2 LA FORMAZIONE DELLE IMMAGINI 2.1 Generalità e definizioni Nel capitolo precedente abbiamo stabilito le tre leggi fondamentali che governano, in prima approssimazione 1 , la propagazione della luce nei mezzi omogenei ed isotropi: propagazione rettilinea, leggi della riflessione, leggi della rifrazione. In questo capitolo ci proponiamo di farne un’applicazione, di grande importanza pratica, alla teoria dei sistemi e degli strumenti ottici. Gli strumenti ottici sono ottenuti combinando fra loro in modo opportuno sistemi ottici più semplici ed hanno lo scopo di produrre immagini degli oggetti che interessano tali da avere posizione e dimensioni convenienti per essere agevolmente osservate con l’occhio o registrate su appositi supporti (emulsioni fotografiche, rivelatori panoramici elettronici [CCD, CID e simili], ecc.). In un primo tempo tratteremo i sistemi ottici semplici (diottri, specchi, lenti sottili), estendendo poi le nostre considerazioni ai sistemi e agli strumenti ottici più complessi. Si chiama sistema ottico una successione di superfici rifrangenti (cioè di superfici di separazione tra mezzi trasparenti diversi) e di superfici riflettenti di forma qualsiasi. In particolare se le superfici caratteristiche del sistema agiscono solo per rifrazione il sistema si dice diottrico, mentre si dice catottrico se agiscono solo per riflessione. Un sistema ottico si dice centrato se tutte le sue superfici sono superfici di rivoluzione attorno ad un unico asse, detto asse ottico del sistema. Nella maggior parte dei casi di importanza pratica le superfici riflettenti e rifrangenti di un sistema ottico sono sferiche o piane. Oltre all’ovvia facilità di lavorazione di tali superfici risulta, in questi casi, più semplice la schematizzazione fisica e la trattazione analitica. Consideriamo un fascio di raggi luminosi omocentrico, cioè tale che tutti i raggi si incontrano in un punto P , incidente sul sistema ottico: P si chiama punto oggetto rispetto al sistema ottico, e precisamente oggetto reale se da esso divergono i raggi incidenti sul sistema, oggetto virtuale se è il punto d’incontro non dei raggi ma dei loro prolungamenti. Se il corrispondente fascio emergente dal sistema ottico è pure omocentrico ed ha il centro in un punto Q, il sistema si dice stigmatico ed il punto Q si chiama immagine del punto P . Anche qui si parlerà di immagine reale o virtuale a seconda che in Q si incontrino effettivamente i raggi luminosi oppure i loro prolungamenti, cioè a seconda che il fascio emergente converga in Q, per modo che in Q si ha una concentrazione di energia luminosa, o appaia divergere da Q. La distinzione fra immagine reale e virtuale è importante perché evidentemente soltanto un’immagine reale può essere raccolta su uno schermo o su un opportuno rivelatore. L’immagine (reale o virtuale) fornita da un sistema ottico può ovviamente servire come oggetto (reale o virtuale) per un secondo sistema ottico. Il principio di reversibilità, valido per ciascuna delle successive riflessioni e rifrazioni subite dai raggi luminosi, vale evidentemente anche per il sistema ottico nel suo complesso: se sul sistema ottico incide un fascio omocentrico in Q il fascio emergente è omocentrico in P , cioè P è l’immagine del punto oggetto Q. Per esprimere la biunivocità della corrispondenza tra P e Q si dice che P e Q sono una coppia di punti coniugati rispetto al sistema ottico. 1 cioè prescindendo dai fenomeni di interferenza e diffrazione 22 Il sistema ottico è generalmente stigmatico quando di ogni sorgente puntiforme P fornisce un’immagine puntiforme Q. Si ha, conseguentemente, che un sistema generalmente stigmatico fornisce di ogni punto di una figura luminosa ψ la sua immagine; l’insieme di questi puntiimmagine forma una figura ψ ′ che dicesi immagine o coniugata di ψ. Un sistema si dice ortoscopico per una coppia di piani π e π ′ se ad ogni figura ψ giacente sul piano π fa corrispondere un’immagine ψ ′ simile a ψ e giacente sul piano π ′ ; π e π ′ sono piani coniugati. Se A, B e A ′ , B ′ sono due coppie di punti coniugati appartenenti ai piani π e π ′ rispettivamente, si ha A ′B ′ = I = cost AB cioè il rapporto tra le distanze A ′ B ′ e AB è costante per qualunque coppia di punti coniugati di piani π e π ′ . I è il rapporto di similitudine dell’immagine all’oggetto e dicesi ingrandimento lineare di ψ ′ rispetto a ψ relativo alla coppia di piani coniugati π e π ′ . Siccome la rifrazione è accompagnata da dispersione cromatica, se il sistema ottico comprende una o più superfici rifrangenti esso formerà in generale di un punto tante immagini distinte quante sono le componenti monocromatiche del fascio luminoso incidente (aberrazione cromatica). Mediante opportune tecniche di progettazione è possibile far coincidere (entro scarti assegnati) diverse immagini monocromatiche corrispondenti ad intervalli cromatici determinati; in questo caso il sistema si dice acromatico. 2.2 Diottro piano Vogliamo innanzitutto occuparci dei sistemi costituiti da mezzi trasparenti separati da superfici rifrangenti, cioè dei sistemi diottrici. Osserviamo ancora una volta che, siccome il fenomeno della rifrazione è accompagnato da dispersione cromatica, dovremo ragionare sempre su fasci e raggi luminosi monocromatici. I sistemi diottrici più semplici sono evidentemente quelli costituiti da due mezzi trasparenti separati da un’unica superficie rifrangente; essi prendono il nome di diottri e il loro studio ha una particolare importanza in quanto i sistemi diottrici complessi e molti strumenti ottici si possono considerare come costituiti da vari diottri successivi. Incomincereremo pertanto a studiare, dal punto di vista della formazione delle immagini, le proprietà dei diottri, considerando per primo il diottro piano (una superficie rifrangente piana), cioè il caso più semplice. Sia π il piano rifrangente e P una sorgente puntiforme situata nel mezzo 1 (Fig.16); sia n12 = n2 /n1 , con n1 > n2 , l’indice di rifrazione del mezzo 2 rispetto al mezzo 1. Ci proponiamo di vedere se esiste l’immagine di P rispetto al diottro. La perpendicolare P V a π passante per P è asse di simmetria del problema e i risultati ottenuti sul piano della figura valgono per ogni piano passante per tale asse. Per individuare la posizione dei vari punti dello spazio rispetto al diottro conviene riferirsi a due sistemi di coordinate cartesiane ortogonali. Precisamente, uniformandosi ad una convenzione generalmente adottata, riferiamo i punti dello spazio a due sistemi di coordinate (x, y) e (x ′ , y ′ ) diversi, aventi origine comune nel punto V intersezione dell’asse di simmetria P V con la superficie rifrangente π ed orientati come in figura. Al primo sistema di coordinate (V xy) riferiamo i punti dello spazio considerati come oggetti di 23 Figura 16: Figura 17: cui il diottro produce un’immagine; al secondo sistema di coordinate (V x ′ y ′ ) riferiamo i punti dello spazio delle immagini di determinati punti oggetto. La posizione di P (nel piano di figura) sarà individuata da qualunque coppia di raggi luminosi emessi da P e che investono il diottro considerato. Se questi due raggi luminosi sono fatti successivamente convergere in un punto P ′ , questo rappresenterà l’immagine di P fornita dal diottro. Volendo studiare il comportamento fisico del diottro, non sarà quindi necessario “seguire” il percorso degli infiniti raggi luminosi emessi da P ma basterà “seguirne” due soli. Sceglieremo ovviamente la coppia di raggi luminosi di cui saremo in grado di seguire facilmente il percorso. È ovvio scegliere il raggio luminoso che da P si propaga ortogonalmente a π poiché non viene deviato nel passaggio nel mezzo 2. Questo significa che l’immagine di P si formerà sull’asse P V del diottro. Consideriamo poi un secondo raggio luminoso P A formante un angolo i1 con l’asse; esso viene rifratto in A secondo le leggi di Cartesio-Snell e prosegue il suo cammino nel mezzo 2 in una direzione che forma con la normale a π un angolo i2 tale che sen i1 /sen i2 = n12 (< 1). Sia P ′ l’intersezione del prolungamento del raggio rifratto con l’asse; dalla figura si ricava V A = P V tg i1 = P ′ V tg i2 ossia, indicando con p e p ′ le ascisse dei punti P e P −p ′ sen i1 cos i2 = n12 = p sen i2 cos i1 rispetto ai due assi orientati s 1 − sen2 i2 cos i2 = n12 cos i1 1 − sen2 i1 ′ Ricordando che sen i2 = (1/n12 ) sen i1 si ottiene in definitiva s n212 − sen2 i1 p ′ = −p 1 − sen2 i1 da cui si ricava che la posizione del punto P ′ dipende, fermo restando P , dall’angolo che il raggio che si considera forma con l’asse. Il sistema è dunque generalmente astigmatico, a meno che 24 non ci si limiti a considerare raggi poco inclinati sull’asse (parassiali) in modo che il termine sen2 i1 sia trascurabile rispetto al minore fra i valori 1 e n212 (al limite della precisione richiesta dallo studio del problema considerato). In tal caso si ha infatti p ′ = −n12 p, indipendentemente da i1 . L’immagine è virtuale; si riconosce inoltre facilmente, se si considera un oggetto esteso, che il sistema è ortoscopico e forma immagini diritte, con ingrandimento unitario. Il sistema è inoltre cromatico. Se il secondo mezzo è meno rifrangente del primo (n12 ≤ 1) come nel caso della figura (ed è sempre sen i1 ≤ n12 , altrimenti si ha riflessione totale e il raggio rifratto manca), l’immagine è più vicina dell’oggetto alla superficie rifrangente. Ad un osservatore situato nel mezzo 2 l’oggetto appare più vicino di quanto non sia. Se si considera il fascio luminoso delimitato da raggi 1 e 2 di Fig.17 e procedente obliquamente rispetto al piano π, esso, dopo la rifrazione appare approssimativamente divergente da un punto P ′′′ la cui posizione è sempre più vicina di P al piano π e varia al variare dell’inclinazione del fascio (e quindi al variare sia di P che della posizione dell’osservatore). Si spiega cosı̀ la ben nota esperienza elementare del bastone immerso in acqua (AP in Fig.17) che appare spezzato secondo ABP ′′′ . 2.3 Lamina a facce piane e parallele Nel capitolo I abbiamo già studiato le proprietà delle lamine rifrangenti a facce piane e parallele. Dal punto di vista della formazione delle immagini si dimostra, in modo analogo al caso del diottro piano, che anche questo sistema è generalmente astigmatico, mentre è stigmatico ed ortoscopico per fasci di piccola apertura. In questo caso il sistema dà immagini virtuali, diritte e con ingrandimento unitario. Con riferimento alla Fig.18, consideriamo una sorgente puntiforme P posta in un mezzo di indice di rifrazione assoluto n1 , in cui è immersa una lastra a facce piano-parallele di spessore d ed indice di rifrazione n2 > n1 . L’asse P OO ′, ortogonale alla superficie della lastra e passante per la sorgente P considerata, è l’asse ottico del sistema. Ripetendo il ragionamento fatto nel caso del diottro piano, il raggio che si propaga lungo l’asse P OO ′ non subirà deviazioni. Questo significa che l’immagine di P si troverà sull’asse P OO ′. Prendiamo un secondo raggio P A che si propaga entro la lastra lungo AB, ovvero con angoli i1 e i2 tali da rispettare la legge della rifrazione. Il raggio Figura 18: luminoso AB viene poi nuovamente rifratto nel passaggio dal mezzo 2 al mezzo 1, ottenendo quindi un raggio luminoso BC parallelo a P A. Il prolungamento del raggio BC interseca l’asse in P ′ individuando cosı̀ 25 l’immagine virtuale di P . Per individuare le posizioni della sorgente e della sua immagine potremmo utilizzare gli assi di riferimento (x, y) e (x ′ , y ′ ) con origini in O ed O ′ . Se con s indichiamo lo spostamento laterale del raggio luminoso, avremo che P P ′ = s/sen i1 . Ricordando la (6) del par.1.5 si ottiene quindi " # √ 2i 1 − sen 1 PP′ = d 1 − p n212 − sen2 i1 Il sistema è quindi generalmente astigmatico in quanto avremo tante ascisse del punto immagine p′ quanti saranno gli angoli di incidenza i1 sulla faccia della lastra, cioè ∞. Esso è anche cromatico poiché n12 dipende dal “colore” dei raggi luminosi utilizzati. Se utilizziamo raggi luminosi parassiali l’avvicinamento P P ′ del punto immagine alla lastra rispetto a P è dato da 1 PP′ ≃ d 1 − n12 e quindi il sistema diventa stigmatico, pur rimanendo cromatico. Si può infine dimostrare, analogamente al caso del diottro piano, che l’ingrandimento lineare nel caso di sorgenti non puntiformi è pari a -1. 2.4 Prisma Si chiama prisma una porzione di materia trasparente di indice di rifrazione n12 rispetto al mezzo in cui è immerso, limitata da due superfici piane non parallele; l’angolo diedro compreso tra le due superfici si chiama angolo rifrangente del prisma. In Fig.19 ne è rappresentata una sezione normale. Ci proponiamo di valutare l’angolo di deviazione δ di cui viene deviato il raggio P B incidente sul prisma e di vedere come varia δ al variare dell’angolo di incidenza. Dall’esame del triangolo BCE (Fig.19) risulta δ = (i − r) + (i ′ − r ′ ) = i + i ′ − (r + r ′ ) D’altra parte dal triangolo ABC si ha, indicando con α l’angolo rifrangente del prisma α+( π π − r) + ( − r ′ ) = π 2 2 cioè α=r+r Figura 19: ′ Dunque δ = i + i ′ − (r + r ′ ) = i + i ′ − α (12) Si osservi che l’angolo r è certamente minore dell’angolo limite l caratteristico della sostanza di cui è costituito il prisma e che r ′ deve essere anch’esso minore di l se si vuole che il raggio 26 emerga dal prisma e non venga riflesso totalmente sulla seconda faccia. Per l’esistenza del raggio emergente l’angolo α deve dunque soddisfare alla condizione α =r+r ′ ≤2 l A parità di angolo di incidenza, l’angolo di deviazione δ è, come appare evidente dalla costruzione fatta, indipendente dalla posizione del punto di incidenza del raggio sul prisma, cioè un fascio di raggi (monocromatici) paralleli dà luogo ad un fascio di raggi paralleli, benché gli spessori del prisma attraversati dai diversi raggi siano diversi: il prisma è quindi stigmatico per i punti all’infinito (e solo per essi). Vogliamo ora far vedere che l’angolo di deviazione, che dipende dall’angolo di incidenza, presenta un minimo per un determinato valore di questo. La determinazione della condizione di deviazione minima è importante sia perché su di essa è fondato un semplice metodo di misura dell’indice di rifrazione del prisma, sia perché solo in condizioni di deviazione minima sono verificate le condizioni di ortoscopia. Occorrerà far vedere che esiste un valore di i per cui dδ/di = 0. A tale scopo differenziamo l’equazione (12); essendo α costante, si ottiene dδ = di + di ′ (13) Per eliminare di ′ differenziamo le equazioni relative alle rifrazioni sulle due facce del prisma sen i = n12 sen r ; sen r ′ = 1 sen i n12 ′ (14) nonché la relazione r + r ′ = α. Si ottiene cos i di = n12 cos r dr; cos r ′ dr ′ = 1 cos i ′ di ′ ; n12 dr ′ = −dr Esprimendo successivamente di ′ mediante dr e dr mediante di si ottiene l’espressione ′ di = n12 cos r ′ cos r ′ cos i cos r ′ ′ dr = −n12 dr = − di cos i ′ cos i ′ cos r cos i ′ Sostituendo nella (13) si ottiene cos i cos r ′ dδ =1− di cos r cos i ′ Affinché sia dδ/di = 0 occorre che sia soddisfatta la condizione cos r cos i ′ = cos i cos r ′ che, esprimendo i coseni mediante i seni, e ricordando le (14), diventa, dopo aver elevato a quadrato ambo i membri, (n212 − sen2 i) (1 − sen2 i ′ ) = (1 − sen2 i) (n212 − sen2 i ′ ) (1 − n212 ) sen2 i = (1 − n212 ) sen2 i ′ 27 Figura 20: Essendo per ipotesi n12 6= 1, deve dunque essere sen i = sen i ′ , cioè i = i ′ e quindi anche r = r ′ . L’angolo di deviazione minima, che indicheremo con δm , si ottiene dunque (cfr. Fig.19) quando il triangolo ABC è isoscele, ossia quando il percorso del raggio è simmetrico rispetto alla bisettrice dell’angolo rifrangente. Il segno della derivata seconda d2 δ/di2 (oppure l’esperienza diretta di laboratorio) mostra che si tratta effettivamente di un minimo della funzione δ(i). In Fig.20 è mostrato l’andamento di δ(i) per un prisma con α = 60◦ e per tre diversi valori di n12 . Facciamo notare la “delicatezza” di una determinazione precisa di δm . In condizioni di deviazione minima si ha dunque δm = 2 i − α, 2r=α Da queste due relazioni si possono ricavare i ed r in funzione dei due angoli δm ed α, comodamente misurabili (la misura di δm va naturalmente fatta in luce monocromatica) e mediante essi si determina l’indice di rifrazione del prisma n12 2.5 sen δm2+α sen i = = sen r sen α2 (15) Diottro sferico ⌢ Sia MM ′ una calotta sferica rifrangente, di raggio r e centro di curvatura C, che separa due mezzi di indice di rifrazione n1 e n2 , con n2 > n1 (Fig.21). Poniamo una sorgente puntiforme P nel mezzo 1; la retta P C si chiama asse ottico del diottro