2001 No. 23 Dicembre Servir Solo accompagnando i rifugiati nel loro viaggio dalla persecuzione alla salvezza, ci renderemo conto che tutti apparteniamo a una medesima comunità che supera confini e fedeltà nazionali. Will Coley, JRS New York DICEMBRE 2001 Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati 1 EDITORIALE Proteggere i rifugiati Lluís Magriñà SJ U n desiderio di giustizia deve ispirare le reazioni ai terribili attacchi contro gli Stati Uniti. Il JRS lavora anche a Washington, New York ed altre località statunitensi. In questo numero di Servir pubblichiamo gli interventi di due nostri collaboratori americani. La loro analisi degli eventi parte dalla seguente riflessione: ogni risposta al terrorismo deve rispettare i diritti di tutti e cercare di comprendere l’ingiustizia radicata che prevale nel mondo di oggi. Le vittime potenziali della guerra statunitense ed inglese contro l’Afghanistan hanno già lungamente sofferto di povertà, oppressione e di una guerra civile che dura da 22 anni. Si deve cercare di proteggere a tutti i costi questi civili che nella loro fuga dagli attacchi militari si trovano ora di fronte a confini sbarrati. Il Pakistan e l’Iran ospitano tra le più vaste popolazioni di rifugiati del mondo e le loro preoccupazioni per un ulteriore afflusso di massa sono comprensibili. Nonostante ciò, e i timori per la sicurezza, coloro che fuggono dall’Afghanistan per cercare altrove rifugio devono essere protetti e la comunità internazionale deve aiutare i paesi confinanti a sopportarne i costi. Impedire ai rifugiati di attraversare i confini significa violare i loro diritti. Ci hanno raccontato che i ‘danni collaterali’ sono inevitabili se si vuole sconfiggere il terrorismo. Ma presentare in questi termini le morti dei civili e lo sradicamento delle popolazioni causati dai bombardamenti crea un pericoloso precedente. Tutti hanno lo stesso diritto alla vita, che deve essere difeso a tutti i costi. Il diritto umanitario internazionale che regola i conflitti armati chiaramente proibisce attacchi contro obiettivi civili ed azioni che abbiano un impatto indiscriminato su civili e combattenti. 2 Sfollati in Afghanistan La guerra contro l’Afghanistan e il dramma dei rifugiati che ne segue, ci dovrebbe far ricordare delle molte altre guerre in questo momento in corso e dei 50 milioni di persone sradicate dalle loro case che formano l’attuale popolazione globale dei rifugiati. Già fortemente vulnerabili, i rifugiati devono ora affrontare una sempre più evidente erosione del loro fondamentale diritto alla protezione. Dall’11 settembre, alti funzionari dei governi di alcuni paesi occidentali hanno rilasciato dichiarazioni tese a stigmatizzare i richiedenti asilo come potenziali terroristi. La lotta contro il terrorismo non deve colpire il dovere non-negoziabile degli Stati di proteggere coloro che fuggono dalla persecuzione. Negli Stati Uniti, la lotta contro il terrorismo si basa sull’imperativo: “servirsi di ogni mezzo legale... per prevenire ogni ulteriore attività terroristica”. Ora ci rendiamo conto che cosa questo si- gnifichi: nuove disposizioni danno ai funzionari estesi poteri per detenere gli immigrati. La legislazione anti-terrorismo consente detenzioni prolungate e con limitate tutele giudiziarie per i ‘non-cittadini’, tra cui i richiedenti asilo e i rifugiati. L’Australia ha approvato delle normative che minacciano la protezione dei rifugiati, servendosi degli attacchi terroristici per giustificare le palesi limitazioni insite nella nuova legislazione. Gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno il dovere di proteggere i propri cittadini. Ma ciò non deve condurre a violazioni dei diritti dei ‘non-cittadini’, inclusi i rifugiati. Appellarsi a una situazione di emergenza per limitare i diritti fondamentali dei gruppi vulnerabili significa minare i diritti civili. Anche prima degli attacchi, la tendenza dei paesi occidentali era la progressiva chiusura dei confini. Quest’anno, che ha visto gli Stati rinnovare il loro impegno alla protezione dei rifugiati in occasione del cinquantesimo anniversario della Convenzione di Ginevra, la realtà è ironicamente differente. La tragedia STATI UNITI Anti-terrorismo: limitazione dei diritti? Jennifer Bailey La lotta al terrorismo negli Stati Uniti ha comportato la sospensione delle riforme alla legge in materia di immigrazione e al loro posto sono state approntate severe misure per il controllo degli immigrati. Scrive Jennifer Bailey. L e ripercussioni dei catastrofici eventi dell’11 settembre hanno pervaso la psiche americana e determinato un improvviso e drammatico cambiamento nel modo in cui gli Stati Uniti guardano al fenomeno della immigrazione. Sfortunatamente, gli attacchi sono avvenuti in un momento in cui le riforme della legge sull’immigrazione sembravano avviate sulla buona strada per essere realizzate. Una nuova legge a protezione dei diritti dei rifugiati e dei giovani non accompagnati rinchiusi nei centri di detenzione per immigrati era stata introdotta all’inizio dell’anno. La Corte Suprema sembrava essere pronta a eliminare alcune delle misure più severe