunque verosimilmente utilizzate per vivere38, né può vedersele opporre in compensazione; mentre il soggetto obbligato che non abbia ancora corrisposto l’assegno non è più tenuto a farlo laddove intervenga una sentenza che fa venir meno il relativo obbligo39, e ciò con effetto dal momento di passaggio in giudicato della pronuncia40. L’obbligo, da parte di chi è tenuto a versare l’assegno di mantenimento, di rivalutare il relativo importo sulla base degli indici elaborati dall’Istat, è previsto espressamente dall’art.155 co.5 cc, come novellato dalla riforma del 2006, e dunque opera ex lege a prescindere da ogni previsione giudiziale o negoziale in tal senso. Trattandosi di disposizione inderogabile, il giudice o le parti non possono escludere la rivalutazione (a differenza di quanto previsto ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 9 STUDI E RICERCHE per i rapporti tra coniugi in sede di divorzio, dove il giudice può escludere l’aggiornamento, con provvedimento motivato, in caso di palese iniquità: art.5 co.7 L. divorzio), mentre possono scegliere parametri di rivalutazione diversi da quelli Istat (ad esempio stabilire un adeguamento proporzionato agli incrementi del reddito dell’obbligato), purchè essi non diano risultati inferiori a quelli scaturenti dall’applicazione dell’Istat. Quanto infine agli assegni familiari, l’art. 211 L.151/75, applicabile per analogia anche al divorzio, prevede che il coniuge affidatario, in aggiunta all’assegno di mantenimento e al rimborso pro quota delle spese straordinarie41, abbia anche il diritto di percepire gli assegni familiari (o gli analoghi trattamenti per il nucleo familiare) spettanti a lui o all’altro coniuge. Nella vigenza del nuovo principio di affidamento condiviso, l’opinione prevalente ritiene che il riferimento all’affidatario debba ora essere inteso come riferimento al coniuge presso cui la prole è collocata in via prevalente, mentre di minore consenso gode la tesi secondo cui, nel caso ordinario di affidamento condiviso, gli assegni andrebbero divisi a metà tra i due genitori. 2. L’ASSEGNO ALLA PROLE MAGGIORE D’ETÀ 2.1. Generalità. In pendenza del giudizio di separazione personale (o di divorzio), i rapporti economici tra genitori e figli maggiori d’età trovano specifica disciplina nel10 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 l’art.155 quinquies cc, che prevede la possibilità di disporre in favore dei figli maggiorenni, ove non indipendenti economicamente, un assegno periodico, da versare, salva diversa determinazione del giudicante, direttamente al beneficiario. Un primo elemento di diversità rispetto all’assegno in favore della prole minorenne è costituito, dunque, dal fatto che non è prevista la possibilità di disporre il mantenimento diretto, prevedendosi soltanto quella di un contributo in danaro (coerentemente, del resto, con la mancanza, per i figli maggiori d’età, di un regime di affidamento, collocazione e visita). Altro più generale profilo di diversità tra i due regimi attiene, poi, alla minore presenza, nella disciplina qui in esame, di deviazioni dai principi privatistici. Esemplare è, in proposito, la questione dell’applicabilità, alle istanze di mantenimento della prole maggiorenne non autonoma, del principio della domanda; questione che, inizialmente risolta in senso negativo, sul presupposto della sostanziale assimilabilità - quanto ad esigenze protettive - delle due categorie di figli42, sembra essere ormai stata definitivamente decisa dalla S.C. nel senso della rigida applicazione delle preclusioni di rito per la proposizione di domande giudiziali43. 2.2. La legittimazione ad agire e il soggetto destinatario del pagamento. Dunque, al fine di far valere il diritto della prole maggiorenne al mantenimento, occorre un’espressa STUDI E RICERCHE domanda, proposta nei tempi e nei modi richiesti dal rito vigente. Legittimato a proporla è anzitutto lo stesso figlio interessato, mediante intervento autonomo nell’ambito del giudizio di separazione personale o di divorzio pendente tra i suoi genitori, sussistendo in tal caso una connessione tra domande tale da giustificare il simultaneus processus44. Dalla stessa formulazione dell’art.155 quinquies, peraltro, si evince la sussistenza di una legittimazione, concorrente con la prima, del genitore convivente con l’avente diritto45; legittimazione che, dipendendo dal diritto sostanziale del figlio, cessa se quest’ultimo interviene in giudizio per abdicare al suo diritto46. Il tema della legittimazione ad agire si intreccia con altro tema, di natura sostanziale, riguardante l’individuazione del soggetto cui deve essere materialmente corrisposto l’assegno, e regolato dall’art.155 quinquies cc, nella parte in cui dispone che l’assegno è versato direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice, che può quindi decidere di individuare, come destinatario materiale del versamento, nell’interesse dell’avente diritto, altro soggetto (il genitore con lui convivente, ovvero il soggetto terzo già affidatario o collocatario del figlio)47. È dunque il giudice a scegliere discrezionalmente chi debba essere il destinatario del versamento dell’assegno, con la conseguenza che soltanto l’osservanza di quanto disposto giudizialmente sul punto libera il debitore48, salva l’applicazione dei principi di cui all’art. 1188 cc; e fermo restando che, se è il figlio ad avere agito, può dubitarsi che ricorrano i presupposti, anche solo di opportunità, per derogare alla regola del versamento diretto all’avente diritto. D’altra parte, malgrado la legge consideri eccezionale l’ipotesi di versamento a soggetto diverso dall’avente diritto, la pratica giudiziale in tanto ritiene giustificata la previsione del pagamento diretto all’avente diritto in quanto sia dato presumere che è il figlio stesso a sostenere direttamente le spese per il suo mantenimento (ad esempio perché studia in un’altra città, pur continuando ad avere un rapporto privilegiato di coabitazione, al suo rientro, presso il genitore ex collocatario49), in caso contrario optando per l’opposta soluzione di individuare come destinatario del versamento altro soggetto, e cioè quasi sempre il coniuge presso cui il figlio convive, e che continua a sopportare i costi di mantenimento dello stesso. Deve peraltro osservarsi che il favor legislativo per il pagamento diretto trova altra importante ragione d’essere anche nell’esigenza di incoraggiare l’adempimento da parte dell’obbligato, superando il suo timore che l’assegno, ove versato nelle mani dell’altro coniuge, possa non essere utilizzato interamente per i bisogni della prole. 2.3. La “non indipendenza economica”. La sintetica locuzione “non indipendenza economica”, utilizzata dal legislatore per individuare a contrario il termine finale del diritto al mantenimento, è stata oggetto, negli ultimi tempi, di numerosissimi arresti giurisprudenziali, finendo per diventare uno dei profili maggiormente dibattuti della materia. In linea generale, la S.C. nega che il raggiungimento della maggiore età, in sé considerato, sia sufficiente ad escludere o a far cessare l’obbligo dei genitori di mantenimento50, giacchè il diritto del figlio, anche se maggiorenne, permane sino all’intervento di una delle seguenti circostanze: a) il raggiungimento dell’indipendenza economica; b) l’avviamento ad un lavoro con serie e concrete prospettive di indipendenza economica; c) il mancato raggiungimento dei suddetti obiettivi per colpevole inerzia del figlio, che pure era stato posto nelle concrete condizioni per poterli raggiungere; precisandosi, a quest’ultimo riguardo, che non può considerarsi in colpa il figlio che, ancorchè privo di redditi, abbia rifiutato un’occupazione non adeguata alla sua preparazione, alle sue attitudini e ai suoi interessi, almeno finchè le sue aspirazioni abbiano ragionevole possibilità di realizzazione, e sempre che esse siano compatibili con i bisogni della famiglia51. Sul piano probatorio, la S.C. è costante nell’affermare che spetta all’obbligato dimostrare il raggiungimento dell’indipendenza economica o la colpevole inerzia da parte del beneficiario52. Specie con riguardo a quest’ultima circostanza, difficilmente suscettibile di prova diretta, particolare rilevanza ha il ricorso alle presunzioni. In particolare nella prassi giudiziaria, pur condividendosi l’impossibilità di fissare a priori un’età massima oltre la quale viene meno il diritto del maggiorenne all’assegno, si suole fare riferimento ad una soglia d’età, solitamente intorno ai trenta anni, il cui superamento fa presumere l’autonomia economica o comunque l’ingiustificata inerzia nel tentare di conseguirla, salva prova contraria, da parte del beneficiario, del giustificato mancato raggiungimento di tale obiettivo. In altre parole, il raggiungimento e superamento dei trent’anni di età, la mancanza di qualsivoglia patologia invalidante e la mancata allegazione e prova del perdurante impegno in attività di studio e di formazione professionale fanno ritenere dimostrata, in base ad una presunzione iuris tantum suscettibile di prova contraria, l’ingiustificata inerzia del figlio nel tentare di raggiungere l’indipendenza economica, attraverso la ricerca di un’occupazione di qualunque tipo, in modo da non gravare all’infinito sui genitori; mentre per converso deve riconoscersi ancora un diritto al mantenimento nei casi in cui, pur non essendovi prova della non indipendenza economica, la giovane età del figlio sia tale da far presumere che egli, quand’anche non più impegnato ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 11 STUDI E RICERCHE negli studi, non abbia ancora avuto serie occasioni lavorative53. È pacifico in giurisprudenza, poi, che, una volta acquisita l’autosufficienza economica, il diritto al mantenimento viene definitivamente meno54, né esso è suscettibile di riacquisto in caso di perdita dell’indipendenza, in tal caso potendo soltanto configurarsi, in presenza dei relativi presupposti, un diritto agli alimenti55. In materia, il punctum pruriens è costituito, nella prassi, dalle situazioni, sempre più frequenti nella situazione in cui versa attualmente il mercato del lavoro, in cui il figlio abbia forme di retribuzione insufficienti e/o intrattenga rapporti di lavoro precario (part-time, a termine, a progetto, di formazione, stagionale ecc). Sebbene l’eterogeneità delle suddette situazioni imponga di valutare di volta in volta l’idoneità dell’attività svolta a rendere il figlio economicamente indipendente, può affermarsi, in linea di principio, che nei casi di rapporto precario l’assegno, almeno inizialmente, non va soppresso né sospeso56, ma piuttosto ridotto, salva la sua totale eliminazione (o al più la sua conversione in altra forma di utilità, quale l’ospitalità nella casa coniugale o l’assunzione diretta di specifici oneri) laddove il rapporto, pur formalmente precario, sia poi di fatto rimasto stabile per un lasso di tempo apprezzabile, generalmente individuato in almeno un anno. Le soluzioni adottate dalla giurisprudenza in punto di prova della raggiunta indipendenza economica sono comunque improntate alla massima cautela, al fine di evitare pericolosi vuoti di tutela. Così la circostanza che il maggiorenne viva stabilmente in altro luogo per ragioni di studio o di formazione non è ritenuta decisiva, di per sé, al fine di escludere il suo diritto al mantenimento, purchè egli conservi un rapporto privilegiato di coabitazione con il genitore ex collocatario, nel senso che egli, al ritorno in città, dimori abitualmente presso l’abitazione di quest’ultimo. Del pari il matrimonio del figlio maggiorenne, se normalmente comporta il venir meno di ogni obbligo di mantenimento da parte della famiglia d’origine, non vale a dimostrare la raggiunta indipendenza economica nel caso in cui alla celebrazione delle nozze non sia seguita la costituzione di una nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente, per essere anche il coniuge non autosufficiente sul piano economico57. 3. LE SPESE STRAORDINARIE Le “spese straordinarie” sono definibili in negativo rispetto all’assegno di mantenimento: si tratta infatti di quelle spese che, per definizione, non sono prevedibili a priori nell’an e nel quantum, ma soltanto al momento in cui l’esborso è effettivamente sostenuto; con la conseguenza che il loro importo non può essere inglobato ex ante nella misura del12 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 l’assegno di mantenimento (a pena di determinare, in modo del tutto aleatorio, ingiusti vantaggi o svantaggi per l’obbligato, a seconda della causale verificazione dei presupposti di tali spese, con pregiudizio per la prole, oltre che violazione dei principi di proporzionalità ed adeguatezza del contributo58), ma fa piuttosto sorgere in capo al genitore non collocatario un obbligo di rimborso in favore dell’altro coniuge, che le ha sostenute, in aggiunta all’assegno di mantenimento, quale ulteriore “modo” di contribuire al mantenimento dei figli (art.155 cc); obbligo normalmente consacrato, con le formule più varie, nei provvedimenti giudiziali adottati nel corso dei giudizi di separazione e divorzio. Va subito osservato, peraltro, che tali spese non sono identificabili nelle decisioni di maggiore interesse che i coniugi devono prendere “di comune accordo” ai sensi dell’art.155 cc, posto che decisioni di massimo interesse per la prole possono non comportare spese (si pensi ad un delicato intervento chirurgico coperto dal S.S.N.); e per converso ingenti spese straordinarie possono derivare da decisioni di scarso peso (es. il corredo scolastico). Ciò comporta che il coniuge collocatario ben può compiere, senza necessità di acquisire il consenso dell’altro, spese straordinarie di notevole entità, almeno finchè non attengano a decisioni “di maggiore interesse”59; e nella realtà non è raro il caso del coniuge che, in una situazione di elevata conflittualità con l’altro, abusi della situazione, sostenendo ingenti spese straordinarie senza neppure comunicarle all’altro coniuge, per poi chiedere a quest’ultimo il rimborso della quota di spettanza di tali spese, in aggiunta all’assegno di mantenimento. Da qui il sorgere, nella pratica quotidiana, di un corposo contenzioso (d.i., precetti, opposizioni), che porta ad approfondire due questioni, tra loro intimamente connesse: quali siano gli accorgimenti adottati, nella concreta regolamentazione dei rapporti economici tra genitori e figli, per evitare o comunque ridurre i rischi di abuso sopra descritti; e quali siano, nel caso in cui nonostante ogni accorgimento sorga una lite in materia, i profili esecutivi della pretesa di rimborso delle spese straordinarie sostenute per la prole. Con riguardo all’esigenza di predefinire le spese rientranti nella categoria delle spese straordinarie, in modo da evitare abusi, la prassi dei Tribunali italiani è estremamente variegata: vi è chi elenca analiticamente le spese straordinarie rimborsabili separatamente, magari recependo nel provvedimento un protocollo d’intesa; chi indica una soglia minima di ciascuna singola spesa oltre la quale quest’ultima, purchè imprevedibile, è da considerare aggiuntiva rispetto ai costi ordinari di organizzazione familiare già presuntivamente considerati nel fissare l’assegno di mantenimento; chi prevede una soglia massima delle spese straordinarie in rapporto STUDI E RICERCHE al reddito dell’obbligato; chi, infine, sceglie di omettere qualsiasi riferimento alle spese straordinarie. Poiché peraltro la regolamentazione giudiziale delle spese straordinarie, per quanto accurata, non riesce ad evitare il frequente ricorso al giudice, è importante anche accennare ai profili esecutivi della materia. Fino al 2008, la giurisprudenza era ferma nel ritenere necessario che il coniuge, una volta sostenuta la spesa straordinaria, non potesse agire esecutivamente nei confronti dell’altro coniuge per il rimborso della quota a suo carico, ma dovesse preventivamente adire il giudice della cognizione ai fini della formazione di tanti titoli giudiziali quante erano le spese straordinarie via via sostenute60. In tempi più recenti, tuttavia, la S.C.61, condividendo le aperture di alcuni Tribunali62, ha ritenuto, per intuibili ragioni di effettività della tutela e di economia processuale, che, laddove il provvedimento giudiziale (o l’accordo omologato) preveda espressamente l’obbligo di un coniuge di contribuire pro quota al pagamento delle spese mediche e scolastiche necessarie per i figli (e quindi di rimborsare tale quota all’altro coniuge che le abbia sostenute per l’intero), esso non richiede un’ulteriore attività di formazione di un titolo esecutivo, costituendo esso stesso titolo giudiziale idoneo per far eseguire coattivamente l’obbligo di rimborso, tenuto conto che tali categorie di spese sono prevedibili e certe nell’an sin dall’origine (tanto che neppure possono qualificarsi come straordinarie stricto sensu, essendo al contrario normali su di un piano statistico), mentre il quantum, inizialmente incerto, ben può essere determinato sulla base della documentazione rilasciata (es. dal S.S.N.) al momento dell’esborso, che deve intendersi implicitamente richiamata dal titolo. Ciò non priverebbe comunque di tutela, ad avviso della S.C., il coniuge obbligato, il quale ben potrebbe contestare il diritto della controparte ex post, in sede di opposizione all’esecuzione (preventiva o successiva), a tal fine deducendo che la spesa non può considerarsi necessaria, o contestando la verificazione dell’esborso, o deducendo la violazione del dovere di concordare la spesa in quanto spesa di maggior interesse, e così via. Nel diverso caso di previsione, nel titolo, di rimborso pro quota di spese senza altra specificazione, la parte interessata non potrebbe evitare invece l’intervento del giudice della cognizione, necessario per accertare l’effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi richiesti, in quanto relativi ad eventi il cui accadimento risulta oggettivamente incerto e che, quindi, non sono desumibili dal titolo medesimo. In concreto dunque, nel sistema venutosi a creare a seguito della pronuncia in commento, il coniuge, una volta eseguito l’esborso straordinario medico o scolastico, dovrebbe avanzare all’altro richiesta di rimborso della quota e, in mancanza di pagamento, notificare il precetto e procedere esecutivamente. In caso di opposizione, il procedente avrebbe poi l’onere di provare il suo diritto mediante produzione ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 13 STUDI E RICERCHE di documenti formatisi successivamente al titolo azionato ma ritenuti già parte integrante dello stesso. Sebbene le finalità pratiche del suddetto approccio ermeneutico siano assolutamente condivisibili, esso appare francamente un po’ troppo sbilanciato in favore del coniuge che richiede il rimborso. Infatti da un lato esso sembra porsi in tensione con il consolidato principio secondo cui il titolo esecutivo non è suscettibile di integrazione extratestuale, salvo che i dati integrativi, non contenuti nel titolo, siano già stati ritualmente acquisiti nel processo in cui il titolo stesso si è formato63; dall’altro lato la soluzione della Cassazione pone al coniuge obbligato, in caso di mancata o incompleta documentazione degli esborsi, e di dubbi circa l’effettiva riconducibilità degli stessi alle spese suscettibili di rimborso, l’alternativa tra il soddisfare fideisticamente la richiesta, ovvero proporre opposizione al fine di far sorgere in capo all’altro l’onere di dimostrare il suo diritto attraverso un’adeguata produzione documentale; con il rischio, in quest’ultimo caso, di pagare con la condanna alle spese di lite la propria legittima esigenza di esaminare le pezze d’appoggio dell’altro. 4. L’ASSEGNO C.D. DIVORZILE 4.1 Generalità. Mentre il regime dell’assegno in favore della prole è ormai unico per la separazione e per il divorzio, stante l’espressa previsione di applicabilità degli 14 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 artt.155 ss. cc anche al giudizio divorzile, il regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi si presenta ancora distinto nei due ambiti, e ciò in quanto in materia di separazione opera l’art.156 cc, mentre in materia di divorzio opera l’art.5 co.6 L. divorzio; disposizioni che, pur delineando istituti in qualche misura omogenei (si pensi ad es. all’assoggettamento di entrambi gli assegni al principio della domanda), presentano anche rilevanti profili di diversità, aventi la loro ragion d’essere nelle differenze tra gli istituti sostanziali cui si riferiscono. Tra i due regimi, è quello dell’assegno divorzile il regime generalmente riconosciuto come più problematico. La materia è regolata dall’art.5 co.6 L. divorzio, secondo il quale il giudice stabilisce l’obbligo di un coniuge di somministrare un assegno periodico all’altro64 sulla base dei seguenti criteri: a) “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”; b) ...“tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o o di quello comune, del reddito di entrambi; e valutati tutti questi elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”. Siffatta disciplina ha apportato sostanziali novità rispetto a quella previgente. Infatti nel precedente sistema si riteneva che l’assegno di divorzio avesse natura composita, nel senso che tutti e tre i criteri assistenziale (riguardante l’adeguatezza dei mezzi e le rispettive condizioni dei coniugi), compensativo STUDI E RICERCHE (riguardante il contributo personale di ciascun coniuge al ménage domestico e alla formazione del patrimonio comune o individuale) e risarcitorio (riguardante le ragioni della decisione) concorressero alla determinazione, prima ancora del quantum, dell’an debeatur. Con la nuova inequivoca formulazione, invece, l’assegno divorzile ha acquistato natura essenzialmente assistenziale, essendo fondato sull’esigenza - in caso di inadeguatezza dei mezzi di un coniuge - che l’altro assicuri la sua solidarietà post-coniugale, e ciò a prescindere dal tempo trascorso dalla separazione65); sicchè soltanto il parametro dell’adeguatezza dei mezzi del coniuge istante rileva ai fini dell’accertamento dell’an dell’assegno, mentre gli altri parametri, afferenti ancora al profilo assistenziale ma anche e soprattutto a quelli compensativo e risarcitorio, incidono soltanto sul piano della concreta quantificazione di tale assegno. Coerentemente con tale nuova impostazione dommatica, la S.C., a partire da una pronuncia a sezioni unite del 199066 ha affermato che la determinazione dell’assegno divorzile va compiuta sulla base di due indagini, tra loro logicamente distinte: una prima, relativa all’an, che è volta a verificare il presupposto per la somministrazione dell’assegno, ossia l’inadeguatezza dei mezzi dell’istante a conservare il tenore di vita anteatto; una seconda, relativa al quantum, e logicamente successiva alla prima perché da compiere soltanto in caso di esito positivo della stessa, che è invece volta a stabilire la misura dell’assegno astrattamente riconoscibile (salvi, in casi estremi, il suo assoluto azzeramento) attraverso l’applicazione, all’accertata misura dell’inadeguatezza dei redditi del coniuge, costituente la misura massima dell’assegno divorzile, dei fattori di riduzione derivanti dai criteri enunciati dalla legge, ferma peraltro la discrezionalità del giudicante di non applicare uno o più di tali ultimi criteri67. 4.2 Rapporti tra assegno divorzile e regime economico della separazione. La specificità della natura e dei presupposti dell’assegno divorzile, nel distinguerlo dall’assegno di mantenimento del coniuge separato, comporta che le precedenti determinazioni, giudiziali o convenzionali, in ordine all’assegno di separazione, non possano vincolare il giudice del divorzio68, il quale quindi potrà riconoscere l’assegno divorzile anche in presenza di assegno di separazione determinato una tantum69, ovvero in caso di domanda di assegno di separazione non proposta, o rigettata, o sulla quale il giudice abbia omesso di pronunciarsi70; così come ben potrà riconoscere l’assegno divorzile in misura superiore a quello della separazione71. Ciò non significa, tuttavia, che le vicende dell’assegno di separazione siano del tutto irrilevanti. Anzitutto, infatti, in sede di provvedimenti provvisori assunti all’esito dell’udienza presidenziale è assai frequente, nella prassi, il caso di conferma in blocco, anche per i rapporti economici, del regime della separazione personale; il che trova solida giustificazione nell’opportunità, in un’ottica di cautela, di non sconvolgere gli equilibri consolidatisi per effetto di quel regime, tanto più se essi derivano da accordi tra le parti; salvo, ovviamente, il caso in cui siano allegate e provate, già in quella sede di sommaria valutazione, modificazioni della situazione di fatto così rilevanti da imporre l’immediata revisione delle statuizioni della separazione. Inoltre, e soprattutto, le vicende che nel corso del giudizio di separazione hanno interessato i rapporti patrimoniali tra i coniugi assurgono ad elementi di valutazione, talora decisivi, da cui prendere le mosse per determinare in concreto l’assegno divorzile. Così, la mancata proposizione della domanda di mantenimento in sede di separazione, ovvero la conclusione di una convenzione di separazione che non preveda alcun assegno in favore del coniuge, sono circostanze significative della convinzione dello stesso di poter continuare a tenere, già con i propri mezzi, un tenore di vita analogo a quello di cui ha goduto durante la convivenza matrimoniale72. Del pari, l’assetto economico relativo alla separazione costituisce un importante indice di riferimento nella regolazione del regime patrimoniale del divorzio, nella misura in cui possa fornire elementi utili per la valutazione delle condizioni dei coniugi e dell’entità dei loro redditi73. 4.3 Il criterio dell’adeguatezza dei mezzi di sostentamento e dell’impossibilità oggettiva di procurarseli da sè. Dunque il giudicante deve verificare se i mezzi del coniuge (redditi, sostanze e ogni altra utilità) siano sufficienti a consentirgli di mantenere il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio e, in caso negativo, deve verificare l’entità dell’inadeguatezza, la quale, in mancanza di altri elementi di valutazione, è pari appunto al divario reddituale attuale dei due coniugi74. Tale divario, peraltro, costituisce il tetto massimo della misura dell’assegno, da contemperare poi con gli altri criteri relativi al quantum, che operano come fattori di moderazione, diminuzione e addirittura azzeramento dell’assegno divorzile75. Circa il riferimento al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, la giurisprudenza, con riguardo anche alla materia della separazione personale, ha più volte chiarito che il relativo giudizio di adeguatezza va riferito alle “potenzialità” economiche dei coniugi. Pertanto è irrilevante che durante la convivenza matrimoniale il coniuge beneficiario abbia tollerato, subìto o comunque accettato un tenore di vita più modesto rispetto a tali potenzialità76; mentre per converso sono senz’altro rilevanti eventuali miglioramenti della situazione economica del coottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 15 STUDI E RICERCHE niuge obbligato verificatisi dopo la separazione o addirittura dopo la conclusione del relativo giudizio77; con la precisazione, a quest’ultimo proposito, che tali miglioramenti rilevano soltanto se, e nella misura in cui, costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio: perché soltanto in tale caso il coniuge che richiede l’assegno ha maturato una legittima aspettativa di miglioramento del tenore di vita nel tempo, frutto tra l’altro del proprio contributo al ménage coniugale78. In tale prospettiva, si comprende come la S.C. non attribuisca rilevanza, al fine di determinare il tenore di vita cui commisurare l’assegno al coniuge, agli atti straordinari di liberalità in favore del coniuge obbligato79. In materia di divorzio peraltro la legge espressamente impone al giudicante, a differenza che nella separazione, la verifica di un altro presupposto negativo, e cioè che il coniuge, oltre a non avere mezzi adeguati alla conservazione del tenore matrimoniale, sia nell’impossibilità oggettiva di procurarseli da sé, solo in tal caso imponendosi l’applicazione del principio di solidarietà post-coniugale. Anche qui le questioni più delicate si pongono, nella pratica giudiziaria, sul versante probatorio. Infatti, se non può dubitarsi che incomba su chi chiede l’assegno divorzile l’onere di provare, oltre alle circostanze positive della propria inadeguatezza economica e della maggiore capacità economica dell’altro coniuge, anche quella negativa dell’impossibilità oggettiva di procurarsi da sé tali mezzi, la difficoltà pratica di provare quest’ultimo presupposto spiega perché la giurisprudenza faccia ampio ricorso alle presunzioni80 e ai poteri istruttori officiosi81, valorizzando addirittura - quanto meno nella fase davanti al Presidente - le dichiarazioni rese dal beneficiario, nella contumacia dell’altro coniuge, circa la capacità economica di quest’ultimo82. 4.4 Il criterio della condizioni e del reddito dei coniugi. Nelle “condizioni”, quale parametro di determinazione dell’assegno divorzile, vanno ricomprese non soltanto le condizioni economiche, ma anche tutti gli elementi di carattere personale quali l’età, le condizioni sociali e di salute, la situazione ambientale e la capacità lavorativa. Per quanto riguarda il “reddito” dei coniugi, invece, esso è da intendere nell’ampia accezione già vista in tema di assegno di mantenimento della prole, cui si rimanda. Occorre qui accennare, invece, alla rilevanza, sotto l’aspetto reddituale, della convivenza more uxorio che uno dei due coniugi, dopo la crisi matrimoniale, abbia eventualmente instaurato con altra persona. Quanto all’ipotesi di instaurazione, da parte del coniuge obbligato, di un regime di convivenza con altra persona (ed eventualmente con i figli concepiti 16 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 con la stessa), tale circostanza83 può rilevare ai fini della quantificazione in senso riduttivo dell’assegno divorzile (non valendo a renderla irrilevante il fatto che si sia trattato di una libera scelta dell’interessato), ma soltanto se, e nella misura in cui, si dia prova del fatto che essa comporta esborsi continuativi, e che tali esborsi incidono sostanzialmente sulla situazione economica dell’obbligato, non essendo la complessiva situazione patrimoniale dell’obbligato di consistenza tale da rendere irrilevanti i nuovi oneri84. Del tutto irrilevanti sono poi, al fine di tali valutazioni, i redditi del soggetto convivente85. Con riguardo, invece, al regime di convivenza eventualmente instaurato dal coniuge beneficiario, la più recente giurisprudenza, nel superare precedenti orientamenti (volti ad attribuire rilevanza alla capacità di apporto economico del nuovo compagno), tende ora a distinguere tra l’occasionale convivenza del coniuge con il nuovo partner (la quale incide sulla persistenza dei presupposti del diritto all’assegno solo se e nella misura in cui si provi che il nuovo convivente assicura entrate connotate da regolarità e relativa sicurezza) e il diverso caso in cui la convivenza assuma connotati di stabilità e continuità, e dunque assurga a vera e propria famiglia di fatto, connotata in quanto tale dall’elaborazione di un progetto di vita in comune analogo a quello che caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio. Quest’ultima situazione infatti, nel precludere ogni riferimento al preesistente modello di vita caratterizzante la convivenza matrimoniale, fa venir meno la possibilità di ricorrere al parametro dell’adeguatezza dei mezzi attuali rispetto al tenore di vita anteatto e, con ciò, il presupposto stesso della riconoscibilità dell’assegno di mantenimento (fondato proprio sulla conservazione di tale tenore), che quindi non è più dovuto; con la precisazione che, essendo il nuovo rapporto di fatto suscettibile di rottura ad nutum (a differenza di quello fondato sul matrimonio), il diritto all’assegno non cessa definitivamente, ma entra in una fase di quiescenza, potendo ritornare attuale in caso di cessazione della convivenza86. Sul piano probatorio, poiché gli aspetti più intimi e soggettivi del progetto di vita in comune (arricchimento e potenziamento reciproco della personalità dei conviventi; trasmissione di valori educativi ai figli ecc.) non possono essere oggetto di prova diretta, si suole ricorrere anche qui a ragionamenti presuntivi, desumendo la configurabilità di una vera e propria famiglia di fatto dalla condotta complessiva della nuova coppia. 4.5. Il criterio delle ragioni della decisione. Tale parametro, riferibile alla componente risarcitoria dell’assegno divorzile, assume naturalmente particolare rilevanza nei casi di divorzio per ragioni diverse dall’intervenuta separazione personale (inconsumazione, condanna penale). STUDI E RICERCHE Nel caso statisticamente più frequenta, ossia quello del divorzio chiesto a seguito dell’intervento della separazione, la S.C. è ferma nel ritenere che possa rilevare anche il comportamento tenuto dal coniuge anteriormente alla separazione, consensuale o giudiziale, salvo che non debba ritenersi assorbito dalla valutazione compiuta dal giudice della separazione87. Pertanto, specialmente nei casi di separazione consensuale, in cui non vi è alcuno sbarramento costituito dalla pronuncia giudiziale, la tendenza è quella di prendere in considerazione, in qualche misura, le condotte tenute dai coniugi prima di separarsi, tanto più nei casi in cui sia giustificato il sospetto che gli accordi economici presi in sede di separazione siano frutto di imposizioni di un coniuge, accettate dall’altro per ottenere concessioni sul piano dei rapporti personali, soprattutto relativi ai figli minori. 4.6. Il criterio del contributo personale ed economico di ciascun coniuge. La durata del matrimonio. Al fine di quantificare l’assegno divorzile, rileva anche il contributo dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune. Rilevano dunque, anche in negativo88, anzitutto le forme di contributo di natura personale, quali in particolare l’educazione e l’allevamento della prole, il lavoro domestico, l’assistenza al coniuge (anche ove abbia avuto carattere di normalità89), ecc. Rilevano inoltre le forme di contributo di natura economica: si pensi all’acquisto in costanza di matrimonio, con danaro proveniente in via esclusiva da uno dei coniugi, della casa coniugale; o al caso in cui siano messi a disposizione della famiglia beni di proprietà esclusiva di uno solo dei coniugi; o ancora al caso, sempre più frequente nella prassi, in cui l’apporto economico provenga non direttamente dal coniuge ma dalla sua famiglia d’origine90. Connesso al criterio del contributo personale ed economico è quello della durata del matrimonio (durata da calcolare sino al momento della separazione personale, salva la possibilità per l’interessato di provare la rilevanza del vincolo matrimoniale anche nel periodo successivo); criterio che però, come rileva la peculiare collocazione dello stesso nell’ambito dell’art.5 L. divorzio, non è sullo stesso piano degli altri, costituendo piuttosto un parametro per valutare – appunto – l’importanza del contributo dei coniugi alla famiglia. Va peraltro precisato che la breve durata del matrimonio influisce soltanto sulla misura dell’assegno e non può valere, in linea di principio, ad escludere del tutto il diritto a goderne, a meno che risulti che il vincolo matrimoniale fu solo formalmente istituito e non diede luogo alla formazione di alcuna comunione materiale e spirituale fra i coniugi 91. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 17 STUDI E RICERCHE 4.7. Decorrenza e adeguamento dell’assegno divorzile. Il principio generale operante in tema di decorrenza dell’assegno divorzile è quello secondo cui tale assegno, trovando la propria fonte nel nuovo “status” delle parti, stabilito da una sentenza di natura costitutiva, decorre soltanto dal passaggio in giudicato della relativa statuizione92. Prima di tale momento, continua dunque ad essere dovuto – salvi specifici provvedimenti provvisori presidenziali adottati nel giudizio di divorzio - l’eventuale assegno di mantenimento disposto in sede di separazione, assegno la cui modifica però va chiesta, in pendenza del giudizio di divorzio, al G.I. di quest’ultimo e non già al Tribunale collegiale ai sensi dell’art.710 cpc93. L’art.4 co.13-14 L. divorzio peraltro (riferito testualmente alle sentenze non definitive ma ritenuto applicabile dalla giurisprudenza anche alle definitive94) introduce una deroga al suddetto principio, 18 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 stabilendo il potere del giudice di disporre, anche senza una domanda di parte in tal senso, che l’obbligo di mantenimento decorra dal momento della domanda, purchè espliciti adeguatamente in motivazione le ragioni della deroga95. Non si ritiene possibile, invece, fissare un momento intermedio di decorrenza dell’assegno divorzile, a meno che la parte interessata non abbia allegato e provato sopravvenienze, rispetto alla data della domanda, che giustifichino tale soluzione96. Sono poi immediatamente esecutivi, per il più recente orientamento della S.C., i provvedimenti di revisione, ex art.9 L. divorzio, di quanto disposto, sotto i profili economico e personale, a seguito di scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili; e ciò in conformità con una regola generale, espressa dall’art. 4 della citata legge regolativa della materia ed incompatibile con l’art. 741 cpc (che invece subordina l’efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la proposizione del reclamo97). Quanto all’adeguamento dell’assegno, l’art.5 co.7 L. divorzio impone al giudice di stabilire, in sentenza, un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria; con implicito divieto, quindi, di fissare criteri di adeguamento meno favorevoli per il beneficiario. La stessa norma prevede peraltro, con disposizione eccezionale operante soltanto in materia di divorzio, il potere del tribunale di escludere l’adeguamento, motivando adeguatamente tale decisione, in caso di “palese iniquità”. 4.8. Liquidazione una tantum dell’assegno. L’art.5 co.8 L. divorzio prevede espressamente la possibilità che i coniugi si accordino nel senso della liquidazione dell’assegno divorzile una tantum, ossia nel senso della corresponsione di somme o altre utilità, in forza di un’unica fonte negoziale, con funzione di sistemare definitivamente i rapporti tra i coniugi98, eventualmente affidandosi al giudicante per la determinazione della concreta misura di tale assegno. L’attribuzione può riguardare capitali, rendite, beni in proprietà o in godimento ecc.. STUDI E RICERCHE L’equità di un siffatto accordo deve essere valutata dal giudicante, al quale spetta verificare, precisamente, se l’attribuzione una tantum, per il suo concreto contenuto, sia idonea a fornire al coniuge beneficiario i mezzi adeguati al suo sostentamento. In caso di valutazione positiva, al coniuge beneficiario sarà preclusa ogni successiva pretesa a contenuto economico, anche relativa a quote di TRF, di pensione ecc., e ciò anche nell’ipotesi in cui sopravvengano circostanze rilevanti ai fini della revisione di cui all’art.9 L. divorzio99. 4.9. La cessazione dell’assegno a seguito di nuove nozze. Ai sensi dell’art. 5 co.10 L. divorzio, le nozze del coniuge beneficiario determinano il venir meno del suo diritto all’assegno divorzile, purchè il nuovo matrimonio, ancorchè non trascritto, abbia effetti civili in Italia. Occorre peraltro precisare che, come per tutte le circostanze sopravvenute, la sua verificazione non determina l’automatica cessazione dell’obbligo, giustificando soltanto l’instaurazione di un procedimento ex art.9 L. divorzio al fine di ottenere la conseguente revisione delle condizioni economiche. La norma è insuscettibile di applicazione analogica alla convivenza more uxorio100: ma si è detto che, con riguardo alla nuova famiglia di fatto costituita dal beneficiario, la giurisprudenza ha affermato la sospensione del diritto all’assegno (salva sua reviviscenza in caso di cessazione ad nutum della relazione affettiva) al fine di pervenire a risultati analoghi. 5. L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN FAVORE DEL CONIUGE SEPARATO 5.1 Generalità. La materia è disciplinata dall’art.156 cc, a mente del quale il coniuge cui non è addebitabile la separazione ha diritto di ricevere dall’altro coniuge il necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati mezzi propri, nella misura determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Sotto il profilo processuale, il diritto in discorso è soggetto al principio della domanda, sicchè esso va fatto valere mediante proposizione della relativa pretesa in sede di tempestiva costituzione in giudizio101; a meno che i presupposti per la sua nascita non siano maturati successivamente102, oppure il coniuge nei cui confronti la domanda viene avanzata abbia riconosciuto il suo obbligo in corso di causa103. All’assegno di mantenimento del coniuge separato, inoltre, non sembra applicabile, dopo la novella del 2006,, il peculiare regime di decorrenza esaminato in tema di divorzio. In mancanza di una normativa specifica, si ritiene che la decorrenza dell’assegno al coniuge separato vada riferita, così come in materia di assegno alla prole, al momento di proposizione della domanda, e ciò sia in base al principio generale della retroattività degli effetti alla domanda, sia in base all’art.445 cc104; disposizione, quest’ultima, applicabile in considerazione della natura sostanzialmente alimentare dell’assegno relativo al coniuge separato, tale da comportare altresì il divieto di compensazione, l’impignorabilità ecc105. 