La conciliazione giudiziale tributaria nell’interpretazione della giurisprudenza: casi e materiali per un’analisi critica dell’istituto * SOMMARIO: 1. Profili dell’indagine. – 2. L’attività funzionalizzata dell’amministrazione finanziaria nell’accordo conciliativo. - 3. Il proprium della conciliazione giudiziale rispetto ad ogni altro evento di cessazione della materia del contendere. – 4. (segue). La cessazione della materia del contendere come carenza sopravvenuta dell’interesse a ricorrere. – 5. Disamina di alcuni casi giurisprudenziali. Validità della conciliazione in relazione alla pendenza del processo. – 5.1. Conciliazione giudiziale in assenza del processo. – 5.2. Accordo conciliativo al di fuori della disciplina dell’art. 48 del d. lgs. n. 546/1992. – 5.3. Conciliazione giudiziale e ricorso inammissibile. – 6. Il ruolo del giudice tributario nella conciliazione giudiziale. – 7. Vizi del consenso nell’accordo conciliativo: una soluzione non convincente della Cassazione. 1. Profili dell’indagine La disamina delle pronunce intervenute in tema di conciliazione giudiziale in applicazione dell’art. 48 del d. lgs. n. 546 del 1992 consente alcune riflessioni su problematiche, scarsamente indagate dalla dottrina e tuttavia di notevole impatto sul piano effettuale, che riguardano in particolare il contenuto dei poteri del giudice sull’ammissibilità dell’atto conciliativo e sulla verifica dei suoi presupposti, ed in ultimo gli strumenti e le tecniche di tutela, a vantaggio sia del contribuente che dell’amministrazione finanziaria, a fronte di eventuali errori o invalidità dell’accordo conciliativo. Su questi profili, si diceva, l’attenzione della dottrina non è stata particolarmente approfondita. E la ragione si deve alla circostanza che essa è stata quasi totalmente assorbita dall’indagine sulla natura dell’accordo in ambito tributario, natura tuttora ambigua e oggetto di contrastanti assunzioni dogmatiche, nella convinzione che una volta risolto il profilo dell’inquadramento teorico dell’istituto consensuale, e presa posizione sulla natura del rapporto che si instaura tra amministrazione finanziaria e contribuente, ne debba discendere quasi in automatico la soluzione dei profili applicativi della conciliazione giudiziale, tra cui quelli che si sono appena segnalati. * Testo della Relazione al Convegno Azione Amministrativa e azione impositiva tra autorità e consenso, tenutosi a Pescara il 5 ottobre 2007. 1 Tuttavia questa modalità di approccio, risentendo in larga parte di una visione per così dire uniformatrice degli istituti consensuali, per la preminenza in essi dell’”accordo” tra le parti, ha assunto quasi ad esclusivo riferimento, quale oggetto di indagine, l’accertamento con adesione, dal momento che esso rappresenta il modello principale tra gli istituti consensuali presenti nell’ordinamento tributario; quello che, per la sua lunga tradizione (posto che esso può farsi risalire al “concordato tributario” largamente utilizzato nella legislazione fiscale del Novecento) offre all’interprete il più vasto terreno di ricerca e di approfondimento. Tutto questo ha comportato, per quanto attiene alla conciliazione giudiziale, la marginalizzazione dei profili processualistici per il prevalere dell’indagine sugli aspetti di natura sostanziale del consenso, ed il tendenziale appiattimento delle differenze tra l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale sul piano degli effetti dell’accordo e della sua efficacia in connessione con gli eventuali vizi del consenso. Passando al versante giurisprudenziale, questa preminente attenzione della dottrina agli aspetti di carattere sostanziale dell’accordo e le incertezze che sono scaturite dall’ampio ventaglio di opinioni sull’argomento, hanno determinato quel disorientamento che già in passato la dottrina1 aveva rilevato a proposito delle posizioni giurisprudenziali sul concordato tributario (strumento, allora, anche di definizione della controversia pendente), disorientamento per il quale, sebbene il giudice possa essere indotto ad accogliere l’idea che nell’accordo tributario l’attività amministrativa, anche quando si avvale di strumenti privatistici, resta comunque attività funzionalizzata ed espressione dell’esercizio unilaterale del potere, si affida tuttavia per la soluzione dei problemi pratici ai moduli collaudati, e perciò più a portata di mano, ispirati a principi propri della concezione contrattualistica dell’accordo; fornendo nello specifico soluzioni non appaganti o, in alcuni casi, addirittura non condivisibili. 2. L’attività funzionalizzata dell’amministrazione finanziaria nell’accordo conciliativo 1 Il riferimento è a PUOTI, Spunti critici in tema di concordato tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin. 1969, I, 347, Id., L’invalidità del concordato nella giurisprudenza delle Commissioni tributarie, in Giur. it. 1970, parte III, sezione II, 24; e a TESAURO, Spunti problematici sull’imposizione concordata, in relazione a un caso di invalidità, ivi, 19, Id., Rilievi in tema di concordato tributario, con particolare riguardo a taluni indirizzi giurisprudenziali, in Giur. it. 1970, parte III, sez. II, 55. 2 Non si dubita della correttezza dell’impostazione seguita dalla dottrina, secondo la quale ai fini dell’esame dei profili applicativi della conciliazione giudiziale nel processo tributario occorre preliminarmente prendere posizione sulla natura del rapporto che si instaura tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente, così da individuare in coerenza col modello teorico prescelto le soluzioni alle problematiche che si pongono sul piano pratico. Tuttavia, l’importanza di questo elemento non va sopravvalutata. E la ragione sta nel fatto che, ad eccezione di una parte del tutto minoritaria della dottrina secondo la quale con l’accordo, sia nell’ambito dell’accertamento con adesione che nella conciliazione giudiziale, si darebbe vita ad un negozio transattivo, interamente disciplinato dalle norme e dai principi sulle obbligazioni ed i contratti, nelle ricostruzioni dogmatiche che sono state prevalentemente prospettate2, anche in quelle che hanno valorizzato l’adesione del contribuente innestandola nella fattispecie complessa quale componente integrante ed inautonoma dell’accordo, l’indirizzo che si è fatto strada è che l’attività amministrativa, anche quando svolta con strumenti privatistici, è comunque