della legge sull’immigrazione introdotte nel 1996. Infatti, aveva emesso delle decisioni che proibivano la detenzione a tempo indeterminato degli immigrati e che ristabilivano il diritto al riesame giuridico delle decisioni prese nei loro confronti. L’11 settembre, questi tentativi sono stati bruscamente fermati e al loro posto sono state introdotte nuove misure per controllare gli immigrati e diminuire i loro diritti. Il desiderio di reagire velocemente ed energicamente ha consentito che si potesse ricorrere, con la giustificazione della sicurezza nazionale, alla detenzione, alle aule giudiziarie a porte chiuse e alle prove non palesi e segrete. All’inizio di ottobre, più di 700 persone sono state arrestate, la maggior parte delle quali per violazioni alla legge sull’immigrazione. I legislatori si sono affrettati a scrivere una legislazione anti-terrorismo che ha un impatto sostanziale sugli immigrati e i rifugiati in terra americana. Alcune delle leggi approvate consentono la detenzione senza accusa fino a un massimo di sette giorni per chiunque sia sospettato di terrorismo nel significato più esteso del termine. Altre disposizioni autorizzano la detenzione a tempo indeterminato degli immigranti, compresi i richiedenti asilo, con revisioni semestrali. Questo aumentato ricorso alla detenzione degli immigrati preoccupa particolarmente il JRS Stati Uniti. Durante gli ultimi cinque anni, abbiamo fornito cura pastorale a immigrati e richiedenti asilo che si trovano nei centri di detenzione del paese. Al momento attuale, ci sono 20.000 persone (tra cui anche minori non accompagnati) rinchiusi in più di 300 centri. Anche prima dei recenti attacchi, il JRS ha assistito a casi di intolleranza religiosa. A volte le guardie discriminano i detenuti i quali, a loro volta, spesso si giudicano e maltrattano a vicenda. L’anno scorso, il JRS ha assistito un giovane musulmano detenuto in una prigione di una zona rurale della California dove ha patito forme di isolamento religioso, linguistico e culturale. Gli Stati Uniti stanno vivendo ora un momento particolare: per un paese che ha messo sempre al primo posto la libertà vi è ora la necessità e il dilemma di trovare il corretto modo di bilanciare le proprie esigenze di sicurezza senza alimentare l’intolleranza religiosa e mettere a repentaglio i diritti dei rifugiati e degli immigrati. Jennifer Bailey è il direttore per le politiche del JRS Stati Uniti continua dalla pagina precedente: americana non deve essere usata dagli Stati come una scusa per venire meno ai propri impegni internazionali. La lotta contro il terrorismo non deve colpire i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo e il dovere non-negoziabile degli Stati di proteggere coloro che fuggono dalla persecuzione. Lluís Magriñà SJ è il direttore internazionale del JRS DICEMBRE 2001 3 STATI UNITI Il nostro dolore non è una chiamata Will Coley Il dolore di una nazione colpita al cuore da attacchi terroristici può in qualche modo farci meglio capire il trauma e il senso di insicurezza che soffrono coloro che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e che devono fare i conti con la distruzione del mondo così come lo conoscevano. C ome la maggior parte dei newyorkesi e dei cittadini di tutto il mondo, anch’io sto ancora cercancando di capire i tragici eventi dell’11 settembre. Faccio fatica a capacitarmi che non rivedrò mai più il World Trade Centre dalle finestre del mio appartamento di Brooklyn. Non riesco a farmi una ragione del fatto che in qualsiasi altro giorno, all’ora fatale, avrei cambiato treno all’interno del World Trade Centre sulla strada per l’ufficio del JRS in New Jersey (ma quel giorno avevo un appuntamento da un’altra parte). Nelle settimane successive alla catastrofe, ho cercato di dare un senso a tutto quello che è successo, di comprendere fino in fondo la portata della perdita frequentando momenti di preghiera, veglie di pace e cerimonie. Quando infine sono andato nella parte bassa di Manhattan, mi sono ritrovato a guardare incredulo le rovine, ancora incapace di cogliere appieno cosa significhi la morte di quelle migliaia di persone sepolte lì sotto. Tutti parlano dell’11 settembre e si aggrappano alle stesse cose. La gente è 4 stordita. Sento parlare di rabbia e di vendetta agli angoli delle strade, nei caffè e nella metropolitana. Mi rendo conto che questo è parte del dolore e del lutto subiti. I richiedenti asilo del Centro di Detenzione Elizabeth nel vicino New Jersey hanno compreso la medesima cosa quando un gruppo di loro ha spedito una lettera di condoglianze a un volontario del JRS. L’ufficio del JRS del New Jersey ha contattato i propri assistiti, i rifugiati ex detenuti, per vedere come stanno vivendo i recenti tragici eventi. Una donna rifugiata dell’Africa occidentale, che ora vive a Brooklyn, mi ha detto che era profondamente rattristata dagli eventi. Il suo senso di insicurezza è stato ulteriormente amplificato quando alcuni giorni dopo gli attentati, un proiettile sparato durante una rissa di strada ha frantumato il vetro della finestra della sua cucina. “Dove finisce la violenza?” mi ha domandato. Si