5.2 Presupposti dell’assegno e criteri di determinazione. Sul piano sostanziale, l’art.156 cc prevede anzitutto, ai fini della nascita del diritto al mantenimento in capo al coniuge, un presupposto negativo, ossia la circostanza che al medesimo istante non sia stata addebitata la separazione. È invece irrilevante, a tal fine, che la separazione sia stata addebitata all’obbligato, in quanto l’addebito all’altro non è presupposto del diritto al mantenimento106. Se poi la separazione è stata addebitata ad entrambi i coniugi, nessuno di loro potrà pretendere dall’altro il mantenimento107. L’altro presupposto richiesto per la nascita del diritto al mantenimento, pure di tipo negativo, è la mancanza di adeguati redditi propri, la quale fa sorgere il diritto ad ottenere quanto necessario al mantenimento. Malgrado l’uso di termini come “necessità” e “adeguati”, Il credito del coniuge separato non postula lo stato di bisogno del coniuge (la cui configurabilità comporta piuttosto l’obbligo di prestare gli alimenti secondo il regime codicistico, come espressamente stabilisce l’art.156 co.2), bensì la mancanza di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge beneficiario un tenore di vita analogo a quello di cui ha goduto durante la convivenza matrimoniale108. Quanto alla prova dei suddetti presupposti negativi, in conformità con i principi generali in tema di riparto dell’onere della prova spetta al coniuge istante dimostrare in via indiretta, attraverso la prova di circostanze positive contrarie, l’inadeguatezza dei propri redditi e una capacità reddituale dell’altro tale da giustificare una corresponsione perequativa; mentre è onere della controparte provare, in via liberatoria, l’esistenza di altre risorse dell’istante o una propria capacità economica tale da non giustificare alcuna perequazione. Peraltro, per evidenti fini prativi di semplificazione probatoria, la S.C. suole precisare che l’attività istruttoria non deve tendere ad accertare l’esatto ammontare dei redditi dei due coniugi attraverso l’acquisizione di dati numerici o rigorose indagini contabili, essendo sufficiente pervenire ad un’attendibile ricostruzione delle rispettive situazioni patrimoniali complessive109. È importante sottolineare che gli accertamenti istruttori sul punto vanno compiuti con riguardo alla situazione economica attuale dei coniugi, operando in materia la clausola generale rebus sic stantibus, in base alla quale rileva ogni modificazione degli assetti economici intervenuta sino al moottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 19 STUDI E RICERCHE mento della decisione110 o addirittura nelle more del giudizio di appello111. Ciò, nel consentire lo svolgimento di attività assertiva e probatoria ben oltre gli sbarramenti temporali imposti dal vigente sistema delle preclusioni, comporta evidentemente delicati problemi processuali, tra i quali in particolare l’esigenza di assicurare il pieno contraddittorio112, eventualmente anche rimettendo - a richiesta - la parte interessata nei termini per svolgere le ulteriori allegazioni e richieste istruttorie che si rendano necessarie per replicare alle avverse deduzioni. In ogni caso, proprio perché va tutelato il contraddittorio, deve escludersi che circostanze sopravvenute possano essere allegate e provate nelle fasi finali del giudizio, destinate unicamente a precisare ed illustrare le domande ed eccezioni svolte nel corso del giudizio e le relative attività istruttorie. Una volta accertata la sussistenza dei due presupposti negativi richiesti per la nascita del diritto al mantenimento, occorre procedere a determinare la misura dell’assegno, e ciò in base all’entità della sperequazione reddituale tra i due coniugi, nonché in base agli altri criteri espressamente indicati dall’art.155 cc113. Quanto al tenore di vita anteatto, sulla cui base va formulato il giudizio di adeguatezza reddituale, è sufficiente richiamare i principi e gli orientamenti giurisprudenziali già descritti con riferimento all’analoga materia del divorzio. Anche con riguardo al concetto di redditi del coniuge obbligato vale richiamare quanto già riferito in ordine ai redditi rilevanti a fini di determinazione dell’assegno alla prole. Un discorso a sé merita, invece, la capacità reddituale del coniuge separato richiedente l’assegno di mantenimento. In materia, infatti, la S.C. ha assunto un atteggiamento piuttosto benevolo nei confronti del coniuge istante, in quanto, dopo avere premesso che non sono applicabili all’assegno di separazione i diversi presupposti previsti in tema di assegno di divorzio dall’art.5 co.6 L. divorzio114, suole affermare che in materia occorre valutare se, in relazione ad una serie di fattori individuali ed ambientali del caso concreto (età, condizioni psicofisiche, preparazione professionale, vita anteatta, condizioni del mercato del lavoro), esistano serie ed immediate possibilità di guadagno in un’occupazione non usurante e comunque confacente alla propria personalità115. Dunque, per la S.C., l’inattività lavorativa del coniuge separato può incidere sull’an dell’assegno di mantenimento in suo favore, nel senso di precluderne il riconoscimento, soltanto se il beneficiario abbia rifiutato effettive e concrete possibilità di lavoro, essendo al contrario irrilevante un’occasione lavorativa meramente ipotetica116. Discusso è inoltre, sempre con riferimento alla situazione economica del coniuge che richiede l’assegno di mantenimento, se e in che misura vadano 20 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013 considerati gli apporti economici fornitigli dalla sua famiglia d’origine o da terzi117 . Quanto infine alle “circostanze” che, ai sensi dell’art.155 co.2 cc, possono incidere sulla determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento al coniuge separato, meritano attenzione, per la particolare frequenza con cui se ne è occupata la giurisprudenza: l’assegnazione della casa coniugale e le maggiori spese che ciò comporta per il coniuge non assegnatario118; la durata del matrimonio119; il contributo dato alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge120; le ragioni della decisione121; l’obbligo di mantenimento di figli naturali concepiti nell’ambito di altra relazione122. 5.3 Profili negoziali dell’assegno di mantenimento del coniuge. Occorre infine accennare brevemente a talune questioni, di notevole rilievo pratico, riguardanti i limiti entro cui l’autonomia privata può incidere sul regime, pattizio o giudiziale, di mantenimento del coniuge. La prima questione è se possa ritenersi valida la rinuncia all’assegno di mantenimento da parte del coniuge separato che ne sia beneficiario. In proposito, il tradizionale orientamento della S.C. è nel senso che, stante la natura indisponibile del diritto al mantenimento (art.143 cc), esso è irrinunciabile, con la conseguenza che deve ritenersi affetto da nullità, ai sensi dell’art.160 cc, il patto con cui il coniuge rinunci all’assegno pur in presenza dei presupposti per ottenerlo123. Più in generale, si discute della validità di eventuali accordi a latere di una convenzione di separazione, come tali non oggetto di omologazione. Trattasi solitamente di accordi volti a maggiorare la misura del mantenimento, spesso per tenere conto di un’effettiva capacità reddituale dell’obbligato maggiore di quella risultante dalle dichiarazioni reddituali prodotte in sede di separazione. Per la giurisprudenza che se ne è occupata124, simili accordi sono validi ed efficaci, anche a prescindere dall’omologazione, ai sensi dell’art.1322 cc, ma entro i seguenti limiti: quanto agli accordi successivi all’omologazione, finchè rispettino il limite di derogabilità dell’art.160 cc (e quindi, entro tale limite, anche quando peggiorativi delle condizioni pattuite); quanto agli accordi anteriori o contemporanei a quelli oggetto di omologazione, purchè si collochino in posizione di non interferenza rispetto a questi ultimi (regolando ad esempio aspetti non disciplinati dai patti omologati, ovvero dettando una disciplina di dettaglio), oppure quando siano incontestabilmente in posizione di maggiore rispondenza rispetto all’interesse del coniuge beneficiario (si pensi al caso dell’accordo per un assegno di mantenimento di entità maggiore rispetto a quella concordata nella convenzione di separazione). STUDI E RICERCHE Note 1 Intervento nel seminario organizzato dalla Sezione Territoriale di Bari dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari - Scuola Superiore della Magistratura/Struttura didattica territoriale del distretto della Corte di Appello di Bari. 24 maggio 2013 ore 15,30 - Bari - Sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. 2 Cass.1506/90, 6312/99, 17043/07. 3 La pratica giudiziale evidenzia, peraltro, l’esito spesso insoddisfacente di tali indagini, le quali comunque postulano che l’interessato abbia proposto un’istanza circostanziata, fondata su fatti specifici, tale da giustificare l’esercizio del potere discrezionale del giudice: Cass.2098/11. 4 Cfr., in materia, Cass. pen. 9.4.10 n.34336, la quale ha desunto la maggiore potenzialità economica dell’obbligato dall’assunzione di un mutuo immobiliare superiore alla capacità economica dichiarata dal mutuatario. 5 In concreto, al fine di determinare l’assegno, il giudice dovrà procedere nel seguente modo: a) determinare l’entità del mantenimento necessario in base ai nn.1-2 (attuali esigenze+tenore di vita anteatto); b) dividere il relativo obbligo tra i genitori in base ai nn.3-4 (tempi permanenza presso ciascuno+risorse di ciascuno); c) sottrarre al dovuto quanto già erogato in natura. 6 Cass.1367/11; 785/12. 7 Cass.15566/11. 8 La tendenza ad una più coerente applicazione pratica dei principi normativi in tema di affidamento condiviso ha trovato, di recente, emersione in un provvedimento del Presidente del Tribunale di Firenze (ord. 2-4.3.12 n.190, in Gdir. N.18/12 pag.13), il quale ha disciplinato la frequentazione del figlio minore da parte dei genitori separati, in una situazione di affidamento condiviso connotata da elevata litigiosità, nel senso di collocare il minore presso entrambi i genitori a settimane alternate; con la conseguenza di limitarsi a fissare a carico del genitore dotato di maggiore capacità patrimoniale, in una situazione di lieve sperequazione reddituale, il versamento di un minimo assegno di mantenimento del figlio (€ 75,00) , fermi i rispettivi obblighi di mantenimento diretto. 9 Solitamente l’altro coniuge, ma anche altri terzi - quali ad es. i nonni - che risultino collocatari e/o affidatari della prole:cfr. Trib. Palermo 26.11.07 in Dejure. 10 Cass.13414/10. 11 Trib. Pistoia, n.993 del 24.11.11 in Dejure. 12 Cass.11538/09. 13 Cass.1607/07; Cass.13630/11. 14 Cass.6074/04. 15 Cass.17043/07. 16 Così Cass.10197/05. Per Cass.3905/11, peraltro, la circostanza non vale ex se ad escludere il diritto del figlio legittimo di avere garantito il tenore di vita anteatto. Contrario alla rilevanza della nascita di un figlio naturale è, poi, Trib. Milano 6.3.07, in Giust. a Milano 2007,3,18, secondo cui la nuova nascita impone piuttosto una contrazione delle spese personali dell’obbligato. 17 Cass.16126/11. 18 Cass.9719/10, sia pure in tema di assegno al coniuge separato, precisa che devono considerarsi soltanto i redditi netti, poiché è su questi ultimi che, in costanza di matrimonio, la famiglia fa affidamento, ad essi rapportando ogni possibilità di spesa. 19 Cass. 706/95. 20 Cass.6774/90. 21 Cass.9718/10. 22 Cass.6872/99. 23 Cass.3974/02; Trib. Novara 11.2.10 e Trib. Lanciano 24.11.11, entrambe in Dejure. 24 Cass.15565/11. 25 contra Trib. Monza n.1750 del 9.6.10, in Dejure, secondo cui il contributo va già tarato sull’aumento delle esigenze della prole, notoriamente legato alla sua crescita. 26 Cfr. sul punto, per l’analogo caso di figlio maggiorenne non autosufficiente studente fuori sede, Cass.400/10. 27 Trib. Varese 4.1.12 i D. & G. 2012,21. 28 Cass.785/12. 29 Trib. Roma 21.5.98 in CED Archivio Merito 30 Trib. Catania 1.12.90 in DFP 1991,1010. 31 Corte di Appello Milano 6.5.94, in Fam. e diritto 1994; Cass.3747/06; Trib. Reggio Emilia 26.3.07 in Il civilista 2009,5,19. 32 Cass.2088/05. 33 Anche tali aspetti hanno costituito oggetto di evoluzione giurisprudenziale. Infatti la S.C., inizialmente propensa a considerarli accordi di diritto familiare (Cass.4277/78), successivamente ha optato per l’inquadramento nella figura del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ex art.1333 cc (Cass.9500/87), per poi precisare, a partire dagli anni 90 (Cass.2788/91), che i negozi che trovino sede e occasione nella separazione consensuale, ma non causa in questa (in quanto non direttamente collegati a diritti ed obblighi matrimoniali) non sono convenzioni di famiglia, distinte dai contratti, ma espressione appunto di libera autonomia contrattuale, nel senso che ciascun coniuge, con un contratto avente causa solutorio-compensativa, condiziona il proprio consenso alla separazione, nei limiti dei diritti inderogabili in materia, ad un determinato assetto dei propri interessi economici, per lui soddisfacente. Nel senso di una causa tipica, con i caratteri dell’onerosità o della gratuità a seconda delle concrete ragioni dell’attribuzione, cfr. da ultimo, con riguardo però alle attribuzioni tra coniugi, Cass.8678/13. 34 Trib. Cagliari 2.10.00 in Riv. Giur. Sarda 2001,785. 35 Trib. Milano, Sez. IX, decreto 21.5.13, in Guida al diritto, n.34-35 p.34; 36 Cass. 24932/07. 37 Trib. Modena n.752 del 9.5.12 in Dejure. 38 Cass.6864/09; Cass.21675/12. 39 Cass.11863/04, Cass.28987/08 e, da ultimo, Trib. Milano 28.7.10 in Dejure. 40 Cass.5384/90. 41 SS.UU. 5135/89. aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 21 STUDI E RICERCHE 42 Cass.6215/94. Cass.10780/96 e, da ultimo, Cass.3908/09. 44 Cass.4296/12. 45 Cass.1146/07, 19607/11. 46 Cass.22951/12. 47 In caso di figlio divenuto maggiorenne dopo la sentenza di separazione o di divorzio che ha disposto un assegno di mantenimento in suo favore, persiste la legittimazione del genitore a ricevere tale assegno (Cass.21437/07; 19607/11), E’ però salva la facoltà dell’avente diritto di domandare (si ritiene con le forme dell’art.710 cpc o dell’art.9 L. divorzio) il versamento diretto in suo favore dell’assegno stabilito in suo favore. 48 Cass.9067/02, che sottolinea come in tal caso il figlio maggiorenne, rimasto estraneo al giudizio e al giudicato formale così formatosi, non ha titolo per ottenere direttamente dal genitore obbligato il contributo al suo mantenimento. 49 Così Trib. Marsala 26.2.07 in Giur. Merito 2008,1,136 50 Cass.15756/06. 51 La casistica, in materia, è copiosissima. Tra le pronunce più significative cfr. Cass.4765/02; Cass.4616/98 riguardante il rifiuto del figlio ventenne di accettare l’ingaggio annuale in una squadra di basket per ottocentomila mensili più vitto e alloggio, così sacrificando l’ultimo anno di liceo scientifico; Cass.11020/13 riguardante un figlio laureato in medicina e iscritto a corso di specializzazione; Cass.7970/13, che ha ritenuto ingiustificata l’inerzia della figlia trentasettenne, ma non per il dato in sé dell’età, quanto per la presunzione che la stessa avesse ricevuto e rifiutato ingiustificatamente un’idonea offerta lavorativa; Cass.4555/12 riguardante un figlio con laurea triennale; Cass.19589/11 riguardante una figlia che aveva appena iniziato un’attività di impresa; Cass.14123/11 riguardante una figlia impiegata in lavoro a tempo indeterminato, il cui contenuto non soddisfaceva però le sue legittime aspettative; Trib. Catania 20.4.12 in D. & G. 2012,23, maggio, sull’insufficienza, al fine di ritenere raggiunta l’autonomia economica, della circostanza della liquidazione, in favore del figlio maggiorenne, di una grossa somma a titolo risarcitorio. 52 Cfr. Cass.4555/12, 11020/13 e, con riguardo al giudizio d’appello, Cass. 407/97. Tale soluzione, peraltro, sembra non perfettamente in linea con i principi generali in materia di riparto dell’onere della prova, trattandosi di provare un elemento costitutivo del diritto del figlio al mantenimento, e non rilevando il fatto che la “non indipendenza economica” sia una circostanza negativa, ben potendo quest’ultima essere presuntivamente dimostrata attraverso la prova dei contrari fatti positivi (Cass.1557/98). 53 Trib. Bari 13.10.09 in Dejure parla addirittura di inversione dell’onere della prova al raggiungimento di una certa età. 54 E’ però comunque necessario far emergere la circostanza mediante promozione del relativo giudizio di revisione: così Trib. Modena 23.2.11 in Dejure. 55 Cass.12477/04; Cass.1761/08; CdA Roma 4685 del 27.9.12 in Guida al diritto 2012,46,90. 56 Cass.8954/10 in tema di borsa di studio post-universitaria e, da ultimo, Cass.1779/13. 57 In tal senso Cass.1830/11, relativa ad un caso in cui la figlia maggiorenne, studentessa, continuava a coabitare con la madre pur essendo coniugata con un giovane, anch’egli studente e privo di ogni autonomia economica. Contra Trib. Napoli 5.2.07 n.1433, secondo cui, a seguito del matrimonio, l’obbligo di mantenimento “slitta” sul coniuge a prescindere dalla sua capacità economica. 58 Cass.9372/12. 59 E anche, a ben vedere, qualora vi attengano, non essendo configurabile per Cass. 19607/11 un obbligo di concertazione preventiva. 60 Cass.1758/08; nello stesso senso anche Trib. Palermo 1178 del 9.3.09 in Guida al diritto 2010,1,57). 61 Cass.11316/11. 62 Trib. Bari n.1960 dell’1.6.10 in Dejure, che ha ritenuto sufficiente la produzione di c.d. pezze d’appoggio ad evitare il ricorso al giudice della cognizione a fini di liquidazione delle spese straordinarie. 63 SS.UU. 11067/12. 64 Il concreto riconoscimento giudiziale (e non anche l’astratta riconoscibilità) di un siffatto assegno è presupposto per ottenere, in concorso con gli altri presupposti di legge, una serie di importanti benefici (un assegno periodico a carico dell’eredità dell’obbligato defunto ai sensi dell’art.9 bis; una quota del TFR ai sensi dell’art.12 bis; una quota della pensione di reversibilità ai sensi dell’art.9 co.2-3). Ciò contribuisce a spiegare la frequenza con cui la materia dell’assegno divorzile viene trattata nelle aule giudiziarie. 65 Cass.3398/13. 66 SS.UU. 11490/90. Tra le ultime pronunce in tal senso cfr. Cass.23202/12 e Corte App. Roma n.54 del 24.1.13 in Guida al diritto 2013,15,51. 67 Cass.5178/12. 68 In tal senso Corte App. Roma n.2784 del 22.6.11 in Guida al diritto 2011,36,76. Cass.11905/09 ha enunciato il medesimo principio addirittura con riguardo all’assegno per la prole stabilito nelle due sedi, rispetto al quale pure si riscontra una vera e propria identità di presupposti e finalità. 69 Cass.4424/08. 70 Cass.6189/79; Cass.15055/00. 71 Cass.25010/07. 72 Corte App. Milano 14.2.97, in Famiglia e Diritto 97,447. 73 Cass.11575/01. 74 Cass.21979/12; Cass.9669/13; Cass.2313/13. 75 Cass.4040/03. 76 Cass.1557/03. 77 Cass.18327/02. 78 Cass.785/12, ad esempio, ha ritenuto rappresentare il prevedibile sviluppo della carriera notarile l’incremento di reddito collegato all’esperienza acquisita, all’aumento dei clienti, allo spostamento da una piccola località ad una città più grande. Cfr. anche Cass.11686/13. Problematica si presenta, nella pratica giudiziaria, la specifica ipotesi in cui l’incremento successivo non attenga ai redditi bensì al patrimonio, ricollegandosi in particolare all’acquisto di un compendio ereditario da parte dell’obbligato. Ad avviso dello scrivente, in tale ipotesi non appare pienamente soddisfacente la soluzione di escludere la rilevanza di tale situazione sul rilievo che gli acquisti ereditari non rientrano nella comunione legale (potendosi replicare che i frutti dei beni personali vi rientrano ai sensi dell’art.177 cc), apparendo preferibile appli43 22 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 STUDI E RICERCHE care anche a tale ipotesi il criterio generale della prevedibilità del miglioramento economico: di talchè potrà e dovrà darsi rilievo soltanto agli acquisti ereditari in qualche misura dati per scontati (es. perché provenienti da stretti congiunti) e quindi oggetto di una legittima aspettativa da parte del nucleo familiare; con esclusione, al contrario, di situazioni inattese (quali ad es. l’inaspettata eredità di un lontano parente o di un amico. 79 Cass.18613/08. 80 Cfr. in materia Cass.10540/10, confermativa di una pronuncia di merito che aveva ritenuto provata l’impossibilità di procurarsi da sé i mezzi di sostentamento desumendola dall’età non più giovane della beneficiaria, dalle caratteristiche socio-economiche del territorio di residenza, dalla sua infruttuosa iscrizione nelle liste di collocamento. 81 Cass.3916/09. 82 Trib. Novara n.131 dell’11.2.10, in Dejure. 83 Secondo Cass.22337/11, trattasi di situazione non rientrante, sotto il profilo processuale, tra le circostanze in senso proprio. 84 Cass.4551/12. 85 Cass.13053/99. 86 (cfr. in tema di separazione Cass.17643/07, 23968/10 e, da ultimo, Tribunale Lamezia Terme 1.12.11 in Dir. Famiglia 2012,2797; cfr. in tema di divorzio Cass.17195/11, Cass.3923/12 e, da ultimo, Corte d’Appello di Bologna n.394 dell’8.4.13). 87 Così Cass.15055/00, che ha negato rilevanza alla relazione extraconiugale di un coniuge, sul rilievo che la sentenza di separazione aveva rigettato la domanda di addebito fondata sulla violazione del dovere di fedeltà. 88 Cfr. Cass.28892/11, relativa ad un caso di scarsa contribuzione al menage familiare da parte di coniuge dedito, anche nei primi anni di vita della prole, a frequentare locali notturni e ad assumere alcool e sostanze psicotrope. 89 Cass.2261/85. 90 Contra Cass.13060/02, in un caso in cui i familiari del coniuge richiedente l’assegno di divorzio avevano contribuito economicamente al ménage familiare prima che l’altro coniuge riuscisse ad accedere alla professione di notaio, sul rilievo che il criterio del contributo personale esige la provenienza del contributo stesso direttamente da uno dei coniugi. 91 Cass.8233/00; Cass.7295/13. 92 Cass.10648/11; Cass.7295/13. 93 Cass.28990/08. 94 Cass.25010/07. 95 Cass.1613/11; Cass.7295/13. 96 Cass.4038/02. 97 SS.UU. 10064/13. 98 In tali termini Cass.3635/12. 99 Cass.126/01; Cass.3635/12, cit. 100 Cass.14921/07. 101 Cass.7599/11. 102 Cass.3925/12. 103 Cass.1243/12. Contra, tuttavia, Cass. 26380/11. 104 Cass.147/94. 105 Trib. Modena n.752 del 9.5.12, in Dejure. 106 Cass.8787/02. 107 Cass.5698/88. 108 Cass.21097/07. 109 Cass.187/12, Cass.23051/07. 110 Cass.12136/01. 111 Cass.3336/07; Corte Appello Bologna 2.1.12, in Guida al diritto dossier 2012,25,13. 112 Cass.5876/12. 113 In concreto, al fine di determinare l’assegno, il giudice dovrà procedere nel seguente modo: 1) anzitutto stabilire il tenore di vita dei coniugi in costanza di matrimonio; 2) poi valutare se i mezzi a disposizione del coniuge istante siano tali da consentirgli di mantenerlo indipendentemente da un assegno dell’altro; 3) in caso negativo, verificare se tra i mezzi economici a disposizione dei due coniugi vi sia una sperequazione in favore del destinatario della domanda, in caso positivo giustificandosi l’imposizione dell’assegno a fini perequativi, 4) determinare infine la misura dell’assegno in base all’entità della sperequazione medesima e alle altre circostanze cui fa riferimento l’art.155. 114 Cass.5555/04. 115 Cass.18547/06; Cass.3502/12 116 Così Cass.12121/04 e Cass. 4178/13. V. anche Cass.3502/13, per la quale non rilevano, di per sé considerate, la giovane età, le buone condizioni di salute e il possesso della laurea. 117 In senso affermativo cfr. Cass.11031/97. Contra Cass.6200/09, con riferimento al caso in cui l’aiuto dei familiari si giustifichi con le precarie condizioni economiche e di salute del beneficiario e con l’esiguità dell’assegno dato dall’altro coniuge. Per Cass. 7211/90 gli apporti dei terzi rilevano soltanto se presentano caratteri di regolarità, continuità e sicurezza. Quanto in particolare alle liberalità di terzi in favore del beneficiario, per Cass.18708/12 esse devono comunque essere attentamente considerate, mentre per Cass.10380/12 esse sono irrilevanti, non costituendo reddito agli effetti dell’art.156 co.2 cc. Per Cass.19579/11, infine, l’ospitalità data dai familiari all’istante è irrilevante. 118 Cass.4543/98; Cass.19291/05. 119 Cass.23378/04. 120 Cass.20638/04. 121 Cass.446/81. 122 Cass.4800/02. 123 Cass.6424/87. Più di recente, tuttavia, la stessa S.C., nel ribadire che la revisione delle condizioni di una separazione omologata (nel senso della previsione di un mantenimento non previsto in quella sede) postula sempre la sopravvenienza di nuove circostanze a prescindere dal fatto che la mancata previsione del mantenimento dipenda da rinuncia del beneficiario, sembra avere implicitamente affermato la configurabilità di una valida rinuncia (Cass.12235/92). 124 Cass.657/94. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 23 STUDI E RICERCHE LE NUOVE IPOTESI DI INDEGNITÀ A SUCCEDERE TRA LE POCHE LUCI E LE TANTE OMBRE ALLUNGATE DAL NUOVO ART. 448 BIS C.C. SUL PRINCIPIO DI EQUIPARAZIONE DEGLI STATUS DI FILIAZIONE AVV. GIUSEPPE PALAZZOLO ORDINARIO DIRITTO CIVILE UNIVERSITA’ DI PERUGIA Sommario: 1. Il rifiuto degli alimenti al genitore indigente decaduto dalla potestà genitoriale nel nuovo art. 448 bis c.c. - 2. Pluralità delle cause generatrici della revoca sulla potestà genitoriale, circolazione degli obblighi alimentari ed alterazione della graduatoria degli obbligati contenuta agli artt. 433 e 441 c.c. - 3. I nuovi casi di indegnità a succedere per la decadenza dalla potestà genitoriale: limiti sostanziali ed aperte antinomie sistematiche del nuovo art. 448 bis c.c. - 4. Le regole del processo civile per la declaratoria di indegnità a succedere e loro inamovibilità. 1. Il rifiuto degli alimenti al genitore indigente decaduto dalla potestà genitoriale nel nuovo art. 448 bis c.c.. Il completamento della riforma sugli status di filiazione, nell’unico nomen iuris di figlio, avvenuta, come è noto, il 27 novembre 20121, offre allo studioso del diritto successorio e della famiglia ulteriori argomenti di verifica, specie con riguardo alla tenuta di alcune norme del nostro sistema che necessitano, per unità di intenti riformatori, di una adeguata sistemazione. L’argomento che ha colto la nostra attenzione in tema di indegnità a succedere, ancora modellata nell’art. 463 c.c. con regole a dir poco ottocentesche e di rifiuto degli alimenti dovuti al familiare indigente2, si trova all’art. 1, punto 9 della nuova legge, laddove si afferma che: “Nel titolo XIII del libro primo del Codice civile, dopo l’art. 448 è aggiunto il seguente” - art. 448 bis - (Cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla potestà sui figli). - Il figlio, anche adottivo3, e, in sua mancanza i discendenti prossimi, non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla potestà, e per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 4634, possono escluderlo dalla successione”. 24 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 La prima lettura del nuovo testo normativo espone immediatamente una non comune durezza dispositiva, del tutto incompatibile con la gentil riforma della unificazione degli status di filiazione, ove, invece, l’affettività prevale sulla causa di generazione5, unitamente alla riduzione che ingenera sul contenuto dei principi di solidarietà e di responsabilità allargata tra i membri della famiglia6, siccome correlati alla ragione giustificativa della prestazione alimentare dovuta al familiare stretto caduto in stato di indigenza. Mai prima d’ora la disciplina degli alimenti contenuta agli artt. 433 - 448 c.c., benché caduta quasi in uno stato di desuetudine7, era stata incisa da testi legislativi volti a regolare ipotesi di rifiuto alimentare in favore di familiari stretti caduti in stato di bisogno con l’individuazione di cause esclusive del diritto, né stabiliti collegamenti col diritto successorio tra i membri della vicenda alimentare8, sì che il nuovo testo normativo produce l’effetto di alterare un sistema ove il dovere di rispondere al bisogno dell’indigente prevaleva su ogni pregressa condotta dell’alimentando. Mentre, scendendo nel dettaglio della disposizione in esame, una volta individuati i soggetti titolari del diritto di rifiuto, benché tutti richiamati nell’art. 433 n. 2 c.c., essa sembra indurre il figlio e/o il discendente in sua mancanza a coalizzarsi contro il genitore e di poi ascendente, nella possibilità di rifiutargli gli alimenti richiesti ai sensi dell’art. 445 c.c., sul presupposto che costui abbia subito la revoca della potestà genitoriale9. Si ignora, così statuendo la legge, un recente parametro di bilanciamento delle posizioni in campo, del tutto sfuggito ai lavori preparatori della normativa in questione, stante che il genitore, pur revocato dalla potestà, è tenuto ad adempiere alla prestazione alimentare e/o mantenitoria10 nei confronti degli aventi diritto, a prescindere dal reato che abbia determinato la perdita della potestà anzidetta11. Quindi, se così è, la stessa umanità sottesa alla causa generale del contributo alimentare, doveva mantenersi, come era prima della nuova legge, in favore del soggetto bisognoso, a prescindere dal suo comportamento in vita; anche in considerazione del fatto che la disciplina degli alimenti dovuti, non è richiamata, né collegata ai profili dell’indegnità a succedere, come invece si è voluto generalmente fare col nuovo testo normativo, donde anche l’omicida del de cuius, del suo coniuge, del discendente o dell’ascendente, va alimentato dai suoi aventi causa capienti, quando esponga una condizione di indigenza tale da potersi temere per la sua sopravvivenza. E ciò, a più forte ragione, quando la dichiarazione di revoca della potestà genitoriale fosse intervenuta sul presupposto della reiterazione della mancata prestazione del mantenimento, attivata con l’appli- STUDI E RICERCHE cazione degli art. 330 c.c. e 570 n. 1 c.p., nelle frequenti ipotesi correlate ai contenziosi matrimoniali di separazione e divorzio12, continuiamo a credere che la costruzione della norma volta a giustificare il rifiuto degli alimenti al genitore nelle condizioni di bisogno anzidette, sia in capo al figlio che al nipote suo discendente, esponga una durezza incompatibile con un ordinamento civile ed evoluto, inemendabile anche di fronte alla sua rinnovata laicità. Poi, per chi crede, la brutta norma di cui discorriamo, annienta quell’idea del perdono che scende tra i membri della famiglia, quando un affetto prima perduto possa poi rientrare nella circolazione di quelli familiari, spenti i fuochi del dissidio originario13. E qui giunti, fuor di metafora, sembra che il legislatore abbia adottato, del tutto a sproposito, un regola attinente al diritto dei contratti a prestazioni corrispettive, nella misura in cui ricalca il principio correlato all’art. 1460 c.c., laddove si legittima l’inadempimento nei confronti di chi, obbligato ex contractu, non abbia a sua volta adempiuto, principio tal ultimo che meglio si coglie nel contesto della massima secondo cui: “Inadimplenti non est adimplendum”. Si tratta, ovviamente, del riporto di un’aberrazione giuridica che solleverebbe molte grida manzoniane da parte degli studiosi del diritto di famiglia, considerato che gli alimenti dovuti ai sensi degli artt. 443 e ss. c.c. non nascono dal contratto, bensì da una ec- cezionale condizione di bisogno dell’alimentando che ha esaurito ogni possibile riserva economica da destinare alla sua sopravvivenza. 2. Pluralità delle cause generatrici della revoca sulla potestà genitoriale, circolazione degli obblighi alimentari ed alterazione della graduatoria degli obbligati contenuta agli artt. 433 e 441 c.c. Sfugge, così, nella nuova normativa una riflessione di sintesi, ben nota tra gli addetti ai lavori, riguardo il labile confine tra il diritto civile e quello penale in argomento di revoca della potestà genitoriale, potendosi considerare che la nozione di abbandono del minore sembra sempre più uscire dall’accezione criminale prevista agli artt. 591 e 570 c.p., per sistemarsi in quella dell’inadempimento dell’obbligo civile di mantenimento in favore dei minori ai sensi dell’art. 147 c.c. e del coniuge affidatario della prole. La discriminante, anzidetta, doveva essere ricordata nella norma dettata all’art. 448 bis c.c. al fine di evitare una situazione di abbandono alimentare dell’avente diritto indigente senza una sufficiente causa giustificativa del rifiuto, specie considerando che costui si presenterebbe alla richiesta di alimenti in una fase avanzata della sua vita terrena, assumendo la qualifica di anziano, categoria tal ultima sempre più negletta e abbandonata dal legislatore, ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 25 STUDI E RICERCHE per la quale non ha mai dettato norme di tutela14, e non inferiore, sul piano ontologico, a quella di minore abbandonato o bisognoso15. Bisognava, perciò, ricordare, unitamente alla giustificazione legale dell’obbligo alimentare che non si compone solo col denaro16, il momento in cui la norma può avere applicazione, stante che il figlio ed in sua mancanza il discendente avrebbero il dovere di adempiere al bisogno alimentare del genitore o dell’ascendente, solo quando le loro condizioni patrimoniali lo avrebbero consentito, vale a dire in una fase compiuta della vita di costoro, siccome assistita da una certa agiatezza economica. La triste scena giuridica che si aprirà nel futuro al diritto dell’alimentando, vedrà un anziano signore bisognoso, nella figura del padre decaduto dalla potestà o del nonno, ancor più cruenta, quando questi sopravviva al proprio figlio e rimanga il discendente, cui potrà essere opposto dall’obbligato sopravissuto, ai sensi del nuovo art. 448 bis c.c., di non esser tenuto ad alimentarlo: non perché non possa in relazione alla sue condizioni patrimoniali, ma perché non deve, anteponendo quale causa del rifiuto l’antica dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale a prescindere dal motivo che l’abbia determinata. Ma l’uomo bisognoso, nella concezione del legislatore antico, che ha fatto tesoro dei precetti evangelici sul valore della carità, non può morire abbandonato a sé stesso, sì che ricevuto il rifiuto degli alimenti da parte dei suoi diretti discendenti, per così dire legalizzato dalla norma anzidetta, benché capienti, dovrà rivolgersi alla graduatoria degli obbligati in subordine nell’ordine divisato all’art. 433 c.c., sperando di trovare, tra questi, qualcuno che si prenda cura di lui. Ora, se si può capire il peccato del singolo uomo, al cui favore si rivela catartico ed importante anche il pentimento avvenuto nell’ultimo momento esiziale della sua vita, non può assolutamente comprendersi quello commesso dal legislatore che con le sue leggi lo alimenta, nonostante abbia il dovere di essere, per definizione, perfetto ed equilibrato. Sì che, lo squilibrio del nostro legislatore si avverte immediatamente dal fatto che nello scrivere la legge non ha tenuto conto di quanto la nuova introduzione dell’art. 448 bis c.c., scardini il fragile sistema degli obbligati in subordine, stante che i soggetti titolari del diritto di rifiuto ivi individuati, rappresentano le categorie più estese, appunto quelle dei figli e dei discendenti, naturalmente plurali ed occasionalmente bilaterali, tutti ricompresi nello stesso grado parentale, donde, al fine di evitare una logorante escussione capo per capo, l’ottimo legislatore antico, ha previsto. per l’esecuzione dell’obbligo alimentare, due norme di centrale importanza, vale a dire gli artt. 441 e 442 c.c., rispettivamente dettate in tema di concorso tra più obbligati alla prestazione 26 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 alimentare e di concorso di aventi diritto alla medesima. Tali norme, lette congiuntamente, rappresentano la massima espressione legale della solidarietà partecipativa al bisogno dell’alimentando che trascina con sé l’ulteriore movente della responsabilità allargata tra i membri del gruppo familiare per la sopravvivenza del congiunto prossimo caduto in stato di bisogno, al contempo rispettose delle singole condizioni patrimoniali degli obbligati. La norma che qui in particolare rileva è quella dell’art. 441 c.c., sì che, tolto il contributo alimentare dell’altro coniuge17, uno per definizione, si scende nella categoria prevista dall’art. 433 n. 2 c.c., che può comprendere più figli o in assenza di loro più discendenti, donde, essendo stato previsto il diritto di rifiuto in favore degli uni e degli altri, sia come singoli che, a più forte ragione, quali obbligati nello stesso grado, l’alimentando dovrà scendere ancora tra le categorie parentali minori ed in quelle degli affini, essendo molto probabile l’estinzione dell’obbligo in capo ai genitori dell’alimentando e dei suoi ascendenti prossimi (art. 433 n. 3 c.c.) per morte, tenendo presente la naturale durata della vita umana. Fa specie, a questo punto, che la norma dell’art. 448 bis c.c. non consideri che i generi e le nuore (art. 433 n. 4 c.c.), in capo ai quali dovrebbe permanere l’obbligo alimentare, siano i rispettivi coniugi dei figli, testualmente esonerati dalla legge dall’alimentare il genitore decaduto dalla potestà su di loro; sì che, scontato l’effetto stupefacente che deriva da tale digressione, del tutto dimenticata dal disattento legislatore, le poche parole che rimangono nel descrivere la nuova disposizione non possono essere che di profondo biasimo, senza ulteriori commenti. Rimangono, allora, in corsa per la prestazione alimentare i fratelli e le sorelle germani ed unilaterali (art. 433 n. 6 c.c.), seppure col limite dello stretto indispensabile (art. 440 c.c.), ove ancora campeggia il differenziato regime dell’obbligo tra le sorelle e i fratelli germani e quelli unilaterali, stabilendosi la precedenza dei germani sugli unilaterali. Tale precedenza, in relazione alla riformulazione delle norme sulla parentela e sui suoi gradi secondo il nuovo art. 74 c.c., per così dire unificati, a prescindere dalle forme della filiazione da cui prendono origine18, non ha più ragione di esistere, stante che, muovendo dal parametro di uguaglianza tra i tutti i figli, poi vedendoli nella loro correlata dimensione di fratelli, lo spettro della completa unificazione deve completarsi in modo uniforme, abolendosi espressamente il regime della precedenza degli uni rispetto agli altri ed attivandosi con maggiore pienezza il disposto dell’art. 441 c.c. Qui giunti, l’epilogo che ognuno può trarre dal “ pericoloso “riflesso dell’art. 448 bis c.c., sulla scena giuridica del diritto alimentare e successorio, è evidente, considerato che con esso si intende cancel- STUDI E RICERCHE lare ogni rapporto col genitore decaduto dalla patria potestà, senza distinzione di cause, annientandosi, con una fragilissima previsione di indegnità, i suoi diritti successori dal lato attivo e conservandosi interi quelli dei suoi aventi causa diretti, nelle persone dei figli e dei discendenti che succedono al genitore indegno nel caso di sua naturale premorienza19. Essi, infatti, nella posizione di legittimari appartenenti al primo ordine successorio (art. 536 c.c.), precedono la categoria dei fratelli e delle sorelle che, invece, appartengono all’ordine dei collaterali, il cui diritto di succedere è regolato agli artt. 565 e 570 c.c. in assenza di costoro. Tali ultimi, benché posti in fondo alle categorie previste dall’art. 433 c.c., nella triste digressione cui la norma costringe, largamente sovversiva degli ordini successori anzidetti, rimarrebbero gli unici obbligati alla prestazione alimentare in favore del proprio fratello decaduto dalla potestà genitoriale e destinato alla declaratoria di indegnità da parte dei suoi discendenti diretti. Se questo era l’intento del legislatore, bastata scrivere un norma ancor più brutale di quella qui analizzata, ma al contempo tragicamente sincera, con la quale si poteva affermare la perdita di ogni diritto in capo al genitore revocato dalla potestà genitoriale, siccome indegno di succedere e di essere alimentato dalla sua progenie. 3. I nuovi casi di indegnità a succedere per la decadenza dalla potestà genitoriale: limiti sostanziali ed aperte antinomie sistematiche del nuovo art. 448 bis c.c.. Venendo ora al profilo della indegnità a succedere del genitore, conseguente dalla revoca della potestà, attivabile dal figlio o dal discendente in mancanza di lui, esso espone una serie di contraddizioni non emendabili, le quali rendono il passaggio della norma che la contiene irta di insidie con riferimento alla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, non difficili da individuare all’art. 3 della Costituzione. E proprio qui riposa il punto critico delle nuove disposizioni contenute all’art. 448 bis c.c., stante che la previsione di indegnità ivi richiamata, era già stata regolata con l’introduzione del n. 3 bis nel novero dei casi previsti all’art. 463 c.c., contemplandosi per la prima volta il caso dell’indegnità a succedere conseguente dalla perdita della potestà genitoriale nei confronti del figlio. Il precedente legislatore, ammetteva, dunque, la possibilità di dichiarare l’indegnità del genitore e tuttavia salvo reintegra, addizione, tal ultima, determinata dal richiamo dell’art. 1 della L. 137/2005, che ne consentiva l’applicazione solo nel caso in cui il genitore fosse giunto alla successione del figlio col peso della revoca della potestà ancora sulle spalle. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 27 STUDI E RICERCHE Un occhio attento alla rigide ipotesi di indegnità a succedere, contenute all’art. 463 c.c. avrebbe sicuramente notato che in ognuna di esse, anche in quelle più gravi che considerano l’omicidio tentato o consumato, è sempre prevista una liberatoria, tutte le volte in cui sia esclusa la punibilità del reo da parte della legge penale; sì che il non aver considerato la reintegra nella potestà, quale causa riparatrice dell’indegnità, rappresenta più un capriccio paidocentrico di ultima istanza che un valido ed opponibile movente esclusivo del diritto di succedere. Ciò posto e scendendo, allora, nel dettaglio della nuova disposizione rileva, a nostro avviso, il seguente inciso “…per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463, possono escluderlo dalla successione” estendendosi la detta facoltà anche in favore dei discendenti, naturalmente, se non prendiamo errori, dopo la morte del figlio, loro padre. L’ipotesi descritta nella norma anzidetta risulta tanto eccezionale a verificarsi da non meritare l’enucleazione di un principio di così radicale portata, volto ad ampliare i casi di indegnità oltre le categorie individuate nell’art. 463 c.c., norma, tra l’altro, di stretta interpretazione che non consente alcuna estensione analogica dei casi esclusivi della successione dell’indegno in essa individuati; sì che, stupisce il fatto che il legislatore, pur avendo sotto gli occhi l’art. 315 c.c., ove al primo comma è previsto il ri28 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 spetto dovuto dai figli nei confronti dei genitori, abbia perso l’occasione di riflettere sul risvolto della questione dell’indegnità a parti inverse, dal quale ricavare, con le stesse parole adottate per il figlio e il discendente, il bilanciato potere di esclusione dalla successione anche in favore dei genitori anziani, fuori dai casi dell’art. 463 c.c., quando vengano abbandonati, disprezzati, vilipesi da coloro che hanno messo al mondo e condotti alla maturità, emancipandoli con i loro apporti dai bisogni della vita20. Quindi il figlio, invertendo l’ordine dei fattori, pur avendo rifiutato gli alimenti al genitore ai sensi dell’art. 448 bis c.c., sul presupposto che durante la sua infanzia costui abbia subito la revoca della potestà, senza distinzione tra casi maggiori e casi minori cui essa dà corso, spesso attinenti a tutte quelle questioni collegate al difetto attitudinale all’esercizio della genitorialità, oppure, nel reiterato inadempimento dell’obbligo mantenitorio, gli potrà succedere, laddove residui, dopo la sua morte, un certo patrimonio immobiliare, nonostante lo possa espressamente escludere, quando premuoia, anche oltre i casi previsti dall’art. 463 c.c. E ciò si badi, a prescindere dal fatto che il genitore abbia ottenuto la reintegra nella patria potestà, come sembra affermare la norma considerata nell’art. 448 bis c.c., stante che non considera, neanche per richiami esterni, l’ipotesi del superamento della STUDI E RICERCHE causa di indegnità, già prevista all’art. 463, n. 3 bis c.c. tutte le volte in cui il genitore fosse stato reintegrato prima della morte del figlio con un valido provvedimento del giudice. Se così è, rimanendo inemendabile il carattere rancoroso che circola all’interno della nuova disposizione di legge, un legislatore giusto e comprensivo avrebbe avuto altri possibili profili da collegare al rifiuto degli alimenti dovuti al genitore da parte del figlio, sul presupposto di una revoca della potestà genitoriale di cui non si distinguono le cause ed i veri confini. Ed allora, rilevata la permanenza del provvedimento di revoca della potestà, laddove fosse stata determinata da cause severe21, si sarebbe potuto escludere la successibilità in modo reciproco sui rispettivi patrimoni residuati alla loro morte, con l’attribuzione della quota che sarebbe spettata all’indegno all’altro genitore, del caso vivente, visto che per gli ascendenti non c’è rappresentazione ma solo accrescimento; oppure, una volta ammessa l’indegnità a succedere del genitore decaduto dalla potestà genitoriale, anche fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c., consentire al genitore che l’abbia correttamente esercitata, di attivarla nei confronti di quel figlio che reiteratamente abbia posto in essere nei suoi confronti, atti di abbandono e disprezzo, tali da attentare al suo patrimonio morale e materiale, cagionati o meno dalla permanenza della revoca della potestà genitoriale. Tale cautela avrebbe fornito, con l’evasione dalle rigide classi dell’indegnità offerta dalla nuova norma contenuta all’art. 448 bis c.c., per giunta collocata proprio nel sistema degli alimenti dovuti, un miglior criterio argomentativo alla giurisprudenza, ancora impegnata nella ricerca dell’atto lesivo della personalità del donante in argomento di revoca delle donazioni per ingratitudine22 ai sensi dell’art. 801 c.c. Proprio a questo punto, prendendo ulteriori argomenti dalle questioni anzidette, si deve segnalare il disdoro della giurisprudenza che non ha considerato il reiterato schiaffeggiamento subito dalla donante da parte della figlia donataria, quale causa di revoca della donazione, considerandolo un comportamento da collocare nella normale dinamica litigiosa della famiglia, conseguente da scelte di vita della beneficiata non approvate dai genitori23; mentre è noto che un’azione del genere, nei confronti di un minore, benché deplorevole, possa condurre proprio alla perdita della potestà genitoriale anche sull’abbrivo offerto, in materia penale, dal reato di abuso dei mezzi di correzione. Così sfogato un represso sentimento di giustizia sostanziale in argomento di revoca delle donazioni per ingratitudine e venendo al tema d’indagine, l’ultimo profilo, veramente difficile da collocare nel sistema successorio, si incontra nella misura della di- sposizione dell’art. 448 bis c.c., che prevede la possibilità offerta al discendente, nel caso in cui manchi il figlio del padre indegno, che non abbia attivato il nuovo meccanismo ablativo, di attivarlo lui stesso, stabilendosi, più che un caso possibile a verificarsi nella realtà giuridica, una sorta di successione nel rancore derivante dalla permanenza della perdita della potestà genitoriale sul genitore del genitore. L’inciso della legge che riporta il seguente passaggio: “possono escluderlo dalla successione” congiuntamente riferito al figlio e ai discendenti, prima autorizzati a non prestare gli alimenti al genitore revocato dalla potestà, appare, dunque, particolarmente oscuro, considerato che secondo un logico ordine graduale, i momenti dell’indegnità a succedere, poggiati sull’unica causa della decadenza dalla potestà genitoriale, sembrerebbero spiegare effetti attivi in capo a due categorie di successibili, confondendosi l’interesse ad agire, in capo all’una e all’altra, potendosi attivare, l’azione di specie, solo dopo la morte della persona offesa. Deriva, allora, che l’azione di indegnità da parte dei discendenti contro il genitore revocato dalla potestà sul figlio premorto, può essere innescata solo dopo tale esiziale momento e quando non vi sia il testamento di costui col quale si dichiari espressamente l’indegnità del genitore, per una causa che pur girando intorno alla permanenza della perdita della potestà genitoriale, potrebbe andare anche oltre i casi previsti dall’art. 463 c.c., stando al testo della norma in esame. Ora, quali possano essere i casi posti fuori dall’art. 463 c.c. da cui giungere all’esclusione dalla successione del genitore inciso dalla perdita della potestà sull’originario minore non è dato saperli; mentre si conosce con certezza quello contenuto all’art. 463 n. 3 bis c.c. che consente l’attivazione del rimedio ablativo di succedere da parte dei successibili concorrenti, solo quando permanga in capo al genitore la revoca della potestà dopo la morte del figlio. Ma, a ben vedere, rilevato che le categorie di indegnità sono tassativamente previste dall’art. 463 c.c., l’inciso “ possono escluderlo “ trascina con sè l’idea che tale esclusione possa avere radice volontaria, potendo essa dichiarazione di esclusione dell’indegno, nel cui curriculum vitae vi sia la macchia della revoca della potestà genitoriale, trovare la sua sede solo nel testamento della persona offesa e in sua mancanza in quello dell’avente causa diretto, vale a dire il discendente. Deriva, allora, che un testamento del genere, laddove si dichiari l’indegnità del genitore a succedere quando, invece, costui sia stato reintegrato nella potestà prima della morte del figlio, da cui deriva poi l’identico potere del discendente in sua assenza, sarà colpito da nullità parziale ed a più forte ragione nel caso in cui la dichiarazione anzidetta giri intorno ad una causale collegabile al precedente conottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 29 STUDI E RICERCHE flitto genitoriale, del tutto non richiamata nella lista dei casi tassativamente previsti dall’art. 463 c.c. Venendo, ora, al profilo della legittimazione attiva dell’erede concorrente, che prende le mosse, nel nostro caso, dal presupposto dell’assenza di testamento del figlio e nell’ipotesi più lontana del discendente, cui segue l’apertura della successione legittima, laddove concorrano discendenti e ascendente, sembrerebbe aprirsi il campo all’azione di indegnità, il cui interesse ad agire sarebbe trasferito in capo al discendente contro l’ascendente revocato dalla potestà, al quale non gioverebbe nemmeno, l’intervenuta reintegra nella potestà genitoriale, se, per fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c. debba pure comprendersi quello dettato al n. 3 bis della norma in questione. La norma del nuovo art. 448 bis c.c., con una estensione parossistica, sembra pure prevedere la disponibilità dell’azione di indegnità in capo al discendente del discendente, stante che il “possono escluderlo” riferito al figlio e al discendente, benché incomprensibile in prima battuta, deve collocarsi nell’ambito dell’autonomia dispositiva, non potendosi prevedere una dichiarazione di esclusione congiunta con atto volontario precedente la morte in capo a soggetti egualmente autorizzati dalla legge, ciò che in ultima analisi rende la norma del tutto inapplicabile. Qui giunti, volendosi, infine, segnalare l’errore di fondo, sottostante all’art. 448 bis c.c. esso si incontra, con miglior chiarezza, procedendo alla naturale sezione della norma in due parti, benché appaia superficialmente impostata in un’unica disposizione, da cui trarre argomenti utili a dimostrare l’impossibilità tecnica del richiamo volto all’applicazione della congiunta declaratoria di indegnità in capo al genitore decaduto dalla potestà. È evidente, infatti, che nel caso del rifiuto degli alimenti al genitore decaduto dalla potestà, il primo richiamo è rivolto al figlio obbligato ai sensi dell’art. 433 n. 2 c.c., registrata la mancanza del coniuge, per morte o per cessazione del vincolo matrimoniale, dalla cui intrapresa spesso deriva l’attivazione della revoca della potestà nei confronti dell’altro, sì che, l’inciso “ in sua mancanza”, può cogliersi soltanto in quello che si riferisca alla sua morte, da cui deriva la chiamata in subordine del discendente prossimo. Non avrebbe avuto alcun senso una doppia chiamata alla prestazione di alimenti, sull’identico potere di rifiuto introdotto dall’art. 448 bis c.c., congiuntamente e contemporaneamente attribuito al figlio e al discendente. Da qui deriva, a nostro avviso, che nella successiva sezione della norma, ove si tratta dell’indegnità a succedere anticipata dal “possono escluderlo dalla successione” la stessa graduazione adottata per il rifiuto degli alimenti al genitore decaduto dalla potestà sul figlio evidentemente premorto, deve essere 30 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 mantenuta, tale da escludersi una posizione congiunta del figlio e del discendente, come erroneamente affermato nella legge che prende le mosse da una identica causa di esclusione. Secondo un’altro angolo di lettura, potrebbe ancora affermarsi che la perdita remota della potestà genitoriale avrebbe un carattere plurioffensivo volta a colpire il figlio e i discendenti, da ciò legittimati a non prestare entrambi, senza chiamata in subordine, gli alimenti al genitore, così sovvertendosi i criteri della personalità del rapporto alimentare, da cui normalmente deriva quello dell’irrogazione della sanzione, e di poi ancora, in ambito processuale il criterio dell’opponibilità. Tale costruzione, per così dire allargata ai naturali discendenti del genitore colpito dalla perdita della potestà avrebbe il fatale intento di cancellare, addirittura, ogni legame tra di loro, quasi anticipando la morte civile del dante causa comune, cui nessun riguardo dovrà più essere portato finchè viva. Ma, se muore prima il padre, com’è normale che accada nella naturale sequenza della vita umana, il figlio e il discendente, quisque pro suo, non hanno limiti legali nella facoltà di succedergli, sì che ogni rancore precedente, dinanzi ad un patrimonio devolubile iure hereditatis si estinguerà del tutto, essendo ben noto che di fronte al denaro ogni antico pregiudizio moralistico, cedendo il passo all’oblio, annega nel fatto contingente dell’apprensione dei beni ereditari, il cui effetto catartico è ben conosciuto da quegli eredi ingrati ed irriconoscenti che si presentano al capezzale del dante causa un momento prima che spiri, pur avendolo abbandonato e, a volte, disprezzato durante la sua vita terrena. 4. Le regole del processo per la declaratoria di indegnità a succedere e loro inamovibilità. Messe così in evidenza le incongruità della legge qui commentata, seppure nell’euforia della prima lettura, rimanendo in attesa di migliori chiarimenti del suo contenuto, appare doveroso ricordare le regole minime di attivazione dell’indegnità a succedere riportate alle categorie contenute all’art. 463 c.c., siccome blindate dal criterio della stretta interpretazione. È noto in dottrina che l’ipotesi della indegnità a succedere di colui il quale abbia commesso nei confronti di alcuno dei soggetti indicati all’art. 463 n. 1 c.c., uno dei reati previsti nelle successive sequenze della norma, non conduce verso il parametro dell’incapacità, bensì costituiscono singole cause di esclusione dell’indegno dalla successione della persona offesa24, che secondo la vecchia massima, ancor oggi molto esplicativa, “potest capere sed non retinere”. Movendo allora da questo abbrivo, l’inciso riferito alla successione del figlio e del discendente dell’indegno in pectore: “possono escluderlo dalla loro suc- STUDI E RICERCHE cessione anche fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c.” da cui deriva un esplicito richiamo alla materia generale dell’indegnità, non ha speranza di veder la luce della corretta applicazione, stante che le cause di indegnità non possono essere estese oltre i (durissimi) casi in essa previsti, se non individuandosi, da parte del legislatore, una nuova causa specifica ed oggettiva, con la necessaria previsione delle ipotesi estintive dell’indegnità connesse alla legge penale e a quella civile. Posta così in luce la prima evidente anomalia della nuova norma, del tutto incomprensibile risulta poi il non aver tenuto conto dell’art. 463 n. 3 bis, c.c. ove è testualmente previsto, da una parte, il caso di indegnità riportato alla perdita della potestà genitoriale sul figlio e dall’altra la sua neutralizzazione in ipotesi di reintegra intervenuta prima della sua morte, che con rigore sistematico alla disciplina dell’indegnità produce una causa di esclusione della punibilità, riconducibile sia alla legge penale, per le ipotesi maggiori, sia alla legge civile, quando il genitore venga reintegrato nella potestà ai sensi dell’art. 332 c.c. E, siccome ogni diritto dell’avente causa in subordine, concorrente con quello dell’indegno, deve essere portato alla conoscenza del giudice civile con domanda giudiziale, rispettate le regole del litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., tra gli interessati all’eredità della vittima dell’indegno25, notificata e trascritta ai sensi dell’art. 2652 c.c., entro dieci anni dall’apertura della successione della persona offesa, da cui deriva la sentenza costitutiva dell’indegnità medesima, laddove mai potessero concretizzarsi le costruzioni della norma da noi avversata, le possibilità di difesa del genitore decaduto dalla potestà genitoriale e reintegrato, al tempo suo, ai sensi dell’art. 463 n. 3 bis c.c., sarebbero senz’altro prevalenti su quelle adottabili dai discendenti che dovrebbero cercarle fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c. Il pericolo cui conduce l’impostazione dell’art. 448 bis c.c. è da considerare, perciò, grave, stante che un giudice, strettamente argomentando dai suoi generalissimi richiami, potrebbe dichiarare l’indegnità dell’ascendente (quando gli vada di succedere al figlio premorto) sulla domanda proposta dal discendente, siccome tenuemente argomentata dalla perdita della potestà genitoriale, nella quale sarebbe incorso, moltissimi anni prima dell’attivazione del giudizio ereditario, senza tener conto della reintegra dal medesimo conseguita, fissando nella sentenza un nuovo caso di indegnità, sostituendosi al legislatore e così all’infinito. Ogni altro ragionamento sull’impostazione della norma contenuta nell’art. 448 bis c.c., risulta fin qui impedito dall’evidente disarmonia che essa genera, sia in argomento di alimenti dovuti, sia per i riflessi negativi introdotti nel delicato ambito successorio, rendendosi così del tutto estranea ai principi generali della nuova normativa sulla parificazione degli status di filiazione. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 31 STUDI E RICERCHE Note 1 In tale data la Camera dei Deputati della Repubblica Italiana approvava, in via definitiva, il disegno di legge unificato C. 3915 – S. 2805 della XVI legislatura, inerente alle “ Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali “ confluito, nella L. 10 dicembre 2012, n. 219, pubblicata in G.U., 17 dicembre 2012, n. 293, con numerose e forse troppe disposizioni delegate contenute nel suo art. 2, da attuare entro un anno dalla pubblicazione, che sancendo il principio generale della parificazione di tutti gli status di filiazione, tramite la rimodulazione dell’art. 315 bis c.c. e la necessaria elaborazione dell’art. 74 c.c., ha dato definitivamente voce agli studi di A. PALAZZO, La filiazione fuori dal matrimonio, Milano, 1965; ID. La filiazione, in Tratt. dir. civ. comm.,. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2007, nonché alle serrate critiche di Cesare Massimo Bianca contro l’arresto di Corte Cost. 23 novembre 2000, n. 532 che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento alla esclusione dei parenti naturali dalla successione legittima, osservazioni, tali ultime che abbiamo avuto l’onore di ricevere ne, I Pareri, richiesti e ordinati da G. Palazzolo, in A. PALAZZO, Testamento e istituti alternati, Tratt. teorico pratico di diritto privato, diretto da G Alpa e S. Patti, Padova, 2008, p. 693 ss., C.M. BIANCA, Alcune considerazioni sulla parentela naturale e sul principio di eguaglianza dei figli ove, trovando felici espressioni afferma che : “ Un ordinamento civile non può essere costruito sulle disuguaglianze tra figli. Il civilista deve piuttosto guardare ad un ordinamento in cui non vi siano figli legittimi e figli non legittimi, ma figli e basta “. 2 La dottrina generale sugli alimenti dovuti è vasta, sì che tra i contributi più recenti e significativi, cfr. T. AULETTA, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984; ID., Diritto di famiglia, X ed., Giappichelli, Torino, 2011; G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2012, V ed.; G. CIAN, Alimenti, in Comm. alla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1977, p. 815; G. TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino, 1976, p. 376; D. VINCENZI AMATO,Gli alimenti, in Tratt. di dir. priv. diretto da Rescigno, Torino, 1982, p. 848, G. PALAZZOLO, Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, Napoli, 2008, p. 31 ss., tutti sulla fondamentale lezione di A. CICU, La natura giuridica dell’obbligo alimentare tra congiunti, in Riv. dir. civ., 1910, p. 145. 3 In argomento di adozione legittimante ex L. 184/1983 e sue relazioni con l’art. 74 c.c., si veda G. SALITO, Parentela e affinità, in Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, Il matrimonio, le unioni di fatto, i rapporti personali, Vol. I., Trattato teorico – pratico, diretto da G. Autorino Stanzione, II ed., Torino, Giappichelli, 2011, p. 13 e ss.; : mentre, per completezza di informazione, sulle tematiche relative alla posizione del figlio adottivo sia, inter vivos che mortis causa, si rinvia alla completa analisi di G.BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, cit., p. 335 e ss., specie in argomento di adozione di maggiorenni, nonché A. GIUSTI, L’adozione di persone maggiori di età, in Il diritto di famiglia, Vol. III, Filiazione e adozione, Tratt. diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, Torino, 2007, II ed., p. 563 ss, nonché, in tema di adozione civile e riconoscenza dell’adottato al recente e compendioso contributo di C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, Padova. 2012, p. 61 ss. 4 Si ricordi che la norma generale contenuta all’art. 463 c.c., regolatrice dei casi di indegnità a succedere era stata già integrata con l’introduzione del n. 3 bis per effetto della L. 8 luglio 2005, n. 137, pubblicata in G.U., n. 166 del 19 luglio 2005 che escludeva dalla successione del figlio il genitore revocato dalla patria potestà, salvo che alla morte dell’ereditando non fosse stato reintegrato, con provvedimento dell’autorità giudiziaria su istanza del genitore revocato; oppure, in via volontaria, da parte del figlio, per mezzo del testamento ai sensi dell’art. 466 c.c., sia in forma espressa che tacita ed infine con atto pubblico. Dalla stessa norma, per completezza di informazione è da riferire che vennero pure espunti alcuni termini che evocavano l’idea della pena di morte al n. 3 e la menzione “ penale “ riportata dalla legge in argomento di omicidio al n. 2. 5 Come insegna A. PALAZZO, La filiazione, in Tratt. dir. civ. comm , cit., specie alle pp., 205, 211, 241 e 261, che, contro il tradizionalismo delle regole antiche, concernenti i vari status di filiazione differenziati dal matrimonio, pone al centro del sistema la tutela dei figli non matrimoniali, coniandone l’evolutiva qualificazione ed ancorandola al tema dell’affettività, della solidarietà e dell’amore oblativo, che nella norma qui analizzata sembra tragicamente dimenticato. 6 Per tutti, G. GIACOBBE, “Genitorialità sociali” e principio di solidarietà: riflessioni critiche, in Dir. fam. pers., 2005, p. 156 ss., ID., Il fondamento giuridico della solidarietà sociale, in Iustitia, 1999, p. 523 ss. 7 Scorrendo i repertori della giurisprudenza raramente si incontra un provvedimento giudiziale che disponga sugli alimenti dovuti ai sensi degli artt. 433 e ss. c.c., essendo noto che i genitori si compiacciano dei propri figli al punto da tenerli fuori da ogni loro vicenda esistenziale, attribuendosi, di contro, all’intervento impersonale dello Stato di welfare il ruolo di colmare, col sistema dei servizi agli anziani indigenti, certi obblighi di assistenza e cura che prima dovrebbero essere risolti in famiglia, quando le condizioni economiche di alcuni suoi membri siano tanto sufficienti da poterli garantire. Ed infatti, ai sensi dell’art. 443 c.c., la prestazione del rateo alimentare può trasformarsi in accoglienza e mantenimento dell’alimentando nella casa dell’obbligato, che nonostante sia considerata quale modo di adempimento alternativo dell’obbligazione di alimenti, perpetua nella legge un uso atavico delle famiglie italiane, ancora molto diffuso nel Sud d’Italia, vale a dire quello di accompagnare i propri genitori nelle ultime fasi della loro esistenza verso quel crepuscolo della vita cui tutti gli uomini devono soggiacere; per tali argomenti sia consentito rinviare a G. PALAZZOLO. Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, Napoli, 2008, p. 25 ss. . 8 L’unica norma riconducibile ad un parametro contrattuale oggettivo, riguardante l’obbligato agli alimenti e l’alimentando caduto in stato di bisogno, si incontra all’art. 437 c.c. ove il donatario è tenuto ad adempiere con precedenza su ogni altro soggetto previsto all’art. 433 c.c., escluso il caso della donazione obnuziale ( art. 785 c.c.) e della remuneratoria ( art. 770 c.c. ), prevedendosi in capo all’obbligato che persista nell’inadempimento della prestazione alimentare una specifica causa di revocazione, secondo il richiamo dell’art. 801 c.c. riconducibile, con altre deduzioni, al sistema dell’ingratitudine e tale da non consentire il mantenimento della donazione a lui fatta. Tali particolari applicazioni dell’ingratitudine al diritto dei contratti gratuiti, delle attribuzioni mortis causa e delle donazioni sono state di recente messe in chiaro da C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, cit., p. 73 e ss. 9 Il non aver previsto nell’ambito della nuova disposizione dettata con l’art. 448 bis c.c. la causa della revoca della potestà genitoriale che conduce al diritto del figlio di rifiutare gli alimenti dovuti al genitore o all’ascendente, produce un grave effetto massimalista, del tutto sbilanciato rimanendo al contenuto patrimoniale dell’obbligo circolare di alimenti, specie, quando, nelle ipotesi minori il genitore decaduto continui ad adempiere alla prestazione di mantenimento. Tale massimalismo, poteva essere risolto semplicemente aggiungendo al diritto di rifiuto anzidetto, le causali più gravi della decadenza dalla potestà genitoriale, normalmente connesse ai reati di abuso o di gravi maltrattamenti sul minore, lasciandosi, in ogni caso, al genitore decaduto la possibilità di riscattarsi con la riabilitazione, non fosse altro che per il richiamo successivo all’art. 463 c.c. in argomento di indegnità a succedere, ove è prevalente l’impostazione penalistica.. 10 Sulla questione generale del diritto al mantenimento dei figli e dell’affidamento condiviso, nella disciplina introdotta dalla L. 54/2006, si rinvia all’esaustiva analisi di G. FREZZA, Mantenimento diretto e affidamento condiviso, Milano, 2008, p. 5 ss., unitamente alle sue numerose riflessioni critiche sulla tenuta e l’applicabilità della nuova legge, specie in argomento di disarmonie tra di essa e quella precedente che si propone di innovare sul discrimen posto dall’art. 4 comma 2 del nuovo testo. 11 Ci basta qui riportare l’arresto della Corte Costituzionale n. 31 del 23 febbraio 2012, che intervenendo sulla pena accessoria relativa alla perdita della potestà genitoriale prevista dall’art. 569 c.p., siccome derivante dal reato di alterazione di stato commesso in violazione dell’art. 567 c.p., l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima, tutte le volte in cui sia corrispondente all’interesse del minore che il genitore continui a mantenerla in vista della realizzazione degli obblighi genitoriali connessi al fatto di procreazione. 32 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 STUDI E RICERCHE 12 Quando l’altro coniuge non abbia un patrimonio aggredibile, è noto che l’azione penale prevista dall’art. 570 n.1 c.p. nei confronti dell’obbligato al mantenimento in favore del figlio minore e del coniuge affidatario, anche nei casi di oggettiva impossibilità di adempiere regolarmente, spesso rappresenti una sorta di rimedio punitivo - afflittivo di ultima istanza, col quale colpire l’altro genitore e fargli perdere la potestà genitoriale sul minore nel susseguente giudizio previsto all’art. 330 c.c. dinanzi al Tribunale per i minorenni; espediente questo, tanto odioso ed inopportuno, specie considerandosi che il genitore, nonostante la dichiarazione di decadenza pronunciata nei suoi confronti, che in linea astratta lo libererebbe dal dovere di adempiere, deve continuare ad assolvere ai suoi obblighi di mantenimento senza esercitare la potestà sul minore, passaggio, tal ultimo, cui fortunatamente provvede il largo spettro argomentativo di Corte. Cost. 31/ 2012 cit. 13 Per tali particolari argomenti si veda, A. PALAZZO, Il patto del decalogo e l’idea del contratto sociale nell’Europa moderna, in Jus, 1 – 2, 2011, p. 159 ss., la cui lettura apre nuove direttrici di analisi della nostra materia, considerandosi la Legge di Dio un dono di cui godono tutti gli uomini per conseguire la libertà dalle regole particolari poste a tutela di singoli e spesso contrastanti interessi. 14 Nonostante un primo interessamento della nostra migliore dottrina, intervenuto a cavallo degli anni 90’ nessuna norma protettiva dei bisogni degli anziani è stata pensata dal legislatore italiano, sì che, tra i più importanti contributi cfr. L. MENGONI, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1982, p. 1127; P. PERLINGIERI, Diritti della persona anziana, diritto civile e stato sociale, in P. Stanzione ( a cura di ), Anziani e tutele giuridiche, Napoli, 1991, p. 88 ss.; P. STANZIONE, Le età dell’uomo e la tutela della persona: gli anziani, in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 447 ss.; L. ROSSI CARLEO, Il futuro degli anziani: le ragioni di una ricerca, in L. Rossi Carleo, M.R. Saulle, L. Siniscalchi ( a cura di ), La terza età nel diritto interno e internazionale, Napoli, 1997. 15 Si vedano sul punto discriminante della questione esposta al testo, correlata al fatto che la posizione del minore nel processo è garantita da una pluralità di norme cogenti, mentre per l’anziano i riferimenti della sua tutela debbano essere cercati all’esterno del diritto, vale a dire nelle scienze sociologiche, nella medicina, nella psicologia, nell’economia, le profonde riflessioni di M. DOGLIOTTI, Anziani e società; doveri e diritti, in Dir. fam. e pers., 1998, p. 426; ID., I diritti dell’anziano, in Riv. trim. dir e proc. civ.., 1987, p. 711 s.; ID., Diritti della persona ed emarginazione: minori, anziani, handicappati, in Giur. it., 1990, IV, c. 361. 16 Si deve a G. BONILINI, Sull’inadempimento del vitalizio assistenziale, in Resp. Civ., 1998, p. 331 ss.; ID., Vitalizio e risoluzione per inadempimento dell’obbligo di prestare assistenza morale, in Contratti, 1996, p. 5 ss. l’individuazione dei nuovi caratteri su cui si fonda la prestazione globale di assistenza e cura in favore delle persone deboli, che ha mosso anche il sistema degli alimenti dovuti, nella misura in cui la prestazione alimentare non è più inquadrata nell’antico parametro dello stretto indispensabile per la sopravvivenza dell’alimentando, bensì su un coacervo di prestazioni complesse che si compongono, altresì, con l’assistenza e l’accompagnamento dell’alimentando stesso a tutte quelle attività della vita giornaliera che da solo non potrebbe svolgere compiutamente. 17 Sui rapporti tra i coniugi ed in particolare con riferimento al dovere di fedeltà, si rinvia alla completa analisi di E. GIACOBBE, Il matrimonio, T.1, L’atto e il rapporto, in Tratt. di dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 2012, p. 733 e ss. 18 Bisogna qui ricordare il coraggioso contributo di M. SESTA, Stato di figlio legittimo e richiesta di alimenti al padre naturale, in Riv. dir. civ., II, 1975, p. 460 e ss., che schierandosi contro la dottrina dominante del periodo e passando in rassegna la giurisprudenza precedente la riforma del diritto di famiglia, allora all’esordio, ha dimostrato che il sistema non escludeva che il titolare dello status di figlio legittimo altrui, non potesse ottenere ulteriori diritti alimentari, dimostrando, con l’ausilio dell’art. 279 c.c., una diversa paternità, conformemente all’idea della prevalenza del fatto biologico di procreazione sul favor legitimitatis, ormai, quasi irrilevante nei giudizi di accertamento della genitura naturale. Tale fondamentale passaggio della dottrina, espresso in tempi duri per il diritto di famiglia, consente, quindi, un’efficace lettura delle norme contenute agli artt. 580 e 594 c.c. in argomento di successione dei figli cd. irriconoscibili, sì che sia consentito rinviare a G. PALAZZOLO, I diritti successori dei figli non matrimoniali, in Rass. dir. civ., IV, 2010, p. 1116 e ss. 19 Tale nuova introduzione produce una ulteriore criticità proveniente dal potere loro concesso di rifiutare gli alimenti al dante causa decaduto dalla potestà genitoriale, dichiarando di non essere tenuti, che si incontra con quanto dispone la vecchia norma contenuta nella L. 1580/31, all’art. 1 comma 1, ove è prevista, nonostante le rimodulazioni intervenute con L. 833/78, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, la rivalsa dello Stato per le spese di spedalità effettuate in favore del congiunto prossimo, ripetibili nei confronti dei suoi eredi legittimi o testamentari. Tale normativa, nonostante sia scarsamente seguita, risulta ancora applicabile, specie dopo l’intervento di Corte Cost. 349/89 che argomentando dal movente dell’arricchimento senza causa ( cfr. la corretta applicazione di Cass. 10 maggio 1999, n. 4621, in Mass. Giur. It., 1999 ), ritiene la rivalsa attivabile nei confronti degli aventi causa diretti dell’alimentando, quando questi risulti in stato di povertà, ai sensi dell’art.. 438 comma 1 c.c., secondo cui gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. Dall’esclusione dell’obbligo alimentare in capo ai figli e ai discendenti che comunque succedono nel patrimonio del loro dante causa, deriva senz’altro un appesantimento della spesa pubblica che contrasta con la dichiarazione di invarianza contenuta all’art. 6 del Disegno di legge unificato C. 3915 – S. 2805 approvato dalla Camera dei Deputati il 27 novembre 2012, confluito nella L. 219/2012.. 20 Sia qui consentito richiamare l’apporto di A. PALAZZO, Testamento e istituti alternativi, in Tratt. teorico – pratico di Dir. priv. diretto da G. Alpa e S. Patti, Padova, 2008, p. 452 e ss., nonché p. 455, nt. 25, che replica al progetto di legge n. 1043 della XV legislatura, volto ad abolire la successione necessaria ed il patto di famiglia, con profonde riflessioni in argomento di tutela dei soggetti deboli e sulla particolare funzione della proprietà partecipativa vista nell’ambito del diritto successorio dei legittimari. 21 E, tuttavia, esclusa quella relativa al compimento di reati concernenti abusi sessuali sul minore che solo la morte del genitore accertato colpevole potrebbe riparare, com’è, senza alcuna indulgenza, nell’immaginario collettivo di tutti gli uomini coscienti; sì che, considerata la gravità del gesto disumano ed innaturale, connesso a tale tipologia di reati, non sarebbe stato difficile aggiungere l’esclusione per indegnità del genitore colpevole di tali abomini all’interno dell’art. 463 n. 1 c.c., laddove si prevede il caso l’omicidio consumato o tentato. 22 Con le nuove introduzioni al tema indicato nel testo, offerte da C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, cit. p. 57 e ss., che sottopone ad una critica pacata ed elegante le precedenti posizioni assunte in dottrina ( cfr., in particolare i diversi risultati di G. FERRANDO, Filiazione. 1) Rapporto di filiazione, in Enc Giur., Vol. XIV, Roma, 1988, p. 4 e ss. e G. FOTI, Commento all’art. 315 cod. civ., in Commentario al Codice Civile, dir. da E. Gabrielli, Della famiglia, a cura di L. Balestra, Vol. II, Torino, 2010, p. 978 ss. che escludono ogni simmetria tra l’obbligo di rispetto dei figli verso i genitori con quello previsto dall’art. 147 c.c. in argomento di mantenimento dovuto dai genitori ai figli minori ), prendono corpo e sostanza giuridica le nostre riflessioni in argomento di revoca delle donazioni per violazione dell’obbligo di rispetto verso i genitori da parte del figlio donatario, in violazione dell’art. 315 c.c., contenute in G. PALAZZOLO, Atti gratuiti e motivo oggettivato, Milano 2004, p. 73 ss. 23 Si tratta di Cass. 5 aprile 2005, n. 7033, in Mass. Giur. It. 2005, da noi fortemente avversata nel silenzio di tanti, sì che sia consentito rinviare a G. PALAZZOLO, Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, cit., p. 90, nt. 65. 24 Contro l’autorevole voce di R. NICOLO’, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Annali dell’Università di Messina, 1933 – 1934, pp. 3 e 44, che riteneva l’indegnità una specifica forma di incapacità a succedere, cfr. A. PALAZZO, Successioni ( Parte generale ), in Dig. Disc. priv., Sez. civ., diretto da R. Sacco, XIX, Torino, 1999, p. 1222 e di recente A. NATALE, L’indegnità a succedere, in Tratt. delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, p. 939 ss. 25 Chiara sul punto è la massima di Cass. civ., 12 luglio 1986, n. 4533, in Giust. Civ., 1986, I, p. 2347. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 33 DIBATTITO NOTA CRITICA ALLA VERITÀ IMPOSTA AI CONIUGI SOTTO SANZIONE PENALE NEI PROCEDIMENTI PER SEPARAZIONE CLAUDIO CECCHELLA PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ DI PISA RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI PISA DELL’OSSERVATORIO 1. Su alcuni recenti contenuti dei decreti in calce al ricorso per separazione presso i tribunali di Roma e di Napoli. Con una diversa gradualità due dei più importanti Tribunali d’Italia (Roma e Napoli) hanno ordinato nel decreto che fissa la comparizione delle parti nel procedimento per separazione ai malcapitati coniugi di produrre non semplicemente come la legge impone, già dalla fase presidenziale, le rispettive dichiarazioni dei redditi, ed è il caso del tribunale capitolino, ma un atto sostitutivo dell’atto di notorietà con l’avviso alle “parti che la falsità delle dichiarazioni rese è penalmente punita ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n., nel quale: “andranno indicate le seguenti circostanze. a) attività lavorativa a tutte le fonti di reddito (retribuzioni, compensi di ogni genere anche se saltuari, canoni da locazione, redditi da titoli, ecc.); b) redditi annui relativi agli ultimi tre anni e redditi netti mensili percepiti negli ultimi sei mesi, con la precisazione in caso di lavoro autonomo, del numero dei collaboratori e dei compensi mensili loro corrisposti; c) proprietà immobiliari ed altri diritti reali immobiliari elencati singolarmente indicando la tipologia (abitazioni, terreni, ecc.), l’anno di acquisto, l’ubicazione, la superficie e l’utilizzazione del bene (se rimasto nella disponibilità, se concessi in godimento a terzi e l’eventuale corrispettivo mensile); d) carte di credito e tutti conti correnti intestati o cointestati o sui quali si possa comunque operare con l’indicazione dei dati identificativi (istituto di credito, numero, ecc.) e dei relativi saldi trimestrali degli ultimi tre anni; e) quote sociali, titoli, depositi, e qualsiasi altra forma di investimento e di risparmio; g) proprietà di beni mobili registrati e in particolare autovetture (da elencare singolarmente indicando il tipo e l’anno di acquisto), imbarcazioni, aeromobili; h) spese per mutui e finanziamenti con l’indicazione della rata mensile dovuta dell’anno di erogazione e della durata, per canoni di locazione, per rette di iscrizione alle scuole dei figli, di circoli sportivi e/o ricreativi; i) rapporti di convivenza, rapporti di collaborazione domestica, con indicazione dei compensi”. 34 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Il tribunale partenopeo, invece, attenua le conseguenze, in termini delittuosi, ma impone comunque: “che entrambe le parti provvedano a depositare nel medesimo termine, in aggiunta alla documentazione reddituale degli ultimi tre anni, una nota informativa nella quale dovranno essere inseriti anticipatamente tutti quei dati che potrebbero essere rivelati a seguito di libero interrogatorio da parte del presidente, qui di seguito elencati: a) titolo di studio, qualificazione professionale, attività lavorativa di tutti i componenti il nucleo familiare; b) complessive entrate delle quali in atto beneficia il nucleo familiare con specifica indicazione del componente della famiglia, al quale le stesse debbano riferirsi; c) le proprietà mobiliari e immobiliari nella titolarità dei componenti la famiglia, in essi compresi i figli minori e, in ogni caso, una analitica descrizione degli spazi nei quali si svolge la vita familiare e dei mezzi di locomozione di cui fruiscono i componenti della famiglia; d) il tipo della scuola frequentata dai figli, con specifica indicazione della denominazione dell’istituto presso il quale sono iscritti; e) gli istituti bancari con i quali intrattengano rapporto i componenti della famiglia, con specifica indicazione dei valori ivi depositati, in qualunque forma, e del numero dei conti correnti accesi, anche al solo fine della formazione della provvista per carte di credito, con estensione alle società la cui attività sia in qualche modo d’interesse della famiglia o di alcuni dei componenti; f) le passività che gravino sul bilancio familiare; g) la condizione eventualmente di ammessi provvisoriamente al patrocinio a spese dello Stato. La nota informativa dovrà essere redatta separatamente da ciascuna delle parti, e anche dai figli conviventi non economicamente autosufficienti, per l’utilità che può derivare dal confronto delle indicazioni fornite dalle parti alla decisione sull’assetto, anche provvisorio, dei rapporti personali e patrimoniali dei nuclei separati dalla famiglia a formarsi”. Il tribunale di Napoli prudenzialmente non si pronuncia sulle conseguenze della mancata produzione della “nota informativa; invece quello di Roma, nel nobile intento di coartare la verità dei coniugi, si dilunga ben oltre le conseguenze penali della menzogna, ma in una fine analisi delle conseguenze civili e non: “avverte le parti che la falsità delle dichiarazioni rese è penalmente punita ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, e che tale condotta o l’omessa allegazione o la tardività del deposito o la lacunosità della dichiarazione saranno valutate quali argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c. già in sede di pronuncia dei provvedimenti provvisori e, qualora i coniugi abbiano figli minori, nella definizione del regime di affidamento, oltre che ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. ed in sede di regolamentazione delle spese processuali ed ai sensi dell’art. 96 c.p.c.”. Un ventaglio di conseguenze che vanno da effetti pregiudizievoli sul piano probatorio, ad effetti economici coercitivi (la sanzione, è da pensare, dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.), sino addirittura ad incidere nel merito sui provvedimenti di affidamento e potestà, ai sensi dell’art. 709- ter c.p.c. DIBATTITO Il giudice partenopeo, con la maggiore sensibilità dovuta alla tradizione giuridica della città, tace, ma è un silenzio sinistro che lascia presagire scenari tutti da verificare in concreto. Questo il quadro offerto all’interprete, a cui si accinge sommessamente chi scrive. 2. La determinazione giudiziale delle regole del processo. Il processo civile ammette che le regole siano poste dal giudicante, ma nel diverso contesto delle forme di giustizia espressione dell’autonomia delle parti, le quali – nell’arbitrato, art. 816 - bis c.p.c. – oltre a fissare la regola contrattuale che disciplina il rapporto, possono liberamente stabilire di rivolgere la domanda ad un giudice privato di cui hanno fiducia e possono – salvo le regole processuali di ordine pubblico come il contraddittorio –, nel mandato di giudicare offerto, stabilire anche le regole processuali, in mancanza, come è noto, provvede l’arbitro con un intervento vicario. Ma questa regola è propria dell’arbitrato e si spiega per il rilievo che il legislatore ha voluto offrire all’autonomia privata. Nel processo giurisdizionale le cose non stanno nello stesso modo; il giudice è sottoposto alla legge e con particolare rigore è sottoposto alla legge processuale, tanto che un legislatore che devolvesse – come l’arbitrato – al giudice la determinazione della regola processuale, sarebbe un legislatore eversivo del principio di riserva di legge nella regolamentazione del processo, ai sensi dell’art. 111, 1° comma, Cost. Se poi è il giudice, che non approfittando dei vuoti legislativi, che pure vi sono e non sono pochi – si pensi alle regole del rito camerale – ad imporre la regola di fonte giurisprudenziale anziché legislativa, egli si pone su una china che lo conduce molto lontano da precise garanzie costituzionali. Il fenomeno non è nuovo ed è qualche volta alimentato da quel movimento traversale, nel senso che vede coinvolti oltre a giudici anche avvocati, che nella ricerca di protocolli concertati, per un verso limitano la discrezionalità del giudicante (di cui questi si dovrebbe forse avvedere con più consapevolezza), per altro verso alimentano un diritto processuale di emanazione extra legislativa, approfittando del vasto fenomeno della informatizzazione del processo, che pone gravi interrogativi sul rispetto della riserva di legge costituzionalmente imposta. 3. La prova legale di origine giurisprudenziale, il de profundis del principio di libero apprezzamento e di tipicità della prova civile. Nel caso che trattiamo, sempre a sommesso avviso dello scrivente, la regola del processo di creazione giurisprudenziale non ha semplicemente riempito una lacuna, ma ha violato precisi precetti legislativi, sul tema della prova, dell’apprezzamento della prova e, profilo assai più preoccupante, dei diritti difensivi della parte. Quest’ultimo aspetto ha indotto lo scrivente ad un seppur breve contributo critico. È noto, tanto da non meritare approfondimento se non un fugace cenno, come un sistema probatorio improntato alla legalità della prova, che ha radici nel processo del diritto intermedio pre-rivoluzionario, allontana il giudizio di fatto dalla verità contrariamente ad un sistema probatorio fondato sulla prova liberamente apprezzabile, che attraverso il confronto con regole logiche e di esperienza consente al giudicante, anche grazie all’immediatezza di percezione della prova (valore troppo spesso sacrificato nella pratica) di raggiungere un verità “vera”. Il Tribunale di Roma, nelle accentuazioni che lo contraddistinguono rispetto al Tribunale di Napoli, introduce nel sistema una sorta di preventivo giuramento suppletorio, sull’altare sacrificale del giudizio fondato sul libero apprezzamento della prova libera o delle sommarie informative, tipiche della cognizione sommaria, fuori dai presupposti di legge, essendo com’è noto quello un mezzo di mera supplenza al dubbio che discende dalla libera valutazione della prova, diretto alla parte che più si è avvicinata all’onere che le fa carico e che costituisce rimedio postumo, non certo in limine litis. Imporre il giuramento della parte su fatti a sé favorevoli in un termine anteriore alla udienza di comparizione, se destinato ad avere una qualche (apparente) utilità per il giudicante (pigro nel disporre la prova liberamente valutabile), deve imporre al medesimo giudicante di tenerne conto ai fini della decisione (abbandonandone le conseguenze al giudice penale). Introduce di fatto una prova legale, vincolante per il giudice, il quale potrà confidare solo sullo spauracchio della sanzione penale, come remora alla menzogna. La verità giurata non avrà invece alcuna utilità al servizio della contestazione dei fatti, contribuendo ad aprire la prospettiva di un’istruttoria sui fatti rilevanti, perché secondo il tribunale capitolino e partenopeo la parte ha l’onere di prendere posizione solo sui fatti che la riguardano e non sui fatti dell’altra parte. Dunque nella sostanza un giuramento suppletorio in limine litis. Ma quali sono le conseguenze di una decisione fondata sul giuramento in limine che dovesse risultare falso quando la pronuncia non è più impugnabile per decorso dei termini di reclamo o peggio ancora per il passaggio in giudicato della sentenza finale? La sentenza è revocabile ex art. 395, n. 3 c.p.c. oppure, come per il giuramento comune, il diritto si estingue, convertito esclusivamente in un diritto al risarcimento del danno? ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 35 DIBATTITO Ecco un’elegante modalità di trasformazione, dal cilindro del prestigiatore, di diritti personali indisponibili (affidamento, assegnazione della casa, mantenimento) in equivalente in denaro. Il segno che il diritto si liquida, ovvero assume la sola dimensione del denaro, è l’attento richiamo tra le conseguenze (non hanno senso dopo il giudicato il riferimento all’argomento di prova o la incidenza sulle spese), all’applicazione dell’art. 96 c.p.c., il risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata: il giudice pensa ancora alla sanzione economica, ma non ne valuta le conseguenze sul piano sistematico. Al di là della nostalgia (oltre tre secoli) verso un sistema di prova legale, a scapito di un sistema di prova libera e di prudente apprezzamento nella valutazione della prova, noi aggiungeremo un nuovo motivo di sacrificio della verità sostanziale (ma ormai il processo sfugge alla verità sostanziale da tempo), che non costituisce più l’obiettivo del giudizio sui fatti, essendo importante che l’ordinamento offra una rapida soluzione ancorché governata dalla prova legale e qualunque essa sia, anche in materia di diritti indisponibili. Ma questa volta la tendenza evolutiva (o involutiva) del nostro sistema processuale, viola apertamente la legge. Il nostro sistema probatorio è fondato sulla tipicità della prova e il giudice non può creare una prova oltre il decalogo delle prove consentito. Neppure il carattere sommario della cognizione consente di fuoriuscire dall’alveo rigido delle informative che hanno luogo esclusivamente con la percezione diretta, e non stragiudiziale e giurata, dell’interrogatorio libero della parte o della testimonianza. La creazione di conio giurisprudenziale di un giuramento suppletorio extraprocessuale in limine litis è eversivo del sistema probatorio. Si deve dire che la soluzione partenopea non aderisce, per buona sorte, alla rigidità della pronuncia capitolina e anzi, nonostante imponga alle parti una dichiarazione in limine litis da contenuti analoghi, precisa che “l’utilità … può derivare dal confronto delle indicazioni fornite dalle parti alla decisione sull’assetto, anche provvisorio, dei rapporti personali e patrimoniali dei nuclei separati dalla famiglia a formarsi” e che si tratta di ”dati che potrebbero essere rivelati a seguito di libero interrogatorio da parte del presidente”, perciò la dichiarazione (in questo caso non giurata) ha la valenza delle risultanze di un interrogatorio libero, quindi di semplice chiarificazione dei fatti rilevanti in causa e delle contestazione che aprono la prospettiva dell’effettivo thema probandum e nient’altro. Risultanze, deve intendersi, che non assurgono a prova, come non assurgono a tale effetto i risultati di un interrogatorio libero: ma allora non si intende quale utilità possano avere le note informative, quando il Presidente ben possa acquisire tali infor36 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 mazioni direttamente in sede di interrogatorio (con il rispetto delle regole che fondano le informative e che rendono auspicabile un principio di immediatezza tra giudicante e prova). Si tratta tuttavia di un’interpretazione del decreto “pretorio” di Napoli volto ad introdurre nuove regole al processo per separazione, poiché la cautela dell’interprete lascia aperta l’insidia, cui può cadere il giudice con minore sensibilità con il sistema probatorio, di una prova vera e propria fondante la decisione, che anche in questo caso incontra l’ostacolo del divieto di prove libere, qualunque valenza probatoria si intenda offrire alla c.d. “note informative”. 4. La violazione del diritto della parte di non rispondere e l’annientamento del ruolo del giudice. Coartare la verità alla parte sotto pena di sanzione penale corrisponde ad una corretta concezione del diritto di difesa? Il processo penale, che si è liberato di quel sistema probatorio legale, grazie all’apporto di insigni giuristi e di movimenti storici che hanno condotto alla conquista di una civiltà del diritto, lascia un’eredità che il giudice capitolino sembra trascurare. Il processo e il giudizio sul fatto nel quale confluisce non può fondarsi sulla verità della parte indotta con la forza della sanzione afflittiva, ma deve cercarla aliunde, con l’apporto del contraddittorio ovvero dello scontro delle “opposte menzogne”, dell’iniziativa probatoria delle parti indotte a fare prevalere la propria verità, mitigata dall’apporto probatorio del giudice. È nello conflitto delle verità, il contraddittorio, che emerge la menzogna e il compito del giudice, con gli strumenti del libero apprezzamento della prova in particolar modo, è quello di cogliere quale delle verità debba prevalere, con un evidente esaltazione del suo ruolo, avvilita da orientamenti come quelli in esame critico. Pensiamo seriamente che un sistema di prova legale esalti il ruolo del giudice, vincolato alle conseguenze del giuramento della parte sulla verità dei fatti? Pensiamo veramente che nel processo civile (il processo penale ha da tempo aborrito l’apporto della “tortura” come mezzo preferenziale per estrarre la verità dalla parte), viga un obbligo di verità delle parti e che questo sia in linea con i principi del contraddittorio? Chi scrive sommessamente crede esattamente nel contrario: la parte ha il diritto di non dire la verità e che solo il contraddittorio, in un processo dispositivo, può assicurare il maggior grado di rispondenza della verità formale con la verità sostanziale. Non esiste alcuna norma di diritto positivo che possa giustificare una contraria opinione. Non l’obbligo di lealtà e probità nella difesa ex art. 88 c.p.c., non il motivo di revocazione individuato DIBATTITO nel dolo di una parte ai danni dell’altra (art. 395 n. 1, c.p.c.). Quelle norme sono la massima concessione che il laico Calamandrei (vincente per buona sorte) concesse ad un Carnelutti (perdente sempre per buona sorte), offuscato dal moralismo che lo contraddistinse nell’ultimo periodo, e non sono affatto il segno di un obbligo di verità della parte. Esse sanciscono solo il confine del diritto a non rispondere e a non confessare la verità, raccontando una verità falsificata: quello di non impedire all’altra parte di difendersi, ovvero di alterare le regole del gioco sino al punto di paralizzare la difesa altrui, minando per altra via il contraddittorio (la parte che non semplicemente si astiene dal dire la verità, ma con comportamenti attivi impedisce all’altra di difendersi, sottraendo documenti o alterando la prova, sino a falsificarla). Il principio è dunque esattamente rovesciato. 5. Il tramonto della indisponibilità dei diritti. Infine un ultimo non meno rilevante motivo di critica. Certamente è in atto ormai da qualche decennio un’evoluzione della materia familiare, verso una piena disponibilità dei diritti, soprattutto economici, in materia di famiglia (gli accordi dei coniugi sul contributo o l’assegno destinato ad uno di essi, non è sindacabile dal giudice), ma resta un’area forte, costituita dalla tutela dei diritti del minore, anche economici ma particolarmente personali (affidamento e potestà), rispetto alla quale le dichiarazioni giurate suscitano gravi perplessità anche sotto altri profili, essendo riposto nelle mani della parte la verità dei fatti patrimoniali e reddituali che sono fondamento anche della liquidazione del contributo a favore del minore. Il giuramento suppletorio in limine litis, ma non meno insidiosamente la nota informativa priva di chiari effetti sul piano probatorio (decreto partenopeo, si segnala che il tribunale di Torino adotta una soluzione analoga a quella del Tribunale di Napoli), ripongono nelle mani delle parti la soluzione del giudizio di fatto, presupposto dalla applicazione della norma di diritto sostanziale, in contrasto con tutti i limiti al potere dispositivo processuale dei diritti, quando questi non sono disponibili. Ciò discende non soltanto dall’applicazione di norme di carattere generale, ma anche di norme di carattere specifico, come quella che impone l’intervento obbligatorio del p.m. nel processo per separazione, evidentemente in supplenza della carente iniziativa delle parti; l’intervento di un curatore del minore in caso di conflitto con il genitore che esercita la potestà, sino – quando il giudice di legittimità ne sarà più consapevole – alla difesa tecnica del minore. Il giuramento suppletorio in limine litis pone nelle mani della parti, rendendo inutile il giudice, anche i diritti indisponibili che fanno capo al minore. Non resta che sperare nel ravvedimento “operoso”. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 37 CORTE COSTITUZIONALE LA CORTE COSTITUZIONALE RIMEDITA L’ANTERIORE INDIRIZZO SULLA RIGIDA IRREVERSIBILITÀ DELL’OPZIONE MATERNA PER L’ANONIMATO DI GENITURA AVV. GIANCARLO SAVI RESPONSABILE SEZIONE MACERATA DELL’OSSERVATORIO Corte Costituzionale, Sentenza 22 novembre 2013, n. 278 Con la pronuncia appena pubblicata, che facciamo seguire in copia integrale (tratta dal sito istituzionale: www.cortecostituzionale.it), la Corte delle leggi mitiga l’anteriore quadro normativo, dichiarato parzialmente illegittimo, siccome l’impedimento preclusivo derivante dall’opzione materna per il proprio anonimato, secondo volontà manifestata al momento della nascita, risulta in contrasto con gli artt. 2 e 3 della carta costituzionale. Il vulnus individuato nel vincolo ad un segreto assolutamente irreversibile: il “diritto all’oblio” materno, salvaguardato erga omnes dal legislatore, pur producendo un legittimo impedimento all’insorgenza del rapporto di genitorialità (giuridicamente intesa), potrà d’ora in avanti vedere la possibilità di una revoca di quella “cristallizzazione” centenaria (art. 93, co. 2, D. l:vo n° 196/2003), affidata però ancora alla volontà della stessa genitrice “naturale” (che potrà essere interpellata dal giudice sul mantenimento o meno dell’anonimato). Il ben noto precedente specifico della stessa Corte Cost. 25/11/2005 n° 425 (in Giur. It., 2006, 1800, con nota di MARZUCCHI; in Nuova Giur. Civ. Comm., 2006, 545, con nota di LONG; in Fam. Dir., 2006, 129, con nota di ERAMO; in Guida Dir., 2005, 47, 28, con nota di FIORINI; in Fam. Pers. Succ., 2006, 885, con nota di CARLETTI), risulta quindi “mitigato”, sull’onda esplicita 38 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 del recente caso Godelli contro Italia, deciso dall’altrettanto nota CEDU, sez. II, 25/9/2012 n° 33783 (in Nuova Giur. Civ. Comm., 2013, 103, con nota di LONG; in Fam. Dir., 2013, 537, con nota di CURRÒ). Pregevole d’altronde l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro 13/12/2012, che ha promosso l’incidente di costituzionalità, giunto a positivo scrutinio. In dottrina, cfr., PALAZZO, La Filiazione, in Trattato Dir. Civ. Comm. CICU – MESSINEO – MENGONI, continuato da SCHLESINGER, Milano, 2013, 190 ss.; GOSSO, L’adottato alla ricerca delle proprie origini, spunti di riflessione, in Fam. Dir., 2011, 204; STEFANELLI, Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini, in Dir. Fam. Pers., 2010, 426; LONG., La Corte europea dei diritti dell’uomo, il parto anonimo e l’accesso alle informazioni sulle proprie origini: il caso Odièvre c. Francia, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2004, 283; LISELLA, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo dell’art. 28 L. 4 maggio 1983 n° 184, in Rass. Dir. Civ., 2004, 441; LENTI, Adozione e segreti, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2004, 229; PETRONE, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano 2004; BALESTRA, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2002, 167. Di grande delicatezza e spessore le considerazioni volte a garantire i primari diritti della personalità del figlio adottato nella peculiare ricorrenza del diritto all’anonimato materno, primo fra tutti quello alla conoscenza delle proprie origini, globalmente intese, sino alle caratteristiche del proprio patrimonio genetico; giuste si palesano le motivazioni che sorreggono il nuovo quadro normativo, ma decisamente “timide” le conseguenze che ne sono state tratte; questa nuova sistemazione normativa che la Corte comunque prefigura come oggetto dell’intervento del legislatore, ci pone di fronte ad innumerevoli interrogativi, soprattutto sul piano concreto dell’applicazione e delle modalità di interpello giudiziale della madre “anonima”, nonché della configurazione attuativa di un tale atto processuale, atto che non trova un valido riferimento tipico nel codice di rito. Non può che rimandarsi ad una successiva nota esplicativa la compiuta e meditata considerazione di ogni aspetto e dei suoi effettivi risvolti, meritando la pronuncia, proprio per la sua rilevanza, una pronta segnalazione. Svolgimento del processo (omissis) Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), promosso dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro, sul ricorso proposto da R. M., con ordinanza del 13 dicembre DOSSIER Convenzione di Istanbul adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 sulla prevenzione e il contrasto alla violenza alle donne e alla violenza domestica [ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77] La Convenzione non è stata accolta, né in Italia né altrove, con particolare euforia (almeno pari a quello che alla fine degli anni Ottanta accompagnò l’approvazione della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo). Forse a causa del momento storico particolare che non vede purtroppo particolarmente appassionata l’opinione pubblica nei confronti delle norme sovranazionali. Nonostante ciò si tratta di uno dei testi legislativi internazionali più importanti che mai siano stati approvati. Un testo normativo - come chiunque si può rendere conto leggendolo con attenzione - forse tra i più completi e ben scritti tra i molti esistenti. E’ stato approvato dal Consiglio d’Europa (47 Stati del continente europeo di cui quasi la metà appartenenti all’Unione europea) a distanza di oltre sessanta anni dalla Convenzione europea sui diritti dell’Uomo del 1950 con la quale il Consiglio d’Europa fece il suo esordio nel campo della tutela dei diritti delle persone. L’Italia è il quinto Stato a ratificarla (la Convenzione entrerà in vigore a livello internazionale tre mesi dopo la decima ratifica). Finora l’avevano ratificata solo il Montenegro, l’Albania, la Turchia e il Portogallo. In ogni caso molte delle indicazioni contenute nella Convenzione di Istanbul - e questo è senz’altro il motivo per cui l’Italia l’ha ratificata quasi immediatamente - fanno già parte del nostro sistema giuridico che, sia pure solo nell’ultimo decennio, ha costruito un quadro normativo sistematico piuttosto omogeneo e coerente contro la violenza di genere e contro la violenza domestica (di cui la Convenzione dà una nuova e puntuale definizione recepita dal nostro legislatore nella recente legge 119/2013 che ha convertito il decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 sugli stessi temi). Mi riferisco - oltre che alle norme contro la violenza sessuale inserite nel 96 nei codici e alle norme contro lo sfruttamento sessuale dei minori (legge 269/1998) e contro la pedopornografia (legge 38/2006) - soprattutto alla legge 4 aprile 2001, n. 154 che ha introdotto in Italia ormai da oltre un decennio gli ordini di protezione; al più recente decreto legge 11/2009 (legge 38/2009) sullo stalking nonché da ultimo al recentissimo decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (convertito nella legge 15 ottobre 2013, n. 119) che, proprio in seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul, ha inasprito le norme sanzionatorie e ha introdotto molte disposizioni di prevenzione. Pubblichiamo il testo della Convenzione con l’auspicio che la sua lettura possa contribuire a rafforzare nei tempi che corrono la cultura della non violenza. Gianfranco Dosi CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA SULLA PREVENZIONE E LA LOTTA CONTRO LA VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE E LA VIOLENZA DOMESTICA Istanbul, 11 maggio 2011 Preambolo Gli Stati membri del Consiglio d’Europa e gli altri firmatari della presente Convenzione, Ricordando la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (STE n° 5, 1950) e i suoi Protocolli, la Carta sociale europea (STE n° 35, 1961, riveduta nel 1996, STE n°163), la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (STCE n° 197, 2005) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali (STCE n° 201, 2007); Ricordando le seguenti raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa: Raccomandazione Rec(2002)5 sulla protezione delle donne dalla violenza, Raccomandazione CM/Rec(2007)17 sulle norme e meccanismi per la parità tra le donne e gli uomini, Raccomandazione CM/Rec(2010)10 sul ruolo delle donne e degli uomini nella prevenzione e soluzione dei conflitti e nel consolidamento della pace, e le altre raccomandazioni pertinenti; Tenendo conto della sempre più ampia giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che enuncia norme rilevanti per contrastare la violenza nei confronti delle donne; Considerando il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966), la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW, 1979) e il suo Protocollo opzionale (1999) e la Raccomandazione generale n° 19 del CEDAW sulla violenza contro le donne, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (1989) e i suoi Protocolli opzionali (2000) e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2006); Considerando lo statuto di Roma della Corte penale internazionale (2002); Ricordando i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, in particolare la quarta Convenzione di Ginevra (IV), relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra (1949) e i suoi Protocolli addizionali I e II (1977); Condannando ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica; Riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne; Riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione; Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini; Riconoscendo con profonda preoccupazione che le donne e le ragazze sono spesso esposte a gravi forme di violenza, tra cui la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore” e le mutilazioni genitali femminili, che costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e il principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi; Constatando le ripetute violazioni dei diritti umani nei conflitti armati che colpiscono le popolazioni civili, e in parti- ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 39 DOSSIER colare le donne, sottoposte a stupri diffusi o sistematici e a violenze sessuali e il potenziale aggravamento della violenza di genere durante e dopo i conflitti; Riconoscendo che le donne e le ragazze sono maggiormente esposte al rischio di subire violenza di genere rispetto agli uomini; Riconoscendo che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato e che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica; Riconoscendo che i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia; Aspirando a creare un’Europa libera dalla violenza contro le donne e dalla violenza domestica, Hanno convenuto quanto segue: CAPITOLO I – OBIETTIVI, DEFINIZIONI, UGUAGLIANZA E NON DISCRIMINAZIONE, OBBLIGHI GENERALI Articolo 1 – Obiettivi della Convenzione 1 La presente Convenzione ha l’obiettivo di: a) proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; b) contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne; c) predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; d) promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; e) sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica. 2 Allo scopo di garantire un’efficace attuazione delle sue disposizioni da parte delle Parti contraenti, la presente Convenzione istituisce uno specifico meccanismo di controllo. Articolo 2 – Campo di applicazione della Convenzione 1 La presente Convenzione si applica a tutte le forme di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, che colpisce le donne in modo sproporzionato. 2 Le Parti contraenti sono incoraggiate ad applicare le disposizioni della presente Convenzione a tutte le vittime di violenza domestica. Nell’applicazione delle disposizioni della presente Convenzione, le Parti presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di violenza di genere. 3 La presente Convenzione si applica in tempo di pace e nelle situazioni di conflitto armato. Articolo 3 – Definizioni Ai fini della presente Convenzione: a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si 40 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e) per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi a e b; f) con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni. Articolo 4 – Diritti fondamentali, uguaglianza e non discriminazione 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata. 2 Le Parti condannano ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e adottano senza indugio le misure legislative e di altro tipo necessarie per prevenirla, in particolare: – inserendo nelle loro costituzioni nazionali o in qualsiasi altra disposizione legislativa appropriata il principio della parità tra i sessi e garantendo l’effettiva applicazione di tale principio; – vietando la discriminazione nei confronti delle donne, ivi compreso procedendo, se del caso, all’applicazione di sanzioni; – abrogando le leggi e le pratiche che discriminano le donne. 3 L’attuazione delle disposizioni della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti, in particolare le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime, deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo, sull’origine nazionale o sociale, sull’appartenenza a una minoranza nazionale, sul censo, sulla nascita, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sull’età, sulle condizioni di salute, sulla disabilità, sullo status matrimoniale, sullo status di migrante o di rifugiato o su qualunque altra condizione. 4 Le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere non saranno considerate discriminatorie ai sensi della presente Convenzione. Articolo 5 – Obblighi degli Stati e dovuta diligenza 1 Gli Stati si astengono da qualsiasi atto che costituisca una violenza nei confronti delle donne e garantiscono che le autorità, i funzionari, i rappresentanti statali, le istituzioni e ogni altro soggetto pubblico che agisca in nome dello Stato si comportino in conformità con tale obbligo. 2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. Articolo 6 – Politiche sensibili al genere Le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere nell’applicazione e nella valutazione dell’impatto delle disposizioni della presente Convenzione e a promuovere ed DOSSIER attuare politiche efficaci volte a favorire la parità tra le donne e gli uomini e l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne. CAPITOLO II – POLITICHE INTEGRATE E RACCOLTA DEI DATI Articolo 7 – Politiche globali e coordinate 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per predisporre e attuare politiche nazionali efficaci, globali e coordinate, comprendenti tutte le misure adeguate destinate a prevenire e combattere ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione e fornire una risposta globale alla violenza contro le donne. 2 Le Parti si accertano che le politiche di cui al paragrafo 1 pongano i diritti della vittima al centro di tutte le misure e siano attuate attraverso una collaborazione efficace tra tutti gli enti, le istituzioni e le organizzazioni pertinenti. 3 Le misure adottate in virtù del presente articolo devono coinvolgere, ove necessario, tutti i soggetti pertinenti, quali le agenzie governative, i parlamenti e le autorità nazionali, regionali e locali, le istituzioni nazionali deputate alla tutela dei diritti umani e le organizzazioni della società civile. Articolo 8 – Risorse finanziarie La Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compresi quelli realizzati dalle ONG e dalla società civile. Articolo 9 – Organizzazioni non governative e società civile Le Parti riconoscono, incoraggiano e sostengono a tutti i livelli il lavoro delle ONG pertinenti e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne e instaurano un’efficace cooperazione con tali organizzazioni. Articolo 10 – Organismo di coordinamento 1 Le Parti designano o istituiscono uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell’attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza oggetto della presente Convenzione. Tali organismi hanno il compito di coordinare la raccolta dei dati di cui all’Articolo 11 e di analizzarne e diffonderne i risultati. 2 Le Parti si accertano che gli organismi designati o istituiti ai sensi del presente articolo ricevano informazioni di carattere generale sulle misure adottate conformemente al capitolo VIII. 3 Le Parti si accertano che gli organismi designati o istituiti ai sensi del presente articolo dispongano della capacità di comunicare direttamente e di incoraggiare i rapporti con i loro omologhi delle altre Parti. Articolo 11 – Raccolta dei dati e ricerca 1 Ai fini dell’applicazione della presente Convenzione, le Parti si impegnano a: a) raccogliere a intervalli regolari i dati statistici disaggregati pertinenti su questioni relative a qualsiasi forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione; b) sostenere la ricerca su tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, al fine di studiarne le cause profonde e gli effetti, la frequenza e le percentuali delle condanne, come pure l’efficacia delle misure adottate ai fini dell’applicazione della presente Convenzione. 2 Le Parti si adoperano per realizzare indagini sulla popolazione, a intervalli regolari, allo scopo di determinare la prevalenza e le tendenze di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione. 3 Le Parti forniscono al Gruppo di esperti menzionato all’articolo 66 della presente Convenzione le informazioni raccolte conformemente al presente articolo, per stimolare la cooperazione e permettere un confronto a livello internazionale. 4 Le Parti vigilano affinché le informazioni raccolte conformemente al presente articolo siano messe a disposizione del pubblico. CAPITOLO III – PREVENZIONE Articolo 12 – Obblighi generali 1 Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini. 2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per impedire ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione commessa da qualsiasi persona fisica o giuridica. 3 Tutte le misure adottate ai sensi del presente capitolo devono prendere in considerazione e soddisfare i bisogni specifici delle persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e concentrarsi sui diritti umani di tutte le vittime. 4 Le Parti adottano le misure necessarie per incoraggiare tutti i membri della società, e in particolar modo gli uomini e i ragazzi, a contribuire attivamente alla prevenzione di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione. 5 Le Parti vigilano affinché la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto “onore” non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessuno degli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 6 Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere programmi e attività destinati ad aumentare il livello di autonomia e di emancipazione delle donne. Articolo 13 – Sensibilizzazione 1 Le Parti promuovono o mettono in atto, regolarmente e a ogni livello, delle campagne o dei programmi di sensibilizzazione, ivi compreso in cooperazione con le istituzioni nazionali per i diritti umani e gli organismi competenti in materia di uguaglianza, la società civile e le ONG, tra cui in particolare le organizzazioni femminili, se necessario, per aumentare la consapevolezza e la comprensione da parte del vasto pubblico delle varie manifestazioni di tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione e delle loro conseguenze sui bambini, nonché della necessità di prevenirle. 2 Le Parti garantiscono un’ampia diffusione presso il vasto pubblico delle informazioni riguardanti le misure disponibili per prevenire gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. Articolo 14 – Educazione 1 Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 41 DOSSIER interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi. 2 Le Parti intraprendono le azioni necessarie per promuovere i principi enunciati al precedente paragrafo 1 nelle strutture di istruzione non formale, nonché nei centri sportivi, culturali e di svago e nei mass media. Articolo 15 – Formazione delle figure professionali 1 Le Parti forniscono o rafforzano un’adeguata formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria. 2 Le Parti incoraggiano a inserire nella formazione di cui al paragrafo 1 dei corsi di formazione in materia di cooperazione coordinata interistituzionale, al fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. Articolo 16 – Programmi di intervento di carattere preventivo e di trattamento 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi di trattamento per prevenire la recidiva, in particolare per i reati di natura sessuale. 3 Nell’adottare le misure di cui ai paragrafi 1 e 2, le Parti si accertano che la sicurezza, il supporto e i diritti umani delle vittime siano una priorità e che tali programmi, se del caso, siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime. Articolo 17 – Partecipazione del settore privato e dei mass media 1 Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità. 2 Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell’informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento. CAPITOLO IV – PROTEZIONE E SOSTEGNO Articolo 18 – Obblighi generali 1 Le Parti adottano le necessarie misure legislative o di altro tipo per proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie, conformemente al loro diritto interno, per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applicazione della legge, le autorità locali e regionali, le organizzazioni non governative e 42 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 le altre organizzazioni o entità competenti, al fine di proteggere e sostenere le vittime e i testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compreso riferendosi ai servizi di supporto generali e specializzati di cui agli articoli 20 e 22 della presente Convenzione. 3 Le Parti si accertano che le misure adottate in virtù del presente capitolo: – siano basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima; – siano basate su un approccio integrato che prenda in considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e il loro più ampio contesto sociale; – mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria; – mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze; – consentano, se del caso, di disporre negli stessi locali di una serie di servizi di protezione e di supporto; – soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili. 4 La messa a disposizione dei servizi non deve essere subordinata alla volontà della vittima di intentare un procedimento penale o di testimoniare contro ogni autore di tali reati. 5 Le Parti adottano misure adeguate per garantire protezione consolare o di altro tipo e sostegno ai loro cittadini e alle altre vittime che hanno diritto a tale protezione, conformemente ai loro obblighi derivanti dal diritto internazionale. Articolo 19 – Informazione Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo che consentano alle vittime di ottenere un’informazione adeguata e tempestiva sui servizi di sostegno e le misure legali disponibili in una lingua che comprendono. Articolo 20 – Servizi di supporto generali 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano accesso ai servizi destinati a facilitare il loro recupero. Tali misure includeranno, se necessario, dei servizi quali le consulenze legali e un sostegno psicologico, un’assistenza finanziaria, alloggio, istruzione, formazione e assistenza nella ricerca di un lavoro. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano accesso ai servizi sanitari e sociali, che tali servizi dispongano di risorse adeguate e di figure professionali adeguatamente formate per fornire assistenza alle vittime e indirizzarle verso i servizi appropriati. Articolo 21 – Assistenza in materia di denunce individuali/collettive Le Parti vigilano affinché le vittime possano usufruire di informazioni sui meccanismi regionali e internazionali disponibili per le denunce individuali o collettive e vi abbiano accesso. Le Parti promuovono la messa a disposizione delle vittime di un supporto sensibile e ben informato per aiutarle a sporgere denuncia. Articolo 22 – Servizi di supporto specializzati 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per fornire o, se del caso, predisporre, secondo una ripartizione geografica appropriata, dei servizi di supporto immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione. DOSSIER 2 Le Parti forniscono o predispongono dei servizi di supporto specializzati per tutte le donne vittime di violenza e i loro bambini. Articolo 23 – Case rifugio Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, e per aiutarle in modo proattivo. Articolo 24 – Linee telefoniche di sostegno Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire a livello nazionale apposite linee telefoniche gratuite di assistenza continua, operanti 24 ore su 24, sette giorni alla settimana, destinate a fornire alle persone che telefonano, in modo riservato o nel rispetto del loro anonimato, delle consulenze su tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione. Articolo 25 – Supporto alle vittime di violenza sessuale Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di centri di prima assistenza adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente, per le vittime di stupri e di violenze sessuali, che possano proporre una visita medica e una consulenza medico-legale, un supporto per superare il trauma e dei consigli. Articolo 26 – Protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza 1 Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo necessarie per garantire che siano debitamente presi in considerazione, nell’ambito dei servizi di protezione e di supporto alle vittime, i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione. 2 Le misure adottate conformemente al presente articolo comprendono le consulenze psicosociali adattate all’età dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione e tengono debitamente conto dell’interesse superiore del minore. Articolo 27 – Segnalazioni Le Parti adottano le misure necessarie per incoraggiare qualsiasi persona che sia stata testimone di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, o che abbia ragionevoli motivi per ritenere che tale atto potrebbe essere commesso, o che si possano temere nuovi atti di violenza, a segnalarlo alle organizzazioni o autorità competenti. Articolo 28 – Segnalazioni da parte delle figure professionali Le Parti adottano le misure necessarie per garantire che le norme sulla riservatezza imposte dalla loro legislazione nazionale a certe figure professionali non costituiscano un ostacolo alla loro possibilità, in opportune condizioni, di fare una segnalazione alle organizzazioni o autorità competenti, qualora abbiano ragionevoli motivi per ritenere che sia stato commesso un grave atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione o che si possano temere nuovi gravi atti di violenza. CAPITOLO V – DIRITTO SOSTANZIALE Articolo 29 – Procedimenti e vie di ricorso in materia civile 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per fornire alle vittime adeguati mezzi di ricorso civili nei confronti dell’autore del reato. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie, conformemente ai principi generali del diritto internazionale, per fornire alle vittime adeguati risarcimenti civili nei confronti delle autorità statali che abbiano mancato al loro dovere di adottare le necessarie misure di prevenzione o di protezione nell’ambito delle loro competenze. Articolo 30 – Risarcimenti 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano il diritto di richiedere un risarcimento agli autori di qualsiasi reato previsto dalla presente Convenzione. 2 Un adeguato risarcimento da parte dello Stato è accordato a coloro che abbiano subito gravi pregiudizi all’integrità fisica o alla salute, se la riparazione del danno non è garantita da altre fonti, in particolare dall’autore del reato, da un’assicurazione o dai servizi medici e sociali finanziati dallo Stato. Ciò non preclude alle Parti la possibilità di richiedere all’autore del reato il rimborso del risarcimento concesso, a condizione che la sicurezza della vittima sia pienamente presa in considerazione. 3 Le misure adottate conformemente al paragrafo 2 devono garantire che il risarcimento sia concesso entro un termine ragionevole. Articolo 31 – Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza 1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini. Articolo 32 – Conseguenze civili dei matrimoni forzati Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che i matrimoni contratti con la forza possano essere invalidabili, annullati o sciolti senza rappresentare un onere finanziario o amministrativo eccessivo per la vittima. Articolo 33 – Violenza psicologica Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionale mirante a compromettere seriamente l’integrità psicologica di una persona con la coercizione o le minacce. Articolo 34 – Atti persecutori (Stalking) Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionalmente e ripetutamente minaccioso nei confronti di un’altra persona, portandola a temere per la propria incolumità. Articolo 35 – Violenza fisica Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il comportamento intenzionale di chi commette atti di violenza fisica nei confronti di un’altra persona. Articolo 36 – Violenza sessuale, compreso lo stupro 1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i responsabili dei seguenti comportamenti intenzionali: a) atto sessuale non consensuale con penetrazione vaginale, anale o orale compiuto su un’altra persona con qualsiasi parte del corpo o con un oggetto; ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 43 DOSSIER b) altri atti sessuali compiuti su una persona senza il suo consenso; c) il fatto di costringere un’altra persona a compiere atti sessuali non consensuali con un terzo. 2 Il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto. 3 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per garantire che le disposizioni del paragrafo 1 si applichino anche agli atti commessi contro l’ex o l’attuale coniuge o partner, quale riconosciuto dalla legislazione nazionale. Articolo 37 – Matrimonio forzato 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare l’atto intenzionale di costringere un adulto o un bambino a contrarre matrimonio. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il fatto di attirare intenzionalmente con l’inganno un adulto o un bambino sul territorio di una Parte o di uno Stato diverso da quello in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio. Articolo 38 – Mutilazioni genitali femminili Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali: a) l’escissione, l’infibulazione o qualsiasi altra mutilazione della totalità o di una parte delle grandi labbra vaginali, delle piccole labbra o asportazione del clitoride; b) costringere una donna a subire qualsiasi atto indicato al punto a, o fornirle i mezzi a tale fine; c) indurre, costringere o fornire a una ragazza i mezzi per subire qualsiasi atto enunciato al punto a. Articolo 39 – Aborto forzato e sterilizzazione forzata Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali: a) praticare un aborto su una donna senza il suo preliminare consenso informato; b) praticare un intervento chirurgico che abbia lo scopo e l’effetto di interrompere definitivamente la capacità riproduttiva di una donna senza il suo preliminare consenso informato o la sua comprensione della procedura praticata. Articolo 40 – Molestie sessuali Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che qualsiasi forma di comportamento indesiderato, verbale, non verbale o fisico, di natura sessuale, con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, segnatamente quando tale comportamento crea un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, sia sottoposto a sanzioni penali o ad altre sanzioni legali. Articolo 41 – Favoreggiamento o complicità e tentativo 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente il favoreggiamento o la complicità intenzionali in ordine alla commissione dei reati di cui agli articoli 33, 34, 35, 36, 37, 38.a e 39 della presente Convenzione. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i tentativi intenzionali di commissione dei reati di cui agli articoli 35, 36, 37, 38.a e 39 della presente Convenzione. Articolo 42 – Giustificazione inaccettabile dei reati, compresi quelli commessi in nome del cosiddetto “onore” 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che nei procedimenti penali inten- 44 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 tati a seguito della commissione di qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto “onore” non possano essere addotti come scusa per giustificare tali atti. Rientrano in tale ambito, in particolare, le accuse secondo le quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, qualora un bambino sia stato istigato da una persona a compiere un atto di cui al paragrafo 1, non sia per questo diminuita la responsabilità penale della suddetta persona per gli atti commessi. Articolo 43 – Applicazione dei reati I reati previsti ai sensi della presente Convenzione si applicano a prescindere dalla natura del rapporto tra la vittima e l’autore del reato. Articolo 44 – Giurisdizione 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per determinare la giurisdizione competente per qualsiasi reato previsto ai sensi della presente Convenzione quando il reato è commesso: a) sul loro territorio; o b) a bordo di una nave battente la loro bandiera; o c) a bordo di un velivolo immatricolato secondo le loro disposizioni di legge; o d) da uno loro cittadino; o e) da una persona avente la propria residenza abituale sul loro territorio. 