Supplemento a Ross zétar d’Rumagna - N.62 - Anno 32° - n.1 - Marzo 1999 Registr. Trib. Ravenna n.524 del 15-7-69 - Non contiene pubblicità. Direttore Responsabile: Avv. Emilio Duranti - Redattore: Girolamo Fabbri Spedizione in A.P. (Art.2 - comma 20/c - Legge 662/96) - Filiale di accettazione: Ravenna. La stalla I profumi della campagna di Sante Samorè All’inizio del XX secolo, e fino ai primi anni 50, quando sono comparsi i primi trattori, in tutte le case di campagna vi era la presenza della stalla, con relativo bestiame bovino: i buoi, le vacche e i vitelli. I buoi che solitamente venivano utilizzati in coppia “un pér ad bù”, rappresentavano l’unico motore disponibile per il traino del carro agricolo e dell’aratro. L’aggancio veniva fatto tramite il giogo “e’ zov”, posto sul collo degli animali. Si usava incitare “zarler” i buoi al lavoro con lo schiocco della frusta o con l’uso della voce. Le vacche davano il latte, prezioso alimento, ed inoltre materia prima per fare il formaggio che serviva per nutrirsi, ma anche per venderlo, e incassare un po’ di soldi. I vitelli, infine, in parte andavano a sostituire i capi vecchi, e in parte andavano venduti ai macellai per ricavarne carne. In Romagna era diffusissima la razza bovina Romagnola, scarsa per quanto riguarda la resa al macello, ma molto rustica e resistente alla fatica. Nelle grosse aziende agricole vi erano diverse paia di buoi, un solo paio nelle realtà più piccole. Non era raro allora vedere i contadini che con il loro paio si aggregavano a quello dei vicini, riuscendo in questo modo a trainare l’aratro ad una maggiore profondità, rendendo così il terreno più produttivo. Tutta l’attività agricola ruotava attorno alla stalla. Si di Luisa Calderoni Scegliere di vivere in un piccolo paese di campagna dove ci si conosce tutti, dove l’attività lavorativa e produttiva è prevalentemente legata all’agricoltura senza fare gli agricoltori comporta una scelta che è affettiva e che dimostra il legame a questo mondo vitale e a questo ambiente. Ma anche per chi qui è nato e adesso vive in città la campagna è un luogo dove si può tornare per trascorrere momenti piacevoli, per riscoprire cose vissute o anche solo col ricordo. Abbiamo pensato di provare a fare un cammino insieme per riscoprire elementi quotidiani che caratterizzano la vita della campagna: i profumi, i colori, i suoni, aspetti unici che apparentemente sembrano scomparsi, ma che sono invece sempre vivi e che neppure il tempo cancella in quanto il ciclo delle stagioni resta immutato. Nella moderna dimensione di vita di molte persone spesso segnata da ritmi frenetici non si ha più il tempo o forse la voglia di fermarsi a guardare le meraviglie della natura e a riflettere su quello che esprimono ne’ di insegnare ad un bambino ad apprezzarle. Questo è allora un invito a ritrovare il piacere di scoprire la natura in modo più intenso oltre allo sguardo fuggevole, rivivere sensazioni che non si possono decrivere, ma si devono provare. Oggi molti girano in auto anche in campagna e quindi non c’è tempo e modo per fermarsi a guardare un prato fiorito e cogliere un fiore e con il gesto più naturale metterlo vicino al naso per odorarlo. Seguendo il ciclo delle stagioni il primo pensiero è che l’arrivo della primavera è annunciato dall’aria che diventa meno fredda e che assorbe il profumo della natura che si sveglia. Poi la terra, i fiori, le piante, il profumo delle violette di campo e di giardino, proprio le prime che (Continua a pagina 3) (Continua a pagina 8) 1 Dri l'irola sradicato il vizio del gioco d’azzardo praticato nelle case e che lo stesso sarebbe stato meglio vigilato in un luogo pubblico. Queste argomentazioni non convinsero il Governatore soprattutto per la difficoltà di controllare quanto sarebbe avvenuto in un luogo isolato dove, essendo presente un’associazione di persone di varie condizioni, insieme ai giochi leciti si sarebbero potuti giocare