CAPITOLO III
LITE TEMERARIA, RAGIONEVOLE DURATA
DEL PROCESSO E ALTRO
Principi
• L’art. 96 c.p.c. si pone anche come presidio di tutela del principio di
ragionevole durata del processo.
Sommario: 3.1. Dal giusto processo alla ragionevole durata del processo. 3.1.1. Responsabilità processuale aggravata e ragionevole durata del processo. 3.1.1.1. Altra giurisprudenza di merito. - 3.1.1.2. Critiche. - 3.1.1.3. Indennizzo
e lite temeraria. - 3.1.1.4. Condotte processuali dilatorie. - 3.1.1.5. Difetto di
prova. - 3.2. La lite temeraria nel processo tributario. - 3.2.1. Le posizioni della
giurisprudenza tributaria. - 3.2.2. La conferma della compatibilità dell’art. 96
c.p.c. con il processo tributario. - 3.2.3. Il danno da lite tributaria temeraria. 3.2.3.1. Il danno non patrimoniale da lite tributaria temeraria. - 3.3. La condanna virtuale. - 3.4. Interrogatorio libero delle parti e responsabilità aggravata.
Casistica
DANNO DA LITE TEMERARIA E INDENNIZZO EX
LEGE PINTO – Va posto l’accento su quell’indi-
rizzo giurisprudenziale, derivato dalla giurisprudenza della CEDU, secondo cui, in caso
di danno da eccessiva durata del processo,
pur non essendo in re ipsa il pregiudizio, lo è
però la prova di esso, nel senso che la sussistenza di un danno morale, sotto forma di
sofferenza interiore, è ordinariamente correlata alla protrazione di qualunque processo
oltre i limiti della sua ragionevole durata (il riferimento è alle note Cass., Sez. U., 1339/2004;
1340/2004; la successiva giurisprudenza vi si
è adeguata, a quanto consta senza eccezioni).
Con riguardo a quest’ultimo aspetto, dopo
aver ricordato che nell’attuale assetto della
giurisprudenza di legittimità e di quella
costituzionale il risarcimento del danno non
patrimoniale è sempre ammesso, ogni qual
volta venga in questione la lesione di un
interesse dotato di copertura costituzionale
(Cass. 8828/2003; 8827/2003; Corte cost.
233/2003), occorre dire che, – sul piano del
danno esistenziale (su cui v. per tutte Cass.,
Sez. U., 6572/2006), l’azione in giudizio o
la resistenza infondata comporta perdita di
tempo (esame dell’atto, colloqui con il legale,
ricerca della eventuale documentazione utile
ed altri supporti istruttori, presenza in udienza,
ecc.), che, se non è sottratto all’attività lavorativa remunerativa, è sottratto alle attività
di svago; – sul piano del danno morale, se
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Capitolo III
produce sofferenza interiore il prolungarsi del
giudizio oltre i limiti di durata ragionevole, a
maggior ragione ne produce, nei confronti
della controparte, l’atteggiamento di azione
o resistenza in giudizio ab origine connotati da mala fede o colpa grave. (…) ecco,
allora, che, mentre la domanda di danni per
lite temeraria deve per ciò stesso essere riferita, anche in mancanza di ulteriori specificazioni dell’interessato, al danno esistenziale/
morale che, normalmente, scaturisce dalla
domanda o resistenza caratterizzata da mala
fede o colpa grave, la liquidazione del danno
ben può essere effettuata in applicazione dei
medesimi parametri che la giurisprudenza
applica in caso di applicazione della c.d.
«legge Pinto».
10.3. – Il danno, allora, tenuto conto delle
circostanze del caso, può essere qui equitativamente liquidato, all’attualità, nell’importo di
euro 2.500,00 (Trib. Roma 18 ottobre 2006,
www.personaedanno.it).
DANNO DA LITE TEMERARIA E INDENNIZZO
EX LEGE PINTO – Nel quantum questo tribu-
nale aderisce con convinzione ad un recente
orientamento introdotto dalla giurisprudenza
di merito (…) che, sviluppando gli argomenti delle celebri sentenze gemelle n. 8827
e 8828 del 2003 secondo cui il danno non
patrimoniale è risarcibile tutte le volte che ci
sia lesione di un diritto costituzionale, ha ritenuto che la responsabilità da illecito ex art. 96
c.p.c. (dottrina e Cassazione assolutamente
pacifiche) possa cagionare non solo danno
patrimoniale, ma anche danno non patrimoniale risarcibile.
Tanto si desume da alcune norme di legge
quali la recente formulazione dell’art. 385
c.p.c. (condanna del soccombente nel giudizio di Cassazione ad una somma equitativamente determinata), l’art. 111 Cost. (2°
co., sulla ragionevole durata del processo), la
l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. «Legge Pinto»
sugli indennizzi per eccessiva durata del processo); assai significativa è poi la giurisprudenza della CEDU sulla eccessiva durata
del processo per violazione all’art. 6 della
Convenzione sulla Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo (ratificata con l. 4 agosto 1955,
n. 848) (Trib. Roma, sez. XIII, 27 febbraio
2008, inedita).
DANNO DA LITE TEMERARIA E PROCESSO
TRIBUTARIO – Equitalia ha l’obbligo di control-
lare la regolarità formale e sostanziale dei ruoli
nonché predisporre le cartelle esattoriali e ad
eseguire la procedura esecutiva seguendo
le leggi. Equitalia è obbligata a verificare la
sussistenza del credito presupposto all’esecuzione, predisponendo, anche in autotutela, l’eventuale prescrizione o decadenza
del titolo (…) la grave negligenza nell’adempimento di questi doveri può dar luogo a
responsabilità ex art. 96, 3° co., c.p.c.; che
deriva dal mancato uso di un minimo di diligenza e controllo della legittimità dei propri
atti. L’Equitalia è sottoposta alla trasparenza
e alla correttezza nell’attività di riscossione, a
quanto stabilito dal Codice del Consumo, in
ordine alla correttezza, buona fede e diligenza
nei rapporti con le controparti (Comm. Trib.
Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257,
www.personaedanno.it).
3.1. Dal giusto processo alla ragionevole durata del processo
Legislazione Cost. 111 - c.p.c. 96 - l. 24 marzo 2001, n. 89, legge Pinto
Il principio del giusto processo è racchiuso nella nuova formulazione
dell’art. 111 Cost., introdotto con l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, a tenore
del quale: «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla
legge».
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1
Il 2° co. statuisce poi che «ogni processo si svolge nel contraddittorio delle
parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La
legge ne assicura la ragionevole durata».
Il destinatario della prescrizione costituzionale, oggi consacrata nell’art. 111,
2° co., Cost., è in realtà il legislatore ordinario, – e non il giudice che deve
limitarsi ad interpretare le norme in quest’ottica –, il quale deve introdurre
disposizioni normative non contrastanti con il nuovo principio di «ragionevole durata» del processo.
La dottrina ha quindi notato che con tale prescrizione non si stabilisce che
ogni processo deve svolgersi in tempi ragionevoli né, tantomeno, che ogni
soggetto ha diritto ad un processo di durata ragionevole. Tale ultimo principio è invece sancito dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
La formula utilizzata si limita ad affidare al legislatore il compito di «assicurare» che il processo abbia una ragionevole durata.
3.1.1. Responsabilità processuale aggravata e ragionevole durata
del processo
Legislazione Cost. 111 - c.p.c. 96 - l. 24 marzo 2001, n. 89, legge Pinto
Bibliografia Ziviz 2011
La dottrina ritiene corretto il collegamento tra responsabilità processuale
aggravata e l’istituto del ragionevole processo:
«la figura della responsabilità aggravata, prevista dal primo comma della
disposizione, rappresenta una fattispecie di illecito sanzionata esclusivamente a fronte della particolare coloritura soggettiva quanto al comportamento del danneggiante.
Tale particolarità non implica, tuttavia, la necessaria conclusione che il danno
da risarcire assume una valenza punitiva; il fatto che la responsabilità sia
circoscritta alle ipotesi di mala fede o colpa grava rispecchia l’intento di non
scoraggiare l’attività processuale del soggetto a fronte del rischio di doversi
addossare le conseguenze dannose subite dalla controparte nell’ipotesi di
soccombenza.
Per questo motivo la responsabilità scatta soltanto ove il comportamento processuale sia qualificato dalla chiara consapevolezza della totale infondatezza
della pretesa fatta valere ovvero da una manifesta ed inescusabile leggerezza
nella valutazione di tale fondatezza, poiché soltanto in ipotesi del genere viene
valicata la soglia di ingiustizia. Nel bilanciamento di interessi in gioco, la posizione del danneggiante non è sorretta, in quest’ultima ipotesi, da un interesse
normativamente protetto, e prevale perciò il contrapposto interesse della
vittima a non subire turbative processuali. Tale fattispecie appare, quindi,
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Capitolo III
riconducibile nell’alveo della responsabilità aquiliana. Il danno che consegue
a tale illecito può assumere sia natura patrimoniale che non patrimoniale:
sostanziandosi, quest’ultimo, nelle preoccupazioni e nei disagi organizzativi
derivanti dal coinvolgimento nel processo. Il danneggiato deve, ai fini risarcitori, provare di aver subito un danno; la possibilità che il giudice proceda alla
liquidazione del danno anche d’ufficio va legata all’ipotesi in cui egli desuma
dagli atti di causa gli elementi relativi all’an e al quantum respondeatur,
procedendo quantomeno alla liquidazione del pregiudizio – rilevabile sulla
base delle nozioni di comune esperienza – corrispondente al fatto stesso di
essere costretti a contrastare l’infondata iniziativa dell’avversario»
(Ziviz 2011, 1 ss.).
In particolare
«sotto questo profilo, appare senz’altro condivisibile l’idea di quella giurisprudenza che – ispirandosi ai principi applicati dalla legge Pinto – riconosce
come “l’esser coinvolto come parte in un giudizio davanti agli organi della
giurisdizione sia, già di per sé, motivo di turbamento destinato ad accrescersi
con l’andare del tempo”.
In una prospettiva di rilettura costituzionale della norma, l’art. 96, primo
comma, c.p.c., è stato identificato quale “presidio di tutela del principio di
ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.”; a tal fine, è stata
sottolineata la funzione sanzionatoria che, oltre a quella risarcitoria, sarebbe
destinato in tal caso ad assolvere il risarcimento. Una lettura di questo tipo
sembrerebbe, allora, aprire la porta alla possibilità di qualificare il pregiudizio
come danno punitivo: soprattutto laddove lo stesso appaia risarcito a fronte
dell’abuso dello strumento processuale, senza indagare per alcun verso sulle
ripercussioni provocate dalla lite temeraria. Una lettura di quest’ultimo tipo
dell’istituto appare, tuttavia, superata a fronte della recente novella, alla
luce della quale questo genere di funzione andrebbe semmai assegnata alla
disciplina prevista dal terzo comma della norma. In conclusione, per quanto
riguarda l’attuale assetto dell’art. 96, primo comma, c.p.c., appare del tutto
condivisibile l’idea che esso si collochi entro la disciplina della responsabilità
civile; a tal stregua, il risarcimento previsto dalla norma – in quanto esteso
anche ai pregiudizi di carattere non patrimoniale – potrà essere fatto rientrare a pieno titolo tra i casi previsti dalla legge di cui all’art. 2059 c.c.»
(Ziviz 2011, 1 ss.).
Condivido le premesse ma non comprendo poi quale sia la ragione che giustifichi una sovrapposizione tra istituti o figure così diverse.
Vi è poi quindi chi, nel condivisibile intento di donare nuova luce all’art. 96
c.p.c., ha sottolineato quanto esso possa imporsi come presidio di tutela del
principio di ragionevole durata del processo. La tesi si dipana dalla profonda
crisi applicativa nella quale venne posta la norma della responsabilità processuale aggravata:
«l’atteggiamento interpretativo così riassunto non può più essere condiviso e, anzi, una lettura in chiave costituzionale dell’art. 96 c.p.c. impone di
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facilitarne l’impiego, sicché essa – scoraggiando le iniziative o le resistenze
giudiziali che non hanno ragione di essere – possa fungere quale presidio di
tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111
Costituzione.
In tal senso merita incondizionata adesione l’affermazione dell’Assemblea
Plenaria della Corte Suprema di Cassazione, riunitasi il 21 luglio 2005 ai sensi
dell’art. 93 O.G., la quale, in riferimento alla novella dell’art. 385 c.p.c., ha
osservato: “Sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo
rappresenta una misura di razionalizzazione indispensabile se si vuole mantenere l’attuale regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa,
quale è quella del processo. Da più parti è avvertita la necessità di superare
l’attuale disciplina della responsabilità aggravata, resa sostanzialmente inoperante dalla difficoltà di dare la prova del danno patrimoniale conseguente
all’abuso del processo”»
(Trib. Roma 18 ottobre 2006, www.personaedanno.it).
Il giudice romano rileva come
«in detta prospettiva occorre allora sottolineare che, se l’art. 96 c.p.c., inserendosi nel contesto della disciplina aquiliana, risponde essenzialmente ad
una logica risarcitoria, ciò non esclude che la stessa disposizione manifesti
anche una – assolutamente evidente – funzione sanzionatoria di una condotta
riprovevole e dannosa per l’intera collettività: detta funzione, di qui, non può
non tradursi in una agevolazione, sotto il profilo dell’allegazione e prova, degli
oneri gravanti sul danneggiato.
