Anno 11
n.1/2008
La certificazione di idoneità
alla pratica fisico-sportiva.
Tito Livio Schwarzenberg
Vincenza Patrizia Di Marino
“Tako-tsubo syndrome”.
Enigmatico stordimento miocardico
di recente individuazione.
Livio Meciani
I disturbi dell’equilibrio nella terza età.
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, comma 1 DCB Milano
Giorgio Guidetti
PRIMO PIANO
Endometriosi:
quanto dura l’effetto ipoestrogenico
della triptorelina depot?
Pietro Cazzola
Il carcinoma vescicale:
quando sospettarlo e qual è il ruolo
del medico di Medicina Generale
Alessandro Bertaccini
Patologie cutanee da tessuti
Paolo D. Pigatto
Lucretia A. Frasin
Più messaggi corretti o fregature
quando si parla di capelli?
Cronaca del primo dibattito aperto
organizzato dalla IHRF
e proposta di un decalogo
per chi perde i capelli.
Fabio Rinaldi
Volume 11, n. 1, 2008
Indice
La certificazione di idoneità alla pratica fisico-sportiva.
pag.
Tito Livio Schwarzenberg, Vincenza Patrizia Di Marino
Direttore Responsabile
Pietro Cazzola
Direttore Generale
Armando Mazzù
Direttore Marketing
Antonio Di Maio
3
“Tako-tsubo syndrome”.
Enigmatico stordimento miocardico di recente individuazione.
Livio Meciani
pag.
13
pag.
25
pag.
30
I disturbi dell’equilibrio nella terza età.
Giorgio Guidetti
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Via Bassini, 41 - 20133 Milano
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PRIMO PIANO
Endometriosi: quanto dura l’effetto ipoestrogenico
della triptorelina depot?
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Pietro Cazzola
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della Stampa n.10.000
Stampa
Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI)
Il carcinoma vescicale:
quando sospettarlo e qual è
il ruolo del medico
di Medicina Generale
Alessandro Bertaccini
pag.
35
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qualsiasi mezzo, di articoli, illustrazioni e fotografie pubblicati su Scripta MEDICA senza autorizzazione scritta dell’Editore.
L’Editore non risponde dell’opinione espressa
dagli Autori degli articoli.
Patologie cutanee da tessuti
Paolo D. Pigatto,
Lucretia A. Frasin
pag.
39
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ARCHIVIO ITALIANO
DI UROLOGIA E ANDROLOGIA
RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA
DELL’ADOLESCENZA
JOURNAL OF PLASTIC DERMATOLOGY
INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA
Più messaggi corretti o fregature
quando si parla di capelli?
Cronaca del primo dibattito aperto
organizzato dalla IHRF
e proposta di un decalogo
per chi perde i capelli.
Fabio Rinaldi
pag.
45
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Via Bassini, 41 - 20133 Milano
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La certificazione di idoneità
alla pratica fisico-sportiva.
Tito Livio Schwarzenberg, Vincenza Patrizia Di Marino
Introduzione
L’argomento che ci accingiamo ad
affrontare, vale a dire “La certificazione medico-sportiva” può apparire, a prima vista,
abbastanza banale e scontato, soprattutto di
fronte ad una platea di esperti pediatri e adolescentologi. Ciò non ostante riteniamo
senz’altro utile e importante, proprio in questo contesto, riflettere e confrontarci su un
aspetto di così frequente riscontro nella
nostra pratica professionale quotidiana ricco
di implicazioni normative, giuridiche, etiche
oltreché sanitarie e con riflessi addirittura
sull’economia nazionale tanto da essere stato
preso in seria considerazione perfino nell’ultima (quanto mai discussa e sofferta) legge di
programmazione economica e finanziaria del
nostro Paese.
Giova premettere, a questo punto qualche
richiamo di carattere sostanziale e normativo
sulla certificazione in genere, su quella medica in particolare per poter concentrare, infine, la nostra attenzione sull’aspetto specifico
della certificazione medico-sportiva.
Si definisce “certificato” un atto scritto che
dichiara conformi a verità fatti di natura tecnica, di cui il certificato stesso è destinato a
provare l’esistenza. Essendo un atto pubblico
il certificato deve, ovviamente, essere veritiero
e redatto in modo chiaro ed univoco (1-3).
Con espressione più formale “Il certificato è la
testimonianza scritta su fatti e comportamenti
tecnicamente apprezzabili e valutabili, la cui
dimostrazione può condurre all’affermazione di
diritti soggettivi previsti dalla norma, ovvero
UOC di Adolescentologia, Dipartimento Scienze Ginecologiche,
Perinatologia e Puericultura
Università “La Sapienza”, Roma
determinare conseguenze a carico dell’individuo
o della collettività aventi rilevanza giuridica e/o
amministrativa“ (4) o, più semplicemente: “Il
certificato è l’atto scritto e firmato per mezzo del
quale una persona investita di determinate
attribuzioni e in tale qualità, attesta l’esistenza
o meno di determinati fatti o qualità” (1).
Ne consegue che il certificato medico rappresenta un documento che contiene una
dichiarazione scritta nella quale si attesta la
sussistenza di fatti obiettivi effettivamente
riscontrati dal medico stesso nell’esercizio
della propria attività professionale e destinati ad avere rilevanza giuridica.
Per altro, la certificazione è sottoposta al vincolo degli art. 480 e 481 c.p., relativi alla falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale e/o dal personale esercente un servizio
di pubblica necessità, oltre che dell’ art. 485
c.p. relativo alla falsità in scrittura privata. Il
requisito della veridicità non può essere
disgiunto da quello della chiarezza: è necessario, pertanto, evitare abbreviazioni e acronimi e, qualora non venga utilizzata la dattiloscrittura o l’uso di una modulistica prestampata, impiegare una grafia chiara, di
pronta ed inequivocabile leggibilità.
Vale anche la pena di ricordare che, in base
alle previsioni del codice penale, possono
essere individuate tre possibili qualificazioni
del medico certificatore (2):
1) Pubblico ufficiale (art. 357 c.p.): è colui
che esercita, in modo temporaneo o permanente, una pubblica funzione o un’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa in rappresentanza dello Stato o
dell’Ente pubblico di appartenenza.
Secondo le più recenti interpretazioni
della giurisprudenza a tale categoria
vanno assimilati i medici dipendenti
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dalle ASL o dalle Aziende Ospedaliere
con funzioni organizzative e che partecipano, quindi, alla volontà della Pubblica
Amministrazione. Deve ritenersi pubblico ufficiale anche il medico che svolga
l’incarico di perito o di consulente tecnico su nomina dell’autorità giudiziaria;
2) Incaricato di pubblico servizio (art.
358 c.p.): è il medico che, per conto
dello Stato che ne cura pertanto la tutela,
svolge un’attività socialmente utile (vale
a dire un pubblico servizio), indipendentemente dal fatto che sussista alla base
un impiego di ruolo o avventizio. A tale
categoria, pertanto, appartengono i
medici dipendenti o convenzionati col
Servizio Sanitario Nazionale (ad esempio
i medici di base e i pediatri di libera scelta) impegnati nello svolgimento di mansioni di carattere strettamente medico
dirette al soddisfacimento di un bisogno
della collettività;
3) Esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.): è il medico libero
professionista abilitato dallo Stato, alla
cui opera ricorre il cittadino che ne ravveda la necessità. Si tratta, in questo
caso, di prestazioni professionali che il
medico – anche se dipendente pubblico
– esercita, tuttavia, privatamente e direttamente e non in nome né per conto
dello Stato o di un Ente pubblico.
Da quanto finora premesso ne deriva che la
potestà di certificare (G. Umani Ronchi e coll.,
2002) discende esclusivamente dal conseguimento del diploma di laurea e dall’abilitazione all’esercizio della professione medica (2).
Il limite oggettivo del certificato è rappresentato dall’oggetto stesso della certificazione
che, in quanto promanazione dell’attività
medica, non può avere altro rilievo che quello medico-biologico. Il limite soggettivo si
concretizza, viceversa, nell’osservanza delle
norme deontologiche e codicistiche relative
in modo particolare al rispetto del segreto
professionale e alla tutela della privacy.
Pertanto (prescindendo da casi particolari,
espressamente previsti per talune certificazioni obbligatorie) il certificato medico deve
rispondere ai seguenti due requisiti (2, 5):
a) essere rilasciato unicamente alla persona
assistita o visitata, ovvero al suo rappresentante legale (genitore o tutore) in caso
di minore o, comunque, di un soggetto
legalmente incapace;
b) limitarsi, nel proprio contenuto, unicamente a ciò che necessita all’interessato o
a quanto quest’ultimo voglia rendere
manifesto.
A seconda di quanto viene previsto dalle specifiche disposizioni di legge, i certificati
medici vengono distinti in:
certificati obbligatori: rivolti alla tutela di
interessi pubblici e rilasciati non in quanto richiesti dagli interessati ma in quanto
una precisa normativa impone al medico il
dovere della certificazione stessa;
certificati facoltativi: di regola destinati ad
attestare, nei confronti di Enti pubblici o
privati, lo stato di salute del richiedente
che, spontaneamente, li esibisce anche al
di fuori di ogni obbligo di legge.
È bene, tuttavia, rimarcare che la distinzione
tra certificazione obbligatoria e facoltativa è,
in realtà, puramente formale in quanto essa
viene privata di qualsiasi rilievo sostanziale
proprio alla luce dell’art 22 del Codice di
Deontologia Medica, laddove si cita che
“….il medico non può rifiutarsi di rilasciare
direttamente al cittadino certificati relativi al
suo stato di salute”.
Giova anche premettere che tutta la normativa rivolta alla tutela sanitaria di chi pratica
attività sportiva trova la propria origine, giustificazione e conforto proprio da alcuni articoli della Costituzione stessa della Repubblica Italiana, laddove l’art. 2 “riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come
singolo che nelle funzioni sociali ove si svolge la
sua personalità”, l’art. 4 stabilisce che “ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” e, infine, l’art. 32
che garantisce la tutela della salute come
“fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività”.
Gli esordi della Legislazione in materia nel
nostro Paese si fanno risalire alla Legge 28
dicembre 1950, n. 1055, recante norme di
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M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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“Tutela
sanitaria
delle attività sportive”. La tutela sanitaria
in questione – inizialmente affidata alla
Federazione Medico
Sportiva Italiana – si
esercitava nei confronti degli sportivi
professionisti e dei
cosiddetti “dilettanti
con retribuzione abituale” nonché dei praticanti attività sportive considerate impegnative o pericolose
(pugilato, atletica pesante, gare ciclistiche
particolarmente gravose, sport motoristici e sport subacquei),
imponendo a tutti costoro l’obbligo di sottoporsi ad accertamenti medici di idoneità con periodicità
annuale, quale condizione indispensabile
per l’accesso alla pratica dello sport.
L’embrionale assetto
normativo
veniva,
quindi sviluppato e
rivisto, venti anni più
tardi, dalla Legge 26 ottobre 1971, n. 1099,
che affidava alle neonate Regioni la tutela
sanitaria delle attività sportive e ampliava la
portata della tutela medesima estendendola a
“chiunque intende svolgere o svolge attività agonistico sportive” mediante l’accertamento
obbligatorio, con visite mediche di selezione
e di controllo periodico, dell’idoneità generica e dell’attitudine.
A questo punto vale la pena di richiamare
l’attenzione proprio sulla terminologia
comunemente utilizzata, ricordando come le
espressioni “idoneità” ed “attitudine” sportiva
vengano assai spesso, erroneamente, considerate sinonimi. Al contrario, per idoneità
generica all’attività sportiva dobbiamo intendere la “possibilità dell’organismo di tollerare
senza danno il maggiore sviluppo di potenza e,
quindi, il maggiore dispendio metabolico ed
energetico che sono propri dell’attività sportiva
rispetto alle attività abituali della vita sociale e
lavorativa: si tratta, in altre parole, della generica capacità di reggere, senza danno, uno sforzo anche protratto”, mentre l’attitudine all’attività sportiva altro non è che la “specifica tendenza del soggetto verso una particolare e ben
definita forma di attività sportiva in conseguenza di fattori genetici, ambientali, costituzionali,
psicologici, antropometrici e funzionali”.
Tralasciando in questa sede, per ovvii motivi
di tempo e di spazio qualsiasi ulteriore considerazione sulla normativa intermedia e/o
integrativa, è ben noto che tutte le attuali
disposizioni sulla certificazione medico
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M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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sportiva fanno principalmente riferimento a
tre decreti del Ministero della Sanità, tutt’ora
pienamente vigenti, per quanto datati di ben
25 anni:
Decreto Ministeriale 18 febbraio 1982
“Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica” (G.U. n. 63 del
5 marzo 1982);
Decreto Ministeriale 28 febbraio 1983
“Integrazione e rettifica del decreto
ministeriale 18 febbraio 1982, concernente norme per la tutela dell’attività
sportiva agonistica” (G.U. n. 72 del 15
marzo 1983);
Decreto Ministeriale 28 febbraio 1983
“Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva non agonistica” (G.U. n.
72 del 15 marzo 1983).
L’ultimo decreto citato, recita all’art.1 che
devono essere sottoposti a controllo sanitario
per la pratica delle attività sportive non agonistiche:
a) gli alunni che svolgono attività fisico-sportive organizzate dagli organi scolastici nell’ambito delle attività parascolastiche;
b) coloro che svolgono attività organizzate
dal CONI, da società sportive affiliate
alle Federazioni Sportive Nazionali o agli
Enti di Promozione Sportiva riconosciuti
dal CONI e che non siano considerati
atleti agonisti ai sensi del Decreto
Ministeriale 18 febbraio 1982;
c) coloro che partecipano ai Giochi della
Gioventù, nelle fasi precedenti quella
nazionale*.
Una prima, inevitabile e spontanea, perplessità sorge, a questo punto, riguardo alla precisa ed univoca identificazione di quelle attività sportive che possono (o devono) essere
identificate come “non agonistiche” in base al
punto b) del citato DM 28-02-83, dal
momento che la categoria del “non agonismo”
finisce col caratterizzarsi soprattutto in negativo rispetto a quella dell’ “agonismo”, essendo la prima semplicemente la negazione
della seconda. Ne discende che l’una e l’altra
categoria sono state istituite dal legislatore
non tanto in base a concrete valutazioni biomediche e psico-attitudinali quanto sulla
spinta di motivazioni economiche, in considerazione del costo non certo indifferente
che già comportano gli accertamenti obbligatori di idoneità agonistica riservati ad
almeno nove milioni di soggetti che annualmente praticano attività sportive nell’ambito
delle Federazioni Nazionali e degli Enti di
promozione sportiva. Non si possono evidenziare, al contrario particolari dubbi nei
riguardi dell’identificazione dei soggetti
* Quando gli studenti italiani nel 1968 scesero in piazza e occuparono scuole e università per manifestare il loro profondo malessere,
non immaginavano certamente di dare un contributo determinante alla nascita dei Giochi della Gioventù.
L’approvazione ufficiale avvenne il 3 settembre 1968, ma già una circolare del 29 agosto ai comitati provinciali del Coni forniva le norme
principali della manifestazione: età di ammissione 11-15 anni; programma: atletica leggera, ciclismo, ginnastica, nuoto, pallacanestro,
pallavolo e sci (per l’inverno 1969-70); fasi: locali, provinciali, inter-provinciali e nazionale. L’entusiasmo con cui fu accolta l’iniziativa
fece andare ben oltre quanto ordinariamente previsto gli operatori di base, che su strade e piazze, ma anche su prati e cortili fecero
disputare non solo le gare di atletica leggera, ma anche la ginnastica artistica e gli sport di squadra. Da quel grandioso successo, i Giochi
della Gioventù presero il volo, finendo per diventare in breve la più importante manifestazione sportiva giovanile italiana e una delle più
importanti d’Europa. La numerosità dei partecipanti andò via via aumentando fino a superare i tre milioni e mezzo alla fine degli anni’70.
Il programma si estese a sua volta fino a comprendere oltre cinquanta discipline, praticamente quasi tutti gli sport esistenti. Nel 1974 la
manifestazione fece il suo ingresso stabile e ufficiale nella scuola, compresa quella elementare, anche se limitatamente al secondo ciclo.
