RISORSE AGROALIMENTARI E SVILUPPO ECONOMICO. UN’ANALISI DEI FATTORI CHE NE DETERMINANO LA CRESCITA NEI PAESI DEL SUD DEL MONDO MICHELE DISTASO* Abstract The object of this paper concerns agri-food resources which are considered not only as consumer goods, but also as goods depositary of knowledges, traditions, history, learning and identity. In this way, they become assimilable to environmental and historical-artistic goods and, therefore, worthy to be reproduced and protected. They contribute to pursue a strategy of development, which is not related to specific productive sectors or single economic activities, but to the whole territory. Furthermore, they become “specific resources”, besides to be resources necessary to economic development, when they contribute to the growth of processes of territorial development. We have proceeded, through a riformulation of the concepts of scarcity and reproducibility of resources, to the elaboration of a global analysis of agricultural growth in order to individualise the principal factors of development. We have concluded that the slow increase of agri-food production cannot be attributed to scarcity of resources, but to conditions which allow or not a certain use of resources. Introduzione La produzione agricola ha rappresentato per molti secoli il principale vincolo ad ogni processo di crescita, essenzialmente perché le pratiche tradizionali, su cui si basava l’esercizio dell’attività agricola, sono state largamente utilizzate fino all’Ottocento. L’aumento della produzione - per la maggior parte ascrivibile ad un’espansione della superficie coltivabile – è rimasto perciò molto modesto. Gli effetti della rivoluzione industriale hanno cominciato a farsi sentire sull’agricoltura nella seconda metà del XIX secolo, quando la produttività media per ettaro dei cereali quasi si quintuplicò in seguito all’impiego di fertilizzanti chimici. La crescita produttiva si è manifestata dal momento in cui si è superato quel “limite del possibile” (Braudel) che, fino al 1700, sembrava insuperabile. I sistemi agricoli sono così diventati sempre meno autoriproduttivi. Ne è conseguita una crescita della produttività, ma anche un aumento della dipendenza dell’agricoltura da risorse esterne. L’efficienza raggiunta dai sistemi agricoli in termini di produttività ha avuto però effetti spesso negativi sulla rinnovabilità e sostenibilità delle risorse naturali su cui l’agricoltura stessa poggia. Oggi, da un lato, ricerche empiriche consentono di affermare che quel limite è stato abbondantemente superato e, dall’altro, alcune analisi hanno accertato un superamento della soglia, oltre la quale le risorse si consumano irreversibilmente1. Tenendo conto dell’ampiezza dei problemi appena tratteggiati e non avendo alcuna possibilità di analizzarli compiutamente in questa sede, si rende necessario - allo scopo di restringere il campo di osservazione - esplicitare le motivazioni del nostro approccio al rapporto risorse/sviluppo (che tutti li comprende) con alcune considerazioni preliminari. La prima considerazione riguarda il fatto che un’analisi interpretativa del rapporto risorse agroalimentari/sviluppo economico non può prescindere da un esame del rapporto uomo/terra2, o, più specificamente, da una disamina delle relazioni che, in un contesto storico-geografico, si stabiliscono tra attività economiche e uso delle risorse. La seconda concerne più propriamente il tema del presente lavoro. Esso richiede, per sua stessa natura, una concezione che consideri, in parallelo, i rapporti tra l’uomo e le risorse3 e i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente sociale. In modo più esplicito, il tema risorse agroalimentari * Università degli Studi di Bari, Facoltà di Economia, Dipartimento di Scienze Economiche. Via Rosalba, 53 – 70124 – Bari – Telefono: 080/5049108; e-mail: [email protected]. 1 definite, a prescindere dalla finitezza di quelle naturali, riproducibili4 - potrebbe essere analizzato secondo l’approccio classico che, come è noto, privilegia il rapporto uomo/ambiente sociale. Esso, però, trascura il rapporto uomo/risorse. D’altro canto, l’analisi non può essere correttamente elaborata limitandosi a considerare il rapporto uomo/risorse - espressione più generale di quello tra scarsità e riproducibilità -, perché, così facendo, verrebbero ad essere neglette le trasformazioni strutturali ed istituzionali insite nel processo di sviluppo economico. Si è cercato di superare questa dicotomia con un’analisi che integri le due prospettive. La terza considerazione intende rilevare che il rapporto risorse agroalimentari/sviluppo economico rappresenta un modo per esprimere uno dei problemi che sono alla base delle vicende che hanno caratterizzato la storia dell’umanità. E’ il problema alimentare, che sorge ogniqualvolta si ha uno squilibrio tra crescita demografica e incremento della produzione agricola. In quanto relazione che si viene a stabilire tra disponibilità e fabbisogno alimentare, il problema alimentare è una questione fondamentale dello sviluppo economico e sociale perché esso è essenzialmente influenzato dagli stessi fattori che determinano la crescita economica5. La questione delle risorse in generale, e di quelle agroalimentari in