2001
No.
23
–
Dicembre
Servir
Solo accompagnando i rifugiati nel loro viaggio dalla persecuzione
alla salvezza, ci renderemo conto che tutti apparteniamo a una
medesima comunità che supera confini e fedeltà nazionali.
Will Coley, JRS New York
DICEMBRE 2001
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati
1
EDITORIALE
Proteggere i rifugiati
Lluís Magriñà SJ
U
n desiderio di giustizia deve ispirare le reazioni ai terribili
attacchi contro gli Stati Uniti.
Il JRS lavora anche a Washington, New
York ed altre località statunitensi. In
questo numero di Servir pubblichiamo
gli interventi di due nostri collaboratori
americani. La loro analisi degli eventi
parte dalla seguente riflessione: ogni
risposta al terrorismo deve rispettare i
diritti di tutti e cercare di comprendere
l’ingiustizia radicata che prevale nel
mondo di oggi.
Le vittime potenziali della guerra statunitense ed inglese contro l’Afghanistan
hanno già lungamente sofferto di povertà, oppressione e di una guerra civile che dura da 22 anni. Si deve cercare
di proteggere a tutti i costi questi civili
che nella loro fuga dagli attacchi militari
si trovano ora di fronte a confini sbarrati. Il Pakistan e l’Iran ospitano tra le più
vaste popolazioni di rifugiati del mondo
e le loro preoccupazioni per un ulteriore
afflusso di massa sono comprensibili.
Nonostante ciò, e i timori per la sicurezza, coloro che fuggono dall’Afghanistan
per cercare altrove rifugio devono essere protetti e la comunità internazionale
deve aiutare i paesi confinanti a sopportarne i costi. Impedire ai rifugiati di
attraversare i confini significa violare i
loro diritti.
Ci hanno raccontato che i ‘danni collaterali’ sono inevitabili se si vuole sconfiggere il terrorismo. Ma presentare in
questi termini le morti dei civili e lo
sradicamento delle popolazioni causati dai bombardamenti crea un pericoloso precedente. Tutti hanno lo stesso
diritto alla vita, che deve essere difeso
a tutti i costi. Il diritto umanitario internazionale che regola i conflitti armati
chiaramente proibisce attacchi contro
obiettivi civili ed azioni che abbiano un
impatto indiscriminato su civili e combattenti.
2
Sfollati in Afghanistan
La guerra contro l’Afghanistan e il
dramma dei rifugiati che ne segue, ci
dovrebbe far ricordare delle molte altre
guerre in questo momento in corso e
dei 50 milioni di persone sradicate dalle
loro case che formano l’attuale popolazione globale dei rifugiati. Già fortemente vulnerabili, i rifugiati devono
ora affrontare una sempre più evidente
erosione del loro fondamentale diritto
alla protezione. Dall’11 settembre, alti
funzionari dei governi di alcuni paesi
occidentali hanno rilasciato dichiarazioni tese a stigmatizzare i richiedenti
asilo come potenziali terroristi.
“
La lotta contro il terrorismo
non deve colpire il dovere
non-negoziabile degli Stati
di proteggere coloro che
fuggono dalla persecuzione.
”
Negli Stati Uniti, la lotta contro il terrorismo si basa sull’imperativo: “servirsi
di ogni mezzo legale... per prevenire
ogni ulteriore attività terroristica”. Ora
ci rendiamo conto che cosa questo si-
gnifichi: nuove disposizioni danno ai
funzionari estesi poteri per detenere gli
immigrati. La legislazione anti-terrorismo consente detenzioni prolungate
e con limitate tutele giudiziarie per i
‘non-cittadini’, tra cui i richiedenti asilo
e i rifugiati. L’Australia ha approvato
delle normative che minacciano la protezione dei rifugiati, servendosi degli
attacchi terroristici per giustificare le
palesi limitazioni insite nella nuova
legislazione.
Gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno il
dovere di proteggere i propri cittadini.
Ma ciò non deve condurre a violazioni
dei diritti dei ‘non-cittadini’, inclusi i
rifugiati. Appellarsi a una situazione di
emergenza per limitare i diritti fondamentali dei gruppi vulnerabili significa
minare i diritti civili.
Anche prima degli attacchi, la tendenza
dei paesi occidentali era la progressiva
chiusura dei confini. Quest’anno, che
ha visto gli Stati rinnovare il loro impegno alla protezione dei rifugiati in occasione del cinquantesimo anniversario
della Convenzione di Ginevra, la realtà
è ironicamente differente. La tragedia
STATI UNITI
Anti-terrorismo: limitazione dei diritti?
Jennifer Bailey
La lotta al terrorismo negli Stati Uniti ha comportato la sospensione delle riforme alla legge in materia
di immigrazione e al loro posto sono state approntate severe misure per il controllo degli immigrati.
Scrive Jennifer Bailey.
L
e ripercussioni dei catastrofici
eventi dell’11 settembre hanno
pervaso la psiche americana e
determinato un improvviso e drammatico cambiamento nel modo in cui gli
Stati Uniti guardano al fenomeno della
immigrazione.