Dall’anno scolastico 1993-94 il programma tornò ad essere circoscritto alle discipline ufficialmente praticate nella scuola: atletica leggera, ginnastica, nuoto, sci, calcio, pallacanestro, pallamano, pallavolo, le stesse del programma dei Campionati Studenteschi. Merito fondamentale e indiscutibile dei Giochi della Gioventù è stato quello di aver introdotto nel potere pubblico e tra le autorità politiche una
forte sensibilizzazione nei confronti dell’attività sportiva, intesa come mezzo insostituibile nella formazione ed educazione dei giovani,
fin dalla scuola elementare. Non meno importante, infine, è da considerare l’azione svolta dai Giochi della Gioventù nella capillare diffusione tra la massa giovanile di un sano spirito sportivo e, nello stesso tempo, nella rivelazione di numerosi talenti, destinati successivamente ad arricchire in misura considerevole le fila dello sport nazionale. A partire dal 1998, altro momento “storico” del lungo cammino dell’attività scolastica è l’istituzione dei Giochi Sportivi Studenteschi, diretta conseguenza di un rinnovato protocollo di intesa tra
Coni e Ministero della Pubblica Istruzione (19). In realtà, la nascita del Giochi Sportivi Studenteschi ha coinciso con un parallelo rapido e progressivo declino dei Giochi della Gioventù, sia per la diversa impostazione di base delle due iniziative, sia per il difficile connubio tra Coni e MPI. Tra l’altro, in questa sfavorevole situazione di conflitto hanno giocato il proprio ruolo anche alcune normative che
impongono, ad esempio, per gli sport di squadra compresi nei Giochi Sportivi Studenteschi, il tetto massimo di 1/3 di atleti con lo status di tesserati, mentre gli altri atleti (i 2/3 quindi) devono essere puri, vale a dire non tesserati per l’anno in corso dalla specifica
Federazione. Va, tuttavia, segnalato che non sono mancate iniziative congiunte del Coni e MPI per un rilancio dei Giochi della Gioventù
proprio a partire dal corrente anno scolastico 2006/2007.
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M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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indicati ai punti a) e c), anche se l’acquisizione nella categoria agonistica per i partecipanti ai Giochi della Gioventù solo nelle fasi
nazionali è del tutto incongrua, dal momento che l’impegno atletico e gli eventuali rischi
ad esso connessi sono praticamente identici
sia prima che durante le fasi nazionali dei
Giochi stessi.
L’art. 2 del DM 28-02-83 cita testualmente:
“Ai fini della pratica delle attività sportive non
agonistiche i soggetti di cui al precedente art. 1
devono sottoporsi, preventivamente e con periodicità annuale, a visita medica intesa ad accertare il loro stato di buona salute.
In caso di motivato sospetto clinico il medico ha
la facoltà di richiedere accertamenti specialistici
integrativi, rivolgendosi anche al personale sanitario e alle strutture di cui all’art. 5, ultimo
comma, della legge n. 33/80. La certificazione di
stato di buona salute riscontrato all’atto della
visita medica deve essere redatta in conformità
al modello di cui all’allegato 1”.
Infine, l’art.3 del DM conclude che:
“La certificazione di cui al precedente art. 2 è
rilasciata ai propri assistiti dai medici di medicina generale e dai medici specialisti pediatri di
libera scelta, ai sensi dell’art. 23 dei rispettivi
accordi collettivi vigenti”.
Non si può fare a meno di rimarcare, a questo
punto, che l’espressione “stato di buona salute”
che il medico è chiamato a certificare come
imposto dalla normativa, è di non univoca
interpretazione né di agevole traduzione in
chiave biomedica (6). Tra l’altro, l’equiparazione delle espressioni “stato di buona salute” e
“integrità psico-fisica della persona” come abitualmente suggerito dalla disciplina giuridica,
non appare del tutto convincente perché troppo impegnativa e potenzialmente, se presa
alla lettera, suscettibile di allontanare dalla
pratica sportiva (forse) la maggior parte della
popolazione ritenendo non idonei anche
coloro che fossero affetti da lievi o lievissime
menomazioni (difetti di vista, paramorfismi
vertebrali, malocclusioni, ecc,).
Peraltro, sia nei vari articoli del Decreto
Ministeriale in esame che nel fac-simile di
certificazione (di cui all’allegato 1) non compare mai il termine “idoneità” che, al contrario,viene ampiamente usato in tutta la normativa riguardante la pratica dello sport ago-
nistico. Ne consegue che, attestando meramente uno “stato di buona salute” e l’assenza
di controindicazioni in atto (cioè clinicamente manifeste e, comunque diagnosticabili), il
medico certificatore non viene assolutamente coinvolto nell’esprimere un qualsivoglia
giudizio di idoneità sportiva (come, viceversa è esplicitamente previsto nelle certificazioni per lo sport agonistico). Né è accettabile
una sovrapposizione concettuale tra le due
locuzioni “stato di buona salute” e “idoneità
generica allo sport” da taluni proposta riferendosi anche a precedenti quanto superate
normative (Legge 26 ottobre 1971, n. 1099).
Di fatti, un giudizio di “idoneità generica allo
sport” appare del tutto improprio e inattendibile sulla base tanto dell’inesistenza di uno
“sport generico” che dell’intrinseca specificità
di qualsivoglia attività sportiva.
Parallelamente, dobbiamo riflettere sul grave
rischio di responsabilità professionale per
quel medico certificatore che volesse, comunque, esprimere un giudizio di “idoneità generica allo sport” confidando esclusivamente sul
carattere “non agonistico” della pratica così
autorizzata, senza riflettere sull’estrema variabilità di impegno psico-fisico che le numerose
specialità sportive inevitabilmente sottendono. Né va dimenticato che il medico certificatore, in caso di “motivato sospetto clinico” può,
comunque, richiedere il conforto di consulenze specialistiche e di esami clinico strumentali integrativi (art. 2 comma 2° DM 28/02/83).
È evidente che la clausola limitativa del “motivato sospetto clinico” è esclusivamente di natura economica e tesa a impedire la richiesta di
accertamenti specialistici e/o di esami laboratoristici o strumentali non giustificabili da una
dimostrata esigenza clinica ma il cui costo,
rapportato ai milioni di soggetti potenzialmente coinvolgibili, sarebbe insostenibile
dalle precarie finanze del nostro Servizio
Sanitario Nazionale. Proprio in questa luce va,
quindi, vista la designazione dei medici e dei
pediatri di famiglia in funzione di filtro per
l’accesso allo sport non agonistico, essendo
queste figure professionali quelle che (almeno
presumibilmente) conoscono meglio il paziente e la sua storia clinica e, quindi, si trovano in posizione privilegiata sia per affermare lo “stato di buona salute” del proprio pazien-
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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te che per conoscere
eventuali controindicazioni relative a eventi morbosi in atto o
pregressi.
Per quanto attiene alle
norme sanitarie che
riguardano le certificazioni e la tutela
delle attività sportive
agonistiche, come già
premesso, si fa riferimento ad Decreto del
Ministero della Sanità
del 18 febbraio 1982
(integrato e rettificato
a mezzo del Decreto
28 febbraio 1983). Lo
stesso Ministero della
Sanità, allo scopo di
uniformare il comportamento normativo delle varie Regioni
ha, successivamente,
emesso la Circolare
18/03/1996 n. 500.4
dal titolo “Linee guida per un’organizzazione omogenea della certificazione di
idoneità alla attività
sportiva agonistica”.
Viene, anzitutto, ribadito che devono ottenere il “certificato di
idoneità sportiva agonistica” tutti coloro che praticano attività sportive qualificate come agonistiche dalle Federazioni Sportive Nazionali, dal CONI, dagli
Enti sportivi riconosciuti oltre ai partecipanti
alle fasi nazionali dei Giochi della Gioventù.
Il criterio per determinare il “tesseramento agonistico” di un atleta è, quindi demandato ad
ogni singola Federazione Sportiva Nazionale
e, quasi di regola, si tratta di un criterio
meramente anagrafico. Per meglio rendersi
conto della realtà, riporto alcuni esempi di
età di ingresso nell’attività agonistica (7-9):
7 anni: hockey su pista, moto minicross, pattinaggio artistico, tennis da tavolo;
8 anni: bocce, ginnastica, karting, nuoto,
pattinaggio su ghiaccio, scherma;
9 anni: baseball, canottaggio, sci (alpino e
nordico), vela;
10 anni: hockey su prato, pentathlon, tennis;
12 anni: calcio, judo e sport marziali, pallacanestro, pallavolo, rugby, atletica
leggera;
14 anni: moto enduro-cross trial e velocità,
pugilato, tiro a volo
Rimane inteso, tuttavia, che le diverse fasce
di età sopra ricordate sono sempre suscettibili di modifiche e revisioni a discrezione di
ciascuna Federazione.
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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Il rilascio della certificazione di idoneità alla
pratica sportiva agonistica è, comunque,
demandato esclusivamente al medico specialista in Medicina dello Sport operante nelle
strutture pubbliche o in quelle private autorizzate che, in relazione alle varie normative
regionali, possono essere:
Centri ASL
Centri pubblici non ASL
(ospedali, università)
Centri privati accreditati
o convenzionati
Specialisti esterni accreditati
o convenzionati
Il più volte citato DM 18 febbraio 1982 prevede esplicitamente (all’art. 3), per i soggetti
interessati ad ottenere il certificato di idoneità allo sport agonistico, di sottoporsi agli
accertamenti sanitari elencati in un apposito
protocollo clinico-diagnostico allegato al DM
stesso. Implicitamente ne consegue l’obbligo, per il medico certificatore, di attenersi al
protocollo medesimo, la cui procedura rappresenta un complesso di condizioni necessarie e sufficienti per proferire il giudizio
conclusivo di idoneità.
Il protocollo di cui sopra è costituito da due
allegati: “allegato 1”, nel quale sono rispettivamente elencati i controlli sanitari previsti e la
loro periodicità in relazione ai diversi sport
praticabili, che vengono raggruppati i due distinte categorie (elencate in Tabella “A” e Tabella “B”) e “allegato 2” in cui vengono riprodotti i modelli di scheda valutativa (Modello“A” e Modello“B”) che dovranno essere compilati dal medico visitatore a conclusione della
visita stessa. Gli accertamenti sanitari richiesti per i praticanti le attività sportive elencate in Tabella “A” sono (10-12):
1. Visita medica
2. Esame completo delle urine
3. Elettrocardiogramma a riposo
Per coloro che, viceversa, sono interessati a
praticare le attività agonistiche elencate in
Tabella “B” gli accertamenti sanitari necessari consistono in:
1. Visita medica
2. Esame completo delle urine
3. Elettrocardiogramma a riposo e dopo
sforzo
4. Spirografia
In calce all’allegato 1 vengono, inoltre, riportate alcune “note esplicative”, che forniscono
ulteriori importanti indicazioni. Per quanto
riguarda la “visita medica” viene infatti specificato che essa deve inderogabilmente comprendere:
l’anamnesi
la determinazione del peso corporeo (in
kg) e della statura (in cm)
l’esame obiettivo con particolare riguardo agli organi e apparati specificamente
impegnati nello sport praticato
l’esame generico dell’acuità visiva
mediante ottotipo luminoso
l’esame del senso cromatico (solo per gli
sport motoristici)
il rilievo indicativo della percezione della
voce sussurrata a m 4 di distanza, quando
non è previsto l’esame specialistico ORL.
Viene, infine, decretato che ogni sport non
contemplato nelle Tabelle “A” o “B” venga
assimilato, ai fini degli accertamenti e certificazioni sanitarie, a quello che risulta ad esso
più affine tra quanti ufficialmente previsti.
Sempre nell’ambito dei praticanti attività
sportiva agonistica viene fatta un’ulteriore
distinzione tra (13):
Dilettanti
Professionisti
Lo status di sportivi professionisti è riconosciuto (art. 2 della Legge 23 marzo 1981 n.
91) agli atleti, agli allenatori, ai direttori tecnico-sportivi e ai preparatori atletici, che
esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso
con carattere di continuità nell’ambito delle
discipline regolamentate dal CONI e che
conseguono tale qualificazione dalle Federazioni Sportive Nazionali, con l’osservanza
delle direttive emanate dal CONI stesso per
la distinzione dell’attività dilettantistica da
quella professionistica. Molto più semplicemente, gli atleti professionisti sono quelli
legati da un rapporto di lavoro subordinato
con la Società Sportiva. Per tutti costoro, l’attività professionistica è subordinata al possesso da parte dell’atleta della “scheda sanitaria” (art. 7 comma 2, Legge 23 marzo 1981
n. 91), che accompagnerà l’atleta stesso per
tutta la durata della sua attività sportiva e
sarà aggiornata, con periodicità almeno
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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semestrale, salve le diverse disposizioni emanate dalle varie Federazioni.
Esaurita, a questo punto, la pur ampia panoramica sulla certificazione medico-sportiva,
come previsto dalla normativa vigente, può
essere interessante qualche considerazione
su aspetti particolari di tutela sanitaria dei
giovani che, comunque, praticano attività al
di fuori dello sport organizzato, bensì presso
circoli sportivi, palestre, centri fitness.
È bene chiarire che, il certificato medico non
costituisce, dal punto di vista normativo, la
condicio sine qua non per lo svolgimento di attività fisica in palestra. Infatti, nella legislazione
attualmente vigente in Italia manca qualsiasi
prescrizione in tal senso, pertanto la scelta
sulle modalità attraverso le quali verificare l’idoneità fisica del fruitore dei servizi della
palestra o del centro fitness è lasciata esclusivamente al gestore dell’impianto.
Si tratta di un vuoto normativo particolarmente grave (14): da una parte, infatti, l’attuale
sistema va chiaramente a scapito dell’integrità
dello sportivo; dall’altra è forte il rischio che si
verifichino disparità di comportamento, anche
sotto il punto di vista di assunzione di responsabilità da parte del gestore/organizzatore.
Attualmente, infatti, le scelte si indirizzano
principalmente verso tre direzioni:
a) i Centri più attrezzati e qualificati dispongono di personale medico interno,
cui è demandata la verifica dell’idoneità
del frequentatore;
b) in alternativa viene richiesta la presentazione di un certificato di “sana e robusta
costituzione”;
c) in casi non del tutto rari, le palestre si
accontentano di far sottoscrivere al socio
un’autocertificazione di assenza di impedimenti di natura sanitaria, con assunzione di responsabilità esclusiva e personale in caso di sinistri e, conseguente,
esonero della palestra.
È, per altro, evidente che nella malaugurata
ipotesi di un sinistro che si sia verificato nel
corso delle sedute in palestra, la dichiarazione di assunzione di responsabilità fatta sottoscrivere al cliente, non garantisce in alcun
modo i titolari del centro sportivo rispetto
all’eventualità di essere chiamati a risponde-
re in giudizio dell’accadimento in questione,
a titolo di responsabilità civile: l’unica vera
possibilità di essere esonerati consiste, infatti, nel poter dimostrare di aver posto in essere tutti gli adempimenti necessari al fine di
evitare il verificarsi dell’evento dannoso che,
pertanto, deve essere considerato del tutto
imprevedibile e fortuito.
In una trattazione sulla tutela sanitaria dei giovani atleti e sulla normativa riguardante la certificazione medico-sportiva, non si può fare a
meno di accennare, seppure sommariamente,
all’importante problematica riguardante sport
e disabilità (15-17).
Le enormi potenzialità esprimibili da coloro
che per propria disavventura risultano essere
“diversamente abili” vengono, infatti, ulteriormente confermate nel mondo dello sport
dove, ormai in quasi tutte le specialità, esistono settori riservati ad atleti disabili capaci
tuttavia, assai spesso, di fornire performance
di livello assai elevato. Tale materia, per
altro, è stata recentemente regolamentata
dalla Legge 5 luglio 2003 n. 189 (“Norme per
la promozione della pratica dello sport da parte
delle persone disabili”).
È necessario anche segnalare che la FISD
(Federazione Italiana Sport Disabili) attivamente promuove, diffonde e disciplina proprio l’attività sportiva di alto livello e paraolimpica dei disabili fisici, ciechi e mentali per
oltre 25 diverse discipline sportive.
In campo internazionale il massimo riferimento può essere considerato, invece, l’IPC
(International Paralympic Committee) che, tra
l’altro, ha organizzato con grande e scontato
successo, nel corso degli anni, le diverse
Paraolimpiadi (vale a dire le Olimpiadi riservate ai portatori di handicap).
Per quanto ci riguarda come medici (certificatori e non), dobbiamo anzitutto fare riferimento alla precedente Legge 5 febbraio 1992
n. 104 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) dove, all’art. 2, leggiamo: “È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata
o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione”.
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La predetta legge stabilisce, inoltre, all’art. 23
che: “l’attività e la pratica sportiva sono favorite senza limitazione alcuna”. Il successivo DM
4 marzo 1993 recante “Determinazione dei
protocolli per la concessione dell’idoneità alla
pratica agonistica alle persone handicappate”
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
18/03/1993 n. 64) ha consentito un più
organico approccio alla tutela dello sport per
i disabili, laddove cita: “Ai fini della tutela
della salute, i soggetti portatori di un handicap
fisico e/o psichico e/o neurosensoriale, che praticano attività sportiva agonistica, devono sottoporsi previamente al controllo della idoneità
specifica allo sport che intendono svolgere o che
svolgono. Tale controllo deve essere ripetuto con
periodicità annuale o inferiore quando ritenuto
necessario dai sanitari. La qualificazione di agonista per i portatori di handicap che praticano
attività sportiva è demandata alla federazione
Italiana Sport Disabili (FISD) o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI”
Anche per la valutazione dell’idoneità agonistica allo sport del portatore di handicap ci si
deve riferire a due specifiche Tabelle “A” e
“B” (diverse da quelle di cui ad DM
18/02/1982, prima ricordate) ancora una
volta suddivise in rapporto al minore o maggiore impegno cardiovascolare e respiratorio.
I medici incaricati del giudizio di idoneità
sono gli stessi già individuati per la certificazione agonistica e i certificati medesimi non
si differenziano che per la specificazione
“adatto ad atleti disabili”, nonché per la delimitazione cronologica di validità di un anno
o di sei mesi, con chiara indicazione, sul certificato, della relativa scadenza.