ed intercetta la superficie del diottro nel vertice V . Analogamente a quanto è stato fatto per il diottro piano, anche in questo caso riferiamo le posizioni dei vari punti dello spazio a due sistemi di coordinate cartesiane ortogonali aventi 28 Figura 21: l’origine comune nel punto V ed orientati come in figura. Assumiamo inoltre il raggio di curvatura della superficie di separazione tra i due mezzi come positivo o negativo a seconda che il diottro volga la sua convessità (r ≥ 0) o la sua concavità (r ≤ 0) al fascio incidente, cioè a seconda che il centro di curvatura, considerato come punto immagine, abbia ascissa positiva o negativa rispettivamente. Sia p l’ascissa della sorgente puntiforme P nel sistema di riferimento considerato; esaminiamo se esiste un’immagine di P , cioè se il diottro trasforma un fascio di raggi omocentrico in P in un fascio di raggi pure omocentrico. Come conseguenza della simmetria per rotazione del diottro sferico rispetto all’asse ottico P V C, in ognuno degli infiniti piani con asse P V C una sorgente puntiforme è individuata da una qualunque coppia di raggi luminosi uscenti dalla sorgente. Il raggio uscente da P nella direzione dell’asse ottico incide normalmente sulla superficie rifrangente e penetra nel secondo mezzo senza essere deviato. Quindi l’immagine di P si trova sull’asse ottico del diottro. Consideriamo poi un secondo raggio che incide sulla superficie rifrangente in A; sia P ′ il punto di intersezione del corrispondente raggio rifratto con l’asse ottico. Applicando il teorema dei seni ai due triangoli P AC e CAP ′ ed osservando che l’angolo di incidenza i1 è supplementare dell’angolo P ÂC (e quindi sen P ÂC = sen i1 ) otteniamo sen i1 sen P ĈA = ; PC PA sen i2 sen AĈP = ′ CP AP ′ ′ (16) Ma gli angoli P ĈA = α e AĈP ′ sono supplementari e quindi sen P ĈA = sen AĈP ′ . Dividendo membro a membro le (16) si ottiene perciò CP ′ AP ′ sen i1 · = sen i2 PC PA (17) Notiamo che n2 sen i1 = sen i2 n1 e CP ′ p ′−r = PC p+r 29 (18) Applicando il teorema di Carnot al triangolo AP ′ C risulta q ′ AP = CP ′ 2 + AC 2 − 2 CP ′ · AC cos AĈP ′ = √ = CP ′ 2 + AC 2 + 2 CP ′ · AC cos α = p = (p ′ − r)2 + r 2 + 2 (p ′ − r) r cos α e similmente, al triangolo AP C √ AP = CP 2 + AC 2 − 2 CP · AC cos α = p = (p + r)2 + r 2 − 2 (p + r) r cos α (19) (20) Sostituendo queste espressioni (18), (19) e (20) nella (17) si ottiene una relazione in cui compare esplicitamente l’angolo α; ciò significa che, dato P , il punto immagine P ′ non è univocamente determinato: a seconda del raggio incidente che si considera (e quindi a seconda del punto A sulla calotta sferica e quindi di α) si ha un valore diverso per l’ascissa p ′ del punto in cui il raggio rifratto incontra l’asse ottico. Non esiste un punto comune di intersezione per tutti i raggi rifratti ed il sistema è quindi generalmente astigmatico. Ma se ci si limita a considerare raggi poco discosti dall’asse ottico (raggi parassiali), tali cioè che la distanza da questo del punto di incidenza A sia piccola rispetto al raggio di curvatura della calotta, cosicché α risulti assai piccolo, si può sostituire cos α con 1 nelle espressioni di AP ed AP ′ (sempre nei limiti della precisione delle nostre misure o delle approssimazioni imposte dalla nostra schematizzazione). In tal modo le espressioni sotto radice quadrata, una volta semplificate, diventano p ′ 2 e p2 e quindi AP ′ = p ′ e AP = p. In altre parole, in queste ipotesi si può, a meno di infinitesimi di ordine superiore, confondere i segmenti AP ′ e P A rispettivamente con V P ′ e P V ; la (17) diventa allora n2 p ′ − r p′ = n1 r + p p da cui, liberando dai denominatori e dividendo per il prodotto p p ′ r, si ottiene n2 − n1 n1 n2 + ′ = p p r (21) Nei limiti delle approssimazioni fatte, l’ascissa del punto P ′ risulta dunque univocamente determinata dall’ascissa di P e dai valori degli indici di rifrazione dei due mezzi, indipendentemente dalla posizione del punto di incidenza sulla calotta sferica: tutti i raggi uscenti da P passano, dopo la rifrazione, per uno stesso punto P ′ , immagine (reale o virtuale) di P rispetto al diottro. Inversamente, un fascio di raggi incidenti passanti per P ′ viene trasformato in un fascio di raggi avente il centro in P ; P e P ′ sono punti coniugati rispetto al diottro e le loro ascisse sono legate dalla relazione (21) detta formula del diottro sferico. Se il punto P si allontana indefinitamente dal vertice del diottro, la sua immagine tende ad una posizione F ′ che prende il nome di secondo fuoco del diottro, la cui ascissa f ′ si ottiene ponendo nella (21) p → +∞ p′=f ′=r n2 n2 − n1 30 (22) Esso è dunque il punto in cui va a concentrarsi, dopo la rifrazione, un fascio di raggi paralleli all’asse ottico proveniente dallo spazio delle sorgenti. Analogamente, si chiama primo fuoco il punto oggetto F la cui ascissa f si ottiene ponendo nella (21) p ′ → +∞ p=f =r n1 n2 − n1 (23) Se in F si pone una sorgente luminosa puntiforme, il fascio rifratto è un fascio di raggi paralleli all’asse ottico, che si propaga nello spazio delle immagini. F e F ′ possono essere considerati come i punti coniugati dei punti “impropri” dell’asse ottico. Si osservi che le distanze dei due fuochi dal vertice (distanze focali) sono diverse; si dimostrano immediatamente le relazioni f ′−f =r , f n1 = >0 ′ f n2 dalla seconda delle quali risulta che i due fuochi si trovano sempre da parti opposte rispetto alla calotta rifrangente e sono entrambi reali o entrambi virtuali. Mediante le espressioni delle distanze focali è possibile porre la (21) sotto un’altra forma, eliminando n1 , n2 ed r. Dividendo la (21) per (n2 − n1 )/r e tenendo conto delle (22) e (23) si ottiene infatti f f ′ + ′ =1 p p (24) Nei limiti delle nostre approssimazioni, la conoscenza delle ascisse dei due fuochi è dunque sufficiente per caratterizzare completamente le proprietà del diottro. Si può agevolmente verificare che tutte le formule precedenti valgono, tenendo conto dei segni, in ogni caso, qualunque sia la posizione del centro di curvatura e dei punti coniugati rispetto al vertice. Se f ≥ 0 ( e quindi f ′ ≥ 0, fuochi reali ) un fascio parallelo incidente viene trasformato in un fascio convergente in F ′ e il diottro si dice convergente: ciò avviene per n2 ≥ n1 e r ≥ 0 (diottro convesso) oppure per n2 ≤ n1 e r ≤ 0 (diottro concavo). Se f ′ ≤ 0 ( e quindi f ≤ 0, fuochi virtuali ) un fascio parallelo incidente viene trasformato in un fascio divergente da F ′ , il diottro si dice divergente: ciò avviene per n2 ≤ n1 e r ≥ 0 oppure per n2 ≥ n1 e r ≤ 0. Come si vede, il diottro è sempre convergente se il centro di curvatura si trova nel mezzo più rifrangente, divergente nel caso contrario. Consideriamo ora un punto Q situato fuori dall’asse ottico alla stessa distanza di P da C (Fig.22); tracciata la retta QC e detto U il punto di intersezione con la superficie sferica, potremo ripetere per Q tutti i ragionamenti svolti per i punti dell’asse ottico passante per P , riferendoci ora alla retta QC come nuovo asse ottico ed al punto U come vertice. Come prima, se i raggi luminosi uscenti da Q incidono sulla calotta rifrangente in punti B la cui distanza dall’asse ottico QC è piccola rispetto al raggio di curvatura, i raggi rifratti passano tutti per un punto Q ′ situato sull’asse ottico QC, la cui ascissa è data ancora dalla (21) o dalla (24). Si vede facilmente che la condizione di stigmatismo è soddisfatta (approssimazione di ⌢ fasci luminosi assiali) solo se la calotta rifrangente V B è di piccola apertura e il punto Q è poco discosto dall’asse ottico. Con questa limitazione ai punti di una calotta sferica di centro C e raggio P C = r + p corrispondono i punti di un’altra calotta sferica concentrica di raggio CP ′ = p ′ − r, p e p ′ essendo legati dalle relazioni (21) e (24); con le limitazioni fatte potremo 31 Figura 22: anche confondere le calotte sferiche con i rispettivi piani tangenti perpendicolari all’asse ottico e parlare quindi di piani coniugati rispetto al diottro. Inoltre, siccome i punti coniugati sono sempre allineati con il centro di curvatura, l’immagine di una figura piana normale all’asse ottico è una figura piana normale all’asse, simile all’oggetto (ortoscopia). Il rapporto fra le dimensioni lineari dell’immagine e dell’oggetto (ingrandimento) è dato, come risulta dalla figura, da I= P ′Q ′ p ′−r n1 p ′ f p′ y′ = = = = ′ y PQ r+p n2 p f p (25) e risulta univocamente determinato per ogni coppia di piani coniugati. Anche la formula dell’ingrandimento risulta valida in ogni caso in valore e segno, quando si convenga di considerare l’ingrandimento come positivo se l’immagine è capovolta, negativo se l’immagine è diritta rispetto all’oggetto. La relazione fra le dimensioni lineari dell’immagine e dell’oggetto si può porre sotto un’altra forma che ci sarà utile nel seguito. Consideriamo (Fig.23) due raggi QA e QB e sia θ l’angolo tra essi compreso; siano poi AQ ′ e BQ ′ i corrispondenti raggi coniugati e θ ′ l’angolo che essi ⌢ formano. Nelle nostre approssimazioni di fasci parassiali potremo confondere l’arco AB con il Figura 23: 32 segmento perpendicolare all’asse ottico e scrivere tg θ ∼ AB AB ∼ QA PV tg θ ′ ∼ AB AB ∼ ′ BQ VP ′ da cui, tenendo presente la (25), VP ′ p′ tg θ ≃ = tg θ ′ PV p Se supponiamo che la sorgente luminosa in P sia estesa (e conseguentemente lo sai anche la sua immagine in P ′ ), ma di dimensioni lineari sufficientemente piccole rispetto alle lunghezze “tipiche” (R, f, f ′ , p, p ′ ) del diottro considerato, in modo da poter considerare i fasci luminosi come assiali, possiamo scrivere, tenendo conto della (25), n2 y ′ tg θ ≃ tg θ ′ n1 y ed anche n1 y tg θ ≃ n2 y ′ tg θ ′ (26) Se verifichamo che, compatibilmente con la precisione di misura, valgono le approssimazioni tg θ ≃ θ e tg θ ′ ≃ θ ′ , l’approssimazione di raggi parassiali ci permette di scrivere n1 y θ ≃ n2 y ′ θ ′ Il valore dell’ingrandimento che si ricava da questa formula è quello relativo alla coppia di piani normali all’asse passante per i punti P e P ′ . Le proprietà ottiche dei fuochi e del centro di curvatura permettono di costruire, per punti e con grande semplicità, l’immagine di un oggetto dato. Per un punto fuori dell’asse basta ricordare che: 1. il raggio luminoso passante per il centro di curvatura incide normalmente sulla superficie rifrangente e quindi non viene deviato; 2. il raggio luminoso parallelo all’asse viene rifratto in un raggio luminoso passante per il secondo fuoco del diottro; 3. il raggio luminoso passante per il primo fuoco viene rifratto in un raggio luminoso parallelo all’asse ottico. La posizione del punto immagine è determinata dall’intersezione di due qualunque dei raggi rifratti. Se il punto si trova sull’asse ottico, i tre raggi luminosi anzidetti coincidono; basta allora ricordare che il diottro fa corrispondere ai punti di un piano normale all’asse i punti di un altro piano normale all’asse: preso un punto fuori dell’asse nel piano normale passante per il punto dato, se ne costruisce l’immagine e si conduce per questa il piano normale all’asse; l’intersezione di tale piano con l’asse sarà l’immagine cercata. Riferendoci alla Fig.24, in a) l’immagine è reale e capovolta (r ≥ 0, n2 ≥ n1 , f ≥ 0, f ′ ≥ 0, p ≥ f ); in b) l’immagine è 33 Figura 24: virtuale e diritta (r ≥ 0, n2 ≥ n1 , f ≥ 0, f ′ ≥ 0, p ≤ f ). L’equazione fondamentale (24) si può scrivere in una forma più generale che ci sarà particolarmente utile nella teoria dei sistemi diottrici centrati. Sull’asse del diottro sferico consideriamo 2 coppie di punti coniugati O1 , O2 e P1 , P2 (Fig.25); siano a1 , a2 e p1 , p2 le corrispondenti ascisse rispetto al vertice V del diottro. Se indichiamo con x1 , x2 le ascisse di P1 e P2 rispetto a O1 e O2 rispettivamente (cioè riferiamo le posizioni del punto oggetto P1 e del punto immagine P2 a due origini diverse, ma coniugate fra loro rispetto al diottro) si avrà evidentemente in valore e segno x1 = p1 − a1 , x2 = p2 − a2 Ricavando da queste relazioni p1 e p2 e sostituendo nella (24) si ottiene f f ′ + =1 a1 + x1 a2 + x2 dove f e f ′ indicano le distanze focali, misurate a partire dal vertice V . Moltiplichiamo per i denominatori e semplifichiamo, tenendo conto che, essendo i punti O1 e O2 per ipotesi coniugati, le loro ascisse a1 e a2 rispetto al vertice devono soddisfare alla relazione f f ′ + =1 a1 a2 cioè f a2 + f ′ a1 = a1 a2 34 Figura 25: Si ottiene x2 (f − a1 ) + x1 (f ′ − a2 ) = x1 x2 cioè, dividendo ambo i membri per x1 x2 , f ′ − a2 f − a1 φ′ φ + = + =1 x2 x1 x2 x1 (27) avendo chiamato φ ′ = f ′ − a2 e φ = f − a1 le ascisse dei due fuochi del diottro rispetto alle due nuove origini O1 e O2 . Confrontando la (27) con la (24) si conclude che l’equazione del diottro è valida comunque vengano scelte le origini (e le distanze focali, purché coniugate tra loro) a partire dalle quali vengono misurate le ascisse dei punti coniugati. La (24) si presenta anzi come un caso particolare della (27) quando si osservi che il vertice V , a cui sono riferite p e p ′ , è coniugato di sé stesso. 2.6 Specchio sferico e specchio piano Vogliamo ora occuparci dei sistemi ottici catottrici. Mentre nelle considerazioni che abbiamo svolto nel caso dei sistemi diottrici il fenomeno della dispersione cromatica ci ha costretti a ragionare sempre su fasci e raggi luminosi monocromatici, le considerazioni che si fanno sugli specchi valgono senza modificazione per raggi luminosi di qualsiasi colore. Per individuare la posizione dei vari punti dello spazio ci serviremo di due sistemi di coordinate cartesiane, conformemente a quanto fatto per i sistemi diottrici, con le stesse convenzioni sui segni delle varie grandezze. Notiamo che la convenzione per la scelta del sistema di riferimento nello spazio delle immagini è stata quella di considerare “positivo” un sistema di riferimento concorde con la reale propagazione del raggio luminoso nel mezzo considerato. Pertanto nel caso della riflessione l’asse x′ risulta positivo quando è invertito rispetto al caso della rifrazione in quanto i raggi luminosi si propagano, dopo aver incontrato lo specchio, nuovamente nella 35 regione di provenienza. Riferendoci alla Fig.26 sia π uno specchio piano e consideriamo una sorgente luminosa puntiforme P posta ad una distanza p da esso. Dalle leggi della riflessione segue immediatamente che i prolungamenti dei raggi riflessi si incontrano nel punto P ′ simmetrico di P rispetto al piano riflettente π e di ascissa p ′ . P ′ è dunque l’immagine virtuale di P ; il sistema è stigmatico per ogni posizione di P ed acromatico. Si può facilmente verificare che il sistema è anche Figura 26: Figura 27: ortoscopico. Con le convenzioni di Fig.26 abbiamo che p′ = −p. Ricordiamo che per un diottro piano vale la relazione p ′ = −n12 p ; l’inversione di segno di p′ nel caso della riflessione porterebbe a p ′ (riflessione)= n12 p e quindi la relazione che abbiamo ricavato per lo specchio piano può essere formalmente ottenuta da quella del diottro piano ponendo n12 (riflessione) = -1, cioè n2 (riflessione) = −n1 (riflessione). Tale posizione si accorda con il principio di Fermat poiché il raggio luminoso continua a propagarsi nello stesso mezzo (cioè con la stessa velocità). Ricordando la descrizione trigonometrica della costante n12 (riflessione) = sen i/sen r, da quanto sopra segue che sen r = −sen i; questo significa che, essendo sia î che r̂ compresi tra 0 e π/2, r̂ = −î, cioè il raggio riflesso viene a trovarsi nello stesso piano che contiene î ma dalla parte opposta rispetto alla normale allo specchio nel punto di incidenza del raggio luminoso. ⌢ Sia MM ′ (Fig.27) una calotta sferica riflettente di centro C e raggio r. Si tratta di uno specchio sferico convesso in cui C si trova, rispetto allo specchio, dalla parte opposta dello spazio degli oggetti; per analogia con il diottro sferico (e soprattutto per adeguarci alle convenzioni adottate dalla maggioranza dei testi e manuali di ottica geometrica) continueremo a considerare r > 0 in questo caso. Per un sistema ottico di questo tipo si possono svolgere considerazioni analoghe a quelle relative al diottro sferico, con le stesse limitazioni e le stesse approssimazioni. Si può cosı̀ riconoscere che di ogni punto oggetto P posto sull’asse ottico del sistema vi è un punto immagine P ′ giacente sull’asse ottico e che di ogni oggetto piano P Q normale all’asse ottico si ha un’immagine P ′ Q ′ piana e normale all’asse ottico. Tenendo conto che i raggi riflessi si propagano nuovamente nel mezzo 1, ovvero n2 = −n1 , e della inversione dell’asse x′ , potremo sviluppare una procedura