Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte,
ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766):
“Se è vero che la pittura adopera per le sue imitazioni mezzi
o segni completamente diversi da quelli della poesia; ovvero
quella figure e colori nello spazio, mentre questa suoni
articolati nel tempo; e se i segni devono avere indubbiamente
un rapporto adeguato con il designato, allora i segni ordinati
l’uno accanto all’altro possono a loro volta avere solo oggetti
esistenti l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una
accanto all’altra, mentre segni che si susseguono possono
esprimere oggetti che si susseguono o le cui parti si
susseguono.
Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte,
ovvero dei confini della pittura e della poesia (1766):
“Oggetti che esistono l’uno accanto all’altro, o le cui parti
esistono l’una accanto all’altra, si chiamano corpi. Di
conseguenza sono i corpi, con le loro qualità visibili, i veri
oggetti della pittura. Oggetti che si susseguono l’un l’altro, o
le cui parti si susseguono, si chiamano in generale azioni. Di
conseguenza le azioni sono i veri oggetti della poesia. […]
È dunque certo: la successione temporale è l’ambito del
poeta, così come lo spazio è l’ambito del pittore.
Mettere due momenti necessariamente lontani nello stesso
quadro […] è un’intrusione del pittore nell’ambito del poeta
[…]. Enumerare al lettore passo dopo passo le molte parti o
cose che in natura devo necessariamente vedere d’un tratto
[…] è un’intrusione del poeta nell’ambito del pittore”.
Gérard Genette, La letteratura e lo spazio (1969):
“Può sembrare paradossale parlare di spazio a proposito
della letteratura: apparentemente, infatti, il modo di
esistenza di un’opera letteraria è essenzialmente temporale,
poiché l’atto di lettura con il quale noi realizziamo l’essere
virtuale di un testo scritto è fatto, come l’esecuzione di una
partitura musicale, di una successione di istanti che si
compie nella durata, nella nostra durata”.
Gérard Genette, La letteratura e lo spazio (1969):
“Può sembrare paradossale parlare di spazio a proposito
della letteratura: apparentemente, infatti, il modo di
esistenza di un’opera letteraria è essenzialmente temporale,
poiché l’atto di lettura con il quale noi realizziamo l’essere
virtuale di un testo scritto è fatto, come l’esecuzione di una
partitura musicale, di una successione di istanti che si
compie nella durata, nella nostra durata”.
“Tuttavia si può, anzi si deve considerare anche la letteratura
nei suoi rapporti con lo spazio”.
Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1975):
“Chiameremo cronotopo (il che significa letteralmente
‘tempospazio’) l’interconnessione sostanziale dei rapporti
temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita
artisticamente. Questo termine è usato nelle scienze
matematiche ed è stato introdotto e fondato sul terreno della
relatività (Einstein). A noi non interessa il significato
speciale che esso ha nella teoria della relatività e lo
trasferiamo nella teoria della letteratura quasi come una
metafora (quasi, non del tutto); a noi interessa che in questo
termine sia espressa l’inscindibilità dello spazio e del tempo
(il tempo come quarta dimensione dello spazio)”.
Franz Kakfa, La metamorfosi:
“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa
si trovò trasformato in un enorme insetto”.
Italo Calvino, Cominciare e finire (1985):
“L’inizio d’un romanzo è l’ingresso in un mondo diverso,
con caratteristiche fisiche, percettive, logiche tutte sue. […]
L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente
diverso: un mondo verbale. Fuori, prima dell’inizio c’è o si
suppone che ci sia un mondo completamente diverso, il
mondo non scritto, il mondo vissuto o vivibile. Passata
questa soglia si entra in un altro mondo, che può intrattenere
col primo rapporto decisi volta per volta, o nessun rapporto.
L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo
di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili.
Studiare le zone di confine dell’opera letteraria è osservare i
modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che
vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può
‘esprimere’”.
Michel Butor, “Philosophie de l’ameublement” (1964):
“Un romanzo è innanzitutto un oggetto, un libro, quel
‘volume’ sulla nostra biblioteca […] Quando lo apriamo,
quando i nostri occhi scorrono tra le pagine, la stanza in cui
ci troviamo incomincia a “lasciare posto” a un altro luogo
[…]. Me ne vado così camminando di luogo in luogo,
guidato dalle frasi dell’autore; faccio sorgere davanti a me
arredi, mobili, volti; mi aggiro […] in uno spazio secondo,
ingombro o vuoto, amorfo o regolato, orientato, polarizzato
o neutro”.
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
La cittadina di Verrières può essere considerata una delle più
graziose della Franca Contea. Le sue case bianche, dai tetti aguzzi e
dalle tegole rosse, si arrampicano sul declivio di una collina dove
macchie di vigorosi castagni mettono in risalto ogni minima
sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi sotto le
fortificazioni costruite un tempo dagli spagnoli e ora in rovina.
A nord la città è protetta da un'alta montagna, diramazione del
Giura. I primi freddi d'ottobre coprono di neve le cime frastagliate
del Verra. Un torrente, precipitando dalla montagna, attraversa
Verrières prima di gettarsi nel Doubs e mette in moto un gran
numero di segherie: industria assai semplice che dà lavoro alla
maggior parte degli abitanti, contadini più che borghesi. Non è
questa, tuttavia, la fonte di maggior ricchezza per la cittadina. Il
benessere generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha consentito
di ricostruire le facciate di quasi tutte le case di Verrières è dovuto
alla fabbrica di tele stampate, dette di Mulhouse.
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
Nota alla fine del romanzo: “Per evitare ogni riferimento alla vita
privata l’autore ha inventato una cittadina, Verrières, e quando ha
avuto bisogno di un vescovo, di una giuria, di una corte d’Assise li
ha ambientati sullo sfondo di Besançon, dove non è mai stato”
Stendhal, Lettera del 29 ott. 1832 al Conte Salvagnoli :
“Verrières è una delle più graziose cittadine della Franca Contea,
costruita sul declivio di una collina, in mezzo a macchie di grandi
castagni. Ai piedi di questa collina, verso mezzogiorno, scorre il
Doubs, uno dei fiumi più pittoreschi della Francia. Dal lato nord la
città è protetta da una delle montagne del Giura. […]
Verrières, in questo libro, è un luogo immaginario, che l’autore ha
scelto come tipo delle città di provincia”
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
Georges Blin, Stendhal et les problèmes du roman (1954):
“Per convincerci che la sua Verrières esiste, o, se vogliamo, che
è preesistita al dramma che vi si è svolto, la pone come
sussistente alla data in cui la storia viene raccontata, la descrive
non come era ma come è, il che, fin dall’inizio, tende a smentire
che ci si trovi in presenza di un romanzo [...]. In questo modo,
siamo indotti a mettere tra parentesi il carattere chimerico e
ipotetico del tempo in cui la storia si iscrive”.
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
Entrando in città si rimane storditi [A peine entre-t-on dans la
ville que l'on est étourdi ] dal fracasso di una macchina rumorosa
e terribile a vedersi. Venti pesanti martelli, che si abbattono con
un frastuono tale da far tremare il selciato, sono sollevati da una
ruota spinta dall'acqua del torrente. Ogni giorno ciascuno di
questi martelli fabbrica chi sa quante migliaia di chiodi. E sono
ragazze giovani e graziose, quelle che sottopongono ai colpi di
questi enormi martelli i pezzettini di ferro che vengono poi
trasformati rapidamente in chiodi. Questo lavoro, così duro in
apparenza, è uno dei più stupefacenti per il viaggiatore [le
voyageur] che si spinge per la prima volta sulle montagne, al
confine tra la Francia e la Svizzera. Se poi il viaggiatore,
entrando a Verrières, chiede di chi è la bella fabbrica di chiodi
che assorda i passanti sulla via principale, gli viene risposto con
accento strascicato: «Ah! è del signor sindaco!
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
E per poco che il viaggiatore si fermi alcuni istanti in questa
grande via principale, che sale dalle rive del Doubs fin verso la
sommità della collina, c'è da scommettere cento contro uno che
vedrà comparire un uomo robusto dall'aria indaffarata e
imponente.
Al suo apparire tutte le teste si scoprono rapidamente. I suoi
capelli tendono al grigio, e grigio è il suo vestito. […] Ma, ben
presto, il viaggiatore che viene da Parigi [le voyageur parisien] è
colpito da un certo che di compiacimento e di sufficienza, misto
a qualcosa di limitato e privo di fantasia. Alla fine ci si accorge
[on sent enfin] che il talento di quest'uomo si limita alla capacità
di farsi pagare con grande esattezza dai debitori, e di pagare, a
sua volta, il più tardi possibile.
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
Tale è il sindaco di Verrières, signor de Rênal. Dopo aver
attraversato la via con andatura imponente, egli entra nel
municipio e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma se
quest'ultimo continua la sua passeggiata, dopo cento passi vede
una casa abbastanza bella e, attraverso una cancellata, degli
splendidi giardini. Più oltre, la linea dell'orizzonte è disegnata
dalle colline della Borgogna e sembra fatta apposta per la gioia
degli occhi. Questa vista fa scordare al viaggiatore l'atmosfera
appestata dai piccoli interessi commerciali che cominciano ad
asfissiarlo.