Quest’ultima conclusione, la quale possiede valenza generale, trova riscontro
in due significativi elementi recenti di ordine normativo e giurisprudenziale.
Per un verso, infatti, merita rilevare che l’art. 385 c.p.c., nella sua versione
attuale, consente di colpire colui che in sede di ricorso per cassazione agisca
o resista con mala fede o colpa grave con una condanna che, anche d’ufficio,
senza ulteriori sostegni, può dilatarsi fino al doppio delle spese legali previste nel massimo: e non può dubitarsi che detta norma segni una strada che
non può rimanere insignificante per l’interprete che si trovi ad amministrare
l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.»
(Trib. Roma 18 ottobre 2006, www.personaedanno.it).
Il richiamo al principio della ragionevole durata del processo sembra dunque
appropriato per una parte della giurisprudenza:
«per altro verso, va posto l’accento su quell’indirizzo giurisprudenziale, derivato dalla giurisprudenza della CEDU, secondo cui, in caso di danno da eccessiva durata del processo, pur non essendo in re ipsa il pregiudizio, lo è però
la prova di esso, nel senso che la sussistenza di un danno morale, sotto forma
di sofferenza interiore, è ordinariamente correlata alla protrazione di qualunque processo oltre i limiti della sua ragionevole durata (il riferimento è alle
note Cassazione, Su, 1339/04; 1340/04; la successiva giurisprudenza vi si è
adeguata, a quanto consta senza eccezioni).
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3.1.1
Capitolo III
Con riguardo a quest’ultimo aspetto, dopo aver ricordato che nell’attuale
assetto della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale il risarcimento del danno non patrimoniale è sempre ammesso, ogni qual volta venga
in questione la lesione di un interesse dotato di copertura costituzionale
(Cassazione 8828/03; 8827/03; Corte costituzionale 233/03), occorre dire
che, – sul piano del danno esistenziale (su cui v. per tutte Cassazione, Su,
6572/06), l’azione in giudizio o la resistenza infondata comporta perdita di
tempo (esame dell’atto, colloqui con il legale, ricerca della eventuale documentazione utile ed altri supporti istruttori, presenza in udienza, ecc.), che,
se non è sottratto all’attività lavorativa remunerativa, è sottratto alle attività
di svago; – sul piano del danno morale, se produce sofferenza interiore il
prolungarsi del giudizio oltre i limiti di durata ragionevole, a maggior ragione
ne produce, nei confronti della controparte, l’atteggiamento di azione o resistenza in giudizio ab origine connotati da mala fede o colpa grave»
(Trib. Roma 18 ottobre 2006, www.personaedanno.it).
Sicché
«ecco, allora, che, mentre la domanda di danni per lite temeraria deve per ciò
stesso essere riferita, anche in mancanza di ulteriori specificazioni dell’interessato, al danno esistenziale/morale che, normalmente, scaturisce dalla
domanda o resistenza caratterizzata da mala fede o colpa grave, la liquidazione del danno ben può essere effettuata in applicazione dei medesimi parametri che la giurisprudenza applica in caso di applicazione della c.d. “legge
Pinto”.
10.3. – Il danno, allora, tenuto conto delle circostanze del caso, può essere qui
equitativamente liquidato, all’attualità, nell’importo di euro 2.500,00»
(Trib. Roma 18 ottobre 2006, www.personaedanno.it; prima ancora
App. Firenze 5 maggio 2006, RCP, 2006, 1915 nella quale i giudici fiorentini
elaborano un suggestivo parallelo fra le disposizioni in tema di lite temeraria
e quelle previste in materia di equa riparazione per processi irragionevolmente lunghi, partendo dalla pretesa uniformità di ratio a fondamento dei
due istituti).
In particolare per la Corte d’Appello di Firenze un processo ingiustamente
instaurato o resistito conduce ai medesimi risultati perniciosi nei confronti
della parte che si trova a subirlo, con la conseguenza che il diritto soggettivo alla base dell’art. 96 c.p.c. è in parte coincidente con quello previsto
dalla legge Pinto e dunque la lesione del primo presenta le stesse peculiarità
rispetto alla violazione del secondo, rispondendo, perciò, a criteri di ragionevolezza il prevedere la medesima tipologia di difesa nelle due ipotesi.
Tale orientamento farà dunque riferimento ai parametri monetari indicati da
ultimo dalla Cassazione, in relazione agli insegnamenti impartiti dalla CEDU
(Cass. 14 ottobre 2009, n. 21840, www.personaedanno.it).
La tesi di ritenere l’art. 96 c.p.c. un presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo è stata poi costantemente ripresa. In una fattispecie
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di rivendicata simulazione negoziale, il giudice veneziano ha ripercorso l’iter
travagliato della Rpa:
«il giudicante è consapevole della limitata applicazione che della norma è
stata fatta in passato e della quasi irrilevanza riconosciuta alla relativa
domanda. Tuttavia è necessario scostarsi da tale riduttiva interpretazione ed
intraprendere un percorso che segua le tracce dei principi ormai consolidati
nel sistema costituzionale interno ed internazionale.
La disciplina integrale e completa della responsabilità processuale aggravata
contenuta nell’art. 96 c.p.c. è infatti stata a lungo interpretata in tal senso:
il danno è stato identificato con la perdita ed il mancato guadagno di cui
all’art. 1223 c.c., per il tramite dell’art. 2056 c.c., e l’onere della prova è stato
ripartito secondo la regola generale stabilita dall’articolo 2697 c.c.. Seguendo
tale impostazione, dunque, la responsabilità processuale aggravata per mala
fede o colpa grave prevista dall’art. 96 c.p.c. costituisce una figura di torto
extracontrattuale ed è, pertanto, soggetta al principio generale secondo cui
chi intende ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova sia dell’an
che del quantum. Tale interpretazione ha tuttavia cagionato un pressoché
totale oblio della norma, infrangendosi contro la difficoltà, intuitivamente elevata, di fornire una prova dettagliata del pregiudizio subito»
(Trib. Venezia, sez. San Donà di Piave, 8 maggio 2010, www.personaedanno.it).
Fatta questa premessa, s’impone ora una lettura ben diversa della norma,
ossia
«una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 96 c.p.c. in correlazione
con i principi del “giusto processo” di recente costituzionalizzati comporta
oggi un totale stravolgimento di prospettiva: da tradizionale strumento risarcitorio posto a tutela di interessi privatistici del soggetto leso, che per effetto
del risarcimento può così ricevere reintegrazione del pregiudizio risentito,
a presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito
dall’art. 111 Cost. introdotto con l. cost. 23.11.1999, n. 2. La previsione normativa, così, viene a svolgere una funzione sanzionatoria di una condotta
riprovevole e dannosa per l’interesse della collettività.
Quest’ultima conclusione trova riscontro nel nuovo art. 385 c.p.c., il quale
prevede la condanna del soccombente – da disporsi anche d’ufficio – al pagamento di una somma equitativamente determinata non superiore al doppio
dei massimi tariffari, se la Corte ritiene che il ricorso sia stato proposto o ad
esso si sia resistito anche solo con colpa grave.
In questa direzione, nell’ottica di una reinterpretazione del sistema alla luce
dei nuovi principi costituzionali sul “giusto processo” e sulla “ragionevole
durata”, si segnalano: Trib. Roma, 18 ottobre 2006; Trib. Bologna, 27.1.2005;
Trib. Reggio Emilia, 31.5.2005; Trib. Bologna, 20 settembre 1995; Trib. Bologna, 22.11.1995; C.A. Firenze, 3.3.2006; Trib. Genova, 12.09.2006; Trib.
Modena, 2.2.2007; Trib. Roma, 19.5.2009»
(Trib. Venezia, sez. San Donà di Piave, 8 maggio 2010, www.personaedanno.it).
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Capitolo III
Invero,
«quanto al concetto di “colpa grave”, su di esso si è espressa più volte la
Suprema Corte: la colpa grave è da intendersi “nel senso della consapevolezza, dell’ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza,
dell’infondatezza” della tesi fatta valere (Cass. 1983/1308); incorre in colpa
grave chi ha “agito o insistito in una pretesa coscientemente infondata, e
cioè senza il minimo esame della giustezza e della ragionevolezza della pretesa” (Cass. 1983/1973); la colpa grave è la coscienza dell’infondatezza o
la carenza della normale diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza
(Cass. 1983/3799, 1990/4651, 1994/7101, 2000/9579, 2003/73).
Tale responsabilità impone il risarcimento non solo dei danni patrimoniali, ma
anche di quelli di natura non patrimoniale e dotati di copertura costituzionale.
Sotto il profilo probatorio, la giurisprudenza da tempo non esige una prova
rigorosa: il giudice può “desumere l’esistenza e l’entità del danno anche da
nozioni di comune esperienza” (Trib. Roma 9 ottobre 1996) o ricorrendo ad
“elementi presuntivi” (Cass. 5 agosto 1969, n. 2950)»
(Trib. Venezia, sez. San Donà di Piave, 8 maggio 2010, www.personaedanno.it).
L’attenzione si sposta dunque sulla legge Pinto:
«ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, dunque, possono pacificamente applicarsi i medesimi criteri che sono seguiti nel risarcimento del
danno di cui alla legge Pinto.
Tutto ciò premesso, nel caso di specie il comportamento di parte attrice stupisce con riferimento tanto alla domanda principale quanto a quella subordinata.
In merito alla prima, infatti, la sig.ra (…), pur conoscendo gli artt. 1350 c.c. e
1417 c.c., ha introdotto un giudizio per l’accertamento della simulazione relativa di una compravendita immobiliare in difetto della controdichiarazione
scritta; quindi, lette le memorie della controparte, ha prodotto due documenti recanti sottoscrizioni formalmente attribuite al medesimo soggetto ma
evidentemente redatte da persone diverse; in seguito, avvenuto il disconoscimento da parte della convenuta, non ne ha chiesto la verificazione, impedendo di fatto l’accoglimento della propria domanda principale.
Quanto alla domanda formulata in via subordinata, la sig.ra (…) ha manifestato estrema confusione sulle cifre da chiedere in restituzione, confusione
perpetuatasi ed anzi aggravatasi nelle deposizioni testimoniali.
Le circostanze tutte sopra evidenziate impongono la condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c. L’importo è individuato equitativamente nella
somma di € 1.000,00 al valore attuale, attesa la natura della causa, la durata
del procedimento e la sostanza dei rapporti tra le parti»
(Trib. Venezia, sez. San Donà di Piave, 8 maggio 2010, www.personaedanno.it).
Anche in tale caso pare emergere una difesa tecnica disinvolta che si riverbera poi sulla parte processuale, sanzionata con la condanna per la lite
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temeraria ma che avrebbe dovuto essere ammonita tecnicamente prima di
instaurare il giudizio dal proprio legale.
3.1.1.1. Altra giurisprudenza di merito
La giurisprudenza di merito si è arricchita di provvedimenti che hanno confermato la bontà di parametrare il danno arrecato in virtù di una lite temeraria, facendo riferimento all’indennizzo applicato nel doveroso rispetto della
legge Pinto (indennizzo quest’ultimo per vero modesto soprattutto dopo il
recente Decreto sviluppo, ma politicamente contenuto per non arrecare un
ulteriore disavanzo alle casse dello Stato).
Non mancano certo, in tale filone, le sentenze che individuano nell’avvocato
il danneggiante (ovvero ne lasciano intuire la responsabilità come patrocinante della parte condannata per lite temeraria), sanzionando con adeguato rigore il suo comportamento, che deve peraltro essere qualificato da
una particolare diligenza appunto meglio nota come perizia. Ed anche se la
valutazione, ben più severa, dell’elemento soggettivo del litigante temerario
nel caso in cui egli sia un avvocato, non sempre traspaia dalle motivazioni
in modo esplicito, è evidente che esse sottendano il sillogismo dell’organo
giudicante.
In un caso deciso dal tribunale pugliese, il legale, attore e dunque parte nel
processo, si è visto respingere tutte le domande, ritenute del tutto infondate, e viene ritenuto responsabile ex art. 96 c.p.c. «anche per la sua qualità
di avvocato»:
«sussiste colpa grave ai sensi dell’art. 96, 1° comma, c.p.c., in quanto l’attore,
anche per la sua qualità di avvocato, era ben in condizione di vagliare la fondatezza della domanda e quindi l’opportunità di assoggettare a processo tutti
i numerosi convenuti»
(Trib. Bari, sez. I, 30 aprile-20 maggio 2008, n. 1274, www.personaedanno.it).
Nella specie il danno si ritiene provato dalla comune esperienza, ancorché
non meglio citata:
«sussiste anche il danno risarcibile.
Infatti, è vero che secondo la S.C., in tema di responsabilità aggravata per lite
temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all’art. 96 c.p.c.
richiede pur sempre la prova incombente alla parte istante sia dell’an che del
“quantum debeatur” o che, pur essendo la liquidazione effettuabile d’ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa (Cassazione
civile, sez. I T, 15 febbraio 2007, n. 3388, Soc. Tripoli Soc. Aigi., in Giust., civ.
Mass. 2007, 2).