un’attività finalizzata. Resta infatti forte (si direbbe insuperabile) l’idea dell’incompatibilità tra autonomia privata e statuto speciale dell’azione amministrativa, sicchè anche negli atti consensuali l’amministrazione non può esercitare poteri di autonomia privata, ma i poteri amministrativi conseguenti alla funzione attribuita dal legislatore. Anche a volere rivolgere l’attenzione più in generale all’area disciplinare del diritto amministrativo nel quale, soprattutto dopo l’introduzione con l’art. 11 della legge n. 241 del 1990 della disciplina generale dell’accordo amministrativo, la funzione collaborativa nella formazione dell’atto ha visto crescere sempre più la sua rilevanza, quale espressione del ridimensionamento del ruolo del provvedimento come esercizio unilaterale della potestà, l’atteggiamento della dottrina verso aperture in direzione c.d. “panprivatistica” dell’attività amministrativa è stato molto cauto. Pure in quest’ambito, infatti, nonostante si avverta l’importanza dell’affermazione del diritto del privato di partecipare alle scelte amministrative e perciò di concorrere alla 2 Per una sintesi delle diverse posizioni della dottrina tributaristica si rinvia a RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in Atti del Convegno di studi su Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Catania 14 e 15 settembre 2007; ed a MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 74 ss. 3 formazione del provvedimento, si sottolinea d’altro canto che l’accordo non può mai essere espressione di autonomia contrattuale dell’amministrazione. Ed infatti questa nozione ha un senso se viene circoscritta concettualmente al caso di libera valutazione degli interessi e del modo di soddisfarli, con conseguente esclusione di qualsiasi vincolo di scopo (cfr. art. 1322 c.c. “ Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto”). Ma, così considerandola, non v’è dubbio che non è predicabile alcuna autonomia negoziale nell’azione amministrativa, per la presenza del vincolo di scopo della soddisfazione dell’interesse pubblico. Vincolo in conseguenza del quale non può mai darsi luogo, per definizione, ad atti che esprimono autonomia negoziale nel senso sopra precisato3. E se, di norma, il potere autoritativo si esprime in atti unilaterali, esso può anche esprimersi in atti bilaterali (consensuali), mantenendo i suoi caratteri di potere autoritativo. Non esiste, infatti, un rapporto di necessarietà biunivoca tra carattere unilaterale del potere e struttura unilaterale dell’atto con il quale il potere è esercitato; con la conseguenza che il potere amministrativo può trovare espressione anche in atti bilaterali. In sostanza, è più che consolidata nell’ambito amministrativo l’opinione secondo la quale l’accordo (oggi disciplinato dall’art. 11 della l. 241/1990), pur essendo ascrivibile in via generale all’area del negozio, è una delle modalità per la conclusione del procedimento amministrativo ovvero per la definizione di alcuni elementi del provvedimento, “e perciò si iscrive senz’altro nel modulo di esercizio del potere, non come modulo alternativo a questo”4. 3 Cfr. SCOCA, Autorità e consenso, in AA.VV. Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Milano, 2002, 28. 4 CERULLI IRELLI, Il negozio come strumento di azione amministrativa, in AA.VV. Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Milano, 2002, 80. Vd. anche VASTA, La revoca degli atti amministrativi consensuali, Padova, 2004, 20, secondo la quale con l’accordo si crea un fenomeno di avvicinamento tra amministrazione e privato, nel senso che questi entra a far parte della dinamica procedimentale, e in un certo senso all’esercizio della funzione pubblica; ma non il contrario, cioè a dire che l’amministrazione si spoglia della sua essenza pubblicistica e si pone sul piano dei rapporti di diritto comune; così anche FRACCHIA, L’accordo sostitutivo, Torino, 1998, 257. 4 Ed essendo un atto le cui caratteristiche ontologiche sono quelle della potestà amministrativa, i principi del codice civile in tema di obbligazioni e contratti trovano un limite proprio nella necessità di applicazione di tale regime pubblicistico5. Se questo vale ed è così ampiamente riconosciuto nell’esercizio di poteri amministrativi di natura discrezionale, a maggior ragione avrà rilevanza nell’ambito dell’esercizio della funzione impositiva il cui contenuto è vincolato dalla legge6. Si tende, dunque, al di là delle ricostruzioni dogmatiche (anche di quelle che valorizzano il consenso del contribuente ed i profili negoziali dell’”accordo”) a riconoscere e prendere atto che, sul piano della validità, poichè l’azione amministrativa esprime anche in questi casi l’esercizio della potestà, sarà applicabile il relativo regime, ossia il regime dell’atto amministrativo. Mentre, all’adesione del contribuente, come manifestazione di volontà, sarà in linea di massima ascrivibile il regime della disciplina codicistica, a cominciare dai vizi del consenso. A quest’ultimo riguardo deve tuttavia osservarsi che, poichè il consenso del contribuente non cade sul contenuto dell’accordo (che si è detto essere principalmente espressione del potere amministrativo) i vizi del consenso tendono a tradursi in vizi di legittimità dell’atto. Ciò è tanto vero che secondo l’indirizzo prevalente, formatosi sia nella dottrina che nella giurisprudenza con riferimento al concordato tributario, riguardo al termine d’impugnazione della definizione si ritiene “pacifico, stante la natura e gli scopi di un tale atto, che le norme da applicarsi non possono essere che quelle considerate dall’ordinamento tributario”7; e non è perciò invocabile il maggior termine dettato dal codice civile per l’azione di annullamento dell’atto dal consenso viziato. Sfumano, dunque, per quanto attiene alla patologia dell’accordo, le sostanziali differenze tra le diverse ricostruzioni dogmatiche. 3. Il proprium della conciliazione giudiziale rispetto ad ogni altro evento di cessazione della materia del contendere 5 In tal senso GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, 2003, 222, e Id., Il regime degli accordi pubblicistici, in AA.VV. Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Milano, 2002, 165. 6 FRACCHIA, L’accordo sostitutivo, cit., 259. 7 Comm. centr., II sez. , 18 ottobre 1968, n. 98838. 