Nel concludere questa rassegna sulla certificazione medico-sportiva è necessario fare
cenno anche alla normativa riguardante la
dispensa dalle lezioni di educazione fisica
che, non raramente, coinvolge le competenze professionali del medico di famiglia e/o
del pediatra. A tale proposito, il primo rilevante riferimento normativo è rappresentato
dalla Legge 7 febbraio 1958 n. 88 che, all’art.
3, cita testualmente “Il capo di istituto concede
esoneri temporanei o permanenti, parziali o
totali per provati motivi di salute, su richiesta
delle famiglie degli alunni e previi gli opportuni
controlli medici sullo stato fisico degli alunni
stessi”. La successiva C.M. 3 ottobre 1959, n.
401, prot. N. 10168 entrando nel merito
specifica, all’ art. 1, che “Il capo di istituto
potrà prescindere dai controlli medici quando
trattasi di alunni che presentino gravi menomazioni o difetti fisici, congeniti o acquisiti, di
immediata evidenza”. La predetta circolare
ministeriale specifica, in seguito, che “Gli
accertamenti, ai fini dell’esonero, sono affidati al
sanitario addetto al servizio medico-scolastico,
ove esista, o a un medico di fiducia dell’Amministrazione scelto dal capo d’istituto…..Ove,
in base agli accertamenti eseguiti, ritenga comprovato l’impedimento, il capo d’istituto, sentito
il parere dell’insegnante di educazione fisica,
specialmente per quanto concerne la dispensa
da determinate esercitazioni, dispone la concessione dell’esonero”. L’esonero dalle lezioni di
educazione fisica potrà, inoltre, essere:
totale, quando esclude l’alunno sia dalle
lezioni che dalle prove di esame e la sua
validità potrà essere permanente o temporanea;
parziale, anche in questo caso temporaneo o permanente, ha il limitato effetto
di escludere l’alunno da determinati
esercizi, fermo restando l’obbligo di frequentare le lezioni e/o di partecipare alle
prove di esame.
Nel proporre un esonero dall’educazione fisica ogni medico coinvolto nella relativa certificazione dovrebbe, prioritariamente, riflettere su quanto puntualmente specificato, a
proposito di tale insegnamento, nel D.M. 9
febbraio 1979: “L’educazione fisica, nella peculiarità delle sue attività e delle sue tecniche, concorre a promuovere l’equilibrata maturazione
psico-fisica, intellettuale e morale del preadolescente e un suo migliore inserimento sociale
mediante la sollecitazione di un armonico sviluppo corporeo…I vari insegnamenti esprimono
modi diversi di articolazione del sapere, di accostamento alla realtà, di conquista, sistemazione
e trasformazione di essa e, a tal fine, utilizzano
specifici linguaggi che convergono verso un unico
obiettivo educativo: lo sviluppo della persona
nella quale si realizza l’unità del sapere”.
Per altro, è da tenere presente che l’istanza di
esonero dall’educazione fisica, per quanto
regolarmente documentata e accolta, non
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
12
dovrebbe senz’altro esimere l’alunno dalla
partecipazione alle relative lezioni: sarebbe,
infatti, cura del docente preposto di coinvolgere gli alunni esonerati dalle esercitazioni
pratiche, sia negli aspetti teorici che nei vari
momenti interdisciplinari del proprio insegnamento anche sollecitandone il diretto
intervento e l’attiva partecipazione in compiti di giuria o di arbitraggio o, più in generale, nell’organizzazione delle varie attività
(C.M. 17 luglio 1987, n, 216, prot. n. 17771/A).
A conclusione di questa lunga e complessa
rassegna sulla certificazione medico-sportiva
desidero fare due (per altro ovvie e scontate)
raccomandazioni. La prima, rivolta ai colleghi pediatri e medici di famiglia, è che le certificazioni di sana e robusta costituzione non
vengano mai rilasciate con eccessiva disinvoltura quasi fossero atti dovuti o mere formalità. Ogni certificazione deve scaturire,
viceversa, da un’attenta anamnesi mirata,
seguita da una visita medica quanto più è
possibile accurata e completa, che tenga nel
massimo conto le valutazioni auxologiche
nonché le caratteristiche psico-emozionali e
relazionali del giovane.
La seconda, indirizzata agli istruttori, allenatori, preparatori, dirigenti sportivi e insegnanti è di tenere bene a mente che non si
può considerare alla stessa stregua il bambino, il ragazzo e l’adulto e che se nell’atleta
maturo l’attività sportiva ha finito con l’assumere i connotati di una vera e propria impresa sperimentale volta ad esplorare i limiti
della “macchina umana”, tale impostazione
non può, ovviamente, essere mai giustificata
durante l’età evolutiva dove, tra l’altro, di
estrema importanza è sempre la determinazione della cosiddetta età biologica del ragazzo, ossia delle sue peculiarità somato-evolutive che, come è noto, possono variare enormemente da un soggetto all’altro anche a
parità di età anagrafica (18, 19).
Bibliografia
1. Masciovecchio P. Il certificato medico. In Guida
all’Esercizio professionale per i Medici-Chirurghi e gli
Odontoiatri – Quarta Edizione – pag. 358, Ed. Medico
Scientifiche (Torino, 2006).
2. Umani Ronchi G, Bolino G, Lendvai D. Nozioni
medico-legali rilevanti nell’attività pediatrica. Edizione
riservata a cura di Plasmon SpA. Áncora Arti Grafiche ed.
(Milano, 2002).
3. Umani Ronchi G, Bolino G. La medicina dello sport
nell’ambito delle attività del servizio sanitario nazionale.
Aspetti medico-legali. International Conference A Forensic
Approach in Sport Medicine (Castiglion della Pescaia 1517 maggio 1997).
4. Barni M. Diritti e doveri, responsabilità del medico,
dalla bioetica al biodiritto. Giuffrè ed. (Milano, 1999).
5. Caldarone G, Giampietro M. Età evolutiva e attività
motorie. Istituto di Scienza dello Sport CONI. Mediserve
ed. (Milano, 1997).
6. AA Vari. Legislazione e normativa riferita allo sport. In:
Scuola dello Sport. CONI ed. (Roma, 1986).
7. Di Nella L. Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico. Edizioni Scientifiche Italiane (Napoli, 1999).
8. De Rosa C, Di Mizio G, Ricci P. La certificazione per
l’idoneità alla pratica sportiva: aspetti normativi e medicolegali. Difesa Sociale 2004; 75-80:83/4.
9. Antoniotti F, Di Luca NM. Medicina legale e delle assicurazioni nello sport. SEI ed. (Roma, 1996).
10. AA Vari: La tutela sanitaria delle attività sportive.
On line http://www.medicinadellosport.fi.it/Tutelasanitaria.htm
11. Corrado D, Basso C, Pavei A, Michieli P, Shiavon M,
Tiene G. Trends in sudden cardiovascular death in young
competitive athletes after implementation of a prepartecipation screening program. JAMA 2006; 1593-01: 296/13.
12. Carletti M. Memorix – Idoneità sportiva. EdiErmes
ed. (Milano, 2001).
13. Gambarara D. L’idoneità agonistica. On line http:
//www.webalice.it/danilo.gambarara/idoneitagonistica.htm
14. Albanese G. In palestra certificato medico necessario
ma non obbligatorio. On line: http://www.nonsolofitness.it/
articoli/articoli.asp?articolo=64
15. FISD, Federazione Italiana Sport Disabili.
http://www.fisd.it (on line)
16. IPC, International Paralympic Committee.
http://www.paralympic.org (on line).
17. Schwarzenberg TL. L’adolescente diversamente abile
[The differently abled teenager]. RIMA Rivista Italiana di
Medicina dell’Adolescenza 2005; 11-17:3/2.
18. Schwarzenberg TL, Canibus R, Roscetti C,
Acconcia P, Florio V. Giovani e tempo libero: indagine
conoscitiva sull’impegno nelle attività fisico-sportive di un
campione di adolescenti laziali. In Atti del Convegno
“Adolescenza: un problema sociale” (Sorrento 25-26 marzo
1988) pag. 167 – Pozzi ed. (Roma, 1990).
19. AA Vari. Nascita dei Giochi Sportivi Studenteschi. On
line http://team4sb.altervista.org/fuoriclassecup/storiagiochisportivi.html
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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"Tako-tsubo syndrome".
Enigmatico stordimento miocardico
di recente individuazione.
Livio Meciani
Introduzione
La sindrome del cosiddetto “Takotsubo” - originariamente descritta, come casi
isolati ed aneddotici fin dagli anni ‘90 (1-7) è stata descritta da un gran numero di cardiologi giapponesi (8-43) e clinicamente
configurata, in epoca abbastanza recente,
quale miocardiopatia acuta e reversibile
anche da cardiologi statunitensi ed europei
(44-70), fra i quali molti italiani (71-85).
Dal punto di vista anatomo-funzionale questa
sindrome consiste in una dilatazione sacciforme (cioè a “palloncino”) dell’apice del ventricolo cardiaco sinistro, quindi in una ipo-acinesia della punta del cuore, associata molto
spesso ad una ipercontrazione della base ventricolare, così da far assumere temporaneamente al ventricolo sinistro una forma che
ricorda il vaso a tipo di anfora - cioè il takotsubo (Figura 1) - utilizzato dai pescatori giapponesi per catturare i polipi: i quali, una volta
scivolati nel vaso, non riescono più ad uscirne
a causa del restringimento del collare vasale.
L’individuazione anatomo-funzionale di questa sindrome non è stata frutto di osservazioni primitive (all’inizio infatti l’evento veniva
considerato come una forma di ischemia
acuta), bensì di approfondimenti successivi
presupponenti l’impiego tanto dell’ecografia,
quanto e soprattutto della ventricolografia - in
centri cardiologici adeguatamente attrezzati attraverso le quali è stato appunto possibile
precisare il tipo di disfunzione responsabile
del quadro clinico cardiaco similinfartuale
(Figura 2).
Da queste indagini è poi derivata la più precisa descrizione della sindrome definita come:
“Transient left ventricular apical ballooning syndrome” (Dilatazione apicale transitoria a palloncino dell’apice del ventricolo sinistro);
“Neurogenic stunned myocardium”; “Myocardial
stunning due to sudden emotional stress”; “Cardiomiopatia acuta da stress”; ecc., ecc.
Figura 1
Rappresentazione del vaso usato dai pescatori giapponesi - ossia il “Tako-tsubo” - per catturare i polipi.
(Da Girod JP, et al. Circulation 2003; 107-121).
L.D. in Patologia Speciale Medica nell’ Università di Milano
Scripta
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14
Figura 2
Angiografia del ventricolo sinistro, che documenta in diastole la
quasi normale dilatazione della camera
cardiaca, mentre in
sistole evidenzia - accanto ad una "contrattura" del miocardio di base - la dilatazione "a palloncino"
dell'apice.
Da: Sharkey SW, et al.
Circulation 2005;
111:476
Dal punto di vista clinico, infatti, la casistica
colpita da questa disfunzione miocardica è
quasi esclusivamente costituita da donne, in
fase pre-climaterica, o climaterica ed assai
spesso fumatrici, le quali - costantemente
vittime di un intenso ed improvviso stress
psico-emotivo (o comunque di un evento
psicologicamente “vissuto” come una forte e
subitanea emozione) - presentano la comparsa di un quadro clinico assimilabile alla
“crisi cardiaca acuta”.
Sintomatologia
Anzitutto occorre precisare che la
Sindrome del Tako-tsubo può presentarsi come
episodio intercorrente, o come complicazione acuta nel corso di parecchie forme morbose come: la sindrome di Guillain-Barré (5),
la trombo-embolia polmonare (10), il pneumotorace (22), la rabdomiolisi (25), l’anestesia generale (29), la plasmaferesi per miastenia grave (32), l’ipertireosi (35), la sindrome
da astinenza nelI’alcoolismo (36), la sclerosi
laterale amiotrofica (37), la terapia steroidea
per linfoma (38), l’esecuzione di una risonanza magnetica nucleare come fenomeno di
claustrofobia acuta (63), l’infezione da citomegalovirus (80), ecc., ecc.
In secondo luogo tale sindrome può associarsi
tanto a crisi cardiovascolari acute di vario tipo
(42, 43, 45, 61), quanto tachiaritmiche (20,
21, 27, 53), o bradicardiche (84), oppure
addirittura infartuali (5l), destinate ovviamente a complicare ancor più il quadro sintomatologico. A questo proposito ho gia precisato
che, in senso clinico, questa sindrome può
simulare l’infarto miocardico acuto (6, 8, 13,
15, 28, 36, 52, 71, 72) e questo perché:
dal punto di vista soggettivo il paziente
presenta un dolore precordiale abbastanza tipico per orientare verso la “stenocardia”; dolore accompagnato spesso da
dispnea e soprattutto da intenso turbamento psico-emozionale;
dal punto di vista obiettivo sussistono
segni assai suggestivi per porre diagnosi
di ischemia miocardica acuta in quanto:
l’Ecg - che può presentarsi (e talvolta
persistere) come normale durante le
prime ore di ricovero in pronto soccorso
- rivela poi gravi segni di ischemia diffusa
per la presenza di T negative simmetriche
(talora “giganti”), accompagnate sia da
eventuale, seppur transitoria, sopra-elevazione del tratto ST, sia da possibile
allargamento del complesso elettrico ventricolare, in assenza di onda Q suggestiva
per necrosi miocardica (Figura 3);
Scripta
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Figura 3
Elettrocardiogramma di un soggetto con “sindrome apicale discinetica”, che presenta un quadro di ischemia miocardica diffusa con “T simmetriche” negative nelle precordiali sinistre.
Da: Greco C, et al. J Cardiovasc Med 2006; 7:624
è spesso presente un moderato “movimento” enzimatico per aumento del CPKMB e della troponina l A;
l’ecocardiogramma rivela:
- una quasi costante diminuzione della
Frazione di Eiezione (FE), che si attesta
attorno al 35-40%, ma successivamente e
piuttosto rapidamente si normalizza;
- una tipica e transitoria deformazione “a
palloncino” dell’apice del ventricolo sinistro
(peraltro documentabile soprattutto con la
ventricolografia, qualora questa venga
fatta) dimostrante una seria e localizzata
“acinesia” della punta cardiaca.
I dati piuttosto sconcertanti sono invece:
1. La pressocché costante normalità strutturale dell’albero coronarico (11, l3, 15, 49, 59,
81), documentata dalla coronarografia, cui
tutti questi pazienti vengono inevitabilmente sottoposti in funzione proprio della
sintomatologia in atto (in qualche raro
caso, peraltro, l’obiettivazione coronarografica ha mostrato la presenza di stenosi non
critiche, cioè non superiori al 25%).
2. La costante e completa assenza - evidenziata, per esempio, mediante la PET (11, 24),
o mediante la RMN (54) - di qualsiasi necrosi miocardica (d’altronde in concordanza con la già citata assenza di onde Q), anche in corrispondenza dell’acinesia apicale.
Eziologia
La Sindrome del Tako-tsubo è sempre associata al recente intervento - quale fattore scatenante - di un forte stress psico-emotivo
(Tabella l).
I punti focali consistono nel comprendere:
a - Come mai uno “stressor” di questo genere - per quanto violento, o comunque
“vissuto” soggettivamente in modo dram-
Scripta
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TABELLA 1
Stress iperacuto come possibile fattore scatenante della cosiddetta “Sindrome del Tako-tsubo”
1 - Psico-distress da perdita
a - Luttuosa
Morte del coniuge
Morte di un figlio
Morte di un parente stretto
Morte di un amico fraterno
b - Economica
Fallimento
Dissesto finanziario
Sottrazione (furto; truffa)
Precarietà, instabilità
c - Sociale
Carcerazione
Segregazione
Solitudine
2 - Psico-distress da modificazione
a - Famigliare
Matrimonio
Separazione
Divorzio
b - Lavorativa
Tipo di lavoro
Ambiente di lavoro
matico – possa indurre una sintomatologia soggettiva ed oggettiva inducente a
porre diagnosi di “crisi cardiaca acuta” (6,
8, 13, 15, 44, 48, 56).
Certamente in questo caso la discussione non
può che concernere il modo fondamentale
svolto dal meccanismo mediante il quale queste forme di “reazione da stress” provocano il
momentaneo dissesto circolatorio: punto che
sarà trattato a proposito delle non poche ipotesi patogenetiche.
b - Come mai questa sindrome colpisca
quasi esclusivamente il sesso femminile. A
questo proposito sono state formulate
varie ipotesi esplicative, fra le quali appare
preminente l’idea che le donne presentino
una iper-sensibilità ed una iper-reattività
nei confronti di qualsiasi stressor psicoemozionale e quindi sollecitino maggiormente il proprio sistema vegetativo simpatico. Tuttavia queste teorie (per la verità
abbastanza “tradizionali”) urtano contro
parecchie constatazioni sperimentali: ad
Pensionamento
Licenziamento
c - Sociale
Eventi bellici
Cambiamento della situazione
d - Problemi di ambientamento
Emigrazione
Trasloco
Ostilità ambientale
Promiscuità
e - Delusioni
f- Preoccupazioni
g - Incidenti stradali
3 - Psico-distress da disagio
a - Problemi di salute
Malattia personale
Malattia di un famigliare intimo
Prognosi infausta
b - Problemi sessuali
c - Problemi giudiziari
esempio contrastano con la constatazione
che il sesso maschile possiede ben maggiori capacità di reagire di fronte ad un
improvviso aumento del tasso ematico di
catecolamine (87-90), logica conseguenza
di qualsiasi impatto con uno stressor.