hanno molte notizie di attacchi contro gli arabi e i musulmani. Molte comunità hanno risposto a queste sfide cercando di fare capire che i punti di vista dei ter- roristi non rappresentano necessariamente quelli delle comunità. Alcuni hanno evidenziato il fatto che loro non hanno mai parlato di Timothy McVeigh (il presunto istigatore dell’attentato di Oklahoma City) come di un terrorista cristiano. Gli statunitensi si ricordino di tanto in tanto del motto del nostro paese: E Pluribus Unum. A Washington si parla di creare una rete per catturare potenziali terroristi. Inizialmente nota come MATA (Mobilisation against Terrorism Act – legge per la mobilitazione anti-terrorismo) e quindi come legge Patriottica, l’atto normativo è stato firmato dal Presidente Bush il 26 ottobre. Nella fretta di rispondere agli attacchi, poca attenzione sembra però essere stata data al pericolo che altre persone, oltre ai terroristi, potranno rimanere impigliate in quella rete. Non molto tempo fa, gli statunitensi si erano mobilitati per assicurare che nella pesca al tonno non venissero uccisi anche i delfini. Che misure vengono ora prese per prevenire che i più vulnerabili, e in particolare i rifugiati, siano vittime di questo sistema? STATI UNITI alle armi Si consideri il seguente scenario: gli USA forzano la mano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché faccia passare una risoluzione che metta in atto pene severe contro coloro che si servono di documenti falsi. Che cosa accadrà ai richiedenti asilo che fuggono da governi che naturalmente non sono disposti a concedere loro documenti validi? Il risultato finale sarà che diventerà più difficile, per coloro che fuggono la guerra e la persecuzione, raggiungere gli Stati Uniti o altri paesi. Come statunitensi stiamo imparando che non siamo esenti dalle violenze di questo mondo. La tragedia ha lasciato molti di noi scossi nel profondo. Come possono due costruzioni così enormi sparire e portarsi con sé migliaia di persone? Tra i sentimenti più intensi che mi è capitato di sentire ricordo quello per cui: il nostro dolore non è una chiamata alle armi. Se mai ci dovesse essere qualcosa di buono in questo dramma, questo potrebbe essere una migliore comprensione del senso di dolore e di perdita che la gente prova quando è costretta a scappare dalle proprie case. Questo sentimento di insicurezza che oggi proviamo forse si avvicina a quello provato dai rifugiati quando il loro intero mondo crolla loro addosso. Facevo questa riflessione l’11 settembre quando, chiusa la metropolitana, attraversavo a piedi insieme a migliaia di new-yorkesi i ponti dell’East River, mentre sulle nostre teste sfrecciavano gli aerei militari. Sembravamo quasi in un esodo di rifugiati. C’era però una differenza sostanziale: noi avevamo delle case dove tornare. Nonostante le migliori intenzioni, i media statunitensi spesso sembrano mettere una barriera tra noi e le sofferenze che avvengono in altre parti del mondo. La mia preghiera è che come nazione impareremo che le vite degli statunitensi non valgono di più di quelle delle altre popolazioni del mondo. Mai come ora abbiamo avuto più bisogno di identifiDICEMBRE 2001 Richiedenti asilo detenuti, provenienti da 12 nazioni, del centro di detenzione Elizabeth nel New Jersey, vicino New York, hanno inviato una lettera di condoglianze a un volontario del JRS: Noi sottoscritti, richiedenti asilo in questa grande nazione [detenuti] a Elizabeth, New Jersey, facciamo dal profondo del cuore le nostre condoglianze al governo e alla popolazione di questa grande nazione per il tragico incidente che lha colpita martedì 11 settembre, che ha ucciso migliaia di persone amanti della libertà e innocenti. Ci uniamo alle vostre preghiere per le vittime degli attacchi e per le persone in servizio che hanno perso le loro vite. Preghiamo per le famiglie, i mariti, le mogli, i bambini, gli amici e i colleghi delle vittime e degli agenti in servizio, affinché Dio conceda loro il coraggio e la forza di sopportare la perdita. Il nostro grazie caloroso e sincero va a tutti coloro che si sono resi disponibili ad aiutare. Preghiamo affinché Dio conceda la sua divina protezione a questa nazione. carci con le popolazioni sradicate e considerare la loro battaglia come la nostra. Solo accompagnando i rifugiati nel loro viaggio dalla persecuzione alla salvezza, ci renderemo conto che tutti apparteniamo a una medesima comunità che supera confini e fedeltà nazionali. Gesù ci ha chiesto di fare ciò quando con coraggio ha esortato i suoi seguaci a visitare le prigioni e ad accogliere con tutti gli onori gli stranieri affinché essi facessero la medesima cosa nei suoi confronti. La nostra esistenza ha un senso in quanto ci identifichiamo con la comunità umana. Il modo in cui noi trattiamo coloro che ne sono esclusi, i vulnerabili e gli sfollati, ci dice di che sostanza siamo fatti. Facevo questa riflessione l11 settembre quando attraversavo a piedi insieme a migliaia di newyorkesi i ponti dellEast River. Sembravamo quasi un esodo di rifugiati. Cera però una differenza sostanziale: noi avevamo delle case dove tornare. Will Coley è il direttore del progetto del JRS a New York. Si occupa dei servizi post-detenzione per i rifugiati rilasciati. 