Viene informato [on lui apprend que] che quella è la casa del
sindaco. I profitti della grande fabbrica di chiodi hanno
consentito al primo cittadino di Verrières di costruire questa bella
dimora di pietra squadrata, da poco finita. […]
Stendhal, Il rosso e il nero (1830)
Anche le terrazze, che sostengono le diverse parti di questo
splendido giardino e che di balza in balza scendono fino al
Doubs, sono dovute alla perizia di Rênal nel commercio del
ferro. Non aspettatevi di trovare in Francia [ne vous attendez point
à trouver en France] i pittoreschi giardini che circondano le città
manifatturiere della Germania, come Lipsia, Francoforte,
Norimberga, ecc. Nella Franca Contea più si costruiscono muri, più
si arricchiscono le proprietà di pietre poste l'una sull'altra, e più si
ha diritto al rispetto dei vicini. I giardini di Rênal, irti di muri, sono
ammirati anche perché abbracciano lembi di terreno comperato a
peso d'oro. Ad esempio, quella segheria che vi ha colpito [vous a
frappé] al vostro ingresso in Verrières per la sua singolare
posizione sul Doubs, e dove avete notato [vous avez remarqué] sul
tetto una tavola col nome SOREL scritto a lettere cubitali, sei anni
or sono sorgeva sull'area della quarta terrazza dei giardini di Rênal,
attualmente in costruzione.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due
catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda
dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a
ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un
promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il
ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più
sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in
cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome
di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua
distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino,
l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli
in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è
chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di
su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo
discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta
giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più
comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e
continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in
ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque.
Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto
ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di
ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per
la montagna.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al
territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi
viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo
ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a
diventar città. […] Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture
alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia,
strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto
affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo,
non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte;
ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia
per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre
qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno
della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella
parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa
spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi
svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte,
rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e
contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol
giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si
rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle
falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il
magnifico dell'altre vedute.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata
verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don
Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di
questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel
manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva
tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro,
chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della
mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena,
proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un
piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero:
poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li
fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già
scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si
dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali
pezze di porpora.
Charles Dickens, Grandi speranze (1860)
Pirrip era il cognome di mio padre e Philip il mio nome di
battesimo, ma la mia lingua infantile non riuscì a cavarne nulla
di più lungo o più esplicito di Pip. Sicché cominciai a chiamare
me stesso Pip e Pip mi chiamarono gli altri [My father's family
name being Pirrip, and my Christian name Philip, my infant
tongue could make of both names nothing longer or more
explicit than Pip. So, I called myself Pip, and came to be called
Pip].
In quanto al cognome Pirrip, mi baso sull'autorità della tomba
di mio padre e su mia sorella - la moglie di Joe Gargery, il
fabbro. Non avendo mai visto mio padre o mia madre e neppure
una loro immagine (a quei tempi l'era della fotografia era ancora
lontana), le mie prime fantasie sul loro aspetto derivarono,
assurdamente, dalle pietre tombali.
Charles Dickens, Grandi speranze (1860)
La forma delle lettere su quella di mio padre, suscitò in me la
strana idea che fosse un uomo quadrato, robusto, scuro, con
capelli neri e ricci. I caratteri e il tenore dell'epitaffio ANCHE
GEORGIANA MOGLIE DEL SUDDETTO, mi portarono
ingenuamente a concludere che mia madre fosse lentigginosa e
malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra, lunghe circa due
palmi, ordinatamente disposte in fila accanto alla tomba e
consacrate alla memoria dei miei cinque fratellini - che smisero
ben presto di arrabattarsi e lottare per sopravvivere - sono
debitore di una certezza in cui credevo fervidamente, e cioè che
fossero nati supini con le mani in tasca, e che ve le avessero
tenute sinché erano rimasti su questa terra.
Charles Dickens, Grandi speranze (1860)
Avevamo la palude, giù in basso lungo il fiume, a non più di venti
miglia dal mare - nel tratto in cui si formava l'ansa. Credo di aver
avuto la prima percezione, estremamente vivida e netta,
dell'identità delle cose, in un rigido memorabile pomeriggio,
all'imbrunire. Fu allora che scoprii con certezza che quel luogo
desolato coperto di ortiche era il cimitero; e che Philip Pirrip,
defunto di questa parrocchia, e anche Georgiana moglie del
suddetto, erano morti e sepolti; e che Alexander, Bartholomew,
Abraham, Tobias e Roger, bambini del sunnominato, erano
anch'essi morti e sepolti; e che la piatta distesa fosca al di là del
cimitero, intersecata da canali, argini e barriere, su cui pascolava
sparso il bestiame, era la palude; e che la bassa linea livida più giù
era il fiume; e che la tana remota e selvaggia da cui si scatenava il
vento, era il mare; e che il mucchietto di brividi che sentiva
crescere la paura di ogni cosa e si metteva a piangere, era Pip.
Charles Dickens, Grandi speranze (1860)
«Silenzio!», gridò una voce tremenda mentre un uomo sbucava
tra le tombe, di fianco al portico della chiesa. «Sta zitto, piccolo
demonio, se non vuoi che ti taglio la gola!».
Un uomo spaventoso, vestito di ruvido panno grigio, con un
grosso cerchio di ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con
le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa.
Rimasto a macerare nell'acqua, a soffocare nel fango, azzoppato
da pietre, ferito da sassi, punto da ortiche, graffiato da rovi; un
uomo zoppo e tremante, truce e torvo, che batteva i denti
afferrandomi per il mento.
Charles Dickens, Grandi speranze (1860)
Quando mi fermai a guardarlo, la palude era solo una linea
orizzontale lunga e nera; e anche il fiume era solo una linea
orizzontale, molto più stretta, ancora non così buia; e il cielo era
solo un insieme di lunghe, irate linee rosse frammiste a spesse linee
nere. In riva al fiume riuscivo a malapena a distinguere le uniche
due cose nere che parevano ergersi sul paesaggio piatto. Una era la
boa che serviva da segnale ai marinai - simile a una botte senza
cerchi in cima a un palo - una brutta cosa, a vederla da vicino;
l'altra era una forca, da cui pendevano delle catene che un tempo
avevano avvinto un pirata. L'uomo zoppicando vi si avvicinava,
quasi fosse il pirata tornato in vita, disceso dalla forca e
intenzionato a risalirvi per impiccarsi un'altra volta. Nel pensarlo,
trasalii dal terrore […]. Mi guardai tutt'intorno alla ricerca
dell'orrendo giovane senza scoprirne traccia. Ma a quel punto ero di
nuovo pieno di paura e scappai a casa senza fermarmi.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il Ville-deMontereau, sul punto di partire, lanciava grosse spire di fumo
davanti al quai Saint-Bernard.
Arrivava gente trafelata; barili, rotoli di corda, cesti di
biancheria ingombravano il passaggio; i marinai non davan retta
a nessuno; urti, spintoni; i bagagli venivano issati a bordo fra i
due tamburi e il baccano si scioglieva nel fischio vago e denso
dei vapore che sprigionandosi tra fogli di lamiera avvolgeva
tutto in una nube biancastra mentre la campana, a prua, non
smetteva di rintoccare.
Finalmente la nave partì; e le due rive cominciarono a
svolgersi come due larghi nastri trascinando via la loro
processione di magazzini, fabbriche, cantieri.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Un giovane di diciott'anni, con i capelli lunghi, se ne stava
immobile vicino al timone tenendo un album sotto il braccio.
Guardava passare, nella nebbia, campanili e palazzi di cui non
sapeva il nome; a un tratto, con un'ultima occhiata, abbracciò
l'Île Saint-Louis, la Cité, Notre-Dame; poi, mentre Parigi
scompariva rapidamente, si lasciò sfuggire un gran sospiro.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Superati da poco gli esami di baccelliere, Federico Moreau
stava tornando a Nogent-sur-Seine dove gli sarebbe toccato di
languire per due mesi prima di ripartire per andarsi a iscrivere a
legge. Sua madre l'aveva spedito a Le Havre, con i soldi contati,
per far visita a uno zio dal quale sperava che il figlio potesse
ereditare. Federico n'era tornato soltanto il giorno prima, e si
rammaricava che non gli fosse riuscito - rincasando per la via
più lunga - di fermarsi un po' nella capitale.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
La confusione diminuiva, tutti i passeggeri s'erano sistemati;
qualcuno si scaldava stando in piedi vicino alla macchina mentre
la ciminiera buttava su, a intervalli precisi, il suo pennacchio
nero con una specie di rantolo. Piccole gocce di rugiada
imperlavano gli ottoni; il ponte sussultava d'una continua leggera
vibrazione interna e le ruote, girando, battevano rapide l'acqua.
Le rive del fiume, ora, eran sabbiose. S'incontravano, lungo il
percorso, carichi di legname che al rimescolio delle onde si
mettevano a ondeggiare; o, seduto in una barca a remi, un uomo
intento alla pesca; poi le nebbie vaganti si sciolsero, e venne
fuori il sole; la collina che seguiva da destra il corso della Senna
s'appiattì a poco a poco mentre un'altra, più vicina, prendeva
forma sulla riva opposta.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Gli alberi che le facevan corona circondavano case basse coi
tetti all'italiana, giardini in declivio cintati da muri nuovi,
cancellate di ferro, distese d'erba, serre, vasi di gerani posati a
distanze regolari su balaustre alle quali doveva esser comodo
affacciarsi. Vedendo quelle dimore così graziose, così tranquille,
più d'un passeggero avrebbe voluto esserne il proprietario,
passare là il resto dei suoi giorni con un buon biliardo, una barca,
una moglie o qualche altra dolcezza. L'incanto tutto nuovo d'una
gita fluviale favoriva le confidenze. Gli spiritosi della compagnia
cominciavano a darsi da fare. Molti cantavano o si versavan da
bere. Si stava allegri.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Henri Mitterand, L’Illusion réaliste (1994):
“Ecco che fin dall’inizio si estende davanti ai nostri occhi,
sullo schermo del nostro sogno di lettori, il panorama di un
paesaggio parigino. Ed eccoci quasi imbarcati con Frédéric
Moreau su questo battello, che lascia l’Ile Saint-Louis, la Cité,
Notre-Dame, scivola lungo la Senna e risale il fiume in direzione
di Nogent-sur-Seine. Una superba apertura romanzesca, questa
prima pagina, che abbraccia in un colpo solo Parigi e il suo
fiume, la città e le rive rurali, il campo del paesaggio e il
controcampo del battello, la collettività anonima dei passeggeri e
la sagoma delineata di Frédéric, seguendo questo motivo della
partenza che inaugura un triplice spazio:
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale (1869)
Henri Mitterand, L’Illusion réaliste (1994):
lo spazio del fiume, che trasporta Frédéric Moreau in un viaggio
al tempo stesso iniziatico e regressivo – ritorna, come sappiamo,
risalendo il corso del fiume, verso il girone materno; lo spazio di
una carriera, quella che tenterà, come dicono le prime righe, ‘M.