Un’osservazione, invece, assai più pertinente
si riferisce al fatto che quasi tutte le donne
interessate da questo abbastanza strano (e
quasi sempre transitorio) evento cardiovascolare si trovano nella delicata situazione psicoemotiva e neuro-ormonale - correlata al
climaterio, ossia ad una fase particolarmente
delicata della vita muliebre, che comporta una
cospicua “vulnerabilità” vegetativa.
c - Come mai la sindrome del Tako-tsubo,
non ostante la clamorosità cardiovascolare della sintomatologia, si comporti come
un “evento transitorio” e - salvo casi piuttosto rari (30, 40, 86) - a risoluzione
favorevole. L’ evoluzione sostanzialmente
benigna sembrerebbe risiedere nel fatto
che manca quasi sempre la presenza di
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17
una necrosi miocardica, sicché la situazione sindromica si configurerebbe in un
quadro solamente disfunzionale, cioè
senza componenti anatomo-patologiche:
almeno per quel che concerne la struttura
macroscopica.
Cio che, al contrario, non può esser sottaciuto concerne l’eziologia psico-emozionale, che
certamente reca un “tassello” supplementare
alla molto discussa teoria secondo cui un adeguato disturbo psico-emotivo, soprattutto se
sistematicamente reiterato, è in grado di provocare alterazioni cardiovascolari particolarmente intense. Le quali - anche in assenza di
lesioni strutturali (leggi: ateromatose) - possono ugualmente concretare modificazioni funzionali capaci di determinare (o, quanto
meno, di facilitare), nel tempo, la comparsa di
danni irreparabili. E questo proprio in un
apparato come quello circolatorio estremamente sensibile ad ogni modificazione indotta dal sistema neuro-vegetativo, che a sua
volta è correlato in modo stretto e diretto ai
turbamenti della sfera pscoemotiva.
Patogenesi
Dal punto di vista della patogenesi questa sindrome rappresenta senza dubbio uno
dei molteplici “misteri” della medicina ed in
particolare della cardiologia perché a tutt’oggi
- non ostante siano state in proposito formulate parecchie ipotesi (che, più sotto, tratterò
in dettaglio) - non si è ancora riusciti a comprendere il perché il miocardio si comporti in
maniera così anomala, cioè con una ipo-acinesia della punta cardiaca, quasi sempre
associata ad una sovra-contrazione della porzione basale della camera ventricolare sinistra.
Un punto patogenetico essenziale sembra
esser rappresentato dall’osservazione che,
come conseguenza dell’intenso turbamento
psico-emotivo, interviene un’attivazione del
sistema nervoso vegetativo che, nel caso dell’insorgenza della sindrome del Tako-tsubo così come accade in concomitanza con altre
sindromi iperacute quali: l’ictus (98); le crisi
di asma (91, 92); di feocromocitoma (9397); di emorragia sub-aracnoidea (99-104);
e le morti violente (105, 106) - si concreta,
alla periferia circolatoria, in una forte stimolazione della componente adrenergica, la cui
immediata conseguenza è costituita da un
altrettanto immediato incremento della catecolaminemia (Schema 1), che realizza una
vera e propria “Sindrome da tossicità adrenergica”, di cui il “Tako-tsubo” sarebbe una
delle manifestazioni.
L’iter neuronale di questo fenomeno simpaticotonico è ormai fisiologicamente ben conosciuto e si realizza secondo due percorsi
(Schema 2):
aIl percorso del sistema simpatico
bulbare: il quale, attraverso la mediazione
noradrenergica, provoca alla periferia
un’iper-catecolaminemia (vedasi oltre)
responsabile di un “dissesto omeostatico
multiplo” nell’ambito del quale si annoverano le ben conosciute conseguenze coronariche ed emodinamiche, nonché le
conseguenze biochimiche rappresentate
principalmente dallo stress ossidativo. La
cui fondamentale caratteristica consiste
nella sovra-produzione di radicali liberi
dell’ossigeno, sempre provocatrice di
cospicui ed irreversibili danni in un tessuto estremamente sensibile qual’è quello
miocardico (107,108).
bIl percorso del cosiddetto asse ipotalamo-ipofisario: il quale, mediante la produzione di ACTH, determina la stimolazione della corteccia surrenale e quindi la
sovra-produzione dei corticosteroidi, che
concorrono a potenziare l’attività delle
catecolamine.
cIl percorso genericamente definibile
come ipotalamico, responsabile di una
sovra-produzione di NPY e di BNP, ossia
di neuropeptidi recentemente coinvolti in
maniera diretta nell’attivazione cardiovascolare (109-111).
Volendo, ora, esaminare con maggiore dettaglio le varie ipotesi patogenetiche, è possibile farne questa elencazione riassuntiva:
1. Partecipazione coronarica
Descrivendo la sintomatologia ho
precisato che nella quasi totalità dei casi sussiste un dato abbastanza sconcertante costituito dalla assenza (o dalla - emodinamica-
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SCHEMA 1 - CONSEGUENZE DELLA IPER-NORADRENALINEMIA
L’Iper-noradrenalinemia, che si verifica in corso di psico-neurostress acuto, è una conseguenza diretta dell'attivazione sia centrale, sia
- soprattutto - periferica del sistema simpatico e rappresenta, per l'organismo, una delle più gravi conseguenze ad un tempo emodinarniche acute e biochimiche acute in grado di dissestare rapidamente l'intera orneostasi.
Gli effetti emodinamici si riflettono ovviamente sul sistema cardio-circolatorio e sono rappresentati da:
a - Aumento della frequenza pulsatoria per diretta stimolazione dei recettori adrenergici del sistema cardiaco “di conduzione”.
b - Vasospasmo soprattutto arteriolare (quindi micro-circolatorio} per diretta stimolazione, anche in questo
caso, degli adrenergo-recettori diffusi nell'albero vascolare (ed ovviamente anche in quello coronarico).
c - Sovra-stimolazione nella produzione di vasopressina e di angiotensina, le cui conseguenze spasmogene
sulla circolazione arteriolare sono ben conosciute.
Gli effetti biochimici interessano l'intero complesso dell'organismo e determinano intrinseche modificazioni
dell'andamento metabolico, i cui molteplici disequilibri sono così elencabili:
1 - Diminuzione nella produzione del nitrossido, accoppiata tanto all'aurnento nella produzione di endoteline,
quanto alla stimolazione degli alfa-adreno-recettori, il che concorre a provocare il vasospasmo arteriolare.
2 - Aumento nella produzione endoteliale delle molecole adesive, che concorrono vivacemente a creare una
condizione generale di trombofilia.
3 - Dissesto metabolico complesso, riassumibile precisando da un lato l'instaurazione di un certo grado di resistenza
insulinica, da un altro lato l'incremento nella produzione citotossica degli FFA e dei radicali liberi (stress ossidativo).
4 - Modificazione delle espressioni biochimiche sia dei leucociti (indotti a superprodurre radicali liberi
e citochine, fra cui prevale il TNF-alfa), sia delle piastrine (principali fautrici della tendenza trombifilica).
Neuro-adrenorecettori
Effetti
emodinamici
Neuro-ipofisi
A.D.H.
C. juxta-glomer.
R.A.A.A.
Medullo-surr.
Nor-adr.
Sistema
di conduzione
Frequenza
Adrenergorecettori
beta-R.
alfa-R.
Miocardio
Nitrossido
Disfunzione
endoteliale
Endoteline
Mol. adesive
Arterie
Alfa-adrenorecettori
IPER-NORADRENALINEMIA
Effetti
biochimici
Muscoli
Resistenza
insulinica
Fegato
Pancreas
Produzione
di insulina
Tessuto
adiposo
FFA
DISSESTO
METABOLICO
Radicali liberi
Leucociti
TNF-alfa
Piastrine
Adesioneaggregazione
Trombofilia
VASOCOSTRIZIONE
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SCHEMA 2 - POSSIBILE INTERPRETAZIONE PATOGENETICA DELLA “SINDROME DEL TAKO-TSUBO”
Un intenso ed improvviso psico-distress (soprattutto se vissuto in modo esageratamente “drammatico”) può provocare
in determinati soggetti - complice una forte iper-catecolaminemia - la comparsa di rnodificazioni funzionali miocardiche
espresse da un'alterazione discinetica, ma reversibile, della sistole del ventricolo sinistro (contrattura della base e dilatazione “a palloncino” dell'apice). Tale psico-distress acuto - tramite le non conosciute interazioni fra psiche e cervello provocherebbe, simultaneamente all'attivazione emozionale ed all’elaborazione cognitiva, una super-stimolazione dei
centri vegetativi superiori, le cui immediate conseguenze sarebbero costituite da una sollecitazione sia dell’asse ipotalamo-ipofisario, sia del sistema vegetativo simpatico, accompagnata da una possibile sovra-produzione di neuropeptidi vasoattivi, quali l'NPY ed il BNP.
L'attivazione ipotalarno-ipofisaria si estrinsecherebbe con l'intensificazione nella produzione dell' ACTH, il cui “target” cortico-surrenale, provocherebbe un aumento nella biosintesi e nell'increzione dei cortico-steroidi.
L'attivazione del sistema simpatico determinerebbe, dal canto suo, un'eccitazione funzionale tanto della midollare surrenale, quanto e sopratutto del sistema simpatico periferico, le cui disastrose conseguenze si compendiano in una forte
iper-noradrenalinernia (peraltro spesso documentata nei pazienti colpiti dalla presente sindrome).
Le conseguenze di questi fenomeni sarebbero costituite tanto da uno stordimento miocardico (myocardial stunning),
quanto da uno spasmo micro-coronarico, contemporaneamente responsabili di quella inconsueta discinesia miocardica sintetizzata dal nome di “Sindrome del Tako-tsubo”.
Accanto ed in rafforzamento di questo deragliamento funPSICO-STRESS
zionale si determinerebbe - sempre in conseguenza dell'iIPERACUTO
per-catecolaminemia - una condizione di stress ossidativo
INTERAZIONI
condizionatore di una necrosi delle bande sarcomeriche
PSICHE-CERVELLO
miocardiche (evidenziata in parecchi reperti miocardio-bioptici).
Elaborazione
cognitiva
Attivazione
emozionale
CENTRI
VEGETATIVI
SUPERIORI
Ipotalamo
Ipofisi
Cortico-surrene
NPY
BNP
Cortico-steroidi
STORDIMENTO
MIOCARDICO
SIMPATICO
CENTRALE
Simpatico
periferico
Medullosurrene
IPER-NORADRENALINEMIA
Stress
ossidativo
Microspasmo
coronarico
Sovracontrazione
basilare
IPO-ACINESIA
APICALE
SINDROME DEL
TAKO-TSUBO
Band-necrosis
dei sarcomeri
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mente - non rilevanza) di lesioni ateromasiche
dell’albero coronarico: questo induce a pensare che il quadro elettrocardiografico (peraltro
assai “clamoroso” in senso ischemico), sia quasi
sempre di tipo funzionale e quindi transitorio.
Tuttavia è proprio su questo punto che possono sorgere dei dubbi patogenetici dal momento che le uniche due piu verosimili interpretazioni concernono eventualità non del tutto
convincenti e precisamente:
- Che possa essersi verificato uno spasmo
delle arterie coronarie epicardiche (13, 15,
59). Il punto critico è rappresentato dalla
esclusiva localizzazione all’apice del ventricolo sinistro. In soccorso - per così dire - di
questa specifica localizzazione sussisterebbe la constatazione anatomica secondo la
quale l’apice del ventricolo sinistro sarebbe
costituito soltanto da tre strati miocardici
(112) e costituirebbe quindi un punto
“debole” (o, se si vuole, particolarmente
“sensibile”: 113-116) di tutta la molto complicata struttura del muscolo cardiaco.
- Che possa essersi verificato un diffuso spasmo della micro-circolazione coronarica
(9, 51, 52, 56, 75): considerazione patogenetica che possiede una corrispondenza
piuttosto importante costituita dalla cosiddetta “Sindrome X coronarica” [o angina
microvascolare (117)]. In quest’ultimo
caso la patogenesi più verosimile potrebbe
fare riferimento alla molteplice convergenza patogenetica - compendiata nella
Sindrome Metabolica (118-120) - tanto
della “resistenza insulinica” quanto della
“normalità strutturale, ma non funzionale,
della circolazione coronarica”, quanto in fine
della disfunzione endoteliale connessa all’iper-simpaticotonia (121).
2. Partecipazione miocardica basale
L’iper-catecolaminemia potrebbe
provocare un’ipercontrazione della base del
miocardio ventricolare: il che spiegherebbe
la conseguente dilatazione apicale sistolica.
L’ipotesi sembrerebbe avvalorata dall’osservazione che in parecchi soggetti presentanti
questa forma di ipo-acinesia miocardica apicale la somministrazione di dobutamina
(cioè di una catecolamina) provoca effettivamente un’ostruzione dinamica transitoria
delle porzioni basilari del ventricolo sinistro
(44, 66, 74, 122).
3. Stordimento miocardico
La sovra-stimolazione adrenergica
consecutiva all’iper-catecolaminemia porta
sempre ad un generale “stordimento miocardico” (44, 56, 123), le cui espressioni biochimche si concreterebbero in un insulto diretto dei
miocardiociti in grado di provocare una necrosi da ipercontrazione dei sarcomeri (contraction band necrosis: 58-62, 124). In altre parole:
un sovraccarico (probabilmente AMP-mediato) di calcio-ioni responsabile della morte dei
miocardiociti caratterizzata da un’infiltrazione
sia di eosinofili, sia di monociti-macrofagi (del
tutto diversa da quella propria dell’infarto
miocardico in cui, invece, predomina l’infiltrazione dei polimorfonucleati).
Terapia
La Sindrome del Tako-tsubo - in quanto “crisi cardiaca” - va ovviamente trattata
secondo i classici canoni terapeutici consoni a questo evento, tanto più che nella quasi
totalità dei casi (almeno nelle fasi iniziali)
questa sindrome viene diagnosticamente
interpretata come una forma di ischemia
miocardica acuta.
La sua rapida e pressocché costante evoluzione favorevole consiglia tuttavia la prosecuzione di un trattamento, caso per caso
adeguato, in funzione della sintomatologia
in atto.
Comunque la sua risoluzione esige sempre
una terapia orientata sia verso l’indubbia
componente psicologica, sia verso l’evidenza
che il bersaglio preferenziale di qualsiasi
futura “reazione da stress” sarà probabilmente
l’apparato circolatorio.
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M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
25
I disturbi dell’equilibrio nella terza età.
Giorgio Guidetti
tezza ed i tempi di realizzazione, sono legati
a diversi fattori.
Le abitudini di vita sedentarie ed un atteggiamento psicologico ansioso-depressivo, ad
esempio, l’ostacolano. Altrettanto influenti
sono l’efficienza degli input vestibolari controlaterali e di quelli visivi e propriocettivi,
che possono consentire meccanismi di compenso vicariante, ed il grado di plasticità dei
neuroni cerebrali e cerebellari che devono
garantire i processi di adattamento.
La senescenza coinvolge in maniera globale
l’organismo umano ed interferisce anche con
i complessi meccanismi preposti a regolare
l’equilibrio (Tabella 1).
È dunque facilmente comprensibile come i
fenomeni legati all’invecchiamento possano
modificare anche i complessi meccanismi preposti a regolare l’equilibrio e quindi i corretti
rapporti tra il soggetto e l’ambiente circostante in condizioni sia statiche che dinamiche.
I disturbi dell’equilibrio rappresentano pertanto un evento molto comune nella vecchiaia, infatti:
Premessa
L’equilibrio è legato principalmente al
corretto funzionamento, di tre input sensoriali: vestibolare, visivo e propriocettivo. La
cooperazione e l’integrazione di queste tre
diverse informazioni a livello del sistema
nervoso centrale sono indispensabili per il
corretto controllo del nostro corpo in condizioni statiche e dinamiche e per l’orientamento spazio-temporale.
Un evento acuto che danneggi una componente della rete neuronale deputata all’equilibrio, come ad esempio la perdita di un labirinto, provoca violenti disturbi.
Immediatamente si attivano dei meccanismi
di adattamento centrale e di compenso sensoriale, finalizzati sia al recupero del controllo oculomotorio, con relativa scomparsa del
nistagmo e quindi della sensazione rotatoria
dell’ambiente circostante, che dell’assetto
posturale statico e dinamico, con relativa
scomparsa dell’atassia e dell’instabilità.
L’efficienza di tale recupero, la sua comple-
Tabella 1.
Principali fattori nella età senile predisponenti al disequilibrio.
