Archeologia e Calcolatori 24, 2013, 395-401 RECENSIONI M. Limoncelli, Il restauro virtuale in archeologia, Roma, Carocci Editore, 2012. Le maggiori sfide all’impostazione tradizionale del discorso storico-artistico, architettonico e del restauro sono oggi poste evidentemente dalla Realtà Virtuale. Il volume di Massimo Limoncelli viene a colmare una lacuna assai importante nella bibliografia archeologica in lingua italiana: l’utilizzo della Computer Graphics per esperienze di restauro e di ricostruzione 2D e 3D espressamente dedicate a monumenti e opere d’arte antichi. Lo stato di conservazione spesso precario e cronologicamente stratificato dei monumenti archeologici ha da sempre costituito terreno fertile, e allo stesso tempo insidioso, per l’elaborazione di metodologie innovative di restauro tradizionale: si pensi ad esempio ad annosi dibattiti quale quello sull’anastilosi dei monumenti dell’Acropoli ateniese o quello – recentemente riapertosi – sul caso della siciliana Selinunte. La prospettiva su questi temi è però oggi destinata a mutare radicalmente, proprio grazie alla straordinaria evoluzione delle nuove tecnologie applicate al restauro virtuale. Ad esse è dedicato l’agevole saggio di Limoncelli, destinato alla diffusione della conoscenza di queste tematiche presso un pubblico costituito prevalentemente di studenti universitari, “nativi digitali” cui oggi è affidata – in corsi universitari di impostazione radicalmente diversa dal passato, e assai più orientati verso l’interazione con i saperi scientifici – l’applicazione dell’informatica alla conoscenza e messa in valore dei Beni Culturali. Nel primo capitolo l’A., in un linguaggio puntuale e allo stesso tempo pienamente accessibile, ripercorre lo sviluppo della metodologia del Restauro Virtuale, che nasce negli anni Novanta nel campo delle opere d’arte mobili per poi venire estesa all’ambito architettonico nel suo complesso. Le sue prime applicazioni riguardarono essenzialmente la prefigurazione digitale di interventi di restauro su opere pittoriche, salvo poi affermarsi anche come disciplina autonoma nell’ambito dei Beni Culturali. La finalità del Restauro Virtuale è la restituzione dell’unità formale come essa apparirebbe a seguito di un restauro fisico: esso compensa gli ineludibili svantaggi che derivano dall’approccio meramente virtuale dell’opera d’arte, e soprattutto dalla mancanza dell’aspetto conservativo, con la possibilità di poterne evidenziare digitalmente tutte le fasi di vita, dalla creazione originaria alla eventuale distruzione, senza imporre una scelta intrinsecamente distruttiva tra di esse, come invece accade nel restauro tradizionale. La Virtual Archaeology, oggetto di questo lavoro, è figlia di tali premesse tecnologiche e concettuali. Nata per applicazioni meramente divulgative ed illustrative in ambito museale, essa è oggi assurta al ruolo di disciplina autonoma, e si affianca – quando non lo sostituisce interamente – al tradizionale disegno a rilievo e alla ricostruzione architettonica dei monumenti antichi. Oggi quindi la Virtual Archeology si caratterizza per una elevata qualità scientifica e di contenuti culturali, che può peraltro venire assicurata solo attraverso la formazione universitaria di figure professionali specifiche, che sappiano coniugare al know-how informatico tutta la consapevolezza che può derivare solo da un’approfondita conoscenza storica, storico-artistica e /o architettonica del manufatto oggetto di ricostruzione virtuale. E proprio a tali figure in formazione, le cui competenze saranno sempre più richieste nell’ambito dei Beni Culturali, si rivolge il volume di Limoncelli. 