particolare, rappresenta perciò una questione centrale per affrontare i complessi problemi posti dal rapporto, divenuto sempre più globale, tra sviluppo socioeconomico e salvaguardia dell’ambiente. Per questi motivi nel presente lavoro si cercherà di considerare le risorse agroalimentari come risorse necessarie allo sviluppo e di guardare al problema alimentare come problema di sviluppo6. Significato e implicazioni dell’adozione del termine risorse per i prodotti agroalimentari Un concetto di sviluppo economico, in cui la valorizzazione delle risorse - e non la loro mera utilizzazione - costituisce uno degli obiettivi da perseguire, implica l’accoglimento di una visione che non riduca il processo di sviluppo medesimo a una pura crescita quantitativa di merci. Considerare le risorse come materie prime (o fattori produttivi) e, al tempo stesso, come beni, può facilitare l’introduzione di criteri diversi di economicità. Questa visione consente di far valere quegli aspetti legati alle condizioni sociali e alla qualità della vita che di solito sono negletti nella visione dello sviluppo come mero processo di crescita materiale. Il concetto di risorsa, al posto di quello di prodotto, assume un significato ben preciso se riferito ad un bene che può essere consumato, ma a condizione che se ne rigeneri la disponibilità. Normalmente con il termine risorsa si indica qualsiasi mezzo in grado di provvedere a un bisogno o ad una necessità. In questo senso si parla di risorse abbondanti o scarse, risorse materiali, economiche, ecc.. Esso, però, assume un significato più sociale quando si intende come insieme dei mezzi e delle disponibilità produttive che costituiscono fonte di ricchezza. E’ questo il senso che si dà a espressioni come risorse alimentari, idriche, energetiche, minerarie, ecc.. Il termine risorsa, conformemente al suo significato etimologico, evoca l’origine o la fonte da cui si rigenerano nel tempo gli elementi naturali e da cui scaturiscono gran parte dei beni utilizzati dall’uomo. Essendo diventato un termine del linguaggio corrente, sorge spontanea la domanda: estendendo il termine risorse anche ai beni ottenuti con il concorso del lavoro umano, che significato assume la sua frequenza d’uso? E’ evidente che qui non è in discussione una questione terminologica. Ci chiediamo se l’uso del termine risorse agroalimentari, invece di prodotti, abbia delle implicazioni a livello di impostazione e di visione del problema che si vuole affrontare. Come è implicito nel suo significato etimologico, il concetto di risorsa presuppone l’esistenza di un meccanismo di riproducibilità. Questa non è una caratteristica solo delle risorse naturali. La riproducibilità è anche una caratteristica che va riconosciuta a quella che è una risorsa a tutti gli effetti, vale a dire, alle tecniche e alle abilità acquisite nel tempo che consentono di trasformare in beni le risorse naturali. Si tratta di quella risorsa - frutto del sapere umano e della 2 cultura dei diversi popoli -, che, in quanto continuamente rigenerabile e trasmissibile, è a sua volta produttrice di beni. Proprio l’attività agricola rappresenta una delle massime espressioni simbiotiche tra le due risorse. E’ per questo motivo che il concetto di risorsa assume un significato che può essere utilizzato per le risorse agroalimentari perché sono il risultato di un rapporto cooperativo tra gli elementi naturali, il lavoro e il sapere accumulato dall’uomo. Esse sono beni di consumo, ma, nello stesso tempo, in quanto beni depositari di saperi, di tradizioni, di storia, di cultura e di identità, sono assimilabili ai beni ambientali e storico-artistici e, come tali, degni di essere riprodotti e protetti. Proprio in quanto risorse, esse concorrono al perseguimento delle strategie di sviluppo, non di specifici settori produttivi o di singole attività, ma dell’intero territorio. Insomma, in una visione di integrazione, le risorse agroalimentari concorrono alla valorizzazione dei territori e, spesso, sono una sua caratterizzazione e ne connotano l’identità. Quando concorrono alla crescita di tali processi, esse, oltre a essere necessarie allo sviluppo economico, sono anche “risorse specifiche”7. Il concetto di risorsa consente, inoltre, di assumere esplicitamente gli elementi naturali come fattori che cooperano nella produzione della ricchezza. Non sempre questa visione unitaria si è avuta nel pensiero economico, nel senso che, se è vero che l’attività agricola non può prescindere dalle risorse naturali, è altrettanto vero che gli economisti hanno considerato la terra come uno dei fattori che concorrono, insieme al lavoro e al capitale, al processo produttivo. In definitiva, considerare sistematicamente nel discorso economico l’esistenza di un rapporto cooperativo tra la natura e il lavoro umano comporta profonde modificazioni nell’approccio ai problemi dello sviluppo economico e sociale. Accogliendo questa impostazione siamo indotti ad attribuire alla terra un più vasto e multiforme significato e a riconoscere alle funzioni tradizionali dell’agricoltura un’altra funzione, quella di essere fonte di risorse. Una riformulazione analitica dei concetti di scarsità e riproducibilità delle risorse Quale significato si deve oggi attribuire ai problemi delle