DISEQUILIBRIO SENILE
Fattori favorenti
Effetti
Invecchiamento fisiologico
o patologia dell’apparato vestibolare
Stile di vita sedentario
Ridotta efficienza
dei riflessi vestibolari
Ridotto utilizzo del controllo dell’equilibrio,
perdita di confidenza
Ridotto controllo dell’equilibrio,
ridotto compenso sensoriale vicariante
Rallentamento dei riflessi,
difficoltà di compenso vestibolare
Ridotta efficienza
degli input sensorial
Aumentato consumo di farmaci
i
Servizio di Vestibologia e Rieducazione Vestibolare Azienda USL di Modena
Scripta
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26
Tabella 2.
Principali cause periferiche di vertigine nell’anziano.
PATOLOGIA
ALTRI SINTOMI ASSOCIATI
Labirintolitiasi
Neuronite vestibolare
Malattia di Meniere
Fistola perilinfatica/otite cronica
Neoplasie dell’angolo ponto-cerebellare
Tossicità da farmaci (es: gentamicina)
Nausea, vomito
Disequilibrio
Ipoacusia fluttuante, tinnito
Perdita o diminuzione dell’udito, otalgia
Diminuzione udito, otalgia, disequilibrio
Disequilibrio
Disturbi del microcircolo
Diminuzione udito, acufeni, disequilibrio
l’instabilità posturale costituisce una
delle cause più frequenti di ricorso al
medico di famiglia nei soggetti di età
oltre i 70 anni;
la prevalenza di vertigine e disequilibrio
è pari al 47% nei maschi e al 61% nelle
femmine di età superiore ai 70 anni;
l’incidenza di caduta a terra improvvisa in età superiore ai 65 anni varia tra
il 20% e il 40%.
A questo proposito, l’Istat stima che in Italia
la prima causa di incidente domestico sia
rappresentata proprio dalle cadute, che sono
al primo posto come causa di ricovero e
decesso in questi casi.
A preoccupare non sono solo le conseguenze
fisiche della caduta ma anche le ripercussioni psicologiche come la paura di cadere di
nuovo, “che possono accelerare il declino funzionale e generare depressione e isolamento
sociale”.
In più, i traumi da caduta hanno anche un
costo in termini economici: secondo dati del
Sindaca, (Sistema informativo nazionale
sugli infortuni in ambienti di civile abitazione dell’Iss).
In Italia il costo unitario per ricovero da incidente domestico, la cui causa prevalente è la
caduta, è di circa 3.000 euro.
Una riduzione del 20% delle cadute consentirebbe circa 27.000 ricoveri in meno su base
annua.
I disturbi dell’equilibrio rappresentano pertanto un evento molto comune nella vecchiaia e sono riconducibili alla presbiatassia,
cioè al generico disturbo vertiginoso-posturale ad eziologia multifattoriale correlato con
il parafisiologico deterioramento dell’intero
sistema dell’equilibrio, oppure a specifiche
patologie di tipo vestibolare periferico
(Tabella 2), centrale (Tabella 3), o ad altre
noxe extravestibolari (Tabella 4) che possono
influenzare direttamente o indirettamente il
controllo dell’equilibrio.
Le vertigini nell’anziano da causa periferica
sono contraddistinte in genere da vere vertigini rotatorie.
I disturbi centrali invece sono generalmente
contraddistinti da dizziness (instabilità, atassia, insicurezza, difficoltà nei movimenti,
senso di stordimento, disorientamento spaziale), più raramente si tratta di vere vertigini rotatorie, e nella maggior parte dei casi
rientrano in un corteo sintomatologico più
complesso di sofferenza del sistema nervoso
centrale, diverso a seconda del tipo di patologia e delle sedi interessate.
Altre patologie possono provocare disturbi
dell’equilibrio in modo diretto (ad esempio
alterando l’afflusso ematico all’apparato
vestibolare a livello periferico e/o centrale, in
modo episodico o saltuario), favorire patologie vestibolari o neurologiche (ad esempio
provocando ischemie acute o croniche)
oppure interagendo sulla funzione dell’equilibrio mediante l’alterazione degli input propriocettivi (ad esempio quelli cervicali nel
caso dell’artrosi cervicale).
Anche in questo caso si tratta in genere di
sintomi del tipo dizziness e solo raramente
di vere vertigini rotatorie soggettive o
oggettive.
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Tabella 3.
Principali cause centrali di “vertigine” nell’anziano.
PATOLOGIA
ALTRI SINTOMI ASSOCIATI
TIA, RIND e Stroke del territorio vertebro-basilare
Disturbi neurologici vari per lesioni in particolare
del tronco o del cervelletto
Disturbi neurologici vari
Sindrome extrapiramidale
Disturbi neurologici vari
Crisi comiziali
Disturbi neurologici vari
Disorientamento, disturbi della memoria
Disturbi neurologici vari
Disturbi del circolo cerebrale anteriore
Morbo di Parkinson e patologie extrapiramidali
Neoplasie cerebrali
Epilessia
Patologie degenerative
Demenza (fasi iniziali)
Traumi cranici
Principi di terapia
Nella scelta della terapia farmacologica antivertiginosa nel paziente anziano
occorrerà in particolare:
1. limitare alle sole fasi acute di una vestibolopatia l’uso dei sintomatici ad azione
sedativa (ad esempio: fenotiazine, antistaminici, benzodiazepine, difenilpiperazine);
2. privilegiare i farmaci con attività modulatoria e nootropa;
Tabella 4.
Altre patologie con possibile influenza
diretta o indiretta sull’equilibrio
nell’anziano.
Stenosi aortica
Sindrome da ipersensibilità del seno carotideo
Disritmie cardiache
Ipotensione ortostatica
Vasculiti autoimmuni
Stenosi della carotide
Sindrome da furto della succlavia
Anemie
Sindrome da iperviscosità
Dislipidemie di vario tipo
Diabete mellito
Iperventilazione
Iper o ipoglicemia
Artrosi cervicale
Polineuropatia sensitivo-motoria
Depressione e altri disturbi psichici
3. evitare i farmaci con maggior probabilità di effetti indesiderati nel soggetto
anziano;
4. prestare particolare attenzione alla compliance.
Nelle forme acute occorrerà anzitutto ridurre la sintomatologia, senza però ostacolare
l’instaurarsi dei processi centrali di adattamento e compenso funzionale.
Nelle forme cronizzate occorrerà soprattutto favorire lo sviluppo di tali processi, in
gran parte caratterizzati dai processi di
modulazione centrale degli input sensoriali,
memorizzazione delle nuove esperienze e
messa a punto di procedure motorie adattative.
Nelle forme ricorrenti, come alcuni casi di
vertigine parossistica da posizionamento o la
Malattia di Menière, occorrerà cercare anche
di contrastare i relativi meccanismi patogenetici (ad esempio i disturbi del microcircolo o la formazione dell’idrope).
Betaistina dicloridrato
È un farmaco ampiamente utilizzato nel trattamento dei disordini vestibolari periferici e
centrali.
È un farmaco che si distingue per una attività
di tipo modulatorio, non sedativo, caratterizzato da una ottima tollerabilità. La sua attività è dovuta ad un meccanismo d’azione
multiplo:
1. perifericamente riduce l’attività spontanea dei recettori ampollari labirintici;
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Tabella 5.
Trattamento con betaistina delle più comuni patologie causa di vertigine o disequilibrio
con coinvolgimento della funzione vestibolare.
PATOLOGIA
FASE ACUTA
FASE CRONICA O RICORRENTE
Presbiatassia
Vertigini parossistiche
da posizionamento
Malattia di Menière
Neurite vestibolare
Disturbi del microcircolo
labirintico
manovre liberatorie o
di riposizionamento
- betaistina 16 mg x 3/die
- sedativi, antiidropici
ed antinausea
- betaistina 16 mg x 3/die,
- sedativi ed antinausea
- cortisonici, neurotropi
- betaistina 16 mg x 3/ die
- farmaci sedativi ed antinausea
- farmaci attivi sul meccanismo
patogenetico circolatorio
- neurotropi
2. centralmente, tramite una attività histamine-like agonista sui recettori H1 ed
antagonista sui recettori H3, modula la
sintesi e il rilascio di vari neurotrasmettitori, in primis l’istamina, con miglioramento dei processi di adattamento e
compenso funzionale dell’equilibrio statico e dinamico;
3. a livello microcircolatorio del labirinto
e del sistema arterioso vertebrobasilare,
stimola direttamente i recettori H1 localizzati sulle cellule endoteliali dei capillari provocando una vasodilatazione e
favorendo il riassorbimento di un’eventuale idrope labirintica.
Nella maggior parte dei più importanti studi
clinici condotti con betaistina (che hanno
coinvolto oltre 4000 pazienti) i risultati più
soddisfacenti sono stati raggiunti con terapie
della durata di 1-6 mesi e con dosi fino a 48
mg/die. Inoltre, un recente studio di farmacologia ha dimostrato che l’attività di betaistina è sia dose che durata dipendente. In
base a queste premesse, betaistina dovrebbe
essere preferibilmente somministrata alla
massima dose giornaliera autorizzata (fino a
48 mg die) per un tempo il più lungo possibile.
Il trattamento può essere modulato come
segue:
- betaistina 24 mg x 2/die
- neurotropi
- betaistina 24 mg x 2/die
-
betaistina 24 mg x 2/die
ansiolitici
prevenzione dell’idrope
betaistina 24 mg x 2/ die
neurotropi
- betaistina 24 mg x 2/die
- prevenzione sui meccanismi
eziopatogenetici,
- neurotropi
nelle forme acute è preferibile una tripla somministrazione giornaliera di 16
mg di betaistina per alcuni giorni, che
garantisca l’attività inibitoria a livello del
recettore vestibolare periferico e modulatoria a livello del SNC in modo più
costante ed omogeneo nel tempo.
nelle forme cronicizzate e ricorrenti,
in cui la terapia va abitualmente protratta per cicli ripetuti, è opportuno mantenere lo stesso dosaggio massimo giornaliero (48 mg die) privilegiando però la
compliance ed affidandosi quindi alla
doppia somministrazione di 24 mg.
Un soggetto anziano, infatti, assume già abitualmente vari farmaci e pare poco probabile
che possa accettare una terapia prolungata
con ulteriori tre somministrazioni giornaliere.
La Tabella 5 riporta alcuni esempi di trattamento nelle forme di disturbo dell’equilibrio
più comuni nella terza età con coinvolgimento della funzione vestibolare.
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Tratto da
2/2007
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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Endometriosi: quanto dura l’effetto ipoestrogenico
della triptorelina depot?
Pietro Cazzola
Introduzione
Quando una patologia è oggetto di un documento sottoscritto da duecentosessantasei membri
del Parlamento Europeo significa
che essa ha una grande rilevanza
sociale e necessita perciò di particolare considerazione da parte delle Autorità governative e sanitarie,
nonché, ovviamente, dell’intera
classe medica. Con la Written Declaration on Endometriosis (1), infatti, viene ricordato che:
nell’Unione Europea l’endometriosi
colpisce una donna su dieci;
nell’Unione Europea l’onere annuale dei congedi dovuti a tale
affezione viene stimato in 30 miliardi di euro;
non esiste una giornata europea
dell’endometriosi e la conoscenza di tale malattia, sia tra i medici che nella popolazione, è
scarsa.
Nello stesso documento, inoltre,
viene sollecitata la Commissione
Europea affinché, tra l’altro, favorisca la ricerca sulle cause, la prevenzione e sul trattamento di tale
patologia.
Definizione
di endometriosi
Con “endometriosi” si definisce un’affezione caratterizzata dalla presenza in sedi localizzate all’esterno della cavità uterina di tesSpecialista in Anatomia e Istologia Patologica
e Tecniche di Laboratorio, Milano
suto simil-endometriale che determina una reazione infiammatoria
cronica (2).
La maggior parte dei foci endometriosici ha sede a livello pelvico
(ovaie, peritoneo, legamenti uterosacrali cavo del Douglas e setto retto-vaginale), mentre foci extrapelvici sono rari.
La manifestazione della malattia varia da piccole lesioni a cisti endometriosiche, fibrosi e aderenze di
tale gravità da sovvertire l’apparato riproduttivo della donna e condizionarne la fertilità.
Dell’endometriosi sono state proposte diverse classificazioni, ma la
più utilizzata è quella dell’American
Society of Reproductive Medicine (3)
che, in base alla gravità, identifica
quattro stadi della malattia.
Sfortunatamente, però, essa non
consente di prevedere, in rapporto allo stadio, ne le probabilità di
gravidanza, né l’entità del dolore
che la donna patirà, né l’efficacia
del trattamento su quest’ultimo.
Epidemiologia
dell’endometriosi
I dati diffusi dalla Fondazione Italiana Endometriosi indicano
che tale affezione interessa 14 milioni di donne in Europa e 3 milioni in Italia, con una spesa annua
per il Sistema Sanitario Nazionale
di 182 milioni di euro (4).
Nelle donne tra i 25-44 anni l’incidenza dell’endometriosi si aggira intorno al 10-15% ed è maggiore
del 5-7% nelle parenti di primo
grado di donne affette da endometriosi (5, 6).
È stato osservato che circa il 35%
delle donne con infertilità è affetta
da endometriosi (7).
Tuttavia all’ampia diffusione della
malattia non corrisponde una rapidità nella diagnosi: questa viene
raggiunta in media dopo 8,5 anni
in USA, 8 anni in UK e 6,7 anni in
Norvegia (8). Secondo un recente
studio i motivi di tale ritardo sono
da ricercarsi sia a livello delle pazienti (incapacità di distinguere tra
esperienze mestruali normali e anormali, paura di apparire deboli, sviluppo di strategie tendenti più ad
accomodare che a scoprire la causa
del dolore), sia a livello dei medici
(“normalizzazione” del dolore da parte del medico di famiglia, soppressione intermittente dei sintomi con
la pillola anticoncezionale, uso di
esami non discriminanti) (8).
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
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Eziopatogenesi
dell’endometriosi
L’eziopatogenesi dell’endometriosi non è nota. In proposito esistono diverse teorie, ma nessuna di
esse è in grado di fornire spiegazioni che siano valide per tutti i casi.
L’ipotesi più diffusamente accettata
è quella della mestruazione retrograda o trans-salpingea, secondo la
quale del tessuto endometriale, presente nel flusso mestruale, risalirebbe le tube per impiantarsi nella
cavità addominale.
Accanto a questa teoria si collocano il trasporto in sedi lontane delle cellule endometriali attraverso la
via linfatica e/o ematica e la trasformazione dell’epitelio celomatico in ghiandole simil-endometriali (metaplasia celomatica). Inoltre,
la maggiore incidenza dell’endometriosi in alcuni gruppi familiari,
suggerisce che l’ereditarietà possa
essere un fattore causale (6).
I sintomi
dell’endometriosi
Il modo con cui l’endometriosi si presenta clinicamente è
multiforme e l’estrema variabilità
dei sintomi rende spesso difficile la
diagnosi (Tabella 1).
Il sintomo più comune è la dismeTabella 1.
Principali sintomi di endometriosi (9).
Dismenorrea
Dolore pelvico
Dispareunia
Lombalgia
Dischezia
Dolore minzionale sovrapubico
Infertilità
norrea e spesso la paziente si rivolge al medico quando essa diventa ingravescente (9).
Nel 15% dei casi di dolore pelvico la causa è rappresentata dall’endometriosi (10).
In aggiunta al dolore le pazienti
possono accusare sintomi aspecifici come affaticabilità, malessere
generale e disturbi del sonno (9).
Diagnosi
di endometriosi
L’elevata incidenza di sintomi non legati alla sfera sessuale con
cui si manifesta l’endometriosi rende conto dei risultati di un’indagine condotta dalla National Endometriosis Society (UK) che ha evidenziato che il 32% delle pazienti prima di essere visitata da un ginecologo consulta un’altro specialista e
che il 25% addirittura due (9).
La diagnosi di endometriosi sulla
sola base dei sintomi può essere
molto difficile perchè questi possono essere sovrapponibili a quelli della sindrome dell’intestino irritabile e della malattia pelvica infiammatoria (2).
Il test diagnostico gold standard per
l’endometriosi è rappresentato dall’ispezione diretta della pelvi mediante laparoscopia e l’esame istologico della lesione serve a conferma della diagnosi (l’istologia negativa non la esclude) (2).
Trattamento
dell’endometriosi
Il trattamento dell’endometriosi deve tenere conto dell’età
della paziente, del suo desiderio
di una gravidanza futura, della gravità dei sintomi e della localizzazione ed estensione della lesione.
La terapia dell’endometriosi è va-
riata nel corso degli anni, ma una
cura certa non è ancora disponibile (11).
Il counseling prevede l’incentivazione della gravidanza per due
principali motivi: 1) la gravidanza
spesso causa una remissione temporanea della sintomatologia e 2)
l’insorgenza della sterilità diventa
più probabile con il progredire della malattia (11).
Ovviamente questa modalità “terapeutica” non è scevra di problemi facilmente intuibili.
La rimozione chirurgica degli impianti endometriosici rappresenta
il trattamento ideale, tuttavia l’esperienza clinica dimostra che alcune donne non hanno i benefici
attesi sia a causa di escissioni incomplete, sia per recidiva della malattia e sia perchè l’endometriosi
non era la causa della loro sintomatologia (2, 9).
