Anno 11 n.1/2008 La certificazione di idoneità alla pratica fisico-sportiva. Tito Livio Schwarzenberg Vincenza Patrizia Di Marino “Tako-tsubo syndrome”. Enigmatico stordimento miocardico di recente individuazione. Livio Meciani I disturbi dell’equilibrio nella terza età. Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, comma 1 DCB Milano Giorgio Guidetti PRIMO PIANO Endometriosi: quanto dura l’effetto ipoestrogenico della triptorelina depot? Pietro Cazzola Il carcinoma vescicale: quando sospettarlo e qual è il ruolo del medico di Medicina Generale Alessandro Bertaccini Patologie cutanee da tessuti Paolo D. Pigatto Lucretia A. Frasin Più messaggi corretti o fregature quando si parla di capelli? Cronaca del primo dibattito aperto organizzato dalla IHRF e proposta di un decalogo per chi perde i capelli. Fabio Rinaldi Volume 11, n. 1, 2008 Indice La certificazione di idoneità alla pratica fisico-sportiva. pag. Tito Livio Schwarzenberg, Vincenza Patrizia Di Marino Direttore Responsabile Pietro Cazzola Direttore Generale Armando Mazzù Direttore Marketing Antonio Di Maio 3 “Tako-tsubo syndrome”. Enigmatico stordimento miocardico di recente individuazione. Livio Meciani pag. 13 pag. 25 pag. 30 I disturbi dell’equilibrio nella terza età. Giorgio Guidetti Redazione e Amministrazione Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Tel. 0270608091 - 0270608060 Fax 0270606917 E-mail: [email protected] PRIMO PIANO Endometriosi: quanto dura l’effetto ipoestrogenico della triptorelina depot? Consulenza Amministrativa Cristina Brambilla Pietro Cazzola Consulenza Grafica Piero Merlini Impaginazione Clementina Pasina Registrazione Tribunale di Milano n. 383 del 28/05/1998 Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n.10.000 Stampa Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI) Il carcinoma vescicale: quando sospettarlo e qual è il ruolo del medico di Medicina Generale Alessandro Bertaccini pag. 35 È vietata la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, di articoli, illustrazioni e fotografie pubblicati su Scripta MEDICA senza autorizzazione scritta dell’Editore. L’Editore non risponde dell’opinione espressa dagli Autori degli articoli. Patologie cutanee da tessuti Paolo D. Pigatto, Lucretia A. Frasin pag. 39 Edizioni Scripta Manent pubblica inoltre: ARCHIVIO ITALIANO DI UROLOGIA E ANDROLOGIA RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA DELL’ADOLESCENZA JOURNAL OF PLASTIC DERMATOLOGY INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA Più messaggi corretti o fregature quando si parla di capelli? Cronaca del primo dibattito aperto organizzato dalla IHRF e proposta di un decalogo per chi perde i capelli. Fabio Rinaldi pag. 45 Diffusione gratuita. Ai sensi della legge 675/96 è possibile, in qualsiasi momento , opporsi all’invio della rivista comunicando per iscritto la propria decisione a: Edizioni Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 3 La certificazione di idoneità alla pratica fisico-sportiva. Tito Livio Schwarzenberg, Vincenza Patrizia Di Marino Introduzione L’argomento che ci accingiamo ad affrontare, vale a dire “La certificazione medico-sportiva” può apparire, a prima vista, abbastanza banale e scontato, soprattutto di fronte ad una platea di esperti pediatri e adolescentologi. Ciò non ostante riteniamo senz’altro utile e importante, proprio in questo contesto, riflettere e confrontarci su un aspetto di così frequente riscontro nella nostra pratica professionale quotidiana ricco di implicazioni normative, giuridiche, etiche oltreché sanitarie e con riflessi addirittura sull’economia nazionale tanto da essere stato preso in seria considerazione perfino nell’ultima (quanto mai discussa e sofferta) legge di programmazione economica e finanziaria del nostro Paese. Giova premettere, a questo punto qualche richiamo di carattere sostanziale e normativo sulla certificazione in genere, su quella medica in particolare per poter concentrare, infine, la nostra attenzione sull’aspetto specifico della certificazione medico-sportiva. Si definisce “certificato” un atto scritto che dichiara conformi a verità fatti di natura tecnica, di cui il certificato stesso è destinato a provare l’esistenza. Essendo un atto pubblico il certificato deve, ovviamente, essere veritiero e redatto in modo chiaro ed univoco (1-3). Con espressione più formale “Il certificato è la testimonianza scritta su fatti e comportamenti tecnicamente apprezzabili e valutabili, la cui dimostrazione può condurre all’affermazione di diritti soggettivi previsti dalla norma, ovvero UOC di Adolescentologia, Dipartimento Scienze Ginecologiche, Perinatologia e Puericultura Università “La Sapienza”, Roma determinare conseguenze a carico dell’individuo o della collettività aventi rilevanza giuridica e/o amministrativa“ (4) o, più semplicemente: “Il certificato è l’atto scritto e firmato per mezzo del quale una persona investita di determinate attribuzioni e in tale qualità, attesta l’esistenza o meno di determinati fatti o qualità” (1). Ne consegue che il certificato medico rappresenta un documento che contiene una dichiarazione scritta nella quale si attesta la sussistenza di fatti obiettivi effettivamente riscontrati dal medico stesso nell’esercizio della propria attività professionale e destinati ad avere rilevanza giuridica. Per altro, la certificazione è sottoposta al vincolo degli art. 480 e 481 c.p., relativi alla falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale e/o dal personale esercente un servizio di pubblica necessità, oltre che dell’ art. 485 c.p. relativo alla falsità in scrittura privata. Il requisito della veridicità non può essere disgiunto da quello della chiarezza: è necessario, pertanto, evitare abbreviazioni e acronimi e, qualora non venga utilizzata la dattiloscrittura o l’uso di una modulistica prestampata, impiegare una grafia chiara, di pronta ed inequivocabile leggibilità. Vale anche la pena di ricordare che, in base alle previsioni del codice penale, possono essere individuate tre possibili qualificazioni del medico certificatore (2): 1) Pubblico ufficiale (art. 357 c.p.): è colui che esercita, in modo temporaneo o permanente, una pubblica funzione o un’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa in rappresentanza dello Stato o dell’Ente pubblico di appartenenza. Secondo le più recenti interpretazioni della giurisprudenza a tale categoria vanno assimilati i medici dipendenti Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 4 dalle ASL o dalle Aziende Ospedaliere con funzioni organizzative e che partecipano, quindi, alla volontà della Pubblica Amministrazione. Deve ritenersi pubblico ufficiale anche il medico che svolga l’incarico di perito o di consulente tecnico su nomina dell’autorità giudiziaria; 2) Incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.): è il medico che, per conto dello Stato che ne cura pertanto la tutela, svolge un’attività socialmente utile (vale a dire un pubblico servizio), indipendentemente dal fatto che sussista alla base un impiego di ruolo o avventizio. A tale categoria, pertanto, appartengono i medici dipendenti o convenzionati col Servizio Sanitario Nazionale (ad esempio i medici di base e i pediatri di libera scelta) impegnati nello svolgimento di mansioni di carattere strettamente medico dirette al soddisfacimento di un bisogno della collettività; 3) Esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.): è il medico libero professionista abilitato dallo Stato, alla cui opera ricorre il cittadino che ne ravveda la necessità. Si tratta, in questo caso, di prestazioni professionali che il medico – anche se dipendente pubblico – esercita, tuttavia, privatamente e direttamente e non in nome né per conto dello Stato o di un Ente pubblico. Da quanto finora premesso ne deriva che la potestà di certificare (G. Umani Ronchi e coll., 2002) discende esclusivamente dal conseguimento del diploma di laurea e dall’abilitazione all’esercizio della professione medica (2). Il limite oggettivo del certificato è rappresentato dall’oggetto stesso della certificazione che, in quanto promanazione dell’attività medica, non può avere altro rilievo che quello medico-biologico. Il limite soggettivo si concretizza, viceversa, nell’osservanza delle norme deontologiche e codicistiche relative in modo particolare al rispetto del segreto professionale e alla tutela della privacy. Pertanto (prescindendo da casi particolari, espressamente previsti per talune certificazioni obbligatorie) il certificato medico deve rispondere ai seguenti due requisiti (2, 5): a) essere rilasciato unicamente alla persona assistita o visitata, ovvero al suo rappresentante legale (genitore o tutore) in caso di minore o, comunque, di un soggetto legalmente incapace; b) limitarsi, nel proprio contenuto, unicamente a ciò che necessita all’interessato o a quanto quest’ultimo voglia rendere manifesto. A seconda di quanto viene previsto dalle specifiche disposizioni di legge, i certificati medici vengono distinti in: certificati obbligatori: rivolti alla tutela di interessi pubblici e rilasciati non in quanto richiesti dagli interessati ma in quanto una precisa normativa impone al medico il dovere della certificazione stessa; certificati facoltativi: di regola destinati ad attestare, nei confronti di Enti pubblici o privati, lo stato di salute del richiedente che, spontaneamente, li esibisce anche al di fuori di ogni obbligo di legge. È bene, tuttavia, rimarcare che la distinzione tra certificazione obbligatoria e facoltativa è, in realtà, puramente formale in quanto essa viene privata di qualsiasi rilievo sostanziale proprio alla luce dell’art 22 del Codice di Deontologia Medica, laddove si cita che “….il medico non può rifiutarsi di rilasciare direttamente al cittadino certificati relativi al suo stato di salute”. Giova anche premettere che tutta la normativa rivolta alla tutela sanitaria di chi pratica attività sportiva trova la propria origine, giustificazione e conforto proprio da alcuni articoli della Costituzione stessa della Repubblica Italiana, laddove l’art. 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle funzioni sociali ove si svolge la sua personalità”, l’art. 4 stabilisce che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” e, infine, l’art. 32 che garantisce la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Gli esordi della Legislazione in materia nel nostro Paese si fanno risalire alla Legge 28 dicembre 1950, n. 1055, recante norme di Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 5 “Tutela sanitaria delle attività sportive”. La tutela sanitaria in questione – inizialmente affidata alla Federazione Medico Sportiva Italiana – si esercitava nei confronti degli sportivi professionisti e dei cosiddetti “dilettanti con retribuzione abituale” nonché dei praticanti attività sportive considerate impegnative o pericolose (pugilato, atletica pesante, gare ciclistiche particolarmente gravose, sport motoristici e sport subacquei), imponendo a tutti costoro l’obbligo di sottoporsi ad accertamenti medici di idoneità con periodicità annuale, quale condizione indispensabile per l’accesso alla pratica dello sport. L’embrionale assetto normativo veniva, quindi sviluppato e rivisto, venti anni più tardi, dalla Legge 26 ottobre 1971, n. 1099, che affidava alle neonate Regioni la tutela sanitaria delle attività sportive e ampliava la portata della tutela medesima estendendola a “chiunque intende svolgere o svolge attività agonistico sportive” mediante l’accertamento obbligatorio, con visite mediche di selezione e di controllo periodico, dell’idoneità generica e dell’attitudine. A questo punto vale la pena di richiamare l’attenzione proprio sulla terminologia comunemente utilizzata, ricordando come le espressioni “idoneità” ed “attitudine” sportiva vengano assai spesso, erroneamente, considerate sinonimi. Al contrario, per idoneità generica all’attività sportiva dobbiamo intendere la “possibilità dell’organismo di tollerare senza danno il maggiore sviluppo di potenza e, quindi, il maggiore dispendio metabolico ed energetico che sono propri dell’attività sportiva rispetto alle attività abituali della vita sociale e lavorativa: si tratta, in altre parole, della generica capacità di reggere, senza danno, uno sforzo anche protratto”, mentre l’attitudine all’attività sportiva altro non è che la “specifica tendenza del soggetto verso una particolare e ben definita forma di attività sportiva in conseguenza di fattori genetici, ambientali, costituzionali, psicologici, antropometrici e funzionali”. Tralasciando in questa sede, per ovvii motivi di tempo e di spazio qualsiasi ulteriore considerazione sulla normativa intermedia e/o integrativa, è ben noto che tutte le attuali disposizioni sulla certificazione medico Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 6 sportiva fanno principalmente riferimento a tre decreti del Ministero della Sanità, tutt’ora pienamente vigenti, per quanto datati di ben 25 anni: Decreto Ministeriale 18 febbraio 1982 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” (G.U. n. 63 del 5 marzo 1982); Decreto Ministeriale 28 febbraio 1983 “Integrazione e rettifica del decreto ministeriale 18 febbraio 1982, concernente norme per la tutela dell’attività sportiva agonistica” (G.U. n. 72 del 15 marzo 1983); Decreto Ministeriale 28 febbraio 1983 “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva non agonistica” (G.U. n. 72 del 15 marzo 1983). L’ultimo decreto citato, recita all’art.1 che devono essere sottoposti a controllo sanitario per la pratica delle attività sportive non agonistiche: a) gli alunni che svolgono attività fisico-sportive organizzate dagli organi scolastici nell’ambito delle attività parascolastiche; b) coloro che svolgono attività organizzate dal CONI, da società sportive affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali o agli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal CONI e che non siano considerati atleti agonisti ai sensi del Decreto Ministeriale 18 febbraio 1982; c) coloro che partecipano ai Giochi della Gioventù, nelle fasi precedenti quella nazionale*. Una prima, inevitabile e spontanea, perplessità sorge, a questo punto, riguardo alla precisa ed univoca identificazione di quelle attività sportive che possono (o devono) essere identificate come “non agonistiche” in base al punto b) del citato DM 28-02-83, dal momento che la categoria del “non agonismo” finisce col caratterizzarsi soprattutto in negativo rispetto a quella dell’ “agonismo”, essendo la prima semplicemente la negazione della seconda. Ne discende che l’una e l’altra categoria sono state istituite dal legislatore non tanto in base a concrete valutazioni biomediche e psico-attitudinali quanto sulla spinta di motivazioni economiche, in considerazione del costo non certo indifferente che già comportano gli accertamenti obbligatori di idoneità agonistica riservati ad almeno nove milioni di soggetti che annualmente praticano attività sportive nell’ambito delle Federazioni Nazionali e degli Enti di promozione sportiva. Non si possono evidenziare, al contrario particolari dubbi nei riguardi dell’identificazione dei soggetti * Quando gli studenti italiani nel 1968 scesero in piazza e occuparono scuole e università per manifestare il loro profondo malessere, non immaginavano certamente di dare un contributo determinante alla nascita dei Giochi della Gioventù. L’approvazione ufficiale avvenne il 3 settembre 1968, ma già una circolare del 29 agosto ai comitati provinciali del Coni forniva le norme principali della manifestazione: età di ammissione 11-15 anni; programma: atletica leggera, ciclismo, ginnastica, nuoto, pallacanestro, pallavolo e sci (per l’inverno 1969-70); fasi: locali, provinciali, inter-provinciali e nazionale. L’entusiasmo con cui fu accolta l’iniziativa fece andare ben oltre quanto ordinariamente previsto gli operatori di base, che su strade e piazze, ma anche su prati e cortili fecero disputare non solo le gare di atletica leggera, ma anche la ginnastica artistica e gli sport di squadra. Da quel grandioso successo, i Giochi della Gioventù presero il volo, finendo per diventare in breve la più importante manifestazione sportiva giovanile italiana e una delle più importanti d’Europa. La numerosità dei partecipanti andò via via aumentando fino a superare i tre milioni e mezzo alla fine degli anni’70. Il programma si estese a sua volta fino a comprendere oltre cinquanta discipline, praticamente quasi tutti gli sport esistenti. Nel 1974 la manifestazione fece il suo ingresso stabile e ufficiale nella scuola, compresa quella elementare, anche se limitatamente al secondo ciclo. Dall’anno scolastico 1993-94 il programma tornò ad essere circoscritto alle discipline ufficialmente praticate nella scuola: atletica leggera, ginnastica, nuoto, sci, calcio, pallacanestro, pallamano, pallavolo, le stesse del programma dei Campionati Studenteschi. Merito fondamentale e indiscutibile dei Giochi della Gioventù è stato quello di aver introdotto nel potere pubblico e tra le autorità politiche una forte sensibilizzazione nei confronti dell’attività sportiva, intesa come mezzo insostituibile nella formazione ed educazione dei giovani, fin dalla scuola elementare. Non meno importante, infine, è da considerare l’azione svolta dai Giochi della Gioventù nella capillare diffusione tra la massa giovanile di un sano spirito sportivo e, nello stesso tempo, nella rivelazione di numerosi talenti, destinati successivamente ad arricchire in misura considerevole le fila dello sport nazionale. A partire dal 1998, altro momento “storico” del lungo cammino dell’attività scolastica è l’istituzione dei Giochi Sportivi Studenteschi, diretta conseguenza di un rinnovato protocollo di intesa tra Coni e Ministero della Pubblica Istruzione (19). In realtà, la nascita del Giochi Sportivi Studenteschi ha coinciso con un parallelo rapido e progressivo declino dei Giochi della Gioventù, sia per la diversa impostazione di base delle due iniziative, sia per il difficile connubio tra Coni e MPI. Tra l’altro, in questa sfavorevole situazione di conflitto hanno giocato il proprio ruolo anche alcune normative che impongono, ad esempio, per gli sport di squadra compresi nei Giochi Sportivi Studenteschi, il tetto massimo di 1/3 di atleti con lo status di tesserati, mentre gli altri atleti (i 2/3 quindi) devono essere puri, vale a dire non tesserati per l’anno in corso dalla specifica Federazione. Va, tuttavia, segnalato che non sono mancate iniziative congiunte del Coni e MPI per un rilancio dei Giochi della Gioventù proprio a partire dal corrente anno scolastico 2006/2007. Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 7 indicati ai punti a) e c), anche se l’acquisizione nella categoria agonistica per i partecipanti ai Giochi della Gioventù solo nelle fasi nazionali è del tutto incongrua, dal momento che l’impegno atletico e gli eventuali rischi ad esso connessi sono praticamente identici sia prima che durante le fasi nazionali dei Giochi stessi. L’art. 2 del DM 28-02-83 cita testualmente: “Ai fini della pratica delle attività sportive non agonistiche i soggetti di cui al precedente art. 1 devono sottoporsi, preventivamente e con periodicità annuale, a visita medica intesa ad accertare il loro stato di buona salute. In caso di motivato sospetto clinico il medico ha la facoltà di richiedere accertamenti specialistici integrativi, rivolgendosi anche al personale sanitario e alle strutture di cui all’art. 5, ultimo comma, della legge n. 33/80. La certificazione di stato di buona salute riscontrato all’atto della visita medica deve essere redatta in conformità al modello di cui all’allegato 1”. Infine, l’art.3 del DM conclude che: “La certificazione di cui al precedente art. 2 è rilasciata ai propri assistiti dai medici di medicina generale e dai medici specialisti pediatri di libera scelta, ai sensi dell’art. 23 dei rispettivi accordi collettivi vigenti”. Non si può fare a meno di rimarcare, a questo punto, che l’espressione “stato di buona salute” che il medico è chiamato a certificare come imposto dalla normativa, è di non univoca interpretazione né di agevole traduzione in chiave biomedica (6). Tra l’altro, l’equiparazione delle espressioni “stato di buona salute” e “integrità psico-fisica della persona” come abitualmente suggerito dalla disciplina giuridica, non appare del tutto convincente perché troppo impegnativa e potenzialmente, se presa alla lettera, suscettibile di allontanare dalla pratica sportiva (forse) la maggior parte della popolazione ritenendo non idonei anche coloro che fossero affetti da lievi o lievissime menomazioni (difetti di vista, paramorfismi vertebrali, malocclusioni, ecc,). Peraltro, sia nei vari articoli del Decreto Ministeriale in esame che nel fac-simile di certificazione (di cui all’allegato 1) non compare mai il termine “idoneità” che, al contrario,viene ampiamente usato in tutta la normativa riguardante la pratica dello sport ago- nistico. Ne consegue che, attestando meramente uno “stato di buona salute” e l’assenza di controindicazioni in atto (cioè clinicamente manifeste e, comunque diagnosticabili), il medico certificatore non viene assolutamente coinvolto nell’esprimere un qualsivoglia giudizio di idoneità sportiva (come, viceversa è esplicitamente previsto nelle certificazioni per lo sport agonistico). Né è accettabile una sovrapposizione concettuale tra le due locuzioni “stato di buona salute” e “idoneità generica allo sport” da taluni proposta riferendosi anche a precedenti quanto superate normative (Legge 26 ottobre 1971, n. 1099). Di fatti, un giudizio di “idoneità generica allo sport” appare del tutto improprio e inattendibile sulla base tanto dell’inesistenza di uno “sport generico” che dell’intrinseca specificità di qualsivoglia attività sportiva. Parallelamente, dobbiamo riflettere sul grave rischio di responsabilità professionale per quel medico certificatore che volesse, comunque, esprimere un giudizio di “idoneità generica allo sport” confidando esclusivamente sul carattere “non agonistico” della pratica così autorizzata, senza riflettere sull’estrema variabilità di impegno psico-fisico che le numerose specialità sportive inevitabilmente sottendono. Né va dimenticato che il medico certificatore, in caso di “motivato sospetto clinico” può, comunque, richiedere il conforto di consulenze specialistiche e di esami clinico strumentali integrativi (art. 2 comma 2° DM 28/02/83). È evidente che la clausola limitativa del “motivato sospetto clinico” è esclusivamente di natura economica e tesa a impedire la richiesta di accertamenti specialistici e/o di esami laboratoristici o strumentali non giustificabili da una dimostrata esigenza clinica ma il cui costo, rapportato ai milioni di soggetti potenzialmente coinvolgibili, sarebbe insostenibile dalle precarie finanze del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Proprio in questa luce va, quindi, vista la designazione dei medici e dei pediatri di famiglia in funzione di filtro per l’accesso allo sport non agonistico, essendo queste figure professionali quelle che (almeno presumibilmente) conoscono meglio il paziente e la sua storia clinica e, quindi, si trovano in posizione privilegiata sia per affermare lo “stato di buona salute” del proprio pazien- Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 8 te che per conoscere eventuali controindicazioni relative a eventi morbosi in atto o pregressi. Per quanto attiene alle norme sanitarie che riguardano le certificazioni e la tutela delle attività sportive agonistiche, come già premesso, si fa riferimento ad Decreto del Ministero della Sanità del 18 febbraio 1982 (integrato e rettificato a mezzo del Decreto 28 febbraio 1983). Lo stesso Ministero della Sanità, allo scopo di uniformare il comportamento normativo delle varie Regioni ha, successivamente, emesso la Circolare 18/03/1996 n. 500.4 dal titolo “Linee guida per un’organizzazione omogenea della certificazione di idoneità alla attività sportiva agonistica”. Viene, anzitutto, ribadito che devono ottenere il “certificato di idoneità sportiva agonistica” tutti coloro che praticano attività sportive qualificate come agonistiche dalle Federazioni Sportive Nazionali, dal CONI, dagli Enti sportivi riconosciuti oltre ai partecipanti alle fasi nazionali dei Giochi della Gioventù. Il criterio per determinare il “tesseramento agonistico” di un atleta è, quindi demandato ad ogni singola Federazione Sportiva Nazionale e, quasi di regola, si tratta di un criterio meramente anagrafico. Per meglio rendersi conto della realtà, riporto alcuni esempi di età di ingresso nell’attività agonistica (7-9): 7 anni: hockey su pista, moto minicross, pattinaggio artistico, tennis da tavolo; 8 anni: bocce, ginnastica, karting, nuoto, pattinaggio su ghiaccio, scherma; 9 anni: baseball, canottaggio, sci (alpino e nordico), vela; 10 anni: hockey su prato, pentathlon, tennis; 12 anni: calcio, judo e sport marziali, pallacanestro, pallavolo, rugby, atletica leggera; 14 anni: moto enduro-cross trial e velocità, pugilato, tiro a volo Rimane inteso, tuttavia, che le diverse fasce di età sopra ricordate sono sempre suscettibili di modifiche e revisioni a discrezione di ciascuna Federazione. Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 9 Il rilascio della certificazione di idoneità alla pratica sportiva agonistica è, comunque, demandato esclusivamente al medico specialista in Medicina dello Sport operante nelle strutture pubbliche o in quelle private autorizzate che, in relazione alle varie normative regionali, possono essere: Centri ASL Centri pubblici non ASL (ospedali, università) Centri privati accreditati o convenzionati Specialisti esterni accreditati o convenzionati Il più volte citato DM 18 febbraio 1982 prevede esplicitamente (all’art. 3), per i soggetti interessati ad ottenere il certificato di idoneità allo sport agonistico, di sottoporsi agli accertamenti sanitari elencati in un apposito protocollo clinico-diagnostico allegato al DM stesso. Implicitamente ne consegue l’obbligo, per il medico certificatore, di attenersi al protocollo medesimo, la cui procedura rappresenta un complesso di condizioni necessarie e sufficienti per proferire il giudizio conclusivo di idoneità. Il protocollo di cui sopra è costituito da due allegati: “allegato 1”, nel quale sono rispettivamente elencati i controlli sanitari previsti e la loro periodicità in relazione ai diversi sport praticabili, che vengono raggruppati i due distinte categorie (elencate in Tabella “A” e Tabella “B”) e “allegato 2” in cui vengono riprodotti i modelli di scheda valutativa (Modello“A” e Modello“B”) che dovranno essere compilati dal medico visitatore a conclusione della visita stessa. Gli accertamenti sanitari richiesti per i praticanti le attività sportive elencate in Tabella “A” sono (10-12): 1. Visita medica 2. Esame completo delle urine 3. Elettrocardiogramma a riposo Per coloro che, viceversa, sono interessati a praticare le attività agonistiche elencate in Tabella “B” gli accertamenti sanitari necessari consistono in: 1. Visita medica 2. Esame completo delle urine 3. Elettrocardiogramma a riposo e dopo sforzo 4. Spirografia In calce all’allegato 1 vengono, inoltre, riportate alcune “note esplicative”, che forniscono ulteriori importanti indicazioni. Per quanto riguarda la “visita medica” viene infatti specificato che essa deve inderogabilmente comprendere: l’anamnesi la determinazione del peso corporeo (in kg) e della statura (in cm) l’esame obiettivo con particolare riguardo agli organi e apparati specificamente impegnati nello sport praticato l’esame generico dell’acuità visiva mediante ottotipo luminoso l’esame del senso cromatico (solo per gli sport motoristici) il rilievo indicativo della percezione della voce sussurrata a m 4 di distanza, quando non è previsto l’esame specialistico ORL. Viene, infine, decretato che ogni sport non contemplato nelle Tabelle “A” o “B” venga assimilato, ai fini degli accertamenti e certificazioni sanitarie, a quello che risulta ad esso più affine tra quanti ufficialmente previsti. Sempre nell’ambito dei praticanti attività sportiva agonistica viene fatta un’ulteriore distinzione tra (13): Dilettanti Professionisti Lo status di sportivi professionisti è riconosciuto (art. 2 della Legge 23 marzo 1981 n. 91) agli atleti, agli allenatori, ai direttori tecnico-sportivi e ai preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono tale qualificazione dalle Federazioni Sportive Nazionali, con l’osservanza delle direttive emanate dal CONI stesso per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica. Molto più semplicemente, gli atleti professionisti sono quelli legati da un rapporto di lavoro subordinato con la Società Sportiva. Per tutti costoro, l’attività professionistica è subordinata al possesso da parte dell’atleta della “scheda sanitaria” (art. 7 comma 2, Legge 23 marzo 1981 n. 91), che accompagnerà l’atleta stesso per tutta la durata della sua attività sportiva e sarà aggiornata, con periodicità almeno Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 10 semestrale, salve le diverse disposizioni emanate dalle varie Federazioni. Esaurita, a questo punto, la pur ampia panoramica sulla certificazione medico-sportiva, come previsto dalla normativa vigente, può essere interessante qualche considerazione su aspetti particolari di tutela sanitaria dei giovani che, comunque, praticano attività al di fuori dello sport organizzato, bensì presso circoli sportivi, palestre, centri fitness. È bene chiarire che, il certificato medico non costituisce, dal punto di vista normativo, la condicio sine qua non per lo svolgimento di attività fisica in palestra. Infatti, nella legislazione attualmente vigente in Italia manca qualsiasi prescrizione in tal senso, pertanto la scelta sulle modalità attraverso le quali verificare l’idoneità fisica del fruitore dei servizi della palestra o del centro fitness è lasciata esclusivamente al gestore dell’impianto. Si tratta di un vuoto normativo particolarmente grave (14): da una parte, infatti, l’attuale sistema va chiaramente a scapito dell’integrità dello sportivo; dall’altra è forte il rischio che si verifichino disparità di comportamento, anche sotto il punto di vista di assunzione di responsabilità da parte del gestore/organizzatore. Attualmente, infatti, le scelte si indirizzano principalmente verso tre direzioni: a) i Centri più attrezzati e qualificati dispongono di personale medico interno, cui è demandata la verifica dell’idoneità del frequentatore; b) in alternativa viene richiesta la presentazione di un certificato di “sana e robusta costituzione”; c) in casi non del tutto rari, le palestre si accontentano di far sottoscrivere al socio un’autocertificazione di assenza di impedimenti di natura sanitaria, con assunzione di responsabilità esclusiva e personale in caso di sinistri e, conseguente, esonero della palestra. È, per altro, evidente che nella malaugurata ipotesi di un sinistro che si sia verificato nel corso delle sedute in palestra, la dichiarazione di assunzione di responsabilità fatta sottoscrivere al cliente, non garantisce in alcun modo i titolari del centro sportivo rispetto all’eventualità di essere chiamati a risponde- re in giudizio dell’accadimento in questione, a titolo di responsabilità civile: l’unica vera possibilità di essere esonerati consiste, infatti, nel poter dimostrare di aver posto in essere tutti gli adempimenti necessari al fine di evitare il verificarsi dell’evento dannoso che, pertanto, deve essere considerato del tutto imprevedibile e fortuito. In una trattazione sulla tutela sanitaria dei giovani atleti e sulla normativa riguardante la certificazione medico-sportiva, non si può fare a meno di accennare, seppure sommariamente, all’importante problematica riguardante sport e disabilità (15-17). Le enormi potenzialità esprimibili da coloro che per propria disavventura risultano essere “diversamente abili” vengono, infatti, ulteriormente confermate nel mondo dello sport dove, ormai in quasi tutte le specialità, esistono settori riservati ad atleti disabili capaci tuttavia, assai spesso, di fornire performance di livello assai elevato. Tale materia, per altro, è stata recentemente regolamentata dalla Legge 5 luglio 2003 n. 189 (“Norme per la promozione della pratica dello sport da parte delle persone disabili”). È necessario anche segnalare che la FISD (Federazione Italiana Sport Disabili) attivamente promuove, diffonde e disciplina proprio l’attività sportiva di alto livello e paraolimpica dei disabili fisici, ciechi e mentali per oltre 25 diverse discipline sportive. In campo internazionale il massimo riferimento può essere considerato, invece, l’IPC (International Paralympic Committee) che, tra l’altro, ha organizzato con grande e scontato successo, nel corso degli anni, le diverse Paraolimpiadi (vale a dire le Olimpiadi riservate ai portatori di handicap). Per quanto ci riguarda come medici (certificatori e non), dobbiamo anzitutto fare riferimento alla precedente Legge 5 febbraio 1992 n. 104 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) dove, all’art. 2, leggiamo: “È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione”. Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 11 La predetta legge stabilisce, inoltre, all’art. 23 che: “l’attività e la pratica sportiva sono favorite senza limitazione alcuna”. Il successivo DM 4 marzo 1993 recante “Determinazione dei protocolli per la concessione dell’idoneità alla pratica agonistica alle persone handicappate” (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18/03/1993 n. 64) ha consentito un più organico approccio alla tutela dello sport per i disabili, laddove cita: “Ai fini della tutela della salute, i soggetti portatori di un handicap fisico e/o psichico e/o neurosensoriale, che praticano attività sportiva agonistica, devono sottoporsi previamente al controllo della idoneità specifica allo sport che intendono svolgere o che svolgono. Tale controllo deve essere ripetuto con periodicità annuale o inferiore quando ritenuto necessario dai sanitari. La qualificazione di agonista per i portatori di handicap che praticano attività sportiva è demandata alla federazione Italiana Sport Disabili (FISD) o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI” Anche per la valutazione dell’idoneità agonistica allo sport del portatore di handicap ci si deve riferire a due specifiche Tabelle “A” e “B” (diverse da quelle di cui ad DM 18/02/1982, prima ricordate) ancora una volta suddivise in rapporto al minore o maggiore impegno cardiovascolare e respiratorio. I medici incaricati del giudizio di idoneità sono gli stessi già individuati per la certificazione agonistica e i certificati medesimi non si differenziano che per la specificazione “adatto ad atleti disabili”, nonché per la delimitazione cronologica di validità di un anno o di sei mesi, con chiara indicazione, sul certificato, della relativa scadenza. Nel concludere questa rassegna sulla certificazione medico-sportiva è necessario fare cenno anche alla normativa riguardante la dispensa dalle lezioni di educazione fisica che, non raramente, coinvolge le competenze professionali del medico di famiglia e/o del pediatra. A tale proposito, il primo rilevante riferimento normativo è rappresentato dalla Legge 7 febbraio 1958 n. 88 che, all’art. 3, cita testualmente “Il capo di istituto concede esoneri temporanei o permanenti, parziali o totali per provati motivi di salute, su richiesta delle famiglie degli alunni e previi gli opportuni controlli medici sullo stato fisico degli alunni stessi”. La successiva C.M. 3 ottobre 1959, n. 401, prot. N. 10168 entrando nel merito specifica, all’ art. 1, che “Il capo di istituto potrà prescindere dai controlli medici quando trattasi di alunni che presentino gravi menomazioni o difetti fisici, congeniti o acquisiti, di immediata evidenza”. La predetta circolare ministeriale specifica, in seguito, che “Gli accertamenti, ai fini dell’esonero, sono affidati al sanitario addetto al servizio medico-scolastico, ove esista, o a un medico di fiducia dell’Amministrazione scelto dal capo d’istituto…..Ove, in base agli accertamenti eseguiti, ritenga comprovato l’impedimento, il capo d’istituto, sentito il parere dell’insegnante di educazione fisica, specialmente per quanto concerne la dispensa da determinate esercitazioni, dispone la concessione dell’esonero”. L’esonero dalle lezioni di educazione fisica potrà, inoltre, essere: totale, quando esclude l’alunno sia dalle lezioni che dalle prove di esame e la sua validità potrà essere permanente o temporanea; parziale, anche in questo caso temporaneo o permanente, ha il limitato effetto di escludere l’alunno da determinati esercizi, fermo restando l’obbligo di frequentare le lezioni e/o di partecipare alle prove di esame. Nel proporre un esonero dall’educazione fisica ogni medico coinvolto nella relativa certificazione dovrebbe, prioritariamente, riflettere su quanto puntualmente specificato, a proposito di tale insegnamento, nel D.M. 9 febbraio 1979: “L’educazione fisica, nella peculiarità delle sue attività e delle sue tecniche, concorre a promuovere l’equilibrata maturazione psico-fisica, intellettuale e morale del preadolescente e un suo migliore inserimento sociale mediante la sollecitazione di un armonico sviluppo corporeo…I vari insegnamenti esprimono modi diversi di articolazione del sapere, di accostamento alla realtà, di conquista, sistemazione e trasformazione di essa e, a tal fine, utilizzano specifici linguaggi che convergono verso un unico obiettivo educativo: lo sviluppo della persona nella quale si realizza l’unità del sapere”. Per altro, è da tenere presente che l’istanza di esonero dall’educazione fisica, per quanto regolarmente documentata e accolta, non Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 12 dovrebbe senz’altro esimere l’alunno dalla partecipazione alle relative lezioni: sarebbe, infatti, cura del docente preposto di coinvolgere gli alunni esonerati dalle esercitazioni pratiche, sia negli aspetti teorici che nei vari momenti interdisciplinari del proprio insegnamento anche sollecitandone il diretto intervento e l’attiva partecipazione in compiti di giuria o di arbitraggio o, più in generale, nell’organizzazione delle varie attività (C.M. 17 luglio 1987, n, 216, prot. n. 17771/A). A conclusione di questa lunga e complessa rassegna sulla certificazione medico-sportiva desidero fare due (per altro ovvie e scontate) raccomandazioni. La prima, rivolta ai colleghi pediatri e medici di famiglia, è che le certificazioni di sana e robusta costituzione non vengano mai rilasciate con eccessiva disinvoltura quasi fossero atti dovuti o mere formalità. Ogni certificazione deve scaturire, viceversa, da un’attenta anamnesi mirata, seguita da una visita medica quanto più è possibile accurata e completa, che tenga nel massimo conto le valutazioni auxologiche nonché le caratteristiche psico-emozionali e relazionali del giovane. La seconda, indirizzata agli istruttori, allenatori, preparatori, dirigenti sportivi e insegnanti è di tenere bene a mente che non si può considerare alla stessa stregua il bambino, il ragazzo e l’adulto e che se nell’atleta maturo l’attività sportiva ha finito con l’assumere i connotati di una vera e propria impresa sperimentale volta ad esplorare i limiti della “macchina umana”, tale impostazione non può, ovviamente, essere mai giustificata durante l’età evolutiva dove, tra l’altro, di estrema importanza è sempre la determinazione della cosiddetta età biologica del ragazzo, ossia delle sue peculiarità somato-evolutive che, come è noto, possono variare enormemente da un soggetto all’altro anche a parità di età anagrafica (18, 19). Bibliografia 1. Masciovecchio P. Il certificato medico. In Guida all’Esercizio professionale per i Medici-Chirurghi e gli Odontoiatri – Quarta Edizione – pag. 358, Ed. Medico Scientifiche (Torino, 2006). 2. Umani Ronchi G, Bolino G, Lendvai D. Nozioni medico-legali rilevanti nell’attività pediatrica. Edizione riservata a cura di Plasmon SpA. Áncora Arti Grafiche ed. (Milano, 2002). 3. Umani Ronchi G, Bolino G. La medicina dello sport nell’ambito delle attività del servizio sanitario nazionale. Aspetti medico-legali. International Conference A Forensic Approach in Sport Medicine (Castiglion della Pescaia 1517 maggio 1997). 4. Barni M. Diritti e doveri, responsabilità del medico, dalla bioetica al biodiritto. Giuffrè ed. (Milano, 1999). 5. Caldarone G, Giampietro M. Età evolutiva e attività motorie. Istituto di Scienza dello Sport CONI. Mediserve ed. (Milano, 1997). 6. AA Vari. Legislazione e normativa riferita allo sport. In: Scuola dello Sport. CONI ed. (Roma, 1986). 7. Di Nella L. Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico. Edizioni Scientifiche Italiane (Napoli, 1999). 8. De Rosa C, Di Mizio G, Ricci P. La certificazione per l’idoneità alla pratica sportiva: aspetti normativi e medicolegali. 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L’adolescente diversamente abile [The differently abled teenager]. RIMA Rivista Italiana di Medicina dell’Adolescenza 2005; 11-17:3/2. 18. Schwarzenberg TL, Canibus R, Roscetti C, Acconcia P, Florio V. Giovani e tempo libero: indagine conoscitiva sull’impegno nelle attività fisico-sportive di un campione di adolescenti laziali. In Atti del Convegno “Adolescenza: un problema sociale” (Sorrento 25-26 marzo 1988) pag. 167 – Pozzi ed. (Roma, 1990). 19. AA Vari. Nascita dei Giochi Sportivi Studenteschi. On line http://team4sb.altervista.org/fuoriclassecup/storiagiochisportivi.html Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 113 "Tako-tsubo syndrome". Enigmatico stordimento miocardico di recente individuazione. Livio Meciani Introduzione La sindrome del cosiddetto “Takotsubo” - originariamente descritta, come casi isolati ed aneddotici fin dagli anni ‘90 (1-7) è stata descritta da un gran numero di cardiologi giapponesi (8-43) e clinicamente configurata, in epoca abbastanza recente, quale miocardiopatia acuta e reversibile anche da cardiologi statunitensi ed europei (44-70), fra i quali molti italiani (71-85). Dal punto di vista anatomo-funzionale questa sindrome consiste in una dilatazione sacciforme (cioè a “palloncino”) dell’apice del ventricolo cardiaco sinistro, quindi in una ipo-acinesia della punta del cuore, associata molto spesso ad una ipercontrazione della base ventricolare, così da far assumere temporaneamente al ventricolo sinistro una forma che ricorda il vaso a tipo di anfora - cioè il takotsubo (Figura 1) - utilizzato dai pescatori giapponesi per catturare i polipi: i quali, una volta scivolati nel vaso, non riescono più ad uscirne a causa del restringimento del collare vasale. L’individuazione anatomo-funzionale di questa sindrome non è stata frutto di osservazioni primitive (all’inizio infatti l’evento veniva considerato come una forma di ischemia acuta), bensì di approfondimenti successivi presupponenti l’impiego tanto dell’ecografia, quanto e soprattutto della ventricolografia - in centri cardiologici adeguatamente attrezzati attraverso le quali è stato appunto possibile precisare il tipo di disfunzione responsabile del quadro clinico cardiaco similinfartuale (Figura 2). Da queste indagini è poi derivata la più precisa descrizione della sindrome definita come: “Transient left ventricular apical ballooning syndrome” (Dilatazione apicale transitoria a palloncino dell’apice del ventricolo sinistro); “Neurogenic stunned myocardium”; “Myocardial stunning due to sudden emotional stress”; “Cardiomiopatia acuta da stress”; ecc., ecc. Figura 1 Rappresentazione del vaso usato dai pescatori giapponesi - ossia il “Tako-tsubo” - per catturare i polipi. (Da Girod JP, et al. Circulation 2003; 107-121). L.D. in Patologia Speciale Medica nell’ Università di Milano Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 14 Figura 2 Angiografia del ventricolo sinistro, che documenta in diastole la quasi normale dilatazione della camera cardiaca, mentre in sistole evidenzia - accanto ad una "contrattura" del miocardio di base - la dilatazione "a palloncino" dell'apice. Da: Sharkey SW, et al. Circulation 2005; 111:476 Dal punto di vista clinico, infatti, la casistica colpita da questa disfunzione miocardica è quasi esclusivamente costituita da donne, in fase pre-climaterica, o climaterica ed assai spesso fumatrici, le quali - costantemente vittime di un intenso ed improvviso stress psico-emotivo (o comunque di un evento psicologicamente “vissuto” come una forte e subitanea emozione) - presentano la comparsa di un quadro clinico assimilabile alla “crisi cardiaca acuta”. Sintomatologia Anzitutto occorre precisare che la Sindrome del Tako-tsubo può presentarsi come episodio intercorrente, o come complicazione acuta nel corso di parecchie forme morbose come: la sindrome di Guillain-Barré (5), la trombo-embolia polmonare (10), il pneumotorace (22), la rabdomiolisi (25), l’anestesia generale (29), la plasmaferesi per miastenia grave (32), l’ipertireosi (35), la sindrome da astinenza nelI’alcoolismo (36), la sclerosi laterale amiotrofica (37), la terapia steroidea per linfoma (38), l’esecuzione di una risonanza magnetica nucleare come fenomeno di claustrofobia acuta (63), l’infezione da citomegalovirus (80), ecc., ecc. In secondo luogo tale sindrome può associarsi tanto a crisi cardiovascolari acute di vario tipo (42, 43, 45, 61), quanto tachiaritmiche (20, 21, 27, 53), o bradicardiche (84), oppure addirittura infartuali (5l), destinate ovviamente a complicare ancor più il quadro sintomatologico. A questo proposito ho gia precisato che, in senso clinico, questa sindrome può simulare l’infarto miocardico acuto (6, 8, 13, 15, 28, 36, 52, 71, 72) e questo perché: dal punto di vista soggettivo il paziente presenta un dolore precordiale abbastanza tipico per orientare verso la “stenocardia”; dolore accompagnato spesso da dispnea e soprattutto da intenso turbamento psico-emozionale; dal punto di vista obiettivo sussistono segni assai suggestivi per porre diagnosi di ischemia miocardica acuta in quanto: l’Ecg - che può presentarsi (e talvolta persistere) come normale durante le prime ore di ricovero in pronto soccorso - rivela poi gravi segni di ischemia diffusa per la presenza di T negative simmetriche (talora “giganti”), accompagnate sia da eventuale, seppur transitoria, sopra-elevazione del tratto ST, sia da possibile allargamento del complesso elettrico ventricolare, in assenza di onda Q suggestiva per necrosi miocardica (Figura 3); Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 15 Figura 3 Elettrocardiogramma di un soggetto con “sindrome apicale discinetica”, che presenta un quadro di ischemia miocardica diffusa con “T simmetriche” negative nelle precordiali sinistre. Da: Greco C, et al. J Cardiovasc Med 2006; 7:624 è spesso presente un moderato “movimento” enzimatico per aumento del CPKMB e della troponina l A; l’ecocardiogramma rivela: - una quasi costante diminuzione della Frazione di Eiezione (FE), che si attesta attorno al 35-40%, ma successivamente e piuttosto rapidamente si normalizza; - una tipica e transitoria deformazione “a palloncino” dell’apice del ventricolo sinistro (peraltro documentabile soprattutto con la ventricolografia, qualora questa venga fatta) dimostrante una seria e localizzata “acinesia” della punta cardiaca. I dati piuttosto sconcertanti sono invece: 1. La pressocché costante normalità strutturale dell’albero coronarico (11, l3, 15, 49, 59, 81), documentata dalla coronarografia, cui tutti questi pazienti vengono inevitabilmente sottoposti in funzione proprio della sintomatologia in atto (in qualche raro caso, peraltro, l’obiettivazione coronarografica ha mostrato la presenza di stenosi non critiche, cioè non superiori al 25%). 