risorse naturali? E, data la stretta connessione tra queste e le risorse agroalimentari, quale significato hanno assunto i concetti di scarsità e di riproducibilità, a seguito del progresso tecnologico? In che modo è possibile comprenderne il rapporto con lo sviluppo economico e sociale? E quale è il senso che assumono oggi tali problemi? Per cercare di dare delle risposte a queste domande, svilupperemo il discorso con la discussione di una questione centrale della scienza economica: come intendere i concetti di scarsità e di riproducibilità. In economia le risorse - quali mezzi atti a soddisfare i bisogni dell’uomo - sono supposte non solo scarse, ma la stessa nozione di scarsità è considerata, dalla generalità degli economisti, essenziale per una definizione della stessa scienza economica8. I problemi interpretativi che ne scaturiscono assumono maggiore rilevanza e significato se essi si connettono con fenomeni generali e di lungo periodo che si sono succeduti negli ultimi secoli, a partire dalla rivoluzione agricola precedente quella industriale. Detto altrimenti, i principali cambiamenti tecnico-economici possono essere visti come reazioni volte al superamento di situazioni di scarsità, ovvero come risposte finalizzate a rendere tali situazioni relative e a rimuoverle con il progresso tecnico. Questa impostazione ci consente di rilevare due possibilità di affrontare lo stesso problema: a) che i fenomeni storici sono interpretabili utilizzando il principio di scarsità relativa; b) che tale principio è valido per interpretare analiticamente i fenomeni economici. E, siccome gli economisti hanno oscillato tra le concezioni di scarsità assoluta o strutturale e quelle di scarsità relativa o producibilità assoluta, - ovvero tra pessimismo malthusiano e ottimismo smithiano, privilegiando, comunque, le situazioni di scarsità quantitative -, si comprende come il principio di scarsità assume una valenza se associato a quello di producibilità. E’, infatti, considerando il rapporto scarsità/producibilità - nel quale, a ben riflettere, possiamo ricondurre il rapporto risorse agroalimentari/sviluppo economico che si pone il problema del superamento del binomio antagonismo-coesistenza che ha caratterizzato 3 in passato la dinamica dei sistemi economici. La ricerca di un equilibrio, per mezzo del progresso tecnico, tra scarsità (delle risorse naturali) e producibilità (delle merci e dei mezzi di produzione) è stata al centro della riflessione economica. Per questo motivo ci sembra proficuo esaminare, attraverso un’interpretazione analitica, come è possibile che prevalga la coesistenza nel rapporto scarsità/producibilità. L’analisi si basa su due schemi concettuali già presenti, l’uno, nel principio che informa l’interpretazione di Adam Smith9; l’altro, nella rappresentazione ricardiana del sistema economico. Nell’approccio smithiano, il reddito prodotto annualmente dipende, in misura prevalente, dalla struttura occupazionale e dalla capacità produttiva. In questa logica, partendo dall’ipotesi che l’ambiente sia un dato, è la capacità lavorativa (o creativa) dell’uomo che determina l’evoluzione del reddito e, in termini di disponibilità di risorse, è quella stessa capacità che pone il sistema economico in condizioni di producibilità (assoluta). Si può facilmente notare che l’attenzione è posta nei processi di trasformazione delle risorse in un’ottica di producibilità. L’approccio smithiano si rivela quindi utile in situazioni in cui l’evoluzione del sistema economico riflette una maggiore produttività delle risorse, ovvero di espansione dell’apparato di trasformazione. Secondo l’approccio ricardiano, invece, la dinamica del sistema economico riflette un cambiamento nel grado di riproducibilità del sistema stesso. Per rendere effettivo questo cambiamento è necessaria la crescita dell’apparato di struttura10. La concettualizzazione appena esposta porta a introdurre la distinzione tra «producibilità trasformativa» e «producibilità creativa». La prima si riferisce a quelle situazioni economiche in cui la producibilità è collegata alla trasformazione di risorse originarie in beni di consumo. In esse la capacità di produrre ricchezza risente in modo assoluto del vincolo delle risorse e dipende dalla dotazione di queste. In tali situazioni, sono le capacità “acquisitive” ad essere in prevalenza praticate. Detto altrimenti, i comportamenti acquisitivi degli uomini prevalgono quando lo sviluppo dei sistemi economici avviene unicamente con il potenziamento dell’apparato di trasformazione. Una maggiore ricchezza, però, può essere prodotta tramite il potenziamento della dotazione di risorse naturali. In tal caso, il vincolo delle risorse si fa sentire solo in modo relativo. Perché ciò si verifichi è necessario che il sistema economico potenzi il suo apparato di struttura. In questo, la capacità di produrre “si pone in termini antagonistici rispetto alla scarsità, poiché l’apparato di struttura tende a rimuovere la stessa aumentando la distanza tra i prodotti finali e le risorse originarie, e rendendo possibili aumenti nella quantità di prodotti finali senza necessariamente aumentare gli impieghi di risorse” (8, p. 86). Pertanto, nei sistemi economici che hanno trasformato il loro apparato di