anche quelli illeciti. Questa sua preoccupazione fu trasmessa al Delegato Apostolico a Ravenna il 17 maggio. La questione fra il Foschi e l’Autorità che aveva avuto inizio il 4 aprile 1858 si risolse in soli quattro mesi. Infatti, l’11 agosto il Direttore di Polizia comunicò al Governatore che “Per speciale grazia superiore è L’articolo della signora Ione Silvestroni sulle osterie a San Pancrazio pubblicato su un precedente bollettino “Dri l’irola” mi ha ricordato quanto avevo letto in una pratica di polizia del 1858 (1) che atteneva l’arresto di Giuseppe Foschi conduttore di Caffè a San Pancrazio, nella cui bottega furono sequestrate armi e catturati sei tristi soggetti, tutti della Parrocchia di San Pancrazio; una delle armi era consimile a quella con cui era stato commesso un delitto. Il Caffè fu chiuso, ma si accertò che quella sera Giuseppe Foschi era presente al banco del Caffè, in sostituzione del fratello Pietro, al cui nome era intestata la licenza. E Pietro fece istanza per ottenerne la riapertura. Da uno scambio di lettere fra il Governatore di Russi e la Delegazione Apostolica, cui faceva riferimento il Direttore di polizia, si traggono utili informazioni. Con il Governo Pontificio tutto quanto atteneva ai movimenti e all’incontro di più persone era controllato dalla Polizia. Scriveva, infatti, il Governatore: “Il stato accordato al caffettiere Pietro Foschi di S.Pancrazio il permesso del giuoco lecito nel di lui esercizio”. Nel ricevere la licenza da consegnare dopo la regolarizzazione al Foschi, il Governatore fu altresì invitato a Caffè esiste in una Parrocchia di dare le opportune disposizioni di campagna, lontana circa tre sorveglianza affinché il Foschi miglia se non più da Russi, è stesso non abusasse della perciò in luogo non facile a concessione. sorvegliarsi sia per la suddetta Volevo ricordare questo episodio distanza, sia per lo stradale che del quale non si può andare fieri, può dirsi poco battuto. D’altronde che ci da tuttavia notizia della il concorso è numeroso assai, e realtà sociale del nostro paese nelle sere festive si sono contati con l’esistenza di un bel punto di circa cinquanta contadini e ritrovo già a metà del XIX secolo. quando i coloni tolgono al riposo Oltre al grande Caffè di Pietro varie ore della notte per Foschi ubicato in via Molinaccio occuparsi del giuoco, ben si (l’attuale via Randi), che era già conosce quale e quanta sia la aperto nel 1858, a San Pancrazio demoralizzazione ed il danno che disegno di Maria Giulia Silvestroni esistevano nel 1865 (2) diverse si aggravia tanto, se si consideri licenze per lo spaccio del vino al minuto. Presso le al modo di procacciarsi i mezzi per alimentare il vizio proprie case, sempre in via Molinaccio, vi erano: lo del giuoco stesso, quanto se si riflette alla necessità spaccio temporaneo di Giovanni Orselli e quello di in cui trovansi di non potere più occuparsi colla Stefano Errani. Quest’ultimo con una licenza che dovuta solerzia al lavoro de’campi. precisava il divieto del gioco e l’obbligo della chiusura A tutto ciò si aggiunga l’idiotismo che regna nella all’ora una di notte. Per un periodo limitato di tempo classe rustica e l’abitudine riprovevole di portare fu autorizzato lo spaccio di Domenico Errani, armi, cose tutte che in condizioni da determinare ritenendo che, in occasione delle rotte del fiume inconvenienti”. Montone, ci sarebbe stato uno straordinario Il linguaggio è duro, irriguardoso per la popolazione, concorso di operai impegnati nei lavori. Vi era infine ma è quello che usavano. Il Governatore riteneva l’esercizio di Felice Ragusi, bottegaio con permesso pertanto utile che, nel consentire la riapertura, si di spaccio di vino al minuto, anch’esso operante interdicesse ogni sorta di gioco e che almeno si nella casa di propria abitazione. ordinasse la chiusura giornaliera non più tardi dell’un ora di notte, per evitare, per quanto possibile (1) Archivio