395 Recensioni Nella parte prima del volume (capp. 2-4), l’A. illustra con competenza la specificità del restauro virtuale e della restituzione in 2D, integrata con le necessarie informazioni sulla natura dell’immagine digitale, sulle tecniche e sui principali software dedicati alla sua elaborazione. Il restauro in 2D è destinato ovviamente in primis ad opere in pittura, mosaico e documenti e materiali librari. L’A. inserisce qui anche considerazioni che forse avrebbero trovato più naturale collocazione nella Premessa dedicata alla teoria del restauro virtuale, per evidenziare come – se scientificamente consapevole – esso risponda ai medesimi requisiti di reversibilità, riconoscibilità, minimo intervento e compatibilità richiesti al restauro tradizionale, consentendo però allo stesso tempo di porre in essere opzioni che risulterebbero impraticabili se si intervenisse direttamente sull’opera d’arte. Un esempio concreto di quest’ultimo caso viene individuato dall’A. nell’intervento virtuale sull’affresco della parete Sud nell’abbazia medievale di Santa Maria in Cerrate, a Squinzano (Lecce)1: l’affresco, oggi privo di ogni coerenza iconografica a causa del riassemblaggio casuale dei conci di tufo durante la costruzione della nuova parete meridionale della chiesa, ha riguadagnato attraverso il restauro virtuale una coerenza iconografica e formale non altrimenti ottenibile con processi di restauro tradizionale. Indubbie potenzialità il restauro virtuale in 2D esprime poi nell’ambito della mappatura del degrado, e delle operazioni di pulizia, rimozione ed integrazione virtuale della pellicola pittorica: l’esemplificazione qui prescelta si riferisce alle esperienze dell’A. sugli affreschi tardoantichi dalla Casa del Cortile Dorico di Hierapolis di Frigia, nell’ambito della Missione Archeologica Italiana entro la quale Limoncelli ha applicato le sue conoscenze ad un numero elevato ed estremamemente diversificato di cantieri archeologici, che spaziano dalla pittura tardoantica all’ambito architettonico, santuariale e funerario, all’interno del progetto “Hierapolis Virtuale”. Alla ricostruzione 3D è dedicata la seconda parte del volume (capp. 7-10). Essa rappresenta l’aspetto meglio noto – ed allo stesso tempo in più rapido sviluppo – delle applicazioni informatiche all’archeologia. Dopo una preliminare disamina della natura peculiare del modello informatico, che si distingue dai modelli reali anche per la possibilità di effettuare la ben nota architectural walkthrough e rendere così l’esperienza spaziale assai più complessa ed appagante, Limoncelli passa in rassegna le principali tecniche di modellazione 3D, inclusa la fotomodellazione e le acquisizioni tramite laser scanner: di ognuna di esse sono adeguatamente messe in rilievo le potenzialità come pure le condizioni che ne rendono in alcuni casi difficile o inadatta l’applicazione. Anche gli stili di visualizzazione, ovvero il rendering, e la loro utilizzazione in determinati contesti sono ampiamente ed efficacemente descritti, ed il software attualmente a disposizione viene sinteticamente elencato e discusso. Il capitolo 8, forse il più interessante del volume, è dedicato all’uso del 3D in architettura, ed in particolare nei monumenti solo parzialmente conservati. Le sue applicazioni possono essere suddivise in due filoni principali: la verifica scientifica della proposta di ricostruzione, ed i restauri. Ad essi si affianca naturalmente l’applicazione del 3D nella divulgazione, scientifica e non. Per l’architetto-archeologo la possibilità di una verifica virtuale delle proposte di ricostruzione architettonica rappresenta un processo essenzialmente conoscitivo e di primissimo interesse; per l’archeologo-informatico la complessità delle restitu1 F. Gabellone, Metodologie integrate per la conoscenza dello stato attuale e lo studio ricostruttivo dei Beni Culturali, in F. D’Andria et al. (eds.), Il dialogo dei saperi. Metodologie integrate per i Beni Culturali, Napoli 2010, 495-516. 