2 Le Parti adottano tutte le misure legislative o di altro tipo appropriate per determinare la giurisdizione con riferimento a tutti i reati di cui alla presente Convenzione quando il reato è commesso contro un loro cittadino o contro una persona avente la propria residenza abituale sul loro territorio. 3 Per perseguire i reati stabiliti conformemente agli Articoli 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione, le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie affinché la loro competenza non sia subordinata alla condizione che i fatti siano perseguibili penalmente sul territorio in cui sono stati commessi. 4 Per perseguire i reati stabiliti conformemente agli Articoli 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione, le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie affinché la loro competenza riguardante i commi d. ed e. del precedente paragrafo 1 non sia subordinata alla condizione che il procedimento penale possa unicamente essere avviato a seguito della denuncia della vittima del reato, o di un’azione intentata dallo Stato del luogo dove è stato commesso il reato. 5 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per determinare la giurisdizione con riferimento a tutti i reati di cui alla presente Convenzione, nei casi in cui il presunto autore del reato si trovi sul loro territorio e non possa essere estradato verso un’altra Parte unicamente in base alla sua nazionalità. 6 Quando più Parti rivendicano la loro competenza riguardo a un reato che si presume stabilito conformemente alla presente Convenzione, le Parti interessate si concertano, se lo ritengono opportuno, per determinare quale sia la giurisdizione più appropriata per procedere penalmente. 7 Fatte salve le disposizioni generali di diritto internazionale, la presente Convenzione non esclude alcuna competenza penale esercitata da una delle Parti conformemente al proprio diritto interno. DOSSIER Articolo 45 – Sanzioni e misure repressive 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione siano punibili con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, che tengano conto della loro gravità. Tali sanzioni includono, se del caso, pene privative della libertà e che possono comportare l’estradizione. 2 Le Parti possono adottare altre misure nei confronti degli autori dei reati, quali: – il monitoraggio, o la sorveglianza della persona condannata; – la privazione della patria podestà, se l’interesse superiore del bambino, che può comprendere la sicurezza della vittima, non può essere garantito in nessun altro modo. Articolo 46 – Circostanze aggravanti Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo necessarie per garantire che le seguenti circostanze, purché non siano già gli elementi costitutivi del reato, possano, conformemente alle disposizioni pertinenti del loro diritto nazionale, essere considerate come circostanze aggravanti nel determinare la pena per i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione: a) il reato è stato commesso contro l’attuale o l’ex coniuge o partner, come riconosciuto dal diritto nazionale, da un membro della famiglia, dal convivente della vittima, o da una persona che ha abusato della propria autorità; b) il reato, o i reati connessi, sono stati commessi ripetutamente; c) il reato è stato commesso contro una persona in circostanze di particolare vulnerabilità; d) il reato è stato commesso su un bambino o in presenza di un bambino; e il reato è stato commesso da due o più persone che hanno agito insieme; f) il reato è stato preceduto o accompagnato da una violenza di estrema gravità; g) il reato è stato commesso con l’uso o con la minaccia di un’arma; h) il reato ha provocato gravi danni fisici o psicologici alla vittima; i) l’autore era stato precedentemente condannato per reati di natura analoga. Articolo 47 – Condanne pronunciate sul territorio di un’altra Parte contraente Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per prevedere la possibilità di prendere in considerazione, al momento della decisione relativa alla pena, le condanne definitive pronunciate da un’altra Parte contraente in relazione ai reati previsti in base alla presente Convenzione. Articolo 48 – Divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a garantire che, se viene inflitto il pagamento di una multa, sia debitamente presa in considerazione la capacità del condannato di adempiere ai propri obblighi finanziari nei confronti della vittima. CAPITOLO VI – INDAGINI, PROCEDIMENTI PENALI, DIRITTO PROCEDURALE E MISURE PROTETTIVE Articolo 49 – Obblighi generali 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le indagini e i procedimenti penali relativi a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione siano avviati senza indugio ingiustificato, prendendo in considerazione i diritti della vittima in tutte le fasi del procedimento penale. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo, in conformità con i principi fondamentali in materia di diritti umani e tenendo conto della comprensione della violenza di genere, per garantire indagini e procedimenti efficaci nei confronti dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione. Articolo 50 – Risposta immediata, prevenzione e protezione 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, offrendo una protezione adeguata e immediata alle vittime. 2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge operino in modo tempestivo e adeguato in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compreso utilizzando misure operative di prevenzione e la raccolta delle prove. Articolo 51 – Valutazione e gestione dei rischi 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la valutazione di cui al parafrafo 1 prenda in considerazione, in tutte le fasi dell’indagine e dell’applicazione delle misure di protezione, il fatto che l’autore di atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione possieda, o abbia accesso ad armi da fuoco. Articolo 52 – Misure urgenti di allontanamento imposte dal giudice Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le autorità competenti si vedano riconosciuta la facoltà di ordinare all’autore della violenza domestica, in situazioni di pericolo immediato, di lasciare la residenza della vittima o della persona in pericolo per un periodo di tempo sufficiente e di vietargli l’accesso al domicilio della vittima o della persona in pericolo o di impedirgli di avvicinarsi alla vittima. Le misure adottate in virtù del presente articolo devono dare priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo. Articolo 53 – Ordinanze di ingiunzione o di protezione 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di protezione possano essere ottenute dalle vittime di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 45 DOSSIER 2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di protezione di cui al paragrafo 1 siano: – concesse per una protezione immediata e senza oneri amministrativi o finanziari eccessivi per la vittima; – emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca; – ove necessario, decise ex parte con effetto immediato; – disponibili indipendentemente, o contestualmente ad altri procedimenti giudiziari; – possano essere introdotte nei procedimenti giudiziari successivi. 3 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violazione delle ordinanze di ingiunzione o di protezione emesse ai sensi del paragrafo 1 sia oggetto di sanzioni penali o di altre sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive. Articolo 54 – Indagini e prove Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o penale, le prove relative agli antecedenti sessuale e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie. Articolo 55 – Procedimenti d’ufficio e ex parte 1 Le Parti si accertano che le indagini e i procedimenti penali per i reati stabiliti ai sensi degli articoli 35, 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione non dipendano interamente da una segnalazione o da una denuncia da parte della vittima quando il reato è stato commesso in parte o in totalità sul loro territorio, e che il procedimento possa continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritirare la denuncia. 2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire, conformemente alle condizioni previste dal loro diritto interno, la possibilità per le organizzazioni governative e non governative e per i consulenti specializzati nella lotta alla violenza domestica di assistere e/o di sostenere le vittime, su loro richiesta, nel corso delle indagini e dei procedimenti giudiziari relativi ai reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione. Articolo 56 – Misure di protezione 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a proteggere i diritti e gli interessi delle vittime, compresi i loro particolari bisogni in quanto testimoni in tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti giudiziari, in particolare: a) garantendo che siano protette, insieme alle loro famiglie e ai testimoni, dal rischio di intimidazioni, rappresaglie e ulteriori vittimizzazioni; b) garantendo che le vittime siano informate, almeno nei casi in cui esse stesse e la loro famiglia potrebbero essere in pericolo, quando l’autore del reato dovesse evadere o essere rimesso in libertà in via temporanea o definitiva; c) informandole, nelle condizioni previste dal diritto interno, dei loro diritti e dei servizi a loro disposizione e dell’esito della loro denuncia, dei capi di accusa, dell’andamento generale delle indagini o del procedimento, nonché del loro ruolo nell’ambito del procedimento e dell’esito del giudizio; d) offrendo alle vittime, in conformità con le procedure del loro diritto nazionale, la possibilità di essere ascoltate, di fornire elementi di prova e presentare le loro opinioni, esigenze e preoccupazioni, direttamente o tramite un intermediario, e garantendo che i loro pareri 46 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 siano esaminati e presi in considerazione; e) fornendo alle vittime un’adeguata assistenza, in modo che i loro diritti e interessi siano adeguatamente rappresentati e presi in considerazione; f ) garantendo che possano essere adottate delle misure per proteggere la vita privata e l’immagine della vittima; g) assicurando, ove possibile, che siano evitati i contatti tra le vittime e gli autori dei reati all’interno dei tribunali e degli uffici delle forze dell’ordine; h) fornendo alle vittime, quando sono parti del processo o forniscono delle prove, i servizi di interpreti indipendenti e competenti; i) consentendo alle vittime di testimoniare in aula, secondo le norme previste dal diritto interno, senza essere fisicamente presenti, o almeno senza la presenza del presunto autore del reato, grazie in particolare al ricorso a tecnologie di comunicazione adeguate, se sono disponibili. 2 Un bambino vittima e testimone di violenza contro le donne e di violenza domestica, deve, se necessario, usufruire di misure di protezione specifiche, che prendano in considerazione il suo interesse superiore. Articolo 57 – Gratuito patrocinio Le Parti garantiscono che le vittime abbiano diritto all’assistenza legale e al gratuito patrocinio alle condizioni previste dal diritto interno. Articolo 58 – Prescrizione Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che il termine di prescrizione per intentare un’azione penale relativa ai reati di cui agli articoli 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione sia prolungato per un tempo sufficiente e proporzionale alla gravità del reato, per consentire alla vittima minore di vedere perseguito il reato dopo avere raggiunto la maggiore età. CAPITOLO VII – MIGRAZIONE E ASILO Articolo 59 – Status di residente 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per garantire che le vittime, il cui status di residente dipende da quello del coniuge o del partner, conformemente al loro diritto interno, possano ottenere, su richiesta, in caso di scioglimento del matrimonio o della relazione, in situazioni particolarmente difficili, un titolo autonomo di soggiorno, indipendentemente dalla durata del matrimonio o della relazione. Le condizioni per il rilascio e la durata del titolo autonomo di soggiorno sono stabilite conformemente al diritto nazionale. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime possano ottenere la sospensione delle procedure di espulsione avviate perché il loro status di residente dipendeva da quello del coniuge o del partner, conformemente al loro diritto interno, al fine di consentire loro di chiedere un titolo autonomo di soggiorno. 3 Le Parti rilasciano un titolo di soggiorno rinnovabile alle vittime, in una o in entrambe le seguenti situazioni: a) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario in considerazione della loro situazione personale; b) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario per la loro collaborazione con le autorità competenti nell’ambito di un’indagine o di procedimenti penali. 4 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime di un matrimonio DOSSIER forzato condotte in un altro paese al fine di contrarre matrimonio, e che abbiano perso di conseguenza il loro status di residente del paese in cui risiedono normalmente, possano recuperare tale status. Articolo 60 – Richieste di asilo basate sul genere 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare / sussidiaria. 2 Le Parti si accertano che un’interpretazione sensibile al genere sia applicata a ciascuno dei motivi della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato, in funzione degli strumenti pertinenti applicabili. 3 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per sviluppare procedure di accoglienza sensibili al genere e servizi di supporto per i richiedenti asilo, nonché linee guida basate sul genere e procedure di asilo sensibili alle questioni di genere, compreso in materia di concessione dello status di rifugiato e di richiesta di protezione internazionale. Articolo 61 – Diritto di non-respingimento 1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per il rispetto del principio di non-respingimento, conformemente agli obblighi esistenti derivanti dal diritto internazionale. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime della violenza contro le donne bisognose di una protezione, indipendentemente dal loro status o dal loro luogo di residenza, non possano in nessun caso essere espulse verso un paese dove la loro vita potrebbe essere in pericolo o dove potrebbero essere esposte al rischio di tortura o di pene o trattamenti inumani o degradanti. CAPITOLO VIII – COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Articolo 62 – Principi generali 1 Le Parti cooperano, in conformità con le disposizioni della presente Convenzione, e nel rispetto dell’applicazione degli strumenti internazionali e regionali relativi alla cooperazione in materia civile e penale, nonché degli accordi stipulati sulla base di disposizioni legislative uniformi o di reciprocità e della propria legislazione nazionale, nel modo più ampio possibile, al fine di: a) prevenire, combattere e perseguire tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione; b) proteggere e assistere le vittime; c) condurre indagini o procedere penalmente per i reati previsti sulla base della presente Convenzione; d) applicare le pertinenti sentenze civili e penali pronunciate dalle autorità giudiziarie delle Parti, ivi comprese le ordinanze di protezione. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime di un reato determinato ai sensi della presente Convenzione e commesso sul territorio di una Parte diversa da quella in cui risiedono possano presentare denuncia presso le autorità competenti del loro Stato di residenza. 3 Se una Parte che subordina all’esistenza di un trattato la mutua assistenza giudiziaria in materia penale, l’estradizione o l’esecuzione delle sentenze civili o penali pro- nunciate da un’altra Parte contraente alla presente Convenzione riceve una richiesta di cooperazione in materia giudiziaria da una Parte con la quale non ha ancora concluso tale trattato, può considerare la presente Convenzione come la base giuridica per la mutua assistenza in materia penale, di estradizione, di esecuzione delle sentenze civili o penali pronunciate dall’altra Parte riguardanti i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione. 4 Le Parti si sforzano di integrare, se del caso, la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica nei programmi di assistenza allo sviluppo condotti a favore di paesi terzi, compresa la conclusione di accordi bilaterali e multilaterali con paesi terzi, al fine di facilitare la protezione delle vittime, conformemente all’articolo 18, paragrafo 5. Articolo 63 – Misure relative alle persone in pericolo Quando una Parte, sulla base delle informazioni a sua disposizione, ha seri motivi di pensare che una persona possa essere esposta in modo immediato al rischio di subire uno degli atti di violenza di cui agli Articoli 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione sul territorio di un’altra Parte, la Parte che dispone di tale informazione è incoraggiata a trasmetterla senza indugio all’altra Parte, al fine di garantire che siano prese le misure di protezione adeguate. Tale informazione deve includere, se del caso, delle indicazioni sulle disposizioni di protezione esistenti a vantaggio della persona in pericolo. Articolo 64 – Informazioni 1 La Parte richiesta deve rapidamente informare la Parte richiedente dell’esito finale dell’azione intrapresa ai sensi del presente capitolo. La Parte richiesta deve inoltre informare senza indugio la Parte richiedente di qualsiasi circostanza che renda impossibile l’esecuzione dell’azione ipotizzata o che possa ritardarla in modo significativo. 2 Una Parte può, nei limiti delle disposizioni del suo diritto interno, senza richiesta preliminare, trasferire a un’altra Parte le informazioni ottenute nell’ambito delle proprie indagini, qualora ritenga che la divulgazione di tali informazioni possa aiutare la Parte che le riceve a prevenire i reati penali stabiliti ai sensi della presente Convenzione o ad avviare o proseguire le indagini o i procedimenti relativi a tali reati penali, o che tale divulgazione possa suscitare una richiesta di collaborazione formulata da tale Parte, conformemente al presente capitolo. 3 Una Parte che riceve delle informazioni conformemente al precedente paragrafo 2 deve comunicarle alle proprie autorità competenti, in modo che possano essere avviati dei procedimenti se sono considerati appropriati, o che tale informazione possa essere presa in considerazione nei procedimenti civili o penali pertinenti. Articolo 65 – Protezione dei dati I dati personali sono conservati e utilizzati conformemente agli obblighi assunti dalle Parti alla Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato dei dati a carattere personale (STE n° 108). CAPITOLO IX – MECCANISMO DI CONTROLLO Articolo 66 – Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica 1 Il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (di seguito “GREVIO”) è incaricato di vigilare sull’attuazione della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 47 DOSSIER 2 Il GREVIO è composto da un minimo di 10 membri a un massimo di 15 membri, nel rispetto del criterio dell’equilibrio tra i sessi e di un’equa ripartizione geografica e dell’esigenza di competenze multidisciplinari. I suoi membri sono eletti dal Comitato delle Parti tra i candidati designati dalle Parti con un mandato di quattro anni, rinnovabile una volta, e sono scelti tra i cittadini delle Parti. 3 L’elezione iniziale di 10 membri deve aver luogo entro un anno dalla data dell’entrata in vigore della presente Convenzione. L’elezione dei cinque membri supplementari si svolge dopo la venticinquesima ratifica o adesione. 4 L’elezione dei membri del GREVIO deve essere basata sui seguenti principi: a) devono essere selezionati mediante una procedura trasparente tra personalità di elevata moralità, note per la loro competenza in materia di diritti umani, uguaglianza tra i sessi, contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica o assistenza e protezione alle vittime, o devono essere in possesso di una riconosciuta esperienza professionale nei settori oggetto della presente Convenzione; b) il GREVIO non può comprendere più di un cittadino del medesimo Stato; c) devono rappresentare i principali sistemi giuridici; d) devono rappresentare gli organi e i soggetti competenti nel campo della violenza contro le donne e la violenza domestica; e) devono partecipare a titolo individuale e devono essere indipendenti e imparziali nell’esercizio delle loro funzioni, e devono rendersi disponibili ad adempiere ai loro compiti in maniera efficace. 5. La procedura per l’elezione dei membri del GREVIO è determinata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, previa consultazione e unanime consenso delle Parti entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Convenzione. 6 Il GREVIO adotta il proprio regolamento interno. 7 I membri del GREVIO e gli altri membri delle delegazioni incaricate di compiere le visite nei paesi, come stabilito all’articolo 68, paragrafi 9 e 14, godono dei privilegi e immunità previsti nell’allegato alla presente Convenzione. Articolo 67 – Comitato delle Parti 1 Il Comitato delle Parti è composto dai rappresentanti delle Parti alla Convenzione. 2 Il Comitato delle Parti è convocato dal Segretario Generale del Consiglio d’Europa. La sua prima riunione deve avere luogo entro un anno dall’entrata in vigore della presente Convenzione, allo scopo di eleggere i membri del GREVIO. Si riunisce successivamente su richiesta di almeno un terzo delle Parti, del Presidente del Comitato delle Parti o del Segretario Generale. 3 Il Comitato delle Parti adotta il proprio regolamento interno. Articolo 68 – Procedura 1 Le Parti presentano al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, sulla base di un questionario preparato dal GREVIO, un rapporto sulle misure legislative e di altro tipo destinate a dare attuazione alle disposizioni della presente Convenzione, che dovrà essere esaminato da parte del GREVIO. 2 Il GREVIO esamina il rapporto presentato conformemente al paragrafo 1 con i rappresentanti della Parte interessata. 3 La procedura di valutazione ulteriore sarà divisa in cicli, la cui durata è determinata dal GREVIO. All’inizio di ogni ciclo, il GREVIO seleziona le disposizioni specifiche sulle quali sarà basata la procedura di valutazione e invia all’uopo un questionario. 48 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 4 Il GREVIO definisce i mezzi adeguati per procedere a tale valutazione. Può in particolare adottare un questionario per ciascuno dei cicli, che serve da base per la valutazione dell’applicazione della Convenzione da parte delle Parti contraenti. Il suddetto questionario è inviato a tutte le Parti. Le Parti rispondono al suddetto questionario e a qualsiasi altra eventuale richiesta di informazioni da parte del GREVIO. 5 Il GREVIO può ricevere informazioni riguardanti l’attuazione della Convenzione da parte delle ONG e della società civile, nonché dalle istituzioni nazionali di protezione dei diritti umani. 6 Il GREVIO tiene debitamente conto delle informazioni esistenti disponibili in altri strumenti internazionali e regionali nei settori che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 7 Nell’adottare il questionario per ogni ciclo di valutazione, il GREVIO prende in debita considerazione la raccolta dei dati e le ricerche esistenti presso le Parti, quali enunciate all’articolo 11 della presente Convenzione. 8 Il GREVIO può ricevere informazioni relative all’applicazione della Convenzione da parte del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, dell’Assemblea parlamentare e di altri organi competenti specializzati del Consiglio Europa, nonché da quelli stabiliti nel quadro di altri strumenti internazionali. Le denunce presentate dinanzi a tali organi e il seguito che viene loro dato sono messi a disposizione del GREVIO. 9 Il GREVIO può inoltre organizzare, in collaborazione con le autorità nazionali e con l’assistenza di esperti nazionali indipendenti, delle visite nei paesi interessati, se le informazioni ricevute sono insufficienti o nei casi previsti al paragrafo 14. Nel corso di queste visite, il GREVIO può farsi assistere da specialisti in settori specifici. 10 Il GREVIO elabora una bozza di rapporto contenente la propria analisi sull’applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce la procedura di valutazione, nonché i suoi suggerimenti e le sue proposte riguardanti il modo in cui la Parte interessata può trattare i problemi individuati. Tale bozza di rapporto è trasmessa alla Parte oggetto della valutazione perché formuli i propri commenti, che sono presi in considerazione dal GREVIO quando adotta il suo rapporto. 11 Sulla base di tutte le informazioni e dei commenti delle Parti, il GREVIO adotta il proprio apporto e le proprie conclusioni in merito alle misure adottate dalla Parte interessata per attuare le disposizioni della presente Convenzione. Questo rapporto e le conclusioni sono inviati alla Parte interessata e al Comitato delle Parti. Il rapporto e le conclusioni del GREVIO sono resi pubblici non appena adottati, accompagnati dagli eventuali commenti della Parte interessata. 12 Fatte salve le procedure di cui ai precedenti paragrafi da 1 a 8, il Comitato delle Parti può adottare, sulla base del rapporto e delle conclusioni del GREVIO, delle raccomandazioni rivolte alla suddetta Parte (a) riguardanti le misure da adottare per dare attuazione alle conclusioni del GREVIO, se necessario fissando una data per la presentazione delle informazioni sulla loro attuazione, e (b) miranti a promuovere la cooperazione con la suddetta Parte per un’adeguata applicazione della presente Convenzione. 13 Se il GREVIO riceve informazioni attendibili indicanti una situazione in cui i problemi rilevati richiedono un’attenzione immediata per prevenire o limitare la portata o il numero di gravi violazioni della Convenzione, può domandare la presentazione urgente di un rapporto speciale sulle misure adottate per prevenire una forma di violenza sulle donne grave, diffusa o ricorrente. DOSSIER 14 Il GREVIO può, tenendo conto delle informazioni presentate dalla Parte interessata e di ogni altra informazione attendibile, designare uno o più membri incaricati di condurre un’indagine e di presentargli con urgenza un rapporto. Se necessario, e con il consenso della Parte, tale indagine può includere una visita sul suo territorio. 15 Dopo avere esaminato le conclusioni relative all’indagine di cui al paragrafo 14, il GREVIO trasmette tali risultati alla Parte interessata e, se del caso, al Comitato delle Parti e al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, accompagnati da qualsiasi altra osservazione e raccomandazione. Articolo 69 – Raccomandazioni generali Il GREVIO può adottare, ove opportuno, raccomandazioni di carattere generale sull’applicazione della presente Convenzione. Articolo 70 – Partecipazione dei Parlamenti al controllo 1 I parlamenti nazionali sono invitati a partecipare al controllo delle misure adottate per l’attuazione della presente Convenzione. 2 Le Parti presentano i rapporti del GREVIO ai loro Parlamenti nazionali. 3 L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è invitata a fare regolarmente un bilancio dell’applicazione della presente Convenzione. CAPITOLO X – RELAZIONI CON ALTRI STRUMENTI INTERNAZIONALI Articolo 71 – Relazioni con altri strumenti internazionali 1 La presente Convenzione non pregiudica gli obblighi derivanti dalle disposizioni di altri strumenti internazionali di cui le Parti alla presente Convenzione sono parte contraente o lo diventeranno in futuro e che contengono disposizioni relative alle questioni disciplinate dalla presente Convenzione. 2 Le Parti alla presente Convenzione possono concludere tra loro accordi bilaterali o multilaterali relativi alle questioni disciplinate dalla presente Convenzione, al fine di integrarne o rafforzarne le disposizioni o di facilitare l’applicazione dei principi in essa sanciti. CAPITOLO XII – CLAUSOLE FINALI Articolo 73 – Effetti della Convenzione Le disposizioni della presente Convenzione non pregiudicano le disposizioni di diritto interno e di altri strumenti internazionali vincolanti già in vigore o che possono entrare in vigore, in base ai quali sono o sarebbero riconosciuti dei diritti più favorevoli per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Articolo 74 – Composizione delle controversie 1 In caso di controversia tra le Parti circa l’applicazione o l’interpretazione delle disposizioni della presente Convenzione, le Parti si adopereranno anzitutto per trovare una soluzione mediante negoziato, conciliazione, arbitrato, o qualsiasi altro mezzo pacifico di loro scelta. 2 Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa può stabilire delle procedure per la composizione delle controversie che potranno essere utilizzate dalle Parti, se vi consentono. Articolo 75 – Firma ed entrata in vigore 1 La presente Convenzione è aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, degli Stati non membri che hanno partecipato alla sua elaborazione e dell’Unione europea. 2 La presente Convenzione è soggetta a ratifica, accettazione o approvazione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa. 3 La presente Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data in cui 10 firmatari, di cui almeno otto Stati membri del Consiglio d’Europa, avranno espresso il loro consenso a essere vincolati dalla Convenzione, conformemente alle disposizioni del precedente paragrafo 2. 4 Se uno Stato di cui al paragrafo 1 o l’Unione europea esprime ulteriormente il proprio consenso a essere vincolato dalla Convenzione, quest’ultima entrerà in vigore, nei suoi confronti, il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione. CAPITOLO XI – EMENDAMENTI ALLA CONVENZIONE Articolo 72 – Emendamenti 1 Ogni emendamento alla presente Convenzione, proposto da una Parte, deve essere comunicato al Segretario Generale del Consiglio d’Europa e trasmesso da quest’ultimo agli Stati membri del Consiglio d’Europa, a ogni Stato firmatario, a ogni Parte, all’Unione europea, a ogni Stato invitato a firmare la presente Convenzione, conformemente alle disposizioni dell’articolo 75, nonché a ogni Stato invitato ad aderire alla presente Convenzione, conformemente alle disposizioni dell’articolo 76. 2 Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa esamina l’emendamento proposto e, dopo avere consultato le Parti alla Convenzione che non sono membri del Consiglio d’Europa, può adottare l’emendamento con la maggioranza prevista all’Articolo 20.d dello statuto del Consiglio d’Europa. 3 Il testo di ogni emendamento adottato dal Comitato dei Ministri conformemente al paragrafo 2 del presente articolo è trasmesso alle Parti per accettazione. 4 Ogni emendamento adottato conformemente al paragrafo 2 entra in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di un mese dopo la data in cui tutte le Parti hanno informato il Segretario Generale della loro accettazione. Articolo 76 – Adesione alla Convenzione 1 Dopo l’entrata in vigore della presente Convenzione, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, dopo avere consultato le Parti alla presente Convenzione e averne ottenuto l’unanime consenso, può invitare qualsiasi Stato non membro del Consiglio d’Europa che non abbia partecipato all’elaborazione della convenzione ad aderire alla presente Convenzione con una decisione presa con la maggioranza prevista all’articolo 20.d dello Statuto del Consiglio d’Europa, e all’unanimità dei rappresentanti delle Parti contraenti con diritto di sedere in seno al Comitato dei Ministri. 2 Nei confronti di ogni Stato aderente, la Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data del deposito dello strumento di adesione presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa. Articolo 77 – Applicazione territoriale 1 Ogni Stato o l’Unione europea, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, potrà indicare il territorio o i territori cui si applicherà la presente Convenzione. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 49 DOSSIER 2 Ciascuna Parte potrà, in qualsiasi momento successivo e mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione della presente Convenzione a ogni altro territorio specificato in tale dichiarazione, di cui curi le relazioni internazionali o in nome del quale sia autorizzata ad assumere impegni. La Convenzione entrerà in vigore nei confronti di questo territorio il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data di ricevimento della dichiarazione da parte del Segretario Generale. 3 Ogni dichiarazione fatta ai sensi dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata nei confronti di ogni territorio specificato nella suddetta dichiarazione mediante notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa. Il ritiro avrà effetto il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data del ricevimento di tale notifica da parte del Segretario Generale. Articolo 78 – Riserve 1 Non è ammessa alcuna riserva alle disposizioni della presente Convenzione, salvo quelle previste ai successivi paragrafi 2 e 3. 2 Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, precisare che si riserva il diritto di non applicare o di applicare solo in particolari casi o circostanze le disposizioni enunciate nei seguenti articoli: – Articolo 30, paragrafo 2; – Articolo 44, paragrafi 1.e, 3 e 4; – Articolo 55, paragrafo 1 esaminato insieme all’Articolo 35 per quanto riguarda i reati minori; – Articolo 58 esaminato insieme agli Articoli 37, 38 e 39; – Articolo 59. 3 Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, precisare che si riserva il diritto di prevedere sanzioni non penali, invece di imporre sanzioni penali, per i comportamenti di cui agli articoli 33 e 34. 4 Ogni Parte può ritirare in tutto o in parte una riserva mediante notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa. Il ritiro avrà effetto a partire dalla data del suo ricevimento da parte del Segretario Generale. Articolo 79 – Validità ed esame delle riserve 1 Le riserve previste all’articolo 78, paragrafi 2 e 3 sono valide per un periodo di cinque anni a partire dal primo giorno dell’entrata in vigore della Convenzione per la Parte interessata. Tali riserve possono tuttavia essere rinnovate per periodi di uguale durata. 2 Diciotto mesi prima della scadenza della riserva, il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notifica tale scadenza alla Parte interessata. Tre mesi prima della data 50 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 della scadenza, la Parte deve comunicare al Segretario Generale la sua intenzione di mantenere, modificare o ritirare la riserva. In assenza di tale comunicazione, il Segretario Generale informa la Parte che la sua riserva si intende automaticamente prorogata per un periodo di sei mesi. Se la Parte interessata non notifica prima della scadenza di tale termine la sua intenzione di mantenere o modificare la propria riserva, questa è considerata sciolta. 3 La Parte che ha formulato una riserva conformemente all’Articolo 78, paragrafi 2 e 3, deve fornire, prima di rinnovarla, o su richiesta, delle spiegazioni al GREVIO in merito ai motivi che ne giustificano il mantenimento. Articolo 80 – Denuncia 1 Ogni Parte può, in qualsiasi momento, denunciare la presente Convenzione mediante notifica inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa. 2 Tale denuncia ha effetto il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data di ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale. Articolo 81 – Notifica Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà agli Stati membri del Consiglio d’Europa, agli Stati non membri del Consiglio d’Europa che abbiano partecipato all’elaborazione della presente Convenzione, a ogni firmatario, a ogni Parte, all’Unione europea e a ogni Stato invitato ad aderire alla presente Convenzione: a) ogni firma; b) il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione; c) ogni data di entrata in vigore della presente Convenzione, conformemente agli Articoli 75 e 76; d ogni emendamento adottato conformemente all’Articolo 72 e la data della sua entrata in vigore; e) ogni riserva e ritiro di riserva formulati conformemente all’Articolo 78; f) ogni denuncia presentata conformemente all’Articolo 80; g) ogni altro atto, notifica o comunicazione concernente la presente Convenzione. *** In fede di che i sottoscritti, debitamente autorizzati a tal fine, hanno firmato la presente Convenzione. Fatto a Istanbul, l’11 maggio 2011, in inglese e in francese, entrambi i testi facenti ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa ne trasmetterà una copia certificata conforme a ogni Stato membro del Consiglio d’Europa, agli Stati non membri che hanno partecipato all’elaborazione della presente Convenzione, all’Unione europea e a ogni Stato invitato ad aderirvi. CORTE COSTITUZIONALE 2012, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2013. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi. Ritenuto in fatto 1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica». Premette il giudice a quo che una donna, nata nel 1963 e adottata nel 1969, esponeva di essere venuta a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva cagionato vari condizionamenti anche di ordine sa- nitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per patologie (nodulo al seno e disturbi ricollegabili forse ad una menopausa precoce) che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare. Soggiungeva la istante che non era animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre biologica, la quale avrebbe potuto ricevere conforto dalla conoscenza della figlia, «così chiudendo un conto con il passato». Da qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale. Il pubblico ministero aveva espresso parere favorevole, ma il Tribunale rilevava che, a fronte della possibilità riconosciuta all’adottato che abbia compiuto i 25 anni di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, tale possibilità era invece esclusa dalla disposizione oggetto di impugnativa, ove le informazioni si riferiscano alla madre che abbia dichiarato alla nascita – come nella specie – di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). A proposito della violazione dell’art. 2 Cost., il Tribunale osserva come la conoscenza delle proprie origini rappresenti un presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato, la quale integra un ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 51 CORTE COSTITUZIONALE diritto fondamentale, che viene tutelato sotto il profilo della immagine sociale della persona; vale a dire, di quell’insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione. Il diritto alla identità personale ed alla ricerca delle proprie radici è salvaguardato dagli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176 – che assicurano, appunto, il relativo diritto a conoscere i propri genitori ed a preservare la propria identità – nonché dall’art. 30 della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, resa esecutiva con la legge 31 dicembre 1998, n. 476, la quale impone agli Stati aderenti di assicurare l’accesso del minore o del suo rappresentante alle informazioni relative alle sue origini, fra le quali, in particolare, quelle relative all’identità dei propri genitori. Il diritto all’identità è stato poi di recente riaffermato e puntualizzato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, ove si è affermato che, nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, rientra anche la possibilità di «disporre dei dettagli sulla 52 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 propria identità di essere umano e l’interesse vitale, protetto dalla Convenzione ad ottenere informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei genitori». Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce, dunque, in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano e rientra, quindi, nell’ambito dei principi tutelati dall’art. 2 Cost., che nella specie risulterebbero violati: negare, infatti, a priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulle proprie origini, in ragione del fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, compromette il diritto all’identità personale dell’adottato. D’altra parte – sottolinea il giudice a quo – a fronte del diritto all’anonimato, basterebbe prevedere che, in presenza della richiesta del figlio, la madre fosse posta in condizione di ribadire o meno la scelta fatta molti anni prima, non senza sottolineare come il mutamento del costume sociale non faccia più percepire come un disonore la nascita di un figlio fuori del matrimonio. Tale possibilità, inoltre, non presenterebbe “pericoli” maggiori neppure per la famiglia adottiva, tenuto conto delle possibilità offerte all’adottato dai commi 5 e 6 dell’art. 28 in discorso. La logica che ne ha informato la novellazione, d’altra parte, pare essere tutta orientata verso il recepi- CORTE COSTITUZIONALE mento dei dati scientifici, convergenti nell’assegnare importanza alla conoscenza delle proprie origini; sicché, la disposizione dettata dal comma 7, oggetto di censura, rischierebbe di «precludere irrazionalmente, nella maggior parte dei casi, ciò che voleva consentire». La disposizione oggetto di impugnativa violerebbe anche il principio di uguaglianza, trattando in modo diverso l’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza considerare l’eventualità che possa aver cambiato idea e lei stessa desideri avere notizie del figlio. Nella specie, sussisterebbero interessi contrapposti: da un lato, quello dell’adottato a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla propria identità personale; dall’altro, le esigenze di protezione della famiglia adottiva e quello all’anonimato della famiglia naturale, quale ulteriore garanzia per la famiglia adottiva. La norma impugnata avrebbe privilegiato esclusivamente l’interesse del genitore all’anonimato, senza controllarne l’attualità, sacrificando sempre e comunque l’interesse dell’adottato, in ipotesi anche a fronte di gravi esigenze attinenti alla sua salute psico-fisica. Infine, la disposizione in questione, operando solo a tutela dell’anonimato, discriminerebbe irragionevolmente gli adottati, in quanto diversamente dal caso di genitori naturali che non hanno dichiarato di non voler essere nominati – e che possono in concreto essersi opposti all’adozione, così da rappresentare un potenziale pericolo per la famiglia adottiva – un simile rischio non è rappresentato dal genitore il quale abbia richiesto l’anonimato. L’impossibilità di accertare, poi, se la madre abbia mutato orientamento circa l’anonimato costituirebbe violazione del principio di uguaglianza, giacché «accertato il superamento del rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato», la diversità di disciplina fra le due ipotesi sarebbe ingiustificata. Risulterebbe compromesso anche l’art. 32 Cost., in quanto l’impedimento alla conoscenza dei dati inerenti alla madre naturale priverebbe l’adottato di qualsiasi possibilità di ottenere una anamnesi familiare, essenziale per interventi di profilassi o di accertamenti diagnostici, essendo già egli privo di notizie circa la storia sanitaria del ramo paterno del proprio albero genealogico. Ciò, peraltro, in costanza della prassi, diffusa negli ospedali italiani, di omettere la stessa ordinaria raccolta dei dati anamnestici non identificativi della madre. Sussisterebbe, infine, violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella già richiamata sentenza nel caso Godelli contro Italia, la quale ha ritenuto che la nor- mativa italiana in materia violi l’art. 8 della Convenzione, non essendo stati bilanciati fra loro gli interessi delle parti contrapposte, in tal modo eccedendo dal margine di valutazione riconosciuto alla stregua del principio convenzionale. Sottolinea il giudice a quo, rammentando la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di interpretazione adeguatrice, che la Corte europea non ha considerato che la normativa nazionale (art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003), da un lato, consente l’acquisizione dei dati relativi alla nascita trascorsi cento anni dalla formazione della cartella clinica o del certificato di assistenza al parto e, dall’altro, riconosce la possibilità di ottenere informazioni non identificative della madre. Tuttavia – soggiunge il Giudice rimettente – la Corte europea ha censurato la normativa italiana in rapporto a circostanze diverse rispetto all’accesso alle informazioni non identificative, le quali ultime, peraltro, restano disciplinate in modo confuso, al punto da aver generato prassi applicative assai differenziate. La reversibilità del segreto, introdotta dalla legislazione francese – che ha passato immune, nel caso Odièvre, il controllo della Corte di Strasburgo –, costituirebbe un passo in avanti verso il soddisfacimento dell’esigenza di conoscenza delle proprie origini, valutato come elemento fondamentale per la costruzione della personalità dai nuovi approdi della scienza psicologica. Risulterebbe poi contestabile l’assunto che la garanzia dell’anonimato preserverebbe dal rischio di “decisioni irreparabili” della donna, tenuto conto dei dati statistici sugli infanticidi. Inoltre, il parto in anonimato sarebbe tra le prime cause che favoriscono alterazioni di stato, tanto da aver indotto il legislatore a predisporre rimedi in prevenzione, secondo quanto stabilito dall’art. 74 della legge n. 184 del 1983. In punto di rilevanza, infine, il Tribunale sottolinea che, nella specie, la madre biologica ha dichiarato di non voler essere nominata, con la conseguenza che è precluso anche il semplice interpello della donna: il che confermerebbe la rilevanza della questione, giacché – come già detto – la ricorrente vedrebbe frustrata la sua aspirazione di conoscenza delle proprie origini e insoddisfatte le esigenze di salute connesse alla impossibilità di ottenere una ordinaria anamnesi familiare. Non sussisterebbe, poi, possibilità di procedere ad interpretazioni della norma interna tali da escludere l’intervento del Giudice delle leggi, a nulla valendo, anche per le incertezze normative, il ricorso ad elementi non identificativi. D’altra parte, «sia emettendo un provvedimento che respingesse la domanda di accesso, ovvero autorizzasse almeno la conoscenza di dati non identificativi, di fatto neppure esistenti perché mai raccolti e/o conservati, la soluzione non soddisferebbe la decisione della CEDU». ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 53 CORTE COSTITUZIONALE 2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. La difesa erariale segnala come il Tribunale rimettente abbia trascurato, salvo un breve passaggio, di considerare che la questione è già stata dichiarata non fondata dalla Corte con la sentenza n. 425 del 2005, in riferimento proprio agli artt. 2, 3 e 32 Cost., rievocando la storia del quadro normativo e ponendo in luce la ratio della disciplina censurata («da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e, dall’altro, distogliere la donna da decisioni irreparabili»), che, pure, il giudice a quo ha richiamato per disattenderne la concludenza. Del pari, la Corte ebbe a escludere la violazione del principio di uguaglianza, tra figlio adottato la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata e figlio adottato i cui genitori non abbiano reso tale dichiarazione, posto che – osservò la Corte – «solo la prima ipotesi e non anche la seconda è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre al rispetto della sua volontà di anonimato». Il novum sarebbe dunque rappresentato dalla sentenza della CEDU nel “caso Godelli” e la questione andrebbe esaminata, pertanto, solo sul versante della conformazione del quadro normativo agli impegni internazionali. Anche sotto questo profilo, però, la questione sarebbe infondata, giacché, se è vero che la legislazione nazionale risolve in favore della tutela dell’anonimato il contrasto di interessi, attraverso quella tutela si salvaguarda anche la vita del nascituro e la salute della donna. In linea con il comune sentire, quindi, si è considerato più grave il «vulnus che patirebbe la donna dal vedere svelata la sua identità di madre contro la propria volontà, rispetto al pericolo di una (non certa) compromissione dell’aspirazione dell’individuo alla sua piena realizzazione anche attraverso la conoscenza delle sue origini». D’altra parte – e come ricordato dallo stesso rimettente –, il legislatore ha consentito l’accesso alla cartella clinica della madre ove venga in gioco la salute del figlio; tutela di natura eccezionale che non viene invece accordata se la madre si è sottoposta a pratiche di fecondazione assistita (art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»). Per altro verso, l’accesso ai dati è consentito dopo cento anni e, prima, sono acquisibili i dati non identificativi della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata. Pertanto, e contrariamente all’assunto della Corte di Strasburgo, la legislazione nazionale avrebbe «regolato con equilibrio e proporzionalità i diversi interessi coinvolti». Mentre risulterebbe priva di base scientifica la tesi del giudice a quo secondo la quale 54 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 le ragioni della tutela dell’anonimato sarebbero venute meno per il mutamento dei costumi sociali e della morale civile. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica». La disposizione denunciata contrasterebbe con l’art. 2 della Costituzione, configurando «una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato»; con l’art. 3 Cost., in riferimento all’«irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione»; con l’art. 32 Cost., in ragione dell’impossibilità, per il figlio, di ottenere dati relativi all’anamnesi familiare, anche in relazione al rischio genetico; con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 25 settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia, la quale ha dichiarato che la normativa italiana rilevante violi il predetto art. 8 della Convenzione, non adeguatamente bilanciando fra loro gli interessi delle parti contrapposte. 2.– Intervenuto nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha osservato che la questione di legittimità costituzionale, già dichiarata non fondata con la sentenza n. 425 del 2005 in riferimento ai parametri di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., risulterebbe del pari non fondata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., considerato che con la tutela dell’anonimato si salvaguarda anche la vita del nascituro e la salute della donna e che, diversamente da come prospettato dalla Corte di Strasburgo, la normativa italiana avrebbe «regolato con equilibrio e proporzionalità i diversi interessi coinvolti». 3.– La questione è fondata, nei termini di cui appresso. 4.– Come il giudice a quo e la stessa difesa erariale hanno puntualmente rilevato, il tema del diritto al- CORTE COSTITUZIONALE l’anonimato della madre e quello del diritto del figlio a conoscere le proprie origini ai fini della tutela dei suoi diritti fondamentali hanno già formato oggetto di pronunce tanto di questa Corte che della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di questioni di particolare delicatezza, perché coinvolgono, entrambe, valori costituzionali di primario rilievo e vedono i rispettivi modi di concretizzazione reciprocamente implicati; al punto che – come è evidente – l’ambito della tutela del diritto all’anonimato della madre non può non condizionare, in concreto, il soddisfacimento della contrapposta aspirazione del figlio alla conoscenza delle proprie origini, e viceversa. Nel giudizio concluso con la sentenza n. 425 del 2005, questa Corte fu chiamata a pronunciarsi su un quesito del tutto analogo a quello ora nuovamente devoluto dal giudice rimettente: anche in quella circostanza, infatti, il petitum perseguito non mirava alla mera ablazione del diritto della madre che, alla nascita del figlio, avesse dichiarato, agli effetti degli atti dello stato civile, di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); e neppure era volto a conseguire una sorta di bilanciamento fra i diritti – potenzialmente alternativi, quanto al rispettivo soddisfacimento – di cui innanzi si è detto; ma mirava esclu- sivamente ad introdurre nel sistema normativo – che sul punto era del tutto silente – la possibilità di verificare la persistenza della volontà della madre naturale di non essere nominata. Ebbene, nella circostanza, non si mancò di rammentare come la finalità della norma, oggi nuovamente impugnata in parte qua, fosse quella di assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e, dall’altro lato, di «distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». E l’irrevocabilità degli effetti di questa scelta venne spiegata secondo una logica di rafforzamento dei corrispondenti obiettivi, escludendo che la decisione per l’anonimato potesse comportare, per la madre, «il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta del figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà». Il nucleo fondante della scelta allora adottata si coglie, così, agevolmente, nella ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato, in sé e per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se si vuole, di segreto, che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. Un nucleo fondante che – vale la pena puntualizzare – non può che essere riaffermato, proprio alla luce dei valori di primario risalto che esso intende preservare. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 55 CORTE COSTITUZIONALE Il fondamento costituzionale del diritto della madre all’anonimato riposa, infatti, sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sé stessa, la genitorialità naturale. Peraltro, in questa prospettiva, anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale. Elementi, tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche a evitare che il suo esercizio si ponga in collisione rispetto a norme – quali quelle che disciplinano il diritto all’anonimato della madre – che coinvolgono, come si è detto, esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita. 56 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 5.– Tuttavia, l’aspetto che viene qui in specifico rilievo – e sul quale la sentenza della Corte di Strasburgo del 25 settembre 2012, Godelli contro Italia, invita a riflettere, secondo la prospettazione dello stesso giudice rimettente – ruota attorno al profilo, per così dire, “diacronico” della tutela assicurata al diritto all’anonimato della madre. Con la disposizione all’esame, l’ordinamento pare, infatti, prefigurare una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione“ nelle relative modalità di esercizio: una volta intervenuta la scelta per l’anonimato, infatti, la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato. Tutto ciò è icasticamente scolpito dall’art. 93, comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in CORTE COSTITUZIONALE copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento». Ebbene, a cercare un fondamento a tale sistema – che commisura temporalmente lo spazio del “vincolo” all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana –, se ne ricava che esso riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo “diritto all’oblio” e, nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l’identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato. Ma né l’una né l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse modalità previste dalle relative discipline, oltre che all’esperienza della loro applicazione. Sul piano più generale, una scelta per l’anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d’altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost. In altri termini, mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta. 6.– La disciplina all’esame è, dunque, censurabile per la sua eccessiva rigidità. Ciò, d’altra parte, risulta sulla base degli stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU nella richiamata “sentenza Godelli”. In essa – come accennato e nei termini di seguito precisati – si è stigmatizzato che la normativa italiana non darebbe «alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto», a differenza di quanto, invece, previsto nel sistema francese, scrutinato, in parte qua, nella sentenza 13 febbraio 2003, nel “caso Odièvre”. Ora, è agevole osservare, quanto al primo rilievo, che il già citato art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003 prevede espressamente, al comma 3, la comunicabilità, in ogni tempo (e nel termine di cento anni fissato per il segreto), delle informazioni “non identificative” ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola soltanto all’osservanza, ai fini della tutela della riservatezza della madre, delle relative «opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile». Resta evidente che l’apparente, quanto significativa, genericità, o elasticità, della formula «opportune cautele» sconta l’ovvia – e sia pure non insormontabile – difficoltà di determinare con esattezza astratte regole dirette a soddisfare esigenze di segretezza variabili in ragione delle singole situazioni concrete. Altrettanto evidente che debba, inoltre, essere assicurata la tutela del diritto alla salute del figlio, anche in relazione alle più moderne tecniche diagnostiche basate su ricerche di tipo genetico. Il vulnus è, dunque, rappresentato dalla irreversibilità del segreto. La quale, risultando, per le ragioni anzidette, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., deve conseguentemente essere rimossa. Restano assorbiti i motivi di censura formulati in riferimento agli ulteriori parametri. Sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto. P.Q.M. la Corte Costituzionale, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 57 GIURISPRUDENZA Ricorre per cassazione A, il quale formula tre motivi. Resiste con controricorso l’intimata. È stata depositata relazione ai sensi dell’art. 380bis c.p.c. Il relatore ha concluso per il rigetto del ricorso. La relazione, con il decreto di fissazione dell’adunanza, è stata notificata alle parti e comunicata al P.M. LA DESTINAZIONE DEGLI ASSEGNI FAMILIARI NELLA SEPARAZIONE Cassazione civile, sezione I, Sentenza 23 maggio 2013, n. 12770 Presidente Di Palma Relatore Didone Il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211 della L. 19 maggio 1975 n° 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtù del rapporto di lavoro di cui questi sia parte, in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole fissato in sede di separazione dal giudice o convenuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo. Gli assegni familiari percepiti dal coniuge onerato del contributo per il mantenimento del coniuge giudizialmente o consensualmente separato, in mancanza di una previsione analoga all’art. 211 della L. 19 maggio 1975 n° 151, spettano al lavoratore cui sono corrisposti. Svolgimento del processo (omissis) 1. Pronunciata con sentenza non definitiva la separazione personale dei coniugi A - B, il Tribunale di Trieste, con sentenza dell’8/7/2011, ha provveduto sulla domanda di addebito formulata da B nei confronti del coniuge, sull’affidamento dei figli minori, sull’assegnazione della casa familiare e sulla domanda di attribuzione di assegno di mantenimento in favore della moglie e dei figli (di cui uno maggiorenne non autosufficiente e tre ancora minori), determinato, rispettivamente, in € 300,00 mensili per la moglie e in € 150,00 mensili per ciascun figlio. La Corte di appello di Trieste, provvedendo sulle impugnazioni proposte dalle parti, ha - per quanto ancora qui interessa - confermato le statuizioni relative all’assegno di mantenimento e, in parziale riforma della decisione, ha posto a carico del marito «il 50% delle spese straordinarie», preventivamente concordate. 58 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Motivi della decisione 2. Con il primo e il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione. Deduce che la sentenza impugnata è errata nella parte in cui non prevede che gli assegni di mantenimento in favore della moglie e dei figli siano comprensivi degli assegni familiari di cui al d.p.r. n° 797/1955. Gli assegni familiari, percepiti direttamente dalla B, dovrebbero essere computati nel quantum complessivo liquidato a carico del ricorrente. Lamenta (2° motivo) l’omessa considerazione delle sue esigenze di vita. 2.1. «Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge 19 maggio 1975 n° 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare del contributo per il mantenimento del figlio fissato in sede di separazione consensuale omologata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di separazione. Gli assegni familiari per il coniuge, consensualmente o giudizialmente separato invece, in mancanza di una previsione analoga al citato art. 211, spettano al lavoratore, cui sono corrisposti per consentirgli di far fronte al suo obbligo di mantenimento ex artt. 143 e 156 c.c., con la conseguenza che, se nulla al riguardo è stato pattuito dalle parti in sede di separazione consensuale (ovvero è stato stabilito dal giudice in quella giudiziale), deve ritenersi che nella fissazione del contributo per il mantenimento del coniuge si sia tenuto conto anche di questa particolare entrata» (Sez. I, Sentenza n° 5060 del 2/4/2003; Sez. Un., Sentenza n° 5135 del 27/11/1989). Alla luce di tale giurisprudenza della S. C., dunque, il motivo appare manifestamente infondato quanto all’assegno in favore dei figli e inammissibile nella parte in cui la censura è riferita anche all’assegno in favore della moglie, posto che dalla sentenza impugnata risulta che il ricorrente, in sede di appello, aveva lamentato soltanto che l’assegno in favore dei figli dovesse essere comprensivo degli assegni familiari e nel ricorso non risultano specificamente indicati il luogo e le modalità di devoluzione della questione relativa agli assegni familiari percepiti per la moglie. La censura, poi, è manifestamente infondata nella parte in cui denuncia che la corte di merito non abbia tenuto conto, nella determinazione dell’assegno di mantenimento, degli ulteriori oneri derivanti a GIURISPRUDENZA carico del ricorrente in conseguenza della nascita di figli naturali da una successiva unione, perché, invece, la corte di merito ha valutato la circostanza e l’ha considerata irrilevante – condividendo, sul punto, l’analogo giudizio del tribunale – alla luce dell’apporto economico della nuova compagna dell’obbligato. Omissis… P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate …omissis. IL PUNTO DI VISTA di AVV. GIANCARLO SAVI RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI MACERATA DELL’OSSERVATORIO Questa pronuncia della Suprema Corte, di largo rilievo pratico, riafferma il principio per cui all’assegno di contributo perequativo al mantenimento dei figli fissato in sede di separazione coniugale si cumulano gli assegni familiari percepiti a tale titolo dal coniuge non affidatario, in virtù del rapporto di lavoro di cui è parte, salva l’eventuale diversa statuizione giudiziale o la diversa condizione pattuita in sede di separazione consensuale. Il riferimento dell’art. 211, L.19 maggio 1975 n° 151, al “coniuge affidatario” dei figli in età minore, come tale convivente con essi, deve intendersi esteso al coniuge c.d. collocatario della prole in affidamento condiviso, regime imposto d’ordinario dall’art. 155 c.c., nel tenore introdotto dalla sopravvenuta L. 8/2/2006 n° 54; difatti, tale coniuge è co-affidatario e convivente, mentre l’ipotesi dell’affidamento esclusivo di cui all’art. 155bis c.c., costituisce una residuale eccezione. Stando alla lettera della norma lo stesso diritto non sembra potersi estendere al coniuge convivente con figli che, pur avendo raggiunto la soglia della maggiore età, non risultino ancora economicamente autosufficienti (nei limiti d’età previsti per la conservazione del diritto alla prestazione che qui ci occupa), e quindi aventi ancora diritto al mantenimento, secondo la previsione ex artt. 147, 148, 155quinquies c.c.: evocando la norma comunque la condizione di “affidamento” della prole (condiviso od eccezionalmente esclusivo), appare obiettivamente riferibile al solo figlio in età minore; tuttavia, a diverso risultato può validamente giungersi ovi si consideri l’identico fondamento del diritto del genitore convivente con il figlio maggiorenne (sia esso ancora non autosufficiente come in età minore), che si fa carico degli oneri quotidiani del suo mantenimento, ad esercitare, verso l’altro genitore, la tutela volta al conseguimento del proporzionale contributo; infatti, trattasi di una posizione di diritto autonoma e iure proprio, il cui titolo si rinviene nella comune responsabilità genitoriale - condivisione dell’obbligazione ex lato passivo (artt. 147 e 148, co. 1, c.c.) - e trova pregnante ragione nel munus spettante al medesimo genitore convivente di provvedere direttamente e in modo completo e continuo, al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione del figlio, pur essendo la legittimazione al suo esercizio concorrente con quella del figlio maggiorenne in quanto titolare del diritto al proprio mantenimento per autonomo titolo (cfr., da ultimo, Cass., Sez. I, 19/3/2012 n° 4296, in Giur. It., 2012, 1288, con mia notazione ed ampi riferimenti). Recita testualmente l’art 211 della L. 19 maggio 1975 n° 151 che: “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’atro coniuge.” Pertanto, il coniuge affidatario (o collocatario) dei figli ha il diritto di percepire ex lege gli assegni familiari elargiti per loro; quindi, non ai sensi dell’art. 155, co. 2 e 4, c.c., ma direttamente in forza della previsione di cui al detto art. 211, L. n° 151/1975. La posizione di lavoratore subordinato o comunque di lavoratore (ma anche di pensionato od altra condizione rientrante nelle categorie aventi diritto, tra le quali i beneficiari del trattamento di disoccupazione - in tal senso ad es., Cass., Sez. Lav., 20/12/2005 n° 28165, in banca dati Il Foro It. -) beneficiario di assegni familiari per i figli, rivestita dal coniuge/genitore non affidatario o non collocatario in regime di affidamento condiviso, costituisce il presupposto per l’acquisto ex lege in capo al coniuge/genitore affidatario o co-affidatario convivente con la prole, del diritto a percepire tali assegni familiari; e ciò, a prescindere dalla previsione, dal tipo di contributo o dal suo ammontare fissato in sede di separazione, a carico del medesimo coniuge/genitore ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 59 GIURISPRUDENZA onerato, com’è fatto evidente dal riferimento della norma ad un diritto che sorge “in ogni caso”. In tale titolarità ex lege si rinviene così l’ontologica ratio della cumulabilità degli assegni familiari con il contributo al mantenimento dei figli fissato dal giudice o dalle parti, in sede di separazione coniugale, ai sensi dell’art. 155 o 158 c.c. D’altronde, i criteri che in sede di separazione personale presiedono alla regolazione del modo e della misura con cui il coniuge non convivente o non affidatario, è chiamato a contribuire al complessivo obbligo di mantenimento (artt. 30 Cost. e 147 c.c.) dei figli, è determinato in proporzione alle rispettive “sostanze e secondo la capacità di lavoro” (art. 148 c.c.), con l’ulteriore specificazione (art. 155 c.c.) della proporzionalità al “reddito” e della considerazione anche delle altre “risorse economiche”, di ciascun genitore (art. 155 c.c.) - cfr. tra molteplici, Cass., Sez. I, 15/5/2009 n° 11291, in Dir. & Giust., 2009 -, ma non riguarda le somme già spettanti di diritto al genitore affidatario o collocatario. Il diritto così acquisito dal coniuge/genitore convivente, è una posizione di diritto condizionata alla permanenza nel tempo del corrispondente diritto in capo all’altro genitore; l’indicata titolarità ex lege del diritto in parola, essendo peraltro condizionata anche dalla separazione coniugale e quindi, dalla relativa regolamentazione giudiziale o pattizia dell’affidamento della prole, non sembra consentire una sua qualificazione di diritto soggettivo acquistato a titolo originario. Secondo SUPPIEJ, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1977, I, 2, 921, la norma dispone soltanto “che la prestazione, già dovuta in base alle regole generali, venga effettuata ad un soggetto diverso da quello al quale secondo tali norme spetterebbe”. Secondo Trib. Genova 3/1/2006, in banca dati Platinum Utet, il coniuge/genitore avente diritto alla prestazione non può essere chiamato a rimborsare gli assegni familiari al coniuge affidatario, ove non li abbia mai percepiti, per aver dichiarato di non avere figli in affidamento. Gli assegni familiari, o meglio, come vedremo infra, l’assegno per il nucleo familiare, costituisce una prestazione assistenziale di tipo previdenziale che compete al lavoratore (od appartenente ad altra categoria avente diritto), destinata proprio al sostentamento del nucleo familiare a suo carico, piuttosto che rappresentare parte del trattamento stipendiale, pur essendo elargita sotto forma di integrazione della retribuzione (CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2003, 515; PROSPERETTI, voce Assegni familiari, rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur. Treccani, III, Roma, 1993; ORSI BATTAGLINI, voce Assegni familiari, rapporto di lavoro pubblico, ivi; in giurisprudenza, tra le tante, Cass., Sez. Lav., 22/11/1996 n° 10296, in banca dati Il Foro It.); infatti gli assegni familiari, sin dall’origine, sono stati caratterizzati dalla funzione assistenziale, per sopperire ai maggiori oneri derivanti 60 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 dai carichi di famiglia di ciascun lavoratore, con erogazione integrativa autonoma, attraverso i fondi della specifica contribuzione, cioè in ottica composita prefigurata dagli artt. 3, 31 e 36 Cost.; la fonte normativa si rinviene ancora nel T.U. delle norme sugli assegni familiari, approvato con il D.P.R. 30/5/1955 n° 797, cui sono state apportate nel tempo integrazioni e modificazioni, tra le quali, quella di cui alla L. 13/5/1988 n° 153 (che ha introdotto il nuovo criterio del riferimento al complessivo nucleo familiare) ed alla L. 27/12/2006 n° 296. Giova peraltro rinviare a RODÀ, Gli assegni familiari dopo la legge sull’affido condiviso, in Fam. Minori di Guida Dir., 2007, fasc. 8, inserto. Sulla natura della prestazione sociale in parola, tra numerose altre, necessario il richiamo di Corte Cost. 3/4/1987 n° 98; ID., 21/7/1988 n° 851; ID., 27/7/1989 n° 458; ID., 2/2/1990 n° 42; ID., 8/6/1992 n° 258; ID., 22/12/1995 n° 516; ID., 20/5/1999 n° 180; tutte rinvenibili nel sito ufficiale www.cortecostituzionale.it; mentre in ordine al complesso percorso di equiparazione della madre lavoratrice al padre, cfr., ex multis, Corte Cost. 30/12/1987 n° 613; ID., 31/3/1988 n° 365; ID., 9/3/1990 n° 116; tutte ancora ivi. Cfr. anche, GATTA, Questioni di costituzionalità della normativa in materia di assegni familiari, in Dir. Lav., 1991, II, 56; e AMENDOLA, Parità uomo-donna e assegni familiari, ivi, 1981, II, 50. Opportuno sottolineare poi, che il diritto alla percezione dell’assegno in favore degli assicurati sorge per la sola sussistenza delle condizioni di legge e la richiesta finalizzata ad ottenerli riveste mera funzione di avvio della procedura, la quale sfocia in un accertamento avente natura dichiarativa; ragione per cui si trasmette agli eredi in quanto già entrato nel patrimonio del de cuius al momento stesso in cui vengono ad esistenza le condizioni di legge (cfr., tra altre, Cass., Sez. Lav., 2/9/2008 n° 22051, in banca dati Il Foro It.); la prescrizione, fissata nel termine di anni cinque, decorre dal primo giorno del mese successivo al momento in cui vengono ad esistenza i requisiti (cfr., Cass., Sez. Lav., 19/10/2007 n° 21960, ivi). Per maggiori ragguagli, v. NODARI, in Codice della famiglia a cura di SESTA, Milano, 2009, III, 4096 ss. Invero, la giurisprudenza di legittimità si è occupata della specifica questione di cui alla pronuncia annotata - nonostante la rilevanza che assume, ancor più evidente nelle congiunture economiche di crisi - in sparute occasioni: i precedenti editi si individuano infatti in Cass., Sez. I, 1°/12/2011, in Giust. Civ., 2013, 737; Cass., Sez I, 2/4/2003 n° 5060, in Giur. It., 2003, 2011, con nota di PETRI, Doppio binario per gli assegni familiari in caso di separazione; e Cass., Sez. Un., 27/11/1989 n° 5135, in Giust. Civ., 1990, I, 973. Ad ogni modo, l’indirizzo è univoco e quindi ben consolidato. La soluzione adottata, che trova nuova conferma, si palesa in sostanza lineare e condivisibile, ma nella giurisprudenza di merito le voci emerse non sono risultate sempre unanimi. GIURISPRUDENZA Infatti, un minoritario indirizzo è giunto all’opposta soluzione, stabilendo che ove il giudice nulla abbia disposto od i coniugi stessi nulla abbiano previsto, l’assegno di contributo al mantenimento della prole, di cui all’art. 155 c.c., deve ritenersi comprensivo degli assegni familiari percepiti dall’onerato, escludendo così la cumulabilità degli importi, sulla duplice considerazione che tali assegni costituiscono una voce della retribuzione dell’onerato e che sono corrisposti proprio per consentirgli di sostenere l’onere per il mantenimento della prole; in tal senso, App. Brescia 19/7/1990, in Giust. Civ., 1990, I, 2156. Tra i precedenti della giurisprudenza di merito invece conformi alla pronuncia annotata, si segnalano, App. Cagliari 14/5/1993, in Rass. Giur. Sarda, 1996, 376, (precedente che peraltro estende il principio alla provvidenza familiare percepita per il coniuge svantaggiato, in dissenso con la seconda massima della pronuncia annotata, come infra); App. Trento 9/2/2001, in Giur. Merito, 2001, 627, con nota di VITIELLO; App. Genova 18/11/2001, in Inform. Prev., 2002, 561; Trib. Bari 1/8/2006, in banca dati Platinum Utet, Trib. Vallo della Lucania 7/3/2007, in Fam. Dir., 2007, 715, con nota di NUNIN, Coniugi legalmente separati e diritto all’assegno per il nucleo familiare; Trib. Cassino 19/6/2007, in banca dati Platinum Utet; Trib. Bari 18/1/2008, in Il Merito, 2008, 7/8, 30; e Trib. Nocera Inferiore 9/10/2013, in www.ilcaso.it.. In dottrina, pur risalente, A. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, I, 1984, 628, afferma come “il coniuge non affidatario che si vede ridurre le proprie entrate della somma corrispondente all’ammontare degli assegni familiari non più percepiti ci sembra che possa autoridurne - senza necessità di ricorrere al giudice - l’assegno di mantenimento dovuto per la prole, attesa la stretta correlazione fra mancata perce- zione degli assegni per i figli e percezione degli stessi da parte dell’altro coniuge”. In quest’ottica gli assegni familiari sono comunque parte della retribuzione del genitore che li percepisce, unicamente in virtù del proprio rapporto di lavoro e quindi, fanno parte del suo “reddito”, preso in considerazione in sede di fissazione del contributo al mantenimento della prole ai sensi dell’art. 155 c.c., cosicché non possono cumularsi con questo. Di contrario avviso, DOGLIOTTI, Separazione divorzio, Torino, 1988, 58, secondo cui “Ove non vi sia alcuna indicazione, l’assegno non dovrebbe essere comprensivo degli assegni familiari, eventualmente percepiti dal genitore non affidatario. Si tratta infatti di somme comunque dovute dal genitore indipendentemente dal provvedimento del giudice, il quale peraltro potrebbe ricomprendere tali somme entro l’assegno liquidato.” Da segnalare come la Suprema Corte di legittimità, anche in sede penale, ha avuto occasione di analizzare la questione, sotto il profilo della ricorrenza o meno del delitto di appropriazione indebita, nella condotta del coniuge che distrae a proprio profitto gli assegni familiari percepiti per i figli minori affidati all’altro coniuge, giungendo alla soluzione affermativa; secondo Cass., sez VI pen., 1/2/1985, Amato, in Giust. Pen., 1985, II, 724, ed in Riv. Pen., 1985, 1112, è infatti integrato tale reato, in quanto il coniuge non ha la gestione autonoma degli assegni familiari e con tale condotta sottrae le somme al vincolo sociale di scopo fissato dal sistema normativo, individuato nell’integrazione alimentare (non constano però altri precedenti editi in punto). In sede divorzile vigono ovviamente gli stessi criteri, in quanto la pronuncia di divorzio non rileva rispetto alla necessità di regolare parimenti l’affidamento dei figli in età minore ed in genere in ordine ai doveri dei genitori verso i figli. Per effetto della recente novella sulla parificazione dello status filiationis, di cui alla L. 10/12/2012 n° 219, il riferimento normativo in materia è da intendersi ad ogni figlio, qualunque sia la sua genitura, sia matrimoniale che non matrimoniale, come indica la nuova terminologia legislativa, mutuando invero anteriore espressione della dottrina (PALAZZO, La Filiazione, in Trattato Dir. Civ. Comm. CICU-MESSINEOMENGONI continuato da SCHLESINGER, Milano, 2007, 239). Giova allora fare cenno, in tema di c.d. famiglia di fatto o comunque di relazioni familiari al di fuori del “modello legale” fondato sul vincolo di coniugio, al buon diritto del lavoratore agli assegni familiari anche per il figlio “non matrimoniale” riconosciuto, siccome provvidenza che non richiede l’inserimento del figlio in seno ad una famiglia legittima; in tal senso, Cass., Sez. Lav., 18/6/2010 n° 14783, in Dir. Fam. Pers., 2011, 126, ed in Fam. Pers. Succ., 2010, 827, con nota di CORSO (la fattispecie ineriva genitore coniuottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 61 GIURISPRUDENZA gato che aveva effettuato il riconoscimento di tre figli nati da altra donna, nelle forme di cui all’art. 254, co. 1, c.c., e senza il ricorrere di separazione personale dalla coniuge); ma già anteriormente, Cass., Sez. Lav., 20/12/2000 n° 15978, in Fam. Dir., 2001, 505, con nota di NUNIN, Sul diritto del genitore agli assegni familiari per i figli naturali riconosciuti non conviventi; nonché Cass., Sez. Lav., 7/4/2000 n° 4419, in Giust. Civ., 2000, I, 2271, con nota di BAGIANTI, Sul diritto del padre naturale a percepire gli assegni familiari per il figlio convivente con la madre naturale, avevano chiarito che per la corretta individuazione dell’avente diritto doveva aversi riguardo al soggetto che abitualmente provvede al mantenimento dei figli, sicché il discrimine non è in tal caso segnato dal ricorrere o meno della convivenza nel quotidiano; invero, la convivenza costituisce elemento di fatto su cui può fondarsi una mera presunzione della “vivenza a carico”. Distinta ovviamente l’ipotesi in cui sussista una statuizione giudiziale inerente l’affidamento della prole non matrimoniale, ad esempio in esito a giudizio ex art. 317bis c.c. In via di principio, quindi, l’assegno per il nucleo familiare, ricorrendo unicamente il vincolo di filiazione, fermo il criterio del divieto di cumulo dello stesso assegno in capo ad entrambi i genitori, spetta al lavoratore, pensionato, od altro avente diritto, in tutte le ipotesi in cui ricorre lo stato di bisogno sotteso alla tutela, siccome provvede abitualmente al mantenimento; d’altro canto, la norma che nel 1988 innovava la previsione sugli assegni familiari, ri62 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 configurandola come assegno per il nucleo familiare complessivamente inteso (al fine di una più accorta tutela sociale - pur ancora limitata in pratica al mondo del lavoro dipendente con altre poche eccezioni, piuttosto che all’universalità dei nuclei familiari - calibrata in considerazione della sommatoria dei redditi e del numero dei soggetti a carico; in sostanza, l’importo dell’assegno varia in base all’ampiezza della famiglia ed al reddito complessivo di questa, secondo il criterio selettivo delle necessità familiari, per cui l’assegno decresce con il miglioramento della condizione economica, pur evincendosi un livello sostanziale di mero riparo dalla povertà), prendendo in considerazione una nozione di nucleo familiare estesa; infatti, ai fini del diritto all’assegno in discussione, sono considerati, oltre al richiedente in condizione di occupazione lavorativa od altra avente diritto, in sunto essenziale, i seguenti soggetti: -il coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato; -i figli minorenni ed equiparati; ai figli legittimi erano sostanzialmente già equiparati i figli oggi definiti “non matrimoniali”, ma anche quelli nati da precedente matrimonio del coniuge (sui quali era già intervenuta ad esempio, Corte Cost. 18/2/1988 n° 181, in www.cortecostituzionale.it, ad eliminare residua discriminazione) ed i minori in affidamento (in merito ai quali peraltro è poi risultato dirimente l’intervento di Corte Cost. 20/5/1999 n° 180, in www.cortecostituzionale.it; cfr. inoltre, quanto alle ipotesi di affidamento al Servizio Sociale, con collocazione abitativa presso il ge- GIURISPRUDENZA nitore, Cass., Sez. Lav., 6/8/2003 n° 11876, in Arch. Civ., 2004, 190); sono inoltre equiparati i nipoti in linea retta, minori e viventi a carico dell’ascendente, ed i nipoti in linea collaterale, se siano minori o maggiorenni inabili purché orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto alla pensione ai superstiti, o qualora siano stati affidati al richiedente; -i figli maggiorenni ed equiparati che siano totalmente inabili al lavoro, o quelli studenti od apprendisti, con peculiare rilevanza dei nuclei con più di tre figli di età inferiore ad anni 26; -i fratelli, le sorelle ed i nipoti (in linea collaterale) in età minore o maggiorenni nelle stesse condizioni appena indicate (cfr. Corte Cost. 2/2/1990 n° 42, cit.). Come si può notare, con questa risalente legislazione anche la famiglia c.d. allargata aveva visto un rilevante riconoscimento. Quanto all’ulteriore e diverso problema dei genitori aventi titolo entrambi a richiedere l’assegno per il nucleo familiare, debbono farsi delle distinzioni: a) ove coniugati, in costanza di armonica vita familiare, essendo la prestazione previdenziale unica (vige il divieto di cumulo in capo ad entrambi genitori), l’individuazione di chi tra i due effettuerà la richiesta di autorizzazione alla corresponsione, sarà riferibile all’accordo tra i coniugi, in conformità al generale dovere di autoregolamentazione concorde ex artt. 143, 144 c.c.; b) sopravvenuta la separazione personale od il divorzio dei coniugi, nell’ipotesi di affido esclusivo dei figli in età minore ovviamente è il genitore affidatario il solo titolare del diritto all’assegno per il nucleo familiare; mentre, nell’ordinaria ipotesi di affidamento in regime condiviso, mancando il medesimo accordo, la percezione della prestazione verrà accordata al genitore co-affidatario con il quale il figlio risulta convivere; in tal senso soccorre peraltro il disposto normativo generale di cui all’art. 9 della L. 9/12/1977 n° 903, che recita: “Nel caso di richiesta di entrambi i genitori gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per i familiari a carico debbono essere corrisposti al genitore con il quale il figlio convive”; c) ricorrendo invece la mera separazione di fatto dei coniugi, condizione che non produce effetti di status e può ricorrere sino a che non viene proposta la domanda di separazione personale o vi sia una ripresa della convivenza, non sussiste pertanto neppure un provvedimento di affidamento dei figli, cosicché non può obiettivamente operare il canone ribadito dalla Suprema Corte con la pronuncia in commento; in difetto di un accordo tra i coniugi risulta allora dirimente il medesimo art. 9, L. n° 903/1977; d) per i figli “non matrimoniali”, sempre in mancanza di una soluzione concordata (od anche non opposta), ovvero di statuizione giudiziale inerente l’affidamento, presentandosi l’esercizio contrastato della pretesa da parte di entrambi i genitori parimenti aventi diritto, la soluzione può rinvenirsi nel c..d. affida- mento ex lege (secondo le previsioni di cui agli artt. 317, co. 1, e 317bis c.c., per i figli nati fuori dal matrimonio) ed ancora nel disposto normativo di cui all’art. 9, L. n° 903/1977; da evidenziare come la legislazione delegata ex art. 2, della L. 10/12/2012 n° 219 (schema di decreto approvato dal Governo in data 12/7/2013, ma non ancora promulgato), non ha inteso apportare nuove indicazioni; eppure, all’odierna equiparazione dei figli, senza eccezioni, razionale risulta far corrispondere la fissazione di un criterio unico per l’individuazione dell’avente diritto a percepire questa provvidenza sociale, in esatta sintonia con il soddisfacimento del bisogno cui è destinata: ed è proprio la relazione di convivenza che impone un’organizzazione domestica ed individua il genitore che è obiettivamente gravato - in sintonia con la propria veste di coobbligato solidale - degli oneri per il vivere nel quotidiano dei figli. Tutt’altra soluzione riguarda invece, l’assegno familiare percepito dal lavoratore od altro avente diritto, per il coniuge: come ribadito dalla pronuncia in commento, qui manca obiettivamente una disposizione in qualche modo analoga a quella di cui all’art. 211 della L. 19/5/1975 n° 151, ragione per cui è indubitabile la titolarità della provvidenza sempre in capo esclusivo al coniuge lavoratore onerato del mantenimento del coniuge separato ai sensi degli artt. 143, 156 o 158 c.c. Questo sistema legislativo del doppio binario, invero incoerente, tanto più oggi che la provvidenza è quantificata in relazione al complessivo nucleo familiare, ha indotto minoritaria giurisprudenza di merito a conclusioni omologhe, sulla base del rilievo sostanziale che identica ne risulta la ratio: secondo App. Cagliari 14/5/1993, cit., con nota di OBINO, Brevi osservazioni in tema di cumulabilità fra assegno di mantenimento e assegni familiari percepiti per il coniuge e per i figli dal coniuge non affidatario, tutte le somme percepite a titolo di “assegni familiari” dal lavoratore coniuge/genitore onerato dei contributi al mantenimento, e cioè sia per la prole che per il coniuge svantaggiato, spettano di diritto a quest’ultimo (in relazione alla prole ovviamente solo ove genitore affidatario o co-affidatario convivente), cumulandosi sempre con gli assegni di contributo al mantenimento cui il primo è obbligato, siccome fissati giudizialmente in sede di separazione personale dei coniugi, salvo che ricorra una diversa regolamentazione, espressa nel provvedimento giudiziale o nelle condizioni consensualmente convenute ed omologate. Si impone ad ogni modo una conclusione: l’eventuale spettanza della provvidenza sociale dell’assegno per il nucleo familiare costituisce comunque una risorsa economica della famiglia, cosicché si palesa imprescindibile che venga presa in considerazione espressa nella determinazione dei contributi perequativi per la prole, come pure del contributo al mantenimento del coniuge svantaggiato. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 63 APPROFONDIMENTI LO STATUS DI FIGLIO AVV. GERMANA BERTOLI COORDINATORE REGIONE PIEMONTE Lo status di figlio è l’insieme dei diritti, doveri, oneri, facoltà e capacità di cui un soggetto è portatore nell’ambito della collettività e che gli derivano a seguito della procreazione. Detta condizione, però, non può che acquisirsi se non in conseguenza di una condotta attiva (o in alternativa di un provvedimento giudiziario) di chi è genitore, attraverso il riconoscimento da cui scaturisce l’atto di nascita (titolarità formale dello status di figlio) o attraverso il possesso di stato che si desume dalla condotta di chi è genitore nei confronti di chi è figlio (titolarità sostanziale dello status di figlio). Sia l’atto di nascita che il possesso di stato sono una prova dello status di figlio seppure abbiano funzione e natura differenti. L’ATTO DI NASCITA La formazione dell’atto di nascita è disciplinata dal D.R.P 3 novembre 2000, n. 396 - Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile. Art. 95 D.P.R. n. 396/2000 Comma 1: «Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento» a) Contenuto dell’atto di nascita L’art 29, comma 2, stabilisce che l’atto di nascita contiene l’indicazione: del luogo, dell’anno, del mese, del giorno e dell’ora della nascita del figlio; delle generalità, della cittadinanza, della residenza dei genitori; del sesso e nome del bambino. b) Dichiarazioni di cui viene corredato l’atto di nascita Al contenuto proprio dell’atto di nascita, per l’attribuzione della natura di atto amministrativo, sono necessarie: la dichiarazione di nascita e l’attestazione di nascita. La dichiarazione di nascita La funzione di tale dichiarazione è quella di rendere nota ai terzi la nascita. Da chi è rilasciata: da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto. Dove e quando va rilasciata: la dichiarazione di nascita può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o nel comune di residenza dei genitori o in alternativa, entro tre giorni presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In questi due ultimi casi, il direttore sanitario dovrà trasmetterla entro tre giorni all’ufficiale di stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza dei genitori. Se i genitori non risiedono nello stesso comune e salvo diverso accordo tra loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. La dichiarazione resa oltre i termini previsti: se la dichiarazione di nascita è fatta oltre dieci giorni dalla nascita, il dichiarante deve indicare le ragioni del ritardo. In tal caso l’ufficiale dello stato civile procede alla formazione tardiva dell’atto di nascita e ne dà segnalazione al procuratore della Repubblica. Nel caso in cui il dichiarante non indichi le ragioni del ritardo o non si rechi dell’ufficiale di stato civile, quest’ultimo ne riferirà al procuratore della Repubblica. In tal caso non potrà più essere ricevuta alcuna dichiarazione, neanche tardiva, e l’atto di nascita potrà essere formato esclusivamente con decreto emesso ai sensi e per gli effetti degli artt. 95 e ss. del D.P.R. n. 396/2000. L’attestazione di nascita L’attestazione di nascita che è il documento che deve corredare la dichiarazione di nascita e che serve ad accertarne la verità. Cosa contiene: le generalità della puerpera, le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, il giorno e l’ora della nascita e il sesso del bambino. Chi la rilascia: il personale sanitario che ha assistito la madre durante il parto. Nel caso in cui la madre non abbia avuto assistenza sanitaria, il soggetto legittimato a rendere la dichiarazione di nascita potrà, in luogo dell’attestazione di nascita, rilasciare una dichiarazione sostitutiva. 64 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI Le annotazioni Le annotazioni sono una serie di fatti o atti susseguenti alla nascita. Di seguito si riportano le principali: - i provvedimenti di adozione; - le comunicazioni relative alla curatela e alla tutela; - le sentenze di interdizione o di inabilitazione e quelle di revoca; - gli atti di matrimonio e le sentenze dalle quali risulta l’esistenza del matrimonio; (vedi schede sul matrimonio civile e sul matrimonio religioso) - le sentenze che pronunciano la nullità, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; - gli atti e i provvedimenti riguardanti l’acquisto, la perdita, la rinuncia o il riacquisto della - cittadinanza italiana; - le sentenze che dichiarano lo stato di figlio - i provvedimenti che determinano il cambiamento o la modifica del nome e del cognome; - gli atti di morte. Funzione dell’atto di nascita: In merito a quale sia la funzione dell’atto di nascita vi sono tre tesi: - Atto di nascita quale prova legale: nel caso di contestazione della qualità di figlio, l’atto di nascita ne è la prova. - Atto di nascita quale elemento costitutivo dello status di figlio: lo status di figlio, insito nei fatti (titolarità sostanziale), preesiste all’atto di nascita che avrebbe esclusivamente la funzione di attribuire efficacia legale a dati di realtà. - Atto di nascita quale atto amministrativo di certificazione: per rendere opponibile a terzi i fatti da cui trarre la filiazione legittima è necessaria la formazione dell’atto di nascita, con assunzione pubblica dello status (titolarità formale). Indubbio che in quest’ultimo caso l’atto di nascita acquisisca anche la natura di atto amministrativo con scopo di certificare i fatti e renderli pubblici. IL POSSESSO DI STATO È il godimento della qualità di figlio anche in mancanza dell’atto di nascita e tale possesso consente di dar prova dello status. (art. 236 c.c.). La mancanza dell’atto di nascita può essere originaria, ossia quando l’atto di nascita non è mai stato formato, oppure successiva quando l’atto di nascita è andato perso o distrutto. Il possesso di stato consegue da una serie di fatti che nel loro complesso vengono a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui l’interessato pretende di appartenere. I requisiti Per avere il possesso di stato di figlio è necessario: - che il genitore abbia trattato la persona come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, alla educazione e al collocamento di essa; - che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; - che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia. I predetti requisiti devono essere tra loro concorrenti in quanto devono sussistere tutti contemporaneamente (la mancanza anche solo di uno di essi non consente di attribuire il possesso di stato), persistenti in quanto debbono presentarsi senza alcuna interruzione ed attuali, ossia presenti al momento in cui si rivendica l’esistenza del possesso di stato. Si badi, però, che seppure si possa dar prova dell’esistenza delle elencate circostanze, tanto da potersi parlare di possesso di stato, quest’ultimo non potrà essere opponibile a terzi senza un titolo che abbia efficacia dichiarativa dello status stesso. Tale fattispecie è infatti una situazione di fatto che necessità di un accertamento/certificazione della propria esistenza ottenibile attraverso una sentenza dichiarativa. Approfondimenti Prima della riforma in tema di filiazione, attuata con la legge 219/2012, tra i fatti costitutivi del possesso di stato, l’art. 237 c.c. indicava anche “che la persona abbia sempre portato il cognome del padre che essa pretende di avere”. Tale requisito è stato eliminato dall’articolo riformato. La ragione deriva dal fatto che prima della modifica legislativa, il possesso di stato era un concetto riferito alla filiazione legittima, inserito come era nel titolo settimo, capo primo, sezione prima del codice civile, riguardante lo “stato di figlio legittimo”. Con l’abolizione della distinzione tra filiazione legittima e filiazione naturale, il legislatore ha correttamente eliminato tutte quelle specificazioni che potevano valere solo per l’una o per l’altra categoria di figli. Con riguardo al cognome, per esempio, è noto che la filiazione extra-matrimoniale può comportare l’assunzione da parte del figlio del cognome materno (riconoscimento preventivo da parte della madre). Inoltre, la riottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 65 APPROFONDIMENTI vendicazione del possesso di stato potrebbe ben riguardare solo la madre (si pensi appunto all’ipotesi in cui, in assenza di legame matrimoniale, non si abbia contezza delle origini paterne). Ha subito, invece una revisione il requisito che nella versione dell’art. 237 c.c. ante riforma prevedeva: “che il padre l’abbia trattata [la persona che rivendica lo status] come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all’educazione e al collocamento di essa”. Dall’articolo in commento, infatti è stato fatto scomparire il riferimento al “padre” introducendo genericamente la figura di genitore. Ovvio è che la modifica è la conseguenza della parificazione tra figli legittimi e naturali che comporta la possibilità che la rivendicazione del possesso di stato sia anche nella direzione materna. Già prima della riforma, però, la visione paternocentrica del problema era contestata da parte della dottrina, la quale sottolineava come fosse necessario che anche la madre legittima dovesse trattare l’interessato come figlio, oltre al fatto che il regime del possesso di stato avrebbe potuto trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la famiglia fosse stata composta solo dalla madre (G.M. UDA, Presunzione di paternità e prove della filiazione legittima, in Trattato di diritto di famiglia, p. 103). “MATER SEMPER CERTA EST”: UN BROCARDO CHE NON VALE NEL NOSTRO ORDINAMENTO GIURIDICO Nel nostro ordinamento giuridico lo stato materno non viene riconosciuto automaticamente in conseguenza della nascita (art. 250 c.c.). Infatti: - nel caso di donna non coniugata viene richiesto l’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.); - nel caso di donna coniugata questa ha il diritto di non essere nominata (art. 30 D.P.R. 396/2000). DIRITTO della MADRE di NON ESSERE NOMINATA L’accertamento della maternità si distingue a seconda che si esplichi all’interno o fuori del matrimonio. Infatti, in caso di Art. 30 D.P.R. 396/2000: «La dichiarazione procreazione al di fuori del matrimonio la maternità verrà di nascita è resa da uno dei genitori, da un formalizzata con un comportamento attivo della donna, atprocuratore speciale, ovvero dal medico o traverso l’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.), mentre in caso dalla ostetrica o da altra persona che ha di procreazione nell’ambito matrimoniale la donna assumerà assistito al parto, rispettando l’eventuale la qualità di madre in maniera automatica, a prescindere da volontà della madre di non essere nomiuna dichiarazione di volontà in tal senso. Ma, vi è la possibilità nata». di impedire la costituzione dello status di madre in caso di procreazione in ambito matrimoniale? Inizialmente tale possibilità pareva che non fosse riconosciuta alla madre coniugata, Art. 250 c.c.: «Il figlio nato fuori del matrisia che avesse concepito un figlio con il marito sia con persona monio può essere riconosciuto nei modi diversa dal marito e ciò in quanto detto diritto avrebbe cozprevisti dall’art. 254 c.c. dal padre e dalla zato con la presunzione di paternità del coniuge. Successivamadre». mente la giurisprudenza è giunta a riconoscere alla donna coniugata il diritto di non essere nominata, ritenendo che la presunzione di paternità non opererebbe automaticamente, ma solo in conseguenza della formazione dell’atto di nascita ove vi sia l’indicazione della madre. Dunque, qualora la donna coniugata decida di non essere nominata, nessun atto di nascita da unione legittima si verrebbe a formare e quindi non verrebbe ad operare la presunzione di paternità. Peraltro, successivamente alla riforma del diritto di famiglia (L. 151/1975) si è fatto un ulteriore passo avanti, giungendo ad attribuire alla donna coniugata il diritto di riconoscere il figlio nato da una relazione extra-coniugale come figlio proprio e non del marito, e ciò grazie all’abrogazione del divieto di riconoscimento dei figli adulterini (art. 252 c.c.). Il fermento dottrinale e giurisprudenziale ha evidenziato l’esigenza di un dettato normativo preciso sul punto, finalmente concretizzatosi nell’art. 30 del D.P.R. 396/2000 che ha introdotto espressamente nel nostro sistema legislativo il diritto della donna coniugata a non essere nominata nell’atto di nascita. I casi Vediamo le differenti casistiche che possono presentarsi: Donna coniugata che abbia concepito un figlio in costanza di matrimonio, ma con persona diversa dal marito. 1) Viene riconosciuto alla donna coniugata il diritto di non essere nominata: in questo caso il padre biologico potrà provvedere al riconoscimento del figlio. 2) Viene riconosciuto alla donna coniugata il diritto di riconoscere il figlio come concepito con persona differente dal marito: in questo caso il marito non verrà individuato come padre e non avrà interesse a dar corso all’azione di disconoscimento di paternità. 66 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI Donna coniugata che abbia concepito un figlio in costanza di matrimonio con il marito. 1) Il figlio acquisisce la qualità di figlio nato in costanza di matrimonio con operatività della presunzione di paternità in favore del marito; 2) Diritto della madre di non essere nominata: in questo caso si sono create due differenti tesi dottrinali: 2) a) la donna coniugata che abbia concepito un figlio con il marito non ha il diritto di non essere nominata. Ciò in quanto si creerebbe una disparità di trattamento tra padre e madre. Infatti, consentendo alla donna coniugata il diritto di non essere nominata nell’atto di nascita del figlio concepito con il marito, si attribuirebbe solo a lei il potere di determinare lo status del figlio e non anche al marito che diverrebbe padre automaticamente con la dichiarazione della maternità della moglie. 2) b) La donna coniugata, al pari della donna non coniugata, ha il diritto di non essere nominata nell’atto di nascita. Tale tesi si basa sul dettato letterale dell’art. 30 D.P.R. 396/2000 nel quale non viene fatta alcuna distinzione, parlandosi di madre a prescindere dallo status di coniugata o meno. 2) b) Questa seconda tesi, a parere di scrive, è quella da condividere, soprattutto alla luce della recente legge 219/2012 che ha eliminato le differenze tra figli legittimi e figli naturali. Non sarebbe, infatti, compatibile con la nuova legge mantenere una distinzione interpretativa nella formazione dello stato materno tra filiazione in ambito matrimoniale e filiazione extra-matrimoniale. Non accettando la possibilità, per la donna coniugata che abbia concepito un figlio con il marito, di non essere nominata, la maternità in costanza di matrimonio verrebbe dichiarata a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà della donna, contrariamente a quanto accade per l’imputazione della maternità al di fuori del matrimonio, laddove è necessario un atto di impulso come il riconoscimento (art. 250 c.c.). Approfondimenti Può la donna che abbia dichiarato di non essere nominata nell’atto di nascita procedere successivamente al riconoscimento? L’art. 30 del D.P.R. n. 396/2000 prevede per la madre il diritto di non essere nominata nell’atto di nascita. Ciò, però, non comporta la rinuncia al riconoscimento, che deve considerarsi un diritto fondamentale. Peraltro, se il legislatore avesse inteso far discendere dal diritto della donna a non essere nominata nell’atto di nascita la rinuncia al riconoscimento ed ulteriormente la sua irrevocabilità, lo avrebbe previsto come ha fatto per il riconoscimento con l’art. 256 c.c. L’unica situazione in cui la donna che abbia esercitato il diritto all’anonimato si ha quando si sia istaurato un procedimento di adottabilità per effetto della preclusione assoluta dell’art. 27 l. 184/1983. Art. 28 legge 183/1984 Comma 4: «Le informazioni concernenti l'identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la potestà dei genitori, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l'informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore». Comma 5: «L'adottato, raggiunta l'età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L'istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza». Comma 8: «Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l'autorizzazione non è richiesta per l'adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili» IL CONTEMPERAMENTO TRA IL DIRITTO DELLA MADRE ALL’ANONIMANTO E IL DIRITTO DEL FIGLIO ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI L’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983 (legge sull’adozione), non consente l’accesso alle informazioni sulle origini quando la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1 del D.P.R. n. 396 del 2000 (decreto sull’ordinamento dello stato civile). Peraltro, tale restrizione è coerente con quanto stabilito dal Codice sulla Privacy il quale all’art. 93, comma 2, stabilisce che: «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi via abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento». Si badi che l’art. 28 della legge 184/1983 ha subito un’importante modifica ai sensi della legge n. 149/2001 nella parte in cui prevedeva addirittura il segreto sull’adozione anche nei rapporti tra figlio adottivo e geniottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 67 APPROFONDIMENTI tori adottivi. Con la riforma del 2001 il legislatore ha ritenuto di dare rilevanza al diritto all’informazione, considerandolo in caso di adozione come un diritto alla personalità, ossia una garanzia per l’equilibrio psicologico dell’adottato. Ciò però non è stato sufficiente per scalfire il diritto della madre a mantenere l’anonimato. Sul punto si è espressa anche la Corte Costituzionale (sentenza 425/2005) privilegiando il diritto della madre all’anonimato, ritenendo che ciò sia necessario per la protezione del diritto alla vita di colui che deve nascere e della salute della donna partoriente che, certa di poter conservare l’anonimato, verrà allontanata dall’idea dell’interruzione di gravidanza e stimolata ad avvalersi di personale sanitario idoneo. Approfondimenti Sin quanto l’adottato sia minore di età, il diritto alle informazioni sulle sue origini biologiche è dei genitori adottivi che dovranno rivolgersi al Tribunale per i minorenni della residenza del figlio. Tale richiesta potrà trovare accoglimento esclusivamente nel caso in cui ricorrano gravi e comprovati motivi e nella misura in cui tale conoscenza sia funzionale allo sviluppo pieno della personalità del minore. Raggiunta la maggiore età, l’adottato potrà rivolgersi direttaArt. 28 legge 184/1983 mente al Tribunale per i minorenni al fine di avere l’autorizcomma 7: «L'accesso alle informazioni non zazione per avere accesso alle informazioni circa le proprie è consentito nei confronti della madre che origini biologiche, ma ciò solo per gravi e comprovati motivi abbia dichiarato alla nascita di non volere attinenti alla sua salute psico-fisica. Raggiunta l’età di ventiessere nominata ai sensi dell'articolo 30, cinque anni, l’adottato potrà accedere alle suddette informacomma 1, del decreto del Presidente della zioni senza motivazione. In ogni caso, il maggiorenne non avrà Repubblica 3 novembre 2000, n. 396». necessità di autorizzazione quando i genitori adottivi siano deceduti o divenuti irreperibili. I casi Una donna, abbandonata alla nascita dalla madre e affidata con provvedimento di affiliazione ad una coppia di coniugi, si rivolge all’ufficiale di stato civile per avere informazioni sulle proprie origini. In tale occasione viene a conoscenza che la madre biologica si era avvalsa del diritto di non essere nominata nell’atto di nascita. Per tale ragione l’interessata si rivolge al Tribunale per i minorenni per ottenere informazioni sulle proprie origini. Il Tribunale per i minorenni respinge la richiesta, ritenendo che in applicazione dell’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983 non sia consentito l’accesso alle informazioni richieste quando la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. N. 396/2000. Tale decisione viene successivamente impugnata, ma confermata dal giudice di secondo grado. L’interessata propone ricorso alla Corte europea sui diritti dell’uomo. Detto organo, con sentenza del 25 settembre del 2012 (causa Godelli vs Italia) ravvisa da parte dell’Italia la violazione dell’art. 8 della Convezione europea sui diritti dell’uomo, posto che sistema giuridico italiano vi è una tutela del diritto all’anonimato della madre incondizionato senza che sia stato fatto alcun tentativo di mantenere un equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti, oltrepassando il margine di discrezionalità che la disciplina europea sul punto attribuisce agli stati membri. Esperienze europee In Francia, nel 2003, è intervenuta una modifica legislativa che ha dato vita ad un organo composto da magistrati, rappresentanti delle associazioni e di professionisti con esperienza nel settore delle adozioni, al quale il figlio adottato può rivolgersi per rimuovere, con l’accordo della madre, il segreto sulle proprie origini. In altre parole la madre che abbia dichiarato al momento del parto di non voler essere nominata, viene chiamata dal detto organo per riconfermare o revocare la propria volontà di mantenere segreta la propria identità, introducendosi così la possibilità della reversibilità del segreto. IL REATO DI ALTERAZIONE DI STATO E DI FALSE DICHIARAZIONI AL PUBBLICO UFFICIALE Il reato di alterazione di stato, di cui all’art. 567 comma 2 c.p. consiste nell’alterazione dello status filiationis (vale a dire lo «spostamento» del naturale rapporto di procreazione) che avviene quando, nella formazione dell’atto di nascita del neonato, s’inserisce un dato non veritiero sull’identità, sulla discendenza, sulla qualità di figlio legittimo o naturale, sul sesso ecc., mediante false certificazioni, false attestazioni o altre fal68 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Alterazione di stato Art. 567, comma 2: «Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità». APPROFONDIMENTI sità. La qualità di figlio, infatti, compete non già per un atto di autonomia privata del genitore, il quale non può disporre dello stato familiare del bambino, ma in quanto ricorra nella realtà il rapporto naturale di discendenza. Per la integrazione del delitto, inoltre, è sufficiente il dolo generico, cioè la contemporanea presenza in chi lo commette della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla e della previsione dell’evento di attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello spettantegli secondo natura. La falsità può concernere sia le dichiarazioni fatte ai medici o alle ostetriche nell’esercizio del particolare potere certificante loro riconosciuto, sia le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile dal padre, dalla madre o dalla persona che ha assistito al parto. È invece esclusa l’alterazione di stato nel caso del figlio di donna coniugata che viene denunciato come figlio di ignoti oppure di donna che non intende essere nominata. I casi - Tizio coniugato con Caia, dichiara falsamente - in sede di formazione dell’atto di nascita - la sua paternità naturale del piccolo Mevio, quale frutto di una relazione extraconiugale con una non meglio identificata donna che al momento del parto avrebbe dichiarato di volersi avvalere del Falsa attestazione o dichiarazione a un diritto di non essere nominata. In questo caso si è ritenuto inpubblico ufficiale sulla identità o su qualità tegrato il reato di alterazione di stato commesso dal marito personali proprie o di altri. in concorso con la moglie che avrebbe poi chiesto l’adozione del neonato medesimo, ai sensi dell’art. 44 lett. b), della legge Art. 495 c.p.: «Chiunque dichiara o attesta n. 184 del 1983 (Cass. pen., Sez. VI, 12/02/2003). falsamente al pubblico ufficiale [c.p. 357] - Mevia coniugata con Sempronio dichiara all’ufficiale dello l'identità, lo stato o altre qualità della prostato civile che il figlio è del marito dal quale viveva sepapria o dell'altrui persona è punito con la rata e con il quale aveva in corso giudizio rotale di annullareclusione da uno a sei anni[c.p. 29]. mento del matrimonio, pur sapendo che il bambino era La reclusione non è inferiore a due anni: prole di altra persona. In tale condotta è stato ravvisato il 1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello reato di alterazione di stato (Cass. pen., Sez. VI, 03/11/1989, stato civile. n. 15039). - Caio procede al riconoscimento, con atto distinto da quello di [omissis] nascita, del figlio naturale della moglie pur essendo consapevole della paternità di un terzo. In questo caso il reato che si ravvisa non è quello di alterazione di stato ma di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale sulla qualità personali di altri, reato di cui all’art. dell’art. 495, comma 3, c.p.. Approfondimenti Al fine di evitare che il diritto della madre di non essere nominata nell’atto di nascita possa essere utilizzato come espediente per eludere le norme in materia di adozione con il riconoscimento da parte di chi si dichiari padre seppur coniugato con altra donna (che potrebbe procedere successivamente alla richiesta di adozione del figlio del coniuge) la legge 183/1984 al suo art. 74 comma 1 prevede che in caso di riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore, gli ufficiali di stato civile trasmettano immediata comunicazione di tale riconoscimento al competente tribunale per i minorenni. Il tribunale dei minorenni provvederà ad effettuare i necessari accertamenti per verificarne la veridicità previa nomina di un curatore speciale del minore. Quest’ultimo, nel caso in cui si dovesse accertare la non corrispondenza a verità della paternità dichiarata nell’atto di nascita, potrà avanzare, nell’interesse del minore un’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. AZIONE DI CONTESTAZIONE DELLO STATO DI FIGLIO Prima della legge 219/2012 l’azione di contestazione doveva intendersi riferita esclusivamente alla filiazione legittima, ove l’art. 248 c.c. rubricato come “Legittimazione all’azione di contestazione della legittimità. Imprescrittibilità” prevedeva che: “l’azione per contestare la legittimità spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile. Quando l’azione è proposta nei confronti di persone premorte o minori o altrimenti incapaci si osservano le disposizioni dell’articolo precedente1. Nel giudizio devono essere chiamati entrambi i genitori”. Il decreto legislativo attuativo della legge 219/2012 ha titolato l’art. 248 c.c. “Legittimazione dell’azione di contestazione dello stato di figlio. Imprescrittibilità”, eliminando il riferimento alla legittimità ed introducendo un’azione di stato che pare riguardare sia i figli nati all’interno del matrimonio 1 L’art. 245 c.c. prevede la sospensione della decorrenza del termine sino a quando dura lo stato di incapacità. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 69 APPROFONDIMENTI che al di fuori di esso. Si utilizza il condizionale, però, in quanto il corpo della norma non è stato modificato, posto che continua a parlarsi di “azione per contestare la legittimità” con un’evidente disarmonia tra contenuti e titolo. Va evidenziato primariamente come l’azione di contestazione dello stato di figlio possa essere esercitata in tutti i casi in cui venga posto in dubbio uno degli elementi che danno luogo alla filiazione (ad esempio nel caso in cui il figlio non sia stato partorito dalla donna indicata come madre nell’atto di nascita o nel caso di supposizione di parto), ad esclusione, però, della contestazione di paternità. Infatti, in quest’ultimo caso è prevista un’apposita azione di stato detta “azione di disconoscimento di paternità” prevista dall’art. 243 bis c.c. dalla legge delega e disciplinata precedentemente alla riforma dall’art. 244 c.c. e di cui si tratterà nel capitolo a seguire. Soggetti legittimati ad esperire l’azione: chi dall’atto di nascita risulti genitore e da chiunque vi abbia interesse. L’interesse (che si badi deve essere dimostrato solo da chi non sia genitore) può essere di natura patrimoniale (ad esempio può avere interesse alla contestazione di figlio un coerede) o di tipo morale (la volontà di individuare con correttezza la composizione familiare). L’azione è imprescrittibile. Competente è il Tribunale ordinario che, nel caso in cui il figlio sia minore, provvede alla nomina di un curatore speciale. La sentenza verrà annotata in calce all’atto di nascita. AZIONE DI RETTIFICAZIONE Si tratta di un’azione volta a modificare un atto esistente nei registri di stato civile o ad inserire un atto che sia stato omesso o a rinnovare un atto smarrito o distrutto (art. 454 c.c.). In altre parole ha come scopo quello di porre rimedio ad un errore materiale o ad un situazione di fatto. Differisce rispetto all’azione di contestazione dello stato in quanto in quest’ultimo caso l’azione è volta a determinare un effetto reale. AZIONE DI RECLAMO DELLO STATO DI FIGLIO Speculare all’azione di contestazione dello stato di figlio è l’azione di reclamo dello stato di figlio che ha come obiettivo quello di costituire lo status filiationis. Tale rimedio è disciplinato dall’art. 249 c.c. anch’esso oggetto del decreto legislativo attuativo dei contenuti della legge 219/2012. Prima della legge di riforma detto articolo era rubricato “Reclamo della legittimità”. Il decreto attuativo prevede una titolazione che elimina la distinzione tra filiazione legittima e naturale indicando “Legittimazione all’azione di reclamo dello stato di figlio. Imprescrittibilità”. Tale azione viene esercitata quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato. Legittimazione attiva: l’azione spetta al figlio. Nel caso di figlio minore, l’azione può essere esercitata da un curatore speciale nominato dal Giudice tutelare ai sensi dell’art. 78 c.p.c. seppure vi sia chi ritenga che l’azione possa essere esercitata dal genitore del minore e che il curatore speciale, in caso di accertato conflitto di interessi, debba essere nominato dal giudice innanzi al quale l’azione è esercitata. Nel caso in cui il figlio sia morto in minore età o nei cinque anni successivi alla maggiore età, l’azione spetta ai suoi eredi. La limitazione dei cinque anni pone in evidenza come il legislatore abbia voluto limitare l’iniziativa degli eredi esclusivamente all’ipotesi in cui si possa presumere che il mancato esercizio dell’azione da parte del figlio sia stata esclusivamente la conseguenza di un’impossibilità di maturare consapevolmente la decisione, impedendone l’esercizio da parte di terzi che sia in contrasto con la sua volontà. Legittimazione passiva: legittimati passivi sono i genitori che debbono essere entrambi chiamati ed in loro mancanza gli eredi. Prova: il decreto legislativo attuativo della L. 219/2012 prevede che la prova della filiazione possa essere data con ogni mezzo, modificando l’art. 241 c.c. e abrogando gli artt. 242 e 243 c.c. che prevedevano la prova per testimoni e la prova scritta. 70 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI LA SUCCESSIONE DEI FIGLI NATI FUORI DAL MATRIMONIO DOPO LA LEGGE 219/2012 ANTONELLA MOLICA e BIANCA SANTORO AVVOCATI DEL FORO DI MESSINA 1. Premessa. La nuova formulazione dell’art. 315 c.c.: dalla pluralità all’unicità dello status filiationis. Con la legge delega n. 219/2012, “Disposizioni sul riconoscimento dei figli naturali”, il Parlamento ha finalmente portato a compimento un lungo e travagliato iter che ha avuto inizio ancor prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 e che ha rappresentato una operazione in primo luogo culturale piuttosto che giuridica, attraverso la proclamazione, nel nuovo testo dell’art. 315 c.c., della unicità dello status filiationis. La riforma ha avuto il pregio di intervenire opportunamente in un momento storico di grande complessità del tessuto familiare, in cui al modello fondato sul matrimonio si affiancano altri e sempre più numerosi modelli di famiglie ricomposte o fondate sulla convivenza anche fra persone dello stesso sesso, ed in cui la stessa nozione di filiazione si è ampliata, vedendo affiancarsi a quella biologica ed adottiva, quella artificiale. Appare evidente, dunque, che il valore aggiunto di tale intervento riformatore è stato quello di dare piena e concreta attuazione al principio di uguaglianza nell’ambito del rapporto familiare, in linea con i principi fondamentali sanciti dagli artt. 2, 3 e 30 della Carta costituzionale, disancorando una volta per tutte lo status filiationis dallo status familiae, senza tuttavia causare un “appiattimento indifferenziato di tutte le forme di comunità familiare nel modello della famiglia fondata sul matrimonio1” e, tantomeno, senza costituire una “minaccia” alla famiglia “tradizionale”2. Sganciando l’attribuzione dei diritti dei figli da ogni profilo inerente l’ambito familiare di appartenenza, è stato altresì evitato il rischio che si potesse confondere il problema della tutela dei diritti dei figli con quello del riconoscimento delle unioni parafamiliari diverse dal modello della famiglia fondata sul matrimonio. Sancendo, infatti, che “tutti i figli hanno lo stesso status giuridico” e, dunque, cancellando dal linguaggio normativo quella che è stata definita la “terminologia della diversità”3, è stato tolto agli stati il loro significato di “condizione sociale” dell’individuo, esaltandone, invece, la condizione di “persona umana”4, e ciò in quanto “la famiglia si pone in funzione della persona”5. Come è stato brillantemente osservato da autorevole dottrina, la novella ha rappresentato una “risposta etica all’ingiustizia dei rapporti familiari”6: mediante il riconoscimento della parità dei figli, l’ordinamento ha finalmente attribuito loro, quali esseri umani, parità di diritti e doveri, sin dalla nascita ed a prescindere dalla condizione della famiglia d’origine o dei genitori. Grazie alla spinta della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e del Giudice delle leggi7 nonché in forza della necessità di adeguare la normativa nazionale al contesto europeo - all’interno del quale la Corte europea di Strasburgo aveva già da lungo tempo raggiunto la conquista della unicità dello status di figlio anche in ordine alla equiparazione dei diritti successori dei figli naturali8 e ciò alla luce degli artt. 8 (posto a tutela della vita privata e familiare) e 14 (che sancisce il divieto di qualsiasi discriminazione) della CEDU - ed internazionale - in attuazione della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dell’art. 21 della Carta di Nizza (che vieta ogni forma di discriminazione fondata sulla nascita) -, il legislatore ha radicalmente mutato la prospettiva inerente la condizione del figlio, eliminando ogni aspetto discriminatorio lesivo della sua dignità e fonte di grande ingiustizia, ritenuto che andava a colpire la persona per un fatto a cui la stessa era estranea, imputandogli una colpa connessa ad eventi anteriori alla sua nascita. La Legge delega 219/2012 riconoscendo piena tutela alla filiazione nata fuori dal matrimonio ha, quindi, contribuito a realizzare un passo, ormai dovuto, di grande civiltà giuridica9. 2. Assetti delegati, disposizioni transitorie ed entrata in vigore delle nuove norme. Venendo, dunque, a trattare dell’ambito di operatività concreta delle innovazioni introdotte sotto il profilo sostanziale, occorre precisare che è stato demandato al Governo il compito di revisionare le disposizioni vigenti in materia di filiazione in modo da adeguarle al mutato panorama normativo e da eliminare ogni residua discriminazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio, compito che andrà portato a termine entro la data del 1 gennaio 2014. Fra gli assetti delegati vi è quello relativo alla disciplina delle successioni e delle donazioni, il cui adeguamento al principio di unicità dello status di figlio dovrà avere effetti anche sulle azioni e sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, e ciò anche nell’ipotesi in cui parte di tali giudizi sia un discendente del figlio nato fuori del matrimonio che voglia fare valere i diritti successori del de cuius nei confronti dei parenti del defunto, rispetto ai quali, anteriormente alla modifica dell’art. 74 c.c., non era riconosciuto alcun vincolo di parentela. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 71 APPROFONDIMENTI Orbene, proprio avendo riguardo ai rapporti successori, differenti e contrapposti orientamenti interpretativi potrebbero venire a crearsi in merito alla immediata vigenza o meno delle modifiche introdotte dalla novella del 2012. Invero, atteso che l’art. 2, I c., lett. l) della legge 219 delega al Governo “l’adeguamento della disciplina delle successioni”, si potrebbe argomentare che le modifiche alla successione non siano ancora vigenti, non discendendo in via diretta dal nuovo testo dell’art. 74 c.c., ma che lo diventeranno una volta emanati i decreti delegati. È chiaro che si tratta di una visione un po’ forzata che difficilmente potrà incontrare il favore della dottrina ed ancor meno quello della giurisprudenza, e ciò in considerazione del fatto che l’art. 74 c.c. deve intendersi norma immediatamente vigente, con tutte le conseguenze del caso, fra cui, in primis, l’abrogazione implicita o virtuale di ciascuna norma basata sulla distinzione tra parenti legittimi e naturali. Di gran lunga più condivisibile appare, invece, una visione che, nella prospettiva della raggiunta e proclamata unicità dello status filiationis, reputi ormai superate le passate discriminazioni fondate sui concetti di filiazione e parentela naturali, individuando nella delega uno strumento fondamentale atto a sanare le discrepanze tra nuove e vecchie successioni, avuto riguardo ai giudizi pendenti, e ciò allo scopo di evitare l’insorgere di profili di incostituzionalità10. 3. Effetti sulla successione dei figli: come cambiano le norme. Per esaminare gli effetti che le modifiche normative hanno ed avranno sulla successione dei figli nati fuori dal matrimonio (e, di riflesso, per i figli nati nel matrimonio, che “perdono” quella posizione di privilegio non più giustificabile e non più coperta dall’interpretazione delle norme costituzionali), è doveroso partire dal nuovo art. 315 c.c., il cui testo precedente è stato ampliato ed affidato al successivo art. 315 bis c.c. Art. 315 Stato giuridico della filiazione I. Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.(1) (1) Articolo sostituito dall’art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 con effetto dal 1 gennaio 2013. L’articolo sostituito così disponeva: “Art. 315 (Doveri del figlio verso i genitori) I. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.” Questo “super-principio” è stato seguito nella redazione dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12.07.2013, in sede di esame preliminare. In attuazione della delega contenuta nella legge 219/2012 si modificano, nel senso specificato, anche le norme in materia di successione e donazione, dando così attuazione all’art. 2, comma primo, lettera l) della medesima legge. La riforma, che arriva nel nostro paese nel 2012 (e dispiega i sui effetti dall’inizio del 2013), si conforma, tra l’altro, alla nozione di filiazione via via formatasi in Europa. Interessante è il riferimento allo sganciamento dello status di figlio dalla condizione dei genitori espressamente previsto anche nel progetto di raccomandazione del Consiglio d’Europa del 201211. Nell’Explanatory Memorandum posto in appendice al Draft Recommendation si precisa, infatti, che il detto sganciamento evita che l’attribuzione di determinati diritti ai figli sia strettamente connessa al previo riconoscimento delle varie unioni parafamiliari diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio, come, tra le altre, le tanto discusse unioni tra persone dello stesso sesso12. Prima di passare all’esame di alcune delle norme portatrici delle modifiche in materia di successione dei figli naturali, è necessario precisare che gli artt. 536, 538, 544, 565, 573, 580, 581, 582, 583, 594, 737 e 804 sono stati solo oggetto dell’adeguamento linguistico imposto dall’art. 2, lett. a) della legge 219/2012 («a) sostituzione, in tutta la legislazione vigente, dei riferimenti ai «figli legittimi» e ai «figli naturali» con riferimenti ai «figli», salvo l’utilizzo delle denominazioni di «figli nati nel matrimonio» o di «figli nati fuori del matrimonio» quando si tratta di disposizioni a essi specificamente relative»). A rigore, però, già l’ultimo comma dell’art. 1 della legge 219/2012 ha disposto che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli», con effetto dal 1 gennaio 2013. Pertanto, già da tale data le norme in parola risultavano modificate per adeguamento al principio dell’unicità dello status filiationis (art. 315 c.c.). Gli artt. 578 (Successione dei genitori al figlio naturale) e 579 (Concorso del coniuge e dei genitori sempre di figlio naturale) c.c. vengono espressamente abrogati dall’art. 106 dello schema di decreto legislativo. A ben vedere, anche le dette norme potrebbero considerarsi implicitamente abrogate a partire dal giorno 1 gennaio 2013, vista la parificazione della posizione dei figli nati fuori dal matrimonio a quella dei figli nati nel matrimonio. 72 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI Anche la norma contenuta nell’art. 577 c.c. (Successione del figlio naturale all’ascendente legittimo immediato del suo genitore) dovrebbe essere aggiunta all’elenco delle abrogazioni di cui al citato art. 106 dello schema di decreto legislativo, ma tale articolo del codice civile, al momento, non è oggetto di alcuna modifica espressa. L’art. 715 c.c., infine, viene modificato semplicemente sostituendo alle parole «sulla legittimità o sulla filiazione naturale» le parole «sulla filiazione». Le norme esaminate a seguire, invece, sono state oggetto di interventi più significativi di adeguamento al principio dell’unicità dello stato di figlio ed alle novità introdotte dalla legge 219/2012, sempre stando al testo dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12.07.2013 ed ora, dopo il recente parere favorevole delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato, rientrato al Consiglio dei Ministri per l’approvazione definitiva e quindi, de iure condendo. Per semplicità espositiva, si segue l’ordine numerico progressivo che gli articoli modificati hanno nel codice civile. Art. 448-bis Cessazione per decadenza dell'avente diritto dalla potestà sui figli I. Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale èstata pronunciata la decadenza dalla potestà e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'articolo 463, possono escluderlo dalla successione. Art. 448-bis Cessazione per decadenza dell'avente diritto dalla responsabilità genitoriale sui figli I. Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'articolo 463, possono escluderlo dalla successione. (1) Articolo introdotto dall'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 con effetto dal 1 gennaio 2013. La norma introdotta dalla legge 219/2012 e ritoccata dallo schema di decreto legislativo indicato, sebbene non sia inserita nel libro II, dedicato alle successioni, merita un breve cenno per due ragioni. La prima è la previsione della dispensa dall’obbligo di prestazione degli alimenti al genitore decaduto dalla potestà e della possibilità di esclusione dalla successione per i fatti che non integrino i casi di indegnità previsti dall’art. 463 c.c, posto che gli ascendenti, se in vita, sono eredi legittimari. La decadenza dalla potestà segue come sanzione all’inaffidabilità del genitore ed alla sua incapacità a curare gli interessi del figlio, nelle ipotesi di grave inadempimento ai doveri (o, meglio, alle responsabilità) genitoriali, con conseguente grave danno per il figlio. Con la novella si pone rimedio ad una lacuna dell’ordinamento, che nulla disponeva in proposito. La seconda ragione è la sostituzione del termine «potestà» con il termine «responsabilità genitoriale», in linea con l’attenzione data alla disciplina unitaria della responsabilità genitoriale. Art. 480 Prescrizione I. Il diritto di accettare l'eredità si prescrive in dieci anni. II. Il termine decorre dal giorno dell'apertura della successione e, in caso d'istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione. III. Il termine non corre per i chiamati ulteriori, se vi è stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario è venuto meno. Art. 480 Prescrizione I. Il diritto di accettare l'eredità si prescrive in dieci anni. II. Il termine decorre dal giorno dell'apertura della successione e, in caso d'istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione. In caso di accertamento giudiziale della filiazione il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa. III. Il termine non corre per i chiamati ulteriori, se vi è stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario è venuto meno. ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 73 APPROFONDIMENTI L’art. 480 c.c. è oggetto di modifica da parte del richiamato schema di decreto legislativo, il quale, con l’art. 69 inserisce un ulteriore periodo al secondo comma ed esattamente dopo la parola “condizione” è aggiunto quanto segue: “In caso di accertamento giudiziale della filiazione il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa”. La modifica era stata già suggerita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 191/1983. In merito, nella relazione illustrativa allo schema di decreto si legge13: «È sembrato utile ed opportuna l’introduzione di tale precisazione ancorché la Corte Costituzionale si sia espressa sul punto in termini del tutto chiari. Con la pronuncia n. 191 del 1983, infatti, dopo aver escluso che tra gli “ulteriori chiamati” di cui al terzo comma dell’art. 480 c.c. possano essere compresi anche i figli che ottengono la dichiarazione giudiziale di paternità posteriormente all’apertura della successione (…), La Corte giustifica la declaratoria di non fondatezza della sollevata questione argomentando che deve (semplicemente) farsi ricorso all’applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c.», a mente del quale la prescrizione comincia a decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Nel caso di specie, tale giorno è quello del passaggio in giudicato della sentenza che accerti la filiazione. Appare (ed appariva) evidente, infatti, che, sino al momento in cui si forma il giudicato in ordine alla domanda di accertamento della paternità o della maternità, non sorge lo status di figlio e, quindi, difetta il presupposto per l’esercizio delle azioni che a tale status si riconnettono. Ad ogni buon conto, nonostante il principio desumibile dalla sentenza n. 191/1983 sia stato ampiamente recepito dalla giurisprudenza di legittimità, l’occasione offerta dalla legge 219/2012 è stata colta per interpolare il periodo esaminato e conferire alla norma maggiore chiarezza e completezza. In proposito, si riporta qualche riferimento giurisprudenziale14, già espressione di un orientamento consolidato. Chiara e sintetica la massima tratta da Cass. Civ., Sez. II, 5 settembre 2012 n. 14917: «La prescrizione del diritto all’eredità del figlio naturale parte dalla data della dichiarazione giudiziale, se successiva alla successione, e non già da quest’ultima perché il figlio naturale versa nell’impossibilità giuridica e non di mero fatto di accettare l’eredità del genitore fino a quando tale dichiarazione sia pronunciata». In precedenza, un’altra pronuncia della medesima Sezione II della Suprema Corte ed esattamente la n. 2424/2011 (con riferimento all’opposta usucapione dei beni ereditari) aveva chiarito: «Con riferimento a una successione ab intestato apertasi prima dell’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, in capo a quanti erano stati chiamati all’eredità quali eredi legittimi non è configurabile un possesso ad usucapionem, da far valere nei confronti di coloro che, avendo successivamente ottenuto lo status di figli naturali del de cuius, agiscano in petizione di eredità, se non dal momento (…) in cui questi ultimi potevano in concreto compiere atti interruttivi della situazione possessoria»15. Riportando, poi, un altro stralcio tratto da Cass. Civ., Sez. II. n. 2923/1990, si può verificare come l’orientamento giurisprudenziale fosse consolidato da tempo nel senso illustrato, ottenendo i risultati voluti dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 in forza dell’applicazione dei principi basilari del diritto: «Il conseguimento dello status di figlio naturale, con dichiarazione giudiziale di paternità ottenuta dopo la data di entrata in vigore della nuova disciplina di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151 e in forza dell’operatività della disciplina stessa anche per i figli nati o concepiti anteriormente, comporta il diritto di partecipare alla successione del genitore naturale in precedenza apertasi (…) atteso che detta dichiarazione ha effetti retroattivi, senza alcuna limitazione rispetto alle posizioni successorie». Una considerazione conclusiva può essere affidata alla precisazione fatta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 23596/2006. Negli obiter dicta della pronuncia indicata si legge: «Tale azione (azione nei confronti dell’altro genitore per ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita) non è tuttavia utilmente esercitabile se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso». La Suprema Corte sottolinea che - pur avendo la sentenza di accertamento della filiazione effetto retroattivo e natura dichiarativa di uno status, che attribuisce al figlio nato fuori dal matrimonio tutti i diritti ad esso connessi, sin dalla nascita - è solo a seguito del passaggio in giudicato della detta sentenza (come a seguito del riconoscimento volontario) che i medesimi diritti possono essere utilmente esercitati. La sentenza di accertamento de qua, pertanto, sotto il profilo dell’attribuzione dei diritti connessi allo status filiationis, potrebbe essere qualificata come costitutiva, poiché in assenza di essa non può esserci utile esercizio dei diritti di figlio, nonostante il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita16. 74 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI Art. 537 Riserva a favore dei figli [legittimi](1) e [naturali](1) I. Salvo quanto disposto dall'articolo 542, se il genitore lascia un figlio solo, legittimo o naturale, a questi è riservata la metà del patrimonio. II. Se i figli sono più, è loro riservata la quota dei due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i figli, [legittimi](1) e [naturali](1). III. I figli [legittimi](1) possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli [naturali](1) che non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali. Art. 537 Riserva a favore dei figli I. Salvo quanto disposto dall'articolo 542, se il genitore lascia un figlio solo a questi è riservata la metà del patrimonio. II. II. Se i figli sono più, è loro riservata la quota dei due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i figli. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». L’articolo in parola è ricompreso nelle disposizioni sulla c.d. successione necessaria, ossia quell’insieme di regole che stabiliscono quali quote del patrimonio debbano necessariamente andare a determinati successori, in presenza o meno del testamento. In particolare, i primi due commi dell’art. 537 c.c. fissano la misura della riserva a favore dei figli con un sistema di mobilità della quota in relazione al numero di figli (uno o più). Il terzo comma dell’art. 537 c.c., attribuisce ai figli legittimi (rectius ai figli nati nel matrimonio) il diritto di commutazione, ossia la possibilità di soddisfare in danaro o beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali (rectius ai figli nati fuori dal matrimonio), salva opposizione di questi ultimi, sulla quale decide il Giudice valutando le circostanze personali e patrimoniali, espressione generica di volta in volta affidata al prudente apprezzamento dello stesso Giudice. Il diritto di commutazione, pertanto, poiché assegna al figlio legittimo una posizione privilegiata rispetto a quella del figlio naturale, è l’oggetto di una disposizione normativa implicitamente abrogata dalla data di entrata in vigore della legge 219/2012. La norma era stata introdotta nel 1975 dalla legge di riforma del diritto di famiglia, abrogando la vecchia disposizione dell’art. 574 c.c., in forza della quale i figli legittimi avevano il diritto potestativo di sciogliere la comunione ereditaria con i figli naturali, commutando la quota di questi ultimi in una somma di denaro o in beni immobili ereditari, senza che fosse prevista alcuna facoltà di opposizione da parte dei figli naturali e la conseguente valutazione giudiziale delle circostanze del caso concreto17. Lo schema di decreto legislativo citato, all’art. 71, provvede «all’allineamento linguistico» del testo dei primi due commi ed all’abrogazione del comma terzo dell’art. 537 c.c. La relazione illustrativa aggiunge: «La disposizione - portatrice di un evidente disfavore nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, visti quasi come coloro che intaccano l’integrità della famiglia fondata sul matrimonio, unica meritevole di tutela piena - non ha più ragione di esistere, dopo che la legge delega ha affermato nel novellato art. 315 c.c. che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. L’abrogazione dell’istituto della commutazione, di cui al terzo comma, pertanto, è conseguenza logica e necessaria per la realizzazione, sotto tutti i profili, della completa parificazione» del trattamento dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori dal matrimonio. Vale la pena ricordare che, qualche anno fa, la Corte Costituzionale con la sentenza N. 335/2009 aveva diversamente affermato: «Non è fondata, in riferimento agli art. 3 e 30 comma 3 cost., la q.l.c., dell’art. 537 comma 3 c.c. La scelta del legislatore di conservare in capo ai figli legittimi la possibilità di richiedere la commutazione, condizionata dalla previsione della facoltà di opposizione da parte del figlio naturale e dalla valutazione delle specifiche circostanze posta a base della decisione del giudice, non contraddice l’aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi (quale opzione costituzionalmente non obbligata né vietata) come termine di bilanciamento dei diritti del figlio naturale in rapporto con i figli membri della famiglia legittima. L’espresso riferimento dell’art. 30 cost. al criterio di “compatibilità” assume la funzione di autentica clausola generale, aperta al divenire della società e del costume. In questa prospettiva al giudice - cui viene in definitiva demandato il riscontro della sussistenza o meno di quella che sostanzialmente può definirsi come “giusta causa” dell’opposizione del figlio naturale alla richiesta di commutazione avanzata dai figli legittimi, da valutarsi in base alle ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 75 APPROFONDIMENTI specifiche circostanze sia personali (attinenti ai pregressi rapporti tra i figli), sia patrimoniali (riguardanti la situazione dei beni lasciati in eredità, in considerazione della loro migliore conservazione e gestione, nonché del rapporto che lega l’erede al bene) - è attribuito il ruolo di garante della parità di trattamento nella diversità, attraverso il continuo adeguamento della concreta applicazione della norma ai principi costituzionali». Eliminato l’ultimo baluardo della differenziazione di trattamento, il fondamento della disciplina della successione di tutti i figli diventa, oggi, esclusivamente «la responsabilità della procreazione18». Art. 542 Concorso di coniuge e figli I. Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, [legittimo] o [naturale], a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge. II. Quando i figli, [legittimi](1) o [naturali](1), sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto. La divisione tra tutti i figli, [legittimi](1) e [naturali](1), è effettuata in parti uguali. III. Si applica il terzo comma dell'articolo 537. Art. 542 Concorso di coniuge e figli I. Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge. II. Quando i figli sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto. La divisione tra tutti i figli è effettuata in parti uguali. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». Art. 566 Successione dei figli [legittimi](1) e [naturali](1) I. Al padre ed alla madre succedono i figli [legittimi](1) e [naturali](1), in parti uguali. II. Si applica il terzo comma dell'articolo 537. Art. 566 Successione dei figli I. Al padre ed alla madre succedono i figli in parti uguali. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». Gli artt. 542 e 566 c.c. vengono snelliti con l’eliminazione, nel primo e nel secondo comma dell’art. 542 c.c. come nella rubrica e nel primo comma dell’art. 566 c.c., degli aggettivi che erano l’indice della pluralità degli status di figlio, ossia le parole «legittimi» e «naturali», e con l’abrogazione rispettivamente del terzo comma e del secondo comma dei detti articoli, come inevitabile conseguenza dell’abrogazione dell’art. 537, terzo comma c.c., dagli stessi articoli richiamato. Art. 567 Successione dei figli legittimati e adottivi I. Ai figli [legittimi](1) sono equiparati i legittimati e gli adottivi. II. I figli adottivi sono estranei alla successione dei parenti dell'adottante. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». 76 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 Art. 567 Successione dei figli adottivi I. Ai figli sono equiparati gli adottivi. II. I figli adottivi sono estranei alla successione dei parenti dell'adottante. APPROFONDIMENTI L’art. 67 dello schema di decreto legislativo modifica l’art. 567 c.c. e la relazione illustrativa mette in evidenza che, venuta meno anche la categoria dei legittimati, la categoria degli adottivi ricomprende esclusivamente gli adottati maggiori d’età ed i minori adottati ai sensi dell’art. 44 della legge 184/1983, alla quale il Legislatore ha voluto attribuire un diritto successorio che, altrimenti, gli stessi non avrebbero avuto19. Non potrebbe trattarsi dell’«adozione piena», nel qual caso l’equiparazione degli adottati ai figli nati nel matrimonio è già stata sancita dall’art. 27, comma primo, della legge 184/1983. Art. 643 Amministrazione in caso di eredi nascituri I. Le disposizioni dei due precedenti articoli si applicano anche nel caso in cui sia chiamato a succedere un non concepito, figlio di una determinata persona vivente. A questa spetta la rappresentanza del nascituro, per la tutela dei suoi diritti successori, anche quando l'amministratore dell'eredità è una persona diversa. II. Se è chiamato un concepito, l'amministrazione spetta al padre e, in mancanza di questo, alla madre. Art. 643 Amministrazione in caso di eredi nascituri I. Le disposizioni dei due precedenti articoli si applicano anche nel caso in cui sia chiamato a succedere un non concepito, figlio di una determinata persona vivente. A questa spetta la rappresentanza del nascituro, per la tutela dei suoi diritti successori, anche quando l'amministratore dell'eredità è una persona diversa. II. Se è chiamato un concepito, l'amministrazione spetta al padre e alla madre. L’art. 643 c.c. viene modificato dall’art. 84 dello schema di decreto, per dare atto della superata concezione della “patria potestà”, sostituita prima dalla «potestà genitoriale» e poi dalla «responsabilità genitoriale». La modifica attribuisce, pertanto, ad entrambi i genitori l’amministrazione dei beni del concepito, realizzando, anche in tal maniera, la pari responsabilità genitoriale. Ove ce ne fosse bisogno, la relazione illustrativa aggiunge che nel caso in cui vi fosse un solo genitore «l’amministrazione non potrà che spettare a questi20». Art. 687 Revocazione per sopravvenienza di figli I. Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente [legittimo] del testatore, benché postumo, o legittimato o adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio [naturale]. II. La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento, e, trattandosi di figlio naturale legittimato, anche se è già stato riconosciuto dal testatore prima del testamento e soltanto in seguito legittimato. III. La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi. IV. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto. Art. 687 Revocazione per sopravvenienza di figli I. Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio. II. La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento. III. La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi. IV. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 77 APPROFONDIMENTI L’art. 687 c.c. viene modificato dall’art. 85 dello schema di decreto delegato non soltanto con il già visto adeguamento lessicale, ma anche con la semplificazione del secondo comma, dal quale viene espunto l’ultimo periodo, dopo la parola «testamento». Come si legge nella relazione illustrativa21: «è invece soppressa la specifica disciplina dettata per il figlio naturale legittimato: fattispecie che, con la parificazione dei figli nati fuori dal matrimonio ai figli nati nel matrimonio e il conseguente venir meno della categoria dei legittimati, non necessita più di autonoma considerazione normativa». Art. 803 Revocazione per sopravvenienza di figli I. Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti [legittimi] al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l'esistenza di un figlio o discendente [legittimo] del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio [naturale], fatto entro due anni dalla donazione, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell'esistenza del figlio. II. La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. Art. 803 Revocazione per sopravvenienza di figli I. Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l'esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell'esistenza del figlio. II. La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione. (1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile, le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli». Nella stesura approvata dello schema di decreto, l’art, 88 modifica l’art. 803 c.c. viene adeguato al principio dell’unicità dello status filiationis – come si da atto nella relazione illustrativa – non solo modificando l’articolo in esame con il solito adeguamento lessicale, ma anche eliminando la limitazione temporale dei due anni. Nella relazione illustrativa anzidetta, si tiene presente la pronuncia n. 250/2000, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui, in caso di sopravvenienza di figlio naturale, la donazione poteva essere revocata solo se il riconoscimento era intervenuto entro due anni dalla donazione, ma si evidenzia, altresì, che la detta limitazione, comunque, non avrebbe alcun senso logico alla luce della unificazione dello status di figlio22. Art. 104 (Disposizioni transitorie) In ultimo, un accenno deve essere fatto all’art. 104 dello schema di decreto legislativo, rubricato “Disposizioni transitorie”. Tale disposizione, per la sua estensione e per le implicazioni che ne deriveranno, non può essere trattata adeguatamente in questa sede. Si riporta solo qualche riferimento ai primi sei commi di essa, in quanto specificamente dedicati agli effetti successori per i figli nati fuori dal matrimonio. Nel rispetto dell’intangibilità del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 219/2012, effetti si avranno sulle azioni da intraprendere e sui giudizi pendenti di cui sia parte anche un discendente di figlio nato fuori dal matrimonio che voglia far valere i diritti successori del de cuius nei confronti di parenti del defunto, rispetto ai quali, prima della modifica dell’art. 74 c.c., non era riconosciuto alcun vincolo di parentela. Il primo comma, ad esempio, prevede che: «Fermi gli effetti del giudicato (…), sono legittimati a proporre azioni di petizione di eredità, ai sensi dell’art. 533 c.c., coloro che in applicazione» del nuovo art. 74 c.c. «hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede». Il secondo comma prevede l’estensione di cui al primo comma per tutti i diritti successori che derivino dalla novella del 2012. 78 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 APPROFONDIMENTI Il terzo comma estende ancora l’applicazione dei primi due commi anche ai discendenti del figlio nato fuori dal matrimonio morto prima dell’entrata in vigore della legge delega. Il quarto ed il quinto comma fissano la decorrenza della prescrizione dei diritti successori scaturenti dalle novità normative, per le successioni già aperte. Infine, il sesto comma, estende l’applicazione dei primi tre commi a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto delegato. 4. Brevi accenni agli aspetti processuali. Da ultimo occorre ribadire che in forza della nuova formulazione dell’art. 38, ultimo comma, disp. att. c.c. anch’essa introdotta dalla novella del 2012, la competenza in ordine all’accertamento giudiziale di paternità e di maternità di cui all’art. 269 c.c. - anche in caso di minori - nonché in ordine al riconoscimento del figlio da parte del genitore infrasedicenne, ex art. 250, ultimo comma, c.c., spetta al Tribunale Ordinario e, più nello specifico, in questo secondo caso, al Giudice Tutelare. A tal proposito, parte della giurisprudenza di merito ha argomentato che “la legge ha attribuito al Giudice Tutelare il potere di accertamento della capacità naturale degli individui, al fine di verificarne l’idoneità al compimento di determinati atti. Inoltre, in questo senso, depone la particolare snellezza e deformalizzazione dei procedimenti di competenza del Giudice Tutelare, che assicurano di norma una particolare celerità nella decisione e si presentano, pertanto, del tutto idonei alle esigenze di speditezza che simili casi richiedono. Per la competenza del giudice tutelare depone anche la circostanza che il provvedimento richiesto nel caso di specie all’Autorità Giudiziaria, non risolve una questione contenziosa, ma ha la funzione, in quanto autorizzatorio, di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto superando, attraverso l’accertamento in concreto, la presunzione di incapacità ritenuta dal legislatore”23. Trovando nuovamente attuazione la norma generale di cui all’art. 9, II c., c.p.c., il rito prescelto per l’esercizio dell’azione è quello ordinario, pertanto, lì dove il giudizio fosse stato erroneamente introdotto con ricorso, atteso che tale atto non contiene i necessari elementi indicati ex art. 163 c.p.c., si rende necessario ad opera ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 79 APPROFONDIMENTI del giudice disporre ex officio il mutamento di rito ai sensi dell’art. 4 D.lgs. 150/201124; parte attrice, conseguentemente, sarà onerata alla integrazione dell’atto introduttivo con le avvertenze di cui all’art. 163, n.7, c.p.c. ed alla notifica dello stesso, unitamente al decreto di conversione contenente la fissazione della data d’udienza25. Quanto ai profili probatori, relativamente all’accertamento giudiziale di paternità e di maternità, atteso che ai sensi dell’art. 269, II e IV c., c.c. la prova può essere data con ogni mezzo purché essa non si basi esclusivamente sulle sole dichiarazioni della madre e sulla mera esistenza di rapporti fra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento, al giudice è dato il potere di valutare liberamente le prove nonché di trarre argomenti di prova dal contegno assunto dalle parti nel corso del giudizio, ex art. 116 c.p.c.. La giurisprudenza di legittimità ritiene, quindi, che sia da escludere che “il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata in altro modo l’esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre naturale” 26. Note 1 La China, “Diritti umani: qualche precisazione”, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2012, 835 ss.. 2 C. M. Bianca, “Verso un più giusto diritto di famiglia”, in Justitia, 2012, 239: “La riforma non è una minaccia al matrimonio che rimane l’insostituibile presidio a garanzia della stabilità e solidarietà del nucleo familiare”. 3 F. Gilda, “La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali”, in Corriere Giur., 2013, 4, 525. 4 C. M. Bianca, Diritto civile, I, II ed., Milano, 299. 5 C. M. Bianca, Famiglia (diritto), in Enciclopedia delle scienze sociali, III, Roma, 1993, 780 ss.; C.M. Bianca, “Realtà sociale ed effettiva della norma”, Scritti giuridici, I, t. 2, 883. 6 C. M. Bianca, “Il momento giuridico dei valori della persona e della famiglia nel pensiero di Giorgio Oppo”, in Uomo, persona e diritto. Giornate di studio in ricordo di Giorgio Oppo, Roma, 2013; C. M. Bianca, “Dove va il diritto di famiglia”, in Familia, 2011, 3 e ss.. 7 Cfr. Cass. Civ., sez. II, 7 aprile 1990, n. 2923; Corte Cost., sent. Nn. 2 giugno 1979, n. 55; 184/90; 341/90; 377/94 su www.dejure.it. 8 Cfr. Cedu, n. 34406/97, Mazurek vs. France; Cedu 7 febbario 2013, Fabrice vs. France; V. A. Diurni, “La filiazione nel quadro europeo”, in G. Ferrando, “Il nuovo diritto di famiglia”, III, cit., 41 ss.; M. G. Cubeddu, “Diritto della filiazione in Europa, tra diritti ed interessi della persona e di terzi”, in Ferrando e Laurini, La riforma della filiazione, in Quaderni di Notariato, Milano, 2013, 85 ss. 9 Cfr. “L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente legge n. 219/2012”, in Giustizia civile, fasc. 5-6, 2013, pag. 205, su www.dejure.it. 10 B. De Filippis, “La nuova legge sulla filiazione: una prima lettura”, in Famiglia e Diritto, 2013, 3, 291; nello stesso senso cfr. F. Gilda, “La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali”, op. cit., 2013, 4, 525, ed ancora, secondo una lettura che già a suo tempo prospettava L. Carraro,” La vocazione legittima alla successione”, Padova, 1979, 43 ss.. 11 Si veda l’art. 1, paragrafo 2, del Draft Recommendation (Cm/Rec (2012) to member states on the rights and legal status of children and parental responsibilities: «In particular, children should not be discriminated against on the basis of the civil status of their parents». 12 L’obiettivo è spiegato nell’Explanatory Memorandum posto in appendice al Draft Recommendation (Cm/Rec (2012) to member states on the rights and legal status of children and parental responsibilities, cit., sub art. 1, comma 2: «Paragraph 2 emphasises that children should not be discriminated against to the civil status of their parents. In providing this, the recommendation is not to be read as obliging strictu sensu member states to recognize all form of partnership, for example same-sex relationships». 13 Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12.07.2013, pag. 34, su www.governo.it. 14 Per un commento più approfondito, L. Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, Rivista Ventiquattrore Avvocato – Il Sole 24 Ore, ottobre 2013 n. 10, pp. 18-19. 15 Cass. Civ., Sez. II, 2 febbraio 2011 n. 2424, su www.dejure.it. 16 L. Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, già cit., ottobre 2013 n. 10, cit., pp. 18-19. 17 Lina Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, già cit., ottobre 2013 n. 10, cit. pp. 19-21. 18 V. Barba, “La successione mortis causa dei figli dal 1942 al disegno di legge recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali»“, Famiglia, Persone e Successioni ottobre 2012, p. 665. 19 Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 36. 20 Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 37. 21 Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 37. 22 Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 38. 23 Cfr. sul punto Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013 su www.dejure.it. 24 Cfr. Tribunale di Milano , 29 aprile 2013, su www.ilcaso.it. 25 Cfr. Tribunale di Velletri, 8 aprile 2013, su www.dejure.it. 26 Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 19 novembre 2012 n. 20235, su www.dejure.it. 80 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 IN LIBRERIA In libreria a cura dell’avv. MARIA LIMONGI MAURO PALADINI E CLAUDIO CECCHELLA La riforma della filiazione, 1° quaderno della Scuola di formazione dell’Osservatorio sul diritto di famiglia Pro.Form Editore, 2013 La nuova casa editrice Pro.Form. nella collana “Itinerari legislativi” presenta il 1° quaderno della Scuola di Formazione dell'Osservatorio sul diritto di famiglia a cura di Claudio Cecchella e Mauro Paladini dal titolo “La riforma della filiazione. La legge 10 dicembre 2012, n. 219”. Nel volume vengono affrontati tutti i temi sia di diritto sostanziale che di diritto processuale grazie al contributo di autorevoli studiosi della materia di diritto di famiglia. Nell'introduzione al volume, curata dall' Avv. Gianfranco Dosi - Presidente dell'Osservatorio Nazionale sul diritto di Famiglia si pone da subito l'accento sul senso della nuova normativa che appunto elimina ogni discriminazione giuridica riguardante lo status filiationis, riaffermazione di un principio già facente parte del diritto vivente grazie alla ratifica nel 1991 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti dei minori. Parità che però non trova una completa attuazione nella nuove regole processuali, dove come sottolineato dall'Avv. Prof. Claudio Cecchella rimane, pur nella modifica dell'art. 38 disp. att. c.c. (con l'unificazione delle competenze in favore del tribunale ordinario), una ripartizione delle competenze ed una diversificazione dei riti per le azioni de potestate. Sui profili sostanziali si registrano i contributi del Prof. Francesco Prosperi sull'unicità dello status filiationis, dell'Avv. Luca Barbaro sulla disciplina unitaria del cognome e dell'Avv. Tiziana Ceccarelli sulla delega al governo di cui all'art. 2 della l. 219/2012, nonché il contributo del Prof. Mauro Paladini in cui vengono sviluppati temi relativi alla nuova disciplina della potestà, all'ascolto del minore. Sui profili processuali i contributi dell'Avv. Giancarlo Savi sul ruolo processuale del minore e del Prof. Angelo Lupoi sui nuovi art. 250 c.c. e 315 bis c.c. In calce al volume un'utile appendice normativa di pronta consultazione. Luci ed ombre della nuova normativa vengono quindi affrontate dagli autori con spirito critico offrendo al lettore un utile strumento di approfondimento sia teorico che pratico grazie alle soluzioni interpretative offerte. Avv. Gianluca Vecchio DARIO BUZZELLI La Famiglia Composita. Jovene Editore Napoli, 2012 Riuscire a far convivere in modo armonioso una famiglia “tradizionale” ed a volte eterogenea non è facile. L’esperienza quotidiana ci porta spesso a “sbuffare” quando il nostro quotidiano si intreccia con i parenti. A quanti è capitato di dover fare fronte agli interventi del suocero, genero, cognato nelle proprie dinamiche familiari; inevitabilmente si creano i presupposti per situazioni equivoche, per l’insorgere di incomprensioni, ed a volte per accuse vicendevoli anche per futili motivi. Se poi si inserisce qualche personaggio, estraneo che subentra a figure di riferimento del nucleo familiare ed affiancando la mamma o il papà, il quadro si potrebbe complicare ulteriormente… oppure no?! La famiglia “composita”. Un’indagine sistematica sulla famiglia ricomposta: i neo coniugi o conviventi, i figli nati da precedenti relazioni e i loro rapporti analizza e ripercorre i passaggi attraverso i quali è dovuta transitare la famiglia tradizionale. Prendendo le mosse dal venir meno dell’unitarietà dell’istituto della famiglia e del concetto e la nozione consegnata ai codici ed alle leggi del secolo scorso, l’Autore si addentra in un’indagine del pluralismo delle comunioni e dei progetti non individuali di vita evidenziando le criticità e le lacune degli istituti previsti e tutelati dall’Ordinamento nonché da quelli nuovi di derivazione giurisprudenziale. Non a caso l’Autore evidenzia sin dai primi capitoli come il Legislatore sia restio a ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 81 IN LIBRERIA considerare e regolamentare in modo specifico le seconde nozze laddove l’impianto normativo assimila il secondo matrimonio al primo. Tale impostazione è limitante in ragione delle scelte diverse dal contrarre le seconde nozze che oggi possono essere compiute dai singoli quali la comunione more uxorio. Tale impostazione che prosegue nell’intero testo è tesa ad analizzare i profili giuridici della famiglia ricomposta alla luce delle problematiche sottese ai diritti ed ai doveri dei nuovi coniugi che possono interferire con le corrispondenti situazioni soggettive di cui possono risultare titolari gli stessi coniugi per effetto del precedente matrimonio. Ed infatti l’Autore si sofferma nell’esame dei vari diritti che possono essere riconosciuti al coniuge separato e le modalità attraverso le quali il diritto dell’ex possa interferire con il diritto del partner attuale; ponendosi interrogativi e dando parimenti delle soluzioni anche attraverso i numerosi richiami in nota. Segue l’ulteriore disamina relativa al rapporto del nuovo partner con il figlio dell’altro anche in ragione delle nuove norme a tutela della bigenitorialità e la loro applicazione nella vita reale nonché l’analisi della relazione tra il nuovo partner ed il figlio dell’altro nel momento in cui quest’ultimo diviene padre ovvero nel caso di adozione ovvero nel caso di introduzione nel nucleo “legittimo” del figlio naturale. Il testo ha un taglio teorico-pratico e risulta ben argomentato e sviluppato e si propone quale buon testo per il Professionista che opera nel settore… sia concesso a questo punto concludere evidenziando che anche in caso di famiglia composita non si possa negare tuttavia che si possono verificare momenti di tranquilla convivenza e di spiritosa ed allegra partecipazione a fatti che normalmente accadono in ogni famiglia. 82 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 OLGA ANASTASI IL DIVORZIO COLLABORATIVO Capponi Editore, 2013 Nel caos emozionale che precede, perdura e segue la fine di un rapporto, è possibile gestire la conflittualità in modo collaborativo? Gli americani ci hanno provato, ed hanno elaborato delle strategie di negoziazione per portare i partner a scegliere l’ottimo di lungo periodo su quello, più contingente, del breve. Anche perché – come è nell’esperienza di tutti – il successo immediato (un assegno più alto, l’ affidamento dei figli etc…) può rivelarsi una vittoria di Pirro (lui smette di pagare, figli psicologicamente distrutti…); ed il carico emozionale che deriva da conflitti non risolti può rovinare, in un crescendo di fantasmi e recriminazioni, anche la nuova vita di chi crede di aver “vinto”. Trasformare il dolore in un momento di crescita è, però, possibile: ma occorrono tre cose. Primo: il rispetto dei tempi emozionali di ciascuna parte. Può accadere che, mentre per uno dei coniugi il rapporto sia già esaurito, l’altro cerchi ancora un contatto attraverso pretesti di litigio. La fenomenologia può essere diversa - dalla regolamentazione delle visite ai figli al servizio da caffè di nonna Assunta-; le pretese dichiarate tutte più o meno apparentemente fondate; ma la ragione di fondo quasi sempre è unica: una delle parti non è veramente pronta al distacco. Viste in questo modo, le ragioni dell’ostilità non sono occasione di giudizio sulla maturità/immaturità-adeguatezza/inadeguatezza-bontà/cattiveria delle parti, ma chiavi di lettura delle dinamiche di coppia. La comprensione di questi modelli di azione emozionale, spesso inconsci, ed il rispetto del dolore e dello smarrimento che rappresentano, costituisce il primo tassello per uno scioglimento armonico del rapporto. Secondo: responsabilizzazione delle parti sulla posizione avuta in coppia e sulle cause dello scioglimento, in modo che nessuna si consideri vittima della forza prevalente dell’altra. Anche nei rapporti più sbilanciati, i piani del carnefice sono negli occhi della vittima: la presa di coscienza sul proprio ruolo e sulle conseguenze del proprio atteggiamento, riporta in entrambi i partner la fiducia sulla possibilità di “essere in controllo”della propria vita, ed impedisce i risentimenti dovuti alla percezione di aver subito ingiustizie ed abusi. Terzo: una distribuzione patrimoniale equa. Nel divorzio collaborativo l’obiettivo non è riuscire ad avere il massimo possibile, ma trovare una soluzione di compromesso che eviti l’accendersi di liti future o il continuo rinegoziamento delle condizioni di separazione. Ovviamente, in questo quadro la figura dell’avvocato deve essere completamente ripensata, poiché non si tratta più di vincere attraverso una prova di forza o un’astuta eccezione processuale, ma di costituire e coordinare un team (psicologo, mediatore, stimatore dei beni) con cui programmare un settlement di lungo periodo. In ciò, all’avvo- IN LIBRERIA cato non è chiesto di essere mediatore imparziale, ma di assistere tecnicamente la parte, con la rilevante differenza di spingerla verso soluzioni che abbattono – e non incrementano – la conflittualità. La conoscenza della legge diventa fondamentale in tutti e tre i momenti, perché le regole –se adeguatamente presentate- offrono alle parti un criterio oggettivo per valutare i supposti abusi affettivi, fisici e patrimoniali. Armonia, non vittoria; prevalenza del “noi” sull’ “io”: questo deve essere lo scopo del professionista, che addirittura mette nero su bianco il suo impegno a non assistere la parte in caso il tentativo della strada collaborativi fallisca. Una rivoluzione copernicana, quindi, nel modo di impostare la propria opera professionale, che il bel libro di Olga Anastasi ha il merito di proporre e dimostrare possibile; nonché un’indicazione chiara di quello che dovrebbe essere il buon avvocato di famiglia: una figura che sappia unire all’ alto tecnicismo, profonda sensibilità e buon senso. Avv. Benedetta Piola Caselli ALARICO MARIANI MARINI E UMBERTO VINCENTI Le carte storiche dei diritti Raccolta di Carte, Dichiarazioni e Costituzioni con note esplicative Pisa University Press, 2013 L’uomo ha bisogno di regole giuridiche per poter vivere e per poter condurre una esistenza pacifica all’interno di un consesso sociale. Il volume è il frutto dell’attività di studio e di ricerca curata da Alarico Mariani Marini e Umberto Vincenti con la collaborazione della Scuola Superiore dell’Avvocature e del Consiglio Nazionale Forense e ripercorre attraverso le Costituzioni storiche l’evoluzione del diritto e, soprattutto, dell’individuo laddove deve intendersi non tanto l’individuo monolite ma in quanto elemento facente parte di un unicum che altro non è se non il contesto sociale nel quale viene ad interagire con altri individui. Il testo propone un excursus dei capisaldi del diritto ed iniziando dall’esame della Magna Charta libertatum proseguendo con il trattato di Westafalia del 1648 e del Bill of rights del 1689 per giungere – attraverso altri – alla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America ed alle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793 e dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino del 1795 giungendo al commento delle Costituzioni pre-unitarie quali la Costituzione romana del 1798, della Repubblica Napoletana del 1799 ovvero dello Statuto Albertino del 1848. Il lettore è accompagnato dai vari commenti attraverso un percorso dove in modo inversamente proporzionale lo Stato cede all’individuo e l’individuo diviene oggetto di normazione specifica e puntuale con la Legge che si pone come baluardo rispetto ad ingerenze di terzi e dello Stato stesso. La Legge così assurge ad espressione della volontà generale che non può e non deve essere disattesa né dall’individuo né dallo Stato così come i diritti degli individui non possono essere limitati se non in forza della volontà popolare e del principio generale per il quale la libertà consiste nel non nuocere al diritto altrui (art. 2 dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino). Il testo permette così di evidenziare i vari passaggi attraverso i quali il diritto dell’individuo si è affermato rispetto alla prevaricazione del più forte nonché la volontà generale ha sostituito il comune sentire dei popoli ed ha così realizzato le fondamenta degli Stati di diritto. Una raccolta quale “ulteriore contributo alla formazione culturale di quei giovani che scelgono l’avvocatura non già come percorso per accedere ad un mercato di servizi, ma soprattutto per svolgersi una funzione sociale protesa alla difesa, in uno stato democratico, dei diritti e delle libertà di ogni persona”. MAURO AGOSTO ROSARIA CAPOZZI Formulario del matrimonio canonico EUPress FTL, 2013 Mauro Agosto, docente di Lingua Latina presso la Pontificia Università Lateranense, e Rosaria Capozzi, avvocato civilista e canonista, presentano il loro lavoro congiunto, risultato della rispettiva esperienza, dedicato alla raccolta di esempi di scrittura tecnica relativa ai motivi di nullità del matrimonio canonico al fine di una ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 83 IN LIBRERIA migliore comprensione della materia resa difficoltosa dall’impiego della lingua Latina nella pratica del tribunale della Rota Romana. Ciascun motivo di nullità del matrimonio canonico è affrontato: Simulazione totale, simulazione parziale, incapacità a contrarre matrimonio, errore, condizione, vis et metus, impotentia coeundi, difetto di forma. L’istituto matrimoniale canonico è messo in luce attraverso schemi 84 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013 esemplificativi di casi pratici di frequente riproposizione nella prassi e giurisprudenza attuale. Sono riportati tutti i modelli di scrittura tecnica relativi a casi concreti accompagnati da una traduzione latina letterale capace di esprimere in modo fedele e chiaro la complessità dei concetti e dei pensieri giuridici canonici. L’esperienza latinista del prof. M. Agosto incontra l’esperienza canonista dell’avv. R. Capozzi che, in modo particolareggiato e peculiare, offrono uno strumento utile non solo agli studenti di diritto canonico per i quali è pensato, ma anche ai Professionisti ed operatori di diritto coinvolti dalla materia e che di occupano del settore. Formule esplicative della dottrina e riferimenti giurisprudenziali completano e rendono ulteriormente concreta, semplice ed efficace la consultazione e comprensione dell’opera.