5 Per quanto riguarda la conciliazione giudiziale, è noto che nelle diverse aree dell’ordinamento in cui essa è disciplinata si tende a tenere distinto l’aspetto processuale, che costituisce poi il nucleo essenziale e costante della conciliazione e che consiste nell’immediata chiusura del giudizio mediante pronuncia di cessazione della materia del contendere, dall’aspetto sostanziale, al quale quegli effetti processuali si fanno risalire, che è poi il piano dell’accordo sottostante tra le parti per la cessazione della res litigiosa. E sebbene l’istituto in questione si inquadri nell’ambito di un fenomeno unitario complesso, questi due aspetti devono tenersi opportunamente distinti. Ne consegue anche che non è ravvisabile una causa tipica di conciliazione o un negozio dal nomen iuris tipicamente configurato; ciò in quanto sulla struttura elementare e permanente del fenomeno conciliativo, secondo la definizione che si è data, si innestano le variabili nascenti dalla concreta e specifica fisionomia conferita ai diversi istituti conciliativi, e l’eterogeneità del possibile contenuto sostanziale dell’intesa intercorsa tra le parti. Queste preliminari notazioni si prestano, ai fini della presente indagine, ad alcune considerazioni. La prima, secondo cui va escluso che le parti che conciliano il giudizio diano necessariamente luogo, sul piano sostanziale, ad una transazione. Si veda la giurisprudenza in tema di applicazione dell’art. 185 c.p.c., secondo cui nella conciliazione giudiziale “possono essere contenuti una transazione, una rinunzia, un riconoscimento oppure un qualsiasi altro negozio”8. Ciò equivale a dire che la conciliazione giudiziale può trovare fondamento in qualunque fattispecie idonea a fare cessare tra le parti le ragioni della lite. La seconda considerazione attiene alla perimetrazione degli aspetti funzionali tipici della conciliazione, rispetto ad ogni altra vicenda che, al pari di essa, determina nel processo la cessazione della materia del contendere. Questa notazione trae spunto dalla circostanza che, come si è detto, sul piano propriamente processuale la conciliazione, nelle diverse possibili configurazioni tante quante sono tracciate dal legislatore, presenta il comune denominatore di dare luogo ad una pronuncia giudiziale che determina la cessazione del giudizio. Essa è dunque 8 Cass. 9.11.1995, n. 11677. 6 caratterizzata strutturalmente, in questa fase, dall’intervento necessario del giudice. Tuttavia, sebbene sul piano funzionale l’effetto che maggiormente risalta è appunto quello della chiusura del giudizio nel quale interviene, questo effetto non può ritenersi proprio e specifico della conciliazione. Ed infatti esso si realizza in ogni circostanza in cui, essendo venuta meno per qualsiasi ragione la materia del contendere, le parti richiedono al giudice, o si imponga d’ufficio, la pronunzia estintiva del giudizio. Si vuole con ciò sottolineare che la rilevanza funzionale dell’istituto conciliativo, tale da costituirne il proprium, è rappresentata piuttosto dagli effetti, ulteriori alla chiusura del giudizio, di volta in volta segnati dal diritto positivo in dipendenza del modello conciliativo prescelto. Si guardi alla conciliazione nel processo civile ai sensi dell’art. 185. L’effetto suo proprio, sul piano funzionale, non è quello di mettere fine alla controversia (questo effetto, lo si ripete, è comune ad ogni ipotesi di cessazione della materia del contendere), quanto piuttosto quello di fornire alla parte interessata il titolo esecutivo per agire nei confronti dell’avversario. Così, per quanto concerne l’istituto conciliativo disciplinato dall’art. 48 delle norme sul processo tributario, il proprium è in questo caso da rinvenire nell’effetto premiale disciplinato dal comma 6, in base al quale in caso di avvenuta conciliazione le sanzioni amministrative si applicano nella misura di un terzo delle somme irrogabili. 4. (segue). La cessazione della materia del contendere come carenza sopravvenuta dell’interesse a ricorrere. Una terza considerazione è invece legata al contenuto della pronuncia con la quale il giudice, in conseguenza dell’intervenuta conciliazione della lite, dichiara cessata la materia del contendere. Secondo l’impostazione suggerita da autorevole dottrina9, la pronuncia di cessazione investe il merito della controversia ed è perciò suscettibile di dare vita alla cosa giudicata. Di conseguenza, l’assimilazione del fenomeno in esame ai casi di estinzione 9 Il riferimento è in particolare a RUSSO, L’estinzione del processo tributario, in Dir. prat. trib. 1994, I, 433; Id., Cessazione della materia del contendere (diritto tributario), in Enc. Giur. 1999; Id., Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Milano 2005, 202. 7 del processo, operato dall’art. 46 del d.lgs. 546/1992, sarebbe impropria sul piano terminologico e concettuale, giacchè l’estinzione discende, tanto nel processo civile quanto in quello amministrativo, dalla rinuncia agli atti del giudizio o dall’inattività delle parti; ossia da eventi che non toccano il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ma direttamente quest’ultimo, determinandone la fine senza alcuna pronuncia sul merito. In base a questa impostazione, il legislatore avrebbe accomunato perciò le differenti ipotesi al solo scopo di uniformare la regolamentazione del provvedimento di chiusura del giudizio. V’è ragione di discostarsi da questa opinione, a motivo della specificità del processo tributario e del tipo di sentenza a cui esso mette generalmente capo. Appare infatti evidente che tanto più è ascrivibile alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere la natura di pronuncia di merito, quanto maggiore è la propensione a considerare il processo tributario come strumento di tutela di rapporti, ossia di situazioni relazionali, donde l’accertamento del giudice è idoneo a fare stato tra le parti. Se si guarda, invece, nella diversa ottica secondo la quale nel processo tributario la posizione del contribuente generalmente è assorbita dall’interesse alla rimozione del provvedimento, e la situazione giuridica tutelata si risolve in null’altro che nel diritto d’azione10, e cioè nell’interesse del contribuente all’annullamento del provvedimento, vi sarà allora spazio per ritenere che poichè a seguito della definizione l’atto amministrativo oggetto dell’impugnativa è stato tolto ormai di mezzo, la situazione che viene di conseguenza a determinarsi nel processo è identica a quella che si