396 Recensioni zioni architettoniche è una sfida che deve tenere conto di una lunga serie di variabili e di limitazioni. Come di consueto, Limoncelli premette alle osservazioni di natura tecnica contenute nel capitolo una introduzione che illustra in maniera sintetica ma stimolante le principali direttrici della ricerca architettonica in ambito archeologico, e il modo in cui l’avvento del digitale e l’apporto delle scienze “dure” ne abbiano radicalmente potenziato e spesso modificato gli approcci tradizionali, consentendo di ricostruire la microstoria dell’edificio attraverso l’analisi sempre più rigorosa dei materiali e delle tecniche costruttive. Seguono pagine di grande suggestione sulla tradizione della progettazione architettonica e dell’utilizzo di modelli reali, ad esempio quelli brunelleschiani in legno per la cupola e le absidi di Santa Maria del Fiore, e sul modo in cui l’avvento della realtà virtuale abbia radicalmente trasformato l’approccio anche concettuale alla progettazione architettonica. Allo stesso modo le tecniche di restauro architettonico non sono più le stesse, dopo l’affermazione delle tecnologie digitali. La teoria del restauro da Viollet-le-Duc a Cesare Brandi rimane però il presupposto fondamentale per la riflessione critica sul restauro digitale, che oggi segue anche in ambito architettonico metodologie perfettamente rispondenti ai dettami del restauro tradizionale. Come l’A. ben argomenta, per conseguire un risultato valido e scientificamente accettabile, è necessario seguire, anche in ambiente virtuale, un iter rigorosamente scientifico. Fonti dirette (rilievo, stratigrafia degli elevati, dati di scavo) ed indirette (dati archivistici o letterari, illustrazioni e fotografie) vanno quindi passate criticamente in rassegna, quale presupposto ineludibile delle operazioni di restauro virtuale. Ciascuna scelta va inoltre esplicitata e motivata in un apparato critico che deve accompagnare il prodotto virtuale finito, e che consenta da parte del fruitore una puntuale revisione dei passaggi ricostruttivi. Appare quindi chiaro che una salda competenza nei saperi tradizionali della storia dell’architettura non può venire meno, neanche nell’applicazione dell’informatica alla conoscenza ed alla ricostruzione dei materiali antichi. Poiché non sempre le cognizioni necessarie possono essere riassunte nella medesima professionalità, su cantieri particolarmente complessi l’interazione stretta tra esperti di estrazione diversa diviene quindi fondamentale. Sfide simili, ma se possibile ancora più impegnative, vengono poste dall’applicazione della tecnica 3D all’ambito della scultura, di particolare interesse per questo recensore. Il volume di M. Limoncelli, che ha maturato significative esperienze in merito sia nella decorazione architettonica di Hierapolis che a Cerveteri e Siracusa, risulta in questa sezione un po’meno appagante che in quelle dedicate alla pittura ed all’architettura. Ciò è forse dovuto alla intrinseca complessità, sia concettuale che tecnica, delle applicazioni digitali ad un mondo di esperienze singole ed irripetibili quale quello delle opere scultoree. Nello studio della scultura, i migliori risultati si ottengono ancora attraverso un lungo e meticoloso processo di avvicinamento all’oggetto stesso, alla sua forma, ai suoi volumi, alla tessitura della sua superficie. Attraverso lo studio formale l’opera viene sistematizzata entro parametri evolutivi che sono di natura storico-artistica, culturale, contestuale. La disciplina della storia della scultura antica, alquanto rigorosa e basata su una serie di principi metodologici che sono rimasti sostanzialmente inviariati da 200 anni, guarda quindi con diffidenza all’utilizzo del digitale. Da parte sua il mondo del 3D spesso con fatica riesce ad abbandonare spettacolarizzazioni di grandissima efficacia, i cui obiettivi peraltro spesso esulano da quelli della ricerca scientifica. In questa tensione, la discussione teorica sulla materia – in particolare per quanto riguarda la scultura antica – è attualmente quasi completamente assente. A differenza dell’architettura antica, in larga parte costituita di pezzi realizzati in serie e come tali riproducibili a piacimento in 3D senza che il