Storico Comune di Russi, gli inconvenienti sopracitati. busta 302/1858, Polizia. Pietro Foschi “tornò alla carica” lamentando che i (2) Archivio Storico Comune di Russi, vincoli posti col permesso di riaprire tornavano a suo busta 327/1865, Amministrazione, fasc.1. discapito scemando i suoi utili ed evidenziando che la proibizione del gioco nel suo locale non avrebbe 2 Dri l'irola Le ricette della cucina povera di Luisa Calderoni MARINATA: mettere la saraghina già fritta e fredda in un tegame, ben composta, prendere del buon aceto, quello fatto in casa saporito e profumato, farlo bollire con dentro alcune foglie di salvia e alcuni spicchi di aglio intero, cuocere per alcuni minuti e versare tutto ancora bollente sul pesce. Lasciare marinare almeno 24 ore prima di mangiarla. Il pesce non è sempre stato un alimento molto presente nelle tavole della famiglia contadina perché l’economia domestica non prevedeva l’acquisto di generi alimentari non indispensabili. Poi è arrivato il tempo in cui i frutti della campagna si sono incontrati con quelli del mare. E’ apparso il pesce azzurro, il più comune del nostro mare e il suo prezzo generalmente accessibile a tutti. Fare il pescivendolo è diventato quindi un mestiere: “e’ pisèr” andava in bicicletta a Porto Corsini a prendere il pesce, “saraghina e pavaraz” passando poi di casa in casa per venderlo. Ho scelto la saraghina perché è buona e si trova ancora nei mercati a prezzi bassi. La saraghina fresca si può preparare in diversi modi, vi presento quelli più semplici e gustosi. IN GRATICOLA: mettere la saraghina in un grande vassoio con pane grattugiato fine, olio, sale e pepe, impanare bene. Disporre poi i singoli pesci sulla graticola uno vicino all’altro, non si devono più toccare, vanno girati tutti insieme perciò è bene usare o una graticola doppia o due graticole una sull’altra. Mettere sulla brace e cuocere. Servire calda accompagnata da fette di limone. INT LA LICHERDA: mettere il pesce in una teglia da forno “la licherda” ben allineato, aggiungere olio, sale e pepe e infornare. A piacere si possono mettere cipolline piccole bianche o anelli di cipolla che vi assicuro sono molto buoni amalgamandosi durante la cottura col sapore del pesce. Si può spruzzare a piacere sul pesce succo di limone. Va lavata accuratamente, si può togliere la testa e svuotarla, ma a piacere e secondo i gusti si può lasciarla anche intera. Scolarla bene. FRITTA: infarinare il pesce unendo la coda di una con la coda di un’altra, mettere lo strutto nella padella di rame, fare bollire, gettare il pesce, girare attentamente perché non deve rompersi. Quando è cotta togliere con l’apposita ramina e posare sulla carta gialla in modo che perda l’unto, salare con sale fine, mangiare calda, se piace spruzzare sopra il succo di limone. UN CONSIGLIO: quando mangiate la saraghina, in qualsiasi modo sia cucinata, non preoccupatevi di essere raffinati, ma di gustare quello che mangiate, quindi non usate la forchetta ma le mani; questo è il mio consiglio poi ognuno decida come fare. essere stato lavato nel fiume. Il grano simbolo del pane quando matura profuma fino ad arrivare al giorno della mietitura in cui si mescolano gli odori dei chicchi con quelli della pula e della paglia. Quante volte i bambini in campagna hanno giocato a nascondino dietro ai covoni. Provate a fare un giro in bicicletta nel mese di giugno sull’argine del fiume, sentirete l’odore dell’acqua e quello della vegetazione che assumono diversa intensità in rapporto alle condizioni atmosferiche e all’ora del giorno, molto diversi se è piovuto, se il sole è alto o se si è al tramonto. In autunno il mosto che sale nei tini odora l’aria, poi arriva l’odore acre che esce dai camini che cominciano ad essere accesi la sera per riscaldare le stanze, ogni tanto si diffonde nell’aria il profumo delle carni cotte sulla brace: “Senti, si cuoce la pecora, la pancetta, la salsiccia”. Il