2. La costante e completa assenza - evidenziata, per esempio, mediante la PET (11, 24), o mediante la RMN (54) - di qualsiasi necrosi miocardica (d’altronde in concordanza con la già citata assenza di onde Q), anche in corrispondenza dell’acinesia apicale. Eziologia La Sindrome del Tako-tsubo è sempre associata al recente intervento - quale fattore scatenante - di un forte stress psico-emotivo (Tabella l). I punti focali consistono nel comprendere: a - Come mai uno “stressor” di questo genere - per quanto violento, o comunque “vissuto” soggettivamente in modo dram- Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 16 TABELLA 1 Stress iperacuto come possibile fattore scatenante della cosiddetta “Sindrome del Tako-tsubo” 1 - Psico-distress da perdita a - Luttuosa Morte del coniuge Morte di un figlio Morte di un parente stretto Morte di un amico fraterno b - Economica Fallimento Dissesto finanziario Sottrazione (furto; truffa) Precarietà, instabilità c - Sociale Carcerazione Segregazione Solitudine 2 - Psico-distress da modificazione a - Famigliare Matrimonio Separazione Divorzio b - Lavorativa Tipo di lavoro Ambiente di lavoro matico – possa indurre una sintomatologia soggettiva ed oggettiva inducente a porre diagnosi di “crisi cardiaca acuta” (6, 8, 13, 15, 44, 48, 56). Certamente in questo caso la discussione non può che concernere il modo fondamentale svolto dal meccanismo mediante il quale queste forme di “reazione da stress” provocano il momentaneo dissesto circolatorio: punto che sarà trattato a proposito delle non poche ipotesi patogenetiche. b - Come mai questa sindrome colpisca quasi esclusivamente il sesso femminile. A questo proposito sono state formulate varie ipotesi esplicative, fra le quali appare preminente l’idea che le donne presentino una iper-sensibilità ed una iper-reattività nei confronti di qualsiasi stressor psicoemozionale e quindi sollecitino maggiormente il proprio sistema vegetativo simpatico. Tuttavia queste teorie (per la verità abbastanza “tradizionali”) urtano contro parecchie constatazioni sperimentali: ad Pensionamento Licenziamento c - Sociale Eventi bellici Cambiamento della situazione d - Problemi di ambientamento Emigrazione Trasloco Ostilità ambientale Promiscuità e - Delusioni f- Preoccupazioni g - Incidenti stradali 3 - Psico-distress da disagio a - Problemi di salute Malattia personale Malattia di un famigliare intimo Prognosi infausta b - Problemi sessuali c - Problemi giudiziari esempio contrastano con la constatazione che il sesso maschile possiede ben maggiori capacità di reagire di fronte ad un improvviso aumento del tasso ematico di catecolamine (87-90), logica conseguenza di qualsiasi impatto con uno stressor. Un’osservazione, invece, assai più pertinente si riferisce al fatto che quasi tutte le donne interessate da questo abbastanza strano (e quasi sempre transitorio) evento cardiovascolare si trovano nella delicata situazione psicoemotiva e neuro-ormonale - correlata al climaterio, ossia ad una fase particolarmente delicata della vita muliebre, che comporta una cospicua “vulnerabilità” vegetativa. c - Come mai la sindrome del Tako-tsubo, non ostante la clamorosità cardiovascolare della sintomatologia, si comporti come un “evento transitorio” e - salvo casi piuttosto rari (30, 40, 86) - a risoluzione favorevole. L’ evoluzione sostanzialmente benigna sembrerebbe risiedere nel fatto che manca quasi sempre la presenza di Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 17 una necrosi miocardica, sicché la situazione sindromica si configurerebbe in un quadro solamente disfunzionale, cioè senza componenti anatomo-patologiche: almeno per quel che concerne la struttura macroscopica. Cio che, al contrario, non può esser sottaciuto concerne l’eziologia psico-emozionale, che certamente reca un “tassello” supplementare alla molto discussa teoria secondo cui un adeguato disturbo psico-emotivo, soprattutto se sistematicamente reiterato, è in grado di provocare alterazioni cardiovascolari particolarmente intense. Le quali - anche in assenza di lesioni strutturali (leggi: ateromatose) - possono ugualmente concretare modificazioni funzionali capaci di determinare (o, quanto meno, di facilitare), nel tempo, la comparsa di danni irreparabili. E questo proprio in un apparato come quello circolatorio estremamente sensibile ad ogni modificazione indotta dal sistema neuro-vegetativo, che a sua volta è correlato in modo stretto e diretto ai turbamenti della sfera pscoemotiva. Patogenesi Dal punto di vista della patogenesi questa sindrome rappresenta senza dubbio uno dei molteplici “misteri” della medicina ed in particolare della cardiologia perché a tutt’oggi - non ostante siano state in proposito formulate parecchie ipotesi (che, più sotto, tratterò in dettaglio) - non si è ancora riusciti a comprendere il perché il miocardio si comporti in maniera così anomala, cioè con una ipo-acinesia della punta cardiaca, quasi sempre associata ad una sovra-contrazione della porzione basale della camera ventricolare sinistra. Un punto patogenetico essenziale sembra esser rappresentato dall’osservazione che, come conseguenza dell’intenso turbamento psico-emotivo, interviene un’attivazione del sistema nervoso vegetativo che, nel caso dell’insorgenza della sindrome del Tako-tsubo così come accade in concomitanza con altre sindromi iperacute quali: l’ictus (98); le crisi di asma (91, 92); di feocromocitoma (9397); di emorragia sub-aracnoidea (99-104); e le morti violente (105, 106) - si concreta, alla periferia circolatoria, in una forte stimolazione della componente adrenergica, la cui immediata conseguenza è costituita da un altrettanto immediato incremento della catecolaminemia (Schema 1), che realizza una vera e propria “Sindrome da tossicità adrenergica”, di cui il “Tako-tsubo” sarebbe una delle manifestazioni. L’iter neuronale di questo fenomeno simpaticotonico è ormai fisiologicamente ben conosciuto e si realizza secondo due percorsi (Schema 2): aIl percorso del sistema simpatico bulbare: il quale, attraverso la mediazione noradrenergica, provoca alla periferia un’iper-catecolaminemia (vedasi oltre) responsabile di un “dissesto omeostatico multiplo” nell’ambito del quale si annoverano le ben conosciute conseguenze coronariche ed emodinamiche, nonché le conseguenze biochimiche rappresentate principalmente dallo stress ossidativo. La cui fondamentale caratteristica consiste nella sovra-produzione di radicali liberi dell’ossigeno, sempre provocatrice di cospicui ed irreversibili danni in un tessuto estremamente sensibile qual’è quello miocardico (107,108). bIl percorso del cosiddetto asse ipotalamo-ipofisario: il quale, mediante la produzione di ACTH, determina la stimolazione della corteccia surrenale e quindi la sovra-produzione dei corticosteroidi, che concorrono a potenziare l’attività delle catecolamine. cIl percorso genericamente definibile come ipotalamico, responsabile di una sovra-produzione di NPY e di BNP, ossia di neuropeptidi recentemente coinvolti in maniera diretta nell’attivazione cardiovascolare (109-111). Volendo, ora, esaminare con maggiore dettaglio le varie ipotesi patogenetiche, è possibile farne questa elencazione riassuntiva: 1. Partecipazione coronarica Descrivendo la sintomatologia ho precisato che nella quasi totalità dei casi sussiste un dato abbastanza sconcertante costituito dalla assenza (o dalla - emodinamica- Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 18 SCHEMA 1 - CONSEGUENZE DELLA IPER-NORADRENALINEMIA L’Iper-noradrenalinemia, che si verifica in corso di psico-neurostress acuto, è una conseguenza diretta dell'attivazione sia centrale, sia - soprattutto - periferica del sistema simpatico e rappresenta, per l'organismo, una delle più gravi conseguenze ad un tempo emodinarniche acute e biochimiche acute in grado di dissestare rapidamente l'intera orneostasi. Gli effetti emodinamici si riflettono ovviamente sul sistema cardio-circolatorio e sono rappresentati da: a - Aumento della frequenza pulsatoria per diretta stimolazione dei recettori adrenergici del sistema cardiaco “di conduzione”. b - Vasospasmo soprattutto arteriolare (quindi micro-circolatorio} per diretta stimolazione, anche in questo caso, degli adrenergo-recettori diffusi nell'albero vascolare (ed ovviamente anche in quello coronarico). c - Sovra-stimolazione nella produzione di vasopressina e di angiotensina, le cui conseguenze spasmogene sulla circolazione arteriolare sono ben conosciute. Gli effetti biochimici interessano l'intero complesso dell'organismo e determinano intrinseche modificazioni dell'andamento metabolico, i cui molteplici disequilibri sono così elencabili: 1 - Diminuzione nella produzione del nitrossido, accoppiata tanto all'aurnento nella produzione di endoteline, quanto alla stimolazione degli alfa-adreno-recettori, il che concorre a provocare il vasospasmo arteriolare. 2 - Aumento nella produzione endoteliale delle molecole adesive, che concorrono vivacemente a creare una condizione generale di trombofilia. 3 - Dissesto metabolico complesso, riassumibile precisando da un lato l'instaurazione di un certo grado di resistenza insulinica, da un altro lato l'incremento nella produzione citotossica degli FFA e dei radicali liberi (stress ossidativo). 4 - Modificazione delle espressioni biochimiche sia dei leucociti (indotti a superprodurre radicali liberi e citochine, fra cui prevale il TNF-alfa), sia delle piastrine (principali fautrici della tendenza trombifilica). Neuro-adrenorecettori Effetti emodinamici Neuro-ipofisi A.D.H. C. juxta-glomer. R.A.A.A. Medullo-surr. Nor-adr. Sistema di conduzione Frequenza Adrenergorecettori beta-R. alfa-R. Miocardio Nitrossido Disfunzione endoteliale Endoteline Mol. adesive Arterie Alfa-adrenorecettori IPER-NORADRENALINEMIA Effetti biochimici Muscoli Resistenza insulinica Fegato Pancreas Produzione di insulina Tessuto adiposo FFA DISSESTO METABOLICO Radicali liberi Leucociti TNF-alfa Piastrine Adesioneaggregazione Trombofilia VASOCOSTRIZIONE Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 19 SCHEMA 2 - POSSIBILE INTERPRETAZIONE PATOGENETICA DELLA “SINDROME DEL TAKO-TSUBO” Un intenso ed improvviso psico-distress (soprattutto se vissuto in modo esageratamente “drammatico”) può provocare in determinati soggetti - complice una forte iper-catecolaminemia - la comparsa di rnodificazioni funzionali miocardiche espresse da un'alterazione discinetica, ma reversibile, della sistole del ventricolo sinistro (contrattura della base e dilatazione “a palloncino” dell'apice). Tale psico-distress acuto - tramite le non conosciute interazioni fra psiche e cervello provocherebbe, simultaneamente all'attivazione emozionale ed all’elaborazione cognitiva, una super-stimolazione dei centri vegetativi superiori, le cui immediate conseguenze sarebbero costituite da una sollecitazione sia dell’asse ipotalamo-ipofisario, sia del sistema vegetativo simpatico, accompagnata da una possibile sovra-produzione di neuropeptidi vasoattivi, quali l'NPY ed il BNP. L'attivazione ipotalarno-ipofisaria si estrinsecherebbe con l'intensificazione nella produzione dell' ACTH, il cui “target” cortico-surrenale, provocherebbe un aumento nella biosintesi e nell'increzione dei cortico-steroidi. L'attivazione del sistema simpatico determinerebbe, dal canto suo, un'eccitazione funzionale tanto della midollare surrenale, quanto e sopratutto del sistema simpatico periferico, le cui disastrose conseguenze si compendiano in una forte iper-noradrenalinernia (peraltro spesso documentata nei pazienti colpiti dalla presente sindrome). Le conseguenze di questi fenomeni sarebbero costituite tanto da uno stordimento miocardico (myocardial stunning), quanto da uno spasmo micro-coronarico, contemporaneamente responsabili di quella inconsueta discinesia miocardica sintetizzata dal nome di “Sindrome del Tako-tsubo”. Accanto ed in rafforzamento di questo deragliamento funPSICO-STRESS zionale si determinerebbe - sempre in conseguenza dell'iIPERACUTO per-catecolaminemia - una condizione di stress ossidativo INTERAZIONI condizionatore di una necrosi delle bande sarcomeriche PSICHE-CERVELLO miocardiche (evidenziata in parecchi reperti miocardio-bioptici). Elaborazione cognitiva Attivazione emozionale CENTRI VEGETATIVI SUPERIORI Ipotalamo Ipofisi Cortico-surrene NPY BNP Cortico-steroidi STORDIMENTO MIOCARDICO SIMPATICO CENTRALE Simpatico periferico Medullosurrene IPER-NORADRENALINEMIA Stress ossidativo Microspasmo coronarico Sovracontrazione basilare IPO-ACINESIA APICALE SINDROME DEL TAKO-TSUBO Band-necrosis dei sarcomeri Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 20 mente - non rilevanza) di lesioni ateromasiche dell’albero coronarico: questo induce a pensare che il quadro elettrocardiografico (peraltro assai “clamoroso” in senso ischemico), sia quasi sempre di tipo funzionale e quindi transitorio. Tuttavia è proprio su questo punto che possono sorgere dei dubbi patogenetici dal momento che le uniche due piu verosimili interpretazioni concernono eventualità non del tutto convincenti e precisamente: - Che possa essersi verificato uno spasmo delle arterie coronarie epicardiche (13, 15, 59). Il punto critico è rappresentato dalla esclusiva localizzazione all’apice del ventricolo sinistro. In soccorso - per così dire - di questa specifica localizzazione sussisterebbe la constatazione anatomica secondo la quale l’apice del ventricolo sinistro sarebbe costituito soltanto da tre strati miocardici (112) e costituirebbe quindi un punto “debole” (o, se si vuole, particolarmente “sensibile”: 113-116) di tutta la molto complicata struttura del muscolo cardiaco. - Che possa essersi verificato un diffuso spasmo della micro-circolazione coronarica (9, 51, 52, 56, 75): considerazione patogenetica che possiede una corrispondenza piuttosto importante costituita dalla cosiddetta “Sindrome X coronarica” [o angina microvascolare (117)]. In quest’ultimo caso la patogenesi più verosimile potrebbe fare riferimento alla molteplice convergenza patogenetica - compendiata nella Sindrome Metabolica (118-120) - tanto della “resistenza insulinica” quanto della “normalità strutturale, ma non funzionale, della circolazione coronarica”, quanto in fine della disfunzione endoteliale connessa all’iper-simpaticotonia (121). 2. Partecipazione miocardica basale L’iper-catecolaminemia potrebbe provocare un’ipercontrazione della base del miocardio ventricolare: il che spiegherebbe la conseguente dilatazione apicale sistolica. L’ipotesi sembrerebbe avvalorata dall’osservazione che in parecchi soggetti presentanti questa forma di ipo-acinesia miocardica apicale la somministrazione di dobutamina (cioè di una catecolamina) provoca effettivamente un’ostruzione dinamica transitoria delle porzioni basilari del ventricolo sinistro (44, 66, 74, 122). 3. Stordimento miocardico La sovra-stimolazione adrenergica consecutiva all’iper-catecolaminemia porta sempre ad un generale “stordimento miocardico” (44, 56, 123), le cui espressioni biochimche si concreterebbero in un insulto diretto dei miocardiociti in grado di provocare una necrosi da ipercontrazione dei sarcomeri (contraction band necrosis: 58-62, 124). In altre parole: un sovraccarico (probabilmente AMP-mediato) di calcio-ioni responsabile della morte dei miocardiociti caratterizzata da un’infiltrazione sia di eosinofili, sia di monociti-macrofagi (del tutto diversa da quella propria dell’infarto miocardico in cui, invece, predomina l’infiltrazione dei polimorfonucleati). Terapia La Sindrome del Tako-tsubo - in quanto “crisi cardiaca” - va ovviamente trattata secondo i classici canoni terapeutici consoni a questo evento, tanto più che nella quasi totalità dei casi (almeno nelle fasi iniziali) questa sindrome viene diagnosticamente interpretata come una forma di ischemia miocardica acuta. La sua rapida e pressocché costante evoluzione favorevole consiglia tuttavia la prosecuzione di un trattamento, caso per caso adeguato, in funzione della sintomatologia in atto. Comunque la sua risoluzione esige sempre una terapia orientata sia verso l’indubbia componente psicologica, sia verso l’evidenza che il bersaglio preferenziale di qualsiasi futura “reazione da stress” sarà probabilmente l’apparato circolatorio. Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 21 Bibliografia 1. Satoh H.et al. Tako-tsubo type cardiornyopathy due to multivessel spasm. In: Kodama K. et al. Clinica1 aspect of myocardial injuty: from ischemia to heart failure. 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La senescenza coinvolge in maniera globale l’organismo umano ed interferisce anche con i complessi meccanismi preposti a regolare l’equilibrio (Tabella 1). È dunque facilmente comprensibile come i fenomeni legati all’invecchiamento possano modificare anche i complessi meccanismi preposti a regolare l’equilibrio e quindi i corretti rapporti tra il soggetto e l’ambiente circostante in condizioni sia statiche che dinamiche. I disturbi dell’equilibrio rappresentano pertanto un evento molto comune nella vecchiaia, infatti: Premessa L’equilibrio è legato principalmente al corretto funzionamento, di tre input sensoriali: vestibolare, visivo e propriocettivo. La cooperazione e l’integrazione di queste tre diverse informazioni a livello del sistema nervoso centrale sono indispensabili per il corretto controllo del nostro corpo in condizioni statiche e dinamiche e per l’orientamento spazio-temporale. Un evento acuto che danneggi una componente della rete neuronale deputata all’equilibrio, come ad esempio la perdita di un labirinto, provoca violenti disturbi. Immediatamente si attivano dei meccanismi di adattamento centrale e di compenso sensoriale, finalizzati sia al recupero del controllo oculomotorio, con relativa scomparsa del nistagmo e quindi della sensazione rotatoria dell’ambiente circostante, che dell’assetto posturale statico e dinamico, con relativa scomparsa dell’atassia e dell’instabilità. L’efficienza di tale recupero, la sua comple- Tabella 1. Principali fattori nella età senile predisponenti al disequilibrio. DISEQUILIBRIO SENILE Fattori favorenti Effetti Invecchiamento fisiologico o patologia dell’apparato vestibolare Stile di vita sedentario Ridotta efficienza dei riflessi vestibolari Ridotto utilizzo del controllo dell’equilibrio, perdita di confidenza Ridotto controllo dell’equilibrio, ridotto compenso sensoriale vicariante Rallentamento dei riflessi, difficoltà di compenso vestibolare Ridotta efficienza degli input sensorial Aumentato consumo di farmaci i Servizio di Vestibologia e Rieducazione Vestibolare Azienda USL di Modena Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 26 Tabella 2. Principali cause periferiche di vertigine nell’anziano. PATOLOGIA ALTRI SINTOMI ASSOCIATI Labirintolitiasi Neuronite vestibolare Malattia di Meniere Fistola perilinfatica/otite cronica Neoplasie dell’angolo ponto-cerebellare Tossicità da farmaci (es: gentamicina) Nausea, vomito Disequilibrio Ipoacusia fluttuante, tinnito Perdita o diminuzione dell’udito, otalgia