loro significato com397 Recensioni plessivo ne venga inficiato, una scultura vive della sua unicità. La Pietà fiorentina di Michelangelo2, come le riproposizioni romane delle sculture greche, non possono che risultare drammaticamente semplificate dalla riproduzione virtuale oggi disponibile. Non è quindi un caso che la letteratura sulla Realtà Virtuale nel campo della scultura antica sia ancora scarsa: i problemi metodologici ed anche tecnologici che essa pone sono ben maggiori di quelli posti dal restauro virtuale in ambito architettonico, e un suo utilizzo diffuso, anche a fronte dei costi elevati e della difficoltà operativa ed applicativa dei database, appare ancora oggi poco conveniente. Ancora più controversi alcuni recenti tentativi di applicazione delle tecniche di restituzione digitale nel campo dell’attribuzione di un’opera ad un Maestro, ovvero di una nuova connoisseurship digitale. Un progetto in tal senso è stato sviluppato di recente per confermare la proposta di attribuzione a Leonardo di un cavallino bronzeo conservato nel Museo Archeologico di Firenze, tradizionalmente ascritto al Cellini3. Il confronto virtuale del modello 3D del cavallo fiorentino con una restituzione tridimensionale del disegno leonardesco Windsor 358, di analogo soggetto, ha rivelato buone coincidenze ma non può assolutamente rivelarsi conclusivo. Allo stato attuale, la maggiore attrattiva della realtà virtuale nell’ambito della scultura antica risiede, nell’opinione del recensore, nella verifica di determinate ipotesi ricostruttive. È possibile infatti chiedere al 3D, applicato alla scultura, un contributo alla soluzione di specifiche questioni scientifiche: un caso emblematico è la ricostruzione del frontone Est del tempio di Zeus ad Olimpia4. La vexata quaestio della disposizione delle cinque figure centrali entro il timpano frontonale era stata tradizionalmente affrontata con l’ausilio del disegno o, nella migliore delle ipotesi, tramite calchi in gesso delle singole sculture. Essa è stata adesso risolta tramite la realizzazione di modelli digitali in 3D delle statue, integrate delle parti mancanti, e del timpano frontonale. Il gruppo di lavoro composto da scultori e da architetti, sotto la supervisione dell’archeologo responsabile, ha proceduto con due strategie e tecniche diverse giungendo a soluzioni comparabili, che hanno indicato come probabile una delle quattro possibili disposizioni del gruppo frontonale, e come due di esse siano certamente da escludere. Rispetto al tradizionale utilizzo dei calchi in gesso, i vantaggi dell’approccio virtuale risiedono evidentemente nella minore spesa, nella maneggevolezza dei modelli e nella possibilità di integrazione virtuale degli attributi perduti. Un’altra applicazione potenzialmente interessante dell’elaborazione digitale alla scultura risiede nella restituzione virtuale dei contesti monumentali in cui l’originale era situato. La storia dell’arte antica ha infatti negli ultimi tempi assegnato un interesse centrale alla questione della funzione dell’oggetto artistico all’interno del contesto monumentale cui esso era originariamente destinato. In questo ambito, la pura e semplice illustrazione del contesto architettonico non è evidentemente sufficiente, e in molte di queste ricostruzioni virtuali la differenza tra simulazione e ricostruzione scientifica non emerge sempre con la dovuta evidenza. L’elemento probabilistico, che è sempre alla base 2 F. Bernardini et al. 2002, Building a digital model of Michelangelo’s Florentine Pietà, in IEEE Computer Graphics and Applications, 59-67; J. Wassermann (ed.), Michelangelo’s Florence Pietà, Princeton 2003. 3 M. Dellepiane et al. 2007, Using 3D scanning to analyze a proposal for the attribution of a bronze horse to Leonardo da Vinci, in D. Arnold et al. (eds.), The 8th International Symposium on Virtual Reality, Archaeology and Cultural Heritage, VAST 2007 (http://vcg.isti.cnr.it/Publications/2007/DCFCS079). 