Sfortunatamente, gli attacchi sono avvenuti in un momento in cui le riforme
della legge sull’immigrazione sembravano avviate sulla buona strada per
essere realizzate. Una nuova legge a
protezione dei diritti dei rifugiati e dei
giovani non accompagnati rinchiusi nei
centri di detenzione per immigrati era
stata introdotta all’inizio dell’anno. La
Corte Suprema sembrava essere pronta a eliminare alcune delle misure più
severe della legge sull’immigrazione
introdotte nel 1996. Infatti, aveva emesso delle decisioni che proibivano la detenzione a tempo indeterminato degli
immigrati e che ristabilivano il diritto al
riesame giuridico delle decisioni prese
nei loro confronti. L’11 settembre, questi tentativi sono stati bruscamente fermati e al loro posto sono state introdotte
nuove misure per controllare gli immigrati e diminuire i loro diritti. Il desiderio
di reagire velocemente ed energicamente ha consentito che si potesse ricorrere, con la giustificazione della sicurezza
nazionale, alla detenzione, alle aule giudiziarie a porte chiuse e alle prove non
palesi e segrete. All’inizio di ottobre,
più di 700 persone sono state arrestate,
la maggior parte delle quali per violazioni alla legge sull’immigrazione.
I legislatori si sono affrettati a scrivere
una legislazione anti-terrorismo che ha
un impatto sostanziale sugli immigrati
e i rifugiati in terra americana. Alcune
delle leggi approvate consentono la detenzione senza accusa fino a un massimo di sette giorni per chiunque sia
sospettato di terrorismo nel significato
più esteso del termine. Altre disposizioni
autorizzano la detenzione a tempo indeterminato degli immigranti, compresi i
richiedenti asilo, con revisioni semestrali.
Questo aumentato ricorso alla detenzione degli immigrati preoccupa particolarmente il JRS Stati Uniti. Durante
gli ultimi cinque anni, abbiamo fornito
cura pastorale a immigrati e richiedenti
asilo che si trovano nei centri di detenzione del paese. Al momento attuale,
ci sono 20.000 persone (tra cui anche
minori non accompagnati) rinchiusi in
più di 300 centri.
Anche prima dei recenti attacchi, il JRS
ha assistito a casi di intolleranza religiosa. A volte le guardie discriminano i
detenuti i quali, a loro volta, spesso si
giudicano e maltrattano a vicenda.
L’anno scorso, il JRS ha assistito un
giovane musulmano detenuto in una
prigione di una zona rurale della California dove ha patito forme di isolamento religioso, linguistico e culturale.
Gli Stati Uniti stanno vivendo ora un
momento particolare: per un paese che
ha messo sempre al primo posto la libertà vi è ora la necessità e il dilemma
di trovare il corretto modo di bilanciare
le proprie esigenze di sicurezza senza
alimentare l’intolleranza religiosa e mettere a repentaglio i diritti dei rifugiati e
degli immigrati.
Jennifer Bailey è il
direttore per le politiche
del JRS Stati Uniti
continua dalla pagina precedente:
americana non deve essere usata dagli
Stati come una scusa per venire meno
ai propri impegni internazionali. La lotta
contro il terrorismo non deve colpire i
diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo
e il dovere non-negoziabile degli Stati
di proteggere coloro che fuggono dalla
persecuzione.
Lluís Magriñà SJ è il direttore
internazionale del JRS
DICEMBRE 2001
3
STATI UNITI
Il nostro dolore non è una chiamata
Will Coley
Il dolore di una nazione colpita al cuore da attacchi terroristici può in qualche modo farci meglio
capire il trauma e il senso di insicurezza che soffrono coloro che sono stati costretti ad abbandonare
le proprie case e che devono fare i conti con la distruzione del mondo così come lo conoscevano.
C
ome la maggior parte dei newyorkesi e dei cittadini di tutto il
mondo, anch’io sto ancora cercancando di capire i tragici eventi dell’11
settembre. Faccio fatica a capacitarmi
che non rivedrò mai più il World Trade
Centre dalle finestre del mio appartamento di Brooklyn. Non riesco a farmi
una ragione del fatto che in qualsiasi
altro giorno, all’ora fatale, avrei cambiato
treno all’interno del World Trade Centre sulla strada per l’ufficio del JRS in
New Jersey (ma quel giorno avevo un
appuntamento da un’altra parte).
Nelle settimane successive alla catastrofe, ho cercato di dare un senso a tutto
quello che è successo, di comprendere
fino in fondo la portata della perdita frequentando momenti di preghiera, veglie
di pace e cerimonie. Quando infine sono
andato nella parte bassa di Manhattan,
mi sono ritrovato a guardare incredulo le
rovine, ancora incapace di cogliere appieno cosa significhi la morte di quelle
migliaia di persone sepolte lì sotto.
Tutti parlano dell’11 settembre e si aggrappano alle stesse cose. La gente è
4
stordita. Sento parlare di rabbia e di vendetta agli angoli delle strade, nei caffè
e nella metropolitana. Mi rendo conto
che questo è parte del dolore e del lutto
subiti. I richiedenti asilo del Centro di
Detenzione Elizabeth nel vicino New
Jersey hanno compreso la medesima
cosa quando un gruppo di loro ha spedito una lettera di condoglianze a un
volontario del JRS.