struttura è possibile che prevalgano comportamenti “creativi”, con effetti sul potenziamento della dotazione di risorse e sulla capacità di produrre. Se la capacità di produrre si realizza in prevalenza con l’apparato di trasformazione, un sistema economico risulterebbe “dominato da comportamenti «acquisitivi», privilegerebbe l’apparente autonomia dai bisogni collegata al diretto consumo delle risorse originarie, e finirebbe per trovarsi in una condizione di declino a causa della scarsità «assoluta» che i comportamenti acquisitivi tendono a generare” (8, p. 87). Si evince la necessità che i sistemi economici si sviluppino in modo che si trovi un qualche equilibrio tra apparato di trasformazione e apparato di struttura e, dunque, tra scarsità e producibilità. In definitiva, la ricerca di un equilibrio fondato sul binomio antagonismo-coesistenza nel rapporto scarsità/producibilità si è spesso risolta nel predominio di quest’ultima, nella convinzione che il progresso scientifico e tecnologico fosse capace di attenuare, se non di annullare, il vincolo delle risorse (5). L’alternanza tra fasi in cui prevale la scarsità e fasi con peso prevalente della producibilità assume il significato, secondo l’approccio in discussione, della ricerca di un equilibrio tra le due componenti. La funzione del progresso tecnico è proprio quella di agire in modo che si potenzi, nelle fasi di crescita, l’apparato di struttura - quando la scarsità è percepita meno stringente e il problema centrale diventa quello delle relazioni tra apparato produttivo e prodotti finali - e 4 l’apparato di trasformazione - quando è maggiore il vincolo di scarsità e il problema delle relazioni tra risorse originarie e struttura diventa centrale (7, pp. 16-18). Riferito a un’economia in via di sviluppo, questo schema concettuale consente di affermare che, data la scarsa autonomia dell’apparato di struttura, il processo di crescita avviene prevalentemente tramite l’apparato di trasformazione. Con questo si ha la trasformazione delle risorse produttive originarie (soprattutto terra e lavoro) in beni finali, ma senza la produzione di fattori produttivi. Si spiega così la struttura economica prevalente nei Paesi del Sud del Mondo: da un lato, l’apparato di trasformazione si limita ad aumentare l’utilità delle risorse e il valore dei beni; dall’altro l’apparato di struttura è rimasto sostanzialmente quello tradizionale11. La riflessione analitica appena esposta sui concetti di scarsità e di riproducibilità ci consente di esaminare, più precipuamente, il rapporto tra uso della risorsa terra e possibilità di sviluppo. Il problema uso della terra-alimentazione-sviluppo alla luce di un modello di crescita agricola Nei Paesi del Sud del Mondo l’agricoltura assume un’importanza strategica nello sviluppo economico, soprattutto perché essa rimane il settore di produzione e di occupazione prevalente. Nonostante le differenze sostanziali con i Paesi sviluppati, alcuni problemi, come quelli relativi alla sicurezza alimentare e all’uso razionale delle risorse, stanno diventando comuni a entrambi. Al fine di limitare l’ambito di tali problemi, ci è sembrato proficuo procedere con l’elaborazione di un’analisi globale della crescita agricola, con l’obiettivo di conoscere quali siano i fattori dello sviluppo dal punto di vista dei rapporti tra modalità d’uso delle risorse e soddisfacimento dei bisogni primari. Essendo questa la visione in cui si sono mossi, a partire dai Fisiocrati, i fondatori dell’economia politica, un’integrazione dell’approccio fisiocratico con quello classico può contribuire all’individuazione della natura e delle implicazioni di tali fattori. In particolare, ci siamo riferiti all’approccio fisiocratico, perché è il modello di crescita che individua nella terra - considerata fonte di ricchezza - il fattore di produzione determinante l’aumento del prodotto, e all’approccio classico, perchè individua nell’aumento del volume di lavoro e della sua produttività l’origine della crescita della produzione12. L’ipotesi di base del modello fisiocratico è che il prodotto netto agricolo deriva dalla produttività naturale della terra. Intesa nell’accezione di sinonimo di risorse naturali, il termine terra consente di esprimere sia una situazione di degrado di essa (in termini di declino della sua capacità produttiva), sia un deterioramento della qualità degli altri elementi naturali. Così inteso, il modello fisiocratico di crescita agricola può assumere formalmente la seguente espressione (2): yas = t + et [1] s in cui: ya indica il tasso di variazione della produzione agricola; t il tasso di variazione della superficie coltivata; et il tasso di variazione della produttività della terra. Supponendo che, durante il processo di sviluppo, si abbiano situazioni di equilibrio tra offerta (yas) e domanda agricola (yad), in modo che yas = yad , allora t = yad – et . Questa equazione esprime che la domanda di terra tende ad aumentare quando la crescita della domanda di prodotti agricoli è più rapida di quella dei rendimenti, e tende a diminuire nel caso contrario. Se t = 0, cioè se la superficie coltivata non può aumentare e l’intensificazione nell’uso del suolo ha raggiunto il suo limite, si ha quella situazione, in cui spesso si