4 A. Patay-Horvat 2012, Reconstructions of the East Pediment of the temple of Zeus at Olympia. A comparison of drawings, plaster casts and digital models, «Internation Journal of the Digital Era», 1.3, 331-349. 398 Recensioni di ogni ipotesi archeologica, spesso infatti non risalta a sufficienza in ricostruzioni che coinvolgono l’osservatore ad un livello anche emozionale molto intenso. Proprio per questo, il volume di M. Limoncelli svolge un ruolo prezioso nella creazione di una sempre maggiore consapevolezza di potenzialità e limiti nell’applicazione archeologica della Realtà Virtuale: in questo campo i risultati migliori infatti si otterranno dall’interazione sempre più stretta e scientificamente consapevole tra informatici e archeologi, tramite la definizione di obiettivi comuni perseguibili attraverso una strategia condivisa. Ilaria Romeo S. Costa, G.L. Pesce (eds.), Open source, Free Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica. Atti del II Workshop (Genova 2007), London, Ubiquity Press, 2013. Anche l’editoria archeologica sta percorrendo, nei tempi più recenti, nuove strade per rendere noti i risultati di ricerche, i contributi ai convegni, i dati di indagini sul territorio e altro. Sono aumentate le iniziative sul web (come le riviste elettroniche) e crescono i volumi editi nel solo formato digitale: le difficoltà nel reperire fondi, nonché la necessità di pubblicare in tempi brevi quanto si studia e il ruolo, in continua crescita, delle rete come spazio per divulgare e condividere le conoscenze scientifiche sono tutti fattori che hanno portato ad individuare nuove forme editoriali. Ne è un esempio anche il volume in oggetto che è disponibile nei tre formati Epub (free)/pdf (free) e paperback via print-on-demand; il volume è anche presente nella Directory of Open Access Book (DOAB), servizio che ha lo scopo di «increase discoverability of Open Access books», lanciato ufficialmente nel 2012 (http://www. doabooks.org/). Curato da Stefano Costa e Giovanni Luca Pesce, esso raccoglie i vari contributi presentati nel II Workshop tenuto, nel 2007, a Genova e organizzato dal working group IOSA, che si muove con lo scopo di valutare l’applicabilità del software libero alla pratica archeologica. Essendo passati alcuni anni tra il Workshop e la sua pubblicazione, gli autori hanno avuto modo di guardare ai progetti presentati attraverso esperienze e sviluppi più recenti, di valutarne la continuità o meno e di fare bilanci in positivo o in negativo del lavoro svolto. La dedica di questi atti è a due studiosi insigni, entrambi legati, in forme diverse, al lavoro: Riccardo Francovich (1946-2007) e Tiziano Mannoni (1928-2010). Il primo, ricordato anche in alcune sue forti affermazioni sulla tutela e sulla gestione dei beni culturali in Italia nell’intervento di T. Cevoli (Accessibilità dei dati e libertà di ricerca in archeologia: utopia o diritto, pp. 28-43), ha fondato «Archeologia e Calcolatori» insieme con Mauro Cristofani. Uno studioso, come sottolinea M. Valenti nel suo ricordo nelle pagine di questa rivista «che intuiva spesso le strade da seguire con un sorprendente anticipo su tutti…», attivo «nell’innovazione tecnologica per l’Archeologia e per la comunicazione dell’Archeologia», che fondò «laboratori informatici legati all’archiviazione ed al trattamento del dato archeologico che hanno pochi uguali al mondo» (M. Valenti, Riccardo Francovich (1946-2007), «Archeologia e Calcolatori», 18, 2007, p. 8, http://soi.cnr.it/archcalc/indice/PDF18/1_Valenti.pdf). Tiziano Mannoni, studioso che ha percorso nelle sue ricerche settori diversi, spesso come pioniere e innovatore, dall’archeometria all’archeologia dell’architettura e a quella della produzione, è ricordato nell’introduzione dei curatori come «una persona che più delle altre ci ha ispirato a lavorare con dedizione e umiltà… per il 399 Recensioni puro semplice e cocciutamente infantile piacere della ricerca»; uno studioso, che in