calicantus, pianta molto diffusa nei giardini del nostro paese in diverse forme e intensità di colore, invita ad essere annusato ed è quello che preannuncia il letargo della natura. Anche il gelido inverno, apparentemente inodore ha i suoi profumi: quando l’aria fredda penetra nelle narici ci costringe ad annusarla. I profumi della campagna (Continua da pagina 1) fioriscono sono le più belle e le più odorose. Chi non ricorda di aver raccolto lungo i fossi mazzi di violette circondate dalle foglie e legate con un filo di cotone per metterle in un bicchiere sul camino o davanti all’immagine della Madonna? Le siepi di biancospino, arbusto non troppo bello, che spesso segnava il confine fra le proprietà che ha un fiore piccolo, nascosto fra i rami, le foglie, gli spini, per certi aspetti intoccabile ma che si fa notare per l’intensità del suo profumo. L’erba che cresce si rigenera, si bagna di rugiada, al momento in cui è falciata emana un odore quasi acre, per poi arrivare all’erba medica, “la spagnêra”, che dopo essere stata tagliata resta sulla terra ad essicare fino a diventare profumato fieno. Poi i narcisi, i lillà, i glicini e le rose. Come rimanere indifferenti di fronte al profumo che emanano gli albicocchi e i peschi quando i frutti sull’albero sono maturi e quello dei fiori delle viti, all’odore dei tigli, dei fiori “de spanacàc” e del pergolato vicino a casa sotto al quale ci si riposa e ci si incontra nelle calde sere d’estate. Mi ricordo il profumo del ranno versato caldo sul bucato e quello del bucato steso al sole dopo 3 Dri l'irola “Al spnazoni”, le lavoranti della penna a San Pancrazio a cura di Maria Luisa Pironi e Ione Silvestroni migliore che a casa loro”. Nel periodo compreso fra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento per le donne delle famiglie di San Pancrazio, così come per tante altre dei paesi vicini, l’occupazione prevalente era quello di dedicarsi al lavoro dei campi nelle cooperative dei braccianti agricoli. Era però troppo breve la stagione lavorativa in campagna e si avvertiva il bisogno di integrare quelle modeste entrate per far fronte ai bisogni della famiglia nei lunghi e freddi periodi invernali. Alcune riuscirono a trovare un’occupazione saltuaria a Russi, nella cernita della penna, presso la ditta F.lli Babini, “i Maistrò”, un avviatissimo stabilimento per la lavorazione e commercializzazione del pollame, dei conigli, delle uova, della cacciagione e della penna sia da letto che da ornamento nonché da concime, che già a fine ottocento era diventata un’industria di valore internazionale e la maggiore in Italia nel settore. Due dei fratelli Babini ebbero la nomina a “Cavaliere del lavoro”: Emilio nel 1905 ed il Comm. Battista nel 1924. Rara onorificenza (istituita nell’anno 1898 da Re Umberto I°) se si considera che ogni anno, in Italia, ne vengono nominati 25. Le donne andavano a Russi in gruppo, a piedi, calzando gli zoccoli, con partenza al mattino presto e ritorno a tarda sera, praticamente sempre col buio. La figlia di una donna della penna ci racconta: Arciprete di San Pancrazio dal 1889 al 1911 era Don Ferdinando Conti, det e’ prit zop, noto per le attenzioni che aveva ai bisogni economici e sociali della gente del paese. Egli capì il disagio che un lavoro lontano da casa per tutto il giorno creava a queste donne e perciò intervenne presso i signori Babini per promuovere la creazione di un laboratorio per la lavorazione della penna in San Pancrazio. Si adoperò per la realizzazione di un apposito locale mettendo a disposizione il terreno di proprietà della Prebenda Parrocchiale ed ottenendo il contributo della locale Cassa Rurale (da lui stesso costituita nell’anno 1901). L’edificio sorse in Via Molinaccio, ora Via Gino Randi, con magazzino ed ampio laboratorio. Al primo piano del laboratorio l’Arciprete distribuiva le paghe alle donne. Sulla facciata dell’edificio appariva una vistosa scritta in pietra