La terapia medica dell’endometriosi, escludendo i FANS che alcune donne assumono nel tentativo [non supportato da evidenze
scientifiche (2)] di risolvere il dolore, si fonda sulla necessità di abolire l’effetto trofico dell’estradiolo sul
tessuto endometriale ectopico (9).
Si tratta in pratica di determinare
un quadro di pseudo-gravidanza o
di pseudo-menopausa o di anovulazione cronica (12).
Nella Tabella 2 sono indicati i farmaci comunemente impiegati per
la cura dell’endometriosi e i relativi effetti collaterali.
Tutti questi farmaci ormonali sono
risultati efficaci e circa l’80-85%
delle pazienti ha avuto un miglioramento dei loro sintomi (2, 9).
Le differenze tra i vari trattamenti
medici risiedono principalmente
negli schemi posologici e nella loro tollerabilità: infatti alcuni effetti collaterali limitano il loro impiego per periodi prolungati e spesso
riducono la compliance (2, 9).
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
32
Tabella 2.
Farmaci per il trattamento dell’endometriosi (9).
Farmaco
Effetti collaterali
Antinfiammatori non steroidei (FANS)
(diclofenac, ibuprofene, acido mefenamico, ecc.)
Irritazione gastrica
Progestinici
(diidrogesterone, medrossiprogesterone acetato,
noretisterone)
Edemi, ritenzione di fluidi, tensione mammaria, nausea
Androgeni sintetici
(danazolo, gestrinone)
Seborrea, acne, aumento di peso, crampi muscolari,
sintomi della menopausa (tranne osteoporosi)
Estro-progestinici
Simili a quelli associati ai contraccettivi orali
Analoghi del GnRH
(buserelina, goserelina, leuprorelina acetato,
nafarelina, triptorelina)
Sintomi della menopausa (compreso osteoporosi)
Analoghi del GnRH e terapia ormonale sostitutiva
o tibolone
La terapia ormonale sostitutiva migliora gli effetti
collaterali degli analoghi del GnRH
Gli analoghi del GnRH
Gli analoghi del gonadotropinreleasing hormone (GnRH) bloccano
la liberazione di LH e FSH da parte
dell’ipofisi, determinando una condizione di ipogonadismo ipogonadotropo, con conseguente ipoestrogenismo che favorisce la remissione
delle lesioni endometriosiche.
È stato ipotizzato che per raggiungere questo risultato è necessario
arrivare a un livello plasmatico di
estrogeni pari a 50 pg/mL (13) e gli
analoghi del GnRH sarebbero i farmaci più efficaci in tal senso, perchè determinano concentrazioni
plasmatiche di estradiolo nettamente inferiori e più stabili rispetto ad altri trattamenti (12).
Gli effetti collaterali della terapia
con analoghi del GnRH sono quelli di uno stato di ipoestrogenismo,
similmente a quanto accade durante la menopausa.
La perdita di densità minerale ossea rappresenta l’effetto avverso più
importante, ma l’aggiunta di estroprogestinici (add-back therapy) si è
rilevata in grado di contrastare efficacemente questa evenienza (14).
Quanto debba durare il trattamento con analoghi del GnRH + addback therapy non è ancora completamente chiarito, tuttavia osservazioni protratte fino a 2 anni hanno
evidenziato che l’efficacia sul dolore e la protezione sulla densità minerale ossea si mantengono inalterate per tutto tale periodo (14).
Gli analoghi del GnRH sono disponibili in diverse formulazioni: (iniezioni giornaliere, spray nasale, depot), ma le preparazioni depot sono
le meglio accettate dalle pazienti.
Triptorelina depot:
l’effetto dura più a
lungo del previsto
La triptorelina è un decapeptide sintetico analogo dell’ormone naturale GnRH prodotto dal-
l’ipotalamo. Per il trattamento dell’endometriosi la triptorelina nella
formulazione depot è disponibile
sottoforma di acetato in una siringa preriempita (Gonapeptyl Depot®).
La posologia della triptorelina depot, raccomandata nel riassunto
delle caratteristiche del prodotto, è
di una siringa (equivalente a 3,75
mg di triptorelina/1 mL) somministrata per via sottocutanea (SC) o
per via intramuscolare (IM) ogni
28 giorni (15).
Esistono tuttavia osservazioni che
indicano che l’effetto e l’efficacia
della triptorelina depot si protraggono ben oltre le 4 settimane
di intervallo tra una dose e l’altra
(16, 17).
Infatti Filicori et al. (16) hanno mostrato che con entrambi le vie di
somministrazione (SC e IM), dopo
2 mesi dall’ultima iniezione, le concentrazioni ematiche di triptorelina sono ancora misurabili e gli effetti su LH, FSH e estradiolo permangono invariati (Figura 1).
Scripta
M E D I C A Volume 11, n. 1, 2008
33
dolore (17) (Figura 2).
La triptorelina, tuttavia, sia per la
maggiore tollerabilità, sia per la più
conveniente modalità di somministrazione (4 iniezioni in totale vs 3
assunzioni quotidiane per via orale di danazolo) ha fatto registrare,
rispetto a danazolo, una migliore
compliance (un solo paziente non
ha completato la terapia vs 7 di danazolo; p < 0,05) (17).
Conclusioni
Figura 1.
L’effetto della triptorelina acetato depot sui livelli ematici di LH, FS
ed estradiolo persiste per 2 mesi dalla fine del trattamento (16).
Questo prolungato effetto della triptorelina sul profilo ormonale della
donna ha fornito il presupposto per
uno studio clinico di confronto con
danazolo, in cui l’analogo del GnRH
nella formulazione depot è stato
somministrato ad intervalli di 6 settimane nel periodo postoperatorio
(6 mesi) a donne sottoposte a intervento chirurgico conservativo per
endometriosi moderata-grave (17).
I risultati, oltre a dimostrare che
l’allungamento da 4 a 6 settimane
dell’intervallo di somministrazione della triptorelina non influenza l’efficacia del trattamento, hanno indicato che entrambi i farmaci sono validi nel controllare il
L’endometriosi è una malattia che
in Italia affligge 3 milioni di donne, con elevati costi sociali.
La sua eziopatogenesi non è nota.
La sua diagnosi è difficoltosa a
causa della grande variabilità dei
sintomi.
La terapia medica dell’endometriosi si basa sull’impiego di farmaci che ostacolano l’effetto trofico degli estrogeni sull’endometrio.
Gli analoghi del GnRH bloccano
la liberazione di LH e FSH da
parte dell’ipofisi, determinando
una condizione di ipogonadismo
ipogonadotropo, con conseguente ipoestrogenismo.
Figura 2.
Endometriosi:
l’allungamento da 4 a 6 settimane dell’intervallo di somministrazione
della triptorelina acetato depot non influenza l’efficacia sul dolore
(simile a quella del danazolo) (17).
Scripta
M E D I C A Volume 8, n. 10, 2005
34
La triptorelina è un decapeptide
sintetico analogo del GnRH.
L’effetto e l’efficacia della triptorelina acetato depot nell’endometriosi si protraggono ben ol-
tre le 4 settimane di intervallo
raccomandato tra una dose e l’altra (fino a 2 mesi).
Il prolungamento dell’intervallo
di somministrazione della trip-
torelina depot (fino a 2 mesi), oltre a incrementare la tollerabilita e la compliance (già migliori
rispetto al danazolo), contribuisce a ridurre i costi della terapia.
Montiel JA, Martínez Chéquer JC,
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Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
EDITORIALE
I
n considerazione dell’altissimo impatto epidemiologico nell’ambito della
popolazione generale maschile e femminile e della cronicità che
caratterizza la maggior parte delle malattie urologiche, abbiamo pensato di
offrire ai Colleghi Medici di Medicina Generale questa rubrica come un utile
strumento di aggiornamento e di supporto pratico nella gestione del
paziente. Dedicare una rubrica urologica anche a non esperti del settore
deriva dalla consapevolezza che si tratta di malattie spesso aggravate da
un notevole impatto sulla qualità di vita del paziente stesso e della sua
famiglia. Proprio per questi motivi è necessario che il Medico di Medicina
Generale ne conosca le caratteristiche principali e sappia come affrontare il
paziente urologico nella pratica clinica. Il “management” può essere
complesso e non si limita al solo monitoraggio tramite la prescrizione di
esami, farmaci e presidi ma riguarda anche il trattamento di importanti
disturbi funzionali che ne possono derivare (in primis impotenza ed
incontinenza urinaria), rendendosi necessaria una conoscenza dei
principali meccanismi fisiopatologici alla base di queste alterazioni.
La rubrica dedicherà spazio ai principali disordini urologici che si
caratterizzano per il grande impatto socio-economico, dando spazio
alle novità diagnostiche e terapeutiche ed ai punti più controversi.
Mi permetto di aggiungere che un ampio respiro verrà dato agli argomenti
uro-oncologici, con un approccio multidisciplinare che permette di integrare
i vari punti di vista delle diverse specialità interessate alla gestione del
paziente.
Il coinvolgimento di numerose figure professionale, tra cui quella del
Medico di Medicina Generale, si colloca come un elemento fondamentale
sia nella fase diagnostico-terapeutica che di monitoraggio delle neoplasie
urologiche.
Lo scopo di questa rubrica non è solo quello di aggiornare ma anche di
rifornire il medico di medicina generale di algoritmi possibilmente semplici
che permettano una gestione ottimale del paziente urologico.
Alessandro Bertaccini
Segretario e Tesoriere
Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO)
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
36
Il carcinoma vescicale: quando sospettarlo e qual è
il ruolo del medico di Medicina Generale
Alessandro Bertaccini
Clinica Urologica
Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna
ntroduzione
I
L’epidemiologia della neoplasia vescicale nell’ambito della
popolazione mondiale, colloca
questo tumore al quarto posto
per incidenza fra gli uomini e
all’ottavo fra le donne con una
mortalità complessiva di 14.000
casi/anno [1].
Sebbene il suo trattamento sia
esclusivamente di pertinenza specialistica, il ruolo del medico di
medicina generale è cruciale nell’identificazione dei pazienti a rischio e nel riconoscere chi deve
essere inviato all’attenzione degli
urologi. Tutto ciò con l’intento di
individuare quanto prima gli istotipi ad alta malignità e ad evoluzione rapidissima cercando di
garantire una diagnosi precoce e
quindi una migliore prognosi.
È importante quindi individuare e
correlare gli elementi che derivano
da un’analisi dei fattori di rischio e
dei risultati dei test effettuati.
con sospetto
di tumore vescicale
Paziente
L’inquadramento del paziente
con sospetto di tumore vescicale
può essere complicato, poiché
molti dei sintomi riferiti oltre ad
associarsi a questa neoplasia sono
tipici di altre patologie benigne
delle vie urinarie. Inoltre, non
essendo stato ancora identificato
un test di screening per la neoplasia vescicale abbastanza specifico e
sensibile da fornire benefici clinici,
il sospetto di neoplasia si pone
nella maggior parte dei casi, solo e
se il paziente si rivolge al medico
di medicina generale lamentando
l’insorgenza di un sintomo specifico oppure per segnalare un valore
alterato in un esame eseguito.
Spesso si tratta del solo riscontro
di emazie nel sedimento urinario,
microematuria, altre volte invece il
quadro clinico assume maggior
significato in quanto il paziente
lamenta urine visibilmente ematiche (macroematuria).
I dati di letteratura riportano un’incidenza di neoplasia vescicale nel
25% dei pazienti affetti da macroematuria ed un’incidenza che oscilla
dall’1% al 10% nei pazienti che
presentano microematuria [2-4].
Nei casi di microematuria, il presupposto per impostare un iter
diagnostico finalizzato ad escludere la presenza di un tumore vescicale, si pone quando viene individuata la presenza di una media di
3 o più emazie per campo
(RBC/hpf) in almeno 2 dei 3 sedimenti urinari ottenuti dal secondo
getto mattutino di urine.
L’associazione tra la patologia neoplastica e la microematuria nei
pazienti asintomatici è stata riscontrata nel 9-18% [2, 5].
Questo è il motivo per cui viene
scoraggiato l’utilizzo dello stick
delle urine come test di screening, poichè
ogni
ulte-
Scripta
MEDICA
Volume 11 n. 1, 2008
37
riore valutazione mirata ad un
approfondimento diagnostico in
questi casi potrebbe rappresentare solo un costo senza benefici
reali per il paziente [2, 6, 7].
Questo non si deve necessariamente tradurre nell’ignorare il dato clinico, ma nel valutare tutti gli elementi inclusi anche i fattori prognostici ed altri parametri come la
proteinuria e la creatininemia che
possono giustificare la presenza di
microematuria con una patologia
renale. Non va comunque dimenticato che anche in questi casi se si
associano fattori di rischio per neo-
plasia urologica il paziente deve
necessariamente rivolgersi all’urologo. In ogni caso non sono ancora
stati del tutto chiariti i dettagli clinici che riguardano quale sia la
gestione nei casi di microematuria.
Attualmente viene raccomandato,
qualora si tratti di microematuria
significativa, di ripetere l’esame del
sedimento urinario entro 3-6 mesi
nei pazienti affetti da microematuria asintomatica ma con fattori di
rischio associati mentre ad un
anno per chi ha presentato un episodio isolato in assenza di fattori
prognostici negativi, sconsiglian-
do, in entrambi i casi, di esporsi
agli stessi nel futuro [8].
È stato infatti dimostrato come nei
pazienti di età superiore ai 40 anni,
fumatori, che abusano di analgesici, esposti a radiazioni ionizzanti a
livello della pelvi o ad agenti chimici e vernici, sia maggiore il
rischio di sviluppare un tumore
vescicale. Se il dato laboratoristico
viene confermato anche nei successivi controlli ed il paziente ha
più di 40 anni vale la pena eseguire una visita urologica.
Al contrario nei soggetti di età inferiore ai 40 anni che presentano
ALGORITMO DIAGNOSTICO - SOSPETTO DI NEOPLASIA VESCICALE
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
38
microematuria asintomatica in
assenza di fattori di rischio non si
deve procedere con ulteriori accertamenti ma solamente ad una
valutazione nel tempo [4, 9].
A supporto di ciò uno studio di
1930 pazienti con ematuria, in cui
solo 1 su 143 di età inferiore ai 40
anni ed affetto da microematuria
asintomatica, ha sviluppato una
neoplasia vescicale.
Nei casi di microematuria significativa associata ad una sintomatologia irritativa, si deve necessariamente sottoporre il paziente all’attenzione dello specialista soprattutto se persiste dopo terapia antibiotica. Infatti generalmente questa neoplasia ha esordio asintomatico ma può coesistere con la disuria ed a frequenti episodi di infezioni alle vie urinarie [2].
Recenti studi hanno dimostrato
un’incidenza doppia di neoplasie
vescicali in pazienti affetti da
microematuria sintomatica rispetto alla restante popolazione
(10,5% contro il 5%) [8].
Meno controversa appare la gestione del paziente con macroematuria
che pone quasi sempre il sospetto
di una neoplasia urologica (25%
dei casi) [3, 4]. Infatti in questi
pazienti l’assenza di fattori di
rischio non preclude ulteriori
approfondimenti diagnostici e la
richiesta di una visita specialistica.
Un’eccezione può essere rappresentata dalle donne di età inferiore
ai 40 anni che riferiscono un episodio di macroematuria contemporanea ad un’infezione urinaria sintomatica confermata dalla positività
dell’urinocoltura e risoltasi dopo
terapia antibiotica [2]. Al contrario
un episodio di macro-ematuria
anche se risoltosi dopo presunta
infezione urinaria in presenza di
urinocoltura negativa non può farci
esimere da eseguire approfondimenti tenendo in considerazione
che il sanguinamento ha spesso andamento intermittente/remittente.
Tutto ciò vale anche per i pazienti
in terapia con farmaci anticoagulanti dove la macroematuria non è
comunque giustificata e rappresenta un marcatore di patologia [2].
Un altro scenario dove non necessariamente si deve sospettare una
patologia maligna, è la presenza di
urine ematiche successive ad
un’intensa attività sportiva. Di
fronte al sospetto di neoplasia
vescicale e/o per fare una diagnosi
differenziale con un’ eventuale sintomatologia “irritativi” di altra origine, è necessario inviare il paziente allo specialista per eseguire
appropriati approfondimenti diagnostici quali ecografia reno-vescicale, esame citologico urinario su 3
campioni, cistoscopia ed URO-TC
(oppure urografia tradizionale).
In ogni caso una buona selezione
dei pazienti, permette da una
parte di ridurre le ansie di coloro
che per qualche crocetta di sangue rilevato nello stick delle urine
si rivolgono subito all’urologo
eseguendo spesso inutili test, e
dall’altra, di diagnosticare precocemente patologie neoplastiche
potenzialmente curabili.