verifica con l’autoannullamento dell’atto impugnato ad opera dell’amministrazione. Ed appare allora evidente che, venuto meno l’atto per essersi sovrapposta la nuova realtà disegnata dalla 10 Si tratta della concezione processualistica dell’interesse legittimo all’annullamento dell’atto impositivo, e la sua riduzione a mera fonte della legittimazione ad agire in giudizio. In sostanza, in questo tipo di processo, quando esso ha ad oggetto l’impugnazione di provvedimenti, non vi è un interesse ad agire diverso da quello dell’impugnazione del provvedimento finalizzata alla sua rimozione. Si è anzi nell’ambito di una giurisdizione in cui l’interesse a ricorrere è “tipizzato”, e non può il contribuente ricorrere al giudice al di fuori dei casi e dei momenti appositamente stabiliti (cfr. art. 19, d. lgs. n. 546/1992). Su questi aspetti sia consentito rinviare a RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 103 ss. 8 definizione, cade anche l’interesse del ricorrente alla pronuncia sul merito dell’impugnazione. Non è un caso che nel processo civile, soprattutto con riferimento alle sentenze di cessata materia del contendere della Cassazione, utile banco di prova ai fini di questa indagine posto che si tratta di giudizio di legittimità, l’orientamento prevalente è nel senso che “quando nel corso del giudizio di legittimità intervenga una transazione o altro fatto che determini la cessazione della materia del contendere, in tale fattispecie è ravvisabile una causa di inammissibilità del ricorso, sia pure sopravvenuta, per essere venuto meno l’interesse della parte ricorrente ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione” (corsivo aggiunto)11. Pertanto la dichiarazione di cessazione della materia del contendere si risolve nell’accertamento della sopravvenuta carenza d’interesse ad agire del ricorrente e la sentenza dà luogo ad un giudicato con valenza esclusivamente processuale12. 5. Disamina di alcuni casi giurisprudenziali. Validità della conciliazione in relazione alla pendenza del processo 5.1. Conciliazione giudiziale in assenza del processo 11 Cass. SS.UU. 16 giugno 2006, n. 13916; 13565/05; 11176/04; SS.UU. 368/00. In dottrina, in questa direzione si veda GARBAGNATI, Cessazione della materia del contendere e giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc. 1982, 601; ed invece in senso contrario, VIANELLO, Note sulla natura delle pronunce che dichiarano la cessazione della materia del contendere, , in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, 685; CONSOLO, Cessazione senza rinvio e cessazione della materia del contendere: prospettive evolutive, in Giur. it. 2001, 24; SCALA, La cessazione della materia del contendere nel processo civile, Torino, 2003. 12 Questa soluzione giurisprudenziale, sul piano sistematico, contrasta per la verità con il rigoroso rispetto degli effetti che scaturiscono dall’improcedibilità del giudizio rescindente. Ed infatti, nell’ipotesi considerata, se effettivamente si avesse a che fare con una vicenda di sopravvenuta carenza dell’interesse all’impugnazione, le conseguenze sarebbero esattamente opposte a quelle che invece la giurisprudenza ricollega all’evento. Ciò per la ragione che se il giudice di cassazione si imbattesse in una situazione di carenza dell’interesse al ricorso, la conseguente pronunzia di inammissibilità, comportando la definitiva inibizione di ogni sindacato sulla sentenza impugnata, ne produrrebbe inevitabilmente il passaggio in giudicato. Costantemente, invece, la giurisprudenza che ha espresso l’indirizzo che si è riportato, vede nella declaratoria di cessazione della materia del contendere proprio il mezzo per neutralizzare la sentenza d’appello, ed il meccanismo idoneo ad eliminare i frutti della pregressa attività processuale. Nel processo tributario in realtà quest’ultima problematica non sembra porsi. Infatti, a seguito della definizione, l’atto amministrativo deve considerarsi ormai tolto di mezzo, e non si pone il problema della permanenza degli effetti delle eventuali sentenze intermedie, in quanto secondo la ricostruzione sistematica che si ritiene più attendibile (l’essere cioè il processo tributario un processo volto generalmente all’annullamento dell’atto impositivo), la sentenza che lo definisce non ha natura sostitutiva. Per l’approfondimento di questo profilo, sia consentito ancora un rinvio a RANDAZZO, L’esecuzione, cit., 112 ss. 9 Alla luce delle considerazioni di carattere generale che si sono svolte può procedersi alla disamina di alcune sentenze in tema di conciliazione giudiziale tributaria. In una prima, non propriamente recente, sentenza della Cassazione13 è stato affrontato il caso di un’istanza di conciliazione accolta dall’Ufficio ma non depositata in giudizio, in quanto il ricorrente non si era costituito. L’Ufficio aveva pertanto notificato l’avviso di liquidazione in dipendenza dell’accertamento oggetto di conciliazione, sul presupposto che lo stesso fosse divenuto definitivo. Incardinatosi il giudizio a seguito dell’impugnativa di questo secondo atto e giunto all’esame della Cassazione, la Corte, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ha rigettato il ricorso del contribuente in base alla considerazione che il carattere processuale dell’istituto conciliativo, come configurato dalla legge, postula l’instaurazione del rapporto processuale con l’organo giudicante, in assenza del quale la conciliazione è inefficace. La pronuncia è sul punto ineccepibile: la conciliazione è un mezzo di risoluzione della controversia, che deve essere stata perciò instaurata avanti la Commissione tributaria. Nella specie, il ricorso non era stato mai depositato presso la segreteria della Commissione e, quindi, il giudice non era stato investito della cognizione delle lite. Ora, se la controversia manca, non può ovviamente esserci la conciliazione giudiziale disciplinata dall’art. 48, d. lgs. n. 546/1992. Purtuttavia, nel caso in questione un ”accordo” conciliativo tra contribuente e Fisco era intervenuto, seppure fuori dal processo. Lascia perciò perplessi che la Cassazione, nel rigettare il ricorso del contribuente, abbia ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione fondato sull’accertamento che le parti tuttavia avevano definito, seppure in modo irrituale. Ad avviso della Cassazione la conciliazione intervenuta in assenza di controversia realizzerebbe “una transazione, inammissibile in materia tributaria”. La medesima transazione, pare però di capire, sarebbe invece consentita se intervisse nel giudizio, giacchè in tal caso “è configurata come una forma di composizione convenzionale della 13 Il riferimento è a Cass. 6 ottobre 2001, n. 12314; si vedano i commenti di POLANO, La Corte di cassazione puntualizza l’ammissibilità della conciliazione giudiziale, in G.t. 2002, 6, e BASILAVECCHIA, La conciliazione giudiziale può essere fuori udienza ma deve restare interna al processo, in Corr. trib. 2002, 983. 