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3.1.1.1
Capitolo III
Tuttavia, in molte corti di merito si va affacciando da tempo l’idea che la
parte che debba sostenere una lite va incontro ad una serie di disagi quali, a
titolo di esempio, l’apprensione connessa all’esito del giudizio, la perdita di
tempo e di danaro per la ricerca della documentazione probatoria e per la
consultazione del proprio legale, e via discorrendo. Ove, quindi, tali aggravi
non siano quelli normali, frutto di una normale dialettica processuale, ma,
al contrario, quelli particolarmente ampliati e odiosi connessi ad una subita
aggressione con una lite del tutto temeraria, ben risulta fondata la richiesta di risarcimento ex art. 96 c.p.c. e, in mancanza di una precisa prova
sull’ammontare del danno, questo può sicuramente essere liquidato secondo
equità (Tribunale Milano, sez. VIII, 22 marzo 2006, n. 3662, in Corriere del
merito 2006, Il 1263)»
(Trib. Bari, sez. I, 30 aprile-20 maggio 2008, n. 1274, www.personaedanno.it).
Nella fattispecie si aderisce quindi all’indirizzo che intende parametrare
l’illecito processuale all’indennizzo previsto per l’irragionevole durata del
processo:
«anzi, si è affermato che le condotte realizzate da una parte che integrino
la responsabilità di cui all’art. 96 c.p.c., costringono l’altra parte a subire un
processo ingiustificato e perciò qualificabile come eccessivo nella sua intera
durata, con la conseguenza che il tipo di lesione verificata si presenta analoga a quella relativa alla irragionevole durata del processo. Il danno allora,
pur mancando la piena prova circa la sua esistenza ed il suo ammontare,
potrà essere considerato come conseguenza normale della violazione del
diritto e quantificato in via equitativa sulla base dei medesimi criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo per un processo irragionevolmente lungo
(Corte appello Firenze, sez. I, 03 marzo 2006, Resp. civ. e prev. 2006, 11
1915)»
(Trib. Bari, sez. I, 30 aprile-20 maggio 2008, n. 1274, www.personaedanno.it).
In conclusione pertanto
«questo giudice ritiene di condividere questa impostazione estensiva
dell’interpretazione dell’art. 96 c.p.c. e, pertanto, di condannare in via equitativa l’attore, in favore dei convenuti che ne hanno fatto richiesta esplicita,
della somma di € 8000,00 per ciascuno (pari ad € 1000,00 per ciascun anno
di causa)»
(Trib. Bari, sez. I, 30 aprile-20 maggio 2008, n. 1274, www.personaedanno.it).
Come già scritto prima, l’equivalenza tra due fattispecie ben difformi (processo temerario e processo irragionevole nella sua durata) mi lasciano assai
perplesso, così come l’ansia di volere omologare nella liquidazione una voce
di danno che poco si presta a uniformità.
In un altro caso, sempre deciso dal tribunale romano, il contenzioso nasce
tra il paziente ed il proprio medico dentista per un intervento che a detta
dell’attore sarebbe stato mal riuscito. In realtà dalla fase istruttoria emerge
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1.1
l’avventatezza delle tesi attoree ed il medico ne domanda la responsabilità
aggravata:
«la domanda di risarcimento svolta dal convenuto per lite temeraria va
accolta.
Sull’an non vi è dubbio: si deve ravvisare se non dolo, quanto meno colpa
grave nel fatto di aver agito prospettando circostanze non vere: il dente 1.5,
come si è avuto modo di constatare, non era affatto sano e l’attore se non ne
era consapevole, quanto meno è stato assai disattento (…)
A questo si aggiunga un atto di citazione al limite della nullità dove non sono
indicati né la data del fatto né l’importo del danno, con palese violazione
dell’obbligo di lealtà.
In più una richiesta di risarcimento assolutamente pletorica di € 50.000,00 del
tutto fantasiosa anche se fosse stata vera la perdita di un dente sano»
(Trib. Roma, sez. XIII, 27 febbraio 2008, inedita).
Interessante è quindi pure la valutazione – pur se vellutata – ai fini dell’illecito processuale di una domanda risarcitoria assolutamente abnorme. Anche
tale modo disinvolto di intercedere può quindi costituire un monito per le
parti processuali, nonché per i difensori troppo proni a sostenere le ragioni
dei clienti.
Quanto alla sua liquidazione, si segue il criterio ex lege Pinto:
«nel quantum questo tribunale aderisce con convinzione ad un recente
orientamento introdotto dalla giurisprudenza di merito (…) che, sviluppando gli argomenti delle celebri sentenze gemelle n. 8827 e 8828 del 2003
secondo cui il danno non patrimoniale è risarcibile tutte le volte che ci sia
lesione di un diritto costituzionale, ha ritenuto che la responsabilità da illecito ex art. 96 c.p.c. (dottrina e Cassazione assolutamente pacifiche) possa
cagionare non solo danno patrimoniale, ma anche danno non patrimoniale
risarcibile.
Tanto si desume da alcune norme di legge quali la recente formulazione
dell’art. 385 c.p.c. (condanna del soccombente nel giudizio di Cassazione
ad una somma equitativamente determinata), l’art. 111 della Costituzione
(comma 2, sulla ragionevole durata del processo), la legge 24 marzo 2001
n. 89 (c.d. «Legge Pinto» sugli indennizzi per eccessiva durata del processo);
assai significativa è poi la giurisprudenza della CEDU sulla eccessiva durata
del processo per violazione all’art. 6 della Convenzione sulla Salvaguardia dei
Diritti dell’Uomo (ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848)»
(Trib. Roma, sez. XIII, 27 febbraio 2008, inedita).
Pertanto
«da questo complesso di regole se da un lato emerge il principio che un
processo che si protrae eccessivamente lede uno dei diritti fondamentali
dell’uomo e provoca quindi un danno non patrimoniale risarcibile, dall’altro
se ne deve desumere che vieppiù è risarcibile il danno (anche non patrimoniale) cagionato dal fatto di aver dovuto affrontare un processo inutile, che
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3.1.1.2
Capitolo III
fin dall’inizio non doveva nascere il che, oltre a costituire illecito espressamente previsto dalla legge, lede anche un diritto costituzionalmente protetto,
anzi, meglio, un diritto fondamentale menzionato nell’art. 6 della citata Convenzione.
Sicché da questa normativa si trae, oltretutto, il parametro per liquidare equitativamente il danno, vale a dire nella misura di € 1.000 per ogni anno di
durata del processo, secondo i criteri adottati dalla giurisprudenza citata e
poi ripresi da varie Corti di Appello.
Nel caso in esame il processo è iniziato nel giugno del 2005 ed è durato fino
al dicembre 2007 per due anni e sei mesi; eliminando alcuni tempi morti, il
danno può quindi essere individuato in € 2.000»
(Trib. Roma, sez. XIII, 27 febbraio 2008, inedita).
SINTESI
Parte della giurisprudenza tende a liquidare il danno ex art. 96 c.p.c.
con i parametri dell’indennizzo per la durata irragionevole del processo.
La responsabilità processuale viene dunque ricondotta alla lesione di
un diritto costituzionalmente protetto, violato da un processo che non
avrebbe dovuto tenersi.
3.1.1.2. Critiche
Bibliografia Cuffaro 2007 - Pulice I. e Pulice M. 2007 - Fradeani 2010
La tesi di applicare i parametri di liquidazione del danno previsti ai sensi
della legge Pinto è stata costantemente ripresa dalla dottrina, non senza
condivisibili critiche:
«una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 96 c.p.c. in correlazione
con i principi del “giusto processo” di recente costituzionalizzati, comporta
un totale stravolgimento di prospettiva: da tradizionale strumento risarcitorio posto a tutela di interessi privatistici del soggetto leso, che per effetto
del risarcimento può così ricevere reintegrazione del pregiudizio risentito,
a presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito
dall’art. 111 Cost introdotto con l. cost. 23.11.1999, n. 2. La previsione normativa, così, viene a svolgere una funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’interesse della collettività.
I destinatari della disposizione costituzionale novellata sono, così, il legislatore ordinario e la Corte Costituzionale»
(Pulice I. e Pulice M. 2007, 1 ss.).
Pertanto
«la nuova interpretazione proposta si porrebbe in funzione in qualche
misura preventiva: si riverberebbe beneficamente sul livello quantitativo del
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1.2
sopravveniente contenzioso e potrebbe divenire un proficuo antidoto contro
l’abuso del processo.
Minacciando una frequente applicazione dell’art. 96 c.p.c. – favorita anche
da una facilitazione nella prova del danno – si potrebbe ottenere l’effetto di
scoraggiare la proposizione di giudizi del tutto infondati»
(Pulice I. e Pulice M. 2007, 1 ss.).
In pratica
«l’art. 96 c.p.c., manifesterebbe, così, una naturale funzione sanzionatoria di
una condotta riprovevole e dannosa per l’intera collettività»
(Pulice I. e Pulice M. 2007, 1 ss.).
È tuttavia evidente come l’ipotesi di responsabilità processuale aggravata e la misura indennitaria prevista dalla legge Pinto debbano rimanere
distinte, pur potendo avere punti di contatto, avendo come riferimento il
processo.
Ho già osservato quanto diverso possa essere il danno da irragionevole
durata del processo (il cui danno è nel processo, nella sua ingiustificata
durata), dal danno da lite temeraria (il cui danno è dal processo stesso,
nella sua ingiustificata rappresentazione). Entrambe certamente hanno in
comune il faro del principio del «giusto processo» ma non possono a mio
avviso essere assimilate. Uno è un processo ingiusto perché troppo lungo,
l’altro ingiusto perché temerario. Nel primo non si abusa del processo, nel
secondo si paga l’abuso.
Infatti come si sottolinea altrove,
«la durata del processo attiene alla responsabilità dello Stato apparato mentre la determinazione al processo è propria della responsabilità delle parti. In
altre parole, la previsione di responsabilità conseguente alla eccessiva durata
del processo discende da un aspetto organizzativo del “servizio” giustizia che
i cittadini possono ora pretendere si svolga secondo un parametro di efficienza la cui violazione determina la responsabilità dello Stato, mentre la
previsione di responsabilità di cui all’art. 96 cod. proc. civ. deriva dalla condotta di chi ha determinato il processo, se ed in quanto riconducibile a dolo
o colpa grave»
(Cuffaro 2007, 698).
Un collegamento viene così identificato, a partire dall’esame del 3° co.
dell’art. 96 c.p.c.:
«si cerca così di colpire l’utilizzo abusivo della giurisdizione statuale per la
soluzione dei conflitti, ovvero garantirne, lite pendente, un sicuro approdo ad
una rapida decisione, scevra da comportamenti dilatori, sleali e scorretti. Non
sono necessari, infatti, particolari sforzi intellettuali per apprezzare il concreto
beneficio sul sistema nel suo complesso, in termini innanzitutto di ragionevole
durata del processo, ex art. 111, 2° comma, Cost., ove si riuscisse davvero
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3.1.1.3
Capitolo III
nell’ambizioso programma di ridurre sensibilmente il potenziale contenzioso,
assicurando al contempo che quello in atto, limitato ad una percentuale fisiologica, non sia più ammorbato, come spesso accade, dalla reiterazione di
istanze palesemente infondate»
(Fradeani 2010, 1 ss.).
3.1.1.3. Indennizzo e lite temeraria
Legislazione c.p.c. 96 - l. 24 marzo 2001, n. 89, legge Pinto - d.l. 22 giugno 2012,
n. 83, c.d. Decreto Sviluppo, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, artt. 2 bis,
2 quinquies
Bibliografia Olivieri 2001
Giova intanto ricordare come proprio di recente la Cassazione sia ritornata
sul criterio di quantificazione del danno non patrimoniale, precisando e
modificando quanto aveva affermato con la sentenza 16086/2009. In particolare ha confermato che la quantificazione del danno non patrimoniale deve
essere, di regola, non inferiore a euro 750 per ogni anno di ritardo, ma ha
aggiunto che tale cifra debba valere in relazione ai primi tre anni eccedenti
la durata ragionevole, e debba, invece, essere non inferiore a euro 1000 per
quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente tale periodo
da ultimo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (Cass.,
sez. I, 14 ottobre 2009, n. 21840, www.cortedicassazione.it).
Da tenere ora in considerazione l’ulteriore riduzione del quantum dell’indennizzo ex lege Pinto introdotta con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, c.d. Decreto
Sviluppo, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (in G.U. n. 187 dell’11
agosto 2012), che ha ora introdotto l’art. 2 bis (Misura dell’indennizzo),
secondo cui «1. Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di
denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun
anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo».
I giudici di legittimità hanno quindi in passato osservato come in caso di
violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa
riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89 spetta a tutte le parti del
processo a prescindere dalla posizione di parte vittoriosa o soccombente,
tranne il caso di abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il
soccombente abbia promosso una lite temeraria:
«sempre in punto di retta esegesi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, va del
pari esclusa la prospettata spettanza della pretesa indennitaria nei confronti
delle sole parti risultate vittoriose nel processo presupposto.