L’ufficio del JRS del New Jersey ha
contattato i propri assistiti, i rifugiati ex
detenuti, per vedere come stanno vivendo
i recenti tragici eventi. Una donna rifugiata dell’Africa occidentale, che ora vive
a Brooklyn, mi ha detto che era profondamente rattristata dagli eventi. Il suo senso
di insicurezza è stato ulteriormente amplificato quando alcuni giorni dopo gli attentati, un proiettile sparato durante una
rissa di strada ha frantumato il vetro della
finestra della sua cucina. “Dove finisce
la violenza?” mi ha domandato.
Si hanno molte notizie di attacchi contro
gli arabi e i musulmani. Molte comunità
hanno risposto a queste sfide cercando
di fare capire che i punti di vista dei ter-
roristi non rappresentano necessariamente quelli delle comunità. Alcuni
hanno evidenziato il fatto che loro non
hanno mai parlato di Timothy McVeigh
(il presunto istigatore dell’attentato di
Oklahoma City) come di un terrorista
cristiano. Gli statunitensi si ricordino di
tanto in tanto del motto del nostro paese:
E Pluribus Unum.
A Washington si parla di creare una
rete per catturare potenziali terroristi.
Inizialmente nota come MATA (Mobilisation against Terrorism Act – legge
per la mobilitazione anti-terrorismo)
e quindi come legge Patriottica, l’atto
normativo è stato firmato dal Presidente Bush il 26 ottobre. Nella fretta
di rispondere agli attacchi, poca attenzione sembra però essere stata data al
pericolo che altre persone, oltre ai terroristi, potranno rimanere impigliate
in quella rete. Non molto tempo fa, gli
statunitensi si erano mobilitati per assicurare che nella pesca al tonno non venissero uccisi anche i delfini. Che misure
vengono ora prese per prevenire che i
più vulnerabili, e in particolare i rifugiati,
siano vittime di questo sistema?
STATI UNITI
alle armi
Si consideri il seguente scenario: gli
USA forzano la mano al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite affinché
faccia passare una risoluzione che
metta in atto pene severe contro coloro
che si servono di documenti falsi. Che
cosa accadrà ai richiedenti asilo che
fuggono da governi che naturalmente
non sono disposti a concedere loro documenti validi? Il risultato finale sarà
che diventerà più difficile, per coloro
che fuggono la guerra e la persecuzione,
raggiungere gli Stati Uniti o altri paesi.
Come statunitensi stiamo imparando che
non siamo esenti dalle violenze di questo
mondo. La tragedia ha lasciato molti di
noi scossi nel profondo. Come possono
due costruzioni così enormi sparire e
portarsi con sé migliaia di persone? Tra
i sentimenti più intensi che mi è capitato
di sentire ricordo quello per cui: il nostro
dolore non è una chiamata alle armi.
Se mai ci dovesse essere qualcosa di
buono in questo dramma, questo potrebbe essere una migliore comprensione
del senso di dolore e di perdita che la
gente prova quando è costretta a scappare dalle proprie case.
Questo sentimento di insicurezza che
oggi proviamo forse si avvicina a quello
provato dai rifugiati quando il loro intero
mondo crolla loro addosso. Facevo questa riflessione l’11 settembre quando, chiusa la metropolitana, attraversavo a piedi
insieme a migliaia di new-yorkesi i ponti
dell’East River, mentre sulle nostre teste
sfrecciavano gli aerei militari. Sembravamo quasi in un esodo di rifugiati. C’era
però una differenza sostanziale: noi avevamo delle case dove tornare.
Nonostante le migliori intenzioni, i media statunitensi spesso sembrano mettere
una barriera tra noi e le sofferenze che
avvengono in altre parti del mondo. La
mia preghiera è che come nazione impareremo che le vite degli statunitensi
non valgono di più di quelle delle altre
popolazioni del mondo. Mai come ora
abbiamo avuto più bisogno di identifiDICEMBRE 2001
Richiedenti asilo detenuti, provenienti da 12 nazioni, del centro
di detenzione Elizabeth nel New Jersey, vicino New York, hanno
inviato una lettera di condoglianze a un volontario del JRS:
Noi sottoscritti, richiedenti asilo in questa grande
nazione [detenuti] a Elizabeth, New Jersey, facciamo
dal profondo del cuore le nostre condoglianze al
governo e alla popolazione di questa grande nazione
per il tragico incidente che l’ha colpita martedì 11
settembre, che ha ucciso migliaia di persone amanti
della libertà e innocenti. Ci uniamo alle vostre preghiere
per le vittime degli attacchi e per le persone in servizio
che hanno perso le loro vite. Preghiamo per le famiglie,
i mariti, le mogli, i bambini, gli amici e i colleghi delle
vittime e degli agenti in servizio, affinché Dio conceda
loro il coraggio e la forza di sopportare la perdita. Il
nostro grazie caloroso e sincero va a tutti coloro che
si sono resi disponibili ad aiutare. Preghiamo affinché
Dio conceda la sua divina protezione a questa nazione.
carci con le popolazioni sradicate e considerare la loro battaglia come la nostra.
Solo accompagnando i rifugiati nel loro
viaggio dalla persecuzione alla salvezza,
ci renderemo conto che tutti apparteniamo a una medesima comunità che
supera confini e fedeltà nazionali. Gesù
ci ha chiesto di fare ciò quando con
coraggio ha esortato i suoi seguaci a
visitare le prigioni e ad accogliere con
tutti gli onori gli stranieri affinché essi
facessero la medesima cosa nei suoi
confronti. La nostra esistenza ha un
senso in quanto ci identifichiamo con
la comunità umana. Il modo in cui noi
trattiamo coloro che ne sono esclusi, i
vulnerabili e gli sfollati, ci dice di che
sostanza siamo fatti.
