DALLA LETTERATURA lo-facciali. Lo scopo dello studio era di determinare l’incidenza dell’arresto cardiaco durante l’intervento operatorio e nelle prime 12 ore successive, esaminarne le cause e suggerire nuove misure per prevenirlo. Nel periodo indagato, sono stati identificati 24 arresti cardiaci, 13 dei quali non correlabili ad anestesia. Tra gli 11 arresti correlati ad anestesia, 6 sono risultati mortali, con un’incidenza di arresto cardiaco di 1,1 per 10.000 anestesie e di mortalità di 0,6 per 10.000 anestesie. Più a rischio sono apparsi i pazienti con stato fisico ASA di 3-4, con un’incidenza di 7,8 arresti per 10.000 anestesie e 4,9 decessi per 10.000 anestesie. L’arresto cardiaco è stato attribuito a dose eccessiva di anestetico (4 pazienti, di cui 3 durante anestesia spinale, due eseguite in anziani), ipovolemia (2 casi), ipossemia conseguente a difficile gestione delle vie aeree (2 casi), cattivo funzionamento del pacemaker (1 caso). In 2 pazienti non è stato possibile individuare la causa esatta dell’arresto cardiaco, anche se probabilmente si è trattato, in un caso, di iperdosaggio dell’anestetico e, nell’altro, di ipovolemia. Almeno un errore umano è stato riscontrato in 10 degli 11 arresti cardiaci. Una stima non adeguata del rischio nella fase pre-operatoria è stata evidenziata in 7 casi su 11: in 4 casi non sono state verificate le patologie dei pazienti, in 2 è stata sottostimata la difficoltà di gestione delle vie aeree, in un paziente obeso è stata probabilmente ignorata una tromboflebite. Errori o valutazioni erronee durante l’intervento sono state identificate in 10 arresti su 11: inadeguato apporto di liquidi (7 casi), iperdosaggio di anestetico (4 casi), continuazione della procedura chirurgica nonostante uno stato emodinamico instabile (3 casi), errore nella scelta della tecnica di gestione delle vie aeree (2 casi), inserimento di cemento metilmetacrilato in paziente ipovolemico (2 casi), mobilizzazione di un paziente ipovolemico (1 caso), inadeguata prevenzione di ipotermia (1 caso). L’associazione tra non adeguata stima del rischio nella fase pre-operatoria ed errori in corso di procedura chirurgica è stata notata in 7 arresti cardiaci su 11. Secondo gli autori, quanto è emerso dall’indagine suggerisce alcune semplici misure che possono migliorare la sicurezza dell’anestesia. Tra esse, la necessità di: - migliorare la valutazione preoperatoria delle condizioni cliniche del paziente; - titolare specificamente il dosaggio d’induzione dell’anestesia in tutti i pazienti con stato fisico ASA di 3-4; - tenersi pronti ad una intubazione tracheale difficile e, se necessario, utilizzare tecniche di intubazione tracheale vigili. ▲ Quale dovrebbe essere la durata di una terapia anticoagulante orale in pazienti con trombosi venosa profonda idiopatica? Uno studio eseguito da ricercatori italiani Three months versus one year of oral anticoagulant therapy for idiopathic deep venous thrombosis. Agnelli G et al. N Engl J Med 2001;345:165-9. È noto che in pazienti con trombosi venosa profonda idiopatica, prolungando la durata della terapia anticoagulante oltre tre mesi si riduce, durante il tempo della terapia, l’incidenza di recidive. Ma è controversa l’eventualità che questo beneficio terapeutico si protragga anche dopo la sospensione della terapia. Lo studio qui presentato ha lo scopo di rispondere a questa domanda. Sono stati inclusi in esso 267 pazienti con un primo episodio di trombosi venosa profonda prossimale idiopatica, tutti trattati con warfarin per tre mesi (target INR compreso tra 2 e 3). Alla fine dei tre mesi di warfarin, i pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: 133 pazienti sospendevano il trattamento, BIF Lug-Ott 2001 - N. 4-5 134 lo proseguivano per altri nove mesi (e dunque, per una durata totale di un anno). L’end point primario dello studio era costituito dalla recidiva di tromboembolia venosa sintomatica, oggettivamente confermata, durante un follow up della durata di almeno due anni. I dati sono analizzati e qui riportati secondo il criterio intention-to-treat. Nei nove mesi successivi alla randomizzazione, l’incidenza di nuovi episodi di trombosi venosa era minore nel gruppo randomizzato a continuare il trattamento con warfarin (gruppo A) rispetto a quello in cui il warfarin era stato sospeso (gruppo B): rispettivamente, 4,6 per cento pazienti/anno e 12,3 per cento pazienti/anno; 177 DALLA LETTERATURA rischio relativo 0,36 e IC 95%: 0,12∏1,11. Da notare che il trattamento era stato in realtà sospeso in 3 su 4 dei pazienti che ebbero una trombosi venosa fra quelli randomizzati a seguitare il warfarin. Secondo il protocollo, nei due gruppi in trial il follow up fu seguitato dopo il 9° mese dalla randomizzazione (e dopo 1 anno dalla trombosi venosa originaria); durante quest’ultima parte del follow up, i pazienti di entrambi i gruppi non erano trattati con warfarin. L’incidenza di nuove trombosi venose durante l’intero periodo non coperto con warfarin (29,4 mesi nel gruppo A; 37,4 mesi nel gruppo B) fu uguale: 5,0 per cento pazienti/anno nel gruppo A e 5,1 per cento pazienti/anno nel gruppo B. Come mostra il grafico presentato nell’articolo (Figura 1), durante l’intera durata dello studio le recidive di trombosi venosa si manifestarono quasi esclusivamente nel periodo non coperto dal trattamento con warfarin, che aveva avuto inizio subito dopo la randomizzazione nel gruppo B e 9 mesi dopo la randomizzazione nel gruppo A. Ma l’incidenza globale di trombosi venosa stimata durante l’intera durata dello studio fu uguale, dimostrando che il prolungamento del warfarin oltre il 3° mese ritarda l’incidenza di nuove trombosi venose, ma – se si protrae l’osservazione per un tempo sufficiente dopo la sospensione del trattamento – globalmente non la riduce. Inoltre, le emorragie maggiori (nessuna fatale) erano il doppio nei pazienti del gruppo A (3,0%) rispetto a quelle nel gruppo B (1,5%). Nella discussione, gli Autori dello studio osservano che oltre la metà delle nuove trombosi venose dopo sospensione del warfarin si verificavano nell’arto controlaterale a quello della trombosi iniziale, suggerendo una preminente importanza di fattori di ipercoagulabiltà rispetto a cause locali; e prospettano l’ipotesi che l’identificazione di tali fattori potrebbe selezionare pazienti in cui esaminare il rapporto beneficio/rischio di una terapia anticoagulante a tempo indefinito, eventualmente a basso dosaggio. ▲ Figura 1. Rischio cumulativo di recidive di tromboembolia venosa nei pazienti dei gruppi A e B Rischio cumulativo di recidive 0,30 0,25 0,20 Pazienti del gruppo che sospendeva la terapia (B) 0,15 0,10 Pazienti del gruppo che proseguiva la terapia (A) 0,05 0,00 0 3 6 9 12 15 18 21 24 27 30 33 36 Mesi 178 BIF Lug-Ott 2001 - N. 4-5