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Scripta
Scripta MM EE DD II CC AA
Volume
Volume 11,
10, n.
n. 1,
1, 2008
2007
39
39
ISPLAD 2007
2° Congresso Internazionale
di Dermatologia Plastica
La Dermatologia Plastica si occupa di tutto ciò che riguarda l’invecchiamento cutaneo, le calvizie e i
defluvium, le ipertricosi, le melanosi, la vitiligine, l’acne e i suoi postumi, le smagliature, la cellulite, le cicatrici e
i cheloidi, e altri inestetismi cutanei, ma non come semplici inestetismi: il dermatologo plastico, come specialista d’organo, deve “preoccuparsi” e interessarsi della cute che invecchia nell’interezza di tutte le sue problematiche e cercare i risultati con mezzi che prediligono l’aspetto conservativo, biostimolante, riducendo al massimo la distruzione cutanea.
Occuparsi di invecchiamento cutaneo deve significare, inevitabilmente, occuparsi anche di ipercheratosi,
discheratosi e altre precancerosi che caratterizzano una pelle “matura” e che spesso sfociano in vera e propria
patologia oncologica. La dermatologia plastica è in questo modo anche “prevenzione” e può svolgere un reale
ruolo etico e sociale.
Ampio consenso, di pubblico, stampa e mondo scientifico, ha riscosso il II
Congresso Internazionale di Dermatologia Plastica e Oncologica, organizzato
dall’ISPLAD (International-Italian Society of Plastic-Aesthetic and Oncologic
Dermatology) a Milano dal 6 all’8 marzo 2008.
L’edizione ha puntato l’attenzione non solo sui trattamenti estetici, ma soprattutto sulle prevenzione delle malattie cutanee, in particolare oncologiche: scelta premiata con un afflusso di oltre mille tra dermatologi e specialisti di altre
discipline mediche e un grande interesse da parte della stampa nazionale.
Circa 70 i giornalisti accreditati, e importante la presenza di Radio 24, Odeon
Tv e RAI 2.
Quest’ultima, con tre collegamenti in diretta, nella seconda giornata congressuale, dalle 15 alle 16, ha permesso a molti telespettatori di vedere in anteprima alcune tra le principali novità presentate.
Ancora oggi, a distanza di più di un mese, le pagine di mensili e settimanali risuonano dei temi trattati in sede congressuale, segno dell’interesse che hanno suscitato nel grande pubblico oltre che presso la comunità scientifica.
ISPLAD, forte di questi risultati, non si ferma, pronta ad accogliere e vincere nuove sfide, dando impulso a un’opera di informazione e di sensibilizzazione della popolazione verso un approccio differente alla salute cutanea.
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
40
Patologie cutanee da tessuti
Paolo D. Pigatto, Lucretia A. Frasin
Istituto di Scienze Dermatologiche FRCCS , Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli Regina Elena Mlano
Introduzione
La cute ha un ruolo fondamentale nel proteggere l’organismo umano
dall’ambiente esterno, tanto è vero che la
vita non è possibile quando ampie aree
del mantello cutaneo sono gravemente
danneggiate, come si verifica ad esempio
per i grandi ustionati. Questo ruolo globale di protezione si esplica in diverse
modalità che, considerate singolarmente,
costituiscono altrettante funzioni della
cute. Le stesse funzioni protettive sono
espletate dagli indumenti che da tempi
remoti vengono utilizzati dall’uomo
sovrapposti direttamente sulla cute in
ogni periodo della sua vita.
Durante i primi periodi di vita sulla
terra l’uomo si è coperto con pelli di
animali utili per proteggersi dal freddo
notturno o invernale. Il periodo e le
ragioni in cui gli uomini hanno cominciato a vestirsi intrecciando fibre vegetali ed animali, rimangono ancora oggi
sconosciuti. Per millenni gli uomini
hanno utilizzato fibre naturali di tipo
cellulosico e quindi di derivazione vegetale (cotone, canapa e lino) e di tipo
proteico e pertanto di derivazione animale (lana e seta). Alla fine del secolo
scorso i chimici sono stati in grado di
copiare i polimeri naturali in forma
fibrosa e di formare polimeri da sostanze chimiche semplici arrivando a sintetizzarne ben 21 tipi di fibre differenti e
in ogni modo ben distinte le une dalle
altre (fibre artificiali).
Le fibre sintetiche sono ottenute da
polimeri sintetici lineari di condensazione (poliammidi, poliesteri, etc) e di
addizione (acriliche). Questi polimeri
formano “la spina dorsale” della fibra:
essa è però costituita da numerosi prodotti chimici che si formano come fattori collaterali nel processo di polimerizzazione e con la presenza di numerosissimi additivi chimici.
Molti di questi additivi sono aggiunti
per conferire alcune caratteristiche ai
singoli tessuti quali l’idrorepellenza,
l’ingualcibilità, la resistenza alle fiamme
e l’anti-staticità. Tutti questi procedimenti vengono definiti genericamente
finissaggio.
sostanze tossiche
Cute epresenti
nei tessuti
La valutazione dei rischi legati
alla esposizione della cute a sostanze tossiche, cancerogene, presenti nei prodotti
tessili sono state oggetto di numerose
ricerche a livello internazionale ma non
hanno ancora permesso di definire correlazioni dimostrabili scientificamente con
alcune patologie croniche. I riferimenti
scientifici che hanno permesso l’individuazione di sostanze pericolose da eliminare tramite le norme o tramite marchi
volontari sono di tipo precauzionale e
fanno riferimento a pubblicazioni scientifiche relative all’esposizione durante il
processo produttivo o al loro impatto
sull’ambiente (1-10).
Manca tuttora una formulazione condivisa dal mondo scientifico di un modello
per la valutazione dell’esposizione della
cute ai prodotti tessili indossati e uno
studio accurato sulle sostanze che effettivamente rimangono nel prodotto tessile
finale.
Non vi è un flusso continuo, aggiornato
ed utilizzabile dei i risultati della ricerca
scientifica sulle esposizioni professionali
nel settore tessile ed i possibili effetti di
quelle sostanze sui consumatori e mancano professionalità in grado di integrare le
conoscenze di carattere sanitario con
quelle relative ai prodotti tessili (11-14).
Le correlazioni tra le sostanze irritanti e
sensibilizzanti presenti nei prodotti tessili e patologie quali le dermatiti da contatto irritanti acute e croniche (DIC), le
dermatiti allergiche da contatto (DAC),
le esacerbazione delle dermatiti atopiche e le orticarie da contatto sono state
invece maggiormente studiate soprattutto in Italia grazie al contributo del
Gruppo Italiano Ricerca Dermatiti da
Contatto e Ambientali (GIRDCA poi
divenuta SIDAPA) che ha studiato oltre
42.000 casi negli anni 1984-1993 (5).
In tale studio si stimava, che la Dermatite
Allergica da Contatto (DAC) da indumenti rappresentasse circa il 10% delle
DAC extraprofessionali, dati confermati
da uno studio effettuato dall’Associazione
Tessile e Salute utilizzando pubblicazioni
scientifiche della Società Italiana di
Dermatologia Allergologica Professionale
e Ambientale (SIDAPA).
La stessa SIDAPA calcola che oggi, in
Italia, siano circa 60.000 i soggetti sensibilizzati da sostanze presenti nei tessuti;
tale aumento sembra dovuto sia al
miglioramento degli strumenti e dei criteri di diagnosi sia all’aumento di patologie predisponenti soprattutto nelle fasce
giovanili. Nel contempo, tali prevalenze
possono essere sottostimate, perché pur
migliorando la diagnosi di dermatite da
contatto con tessuti, ancora persistono
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
41
stesso tipo ma utilizzate da
diversi produttori possono
variare per l’uso maggiore o
minore di additivi e di sostanze
chimiche. Gli indumenti devono
sovrapporsi in modo armonico
al mantello cutaneo aiutando le
varie attività fisiologiche della
cute, agendo in modo complementare: per essere buono un
tessuto deve proteggere senza
modificare in modo negativo la
qualità del rapporto cuteambiente esterno. Attraverso il
contatto diretto con la pelle, i
Figura 1. Dermatite da contatto in sede ascellare da tessuti (notare il tessuti possono prevenire alcune
risparmio della parte più profonda del cavo ascellare).
patologie (cosiddette “fibre
intelligenti” per esempio, per
prevenire danni da agenti esterni), migliorare patologie esistenti (tessuti elastocompressivi per
le patologie venose) o al contrario provocare patologie della
cute. Dal punto di vista clinico
le dermatiti causate da contatto
con gli abiti possono variare per
aspetto e/o localizzazione.
Generalmente il quadro clinico
delle dermatiti connesse ai prodotti tessili è rappresentato dalla
dermatite allergica da contatto
(DAC) ma nella letteratura sono
state descritte diverse varianti cliniche come risulta dalla Tabella 1.
Le zone dove gli abiti sono più a
stretto contatto con la pelle sono
ibre tessili e indumenti
le più esposte al rischio di sviFigura 2. Tipico aspetto della dermatite da contatto da tessuti luppare una DAC. In genere è
Gli indumenti sono interessamento delle aree realmente a contatto con i tessuti in localizzata nelle regioni non
soggetto di sesso femminile ed obeso.
protette dagli indumenti intimi
confezionati con pezze di tessu(Gentile concessione del Prof. Paolo Lisi, Università di Perugia)
ed è particolarmente presente
to che vengono colorate o stamalle ascelle (con il risparmio del
pate, quindi trattate con varie
sostanze chimiche.
fibre sono conosciute per la loro morbi- cavo), al collo, nella fossa antecubitale o
Le singole fibre presentano poi caratte- dezza (Cashmere) mentre altre sono cavo popliteo, al torace ed al tronco
ristiche di superficie notevolmente dif- grossolane e ruvide come la lana grezza (Figure 1 e 2). Quando la dermatite è
ferenti. Il nylon e le fibre in poliestere e la fibra di vetro. Le medesime fibre causata dalle calze, le più interessate
sono lisci, mentre il rayon, il cotone e il prodotte persino dallo stesso gruppo sono le regioni posteriore ed interna
poliestere trattato con agenti alcalini industriale possono variare nelle qualità delle cosce, la fossa poplitea ed il dorso
presentano superfici irregolari. Alcune fisiche e a maggior ragione fibre dello dei piedi. Gli indumenti intimi più in
numerose difficoltà tecniche relativamente agli strumenti e ai criteri di diagnosi.
I punti critici sono che l’indagine
anamnestica è, in genere, di
modesto aiuto dal momento che
manifestazioni cliniche possono
essere atipiche con quadri non
eczematosi.
Scarse sono le indicazioni bibliografiche e le informazioni
merceologiche sugli allergeni e
alcuni coloranti non sono elencati nel Color Index o mancano
di formula chimica nota oppure
hanno differenti nomi commerciali; non si conoscono gli effetti, nel prodotto finito, dei composti che si formano durante il
processo produttivo, sui singoli
potenziali allergeni.
I test diagnostici di routine sono
poi eseguiti solo con alcuni allergeni e può essere difficile verificare la rilevanza delle positività
riscontrate ai patch test.
Da ultimo gli studi di prevalenza
sulle dermatiti da contatto sono
effettuati solo nella popolazione
che afferisce agli ambulatori dermatologici, per cui non si conosce l’attuale reale dimensione del
problema sull’intero territorio
nazionale.
F
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MEDICA
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causa sono le calze nel sesso femminile
mentre i calzini difficilmente inducono
allergia nei maschi. Al secondo posto si
segnala una discreta frequenza di allergia ai coloranti delle mutande, mentre i
costumi da bagno come tali sono molto
raramente in causa nelle dermatiti da
indumenti intimi. Quindi sono suggestivi per una DAC da indumenti l’interessamento di aree non protette dalla
biancheria intima, aree a contatto con
parti “speciali” di biancheria intima,
aree a contatto con fodere, aree di maggior sudorazione e aree di maggior attrito con indumenti. La reale incidenza di
tali patologie è poco conosciuta; i dati
attualmente disponibili suggeriscono
che questa dermatite sia più comune di
quello che precedentemente si credeva,
cioè l’interessamento di una piccola
parte della popolazione, soprattutto
quella femminile tra i 24 e 34 anni ma
sono descritti anche numerosi casi in
età avanzata. In un’indagine epidemiologica GIRDCA sulle dermatiti da contatto in Italia (1994-1998) Lisi P et al.
(5), tra le cause di dermatite da contatto di natura extraprofessionale un ruolo
Dermatite da contatto allergica
Dermatite da contatto irritante
Orticaria da contatto
Dermatite da contatto come eritema
multiforme
Dermatite da contatto tipo purpurica
Dermatite da contatto tipo
pigmentaria
Dermatite da contatto tipo pustolare
Eritroderma
Dermatite da contatto come lichen
amiloidosico
Dermatite fototossica da tessuti
Miliaria
Follicolite
Orticaria da pressione
Dermatite atopica
Tabella 1. Dermatiti da tessuti.
Figura 3. Prodotti in causa nella dermatite da contatto extraprofessionale.
importante viene dato all’abbigliamento
(Figura 3).
L’incidenza delle dermopatie allergiche
da tessuti non è aumentata negli ultimi
anni, nonostante il notevole uso di tessuti provenienti dall’area extra UE,
soprattutto da paesi dove non esiste una
normativa sul controllo delle sostanze
immesse nel ciclo produttivo e dove le
tecnologie utilizzate sono vetuste, riducendo il grado di adesività degli apteni.
Molti consumatori dichiarano problemi
cutanei vari, asserendo di essere in modo
non evidenziabile allergici, mentre in
realtà presentano semplicemente solo
irritazione al tessuto: l’evento negativo
più frequente prodotto da un tessuto è
quella sensazione di sconforto che il
calore, la scarsa circolazione d’aria all’interno del vestito e l’eccesso di sudore che
si raccoglie sulla superficie cutanea induce un tipico fastidio cutaneo.
Le singole fibre possono indurre specifici e differenti quadri clinici:
1) La lana causa irritazione acuta e cronica, aggrava la dermatite atopica e
induce dermatite allergica da contatto (DAC) e orticaria da contatto.
2) La seta è in grado di aggravare una
dermatite atopica e raramente induce
orticaria da contatto. Non sono inve-
ce mai state notate reazioni allergiche
da contatto e neppure reazioni irritative.
3) Il Nylon può causare DAC e orticaria
da contatto.
4) Le fibre di vetro non vengono usate
per vestiti normali ma gli indumenti
possono essere occasionalmente contaminati dal lavaggio degli indumenti in macchine lavatrici che hanno
lavato delle tende.
5) Lo Spandex è utilizzato soprattutto
nei reggiseni e lingerie e determina
soltanto DAC.
6) La gomma è contenuta in numerosi
prodotti e per questo motivo costituisce una causa frequente d’allergia.
Pertanto considerando tutte le numerose fibre disponibili per l’uso negli abiti
solo 2 naturali e 4 sintetiche sono responsabili di problemi dermatologici.
Le manifestazioni dermatologiche causate da contatto con gli abiti sono così
attribuite a sostanze chimiche e coloranti che vengono aggiunti alle fibre tessili durante la loro manifattura e assemblaggio in indumenti. In particolare, gli
agenti responsabili sono rappresentati
da prodotti per le tinture e il finissaggio,
i metalli, la gomma e le colle.
Occasionalmente anche gli sbiancanti
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ottici, i biocidi, i materiali ignifughi ed
altri agenti sono responsabili dell’insorgenza del quadro clinico cutaneo. I
coloranti sono le sostanze chimiche più
usate e possono essere classificate in
acidi, diretti, reattivi, dispersi e vengono legati al mordente per diffondere più
facilmente tra le fibre. Dal punto di
vista della classe chimica il 40% dei
coloranti tessili sono azoici ma non
tutti sono altamente allergizzanti. Tra
questi coloranti quelli che più facilmente determinano sensibilizzazioni
appartengono al gruppo dei dispersi:
questi formano legami stabili con le
fibre naturali, si legano meno stabilmente con le fibre sintetiche ed essendo
liposolubili penetrano bene attraverso
la cute. I dati epidemiologici riportano
la loro prevalenza di sensibilizzazione
tra 3,1% e 5,2%. In particolare, i coloranti blu dispersi sono stati selezionati
nel 2000 come “allergeni da contatto
dell’anno” anche se la diagnosi di allergia ai coloranti dispersi è difficile per le
numerose sostanze impiegate e la difficoltà ad avere un colorante come
marker. In passato si riteneva che la
PFD fosse una spia attendibile della
sensibilizzazione a coloranti in genere e
a quelli azoici in modo particolare ma
questo dato non è stato più confermato. Altro gruppo responsabile di allergie
agli indumenti sono le resine, usate per
dare certe proprietà specifiche ai tessuti come sofficità, resistenza ai colori,
etc. L’incidenza di sensibilizzazione alle
resine nella popolazione generale è
poco accertata e dovrebbe essere più
bassa rispetto ai coloranti.
Come sostanza mordente il più impiegato è il bicromato di potassio ma
anche con analoga funzione vengono
impiegati coloranti metallo complessi
che contengono cobalto o nichel all’interno della molecola. Gli strumenti a
nostra disposizione per una appropriata diagnosi di una sospetta DAC con
tessuti di indumenti sono: anamnesi,
valutazione clinica delle localizzazioni,
i patch test, l’esame merceologico e
alcune metodiche analitiche di laboratorio. L’esecuzione del patch test è lo
strumento fondamentale per la conferma della diagnosi e per l’individuazione
delle sostanze responsabili. I patch test
possono essere effettuati con serie standard, serie addizionali, miscele di coloranti o indumenti sospettati. L’esame
merceologico valuta l’esame dell’etichetta del capo incriminato che può
fornire utili indicazioni mentre le metodiche analitiche possono essere utili per
verificare la presenza di resine di finissaggio a base di formaldeide e per individuare i coloranti realmente presenti.