analoga a quella ricavata nel 36 caso del diottro sferico (v. par.2.5), ottenendo, per fasci di piccola apertura, le seguenti relazioni 1 2 1 + ′ =− p p r f =− r 2 y′ p′ = y p (28) ove f = −r/2 è la distanza focale dello specchio sferico convesso. Nel caso di uno specchio sferico concavo C è contenuto nello spazio degli oggetti e quindi il raggio di curvatura deve essere considerato negativo. Facciamo notare che la prima delle relazioni (28) per gli specchi concavi, in approssimazione gaussiana, è spesso riportata semplicemente come 1 + p1 ′ = 2r , dove si sottintende che in questo caso r è considerato positivo. p 2.7 Sistemi ottici centrati Nella maggior parte dei casi di importanza pratica si ha a che fare con sistemi ottici centrati ovvero con sistemi costituiti da una successione di mezzi ad indice di rifrazione diverso, separati generalmente da superfici sferiche o piane (riflettenti o rifrangenti), per i quali si può individuare un asse di simmetria comune che si chiama asse ottico del sistema. Noi ci limiteremo, per semplicità, al caso in cui tutte le superfici ottiche del sistema sono superfici rifrangenti, cioè ai sistemi costituiti da una successione di diottri. Il caso più semplice è la lente, costituita da un pezzo di vetro omogeneo limitato da due calotte sferiche che separano il vetro dall’aria circostante. Sistemi più complessi si ottengono disponendo successivamente varie lenti, con assi di simmetria coincidenti, con l’eventuale interposizione di lamine liquide (o collanti ottici) fra l’una e l’altra. Attualmente lo studio del comportamento fisico di un sistema ottico centrato viene fatto seguendo il percorso ottico di migliaia di raggi luminosi sfruttando la velocità di calcolo dei moderni calcolatori elettronici. In passato, non potendo disporre di mezzi di calcolo cosı̀ potenti, i fisici hanno sviluppato metodi di sintesi fenomenologica e di analisi globale dei sistemi. Vogliamo presentare brevemente questo approccio per la sua eleganza concettuale, per la semplicità formale e per i contenuti fisici di rilevante importanza. Un sistema di lenti centrate può essere considerato una successione di diottri; nell’approssimazione di Gauss, ovvero se questi sono tutti di piccola apertura (in modo che cos α ≃ 1) e consideriamo raggi luminosi (monocromatici) poco inclinati sull’asse ottico, applicando successivamente a ciascun diottro quanto si è detto per il diottro semplice, si conclude che anche il sistema centrato è stigmatico ed ortoscopico. Per costruire l’immagine di un punto P1 rispetto al sistema basta costruire l’immagine (reale o virtuale) P2 rispetto al primo diottro, considerare poi P2 come oggetto (reale o virtuale) rispetto al secondo diottro e costruirne l’immagine P3 e cosı̀ via fino ad ottenere un’immagine Pn+1 rispetto al n-simo diottro che potremo evidentemente considerare come l’immagine di P1 rispetto al sistema ottico. È però possibile costruire direttamente l’immagine Pn+1 di un punto P1 quando si conoscano due coppie di punti caratteristici del sistema, che prendono il nome di punti cardinali: i fuochi ed i punti principali del sistema. I fuochi sono definiti, come nel caso del diottro semplice, come i punti coniugati dei punti all’infinito dell’asse ottico. Un raggio luminoso coincidente con l’asse ottico del sistema lo attraversa senza deviare; sia AB (Fig.28) un raggio luminoso incidente da sinistra verso destra e parallelo all’asse ottico: il corrispondente raggio luminoso emergente LM, se non parallelo all’asse (caso che per ora vogliamo escludere) incontrerà l’asse in un punto F ′ , che prende il 37 Figura 28: nome di secondo fuoco del sistema ottico, ed AB in un punto Q ′ . F ′ è dunque punto di incontro di due raggi luminosi (quello assiale ed il raggio LM) coniugati di raggi incidenti paralleli all’asse e quindi, per lo stigmatismo del sistema, punto di incontro di tutti i raggi incidenti paralleli all’asse, cioè è l’immagine del punto all’infinito dell’asse. Potremo ripetere il ragionamento per un fascio di raggi luminosi parallelo all’asse che si propaga da D verso C; in questo caso al raggio luminoso DC corrisponderà il raggio luminoso emergente SR che incontrerà AB in un punto Q e l’asse in un punto F , che prende il nome di primo fuoco del sistema. I fuochi sono i punti in cui bisogna disporre una sorgente puntiforme affinché il sistema ottico trasformi i fasci luminosi uscenti in fasci di raggi luminosi paralleli all’asse. I piani passanti per F e F ′ e normali all’asse prendono il nome di primo e secondo piano focale rispettivamente. Se LM, e quindi anche RS, è parallelo all’asse, il sistema si dice telescopico o afocale. I due punti Q e Q ′ sono punti coniugati: infatti Q è l’intersezione dei due raggi luminosi AB e RS e Q ′ è l’intersezione dei raggi luminosi coniugati LM e DC. Siccome il sistema ottico è ortoscopico, i due piani π e π ′ , perpendicolari all’asse e passanti per Q e Q ′ , sono piani coniugati e quindi sono coniugati anche i due punti O e O ′ in cui π e π ′ intersecano l’asse. Inoltre è per costruzione OQ = O ′ Q ′ : di un oggetto piano situato in π il sistema dà un’immagine in π ′ uguale e diritta; con le solite convenzioni ciò si esprime dicendo che l’ingrandimento relativo alla coppia di piani π e π ′ è -1. Il ragionamento svolto dimostra che per ogni sistema ottico esiste una coppia di piani che godono di questa proprietà; essi si chiamano piani principali, ed i due punti O e O ′ punti principali, del sistema. La loro posizione, come quella dei fuochi, è determinata dalle caratteristiche (raggi di curvatura, indici di rifrazione) e dalle posizioni relative dei successivi diottri che costituiscono il sistema. Senza dare le formule, piuttosto complicate, che permettono questo calcolo nel caso generale, ci proponiamo ora di mostrare come la conoscenza dei punti cardinali sia sufficiente per risolvere il problema che ci siamo proposti, cioè quello di determinare la 38 posizione dell’immagine di un punto oggetto qualsiasi. Se il punto oggetto Q (Fig.29) si trova fuori dell’asse ottico, si conducano per esso il raggio luminoso QF passante per il primo fuoco ed il raggio luminoso parallelo all’asse; quest’ultimo incontrerà il primo piano principale in A. L’immagine di A è, per definizione di piano principale, il punto A ′ situato sull’altro piano principale ad uguale distanza dall’asse; il raggio luminoso coniugato di QA deve passare per A ′ e per il secondo fuoco F ′ e si ottiene quindi congiungendo A ′ con F ′ . Detta B l’intersezione di QF con π, l’immagine di B è, per la stessa ragione di prima, l’intersezione B ′ con il piano π ′ della parallela all’asse passante per B; questa retta, essendo parallela all’asse e passando per B ′ , è perciò il raggio luminoso coniugato del raggio luminoso QF , che passa per B e per il primo fuoco, e la sua intersezione con A ′ F ′ Figura 29: determina la posizione del punto Q ′ coniugato con Q. Se il punto oggetto si trova sull’asse in P basta, come nel caso del diottro semplice, costruire l’immagine Q ′ di un qualsiasi punto Q del piano normale all’asse e passante per P ; l’immagine P ′ sarà l’intersezione con l’asse del piano normale all’asse e passante per Q ′ . Consideriamo come al solito due sistemi di coordinate cartesiane (x, y) e (x ′ , y ′ ) per lo spazio oggetti e per lo spazio immagini, aventi le origini rispettivamente nei punti O e O ′ ed orientati secondo le solite convenzioni: dalla similitudine dei triangoli BAQ, BOF e dei due analoghi B ′ A ′ Q ′ , A ′ O ′ F ′ si ricava immediatamente OF OB = AQ AB O ′F ′ A ′O = B ′Q ′ A ′B , ′ ′ ossia, in valore e segno y′ f = p y+y ′ f ′ y = p′ y+y , ′ (29) avendo indicato con (p, y) e (p ′ , y ′ ) rispettivamente le coordinate di Q e di Q ′ e con f e f ′ le ascisse dei fuochi (prima e seconda distanza focale). Sommando le due relazioni precedenti si ottiene f ′ f + ′ =1 p p (30) analoga all’equazione del diottro semplice. È una conseguenza immediata della relazione dimostrata alla fine del par.2.5 che in un qualunque sistema centrato debba valere una relazione del tipo (30) fra le ascisse di punti coniugati riferite ad altri due punti coniugati qualsiasi. Consideriamo infatti una successione dei punti coniugati O1 , O2 , ....., On+1 tali che il punto O2 sia il coniugato di O1 rispetto al primo diottro del sistema ottico, O3 il coniugato di O2 rispetto al secondo diottro, ecc., e prendiamo 39 tali punti come origini a cui riferire, con le solite convenzioni, le ascisse dei punti coniugati P1 , P2 , ...., Pn+1 (p1 = O1 P1 , p2 = O2 P2 , .....). Per ciascuno dei diottri che costituiscono il sistema potremo scrivere un’equazione analoga alla (27) f1 f2 + =1 p1 p2 f ′2 f3 + =1 p2 p3 f ′3 f4 + =1 p3 p4 ....................... f ′n fn+1 + =1 pn pn+1 (31) dove f1 e f2 sono le ascisse dei fuochi del primo diottro, f ′2 e f3 quelle del secondo diottro, ........, f ′n e fn+1 quelle dell’n-simo diottro, riferite ordinatamente alle stesse origini. Si riconosce immediatamente, facendo un’opportuna combinazione lineare delle (31), che fra le ascisse p1 , pn+1 sussiste una relazione del tipo F1 Fn+1 + =1 p1 pn+1 (32) dove F1 , Fn+1 sono due costanti che dipendono dalle f e che rappresentano le ascisse dei fuochi del sistema, riferite, come le p1 , pn+1 , alle origini coniugate O1 , On+1 . In particolare O1 , On+1 possono essere i punti principali O e O ′ , nel qual caso la (32) coincide con la (30). L’equazione (26) si estende immediatamente al caso di un sistema centrato qualunque. Essa vale infatti per ciascuno dei diottri del sistema; si può quindi scrivere, con ovvio significato dei simboli, n1 y1 tg θ1 = n2 y2 tg θ2 = ........... = nn+1 yn+1 tg θn+1 (33) e dire che la grandezza n y tg θ (o anche, nei limiti delle nostre approssimazioni, la grandezza n y θ) è un invariante ottico del sistema. Dividendo le (29) membro a membro si ricava per l’ingrandimento I l’espressione I= f p′ y′ = ′ y f p (34) che, utilizzando la (30) per eliminare f ′ /p′ o f /p, si può scrivere I= p ′−f f = p−f f ′ ′ (35) D’altra parte è anche, in base alla (33) ed alla Fig.29 y′ n tg θ n p′ = ′ = y n tg θ ′ n′ p 40 (36) Confrontando la (36) con la (34) si ottiene n f = ′ ≥0 ′ f n (37) Le ascisse dei fuochi sono dunque sempre o entrambe positive o entrambe negative; con le nostre convenzioni, ciò significa che i due fuochi sono entrambi rispettivamente esterni o interni ai punti principali. Nel primo caso il sistema si dice convergente in quanto trasforma un fascio di raggi luminosi paralleli all’asse ottico in un fascio convergente, nel secondo caso si dice divergente e trasforma un fascio parallelo in un fascio divergente. Se il primo e l’ultimo mezzo del sistema ottico sono uguali (come avviene nella maggior parte dei casi, perché il sistema ottico è generalmente costituito da un certo numero di lenti immerse in aria) ponendo n = n ′ nella (37) si ricava f = f ′ e si parla di distanza focale del sistema ottico; la (30) e la (34) si semplificano, diventando rispettivamente 1 1 1 + ′ = p p f I= p′ p (38) (39) L’inverso 1/f della distanza focale viene chiamato convergenza o potere diottrico del sistema ottico e si misura in diottrie nel S.I.. Per esempio, un sistema ottico convergente avente distanza focale di 4 m ha un potere diottrico di + 0.25 diottrie, mentre un sistema ottico di − 2 diottrie è un sistema ottico divergente avente distanza focale di −50 cm. Abbiamo già rilevato l’analogia della formula (30) con la formula del diottro semplice. La differenza consiste nel fatto che nel diottro la distanza OO ′ è nulla, cioè i due piani principali coincidono, e nel fatto che in un sistema centrato può essere n = n ′ , mentre il diottro svanisce se i due indici di rifrazione sono uguali. Un’ulteriore analogia consiste nell’esistenza, in un sistema ottico qualsiasi, di una coppia di punti coniugati N, N ′ che godono di proprietà analoghe a quelle del centro di curvatura del diottro, cioè tali che ad ogni raggio luminoso passante per N corrisponde un raggio luminoso passante per N ′ e parallelo al primo (punti nodali). Per determinare la posizione di questi punti consideriamo (Fig.30) un punto P appartenente al primo piano focale del sistema; il raggio luminoso P A parallelo all’asse ottico ha come coniugato il raggio luminoso A ′ P ′ passante per il secondo fuoco F ′ . Consideriamo un secondo raggio luminoso uscente da P e parallelo ad A ′ F ′ : esso intersecherà il primo piano principale in un punto B e l’asse in un punto N. Il raggio luminoso coniugato dovrà passare per il punto B ′ coniugato di B ed essere parallelo ad A ′ F ′ perché il punto P si trova sul primo piano focale; sia N ′ la sua intersezione con l’asse. I punti N e N ′ sono coniugati, come intersezioni con l’asse di raggi luminosi coniugati. Dall’uguaglianza dei triangoli ONB e O ′ N ′ B ′ si deduce inoltre che ON = O ′ N ′ ossia in valore e segno, indicando con x e x ′ le ascisse di N e N ′ rispetto ad O ed O ′ (con le solite convenzioni), x ′ = − x. Un qualsiasi raggio luminoso MC passante per N ha per coniugato un raggio luminoso C ′ N ′ passante per N ′ e parallelo al primo, come si riconosce dal confronto fra i triangoli ONC e O ′ N ′ C ′ e dalle relazioni ON = O ′ N ′ e OC = O ′ C ′ (C e C ′ sono punti coniugati appartenenti ai piani principali). Le ascisse dei 41 Figura 30: punti nodali si ricavano immediatamente ricordando che essi sono punti coniugati rispetto al sistema; si deve cioè avere f ′ f f ′ f + ′ = − =1 x x x x da cui x=f −f ′ Da quest’ultima uguaglianza (o direttamente dalla costruzione geometrica) si deduce infine che se f = f ′ (il che avviene quando sono uguali gli indici di rifrazione del primo e dell’ultimo mezzo del sistema ottico, n = n ′ ) i punti nodali coincidono con i punti principali: N = O, N ′ = O ′. La considerazione dei nodi è utile per la risoluzione di alcuni problemi ottici, ma si ricordi che il sistema è già perfettamente determinato quando si conoscono i fuochi ed i punti principali. 2.8 Sistemi ottici composti Dopo aver determinato le semplici ed importanti proprietà dei sistemi ottici centrati (esistenza dei fuochi, piani principali, distanze focali, punti nodali), cerchiamo di trovare relazioni funzionali da utilizzarsi quando combiniamo due o più sistemi centrati per ottenere un sistema ottico composto. In altre parole, vogliamo studiare se esistono semplici relazioni fra i parametri dei sistemi componenti (piani principali, distanze focali, ecc.) e quelli caratterizzanti il sistema ottico risultante. Consideriamo due sistemi centrati S1 , S2 aventi gli assi ottici coincidenti; essi, come abbiamo visto, sono completamente caratterizzati dalla posizione, sull’asse comune, dei rispettivi fuochi 42 Figura 31: e punti principali. L’insieme dei due sistemi costituisce un sistema ottico composto, che è ovviamente stigmatico ed ortoscopico nelle stesse approssimazioni dei sistemi componenti, e di cui ci proponiamo di determinare le posizioni dei fuochi e dei punti cardinali in funzione di quelle dei sistemi componenti. Sia ∆ (Fig.31) la distanza tra il secondo fuoco F1 ′ del primo sistema ed il primo fuoco F2 del secondo sistema presa col segno positivo o negativo a seconda che F1 ′ preceda o segua F2 nel verso dei raggi luminosi incidenti. Un raggio luminoso P A parallelo all’asse viene rifratto dal sistema S1 secondo A′ F1 ′ . Si conduca per F2 parallelamente ad A′ F1 ′ il raggio F2 C, il cui coniugato rispetto ad S2 è evidentemente il raggio passante per C ′ e parallelo all’asse. I due raggi paralleli A′ F1 ′ , F2 C devono, dopo rifrazione attraverso S2 , incontrarsi in un punto del secondo piano focale di S2 ; questo punto è allora dato dall’intersezione D del raggio CC ′ con il secondo piano focale di S2 . Il coniugato del raggio A′ B, dovendo passare per B ′ (coniugato di B) e per D, si ottiene congiungendo B ′ con D; sia F ′ l’intersezione della retta B ′ D con l’asse. F ′ è il secondo fuoco del sistema risultante: infatti esso è punto di intersezione con l’asse (raggio centrale non deviato) del coniugato del raggio incidente P A, parallelo all’asse. Osserviamo ora che, essendo il raggio incidente P A parallelo all’asse, l’intersezione Q ′ del raggio coniugato B ′ F ′ con il secondo piano principale del sistema risultante deve giacere sul prolungamento del raggio incidente e si ottiene quindi senz’altro come intersezione di P A con B ′ F ′ . Il piano normale all’asse passante per Q ′ è il secondo piano principale, e la sua intersezione O ′ con l’asse il secondo punto principale del sistema risultante. Dalla Fig.31, e precisamente dal confronto dei triangoli tratteggiati, si ricava facilmente h′ f ′2 = ; h −f ′ h′ ∆ = ′ h f 1 43 e quindi ′ f =− f f ∆ ′ 1 ′ 2 (40) avendo indicato con f ′ la seconda distanza focale (in valore e segno) del sistema risultante, cioè la distanza di F ′ da O ′ . Per determinare la posizione di F ′ (e quindi anche di O ′ ) rispetto ai sistemi ottici componenti, basta osservare che, come segue dalla nostra costruzione, F ′ risulta essere il coniugato di F ′1 rispetto al secondo sistema componente. Indicando con x ′2 l’ascissa di F ′ rispetto ad O ′2 deve quindi valere la relazione f f2 + f2 + ∆ x Da cui, con facili passaggi, si ricava x ′ 2 ′ 2 =1 ′ 2 x ′2 = f ′ 2 f2 + ∆ ∆ (41) In modo perfettamente analogo, considerando un raggio parallelo all’asse ed incidente sul sistema in senso opposto , si determinano le posizioni del primo fuoco e la prima distanza focale f =− f1 f2 ∆ x1 = f1 f +∆ ∆ ′ 1 (42) Il sistema ottico risultante è cosı̀ perfettamente determinato. Se in un sistema composto F ′1 = F2 , cioè si ha ∆ = 0, le formule precedenti cadono in difetto; considerando questo come un caso limite si può tuttavia dire che i fuochi cadono all’infinito; essi sono in tal caso punti coniugati fra loro, in quanto un raggio incidente parallelo all’asse ha come coniugato un raggio pure parallelo all’asse. Un sistema ottico di questo tipo si dice telescopico o afocale. 