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1.3
Una tale restrittiva interpretazione non trova, infatti, riscontro alcuno nella
lettera della legge in esame ed, all’evidenza, contraddice la “ratio” della norma
comunitaria – di cui lo Stato ha come si è detto, inteso garantire l’osservanza
interna – che è quella, appunto, di assicurare la “giustizia” in tempi ragionevoli
indipendentemente dall’esito (favorevole o non al richiedente) del giudizio
(e che potrebbe per di più, mutare, anche dopo il giudicato, in applicazione
dei rimedi processuali straordinari, quali la revocazione e la revisione).
Risolutivo è, comunque, anche per tal profilo, l’interpretazione già acquisita
nella giurisprudenza della corte di Strasburgo nel senso, appunto, della sanzionabilità della lentezza giudiziaria, a garanzia della ragionevole durata del
processo nei confronti di tutte le parti dello stesso, attori o convenuti, ed
indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti
(cfr. tra altre, Carnevali c. Italia n. 37147/97; Prisca e altri c. Italia n. 14660/90;
4 Donni c. Italia n. 29128/95)»
(Cass., sez. I, 7 marzo 2003, n. 3410, GDir, 2003, 17, 36).
Tuttavia, l’indennizzo non spetta al litigioso temerario:
«il che, per altro, non esclude che, nel singolo caso, possa essere denegato
l’indennizzo alla parte soccombente che risulti aver promosso una lite temeraria o avere artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con
tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie sub
art. 2 della legge n. 89 del 2001: configurando ciò una ipotesi di abuso del
diritto, nella forma peculiare dell’abuso del processo»
(Cass., sez. I, 7 marzo 2003, n. 3410, GDir, 2003, 17, 36).
La posizione confermerebbe la tesi dell’autorevole dottrina che individua
non solo una dimensione interna del principio costituzionale della «ragionevole durata», ma anche una dimensione esterna, svolgendo anche il ruolo di
«prevenire il sorgere di altri processi» (Olivieri 2001, 254).
La nuova interpretazione proposta si porrebbe dunque in evidente funzione
preventiva, poiché si rifletterebbe sulla quantità del contenzioso e potrebbe
divenire un antidoto contro l’abuso del processo. La maggiore frequente
applicazione dell’art. 96 c.p.c. potrebbe scoraggiare la proposizione di giudizi del tutto infondati e di indurre meglio a meditare le parti sulla opportunità di iniziare una lite giudiziale o di resistere in giudizio.
Invero, lo sdoganamento della responsabilità processuale aggravata dal
limbo nel quale è stato ingiustamente rilegato nel passato, sarebbe un
monito per i litiganti temerari, mentre nulla cambierebbe per i litiganti privi
di tale intento abusivo.
Tale posizione è stata ora recepita dal legislatore, il quale nel modificare la
c.d. legge Pinto per mezzo del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, c.d. Decreto Sviluppo, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (in G.U. n. 187 dell’11 agosto
2012), ha ora introdotto l’art. 2 quinquies secondo cui «Non è riconosciuto
alcun indennizzo: a) in favore della parte soccombente condannata a norma
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Capitolo III
dell’articolo 96 del codice di procedura civile; (…) f) in ogni altro caso di
abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento». L’indennizzo prescritto per il processo
irragionevole nella sua durata è stato dunque costantemente preso in esame
per liquidare il danno da lite temeraria:
«venendo ora al danno, rileva il decidente che, per condivisa giurisprudenza
di legittimità, “la condanna al risarcimento del danno per lite temeraria ex
art. 96 comma 1 c.p.c. presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo (che deve ravvisarsi in tutti quei casi in cui vi sia conoscenza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute ovvero difetto della normale
diligenza nell’acquisizione di detta conoscenza, come, ad esempio, quando
venga contrastato un costante, consolidato e mai smentito indirizzo giurisprudenziale) sia dell’elemento oggettivo, cioè dell’entità del danno sofferto:
a tale ultimo fine il riferimento a nozioni di comune esperienza e al principio
costituzionalizzato della ragionevole durata del processo, porta a ritenere che
ingiustificate condotte processuali oltre a causare danni patrimoniali, producono ‘ex se’ anche danni non patrimoniali di natura psicologica che vanno
liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili
dagli atti di causa”(3).
In termini confermativi, osserva il decidente che “in ipotesi di responsabilità
di cui all’art. 96 c.p.c., qualora le condotte realizzate da una parte costringano l’altra parte a subire un processo ingiustificato, e, perciò qualificabile
come eccessivo nella sua intera durata, il tipo di lesione si presenta in forma
del tutto analoga a quella relativa alla irragionevole durata del processo. Il
danno, allora, pur mancando la piena prova circa la sua esistenza ed il suo
ammontare, potrà essere considerato una conseguenza normale della violazione del diritto, e conseguentemente, quantificato in via equitativa sulla
base dei medesimi criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo per il processo
irragionevolmente lungo”(4)»
(Trib. Brindisi-Francavilla Fontana 26 gennaio 2009, inedita).
Invero,
«venendo ora al caso di specie, rileva il decidente che la pretesa infondata
dell’attrice ha costretto il convenuto ad un giudizio defatigante, durato circa
sette anni. Per tale ragioni, quantificato il termine di durata ragionevole del
processo in anni tre, come da giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, reputa il decidente che gli ultimi quattro anni di processo costituiscono sofferenza ingiustificata cui l’attrice ha sottoposto il convenuto –
non coperta come tale dal ristoro delle spese di giudizio – che va pertanto
risarcita.
Applicando i parametri comunitari, reputa il decidente di quantificare l’entità
del risarcimento in euro 1.000 per ogni anno di durata non ragionevole del
processo, e così per un totale di euro 4.000. Tale importo va maggiorato di
rivalutazione monetaria e interessi legali»
(Trib. Brindisi-Francavilla Fontana 26 gennaio 2009, inedita).
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1.4
SINTESI
La Corte di Cassazione ha statuito che l’indennizzo per la durata irragionevole del processo possa essere riconosciuto anche alla parte soccombente ma non alla parte che risulti aver promosso una lite temeraria o
avere artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, configurando ciò una ipotesi di abuso
del diritto.
Tale posizione è stata ora recepita dal legislatore, il quale nel modificare
la c.d. legge Pinto per mezzo del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, c.d. Decreto
Sviluppo, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 (in G.U. n. 187 dell’11
agosto 2012), ha ora introdotto l’art. 2 quinquies secondo cui «Non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte soccombente condannata a norma dell’articolo 96 del codice di procedura civile».
3.1.1.4. Condotte processuali dilatorie
La giurisprudenza di legittimità si è pure dedicata alle condotte processuali dilatorie, ossia quelle finalizzate a prendere tempo prima della definizione della controversia, perché ciò arrecherebbe un vantaggio alla parte
«temeraria».
Ciò è avvenuto in una recente sentenza della sezione lavoro dei giudici di
legittimità, nell’occasione della quale si procede ad una insolita ed abbondante ricostruzione dell’istituto della Rpa, che merita di essere letta.
A partire dalla lettura della dottrina dell’art. 96 c.p.c.:
«in dottrina si è sostenuto che la prassi non mostra grande entusiasmo
nell’applicare l’istituto scrutinato non solo per la difficoltà connessa alla prova
dell’elemento psicologico ma anche in ragione dell’accertamento e della conseguente liquidazione del danno provocato dal comportamento processuale,
che va operata nello stesso processo ad opera dello stesso giudice investito
del merito della causa.
E si è aggiunto che il superamento delle suddette difficoltà risulta tutt’altro
che agevole non fosse altro che per la complessità degli elementi di fatto e
di diritto, da cui può dipendere l’esito di un processo, oltretutto tenuto che
il giudice, per l’articolo 101, comma 2, Cost. è del tutto libero nella interpretazione della legge, senza essere in alcun modo vincolato dagli orientamenti giurisprudenziali, ancorché consolidati. Dovrebbe pertanto ritenersi
che neppure le prospettazioni più ardite ed “originali” possano considerarsi
fin dall’origine senza speranza per cui non si dovrebbe incorrere in responsabilità aggravata ex art. 96 c.c., comma 1, se non quando si sia ignorata
puramente e semplicemente (con dolo o colpa grave) una norma esistente
o si siano fondate le domande avanzate in giudizio su una norma non (più)
esistente, si da configurarsi una “grave violazione di legge determinata da
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3.1.1.4
Capitolo III
negligenza inescusabile” (formula questa adoperata dalla L. n. 117 del 1988,
art. 2, comma 3, lett. a), in relazione alle fattispecie di responsabilità del
giudice)»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
Invero,
«4.5. Con un approccio ermeneutico volto ad estendere maggiormente
l’ambito di operatività dell’art. 96 c.p.c., comma 1, sulla premessa che la fattispecie del comportamento previsto da detta norma, configurante una ipotesi
particolare di atto illecito, si pone in un rapporto di specie a genere rispetto
all’art. 2043 c.c., si è affermato che se dovesse risultare certo che la parte che
ha agito o resistito era ben consapevole del suo torto ed ha agito per spirito
di emulazione o per altre simili ragioni o ha resistito con intenti dilatori e
defatigatori, questa situazione di “malafede” rileverebbe un abuso del diritto
di azione e perciò un comportamento illecito; e si è altresì aggiunto che il legislatore, nel prendere atto di tale illiceità, ha finito per equiparare alla malafede la colpa grave (intesa come mancanza della pur minima avvedutezza
e consapevolezza delle conseguenze dei propri atti), così come ha fatto nel
campo del diritto sostanziale»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
Per quanto concerne la posizione delle corti:
«4.6. La giurisprudenza è pervenuta a conclusioni sostanzialmente simili a
quelle patrocinate da quest’ultimo indirizzo dottrinario.
Ed invero, i giudici di legittimità hanno più volte statuito che l’accoglimento della domanda ex art. 96 c.p.c., comma 1, presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (malafede o colpa grave)
sia l’elemento oggettivo (entità del danno sofferto) e per quanto attiene
al primo dei suddetti presupposti hanno più volte statuito che esso, traducendosi nel carattere temerario della lite, va ravvisato nella coscienza
della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto
della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza (cfr. in
tali sensi tra le tante: Cass. 21 luglio 2000 n. 9579, ed in epoca più recente
Cass. 1 ottobre 2003 n. 14583; Cass. 3 agosto 2001 n. 10731). Corollario
di tale principio è che deve ritenersi sussistente l’elemento soggettivo per
la configurabilità della responsabilità aggravata in tutti quei casi in cui il
diritto di difesa si sia svolto come nella fattispecie in esame al di la del suo
schema tipico; ed invero, il relativo esercizio allorquando si concretizzi in
una utilizzazione di uno strumento impugnatorio, privo di una qualsiasi
valida copertura sia in dottrina che in giurisprudenza, attesta l’assenza
di quella diligenza che si deve accompagnare ad ogni atto difensivo e che
deve consentire di avvertire l’ingiustizia della propria condotta processuale per la qualifica di colpa grave della condotta di chi si ponga in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale già formatosi in
materia; Cass. 17 febbraio 1993 n. 1953; Cass. 18 febbraio 18 febbraio 1994
n. 1592)»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.1.1.4
In particolare, con riferimento alla condotta dilatoria, se ne sottolinea la particolare lesività:
«5. Questa Corte ritiene che i principi sopra enunciati legittimano l’assunto
che la responsabilità aggravata possa essere fatta valere a fronte di tutte
quelle condotte processuali che, improntate a mere finalità dilatorie, comportino pregiudizievoli ricadute sui tempi del processo determinando nel
contempo come è stato nel presente giudizio lamentato dal controricorrente
sulla base degli elementi agli atti un danno non soltanto patrimoniale, da
liquidarsi in forma equitativa dal giudice, secondo i parametri dell’illecito
extracontrattuale.