rossa: “Laboratorio in penna” che fu rimossa solo quando il locale fu in gran parte destinato a sede del circolo PP (Partito Popolare). Questo edificio è ricordato ancora oggi come “e’ palaz dla pena”. Non si conosce la data esatta dell’avvio dell’attività in San Pancrazio, ne’ il numero delle donne occupate, tuttavia si ha motivo di credere che per la ditta Babini il laboratorio di San Pancrazio fosse un centro importante già nel 1906. Ciò si deduce dalla carta intestata della Ditta Babini (lettera datata 13 marzo 1906, pubblicata nel volume “Carta d’impresa”, a cura di Pier Franco Ravaglia), su cui appare il “Laboratorio di San Pancrazio” insieme a quelli di Bagnacavallo, Fusignano e Cotignola. Per ogni laboratorio la responsabilità del gruppo era affidata ad una di loro detta la “Maestra”, la quale, oltre alla responsabilità dell’operato delle “Quante volte ho sentito la zia raccontare le fatiche di quegli anni! Il momento più bello era quando andava a pranzo con altre donne a casa di un’anziana lavorante della Ditta la quale per pochi centesimi preparava loro un ottimo riso col latte. Era una festa trovare qualcosa di caldo! Persino 4 Dri l'irola Per rendere più celere la cernita erano solite con una mano prelevare le penne ad una ad una dal tavolo e porle fra le dita dell’altra mano; ogni tipo di penna aveva il suo spazio e solo quando era colmo si scaricava nell’apposita cassettina. Nella cernita delle penne d’oca ogni donna usava fino a venti cassettine. Le penne rotte, sciupate, da scartare, venivano buttate a terra e raccolte a fine giornata in sacchi per essere vendute per uso concime. Fra le donne della penna ce n’era una che per ridurre il volume dello scarto saliva sul cumulo delle penne e scendeva con le gambe coperte di piume. Da qui il soprannome di “Piciò” che si è portata appresso allegramente per tutta la vita. Il compenso per l’attività svolta era commisurato al peso delle penne selezionate e corrisposto quidicinalmente o mensilmente. La rivalità fra quelle più svelte e le altre era inevitabile. Subito dopo la prima guerra mondiale, in un momento di intensa attività e quindi di buoni guadagni, il gruppo delle donne, che a quel tempo superava le cinquanta unità, ritenne di far dono alla Chiesa di un bellissimo lampadario in cristallo che fu posto nella navata centrale sopra alla balaustra. Anche al circolo repubblicano fu donato nello stesso periodo un elegante e grande specchio. Sappiamo che il lampadario è andato distrutto nel crollo della chiesa nel novembre del 1944. Trascorso il periodo bellico l’attività riprese, ma meno intensamente, fino ad esaurirsi intorno agli anni ‘60. Negli ultimi 2 o 3 anni di lavoro, quando le lavoranti erano anziane, erano i figli o i nipoti a recarsi allo stabilimento di Russi a prelevare le balle o i sacchi di penne che venivano selezionate a casa propria. Le anziane lavoranti che hanno vissuto per intero il periodo di lavoro della penna, accanto a piccoli episodi di rivalità e gelosia, amano ricordare i grandi episodi di solidarietà fra loro e i membri delle rispettive famiglie: quando una di loro partoriva o si ammalava si alternavano nel darle assistenza; in caso di morte di un familiare, oltre alla personale partecipazione, non facevano mancare un cuscino di fiori. Al don dla pèna rappresentano un bell’esempio di vita attiva e di impegno al femminile in attività economicosociale negli anni del grande cambiamento per la donna, mai prima di allora impegnata nel lavoro al di fuori delle mura domestiche. Per questo dobbiamo esserne orgogliosi, senza dimenticare che a loro va ascritto anche il merito di aver portato il nome dell’ “Atelier” di San Pancrazio in gran parte dell’Europa fin dai primi anni del Novecento. lavoratrici e l’obbligo di un’equa distribuzione del lavoro, doveva curare l’insegnamento della cernita delle diverse qualità, il cambiamento d’aria nei locali almeno due volte al giorno, e