Frédéric Moreau, nouvellement reçu bachelier’; e infine lo
spazio della lettura, lo spazio del libro, in seno al quale il lettore
inizia a sua volta un viaggio immaginario, sul ritmo di quello del
personaggio”.
Franz Kafka, Il castello (1926)
Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella
neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano,
non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a
lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al
paese e guardò su nel vuoto apparente.
Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano
ancora svegli, l'oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e
sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella
sala su un pagliericcio. K. fu d'accordo. Alcuni contadini
sedevano ancora davanti alla loro birra, ma egli non volle parlare
con nessuno, andò a prendersi da solo il pagliericcio in solaio e
si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano
silenziosi, egli li osservò ancora un poco con gli occhi stanchi,
poi si addormentò.
Franz Kafka, Il castello (1926)
Ma non passò molto che fu svegliato. Un giovane in abito
cittadino con un viso da attore, occhi sottili, sopracciglia folte,
stava accanto a lui insieme all'oste. I contadini erano ancora lì,
alcuni avevano girato la sedia per vedere e udire meglio. Il
giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si
presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo
paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo
abita e pernotta nel castello. Nessuno può farlo senza il permesso
del conte. Ma lei questo permesso non ce l'ha, o almeno non l'ha
esibito».
K., che si era levato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i
due dal basso in alto e disse: «In che paese mi sono perso? C'è
un castello qui?».
Franz Kafka, Il castello (1926)
Ma sappia intanto che sono l'agrimensore fatto venire dal signor
conte. I miei aiutanti mi raggiungeranno domani in carrozza con
gli strumenti. Io non ho voluto rinunciare a una passeggiata nella
neve, ma purtroppo ho sbagliato strada più volte, e per questo
sono arrivato così tardi
Bertrand Westphal, La Géocritique.
Réel, fiction, espace (2007):
“Il luogo letterario è un mondo virtuale che interagisce in
forma modulabile con il mondo di riferimento. Il grado di
adeguamento dell’uno all’altro può variare da zero all’infinito.
[…] Lo spazio trascritto può non avere alcun referente; in
compenso può tendere ad appropriarsi integralmente di una
serie di determinati realemi. Se prendiamo le città invisibili di
Italo Calvino, ammetteremo facilmente che sono separate da
qualunque referente […]. La stessa osservazione si applica a
tutti gli spazi esplicitamente immaginari della letteratura. Ma
se un referente si manifesta, appaiono nuove varianti […]
Capita che l’autore manipoli il piano delle apparenze. La
rappresentazione può mostrare un (certo) grado di conformità
con il referente; ma può anche giocare con esso, prendersi
gioco di esso e del lettore”.
Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965):
“Se oggetti, animali e uomini vengono rappresentati in
un’opera letteraria, lo spazio che viene rappresentato intorno
ad essi non è astratto e geometrico, o omogeneo e fisico;
piuttosto, è il tipo di spazio che corrisponde allo spazio
percettivamente dato”.
Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965):
“Facciamo il caso che in un romanzo, per esempio, una
situazione venga rappresentata in una data stanza e che non
ci sia alcuna indicazione, nemmeno con una singola parola,
che esista qualcosa al di fuori di questa stanza. Certamente
non si può dire che al di fuori del segmento spaziale
circoscritto dai muri della stanza non esista assolutamente
alcuno spazio e che quindi ci sia un completo nulla. D’altro
canto, sarebbe altrettanto falso dire che esiste uno spazio
intorno a questa stanza determinato da corrispondenti unità
di significato o positivamente rappresentato da
corrispondenti stati di cose. Se lo spazio attualmente
rappresentato (all’interno della stanza) non finisce contro i
muri, è solo perché è nell’essenza dello spazio in generale
non avere alcuna discontinuità.
Roman Ingarden, The Literary Work of Art (1965):
È solo grazie all’impossibilità della discontinuità spaziale
che lo spazio al di fuori della stanza viene corappresentato;
conseguentemente, lo spazio all’interno della stanza diventa
a sua volta un segmento di spazio. Così, quando l’autore di
un romanzo ci “trasporta” dal luogo A al luogo B senza
mostrarci l’intero percorso tra A e B, lo spazio intermedio
tra i due punti non viene positivamente determinato e
rappresentato ma, ancora una volta, corappresentato, in virtù
dell’impossibilità della discontinuità spaziale”.
Ruth Ronen, Space in Fiction (1986):
“Un luogo, come ogni altra entità reale, è inesauribile nella
misura in cui comprende una numero virtualmente infinito
di aspetti, caratteristiche e proprietà. Un testo letterario
necessariamente impone una scelta di qualità dalle quali il
costrutto spaziale emerge come una costellazione chiusa di
proprietà”.
Seymour Chatman, Storia e discorso (1978):
“Lo spazio nel cinema è ‘letterale’, vale a dire che oggetti,
dimensioni e relazioni sono analoghi, almeno
bidimensionalmente, a quelli del mondo reale. Nella narrativa
verbale lo spazio è astratto e richiede una ricostruzione
mentale. […]
Nella narrativa verbale lo spazio è doppiamente lontano dal
lettore, poiché non vi è un’immagine iconica o analogica
fornita da forme proiettate su uno schermo. Gli esistenti e il
loro spazio vengono, per così dire, ‘visti’ nell’immaginazione e trasformati da parole in proiezioni mentali. Non vi è una
‘visione standard’ degli esistenti come accade nel cinema.
Leggendo il libro ognuno si crea una propria immagine
mentale delle Cime tempestose. Invece nell’adattamento
cinematografico l’aspetto è fissato per tutti”.
Jurij M. Lotman, Il problema dello spazio artistico
in Gogol’ (1968):
“Nell’opera letteraria lo spazio artistico è un continuo in cui
si dispongono i personaggi e si svolge l’azione. Una percezione
ingenua spinge costantemente il lettore a identificare spazio
artistico e spazio fisico. Questo atteggiamento percettivo coglie
comunque un pizzico di verità, poiché anche nei momenti in cui
viene messa a nudo la funzione di uno spazio artistico che
modellizza rapporti extraspaziali, esso immancabilmente
conserva […] l’immagine della sua natura fisica. […] Lo spazio
artistico non è però un ricettacolo passivo di episodi e
personaggi. Le sue connessioni con questi ultimi, e con
l’immagine generale del mondo creato dal testo, ci persuadono
che il suo linguaggio non è un recipiente vuoto, ma una delle
componenti di quella lingua universale in cui si esprimono le
opere d’arte”.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza
d'una bicocca, sulla cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e
rilevata quella costiera. A questa indicazione l'anonimo
aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla
buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto
da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del
poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago,
giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don
Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno.
Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de'
costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene,
dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro
schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle
e fiaschetti da polvere, alla rinfusa.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
La gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e arcigni,
con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una
reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti,
chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con
certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da
venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne'
sembianti e nelle mosse de' fanciulli stessi, che giocavan per la
strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di
don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce
ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che,
ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati,
vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì;
scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello,
guardò fisso all'estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la
chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile,
scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com'era, nel
fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul
braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e
uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra
giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto
ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da
un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche
dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile;
un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in
alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è
un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio,
secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I
gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della
valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è
schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno
qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido
insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo
spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai
nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in
giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade
praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al
terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di
lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle
feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di chi
veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. […] Del resto,
non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio,
non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal
padrone del castello.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di
quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e
allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò
a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando
ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un
bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e
contro voglia andò avanti; ma più che s'inoltrava, più il
ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi
che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane,
deformi, mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente
agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla
luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o
moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che
d'odioso.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e
nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la
persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna
sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le
carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla
stanchezza, e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore. A un
certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo
combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo
soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che
d'ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi
spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un
momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d'uscir
subito di lì per la strada già fatta, d'andar diritto all'ultimo
paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare
un ricovero, anche all'osteria.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
E stando così fermo, sospeso il fruscìo de' piedi nel fogliame,
tutto tacendo d'intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un
mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente. Sta in orecchi; n'è
certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un amico,
d'un fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve,
gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per
tutte le vene, sentì crescer la fiducia de' pensieri, e svanire in
gran parte quell'incertezza e gravità delle cose; e non esitò a
internarsi sempre più nel bosco, dietro all'amico rumore.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840-42)
Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva
opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi
piedi. "Ah! ne son proprio fuori! - fu il suo primo pensiero. Sta' lì, maledetto paese", fu il secondo, l'addio alla patria. Ma
il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le
braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull'acqua
che gli scorreva a' piedi, e pensò "è passata sotto il ponte!"
Così, all'uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello
di Lecco. "Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole".