10 lite tributaria nella sede del processo, e si pone in deroga al principio più generale della normale indisponibilità per l’erario del credito d’imposta”; sicchè, prosegue ancora la Corte, “è da escludere che, laddove non ricorrano le condizioni previste dalla legge perchè la conciliazione possa essere validamente conclusa, l’accordo delle parti possa essere ritenuto vincolante per le stesse in base a principi più generali”. Ed invece sono proprio questi principi generali, a cui si è fatto riferimento in precedenza, che pongono in serio dubbio la correttezza delle conclusioni della Cassazione. Sul piano sostanziale, l’accordo conciliativo (ancorchè intervenuto e destinato a restare fuori dal processo) è essenzialmente esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione finanziaria in ordine alla fattispecie già oggetto di accertamento; tanto basta per convincersi del suo effetto normativo. Semmai può discutersi, e ciò ha anche adombrato la dottrina più attenta14, della possibilità che la conciliazione atipica, rimasta al di fuori di un processo mai incardinato, possa convertirsi in un accertamento con adesione, ancorchè intervenuto con modalità diverse rispetto al paradigma di legge15. Oppure, più verosimilmente, in atto di autotutela16, al quale è difficile negare gli effetti propri dell’esercizio di potere normativo. Se si tiene presente quanto detto a proposito dell’analisi dei profili generali della conciliazione giudiziale, il proprium di essa consiste nell’effetto premiale della riduzione della sanzione amministrativa irrogabile. Il rapporto sottostante, che ne costituisce il presupposto, ha di per sè immediata incidenza sull’assetto dei rapporti e 14 Vd. BASILAVECCHIA, La conciliazione giudiziale, cit., 985. Anche se osta a questa conversione l’ormai raggiunta definitività del provvedimento malamente impugnato. 16 Sulla problematicità dell’accostamento della conciliazione giudiziale con l’esercizio dell’autotutela in pendenza di giudizio si vedano le considerazioni, tra gli altri, di STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996, passim, e Id., Conciliazione giudiziale, commento all’art. 48 del d. lgs. n. 546/1992, in Consolo-Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005, 451, secondo il quale la contiguità tra i due istituti sarebbe soltanto apparente. Infatti, per l’Autore il presupposto dell’autotutela è costituito da un vizio dell’atto tale da indurre l’Amministrazione a ritirare la propria pretesa al fine di evitare la soccombenza in giudizio e la condanna al rimborso delle spese della lite; mentre alla base della conciliazione vi sarebbe una questione ed una lite dall’esito incerto, suscettibile di soluzioni di compromesso. “Nella conciliazione si ricerca, insomma, un patto sull’imposta, proprio per l’incertezza della questione controversa, mentre alla base dell’autotutela vi è l’abbandono della pretesa da parte dell’Amministrazione e la rinuncia ad una lite destinata a chiudersi con la soccombenza”. In ordine alla prima delle proposizioni, è evidente la distanza con l’impostazione seguita nel presente lavoro da chi scrive. 15 11 delle reciproche interferenze che scaturiscono dalla nuova determinazione autoritativa. E, sempre in ordine a questo rapporto sottostante, non è sostenibile (come pare invece affermare la Cassazione) che ciò che non è consentito fuori dal processo (in quanto realizzerebbe un’inammissibile transazione tributaria), sia invece consentito (“in deroga al principio più generale della normale indisponibilità per l’Erario del credito d’imposta”) nella composizione della lite in sede giudiziaria. La sentenza, da questo punto di vista, suscita dunque molte perplessità. 5.2. Accordo conciliativo al di fuori della disciplina dell’art. 48 del d. lgs. n. 546/1992 Se, come si è detto, non appare corretto negare effetti sul piano del rapporto sottostante all’accordo conciliativo intervenuto in assenza di pendenza processuale, a maggior ragione non se ne possono disconoscere gli effetti se l’intesa, ancorchè attuata anche in tal caso fuori dello schema formale segnato dall’art. 48 del d. lgs. n. 546/1992, intervenga però in pendenza di giudizio. In questa differente ipotesi, per quanto la conciliazione sia destinata a restare estranea agli effetti che si sono denominati “propri” della conciliazione ex art. 48, potrà però evidentemente dare essa luogo agli effetti, c.d. “comuni”, ascrivibili ad ogni evento che determina la cessazione della materia del contendere. Ossia, il venir meno dell’interesse delle parti alla pronuncia sul merito dell’impugnazione. Si vuole con ciò sostenere, in linea con le considerazioni svolte sul piano generale, che l’”accordo” sulla chiusura della lite tra amministrazione finanziaria e ricorrente può avvenire in ogni momento del processo; anche in grado d’appello e persino in pendenza di giudizio per cassazione. Ed è suscettibile in questi casi, come accade in conseguenza di ogni evento che faccia cessare la materia del contendere, di porre fine al processo. E tuttavia, poichè questo evento interviene fuori dei confini normativi della conciliazione giudiziale disciplinata dall’art. 48, non potranno evidentemente aversi gli effetti “propri” di quest’ultima, consistenti essenzialmente, come s’è detto, nel beneficio di riduzione della sanzione applicabile. 