5.1. Il suddetto assunto trova conforto oltre sui numerosi arresti sopra riportati anche sulla considerazione che le innovazioni normative – (cfr. L. 24
marzo 2001 n. 89, c.d. legge Pinto), anche a livello costituzionale (cfr. art. 111
Cost., comma 2, come introdotto dalla Legge Costituzionale 23 novembre
1999, n. 2), regolanti i tempi del processo unitamente alle recenti pronunzie delle Sezioni Unite di questa Corte di riconoscimento della vincolatività
delle statuizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla liquidazione
dei danni sofferti per l’eccessiva durata del processo (cfr. al riguardo tra le
altre Cass. Sez. Un., 26 gennaio 2004 nn. 1338, 1339 e 1340) – inducono a
ritenere che possa ormai ritenersi acquisito nel patrimonio di ciascuno cittadino il diritto a vedersi risarciti i danni derivanti da ingiustificati ritardi nella
definizione del giudizio scaturenti eziologicamente da condotte dilatorie, da
inquadrarsi tra gli illeciti extracontrattuali, sia che si voglia individuare un
collegamento stretto tra responsabilità ex art. 96 c.p.c., e la violazione del
dovere di lealtà e di probità di cui all’art. 88 c.p.c., sia che, invece, si intenda
seguire la tesi secondo cui, pur sussistendo tra le due fattispecie codicistiche
una diversità (per riguardare l’art. 96 l’introduzione della causa ed, invece,
l’art. 88 il comportamento nella causa), non possono tuttavia negarsi profili
di reciproca interdipendenza e connessione sul piano logico – giuridico tra i
due istituti in oggetto (non potendosi negare che un comportamento leale
e probo non possa mai concretizzare in un illecito extracontrattuale e che
viceversa una condotta contraria ai principi di lealtà processuale possa essere
sottratta ai profili della responsabilità extracontrattuale, quale quella di cui
all’art. 96)»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
Nell’occasione v’è pure spazio per ricordare la giurisprudenza del danno in
re ipsa e lo schema della legge Pinto:
«6. Esigenze di maggiore compiutezza motivazionale inducono a rimarcare che
la soluzione accolta che ha già trovato un riscontro in una decisione di questa
Corte di cassazione avente ad oggetto una fattispecie assimilabile sotto molti
profili a quella in esame (cfr. Cass. 3 agosto 2001 n. 10731 secondo cui, allorché sia stato proposto appello avverso un provvedimento meramente ordinatorio, in presenza di consolidata giurisprudenza che esclude ammissibilità di
tale mezzo d’impugnazione, non è necessario ai fini di ritenere sussistente la
responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., la dimostrazione di uno specifico
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3.1.1.4
Capitolo III
danno per il ritardo provocato dal gravame inammissibilmente esperito sulla
decisione della causa, potendo desumersi detto danno da nozioni di comune
esperienza e dal pregiudizio subito di per sé dalla parte resistente per essere
stata costretta a contrastare un’ingiustificata iniziativa dell’avversario) –
trova nell’attuale assetto ordinamentale un rassicurante supporto sia nella
regola della ragionevole durata del processo, da considerarsi ora un principio
su cui misurare la tenuta e la portata delle singole norme processuali (cfr. sul
punto in motivazione: Cass. Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8202 e n. 8203), sia
nella comune consapevolezza del valore, anche in termini economici e sociali,
che assume allo stato il principio della celerità del giudizio»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
I giudici di legittimità della sezione lavoro ripongono particolare attenzione
alla celerità del processo:
«e nella stessa ottica non può trascurarsi di evidenziare che, in linea con gli
indicati interventi normativi sul processo, la giurisprudenza di legittimità si
sia ormai consolidata nella direzione di privilegiare nelle opzioni ermeneutiche delle disposizioni processuali la celerità delle tutele (tra le tante decisioni
volte tutte pur nella diversità delle fattispecie esaminate – al perseguimento
di un processo celere vedi in motivazione: Cass. Sez. Un., 7 marzo 2005
n. 4811; Cass. Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353; Cass. Sez. Un., 26 gennaio
2004 n. 1138 cit.; Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2002 n. 761), nella ormai acquisita comune coscienza che vada assegnata una giusta collocazione al diritto
del cittadino ad ottenere una sollecita risposta alla propria domanda di giustizia, assicurando a tale diritto – anche a fini deflattivi di un contenzioso in
continua crescita la massima espansione consentita nell’ambito di un opportuno contemperamento con altri diritti (primo tra tutti quello alla difesa)
attraverso un uso ponderato di quello che nell’ambito della delimitazione dei
rapporti tra valori tutti costituzionalmente garantiti è stato definito, da autorevole dottrina costituzionalistica, “bilanciamento mobile”»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
In conclusione i giudici esprimono il seguente principio:
«7. Per concludere la domanda di responsabilità aggravata può essere
accolta in applicazione del seguente principio di diritto: L’accoglimento della
domanda di condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.p., comma 1,
presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo (mala fede o colpa
grave) sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto).
Il primo presupposto, per concretizzarsi nella conoscenza della infondatezza
domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per
l’acquisizione di detta conoscenza, è ravvisabile in tutti quei casi in cui venga
proposto contrariamente ad un costante, consolidato e mai smentito indirizzo
giurisprudenziale ricorso per cassazione avverso provvedimenti di natura
ordinatoria, quali quelli emessi ex art. 273 e 274 c.p.c.
Il secondo presupposto richiede, invece, l’esistenza di un danno e la prova
da parte dell’istante sia “dell’an” che del “quantum debeatur”; il che non
osta però a che l’interessato possa dedurre a sostegno della sua domanda
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condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi
desumere il danno subito da nozioni di comune esperienza anche alla stregua
del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo
(art. 111 Cost., comma 2) e della L. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto),
secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’id quod plerunque accidit,
ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli
di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario
sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non
compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed
onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e
cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica, che per non essere
agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli
elementi in concreto desumibili dagli atti di causa»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
Sicché
«stante la temerarietà della lite, la (…) va condannata anche per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai danni, da liquidarsi in via equitativa – tenuto
conto della natura della controversia e del suo valore economico nonché del
ritardo che a seguito del presente ricorso è destinato a subire la definizione
del merito della controversia nella somma globale di Euro 1.500,00, (millecinquecento/00)»
(Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, www.personaedanno.it).
Tuttavia, come si legge, infine il danno viene liquidato in una misura modesta, ben lontano dall’apparire anche come sanzionatorio.
3.1.1.5. Difetto di prova
Di recente anche il tribunale fiorentino, in sede di appello, si è soffermato
sull’applicazione della responsabilità processuale aggravata, giungendo a
liquidare il danno in una fattispecie di appello palesemente infondato:
«in definitiva la C. ha promosso il presente giudizio nei confronti della O.
senza fornire il benché minimo elemento di prova del nesso di causalità fra i
lavori fatti eseguire da quest’ultima e i danni da lei lamentati.
L’appello va pertanto respinto perché del tutto infondato.
Va invece accolto l’appello incidentale spiegato dalla O. per ottenere la condanna di controparte al risarcimenti danni ex art. 96 c.p.c.
Emerge infatti chiaramente da tutta la vicenda che la C. avrebbe dovuto
usare maggiore accortezza e prudenza nell’instaurare la presente causa. Non
si concorda, sul punto, col primo giudice secondo cui nel caso di specie non
vi sarebbe stato né dolo né colpa grave, ravvisabili – a suo dire – solo nella
“coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute e non nella
mera opinabilità del diritto fatto valere”.
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3.1.1.5
Capitolo III
Non può infatti sostenersi non essere cosciente dell’infondatezza delle proprie ragioni colui che non solo intenta una causa come quella che ci occupa
ben sapendo che la propria caldaia era già vetusta e comunque non più perfettamente funzionante, ma – di più – prova a chiedere, quasi “alla cieca”, i
danni a più soggetti (v. le lettere docc. 4 – 8 fasc. di parte appellata) per poi
convenirne uno – la O. – in giudizio senza neanche spiegare le ragioni della
“scelta”, mostrando in tal modo di aver agito sostanzialmente a caso e in modo
avventato. Infine, non pago della sentenza di primo grado, propone appello
denunciando una serie di presunte lacune e omissioni della relazione peritale,
con la quale il CTU aveva in realtà integralmente ed esaurientemente risposto, replicando punto per punto ai quesiti/contestazioni formulati dal CTP di
parte attrice, anche a seguito della sua convocazione per chiarimenti.
Non è dubbio pertanto, in punto di AN, la colpa grave della C. nell’instaurare
la presente causa»
(Trib. Firenze 2-4 marzo 2011, n. 691, www.altalex.com).
Si procede quindi ad una digressione della Rpa menzionando le sue criticità:
«per ciò che concerne il quantum, si osserva che la domanda ex art. 96 c.p.c.
ha quasi sempre incontrato, alla luce della giurisprudenza tradizionale, una
difficoltà sotto il profilo della prova del danno subito, in quanto in genere
colui che agisce ex art. 96 c.p.c. – e la O. in questo giudizio non fa eccezione –
non deduce e dimostra alcunché al riguardo; laddove è principio consolidato
della S.C. che “la liquidazione del danno da responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c., ancorché possa effettuarsi anche d’ufficio, postula pur
sempre la prova gravante sulla parte che chiede il risarcimento sia dell’an che
del quantum debeatur, o almeno la concreta desumibilità di detti elementi
dagli atti di causa” (v. per tutte Cassazione civile, sez. I, 9 settembre 2004,
n. 18169).
Ma a tale difficoltà si può agevolmente ovviare secondo l’orientamento propugnato da questo Tribunale in altre tre precedenti pronunce.
Invero, anche se la O. non offre specifici elementi in ordine all’esistenza ed
alla misura del danno in questione e il Tribunale non ignora la citata giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui “la liquidazione del danno
da responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c., ancorché possa
effettuarsi anche d’ufficio, postula pur sempre la prova gravante sulla parte
che chiede il risarcimento sia dell’an che del quantum debeatur, o almeno
la concreta desumibilità di detti elementi dagli atti di causa” (v. Cass. civ.
n. 18169/04 cit.), va tuttavia rilevato che la stessa S.C. ha infine riconosciuto
(in applicazione della legge 24/3/2001, n. 89, ossia nell’ambito di una disciplina riguardante l’equa riparazione da parte dello Stato per ingiustizia denegata o ritardata), che, in linea generale, “il danno non patrimoniale derivante
dalla violazione del diritto alla durata ragionevole del processo non necessita
di specifica prova, essendo conseguenza normale della violazione stessa …”
(Cassazione civile, sez. I, 30 maggio 2005, n. 11364), come impone del resto
la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’interpretazione che ne ha
data stabilmente la competente Corte di Strasburgo»
(Trib. Firenze 2-4 marzo 2011, n. 691, www.altalex.com).
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3.1.1.5
Successivamente ci si addentra nel supposto collegamento tra lite temeraria
e processo irragionevole nella sua durata, così da richiamare i parametri
prescritti dalla giurisprudenza di Strasburgo:
«il riconoscimento del processo come causa di ansia, di stress e di dispendio
di tempo ed energie suscettibile di dar luogo a risarcimento delle parti che
lo abbiano irragionevolmente subito è da ritenere principio d’ordine costituzionale immediatamente precettivo (v. Cass. Sez. unite, sent. n. 28507 del
23/12/2005).
La giurisprudenza ormai costante della CEDU a Strasburgo detta anche i
parametri di commisurazione del ristoro: si tratta di riconoscere un danno
che va da un minimo di mille euro ad un massimo di millecinquecento euro
per ciascun anno di durata del procedimento da ritenersi come causa ingiustificata di sacrificio, con la precisazione che il parametro liquidatorio indicato dalla CEDU, per ogni anno di ritardo, in una forbice da € 1.000,00 ad
€ 1.500,00, può essere modificato dal giudice nazionale, il quale può modulare
la liquidazione del danno non patrimoniale in relazione alla specifica e peculiare connotazione ed intensità che questo assuma nel caso concreto, quando
le peculiarità della fattispecie costituiscano tutti elementi che convergono a
deporre per una particolare intensità dello stress ed ansia da attesa di una
decisione liberatoria (v. in tal senso, per tutte, Cassazione civile, sez. I, 07
dicembre 2006, n. 26200).
Non v’è ragione, a parere del Tribunale, che lo stesso principio non debba
valere anche nell’interpretazione sistematica dell’art. 96 c.p.c. nel caso –
come per l’appunto quello di specie – in cui la lesione del diritto di una parte
sia stata provocata dall’abusiva condotta processuale della controparte, che
si pone come evidente causa di un processo che non aveva ragion d’essere
“in toto”, quindi eccessivo nell’intera sua durata e non già per il periodo eccedente quello “ragionevole” fissato, in linea generale, in tre anni»
(Trib. Firenze 2-4 marzo 2011, n. 691, www.altalex.com).
Non si comprende tuttavia il sillogismo, diffuso in tale giurisprudenza e recitato oramai a memoria, secondo il quale si debba applicare alla lite temeraria
il parametro consolidato per l’irragionevole durata del processo, posto che nel
primo caso la lite non avrebbe dovuto tenersi con tali modalità o non avrebbe
dovuto nemmeno essere iniziata, mentre nel secondo caso si indennizza un
processo eccessivamente lungo ma non destituito di fondamento. Invero,
«la fondatezza della tesi che si va sostenendo trova una conferma nella recente
scelta del legislatore che, pur limitandola (inspiegabilmente) al giudizio di
cassazione e ad un periodo temporale limitato (2006-2009), ha nell’art. 385
c.p.c. come modificato dall’art. 13 D. Lgs. n. 40/06 – peraltro poi abolito con la
riforma del 2009 – previsto la possibilità della liquidazione in via equitativa di
una somma “non superiore al doppio dei massimi tariffari” a carico della parte
che abbia proposto il ricorso o vi ha resistito con colpa grave.
Pur se la norma di cui al citato art. 385, quarto comma, c.p.c. è stata un
meteora legislativa di breve durata, il principio in essa enunciato appare
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3.2
Capitolo III
quello più correttamente applicabile, in forza di un’interpretazione analogica,
al caso di specie, in cui la modestia del valore della causa, rientrante nella
competenza del Giudice di pace, rende evidente essere sproporzionato in
eccesso nella specie l’applicazione del parametro della CEDU di € 1.000 –
1.500,00= per anno, sicché in applicazione del principio secondo cui il giudice
nazionale, il quale può modulare la liquidazione del danno non patrimoniale
in relazione alla specifica e peculiare connotazione ed intensità che questo
assuma nel caso concreto in relazione alle peculiarità della fattispecie, si
ritiene nella specie, in considerazione della qualità e quantità degli interessi
in gioco, tenuto conto della durata – cinque anni – del processo e del valore
della causa, equo liquidare il danno di cui all’art. 96 I comma c.p.c., in favore
dell’appellante incidentale ed a carico della C. in via equitativa sulla base
del criterio di cui all’abrogato 385 c.p.c. e nella misura onnicomprensiva di
€ 2.000,00= al valore attuale della moneta»
(Trib. Firenze 2-4 marzo 2011, n. 691, www.altalex.com).