Honoré de Balzac (1799-1850)
• 20 maggio 1799: Balzac nasce a Tours
• Padre: Bernard-François Balssa (cambierà poi il nome
in Balzac), ha una serie di incarichi pubblici
nell’amministrazione napoleonica
• Madre: Laure Sallambier, proviene da una famiglia della
piccola borghesia commerciale parigina
• Si sposano nel 1797, quando lui ha 50 anni e lei 18
• Dal matrimonio nasceranno poi altri tre figli: Laure,
Laurence e Henri-François
Honoré de Balzac (1799-1850)
• 1799-1804: Affidato a una balia a Saint-Cyr-sur-Loire,
un sobborgo di Tours
• 1804-1807: Rientra in famiglia e frequenta una scuola di
Tours;
• 1807-1813: In collegio a Vendôme
• 1813: Viene rimandato a casa per una ragione poco
chiara
• 1814: per alcuni mesi frequenta il liceo di Tours
• Fine 1814: la famiglia si trasferisce a Parigi
•1814-1819: Prosegue gli studi a Parigi, prima al liceo
Charlemagne poi alla Sorbona, dove studia
giurisprudenza. Lavora anche come impiegato, prima
nello studio di un avvocato poi in quello di un notaio
Honoré de Balzac (1799-1850)
• 1819: Decide di diventare scrittore; nel frattempo il
padre è andato in pensione e la famiglia si è trasferita a
Villeparisis
• 1820: Scrive una tragedia, Cromwell, e un romanzo
rimasto inedito, Sténie
• 1821-24: Scrive una serie di romanzi che pubblica dietro
pseudonimo. Lui stesso li definirà “piccole operazioni di
letteratura commerciale”, o addirittura “porcherie
letterarie”
• 1822: Inizia una reazione con Laure de Berny
• 1825: Inizia una nuova relazione con la duchessa
d’Abrantes
• 1825-28: Fonda una casa editrice e una tipografia
(chiuderà l’attività con 60.000 franchi di debiti)
Verso la Comédie Humaine
Tenta la strada del romanzo storico:
• 1826: Alfred de Vigny, Cinq-Mars
• Balzac prende un episodio storico relativo ai conflitti
postrivoluzionari in Vandea, avvenuto nel 1798
• Scrive un romanzo, poi pubblicato nel 1829 ( il primo
che firma con il suo vero nome): Le Dernier Chouan ou la
Bretagne en 1800 (il cui titolo diventerà poi Les Chouans)
Verso la Comédie Humaine
Comincia a scrivere romanzi e racconti sulla società
contemporanea:
• 1830: Scènes de la vie privée, due volumi che raccolgono
sei novelle (diventeranno quindici in una nuova edizione
dell’opera, in 4 voll., 1832);
• 1831: La Peau de chagrin, romanzo ripubblicato lo stesso
anno in un’opera in tre volumi, che raccoglie altri 12 testi,
intitolata Romans et contes philosophiques;
• 1833: Le Medecin de campagne, Eugénie Grandet; nello
stesso anno conosce Mme Hanska
• Fine 1833: Firma un contratto per la pubblicazione di una
raccolta intitolata Études de moeurs au XIXe siècle, che
dovrà essere articolata in tre sezioni: Scènes de la vie privée,
Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne
(verranno pubblicati tra il 1833 e il 1837).
Verso la Comédie Humaine
Balzac, Lettera del 26 ott. 1834 a Mme Hanska: Descrive
l’architettura del suo grande edificio:
Studi analitici (principi)
Studi filosofici (cause)
Studi di costume (effetti),
articolati in 6 sezioni: Scene della vita
privata
di provincia
parigina
politica
militare
di campagna
Verso la Comédie Humaine
Balzac, Lettera del 26 ott. 1834 a Mme Hanska: Credo che
nel 1838 le tre parti di quest’opera colossale saranno, se
non portate a termine, almeno poste una sopra l’altra, e
che se ne potrà giudicare la massa.
Gli Studi di costume rappresenteranno tutti gli effetti
sociali senza che né una situazione della vita, né una
fisionomia, né un carattere d’uomo o di donna, né un
modo di vivere, né una professione, né una zona sociale,
né un paese di Francia, né un qualsiasi aspetto
dell’infanzia, della vecchiaia, dell’età matura, della
politica, della giustizia, della guerra sia stato dimenticato.
Posto tutto questo, tracciata filo per filo la storia del
cuore umano, fatta la storia sociale in ogni sua parte, la
base sarà pronta.
Si arriverà così al secondo basamento, gli
Studi filosofici, perché, dopo gli effetti,
verranno le cause. Negli Studi filosofici dirò
le cause dei sentimenti, quello su cui si
fonda la vita. Poi, dopo gli effetti e le cause,
verranno gli Studi analitici, perché dopo gli
effetti e le cause bisogna muovere alla
ricerca dei principi. Così l’uomo, la società,
l’umanità saranno descritti, giudicati,
analizzati senza ripetizioni, in un’opera che
sarà come le Mille e una notte
dell’Occidente.
Balzac e Le Père Goriot
• Scritto tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835,
• Pubblicato per la prima volta a puntate (“Revue de Paris”),
tra il 14 dic. 1824 e il 1 gen 1835
• Pubblicato poi in volume (editore Werdet) nel marzo 1835,
con il sottotitolo Histoire parisienne; seguiranno altre
edizioni
Balzac e Le Père Goriot
• Scritto tra la fine del 1834 e l’inizio del 1835,
• Pubblicato per la prima volta a puntate (“Revue de Paris”),
tra il 14 dic. 1824 e il 1 gen 1835
• Pubblicato poi in volume (editore Werdet) nel marzo 1835,
con il sottotitolo Histoire parisienne; seguiranno altre
edizioni
Maurice Bardèche, Balzac romancier (1840): “Nel 1835,
Balzac è ormai in possesso di tutti i suoi mezzi, la sua
formazione di romanziere è terminata. Il Père Goriot è il
risultato di tutti i suoi sforzi precedenti, e la base
dell’opera futura. Paragonato all’opera anteriore di Balzac,
il Père Goriot è una sorta di riassunto; paragonato alla sua
opera futura, è una sorta di preannuncio. Si tratta di una
data capitale nella storia della sua opera”
Il ritorno dei personaggi
Balzac, prefazione a Une fille d’Eve (1839):
“RASTIGNAC (Eugène Louis), figlio primogenito del
barone e della baronessa di Rastignac, nato a Rastignac,
dipartimento della Charente, nel 1799; giunge a Parigi nel
1819, studia diritto, risiede nella pensione Vauquer, vi
incontra Jacques Collin, detto Vautrin, e vi fa amicizia con
Horace Bianchon, il celebre medico. Ama Madame
Delphine de Nucingen nel momento in cui viene lasciata
da de Marsay, figlia di un tale Goriot, ex commerciante di
pasta, di cui Rastignac paga il funerale. È uno dei leoni
dell’alta società; stringe amicizia con tutti i giovani del
suo tempo, con de Marsay, Beaudenord, d’Estrigon,
Lucien de Rubempré, Émile Blondet, du Tillet, Nathan,
Paul de Manerville, Bixiou ecc.
Il ritorno dei personaggi
La storia della sua carriera si trova in La Maison
Nucingen; riappare in quasi tutte le scene, nel Cabinet des
Antiques, nell’Interdiction. Sposa le sue due sorelle, una a
Martial de la Roche-Hugon, dandy del periodo
dell’Impero, uno dei personaggi della Paix du ménage;
l’altra a un ministro. Il più giovane dei suoi fratelli,
Gabriel de Rastignac, segretario del vescovo di Limoges
nel Curé du village, vicenda che si svolge nel 1828, è
nominato vescovo nel 1832 (vedi la Fille d’Ève). Benché
discendente di un’antica famiglia, accetta un posto da
sottosegretario di Stato nel miniestero di de Marsay, dopo
il 1830 (vedi le Scènes de la vie politique), ecc.”
Il ritorno dei personaggi
Balzac, Prefazione alla prima ed. di Illusions perdues
(1837): “Qui ogni romanzo non rappresenta che uno dei
capitoli del grande romanzo della società. I personaggi di
ogni storia si muovono in una sfera circoscritta da limiti che
sono quelli della società stessa. Quando uno di questi
personaggi viene fermato nel mezzo della sua carriera, come
Rastignac nel Père Goriot, è perché voi dovete ritrovarlo in
Profil de marquise, nell’Interdiction, nella Haute Banque, e
infine nella Peau de chagrin, che agisce nella sua epoca a
seconda della posizione sociale che vi occupa e che affronta
tutti gli avvenimenti a cui partecipano nella realtà tutti gli
uomini eminenti. Questa osservazione si applica a quasi tutti
i personaggi che compaiono in questa lunga storia della
società”
La Comédie Humaine
Geoffroy Saint-Hilaire
• 1842: Balzac inizia a pubblicare la Comédie Humaine
(editore Furne, 16 voll., fino al 1846), in cui raccoglie tutti i
romanzi e i racconti che ha scritto fino a questo punto, e li
suddivide in una serie di sezioni e di sottosezioni
• Il primo volume è preceduto da una Prefazione (Avantpropos) in cui presenta il progetto, illustra i principi che lo
reggono, fornisce una descrizione dettagliata della sua
organizzazione interna
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
“La prima idea della Comédie humaine fu per me all’inizio
come un sogno, come uno di quei progetti impossibili che si
accarezzano e che si lasciano volare via; una chimera che
sorride, che mostra il suo volto di donna e che subito spiega
le ali librandosi verso l’alto in un cielo fantastico. Ma la
chimera, come molte chimere, diventa realtà, ha le sue leggi
e una sua tirannia alle quali bisogna cedere. / Tale idea ebbe
origine da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità”
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
“Convinto da questa teoria [il principio dell’unità di
composizione di Geoffroy Saint-Hilaire] ben prima dei
dibattiti ai quali essa ha dato vita, osservai che, sotto questo
aspetto, la Società somigliava alla Natura. La Società non fa
forse dell’uomo, a seconda degli ambiti nei quali la sua
azione si dispiega, tanti uomini differenti quante sono le
specie nella zoologia? Le differenze tra un soldato, un
operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, uno
scienziato, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio,
un poeta, un povero, un prete, benché più difficili da
cogliere, sono altrettanto degne di considerazione di quelle
che contraddistinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo
squalo ecc.