12 Per completezza, si segnala la recente Cass. 18.4.2007, n. 922217, che ha ritenuto ugualmente valida (ossia rispondente allo schema dell’art. 48, d. lg. 546/1992) la conciliazione raggiunta dopo alcune udienze di mero rinvio, udienze non utilmente e proficuamente celebrate. La sentenza è condivisibile, in quanto il limite imposto dalla legge per il deposito della proposta conciliativa è ancorato alla data di trattazione del ricorso; ma se l’inizio di questa è per qualunque ragione rinviato, anche il termine in questione subisce analogo differimento. Si pensi a quello che comunemente accade riguardo ai termini dell’art. 32 per il deposito di documenti o memorie difensive, rigidamente fissati in dipendenza della data di trattazione della controversia; se questa data è rifissata o differita, il rinvio si riflette pacificamente anche sui termini in questione. Si evince piuttosto dalla sentenza in commento, che ad avviso della Cassazione precludere la possibilità della conciliazione solo perchè intervenuta in ritardo “si porrebbe in urto con il canone della ragionevole durata del processo e non sarebbe fondatamente sorretta dall’opposto interesse alla tutela del diritto di azione, atteso che, sull’accordo delle parti a definire la lite, secondo il principio di disponibilità delle posizioni, il giudice imporrebbe...un’attività inutile e defatigante”18. Con ciò la Cassazione sembra confermare quanto si è sostenuto sopra: la conciliazione pone inevitabilmente fine al processo. Proseguirlo sarebbe inutile, giacchè l’esito sarebbe in ogni caso la pronuncia di cessata materia del contendere. Quel che viene in discussione, nel caso di eventuale ritardo nel deposito dell’accordo, è se possa trovare applicazione l’istituto conciliativo dell’art. 48 del d. lgs. n. 546/1992, ossia, sostanzialmente, l’effetto suo proprio del beneficio di riduzione della sanzione e della procedimentalizzazione, secondo regole specifiche, della conseguente riscossione del quantum conciliato. 5.3. Conciliazione giudiziale e ricorso inammissibile 17 18 In Foro it. 2007, I, 1689. Cass. n. 9222/2007, cit. 13 La pendenza del processo è requisito essenziale perchè abbia luogo la conciliazione giudiziale. Se il processo non pende, la fine del contrasto (lo si è visto sopra) opera solo sul piano sottostante. Può darsi però il caso che il processo penda, ma non sia procedibile per inammissibilità del ricorso (es.: impugnativa proposta oltre il termine dei 60 gg.). Si pone allora la questione se in tale evenienza la conciliazione giudiziale possa avere ugualmente luogo. Il riferimento è evidentemente alla conciliazione c.d. “semplificata” prevista dal comma 5 dell’art. 48, nella quale l’accordo interviene fuori dal giudizio ed il giudice, verificata la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità, dichiara con decreto l’estinzione del processo. A riguardo, la dottrina tributaristica19, sulla scia di quanto statuito dalla Cassazione in materia civile20, è orientata nel senso che poichè la pronuncia di inammissibilità del ricorso è pregiudiziale a qualsiasi altra pronuncia, l’esame della questione concernente la cessazione della materia del contendere non possa avere luogo, perchè assorbita dalla pronunzia di inammissibilità. Queste conclusioni non sono però convincenti. Occorre infatti tenere presente anche in questa circostanza le considerazioni di carattere generale svolte intorno, anzitutto, alla natura del processo tributario, e, secondariamente, agli effetti che la conciliazione determina sul rapporto processuale; effetti contrassegnati dalla sopravvenuta carenza in capo al ricorrente dell’interesse a ricorrere. In coerenza con questo inquadramento del processo tributario, come processo d’annullamento dell’atto impositivo, si è affermato che la posizione del ricorrente si risolve tutta, sul piano processuale, nell’interesse alla caducazione dell’atto; e che una volta che questo sia caduto per effetto dell’“accordo” conciliativo, il ricorso diviene inammissibile per mancanza d’interesse. In pratica, viene meno lo stesso diritto d’azione. 19 CANTILLO, Conciliazione (processo tributario), in Enc. Giur. 2002, 9; STEVANATO, Conciliazione giudiziale, in Consolo-Glendi, Commentario breve, cit., 444; TOSI, La conciliazione giudiziale, in Il processo tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 894. 20 Si vedano Cass. 18.11.1994, n. 9769; 17.5.1993, n. 5589; Cons. St., sez. V, 14.4.1978, n. 451. 14 Ponendosi in questa prospettiva, poichè la cessata materia del contendere si risolve nella perdita dell’interesse della parte ricorrente ad una pronuncia sul merito, l’ordine d’esame delle questioni si inverte: nel senso che l’esame giurisdizionale della questione concernente la cessazione della materia del contendere dovrà precedere l’esame relativo all’ammissibilità del ricorso. In virtù, infatti, del principio fondamentale della domanda, il sindacato giurisdizionale può essere attivato soltanto se richiesto dalle parti. Se l’interesse a ricorrere per qualsiasi ragione è venuto meno, l’esame giurisdizionale delle condizioni di ammissibilità del ricorso (che presuppone l’esistenza di quell’interesse) resta precluso. Questo principio è pacifico nella giurisprudenza amministrativa. Ed è sintetizzabile nella massima secondo cui “la dichiarazione di cessazione della materia del contendere ha carattere preliminare non solo rispetto alle questioni di merito, ma anche rispetto alla pregiudiziale relativa all’ammissibilità del ricorso”21 . Può obiettarsi a questa affermazione che, sempre nel quadro delle pronunzie del giudice amministrativo ordinario, in caso di riforma in autotutela del provvedimento impugnato il giudice, prima di pronunciare la cessazione della materia del contendere, verifica la conformità delle ragioni dell’annullamento dell’atto impugnato a quelle del ricorso, dando così luogo a quella che la dottrina22 ha definito una sentenza “solo apparentemente processuale”, ossia una sentenza che, per quanto presenti il dispositivo tipico di ogni sentenza di rito, contiene tuttavia la formulazione del giudizio di diritto su una questione di merito. Ora, è evidente che questa situazione non si presenta in relazione alla problematica in esame, posto che la revoca in autotutela del provvedimento impugnato per effetto della conciliazione interviene in questo caso, per definizione, con l’adesione espressa del ricorrente. Si è pertanto dell’avviso che qualora l’ufficio, ai sensi del richiamato comma 5 dell’art. 48 del d. lgs. n. 5546/92, depositi in giudizio una conciliazione alla quale il ricorrente 21 In questi precisi termini, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 12.12.1973, n. 294, in Foro amm. 1973, 1317; nella stessa direzione anche Cons. St., sez. IV, 26.8.1976, n. 712, ivi, 1976, 1830; Cons. St., sez. IV, 3.5.1977, n. 455, ivi, 1977, (“le eccezioni di cessazione della materia del contendere e di connesso, sopravvenuto difetto d’interesse, per loro natura, debbono essere esaminate prima di ogni altra questione di inammissibilità o di merito”); Cons. St., sez. V, 30.7.1986, n. 373, in CdS 1986, 872; Cons. St. , sez. IV, 5.5.1997, n. 477, in Vita not. 1997, 1404; Tar Lazio, sez. II ter 7.4.2006, n. 2491, in Foro amm. TAR, 2006, 1361; contra, Cons.St., sez. V, 14 aprile 1978, n. 451, in CdS. 1978, 636. 