Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766): “Se è vero che la pittura adopera per le sue imitazioni mezzi o segni completamente diversi da quelli della poesia; ovvero quella figure e colori nello spazio, mentre questa suoni articolati nel tempo; e se i segni devono avere indubbiamente un rapporto adeguato con il designato, allora i segni ordinati l’uno accanto all’altro possono a loro volta avere solo oggetti esistenti l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, mentre segni che si susseguono possono esprimere oggetti che si susseguono o le cui parti si susseguono. Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766): “Oggetti che esistono l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, si chiamano corpi. Di conseguenza sono i corpi, con le loro qualità visibili, i veri oggetti della pittura. Oggetti che si susseguono l’un l’altro, o le cui parti si susseguono, si chiamano in generale azioni. Di conseguenza le azioni sono i veri oggetti della poesia. […] È dunque certo: la successione temporale è l’ambito del poeta, così come lo spazio è l’ambito del pittore. Mettere due momenti necessariamente lontani nello stesso quadro […] è un’intrusione del pittore nell’ambito del poeta […]. Enumerare al lettore passo dopo passo le molte parti o cose che in natura devo necessariamente vedere d’un tratto […] è un’intrusione del poeta nell’ambito del pittore”. Gérard Genette, La letteratura e lo spazio (1969): “Può sembrare paradossale parlare di spazio a proposito della letteratura: apparentemente, infatti, il modo di esistenza di un’opera letteraria è essenzialmente temporale, poiché l’atto di lettura con il quale noi realizziamo l’essere virtuale di un testo scritto è fatto, come l’esecuzione di una partitura musicale, di una successione di istanti che si compie nella durata, nella nostra durata”. Gérard Genette, La letteratura e lo spazio (1969): “Può sembrare paradossale parlare di spazio a proposito della letteratura: apparentemente, infatti, il modo di esistenza di un’opera letteraria è essenzialmente temporale, poiché l’atto di lettura con il quale noi realizziamo l’essere virtuale di un testo scritto è fatto, come l’esecuzione di una partitura musicale, di una successione di istanti che si compie nella durata, nella nostra durata”. “Tuttavia si può, anzi si deve considerare anche la letteratura nei suoi rapporti con lo spazio”. Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1975): “Chiameremo cronotopo (il che significa letteralmente ‘tempospazio’) l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente. Questo termine è usato nelle scienze matematiche ed è stato introdotto e fondato sul terreno della relatività (Einstein). A noi non interessa il significato speciale che esso ha nella teoria della relatività e lo trasferiamo nella teoria della letteratura quasi come una metafora (quasi, non del tutto); a noi interessa che in questo termine sia espressa l’inscindibilità dello spazio e del tempo (il tempo come quarta dimensione dello spazio)”. Franz Kakfa, La metamorfosi: “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto”. Italo Calvino, Cominciare e finire (1985): “L’inizio d’un romanzo è l’ingresso in un mondo diverso, con caratteristiche fisiche, percettive, logiche tutte sue. […] L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso: un mondo verbale. Fuori, prima dell’inizio c’è o si suppone che ci sia un mondo completamente diverso, il mondo non scritto, il mondo vissuto o vivibile. Passata questa soglia si entra in un altro mondo, che può intrattenere col primo rapporto decisi volta per volta, o nessun rapporto. L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili. Studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può ‘esprimere’”. Michel Butor, “Philosophie de l’ameublement” (1964): “Un romanzo è innanzitutto un oggetto, un libro, quel ‘volume’ sulla nostra biblioteca […] Quando lo apriamo, quando i nostri occhi scorrono tra le pagine, la stanza in cui ci troviamo incomincia a “lasciare posto” a un altro luogo […]. Me ne vado così camminando di luogo in luogo, guidato dalle frasi dell’autore; faccio sorgere davanti a me arredi, mobili, volti; mi aggiro […] in uno spazio secondo, ingombro o vuoto, amorfo o regolato, orientato, polarizzato o neutro”. Stendhal, Il rosso e il nero (1830) La cittadina di Verrières può essere considerata una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche, dai tetti aguzzi e dalle tegole rosse, si arrampicano sul declivio di una collina dove macchie di vigorosi castagni mettono in risalto ogni minima sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi sotto le fortificazioni costruite un tempo dagli spagnoli e ora in rovina. A nord la città è protetta da un'alta montagna, diramazione del Giura. I primi freddi d'ottobre coprono di neve le cime frastagliate del Verra. Un torrente, precipitando dalla montagna, attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs e mette in moto un gran numero di segherie: industria assai semplice che dà lavoro alla maggior parte degli abitanti, contadini più che borghesi. Non è questa, tuttavia, la fonte di maggior ricchezza per la cittadina. Il benessere generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha consentito di ricostruire le facciate di quasi tutte le case di Verrières è dovuto alla fabbrica di tele stampate, dette di Mulhouse. Stendhal, Il rosso e il nero (1830) Nota alla fine del romanzo: “Per evitare ogni riferimento alla vita privata l’autore ha inventato una cittadina, Verrières, e quando ha avuto bisogno di un vescovo, di una giuria, di una corte d’Assise li ha ambientati sullo sfondo di Besançon, dove non è mai stato” Stendhal, Lettera del 29 ott. 1832 al Conte Salvagnoli : “Verrières è una delle più graziose cittadine della Franca Contea, costruita sul declivio di una collina, in mezzo a macchie di grandi castagni. Ai piedi di questa collina, verso mezzogiorno, scorre il Doubs, uno dei fiumi più pittoreschi della Francia. Dal lato nord la città è protetta da una delle montagne del Giura. […] Verrières, in questo libro, è un luogo immaginario, che l’autore ha scelto come tipo delle città di provincia” Stendhal, Il rosso e il nero (1830) Georges Blin, Stendhal et les problèmes du roman (1954): “Per convincerci che la sua Verrières esiste, o, se vogliamo, che è preesistita al dramma che vi si è svolto, la pone come sussistente alla data in cui la storia viene raccontata, la descrive non come era ma come è, il che, fin dall’inizio, tende a smentire che ci si trovi in presenza di un romanzo [...]. In questo modo, siamo indotti a mettere tra parentesi il carattere chimerico e ipotetico del tempo in cui la storia si iscrive”. Stendhal, Il rosso e il nero (1830) Entrando in città si rimane storditi [A peine entre-t-on dans la ville que l'on est étourdi ] dal fracasso di una macchina rumorosa e terribile a vedersi. Venti pesanti martelli, che si abbattono con un frastuono tale da far tremare il selciato, sono sollevati da una ruota spinta dall'acqua del torrente. Ogni giorno ciascuno di questi martelli fabbrica chi sa quante migliaia di chiodi. E sono ragazze giovani e graziose, quelle che sottopongono ai colpi di questi enormi martelli i pezzettini di ferro che vengono poi trasformati rapidamente in chiodi. Questo lavoro, così duro in apparenza, è uno dei più stupefacenti per il viaggiatore [le voyageur] che si spinge per la prima volta sulle montagne, al confine tra la Francia e la Svizzera. Se poi il viaggiatore, entrando a Verrières, chiede di chi è la bella fabbrica di chiodi che assorda i passanti sulla via principale, gli viene risposto con accento strascicato: «Ah! è del signor sindaco! Stendhal, Il rosso e il nero (1830) E per poco che il viaggiatore si fermi alcuni istanti in questa grande via principale, che sale dalle rive del Doubs fin verso la sommità della collina, c'è da scommettere cento contro uno che vedrà comparire un uomo robusto dall'aria indaffarata e imponente. Al suo apparire tutte le teste si scoprono rapidamente. I suoi capelli tendono al grigio, e grigio è il suo vestito. […] Ma, ben presto, il viaggiatore che viene da Parigi [le voyageur parisien] è colpito da un certo che di compiacimento e di sufficienza, misto a qualcosa di limitato e privo di fantasia. Alla fine ci si accorge [on sent enfin] che il talento di quest'uomo si limita alla capacità di farsi pagare con grande esattezza dai debitori, e di pagare, a sua volta, il più tardi possibile. Stendhal, Il rosso e il nero (1830) Tale è il sindaco di Verrières, signor de Rênal. Dopo aver attraversato la via con andatura imponente, egli entra nel municipio e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma se quest'ultimo continua la sua passeggiata, dopo cento passi vede una casa abbastanza bella e, attraverso una cancellata, degli splendidi giardini. Più oltre, la linea dell'orizzonte è disegnata dalle colline della Borgogna e sembra fatta apposta per la gioia degli occhi. Questa vista fa scordare al viaggiatore l'atmosfera appestata dai piccoli interessi commerciali che cominciano ad asfissiarlo. Viene informato [on lui apprend que] che quella è la casa del sindaco. I profitti della grande fabbrica di chiodi hanno consentito al primo cittadino di Verrières di costruire questa bella dimora di pietra squadrata, da poco finita. […] Stendhal, Il rosso e il nero (1830) Anche le terrazze, che sostengono le diverse parti di questo splendido giardino e che di balza in balza scendono fino al Doubs, sono dovute alla perizia di Rênal nel commercio del ferro. Non aspettatevi di trovare in Francia [ne vous attendez point à trouver en France] i pittoreschi giardini che circondano le città manifatturiere della Germania, come Lipsia, Francoforte, Norimberga, ecc. Nella Franca Contea più si costruiscono muri, più si arricchiscono le proprietà di pietre poste l'una sull'altra, e più si ha diritto al rispetto dei vicini. I giardini di Rênal, irti di muri, sono ammirati anche perché abbracciano lembi di terreno comperato a peso d'oro. Ad esempio, quella segheria che vi ha colpito [vous a frappé] al vostro ingresso in Verrières per la sua singolare posizione sul Doubs, e dove avete notato [vous avez remarqué] sul tetto una tavola col nome SOREL scritto a lettere cubitali, sei anni or sono sorgeva sull'area della quarta terrazza dei giardini di Rênal, attualmente in costruzione. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. […] Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Charles Dickens, Grandi speranze (1860) Pirrip era il cognome di mio padre e Philip il mio nome di battesimo, ma la mia lingua infantile non riuscì a cavarne nulla di più lungo o più esplicito di Pip. Sicché cominciai a chiamare me stesso Pip e Pip mi chiamarono gli altri [My father's family name being Pirrip, and my Christian name Philip, my infant tongue could make of both names nothing longer or more explicit than Pip. So, I called myself Pip, and came to be called Pip]. In quanto al cognome Pirrip, mi baso sull'autorità della tomba di mio padre e su mia sorella - la moglie di Joe Gargery, il fabbro. Non avendo mai visto mio padre o mia madre e neppure una loro immagine (a quei tempi l'era della fotografia era ancora lontana), le mie prime fantasie sul loro aspetto derivarono, assurdamente, dalle pietre tombali. Charles Dickens, Grandi speranze (1860) La forma delle lettere su quella di mio padre, suscitò in me la strana idea che fosse un uomo quadrato, robusto, scuro, con capelli neri e ricci. I caratteri e il tenore dell'epitaffio ANCHE GEORGIANA MOGLIE DEL SUDDETTO, mi portarono ingenuamente a concludere che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra, lunghe circa due palmi, ordinatamente disposte in fila accanto alla tomba e consacrate alla memoria dei miei cinque fratellini - che smisero ben presto di arrabattarsi e lottare per sopravvivere - sono debitore di una certezza in cui credevo fervidamente, e cioè che fossero nati supini con le mani in tasca, e che ve le avessero tenute sinché erano rimasti su questa terra. Charles Dickens, Grandi speranze (1860) Avevamo la palude, giù in basso lungo il fiume, a non più di venti miglia dal mare - nel tratto in cui si formava l'ansa. Credo di aver avuto la prima percezione, estremamente vivida e netta, dell'identità delle cose, in un rigido memorabile pomeriggio, all'imbrunire. Fu allora che scoprii con certezza che quel luogo desolato coperto di ortiche era il cimitero; e che Philip Pirrip, defunto di questa parrocchia, e anche Georgiana moglie del suddetto, erano morti e sepolti; e che Alexander, Bartholomew, Abraham, Tobias e Roger, bambini del sunnominato, erano anch'essi morti e sepolti; e che la piatta distesa fosca al di là del cimitero, intersecata da canali, argini e barriere, su cui pascolava sparso il bestiame, era la palude; e che la bassa linea livida più giù era il fiume; e che la tana remota e selvaggia da cui si scatenava il vento, era il mare; e che il mucchietto di brividi che sentiva crescere la paura di ogni cosa e si metteva a piangere, era Pip. Charles Dickens, Grandi speranze (1860) «Silenzio!», gridò una voce tremenda mentre un uomo sbucava tra le tombe, di fianco al portico della chiesa. «Sta zitto, piccolo demonio, se non vuoi che ti taglio la gola!». Un uomo spaventoso, vestito di ruvido panno grigio, con un grosso cerchio di ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa. Rimasto a macerare nell'acqua, a soffocare nel fango, azzoppato da pietre, ferito da sassi, punto da ortiche, graffiato da rovi; un uomo zoppo e tremante, truce e torvo, che batteva i denti afferrandomi per il mento. Charles Dickens, Grandi speranze (1860) Quando mi fermai a guardarlo, la palude era solo una linea orizzontale lunga e nera; e anche il fiume era solo una linea orizzontale, molto più stretta, ancora non così buia; e il cielo era solo un insieme di lunghe, irate linee rosse frammiste a spesse linee nere. In riva al fiume riuscivo a malapena a distinguere le uniche due cose nere che parevano ergersi sul paesaggio piatto. Una era la boa che serviva da segnale ai marinai - simile a una botte senza cerchi in cima a un palo - una brutta cosa, a vederla da vicino; l'altra era una forca, da cui pendevano delle catene che un tempo avevano avvinto un pirata. L'uomo zoppicando vi si avvicinava, quasi fosse il pirata tornato in vita, disceso dalla forca e intenzionato a risalirvi per impiccarsi un'altra volta. Nel pensarlo, trasalii dal terrore […]. Mi guardai tutt'intorno alla ricerca dell'orrendo giovane senza scoprirne traccia. Ma a quel punto ero di nuovo pieno di paura e scappai a casa senza fermarmi. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il Ville-deMontereau, sul punto di partire, lanciava grosse spire di fumo davanti al quai Saint-Bernard. Arrivava gente trafelata; barili, rotoli di corda, cesti di biancheria ingombravano il passaggio; i marinai non davan retta a nessuno; urti, spintoni; i bagagli venivano issati a bordo fra i due tamburi e il baccano si scioglieva nel fischio vago e denso dei vapore che sprigionandosi tra fogli di lamiera avvolgeva tutto in una nube biancastra mentre la campana, a prua, non smetteva di rintoccare. Finalmente la nave partì; e le due rive cominciarono a svolgersi come due larghi nastri trascinando via la loro processione di magazzini, fabbriche, cantieri. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Un giovane di diciott'anni, con i capelli lunghi, se ne stava immobile vicino al timone tenendo un album sotto il braccio. Guardava passare, nella nebbia, campanili e palazzi di cui non sapeva il nome; a un tratto, con un'ultima occhiata, abbracciò l'Île Saint-Louis, la Cité, Notre-Dame; poi, mentre Parigi scompariva rapidamente, si lasciò sfuggire un gran sospiro. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Superati da poco gli esami di baccelliere, Federico Moreau stava tornando a Nogent-sur-Seine dove gli sarebbe toccato di languire per due mesi prima di ripartire per andarsi a iscrivere a legge. Sua madre l'aveva spedito a Le Havre, con i soldi contati, per far visita a uno zio dal quale sperava che il figlio potesse ereditare. Federico n'era tornato soltanto il giorno prima, e si rammaricava che non gli fosse riuscito - rincasando per la via più lunga - di fermarsi un po' nella capitale. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) La confusione diminuiva, tutti i passeggeri s'erano sistemati; qualcuno si scaldava stando in piedi vicino alla macchina mentre la ciminiera buttava su, a intervalli precisi, il suo pennacchio nero con una specie di rantolo. Piccole gocce di rugiada imperlavano gli ottoni; il ponte sussultava d'una continua leggera vibrazione interna e le ruote, girando, battevano rapide l'acqua. Le rive del fiume, ora, eran sabbiose. S'incontravano, lungo il percorso, carichi di legname che al rimescolio delle onde si mettevano a ondeggiare; o, seduto in una barca a remi, un uomo intento alla pesca; poi le nebbie vaganti si sciolsero, e venne fuori il sole; la collina che seguiva da destra il corso della Senna s'appiattì a poco a poco mentre un'altra, più vicina, prendeva forma sulla riva opposta. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Gli alberi che le facevan corona circondavano case basse coi tetti all'italiana, giardini in declivio cintati da muri nuovi, cancellate di ferro, distese d'erba, serre, vasi di gerani posati a distanze regolari su balaustre alle quali doveva esser comodo affacciarsi. Vedendo quelle dimore così graziose, così tranquille, più d'un passeggero avrebbe voluto esserne il proprietario, passare là il resto dei suoi giorni con un buon biliardo, una barca, una moglie o qualche altra dolcezza. L'incanto tutto nuovo d'una gita fluviale favoriva le confidenze. Gli spiritosi della compagnia cominciavano a darsi da fare. Molti cantavano o si versavan da bere. Si stava allegri. Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Henri Mitterand, L’Illusion réaliste (1994): “Ecco che fin dall’inizio si estende davanti ai nostri occhi, sullo schermo del nostro sogno di lettori, il panorama di un paesaggio parigino. Ed eccoci quasi imbarcati con Frédéric Moreau su questo battello, che lascia l’Ile Saint-Louis, la Cité, Notre-Dame, scivola lungo la Senna e risale il fiume in direzione di Nogent-sur-Seine. Una superba apertura romanzesca, questa prima pagina, che abbraccia in un colpo solo Parigi e il suo fiume, la città e le rive rurali, il campo del paesaggio e il controcampo del battello, la collettività anonima dei passeggeri e la sagoma delineata di Frédéric, seguendo questo motivo della partenza che inaugura un triplice spazio: Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869) Henri Mitterand, L’Illusion réaliste (1994): lo spazio del fiume, che trasporta Frédéric Moreau in un viaggio al tempo stesso iniziatico e regressivo – ritorna, come sappiamo, risalendo il corso del fiume, verso il girone materno; lo spazio di una carriera, quella che tenterà, come dicono le prime righe, ‘M. Frédéric Moreau, nouvellement reçu bachelier’; e infine lo spazio della lettura, lo spazio del libro, in seno al quale il lettore inizia a sua volta un viaggio immaginario, sul ritmo di quello del personaggio”. Franz Kafka, Il castello (1926) Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente. Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d'accordo. Alcuni contadini sedevano ancora davanti alla loro birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò a prendersi da solo il pagliericcio in solaio e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, egli li osservò ancora un poco con gli occhi stanchi, poi si addormentò. Franz Kafka, Il castello (1926) Ma non passò molto che fu svegliato. Un giovane in abito cittadino con un viso da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava accanto a lui insieme all'oste. I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato la sedia per vedere e udire meglio. Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nel castello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l'ha, o almeno non l'ha esibito». K., che si era levato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due dal basso in alto e disse: «In che paese mi sono perso? C'è un castello qui?». Franz Kafka, Il castello (1926) Ma sappia intanto che sono l'agrimensore fatto venire dal signor conte. I miei aiutanti mi raggiungeranno domani in carrozza con gli strumenti. Io non ho voluto rinunciare a una passeggiata nella neve, ma purtroppo ho sbagliato strada più volte, e per questo sono arrivato così tardi Bertrand Westphal, La Géocritique. Réel, fiction, espace (2007): “Il luogo letterario è un mondo virtuale che interagisce in forma modulabile con il mondo di riferimento. Il grado di adeguamento dell’uno all’altro può variare da zero all’infinito. […] Lo spazio trascritto può non avere alcun referente; in compenso può tendere ad appropriarsi integralmente di una serie di determinati realemi. Se prendiamo le città invisibili di Italo Calvino, ammetteremo facilmente che sono separate da qualunque referente […]. La stessa osservazione si applica a tutti gli spazi esplicitamente immaginari della letteratura. Ma se un referente si manifesta, appaiono nuove varianti […] Capita che l’autore manipoli il piano delle apparenze. La rappresentazione può mostrare un (certo) grado di conformità con il referente; ma può anche giocare con esso, prendersi gioco di esso e del lettore”. Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965): “Se oggetti, animali e uomini vengono rappresentati in un’opera letteraria, lo spazio che viene rappresentato intorno ad essi non è astratto e geometrico, o omogeneo e fisico; piuttosto, è il tipo di spazio che corrisponde allo spazio percettivamente dato”. Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965): “Facciamo il caso che in un romanzo, per esempio, una situazione venga rappresentata in una data stanza e che non ci sia alcuna indicazione, nemmeno con una singola parola, che esista qualcosa al di fuori di questa stanza. Certamente non si può dire che al di fuori del segmento spaziale circoscritto dai muri della stanza non esista assolutamente alcuno spazio e che quindi ci sia un completo nulla. D’altro canto, sarebbe altrettanto falso dire che esiste uno spazio intorno a questa stanza determinato da corrispondenti unità di significato o positivamente rappresentato da corrispondenti stati di cose. Se lo spazio attualmente rappresentato (all’interno della stanza) non finisce contro i muri, è solo perché è nell’essenza dello spazio in generale non avere alcuna discontinuità. Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965): È solo grazie all’impossibilità della discontinuità spaziale che lo spazio al di fuori della stanza viene corappresentato; conseguentemente, lo spazio all’interno della stanza diventa a sua volta un segmento di spazio. Così, quando l’autore di un romanzo ci “trasporta” dal luogo A al luogo B senza mostrarci l’intero percorso tra A e B, lo spazio intermedio tra i due punti non viene positivamente determinato e rappresentato ma, ancora una volta, corappresentato, in virtù dell’impossibilità della discontinuità spaziale”. Ruth Ronen, Space in Fiction (1986): “Un luogo, come ogni altra entità reale, è inesauribile nella misura in cui comprende una numero virtualmente infinito di aspetti, caratteristiche e proprietà. Un testo letterario necessariamente impone una scelta di qualità dalle quali il costrutto spaziale emerge come una costellazione chiusa di proprietà”. Seymour Chatman, Storia e discorso (1978): “Lo spazio nel cinema è ‘letterale’, vale a dire che oggetti, dimensioni e relazioni sono analoghi, almeno bidimensionalmente, a quelli del mondo reale. Nella narrativa verbale lo spazio è astratto e richiede una ricostruzione mentale. […] Nella narrativa verbale lo spazio è doppiamente lontano dal lettore, poiché non vi è un’immagine iconica o analogica fornita da forme proiettate su uno schermo. Gli esistenti e il loro spazio vengono, per così dire, ‘visti’ nell’immaginazione e trasformati da parole in proiezioni mentali. Non vi è una ‘visione standard’ degli esistenti come accade nel cinema. Leggendo il libro ognuno si crea una propria immagine mentale delle Cime tempestose. Invece nell’adattamento cinematografico l’aspetto è fissato per tutti”. Jurij M. Lotman, Il problema dello spazio artistico in Gogol’ (1968): “Nell’opera letteraria lo spazio artistico è un continuo in cui si dispongono i personaggi e si svolge l’azione. Una percezione ingenua spinge costantemente il lettore a identificare spazio artistico e spazio fisico. Questo atteggiamento percettivo coglie comunque un pizzico di verità, poiché anche nei momenti in cui viene messa a nudo la funzione di uno spazio artistico che modellizza rapporti extraspaziali, esso immancabilmente conserva […] l’immagine della sua natura fisica. […] Lo spazio artistico non è però un ricettacolo passivo di episodi e personaggi. Le sue connessioni con questi ultimi, e con l’immagine generale del mondo creato dal testo, ci persuadono che il suo linguaggio non è un recipiente vuoto, ma una delle componenti di quella lingua universale in cui si esprimono le opere d’arte”. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de' costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) La gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne' sembianti e nelle mosse de' fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com'era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. […] Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s'inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d'odioso. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d'ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d'uscir subito di lì per la strada già fatta, d'andar diritto all'ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all'osteria. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) E stando così fermo, sospeso il fruscìo de' piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente. Sta in orecchi; n'è certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un amico, d'un fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de' pensieri, e svanire in gran parte quell'incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all'amico rumore. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42) Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. "Ah! ne son proprio fuori! - fu il suo primo pensiero. Sta' lì, maledetto paese", fu il secondo, l'addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull'acqua che gli scorreva a' piedi, e pensò "è passata sotto il ponte!" Così, all'uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. "Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole". Honoré de Balzac (1799-1850) • 20 maggio 1799: Balzac nasce a Tours • Padre: Bernard-François Balssa (cambierà poi il nome in Balzac), ha una serie di incarichi pubblici nell’amministrazione napoleonica • Madre: Laure Sallambier, proviene da una famiglia della piccola borghesia commerciale parigina • Si sposano nel 1797, quando lui ha 50 anni e lei 18 • Dal matrimonio nasceranno poi altri tre figli: Laure, Laurence e Henri-François Honoré de Balzac (1799-1850) • 1799-1804: Affidato a una balia a Saint-Cyr-sur-Loire, un sobborgo di Tours • 1804-1807: Rientra in famiglia e frequenta una scuola di Tours; • 1807-1813: In collegio a Vendôme • 1813: Viene rimandato a casa per una ragione poco chiara • 1814: per alcuni mesi frequenta il liceo di Tours • Fine 1814: la famiglia si trasferisce a Parigi •1814-1819: Prosegue gli studi a Parigi, prima al liceo Charlemagne poi alla Sorbona, dove studia giurisprudenza. Lavora anche come impiegato, prima nello studio di un avvocato poi in quello di un notaio Honoré de Balzac (1799-1850) • 1819: Decide di diventare scrittore; nel frattempo il padre è andato in pensione e la famiglia si è trasferita a Villeparisis • 1820: Scrive una tragedia, Cromwell, e un romanzo rimasto inedito, Sténie • 1821-24: Scrive una serie di romanzi che pubblica dietro pseudonimo. Lui stesso li definirà “piccole operazioni di letteratura commerciale”, o addirittura “porcherie letterarie” • 1822: Inizia una reazione con Laure de Berny • 1825: Inizia una nuova relazione con la duchessa d’Abrantes • 1825-28: Fonda una casa editrice e una tipografia (chiuderà l’attività con 60.000 franchi di debiti) Verso la Comédie Humaine Tenta la strada del romanzo storico: • 1826: Alfred de Vigny, Cinq-Mars • Balzac prende un episodio storico relativo ai conflitti postrivoluzionari in Vandea, avvenuto nel 1798 • Scrive un romanzo, poi pubblicato nel 1829 ( il primo che firma con il suo vero nome): Le Dernier Chouan ou la Bretagne en 1800 (il cui titolo diventerà poi Les Chouans) Verso la Comédie Humaine Comincia a scrivere romanzi e racconti sulla società contemporanea: • 1830: Scènes de la vie privée, due volumi che raccolgono sei novelle (diventeranno quindici in una nuova edizione dell’opera, in 4 voll., 1832); • 1831: La Peau de chagrin, romanzo ripubblicato lo stesso anno in un’opera in tre volumi, che raccoglie altri 12 testi, intitolata Romans et contes philosophiques; • 1833: Le Medecin de campagne, Eugénie Grandet; nello stesso anno conosce Mme Hanska • Fine 1833: Firma un contratto per la pubblicazione di una raccolta intitolata Études de moeurs au XIXe siècle, che dovrà essere articolata in tre sezioni: Scènes de la vie privée, Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne (verranno pubblicati tra il 1833 e il 1837). Verso la Comédie Humaine Balzac, Lettera del 26 ott. 1834 a Mme Hanska: Descrive l’architettura del suo grande edificio: Studi analitici (principi) Studi filosofici (cause) Studi di costume (effetti), articolati in 6 sezioni: Scene della vita privata di provincia parigina politica militare di campagna Verso la Comédie Humaine Balzac, Lettera del 26 ott. 1834 a Mme Hanska: Credo che nel 1838 le tre parti di quest’opera colossale saranno, se non portate a termine, almeno poste una sopra l’altra, e che se ne potrà giudicare la massa. Gli Studi di costume rappresenteranno tutti gli effetti sociali senza che né una situazione della vita, né una fisionomia, né un carattere d’uomo o di donna, né un modo di vivere, né una professione, né una zona sociale, né un paese di Francia, né un qualsiasi aspetto dell’infanzia, della vecchiaia, dell’età matura, della politica, della giustizia, della guerra sia stato dimenticato. Posto tutto questo, tracciata filo per filo la storia del cuore umano, fatta la storia sociale in ogni sua parte, la base sarà pronta. Si arriverà così al secondo basamento, gli Studi filosofici, perché, dopo gli effetti, verranno le cause. Negli Studi filosofici dirò le cause dei sentimenti, quello su cui si fonda la vita. Poi, dopo gli effetti e le cause, verranno gli Studi analitici, perché dopo gli effetti e le cause bisogna muovere alla ricerca dei principi. Così l’uomo, la società, l’umanità saranno descritti, giudicati, analizzati senza ripetizioni, in un’opera che sarà come le Mille e una notte dell’Occidente. Balzac e Le Père Goriot • Scritto tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835, • Pubblicato per la prima volta a puntate (“Revue de Paris”), tra il 14 dic. 1824 e il 1 gen 1835 • Pubblicato poi in volume (editore Werdet) nel marzo 1835, con il sottotitolo Histoire parisienne; seguiranno altre