2.9 Lente semplice, lenti sottili I risultati precedenti si applicano facilmente alla ricerca dei punti cardinali di una lente, che si può ovviamente considerare come un sistema composto, costituito dalla successione di due diottri. Il sistema è completamente caratterizzato dalla conoscenza dei raggi di curvatura dei due diottri, degli indici di rifrazione del materiale di cui è costituita la lente e dei due mezzi fra cui è interposta, e dello spessore a della lente. Le distanze focali dei due diottri sono infatti date dalle formule (22) e (23) del par.2.5, mentre la distanza ∆ che interviene nelle (40), (41) e (42) è in questo caso, in valore e segno, ∆ = a − (f ′ 1 + f2 ) Senza dare esplicitamente le formule, che si possono ricavare dalle formule generali sopra ricordate, accenniamo ad una semplice costruzione geometrica, che permette di determinare la posizione dei punti principali (non dei fuochi) nel caso particolare, che spesso si presenta, in cui gli indici di rifrazione del primo e dell’ultimo mezzo siano uguali (lente immersa in aria). 44 In questo caso, come sappiamo, i punti principali coincidono con i punti nodali; per i centri di curvatura C1 e C2 dei due diottri si traccino (Fig.32) due raggi C1 B1 e C2 B2 paralleli e si considerino i piani tangenti nei punti B1 e B2 che risultano anch’essi paralleli tra loro. Il segmento B1 B2 può rappresentare il percorso di un raggio luminoso che penetra nella lente in B1 e ne esce in B2 ; la lente si comporta, nei suoi riguardi, come una lamina a facce piane e parallele: al raggio incidente AB1 , che dà luogo al raggio B1 B2 , corrisponde un raggio emergente B2 A′ parallelo ad AB1 . Il raggio AB1 si può costruire applicando, nel punto B1 e rispetto al piano tangente al diottro, le leggi della rifrazione. Le intersezioni dei prolungamenti di AB1 e di B2 A′ con l’asse della lente danno i punti nodali N e N ′ come intersezione di raggi tra loro paralleli. Le formule delle lenti si semplificano notevolmente quando lo spessore della lente diventa trascurabile (lente sottile), cioè quando a è trascurabile rispetto alle altre lunghezze che caratterizzano il problema, nei limiti di precisione delle misure considerate. In tal caso la lente si confonde con un piano nel quale vanno a coincidere i piani principali dei due diottri e quindi anche i piani Figura 32: principali del sistema composto, e nel quale si può pensare avvengano successivamente le due rifrazioni che deviano i raggi luminosi. Nodi, punti principali, vertici delle calotte rifrangenti coincidono tutti in O = O ′ , che è il centro ottico della lente. Indicando con n l’indice di rifrazione del materiale con cui è costruita la lente rispetto al mezzo in cui è immersa e con r1 e r2 i raggi di curvatura, con segno rispetto alle convenzioni adottate, dei due diottri, le distanze focali dei due diottri componenti sono date dalle formule (22) e (23) 1 r1 n−1 n f2 = r2 1−n f1 = f ′ 1 f ′ 2 n r1 n−1 1 = r2 1−n = La distanza ∆ diventa, trascurando lo spessore a della lente, ∆ ≃ −(f ′ 1 + f2 ) = n (r2 − r1 ) n−1 Inserendo questi valori sia nella (40) che nella (42) si ottiene per la distanza focale del sistema composto lente sottile (f = f ′ , come in qualunque sistema in cui coincidono gli indici di rifrazione dei mezzi estremi) ∆ 1 ∆ 1 1 =− ′ − (43) = (n − 1) P = =− f f1 f2 f1 f2 ′ r1 r2 La (43) è detta formula dei costruttori di lenti perché è effettivamente utilizzata per produrre una lente sottile di potere diottrico desiderato P con un vetro, avente indice di rifrazione 45 Figura 33: n, rispetto al mezzo in cui è posta la lente, per il colore considerato. Sostituendo nelle (41) e (42) i valori ottenuti di ∆, f1 , f1 ′ , f2 e f2 ′ si vede che x1 = x2 ′ = f , confermando anche analiticamente che in una lente sottile i due piani principali coincidono con il piano individuato dalla lente stessa. La lente si dice convergente e divergente a seconda che trasformi un fascio di raggi luminosi paralleli in un fascio di raggi luminosi convergenti o in un fascio di raggi luminosi divergenti, o, se si vuole, a seconda che i suoi fuochi siano reali o virtuali. Con le nostre convenzioni per i segni, ciò avviene rispettivamente a seconda che f sia positivo o negativo e questo, essendo sempre n ≥ 1, dipende dal valore e dal segno dei raggi di curvatura r1 e r2 . In Fig.33 sono schematizzati vari tipi di lenti sottili convergenti e divergenti, classificati, secondo l’uso, in base alla forma delle due superfici sferiche che limitano la lente: a) biconvessa, b) piano convessa, c) menisco convergente, d) biconcava, e) piano concava, f) menisco divergente. Come si vede, e come si può agevolmente riconoscere dalla formula (43), le lenti divergenti sono più spesse ai bordi che al centro. Consideriamo adesso un sistema composto da due lenti semplici l1 e l2 , poste entrambe nello stesso mezzo e di distanze focali f1 e f2 rispettivamente, separate da una distanza a (v. Fig.34). Il sistema risultante è caratterizzato da un unico potere diottrico, essendo le due lenti costituenti caratterizzate da un’unica distanza focale, dato da P = 1 ∆ 1 1 a =− = + − = P1 + P2 − aP1 P2 f f1 f2 f1 f2 f1 f2 (44) La distanza del secondo fuoco del sistema risultante da l2 è data da x2 = f2 a − f1 f2 + ∆ = f2 ∆ a − (f1 + f2 ) mentre il primo fuoco del sistema risultante dista da l1 x1 = f1 f1 + ∆ a − f2 = f1 ∆ a − (f1 + f2 ) La distanza ε fra i due piani principali del sistema risultante si può determinare, con riferimento alla Fig.34, da x1 + x2 + a = 2f + ε 46 Figura 34: da cui segue ε= a2 a − (f1 + f2 ) Considerando ad esempio un sistema composto da una lente convergente di potere diottrico 2 diottrie e da una divergente di potere diottrico −1.5 diottrie , poste ad una distanza a = 0.1 m, avremo che il sistema risultante avrà un potere diottrico P = 0.8 diottrie ed inoltre x2 = 1.0 m, x1 = 1.4375 m , ε = 0.0375 m. Se a è trascurabile (nei limiti delle precisioni imposte dalle nostre misure e della schematizzazione fisica adottata) rispetto alle distanze focali f1 e f2 dei sistemi componenti, otterremo che ∆ ≃ −(f1 + f2 ) ; ε≃0 ed infine che P = P1 + P2 (45) La (45) è rigorosamente valida per sistemi composti di lenti sottili a contatto e può essere estesa al caso di varie lenti poste a contatto: il potere diottrico di un sistema composto da varie lenti sottili a contatto è dato dalla somma dei poteri diottrici delle singole lenti componenti. La (45) è largamente utilizzata, per la sua facilità d’impiego, nelle tecniche per la correzione dei difetti della vista (occhiali). Terminiamo il paragrafo con alcune considerazioni sulle applicazioni pratiche delle conoscenze acquisite sul comportamento delle lenti sottili. Per la costruzione grafica delle immagini di sorgenti estese fornite da lenti sottili possiamo procedere come indicato nel par.2.8 (in particolare Fig.29) per i sistemi ottici centrati. Notiamo che nel caso di una lente convergente possiamo utilizzare 3 raggi luminosi, provenienti da una stessa sorgente puntiforme posta in un qualunque punto della sorgente estesa considerata, di cui conosciamo il comportamento: 47 1. il raggio luminoso che si propaga parallelamente all’asse ottico e che viene rifratto nel secondo fuoco; 2. il raggio luminoso che si propaga passando per il vertice della lente e che prosegue indisturbato; 3. il raggio luminoso che si propaga passando per il primo fuoco e che viene rifratto parallelamente all’asse ottico. Nel caso di una lente divergente occorre ricordare che un fascio di raggi paralleli viene trasformato in un fascio divergente costituito da raggi luminosi i cui prolungamenti si incontrano in un punto del secondo piano focale della lente. Nel caso di una sorgente puntiforme S posta sull’asse ottico di una lente sottile, conosciamo il comportamento solo del raggio luminoso che si propaga lungo l’asse ottico e che non viene deviato dalla lente. Questo, infatti, coincide con i raggi che passano per i fuochi della lente provenienti da S. Per identificare la posizione di S basta considerare un qualunque raggio luminoso uscente da S, che inciderà sulla lente in P . Non sappiamo però quale sarà il percorso del raggio luminoso SP dopo la rifrazione sulla lente. A tal fine si può supporre che il raggio luminoso SP faccia parte di un fascio di raggi luminosi paralleli tra loro (condizione d’altra parte facilmente realizzabile con una sorgente puntiforme posta, nella direzione SP a grande distanza dalla lente). La lente farà convergere questo fascio addizionale in un punto Q del piano focale, determinabile ad esempio come intersezione con il piano focale del raggio appartenente al fascio e passante per il vertice della lente. Per Q dovranno passare tutti i raggi luminosi del fascio parallelo addizionale e quindi anche il raggio luminoso SP . Questo metodo, che utilizza il fascio parallelo addizionale, è molto utile nelle costruzioni grafiche delle immagini formate da lenti sottili e da sistemi di lenti sottili. 3 Riepilogo sulle definizioni e sulle convenzioni Nei paragrafi precedenti sono stati trattati i sistemi diottrici e catottrici secondo i principi dell’ottica geometrica e secondo la teoria al primo ordine, detta anche approssimazione parassiale o di Gauss, in base alla quale tutte le funzioni trigonometriche si sviluppano in serie al primo ordine: sin α ≈ α, cos α ≈ 1. Nella formazione delle immagini si seguono delle convenzioni dei segni che valgono in modo coerente sia per i sistemi diottrici sia per i sistemi catottrici. Nella Fig. 35 è mostrata la formazione dell’immagine di un oggetto PP’ da parte, rispettivamente, di un diottro sferico (Fig. 35a), di un sistema ottrico centrato (Fig. 35b), di una lente sottile (Fig. 35c) e di uno specchio sferico (Fig. 35d) con la stessa rappresentazione schematica utilizzata delle figure 21, 27 e 29. In tutti questi esempi le superfici rifrangenti e riflettenti sono superfici di rivoluzione attorno a un comune asse di rotazione che prende il nome di asse ottico del sistema ottico. L’intersezione di quest’asse con ciascuna superficie si chiama vertice, V. In un sistema ottico lo spazio in cui si trovano gli oggetti si chiama spazio oggetto e lo spazio nel quale si formano le immagini si chiama spazio immagine. I due spazi sono in realtà lo stesso spazio nel quale, come mostrato nelle figure, ci sono due sistemi di riferimento 48 y P’ R x P V F1 F2 C Q x’ Q’ p’ p y’ a Π2 y Π1 P’ F2 O2 x P F1 Q x’ O1 Q’ p’ p y’ b y P’ R x P F2 Q x’ V F1 Q’ p’ p y’ c y p P’ x Q P x’ F V C p’ Q’ R y’ d Figura 35: (a) Diottro sferico. (b) Sistema ottico centrato. (c) Lente sottile. (d) Specchio sferico. 49 cartesiani distinti: V xyz (diottro, lente sottile e specchio) o O1 xyz (sistema ottico centrato) per lo spazio oggetto e V x′ y ′z ′ (diottro, lente sottile e specchio) o O1 x′ y ′z ′ (sistema ottico centrato) per lo spazio immagine. Per comodità di linguaggio nella definizione delle convenzioni si colloca l’oggetto a sinistra del sistema ottico 2 con i raggi che si propagano da sinistra verso destra. Non si perde in generalità e i segni convenzionali restano invariati nel caso in cui si sostituisca “sinistra” con: “la direzione di provenienza dei raggi incidenti” e “destra” con: “la direzione di propagazione dei raggi uscenti dal sistema ottico”. Sistemi diottrici: Con riferimento alla Fig. 35 valgono le convenzioni elencate nella tabella sottostante per ciascun sistema, ricordando che i parametri relativi a oggetto e immagine vanno riferiti ai corrispondenti sistemi di riferimento. Grandezza Segno + − Diottro sferico p p′ R n1 n2 R/(n2 − n1 ) f1 , f2 yo yi m A sinistra di V , oggetto reale A destra di V (O2 ), immagine reale C a destra di V Ind. di rifrazione mezzo spazio oggetto Ind. di rifrazione mezzo spazio immagine Diottro convergente Diottro convergente Sopra asse ottico Sotto asse ottico Immagine capovolta A destra di V , oggetto virtuale A sinistra di V , immagine virtuale C a sinistra di V Diottro divergente Diottro divergente Sotto asse ottico Sopra asse ottico Immagine dritta Sistema ottico centrato p p′ f1 , f2 yo yi m A sinistra di O1 , oggetto reale A destra di O2 , immagine reale Sistema ottico convergente Sopra asse ottico Sotto asse ottico Immagine capovolta A destra di O2 , oggetto virtuale A sinistra di O2 , immagine virtuale Sistema ottico divergente Sotto asse ottico Sopra asse ottico Immagine dritta Lente sottile p p′ f R1 R2 yo yi m A sinistra di V , oggetto reale A destra di V , immagine reale Lente convergente C a destra di V , convessa C a destra di V , concava Sopra asse ottico Sotto asse ottico Immagine capovolta A destra di V , oggetto virtuale A sinistra di V , immagine virtuale Lente divergente C a sinistra di V , concavo C a sinistra di V , convessa Sotto asse ottico Sopra asse ottico Immagine dritta 2 L’oggetto può trovarsi anche a destra del sistema ottico, in tal caso l’oggetto è virtuale. Si può avere un’oggetto virtuale quando esso è l’immagine di un sistema ottico a monte di quello in esame. 50 con il seguente significato dei simboli: p, p′ , R, R1 , R2 , f, f1 , f2 , yo , yi , coordinata dell’oggetto coordinata dell’immagine raggio di curvatura superficie sferica raggi di curvatura della prima e della seconda superficie della lente sottile lunghezza focale lunghezza focale primaria e secondaria dimensione trasversale oggetto dimensione trasversale immagine Con le convenzioni di cui sopra, per il diottro sferico vale la formula dei punti coniugati, che associa il piano immagine col piano oggetto: n2 − n1 n1 n2 + ′ = p p R (46) f1 f2 + ′ =1 p p (47) o: che vale anche per i sistemi ottici centrati. Per le lenti sottili, quando l’indice di rifrazione del mezzo dello spazio oggetto è uguale all’indice di rifrazione del mezzo dello spazio immagine, si ha: 1 1 1 + ′ = p p f (48) L’ingrandimento, m, è il rapporto tra la dimensione dell’immagine, yi , e la dimensione dell’oggetto, yo : m= yi p′ = yo p (49) Sistemi catottrici: Notiamo che la convenzione per la scelta del sistema di riferimento nello spazio delle immagini è stata quella di considerare positivo un sistema di riferimento concorde con la reale propagazione del raggio luminoso nel mezzo considerato. Pertanto nel caso della riflessione l’asse x′ risulta positivo quando è invertito rispetto al caso della rifrazione. Si noti che, poiché una riflessione trasforma un sistema di riferimento destorso in un sistema di riferimento sinistrorso, e viceversa, gli assi y’ e z’ restano diretti come nel caso dei sistemi diottrici. Il sistema convenzionale utilizzato in queste dispense, per restare in coerenza con le definizioni dei sistemi diottrici, si riassume nella tabella sottostante con riferimento alla Fig. 35. 51 Grandezza Segno + Specchio sferico p p′ f R yo yi m A sinistra di V , oggetto reale A sinistra di V , immagine reale Specchio convergente C a destra di V , convesso Sopra asse ottico Sotto asse ottico Immagine capovolta − A destra di V , oggetto virtuale A destra di V , immagine virtuale Specchio divergente C a sinistra di V , concavo Sotto asse ottico Sopra asse ottico Immagine dritta con lo stesso significato dei simboli. Per gli specchi vale la formula dei punti coniugati, che associa il piano immagine col piano oggetto: n2 − n1 n1 n2 + ′ = p p R (50) con la quale, ponendo n1 = 1, n2 = −1 e cambiando di segno a p′ , a causa dell’inversione del segno dell’asse x′ , si ottiene: 1 2 1 1 + ′ =− = p p R f (51) L’ingrandimento ha la stessa definizione che nei sistemi diottrici. 