22 Vd. FRANCARIO, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52. 15 abbia aderito, il giudice debba dichiarare l’estinzione del giudizio anche se sussiste una causa ostativa alla proponibilità del ricorso, e ciò in considerazione della diversa scansione, sul piano logico, delle questioni pregiudiziali da esaminare. Ulteriori spunti in questa direzione possono cogliersi dalla disciplina di definizione delle liti per condono fiscale (vd. l. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16), in cui la definizione della lite e la conseguente estinzione del giudizio per cessata materia del contendere non trovano ostacolo, com’è noto, nell’inammissibilità del ricorso23. 6. Il ruolo del giudice tributario nella conciliazione giudiziale La preliminare scelta di campo sulla natura giuridica della conciliazione giudiziale si rivela decisiva in ordine alla soluzione della problematica circa i limiti cui soggiace il sindacato del giudice tributario sulla “sussistenza dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità” della conciliazione giudiziale cui all’art. 48, comma 5, del d. lgs. n. 546/1992. Solo se si parte dall’assunto che il provvedimento cui mette capo la conciliazione investe i presupposti sostanziali della controversia, nel senso del suo tradursi nel rigetto della domanda per sopravvenuta infondatezza, è possibile enfatizzare il potere di sindacato del giudice tributario sino a spingerlo al merito dell’accordo, alla sua convenienza, e, in una parola, alla congruità dell’ammontare conciliato. Muovendo invece dalla costruzione del fenomeno come accordo mediante il quale si ha l’eliminazione dal mondo giuridico dell’atto impugnato per cui, sul piano processuale, la conciliazione si traduce nella dichiarazione di cessata materia del contendere per essere venuto meno l’interesse ad agire del ricorrente, sarà allora agevole farne conseguire che il giudice tributario, in sede di esame delle condizioni di ammissibilità e dei presupposti per la conciliazione, non potrà scendere nel merito delle scelte effettuate dalle parti, dovendo arrestare il proprio compito all’esame formale dell’atto di conciliazione. Controllandone, perciò, la regolarità in relazione alla legittimazione delle 23 Sulla problematica relativa agli effetti della definizione fiscale ai sensi della l. n. 289/2002 sulla lite pendente, nel senso di determinare la chiusura del processo senza alcuna decisione in merito alla pretesa originariamente azionata, sia consentito il rinvio a RANDAZZO, Osservazioni sull’anomala “impugnazione” del diniego di definizione della lite fiscale pendente, in Riv. dir. trib., 2005, II, 302; e Id., Ancora sull’”impugnazione” del diniego di definizione della lite fiscale pendente, ivi, 2005, II, 420. 16 parti; alla corrispondenza tra l’oggetto del giudizio ed il contenuto dell’accordo; all’idoneità di esso di definire in tutto o in parte la lite; all’osservanza delle forme e delle modalità del procedimento conciliativo. Non anche (per quanto s’è detto) alla verifica dell’ammissibilità del ricorso, essendo questa questione preceduta, nella disamina, dalla pregiudiziale questione di cessazione della materia del contendere. Appare pertanto condivisibile quanto statuito dalla Corte costituzionale (sent. 24 ottobre 2000, n. 43324), secondo cui è lo stesso legislatore a definire i limiti della cognizione riservata all’organo giudicante, affidando ad esso, in vista di una più rapida definizione delle controversie tributarie, il compito di accertare se la conciliazione è ammissibile, se rientra nei casi consentiti e se la relativa procedura è stata correttamente espletata. Il che non equivale a sminuire il ruolo del giudice (a delegittimarlo e ridurlo a quello di mero “notaro” di un intervenuto accordo, sul quale non possa interferire). La sua attività è infatti preordinata alla definizione del giudizio, alla quale le parti non potrebbero altrimenti pervenire, sicchè il ruolo appare al contrario di decisivo rilievo e tale da riportarsi alla stessa essenza della funzione giurisdizionale25. 7. Vizi del consenso nell’accordo conciliativo: una soluzione non convincente della Cassazione L’analisi della problematica sui di vizi del consenso nell’accordo conciliativo è di tale complessità ed incertezza che a questo tema andrebbe dedicata una trattazione specifica non limitata alle poche riflessioni che troveranno spazio nel presente lavoro, la cui sola giustificazione è di segnalare la presenza del problema e di stimolarne l’approfondimento in un’altra sede più idonea. 24 In G.t. 2001, 373, con nota di GIORGIETTI, Sull’insindacabilità della conciliazione da parte del giudice tributario; ma si veda anche la nota a questa sentenza di MARELLO, La conciliazione giudiziale nel processo tributario: il primo vaglio della Corte, in Giur. cost. 2000, 4411. 25 Così ad avviso della Corte costituzionale nella sentenza richiamata. Questo orientamento si ritrova anche in Comm. prov. Macerata, sez. III, 20 settembre 1999, n. 223, in Fisco, 2000, 13061, con nota adesiva di RUSSO-FRANSONI; e in Cass. 18. 4.2007, n. 9222, cit., secondo cui “il giudice tributario è chiamato ad esercitare un controllo di legalità meramente intrinseco, senza potere esprimere alcuna valutazione relativamente alla congruità dell’importo sul quale l’ufficio e il contribuente si sono accordati”. 