5 REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Segnali di pace in un paese in guerra Oihana Irigaray La Repubblica Democratica del Congo ha conosciuto morte e violenza per molti anni. I negoziati cominciati quest’anno tra le opposte fazioni accendono una tenue speranza di pace, ma ci vorrà un bel po’ a convincere di questa nuova realtà la disillusa popolazione civile. H a del miracoloso l’attaccamento alla vita della popolazione della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Sono tutti sempre così allegri e ben disposti, senza mai lasciarsi andare alla disperazione, sempre pronti qualunque siano le circostanze. Il loro ottimismo ha dell’incredibile se consideriamo che la guerra e la devastazione li ha colpiti ininterrottamente fin dall’anno dell’indipendenza (1960). Per anni, 60 milioni di congolesi sono stati vittime di malgoverno, povertà radicate, violenza e indicibili violazioni dei diritti umani. Ex colonia belga, la RDC copre una superficie di oltre due milioni di chilometri quadrati e raggruppa al suo interno molti gruppi etnici e più di 250 lingue (il francese è la lingua ufficiale e quelle diffuse su scala nazionale sono il Lingala, il Kikongo, lo Tshilouba e lo Swahili). Questa diversità, che si combina alle tante risorse naturali, contribuisce purtroppo a indebolire l’unità dello stato, che oggi sembra un sogno lontano. Negli ultimi anni, la RDC è stata devastata da una guerra tra il governo e le forze ribelli, un conflitto che ha anche visto il coinvolgimento di sei nazioni straniere. Laurent Désiré Cabila ha preso il potere nel 1998 aiutato dagli alleati ruandesi e ugandesi, in seguito divenuti suoi nemici. Il nord del paese è sotto il controllo del MLC (Mouvement pour la Libération du Congo), mentre l’est è tenuto in mano da RCD (Rassemblement Congolais pour la Démocratie)-Goma e RCD-ML. La maggior parte delle fazioni in guerra si arricchiscono con lo sfruttamento delle considerevoli ricchezze minerarie delle zone in loro controllo. La guerra ha distrutto le infrastrutture e l’economia di un paese già piegato da decenni di malgoverno della dittatura dell’ex Presidente Joseph Mobutu. La guerra ha poi duramente colpito la popolazione civile: si calcola in due milioni il numero degli sfollati interni e migliaia sono i rifugiati nei paesi limitrofi. Un imprecisato numero di persone sono morte in scontri o in esecuzioni sommarie e per gravi violazioni dei diritti umani. 6 Bambini sfollati a Bukavu, RDC Dopo l’uccisione di Laurent Désiré, il suo figlio più grande, Joseph Kabila, ha ereditato questa gigantesca ma devastata nazione. Nel luglio del 1999, un accordo di pace è stato firmato a Lusaka tra il MLC e il gruppo ribelle del RCD, come pure dagli stati coinvolti nella guerra. L’accordo non è mai stato applicato ma due anni più tardi, tra i 20 ed il 24 agosto di quest’anno, tutte le parti in guerra si sono sedute al tavolo negoziale per discutere per la prima volta di pace e di riconciliazione. I partecipanti hanno adottato un Patto Repubblicano che li impegna alla liberalizzazione delle attività politiche, alla protezione dei diritti umani fondamentali, al rilascio dei detenuti politici e ad altre misure. Molti analisti hanno manifestato la propria soddisfazione al fatto che i delegati si siano finalmente accordati su una data e un posto per la ripresa dei colloqui quest’ottobre in Etiopia (poi interrotti e posposti a novembre in Sudafrica). Sfortunatamente, in nessuno degli incontri si è data voce al popolo congolese. Nelle strade della capitale Kinshasa, la risposta ai colloqui è stata di totale indifferenza: la gente, infatti, non ha più fiducia. Ma nonostante il comprensibile scetticismo, la ripresa del dialogo di quest’anno potrebbe significare che dietro tutto questo bel parlare invero esista un barlume di speranza per la rinascita della Repubblica Democratica del Congo. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Soffrono così tanto... N el 1999, il JRS ha cominciato ad estendere la propria assistenza alle persone sfollate dalla guerra nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Un progetto è stato lanciato a Lubumbashi, la prima città ad accogliere migliaia di sfollati nell’agosto del 1998. Alla fine di quell’anno, il numero di sfollati era cresciuto fino a 30.000, quando la gente arrivava da molte parti del paese. I più vulnerabili, circa 10.000, erano ospitati in cinque centri attorno alla città. Suor Justine Kahungum ha iniziato a dirigere il JRS di Lubumbashi, combinando questa funzione con il suo ruolo di Presidente di Usuma, un’associazione di religiose della città. Il programma ha preso forma un poco alla volta, con 50 sorelle che dedicavano una buona parte del loro tempo ad accompagnare e assistere gli sfollati. Il nostro programma, in veloce crescita, comprende distribuzione di cibo, centri sociali, attività sportive e culturali, progetti per la produzione di reddito. Lavorare con i rifugiati è una vocazione. Considerando la continua instabilità della nostra