“
Facevo questa riflessione
l’11 settembre quando
attraversavo a piedi
insieme a migliaia di newyorkesi i ponti dell’East
River. Sembravamo quasi
un esodo di rifugiati.
C’era però una differenza
sostanziale: noi avevamo
delle case dove tornare.
”
Will Coley è il direttore del
progetto del JRS a New York.
Si occupa dei servizi
post-detenzione per i
rifugiati rilasciati.
5
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Segnali di pace in
un paese in guerra
Oihana Irigaray
La Repubblica Democratica del Congo ha
conosciuto morte e violenza per molti anni. I
negoziati cominciati quest’anno tra le opposte
fazioni accendono una tenue speranza di pace,
ma ci vorrà un bel po’ a convincere di questa
nuova realtà la disillusa popolazione civile.
H
a del miracoloso l’attaccamento alla vita della
popolazione della Repubblica Democratica del
Congo (RDC). Sono tutti sempre così allegri e
ben disposti, senza mai lasciarsi andare alla disperazione,
sempre pronti qualunque siano le circostanze. Il loro ottimismo ha dell’incredibile se consideriamo che la guerra e
la devastazione li ha colpiti ininterrottamente fin dall’anno
dell’indipendenza (1960). Per anni, 60 milioni di congolesi
sono stati vittime di malgoverno, povertà radicate, violenza
e indicibili violazioni dei diritti umani.
Ex colonia belga, la RDC copre una superficie di oltre due
milioni di chilometri quadrati e raggruppa al suo interno
molti gruppi etnici e più di 250 lingue (il francese è la lingua ufficiale e quelle diffuse su scala nazionale sono il Lingala, il Kikongo, lo Tshilouba e lo Swahili). Questa diversità,
che si combina alle tante risorse naturali, contribuisce purtroppo a indebolire l’unità dello stato, che oggi sembra un
sogno lontano.
Negli ultimi anni, la RDC è stata devastata da una guerra
tra il governo e le forze ribelli, un conflitto che ha anche
visto il coinvolgimento di sei nazioni straniere. Laurent
Désiré Cabila ha preso il potere nel 1998 aiutato dagli alleati ruandesi e ugandesi, in seguito divenuti suoi nemici.
Il nord del paese è sotto il controllo del MLC (Mouvement
pour la Libération du Congo), mentre l’est è tenuto in
mano da RCD (Rassemblement Congolais pour la Démocratie)-Goma e RCD-ML. La maggior parte delle fazioni in guerra si arricchiscono con lo sfruttamento delle
considerevoli ricchezze minerarie delle zone in loro
controllo.
La guerra ha distrutto le infrastrutture e l’economia di un
paese già piegato da decenni di malgoverno della dittatura
dell’ex Presidente Joseph Mobutu. La guerra ha poi duramente colpito la popolazione civile: si calcola in due milioni il numero degli sfollati interni e migliaia sono i rifugiati
nei paesi limitrofi. Un imprecisato numero di persone sono
morte in scontri o in esecuzioni sommarie e per gravi violazioni dei diritti umani.
6
Bambini sfollati a Bukavu, RDC
Dopo l’uccisione di Laurent Désiré, il suo figlio più grande,
Joseph Kabila, ha ereditato questa gigantesca ma devastata
nazione. Nel luglio del 1999, un accordo di pace è stato
firmato a Lusaka tra il MLC e il gruppo ribelle del RCD,
come pure dagli stati coinvolti nella guerra. L’accordo non
è mai stato applicato ma due anni più tardi, tra i 20 ed il 24
agosto di quest’anno, tutte le parti in guerra si sono sedute
al tavolo negoziale per discutere per la prima volta di pace
e di riconciliazione. I partecipanti hanno adottato un Patto
Repubblicano che li impegna alla liberalizzazione delle
attività politiche, alla protezione dei diritti umani fondamentali, al rilascio dei detenuti politici e ad altre misure.
Molti analisti hanno manifestato la propria soddisfazione
al fatto che i delegati si siano finalmente accordati su una
data e un posto per la ripresa dei colloqui quest’ottobre in
Etiopia (poi interrotti e posposti a novembre in Sudafrica).
Sfortunatamente, in nessuno degli incontri si è data voce
al popolo congolese. Nelle strade della capitale Kinshasa,
la risposta ai colloqui è stata di totale indifferenza: la gente,
infatti, non ha più fiducia. Ma nonostante il comprensibile
scetticismo, la ripresa del dialogo di quest’anno potrebbe
significare che dietro tutto questo bel parlare invero esista
un barlume di speranza per la rinascita della Repubblica
Democratica del Congo.
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Soffrono così tanto...
N
el 1999, il JRS ha cominciato ad estendere la propria assistenza alle persone sfollate dalla guerra
nella Repubblica Democratica del Congo (RDC).
Un progetto è stato lanciato a Lubumbashi, la prima città
ad accogliere migliaia di sfollati nell’agosto del 1998. Alla
fine di quell’anno, il numero di sfollati era cresciuto fino a
30.000, quando la gente arrivava da molte parti del paese.