Diminuzione udito, otalgia, disequilibrio Disequilibrio Disturbi del microcircolo Diminuzione udito, acufeni, disequilibrio l’instabilità posturale costituisce una delle cause più frequenti di ricorso al medico di famiglia nei soggetti di età oltre i 70 anni; la prevalenza di vertigine e disequilibrio è pari al 47% nei maschi e al 61% nelle femmine di età superiore ai 70 anni; l’incidenza di caduta a terra improvvisa in età superiore ai 65 anni varia tra il 20% e il 40%. A questo proposito, l’Istat stima che in Italia la prima causa di incidente domestico sia rappresentata proprio dalle cadute, che sono al primo posto come causa di ricovero e decesso in questi casi. A preoccupare non sono solo le conseguenze fisiche della caduta ma anche le ripercussioni psicologiche come la paura di cadere di nuovo, “che possono accelerare il declino funzionale e generare depressione e isolamento sociale”. In più, i traumi da caduta hanno anche un costo in termini economici: secondo dati del Sindaca, (Sistema informativo nazionale sugli infortuni in ambienti di civile abitazione dell’Iss). In Italia il costo unitario per ricovero da incidente domestico, la cui causa prevalente è la caduta, è di circa 3.000 euro. Una riduzione del 20% delle cadute consentirebbe circa 27.000 ricoveri in meno su base annua. I disturbi dell’equilibrio rappresentano pertanto un evento molto comune nella vecchiaia e sono riconducibili alla presbiatassia, cioè al generico disturbo vertiginoso-posturale ad eziologia multifattoriale correlato con il parafisiologico deterioramento dell’intero sistema dell’equilibrio, oppure a specifiche patologie di tipo vestibolare periferico (Tabella 2), centrale (Tabella 3), o ad altre noxe extravestibolari (Tabella 4) che possono influenzare direttamente o indirettamente il controllo dell’equilibrio. Le vertigini nell’anziano da causa periferica sono contraddistinte in genere da vere vertigini rotatorie. I disturbi centrali invece sono generalmente contraddistinti da dizziness (instabilità, atassia, insicurezza, difficoltà nei movimenti, senso di stordimento, disorientamento spaziale), più raramente si tratta di vere vertigini rotatorie, e nella maggior parte dei casi rientrano in un corteo sintomatologico più complesso di sofferenza del sistema nervoso centrale, diverso a seconda del tipo di patologia e delle sedi interessate. Altre patologie possono provocare disturbi dell’equilibrio in modo diretto (ad esempio alterando l’afflusso ematico all’apparato vestibolare a livello periferico e/o centrale, in modo episodico o saltuario), favorire patologie vestibolari o neurologiche (ad esempio provocando ischemie acute o croniche) oppure interagendo sulla funzione dell’equilibrio mediante l’alterazione degli input propriocettivi (ad esempio quelli cervicali nel caso dell’artrosi cervicale). Anche in questo caso si tratta in genere di sintomi del tipo dizziness e solo raramente di vere vertigini rotatorie soggettive o oggettive. Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 27 Tabella 3. Principali cause centrali di “vertigine” nell’anziano. PATOLOGIA ALTRI SINTOMI ASSOCIATI TIA, RIND e Stroke del territorio vertebro-basilare Disturbi neurologici vari per lesioni in particolare del tronco o del cervelletto Disturbi neurologici vari Sindrome extrapiramidale Disturbi neurologici vari Crisi comiziali Disturbi neurologici vari Disorientamento, disturbi della memoria Disturbi neurologici vari Disturbi del circolo cerebrale anteriore Morbo di Parkinson e patologie extrapiramidali Neoplasie cerebrali Epilessia Patologie degenerative Demenza (fasi iniziali) Traumi cranici Principi di terapia Nella scelta della terapia farmacologica antivertiginosa nel paziente anziano occorrerà in particolare: 1. limitare alle sole fasi acute di una vestibolopatia l’uso dei sintomatici ad azione sedativa (ad esempio: fenotiazine, antistaminici, benzodiazepine, difenilpiperazine); 2. privilegiare i farmaci con attività modulatoria e nootropa; Tabella 4. Altre patologie con possibile influenza diretta o indiretta sull’equilibrio nell’anziano. Stenosi aortica Sindrome da ipersensibilità del seno carotideo Disritmie cardiache Ipotensione ortostatica Vasculiti autoimmuni Stenosi della carotide Sindrome da furto della succlavia Anemie Sindrome da iperviscosità Dislipidemie di vario tipo Diabete mellito Iperventilazione Iper o ipoglicemia Artrosi cervicale Polineuropatia sensitivo-motoria Depressione e altri disturbi psichici 3. evitare i farmaci con maggior probabilità di effetti indesiderati nel soggetto anziano; 4. prestare particolare attenzione alla compliance. Nelle forme acute occorrerà anzitutto ridurre la sintomatologia, senza però ostacolare l’instaurarsi dei processi centrali di adattamento e compenso funzionale. Nelle forme cronizzate occorrerà soprattutto favorire lo sviluppo di tali processi, in gran parte caratterizzati dai processi di modulazione centrale degli input sensoriali, memorizzazione delle nuove esperienze e messa a punto di procedure motorie adattative. Nelle forme ricorrenti, come alcuni casi di vertigine parossistica da posizionamento o la Malattia di Menière, occorrerà cercare anche di contrastare i relativi meccanismi patogenetici (ad esempio i disturbi del microcircolo o la formazione dell’idrope). Betaistina dicloridrato È un farmaco ampiamente utilizzato nel trattamento dei disordini vestibolari periferici e centrali. È un farmaco che si distingue per una attività di tipo modulatorio, non sedativo, caratterizzato da una ottima tollerabilità. La sua attività è dovuta ad un meccanismo d’azione multiplo: 1. perifericamente riduce l’attività spontanea dei recettori ampollari labirintici; Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 28 Tabella 5. Trattamento con betaistina delle più comuni patologie causa di vertigine o disequilibrio con coinvolgimento della funzione vestibolare. PATOLOGIA FASE ACUTA FASE CRONICA O RICORRENTE Presbiatassia Vertigini parossistiche da posizionamento Malattia di Menière Neurite vestibolare Disturbi del microcircolo labirintico manovre liberatorie o di riposizionamento - betaistina 16 mg x 3/die - sedativi, antiidropici ed antinausea - betaistina 16 mg x 3/die, - sedativi ed antinausea - cortisonici, neurotropi - betaistina 16 mg x 3/ die - farmaci sedativi ed antinausea - farmaci attivi sul meccanismo patogenetico circolatorio - neurotropi 2. centralmente, tramite una attività histamine-like agonista sui recettori H1 ed antagonista sui recettori H3, modula la sintesi e il rilascio di vari neurotrasmettitori, in primis l’istamina, con miglioramento dei processi di adattamento e compenso funzionale dell’equilibrio statico e dinamico; 3. a livello microcircolatorio del labirinto e del sistema arterioso vertebrobasilare, stimola direttamente i recettori H1 localizzati sulle cellule endoteliali dei capillari provocando una vasodilatazione e favorendo il riassorbimento di un’eventuale idrope labirintica. Nella maggior parte dei più importanti studi clinici condotti con betaistina (che hanno coinvolto oltre 4000 pazienti) i risultati più soddisfacenti sono stati raggiunti con terapie della durata di 1-6 mesi e con dosi fino a 48 mg/die. Inoltre, un recente studio di farmacologia ha dimostrato che l’attività di betaistina è sia dose che durata dipendente. In base a queste premesse, betaistina dovrebbe essere preferibilmente somministrata alla massima dose giornaliera autorizzata (fino a 48 mg die) per un tempo il più lungo possibile. Il trattamento può essere modulato come segue: - betaistina 24 mg x 2/die - neurotropi - betaistina 24 mg x 2/die - betaistina 24 mg x 2/die ansiolitici prevenzione dell’idrope betaistina 24 mg x 2/ die neurotropi - betaistina 24 mg x 2/die - prevenzione sui meccanismi eziopatogenetici, - neurotropi nelle forme acute è preferibile una tripla somministrazione giornaliera di 16 mg di betaistina per alcuni giorni, che garantisca l’attività inibitoria a livello del recettore vestibolare periferico e modulatoria a livello del SNC in modo più costante ed omogeneo nel tempo. nelle forme cronicizzate e ricorrenti, in cui la terapia va abitualmente protratta per cicli ripetuti, è opportuno mantenere lo stesso dosaggio massimo giornaliero (48 mg die) privilegiando però la compliance ed affidandosi quindi alla doppia somministrazione di 24 mg. Un soggetto anziano, infatti, assume già abitualmente vari farmaci e pare poco probabile che possa accettare una terapia prolungata con ulteriori tre somministrazioni giornaliere. La Tabella 5 riporta alcuni esempi di trattamento nelle forme di disturbo dell’equilibrio più comuni nella terza età con coinvolgimento della funzione vestibolare. Bibliografia essenziale Albera R. La betaistina nel trattamento della malattia di Menière e delle altre sindromi vertiginose. Review su efficacia e sicurezza. Otorinolaringol 2005; 55:1-8 Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 29 Baloh RW, Honrubia V. Vestibular Loss in the Elderly. In: Clinical Neurophysiology of the Vestibular System, 3rd ed., pg. 386, Baloh RW., Honrubia V. eds., Oxford University Press, New York, 2001 Botta L, Mira E, Valli S, et. al. Effects of betahistine and of its metabolites on vestibular sensory organs Acta Otorhinolaryngol Ital 2001; 66 (Suppl):24-30 Brandt T. Vertigo, dizziness, and falls in the elderly. 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Con la Written Declaration on Endometriosis (1), infatti, viene ricordato che: nell’Unione Europea l’endometriosi colpisce una donna su dieci; nell’Unione Europea l’onere annuale dei congedi dovuti a tale affezione viene stimato in 30 miliardi di euro; non esiste una giornata europea dell’endometriosi e la conoscenza di tale malattia, sia tra i medici che nella popolazione, è scarsa. Nello stesso documento, inoltre, viene sollecitata la Commissione Europea affinché, tra l’altro, favorisca la ricerca sulle cause, la prevenzione e sul trattamento di tale patologia. Definizione di endometriosi Con “endometriosi” si definisce un’affezione caratterizzata dalla presenza in sedi localizzate all’esterno della cavità uterina di tesSpecialista in Anatomia e Istologia Patologica e Tecniche di Laboratorio, Milano suto simil-endometriale che determina una reazione infiammatoria cronica (2). La maggior parte dei foci endometriosici ha sede a livello pelvico (ovaie, peritoneo, legamenti uterosacrali cavo del Douglas e setto retto-vaginale), mentre foci extrapelvici sono rari. La manifestazione della malattia varia da piccole lesioni a cisti endometriosiche, fibrosi e aderenze di tale gravità da sovvertire l’apparato riproduttivo della donna e condizionarne la fertilità. Dell’endometriosi sono state proposte diverse classificazioni, ma la più utilizzata è quella dell’American Society of Reproductive Medicine (3) che, in base alla gravità, identifica quattro stadi della malattia. Sfortunatamente, però, essa non consente di prevedere, in rapporto allo stadio, ne le probabilità di gravidanza, né l’entità del dolore che la donna patirà, né l’efficacia del trattamento su quest’ultimo. Epidemiologia dell’endometriosi I dati diffusi dalla Fondazione Italiana Endometriosi indicano che tale affezione interessa 14 milioni di donne in Europa e 3 milioni in Italia, con una spesa annua per il Sistema Sanitario Nazionale di 182 milioni di euro (4). Nelle donne tra i 25-44 anni l’incidenza dell’endometriosi si aggira intorno al 10-15% ed è maggiore del 5-7% nelle parenti di primo grado di donne affette da endometriosi (5, 6). È stato osservato che circa il 35% delle donne con infertilità è affetta da endometriosi (7). Tuttavia all’ampia diffusione della malattia non corrisponde una rapidità nella diagnosi: questa viene raggiunta in media dopo 8,5 anni in USA, 8 anni in UK e 6,7 anni in Norvegia (8). Secondo un recente studio i motivi di tale ritardo sono da ricercarsi sia a livello delle pazienti (incapacità di distinguere tra esperienze mestruali normali e anormali, paura di apparire deboli, sviluppo di strategie tendenti più ad accomodare che a scoprire la causa del dolore), sia a livello dei medici (“normalizzazione” del dolore da parte del medico di famiglia, soppressione intermittente dei sintomi con la pillola anticoncezionale, uso di esami non discriminanti) (8). Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 31 Eziopatogenesi dell’endometriosi L’eziopatogenesi dell’endometriosi non è nota. In proposito esistono diverse teorie, ma nessuna di esse è in grado di fornire spiegazioni che siano valide per tutti i casi. L’ipotesi più diffusamente accettata è quella della mestruazione retrograda o trans-salpingea, secondo la quale del tessuto endometriale, presente nel flusso mestruale, risalirebbe le tube per impiantarsi nella cavità addominale. Accanto a questa teoria si collocano il trasporto in sedi lontane delle cellule endometriali attraverso la via linfatica e/o ematica e la trasformazione dell’epitelio celomatico in ghiandole simil-endometriali (metaplasia celomatica). Inoltre, la maggiore incidenza dell’endometriosi in alcuni gruppi familiari, suggerisce che l’ereditarietà possa essere un fattore causale (6). I sintomi dell’endometriosi Il modo con cui l’endometriosi si presenta clinicamente è multiforme e l’estrema variabilità dei sintomi rende spesso difficile la diagnosi (Tabella 1). Il sintomo più comune è la dismeTabella 1. Principali sintomi di endometriosi (9). Dismenorrea Dolore pelvico Dispareunia Lombalgia Dischezia Dolore minzionale sovrapubico Infertilità norrea e spesso la paziente si rivolge al medico quando essa diventa ingravescente (9). Nel 15% dei casi di dolore pelvico la causa è rappresentata dall’endometriosi (10). In aggiunta al dolore le pazienti possono accusare sintomi aspecifici come affaticabilità, malessere generale e disturbi del sonno (9). Diagnosi di endometriosi L’elevata incidenza di sintomi non legati alla sfera sessuale con cui si manifesta l’endometriosi rende conto dei risultati di un’indagine condotta dalla National Endometriosis Society (UK) che ha evidenziato che il 32% delle pazienti prima di essere visitata da un ginecologo consulta un’altro specialista e che il 25% addirittura due (9). La diagnosi di endometriosi sulla sola base dei sintomi può essere molto difficile perchè questi possono essere sovrapponibili a quelli della sindrome dell’intestino irritabile e della malattia pelvica infiammatoria (2). Il test diagnostico gold standard per l’endometriosi è rappresentato dall’ispezione diretta della pelvi mediante laparoscopia e l’esame istologico della lesione serve a conferma della diagnosi (l’istologia negativa non la esclude) (2). Trattamento dell’endometriosi Il trattamento dell’endometriosi deve tenere conto dell’età della paziente, del suo desiderio di una gravidanza futura, della gravità dei sintomi e della localizzazione ed estensione della lesione. La terapia dell’endometriosi è va- riata nel corso degli anni, ma una cura certa non è ancora disponibile (11). Il counseling prevede l’incentivazione della gravidanza per due principali motivi: 1) la gravidanza spesso causa una remissione temporanea della sintomatologia e 2) l’insorgenza della sterilità diventa più probabile con il progredire della malattia (11). Ovviamente questa modalità “terapeutica” non è scevra di problemi facilmente intuibili. La rimozione chirurgica degli impianti endometriosici rappresenta il trattamento ideale, tuttavia l’esperienza clinica dimostra che alcune donne non hanno i benefici attesi sia a causa di escissioni incomplete, sia per recidiva della malattia e sia perchè l’endometriosi non era la causa della loro sintomatologia (2, 9). La terapia medica dell’endometriosi, escludendo i FANS che alcune donne assumono nel tentativo [non supportato da evidenze scientifiche (2)] di risolvere il dolore, si fonda sulla necessità di abolire l’effetto trofico dell’estradiolo sul tessuto endometriale ectopico (9). Si tratta in pratica di determinare un quadro di pseudo-gravidanza o di pseudo-menopausa o di anovulazione cronica (12). Nella Tabella 2 sono indicati i farmaci comunemente impiegati per la cura dell’endometriosi e i relativi effetti collaterali. Tutti questi farmaci ormonali sono risultati efficaci e circa l’80-85% delle pazienti ha avuto un miglioramento dei loro sintomi (2, 9). Le differenze tra i vari trattamenti medici risiedono principalmente negli schemi posologici e nella loro tollerabilità: infatti alcuni effetti collaterali limitano il loro impiego per periodi prolungati e spesso riducono la compliance (2, 9). Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 32 Tabella 2. Farmaci per il trattamento dell’endometriosi (9). Farmaco Effetti collaterali Antinfiammatori non steroidei (FANS) (diclofenac, ibuprofene, acido mefenamico, ecc.) Irritazione gastrica Progestinici (diidrogesterone, medrossiprogesterone acetato, noretisterone) Edemi, ritenzione di fluidi, tensione mammaria, nausea Androgeni sintetici (danazolo, gestrinone) Seborrea, acne, aumento di peso, crampi muscolari, sintomi della menopausa (tranne osteoporosi) Estro-progestinici Simili a quelli associati ai contraccettivi orali Analoghi del GnRH (buserelina, goserelina, leuprorelina acetato, nafarelina, triptorelina) Sintomi della menopausa (compreso osteoporosi) Analoghi del GnRH e terapia ormonale sostitutiva o tibolone La terapia ormonale sostitutiva migliora gli effetti collaterali degli analoghi del GnRH Gli analoghi del GnRH Gli analoghi del gonadotropinreleasing hormone (GnRH) bloccano la liberazione di LH e FSH da parte dell’ipofisi, determinando una condizione di ipogonadismo ipogonadotropo, con conseguente ipoestrogenismo che favorisce la remissione delle lesioni endometriosiche. È stato ipotizzato che per raggiungere questo risultato è necessario arrivare a un livello plasmatico di estrogeni pari a 50 pg/mL (13) e gli analoghi del GnRH sarebbero i farmaci più efficaci in tal senso, perchè determinano concentrazioni plasmatiche di estradiolo nettamente inferiori e più stabili rispetto ad altri trattamenti (12). Gli effetti collaterali della terapia con analoghi del GnRH sono quelli di uno stato di ipoestrogenismo, similmente a quanto accade durante la menopausa. La perdita di densità minerale ossea rappresenta l’effetto avverso più importante, ma l’aggiunta di estroprogestinici (add-back therapy) si è rilevata in grado di contrastare efficacemente questa evenienza (14). Quanto debba durare il trattamento con analoghi del GnRH + addback therapy non è ancora completamente chiarito, tuttavia osservazioni protratte fino a 2 anni hanno evidenziato che l’efficacia sul dolore e la protezione sulla densità minerale ossea si mantengono inalterate per tutto tale periodo (14). Gli analoghi del GnRH sono disponibili in diverse formulazioni: (iniezioni giornaliere, spray nasale, depot), ma le preparazioni depot sono le meglio accettate dalle pazienti. Triptorelina depot: l’effetto dura più a lungo del previsto La triptorelina è un decapeptide sintetico analogo dell’ormone naturale GnRH prodotto dal- l’ipotalamo. Per il trattamento dell’endometriosi la triptorelina nella formulazione depot è disponibile sottoforma di acetato in una siringa preriempita (Gonapeptyl Depot®). La posologia della triptorelina depot, raccomandata nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, è di una siringa (equivalente a 3,75 mg di triptorelina/1 mL) somministrata per via sottocutanea (SC) o per via intramuscolare (IM) ogni 28 giorni (15). Esistono tuttavia osservazioni che indicano che l’effetto e l’efficacia della triptorelina depot si protraggono ben oltre le 4 settimane di intervallo tra una dose e l’altra (16, 17). Infatti Filicori et al. (16) hanno mostrato che con entrambi le vie di somministrazione (SC e IM), dopo 2 mesi dall’ultima iniezione, le concentrazioni ematiche di triptorelina sono ancora misurabili e gli effetti su LH, FSH e estradiolo permangono invariati (Figura 1). Scripta M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008 33 dolore (17) (Figura 2). La triptorelina, tuttavia, sia per la maggiore tollerabilità, sia per la più conveniente modalità di somministrazione (4 iniezioni in totale vs 3 assunzioni quotidiane per via orale di danazolo) ha fatto registrare, rispetto a danazolo, una migliore compliance (un solo paziente non ha completato la terapia vs 7 di danazolo; p < 0,05) (17). Conclusioni Figura 1. L’effetto della triptorelina acetato depot sui livelli ematici di LH, FS ed estradiolo persiste per 2 mesi dalla fine del trattamento (16). Questo prolungato effetto della triptorelina sul profilo ormonale della donna ha fornito il presupposto per uno studio clinico di confronto con danazolo, in cui l’analogo del GnRH nella formulazione depot è stato somministrato ad intervalli di 6 settimane nel periodo postoperatorio (6 mesi) a donne sottoposte a intervento chirurgico conservativo per endometriosi moderata-grave (17). I risultati, oltre a dimostrare che l’allungamento da 4 a 6 settimane dell’intervallo di somministrazione della triptorelina non influenza l’efficacia del trattamento, hanno indicato che entrambi i farmaci sono validi nel controllare il L’endometriosi è una malattia che in Italia affligge 3 milioni di donne, con elevati costi sociali. La sua eziopatogenesi non è nota. La sua diagnosi è difficoltosa a causa della grande variabilità dei sintomi. La terapia medica dell’endometriosi si basa sull’impiego di farmaci che ostacolano l’effetto trofico degli estrogeni sull’endometrio. Gli analoghi del GnRH bloccano la liberazione di LH e FSH da parte dell’ipofisi, determinando una condizione di ipogonadismo ipogonadotropo, con conseguente ipoestrogenismo. Figura 2. Endometriosi: l’allungamento da 4 a 6 settimane dell’intervallo di somministrazione della triptorelina acetato depot non influenza l’efficacia sul dolore (simile a quella del danazolo) (17). Scripta M E D I C A Volume 8, n. 10, 2005 34 La triptorelina è un decapeptide sintetico analogo del GnRH. L’effetto e l’efficacia della triptorelina acetato depot nell’endometriosi si protraggono ben ol- tre le 4 settimane di intervallo raccomandato tra una dose e l’altra (fino a 2 mesi). Il prolungamento dell’intervallo di somministrazione della trip- torelina depot (fino a 2 mesi), oltre a incrementare la tollerabilita e la compliance (già migliori rispetto al danazolo), contribuisce a ridurre i costi della terapia. Montiel JA, Martínez Chéquer JC, Manterola Alvarez D, García Luna A. Incidence of endometriosis in infertile women: clinical and laparoscopic characteristics. Ginecol Obstet Mex. 2005; 73:471-6 13. Barbieri RL. Hormone treatment of endometriosis: the estrogen threshold hypothesis. Am J Obstet Gynecol. 1992; 166:740-5 Bibliografia 1. Endometriosis.org. http://www.endometriosis.org/press13june05.html 2. Royal College of Obtetricians and Gynaecologist. 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Fertil Steril. 2004; 81:1522-7 Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 EDITORIALE I n considerazione dell’altissimo impatto epidemiologico nell’ambito della popolazione generale maschile e femminile e della cronicità che caratterizza la maggior parte delle malattie urologiche, abbiamo pensato di offrire ai Colleghi Medici di Medicina Generale questa rubrica come un utile strumento di aggiornamento e di supporto pratico nella gestione del paziente. Dedicare una rubrica urologica anche a non esperti del settore deriva dalla consapevolezza che si tratta di malattie spesso aggravate da un notevole impatto sulla qualità di vita del paziente stesso e della sua famiglia. Proprio per questi motivi è necessario che il Medico di Medicina Generale ne conosca le caratteristiche principali e sappia come affrontare il paziente urologico nella pratica clinica. Il “management” può essere complesso e non si limita al solo monitoraggio tramite la prescrizione di esami, farmaci e presidi ma riguarda anche il trattamento di importanti disturbi funzionali che ne possono derivare (in primis impotenza ed incontinenza urinaria), rendendosi necessaria una conoscenza dei principali meccanismi fisiopatologici alla base di queste alterazioni. La rubrica dedicherà spazio ai principali disordini urologici che si caratterizzano per il grande impatto socio-economico, dando spazio alle novità diagnostiche e terapeutiche ed ai punti più controversi. Mi permetto di aggiungere che un ampio respiro verrà dato agli argomenti uro-oncologici, con un approccio multidisciplinare che permette di integrare i vari punti di vista delle diverse specialità interessate alla gestione del paziente. Il coinvolgimento di numerose figure professionale, tra cui quella del Medico di Medicina Generale, si colloca come un elemento fondamentale sia nella fase diagnostico-terapeutica che di monitoraggio delle neoplasie urologiche. Lo scopo di questa rubrica non è solo quello di aggiornare ma anche di rifornire il medico di medicina generale di algoritmi possibilmente semplici che permettano una gestione ottimale del paziente urologico. Alessandro Bertaccini Segretario e Tesoriere Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO) Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 36 Il carcinoma vescicale: quando sospettarlo e qual è il ruolo del medico di Medicina Generale Alessandro Bertaccini Clinica Urologica Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna ntroduzione I L’epidemiologia della neoplasia vescicale nell’ambito della popolazione mondiale, colloca questo tumore al quarto posto per incidenza fra gli uomini e all’ottavo fra le donne con una mortalità complessiva di 14.000 casi/anno [1]. Sebbene il suo trattamento sia esclusivamente di pertinenza specialistica, il ruolo del medico di medicina generale è cruciale nell’identificazione dei pazienti a rischio e nel riconoscere chi deve essere inviato all’attenzione degli urologi. Tutto ciò con l’intento di individuare quanto prima gli istotipi ad alta malignità e ad evoluzione rapidissima cercando di garantire una diagnosi precoce e quindi una migliore prognosi. È importante quindi individuare e correlare gli elementi che derivano da un’analisi dei fattori di rischio e dei risultati dei test effettuati. con sospetto di tumore vescicale Paziente L’inquadramento del paziente con sospetto di tumore vescicale può essere complicato, poiché molti dei sintomi riferiti oltre ad associarsi a questa neoplasia sono tipici di altre patologie benigne delle vie urinarie. Inoltre, non essendo stato ancora identificato un test di screening per la neoplasia vescicale abbastanza specifico e sensibile da fornire benefici clinici, il sospetto di neoplasia si pone nella maggior parte dei casi, solo e se il paziente si rivolge al medico di medicina generale lamentando l’insorgenza di un sintomo specifico oppure per segnalare un valore alterato in un esame eseguito. Spesso si tratta del solo riscontro di emazie nel sedimento urinario, microematuria, altre volte invece il quadro clinico assume maggior significato in quanto il paziente lamenta urine visibilmente ematiche (macroematuria). I dati di letteratura riportano un’incidenza di neoplasia vescicale nel 25% dei pazienti affetti da macroematuria ed un’incidenza che oscilla dall’1% al 10% nei pazienti che presentano microematuria [2-4]. Nei casi di microematuria, il presupposto per impostare un iter diagnostico finalizzato ad escludere la presenza di un tumore vescicale, si pone quando viene individuata la presenza di una media di 3 o più emazie per campo (RBC/hpf) in almeno 2 dei 3 sedimenti urinari ottenuti dal secondo getto mattutino di urine. L’associazione tra la patologia neoplastica e la microematuria nei pazienti asintomatici è stata riscontrata nel 9-18% [2, 5]. Questo è il motivo per cui viene scoraggiato l’utilizzo dello stick delle urine come test di screening, poichè ogni ulte- Scripta MEDICA Volume 11 n. 1, 2008 37 riore valutazione mirata ad un approfondimento diagnostico in questi casi potrebbe rappresentare solo un costo senza benefici reali per il paziente [2, 6, 7]. Questo non si deve necessariamente tradurre nell’ignorare il dato clinico, ma nel valutare tutti gli elementi inclusi anche i fattori prognostici ed altri parametri come la proteinuria e la creatininemia che possono giustificare la presenza di microematuria con una patologia renale. Non va comunque dimenticato che anche in questi casi se si associano fattori di rischio per neo- plasia urologica il paziente deve necessariamente rivolgersi all’urologo. In ogni caso non sono ancora stati del tutto chiariti i dettagli clinici che riguardano quale sia la gestione nei casi di microematuria. Attualmente viene raccomandato, qualora si tratti di microematuria significativa, di ripetere l’esame del sedimento urinario entro 3-6 mesi nei pazienti affetti da microematuria asintomatica ma con fattori di rischio associati mentre ad un anno per chi ha presentato un episodio isolato in assenza di fattori prognostici negativi, sconsiglian- do, in entrambi i casi, di esporsi agli stessi nel futuro [8]. È stato infatti dimostrato come nei pazienti di età superiore ai 40 anni, fumatori, che abusano di analgesici, esposti a radiazioni ionizzanti a livello della pelvi o ad agenti chimici e vernici, sia maggiore il rischio di sviluppare un tumore vescicale. Se il dato laboratoristico viene confermato anche nei successivi controlli ed il paziente ha più di 40 anni vale la pena eseguire una visita urologica. Al contrario nei soggetti di età inferiore ai 40 anni che presentano ALGORITMO DIAGNOSTICO - SOSPETTO DI NEOPLASIA VESCICALE Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 38 microematuria asintomatica in assenza di fattori di rischio non si deve procedere con ulteriori accertamenti ma solamente ad una valutazione nel tempo [4, 9]. A supporto di ciò uno studio di 1930 pazienti con ematuria, in cui solo 1 su 143 di età inferiore ai 40 anni ed affetto da microematuria asintomatica, ha sviluppato una neoplasia vescicale. Nei casi di microematuria significativa associata ad una sintomatologia irritativa, si deve necessariamente sottoporre il paziente all’attenzione dello specialista soprattutto se persiste dopo terapia antibiotica. Infatti generalmente questa neoplasia ha esordio asintomatico ma può coesistere con la disuria ed a frequenti episodi di infezioni alle vie urinarie [2]. Recenti studi hanno dimostrato un’incidenza doppia di neoplasie vescicali in pazienti affetti da microematuria sintomatica rispetto alla restante popolazione (10,5% contro il 5%) [8]. Meno controversa appare la gestione del paziente con macroematuria che pone quasi sempre il sospetto di una neoplasia urologica (25% dei casi) [3, 4]. Infatti in questi pazienti l’assenza di fattori di rischio non preclude ulteriori approfondimenti diagnostici e la richiesta di una visita specialistica. Un’eccezione può essere rappresentata dalle donne di età inferiore ai 40 anni che riferiscono un episodio di macroematuria contemporanea ad un’infezione urinaria sintomatica confermata dalla positività dell’urinocoltura e risoltasi dopo terapia antibiotica [2]. Al contrario un episodio di macro-ematuria anche se risoltosi dopo presunta infezione urinaria in presenza di urinocoltura negativa non può farci esimere da eseguire approfondimenti tenendo in considerazione che il sanguinamento ha spesso andamento intermittente/remittente. Tutto ciò vale anche per i pazienti in terapia con farmaci anticoagulanti dove la macroematuria non è comunque giustificata e rappresenta un marcatore di patologia [2]. Un altro scenario dove non necessariamente si deve sospettare una patologia maligna, è la presenza di urine ematiche successive ad un’intensa attività sportiva. Di fronte al sospetto di neoplasia vescicale e/o per fare una diagnosi differenziale con un’ eventuale sintomatologia “irritativi” di altra origine, è necessario inviare il paziente allo specialista per eseguire appropriati approfondimenti diagnostici quali ecografia reno-vescicale, esame citologico urinario su 3 campioni, cistoscopia ed URO-TC (oppure urografia tradizionale). In ogni caso una buona selezione dei pazienti, permette da una parte di ridurre le ansie di coloro che per qualche crocetta di sangue rilevato nello stick delle urine si rivolgono subito all’urologo eseguendo spesso inutili test, e dall’altra, di diagnosticare precocemente patologie neoplastiche potenzialmente curabili. M, Powell PH, Neal DE. A prospective analysis of 1,930 patients with hematuria to evaluate current diagnostic practice. J Urol. 2000; 163:524-527. Screening for Bladder Cancer: Brief Evidence Update. Rockville, Md: Agency for Healthcare Research and Quality; June 2004. Available at: http://www.ahrq.gov/clinic/3rduspstf/bl adder/blacanup.htm Accessed January 18, 2008. Bibliografia 1. American Cancer Society. Cancer Facts and Figures 2007. Available at: http://www.cancer.org/downloads/STT/ CAFF2007PWSecured.pdf Accessed January 18, 2008. 2. Grossfeld GD, Litwin MS, Wolf JS, et al. 