regione, potremmo trovarci tutti allimprovviso nella loro stessa situazione: oggi con il necessario per vivere, domani in povertà in un campo profughi. La guerra nella Repubblica Democratica del Congo ha sradicato molte persone. Soffrono così tanto, hanno così tanti e immediati bisogni. Nessun parla in loro favore. Victor Wilondja, direttore del progetto del JRS in RDC Oihana Irigaray è la responsabile della comunicazione del JRS Grandi Laghi DICEMBRE 2001 Le nostre attività si sono espanse geograficamente fino a raggiungere gli sfollati di Kinshasa. Circa 27.000 persone hanno trovato rifugio nella capitale quando la cosiddetta milizia ribelle di Jean-Pierre Bemba ha lanciato una serie di attacchi contro la provincia di Equateur nel 1999. Gli sfollati che avevano occupato il Ministero degli Affari Sociali sono stati spostati in due località fuori dalla città: 2.500 a Sicotra, 25 km dal centro, e 1.000 a 70 km, in un posto chiamato Nganda-Musolo. I campi erano in condizioni terribili. Victor Wilondja, un ingegnere congolese, ha messo insieme nel maggio dell’anno scorso una piccola squadra del JRS per migliorare le condizioni di vita dei due posti. È stato distribuito cibo supplementare, mentre un asilo e un centro di formazione per sarte e segretarie sono in allestimento. Subito le cose sono migliorate. Poi abbiamo scoperto Bralima, un altro luogo nel centro città che ospitava 600 persone: vedove ed orfani di soldati morti in servizio nell’esercito di Mubutu. Malnutrizione e AIDS stavano mietendo morti nel campo che era stato completamente abbandonato. Un posto medico e nutrizionale è stato messo in piedi e, in pochi mesi, il campo è cambiato drasticamente. Oggi, le vedove gestiscono micro-attività e i bambini vanno a scuola. L’iniziativa più recente del JRS nella RDC è stata il lancio di un progetto educativo nella metà del Congo occupata dalle forze ruandesi e ugandesi, dove i civili forse soffrono le peggiori condizioni umanitarie. Il progetto aiuterà 1.500 bambini sfollati nell’area circostante Bukavu, una città sulle rive del lago Kivu. 7 AMERICA LATINA Crisi in Colombia: una sfida per la Chiesa Jenny Cafiso In agosto si sono incontrati nella regione andina i principali rappresentanti delle organizzazioni della Chiesa per studiare le origini della guerra in Colombia, che è stata spesso mal compresa. L’incontro ha cercato anche di sviluppare una risposta a più livelli per rispondere ai bisogni delle vittime. Scrive Jenny Cafiso. I l conflitto civile che sta lacerando la Colombia è ben più che una guerra per la droga. Tuttavia è spesso presentato come tale, banalizzando la complessità di questa guerra senza tenere in debita considerazione le morti, le violenze e lo sradicamento patiti dalla popolazione civile. Un’eccessiva enfasi sulla droga allontana la comprensione delle cause remote di un conflitto oggi noto come la peggiore crisi umanitaria nell’emisfero occidentale. In realtà, da decenni ci si continua a combattere per le risorse e soprattutto per la terra. L’enfasi sulla ‘guerra alla droga’ è stata incoraggiata dalla retorica per giustificare il Plan Colombia sponsorizzato dagli Stati Uniti. L’anno scorso, il governo statunitense ha approvato un pacchetto di aiuti del valore di 1,3 miliardi di dollari, come contributo a un piano originariamente proposto dal governo colombiano per lo sviluppo economico, sociale e istituzionale. Ma essendo il finanziamento statunitense per l’80% destinato alle forze armate, 8 il piano ha assunto la caratteristica di una campagna militare. Ben lungi dal mitigare l’impatto della guerra, il Plan Colombia sembra avere addirittura peggiorato la situazione. Questa è la conclusione emersa in un incontro dei rappresentanti delle principali chiese della Colombia e dei paesi vicini che si è tenuto a Panama dal 14 al 16 agosto di quest’anno. Il meeting è stato il primo tentativo fatto per sviluppare una risposta coordinata alla tragedia umanitaria provocata dalla guerra. L’iniziativa di convocare una riunione di tale portata è nata in seguito all’aver compreso che il conflitto colombiano va ben oltre i confini nazionali, sia per quanto riguarda le sue cause che le sue conseguenze. I partecipanti rappresentavano le organizzazioni che lavorano con le persone che vivono ai margini della società. L’incontro è il risultato di un’iniziativa congiunta del JRS, dei Catholic Relief Services (CRS) e dell’Ufficio per gli Af- fari Sociali della Conferenza dei Vescovi dell’America Latina (CELAM). Tre vescovi, due della Colombia e due panamensi, erano presenti assieme ai rappresentanti delle Caritas nazionali e della Conferenza statunitense dei Vescovi Cattolici. Il JRS era rappresentato dai direttori di Colombia, Panama, Perù, Ecuador, Venezuela, Bolivia e Stati Uniti. I partecipanti hanno ripercorso e analizzato le cause storiche nazionali e il contesto geopolitico del conflitto. Insieme ai partecipanti erano presenti ricercatori ed esperti della Colombia, che hanno fornito prove inconfutabili dell’effetto negativo del Plan Colombia. Hanno rivelato che l’assistenza data fino a ora ha avuto l’effetto di aumentare i profitti dei