Per quanto detto sopra, si ritiene che l’istituzione di un sistema di sorveglianza
(banca dati delle sostanze, osservatorio
dermatologico) possa costituire uno
strumento valido e fattibile per la protezione della salute dei lavoratori e dei
consumatori attraverso la determinazione della prevalenza delle dermatiti
da contatto da prodotti tessili sul territorio nazionale, di un sistema di controllo nei prodotti tessili, ad iniziare da
quelli importati (prodotti in paesi con
minori o nulle restrizioni normative)
sia delle sostanze vietate dalle normative vigenti, sia di quelle sostanze pericolose e/o sensibilizzanti, non normate
ma fatte proprie da alcuni paesi europei
e dai maggiori marchi volontari.
ibliografia
B
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Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 1, 2008
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Più messaggi corretti o fregature quando si parla di capelli?
Cronaca del primo dibattito aperto organizzato dalla IHRF
e proposta di un decalogo per chi perde i capelli.
Fabio Rinaldi
International Hair Research Foundation, Milano
Sembrerebbe proprio che prevalgano le
fregature, o quantomeno messaggi tendenziosi e poco chiari che riescano a
“pilotare” le persone che hanno un problema di capelli verso scelte non sempre
giuste. È quanto emerso dal dibattito
aperto che si è tenuto il 15 marzo al teatro San Babila di Milano, organizzato
dalla IHRF.
Il Dottor Fabio Rinaldi (Milano) ha condotto questa specie di “talk-show” che aveva lo scopo di
dare delle indicazioni per orientarsi nel mondo tricologico, ed e stato distribuito un decalogo di regole che possono fornire delle indicazioni precise, magari per cercare di
non cadere in trappole spesso pericolose (che può essere
richiesto gratuitamente a [email protected]). Rinaldi, da
dermatologo, è partito da una premessa che spesso ricorda: la colpa del proliferare di tanti “centri
tricologici” non proprio seri, di tante
figure improvvisate e
impreparate, è anche
dell’atteggiamento
della dermatologia. È molto frequente ascoltare persone che si
lamentano di aver consultato un
dermatologo che si è disinteressato completamente del problema dei capelli, limitandosi a prescrivere uno shampoo e a dire
che i capelli non si possono cura-
re. Lo scopo della IHRF è anche quello di
richiamare un po’ di più l’attenzione del dermatologo, il più specifico competente delle
patologie tricologiche per via dell’indirizzo
di studio universitario, verso il problema dei
capelli, e ad avere un po’ più rispetto per chi
soffre a causa di una forma di alopecia.
Le esperienze degli ospiti stranieri (Dottor
Mangubat dagli USA, Dottor Farjo dalla Gran
Bretagna, Dottor Jimenez dalla Spagna) ci
hanno dimostrato che il problema è uguale in tutto il mondo:
le riviste, le televisioni, i siti internet di quelle nazioni sono
pieni di comunicazioni di cure “miracolose” esattamente come
in Italia. In Spagna, per esempio, è
in vendita su internet un apparecchio che emette dei raggi non precisati che possono far ricrescere i
capelli in tre settimane, al bassissimo (?) costo di 500 euro.
Ovviamente non esiste nessuna
prova scientifica, ma pare che se
ne vendano parecchi!
La spiegazione è semplice, come
ha ricordato la Dottoressa Nicla
Sambvani (Milano): l’ansia e la paura di perdere
i capelli porta a fidarsi
di qualsiasi promessa
che faccia illudere chi sa
che le cure mediche,
invece, i miracoli non li
fanno. Tutto questo
comporta che in molte
persone l’ansia di non
poter controllare la propria calvizie aggrava la
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caduta dei capelli, innecialisti che si occupano di
scando una vera e propria
capelli per cercare di ottereazione psicosomatica.
nere il risultato migliore,
Colpa della disinformacompreso il lavoro di un
zione, delle scarse conoacconciatore che contriscenze dei dati scientifici,
buisce a rendere più belli i
della volontà di speculacapelli e a sfruttarli al
re. Il Dottor Piero Rosati
meglio per avere alla fine
(Ferrara) ha fatto esempi
una chioma ancora più
concreti nel campo dei
piacevole. Alfredo Rubertrapianti dei capelli:
telli, in rappresentanza
molte persone che si
proprio degli acconciatori,
rivolgono a lui per effetha spiegato alcuni “trucchi”
tuare un microautotra- Alcuni dei partecipanti al dibattito del 15 marzo 2008 al Teatro San Babila di Milano. del suo mestiere proprio
pianto di capelli hanno Da sinistra Antonio Mangubat, Bessam Farjo, Vincenzo Gambino, Fabio Rinaldi, per ottenere questi risultadelle aspettative sul risul- Francisco Jimenez Acosta, Piero Rosati, Elisabetta Sorbellini.
ti, soprattutto nelle donne.
tato finale che non sono realistiche, e che sono frutto di infor- La Dottoressa Riccarda Serri (Milano) ha evidenziato quanti
mazioni scorrette spesso lette anche su giornali importanti. progressi abbia fatto la dematologia negli ultimi 20 anni nella
Addirittura Rosati si è rivolto ai giornalisti presenti per chie- cura dei capelli: ha ricordato l’esperienza del padre, il
dere di verificare le notizie. Un esempio su tutti: l’anno scor- Professor Serri uno dei più illustri e autorevoli dermatologi
so l’autorevole trasmissione Quark (RAI tre) ha trasmesso un italiani di tutti i tempi, che insegnava che non esistevano
servizio annunciando con grande enfasi la scoperta scientifi- terapie utili per curare la calvizie e la caduta dei capelli. La
ca rivoluzionaria di un gruppo di chirurgia plastica scoperta dell’efficacia del minoxidil, della finasteride, della
dell’Istituto dei Tumori di una importante città del Nord dutasteride, dei fattori di crescita, hanno dimostrato che oggi
Italia (volutamente in questa sede non forniamo dettagli per è possibile arrestare la progressione della calvizie sia negli
identificare né il medico né l’Ospedale) in grado di clonare le uomini che nelle donne.
cellule dei bulbi dei capelli, e quindi di effettuare innesti di Il Dottor Alberto Donzelli (Milano) in qualità di specialista in
migliaia di capelli. La notizia non è scientificamente provata, scienza dell’alimentazione ha addirittura ricordato che esistomai sono stati realizzati interventi di questo tipo, ma molta no diete alimentari specifiche che possono ridurre la quantità
gente si è rivolta al Chirurgo di questo istituto che ha poi pro- di testosterone nell’organismo.
posto interventi tradizionali. In sala era presente una signora Si è parlato di messaggi scorretti, ma anche di messaggi veri,
che è “cascata nella rete” e ha raccontato e denunciato questa del fatto che esiste chi specula, ma ci sono anche tantissimi
esperienza. Tra l’altro, subito dopo la trasmissione, la IHRF professionisti seri che studiano, compiono ricerche, si dediaveva chiesto alla segreteria di Quark dei chiarimenti, chie- cano a questo campo della medicina.
dendo una precisazione. Ovviamente la risposta della Rai è Ci sono aziende (o laboratori non certificati che preparano
stata negativa.
chissà cosa in un sottoscala e che vendono a prezzi esorbiUn altro esempio lo ha portato il Dottor Vincenzo Gambino tanti, o a volte bassissimi pur di “accalappiarsi” il cliente), ma
(Milano), sempre parlando di trapianti di capelli: molte per- anche aziende che producono farmaci, cosmetici, integratori
sone credono che sia possibile effettuare un trapianto prele- frutto di studi seri e costosi, e che vengono commercializzati
vando dalla zona della nuca tante piccolissime isole di 2 mil- solo dopo aver dimostrato la loro efficacia ed escluso rischi
limetri di capelli intatti, che in questo modo permetterebbe- per la salute. L’invito per tutti è quello di cercare di informarro di non lasciare cicatrici, e di innestarle nella zona calva si ma con senso critico, di non credere a messaggi “esplosivi e
ottenendo risultati importanti. Questa tecnica non è reale: rivoluzionari”, di individuare professionisti credibili nelle
spesso le isole prelevate in questo modo non contengono categorie che si occupano del problema: il medico, il farmabulbi integri e il risultato finale dell’intervento non è esteti- cista, il parrucchiere.
camente bello. Molti giornali di divulgazione medica, però, Ognuno, per la sua competenza potrà dare informazioni prehanno parlato di questa tecnica, probabilmente senza verifi- ziose. In questa lista non c’è il tricologo, che in Italia non è
carne la correttezza. Un’altra segnalazione molto interessante una figura professionale riconosciuta dal punto di vista medidi Gambino è stata la necessità di cooperazione tra i vari spe- co, né legislativo!
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DECALOGO DI CONSIGLI UTILI PER CHI PERDE I CAPELLI
per cercare di orientarsi nella scelta di una cura corretta
a cura della
INTERNATIONAL HAIR RESEARCH FOUNDATION
IHRF
1–
I capelli sono una parte del corpo umano: la loro salute dipende dallo stato di salute generale dell’organismo. Quando i capelli cadono, quando la cute del suoi capelluto è alterata, quando i capelli diventano fragili o brutti significa che qualcosa nel corpo non va come dovrebbe: spesso questo
è un segnale che andrebbe valutato dal punto di vista medico. La prima regola è che se i capelli
o il cuoio capelluto hanno un problema bisognerebbe consultare un medico per capire cosa succede e cercare di trovare un rimedio. Il proprio medico di fiducia, il dermatologo, l’endocrinologo,
il ginecologo, i medici esperti in medicina estetica sono normalmente i professionisti che sono più
spesso chiamati ad affrontare un problema tricologico.
2–
Le conoscenze scientifiche oggigiorno si diffondono velocemente: le cure che possono essere
utili per i capelli e la pelle sono a disposizione di tutti i medici che si aggiornano sull’argomento.
Non esistono terapie miracolose, segrete, esclusive note solo a qualcuno particolarmente “illuminato”. Non sono mai credibili i messaggi miracolistici che vantano cure definitive e risolutive
della calvizie.
3–
Ci sono varie categorie di professionisti che si occupano seriamente di capelli oltre ai medici:
* i farmacisti che spesso possono dare il primo consiglio per prendersi cura di un problema di
capelli o del cuoio capelluto
* i parrucchieri che quotidianamente trattano i capelli di uomini e donne e che, con la loro esperienza, sono in grado di suggerire rimedi estetici ma anche consigli sullo stato di salute dei capelli
Medici, farmacisti, parrucchieri, ognuno nel proprio ambito di competenza e preparazione, svolge
un lavoro accurato dopo anni di studi o di corsi di formazione specifica. Presunti “esperti” per
imprecisati meriti o studi non definiti non hanno nessuna qualifica per curare le malattie dei
capelli. Ovviamente esistono eccezioni!
4–
Non esistono altre figure professionali riconosciute dalla legge per curare o trattare i capelli e il
cuoio capelluto. Non esiste la figura del tricologo in senso lato: un dermatologo potrebbe essere
definito uno specialista in tricologia se si occupa in particolare di capelli, in virtù degli anni di
studio della scuola di specializzazione in Dermatologia in Università.
5–
Non esistono centri di TRICOLOGIA definibili come centri di specialisti del settore dei capelli se
non quelli dove dei medici e dei dermatologi svolgono la propria opera. Spesso si tratta di luoghi
gestiti da personale NON medico dove si effettuano prestazioni di tipo medico (in modo illegale),
o dove dei medici purtroppo si prestano a consulenze quasi mai “libere”.
6–
Non è vero che “solo il pavimento ferma la caduta dei capelli”: è una fastidiosa battuta ormai superata, e che non rispetta il disagio di tantissime persone. Oggigiorno esistono terapie mediche e
cosmetiche utili per ottenere dei risultati terapeutici, cure che sono frutto di ricerche e di studio
da parte di molte aziende serie: è un peccato perdere tempo con cure empiriche non supportate
da nessuno studio scientifico ma propagandate solo con testimonial famosi pagate a suon di milioni di euro, o con subdoli messaggi non controllabili che illudono le speranze magari via internet.
Tutte le novità che la scienza ci offre ormai sempre più di frequente sono frutto di ricerche molto
accurate, e che vengono divulgate solo dopo la certezza dell’efficacia e della loro sicurezza.
7–
Come per qualsiasi altra alterazione dello stato di salute di una parte del corpo, ogni situazione
richiede una diagnosi e una cura specifica. Non esistono cure universali e soprattutto tutte le
terapie utili non hanno costi esagerati: non hanno senso cure che costano migliaia di euro, shampoo che “disostruiscono i follicoli e li fanno respirare”non esistono “macchine” che emettono
Scripta
MEDICA
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raggi miracolosi. Le conoscenze scientifiche attuali non hanno mai dimostrato la reale efficacia
di molte di queste proposte alternative ma, anzi, spesso il loro potenziale rischio per la salute.
8–
Qualsiasi cura proposta per una forma di alopecia deve essere motivata in base alla diagnosi clinica o dei risultati di esami specifici di controllo, spiegata in tutti i suoi possibili effetti positivi
e negativi (i rischi derivati dall’uso di un farmaco), indicando il tempo previsto per la cura e la
necessità di eventuali visite successive. In caso di cure che presentano un rischio per la salute
o di trattamenti con strumenti particolari il medico deve far firmare al suo paziente uno specifico consenso informato.
9–
I mezzi di informazione svolgono un ruolo fondamentale per diffondere le notizie scientifiche e
mediche: attenzione, però, non tutte le fonti sono “autonome”. È indispensabile un senso critico
molto attento, per cercare di non cadere in trappole costruite con grande arte: tanto più il messaggio è allettante, tanto più di solito nasconde una vera “bufala”.
10 – I capelli si curano con i farmaci, con certi cosmetici, con l’attenzione a stili di vita corretti (alimentazione, poco sole, riduzione del fumo, igiene accurata, controllo dello stress).
I cosmetici per i capelli o i trattamenti estetici eseguiti con prodotti di buona qualità da professionisti preparati non sono mai causa di problemi gravi di caduta dei capelli.
COME ORIENTARSI NELLA “GIUNGLA”
secondo le conoscenze della dermatologia e della cosmetologia moderna.
* NON È VERO che lavare i capelli di frequente fa male (perché non cascano i peli del barba o del
resto del corpo facendo una doccia al giorno?)
* NON È VERO che i bulbi vengono soffocati dal sebo, e che si deve ripulire il follicolo pilifero (se no
perché farebbe male lavare i capelli?).
* NON È VERO che esistono cure segrete che i medici si rifiutano di usare per motivi imprecisati
(sarebbero stupidi, tutti approfitterebbero di sostanze utili per svolgere un lavoro corretto).
Qualsiasi idea sensata, qualsiasi formula efficace può essere brevettata e venduta con buon
interesse di aziende e medici e farmacisti!
* NON È VERO che non esistono cure efficaci per la calvizie di uomini e donne, anche se purtroppo
questa è un’affermazione che spesso fanno proprio dei medici o dei farmacisti.
* NON È VERO che il trapianto dei capelli dà risultati brutti, o che non è utile per le donne: mediamente è una tecnica efficace, pur con tutti i limiti di un intervento chirurgico.
* NON È VERO che i parrucchieri sono persone impreparate: sempre più questi professionisti seguono corsi di aggiornamento e perfezionamento e possono essere tra i primi ad indicare la necessità di curare i capelli. Senza dimenticare che la bellezza della chioma è di pertinenza proprio
dei parrucchieri!
* NON È VERO che una cura efficace debba essere molto costosa, ma non è neanche vero che dei
prodotti efficaci e testati scientificamente possano costare troppo poco: bisogna diffidare di
imitazioni particolarmente economiche, o di soluzioni alternative “che hanno la stessa efficacia
ma costano meno della metà”. La maggior parte delle aziende serie farmaceutiche o cosmetiche non fa beneficenza, ma studia attentamente i costi del proprio prodotto!
* NON si devono firmare contratti capestro che obblighino ad effettuare cicli di trattamenti (raramente in questi contratti si parla di cure mediche, terapie, perché la legge lo vieta!!) a costi
esorbitanti. Accettare una cura che richieda più sedute non vuole dire vincolarsi con obblighi
che non hanno nessun senso medico!
* È VERO che un problema di capelli (estetico o patologico) deve essere affrontato il più precocemente possibile, consultando un medico (e a maggior ragione uno specialista del settore) o
facendosi consigliare dal farmacista o dal proprio parrucchiere. Se non si è certi di essere in
presenza di un medico laureato e specialista varrebbe sempre la regola di farsi mostrare un
documento (certificato di laurea, tesserino dell’Ordine dei Medici), così come i farmacisti laureati devono indossare l’apposito stemma di riconoscimento!
Volume 11, n. 1, 2008
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Vol. 11 N° 1 - Salute per tutti