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
Come esistono le Specie zoologiche, sono dunque sempre
esistite, e sempre perciò esisteranno, le Specie Sociali. Se
Buffon ha realizzato un’opera magnifica cercando di
rappresentare in un libro l’intera zoologia, non restava da
realizzare un’opera di questo genere anche per la Società?”
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
Come esistono le Specie zoologiche, sono dunque sempre
esistite, e sempre perciò esisteranno, le Specie Sociali. Se
Buffon ha realizzato un’opera magnifica cercando di
rappresentare in un libro l’intera zoologia, non restava da
realizzare un’opera di questo genere anche per la Società?”.
“Ma per le varietà animali la Natura ha posto dei limiti che la
Società non doveva rispettare. Quando Buffon descriveva il
leone, esauriva la leonessa in poche frasi mentre nella Società
la donna non sempre si limita a essere la femmina del
maschio. Una coppia di sposi può essere formata da due esseri
del tutto dissimili. La moglie di un mercante talvolta è degna
di essere quella di un principe e spesso quella di un principe
non vale quella di un artista. La Vita associata è luogo di
combinazioni che la sola Natura non si può permettere perché
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
Buffon ha poi scoperto che la vita presso gli animali è
estremamente semplice. L’animale ha poco mobilio, non
possiede arti né scienze, mentre l’uomo, in virtù di una
legge che è ancora da scoprire, tende a rappresentare i suoi
usi, il suo pensiero e la sua vita in tutto ciò che adegua alle
proprie esigenze. […] Le abitudini di ogni animale sono,
almeno ai nostri occhi, costantemente simili in ogni tempo,
mentre le abitudini, l’abbigliamento, le parole, le dimore di
un principe, di un banchiere, di un artista, di un borghese, di
un prete e di un povero sono completamente differenti e
cambiano a seconda delle civiltà”
L’Avant-propos della Comédie Humaine (1842)
Scott non ha pensato “a collegare le sue opere l’una all’altra
in modo da creare una storia completa in cui ogni capitolo
sarebbe stato un romanzo e ogni romanzo un’epoca”
Quartiere latino
Pantheon
Pensione Vauquer
Val-de-Grâce
Pensione Vauquer
Faubourg Saint-Marceau
“All is true”
L’espressione “All is true”
– Si riferisce alla tragedia di Shakespeare, Enrico VIII,
che nel 1831 era stata rappresentata a Parigi e annunciata
con la formula: Tout est vrai
– La prima edizione di PG portava questa formula in
epigrafe
– Shakespeare in generale è un modello importante per
Balzac (cfr. soprattutto Re Lear)
“All is true”
Nota finale di Eugénie Grandet (1833):
“Questa vicenda è una traduzione imperfetta di alcune
pagine dimenticate dai copisti nel libro mastro del mondo.
Qui non vi è nulla di inventato. L’opera è una modesta
miniatura che richiedeva più pazienza che arte”.
Prefazione alla prima ed. di Illusioni perdute (1837):
“A molti lettori questo quadro potrà apparire esagerato;
ma, che si sappia, tutto è disperatamente vero”.
Lettera 26 ott. 1834 a Mme Hanska:
“Non saranno fatti immaginari; sarà quel che succede
dappertutto”.
“All is true”
Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve:
“Se, com’è stato più volte osservato, i personaggi dei suoi
romanzi erano per lui esseri reali, […] si può ugualmente
dire che la sua vita era un romanzo ch’egli costruiva
assolutamente nella stessa guisa. Non c’era in lui nessuna
distinzione tra la vita reale (quella che, a mio giudizio, non è
tale) e la vita dei suoi romanzi (la sola vera per lo scrittore”
“All is true”
In varie occasioni, Balzac dichiara di essere:
– Un “segretario” dei suoi contemporanei, che si limita a
raccogliere, e a classificare i fatti reali che la storia gli
presenta;
– Un pittore che si limita a copiare la natura, a “ritrarre
fedelmente” quello che vede intorno a lui;
– “Il più umile dei copisti”, che non racconta grandi
avvenimenti ma che si abbassa “alle ristrette dimensioni
della storia, la storia comune”, offrendo “la narrazione pura
e semplice di ciò che ogni giorno si vede in provincia”.
“All is true”
Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839):
“Questa deve essere la maniera di procedere dello storico dei
costumi: il suo compito è quello di amalgamare in un unico
quadro i fatti analoghi. Tenuto a rendere gli avvenimenti più
nello spirito che alla lettera, egli li sintetizza. Spesso si rende
necessario prendere parecchi caratteri simili per arrivare a
crearne uno solo, così come esistono originali tanto ridicoli
che, sdoppiandoli, forniscono due personaggi. […] La
letteratura segue il procedimento impiegato dalla pittura che,
per realizzare una figura veramente bella, prende le mani da
un certo modello, il piede da un altro, il petto da questo, le
spalle da quello. Compito del pittore è dare vita a quelle
membra scelte e rendere questa vita probabile. Se vi copiasse
una donna vera, girereste la testa da un’altra parte”.
“All is true”
Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839):
“L’autore ha detto già varie volte che spesso è costretto ad
attenuare la crudezza della natura. Alcuni lettori hanno
considerato Le Père Goriot come una calunnia contro i figli,
ma la vicenda che è servita da modello presentava circostanze
terribili, come non se ne incontrano neanche tra i cannibali: il
povero padre ha gridato per venti ore di agonia per avere da
bere senza che nessuno andasse in suo aiuto e le sue due
figlie erano una al ballo, l’altra a teatro, benché non
ignorassero la condizione del padre. Questo fatto reale non
sarebbe sembrato credibile”.
“All is true”
Aristotele, Poetica:
“Compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò
che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile [τὰ
δυνατὰ] secondo verosimiglianza o necessità [κατὰ τὸ ει̉κὸς η̉̉̀
τὸ α̉ναγκαι̃ον]. Lo storico e il poeta non differiscono tra loro
per il fatto di esprimersi in versi o in prosa […], ma
differiscono in quanto uno dice le cose avvenute e l’altro
quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è
più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si
occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i
particolari”.
“All is true”
Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839):
“Molti a cui i meccanismi della vita, vista nel suo insieme,
sono familiari hanno asserito che le cose non erano nella
realtà come l’autore le presenta nelle sue finzioni, e lo
accusano qui di arricchire troppo l’intreccio delle sue scene,
là di essere incompleto. Di certo la vita reale è troppo
drammatica o spesso non abbastanza letteraria. Il vero spesso
non sarebbe verosimile, così come il vero letterario non può
essere il vero della natura. Coloro che si permettono simili
osservazioni, se fossero coerenti, a teatro vorrebbero vedere
gli attori uccidersi davvero”.
“All is true”
Prefazione a Le Cabinet des antiques (1839):
“La maggior parte dei libri il cui soggetto è totalmente
fittizio, che non si collegano in nessun modo alla realtà, sono
nati morti. I libri che si basano invece su fatti accaduti, estesi,
presi dalla vita reale, ottengono gli onori della longevità”.
“Invece di comporre una storia, sarebbe sufficiente, stando
a certi critici, farsi stenografi di tutti i tribunali di Francia.
Avreste allora il vero totalmente puro, cioè una storia orribile
che abbandonereste prima di aver concluso il primo volume.
Potete leggerne ogni giorno un frammento […]: non ne
sopportereste la lettura continuata”.
La descrizione della pensione Vauquer
Gérard Genette, Figure III (1972):
“Sappiamo come il romanzo di Balzac abbia fissato un
canone descrittivo […] tipicamente extratemporale, in cui il
narratore, abbandonando il corso della storia (oppure, come
nel Père Goriot o nella Recherche de l’absolu, prima di
entrarvi) si incarica, in prima persona, ed esclusivamente per
informare il suo lettore, di descrivere uno spettacolo che a
rigor dei termini, a questo punto della storia, nessuno
guarda”.
La descrizione della pensione Vauquer
Lubbock, Il mestiere della narrativa (1921):
“[Balzac] non può pensare ai suoi personaggi senza le case in
cui abitano; per Balzac immaginare un essere umano è
immaginare una provincia, una città, un angolo della città, un
edificio alla svolta di una strada, certe camere ammobiliate, e
finalmente l’uomo o la donna che ci vive. […] [Le sue]
descrizioni sono chiare e sistematiche; vengono offerte come
un preliminare essenziale della storia, una faccenda di cui
bisogna ovviamente trattare una volta per tutte, prima che la
storia possa procedere. […] Balzac è così sicuro che ogni
dettaglio deve essere conosciuto, perfine le suppellettili sulle
mensole e i piattini e i recipienti sulla credenza, che il lettore
non può nemmeno cominciare a mettere ciò in discussione”.
La descrizione della pensione Vauquer
Balzac, Traité de la vie élégante (1830):
“Attraverso i nostri costumi noi imprimiamo il nostro
pensiero su tutto ciò che ci circonda e ci appartiene. Il nostro
atteggiamento, i nostri modi, il nostro abbigliamento, i nostri
equipaggi, i nostri mobili, sono tutti delle traduzioni materiali
del pensiero”.