signori della droga. Ricardo Vargas, sociologo colombiano e ricercatore per il Transnational Instituto ha affermato: “uno degli effetti perversi di questa politica è l’automatico aumento del prezzo della coca dopo gli incenerimenti, che quindi incentiva AMERICA LATINA a riseminare le piante o a spostare la produzione in altre località.” Il piano ha prodotto sfollamento della popolazione a causa degli incenerimenti e della militarizzazione delle aree coinvolte. Secondo alcune testimonianze presentate durante l’incontro, il Plan Colombia finanziato dagli Stati Uniti è, nella migliore delle interpretazioni, una politica sbagliata. Nella peggiore, si può parlare di una politica che cerca di assicurare un più stretto controllo di una regione che ha rilevanza strategica ed economica. Nell’aprile del 2000, il Presidente George W. Bush ha annunciato un nuovo programma, l’Andean regional initiative (Iniziativa regionale andina). Presentata come un pacchetto di interventi più esteso del Plan Colombia, questa nuova iniziativa comprende aiuti economici e corsi di politica democratica. I vicini della Colombia sono stati questa volta inclusi; fondi sono stati impegnati per il Panama, il Brasile, il Venezuela e l’Ecuador. I critici affermano che questi cambiamenti al programma iniziale sono stati fatti per rendere gli interventi nella regione accettabili. Ma la strategia è stata fortemente criticata. Hugo Cabieses, un economista peruviano, ha detto al meeting che “nessuno di questi due strumenti è pacifico, giusto o efficace per i paesi andini”. nazionali. La Convenzione sullo Status di Rifugiato del 1951 e l’Accordo di Cartagena proibiscono assolutamente il rimpatrio forzato verso il paese da cui si è fuggiti. Venezuela e Panama agiscono contravvenendo palesemente a questi principi. Il Venezuela ha creato una categoria chiamata ‘persone in transito’. Panama si riferisce ai rifugiati che hanno attraversato il proprio confine come a ‘sfollati’ o ‘persone bisognose di protezione’. Preoccupa molto anche la mancanza di autorità e mandato delle organizzazioni intergovernative. In Colombia, l’UNHCR è stato sempre obbligato a un ruolo che al meglio può essere definito di ‘diplomazia pacata’. Nei paesi vicini, l’agenzia dell’ONU brilla per la propria assenza. In alcuni luoghi, la Chiesa si vede costretta a occuparsi della determinazione dello status di rifugiato, una funzione questa che certo non le spetterebbe. Ciò può poi distogliere la Chiesa dal suo ruolo di difesa dei diritti degli sfollati. Nel meeting è risultato chiarissimo che il conflitto costringe la Chiesa a impegnarsi nella sua missione profetica di difendere i poveri e gli oppressi. Ciò richiede una risposta coordinata. La assistenza d’emergenza deve andare di pari passo con azioni di pressione volte a incentivare il rispetto degli standard internazionali di protezione. Lo sviluppo sociale deve essere al centro di ogni soluzione; il progresso dovrà riguardare una distribuzione equa delle risorse economiche, e in particolare della terra, la promozione di una democrazia completa e la partecipazione politica e sociale di tutti i colombiani. Jenny Cafiso è la responsabile dei programmi e ha partecipato al meeting in rappresentanza del JRS Internazionale. Etichettare il conflitto come una guerra alla droga non rende giustizia alle sofferenze dellinnocente popolazione civile Oltre a cercare di identificare soluzioni di lungo periodo, il meeting di Panama si è interrogato sugli immediati bisogni delle vittime. La risposta dei governi e degli attori non governativi ha portato all’attenzione dei partecipanti questioni come la protezione, il rispetto dei trattati internazionali e l’interrogativo relativo a chi abbia il mandato per assistere gli sfollati interni. Tutti questi problemi richiedono una risposta rapida da parte della comunità religiosa. Una delle sfide più urgenti che sono state identificate è quella dell’assistenza materiale agli sfollati interni alla Colombia come pure nei paesi vicini. Un’altra consiste nella scarsa protezione di coloro che fuggono il conflitto e il mancato rispetto dei trattati interDICEMBRE 2001 9 Soweto, Sudafrica Combattere la xenofobia Rampe Hlobo SJ Maltrattamenti di rifugiati neri e richiedenti asilo, motivati da xenofobia razzista, sono diffuso in Sudafrica, stato che, recentemente, ha ospitato la Conferenza Mondiale contro il Razzismo. Rampe Hlobo SJ descrive la vastità del problema e le iniziative del JRS per combattere i pregiudizi. J ean è stato costretto a fuggire dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) nel 1999. Dopo essere scappato dal suo paese, l’uomo di 21 anni si è diretto in un primo momento in Zambia, dove è stato recluso per otto mesi perché non era in possesso di documenti. Dopo essere stato rilasciato, un camionista gli ha offerto un passaggio fino in Sudafrica, dove è stato di nuovo arrestato al momento dell’arrivo e detenuto per tre mesi. Quando Jean è stato rilasciato, ha tentato di registrarsi a Pretoria come richiedente asilo politico, ma un interprete corrotto gli ha negato l’opportunità chiedendogli una gran somma di denaro per lui