trovano i Paesi a più basso reddito - anche in conseguenza della politica di prezzi agricoli bassi attuata da questi paesi - di fame di terra. E, se la domanda agricola continua ad essere maggiore di et, si potrebbe pensare a un aumento dei rendimenti, in modo che yad = et. Questa eguaglianza suggerisce interventi volti a favorire miglioramenti tecnologici. Ma una siffatta risposta non arresta la fame di terra se essa entra in contraddizione con altre strategie di crescita, come la politica dei prezzi bassi per far fronte ai bisogni della popolazione urbana (2, pp. 46-48). A differenza del modello fisiocratico, il modello classico considera produttivo solo il lavoro e trascurabile l’impiego di altri fattori di produzione. Pertanto, la crescita della produzione è il 5 risultato sia dell’aumento della quantità di lavoro impiegato, sia della sua produttività. In forma semplificata: yas = l + el [2] s dove: ya è il tasso di crescita della produzione agricola; l è il tasso di variazione della quantità di lavoro impiegato; el, il tasso di variazione della produttività media del lavoro. La variabile più importante è el, in quanto una crescita della produttività del lavoro implica un miglioramento della tecnologia. E, siccome le determinanti di el possono essere differenti, a seconda del modello tecnologico dominante in un sistema agricolo, un’analisi della sua dinamica - allo scopo di individuare le fonti che ne permettono la crescita - può essere agevolata se integriamo il modello fisiocratico a quello classico. Le equazioni [1] e [2] si traducono così nella seguente: t + et = l + el , da cui el = (t – l) + et . Quest’ultima indica che il tasso di variazione della produttività del lavoro agricolo è funzione di (t – l) e di et, rispettivamente, tasso di variazione della superficie coltivata per lavoratore agricolo e tasso di variazione dei rendimenti della terra. La produttività del lavoro è soggetta, perciò, da un lato, alla variazione della superficie coltivata per lavoratore e, dall’altro, a quella dei rendimenti della terra. Ora, se la superficie media disponibile per lavoratore non cambia, (t – l) = 0, si ha che el = et, le cui implicazioni sono evidenti: ogni aumento dell’occupazione agricola, in conseguenza della crescita demografica, comporta una diminuzione dei rendimenti della terra. Nel caso, più interessante, in cui a una riduzione della superficie coltivata per lavoratore si associa un aumento dei rendimenti della terra - rispettivamente, quando (t – l) < 0 e et > 0 - , l’esito finale dipende dal prevalere dell’una o dell’altra variabile, nel senso che il risultato sarà di un aumento della produttività del lavoro e non di una sua diminuzione. In tal modo, anche con un territorio coltivabile fisso, un dato volume di occupati agricoli è capace di assicurare l’alimentazione alla popolazione. Stesso discorso vale nel caso in cui (t – l) > 0 e et < 0. Pretendere, perciò, “che la riduzione della produttività del lavoro equivalga a una catastrofe alimentare significa non tenere conto delle circostanze nelle quali essa ha luogo. Questa idea precostituita porta a raccomandare miglioramenti tecnici là dove essi possono essere nefasti” (2, p. 63). Inoltre, nell’equazione della produttività del lavoro sono contenuti i due modelli tecnici che hanno permesso di differire i rendimenti decrescenti della terra e del lavoro: a) il modello di intensificazione nell’uso della terra (land saving), comprese le maggiori rese per l’introduzione di modificazioni genetiche; b) il modello di meccanizzazione (labour saving), in cui le maggiori rese sono ottenute facendo ricorso, in genere, a mezzi produttivi provenienti da altri settori economici. Il primo si riferisce all’aumento della produttività del lavoro in conseguenza dell’aumento dei rendimenti della terra; il secondo, all’aumento della produttività del lavoro derivante da quello della superficie coltivata per lavoratore. Il trasferimento di entrambi i modelli nei Paesi del Sud del Mondo si sono rivelati molto problematici13. Dopo i ripetuti insuccessi, le riflessioni attuali sulle condizioni per un miglioramento della produttività del lavoro dei contadini del Sud del Mondo hanno indotto, diversamente che in passato, a preferire gli strumenti che si adattino alle capacità locali e alle strutture piuttosto che l’inverso. L’approccio seguito ha consentito di dimostrare che la maggior parte degli incrementi della produzione agricola dipende più dal miglioramento delle tecniche produttive che non dalla messa a coltura di nuovi terreni. Questo risultato, valido a livello globale, è in linea con le osservazioni empiriche. La strategia volta a perseguire l’aumento delle risorse agroalimentari attraverso la messa a coltura di nuove terre è quella storica dell’espansione delle terre coltivate, che oggi sembra aver esaurita la sua spinta espansiva a livello mondiale, a causa dell’aumento della popolazione che ha ridotto la disponibilità di terra pro capite al minimo di 0,5 ettari14. Questi risultati, sui quali c’è concordanza tra gli studiosi, pongono, però, alcune domande fondamentali che ci consentono di tornare al nostro oggetto di studio. Qual è la soglia massima di produzione per ettaro per ogni sistema colturale? Quali livelli produttivi