3.2. La lite temeraria nel processo tributario
Bibliografia Consolo 1989 - La China 1997 - Bellè 1998 - Castaldi 2004 - Socci e
Sandulli 1997 - Sandulli 2011
Il pieno adeguamento del processo tributario al processo civile, o ancor
meglio il pieno passaggio dal contenzioso tributario al «processo tributario»
si ebbe, in sede di delega, con l’emanazione della l. delega 413/1991 (art. 30)
e dei successivi d.lg. 545 e 546/1992. In ottemperanza al disegno del legislatore di adeguare il processo tributario al processo civile, fu introdotto
nel d.lg. 546/1992 (art. 1, 2° co.) una norma generale di rinvio, secondo cui
«I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da
esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura
civile».
Se è pur vero che l’art. 15, 1° e 2° co., d.lg. 31 dicembre 1992, n. 546, menzioni i soli artt. 91 e 92 c.p.c., non si è mai dubitato quanto meno in dottrina
sull’applicabilità dell’art. 96 c.p.c.
Occorre comunque verificare attentamente la compatibilità dell’art. 96 c.p.c.
con la struttura del processo tributario per comprendere se sia possibile
estendere la specifica responsabilità aggravata al particolare procedimento
di natura tributaria, dove non mancano certo le ipotesi di abuso del diritto
di difesa ex art. 24 Cost.
La dottrina maggioritaria ha al riguardo risposto positivamente, argomentando che il silenzio della legge delega di riforma del processo tributario
(art. 30, l. 413/1991) e dello stesso art. 15, d.lg. 546/1992, non costituiscono argomenti sufficienti per escludere l’applicabilità di tale istituto con
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3.2
il processo tributario, potendo tale applicabilità desumersi da molteplici
elementi di carattere sistematico oltre che dai principi generali di diritto
processuale (Bellè 1998, 323; Consolo 1989, 39, La China 1997, 1340;
Castaldi 2004, 195; Socci e Sandulli 1997, 34).
Infatti, il fine della riforma del processo tributario è quello di una sua piena
omogeneizzazione col processo civile, come ne è prova, tra l’altro, il già
richiamato art. 1, 2° co., d.lg. 546/1992. Non vi sono ragioni sufficienti, o
meglio non vi sono ragioni d’incompatibilità, tra l’art. 96 c.p.c. ed il contenzioso tributario.
Non va trascurato come nel precedente sistema dettato dal d.p.r. 636/1972
tale esclusione era espressamente sancita da una norma (l’art. 39), la quale
fu sottoposta anche al vaglio della Corte costituzionale, uscendone però
indenne. Poiché però essa non è stata riprodotta in sede di riforma, l’unico
argomento valido a sostegno della tesi dell’inapplicabilità dell’istituto della
responsabilità aggravata al processo tributario si rinviene nel fatto che
l’art. 15, d.lg. 546/1992 menziona espressamente gli artt. 91, 92, 93, 94 e 97
c.p.c. ma trascura tale menzione per l’art. 96 c.p.c.
È evidente come sostenere tale esclusione possa risultare pregiudizievole.
L’esclusione priverebbe infatti di adeguata tutela risarcitoria una intera
categoria di soggetti, quale quella dei contribuenti che siano risultati vincitori dopo un processo tributario temerariamente condotto dalla controparte, riportandone un pregiudizio patrimoniale. O al contrario, priverebbe
la stessa amministrazione finanziaria di una tale tutela.
Secondo l’opinione della prevalente dottrina, ove si fosse inteso negare
l’applicabilità dell’art. 96 al processo tributario, il legislatore della riforma
avrebbe dovuto sancirlo espressamente, così come aveva fatto in precedenza con l’art. 39 del d.p.r. 636/1972. Viene quindi meno l’idea che intendeva l’Amministrazione finanziaria come un litigante privilegiato, che poteva
tenere in giudizio qualsiasi tipo di comportamento, anche contrario al dovere
di lealtà e probità, ed addirittura comportamenti vessatori da assumere carattere persecutorio sulla base del solo presupposto della doverosità dell’attività
d’accertamento (Cass., Sez. U., 15 ottobre 1999, n. 722, www.dejure.it).
Non vi è dubbio che l’emanazione di un provvedimento illegittimo da parte
dell’amministrazione finanziaria, possa arrecare un danno patrimoniale o un
danno non patrimoniale al contribuente nella misura in cui lo si obbliga a
sostenere delle spese per difendersi in giudizio, ovvero a compromettere il
suo normale fare, oppure ancora gli arreca un pregiudizio d’immagine intaccandone la credibilità e l’affidabilità.
Per considerare un tale danno come risarcibile, è necessario che esso sia
l’effetto della condotta antigiuridica dell’amministrazione finanziaria, la cui
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3.2
Capitolo III
condotta non può ridursi alla mera adozione di un provvedimento illegittimo
ma deve essere qualificata da un peculiare elemento soggettivo, rappresentato dal dolo o dalla colpa grave del soggetto (organo) agente. In caso contrario la responsabilità per lite temeraria non sarebbe applicabile, secondo
la regulae juris dettata dal 1° co. dell’art. 96 c.p.c.
Soccorre ora pure l’ultimo comma della norma, orientato in senso prettamente punitivo.
Vengono perciò in considerazione tutti quei casi nei quali tale illegittimità
sia così macroscopica – quali ad es. il caso dell’accertamento notificato oltre
i termini di legge, o dell’iscrizione a ruolo di un tributo già versato dal contribuente oppure l’interpretazione di una norma in senso contrario alla pacifica giurisprudenza o alla ratio legis – da non potersi negare la sussistenza
di un elemento soggettivo pregnante. Ovvero ancora nei casi in cui la palese
illegittimità sia espressione stessa di una condotta quantomeno coperta da
colpa grave ove non dolosa, la cui amministrazione pur potendo procedere
all’annullamento immediato dell’atto illegittimo, costringe il contribuente
ad adire l’autorità giudiziaria, sopportando inutilmente il relativo costo processuale.
Secondo gli insegnamenti della dottrina l’esercizio del diritto assume il carattere del dolo o della colpa grave qualora la parte, pur con la consapevolezza
dell’infondatezza delle proprie tesi, ovvero del carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio, abbia comunque
esercitato quel diritto, al di fuori del suo schema tipico o al di là dei limiti
determinati dalla sua funzione.
Va notato che in tempi di magra finanziaria tali comportamenti non mancano certo di arricchire la casistica. I dati ufficiali evidenziano una soccombenza dell’Agenzia delle Entrate in circa la metà dei contenziosi a
conferma di una condotta se non certamente abusiva quanto meno eccessiva e disinvolta.
Peraltro non sempre il contribuente preferisce impugnare l’atto temerario,
prediligendo in una opportuna analisi costo-benefici, assai spesso sopportare
l’illegittimo obolo o risultandogli complesso pur anche accertare la palese
illegittimità dell’atto, per la difficoltà di ricostruire la situazione storica.
Occorre poi pure riflettere se la fattispecie della lite temeraria possa configurarsi in una ipotesi come quella in cui la declaratoria di cessazione della
materia del contendere consegua all’annullamento di un atto illegittimo ad
opera dell’amministrazione finanziaria (ad es. in sede di autotutela). In tal
caso difatti la domanda di ristoro del danno da lite temeraria potrebbe dover
essere posta in un giudizio autonomo e non come accessoria al procedimento pendente.
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3.2
Di recente l’autorevole dottrina ha pure aderito a tale ipotesi, non mancando
di manifestare i propri dubbi dai quali si dipana la sua teoria:
«il radicamento della giurisdizione ordinaria discenderebbe, senz’altro, da
una prima lettura dell’art. 2, d.lgs. n. 546/1992.
Poiché è il tributo, di ogni genere e specie, comunque denominato, a segnare
il confine con il giudice ordinario, il risarcimento di un danno – quale è quello
da lite temeraria – esulerebbe dalla previsione normativa.
L’espansione dei limiti della giurisdizione tributaria, notevolmente ampliati
dalle recenti novelle, non può, del resto, alterare la “natura” delle materie
originariamente devolute alle commissioni. Ciò comporterebbe inevitabilmente un contrasto con l’art. 102 Cost. – che, com’è noto, vieta l’istituzione di
“nuovi” giudici – ove si includessero nella giurisdizione in commento materie
diverse dai tributi stricto sensu intesi). Il limite delle “particolari materie”
cui sottostà la giurisdizione amministrativa si riflette, in buona sostanza, su
quella tributaria, imponendo di rispettare il carattere generale della giurisdizione ordinaria, dotata di una sorta di “primazia” costituzionale.
Nondimeno, non tanto e non solo le recenti evoluzioni della giurisdizione
tributaria anche al di là del limite della “natura tributaria” della controversia, quanto evidenti rilievi di economia processuale e di concentrazione della
tutela, imporrebbero l’adesione a conclusioni opposte a quelle richiamate»
(Sandulli 2011, 3).
Se nonché
«È, del resto, innegabile che lo stesso art. 2 d.lgs. n. 546/1992 non si limita a
ricomprendere nell’oggetto della nostra giurisdizione i tributi di ogni genere
e specie, ma vi include, altresì, oltre ad entrate anche parafiscali, gli “interessi e ogni altro accessorio”. Nella nozione di “accessorio” possono e devono,
quindi, ricomprendersi anche i danni da lite temeraria, non avendo senso
distinguere la cognizione sull’attività impositiva da quella concernente una
sua diretta e naturale conseguenza. I danni non sono quid distinto e indipendente dall’atto impugnato o dall’azione proposta: presupponendo, piuttosto,
quest’ultima o il primo, impongono la concentrazione delle materie avanti allo
stesso giudice.
L’applicabilità dell’art. 96 del codice di rito civile, come novellato dalla l.
n. 69/2009, discende da una visione sistematica e conforme ai principi del
sistema di tutela giudiziale.
Non basta, infatti, negare la possibilità del giudice tributario di accertare la
responsabilità processuale del fisco sulla base della sola mancanza di un rinvio espresso, da parte del d.lgs. n. 546/1992, all’art. 96 c.p.c.
L’art. 15 d.lgs. cit., che fa proprio il principio di soccombenza, deve essere, in
via esegetica, integrato sulla base del richiamo, compiuto dall’art. 1, al codice
di rito civile.
Non v’è motivo di ritenere la c.d. responsabilità processuale aggravata incompatibile con l’oggetto e i caratteri del rito tributario, quando lo stesso art. 2
d.lgs. n. 546/1992 ricomprende ogni “accessorio”, senza distinzione alcuna,
nel novero della giurisdizione in commento.
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3.2.1
Capitolo III
Tutto ciò è conforme ad una costruzione del processo tributario quale giudizio sul “rapporto”, e risponde, altresì, ai principi su cui deve fondarsi la tutela
giudiziale, quale che sia il rito ove la stessa è erogata»
(Sandulli 2011, 3).
3.2.1. Le posizioni della giurisprudenza tributaria
La giurisprudenza ha manifestato due orientamenti, divisi tra chi ammette
l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. nel processo tributario e chi la nega. La prima
posizione prevale oramai da tempo.
Per quanto riguarda la posizione contraria, essa come già anticipato, richiama
a tal fine il dettato legislativo:
«per quanto concerne infine la richiesta di risarcimento del danno formulata
dall’amministrazione ex art. 96 c.p.c. il collegio esprime il convincimento che
essa non possa essere accolta non essendo, la norma richiamata, compatibile
col processo tributario. Ciò si desume dalle seguenti circostanze:
– la legge delega non menziona tale istituto, facendosi ivi riferimento esclusivamente al “regime delle spese processuali in base alla soccombenza”;
– il d.lgs. 546/92 richiama unicamente gli artt. 91 e 92 c.p.c.
Del resto anche la circolare ministeriale n. 98/E, nel commentare l’art. 15 del
citato d.lgs., avvalendosi del disposto del precedente art. 1, primo comma,
estende la sua interpretazione anche ad altri articoli del c.p.c. (precisamente
il 93, il 94, e il 97), con esplicita e certo non casuale esclusione dell’art. 96»
(Comm. Trib. Prov. Parma, sez. VII, 24 novembre 2003, n. 74, inedita).
Diversamente, l’altro orientamento ammette la compatibilità della Rpa con
il processo tributario:
«in via preliminare, rilevato che anche nel processo tributario trova ingresso
l’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.
Ai fini dell’iscrizione ipotecaria non vi è prova dell’esistenza del titolo, che
deve essere data con la presentazione delle copie autentiche dei titoli medesimi, come prescritto dall’art. 2836 c.c.
La norma dispone che se il titolo per l’iscrizione risulta da una sentenza o da
altro provvedimento giudiziale ad esso parificato si deve presentare copia del
titolo (cfr. Cass. 9.3.1970 n. 599).
Nessuno dei resistenti ha prodotto copia autentica dei titoli né risulta che tali
copie siano state presentate al Conservatore dei RR.II.