allontanare le piumatrici quando venivano spazzati i locali. Le operaie puerpere non erano ammesse al lavoro, ma veniva loro affidato lavoro a domicilio. Il compito del laboratorio di San Pancrazio era quello di selezionare le penne da ornamento. La richiesta di queste piume era notevole anche perché non va dimenticato che erano gli anni della Belle Epoque in cui sia per i cappellini allora di moda, sia per le scene ed i costumi delle operette e delle riviste di tutta Europa erano richiestissime le penne e piume da ornamento che proprio qui venivano selezionate per poi subire i trattamenti di sterilizzazione e tintoria. Le balle delle penne provenivano in parte dai pelatoi della Ditta, i pladur dla Ditta, nonché dai mercati della Romagna e dall’Estero. Il birocciaio dei Babini portava la penna a San Pancrazio e si fermava in canonica a suonare la campana della chiesa per chiamare al lavoro le donne che rapidamente arrivavano sul posto di lavoro perchè il laboratorio di San Pancrazio doveva rispondere alle richieste urgenti che la Ditta riceveva specie dall’estero. Ai rintocchi della campana, e’ segn dla pèna, che consisteva in una suonata a gruppi intervallati di tre tocchi con la campana grossa ripetuti varie volte, si vedevano le donne sbucare a piedi dalle varie direzioni del crocevia della chiesa e dal centro del paese ed avviarsi frettolose in direzione del laboratorio. Vestivano di scuro, col fazzoletto in testa e il grembiale di “rigaden”, le calze di lana o di cotone grosso fatte a mano: un abbigliamento che mal si addiceva per eseguire un lavoro sporco e polveroso. Le penne ancora imballate venivano poste sui numerosi tavoli del laboratorio; attorno ad ogni tavolo operavano due lavoranti, una di fronte all’altra, sedute su panchetti e circondate da tante cassettine entro le quali ponevano le penne selezionate. Luigi Montanari, “Note storiche e cronache su San Pancrazio”, a cura della Cassa Rurale ed Arti giana di Ravenna e Russi, 1989. G. Colonnelli, “Evoluzione del quadro socioeconomico tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento”, in “Russi, un racconto sul territo rio”, Longo editore, 1989 Cento anni sul territorio, a cura di C. Liverani e E. Vita, Credito Cooperativo, Ravenna, 1998 5 Dri l'irola Le lavoranti della penna (al spnazoni) Babini Carolina Babini Eugenia Baccarini Maria Bezzi Antonia Bondi Guerriera Camerani Argia Camerani Aristilde Camerani Emma Camerani Panacea Camerani Rosa Casadei Antonia Casadio Sofia Cicognani Antonia Cicognani Ermelinda Fuschini Luigia Fuschini Norina Fuschini Pia Fuschini Teresa Galeati Alma Galeati Maria Gellini Assunta Giardini Cesira Guberti Nucia Maioli Erminia Maioli Giovanna Maioli Pia Medri Bice Medri Teresa Minardi Antonia Minardi Giulia Minardi Giuseppa Minghetti Anna Minghetti Ida Minghetti Maria Minghetti Santa Miserocchi Maria Missiroli Santa Panoni Bruna Pezzi Zenobia Placci Norma Ronconi Udilla Ronconi Ultetrice Rossi Santa Saporetti Alma Scozzoli Giovanna Scozzoli Minta Siboni Ancilla Silvestroni Giovanna Silvestroni Maria Ulivoni Telesfora Zaccaria Ernesta Zannoni Luigia Muritôn Evgenia d'Nândo Evgenia d'Filê Balôn Tugnôna Viera d'Pôni Checa d'Camaran Ristilda d'Picio Mora d'Camaran - Mora d'Cuchê Panacea d'Pulac Gnôna Tugnina de' Sord Pipina d'Ghilôti - Pipina d'Chicön Tugnina d'Zicugnan Baghí Gigina de Bofal Nurina d'Chilôn - Nurina d'Tòci Pia d'Ulindo Teresina d'Pala - Teresina d'Tigèr Tugnet Alma d'Buratêl, maestra Maria d'Buratêl Sunta d'Favôn Cisirôn Nucia d'Pradâna - Nucia d'Barunzlôn Erminia de' Bafii - Erminia d'Pôni Gianina de' Bafii Pia de' Bafii Bice d'la Bagarita Teresa d'la Bagarita Tugnet d'Binöl Giulia de' Bofal - Giulia d'Binöl Liséta d'Braschi Nuciôn d'Malanca Capanaz Maria d'Pumpeio - Piciôn Sintena d'Malanca Maria d'Sarafí - Maria d'Pirôn Aldina d'Turet Bruna dla Panacea - Bruna d'Pulac Zanobia d'Caplôn - Zanobia d'Chilôn Norma d'Tantí Udiglia d'Giarlè Nina d'Giarlè