questo incontro si era confrontato con il mondo dell’informatica applicata all’archeologia, per la prima volta in pubblico, con la sua usuale efficacia intellettuale». La sua concezione di “archeologia globale” degli anni Novanta (T. Mannoni, Venticinque anni di archeologia globale, 5 voll., Genova 1994), cioè l’insieme di tutte le pratiche di ricerca messe in atto per lo studio complessivo delle testimonianze materiali del passato, viene in qualche modo completata nel presente da quella della condivisione dei dati archeologici tramite formati aperti. L’archeologia è senza dubbio ricerca “globale”, ma deve essere anche scambio e diffusione di conoscenze sul patrimonio culturale indagato, mirate ad una sua adeguata valorizzazione e fruizione. L’accessibilità e la condivisione dei dati sono oggetto di riflessione crescente negli ultimi anni e di questi aspetti, affiancati da quelli relativi agli usi del software libero, si tratta nei dieci contributi pubblicati, ciascuno dei quali costituisce un capitolo, relativi a documentazione, catalogazione, conoscenza e altro. Uno dei settori di maggiore utilizzo delle tecniche informatiche nel nostro settore è quello relativo alla implementazione di banche dati per la gestione della documentazione archeologica. La grande crescita della documentazione prodotta dall’attività sul campo e negli scavi stratigrafici ha portato a considerare i database come uno strumento insostituibile nella normalizzazione dei dati, in grado anche di garantire una consultazione integrata di informazioni eterogenee. Di progetti connessi agli scavi si tratta in alcuni degli interventi editi. Nel primo (A. Bezzi et al., ArcheOS e-learning project, pp. 9-20) si presenta un progetto sperimentale legato allo scavo del sito di Aramus in Armenia. Si tratta di una valida esperienza di condivisione: la creazione di tutorial riguardanti l’utilizzo di software libero in campo archeologico. I tutorial sono disponibili ancora on line all’indirizzo http://vai.uibk.ac.at/dadp/doku.php?id=index_it/ e riguardano l’installazione e l’uso di ArcheOS (Archaeological Operative System), sistema corredato di software libero e open source, nato nel 2003 e dal 2006 impiegato come sistema operativo ufficiale della campagna del sito armeno. Tale sistema, rilasciato da Arc-Team s.n.c. sotto licenza GPL liberamente scaricabile dal sito, è stato creato per soddisfare le esigenze di ogni tipologia di indagine archeologica sul campo. Per le indagini sul campo era stato anche avviato nel 2007 il progetto Knossos (D. Lotto, F. Biscani, S. Tibolla, Knossos: un database di scavo open source per l’archeologia, pp. 21-27). Il progetto prevedeva la realizzazione di un database open source, che sembrava destinato ad un rapido sviluppo, ma che invece negli anni successivi alla sua presentazione non si è riusciti a portare avanti. Il motivo del “fallimento” è individuato dagli autori «nella eccessiva ricerca di standardizzazione» (p. 27). Alla base del database c’era la corretta convinzione di costruire «un progetto che fosse utilizzabile in ogni contesto, sia nella struttura dei dati, sia nel vocabolario con il quale i dati avrebbero dovuto essere trattati», mentre le esigenze si sono rivelate nel tempo più quelle di uno strumento costruito ad hoc di situazione in situazione (p. 27). Di archeologia dei paesaggi e di webGIS si tratta in interventi successivi. Il primo dà conto dell’attività del Virtual Heritage Lab del CNR ITABC, che da anni lavora su progetti mirati alla conoscenza e alla valorizzazione del territorio, attraverso la realizzazione di prodotti di realtà virtuale e la restituzione di piattaforme GIS tridimensionali per la consultazione e la navigazione in rete. Viene presentato, in particolare, il progetto OSG4Web, ancora in corso (2013), un plug-in che consente la realizzazione di applicativi di visualizzazione 3D realtime tramite il web (L. Calori et al., Osg4Web. Condivisione di dati e applicazioni