edizioni Balzac e Le Père Goriot • Scritto tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835, • Pubblicato per la prima volta a puntate (“Revue de Paris”), tra il 14 dic. 1824 e il 1 gen 1835 • Pubblicato poi in volume (editore Werdet) nel marzo 1835, con il sottotitolo Histoire parisienne; seguiranno altre edizioni Maurice Bardèche, Balzac romancier (1840): “Nel 1835, Balzac è ormai in possesso di tutti i suoi mezzi, la sua formazione di romanziere è terminata. Il Père Goriot è il risultato di tutti i suoi sforzi precedenti, e la base dell’opera futura. Paragonato all’opera anteriore di Balzac, il Père Goriot è una sorta di riassunto; paragonato alla sua opera futura, è una sorta di preannuncio. Si tratta di una data capitale nella storia della sua opera” Il ritorno dei personaggi Balzac, prefazione a Une fille d’Eve (1839): “RASTIGNAC (Eugène Louis), figlio primogenito del barone e della baronessa di Rastignac, nato a Rastignac, dipartimento della Charente, nel 1799; giunge a Parigi nel 1819, studia diritto, risiede nella pensione Vauquer, vi incontra Jacques Collin, detto Vautrin, e vi fa amicizia con Horace Bianchon, il celebre medico. Ama Madame Delphine de Nucingen nel momento in cui viene lasciata da de Marsay, figlia di un tale Goriot, ex commerciante di pasta, di cui Rastignac paga il funerale. È uno dei leoni dell’alta società; stringe amicizia con tutti i giovani del suo tempo, con de Marsay, Beaudenord, d’Estrigon, Lucien de Rubempré, Émile Blondet, du Tillet, Nathan, Paul de Manerville, Bixiou ecc. Il ritorno dei personaggi La storia della sua carriera si trova in La Maison Nucingen; riappare in quasi tutte le scene, nel Cabinet des Antiques, nell’Interdiction. Sposa le sue due sorelle, una a Martial de la Roche-Hugon, dandy del periodo dell’Impero, uno dei personaggi della Paix du ménage; l’altra a un ministro. Il più giovane dei suoi fratelli, Gabriel de Rastignac, segretario del vescovo di Limoges nel Curé du village, vicenda che si svolge nel 1828, è nominato vescovo nel 1832 (vedi la Fille d’Ève). Benché discendente di un’antica famiglia, accetta un posto da sottosegretario di Stato nel miniestero di de Marsay, dopo il 1830 (vedi le Scènes de la vie politique), ecc.” Il ritorno dei personaggi Balzac, Prefazione alla prima ed. di Illusions perdues (1837): “Qui ogni romanzo non rappresenta che uno dei capitoli del grande romanzo della società. I personaggi di ogni storia si muovono in una sfera circoscritta da limiti che sono quelli della società stessa. Quando uno di questi personaggi viene fermato nel mezzo della sua carriera, come Rastignac nel Père Goriot, è perché voi dovete ritrovarlo in Profil de marquise, nell’Interdiction, nella Haute Banque, e infine nella Peau de chagrin, che agisce nella sua epoca a seconda della posizione sociale che vi occupa e che affronta tutti gli avvenimenti a cui partecipano nella realtà tutti gli uomini eminenti. Questa osservazione si applica a quasi tutti i personaggi che compaiono in questa lunga storia della società” La Comédie Humaine Geoffroy Saint-Hilaire • 1842: Balzac inizia a pubblicare la Comédie Humaine (editore Furne, 16 voll., fino al 1846), in cui raccoglie tutti i romanzi e i racconti che ha scritto fino a questo punto, e li suddivide in una serie di sezioni e di sottosezioni • Il primo volume è preceduto da una Prefazione (Avantpropos) in cui presenta il progetto, illustra i principi che lo reggono, fornisce una descrizione dettagliata della sua organizzazione interna L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) “La prima idea della Comédie humaine fu per me all’inizio come un sogno, come uno di quei progetti impossibili che si accarezzano e che si lasciano volare via; una chimera che sorride, che mostra il suo volto di donna e che subito spiega le ali librandosi verso l’alto in un cielo fantastico. Ma la chimera, come molte chimere, diventa realtà, ha le sue leggi e una sua tirannia alle quali bisogna cedere. / Tale idea ebbe origine da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità” L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) “Convinto da questa teoria [il principio dell’unità di composizione di Geoffroy Saint-Hilaire] ben prima dei dibattiti ai quali essa ha dato vita, osservai che, sotto questo aspetto, la Società somigliava alla Natura. La Società non fa forse dell’uomo, a seconda degli ambiti nei quali la sua azione si dispiega, tanti uomini differenti quante sono le specie nella zoologia? Le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, uno scienziato, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, benché più difficili da cogliere, sono altrettanto degne di considerazione di quelle che contraddistinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo squalo ecc. L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) Come esistono le Specie zoologiche, sono dunque sempre esistite, e sempre perciò esisteranno, le Specie Sociali. Se Buffon ha realizzato un’opera magnifica cercando di rappresentare in un libro l’intera zoologia, non restava da realizzare un’opera di questo genere anche per la Società?” L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) Come esistono le Specie zoologiche, sono dunque sempre esistite, e sempre perciò esisteranno, le Specie Sociali. Se Buffon ha realizzato un’opera magnifica cercando di rappresentare in un libro l’intera zoologia, non restava da realizzare un’opera di questo genere anche per la Società?”. “Ma per le varietà animali la Natura ha posto dei limiti che la Società non doveva rispettare. Quando Buffon descriveva il leone, esauriva la leonessa in poche frasi mentre nella Società la donna non sempre si limita a essere la femmina del maschio. Una coppia di sposi può essere formata da due esseri del tutto dissimili. La moglie di un mercante talvolta è degna di essere quella di un principe e spesso quella di un principe non vale quella di un artista. La Vita associata è luogo di combinazioni che la sola Natura non si può permettere perché L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) Buffon ha poi scoperto che la vita presso gli animali è estremamente semplice. L’animale ha poco mobilio, non possiede arti né scienze, mentre l’uomo, in virtù di una legge che è ancora da scoprire, tende a rappresentare i suoi usi, il suo pensiero e la sua vita in tutto ciò che adegua alle proprie esigenze. […] Le abitudini di ogni animale sono, almeno ai nostri occhi, costantemente simili in ogni tempo, mentre le abitudini, l’abbigliamento, le parole, le dimore di un principe, di un banchiere, di un artista, di un borghese, di un prete e di un povero sono completamente differenti e cambiano a seconda delle civiltà” L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842) Scott non ha pensato “a collegare le sue opere l’una all’altra in modo da creare una storia completa in cui ogni capitolo sarebbe stato un romanzo e ogni romanzo un’epoca” Quartiere latino Pantheon Pensione Vauquer Val-de-Grâce Pensione Vauquer Faubourg Saint-Marceau “All is true” L’espressione “All is true” – Si riferisce alla tragedia di Shakespeare, Enrico VIII, che nel 1831 era stata rappresentata a Parigi e annunciata con la formula: Tout est vrai – La prima edizione di PG portava questa formula in epigrafe – Shakespeare in generale è un modello importante per Balzac (cfr. soprattutto Re Lear) “All is true” Nota finale di Eugénie Grandet (1833): “Questa vicenda è una traduzione imperfetta di alcune pagine dimenticate dai copisti nel libro mastro del mondo. Qui non vi è nulla di inventato. L’opera è una modesta miniatura che richiedeva più pazienza che arte”. Prefazione alla prima ed. di Illusioni perdute (1837): “A molti lettori questo quadro potrà apparire esagerato; ma, che si sappia, tutto è disperatamente vero”. Lettera 26 ott. 1834 a Mme Hanska: “Non saranno fatti immaginari; sarà quel che succede dappertutto”. “All is true” Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve: “Se, com’è stato più volte osservato, i personaggi dei suoi romanzi erano per lui esseri reali, […] si può ugualmente dire che la sua vita era un romanzo ch’egli costruiva assolutamente nella stessa guisa. Non c’era in lui nessuna distinzione tra la vita reale (quella che, a mio giudizio, non è tale) e la vita dei suoi romanzi (la sola vera per lo scrittore” “All is true” In varie occasioni, Balzac dichiara di essere: – Un “segretario” dei suoi contemporanei, che si limita a raccogliere, e a classificare i fatti reali che la storia gli presenta; – Un pittore che si limita a copiare la natura, a “ritrarre fedelmente” quello che vede intorno a lui; – “Il più umile dei copisti”, che non racconta grandi avvenimenti ma che si abbassa “alle ristrette dimensioni della storia, la storia comune”, offrendo “la narrazione pura e semplice di ciò che ogni giorno si vede in provincia”. “All is true” Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839): “Questa deve essere la maniera di procedere dello storico dei costumi: il suo compito è quello di amalgamare in un unico quadro i fatti analoghi. Tenuto a rendere gli avvenimenti più nello spirito che alla lettera, egli li sintetizza. Spesso si rende necessario prendere parecchi caratteri simili per arrivare a crearne uno solo, così come esistono originali tanto ridicoli che, sdoppiandoli, forniscono due personaggi. […] La letteratura segue il procedimento impiegato dalla pittura che, per realizzare una figura veramente bella, prende le mani da un certo modello, il piede da un altro, il petto da questo, le spalle da quello. Compito del pittore è dare vita a quelle membra scelte e rendere questa vita probabile. Se vi copiasse una donna vera, girereste la testa da un’altra parte”. “All is true” Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839): “L’autore ha detto già varie volte che spesso è costretto ad attenuare la crudezza della natura. Alcuni lettori hanno considerato Le Père Goriot come una calunnia contro i figli, ma la vicenda che è servita da modello presentava circostanze terribili, come non se ne incontrano neanche tra i cannibali: il povero padre ha gridato per venti ore di agonia per avere da bere senza che nessuno andasse in suo aiuto e le sue due figlie erano una al ballo, l’altra a teatro, benché non ignorassero la condizione del padre. Questo fatto reale non sarebbe sembrato credibile”. “All is true” Aristotele, Poetica: “Compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile [τὰ δυνατὰ] secondo verosimiglianza o