La descrizione della pensione Vauquer
Auerbach, Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale
(1946): “In tutta la sua opera, e così in questo testo, Balzac ha
sentito i luoghi, e in verità i più diversi, come un’unità
organica, anzi demoniaca, e ha cercato di trasmettere questa
sensazione al lettore. Non soltanto, come Stendhal, ha collocato
gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice
storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso
questo legame come necessità; ogni spazio si tramuta per lui in
un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio,
la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il
comportamento, il sentire, l’agire e la sorte degli uomini, e in
cui poi la situazione storica generale a sua volta appare come
un’atmosfera totale abbracciante tutti i singoli spazi di vita. […]
Tale realismo atmosferico di Balzac è un prodotto della sua
epoca; è esso stesso parte e prodotto di un’atmosfera”.
La pensione Vauquer nel 1819
Cristophe
(uomo di fatica)
Mlle
Goriot
Michonneau
Poiret
Sylvie
(cuoca)
Rastignac
Vautrin
Mme Vauquer
Mme Couture e Victorine
(appart. più piccolo) Taillefer (1800 franchi)
Salotto
Sala da pranzo
Soffitta
due mansarde
Terzo piano
4 stanze
Secondo piano
2 appartam.
Primo piano
2 appartam.
(i migliori)
Pianterreno
ambienti comuni
Gli spostamenti di Goriot
Soffitta
due mansarde
Terzo piano
4 stanze
1815
(45 franchi)
1814 (900 franchi)
1813 (1200 franchi)
Secondo piano
2 appartam.
Primo piano
2 appartam.
(i migliori)
Pianterreno
ambienti comuni
Rastignac, un giovane ambizioso a Parigi
La storia inizia alla fine di novembre del 1819, quando
Rastignac rientra alla pensione dopo un ballo da Mme de
Beauséant (pp. 29-31)
Espressioni usate per caratterizzarlo:
• Rientra tra “les jeunes gens supérieurs”
• Esplorando “le labyrinthe parisien”, compie una serie di
“initiations successives”, un “apprentissage à son insu”
• Perde “ses illusions d’enfance, ses idées de province”
• Ha una “ambition exaltée”, un fortissimo “désir de
parvenir”
• Viene definito “jeune ambitieux”
Papà Goriot, evoluzione del progetto
1) Prima fase: Balzac vuole scrivere una novella incentrata su
un dramma privato.
Annotazione del 1834: “Un brav’uomo – pensione
borghese – 600 F di rendita – si spoglia per le sue figlie
che, entrambe, hanno 50.000 F di rendita – muore come
un cane”.
Papà Goriot, evoluzione del progetto
2) Seconda fase: Il progetto si amplia alle dimensioni di un
romanzo, in cui il dramma privato si colloca sullo sfondo
della corruzione parigina:
Lettera a Mme Hanska, 18 ott. 1834: “[...] Quel che certo
non vi aspettate è il Père Goriot, un vero capolavoro! Il
quadro di un sentimento così grande che nulla può
esaurirlo, né le offese, né le ferite, né l’ingiustizia, un
uomo che è padre come un cristiano è santo, e martire”.
Alla stessa, 22 nov. 1834: “Le père Goriot è un’opera
bella, ma mostruosamente triste. Per raggiungere la
completezza era infatti necessario mostrare la fogna
morale di Parigi, e ciò fa l’effetto di una piaga
disgustosa”.
Chaussée d’Antin
Itinerari di
Rastignac
Palazzo Restaud, rue du Helder
Palais-Royal
Conte e marchese de Beauséant,
rue Saint-Dominique
Visconte di Beauséant,
rue de Grenelle
Fbg Saint-Germain
Quartiere latino
Pensione Vauquer,
rue Neuve-Sainte-Geneviève
A piedi dalla
pensione al
palazzo Restaud
(incontro con il
conte e la
contessa)
In carrozza fino
al palazzo di
Mme de
Beauséant
(incontro con
Mme de B. e con
la duchessa di
Langeais)
Vautrin
– Il suo vero nome è Jacques Collin, ma mascherato dietro
molti soprannomi e pseudonimi, tra cui Trompe-la-mort;
– E’ un ex-forzato, fuggito dal bagno penale; farà carriera e
diventerà poi il capo della polizia
– Sembra dotato di attributi soprannaturali: onniscienza,
onnipotenza; si pone al di sopra delle leggi e degli uomini,
delle regole che governano il comune vivere associato;
– È al centro di una fittissima ragnatela che coinvolge tutti i
grandi poteri della società, in una serie di intrighi, delitti,
truffe, società segrete:
– Ha istituito una sorta di banca clandestina di tutti i criminali
e forzati
Delphine Nucingen, rue St-Lazare
Chaussée d’Antin
Appartamento di Rastignac, rue d’Artois
Anastasie de Restaud, rue du Helder
Les Italiens, Opéra Comique
Tuileries
Palais-Royal
(case da gioco)
Madame de Beauséant,
rue de Grenelle
Fbg Saint-Germain
Quartiere latino
Ecole de Droit
Pensione Vauquer,
rue Neuve-Sainte-Geneviève
Balzac, un “visionario appassionato”
Ernst Robert Curtius, Balzac (1951):
“Balzac definì Vautrin “una delle figure dipinte con maggior
calore di tutta la Comédie humaine”. E, in effetti, egli ha infuso
in lui tutto l’ardore della sua natura. Ha salvaguardato – è vero –
le apparenze di fronte al pubblico del juste-milieu, mostrando di
condannare Vautrin. Ma, dietro tutte le sue riserve morali, si
avverte chiaramente la sua simpatia. Vautrin è “mostruosamente
bello”. […] Vautrin finisce così per assurgere a prototipo delle
nature demoniache qui résument toutes les forces humaines.
Balzac non poteva rinunciare a darci almeno una volta
l’immagine di una grandiosa concentrazione di energia, di tutte
le energie; e ha creato Vautrin, il ribelle, il superuomo;
descrivendolo come un affascinante angelo del male. Vautrin è il
figlio prediletto della sua fantasia di artista e della sua volontà di
potenza, la demoniaca controfigura di se stesso”.
Balzac, un “visionario appassionato”
György Lukács, Les Illusions perdues (1935):
“La figura di Vautrin è una concentrazione dell’elemento
fantastico balzachiano”.
Italo Calvino: “Amo Balzac perché è visionario [...] Amo
Kafka perché è realista”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Baudelaire, Théophile Gautier (1859):
“Si può dire che tra le innumerevoli forme del romanzo e del
racconto che hanno occupato e divertito lo spirito umano,
quella più in favore sia stata il romanzo di costumi; quello che
meglio conviene alla folla. Come Parigi ama soprattutto sentir
parlare di Parigi, la folla si compiace negli specchi in cui si
vede. Ma quando il romanzo di costumi non è sostenuto
dall’elevato gusto naturale dell’autore, corre il rischio
fortissimo di essere piatto, e, per di più, poiché in materia di
arte l’utilità può essere misurata dal grado di nobiltà,
completamente inutile. Se Balzac ha fatto di questo genere
plebeo una cosa ammirevole, sempre curiosa e sublime, è
perché vi ha gettato tutto il suo essere.
Balzac, un “visionario appassionato”
Baudelaire, Théophile Gautier (1859):
Molte volte mi sono stupito che la grande gloria di Balzac
fosse quella di passare per un grande osservatore; mi era
sempre sembrato che il suo merito principale fosse quello di
essere un visionario, e un visionario appassionato”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Baudelaire, Théophile Gautier (1859):
“Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui
era animato lui stesso. Tutte le sue finzioni sono colorate
altrettanto profondamente dei sogni. Dalla cima
dell’aristocrazia fino ai bassifondi della plebe, tutti gli attori
della sua Comédie sono più cupidi di vita, più attivi e astuti
nella lotta, più pazienti nella sventura, più avidi nel
godimento, più angelici nella devozione, di quanto non ce li
mostri la commedia del mondo vero […] E poiché tutti gli
esseri del mondo esteriore si offrivano all’occhio del suo
spirito con un rilievo possente e una smorfia impressionante,
egli ha reso convulse le sue figure, ha annerito le ombre e
illuminato le luci”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Oscar Wilde, La decadenza della menzogna (1889):
“Un’assidua frequentazione di Balzac riduce i nostri amici
tuttora viventi a ombre, e i nostri conoscenti all’ombra di altre
ombre. I suoi personaggi si contraddistinguono per
un’esistenza appassionata, a tinte forti. Ci dominano, sfidando
ogni scetticismo. Una delle più grandi tragedie della mia vita è
stata la morte di Lucien de Rubempré [protagonista di
Illusions perdues e di Splendeurs et misères des courtisanes].
È un dolore da cui non mi sono mai ripreso completamente.
Mi ossessiona nei momenti felici. Mi assale quando rido.
[Balzac] creava la vita, non la copiava”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Ernst Robert Curtius, Balzac (1951):
“L’arte di Balzac è fatta di un reciproco compenetrarsi di
naturalismo e spiritualismo. Essa offre un’immagine del reale,
ma permeata dal fluido di una poesia visionaria. Tuttavia la si
può anche intendere come proiezione di una concezione
spirituale omogenea nella materia del reale. L’uno e l’altro
modo vengono a dire la stessa cosa: cioè un’arte che produce
una realtà vivente, spirituale e carnale insieme, insomma una
nuova creazione”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976):
“C’è sempre un momento, nelle descrizioni di Balzac, in cui
la registrazione fotografica degli oggetti cede all’esigenza
mentale di andare al di là delle apparenze visibili, di
soppesarle e di interrogarle. […] Per Balzac la realtà
costituisce sia lo scenario del dramma sia la maschera di un
dramma più autentico e nascosto, un dramma misterioso al
quale si può in un primo tempo soltanto alludere, per poi
affrontarlo con una serie di ipotesi e giungere gradualmente a
fare piena luce. Il suo dramma si pone nel campo del vero,
strappato per così dire al mondo del reale”.