17 Ricollegandosi alla ricostruzione in chiave amministrativistica dell’accordo conciliativo, tratteggiata nella parte iniziale del lavoro, appare evidente che in considerazione della finalizzazione dell’attività amministrativa e della natura vincolata che nella materia tributaria esprimono le determinazioni dell’ufficio anche se esercitate con moduli consensuali, deve riconoscersi il potere dell’amministrazione finanziaria di agire in via di autotutela sui propri atti, e ciò secondo le regole ordinarie. Si tratta di un principio pacificamente affermato anche nell’ambito dell’esercizio discrezionale dell’attività amministrativa, ove si ritiene che per la “doverosità della funzione, il potere della pubblica amministrazione di agire in via di autotutela su propri atti precedenti non trova ostacolo nel carattere negoziale dell’azione pubblica. Pertanto le volontà pubbliche espresse negli accordi con i privati possono essere ritirate se inficiate nella legittimità, tramite un vero e proprio annullamento”26. In sostanza, negli “accordi” di cui si discute non è invocabile il principio generale dell’affidamento contrattuale, essendo assente nell’amministrazione l’autonomia dispositiva. La parte con cui l’amministrazione finanziaria viene a contatto non può legittimamente affidarsi a contenuti dell’accordo differenti da quelli che scaturiscono, trattandosi di funzione vincolata, dall’applicazione della legge. In ordine alla determinazione del Fisco è perciò impropria l’applicazione delle regole civilistiche sulla responsabilità della dichiarazione, e sulla rilevanza dell’errore solo se riconoscibile dall’altra parte secondo normale diligenza (cfr. art. 1431 c.c.). Il contribuente, infatti, è per definizione, ed ovviamente in via astratta, sempre in grado di riconoscere l’errore dell’amministrazione finanziaria nel determinare il contenuto dell’atto, e ciò in quanto l’eventuale divergenza rispetto al dichiarato non è rapportabile alla volontà interna ed autoregolamentata dell’amministrazione, ma alla fattispecie di legge cui il contribuente può direttamente attingere come termine di confronto. L’eventuale correzione dell’atto per opera della stessa amministrazione non urta perciò 26 In questi termini si esprime il Cons. St., sez. IV, nella sentenza 6.11.1998, n. 1448, in Foro amm. 1998, 3004. Si veda poi il c. IV dell’art. 11 della legge n. 241/90 che, in tema di accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, espressamente riconosce all’amministrazione, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, di recedere unilateralmente dall’accordo. E, come ha sottolineato la dottrina che specificamente si è occupata dell’argomento (cfr. VASTA, La revoca degli atti amministrativi consensuali, cit., 148), a questa disposizione non va riconosciuto valore attributivo di potere, bensì un significato meno pregnante e cioè di specificazione delle modalità di esercizio, atteso che il potere di revoca deve ritenersi immanente nell’esercizio della funzione. 18 col principio dell’affidamento secondo le categorie tipiche della dottrina civilistica del negozio giuridico. Queste considerazioni rendono evidente il dissenso di chi scrive all’impostazione che Cass. 3.10.2006, n. 2132527 ha dato al caso di errore dell’Amministrazione nel calcolo delle imposte avvenuto per un computo sbagliato in sede di redazione dell’atto di conciliazione. Errore che non aveva riguardato la definizione dell’imponibile ma piuttosto l’entità del prelievo ricavabile dal parametro di tassazione “concordato”. Per la Corte il vizio avrebbe potuto avere rilevanza solo se le operazioni aritmetiche di calcolo fossero state rese esplicite in seno all’accordo; così da porre le parti nelle condizioni di rivelarlo prima facie in base ai dati e ai criteri indicati in atto, ed emendarlo con la semplice ripetizione del calcolo. Ha ritenuto perciò di non censurare la sentenza di merito con la quale il giudice aveva considerato l’errore irrimediabile “difettando le stesse premesse riguardanti le aliquote applicate per pervenire al risultato finale della tassazione”. Appare evidente l’equivoco in cui è incorsa in questo caso la Cassazione. Complice indubbiamente l’impostazione teorica di fondo dell’istituto conciliativo che, come si legge nella motivazione della sentenza, “attiene all’esercizio di poteri dispositivi delle parti onde...va escluso che taluni atti negoziali, nella specie la proposta di conciliazione, siano esenti dai requisiti propri del negozio alla cui formazione sono preordinati”, la Corte ha ritenuto di risolvere la questione secondo i criteri, appunto, civilistici della riconoscibilità dell’errore. Con ciò rassegnandosi anche alla conclusione che “del resto, l’autonomia delle parti in ordine all’accordo comporta anche la possibilità di concordare su un risultato finale complessivo riduttivo dell’entità del prelievo originariamente richiesto dall’amministrazione, e tanto, di per sè, basta al giudice che si limita a prendere atto dell’avvenuta definizione della controversia”. Non considerando l’evidente contrasto di questa affermazione con i principi costituzionali degli artt. 23, 53 e 97 C. Ora, nella fattispecie all’esame della Corte, il problema andava invece riguardato secondo le categorie concettuali dei vizi di legittimità dell’atto amministrativo, ossia 27 In G.t. 2007, 223, con nota di POLANO, Errore di calcolo e rettifica di somme dovute nella conciliazione giudiziale tributaria. 19 considerando che, sul piano degli effetti, l’accordo realizza per l’amministrazione finanziaria l’espressione di un’attività impositiva al pari di ogni altra species della categoria degli atti impositivi individuali (riguardo al caso in questione, è noto come la giurisprudenza sia ferma nel considerare nullo l’accertamento privo dell’indicazione delle aliquote fiscali applicate28). Sotto il profilo del potere di iniziativa dell’Amministrazione di rinnovazione del provvedimento al fine di renderlo rispondente ai requisiti di legge, valgono perciò quelle stesse facoltà e limitazioni dello statuto dell’autotutela. Ne consegue che, a protezione dell’affidamento del contribuente alla stabilità dell’atto secondo i contenuti sostanziali fissati nell’accordo conciliativo, non appare possibile la retrattabilità in ordine agli elementi e presupposti di fatto assunti per la determinazione della base imponibile; se non nei limiti in cui, secondo le norme sostanziali (cfr. art. 43, u. c., dpr. n. 600/1973; art. 57, u. c., dpr. n. 633/1972), è consentita l’integrazione o modificazione dell’originario atto impositivo Ma, spostandosi all’area dei c.d. vizi di natura soltanto formale (cui può ascriversi l’ipotesi all’esame della Corte), in questo caso al problema poteva darsi con ogni probabilità una soluzione differente, in quanto per questo genere di vizi la rinnovazione dell’atto è in via di principio tradizionalmente ammessa. Franco Randazzo 28 Vd. Cass. 26.9.2001, n. 12052, in G.t. 2002, 9, con nota di BASILAVECCHIA, L’invalidità totale o parziale dell’avviso di accertamento privo dell’indicazione dell’aliquota. 20