3.1 Cenno sulle aberrazioni Nel corso dello studio delle proprietà dei sistemi ottici, abbiamo più volte ripetuto che i risultati ottenuti si possono ritenere validi solo quando siano soddisfatte alcune condizioni (approssimazione gaussiana) che riassumiamo brevemente: 1. l’apertura delle superfici rifrangenti e riflettenti che costituiscono il sistema deve essere piccola rispetto al raggio di curvatura; 2. i raggi luminosi che attraversano il sistema ottico devono formare in ogni punto un angolo piccolo con l’asse ottico (raggi parassiali). Tenendo conto della prima condizione, questo equivale a dire che gli oggetti che si considerano devono essere di “piccole” dimensioni e vicini all’asse ottico del sistema; 3. la luce utilizzata deve essere monocromatica, in modo che l’indice di rifrazione abbia un valore unico in ciascuno dei mezzi attraversati. Se qualcuna di queste condizioni non è soddisfatta, il sistema presenta delle deviazioni dalle proprietà da noi studiate, deviazioni che prendono il nome di aberrazioni. Il sistema non trasforma, in generale, un fascio di raggi luminosi omocentrico in un fascio pure omocentrico; esiste una zona in cui la sezione del fascio di raggi luminosi emergenti diventa minima e l’intensità luminosa raggiunge la massima concentrazione (cerchio di minima confusione). Nel piano 52 delle immagini i cerchi di minima confusione corrispondenti a sorgenti puntiformi contigue si sovrappongono e l’immagine che il sistema forma di un oggetto esteso risulta confusa e sfumata (aberrazione di sfericità, astigmatismo, coma). Inoltre l’immagine di una figura piana normale all’asse non è in generale una figura piana, simile all’oggetto (curvatura di campo, distorsione); infine, se la luce incidente non è monocromatica, il sistema forma di ogni punto tante immagini quante sono le componenti monocromatiche della luce impiegata e anche questo causa un degrado della qualità dell’immagine. Nelle applicazioni pratiche (basta pensare all’uso della macchina fotografica o di una telecamera) si opera in condizioni lontane da quelle di validità dell’approssimazione gaussiana ed è quindi necessario cercare di controllare gli effetti delle varie aberrazioni. La determinazione della distanza focale di un sistema complesso, la grandezza che sostanzialmente ne caratterizza le proprietà ottiche, lascia a disposizione un certo numero di parametri (indici di rifrazione e raggi di curvatura delle lenti), la cui arbitrarietà può essere sfruttata per correggere in misura più o meno grande le aberrazioni, facendo in modo che le aberrazioni di una lente compensino le aberrazioni dell’altra. La teoria delle aberrazioni è piuttosto complessa ed interessa soprattutto i costruttori di lenti e di strumenti ottici. Ci limiteremo ad elencare i tipi più comuni di aberrazione, accennando ad alcune semplici soluzioni per la loro correzione. a) Aberrazione cromatica assiale. Le deviazioni subite dai raggi luminosi dipendono dagli indici di rifrazione dei mezzi attraversati e quindi, se la luce impiegata non è monocromatica, il sistema ottico forma di una sorgente puntiforme tante immagini, in posizioni diverse, quante sono le componenti monocromatiche del fascio incidente. Ciò si può esprimere con altre parole dicendo che la distanza focale del sistema dipende dal colore della luce impiegata. Si consideri per esempio (Fig.36) una lente sottile convergente, sulla quale incide un fascio di luce bianca, parallelo all’asse ottico; la distanza focale data dalla formula (43) è una funzione decrescente dell’indice di rifrazione n del vetro con cui la lente è costruita, che cresce passando dal rosso al violetto. Il fuoco FV dei raggi violetti è più vicino alla Figura 36: lente del fuoco FG dei raggi gialli mentre il fuoco FR dei raggi rossi è il più lontano dalla lente; se la lente è divergente le distanze focali cambiano di segno ma il comportamento è perfettamente analogo al caso della lente convergente. La sezione del fascio emergente complessivo è minima in corrispondenza del piano S, ma non si riduce mai ad un punto: se si pone in S uno schermo si osserva su di esso il cerchio di minima confusione con bordi sfumati e colorati. L’immagine di un oggetto esteso appare bianca e confusa nelle zone centrali, sfumata e colorata ai bordi. La correzione dell’aberrazione cromatica si esegue utilizzando indici di rifrazione e raggi di curvatura del sistema ottico in modo da far coincidere le posizioni dei fuochi, relativi a due o più 53 radiazioni monocromatiche, entro le tolleranze volute. Vediamo come è possibile realizzare un sistema ottico acromatico composto da due lenti sottili a contatto, detto doppietto acromatico. La distanza focale f del sistema risultante (v. eq.(44)) è 1 1 1 1 1 1 1 + (n2 − 1) = + = (n1 − 1) − − f f1 f2 r1,1 r2,1 r1,2 r2,2 dove si sono indicati con r1,i e r2,i i raggi di curvatura, con segno, della i-esima lente. Il sistema composto sarà acromatico per due colori c1 e c2 distinti quando Fc1 = Fc2 . Tradizionalmente si usa assumere come c1 il colore celeste della radiazione di lunghezza d’onda λc1 = λF = 486.1 nm e per c2 quello rosso scuro della radiazione di lunghezza d’onda λc2 = λC = 656.3 nm. Avremo quindi acromatismo quando 1 1 1 1 (n1F − 1) − + (n2F − 1) − = r1,1 r2,1 r1,2 r2,2 1 1 1 1 − + (n2C − 1) − (n1C − 1) r1,1 r2,1 r1,2 r2,2 ovvero 1 r1,1 − 1 r2,1 (n1C − n1F ) + 1 r1,2 − 1 r2,2 (n2C − n2F ) = 0 Indicando con nid l’indice di rifrazione della radiazione di lunghezza d’onda λd = 587.6 nm nell’i-esimo materiale, potremo moltiplicare il primo termine dell’uguaglianza sopra riportata per (n1d −1)/(n1d −1) ed il secondo per (n2d −1)/(n2d −1) ed ottenere, ricordando la definizione del numero di Abbe NA (v. par.1.4), 1 1 1 1 1 1 (n1d − 1) (n2d − 1) − + − =0 r1,1 r2,1 NA1 r1,2 r2,2 NA2 1 1 + =0 ⇒ f1d · NA1 + f2d · NA2 = 0 (52) f1d · NA1 f2d · NA2 Essendo NA1 e NA2 grandezze definite positive, la (52) impone che le lenti componenti 1 e 2 abbiano distanze focali di segno contrario, cioè una sia convergente e l’altra divergente. Se il sistema composto deve risultare convergente, dovrà risultare che 1 1 1 = + >0 f f1d f2d cioè la lente convergente deve avere un potere diottrico superiore al valore assoluto di quello della divergente; per la (52) questo impone che NA (convergente) > NA (divergente). In questo caso la lente convergente dovrà essere fatta di un vetro meno disperdente (crown) mentre la divergente di vetro maggiormente disperdente (flint). Se il sistema deve essere rigorosamente a contatto dovremo porre r12 = r21 = r2 ; conseguentemente, una volta scelti i vetri da utilizzare per le due lenti, restano da determinare solo i valori di r11 , r2 e r22 per soddisfare le condizioni sopra riportate. La scelta del progettista ottico è determinata sia dalla facilità costruttiva delle 54 superfici sferiche delle lenti sia dalla possibilità di poter contemporaneamente ridurre altri tipi di aberrazioni del sistema ottico considerato. b) Aberrazione di sfericità. Consideriamo una lente convergente di grande apertura ed un fascio di raggi luminosi parallelo all’asse ottico (Fig.37). Il sistema non è più stigmatico; applicando le leggi della rifrazione si Figura 37: può dimostrare che i raggi marginali intersecano l’asse ottico in punti più vicini alla lente dei raggi parassiali, ovvero che la distanza focale della lente relativa ai raggi marginali è minore di quella relativa ai raggi parassiali. L’inviluppo dei raggi emergenti dalla lente costituisce una superficie di rivoluzione attorno all’asse ottico, detta caustica per rifrazione; in Fig.37 ne è rappresentata una sezione con un piano meridiano. Intersecandola con uno schermo normale all’asse a diverse distanze dalla lente si osservano delle figure luminose a simmetria circolare e di sezione variabile; la sezione minima è il cerchio di minima confusione. La cuspide situata sull’asse rappresenta l’intersezione dei raggi luminosi parassiali, cioè l’immagine relativa all’approssimazione di Gauss. La distanza Fp Fm sull’asse fra l’immagine dovuta ai raggi luminosi parassiali Fp e quella dovuta ai raggi luminosi marginali Fm si assume come stima numerica dell’aberrazione sferica e prende il nome di aberrazione sferica assiale. Non entriamo nei dettagli della correzione dell’aberrazione di sfericità, che si ottiene come al solito sfruttando la parziale arbitrarietà dei raggi di curvatura delle superfici rifrangenti e degli indici di rifrazione utilizzati. Non è possibile correggere l’aberrazione di sfericità per qualsiasi posizione dell’oggetto, ma soltanto per i punti di un segmento dell’asse ottico e per i punti di una limitata porzione di un piano normale all’asse, che il progettista sceglie in base ai requisiti richiesti per il sistema ottico in esame. Un sistema corretto per l’aberrazione di sfericità si dice aplanatico. c) Astigmatismo e curvatura del campo. Se la sorgente puntiforme è molto lontana dall’asse ottico, anche se ci si limita a considerare un pennello luminoso sottile, che attraversa la lente in una ristretta zona vicino all’asse ottico (pennello centrale), la sezione del pennello emergente non si riduce mai ad un punto. 55 Figura 38: Raccogliendo il pennello emergente su uno schermo normale all’asse e variandone la distanza dalla lente, si può riconoscere che i raggi luminosi rifratti si appoggiano tutti a due lineette sghembe, una contenuta nel piano meridiano passante per l’asse ottico e per la sorgente puntiforme, detta sagittale S, l’altra perpendicolare a quel piano e detta tangenziale T (astigmatismo, v. Fig.38). Esse si possono considerare come due distinte pseudo-immagini della sorgente puntiforme; la loro distanza aumenta con l’aumentare dell’inclinazione del pennello luminoso incidente, ovvero della distanza della sorgente dall’asse ottico. Allontanando la sorgente puntiforme dall’asse ottico in un piano normale all’asse, le due pseudo-immagini descrivono due superfici curve S e T , tangenti tra loro in corrispondenza all’asse ottico e ad esso normali. Il sistema non è quindi ortoscopico e si ha curvatura del campo immagini, unita ad astigmatismo. Se le due superfici S e T coincidono, il sistema si dice anastigmatico. Se esso è inoltre corretto anche per la curvatura del campo, si dice planetico. d) Coma. Se il punto luminoso è situato fuori dell’asse ed il fascio incidente non è più limitato ad un pennello ristretto, ma è aperto, il fascio emergente assume una configurazione ancora più complessa e non si appoggia più a due lineette stigmatiche; questo avviene anche se il sistema ottico è stato corretto dall’aberrazione di sfericità per i punti situati sull’asse ottico. Questa aberrazione prende il nome di coma, dalla forma delle figure luminose che si osservano intersecando il fascio emergente con un piano normale all’asse e che, nelle posizioni di sezione minima, hanno l’aspetto di una coda di cometa (v. Fig.39). 56 Figura 39: e) Distorsione. Un sistema ottico corretto per l’astigmatismo e la curvatura di campo fornisce un’immagine piana e normale all’asse di una sorgente estesa normale all’asse. L’ingrandimento relativo ad una coppia di segmenti coniugati y ′ e y non è in generale una costante caratteristica della coppia di piani coniugati considerati, ma dipende dalla posizione dei due segmenti su quei piani: il sistema, pur essendo planetico, non è ortoscopico. Ciò ha come conseguenza una distorsione dell’immagine che non risulta simile all’oggetto; la distorsione si dice a bariletto se l’immagine di un quadrato (Fig.40a) è deformata come in Fig.40b, a cuscinetto se l’immagine di un quadrato è deformata come in Fig.40c. 3.2 L’occhio umano Figura 40: . L’occhio umano normale (emmetropico) è un organo di forma globulare, quasi sferica, con un diametro medio di circa 2.5 cm, contenente nel suo interno una membrana sensibile, retina, sulla quale un sistema di lenti forma un’immagine reale degli oggetti esterni (vedi Fig.41). Mantenuto in posizione nella cavità orbitale della scatola cranica da un sistema di muscoli capaci di farlo ruotare in modo da dirigere l’asse ottico in varie direzioni, esso è racchiuso da una membrana dura ed opaca, la sclerotica, che diventa trasparente nella parte anteriore, dando luogo alla cornea che presenta un indice di rifrazione relativo all’aria di circa 1.38. Dietro alla cornea è disposto il cristallino, una lente convergente separata dalla cornea da uno spazio ripieno di un liquido, l’umor acqueo, avente un indice di rifrazione pari a ∼ 1.33 e molto vicino a quello dell’acqua. Dietro al cristallino, il bulbo oculare è pieno di un altro liquido, l’umor vitreo, avente un indice di rifrazione relativo all’aria simile a quello dell’umor acqueo. È interessante notare che l’indice di rifrazione del cristallino non è uniforme, ma varia intorno ad un valor 57 medio di 1.4 diminuendo leggermente, con una variazione relativa totale di circa 0.02, dai punti vicini all’asse ottico ai punti periferici; tale variazione diminuisce l’aberrazione di sfericità che si avrebbe per una lente semplice. I valori degli indici di rifrazione sopra riportati si riferiscono alla radiazione di lunghezza d’onda λd = 587.6 nm. Fra il cristallino e la cornea, immerso nell’umor acqueo, si trova un diaframma opaco, l’iride, che limita il fascio di raggi luminosi ammessi nell’occhio; il suo foro, pupilla, è inconsciamente comandato da un muscolo che ne regola il diametro a seconda della intensità della luce incidente, da circa due a circa nove millimetri. Il cristallino è mantenuto in posizione davanti alla cornea dai muscoli ciliari che, contraendosi, possono far variare la curvatura delle sue superfici, e quindi il suo potere diottrico. In tal modo l’occhio può essere accomodato, in modo da formare sulla retina immagini nitide di oggetti posti a distanze variabili dall’infinito (punto remoto) a circa 15 cm (punto prossimo). In condizioni di riposo l’occhio è accomodato alla distanza del punto remoto, ma può senza fatica sensibile rimanere accomodato per un tempo abbastanza lungo su una distanza inferiore, purché maggiore della cosiddetta distanza della visione distinta che per l’occhio normale è circa 25 cm. Per distanze inferiori, l’accomodamento richiede uno sforzo sensibile e non può essere prolungato senza stancare l’occhio. La parete posteriore interna della sclerotica è tappezzata dalla retina, lo schermo sensibile su cui si formano le immagini degli oggetti esterni fornite dal sistema ottico. Sulla retina arrivano le terminazioni del nervo ottico, di cui essa può addirittura considerarsi un prolungamento, di struttura molto complessa formata da elementi fotosensibili (coni e bastoncelli), sulla quale non insistiamo. Ricordiamo soltanto l’esistenza, in corrispondenza dell’asse ottico, di una zona più sensibile, detta macchia lutea per il suo colore giallo, e, al centro di questa, di un avvallamento, detto fovea centrale, nel quale viene a formarsi il centro dell’immagine per azione dei muscoli ciliari. Due punti luminosi appaiono distinti solo se le loro immagini si formano su due elementi separati Figura 41: Figura 42: da almeno un elemento non eccitato; conoscendo la distanza media degli elementi sensibili e le 58 caratteristiche ottiche dell’occhio, se ne deduce la distanza angolare (angolo visuale) minima ∆α che deve separare i due punti luminosi. ∆α misura l’acutezza visiva e per l’occhio normale risulta circa 1’. La percezione del rilievo, cioè delle diverse distanze a cui si trovano gli oggetti che noi osserviamo e di cui l’occhio forma sulla retina un’immagine bidimensionale, è dovuta in parte alla percezione dello sforzo che i muscoli ciliari debbono esercitare per accomodare il cristallino in modo da ottenere immagini nitide, ma soprattutto alla visione binoculare dovuta alla percezione dello sforzo muscolare esercitato per far convergere gli assi ottici dei due occhi sull’oggetto e alla formazione contemporanea, sulle due retine, di due immagini più o meno diverse a causa della diversa posizione dei due occhi rispetto all’oggetto e che vengono unite in un’unica sensazione. La sensibilità dell’occhio è molto diversa per i diversi colori nel senso che colori diversi provocano sensazioni di intensità molto diversa. La massima sensibilità si ha nel verde ma varia da soggetto a soggetto e dipende da molti fattori, come l’età del soggetto, la