Balzac, un “visionario appassionato”
Balzac, prefazione della Comédie Humaine:
[Rappresentare il quadro completo della società francese]
“non era ancora nulla. Limitandosi a questa fedele
riproduzione, uno scrittore poteva divenire il pittore più o
meno fedele, più o meno felice, paziente o coraggioso dei tipi
umani, il narratore dei drammi della vita intima, l’archeologo
dell’arredamento di un’intera società, il catalogatore dei
mestieri, il documentarista del bene e del male; ma per
meritare gli elogi cui ogni artista deve aspirare, non dovevo
studiare le ragioni o la ragione di questi fenomeni sociali,
scovare il senso nascosto in questa immensa congerie di
figure, passioni, avvenimenti?”
Balzac, un “visionario appassionato”
Baudelaire, Esposizione universale – 1855 – Belle arti:
“Si racconta che Balzac (chi non ascolterebbe con rispetto
qualsiasi aneddoto, anche il più piccolo, a proposito di un
genio così grande?), trovandosi un giorno di fronte a un bel
quadro, un paesaggio invernale, malinconico e tutto
ghiacciato, sparso qua e là di capanne e di contadini sparuti, dopo aver guardato a lungo una casupola da cui saliva un esile
fumo, esclamasse: ‘Che bello! Ma che fanno nella capanna? a
che pensano, e quali sono i loro affanni? è stato buono il
raccolto? hanno davvero scadenze da pagare?’”.
Cimitero
Père Lachaise
Saint-Etienne du Mont
Rue Neuve-Sainte-Geneviève
Emile Zola (1840-1902)
 Nasce a Parigi il 10 aprile 1840, ma trascorre la sua infanzia
e la sua adolescenza in provincia (Aix-en-Provence):
– Il padre è un ingegnere di origine veneziana, incaricato di
costruire una diga e un canale (il c.d. “canal Zola”) presso
Aix-en-Provence;
– Morto precocemente (1847), lascia orfano il figlio a sette
anni, che vivrà a Aix fino a diciott’anni in una situazione
sempre più disagiata;
• Frequenta il collège Bourbon di Aix, dove stringe una forte
amicizia con Paul Cézanne
Emile Zola (1840-1902)
 Nel 1858 si trasferisce a Parigi, e nel 1859 di diploma
 Seguono circa tre anni di vita bohémienne, durante i quali
vive in un alloggio a buon mercato sulla collina SainteGeneviève
 Frequenta atélier di pittura, legge, compone migliaia di versi.
Lui stesso, anni dopo, parlerà di una “deplorevole” educazione
romantica
 Inverno 1860-61: Ha una storia sentimentale con una certa
Berthe, che però lo tradisce e lo getta nella disperazione
 Questa esperienza sarà trasposta nel suo primo romanzo, La
Confession de Claude (1865)
 1862: Viene assunto dalla Libreria Hachette
 Poco tempo dopo inizia a pubblicare articoli su riviste e
giornali; diventa cronista, critico letterario e critico d’arte
Zola, la recensione a Germinie Lacerteux (1865)
Recensione a un romanzo di Jules e Edmond de Goncourt,
Germinie Lacerteux (1864):
“Eh sì, miei cari, l’artista ha il diritto di frugare in mezzo
alla natura umana, di non nascondere niente del cadavere
umano […]. A chi sostiene che i Goncourt siano andati troppo
oltre, rispondo che non ci può essere un limite di principio
nello studio della verità. […] C’è probabilmente una relazione
intima tra l’uomo moderno, prodotto di una civiltà avanzata, e
questo romanzo da rigagnolo, dagli odori acri e intensi […]
Noi siamo malati di progresso, di industria, di scienza;
viviamo nella febbre e ci dilettiamo a frugare le ferite, a
scendere sempre più in basso, avidi di conoscere il cadavere
del cuore umano”.
Zola, la recensione a Germinie Lacerteux (1865)
Jules e Edmond de Goncourt, Prefazione a Germinie
Lacerteux (1864):
– Attaccano frontalmente il pubblico, le sue convenzioni, i
suoi gusti, le sue aspettative nei confronti dei romanzi
– Rivendicano un modello di “romanzo vero”, “severo e
puro”, “triste e violento”, uno “studio” che si impone i metodi
e gli obiettivi della scienza per cercare “l’Arte e la Verità”; un
romanzo “che viene dalla strada” e che conferisce piena
cittadinanza letteraria agli strati sociali più bassi
– “Vivendo nel XIX secolo, in un’epoca di suffragio
universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le
cosiddette ‘classi inferiori’ non avessero diritto al Romanzo”.
Zola, Thérèse Raquin (1867)
Prefazione alla seconda edizione (1868): In cui risponde al
pubblico e alla critica, che hanno “accolto il libro con
esclamazioni indignate”:
“Spero che il lettore cominci a capire che il mio fine è stato
soprattutto scientifico. […] Chiunque legga attentamente il
romanzo, si accorgerà che ogni capitolo rappresenta lo studio
di una anomalia fisiologica. / In altri termini sono stato
determinato da un solo desiderio: con dei dati di fatto come un
uomo vigoroso e una donna insoddisfatta svolgere il tema
della ricerca, in loro, della bestia; non vedere altro che la
bestia; gettarli al centro di un dramma e annotare con scrupolo
ogni gesto e ogni sensazione di questi esseri. Mi sono, cioè,
limitato a compiere su due organismi viventi quel lavoro
analitico che i chirurghi eseguono sui cadaveri”.
Zola, Thérèse Raquin (1867)
Prefazione alla seconda edizione (1868): “Dovrete convenire
che non è molto piacevole, appena usciti da un simile compito,
quando ancora si assapora la gioia della ricerca della verità,
sentirsi accusare di aver perseguito come unico fine la
confezione di un osceno quadretto di genere. […] Mentre
scrivevo Thérèse Raquin ho dimenticato il mondo, mi sono
smarrito nel rendiconto esatto e minuzioso della vita, mi sono
completamente dedicato all'analisi e allo studio del
meccanismo umano e posso assicurarvi che i crudeli amori di
Thérèse e Laurent per me non erano affatto immorali né
potevano in alcun modo essere d'incentivo a funeste passioni.
[…] È per questo che non sono riuscito a nascondere la
sorpresa provata nel sentir definire la mia opera come
un'accozzaglia di fango e sangue, come un immondezzaio, una
Zola, I Rougon-Macquart (1871-93)
 Inizio 1866: Zola lascia Hachette
 Maggio 1868: Napoleone III liberalizza la stampa e nascono
moltissimi giornali d’opposizione, tra cui La Tribune e Rappel
(con i quali collabora Zola)
• 1870: Guerra franco-prussiana, disfatta francese a Sédan (che
Zola racconterà in un romanzo successivo, La Debâcle, 1892),
occupazione di Parigi da parte dell’essercito prussiano, caduta
di Napoleone III. Zola ripara a Marsiglia e poi a Bordeaux;
rientra a Parigi dopo la fine della guerra e dell’occupazione
Zola, I Rougon-Macquart (1871-93)
Les Rougon-Macquart: Histoire naturelle et sociale d’une
famille sous le Second Empire
 Un ciclo di 20 romanzi, la cui prima idea risale al 1868
 Pubblicati tra il 1871 (La Fortune des Rougons) e il 1893 (Le
Docteur Pascal)
Prefazione alla Fortune des Rougons (datata 1 luglio 1871):
“Voglio spiegare come una famiglia, un piccolo gruppo di
esseri, si comporta in una società, sviluppandosi per dare vita a
dieci, a venti individui che a prima vista sembrano
profondamente dissimili, ma che l’analisi mostra intimamente
legati tra loro. L’eredità ha le sue leggi, come il peso. / Tenterò di
trovare e di seguire […] il filo che conduce matematicamente da
un uomo a un altro uomo. E quando reggerò tutti i fili, quando
avrò in mano un intero gruppo sociale, mostrerò all’opera questo
gruppo come attore di un’epoca storica […]
Zola, I Rougon-Macquart (1871-93)
Prefazione alla Fortune des Rougons:
Da tre anni raccoglievo i documenti di questa grande opera,
e il presente volume era ormai scritto quando la caduta dei
Bonaparte, della quale avevo bisogno come artista, e che
trovavo sempre fatalmente al termine del dramma, senza osare
sperare che fosse così vicina, è giunta a darmi lo scioglimento
terribile e necessario della mia opera. Essa, a partire da oggi, è
completa; si muove entro un cerchio concluso; diventa il
quadro di un regno morto, di una strana epoca di follia e di
vergogna. / Quest’opera, che sarà formata da vari episodi, è
dunque nel mio pensiero la Storia naturale e sociale di una
famiglia durante il Secondo Impero”.
Zola, I Rougon-Macquart (1871-93)
Principali romanzi del ciclo:
 Le Ventre de Paris (1873)
 L’Assommoir (1877)
 Nanà (1880)
 La Joie de vivre (1883)
 Germinal (1885)
 L’Oeuvre (1886)
 La Bête humaine (1890)
 L’Argent (1891)
Zola, I precursori del Naturalismo
 Diderot, fautore di un “ritorno alla natura”
 Stendhal e Balzac, definiti “i nostri capiscuola”, nei quali si
trovano “le fonti del nostro romanzo contemporaneo”
 Flaubert, “che porta a compimento il metodo naturalista”
 I fratelli Goncourt e Alphonse Daudet, scrittori il cui
“talento non nasce dall’immaginazione, ma dalla capacità di
riprodurre la natura con intensità”
Zola, il saggio su Flaubert (1875)
Gustave Flaubert, saggio pubblicato nel 1875 e poi incluso in
un volume, Les Romanciers naturalistes: Balzac, Stendhal,
Gustave Flaubert, Edmond et Jules de Goncourt, Alphonse
Daudet, les romanciers contemporains (1881), in cui Zola
suggerisce un confronto tra Balzac e Flaubert:
 Balzac è stato il grande iniziatore, ha messo a punto “la
formula del romanzo moderno”,
 Ma questa formula è sparpagliata nell’“opera colossale di
Balzac”
 Mentre Flaubert è riuscito a condensarla nelle 400 pp. di
Madame Bovary, che dunque costituisce un modello perfetto,
“il romanzo tipo, il modello definitivo del genere”.