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Scripta Scripta MM EE DD II CC AA Volume Volume 11, 10, n. n. 1, 1, 2008 2007 39 39 ISPLAD 2007 2° Congresso Internazionale di Dermatologia Plastica La Dermatologia Plastica si occupa di tutto ciò che riguarda l’invecchiamento cutaneo, le calvizie e i defluvium, le ipertricosi, le melanosi, la vitiligine, l’acne e i suoi postumi, le smagliature, la cellulite, le cicatrici e i cheloidi, e altri inestetismi cutanei, ma non come semplici inestetismi: il dermatologo plastico, come specialista d’organo, deve “preoccuparsi” e interessarsi della cute che invecchia nell’interezza di tutte le sue problematiche e cercare i risultati con mezzi che prediligono l’aspetto conservativo, biostimolante, riducendo al massimo la distruzione cutanea. Occuparsi di invecchiamento cutaneo deve significare, inevitabilmente, occuparsi anche di ipercheratosi, discheratosi e altre precancerosi che caratterizzano una pelle “matura” e che spesso sfociano in vera e propria patologia oncologica. La dermatologia plastica è in questo modo anche “prevenzione” e può svolgere un reale ruolo etico e sociale. Ampio consenso, di pubblico, stampa e mondo scientifico, ha riscosso il II Congresso Internazionale di Dermatologia Plastica e Oncologica, organizzato dall’ISPLAD (International-Italian Society of Plastic-Aesthetic and Oncologic Dermatology) a Milano dal 6 all’8 marzo 2008. L’edizione ha puntato l’attenzione non solo sui trattamenti estetici, ma soprattutto sulle prevenzione delle malattie cutanee, in particolare oncologiche: scelta premiata con un afflusso di oltre mille tra dermatologi e specialisti di altre discipline mediche e un grande interesse da parte della stampa nazionale. Circa 70 i giornalisti accreditati, e importante la presenza di Radio 24, Odeon Tv e RAI 2. Quest’ultima, con tre collegamenti in diretta, nella seconda giornata congressuale, dalle 15 alle 16, ha permesso a molti telespettatori di vedere in anteprima alcune tra le principali novità presentate. Ancora oggi, a distanza di più di un mese, le pagine di mensili e settimanali risuonano dei temi trattati in sede congressuale, segno dell’interesse che hanno suscitato nel grande pubblico oltre che presso la comunità scientifica. ISPLAD, forte di questi risultati, non si ferma, pronta ad accogliere e vincere nuove sfide, dando impulso a un’opera di informazione e di sensibilizzazione della popolazione verso un approccio differente alla salute cutanea. Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 40 Patologie cutanee da tessuti Paolo D. Pigatto, Lucretia A. Frasin Istituto di Scienze Dermatologiche FRCCS , Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli Regina Elena Mlano Introduzione La cute ha un ruolo fondamentale nel proteggere l’organismo umano dall’ambiente esterno, tanto è vero che la vita non è possibile quando ampie aree del mantello cutaneo sono gravemente danneggiate, come si verifica ad esempio per i grandi ustionati. Questo ruolo globale di protezione si esplica in diverse modalità che, considerate singolarmente, costituiscono altrettante funzioni della cute. Le stesse funzioni protettive sono espletate dagli indumenti che da tempi remoti vengono utilizzati dall’uomo sovrapposti direttamente sulla cute in ogni periodo della sua vita. Durante i primi periodi di vita sulla terra l’uomo si è coperto con pelli di animali utili per proteggersi dal freddo notturno o invernale. Il periodo e le ragioni in cui gli uomini hanno cominciato a vestirsi intrecciando fibre vegetali ed animali, rimangono ancora oggi sconosciuti. Per millenni gli uomini hanno utilizzato fibre naturali di tipo cellulosico e quindi di derivazione vegetale (cotone, canapa e lino) e di tipo proteico e pertanto di derivazione animale (lana e seta). Alla fine del secolo scorso i chimici sono stati in grado di copiare i polimeri naturali in forma fibrosa e di formare polimeri da sostanze chimiche semplici arrivando a sintetizzarne ben 21 tipi di fibre differenti e in ogni modo ben distinte le une dalle altre (fibre artificiali). Le fibre sintetiche sono ottenute da polimeri sintetici lineari di condensazione (poliammidi, poliesteri, etc) e di addizione (acriliche). Questi polimeri formano “la spina dorsale” della fibra: essa è però costituita da numerosi prodotti chimici che si formano come fattori collaterali nel processo di polimerizzazione e con la presenza di numerosissimi additivi chimici. Molti di questi additivi sono aggiunti per conferire alcune caratteristiche ai singoli tessuti quali l’idrorepellenza, l’ingualcibilità, la resistenza alle fiamme e l’anti-staticità. Tutti questi procedimenti vengono definiti genericamente finissaggio. sostanze tossiche Cute epresenti nei tessuti La valutazione dei rischi legati alla esposizione della cute a sostanze tossiche, cancerogene, presenti nei prodotti tessili sono state oggetto di numerose ricerche a livello internazionale ma non hanno ancora permesso di definire correlazioni dimostrabili scientificamente con alcune patologie croniche. I riferimenti scientifici che hanno permesso l’individuazione di sostanze pericolose da eliminare tramite le norme o tramite marchi volontari sono di tipo precauzionale e fanno riferimento a pubblicazioni scientifiche relative all’esposizione durante il processo produttivo o al loro impatto sull’ambiente (1-10). Manca tuttora una formulazione condivisa dal mondo scientifico di un modello per la valutazione dell’esposizione della cute ai prodotti tessili indossati e uno studio accurato sulle sostanze che effettivamente rimangono nel prodotto tessile finale. Non vi è un flusso continuo, aggiornato ed utilizzabile dei i risultati della ricerca scientifica sulle esposizioni professionali nel settore tessile ed i possibili effetti di quelle sostanze sui consumatori e mancano professionalità in grado di integrare le conoscenze di carattere sanitario con quelle relative ai prodotti tessili (11-14). Le correlazioni tra le sostanze irritanti e sensibilizzanti presenti nei prodotti tessili e patologie quali le dermatiti da contatto irritanti acute e croniche (DIC), le dermatiti allergiche da contatto (DAC), le esacerbazione delle dermatiti atopiche e le orticarie da contatto sono state invece maggiormente studiate soprattutto in Italia grazie al contributo del Gruppo Italiano Ricerca Dermatiti da Contatto e Ambientali (GIRDCA poi divenuta SIDAPA) che ha studiato oltre 42.000 casi negli anni 1984-1993 (5). In tale studio si stimava, che la Dermatite Allergica da Contatto (DAC) da indumenti rappresentasse circa il 10% delle DAC extraprofessionali, dati confermati da uno studio effettuato dall’Associazione Tessile e Salute utilizzando pubblicazioni scientifiche della Società Italiana di Dermatologia Allergologica Professionale e Ambientale (SIDAPA). La stessa SIDAPA calcola che oggi, in Italia, siano circa 60.000 i soggetti sensibilizzati da sostanze presenti nei tessuti; tale aumento sembra dovuto sia al miglioramento degli strumenti e dei criteri di diagnosi sia all’aumento di patologie predisponenti soprattutto nelle fasce giovanili. Nel contempo, tali prevalenze possono essere sottostimate, perché pur migliorando la diagnosi di dermatite da contatto con tessuti, ancora persistono Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 41 stesso tipo ma utilizzate da diversi produttori possono variare per l’uso maggiore o minore di additivi e di sostanze chimiche. Gli indumenti devono sovrapporsi in modo armonico al mantello cutaneo aiutando le varie attività fisiologiche della cute, agendo in modo complementare: per essere buono un tessuto deve proteggere senza modificare in modo negativo la qualità del rapporto cuteambiente esterno. Attraverso il contatto diretto con la pelle, i Figura 1. Dermatite da contatto in sede ascellare da tessuti (notare il tessuti possono prevenire alcune risparmio della parte più profonda del cavo ascellare). patologie (cosiddette “fibre intelligenti” per esempio, per prevenire danni da agenti esterni), migliorare patologie esistenti (tessuti elastocompressivi per le patologie venose) o al contrario provocare patologie della cute. Dal punto di vista clinico le dermatiti causate da contatto con gli abiti possono variare per aspetto e/o localizzazione. Generalmente il quadro clinico delle dermatiti connesse ai prodotti tessili è rappresentato dalla dermatite allergica da contatto (DAC) ma nella letteratura sono state descritte diverse varianti cliniche come risulta dalla Tabella 1. Le zone dove gli abiti sono più a stretto contatto con la pelle sono ibre tessili e indumenti le più esposte al rischio di sviFigura 2. Tipico aspetto della dermatite da contatto da tessuti luppare una DAC. In genere è Gli indumenti sono interessamento delle aree realmente a contatto con i tessuti in localizzata nelle regioni non soggetto di sesso femminile ed obeso. protette dagli indumenti intimi confezionati con pezze di tessu(Gentile concessione del Prof. Paolo Lisi, Università di Perugia) ed è particolarmente presente to che vengono colorate o stamalle ascelle (con il risparmio del pate, quindi trattate con varie sostanze chimiche. fibre sono conosciute per la loro morbi- cavo), al collo, nella fossa antecubitale o Le singole fibre presentano poi caratte- dezza (Cashmere) mentre altre sono cavo popliteo, al torace ed al tronco ristiche di superficie notevolmente dif- grossolane e ruvide come la lana grezza (Figure 1 e 2). Quando la dermatite è ferenti. Il nylon e le fibre in poliestere e la fibra di vetro. Le medesime fibre causata dalle calze, le più interessate sono lisci, mentre il rayon, il cotone e il prodotte persino dallo stesso gruppo sono le regioni posteriore ed interna poliestere trattato con agenti alcalini industriale possono variare nelle qualità delle cosce, la fossa poplitea ed il dorso presentano superfici irregolari. Alcune fisiche e a maggior ragione fibre dello dei piedi. Gli indumenti intimi più in numerose difficoltà tecniche relativamente agli strumenti e ai criteri di diagnosi. I punti critici sono che l’indagine anamnestica è, in genere, di modesto aiuto dal momento che manifestazioni cliniche possono essere atipiche con quadri non eczematosi. Scarse sono le indicazioni bibliografiche e le informazioni merceologiche sugli allergeni e alcuni coloranti non sono elencati nel Color Index o mancano di formula chimica nota oppure hanno differenti nomi commerciali; non si conoscono gli effetti, nel prodotto finito, dei composti che si formano durante il processo produttivo, sui singoli potenziali allergeni. I test diagnostici di routine sono poi eseguiti solo con alcuni allergeni e può essere difficile verificare la rilevanza delle positività riscontrate ai patch test. Da ultimo gli studi di prevalenza sulle dermatiti da contatto sono effettuati solo nella popolazione che afferisce agli ambulatori dermatologici, per cui non si conosce l’attuale reale dimensione del problema sull’intero territorio nazionale. F Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 42 causa sono le calze nel sesso femminile mentre i calzini difficilmente inducono allergia nei maschi. Al secondo posto si segnala una discreta frequenza di allergia ai coloranti delle mutande, mentre i costumi da bagno come tali sono molto raramente in causa nelle dermatiti da indumenti intimi. Quindi sono suggestivi per una DAC da indumenti l’interessamento di aree non protette dalla biancheria intima, aree a contatto con parti “speciali” di biancheria intima, aree a contatto con fodere, aree di maggior sudorazione e aree di maggior attrito con indumenti. La reale incidenza di tali patologie è poco conosciuta; i dati attualmente disponibili suggeriscono che questa dermatite sia più comune di quello che precedentemente si credeva, cioè l’interessamento di una piccola parte della popolazione, soprattutto quella femminile tra i 24 e 34 anni ma sono descritti anche numerosi casi in età avanzata. In un’indagine epidemiologica GIRDCA sulle dermatiti da contatto in Italia (1994-1998) Lisi P et al. (5), tra le cause di dermatite da contatto di natura extraprofessionale un ruolo Dermatite da contatto allergica Dermatite da contatto irritante Orticaria da contatto Dermatite da contatto come eritema multiforme Dermatite da contatto tipo purpurica Dermatite da contatto tipo pigmentaria Dermatite da contatto tipo pustolare Eritroderma Dermatite da contatto come lichen amiloidosico Dermatite fototossica da tessuti Miliaria Follicolite Orticaria da pressione Dermatite atopica Tabella 1. Dermatiti da tessuti. Figura 3. Prodotti in causa nella dermatite da contatto extraprofessionale. importante viene dato all’abbigliamento (Figura 3). L’incidenza delle dermopatie allergiche da tessuti non è aumentata negli ultimi anni, nonostante il notevole uso di tessuti provenienti dall’area extra UE, soprattutto da paesi dove non esiste una normativa sul controllo delle sostanze immesse nel ciclo produttivo e dove le tecnologie utilizzate sono vetuste, riducendo il grado di adesività degli apteni. Molti consumatori dichiarano problemi cutanei vari, asserendo di essere in modo non evidenziabile allergici, mentre in realtà presentano semplicemente solo irritazione al tessuto: l’evento negativo più frequente prodotto da un tessuto è quella sensazione di sconforto che il calore, la scarsa circolazione d’aria all’interno del vestito e l’eccesso di sudore che si raccoglie sulla superficie cutanea induce un tipico fastidio cutaneo. Le singole fibre possono indurre specifici e differenti quadri clinici: 1) La lana causa irritazione acuta e cronica, aggrava la dermatite atopica e induce dermatite allergica da contatto (DAC) e orticaria da contatto. 2) La seta è in grado di aggravare una dermatite atopica e raramente induce orticaria da contatto. Non sono inve- ce mai state notate reazioni allergiche da contatto e neppure reazioni irritative. 3) Il Nylon può causare DAC e orticaria da contatto. 4) Le fibre di vetro non vengono usate per vestiti normali ma gli indumenti possono essere occasionalmente contaminati dal lavaggio degli indumenti in macchine lavatrici che hanno lavato delle tende. 5) Lo Spandex è utilizzato soprattutto nei reggiseni e lingerie e determina soltanto DAC. 6) La gomma è contenuta in numerosi prodotti e per questo motivo costituisce una causa frequente d’allergia. Pertanto considerando tutte le numerose fibre disponibili per l’uso negli abiti solo 2 naturali e 4 sintetiche sono responsabili di problemi dermatologici. Le manifestazioni dermatologiche causate da contatto con gli abiti sono così attribuite a sostanze chimiche e coloranti che vengono aggiunti alle fibre tessili durante la loro manifattura e assemblaggio in indumenti. In particolare, gli agenti responsabili sono rappresentati da prodotti per le tinture e il finissaggio, i metalli, la gomma e le colle. Occasionalmente anche gli sbiancanti Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 43 ottici, i biocidi, i materiali ignifughi ed altri agenti sono responsabili dell’insorgenza del quadro clinico cutaneo. I coloranti sono le sostanze chimiche più usate e possono essere classificate in acidi, diretti, reattivi, dispersi e vengono legati al mordente per diffondere più facilmente tra le fibre. Dal punto di vista della classe chimica il 40% dei coloranti tessili sono azoici ma non tutti sono altamente allergizzanti. Tra questi coloranti quelli che più facilmente determinano sensibilizzazioni appartengono al gruppo dei dispersi: questi formano legami stabili con le fibre naturali, si legano meno stabilmente con le fibre sintetiche ed essendo liposolubili penetrano bene attraverso la cute. I dati epidemiologici riportano la loro prevalenza di sensibilizzazione tra 3,1% e 5,2%. In particolare, i coloranti blu dispersi sono stati selezionati nel 2000 come “allergeni da contatto dell’anno” anche se la diagnosi di allergia ai coloranti dispersi è difficile per le numerose sostanze impiegate e la difficoltà ad avere un colorante come marker. In passato si riteneva che la PFD fosse una spia attendibile della sensibilizzazione a coloranti in genere e a quelli azoici in modo particolare ma questo dato non è stato più confermato. Altro gruppo responsabile di allergie agli indumenti sono le resine, usate per dare certe proprietà specifiche ai tessuti come sofficità, resistenza ai colori, etc. L’incidenza di sensibilizzazione alle resine nella popolazione generale è poco accertata e dovrebbe essere più bassa rispetto ai coloranti. Come sostanza mordente il più impiegato è il bicromato di potassio ma anche con analoga funzione vengono impiegati coloranti metallo complessi che contengono cobalto o nichel all’interno della molecola. Gli strumenti a nostra disposizione per una appropriata diagnosi di una sospetta DAC con tessuti di indumenti sono: anamnesi, valutazione clinica delle localizzazioni, i patch test, l’esame merceologico e alcune metodiche analitiche di laboratorio. L’esecuzione del patch test è lo strumento fondamentale per la conferma della diagnosi e per l’individuazione delle sostanze responsabili. I patch test possono essere effettuati con serie standard, serie addizionali, miscele di coloranti o indumenti sospettati. L’esame merceologico valuta l’esame dell’etichetta del capo incriminato che può fornire utili indicazioni mentre le metodiche analitiche possono essere utili per verificare la presenza di resine di finissaggio a base di formaldeide e per individuare i coloranti realmente presenti. Per quanto detto sopra, si ritiene che l’istituzione di un sistema di sorveglianza (banca dati delle sostanze, osservatorio dermatologico) possa costituire uno strumento valido e fattibile per la protezione della salute dei lavoratori e dei consumatori attraverso la determinazione della prevalenza delle dermatiti da contatto da prodotti tessili sul territorio nazionale, di un sistema di controllo nei prodotti tessili, ad iniziare da quelli importati (prodotti in paesi con minori o nulle restrizioni normative) sia delle sostanze vietate dalle normative vigenti, sia di quelle sostanze pericolose e/o sensibilizzanti, non normate ma fatte proprie da alcuni paesi europei e dai maggiori marchi volontari. ibliografia B 1. Lazarov A. Textile dermatitis in patients with contact sensitization in Israel: a 4year prospective study. J Eur Acad Dermatol Venereol 2004; 18: 531-7 4. Lazarov A, Cordoba M, Plosk N, Abraham D. 