durata dell’osservazione, ecc.. L’occhio non è capace di analizzare una radiazione incidente composta nelle sue componenti cromatiche semplici: una stessa sensazione di colore può essere prodotta da una luce monocromatica e da una sovrapposizione di due o più luci monocromatiche. Si può mostrare sperimentalmente che la quasi totalità delle sensazioni di colore può essere ottenuta sovrapponendo tre luci monocromatiche determinate (colori fondamentali, uno nel rosso, uno nel verde, uno nel blu) con intensità opportune. Su questa osservazione è fondato uno dei metodi più comuni di fotometria eterocromatica; ogni intensità di illuminazione viene caratterizzata da tre numeri che misurano, in unità convenzionali, le intensità di illuminazione dei tre colori fondamentali che bisogna sovrapporre per ottenere la stessa sensazione visiva. Sulla possibilità di sintesi delle sensazioni di colore mediante tre colori fondamentali sono basati anche le tecniche di riproduzione colorata dette di tricromia. Se ne possono vedere moltissimi esempi osservando con una potente lente d’ingrandimento gli schermi sia della televisione che dei calcolatori. La spiegazione di questa proprietà della sensazione visiva risiede nel meccanismo della percezione attraverso gli elementi della retina. Disfunzioni di questo meccanismo hanno come conseguenza il difetto visivo detto daltonismo e consistente nella più o meno accentuata incapacità di distinguere tra di loro alcuni colori (più spesso il rosso ed il verde) o addirittura nella completa assenza della sensazione cromatica. Tra le altre proprietà della sensazione visiva (il cui studio dettagliato è compito più della fisiologia e psicologia che della fisica) ricorderemo il noto fenomeno della persistenza delle immagini, a causa del quale l’occhio non è in grado di percepire le variazioni periodiche di illuminazione delle immagini sulla retina, se queste avvengono con una frequenza superiore ad una frequenza critica (mediamente di circa 30 Hz): su tale effetto è fondata la tecnica cinematografica e televisiva di riproduzione di immagini in movimento. Il valore della frequenza critica varia a seconda del colore, dell’intensità luminosa e della modalità di variazione della luce in un periodo. Esaminiamo brevemente il comportamento dell’occhio dal punto di vista dell’ottica geometrica. L’occhio può essere schematizzato come un sistema ottico centrato nel quale è posta una lente variabile, il cristallino (v. Fig.42). I raggi luminosi si rifrangono al passaggio dall’aria alla cornea e poi, successivamente, su tutte le superfici di separazione dei mezzi con indice di rifrazione diverso, fino al piano della retina. Per un occhio a riposo (non accomodato) l’imma59 gine di una sorgente assiale posta a distanza infinita si forma sulla retina; questo significa, viste le dimensioni fisiche, che l’occhio possiede un potere diottrico di circa 60 diottrie. L’elemento di maggior potere diottrico è la cornea, che da sola avrebbe circa 48 diottrie; il cristallino ha un potere diottrico a riposo di circa 20 diottrie. Il centro ottico dell’occhio (C in Fig.42) è posto grosso modo sulla superficie interna del cristallino. Se la sorgente luminosa si avvicina all’occhio, la sua immagine si formerà, con l’occhio in condizione di riposo, su una superficie al di là della retina. In questo caso la visione dell’immagine non sarebbe a fuoco. Una contrazione dei muscoli ciliari provoca una diminuzione dei raggi di curvatura del cristallino con conseguente aumento del potere diottrico globale dell’occhio, fino a raggiungere un valore di circa 62.5 diottrie. In tal modo l’accomodamento dell’occhio riporta l’immagine della sorgente luminosa sul piano della retina per una visione distinta. Notiamo che le immagini reali si formano sulla retina capovolte rispetto alla sorgente: è l’effetto cerebrale della percezione visiva che ci permette di vedere il mondo che ci circonda diritto, secondo il comune modo di dire. L’occhio può presentare dei difetti (ametropie) dovuti a variazioni, rispetto all’occhio normale, dei raggi di curvatura o delle distanze dei vari diottri che lo costituiscono, o degli indici di rifrazione dei mezzi rifrangenti interposti, o, infine, ad una diminuzione del potere di accomodamento per la minore elasticità del cristallino e l’indebolimento dei muscoli ciliari. Quest’ultimo difetto è caratteristico delle persone anziane (presbiopia) e porta ad un progressivo aumento della distanza della visione distinta e della distanza del punto prossimo con il crescere dell’età. Nell’occhio ipermetrope la distanza fra il cristallino e la retina è minore della distanza focale del cristallino in posizione di riposo e l’immagine di una sorgente luminosa posta all’infinito cade dietro la retina e l’occhio deve essere accomodato anche per vedere gli oggetti lontani; inoltre esso non riesce a mettere a fuoco gli oggetti troppo vicini: il punto prossimo ed il punto della visione distinta sono più lontani che nell’occhio normale. Nell’occhio miope, invece, la distanza tra il cristallino e la retina è maggiore della distanza focale del cristallino non accomodato, che è la massima che il cristallino può assumere. Gli oggetti la cui distanza supera un certo valore non possono essere visti distintamente o, in altre parole, il punto remoto si trova a distanza finita; anche il punto prossimo e il punto della visione distinta sono più vicini del normale. Questi difetti si correggono anteponendo all’occhio una lente di potere diottrico opportuno (convergente nel caso della presbiopia e della ipermetropia, divergente nel caso della miopia) in modo da ottenere un sistema risultante avente la distanza focale giusta. L’occhio può presentare anche astigmatismo, se la superficie di una delle lenti che lo costituiscono (in generale la cornea) ha un raggio di curvatura diverso nei diversi piani meridiani e quindi una distanza focale diversa per i raggi luminosi contenuti in piani meridiani diversi. Il difetto si corregge mediante una lente a raggi di curvatura differenti nei diversi piani meridiani (per esempio lenti a superficie cilindriche) disposta in modo tale che il sistema complessivo formato dalla lente e dalla cornea abbia la stessa distanza focale in tutti i piani meridiani. 3.3 Diaframmi. Nei paragrafi che precedono ci siamo occupati del problema della formazione delle immagini da un punto di vista puramente geometrico ricercando le relazioni di posizione fra punti coniugati rispetto ad un sistema ottico. Vogliamo ora studiare la formazione delle immagini da un punto 60 di vista energetico, allo scopo di determinare la luminosità dell’immagine che un sistema ottico forma di un oggetto luminoso o illuminato, in relazione ai vari modi in cui l’immagine viene utilizzata negli strumenti ottici più comuni (osservazione diretta, fotografia, acquisizione elettronica, ecc.). Consideriamo una sorgente luminosa che invia raggi su di un sistema ottico centrato. L’ampiezza del fascio che, dopo aver attraversato il sistema, converge sull’immagine reale della sorgente, o diverge dall’immagine virtuale, è limitata in generale da diaframmi (cioè da schermi opachi recanti un foro che in genere è circolare con il centro sull’asse ottico e ad esso perpendicolari) interposti sul cammino dei raggi luminosi. Tali diaframmi possono essere posizionati sia prima che i raggi luminosi incidano sul sistema sia fra le superfici rifrangenti iniziale e finale del sistema; anche i contorni stessi delle lenti o dei tubi o altri sostegni su cui le lenti sono montate hanno la funzione di diaframmi. Supponiamo, per fissare le idee, che una sorgente luminosa AB sia posta a sinistra di un sistema ottico costituito da due lenti L1 e L2 e che fra di esse siano interposti due diaframmi E e F (Fig.43). La limitazione che i diaframmi E ed F impongono al fascio luminoso che attraversa il sistema ottico è equivalente alla limitazione imposta al fascio luminoso incidente dalle rispettive immagini E ′1 e F ′1 (diaframmi virtuali equivalenti) rispetto Figura 43: a quella parte del sistema ottico che si trova alla sinistra di E e F , cioè la lente L1 nel caso della Fig.43. Consideriamo, tra questi diaframmi virtuali e i diaframmi reali eventualmente già esistenti alla sinistra del sistema ottico (nel nostro esempio non esistono diaframmi reali alla sinistra del sistema), quello che limita maggiormente il fascio luminoso incidente (F ′1 in Fig.43); il suo diametro, che dal punto A è visto sotto l’angolo 2 α, prende il nome di pupilla di ingresso del sistema relativo al punto A. L’angolo 2 α si chiama angolo di apertura; chiamasi invece pupilla di uscita l’immagine 61 della pupilla di ingresso che tutto il sistema ottico proietta alla sua destra (diametro del diaframma virtuale F ′2 di Fig.43). La pupilla di uscita limita il fascio che emerge dall’immagine A ′ dell’oggetto A. L’angolo 2 α ′ sotto cui essa appare dal punto A ′ , si chiama angolo di proiezione. Il centro della pupilla d’ingresso prende il nome di centro di prospettiva. Fra tutti i diaframmi (reali e virtuali) esistenti a sinistra della pupilla d’ingresso ce n’è uno il cui foro è visto sotto l’angolo più piccolo 2 β dal centro di prospettiva. Tale diaframma (E ′1 in Fig.43) prende il nome di diaframma di campo e l’angolo 2 β si chiama angolo del campo oggetti o anche apertura del campo. L’angolo coniugato 2 β ′ chiamasi angolo del campo immagini. Semplici considerazioni geometriche (v. Fig.43) consentono di distinguere i punti giacenti su un piano S, perpendicolare in A all’asse ottico del sistema , in tre zone: quelli come A e B inviano, attraverso il diaframma di campo, un cono di raggi luminosi che investe tutta la pupilla di ingresso : quelli come C per i quali il cono di raggi luminosi incidenti, limitato dal diaframma di campo, copre solo una parte della pupilla di ingresso relativa ad A; ed infine quelli che, come D ed i successivi, non possono inviare raggi luminosi attraverso alla pupilla di ingresso a causa del diaframma di campo. Nel piano S ′ , coniugato di S, le immagini dei punti della prima zona saranno quindi tutte illuminate con uguale intensità, dipendenti solo dal diametro della pupilla d’ingresso, mentre l’intensità delle immagini dei punti della seconda zona diminuirà gradualmente, via via che si passa a punti più lontani dall’asse ottico, fino ad annullarsi quando si entra nella terza zona. Tale effetto viene comunemente indicato con il termine “diaframmatura”. Se il piano del diaframma di campo (effettivo o virtuale) coincide con il piano S, le tre zone si riducono a due: i punti del piano immagine o sono illuminati (quasi tutti con intensità uguale) o non lo sono e quindi non si vedono, cioè il campo degli oggetti “visti” dal sistema ottico è nettamente limitato. È evidente che conviene sempre porsi in queste condizioni, facendo coincidere il piano del diaframma di campo con il piano degli oggetti che si vogliono osservare. Possiamo concludere che una variazione del diametro del diaframma di campo modifica l’estensione del campo, lasciando inalterata l’intensità dell’immagine, mentre una variazione della pupilla di ingresso modifica la luminosità dell’immagine lasciando inalterata l’estensione del campo. 62 A A.1 Appendice Luce ed energia. Relazioni energetiche tra oggetti ed immagini. La propagazione della luce è sempre associata ad una propagazione di energia. Le sorgenti di luce riscaldano gli oggetti illuminati (basta pensare al riscaldamento prodotto dalla luce del Sole o da una lampadina di alta intensità). Con un’immagine a piccola scala lineare del Sole, prodotta da una lente di corta distanza focale, si può infatti riuscire ad incendiare un arbusto di legno o a fondere alcuni materiali. Se si illumina il bulbo di un termometro con la luce di una sorgente qualsiasi il termometro segna un aumento di temperatura che, a parità di altre condizioni, risulta tanto maggiore quanto minore è la quantità di luce che il bulbo riflette o diffonde attorno a sé: ciò si ottiene per esempio ricoprendone la superficie con nerofumo (o vernice nera opaca) in modo che praticamente tutta la luce incidente su di esso venga assorbita. Oltre agli effetti visivi e termici la luce è capace di produrre effetti di altra natura. È nota la proprietà della luce di impressionare la gelatina sensibile delle pellicole fotografiche o, più in generale, di provocare ed accelerare molte reazioni chimiche (si pensi per esempio allo sbiadirsi delle tappezzerie sotto l’azione della luce solare, dovuto ad una lenta trasformazione chimica delle sostanze coloranti). Incidendo sulla superficie di alcuni metalli, come il potassio o il sodio, la luce può, in certe condizioni, provocare l’emissione di cariche elettriche (effetto fotoelettrico). Altri metalli, come il selenio, presentano una variazione di resistenza elettrica se colpiti dalla luce. Ciascuno di questi effetti potrebbe venir usato, ed in certi casi viene effettivamente usato, come indicatore della “quantità di energia” incidente su una superficie. Conviene però riferirsi agli effetti termici, sia per la loro maggiore generalità, sia perché mettono meglio e più direttamente in evidenza il carattere energetico della propagazione della luce. Assumeremo quindi che l’energia portata da un fascio di luce su un corpo annerito sia misurata dalla quantità di calore che si sviluppa nel corpo per effetto dell’illuminazione. L’annerimento della superficie ci garantisce che solo una frazione trascurabile della luce (cioè dell’energia) incidente venga riflessa o diffusa; per essere sicuri che tutta l’energia luminosa assorbita si converta in calore occorrerà porre attenzione affinché l’effetto termico non sia accompagnato da altri effetti, come reazioni chimiche o fenomeni elettrici, che potrebbero assorbire una parte dell’energia incidente. Definiamo alcune grandezze fisiche utili per le misure dell’energia emessa dalle sorgenti di luce, o, più propriamente, di radiazione elettromagnetica. Per una sorgente di radiazione, puntiforme o estesa, si chiama energia raggiante U la quantità di energia emessa in tutto lo spazio; nel S.I. U si misura in joule. Poiché l’energia raggiante si propaga nello spazio, è spesso utile considerare la densità di energia raggiante u(P ) in un punto P , definita come il rapporto tra la quantità di energia infinitesima dU contenuta in un elemento infinitesimo di volume dV centrato in P e il volume stesso, cioè dU (J m−3 ) dV Ovviamente, come per qualunque sorgente d’energia, per misurare la capacità di produzione d’energia è ovvio ed utile considerare la potenza raggiante P definita dal rapporto tra la u= 63 quantità infinitesima di energia dU emessa globalmente da tutta la sorgente in tutto lo spazio nel tempo infinitesimo dt e il tempo stesso, cioè P= dU dt (W = J s−1 ) Per caratterizzare eventuali anisotropie nell’emissione energetica delle sorgenti dovremo definire grandezze fisiche associabili alle diverse direzioni nello spazio. Nel caso di sorgenti puntiformi, dopo aver fissato un opportuno sistema di riferimento con origine posta, per semplicità, nella sorgente considerata, chiameremo intensità raggiante (in alcuni testi detta invece irradianza) J il rapporto tra la potenza raggiante infinitesima dP emessa in un angolo solido infinitesimo dΩ intorno ad una particolare direzione dello spazio e l’angolo solido stesso, cioè J= dP dΩ (W sr −1 ) Per una sorgente estesa occorre anche caratterizzare possibili disomogeneità spaziali nell’emissione di energia raggiante. Consideriamo un elemento infinitesimo di superficie dS della sorgente in esame, centrato attorno al punto P nel quale centriamo un opportuno sistema di riferimento di coordinate polari. Definiamo flusso raggiante emesso (o potenza raggiante specifica) il rapporto tra la potenza raggiante dP emessa dalla superficie dS in tutte le direzioni di un semispazio ed il valore di dS F = dP dS (W m−2 ) Definiamo radianza il rapporto tra la potenza infinitesima dP emessa dalla superficie dS nella generica direzione individuata dall’angolo θ rispetto al versore normale a dS ed il prodotto dell’angolo solido infinitesimo dΩ intorno a tale direzione e la proiezione della superficie stessa nella direzione di propagazione della radiazione, cioè R= dP dS · cosθ · dΩ (W m−2 sr −1 ) Nel caso più generale la radianza di una sorgente dipenderà sia dalla posizione di P sulla sorgente, sia dalla direzione di propagazione della radiazione, sarà cioè R = R(P ; θ, φ). Dalle definizioni date seguono alcune semplici conseguenze, fra cui citiamo Z Z 2π Z π/2 F (P ) = R(P ; θ, φ) cosθ dΩ = dφ R(P ; θ, φ) cosθ senθ dθ semispazio 0 P= Z 0 F (P ) dS superf icie sorgente Se una sorgente estesa di energia raggiante, di superficie ∆S, ha un’emissione isotropa, la sua radianza non dipende dalla direzione (θ, φ) nella quale R è valutata (proprietà valida rigorosamente solo per un corpo nero). In questo caso il flusso raggiante globalmente emesso è Z Z 2π Z π/2 1 dφ R dS cosθ senθdθ = π R (Legge di Lambert) F = ∆S ∆S 0 0 64 Consideriamo una sorgente estesa, di superficie ∆S, che emette energia raggiante con una radianza R e posta ad una distanza p sull’asse ottico di una lente semplice L di area A e distanza focale f < p. Le dimensioni di ∆S ed A e la distanza p sono tali da poter trattare il comportamento ottico della lente L in approssimazione gaussiana. L fornisce un’immagine reale di superficie ∆S ′ della sorgente a distanza q dalla lente. Desideriamo valutare la radianza R′ dell’immagine reale che può a sua volta diventare una sorgente di radiazione per successivi sistemi ottici. La potenza raggiante che investe la lente L è data da P = R ∆S ∆Ω = R ∆S A p2 In assenza di riflessione ed assorbimento dell’energia raggiante da parte della lente L, tutta la potenza raggiante P sarà convogliata nell’immagine, in modo che P= R′ ∆S ′ A q2 Possiamo quindi scrivere che R ∆S A R′ ∆S ′ A = p2 q2 In approssimazione gaussiana abbiamo che 2 q ∆S ∆S = p ′ per cui possiamo dedurre che R = R′ La radianza di sorgenti estese e delle loro immagini in approssimazione gaussiana è quindi un invariante. Una quantità geometrica che rappresenta un invariante per una lente sottile (in cui pupilla d’ingresso e d’uscita coincidono coi piani principali, coincidenti a loro volta con il piano della lente stessa) è il prodotto della superficie per l’angolo solido sotteso dalla superficie A della lente vista dal piano in cui è posta la superficie ∆S. Infatti ∆S ∆Ω = ∆S ′ ∆Ω′ 2 A A q ∆S 2 = ∆S (c.v.d.) p p q2 √ La quantità ∆S ∆Ω è detta invariante ottico (in molti testi tecnici il termine ∆S ∆Ω è riportato con il termine inglese throughput). Ovviamente per sistemi ottici composti dovranno essere analizzate con cura la localizzazione e le dimensioni delle pupille d’ingresso e d’uscita del sistema prima di stimare il corrispondente invariante ottico. 