1) Letto l’art. 40 del D.P.R. 28 gennaio 1988 n. 43, rigetta l’istanza di estromissione dal giudizio dell’Agenzia delle Entrate Ufficio Locale di Napoli 1.
P.Q.M. Accoglie il ricorso ed annulla l’iscrizione ipotecaria (…) Condanna la
Equitalia Polis spa al pagamento ex art. 96 c.p.c. del danno da responsabilità
aggravata, che liquida di Ufficio in € 700,00
(Comm. Trib. Prov. Napoli, sez. XVIII, 26 ottobre 2007, n. 551, inedita).
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.2.2
Va ricordato che la Corte di Cassazione ha preso posizione da tempo. Nella
specie aveva condannato l’Amministrazione finanziaria al risarcimento del
danno per responsabilità processuale aggravata (limitato all’aggravio delle
spese non ripetibili),
«poiché costituisce colpa grave l’avere mancato di rilevare il giudicato interno
sulla giurisdizione e l’aver affermato che il tribunale aveva deciso su due cause
riunite, l’opposizione all’esecuzione e la distribuzione della somma pignorata (…)
È espressione di un atteggiamento di negligenza nell’esaminare i dati processuali,
il pretendere una seconda volta il pagamento di un credito che contestualmente
si afferma essere pagato in precedenza»
(Cass. 24 ottobre 1997, n. 1082, www.dejure.it).
È evidente come, essendo l’accertamento della responsabilità ex art. 96
c.p.c. strettamente legato all’esito della controversia ed alla condotta delle
parti durante il giudizio, dovrebbe essere lo stesso giudice che ha deciso nel
merito la causa a valutarne l’esistenza. Dunque in ambito tributario la competenza rimane in capo alla Commissione Tributaria.
Tuttavia, nella prassi quasi mai le Commissioni Tributarie condannano al
risarcimento del danno per lite temeraria l’Amministrazione finanziaria.
Infatti le Commissioni Tributarie, interpretando male i poteri discrezionali
attribuiti loro dagli artt. 92 e 96 c.p.c. nel valutare queste fattispecie, applicano raramente tali istituti (compensando le spese o non riconoscendo la
temerarietà della lite).
Dinanzi però a condotte aggressive e temerarie dell’Amministrazione finanziaria che hanno caratterizzato questi anni, con l’intento di riequilibrare le
finanze dello Stato, occorre però applicare col massimo rigore tale istituto,
nonché l’istituto della condanna alle spese della lite.
3.2.2. La conferma della compatibilità dell’art. 96 c.p.c. con il processo tributario
Occorre intanto evidenziare come nel mentre sia intervenuto il riconoscimento pure da parte dell’amministrazione, poiché la recente circolare Ag.
entrate, 31 marzo 2010, n. 17/E ha ritenuto applicabili i tre commi dell’art. 96
c.p.c. al processo tributario:
«l’art. 96, 1° co., prevede che, se la parte soccombente ha agito o resistito in
giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la
condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni che liquida, anche
d’ufficio, nella sentenza. Inserendo un nuovo comma al citato art. 96 c.p.c., la
l. n. 69 del 2009 prevede che il giudice “in ogni caso”, quando pronuncia sulle
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3.2.3
Capitolo III
spese, possa condannare, anche d’ufficio, il soccombente al pagamento non
solo delle spese di lite, ma anche di una somma equitativamente determinata
a favore di controparte.
Rispetto alla previsione del 1° co. non occorre, quindi, né l’istanza di parte né
l’esatta quantificazione di un danno»
(circolare Ag. entrate, 31 marzo 2010, n. 17/E).
In realtà il riconoscimento della piena compatibilità dell’art. 96 c.p.c. col
recinto «tributario» è avvenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, le
quali hanno statuito come spetti al giudice tributario la cognizioni dei danni
subiti e subendi dal contribuente per effetto dei ritardi dell’amministrazione
finanziaria:
«osserva il Collegio che in base al principio di concentrazione della tutela, le
Commissioni Tributarie possono riconoscere al contribuente non soltanto il
rimborso delle imposte indebitamente versate, ma pure gli accessori come gli
interessi ovvero il maggior danno o l’importo eventualmente pagato per la prestazione di cauzioni non dovute (C. Cass. 1992/4598, 1994/8277, 1996/11483,
1999/247, 002/14274 e 2007/16871); che in considerazione di quanto sopra
nonché del fatto che la pretesa fatta valere dall’O. nel giudizio a quo non
aveva mai formato oggetto di riconoscimento da parte dell’Amministrazione
(v., in tal senso, pure C. Cass. 2008/30053), va dichiarata la giurisdizione del
giudice tributario sulle domande come sopra proposte dal ricorrente»
(Cass., Sez. U., 25 maggio 2010, n. 14499, UG).
3.2.3. Il danno da lite tributaria temeraria
In alcune pronunce il danno viene riconosciuto, anche se blandamente e
dunque con una ingiustificata indulgenza verso l’amministrazione procedente. Nei provvedimenti si può difatti leggere tutta la gravosità dei procedimenti avviati e conclusi in danno del privato.
Invero:
«il ricorso per revocazione di una sentenza della Commissione Tributaria
Regionale proposto ai sensi dell’art. 395 n. 3 c.p.c. sul presupposto del ritrovamento di documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario, ma in relazione
ad uno specifico documento che dagli atti relativi al procedimento di secondo
grado risulta essere stato prodotto già in quella sede unitamente alle memorie e, per giunta, già esaminato dal Giudice di quel grado, nonché giudicato
insufficiente e/o inidoneo a vincere la presunzione di cui all’art. 38 del d.P.R.
600/73, va dichiarato inammissibile per mancanza del presupposto stesso del
ricorso di cui al n. 3 dell’art. 395 del c.p.c., ossia il rinvenimento della documentazione, ed integra gli estremi della lite temeraria, con la conseguente
condanna al risarcimento del danno liquidato equitativamente tenendo conto
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.2.3
che trattasi di documentazione già prodotta in precedenza e avuto riguardo
all’attività svolta dall’ufficio, nonché al costo presunto sostenuto»
(Comm. Trib. Reg. Lazio, sez. X, 17 ottobre 2007, n. 183, inedita).
In uno tra i pochi provvedimenti positivi è utile partire dall’esame del comportamento dell’amministrazione, così come riportato attentamente dalla
Commissione tributaria di Roma:
«emerge incontrovertibilmente dagli atti di causa che con dichiarazione,
Rep. n. …, resa davanti la Cancelleria del Tribunale di Roma in data 10 settembre 2004 (versata al fascicolo processuale), la ricorrente X ha rinunciato
all’eredità della propria madre Y, deceduta il precedente 20 luglio.
Risulta altresì, dalla medesima fonte documentale che con sentenza n. 175
in data 22 maggio 2007 la Sezione XLVI di questa Commissione tributaria ha
dichiarato la nullità dell’atto accertativo dell’Agenzia delle Entrate di Roma 4
per Iva, Irpef e Irap 1988, prodromico all’impugnata cartella esattoriale, proprio in ragione dell’intervenuta rinuncia, da parte della contribuente, all’eredità materna.
Emerge, infine, che l’indicato atto di rinuncia al pari della menzionata sentenza n. 75/07, sono state oltre che versate al fascicolo processuale del presente giudizio, notificate all’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Roma 4 nelle
rispettive date del 6 febbraio e 29 maggio 2007 e, pertanto, in tempo utile
perché l’ufficio, tenuto anche conto del passaggio in giudicato di quel pronunciato del giudice tributario medio tempore (in data 30 luglio 2007) intervenuto, potesse provvedere al dovuto sgravio delle somme illegittimamente
iscritte a ruolo d’imposta»
(Comm. Trib. Prov. Roma, sez. XXVI, 4 aprile 2008, n. 52, www.dirittoeprocesso.com).
Se nonché
«al contrario, l’ufficio, pervicacemente, ha continuato in un contenzioso
che aveva perso ogni plausibile, giuridica ragione e/o titolo legittimatorio
di essere coltivato, opponendosi alle prospettazioni della ricorrente nella
camera di consiglio del 3 dicembre 2007 fissata per l’esame dell’istanza di
sospensiva dell’impugnata cartella esattoriale (accolta dal Collegio con ordinanza n. 382/2007), nonché insistendo sulla legittimità del proprio operato
all’odierna udienza di trattazione del merito, così consentendo alla Concessionaria della riscossione di attivare la procedura esecutiva, nonché di iscrivere
ipoteca giudiziale su bene immobile della ricorrente con palese nocumento
patrimoniale per la stessa.
Alla stregua delle estese considerazioni e tenuto conto soprattutto della
pronuncia di nullità del sottostante avviso accertativo, per difetto del suo
presupposto assunta dalla Sezione XLVI di questa Commissione tributaria,
la declaratoria di illegittimità dell’impugnata cartella esattoriale e della corrispondente iscrizione a ruolo è da rendere da parte di questi giudicanti»
(Comm. Trib. Prov. Roma, sez. XXVI, 4 aprile 2008, n. 52, www.dirittoeprocesso.com).
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3.2.3
Capitolo III
L’accertamento della responsabilità aggravata è dunque inevitabile, atteso
che da parte dell’amministrazione procedente v’è quanto meno colpa grave,
ove non mala fede, nel perseguire il recupero di un credito non dovuto:
«così accolto il ricorso di parte, reputa, altresì, il Collegio che l’ingiustificata
persistenza nel coltivare l’insorta vertenza giudiziaria, pur nella cosciente
infondatezza della pretesa tributaria, giudizialmente accertata con sentenza
passata in giudicato e la successiva iscrizione di ipoteca giudiziaria su immobile della contribuente denotano, in capo al resistente ufficio delle Entrate,
una condotta gravemente negligente, improntata a notevole disinvoltura ed
avventatezza, sì da far ritenere, invero, “temeraria” la coltivazione della lite,
nonché meritevole di accoglimento la richiesta della difesa della ricorrente,
ex art. 96 del codice di procedura civile, ad una qualificazione di responsabilità aggravata dell’Amministrazione, al fine di ottenere la condanna della
stessa alle spese ed al risarcimento dei danni»
(Comm. Trib. Prov. Roma, sez. XXVI, 4 aprile 2008, n. 52, www.dirittoeprocesso.com).
Il danno da lite temeraria viene riconosciuto e liquidato nella sua componente morale, ancorché in una misura modesta:
«tenuto conto della nota spese all’uopo prodotta dalla difesa in data 18 gennaio
2008, il Collegio determina in complessivi euro 6.469,96 le spese per onorari
e diritti di difesa da porre a carico dell’Amministrazione in favore della parte
ricorrente ed in euro 1.000,00 quanto dovuto alla parte medesima a titolo di
risarcimento dei danni determinati in via equitativa avuto riguardo all’intuitivo danno morale, connesso al patema d’animo ed allo stress determinati
dalla tenace resistenza dell’ufficio delle Entrate, nonché della rappresentata
impossibilità della parte di rinegoziare il contratto di mutuo sull’immobile di
proprietà a causa dell’illegittima iscrizione ipotecaria.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e saranno liquidate dalla segreteria, come da dispositivo»
(Comm. Trib. Prov. Roma, sez. XXVI, 4 aprile 2008, n. 52, www.dirittoeprocesso.com).
La situazione è talmente grave che la Commissione ravvisa incidentalmente,
ed in modo ineccepibile, pure un danno erariale:
«per l’esito della vertenza, emergono intuitivi profili di danno erariale che inducono il Collegio a disporre la comunicazione della presente sentenza alla Procura
regionale della Corte dei conti per il Lazio per le valutazioni di competenza»
(Comm. Trib. Prov. Roma, sez. XXVI, 4 aprile 2008, n. 52, www.dirittoeprocesso.com).
Da ultimo si segnala una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale
di Udine con cui viene condannata Equitalia al pagamento della somma di
euro 6.000 per lite temeraria ex art. 96, 3° co., c.p.c., dinanzi a ben otto
intimazioni di pagamento per la considerevole somma di quasi due milioni di
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.2.3.1
euro nonostante fosse intervenuta una sentenza (notificata) con la quale era
stato accertato il difetto di regolare notifica delle relative cartelle di pagamento. A seguito di ciò Equitalia aveva notificato una seconda volta gli stessi
avvisi, costringendo il ricorrente a proporre un secondo ricorso sempre per
le medesime intimazioni. Sicchè nel motivare la secca condanna per la lite
temeraria, oltre a pesanti spese di lite, il Collegio ha osservato che
«Equitalia abbia dimostrato molta superficialità nella emissione di tali atti e
che un tale comportamento sia contrario al principio di trasparenza e denoti
colpa grave ed anche “abuso di diritto”»
(CTP Udine, sez. III, 26 marzo 2012, www.personaedanno.it).
3.2.3.1. Il danno non patrimoniale da lite tributaria temeraria
Una lite temeraria in un processo tributario può causare danni non patrimoniali
di tipo esistenziale ove si pensi alla gravosità e allo sconvolgimento dell’agenda
della persona, prona a sottrarsi da una illegittima richiesta tributaria.