Sunta d'Caséta Alma d'Fis-cet Giuvaní Minta d'Ragi, maestra Ancila Gianô d'Giugliaz Olga d'Giugliaz Gilda d'Susa Ernesta d'Strazacânva - Ernesta d'Pléca Gigeta d'Burasca Ci scusiamo per le eventuali donne non citate in quest’elenco 6 i ttor e l i e tti) Ringraziamo Don sta cdiano Minghe o p a u Angelo Duranti che in L ura di L Dri l'irola (a c I Quel tintinno diceva:-Era l’estate: le cicale cantavano sui meli: bianca famiglia, voi dov’eravate? risposta ad un nostro invito ci ha inviato una lunga lettera autobiografica, con una sua fotografia, di cui vi daremo conto esaurientemente nel prossimo numero. Siamo molto grati all’amico e socio appassionato Ennio Pezzi per l’impegno culturale costante dedicato al recupero della memoria. Ci ha inviato la zirudela di Aldo Zama che pubblichiamo. Il maestro Gigino ha scoperto che anche il Pascoli è rimasto colpito dalla canapa e dalla tessitura. Certo nei campi: lunghi e verdi steli col fiore in cima: ondeggiando allora non pensavate a diventare dei teli. Venne l’autunno: usciste d’una gora umidi e bianchi: bianchi sì, ma canne dal fiume usciste a riveder l’aurora. E poi sembraste piccole capanne là sul greto tra i ciottoli e le ghiaie, ritte sui piedi delle quattro manne. La sarà bèla, mo par mè st’usânza d’sghër una vècia cröla, imbambinìda, cun la pèll fàta d’rùgh, tott’ingrinzìda, l’an um piës no! E quand t’aj tàj la pânza Sonava presso voi nelle pescaie il cadenzato canto delle rane, pari a quelle che poi venne dall’aie, che sëlta fura, fra mudând e cùl, cöcal, luvên, fìgh secch e cuciarùl, cun un armes-c d’castâgn e d’purtugàli, ag göst aj èl? - a dëgh - o forsi am sbàli? chiaro gracchiar di gramole lontane. II Venne l’inverno; e vennero al camino l’esili nonne, con una gran ciocca bianca, e ciascuna con un suo piccino; Forsi a dirì che mè an e’ vöj capì quell ch’l’è la tradiziôn, quell che vö dì che, mört l’invéran, e vên la premavera! Alora, a dëgh, se vên la premavera, parchè an truvé una dòna zövna e tòsta cun una ciòpa d’tett tondi d’sta pòsta e invézi d’strapazzëla e d’stajazëla fëj du trì cumplimênt, acarizëla, metti sott al sutân dla ciculëta dla qualitë piö fêna e dilichëda? L’è una ròba ch’la piés, ch’l’an fà la moffa ch’l’ass mâgna a tott’agli ör e pù l’an stoffa! un piccino che ronza e che non tocca mai terra, eppure, non va mai lontano, frullando giù col filo nella còcca. Con queste rócche venne poi pian piano lo stridulo arcolaio; e le sorelle dietro si corsero corsero invano. E il telaio sonò tra le procelle: rumoreggiava tutta la contrada di battenti, di calcole e girelle. Dopo tanto rumore; alla rugiada, sul verde prato, in una rosea sera, dritta e lunga, simile a una strada, Int i paìs de’ mônd piò prugredì uss dìs che e’ més ad mërz l’ha la magì; quindi la ciculëta, nênca lì, la mett insên un göst piò savurì. Se la magì la j’è, basta t’la tocca e t’ sênt ch’l’arìva l’acvulêna in bocca! Questa, s’avlì, l’è söl una prupòsta, stugié l’idea e pu am darì l’arspòsta! c’era la tela; ed era primavera. III Sopra le margherite e sopra il timo stava la tela, e si vedea lì presso un canapaio nero ancor di fimo. E la luna pendea sopra il cipresso e tu guardavi sulla strada, o Rosa, lunga, e quel campo, dove a quel riflesso LA FESTA DELLA “SEGAVECCHIA”, di Aldo Zama Sarà bella, ma per me quest’usanza di segare una vecchia decrepita, rimbambita, con la pelle rugosa, ingrinzita, non mi piace! E quando le tagli la pancia che saltan fuori, fra mutande e culo, noci, lupini, fichi secchi e cucchiaroli, con miscuglio di castagne ed arance, che gusto c’è? - dico- o forse sbaglio? Forse direte che non voglio capire quello che è la tradizione, quel che vuol dire che, morto l’inverno, arriva la primavera! Allora, dico, se viene la primavera, perché non trovare una donna giovane e soda con un paio di tette tonde, così ... e invece di strapazzarla e di stagliuzzarla farle un po’ di complimenti, accarezzarla, metterle sotto le sottane il tuo corredo già nascea, di sposa. della cioccolata della qualità più fine e delicata? É una roba che piace, che non fa la muffa, che si mangia a tutte le ore e non stanca! Nei paesi del mondo più progrediti si dice che il mese di marzo ha la magia; quindi la cioccolata, anche lei, acquista un gusto più saporito. Se la magìa c’è, basta toccarla e senti che ti viene l’acquolina in bocca! Questa, se volete, è soltanto una proposta, studiate l’idea e mi darete la risposta! 