65 A.2 Strumenti diottrici semplici Sotto il nome di strumenti diottrici si intendono comunemente quei sistemi diottrici centrati che vengono impiegati per aiutare l’occhio nella visione degli oggetti la cui osservazione sarebbe scomoda o impossibile ad occhio nudo, o perché la loro “grandezza apparente” è troppo piccola, o perché (se si tratta di oggetti luminosi puntiformi) il flusso luminoso da essi inviato alla pupilla è inferiore al minimo necessario per eccitare gli elementi sensibili della retina. Un oggetto appare piccolo o grande all’osservazione diretta a seconda delle sue dimensioni e della sua distanza dall’occhio dell’osservatore; quello che importa è evidentemente l’estensione della sua immagine retinica ovvero il numero di elementi retinici interessati alla visione, dal quale dipende il numero dei dettagli distinti osservabili. Le dimensioni dell’immagine retinica dipendono dal rapporto tra le dimensioni dell’oggetto e la sua distanza dall’occhio, rapporto che viene assunto come misura della grandezza visuale o apparente dell’oggetto e che coincide, per angoli piccoli, con l’angolo visuale relativo all’oggetto considerato. Il vantaggio che si ottiene ad osservare un oggetto attraverso uno strumento diottrico, cioè ad osservare l’immagine fornita dallo strumento, è misurato evidentemente dal rapporto tra la grandezza visuale dell’immagine e la grandezza visuale dell’oggetto nell’osservazione diretta oppure, per angoli piccoli, dal rapporto tra l’angolo visuale dell’immagine e l’angolo visuale dell’oggetto nell’osservazione diretta. Questo rapporto viene chiamato ingrandimento visuale dello strumento. Esso non va confuso con l’ingrandimento lineare, precedentemente definito come rapporto tra le dimensioni lineari dell’immagine fornita da un sistema ottico e quelle della sorgente, ed ha interesse, da un punto di vista pratico, soltanto quando l’immagine (reale) fornita dal sistema viene raccolta su uno schermo o su un opportuno rivelatore. a) Foro stenopeico, camera oscura Si possono ottenere immagini di sorgenti luminose estese praticando un foro in un diaframma opaco ed andando a raccogliere l’immagine su uno schermo posto a distanza D (v. Fig.44). In pratica si può realizzare una semplice camera oscura prendendo una scatola, con pareti interne annerite, di lunghezza D ≃ 0.3 ÷ 0.4 m, praticando un foro di diametro d sulla superficie ortogonale al lato più lungo della scatola e ponendo sul lato opposto un vetro smerigliato dove osservare l’immagine per proiezione (ovviamente in un ambiente al buio per evidenziare la debole luminosità dell’immagine). Un ottimo esempio di immagine stenopeica del Sole può essere osservata nella cappella della Croce del Duomo di Firenze, nell’intorno del solstizio d’estate, quando la bronzina posta sul lato sud della lanterna del Duomo viene scoperta e la cupola viene usata come gnomone solstiziale. Più semplicemente, i cerchietti luminosi che si formano sul pavimento di stanze rivolte a sud tenute al buio, e Figura 44: che si spostano col tempo, sono immagini stenopeiche del Sole attraverso piccoli fori presenti nelle persiane o negli avvolgibili delle finestre. 66 Vediamo di stimare il diametro d che permette di ottenere il miglior risultato per la nitidezza dell’immagine. Con una sorgente puntiforme all’infinito vediamo che sullo schermo si forma una macchia luminosa di diametro d. Se utilizziamo una sorgente estesa all’infinito, per ogni direzione da cui proviene un fascio di raggi luminosi paralleli prodotti dalla sorgente avremo la formazione sullo schermo di una macchia luminosa di diametro d ; conseguentemente la figura osservata sullo schermo sarà data, grosso modo, dalla distribuzione d’intensità dell’immagine “vera” della sorgente all’infinito convoluta con la distribuzione bidimensionale della macchia luminosa di diametro d. Per osservare un’immagine sufficientemente nitida sullo schermo dovremo quindi usare un diametro d molto piccolo, anche se questo provocherà una diminuzione di intensità dell’immagine sullo schermo. Tuttavia non si può diminuire d a piacere perché iniziano a manifestarsi fenomeni di diffrazione. La distanza fra il picco centrale della figura di diffrazione ed il primo massimo secondario d’intensità è data, in prima approssimazione, da 2.44(λ/d)D, dove λ è la lunghezza d’onda della radiazione luminosa utilizzata (λ ≃ 550 nm per il visibile). Il miglior compromesso è quindi ottenuto per λ D∼d d p √ cioè per d(mm) ≃ 2.44 λ D ≃ 3.6 · 10−2 · D(mm). 2.44 b) Obiettivi: camera fotografica Un qualsiasi sistema ottico convergente destinato a fornire immagini reali di oggetti reali prende il nome di obiettivo. Una semplice lente convergente può essere usata come obiettivo ma le aberrazioni cui essa dà luogo sono in pratica talmente grandi che al suo posto viene sempre usato un sistema di più lenti, nel suo complesso convergente, e corretto in misura maggiore o minore per le diverse aberrazioni, a seconda dei requisiti a cui deve soddisfare. Si distinguono perciò, a seconda dell’impiego, tre tipi principali di obiettivi: per camera fotografica, per canocchiale e per microscopio. La camera fotografica consiste essenzialmente di una scatola a pareti opache ed annerite internamente (camera oscura); su una delle pareti è montato un obiettivo che proietta un’immagine reale e capovolta degli oggetti esterni su una pellicola fotografica (o rivelatore elettronico panoramico, tipo CCD) sensibile alla luce, disposta di fronte all’obiettivo. Per variare il tempo di esposizione del rivelatore di radiazione alla radianza dell’immagine da registrare ci serviamo di un otturatore, il cui tempo di apertura può arrivare fino a pochi millesimi di secondo. Dalla teoria dei sistemi diottrici risulta che un obiettivo forma un’immagine nitida solo degli oggetti contenuti in un piano coniugato del piano del rivelatore rispetto all’obiettivo. Teoricamente è impossibile ottenere sul rivelatore immagini nitide di oggetti disposti a distanze diverse dall’obiettivo e quindi anche delle parti di un oggetto avente estensione in profondità. In realtà, per la presenza delle aberrazioni, che non possono venir completamente eliminate, la cosidetta immagine di un punto non è mai puntiforme ma è data da un cerchio di minima confusione. In pratica basta che la radice quadrata della sezione del fascio luminoso convergente nell’immagine P ′ di ogni sorgente puntiforme P dell’oggetto sia minore o dell’ordine della distanza minima risolvibile dal rivelatore utilizzato. In questo senso è possibile “mettere a fuoco” sorgenti situate a distanze diverse dall’obiettivo e la differenza fra la massima e la minima distanza per cui tale messa a fuoco è “soddisfacente” si chiama profondità di fuoco. In particolare, se il rivelatore 67 si trova nel piano focale dell’obiettivo si ottengono immagini nitide di sorgenti a distanza infinita ed immagini sufficientemente nitide di sorgenti che si trovano ad una distanza superiore ad un certo limite, che si chiama distanza iperfocale. Su questa osservazione è basato l’uso delle cosidette macchine fotografiche a fuoco fisso, nelle quali le distanze fra l’obiettivo e il rivelatore è fissa, con notevoli vantaggi di semplicità costruttiva e di impiego; con esse non è però possibile fotografare oggetti situati ad una distanza inferiore alla distanza iperfocale. Per ottenere fotografie sufficientemente nitide di oggetti più vicini occorre poter variare la distanza fra il piano focale della macchina e l’obiettivo (macchine a fuoco variabile). Il calcolo della profondità di fuoco, che si esegue con considerazioni geometriche elementari, mostra che essa è approssimativamente proporzionale all’inverso del diametro della pupilla d’ingresso dell’obiettivo e cresce rapidamente al crescere della distanza dall’obiettivo del piano per cui si ha la nitidezza. Le macchine fotografiche sono quindi in generale munite di un diaframma ad apertura regolabile, generalmente disposto dietro l’obiettivo o fra l’una e l’altra delle lenti che lo compongono, in modo da poter variare il diametro della pupilla d’ingresso; il massimo diametro ottenibile è evidentemente determinato dal diametro delle lenti dell’obiettivo. Ogni elemento fisico del rivelatore (PIXEL = PICture ELement) raccoglie un flusso d’energia raggiante ∆Φ(U), che è la grandezza fisica che provoca le modificazioni del pixel permettendo la rivelazione ed acquisizione dell’immagine. Se R′ è la radianza dell’immagine ∆Φ(U) = R′ · ∆texp · ∆Ω dove ∆texp è il tempo di esposizione controllato dall’otturatore e ∆Ω l’angolo solido sotto cui è visto l’obiettivo dal PIXEL. Il massimo valore di ∆Ω è dato da πd2 /f 2 , dove d è il massimo diametro del diaframma ed f la distanza focale dell’obiettivo. Abbiamo cioè 2 d ′ ∆Φ(U) = πR ∆texp f La quantità (d/f ) si chiama apertura relativa dell’obiettivo e viene generalmente contrassegnata sulla ghiera su cui l’obiettivo è montato mediante una sigla. Ad esempio la sigla f /11 significa che d/f = 1/11. Si noti che per la validità dell’approssimazione di Gauss d/f non deve superare ∼ 1/10, ma i metodi di correzione delle aberrazioni permettono oggi la costruzione di obiettivi in cui d/f = 1/1. In corrispondenza della leva di regolazione dell’apertura del diaframma sono poi segnati i valori di d/f (anzi, in generale, di f /d) corrispondenti alle diverse aperture del diaframma stesso. La scelta dell’apertura del diaframma da adottare va fatta caso per caso parallelamente alla scelta del tempo di esposizione, a seconda delle caratteristiche dell’oggetto da fotografare (fermo o in movimento più o meno rapido, di maggiore o minore radianza, ecc.), tenendo presente che un aumento dell’apertura del diaframma permette di diminuire il tempo di esposizione ma diminuisce la profondità di fuoco ed aumenta l’entità delle aberrazioni. Un’altra caratteristica fondamentale di un obiettivo è l’apertura del campo per la quale l’obiettivo stesso è sufficientemente corretto per le aberrazioni. Il diaframma di campo è costituito generalmente dal contorno del rivelatore o, per meglio dire, dall’immagine di esso rispetto all’obiettivo (che risulta situata nel piano degli oggetti esattamente a fuoco); l’obiettivo deve essere quindi calcolato in modo che le aberrazioni residue siano contenute entro limiti praticamente tollerabili per tutti i punti del campo cosı̀ delimitato. L’entità delle aberrazioni aumenta con 68 l’aumentare del diametro della pupilla d’ingresso: ciò avviene in particolare per le zone marginali del campo, dove al cromatismo ed all’aberrazione di sfericità si sovrappongono l’astigmatismo, il coma, la curvatura di campo e la distorsione. Come misura dell’apertura del campo immagini si assume l’angolo la cui tangente è data dal rapporto tra la diagonale del rivelatore e la distanza focale dell’obiettivo. c) Lente di ingrandimento, microscopio semplice La lente d’ingrandimento è una lente convergente che viene usata in modo da formare, nella posizione più comoda per l’osservazione, l’immagine fortemente ingrandita di oggetti (reali) di piccole dimensioni. A tale scopo l’oggetto AB viene posto tra la lente ed il primo fuoco (Fig.45) in modo che l’immagine A ′ B ′ si formi ad una distanza dall’occhio (la cui pupilla si immagina posta in F ′1 ) maggiore o uguale alla distanza della visione distinta. In queste condizioni, come risulta chiaro dalla figura, l’angolo visuale sotto cui è vista dall’occhio l’immagine A ′ B ′ dell’oggetto AB è uguale a 2α′ ; se la lente ha una distanza focale di pochi centimetri è evidente che, se venisse rimossa, l’occhio non potrebbe essere accomodato sull’oggetto AB, perché la sua distanza sarebbe assai minore della distanza del punto prossiFigura 45: mo. Indichiamo allora con 2 α l’angolo visuale massimo sotto cui l’oggetto AB è visto nell’osservazione diretta (compatibilmente con un’osservazione faticosa), che si ottiene evidentemente quando l’oggetto è posto alla distanza della visione distinta d0 (indicata in figura con A′′ B ′′ ). L’ingrandimento visuale della lente è dato dal rapporto Gα = 2α′ α′ y′ y y ′ d0 = ≃ ′/ = 2α α h d0 y h′ (53) avendo indicato con h ′ la distanza dell’immagine A ′ B ′ dall’occhio (h ′ ≥ d0 ), con 2 y e 2 y ′ le dimensioni lineari dell’oggetto e dell’immagine rispettivamente ed avendo supposto α e α ′ abbastanza piccoli in modo da poter confondere le tangenti con l’angolo. L’ingrandimento visuale Gα si esprime in diametri come l’ingrandimento lineare y ′ / y e coincide con quest’ultimo se anche l’immagine A ′ B ′ si forma alla distanza d0 (vedi Fig.45). Va notato che il rapporto Gα = α ′ / α non è altro che il rapporto delle dimensioni lineari delle 69 immagini retiniche date da A ′ B ′ e da AB ed è proprio dall’estensione di queste immagini retiniche che dipende il numero dei dettagli distinti osservabili. Ponendo l’oggetto AB quasi nel primo fuoco F1 della lente, l’immagine A ′ B ′ si forma a notevole distanza dalla lente ed in queste condizioni si ha p≃f h′=p ′ ≫ f e ricordando la (36) del par.2.8 (n = n ′ = 1) d0 d0 250 p ′ d0 = ≃ = Gα ≃ p p′ p f f f in mm (54) Se si esprimono le distanze in metri (1/f rappresenta il potere diottrico D della lente misurata in diottrie) si ottiene Gα = 0.25 D = D 4 (55) Dire, per esempio, che Gα = 8 diametri significa che la lente ha D = 32 diottrie → f = 1 ≃ 0.031 m = 3.1 cm 32 In pratica l’ingrandimento visuale ottenibile con una lente semplice non supera il valore di 10 diametri; diminuendo ulteriormente la distanza focale le aberrazioni assumono proporzioni praticamente intollerabili. Sostituendo alla lente un sistema di lenti nel suo complesso convergente e corretto per le principali aberrazioni, si possono raggiungere ingrandimenti fino a 40 diametri; tali sistemi prendono il nome di microscopi semplici e si adoperano come la lente di ingrandimento, disponendo l’oggetto fra il primo fuoco e il primo piano principale in modo da ottenere un’immagine diritta, virtuale, ingrandita, alla distanza della visione distinta o ad una distanza maggiore, eventualmente all’infinito. In ogni caso conviene porre l’occhio il più possibile vicino al sistema per ottenere (come si dimostra facilmente) la massima apertura del campo osservato. d) Oculari Una lente di ingrandimento, o un microscopio semplice, possono servire all’osservazione non solo di un