Tale riconoscimento è avvenuto recentemente da parte dellla Commissione
Tributaria Regionale toscana. Nella specie veniva notificata una rilevante
cartella esattoriale a degli eredi i quali avevano accettato l’eredità con beneficio di inventario. Successivamente veniva notificato il fermo amministrativo per tre auto intestate ai tre eredi, oltre ad una successiva ipoteca su di
un suo bene immobile. La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze
accoglieva il ricorso e condannava la convenuta al pagamento delle spese
ritenendo l’ipoteca, sui beni personali degli eredi, illegittima poiché v’era
accettazione con beneficio. Equitalia si appellava alla Commissione Tributaria Regionale ma veniva respinto poiché è pacifico che sui beni personali
degli eredi accentanti con beneficio di inventario, non è possibile aggressione da parte dei creditori del de cuius.
Infatti,
«è pacifico che sui beni personali degli eredi accettanti con beneficio di
inventario, non è possibile aggressione da parte dei creditori del de cuius.
E tale principio deve essere applicato da Equitalia che non è un “computer” né un “automa” che esegue gli ordini senza coscienza e scienza, bensì
un Ente preposto all’incasso dei crediti in base alle leggi e dei regolamenti
cioè previo esame della regolarità dell’ordine impartito dagli Enti Pubblici
richiedenti; nonché valutazione dei limiti entro cui l’ordine stesso può
essere eseguito.
Infatti l’Equitalia ha l’obbligo di controllare la regolarità formale e sostanziale
dei ruoli nonché predisporre le cartelle esattoriali e ad eseguire la procedura
esecutiva seguendo le leggi. Equitalia è obbligata a verificare la sussistenza
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3.2.3.1
Capitolo III
del credito presupposto all’esecuzione, predisponendo, anche in autotutela,
l’eventuale prescrizione o decadenza del titolo»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
La negligenza nell’adempimento di questi doveri può quindi configurare
la responsabilità ex art. 96, 3° co., c.p.c. e bene han fatto i giudici del
collegio a rimarcare l’obbligo di rigorosa negligenza nella propria delicata
condotta:
«la grave negligenza nell’adempimento di questi doveri può dar luogo a
responsabilità ex art. 96, III comma c.p.c.; che deriva dal mancato uso di un
minimo di diligenza e controllo della legittimità dei propri atti.
L’Equitalia è sottoposta alla trasparenza e alla correttezza nell’attività di
riscossione, a quanto stabilito dal Codice del Consumo, in ordine alla correttezza, buona fede e diligenza nei rapporti con le controparti.
Dagli atti risulta che una volta comunicato il credito dell’Agenzia delle
Entrate, l’Equitalia era stata avvertita che gli eredi avevano accettato con
beneficio di inventario.
L’Equitalia doveva immediatamente controllare presso il Tribunale e l’Agenzia
delle Entrate la conferma della segnalazione avuta e, di conseguenza, soprassedere ad ogni ulteriore attività compresa quella cautelare ed esecutiva.
Il Concessionario ha palesato, con estrema superficialità, un comportamento
contrario al principio di trasparenza, di coscienza e di conoscenza sulla
legittimità del tributo accertato. E questo comportamento trova sanzione
nell’art. 96 c.p.c.»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
In particolare
«a seguito della riforma del codice di procedura civile, nell’art. 96 è stata
introdotta la possibilità per il Giudice di condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativa determinata (Cass. 03.03.2010 n. 5069).
L’art. 96 c.p.c. stabilisce che, se la parte soccombente abbia agito e resistito
in causa con mala fede o colpa grave, la condanna alle spese e al risarcimento
del danno liquidandolo d’ufficio.
Con l’aggiunta dell’art. 45, comma 12 Legge 69/2009, è stato stabilito che il
Giudice, anche d’ufficio, possa condannare il soccombente al pagamento a
favore della controparte di una somma di denaro determinata in via equitativa.
Il nuovo comma ha altresì escluso la necessità, per la condanna, della sussistenza del dolo o della colpa grava ed i vincoli a carico del giudicante. In
quando la norma intende prevalentemente tutelare “il danno ingiusto processuale” subito dalla parte a seguito del comportamento processuale della
controparte. Per altro nel caso di specie sussiste un’evidente negligenza
dell’appellante»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.2.3.1
Pacificamente il giudice tributario si ritiene competente all’applicazione
della Rpa:
«ritiene, poi, il Collegio di aderire al filone giurisprudenziale secondo cui Giudice competente su tale valutazione di danno, è il giudice della causa. E dunque nel caso di specie il giudice tributario.
“Infatti tale domanda può essere conosciuta e decisa nella sua probabilità soltanto dal Giudice competente per il merito, perché nessun Giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che
decide sulla domanda che si assume temeraria, ma anche perché la valutazione della responsabilità processuale è così strettamente collegata
con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta di un contrasto di giudicati” (Commissione Tributaria
Regionale Puglia sez. VII n. 11 dell’11.01.2011; Cassazione 06.08.2010
n. 18344; Cassazione n. 24538/2009; CTR Lazio sentenza n. 179/14/10 del
14.04.2010).
Si deve cioè riconoscere che il principio della effettività della tutela giudiziaria dei diritti (art. 24 Cost.) impedisce di separare l’accertamento del fatto
processuale fonte di responsabilità dalla condanna al ristoro pecuniario del
contribuente. Sia per la stretta connessione fra le due operazioni logiche,
sia perché imporre al contribuente (o all’ente impositore) di promuovere un
secondo giudizio determinerebbe un onere eccessivamente gravoso, oltre
che snaturare la portata della norma che prevede l’intervento sanzionatorio
possa essere emesso dal giudice anche d’ufficio»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
Ed ancora a tal proposito:
«in tema di responsabilità aggravata, l’art. 96 c.p.c. – che sanziona l’uso strumentale del processo in vista di scopi diversi da quelli per cui è preordinato,
contemplando una tutela di tipo aquiliano con carattere di specialità rispetto
all’art. 2043 c.c. – non detta una regola sulla competenza, giacché disciplina
un fenomeno endoprocessuale, quale quello dell’esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un’istanza collegata e connessa all’agire o al
resistere in giudizio, che non può configurarsi come potestas agendi esercitabile fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità
aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare
il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico
processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine (Cass.
6 agosto 2010, n. 18344); Cass. 20 novembre 2009, n. 24538: l’azione di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, essere fatta valere in un
giudizio separato ed autonomo rispetto a quello dal quale la responsabilità
aggravata ha avuto origine; ne consegue che competente a decidere sull’an e
sul quantum della relativa domanda, qualora riguardi l’instaurazione illegittima di un procedimento di esecuzione forzata, è il giudice dell’opposizione
alla stessa. (…)
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3.3
Capitolo III
Per quanto attiene alla materia tributaria, si può richiamare la sentenza delle
Sezioni Unite della Cassazione n. 14499 del 16 giugno 2010: in base al principio
di concentrazione della tutela, le Commissioni Tributarie possono riconoscere
al contribuente non soltanto il rimborso delle imposte indebitamente versate,
ma pure gli accessori come gli interessi ovvero il maggior danno o l’importo
eventualmente pagato per la prestazione di cauzioni non dovute. Cui si affianca
la sentenza n. 14704 del 18 giugno 2010: è devoluta al giudice tributario la
controversia con cui il contribuente contesti la legittimità di un pignoramento
presso terzi adducendo che il credito tributario (per IRPEF ed ILOR è inesistente o/e prescritto e chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali, non
patrimoniali e per responsabilità aggravata»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
Emergono dunque de plano il danno non patrimoniale di tipo esistenziale
ed il danno patrimoniale, a riguardo dei quali per vero sarebbe stato opportuno spendere qualche riflessione maggiore:
«il comportamento della Equitalia, tenuto anche in appello deve essere dunque sanzionato per aver determinato un danno esistenziale ed economico
all’erede inconsapevole, costringendolo a tutelare i suoi diritti in sede giudiziaria nel disagio insito nella ricerca di un difensore tecnico.
In conclusione il gravame dell’appellante deve essere respinto in quanto il
fermo auto prima e l’ipoteca dopo sono interventi cautelari eseguiti senza
verificare la legittimità e l’attualità della pretesa tributaria nonché la natura
dell’apertura della successione.
Il relativo pregiudizio viene liquidato in via equitativa in euro 10.000.
Le spese seguono la soccombenza con applicazione dell’art. 96 c.p.c.»
(Comm. Trib. Reg. Toscana, sez. I, 3 giugno 2011, n. 257, www.personaedanno.it).
SINTESI
La giurisprudenza tende ad applicare la figura della responsabilità processuale aggravata anche nel processo tributario, nonostante se ne faccia
parco uso, pur dinanzi alla soccombenza dell’amministrazione finanziaria in circa la metà dei contenziosi.
3.3. La condanna virtuale
Bibliografia Apostoliti 2004
La norma civilistica della lite temeraria fa riferimento ad una soccombenza e
non ad una soccombenza «effettiva» che è concetto ben diverso, sicché non
esclude che la soccombenza possa essere virtuale.
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Lite temeraria, ragionevole durata del processo e altro
3.4
Ciò come noto, può avvenire nei casi in cui pur essendo cessata la materia
del contendere, comunque la parte che ha dovuto ricoprire necessariamente
la veste di parte processuale, sostenendo le spese di lite, può avere interesse
al riconoscimento della soccombenza virtuale della controparte.
Il fine precipuo di ottenere la condanna «virtuale» della controparte è il riconoscimento delle spese di lite che si sono sostenute o si dovranno sostenere.
Oltre al riconoscimento, pur virtuale o simbolico, delle proprie ragioni.
È quindi evidente come, pur dinanzi alla cessazione della materia del contendere, la parte contro la quale sia stata iniziata od opposta temerariamente
una lite, possa avere pieno interesse, ove la stessa abbia riportato un danno
in conseguenza del processo avventato, di ottenere tale riconoscimento.
Vi è tuttavia chi sostiene una tesi difforme:
«presupposto per la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità
aggravata, oltre che all’illecito come sopra individuato, è comunque la soccombenza totale e non meramente virtuale, nonché la condanna alle spese
senza compensazione ed infine, non in ordine di importanza, l’esistenza di un
danno in capo al soggetto che richiede il risarcimento»
(Apostoliti 2004, 36).
Non si comprende in virtù di quale sillogismo, difatti non meglio esplicitato,
una parte possa ottenere il riconoscimento «virtuale» delle spese processuali e non del danno riportato come conseguenza ad una lite temeraria, pur
cessata nel merito. La lite difatti può essere pure cessata, ma il danno può
ben essersi manifestato, e dunque è giusto che venga riconosciuto e riparato quanto meno d’ufficio e con il contenuto prettamente sanzionatorio ora
riposto nel terzo comma.
3.4. Interrogatorio libero delle parti e responsabilità aggravata
Bibliografia Bonomi 2007
La giurisprudenza ha poi correttamente attribuito la responsabilità aggravata alla parte che ha tenuto una condotta processuale temeraria, così come
manifestata in sede di interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. disposto dal
giudice:
«la condotta processuale di D.M. che, con specifico riferimento alla domanda
in esame, ha resistito in giudizio nella consapevolezza della temerarietà della
sua opposizione all’accoglimento della domanda degli attori, dichiarando al
Giudice (…) giustifica l’accoglimento della domanda di condanna della predetta al risarcimento del danno per lite temeraria.
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3.4
Capitolo III
Il Tribunale, quindi, condanna D.M. a corrispondere agli attori, per tale titolo,
l’importo di € 50.000,00 (liquidato in via equitativa a valori attuali)»
(Trib. Padova 30 marzo 2006, NGCC, 2007, 567-573).
Nella fattispecie la liquidazione del danno può apparire assai ingente ma in
realtà aveva una giusta proporzione con l’ingente valore della causa, anche
se si osserva come
«la liquidazione del danno (…) voglia in qualche modo assolvere ad una
funzione punitiva, ossia di pena comminata dal giudice civile. Su istanza e a
favore di un privato, che manchi di una necessaria corrispondenza tra il vantaggio pecuniario che il soggetto consegue ed il danno effettivamente subito»
(Bonomi 2007, 577).
La dottrina al riguardo ci ricorda che
«nel nostro sistema processuale, le dichiarazioni delle parti hanno valore processuale solo se di carattere confessorio, mentre non ne hanno alcuno se le
parti fanno riferimento a fatti che giovano a chi rende la dichiarazione. In
questo quadro è impossibile imporre alla parte un obbligo di verità. (…)
Le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero, quindi, a
causa dell’inesistenza dell’obbligo di dire la verità, non possono essere fonte
di responsabilità processuale»
(Bonomi 2007, 574).
Anche se poi si osserva come
«esse possono nondimeno costituire elemento da cui il giudice può trarre il
suo convincimento circa la sussistenza della mala fede dela parte che le ha
rese (…) con conseguente condanna, su richiesta della parte vittoriosa, al
risarcimento del danno ex art. 96 cod. proc. civ., laddove esso sia dimostrato»
(Bonomi 2007, 577).
Pertanto le dichiarazioni rese in virtù dell’art. 117 c.p.c., a ben vedere, non
possono essere fonte diretta di Rpa ma comunque possono divenire fonte
indiretta di Rpa.
SINTESI
La giurisprudenza ha applicato la figura della responsabilità processuale aggravata anche nel caso di soccombenza virtuale e dinanzi ad
una condotta processuale temeraria manifestata in sede di interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. disposto dal giudice.
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