I più vulnerabili, circa 10.000, erano ospitati in cinque centri
attorno alla città.
Suor Justine Kahungum ha iniziato a dirigere il JRS di
Lubumbashi, combinando questa funzione con il suo ruolo
di Presidente di Usuma, un’associazione di religiose della
città. Il programma ha preso forma un poco alla volta, con
50 sorelle che dedicavano una buona parte del loro tempo
ad accompagnare e assistere gli sfollati. Il nostro programma, in veloce crescita, comprende distribuzione di
cibo, centri sociali, attività sportive e culturali, progetti per
la produzione di reddito.
“
Lavorare con i rifugiati è una
vocazione. Considerando la
continua instabilità della nostra
regione, potremmo trovarci tutti
all’improvviso nella loro stessa
situazione: oggi con il necessario
per vivere, domani in povertà in un
campo profughi. La guerra nella
Repubblica Democratica del Congo
ha sradicato molte persone. Soffrono
così tanto, hanno così tanti e
immediati bisogni. Nessun parla in
loro favore.
”
Victor Wilondja,
direttore del progetto del JRS in RDC
Oihana Irigaray è la responsabile
della comunicazione del JRS
Grandi Laghi
DICEMBRE 2001
Le nostre attività si sono espanse geograficamente fino a
raggiungere gli sfollati di Kinshasa. Circa 27.000 persone
hanno trovato rifugio nella capitale quando la cosiddetta
milizia ribelle di Jean-Pierre Bemba ha lanciato una serie
di attacchi contro la provincia di Equateur nel 1999. Gli
sfollati che avevano occupato il Ministero degli Affari
Sociali sono stati spostati in due località fuori dalla città:
2.500 a Sicotra, 25 km dal centro, e 1.000 a 70 km, in un
posto chiamato Nganda-Musolo. I campi erano in condizioni terribili.
Victor Wilondja, un ingegnere congolese, ha messo insieme
nel maggio dell’anno scorso una piccola squadra del JRS
per migliorare le condizioni di vita dei due posti. È stato
distribuito cibo supplementare, mentre un asilo e un centro
di formazione per sarte e segretarie sono in allestimento.
Subito le cose sono migliorate. Poi abbiamo scoperto
Bralima, un altro luogo nel centro città che ospitava 600
persone: vedove ed orfani di soldati morti in servizio
nell’esercito di Mubutu. Malnutrizione e AIDS stavano
mietendo morti nel campo che era stato completamente
abbandonato. Un posto medico e nutrizionale è stato messo
in piedi e, in pochi mesi, il campo è cambiato drasticamente.
Oggi, le vedove gestiscono micro-attività e i bambini vanno
a scuola.
L’iniziativa più recente del JRS nella RDC è stata il lancio
di un progetto educativo nella metà del Congo occupata
dalle forze ruandesi e ugandesi, dove i civili forse soffrono
le peggiori condizioni umanitarie. Il progetto aiuterà 1.500
bambini sfollati nell’area circostante Bukavu, una città sulle
rive del lago Kivu.
7
AMERICA LATINA
Crisi in Colombia:
una sfida per la Chiesa
Jenny Cafiso
In agosto si sono incontrati
nella regione andina i
principali rappresentanti
delle organizzazioni della
Chiesa per studiare le
origini della guerra in
Colombia, che è stata
spesso mal compresa.
L’incontro ha cercato anche
di sviluppare una risposta
a più livelli per rispondere
ai bisogni delle vittime.
Scrive Jenny Cafiso.
I
l conflitto civile che sta lacerando
la Colombia è ben più che una guerra per la droga. Tuttavia è spesso
presentato come tale, banalizzando la
complessità di questa guerra senza tenere in debita considerazione le morti,
le violenze e lo sradicamento patiti dalla
popolazione civile. Un’eccessiva enfasi
sulla droga allontana la comprensione
delle cause remote di un conflitto oggi
noto come la peggiore crisi umanitaria
nell’emisfero occidentale. In realtà, da
decenni ci si continua a combattere per
le risorse e soprattutto per la terra.
L’enfasi sulla ‘guerra alla droga’ è stata incoraggiata dalla retorica per giustificare il Plan Colombia sponsorizzato dagli Stati Uniti. L’anno scorso, il
governo statunitense ha approvato un
pacchetto di aiuti del valore di 1,3
miliardi di dollari, come contributo a un
piano originariamente proposto dal
governo colombiano per lo sviluppo
economico, sociale e istituzionale. Ma
essendo il finanziamento statunitense
per l’80% destinato alle forze armate,
8
il piano ha assunto la caratteristica di
una campagna militare.
Ben lungi dal mitigare l’impatto della
guerra, il Plan Colombia sembra avere
addirittura peggiorato la situazione.
Questa è la conclusione emersa in un
incontro dei rappresentanti delle principali chiese della Colombia e dei paesi
vicini che si è tenuto a Panama dal 14
al 16 agosto di quest’anno. Il meeting
è stato il primo tentativo fatto per sviluppare una risposta coordinata alla
tragedia umanitaria provocata dalla
guerra. L’iniziativa di convocare una
riunione di tale portata è nata in seguito
all’aver compreso che il conflitto colombiano va ben oltre i confini nazionali, sia per quanto riguarda le sue cause
che le sue conseguenze.