necessità [κατὰ τὸ ει̉κὸς η̉̉̀ τὸ α̉ναγκαι̃ον]. Lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o in prosa […], ma differiscono in quanto uno dice le cose avvenute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari”. “All is true” Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839): “Molti a cui i meccanismi della vita, vista nel suo insieme, sono familiari hanno asserito che le cose non erano nella realtà come l’autore le presenta nelle sue finzioni, e lo accusano qui di arricchire troppo l’intreccio delle sue scene, là di essere incompleto. Di certo la vita reale è troppo drammatica o spesso non abbastanza letteraria. Il vero spesso non sarebbe verosimile, così come il vero letterario non può essere il vero della natura. Coloro che si permettono simili osservazioni, se fossero coerenti, a teatro vorrebbero vedere gli attori uccidersi davvero”. “All is true” Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839): “La maggior parte dei libri il cui soggetto è totalmente fittizio, che non si collegano in nessun modo alla realtà, sono nati morti. I libri che si basano invece su fatti accaduti, estesi, presi dalla vita reale, ottengono gli onori della longevità”. “Invece di comporre una storia, sarebbe sufficiente, stando a certi critici, farsi stenografi di tutti i tribunali di Francia. Avreste allora il vero totalmente puro, cioè una storia orribile che abbandonereste prima di aver concluso il primo volume. Potete leggerne ogni giorno un frammento […]: non ne sopportereste la lettura continuata”. La descrizione della pensione Vauquer Gérard Genette, Figure III (1972): “Sappiamo come il romanzo di Balzac abbia fissato un canone descrittivo […] tipicamente extratemporale, in cui il narratore, abbandonando il corso della storia (oppure, come nel Père Goriot o nella Recherche de l’absolu, prima di entrarvi) si incarica, in prima persona, ed esclusivamente per informare il suo lettore, di descrivere uno spettacolo che a rigor dei termini, a questo punto della storia, nessuno guarda”. La descrizione della pensione Vauquer Lubbock, Il mestiere della narrativa (1921): “[Balzac] non può pensare ai suoi personaggi senza le case in cui abitano; per Balzac immaginare un essere umano è immaginare una provincia, una città, un angolo della città, un edificio alla svolta di una strada, certe camere ammobiliate, e finalmente l’uomo o la donna che ci vive. […] [Le sue] descrizioni sono chiare e sistematiche; vengono offerte come un preliminare essenziale della storia, una faccenda di cui bisogna ovviamente trattare una volta per tutte, prima che la storia possa procedere. […] Balzac è così sicuro che ogni dettaglio deve essere conosciuto, perfine le suppellettili sulle mensole e i piattini e i recipienti sulla credenza, che il lettore non può nemmeno cominciare a mettere ciò in discussione”. La descrizione della pensione Vauquer Balzac, Traité de la vie élégante (1830): “Attraverso i nostri costumi noi imprimiamo il nostro pensiero su tutto ciò che ci circonda e ci appartiene. Il nostro atteggiamento, i nostri modi, il nostro abbigliamento, i nostri equipaggi, i nostri mobili, sono tutti delle traduzioni materiali del pensiero”. La descrizione della pensione Vauquer Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale (1946): “In tutta la sua opera, e così in questo testo, Balzac ha sentito i luoghi, e in verità i più diversi, come un’unità organica, anzi demoniaca, e ha cercato di trasmettere questa sensazione al lettore. Non soltanto, come Stendhal, ha collocato gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso questo legame come necessità; ogni spazio si tramuta per lui in un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio, la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il comportamento, il sentire, l’agire e la sorte degli uomini, e in cui poi la situazione storica generale a sua volta appare come un’atmosfera totale abbracciante tutti i singoli spazi di vita. […] Tale realismo atmosferico di Balzac è un prodotto della sua epoca; è esso stesso parte e prodotto di un’atmosfera”. La pensione Vauquer nel 1819 Cristophe (uomo di fatica) Mlle Goriot Michonneau Poiret Sylvie (cuoca) Rastignac Vautrin Mme Vauquer Mme Couture e Victorine (appart. più piccolo) Taillefer (1800 franchi) Salotto Sala da pranzo Soffitta due mansarde Terzo piano 4 stanze Secondo piano 2 appartam. Primo piano 2 appartam. (i migliori) Pianterreno ambienti comuni Gli spostamenti di Goriot Soffitta due mansarde Terzo piano 4 stanze 1815 (45 franchi) 1814 (900 franchi) 1813 (1200 franchi) Secondo piano 2 appartam. Primo piano 2 appartam. (i migliori) Pianterreno ambienti comuni Rastignac, un giovane ambizioso a Parigi La storia inizia alla fine di novembre del 1819, quando Rastignac rientra alla pensione dopo un ballo da Mme de Beauséant (pp. 29-31) Espressioni usate per caratterizzarlo: • Rientra tra “les jeunes gens supérieurs” • Esplorando “le labyrinthe parisien”, compie una serie di “initiations successives”, un “apprentissage à son insu” • Perde “ses illusions d’enfance, ses idées de province” • Ha una “ambition exaltée”, un fortissimo “désir de parvenir” • Viene definito “jeune ambitieux” Papà Goriot, evoluzione del progetto 1) Prima fase: Balzac vuole scrivere una novella incentrata su un dramma privato. Annotazione del 1834: “Un brav’uomo – pensione borghese – 600 F di rendita – si spoglia per le sue figlie che, entrambe, hanno 50.000 F di rendita – muore come un cane”. Papà Goriot, evoluzione del progetto 2) Seconda fase: Il progetto si amplia alle dimensioni di un romanzo, in cui il dramma privato si colloca sullo sfondo della corruzione parigina: Lettera a Mme Hanska, 18 ott. 1834: “[...] Quel che certo non vi aspettate è il Père Goriot, un vero capolavoro! Il quadro di un sentimento così grande che nulla può esaurirlo, né le offese, né le ferite, né l’ingiustizia, un uomo che è padre come un cristiano è santo, e martire”. Alla stessa, 22 nov. 1834: “Le père Goriot è un’opera bella, ma mostruosamente triste. Per raggiungere la completezza era infatti necessario mostrare la fogna morale di Parigi, e ciò fa l’effetto di una piaga disgustosa”. Chaussée d’Antin Itinerari di Rastignac Palazzo Restaud, rue du Helder Palais-Royal Conte e marchese de Beauséant, rue Saint-Dominique Visconte di Beauséant, rue de Grenelle Fbg Saint-Germain Quartiere latino Pensione Vauquer, rue Neuve-Sainte-Geneviève A piedi dalla pensione al palazzo Restaud (incontro con il conte e la contessa) In carrozza fino al palazzo di Mme de Beauséant (incontro con Mme de B. e con la duchessa di Langeais) Vautrin – Il suo vero nome è Jacques Collin, ma mascherato dietro molti soprannomi e pseudonimi, tra cui Trompe-la-mort; – E’ un ex-forzato, fuggito dal bagno penale; farà carriera e diventerà poi il capo della polizia – Sembra dotato di attributi soprannaturali: onniscienza, onnipotenza; si pone al di sopra delle leggi e degli uomini, delle regole che governano il comune vivere associato; – È al centro di una fittissima ragnatela che coinvolge tutti i grandi poteri della società, in una serie di intrighi, delitti, truffe, società segrete: – Ha istituito una sorta di banca clandestina di tutti i criminali e forzati Delphine Nucingen, rue St-Lazare Chaussée d’Antin Appartamento di Rastignac, rue d’Artois Anastasie de Restaud, rue du Helder Les Italiens, Opéra Comique Tuileries Palais-Royal (case da gioco) Madame de Beauséant, rue de Grenelle Fbg Saint-Germain Quartiere latino Ecole de Droit Pensione Vauquer, rue Neuve-Sainte-Geneviève Balzac, un “visionario appassionato” Ernst Robert Curtius, Balzac (1951): “Balzac definì Vautrin “una delle figure dipinte con maggior calore di tutta la Comédie humaine”. E, in effetti, egli ha infuso in lui tutto l’ardore della sua natura. Ha salvaguardato – è vero – le apparenze di fronte al pubblico del juste-milieu, mostrando di condannare Vautrin. Ma, dietro tutte le sue riserve morali, si avverte chiaramente la sua simpatia. Vautrin è “mostruosamente bello”. […] Vautrin finisce così per assurgere a prototipo delle nature demoniache qui résument toutes les forces humaines. Balzac non poteva rinunciare a darci almeno una volta l’immagine di una grandiosa concentrazione di energia, di tutte le energie; e ha creato Vautrin, il ribelle, il superuomo; descrivendolo come un affascinante angelo del male. Vautrin è il figlio prediletto della sua fantasia di artista e della sua volontà di potenza, la demoniaca controfigura di se stesso”. Balzac, un “visionario appassionato” György Lukács, Les Illusions perdues (1935): “La figura di Vautrin è una concentrazione dell’elemento fantastico balzachiano”. Italo Calvino: “Amo Balzac perché è visionario [...] Amo Kafka perché è realista”. Balzac, un “visionario appassionato” Baudelaire, Théophile Gautier (1859): “Si può dire che tra le innumerevoli forme del romanzo e del racconto che hanno occupato e divertito lo spirito umano, quella più in favore sia stata il romanzo di costumi; quello che meglio conviene alla folla. Come Parigi ama soprattutto sentir parlare di Parigi, la folla si compiace negli specchi in cui si vede. Ma quando il romanzo di costumi non è sostenuto dall’elevato gusto naturale dell’autore, corre il rischio fortissimo di essere piatto, e, per di più, poiché in materia di arte l’utilità può essere misurata dal grado di nobiltà, completamente inutile. Se Balzac ha fatto di questo genere plebeo una cosa ammirevole, sempre curiosa e sublime, è perché vi ha gettato tutto il suo essere. Balzac, un “visionario appassionato” Baudelaire, Théophile Gautier (1859): Molte volte mi sono stupito che la grande gloria di Balzac fosse quella di passare per un grande osservatore; mi era sempre sembrato che il suo merito principale fosse quello di essere un visionario, e un visionario appassionato”. Balzac, un “visionario appassionato” Baudelaire, Théophile Gautier (1859): “Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui era animato lui stesso. Tutte le sue finzioni sono colorate altrettanto profondamente dei sogni. Dalla cima dell’aristocrazia fino ai bassifondi della plebe, tutti gli attori della sua Comédie sono più cupidi di vita, più attivi e astuti nella lotta, più pazienti nella sventura, più avidi nel godimento, più angelici nella devozione, di quanto non ce li mostri la commedia del mondo vero […] E poiché tutti gli esseri del mondo esteriore si offrivano all’occhio del suo spirito con un rilievo possente e una smorfia impressionante, egli ha