oggetto ma anche dell’immagine reale formata da un altro sistema ottico (obiettivo). In generale si chiamano oculari i sistemi ottici che trasformano l’immagine reale data da un obiettivo in un’immagine virtuale nella posizione più adatta per l’osservazione (in generale alla distanza della visione distinta o all’infinito). Essi sono generalmente costituiti da sistemi di lenti che compensano in maniera praticamente soddisfacente le aberrazioni da cui è affetta l’immagine fornita dall’obiettivo, in modo da ottenere un’immagine focale il più possibile acromatica, stigmatica ed ortoscopica. Gli oculari si distinguono in positivi e negativi: si chiamano positivi quelli adatti all’osservazione di immagini reali che si formano avanti ad essi, cioè che raccolgono i fasci luminosi che divergono dai punti dell’immagine reale, trasformandoli in fasci luminosi quasi paralleli, tali da essere focalizzati dall’occhio senza sforzo; essi possono essere evidentemente adoperati anche per osservare oggetti reali. Si chiamano negativi gli oculari adatti all’osservazione di immagini 70 reali che si formerebbero dietro all’oculare se questo non ci fosse, cioè che raccolgono fasci luminosi convergenti prima che convergano nei punti dell’immagine e li trasformano, anche in questo caso, in fasci pressoché paralleli; l’immagine reale fornita dall’obiettivo funge per l’oculare da oggetto virtuale. Con un oculare negativo (che è anche invertitore, cioè capovolge l’immagine rispetto al suo oggetto, al contrario degli oculari positivi che danno immagini diritte) non si possono evidentemente osservare oggetti reali. Il più semplice tipo di oculare positivo è, come abbiamo visto, una lente convergente, opportunamente usata; il più semplice oculare negativo è costituito da una lente divergente (per esempio l’oculare di Galileo, vedi paragrafo successivo). A.3 Strumenti diottrici composti Prendono il nome di strumenti diottrici composti quelli costituiti dalla successione almeno di un obiettivo e di un oculare. Si distinguono in microscopi e canocchiali a seconda che vengano costruiti ed impiegati per l’osservazione rispettivamente di oggetti di dimensioni molto piccole o di oggetti molto lontani; in entrambi i casi l’osservazione diretta fornirebbe immagini retiniche troppo piccole. a) Canocchiale Il canocchiale è costituito da un obiettivo acromatico a lunga distanza focale e da un oculare; l’obiettivo ha il compito di fornire immagini reali e nitide degli oggetti esterni, l’oculare di osservare tali immagini comportandosi cioè da microscopio semplice. La Fig.46 mostra l’andamento dei raggi luminosi e la formazione delle immagini nel canocchiale astronomico; AB è Figura 46: l’oggetto osservato posto molto lontano, l’obiettivo L1 , che in figura è stato schematizzato con una lente semplice, ne fornisce un’immagine reale e capovolta A′ B ′ molto vicina al suo secondo piano focale. L’oculare forma di A′ B ′ l’immagine virtuale A′′ B ′′ , ancora capovolta, ad una distanza maggiore o uguale della distanza della visione distinta. Con il canocchiale astronomico si vedono immagini capovolte degli oggetti e questo non è un inconveniente nelle osservazioni astronomiche. Nelle osservazioni terrestri, in cui si richiede che le immagini siano diritte, si fa uso di altri tipi di oculari: nel canocchiale di Galileo, per esempio, le immagini sono raddrizzate con un oculare formato da un’unica lente divergente. L’immagine reale fornita dall’obiettivo 71 L1 (Fig.47) si formerebbe senza la lente divergente L2 in A ′ B ′ al di là del primo fuoco F2 della lente divergente stessa; il fascio di raggi luminosi concorrenti in A′ B ′ è trasformato dal- Figura 47: l’oculare in un fascio di raggi luminosi divergenti che concorrono in A′′ B ′′ , fornendo quindi di AB un’immagine virtuale diritta ed ingrandita ad una distanza maggiore o uguale alla distanza della visione distinta. In pratica, gli oculari terrestri generalmente usati sono costituiti da oculari astronomici a cui viene aggiunto un sistema invertitore detto veicolo costituito da un’altra lente o da un sistema di prismi (canocchiali prismatici). L’ingrandimento visuale Gα di un canocchiale è dato dal rapporto dei due angoli A′′ P̂ B ′′ e AP̂ B sotto i quali si vedono l’immagine A′′ B ′′ dell’oggetto AB attraverso lo strumento e l’oggetto AB ad occhio nudo rispettivamente. E’ facile riconoscere che con lo strumento in disposizione telescopica, supponendo cioè che il secondo fuoco F1′ dell’obiettivo coincida con il primo fuoco dell’oculare F2 , l’ingrandimento visuale Gα è uguale al rapporto tra le distanze focali dell’obiettivo e dell’oculare. Supponendo infatti tanto l’oggetto che l’immagine a distanza infinita, detto O il centro dell’obiettivo si potrà sostituire all’angolo AP̂ B l’angolo AÔB e similmente, detto C il centro dell’oculare, all’angolo A′′ P̂ B ′′ si potrà sostituire l’angolo A′′ ĈB ′′ e quindi Gα = A′′ ĈB ′′ AÔB Se si tiene presente che A′′ ĈB ′′ è l’angolo sotto cui è vista l’immagine A′ B ′ dal centro C dell’oculare mentre AÔB è uguale all’angolo sotto cui è vista la stessa immagine dal centro O dell’obiettivo e che si tratta di angoli piccoli potremo scrivere Gα = f1 A′ B ′ A′ B ′ 2α′ / = ≃ 2α f2 f1 f2 (56) che si esprime convenzionalmente in diametri. Il canocchiale funziona normalmente in condizioni che si avvicinano molto a quelle descritte e quindi l’ingrandimento ha in ogni caso un valore assai prossimo a f1 /f2 . f2 non scende mai sotto gli 8 − 10 mm; Gα può assumere valori molto elevati (per es. 1000 diametri) soltanto se f1 è molto grande (f1 = 10 m). Per “mettere a fuoco” l’oggetto osservato, cioè per ottenere un’immagine nitida nella posizione 72 più comoda (generalmente all’infinito) si fa variare la distanza tra obiettivo ed oculare, variando leggermente la posizione relativa dei fuochi. La pupilla di ingresso del canocchiale è costituita in generale dal bordo della ghiera metallica con cui è montato l’obiettivo; la sua immagine data dal sistema ottico è la pupilla di uscita, che prende il nome di anello oculare perchè nel suo piano deve essere situata la pupilla dell’occhio dell’osservatore. Aumentando l’ingrandimento del canocchiale la radianza dell’immagine diminuisce, se non si aumenta proporzionalmente il diametro della pupilla di ingresso ossia il diametro dell’obiettivo. b) Microscopio composto Il microscopio composto è uno strumento molto simile, sotto certi aspetti, al canocchiale astronomico. Le differenze derivano dal fatto che l’oggetto da osservare, che nel caso del canocchiale è a distanza molto grande, nel caso del microscopio può essere (ed è comodo che sia) portato ad una distanza piccola dall’occhio dell’osservatore, e disposto nella posizione più conveniente. Con riferimento alla Fig.48 l’obiettivo, i cui punti cardinali sono indicati con O1 , O1′ , F1 e F1′ , è costituito da un sistema convergente di distanza focale cortissima (anche meno di 1 mm); l’oggetto da osservare AB viene disposto ad una distanza poco maggiore della distanza focale, in un piano ben determinato per il quale l’obiettivo è quasi completamente esente da aberrazioni anche per fasci incidenti di grande apertura. L’immagine reale e capovolta A′ B ′ risulta perciò fortemente ingrandita e si forma in un piano fisso ad una distanza dall’obiettivo grande rispetto alla distanza focale. L’oculare, un sistema convergente a corto fuoco i cui punti cardinali sono indicati con O2 , O2′ , F2 e F2′ in Fig.48, ha il primo piano focale coincidente con il piano dell’immagine reale A′ B ′ e forma perciò di questa un’immagine virtuale A′′ B ′′ diritta, e quindi capovolta rispetto all’oggetto, all’infinito. L’oculare, che al contrario dell’obiettivo raccoglie fasci luminosi non molto ampi ma molto inclinati sull’asse ottico, è calcolato in modo da essere esente, per i punti del piano dell’immagine A′ B ′ , dalle aberrazioni di astigmatismo, curvatura di campo e distorsione, e da compensare le aberrazioni residue dell’obiettivo. Avvicinando lieveFigura 48: mente l’oggetto all’obiettivo, l’immagine A′ B ′ viene a formarsi tra il primo fuoco F2 ed il primo punto principale O2 dell’oculare; si può cosı̀ ottenere che l’immagine A′′ B ′′ si formi alla distanza della visione distinta anziché all’infinito. La distanza tra obiettivo ed oculare è quindi fissa; in pratica i due sistemi di lenti sono montati all’estremità di un tubo la cui lunghezza, misurata tra la ghiera inferiore a cui viene avvitato l’obiettivo e l’orlo superiore in cui appoggia l’orlo dell’oculare, viene chiamata lunghezza meccanica o tiraggio del microscopio, ed è generalmente, per convenzione fra molte case 73 costruttrici, di 160 mm. La distanza ∆ = F1 ′ F2 , detta lunghezza ottica, è dello stesso ordine di grandezza ma varia un poco a seconda dell’obiettivo e dell’oculare che si montano sul tubo. La messa a fuoco viene eseguita spostando il tubo rispetto all’oggetto da osservare (preparato) mediante un meccanismo a cremagliera, munito generalmente anche di movimento micrometrico per ottenere comodamente spostamenti molto piccoli; data la vicinanza dell’oggetto al piano focale dell’obiettivo ed il piccolo valore della distanza focale di questo, basta infatti uno spostamento piccolissimo dell’oggetto per ottenere un grande spostamento dell’immagine. L’ingrandimento visuale dato dal microscopio si calcola facilmente. Se la grandezza lineare dell’oggetto AB è y, l’angolo visuale massimo sotto cui esso è visto nell’osservazione diretta è α ≃ y/d0, dove d0 è la distanza della visione distinta (250 mm). D’altra parte, confondendo la distanza dell’oggetto AB dall’obiettivo con la sua distanza focale f1 , e trascurando f1 ′ rispetto alla distanza ∆ = F1 ′ F2 (come è lecito in prima approssimazione), la grandezza lineare dell’immagine reale A′ B ′ è y ′ = y ∆ / f1 . Supponiamo che questa si formi esattamente sul piano focale dell’oculare in modo che l’immagine finale A′′ B ′′ si formi all’infinito; l’angolo visuale α ′ sotto cui è vista dall’occhio l’immagine A′′ B ′′ è uguale a quello sotto cui è vista l’immagine A′ B ′ , e allora se l’occhio dell’osservatore è a contatto con l’oculare si ha ∆ y′ =y α = f2 f1 f2 ′ e l’ingrandimento visuale risulta Gα = ∆ / f1 f2 d0 ∆ α =y = ′ α y / d0 f1 f2 (57) Data la piccolezza di f1 la formula (57) risulta sufficientemente approssimata anche se l’immagine A′′ B ′′ si trova alla distanza della visione distinta anziché all’infinito: in tal caso l’ingrandimento visuale coincide con l’ingrandimento lineare. L’espressione (57) dell’ingrandimento visuale si può considerare come il prodotto di due fattori: il primo d0 /f1 = 250/f1 (f1 in mm) caratteristico dell’obiettivo (ingrandimento di obiettivo), il secondo ∆/f2 caratteristico dell’oculare (numero dell’oculare). Questi valori vengono generalmente contrassegnati negli oculari e negli obiettivi di cui è corredato ogni microscopio; talvolta sugli obiettivi è indicata la distanza focale f1 anziché l’ingrandimento 250 / f1 ; per esempio un microscopio usato con un obiettivo di distanza focale 2.5 mm ed un oculare “13 X” dà un ingrandimento visuale 250 13 = 1300 diametri 2.5 La pupilla di ingresso del microscopio è costituita in generale dal contorno dell’obiettivo; la sua immagine rispetto all’oculare costituisce l’anello oculare, nel cui centro, detto punto oculare, va posto il centro della pupilla dell’occhio per utilizzare completamente il campo dello strumento. Questo è limitato da un diaframma posto generalmente nel primo piano focale dell’oculare o a poca distanza da esso, in modo che la sua immagine, che costituisce il diaframma del campo, coincida con il piano dell’oggetto e lo delimiti nettamente. 74 L’intensità visuale dell’immagine formata dal microscopio dipende dal flusso luminoso che da ciascun punto dell’oggetto viene raccolto dall’obiettivo e poi, attraverso il microscopio, concentrato sulla retina dell’occhio dell’osservatore. Nei limiti dell’approssimazione di Gauss, come abbiamo visto, essa risultava proporzionale, oltre che alla trasparenza dello strumento, alla sezione della pupilla dell’occhio efficace per l’osservazione dell’immagine. Nel caso del microscopio non è più lecito approssimare le tangenti con gli angoli; si può dimostrare che l’intensità visuale dell’immagine osservata, se il diametro dell’anello oculare è più piccolo del diametro della pupilla, risulta proporzionale a n2 sen2 α, dove n è l’indice di rifrazione del mezzo in cui è immerso l’oggetto, e 2 α è l’angolo sotto cui, dal centro dell’oggetto, è visto il diametro dell’obiettivo. Il prodotto n sen α prende il nome di apertura numerica dell’obiettivo ed insieme con il coefficiente di trasparenza caratterizza la luminosità del microscopio. Dall’apertura numerica dipende anche il potere risolutivo del microscopio, definito come la distanza a che deve separare due punti del preparato perché i due punti appaiano distinti nell’osservazione attraverso lo strumento. Secondo l’ottica geometrica a dipende soltanto dall’ingrandimento visuale, dalla correzione delle aberrazioni e dall’acutezza visiva dell’osservatore; due punti dell’immagine appaiono distinti se sono visti dall’osservatore sotto un angolo visuale minimo che, in media, è di circa 1 ′ . Se l’immagine A′′ B ′′ si forma alla distanza della visione distinta, a questo angolo visuale corrisponde una distanza lineare di circa 0.073 mm; la distanza che separa i due punti corrispondenti del preparato si ottiene da questa dividendola per l’ingrandimento lineare che in questo caso, come sappiamo, coincide con l’ingrandimento visuale. Sembrerebbe quindi che aumentando sufficientemente l’ingrandimento visuale fosse possibile ottenere un potere risolutivo grande a piacere. Una prima limitazione a questa possibilità è imposta dalla presenza delle aberrazioni, a causa delle quali l’immagine di un punto non è esattamente puntiforme ma è un dischetto di dimensioni finite; la tecnica della correzione delle aberrazioni è però oggi talmente progredita che questo fatto non costituisce una difficoltà importante. Una limitazione assai più grave, perché non eliminabile, è imposta invece dalla natura stessa della luce. L’ottica geometrica è infatti soltanto una teoria di prima approssimazione per la descrizione dei fenomeni luminosi e solo in prima approssimazione si possono ritenere validi i suoi risultati. Tenendo conto della natura ondulatoria della luce si può dimostrare che, indipendentemente da qualunque aberrazione o difetto di costruzione, il potere risolutivo di un microscopio ha un limite inferiore che dipende dal colore della luce impiegata per illuminare l’oggetto osservato e tale limite è tanto più piccolo quanto più grande è l’apertura numerica dell’obiettivo. Si comprende perciò l’importanza di usare obiettivi con l’apertura numerica più grande possibile: ciò si può ottenere sia aumentando l’indice di rifrazione del mezzo che separa l’oggetto dalla prima lente dell’obiettivo (uso di obiettivi ad immersione in cui il preparato è immerso in una goccia di olio di cedro (n = 1.5) aderente alla prima lente) sia aumentando l’apertura del fascio luminoso raccolto dall’obiettivo stesso. Ma l’eliminazione dell’aberrazione è tanto più difficile quanto più il fascio è ampio e, a parità di apertura angolare, quanto maggiore è il diametro delle lenti. Un’altra importante caratteristica di un microscopio è la sua profondità di fuoco che si definisce, come per gli obiettivi fotografici, come la massima distanza fra due piani oggetti i cui punti sono visti simultaneamente con sufficiente nitidezza. La profondità di fuoco dipende evidentemente dall’ingrandimento e dall’apertura numerica e decresce al crescere di entrambi. 75 Per esempio per un obiettivo di distanza focale 2 mm ed apertura numerica 1.2 essa è di soli 0.5 µm. L’illuminazione del preparato, che non è quasi mai luminoso, può essere ottenuta con diversi metodi a seconda delle caratteristiche del preparato e dei risultati che si vogliono ottenere. Normalmente il preparato viene illuminato per trasparenza concentrando su di esso, mediante un apposito sistema di specchi o lenti detto condensatore, un intenso fascio luminoso che lo attraversa rifrangendosi e diffondendosi in tutte le direzioni; da ogni punto del preparato emerge cosı̀ un cono di raggi luminosi che investe l’obiettivo. Nei microscopi metallografici usati per lo studio della struttura di metalli, leghe, minerali, ecc., la superficie da osservare viene illuminata dall’alto mediante opportuni sistemi di prismi e l’obiettivo ne raccoglie la luce riflessa e diffusa (illuminazione per riflessione). 76