I partecipanti rappresentavano le organizzazioni che lavorano con le persone
che vivono ai margini della società.
L’incontro è il risultato di un’iniziativa
congiunta del JRS, dei Catholic Relief
Services (CRS) e dell’Ufficio per gli Af-
fari Sociali della Conferenza dei Vescovi dell’America Latina (CELAM).
Tre vescovi, due della Colombia e due
panamensi, erano presenti assieme ai
rappresentanti delle Caritas nazionali e
della Conferenza statunitense dei Vescovi Cattolici. Il JRS era rappresentato
dai direttori di Colombia, Panama, Perù, Ecuador, Venezuela, Bolivia e Stati
Uniti.
I partecipanti hanno ripercorso e analizzato le cause storiche nazionali e il contesto geopolitico del conflitto. Insieme
ai partecipanti erano presenti ricercatori ed esperti della Colombia, che
hanno fornito prove inconfutabili dell’effetto negativo del Plan Colombia.
Hanno rivelato che l’assistenza data
fino a ora ha avuto l’effetto di aumentare i profitti dei signori della droga.
Ricardo Vargas, sociologo colombiano
e ricercatore per il Transnational Instituto ha affermato: “uno degli effetti
perversi di questa politica è l’automatico aumento del prezzo della coca dopo
gli incenerimenti, che quindi incentiva
AMERICA LATINA
a riseminare le piante o a spostare la
produzione in altre località.” Il piano ha
prodotto sfollamento della popolazione
a causa degli incenerimenti e della militarizzazione delle aree coinvolte.
Secondo alcune testimonianze presentate durante l’incontro, il Plan Colombia finanziato dagli Stati Uniti è, nella
migliore delle interpretazioni, una politica sbagliata. Nella peggiore, si può
parlare di una politica che cerca di assicurare un più stretto controllo di una
regione che ha rilevanza strategica ed
economica. Nell’aprile del 2000, il Presidente George W. Bush ha annunciato
un nuovo programma, l’Andean regional initiative (Iniziativa regionale
andina). Presentata come un pacchetto
di interventi più esteso del Plan Colombia, questa nuova iniziativa comprende aiuti economici e corsi di politica
democratica. I vicini della Colombia
sono stati questa volta inclusi; fondi
sono stati impegnati per il Panama, il
Brasile, il Venezuela e l’Ecuador. I critici affermano che questi cambiamenti
al programma iniziale sono stati fatti
per rendere gli interventi nella regione
accettabili. Ma la strategia è stata fortemente criticata. Hugo Cabieses, un
economista peruviano, ha detto al meeting che “nessuno di questi due strumenti è pacifico, giusto o efficace per i
paesi andini”.
nazionali. La Convenzione sullo Status
di Rifugiato del 1951 e l’Accordo di
Cartagena proibiscono assolutamente
il rimpatrio forzato verso il paese da
cui si è fuggiti. Venezuela e Panama
agiscono contravvenendo palesemente
a questi principi. Il Venezuela ha creato
una categoria chiamata ‘persone in
transito’. Panama si riferisce ai rifugiati
che hanno attraversato il proprio confine come a ‘sfollati’ o ‘persone bisognose di protezione’.
Preoccupa molto anche la mancanza
di autorità e mandato delle organizzazioni intergovernative. In Colombia,
l’UNHCR è stato sempre obbligato a
un ruolo che al meglio può essere definito di ‘diplomazia pacata’. Nei paesi
vicini, l’agenzia dell’ONU brilla per la
propria assenza. In alcuni luoghi, la
Chiesa si vede costretta a occuparsi
della determinazione dello status di rifugiato, una funzione questa che certo
non le spetterebbe. Ciò può poi distogliere la Chiesa dal suo ruolo di difesa
dei diritti degli sfollati.
Nel meeting è risultato chiarissimo che
il conflitto costringe la Chiesa a impegnarsi nella sua missione profetica di
difendere i poveri e gli oppressi. Ciò
richiede una risposta coordinata. La
assistenza d’emergenza deve andare
di pari passo con azioni di pressione
volte a incentivare il rispetto degli standard internazionali di protezione. Lo
sviluppo sociale deve essere al centro
di ogni soluzione; il progresso dovrà
riguardare una distribuzione equa delle
risorse economiche, e in particolare della terra, la promozione di una democrazia completa e la partecipazione politica
e sociale di tutti i colombiani.
Jenny Cafiso è la
responsabile dei programmi
e ha partecipato al meeting
in rappresentanza del JRS
Internazionale.
Etichettare il
conflitto come
una “guerra
alla droga” non
rende giustizia
alle sofferenze
dell’innocente
popolazione
civile
Oltre a cercare di identificare soluzioni
di lungo periodo, il meeting di Panama
si è interrogato sugli immediati bisogni
delle vittime. La risposta dei governi e
degli attori non governativi ha portato
all’attenzione dei partecipanti questioni
come la protezione, il rispetto dei trattati
internazionali e l’interrogativo relativo
a chi abbia il mandato per assistere gli
sfollati interni. Tutti questi problemi richiedono una risposta rapida da parte
della comunità religiosa.
Una delle sfide più urgenti che sono
state identificate è quella dell’assistenza materiale agli sfollati interni alla
Colombia come pure nei paesi vicini.