è possibile raggiungere nei diversi sistemi agricoli? In alcune aree del Sud del Mondo, come nell’Africa subsahariana, il problema del rapporto popolazione/risorse è grave, essenzialmente perché l’incremento della produzione agroalimentare, 6 ottenuto con la messa a coltura di terre vergini, è rimasto al di sotto dell’incremento demografico. L’estensione delle terre coltivate è avvenuta con la distruzione delle foreste, con pratiche agricole inadatte e dannose per le risorse naturali, i cui effetti più vistosi si sostanziano nel fenomeno dell’avanzamento del deserto. La terra agricola, in quanto risorsa rinnovabile, si riproduce ad un tasso che dipende dall’ampiezza di essa, ma dipende anche dall’entità e dalla natura del suo utilizzo. Si osserva di frequente che, pur di conseguire una crescita della produzione agricola, l’uso della risorsa suolo è un uso di rapina. In tal caso la sua durata dipende dalla preservazione della risorsa stessa e questo è in contraddizione con le conseguenze di esaurimento o di deterioramento che il suo uso determina. La degradazione del suolo è spesso determinata dall’eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli, a sua volta determinato dalla crescita demografica. Il fenomeno è aggravato se la crescita demografica coesiste con condizioni di povertà. In simili situazioni si è indotti a coltivare intensivamente terre marginali, a praticare colture per procacciarsi prodotti alimentari di base, anche a costo di sacrificare la produzione agricola futura. In definitiva, dalle argomentazioni svolte, è possibile rilevare due aspetti: 1) che la crescita lenta di produzione di alimenti non sia da imputare a scarsità di risorse, ma la causa va ricercata nelle condizioni che consentono o meno un certo uso di esse; 2) che il perdurare del divario tra i tassi di crescita della popolazione e delle terre coltivate porta a considerare come un imperativo la conservazione della qualità del terreno agricolo al fine di ottenere un aumento della produzione. Per concludere L’analisi volta a individuare le variabili che possono determinare la crescita della produzione agricola ha messo in evidenza le difficoltà e i problemi che le economie a più basso reddito incontrano nello stabilire un più equilibrato rapporto tra le risorse agroalimentari e il processo di sviluppo economico. Nei Paesi del Sud del Mondo, la carenza di produzione è tale che essi spesso si trovano di fronte a scarsità assoluta di risorse agroalimentari, con conseguenti problemi di sopravvivenza per gran parte della popolazione. Dalla stessa analisi si evince che le situazioni di denutrizione e di fame potrebbero essere fronteggiate con un sistema di relazioni tra variabili che concernono la dinamica delle produzioni, le tecnologie disponibili, le possibilità di intensificazione produttiva dell’agricoltura, la distribuzione della popolazione e delle risorse. Pur nei limiti dell’approccio prescelto15, dalla discussione svolta scaturiscono alcune osservazioni conclusive incentrate sulla valutazione delle situazioni di scarsità assoluta. La prima, di carattere generale, è che la situazione di scarsità assoluta deve indurci a considerare le risorse agroalimentari come risorse necessarie allo sviluppo e l’agricoltura come settore cruciale per la crescita economica. La seconda concerne il fatto che tali situazioni spesso si rivelano di scarsità relativa. Questo significa che una situazione di scarsità assoluta non esclude una di scarsità relativa. Anzi, dal punto di vista concettuale, si può affermare che le due nozioni sono complementari e che esse possono coesistere16. La terza concerne l’origine istituzionale e sociale delle carenze alimentari. Alcuni casi di carestie esplosi anche in situazioni che, a livello aggregato, erano di relativa abbondanza in termini di disponibilità, hanno indotto a ripensare le cause delle carestie. Queste possono essere originate, non da deficit di offerta, ma da carenze relative alla distribuzione, per motivi istituzionali e/o per impossibilità di accesso alle risorse alimentari. Questo succede quando una parte della popolazione non ha alcuna capacità di acquisizione, ovvero quando ad essa non è riconosciuto alcun diritto reale all’alimentazione. Le persone che non possiedono, o alle quali non è riconosciuto, alcun food entitlements possono trovarsi in condizione di aggravamento del loro stato di denutrizione e di sofferenza per fame17. Detto in sintesi, il problema alimentare, per i paesi più poveri, assume connotazioni di sicurezza alimentare, i cui fattori sono costituiti, a un tempo, dalla disponibilità di risorse e dalla capacità di acquisizione delle persone. 