reso convulse le sue figure, ha annerito le ombre e illuminato le luci”. Balzac, un “visionario appassionato” Oscar Wilde, La decadenza della menzogna (1889): “Un’assidua frequentazione di Balzac riduce i nostri amici tuttora viventi a ombre, e i nostri conoscenti all’ombra di altre ombre. I suoi personaggi si contraddistinguono per un’esistenza appassionata, a tinte forti. Ci dominano, sfidando ogni scetticismo. Una delle più grandi tragedie della mia vita è stata la morte di Lucien de Rubempré [protagonista di Illusions perdues e di Splendeurs et misères des courtisanes]. È un dolore da cui non mi sono mai ripreso completamente. Mi ossessiona nei momenti felici. Mi assale quando rido. [Balzac] creava la vita, non la copiava”. Balzac, un “visionario appassionato” Ernst Robert Curtius, Balzac (1951): “L’arte di Balzac è fatta di un reciproco compenetrarsi di naturalismo e spiritualismo. Essa offre un’immagine del reale, ma permeata dal fluido di una poesia visionaria. Tuttavia la si può anche intendere come proiezione di una concezione spirituale omogenea nella materia del reale. L’uno e l’altro modo vengono a dire la stessa cosa: cioè un’arte che produce una realtà vivente, spirituale e carnale insieme, insomma una nuova creazione”. Balzac, un “visionario appassionato” Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976): “C’è sempre un momento, nelle descrizioni di Balzac, in cui la registrazione fotografica degli oggetti cede all’esigenza mentale di andare al di là delle apparenze visibili, di soppesarle e di interrogarle. […] Per Balzac la realtà costituisce sia lo scenario del dramma sia la maschera di un dramma più autentico e nascosto, un dramma misterioso al quale si può in un primo tempo soltanto alludere, per poi affrontarlo con una serie di ipotesi e giungere gradualmente a fare piena luce. Il suo dramma si pone nel campo del vero, strappato per così dire al mondo del reale”. Balzac, un “visionario appassionato” Balzac, prefazione della Comédie Humaine: [Rappresentare il quadro completo della società francese] “non era ancora nulla. Limitandosi a questa fedele riproduzione, uno scrittore poteva divenire il pittore più o meno fedele, più o meno felice, paziente o coraggioso dei tipi umani, il narratore dei drammi della vita intima, l’archeologo dell’arredamento di un’intera società, il catalogatore dei mestieri, il documentarista del bene e del male; ma per meritare gli elogi cui ogni artista deve aspirare, non dovevo studiare le ragioni o la ragione di questi fenomeni sociali, scovare il senso nascosto in questa immensa congerie di figure, passioni, avvenimenti?” Balzac, un “visionario appassionato” Baudelaire, Esposizione universale – 1855 – Belle arti: “Si racconta che Balzac (chi non ascolterebbe con rispetto qualsiasi aneddoto, anche il più piccolo, a proposito di un genio così grande?), trovandosi un giorno di fronte a un bel quadro, un paesaggio invernale, malinconico e tutto ghiacciato, sparso qua e là di capanne e di contadini sparuti, dopo aver guardato a lungo una casupola da cui saliva un esile fumo, esclamasse: ‘Che bello! Ma che fanno nella capanna? a che pensano, e quali sono i loro affanni? è stato buono il raccolto? hanno davvero scadenze da pagare?’”. Cimitero Père Lachaise Saint-Etienne du Mont Rue Neuve-Sainte-Geneviève Emile Zola (1840-1902) Nasce a Parigi il 10 aprile 1840, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza in provincia (Aix-en-Provence): – Il padre è un ingegnere di origine veneziana, incaricato di costruire una diga e un canale (il c.d. “canal Zola”) presso Aix-en-Provence; – Morto precocemente (1847), lascia orfano il figlio a sette anni, che vivrà a Aix fino a diciott’anni in una situazione sempre più disagiata; • Frequenta il collège Bourbon di Aix, dove stringe una forte amicizia con Paul Cézanne Emile Zola (1840-1902) Nel 1858 si trasferisce a Parigi, e nel 1859 di diploma Seguono circa tre anni di vita bohémienne, durante i quali vive in un alloggio a buon mercato sulla collina SainteGeneviève Frequenta atélier di pittura, legge, compone migliaia di versi. Lui stesso, anni dopo, parlerà di una “deplorevole” educazione romantica Inverno 1860-61: Ha una storia sentimentale con una certa Berthe, che però lo tradisce e lo getta nella disperazione Questa esperienza sarà trasposta nel suo primo romanzo, La Confession de Claude (1865) 1862: Viene assunto dalla Libreria Hachette Poco tempo dopo inizia a pubblicare articoli su riviste e giornali; diventa cronista, critico letterario e critico d’arte Zola, la recensione a Germinie Lacerteux (1865) Recensione a un romanzo di Jules e Edmond de Goncourt, Germinie Lacerteux (1864): “Eh sì, miei cari, l’artista ha il diritto di frugare in mezzo alla natura umana, di non nascondere niente del cadavere umano […]. A chi sostiene che i Goncourt siano andati troppo oltre, rispondo che non ci può essere un limite di principio nello studio della verità. […] C’è probabilmente una relazione intima tra l’uomo moderno, prodotto di una civiltà avanzata, e questo romanzo da rigagnolo, dagli odori acri e intensi […] Noi siamo malati di progresso, di industria, di scienza; viviamo nella febbre e ci dilettiamo a frugare le ferite, a scendere sempre più in basso, avidi di conoscere il cadavere del cuore umano”. Zola, la recensione a Germinie Lacerteux (1865) Jules e Edmond de Goncourt, Prefazione a Germinie Lacerteux (1864): – Attaccano frontalmente il pubblico, le sue convenzioni, i suoi gusti, le sue aspettative nei confronti dei romanzi – Rivendicano un modello di “romanzo vero”, “severo e puro”, “triste e violento”, uno “studio” che si impone i metodi e gli obiettivi della scienza per cercare “l’Arte e la Verità”; un romanzo “che viene dalla strada” e che conferisce piena cittadinanza letteraria agli strati sociali più bassi – “Vivendo nel XIX secolo, in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette ‘classi inferiori’ non avessero diritto al Romanzo”. Zola, Thérèse Raquin (1867) Prefazione alla seconda edizione (1868): In cui risponde al pubblico e alla critica, che hanno “accolto il libro con esclamazioni indignate”: “Spero che il lettore cominci a capire che il mio fine è stato soprattutto scientifico. […] Chiunque legga attentamente il romanzo, si accorgerà che ogni capitolo rappresenta lo studio di una anomalia fisiologica. / In altri termini sono stato determinato da un solo desiderio: con dei dati di fatto come un uomo vigoroso e una donna insoddisfatta svolgere il tema della ricerca, in loro, della bestia; non vedere altro che la bestia; gettarli al centro di un dramma e annotare con scrupolo ogni gesto e ogni sensazione di questi esseri. Mi sono, cioè, limitato a compiere su due organismi viventi quel lavoro analitico che i chirurghi eseguono sui cadaveri”. Zola, Thérèse Raquin (1867) Prefazione alla seconda edizione (1868): “Dovrete convenire che non è molto piacevole, appena usciti da un simile compito, quando ancora si assapora la gioia della ricerca della verità, sentirsi accusare di aver perseguito come unico fine la confezione di un osceno quadretto di genere. […] Mentre scrivevo Thérèse Raquin ho dimenticato il mondo, mi sono smarrito nel rendiconto esatto e minuzioso della vita, mi sono completamente dedicato all'analisi e allo studio del meccanismo umano e posso assicurarvi che i crudeli amori di Thérèse e Laurent per me non erano affatto immorali né potevano in alcun modo essere d'incentivo a funeste passioni. […] È per questo che non sono riuscito a nascondere la sorpresa provata nel sentir definire la mia opera come un'accozzaglia di fango e sangue, come un immondezzaio, una Zola, I Rougon-Macquart (1871-93) Inizio 1866: Zola lascia Hachette Maggio 1868: Napoleone III liberalizza la stampa e nascono moltissimi giornali d’opposizione, tra cui La Tribune e Rappel (con i quali collabora Zola) • 1870: Guerra franco-prussiana, disfatta francese a Sédan (che Zola racconterà in un romanzo successivo, La Debâcle, 1892), occupazione di Parigi da parte dell’essercito prussiano, caduta di Napoleone III. Zola ripara a Marsiglia e poi a Bordeaux; rientra a Parigi dopo la fine della guerra e dell’occupazione Zola, I Rougon-Macquart (1871-93) Les Rougon-Macquart: Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire Un ciclo di 20 romanzi, la cui prima idea risale al 1868 Pubblicati tra il 1871 (La Fortune des Rougons) e il 1893 (Le Docteur Pascal) Prefazione alla Fortune des Rougons (datata 1 luglio 1871): “Voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di esseri, si comporta in una società, sviluppandosi per dare vita a dieci, a venti individui che a prima vista sembrano profondamente dissimili, ma che l’analisi mostra intimamente legati tra loro. L’eredità ha le sue leggi, come il peso. / Tenterò di trovare e di seguire […] il filo che conduce matematicamente da un uomo a un altro uomo. E quando reggerò tutti i fili, quando avrò in mano un intero gruppo sociale, mostrerò all’opera questo gruppo come attore di un’epoca storica […] Zola, I Rougon-Macquart (1871-93) Prefazione alla Fortune des Rougons: Da tre anni raccoglievo i documenti di questa grande opera, e il presente volume era ormai scritto quando la caduta dei Bonaparte, della quale avevo bisogno come artista, e che trovavo sempre fatalmente al termine del dramma, senza osare sperare che fosse così vicina, è giunta a darmi lo scioglimento terribile e necessario della mia opera. Essa, a partire da oggi, è completa; si muove entro un cerchio concluso; diventa il quadro di un regno morto, di una strana epoca di follia e di vergogna. / Quest’opera, che sarà formata da vari episodi, è dunque nel mio pensiero la Storia naturale e sociale di una famiglia durante il Secondo Impero”. Zola, I Rougon-Macquart (1871-93) Principali romanzi del ciclo: Le Ventre de Paris (1873) L’Assommoir (1877) Nanà (1880) La Joie de vivre (1883) Germinal (1885) L’Oeuvre (1886) La Bête humaine (1890) L’Argent (1891) Zola, I precursori del Naturalismo Diderot, fautore di un “ritorno alla natura” Stendhal e Balzac, definiti “i nostri capiscuola”, nei quali si trovano “le fonti del nostro romanzo contemporaneo” Flaubert, “che porta a compimento il metodo naturalista” I fratelli Goncourt e Alphonse Daudet, scrittori il cui “talento non nasce dall’immaginazione, ma dalla capacità di riprodurre la natura con intensità” Zola, il saggio su Flaubert (1875) Gustave Flaubert, saggio pubblicato nel 1875 e poi incluso in un volume, Les Romanciers naturalistes: Balzac, Stendhal, Gustave Flaubert, Edmond et Jules de Goncourt, Alphonse Daudet, les romanciers contemporains (1881), in cui Zola suggerisce un confronto tra Balzac e Flaubert: Balzac è stato il grande iniziatore, ha messo a punto “la formula del romanzo moderno”, Ma questa formula è sparpagliata nell’“opera colossale di Balzac” Mentre Flaubert è riuscito a condensarla nelle 400 pp. di Madame Bovary, che dunque costituisce un modello perfetto, “il romanzo tipo, il modello definitivo del genere”. Esemplifica i tre tratti distintivi del romanzo naturalista: Zola, il saggio su Flaubert (1875) 1) Il rifiuto del romanzesco: “Il primo carattere del romanzo naturalista, di cui Madame Bovary è il tipo, è la riproduzione esatta della vita, l’assenza di ogni elemento romanzesco. […] È la vita riprodotta esattamente in una cornice di mirabile fattura. Ogni invenzione straordinaria ne è dunque bandita. Non vi si incontrano più bambini segnati alla nascita, poi perduti, che vengono ritrovati nello scioglimento. Non si parla più di mobili con cassetti segreti e di documenti che, al momento opportuno, servono per salvare l’innocenza perseguitata. Manca perfino qualunque intreccio, per quanto semplice sia. Il romanzo procede uniforme, raccontando le cose giorno per giorno, senza suscitare alcuna sosrpresa, offrendo lo spunto, tutt’al più, per un articolo di cronaca. E, quando è finito, è come se si lasciasse la strada per rientrare a casa”. Zola, il saggio su Flaubert (1875) 2) La morte dell’eroe: “Fatalmente, il romanziere uccide gli eroi, se accetta solo il corso ordinario dell’esistenza comune. Per eroi, intendo i personaggi che grandeggiano oltre misura, i fantocci trasformati in colossi. […] Al contrario, gli uomini rimpiccioliscono e rientrano nei ranghi quando si ha l’unica preoccupazione di scrivere un’opera vera, ponderata, che sia il processo verbale fedele di un’avventura qualunque. […] La bellezza dell’opera non sta più nell’ingigantimento di un personaggio […]; sta nella verità indiscutibile del documento umano, nella realtà assoluta di dipinti in cui tutti i dettagli occupano il loro posto, e soltanto quello. Zola, il saggio su Flaubert (1875) 2) La morte dell’eroe: Ciò che deforma quasi sempre i romanzi di Balzac è l’ingigantimento degli eroi; pensa di non farli mai abbastanza giganteschi; le sue potenti dita di creatore sanno plasmare solo dei giganti. Nella formula naturalista, questa esuberanza dell’artista, questo capriccio compositivo […] viene per forza condannato. Un livello uniforme abbassa tutte le teste, perché sono rare le occasioni in cui si debba veramente mettere in scena un uomo superiore”. Zola, il saggio su Flaubert (1875) 3) L’impersonalità della narrazione: “Il romanziere naturalista cerca di svanire completamente dietro l’azione che racconta. È il regista nascosto del dramma. Non si mostra mai nelle pieghe di una frase. Non lo si sente né piangere né ridere insieme ai suoi personaggi, né si permette di giudicare i loro atti. […] Si cercherebbe invano una conclusione, una morale, una lezione qualunque ricavata dai fatti. […] L’autore non è un moralista, ma un anatomista che si accontenta di spiegare ciò che trova nel cadavere umano. […] si tiene in disparte, soprattutto per ragioni artistiche, per lasciare all’opera la sua unità impersonale, il suo carattere di processo verbale inciso per sempre nel marmo”. Zola, Il gruppo di Médan Zola fonda il primo gruppo naturalista, che si riunisce nella sua casa di campagna di Médan Il manifesto del gruppo è Le Soirées de Médan (1880), • Un volume collettivo a cui partecipano - oltre a Zola - Guy de Maupassant, Joris-Karl Huysmans, Henri Céard, Léon Hennique e Paul Alexis • Sei novelle che affrontano da punti di vista diversi lo stesso tema (la guerra franco-prussiana del 1870) Regione: Nord - Pas-de-Calais Marchiennes: luogo reale Montsou: luogo immaginario Anzin: luogo reale, visitato da Zola Marchiennes Anzin Le concessioni minerarie nel nord della Francia Anzin Zola, Lo schermo realista Cfr. lettera di Zola ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: Scritta in forma epistolare E’ di fatto un breve trattato di estetica, articolato in vari capitoletti Zola, Lo schermo realista Precetto dell’ut pictura poesis: Formulato per la prima volta da Orazio, Ars poetica Diventa poi uno dei canoni fondamentali dell’estetica mimetica rinascimentale, insieme con il precetto dell’imitatio naturae Entrano a far parte di un sillogismo – Se la poesia deve imitare la natura, – E se la pittura è la migliore imitatrice della natura – Allora la poesia deve essere come la pittura Molti anni dopo, Roland Barthes (S/Z, 1970) parlerà del “modello della pittura”, sottolineando la “preminenza del codice pittorico nella mimesis letteraria” Zola, Lo schermo realista Leon Battista Alberti, De pictura (1435): Definisce il quadro, delimitato dalla cornice, una “aperta fenestra” Zola, Lo schermo realista Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” (1927): La superficie piana, bidimensionale della tela si proietta in uno spazio (illusoriamente) tridimensionale Secondo le modalità della percezione reale: La concezione prospettica “si fonda sulla volontà di costruire lo spazio figurativo […] a partire dagli elementi e secondo lo schema dello spazio visivo empirico” La prospettiva mira a trasformare il quadro in un “frammento della realtà”, perché la tela, la superficie materiale del quadro viene “negata come tale”, trasformata in un “piano trasparente attraverso il quale noi possiamo pensare di guardare in uno spazio aperto per quanto circoscritto in tutte le direzioni”. Zola, Lo schermo realista Peter Brooks, Realist Vision (2005): “Il realismo è per definizione un concetto altamente visuale, legato al fatto di registrare l’aspetto reale del mondo. Noi tendiamo a credere – e secoli di tradizione filosofica stanno dietro questa convinzione – che la vista sia il più obiettivo e imparziale dei nostri sensi. Così, qualunque resoconto fedele del reale, inteso come apparenza del mondo, deve invocare un’analisi e un inventario visuale. Deve dare il senso della presenza del mondo fisico, come in una natura morta. In effetti, il realismo come termine critico e polemico entra nella cultura, nei primi anni Cinquanta, per caratterizzare la pittura – in particolare quella di Courbet – e poi, per estensione, viene usato per indicare uno stile letterario. È un termine risolutamente attaccato al visuale, a quelle opere che cercano di inventariare il mondo immediatamente percepibile”. Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Ogni opera d’arte è come una finestra aperta sulla creazione. C’è, inserito nel vano della finestra, una sorta di Schermo trasparente [une sorte d’Écran transparent], attraverso il quale si percepiscono gli oggetti più o meno deformati, sottoposti a cambiamenti più o meno sensibili nelle loro linee e nel loro colore. Questi cambiamenti dipendono dalla natura dello Schermo” Esistono tre tipi di schermo: Classico, Romantico, Realista Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Lo Schermo classico è un bel foglio di talco purissimo e di grana fine e solida, di un biancore latteo. Le immagini vi si disegnano nettamente, con un semplice tratto nero. I colori degli oggetti si indeboliscono attraversando la velata limpidezza, talvolta svaniscono del tutto. Quanto alle linee, subiscono una sensibile deformazione, tendono tutte verso la linea curva o la linea retta, si assottigliano, si allungano, con lente ondulazioni. La creazione, in questo cristallo freddo e poco traslucido, perde tutte le sue asprezze, tutte le sue energie vive e luminose; conserva solo le ombre e si riproduce sulla superficie liscia, come un bassorilievo. Lo Schermo classico, in una parola, è una lente di ingrandimento che sviluppa le linee e blocca il passaggio dei colori”. Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Lo Schermo romantico è un vetro […] colorato con le sette sfumature dell’arcobaleno. Non soltanto lascia passare i colori, ma li rafforza ulteriormente […]. La creazione che ci offre questo Schermo è una creazione tumultuosa e attiva. Le immagini si riproducono vigorosamente con larghe coltri di luce e d’ombra. […] Lo Schermo romantico, insomma, è un prisma dalla potente rifrazione, che spezza ogni raggio luminoso e lo decompone in un abbagliante spettro solare”. Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Lo Schermo realista è una semplice lastra di vetro [un simple verre à vitre], molto sottile, molto chiara, che ha la pretesa di essere così perfettamente trasparente che le immagini la attraversino e vi si riproducano poi in tutta la loro realtà. Dunque, nessun cambiamento nelle linee o nei colori: una riproduzione esatta, sincera e naturale.. Lo schermo realista nega la sua stessa esistenza”. Zola, Lo schermo realista Zola, Saggio su Stendhal, in Les Romanciers naturalistes (1881): “Volevo una composizione semplice, una lingua netta, qualcosa come una casa di vetro che lasciasse vedere le idee al suo interno” Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Noi vediamo la creazione in un’opera attraverso un uomo, attraverso un temperamento, una personalità. […] La realtà esatta è dunque impossibile in un’opera d’arte. […] C’è deformazione di ciò che esiste. C’è menzogna. […] Riprendendo il paragone, se la finestra fosse libera, gli oggetti collocati al di là apparirebbero nella loro realtà. Ma la finestra non è libera, né potrebbe esserlo. Le immagini devono trovare un mezzo, e questo mezzo deve per forza modificarle, per quanto puro e trasparente possa essere”. Zola, Lo schermo realista Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864: “Per quanto ne dica, [lo schermo realista] esiste, e per questo non può vantarsi di restituirci la creazione nella splendida bellezza della verità. Per quanto possa essere chiaro, sottile, per quanto sia solo una lastra di vetro, ha comunque un suo colore, uno spessore qualunque; tinge gli oggetti […] una fine polvere grigia offusca la sua limpidezza”. “Tutte le mie simpatie, se occorre dirlo, sono per lo Schermo realista; appaga la mia ragione, e sento in lui immense bellezze di solidità e di verità. […] preferisco lo Schermo che, stringendo più da vicino la realtà, si accontenta di mentire giusto un po’ per farmi sentire un uomo in un’immagine della creazione”. Zola, Naturalismo e senso del reale Zola, Il naturalismo nel teatro (1881): “Il naturalismo è il ritorno alla natura, è l’operazione