introvabile. Così Jean è andato a Durban per poter fare richiesta di asilo. Dopo poco è tornato a vivere in un parco a Pretoria, dove è stato assalito da un gruppo di giovani sudafricani. Lo hanno derubato dei suoi vestiti e di tutto ciò che aveva, incluso il suo permesso. Poi hanno versato dell’acido su tutto il suo corpo. poteva rischiare di rimanere a Pretoria fino a quando non fosse completamente guarito dalle ferite. Ciò però significava rischiare di essere nuovamente arrestato e nuovamente messo in carcere poiché privo dei documenti. Il JRS ha aiutato Jean in modo che potesse ritornare a Durban per il rilascio di un nuovo permesso. Jean è stato assalito perché non è sudafricano e perché parla una lingua straniera. Dopo quanto accaduto Jean non Il Sudafrica dovrebbe accogliere i richiedenti asilo per non venir meno ai suoi obblighi internazionali: nel 1996, lo stato 10 Jean non è stato il solo a dover affrontare tali prove. La sua storia è un indicatore della xenofobia razzista diffusa in Sudafrica. In un paese con una economia incerta e con un tasso di disoccupazione pari al 40%, persone nere che provengono da altre parti dell’Africa, inclusi i rifugiati, diventano i capri espiatori per i malesseri dello Stato. Fin dal 1990, i rifugiati provenienti da paesi africani in difficoltà, o da altrove, sono arrivati in Sudafrica in cerca di un posto sicuro. Le guerre senza fine hanno incrementato, negli anni, il numero dei rifugiati. SUDAFRICA ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, il Protocollo del 1967 e la Convenzione del 1969 dell’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana). Nel 1998, il governo ha promulgato la Legge sui Rifugiati, così da trascrivere i propri obblighi internazionali nel diritto interno ma, nonostante la legislazione, numerosi abusi e una crescente xenofobia, sia a livello individuale che istituzionale, accolgono i rifugiati che giungono in Sudafrica. Il JRS ha ricevuto più di un resoconto di richiedenti asilo a cui era stato versato dell’acido addosso perché accusati di essere stranieri che portavano via il lavoro ai sudafricani. In altri assalti, uomini senegalesi e sudanesi sono stati spinti fuori da treni in corsa nella tratta Johannesburg - Pretoria. Data la xenofobia e il razzismo dilagante, è stato a dir poco deludente che, nella tanto pubblicizzata Conferenza Mondiale contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e l’Intolleranza (WCAR), il problema non abbia ricevuto la dovuta attenzione. La Conferenza si è tenuta in Sudafrica nel mese di settembre. Era improbabile una qualsiasi azione concreta a favore dei rifugiati, considerando che il punto riguardante i diritti dei rifugiati era stato eliminato dall’agenda proprio alla vigilia della Conferenza. Così, è già un risultato che alcuni paragrafi relativi al sostegno e alla protezione dei rifugiati siano stati inseriti nel programma d’azione finale, benché la formulazione non sia forte e vincolante come si sperava. La Conferenza ha chiesto che gli Stati riconoscano che i rifugiati potrebbero essere vittime di episodi di razzismo e xenofobia nel paese ospitante, e li ha incoraggiati sia a ridurre la discriminazione sia ad assicurare il rispetto dei diritti dei rifugiati. Un altro punto del programma ha fatto appello agli Stati affinché denuncino attivamente la diffusione di messaggi razzisti e xenofobi a opera dei mass media. La polizia è spesso il peggiore perpetratore di violenze, maltrattamenti e violazioni dei diritti umani dei rifugiati. L’arresto dei rifugiati, che siano o meno in possesso di validi permessi, è frequente. A marzo di quest’anno è scoppiato uno scandalo giornalistico, quando un’insegnante sudafricana è stata arrestata e maltrattata dai funzionari di polizia, perché sospettata di essere un’immigrata illegale a causa della sua pelle scura e del suo modo di vestire. Sebbene Sylvia Manda, Nonostante le battute d’arresto, la Conferenza ha portato alla 33 anni, avesse insistito nel dire che era sudafricana, i poli- luce ingiustizie e nuove violazioni di diritti umani nel mondo. ziotti le dissero che “carnagione, In definitiva la questione non è se fisionomia, accento e modo di vesla Conferenza sia stata o no un suctire” avevano fatto nascere in loro cesso, ma l’impatto che essa avrà Cerchiamo di smantellare gli il sospetto che fosse una immigrasulle vite degli individui, vittime di stereotipi e lignoranza su cui si ta illegale. Secondo alcune fonti, razzismo in tutto il mondo. Manda è stata percossa e detebasa la xenofobia... crediamo nuta per molte ore. Insieme ad altre ONG (organizche il nostro piccolo contributo zazioni non governative), il JRS parlare costantemente dei In un altro caso simile, la polizia ha messo in luce la xenofobia rifugiati e difendere i loro diritti ha detenuto una famiglia di nove presente in Sudafrica durante il possa fare una grande differenza. orfani angolani, di età compresa Forum delle ONG che ha precetra due e 14 anni, che erano sotto duto la WCAR. Abbiamo allestito la tutela delle autorità del servizio uno stand per mostrare materiale sociale per i minori di Johannesburg e del