7 Dri l'irola La stalla (Continua da pagina 1) produceva il fieno, che accumulato in grossi cumuli “i paìr” serviva a sfamare il bestiame durante l’inverno. La paglia del grano veniva usata per fare la lettiera, che a sua volta mescolandosi con le deiezioni solide e liquide, andava a formare il letame, sostanza preziosissima che costituiva l’unica forma di concimazione. La stalla che era collegata con la casa colonica, era costituita internamente da una corsia laterale, e dall’altra parte da spazi, “le poste”, sopraelevati suddivisi da divisori in muratura o in legno, che ospitavano 2 o 3 animali. Molto importante era l’attività di rigoverno del bestiame. Ogni mattina ed ogni sera il bovaro “e’ buver” dava da mangiare, da bere, portava fuori il letame, metteva la lettiera pulita e mungeva pure il latte, aiutato dai familiari. Alla sera poi dopo cena ci si trovava magari con alcuni vicini “a tréb”, approfittando del leggero tepore prodotto dagli animali. Le donne filavano la canapa, gli uomini magari giocavano a carte. Era questo il modo di ritemprarsi, prima di andare a riposare, ed essere pronti ad alzarsi la mattina seguente molto presto, per un’altra lunga e faticosa giornata di lavoro. Materiali realizzati da “La Grama” Non è stato possibile realizzare un “tendone” nel parco della Scuola elementare di San Pancrazio per mostrare tutti gli oggetti della collezione nella stessa area ove ha sede temporaneamente il Museo. Per fortuna ci sono venuti incontro gli amici della Cooperativa “La Democristiana” di San Pancrazio che ci hanno messo a disposizione il locale dell’ex-cinema. Non appena l’edificio della Scuola sarà messo a norma inizieremo l’allestimento delle sale del Museo affinché siano pronte per essere inaugurate in occasione della sagra paesana. Ci aspettano mesi di intenso lavoro attorno al Museo, ma con l’aiuto dell’Amministrazione comunale siamo sicuri di allestire un Museo importante e utile alle Scuole e all’immagine del nostro Comune. Domenica 23 maggio 1999 Gita a Ferrara Partenza ore 8 - Arrivo ore 20 Per informazioni e prenotazioni telefonare a Ida Miserocchi tel.0544534614 “Quaderni” di testimonianze orali: -Il Grano e il pane: ieri e oggi; -Una vita fra la canapa; -Tessitura che passione! -Una vita fra i bigatti; -Una fèta d’furmaj; Domenica 27 Giugno 1999 Chiesuola di Russi (RA) “L’evoluzione di S.Pancrazio” Documentari su: Casa colonica Fabbri IL GRANO E IL PANE -Testimonianze dal Museo della civiltà contadina; -Il grano e il pane: ieri e oggi; -Una vita fra la canapa; -Latte e formaggio: produzione casalinga e artigianale; -Una vita fra i bigatti; Programma ore 10.00 Tavola rotonda: “Alimentazione ed economia in Romagna” ore 14.30 Dimostrazione della mietitura del grano a mano, battitura con la cerchia, macinatura, gramolatu ra, forno a legna tradizionale. ore 15.30 “Il pane più originale”. Gara non competitiva riservata ai giovani. ore 16.30 Musiche popolari e contadine. Per le pubblicazioni de “La Grama” chiedere Dri l’irola, supplemento curato da: Associazione culturale “La Grama” Via della Resistenza, 12 48020 San Pancrazio (RA) Tel. 0544534303 - Fax 0544534775 E-mail: [email protected] Numero di conto corrente postale de “La Grama” 11939485 I dati personali sono rigorosamente personali e saranno utilizzati solo per l’invio di questa pubblicazione e di altre informazioni relative alle La quota 1999 per associarsi alla “GRAMA” è di lire 20.000 8