Un’altra consiste nella scarsa protezione di coloro che fuggono il conflitto
e il mancato rispetto dei trattati interDICEMBRE 2001
9
Soweto,
Sudafrica
Combattere la xenofobia
Rampe Hlobo SJ
Maltrattamenti di rifugiati neri e richiedenti asilo, motivati da xenofobia razzista, sono diffuso in
Sudafrica, stato che, recentemente, ha ospitato la Conferenza Mondiale contro il Razzismo. Rampe
Hlobo SJ descrive la vastità del problema e le iniziative del JRS per combattere i pregiudizi.
J
ean è stato costretto a fuggire dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) nel 1999. Dopo essere
scappato dal suo paese, l’uomo di 21 anni si è diretto
in un primo momento in Zambia, dove è stato recluso per
otto mesi perché non era in possesso di documenti. Dopo
essere stato rilasciato, un camionista gli ha offerto un passaggio fino in Sudafrica, dove è stato di nuovo arrestato al
momento dell’arrivo e detenuto per tre mesi. Quando Jean
è stato rilasciato, ha tentato di registrarsi a Pretoria come
richiedente asilo politico, ma un interprete corrotto gli ha
negato l’opportunità chiedendogli una gran somma di denaro
per lui introvabile. Così Jean è andato a Durban per poter
fare richiesta di asilo. Dopo poco è tornato a vivere in un
parco a Pretoria, dove è stato assalito da un gruppo di giovani
sudafricani. Lo hanno derubato dei suoi vestiti e di tutto ciò
che aveva, incluso il suo permesso. Poi hanno versato
dell’acido su tutto il suo corpo.
poteva rischiare di rimanere a Pretoria fino a quando non
fosse completamente guarito dalle ferite. Ciò però significava
rischiare di essere nuovamente arrestato e nuovamente
messo in carcere poiché privo dei documenti. Il JRS ha
aiutato Jean in modo che potesse ritornare a Durban per il
rilascio di un nuovo permesso.
Jean è stato assalito perché non è sudafricano e perché
parla una lingua straniera. Dopo quanto accaduto Jean non
Il Sudafrica dovrebbe accogliere i richiedenti asilo per non
venir meno ai suoi obblighi internazionali: nel 1996, lo stato
10
Jean non è stato il solo a dover affrontare tali prove. La sua
storia è un indicatore della xenofobia razzista diffusa in Sudafrica. In un paese con una economia incerta e con un tasso
di disoccupazione pari al 40%, persone nere che provengono
da altre parti dell’Africa, inclusi i rifugiati, diventano i capri
espiatori per i malesseri dello Stato. Fin dal 1990, i rifugiati
provenienti da paesi africani in difficoltà, o da altrove, sono
arrivati in Sudafrica in cerca di un posto sicuro. Le guerre
senza fine hanno incrementato, negli anni, il numero dei
rifugiati.
SUDAFRICA
ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, il Protocollo
del 1967 e la Convenzione del 1969 dell’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana). Nel 1998, il governo ha promulgato
la Legge sui Rifugiati, così da trascrivere i propri obblighi
internazionali nel diritto interno ma, nonostante la legislazione,
numerosi abusi e una crescente xenofobia, sia a livello individuale che istituzionale, accolgono i rifugiati che giungono
in Sudafrica.
Il JRS ha ricevuto più di un resoconto di richiedenti asilo a
cui era stato versato dell’acido addosso perché accusati di
essere stranieri che portavano via il lavoro ai sudafricani. In
altri assalti, uomini senegalesi e sudanesi sono stati spinti
fuori da treni in corsa nella tratta Johannesburg - Pretoria.
Data la xenofobia e il razzismo dilagante, è stato a dir poco
deludente che, nella tanto pubblicizzata Conferenza Mondiale
contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia
e l’Intolleranza (WCAR), il problema non abbia ricevuto la
dovuta attenzione. La Conferenza si è tenuta in Sudafrica
nel mese di settembre. Era improbabile una qualsiasi azione
concreta a favore dei rifugiati, considerando che il punto
riguardante i diritti dei rifugiati era stato eliminato dall’agenda
proprio alla vigilia della Conferenza. Così, è già un risultato
che alcuni paragrafi relativi al sostegno e alla protezione dei
rifugiati siano stati inseriti nel programma d’azione finale,
benché la formulazione non sia forte e vincolante come si
sperava.
La Conferenza ha chiesto che gli Stati riconoscano che i
rifugiati potrebbero essere vittime di episodi di razzismo e
xenofobia nel paese ospitante, e li ha incoraggiati sia a ridurre
la discriminazione sia ad assicurare il rispetto dei diritti dei
rifugiati. Un altro punto del programma ha fatto appello agli
Stati affinché denuncino attivamente la diffusione di messaggi
razzisti e xenofobi a opera dei mass media.
La polizia è spesso il peggiore perpetratore di violenze,
maltrattamenti e violazioni dei diritti umani dei rifugiati.