JRS. La polizia informativo e poster, e abbiamo parlato dei rifugiati, specialnon si è presa la briga di chiedere loro i documenti; ha mente di quelli che sono stati vittime di razzismo. dichiarato che stava agendo a seguito di una segnalazione di una donna sudafricana che sospettava che i bambini Sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà affrontata dai fossero immigrati illegali. rifugiati e dai richiedenti asilo è parte del nostro lavoro quotidiano, mentre cerchiamo di smantellare gli stereotipi e l’ignoranza Altri dipartimenti del governo attuano discriminazioni nei su cui si basa la xenofobia. A questo scopo, il JRS è presente confronti di rifugiati e immigrati. I servizi sociali e alcuni in molte interviste radiofoniche, sui giornali e in dibattiti teleservizi sanitari hanno fatto in modo da risultare inaccessibili visivi. Abbiamo anche iniziato ad andare nelle scuole, parlando ai rifugiati. Alcuni minori non accompagnati si vedono agli studenti delle condizioni dei rifugiati. Le cose cambiano: rifiutata l’entrata nei centri di accoglienza per i bambini solo possiamo testimoniare che sempre più persone chiedono di perché non sono sudafricani. In alcuni ospedali, il JRS è lavorare con i rifugiati come volontari. Crediamo che il nostro dovuto intervenire a favore dei rifugiati affinché ricevessero piccolo contributo – parlare costantemente dei rifugiati e difencure mediche. I mass media non aiutano. La trattazione dere i loro diritti – possa fare una grande differenza. delle notizie tende a mettere in cattiva luce i rifugiati, o a essere sensazionalistica. L’uso di parole come “invasione” o “afflusso massiccio” di rifugiati hanno incrementato la Rampe Hlobo SJ è il responsabile delle xenofobia e la falsa convinzione che ci siano milioni di rifugiati politiche del JRS in Johannesburg in Sudafrica. In realtà, ce ne sono poco meno di 70.000. DICEMBRE 2001 11 Europa: pubblicazione del JRS sui migranti irregolari C ’è un proverbio dei Quaccheri che dice: Lasceremo parlare le loro vite. Una nuova pubblicazione del JRS, prodotta in collaborazione con altre sei associazioni, cerca di fare giustizia per quegli uomini e quelle donne che vivono in Europa con uno status giuridico irregolare. Con le loro parole, Stavros, Remy, Yuriy, Ali, Maryam e altri raccontano la loro esperienza. Pensato per un vasto pubblico, il libricino nasce dalle conclusioni della ricerca, durata tre anni, sulla situazione dei migranti irregolari condotta in Gran Bretagna, Germania e Spagna e commissionata dal JRS. La questione delle migrazioni irregolari è spesso presentata come un problema “astratto” per il quale vengono proposte soluzioni non realistiche. Questa pubblicazione cerca di indagare sul fenomeno, guardando all’impatto sulle vite reali, per esplorare eventuali possibilità di cambiamento che consentano di comprendere il valore di ogni essere umano indipendentemente dai documenti che possiede. Copie del libro sono disponibili richiedendole al JRS Europa. indirizzo: Haachtsesteenweg 8 B-1210 Brussels, Belgio e-mail: [email protected] SOSTIENI IL NOSTRO LAVORO CON I RIFUGIATI Il vostro continuo sostegno rende possibile per noi laiuto ai rifugiati e richiedenti asilo in più di 50 nazioni. Se desideri fare una donazione, compila per cortesia il tagliando e spediscilo allufficio internazionale del JRS. Grazie per laiuto. (Si prega di intestare gli assegni allordine del Jesuit Refugee Service) Desidero sostenere il lavoro del JRS Ammontare della donazione Allego un assegno Cognome: Nome: Indirizzo: Città: Codice postale: Servir è pubblicato dal Jesuit Refugee Service, creato da P. Pedro Arrupe SJ nel 1980. Il JRS, unorganizzazione cattolica internazionale, accompagna, serve e difende la causa dei rifugiati e degli sfollati. Direttore: Francesco De Luccia SJ Direttore Responsabile: Vittoria Prisciandaro Produzione: Stefano Maero Servir è disponibile gratuitamente in inglese, spagnolo, italiano e francese. e-mail: [email protected] indirizzo: Jesuit Refugee Service C.P. 6139 00195 Roma Prati ITALIA fax: +39 06 687 9283 Dispatches, un bollettino quindicinale via e-mail che raccoglie notizie sui progetti del JRS nel mondo, riflessioni spirituali e informazioni sulle possibilità di lavoro allinterno del JRS, è disponibile gratuitamente in inglese, spagnolo, italiano e francese. e-mail: [email protected] Foto di copertina: Sarajevo, Bosnia; Mark Raper SJ/JRS Foto di: HAWCA/Humanitarian Assistance of Women and Children of Afghanistan Pakistan (pp. 2 e 3); Fitzroy Hepkins (p. 4 a sinistra); Elizabeth Eagen (p. 4 a destra); Francesca Campolongo/JRS (p. 5); Oihana Irigaray/JRS (pp. 6-7); Jenny Cafiso/JRS (pp. 8, 9 e 10); Elena Marioni/JRS (p. 12 in alto, copertina di Voices from the Shadows); Mark Raper SJ/JRS (p. 12 in basso). Nazione: Telefono: Fax: Email: Per trasferimenti bancari al JRS Internazionale a Roma Banca: Nome del conto: Beneficiario: Numero dei conti: 12 Istituto per le Opere di Religione (IOR), Città del Vaticano GISA Jesuit Refugee Service per dollari statunitensi: 27212-007 per valute europee: 27212-035 per altre valute: 27212-001 (LIT) www.jesref.org