7 Infine, dalle argomentazioni esposte è possibile far emergere delle prospettive che forniscano delle linee operative sul che fare? Non abbiamo alcuna pretesa di suggerire soluzioni a problemi complessi quali quelli tratteggiati nelle pagine precedenti. Tuttavia, per rispondere alla domanda pensiamo possa essere proficua l’idea di Karl Polanyi del “duplice movimento” che ha governato la dinamica delle società occidentali nel corso dell’Ottocento: da un lato, il principio del mercato concorrenziale; dall’altro, il principio della protezione sociale, avente lo scopo di conservare l’uomo e la terra con una legislazione protettiva e con interventi volti a porre vincoli e controlli. Senza quest’ultimo principio e la relativa legislazione, l’uomo e la terra sarebbero divenuti beni di scambio, con la conseguenza che lasciare il loro destino al mercato “sarebbe stato equivalente al loro annientamento” (10, p. 168). E’ ammissibile, in questa ottica, che anche in economia di mercato non ci si limiti al riconoscimento della sola funzione economica dell’agricoltura. Non si possono trascurare, infatti, i costi sociali derivanti dalla mercificazione degli elementi costitutivi del suddetto rapporto. Si tratta, dunque, di rendere effettivo - a livello istituzionale e politico, una volta che esso sia stato legittimato socialmente – il riconoscimento delle altre funzioni esplicate dall’agricoltura, in particolare, di quella di essere generatrice di risorse. NOTE 1 Si stima che nell’ultimo quarantennio siano stati deteriorati quasi ¼ delle terre potenzialmente coltivabili, a livello mondiale, e che il degrado abbia interessato i PVS in misura superiore al 50% della superficie coltivata (4). 2 Il termine terra è qui inteso come sinonimo di risorse naturali. 3 O l’ambiente, se anch’esso si riduce a risorsa, non essendo più la «totalità che avviluppa». 4 Le risorse agricole sono completamente rinnovabili, ma per lo stretto legame con altre risorse aventi funzioni ambientali (ad es. l’acqua), possono anch’esse esaurirsi se il consumo di quelle naturali è eccessivo. 5 Il problema alimentare è sì influenzato dai fattori determinanti la crescita, ma, per correttezza, è bene precisare che l’influenza è reciproca e che, quindi, il primo influenza il livello e le modalità di manifestazione della crescita. 6 Si spiega così il riferimento analitico all’approccio della scuola fisiocratica, per la quale la terra è «il mezzo ultimo dei nostri scopi», e a quello degli economisti classici che, concentrandosi sul lavoro dell’uomo, guardano alla riproducibilità delle risorse. 7 L’espressione “risorse specifiche” si riferisce a tutti quei vantaggi che sono propri di determinati territori. Per lo stretto legame con il territorio, esse hanno la caratteristica di limitare la mobilità dei processi produttivi che le utilizzano. Il riferimento alle risorse specifiche è molto utile per spiegare il successo di cluster di piccole imprese e di sistemi agroalimentari locali anche nei Paesi del Sud del Mondo, in quanto, nell’agro-industria rurale, le risorse naturali hanno spesso un carattere specifico più accentuato di quanto sia richiesto dall’industria alimentare (13). 8 Il maggior rappresentante di questa visione è Leon Walras, per il quale la nozione di scarsità rappresenta un carattere essenziale per la stessa definizione di scienza economica e di ricchezza sociale. Dall’esistenza della scarsità e dell’utilità, Walras fa derivare alcune conseguenze importanti sui caratteri dei beni utili e limitati quantitativamente: essi sono appropriabili, hanno valore e sono scambiabili, sono producibili industrialmente o moltiplicabili (15, pp. 143-145). Allo stesso modo, molti economisti hanno attribuito alla terra, considerata come fattore della produzione, i caratteri della produttività, della non deperibilità e dell’appropriabilità (1). 9 Sin dall’inizio dell’opera fondante dell’economia politica si evince il ruolo che riveste la producibilità nella costruzione della teoria dello sviluppo economico. “A seconda […] che [il prodotto diretto del lavoro annuale] o ciò che si acquista con esso sia in proporzione maggiore o minore al numero di coloro che lo consumano, la nazione sarà provvista in modo più o meno abbondante dei mezzi di sussistenza e di comodo che le occorrono. Ma in ogni nazione questa proporzione deve essere regolata da due differenti circostanze: anzitutto dalla capacità, destrezza e criteri con cui il suo lavoro viene generalmente impiegato; e, in secondo luogo, dalla proporzione tra il numero di coloro che sono occupati in un lavoro utile e quello di coloro che non lo sono. Qualunque sia il suolo, il clima o l’estensione del territorio di una nazione, l’abbondanza o la scarsità della sua provvista annuale deve […] dipendere da queste due circostanze. L’abbondanza o scarsità di questa provvista sembra inoltre dipendere più dalla prima che dalla seconda di quelle due circostanze” (12, pp. 73-74, corsivo mio). 10 Per comprendere la differenza tra i due schemi concettuali appena menzionati, ci si può riferire al caso dei fattori che determinano un aumento delle rese medie per Ha. Le maggiori rese, dovute all’introduzione di nuove varietà di prodotti agricoli, possono essere ottenute facendo ricorso a mezzi produttivi provenienti da altri settori economici, oppure possono essere il risultato di modificazioni genetiche delle piante, senza impiego di altri fattori produttivi. Nel primo caso, la maggiore produzione dei fattori presuppone la crescita dell’apparato di struttura; nel secondo, le più alte rese richiedono un apparato di trasformazione più «produttivo» (9, pp. 30-31). 