che gli scienziati hanno compiuto il giorno in cui hanno pensato di partire dallo studio dei corpi e dei fenomeni, di fondarsi sull’esperimento, di procedere con l’analisi. Anche in letteratura il naturalismo è il ritorno alla natura e all’uomo, l’osservazione diretta, l’esatta anatomia, l’accettare e il raffigurare ciò che è. Il lavoro è stato il medesimo per lo scrittore e per lo scienziato: entrambi hanno dovuto sostituire le astrazioni con la realtà, le formule empiriche con le analisi rigorose. […] Si trattava di ricominciare da capo, di conoscere l’uomo alle sorgenti stesse del suo essere […]; gli scrittori non dovevano ormai che riprendere l’edificio alla base, producendo il maggior numero possibile di documenti umani Zola, Naturalismo e senso del reale Zola, Il naturalismo nel teatro (1881): “Il romanzo naturalista è semplicemente una ricerca sulla natura, gli uomini e le cose. Esso non ha più alcun interesse per l’ingegnosità di un racconto bene inventato e svolto secondo certe regole. L’immaginazione non ha più spazio, l’intreccio importa poco al romanziere, il quale non si preoccupa né dell’esposizione, né della trama, né della conclusione; egli cioè non interviene per togliere o aggiungere nulla alla realtà, non costruisce di sana pianta una impalcatura secondo le esigenze di un’idea concepita prima. […] Invece di immaginare un’avventura, di complicarla, distribuendo colpi di scena che la conducano via via ad una conclusione finale, si prende semplicemente nella vita la storia di un uomo o di un gruppo di uomini, di cui si registrano fedelmente le azioni. L’opera diventa un processo Zola, Naturalismo e senso del reale Zola, Il senso del reale (1878): “Far muovere personaggi reali in un ambiente reale, offrire al lettore un brandello di vita umana: il romanzo naturalista è tutto qui. / Poiché l’immaginazione non è più la qualità principale del romanziere, che cosa dunque l’ha sostituita? Occorre sempre una qualità dominante. Oggi la qualità principale del romanziere è il senso del reale. […] Il senso del reale consiste nella capacità di vedere la natura e di rappresentarla così come è”. Zola, Il romanzo sperimentale Grande influsso di Hippolyte Taine, e in generale di una cultura materalista e razionalista che concepisce l’uomo “come fatto di natura, sottoposto alle leggi chimico-fisiche e determinato dalle influenze dell’ambiente” Zola, Il romanzo sperimentale Zola, Il romanzo sperimentale (1881): “Si confronti per un momento l’attività dei romanzieri idealisti con la nostra; qui la parola idealisti indica gli scrittori che si allontanano dall’osservazione e dall’esperimento per fondare le proprie opere sul soprannaturale e l’irrazionale, e che, in una parola, ammettono forze misteriose, al di fuori del determinismo dei fenomeni. […] i romanzieri idealisti si attengono per partito preso all’ignoto, per i più diversi generi di pregiudizi religiosi e filosofici, con il curioso pretesto che l’ignoto è più elevato e più bello del noto”. Zola, Il romanzo sperimentale Il modello è Claude Bernard, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, da cui cita brani come il seguente: “Si dà il nome di osservatore a colui che applica metodi di ricerca semplici o complessi allo studio dei fenomeni senza alterarli, prendendoli così come avvengono in natura. Si dà il nome di sperimentatore, invece, a colui che adopera metodi di ricerca semplici o complessi per alterare o modificare, secondo uno scopo qualsiasi, i fenomeni naturali o per produrli in condizioni in cui normalmente non avvengono in natura”. Zola, Il romanzo sperimentale “Ritornando al romanzo, vediamo ugualmente che il romanziere è insieme un osservatore e uno sperimentatore. L’osservatore per parte sua pone i fatti quali li ha osservati, individua il punto di partenza, sceglie il terreno concreto sul quale si muoveranno i personaggi e si produrranno i fenomeni. Poi entra in scena lo sperimentatore che impianta l’esperimento, cioè fa muovere i personaggi in una storia particolare, per mettere in evidenza che i fatti si succederanno secondo una concatenazione imposta dal determinismo dei fenomeni studiati. […] È innegabile che il romanzo naturalista, quale ora lo intendiamo, è un vero e proprio esperimento che il romanziere compie sull’uomo, con 1’aiuto dell’osservazione” Zola, Il romanzo sperimentale “Citerò ancora questa immagine di Claude Bernard che mi ha molto colpito: ‘Lo sperimentatore è il giudice istruttore della natura’. Noi romanzieri siamo i giudici istruttori degli uomini e delle loro passioni”. Zola, Il romanzo sperimentale “Sono dunque giunto a definire questi punti: il romanzo sperimentale è conseguenza dell’evoluzione scientifica del secolo; esso continua e completa la fisiologia che a sua volta si basa sulla chimica e sulla fisica; sostituisce allo studio dell’uomo astratto, dell’uomo metafisico, lo studio dell’uomo come fatto di natura, sottoposto alle leggi chimico-fisiche e determinato dalle influenze dell’ambiente; è, in una parola, la letteratura dell’età scientifica, come la letteratura classica e romantica corrispondeva all’età della scolastica e della teologia”. Zola, Il romanzo sperimentale “Un rimprovero stupido che viene mosso a noi scrittori naturalisti è di voler essere solamente dei fotografi. Abbiamo un bel dichiarare che diamo valore al temperamento, all’espressione personale, non di meno si continua a risponderci con argomenti cretini sull’impossibilità di attenersi rigorosamente al vero, sul bisogno di ordinare i fatti per fare qualsiasi opera d’arte. […] L’idea di esperimento porta con sé l’idea di un intervento modificatore. In effetti noi partiamo da fatti veri, che sono la base indistruttibile del nostro lavoro; ma, per metterne in evidenza la concatenazione causale, bisogna preparare e orientare i fenomeni; questa è la nostra parte di invenzione e di genialità nell’opera. Così, […] quando nei nostri romanzi usiamo il metodo sperimentale, noi dobbiamo modificare la natura senza uscire dalla natura”. Germinal, Storia del testo 1. Inizio del 1884: Zola decide di scrivere “qualcosa che si riferisca a uno sciopero in un paese di minatori” 2. Accumula una enorme documentazione tecnica e scientifica sullo sfruttamento delle miniere, sugli scioperi e sulla questione operaia (legge testi scientifici sulle miniere, resoconti di processi del 1869-70 in seguito a sommosse nelle miniere) 3. Febbraio 1884: si reca ad Anzin, dove è appena iniziato uno sciopero: Scende nella miniera, parla con i minatori, visita i villaggi e le osterie. E ricava 100 pagine di documentazione dettagliata, I miei appunti su Anzin 4. Apr.1884-gen.1885: Stesura del testo, pubblicato a puntate sul quotidiano “Gil Blas” (26 nov. 1884-25 feb. 1885) e poi in volume (Charpentier, 21 marzo 1885) Philippe Hamon: Un discorso condizionato (1973) “Sia, ad esempio, una descrizione di locomotiva da inserire in un dato punto del racconto. […] Posto che l’autore non deve né apparire né trasparire nel suo enunciato, perché facendolo darebbe l’impressione di monopolizzarlo a suo esclusivo vantaggio (postulato dell’”obiettività”, dell’”impersonalità”), saranno i personaggi ad essere delegati alla visione e ad assumerla su di sé. / A tal fine essi dovranno […] guardare la locomotiva […] perché la descrizione deve essere sentita dal lettore come tributaria dell’occhio del personaggio che l’assume (quindi di un poter vedere) e non del sapere del romanziere (una “scheda”)”. Lo spazio del romanzo: Casa Maheu E’ composta da Una stanza a pianterreno, un “locale alquanto vasto” arredato con una stufa di ghisa, una dispensa, un tavolo con sedie Un’unica stanza quadrata al primo piano, a cui si accede da una scala di legno scricchiolante, in cui si trovano un armadio, una tavola, due sedie e tre letti, in cui dormono i figli (due per ogni letto): Zacharie e Jeanlin, Lénore e Henri, Cathérine e Alzire Padre e madre dormono nel corridoio del pianerottolo, e a ridosso del loro letto si trova la culla dell’ultima figlia, Estelle Lo spazio del romanzo: I luoghi di svago A l’Avantage, osteria gestita da Rasseneur (cfr. Parte II, cap. 6) Le Bon Joyeux, osteria e locale da ballo gestito dalla vedova Désir (cfr. parte III, cap. 2) Lo spazio del romanzo: Gli spazi dei borghesi La Piolaine, residenza dei Grégoire (cfr. Parte II, cap. 1), marito e moglie con un’unica figlia, Cécile Palazzina della direzione, in cui abita il direttore della miniera, Hennebeau (cfr. soprattutto Parte IV, capp. 1 e 2): pranzo con i Grégoire e Paul Négrel, ingegnere, nipote del direttore György Lukács, Per il centenario di Zola (1940): “Zola ha potuto essere un grande scrittore soltanto perché non sempre è riuscito a eseguire con piena e logica coerenza il suo programma di scrittore”. Henri Mitterand, Le discours du roman: “Germinal è attraversato da una frattura: il sapere metodico [cioè quel sistema di informazioni sul mondo che il romanzo veicola, e sulle quali si regge: tecniche, sociali, politiche, ideologiche] è incrinato dall’immaginario mitico. Da qui deriva la sua ricchezza letteraria. Paradossalmente, è da questa discordia interna che l’opera trae i suoi effetti migliori”. Henri Mitterand, Le discours du roman: [Sottolinea che, nella rappresentazione della miniera,] “La realtà concreta e l’analisi razionale vengono progressivamente svuotate per lasciar posto al fantastico e al favoloso. [...] – La miniera, come spazio sotterraneo, rimanda al concetto di sepoltura (i minatori sono degli insetti, ma sono anche dei morti viventi, progionieri della tomba), al concetto di soffocamento (il crollo delle gallerie, l’emanazione di gas nocivi), al concetto di divoramento (il Voreux divora, inghiotte ogni giorno la sua razione di uomini, è un ventre insaziabile; – L’organizzazione di questo spazio sotterraneo evoca le città sepolte: il suo labirinto rimanda al concetto di smarrimento, di disorientamento, di abolizione di tutte le vie d’uscita. Henri Mitterand, Le discours du roman: – La miniera, come spazio delle tenebre, è il luogo in cui si scaricano liberamente e violentemente tutte le pulsioni istintive che la luce del giorno riesce a censurare o a incanalare: la fame, il sesso, l’omicidio. È il luogo in cui l’uomo ridiventa una bestia Gli elementi costitutivi di questo spazio perdono dunque la loro inerzia e diventano elementi mitici, poiché questo gioco di corrispondenze è il risultato del sistema di correlazioni stabilito tra questi elementi e l’uomo, tra l’inerte e l’animato”.