VR WebGIS per il paesaggio archeologico, pp. 4450). L’altro progetto è legato allo scavo del monastero di S. Maria di Montescudaio 400 Recensioni in Val di Cecina (PI), per il quale è stato elaborato un webGIS e un’apposita scheda per catalogare i numerosi reperti scheletrici rinvenuti (M. Baldassarri, G. Naponiello, G. Pagni, Elaborazione di un sistema di schedatura dati e sviluppo di un web GIS per la consultazione dei dati archeologici: il caso di Montescudaio in Val di Cecina (PI), pp. 51-71). Anche in questo caso si tratta di una esperienza positiva che è proseguita negli anni, con aggiornamenti e altre presentazioni in incontri sugli Open Data; la sola nota negativa è la non accessibilità del sistema sul web agli utenti esterni, che gli autori sperano però venga risolta in tempi brevi. Dopo un interevento incentrato sulla condivisione e la integrazione dei dati geografici in rete (A. D’Andrea et al., Integrazione di dati archeologici geografici e non geografici con MAD, pp. 75-80), si passa ad un contributo sui sistemi di registrazione e catalogazione dei dati archeologici (D. Francisci, M. Segata, La scheda UG (Scheda di Unità Geoarcheologica). Proposta di un nuovo strumento per la descrizione standardizzata del deposito archeologico, pp. 81-98). Nonostante da decenni si lavori, nel campo della catalogazione e della registrazione dei dati, su standard, vocabolari controllati, linguaggi comuni, alcuni problemi rimangono ancora aperti e molte soluzioni trovate sono legate solo a progetti contingenti, che spesso non tengono conto delle norme già presenti o personalizzano eccessivamente le indicazioni che vengono dall’ICCD. I due autori propongono una “scheda UG” per l’unità geoarcheologica, per la cui registrazione manca una scheda elaborata dall’ICCD. Si tratta di uno schema standardizzato che registra in un linguaggio normalizzato il deposito archeologico, che diventa così un dato «universalmente comunicabile… tra archeologi di diverse località… e tra archeologi di oggi e archeologi di domani», p. 94). L’occasione dà anche modo agli autori di ripercorrere brevemente la storia della scheda US dalla versione cartacea a quella informatica. Un altro contributo legato alla catalogazione informatizzata è quello di F. Giudici, A. Macdonnel McLean e A. Palombini nato nella Syracuse University in Florence, ma non più sviluppato dagli scriventi negli anni successivi all’incontro del 2007 (Verso uno standard di catalogazione su software e dati aperti: il progetto VRC, pp. 100-105). La condivisibile idea alla base del piano era quella di una catalogazione flessibile, che consentiva di ridisegnare e aggiornare costantemente i rapporti tassonomici tra gli attributi di un oggetto e che fosse lontana da rigidi schematismi e facilitasse «la diffusione di informazioni sul patrimonio culturale insegnando che la creatività è elemento essenziale nell’attività di ricerca per mettere a fuoco relazioni nuove tra le informazioni» (p. 102). Conclude il lavoro un intervento su un argomento oggetto di interesse crescente anche nella ricerca archeologica: quello dei diritti di proprietà intellettuale, garantiti dalle cosiddette licenze Creative Commons (A. Glorioso, Creative Commons e Science Commons per la ricerca archeologica – alcune riflessioni, pp. 106-129). Tali licenze offrono sei differenti articolazioni dei diritti d’autore e sono dirette a chi, creatore di un’opera, voglia condividerla in modo più ampio, secondo il modello “alcuni diritti riservati”. L’articolo illustra il progetto non-profit Creative Commons, nato nel 2001 con sede a San Francisco per volere di giuristi della Stanford Univesity, California, con l’obiettivo di regolamentare e gestire il diritto d’autore nella distribuzione di “prodotti culturali”, nonché i vari tipi di licenze previste e il progetto Science Commons che ha l’obiettivo di applicare la filosofia di condivisione dei dati alla ricerca scientifica. Alessandra Caravale 401