8 11 Detto in altro modo, mentre “nei paesi oggi industrializzati, il progresso tecnico ha allontanato in modo costante anche se non continuo le risorse naturali (originarie) dalla domanda di beni e di materie prime riducendo la pressione diretta di quest’ultima sulle prime; nei paesi in via di sviluppo la pressione sulle risorse naturali è invece sempre molto forte a causa della combinazione tra maggior crescita e arretratezza relativa dei sistemi tecnologici” (6, p. 22). 12 Ci siamo limitati a considerare solo questi due modelli perché ci consentono di individuare i fattori fondamentali che determinano la crescita della produzione agricola. Diversamente da essi, il modello neoclassico considera la terra come semplice fattore della produzione. La terra perde la sua identità e si confonde con il lavoro e il capitale. Tutti i fattori svolgono così lo stesso ruolo nella funzione di produzione. Può essere altresì utile rilevare che a questa formale coincidenza di ruolo, non ha fatto seguito - a livello teorico - l’elaborazione di un’economia della terra, così come è avvenuto con l’economia del lavoro e con la teoria del capitale. L’assenza di un’economia della terra, quale teoria “dei poteri originari e indistruttibili del suolo” (Ricardo), è ancora più incomprensibile se ci riferiamo al ritardo nell’elaborazione di una teoria economica dei poteri originari ma distruttibili della terra (3, pp. 181-182). 13 Nei Paesi sviluppati, invece, le innovazioni chimiche e biologiche hanno accompagnato quelle meccaniche. In termini formali, il miglioramento di el, in conseguenza dell’aumento di (t – l), non è stato compensato da una caduta di et. 14 Essendo la situazione dei Paesi più poveri molto diversificata, è bene precisare che la messa a coltura di nuove terre non può essere esclusa a priori, anche se oggi è relativamente più facile che l’aumento della produzione agroalimentare si ottenga attraverso la pluricoltura sulla stessa superficie, oppure attraverso la maggiore produttività delle singole colture. 15 Privilegiando un approccio tecnico-economico, il limite maggiore è non aver considerato le variabili legate agli aspetti socio-culturali e politico-istituzionali che, come è noto, hanno un ruolo importante in ogni processo di sviluppo. 16 Un approfondimento di questa categoria fondamentale dell’economia politica ci permette di rilevare che, essendo la scarsità assoluta valutata solo sulla quantità, essa non considera i bisogni e le dimensioni culturali e simboliche legate ai beni stessi. Sono, invece, queste dimensioni e i bisogni a relativizzare la scarsità nello spazio e nel tempo. Ciò induce a ritenere che la disponibilità di risorse agroalimentari non va limitata all’accertamento di situazioni di scarsità, di abbondanza o di eccedenze, perchè l’entità di risorse disponibili nei diversi sistemi agricoli dipende da complesse relazioni tra risorse naturali, capacità tecniche e organizzative, capacità di impiegarle, struttura istituzionale. Più in generale, le situazioni di abbondanza o di carenza dipendono dai tassi di crescita delle popolazioni, dalle risorse disponibili e dal modo come queste sono gestite (14). 17 Questo diverso modo di considerare le carestie ha provocato un cambiamento del pensiero economico sulle loro cause e ha portato a concepire il problema alimentare come un problema del sottosviluppo (11). BIBLIOGRAFIA (1) G. MONTANI, “Scarsity”, in The New Palgrave Dictionary of Economics, The Mcmillan Press Limited, London, 1987, 253-254. (2) A. MOUNIER, Les théories économiques de la croissance agricole, INRA – Ed. Économica, Paris, 1992, pp. 427. (3) S. PARRINELLO, C. CECCHI, “Terra”, in Dizionario di economia politica, Boringhieri, Torino, 1982, 151-214. (4) P. PARIS, Q. PARIS, “L’agricoltura nel ventunesimo secolo: prospettive agronomiche ed economiche”, La Questione Agraria, 1995, 60, 7-70. (5) A. QUADRIO CURZIO, F. PELLIZZARI, “La teoria economica delle risorse naturali: una storia sofferta e imbarazzante ma aristocratica e creativa”, Energia, 1981, 2, 14-29. (6) A. QUADRIO CURZIO, F. PELLIZZARI, Risorse, tecnologia, rendita, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 430. (7) A. QUADRIO CURZIO, R. SCAZZIERI, “Introduzione”, in A. Quadrio Curzio e R. Scazzieri (a cura di), Protagonisti del pensiero economico. Rivoluzione industriale e economia politica (1817-1848), Il Mulino, Bologna, 1982, 11-40. (8) A. QUADRIO CURZIO, R. SCAZZIERI, Sui momenti costitutivi dell’economia politica, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 96. (9) QUADRIO CURZIO, R. SCAZZIERI, “Profili di dinamica economica strutturale: introduzione”, in A. Quadrio Curzio e R. Scazzieri (a cura di), Dinamica economica strutturale, Il Mulino, Bologna, 1990, 11-51. (10) K. POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, pp. 383. (11) A. SEN, “Elementi dell’analisi delle carestie: disponibilità e «attribuzioni»”, in A, Sen, Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, 277- 312. (12) A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, (a cura di Anna e Tullio Bagiotti), UTET, Torino, 1975, pp. 1264. (13) A. TORRE, “Économie de proximité et activités agricoles et agroalimentaires. Éléments d’un programme de recherche”, Revue d’Économie Régionale et Urbaine, 2000, 3, 408-426. (14) N. WACHTEL, “Abbondanza/scarsità”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1977, vol. 1, 105-114. (15) L. WALRAS, Elementi di economia politica pura, UTET, Torino, 1974, pp.656. 9