L’arresto dei rifugiati, che siano o meno in possesso di validi
permessi, è frequente. A marzo di quest’anno è scoppiato
uno scandalo giornalistico, quando un’insegnante sudafricana
è stata arrestata e maltrattata dai funzionari di polizia, perché
sospettata di essere un’immigrata illegale a causa della sua
pelle scura e del suo modo di vestire. Sebbene Sylvia Manda, Nonostante le battute d’arresto, la Conferenza ha portato alla
33 anni, avesse insistito nel dire che era sudafricana, i poli- luce ingiustizie e nuove violazioni di diritti umani nel mondo.
ziotti le dissero che “carnagione,
In definitiva la questione non è se
fisionomia, accento e modo di vesla Conferenza sia stata o no un suctire” avevano fatto nascere in loro
cesso, ma l’impatto che essa avrà
Cerchiamo di smantellare gli
il sospetto che fosse una immigrasulle vite degli individui, vittime di
stereotipi e l’ignoranza su cui si
ta illegale. Secondo alcune fonti,
razzismo in tutto il mondo.
Manda è stata percossa e detebasa la xenofobia... crediamo
nuta per molte ore.
Insieme ad altre ONG (organizche il nostro piccolo contributo
zazioni non governative), il JRS
– parlare costantemente dei
In un altro caso simile, la polizia
ha messo in luce la xenofobia
rifugiati e difendere i loro diritti –
ha detenuto una famiglia di nove
presente in Sudafrica durante il
possa fare una grande differenza.
orfani angolani, di età compresa
Forum delle ONG che ha precetra due e 14 anni, che erano sotto
duto la WCAR. Abbiamo allestito
la tutela delle autorità del servizio
uno stand per mostrare materiale
sociale per i minori di Johannesburg e del JRS. La polizia informativo e poster, e abbiamo parlato dei rifugiati, specialnon si è presa la briga di chiedere loro i documenti; ha mente di quelli che sono stati vittime di razzismo.
dichiarato che stava agendo a seguito di una segnalazione
di una donna sudafricana che sospettava che i bambini Sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà affrontata dai
fossero immigrati illegali.
rifugiati e dai richiedenti asilo è parte del nostro lavoro quotidiano, mentre cerchiamo di smantellare gli stereotipi e l’ignoranza
Altri dipartimenti del governo attuano discriminazioni nei su cui si basa la xenofobia. A questo scopo, il JRS è presente
confronti di rifugiati e immigrati. I servizi sociali e alcuni in molte interviste radiofoniche, sui giornali e in dibattiti teleservizi sanitari hanno fatto in modo da risultare inaccessibili visivi. Abbiamo anche iniziato ad andare nelle scuole, parlando
ai rifugiati. Alcuni minori non accompagnati si vedono agli studenti delle condizioni dei rifugiati. Le cose cambiano:
rifiutata l’entrata nei centri di accoglienza per i bambini solo possiamo testimoniare che sempre più persone chiedono di
perché non sono sudafricani. In alcuni ospedali, il JRS è lavorare con i rifugiati come volontari. Crediamo che il nostro
dovuto intervenire a favore dei rifugiati affinché ricevessero piccolo contributo – parlare costantemente dei rifugiati e difencure mediche. I mass media non aiutano. La trattazione dere i loro diritti – possa fare una grande differenza.
delle notizie tende a mettere in cattiva luce i rifugiati, o a
essere sensazionalistica. L’uso di parole come “invasione”
o “afflusso massiccio” di rifugiati hanno incrementato la
Rampe Hlobo SJ è il responsabile delle
xenofobia e la falsa convinzione che ci siano milioni di rifugiati
politiche del JRS in Johannesburg
in Sudafrica. In realtà, ce ne sono poco meno di 70.000.
“
DICEMBRE 2001
”
11
Europa: pubblicazione del JRS sui migranti irregolari
C
’è un proverbio dei Quaccheri che
dice: Lasceremo parlare le loro
vite. Una nuova pubblicazione del JRS,
prodotta in collaborazione con altre sei
associazioni, cerca di fare giustizia per
quegli uomini e quelle donne che vivono
in Europa con uno status giuridico
irregolare. Con le loro parole, Stavros,
Remy, Yuriy, Ali, Maryam e altri
raccontano la loro esperienza.
Pensato per un vasto pubblico, il
libricino nasce dalle conclusioni della
ricerca, durata tre anni, sulla situazione
dei migranti irregolari condotta in Gran
Bretagna, Germania e Spagna e
commissionata dal JRS. La questione
delle migrazioni irregolari è spesso
presentata come un problema “astratto”
per il quale vengono proposte soluzioni non realistiche. Questa pubblicazione
cerca di indagare sul fenomeno, guardando all’impatto sulle vite reali, per
esplorare eventuali possibilità di cambiamento che consentano di comprendere il
valore di ogni essere umano indipendentemente dai documenti che possiede.
Copie del libro sono disponibili richiedendole al JRS Europa.
indirizzo: Haachtsesteenweg 8
B-1210 Brussels, Belgio
e-mail: [email protected]
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Foto di copertina:
Sarajevo, Bosnia; Mark Raper SJ/JRS
Foto di:
HAWCA/Humanitarian Assistance
of Women and Children of
Afghanistan – Pakistan (pp. 2 e 3);
Fitzroy Hepkins (p. 4 a sinistra);
Elizabeth Eagen (p. 4 a destra);
Francesca Campolongo/JRS (p. 5);
Oihana Irigaray/JRS (pp. 6-7); Jenny
Cafiso/JRS (pp. 8, 9 e 10); Elena
Marioni/JRS (p. 12 in alto, copertina
di Voices from the Shadows);
Mark Raper SJ/JRS (p. 12 in basso).
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