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È quanto emerso dal dibattito aperto che si è tenuto il 15 marzo al teatro San Babila di Milano, organizzato dalla IHRF. Il Dottor Fabio Rinaldi (Milano) ha condotto questa specie di “talk-show” che aveva lo scopo di dare delle indicazioni per orientarsi nel mondo tricologico, ed e stato distribuito un decalogo di regole che possono fornire delle indicazioni precise, magari per cercare di non cadere in trappole spesso pericolose (che può essere richiesto gratuitamente a [email protected]). Rinaldi, da dermatologo, è partito da una premessa che spesso ricorda: la colpa del proliferare di tanti “centri tricologici” non proprio seri, di tante figure improvvisate e impreparate, è anche dell’atteggiamento della dermatologia. È molto frequente ascoltare persone che si lamentano di aver consultato un dermatologo che si è disinteressato completamente del problema dei capelli, limitandosi a prescrivere uno shampoo e a dire che i capelli non si possono cura- re. Lo scopo della IHRF è anche quello di richiamare un po’ di più l’attenzione del dermatologo, il più specifico competente delle patologie tricologiche per via dell’indirizzo di studio universitario, verso il problema dei capelli, e ad avere un po’ più rispetto per chi soffre a causa di una forma di alopecia. Le esperienze degli ospiti stranieri (Dottor Mangubat dagli USA, Dottor Farjo dalla Gran Bretagna, Dottor Jimenez dalla Spagna) ci hanno dimostrato che il problema è uguale in tutto il mondo: le riviste, le televisioni, i siti internet di quelle nazioni sono pieni di comunicazioni di cure “miracolose” esattamente come in Italia. In Spagna, per esempio, è in vendita su internet un apparecchio che emette dei raggi non precisati che possono far ricrescere i capelli in tre settimane, al bassissimo (?) costo di 500 euro. Ovviamente non esiste nessuna prova scientifica, ma pare che se ne vendano parecchi! La spiegazione è semplice, come ha ricordato la Dottoressa Nicla Sambvani (Milano): l’ansia e la paura di perdere i capelli porta a fidarsi di qualsiasi promessa che faccia illudere chi sa che le cure mediche, invece, i miracoli non li fanno. Tutto questo comporta che in molte persone l’ansia di non poter controllare la propria calvizie aggrava la Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 46 caduta dei capelli, innecialisti che si occupano di scando una vera e propria capelli per cercare di ottereazione psicosomatica. nere il risultato migliore, Colpa della disinformacompreso il lavoro di un zione, delle scarse conoacconciatore che contriscenze dei dati scientifici, buisce a rendere più belli i della volontà di speculacapelli e a sfruttarli al re. Il Dottor Piero Rosati meglio per avere alla fine (Ferrara) ha fatto esempi una chioma ancora più concreti nel campo dei piacevole. Alfredo Rubertrapianti dei capelli: telli, in rappresentanza molte persone che si proprio degli acconciatori, rivolgono a lui per effetha spiegato alcuni “trucchi” tuare un microautotra- Alcuni dei partecipanti al dibattito del 15 marzo 2008 al Teatro San Babila di Milano. del suo mestiere proprio pianto di capelli hanno Da sinistra Antonio Mangubat, Bessam Farjo, Vincenzo Gambino, Fabio Rinaldi, per ottenere questi risultadelle aspettative sul risul- Francisco Jimenez Acosta, Piero Rosati, Elisabetta Sorbellini. ti, soprattutto nelle donne. tato finale che non sono realistiche, e che sono frutto di infor- La Dottoressa Riccarda Serri (Milano) ha evidenziato quanti mazioni scorrette spesso lette anche su giornali importanti. progressi abbia fatto la dematologia negli ultimi 20 anni nella Addirittura Rosati si è rivolto ai giornalisti presenti per chie- cura dei capelli: ha ricordato l’esperienza del padre, il dere di verificare le notizie. Un esempio su tutti: l’anno scor- Professor Serri uno dei più illustri e autorevoli dermatologi so l’autorevole trasmissione Quark (RAI tre) ha trasmesso un italiani di tutti i tempi, che insegnava che non esistevano servizio annunciando con grande enfasi la scoperta scientifi- terapie utili per curare la calvizie e la caduta dei capelli. La ca rivoluzionaria di un gruppo di chirurgia plastica scoperta dell’efficacia del minoxidil, della finasteride, della dell’Istituto dei Tumori di una importante città del Nord dutasteride, dei fattori di crescita, hanno dimostrato che oggi Italia (volutamente in questa sede non forniamo dettagli per è possibile arrestare la progressione della calvizie sia negli identificare né il medico né l’Ospedale) in grado di clonare le uomini che nelle donne. cellule dei bulbi dei capelli, e quindi di effettuare innesti di Il Dottor Alberto Donzelli (Milano) in qualità di specialista in migliaia di capelli. La notizia non è scientificamente provata, scienza dell’alimentazione ha addirittura ricordato che esistomai sono stati realizzati interventi di questo tipo, ma molta no diete alimentari specifiche che possono ridurre la quantità gente si è rivolta al Chirurgo di questo istituto che ha poi pro- di testosterone nell’organismo. posto interventi tradizionali. In sala era presente una signora Si è parlato di messaggi scorretti, ma anche di messaggi veri, che è “cascata nella rete” e ha raccontato e denunciato questa del fatto che esiste chi specula, ma ci sono anche tantissimi esperienza. Tra l’altro, subito dopo la trasmissione, la IHRF professionisti seri che studiano, compiono ricerche, si dediaveva chiesto alla segreteria di Quark dei chiarimenti, chie- cano a questo campo della medicina. dendo una precisazione. Ovviamente la risposta della Rai è Ci sono aziende (o laboratori non certificati che preparano stata negativa. chissà cosa in un sottoscala e che vendono a prezzi esorbiUn altro esempio lo ha portato il Dottor Vincenzo Gambino tanti, o a volte bassissimi pur di “accalappiarsi” il cliente), ma (Milano), sempre parlando di trapianti di capelli: molte per- anche aziende che producono farmaci, cosmetici, integratori sone credono che sia possibile effettuare un trapianto prele- frutto di studi seri e costosi, e che vengono commercializzati vando dalla zona della nuca tante piccolissime isole di 2 mil- solo dopo aver dimostrato la loro efficacia ed escluso rischi limetri di capelli intatti, che in questo modo permetterebbe- per la salute. L’invito per tutti è quello di cercare di informarro di non lasciare cicatrici, e di innestarle nella zona calva si ma con senso critico, di non credere a messaggi “esplosivi e ottenendo risultati importanti. Questa tecnica non è reale: rivoluzionari”, di individuare professionisti credibili nelle spesso le isole prelevate in questo modo non contengono categorie che si occupano del problema: il medico, il farmabulbi integri e il risultato finale dell’intervento non è esteti- cista, il parrucchiere. camente bello. Molti giornali di divulgazione medica, però, Ognuno, per la sua competenza potrà dare informazioni prehanno parlato di questa tecnica, probabilmente senza verifi- ziose. In questa lista non c’è il tricologo, che in Italia non è carne la correttezza. Un’altra segnalazione molto interessante una figura professionale riconosciuta dal punto di vista medidi Gambino è stata la necessità di cooperazione tra i vari spe- co, né legislativo! Scripta MEDICA Volume 11, n. 1, 2008 47 DECALOGO DI CONSIGLI UTILI PER CHI PERDE I CAPELLI per cercare di orientarsi nella scelta di una cura corretta a cura della INTERNATIONAL HAIR RESEARCH FOUNDATION IHRF 1– I capelli sono una parte del corpo umano: la loro salute dipende dallo stato di salute generale dell’organismo. Quando i capelli cadono, quando la cute del suoi capelluto è alterata, quando i capelli diventano fragili o brutti significa che qualcosa nel corpo non va come dovrebbe: spesso questo è un segnale che andrebbe valutato dal punto di vista medico. La prima regola è che se i capelli o il cuoio capelluto hanno un problema bisognerebbe consultare un medico per capire cosa succede e cercare di trovare un rimedio. Il proprio medico di fiducia, il dermatologo, l’endocrinologo, il ginecologo, i medici esperti in medicina estetica sono normalmente i professionisti che sono più spesso chiamati ad affrontare un problema tricologico. 2– Le conoscenze scientifiche oggigiorno si diffondono velocemente: le cure che possono essere utili per i capelli e la pelle sono a disposizione di tutti i medici che si aggiornano sull’argomento. Non esistono terapie miracolose, segrete, esclusive note solo a qualcuno particolarmente “illuminato”. Non sono mai credibili i messaggi miracolistici che vantano cure definitive e risolutive della calvizie. 3– Ci sono varie categorie di professionisti che si occupano seriamente di capelli oltre ai medici: * i farmacisti che spesso possono dare il primo consiglio per prendersi cura di un problema di capelli o del cuoio capelluto * i parrucchieri che quotidianamente trattano i capelli di uomini e donne e che, con la loro esperienza, sono in grado di suggerire rimedi estetici ma anche consigli sullo stato di salute dei capelli Medici, farmacisti, parrucchieri, ognuno nel proprio ambito di competenza e preparazione, svolge un lavoro accurato dopo anni di studi o di corsi di formazione specifica. Presunti “esperti” per imprecisati meriti o studi non definiti non hanno nessuna qualifica per curare le malattie dei capelli. Ovviamente esistono eccezioni! 4– Non esistono altre figure professionali riconosciute dalla legge per curare o trattare i capelli e il cuoio capelluto. Non esiste la figura del tricologo in senso lato: un dermatologo potrebbe essere definito uno specialista in tricologia se si occupa in particolare di capelli, in virtù degli anni di studio della scuola di specializzazione in Dermatologia in Università. 5– Non esistono centri di TRICOLOGIA definibili come centri di specialisti del settore dei capelli se non quelli dove dei medici e dei dermatologi svolgono la propria opera. Spesso si tratta di luoghi gestiti da personale NON medico dove si effettuano prestazioni di tipo medico (in modo illegale), o dove dei medici purtroppo si prestano a consulenze quasi mai “libere”. 6– Non è vero che “solo il pavimento ferma la caduta dei capelli”: è una fastidiosa battuta ormai superata, e che non rispetta il disagio di tantissime persone. Oggigiorno esistono terapie mediche e cosmetiche utili per ottenere dei risultati terapeutici, cure che sono frutto di ricerche e di studio da parte di molte aziende serie: è un peccato perdere tempo con cure empiriche non supportate da nessuno studio scientifico ma propagandate solo con testimonial famosi pagate a suon di milioni di euro, o con subdoli messaggi non controllabili che illudono le speranze magari via internet. Tutte le novità che la scienza ci offre ormai sempre più di frequente sono frutto di ricerche molto accurate, e che vengono divulgate solo dopo la certezza dell’efficacia e della loro sicurezza. 7– Come per qualsiasi altra alterazione dello stato di salute di una parte del corpo, ogni situazione richiede una diagnosi e una cura specifica. Non esistono cure universali e soprattutto tutte le terapie utili non hanno costi esagerati: non hanno senso cure che costano migliaia di euro, shampoo che “disostruiscono i follicoli e li fanno respirare”non esistono “macchine” che emettono Scripta MEDICA 48 raggi miracolosi. Le conoscenze scientifiche attuali non hanno mai dimostrato la reale efficacia di molte di queste proposte alternative ma, anzi, spesso il loro potenziale rischio per la salute. 8– Qualsiasi cura proposta per una forma di alopecia deve essere motivata in base alla diagnosi clinica o dei risultati di esami specifici di controllo, spiegata in tutti i suoi possibili effetti positivi e negativi (i rischi derivati dall’uso di un farmaco), indicando il tempo previsto per la cura e la necessità di eventuali visite successive. In caso di cure che presentano un rischio per la salute o di trattamenti con strumenti particolari il medico deve far firmare al suo paziente uno specifico consenso informato. 9– I mezzi di informazione svolgono un ruolo fondamentale per diffondere le notizie scientifiche e mediche: attenzione, però, non tutte le fonti sono “autonome”. È indispensabile un senso critico molto attento, per cercare di non cadere in trappole costruite con grande arte: tanto più il messaggio è allettante, tanto più di solito nasconde una vera “bufala”. 10 – I capelli si curano con i farmaci, con certi cosmetici, con l’attenzione a stili di vita corretti (alimentazione, poco sole, riduzione del fumo, igiene accurata, controllo dello stress). I cosmetici per i capelli o i trattamenti estetici eseguiti con prodotti di buona qualità da professionisti preparati non sono mai causa di problemi gravi di caduta dei capelli. COME ORIENTARSI NELLA “GIUNGLA” secondo le conoscenze della dermatologia e della cosmetologia moderna. * NON È VERO che lavare i capelli di frequente fa male (perché non cascano i peli del barba o del resto del corpo facendo una doccia al giorno?) * NON È VERO che i bulbi vengono soffocati dal sebo, e che si deve ripulire il follicolo pilifero (se no perché farebbe male lavare i capelli?). * NON È VERO che esistono cure segrete che i medici si rifiutano di usare per motivi imprecisati (sarebbero stupidi, tutti approfitterebbero di sostanze utili per svolgere un lavoro corretto). Qualsiasi idea sensata, qualsiasi formula efficace può essere brevettata e venduta con buon interesse di aziende e medici e farmacisti! * NON È VERO che non esistono cure efficaci per la calvizie di uomini e donne, anche se purtroppo questa è un’affermazione che spesso fanno proprio dei medici o dei farmacisti. * NON È VERO che il trapianto dei capelli dà risultati brutti, o che non è utile per le donne: mediamente è una tecnica efficace, pur con tutti i limiti di un intervento chirurgico. * NON È VERO che i parrucchieri sono persone impreparate: sempre più questi professionisti seguono corsi di aggiornamento e perfezionamento e possono essere tra i primi ad indicare la necessità di curare i capelli. Senza dimenticare che la bellezza della chioma è di pertinenza proprio dei parrucchieri! * NON È VERO che una cura efficace debba essere molto costosa, ma non è neanche vero che dei prodotti efficaci e testati scientificamente possano costare troppo poco: bisogna diffidare di imitazioni particolarmente economiche, o di soluzioni alternative “che hanno la stessa efficacia ma costano meno della metà”. La maggior parte delle aziende serie farmaceutiche o cosmetiche non fa beneficenza, ma studia attentamente i costi del proprio prodotto! * NON si devono firmare contratti capestro che obblighino ad effettuare cicli di trattamenti (raramente in questi contratti si parla di cure mediche, terapie, perché la legge lo vieta!!) a costi esorbitanti. Accettare una cura che richieda più sedute non vuole dire vincolarsi con obblighi che non hanno nessun senso medico! * È VERO che un problema di capelli (estetico o patologico) deve essere affrontato il più precocemente possibile, consultando un medico (e a maggior ragione uno specialista del settore) o facendosi consigliare dal farmacista o dal proprio parrucchiere. Se non si è certi di essere in presenza di un medico laureato e specialista varrebbe sempre la regola di farsi mostrare un documento (certificato di laurea, tesserino dell’Ordine dei Medici), così come i farmacisti laureati devono indossare l’apposito stemma di riconoscimento! Volume 11, n. 1, 2008