Esemplifica i tre tratti distintivi del romanzo naturalista:
Zola, il saggio su Flaubert (1875)
1) Il rifiuto del romanzesco:
“Il primo carattere del romanzo naturalista, di cui Madame
Bovary è il tipo, è la riproduzione esatta della vita, l’assenza di
ogni elemento romanzesco. […] È la vita riprodotta esattamente
in una cornice di mirabile fattura. Ogni invenzione straordinaria
ne è dunque bandita. Non vi si incontrano più bambini segnati
alla nascita, poi perduti, che vengono ritrovati nello
scioglimento. Non si parla più di mobili con cassetti segreti e di
documenti che, al momento opportuno, servono per salvare
l’innocenza perseguitata. Manca perfino qualunque intreccio, per
quanto semplice sia. Il romanzo procede uniforme, raccontando
le cose giorno per giorno, senza suscitare alcuna sosrpresa,
offrendo lo spunto, tutt’al più, per un articolo di cronaca. E,
quando è finito, è come se si lasciasse la strada per rientrare a
casa”.
Zola, il saggio su Flaubert (1875)
2) La morte dell’eroe:
“Fatalmente, il romanziere uccide gli eroi, se accetta solo il
corso ordinario dell’esistenza comune. Per eroi, intendo i
personaggi che grandeggiano oltre misura, i fantocci
trasformati in colossi. […] Al contrario, gli uomini
rimpiccioliscono e rientrano nei ranghi quando si ha l’unica
preoccupazione di scrivere un’opera vera, ponderata, che sia il
processo verbale fedele di un’avventura qualunque. […] La
bellezza dell’opera non sta più nell’ingigantimento di un
personaggio […]; sta nella verità indiscutibile del documento
umano, nella realtà assoluta di dipinti in cui tutti i dettagli
occupano il loro posto, e soltanto quello.
Zola, il saggio su Flaubert (1875)
2) La morte dell’eroe:
Ciò che deforma quasi sempre i romanzi di Balzac è
l’ingigantimento degli eroi; pensa di non farli mai abbastanza
giganteschi; le sue potenti dita di creatore sanno plasmare solo
dei giganti. Nella formula naturalista, questa esuberanza
dell’artista, questo capriccio compositivo […] viene per forza
condannato. Un livello uniforme abbassa tutte le teste, perché
sono rare le occasioni in cui si debba veramente mettere in
scena un uomo superiore”.
Zola, il saggio su Flaubert (1875)
3) L’impersonalità della narrazione:
“Il romanziere naturalista cerca di svanire completamente
dietro l’azione che racconta. È il regista nascosto del dramma.
Non si mostra mai nelle pieghe di una frase. Non lo si sente né
piangere né ridere insieme ai suoi personaggi, né si permette
di giudicare i loro atti. […] Si cercherebbe invano una
conclusione, una morale, una lezione qualunque ricavata dai
fatti. […] L’autore non è un moralista, ma un anatomista che si
accontenta di spiegare ciò che trova nel cadavere umano. […]
si tiene in disparte, soprattutto per ragioni artistiche, per
lasciare all’opera la sua unità impersonale, il suo carattere di
processo verbale inciso per sempre nel marmo”.
Zola, Il gruppo di Médan
Zola fonda il primo gruppo naturalista, che si riunisce nella
sua casa di campagna di Médan
Il manifesto del gruppo è Le Soirées de Médan (1880),
• Un volume collettivo a cui partecipano - oltre a Zola - Guy
de Maupassant, Joris-Karl Huysmans, Henri Céard, Léon
Hennique e Paul Alexis
• Sei novelle che affrontano da punti di vista diversi lo stesso
tema (la guerra franco-prussiana del 1870)
Regione: Nord - Pas-de-Calais
Marchiennes: luogo reale
Montsou: luogo immaginario
Anzin: luogo reale, visitato da Zola
Marchiennes
Anzin
Le concessioni minerarie nel nord della Francia
Anzin
Zola, Lo schermo realista
Cfr. lettera di Zola ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
 Scritta in forma epistolare
 E’ di fatto un breve trattato di estetica, articolato in vari
capitoletti
Zola, Lo schermo realista
Precetto dell’ut pictura poesis:
 Formulato per la prima volta da Orazio, Ars poetica
 Diventa poi uno dei canoni fondamentali dell’estetica
mimetica rinascimentale, insieme con il precetto dell’imitatio
naturae
Entrano a far parte di un sillogismo
– Se la poesia deve imitare la natura,
– E se la pittura è la migliore imitatrice della natura
– Allora la poesia deve essere come la pittura
Molti anni dopo, Roland Barthes (S/Z, 1970) parlerà del
“modello della pittura”, sottolineando la “preminenza del
codice pittorico nella mimesis letteraria”
Zola, Lo schermo realista
Leon Battista Alberti, De pictura (1435): Definisce il quadro,
delimitato dalla cornice, una “aperta fenestra”
Zola, Lo schermo realista
Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”
(1927):
 La superficie piana, bidimensionale della tela si proietta in
uno spazio (illusoriamente) tridimensionale
 Secondo le modalità della percezione reale: La concezione
prospettica “si fonda sulla volontà di costruire lo spazio
figurativo […] a partire dagli elementi e secondo lo schema
dello spazio visivo empirico”
 La prospettiva mira a trasformare il quadro in un
“frammento della realtà”, perché la tela, la superficie materiale
del quadro viene “negata come tale”, trasformata in un “piano
trasparente attraverso il quale noi possiamo pensare di
guardare in uno spazio aperto per quanto circoscritto in tutte le
direzioni”.
Zola, Lo schermo realista
Peter Brooks, Realist Vision (2005): “Il realismo è per
definizione un concetto altamente visuale, legato al fatto di
registrare l’aspetto reale del mondo. Noi tendiamo a credere – e
secoli di tradizione filosofica stanno dietro questa convinzione –
che la vista sia il più obiettivo e imparziale dei nostri sensi. Così,
qualunque resoconto fedele del reale, inteso come apparenza del
mondo, deve invocare un’analisi e un inventario visuale. Deve
dare il senso della presenza del mondo fisico, come in una natura
morta. In effetti, il realismo come termine critico e polemico
entra nella cultura, nei primi anni Cinquanta, per caratterizzare la
pittura – in particolare quella di Courbet – e poi, per estensione,
viene usato per indicare uno stile letterario. È un termine
risolutamente attaccato al visuale, a quelle opere che cercano di
inventariare il mondo immediatamente percepibile”.
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Ogni opera d’arte è come una finestra aperta sulla creazione.
C’è, inserito nel vano della finestra, una sorta di Schermo
trasparente [une sorte d’Écran transparent], attraverso il quale
si percepiscono gli oggetti più o meno deformati, sottoposti a
cambiamenti più o meno sensibili nelle loro linee e nel loro
colore. Questi cambiamenti dipendono dalla natura dello
Schermo”
Esistono tre tipi di schermo: Classico, Romantico, Realista
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Lo Schermo classico è un bel foglio di talco purissimo e di
grana fine e solida, di un biancore latteo. Le immagini vi si
disegnano nettamente, con un semplice tratto nero. I colori
degli oggetti si indeboliscono attraversando la velata
limpidezza, talvolta svaniscono del tutto. Quanto alle linee,
subiscono una sensibile deformazione, tendono tutte verso la
linea curva o la linea retta, si assottigliano, si allungano, con
lente ondulazioni. La creazione, in questo cristallo freddo e
poco traslucido, perde tutte le sue asprezze, tutte le sue energie
vive e luminose; conserva solo le ombre e si riproduce sulla
superficie liscia, come un bassorilievo. Lo Schermo classico,
in una parola, è una lente di ingrandimento che sviluppa le
linee e blocca il passaggio dei colori”.
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Lo Schermo romantico è un vetro […] colorato con le sette
sfumature dell’arcobaleno. Non soltanto lascia passare i colori,
ma li rafforza ulteriormente […]. La creazione che ci offre
questo Schermo è una creazione tumultuosa e attiva. Le
immagini si riproducono vigorosamente con larghe coltri di
luce e d’ombra. […] Lo Schermo romantico, insomma, è un
prisma dalla potente rifrazione, che spezza ogni raggio
luminoso e lo decompone in un abbagliante spettro solare”.
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Lo Schermo realista è una semplice lastra di vetro [un simple
verre à vitre], molto sottile, molto chiara, che ha la pretesa di
essere così perfettamente trasparente che le immagini la
attraversino e vi si riproducano poi in tutta la loro realtà.
Dunque, nessun cambiamento nelle linee o nei colori: una
riproduzione esatta, sincera e naturale.. Lo schermo realista
nega la sua stessa esistenza”.
Zola, Lo schermo realista
Zola, Saggio su Stendhal, in Les Romanciers naturalistes
(1881):
“Volevo una composizione semplice, una lingua netta,
qualcosa come una casa di vetro che lasciasse vedere le idee
al suo interno”
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Noi vediamo la creazione in un’opera attraverso un uomo,
attraverso un temperamento, una personalità. […] La realtà
esatta è dunque impossibile in un’opera d’arte. […] C’è
deformazione di ciò che esiste. C’è menzogna. […]
Riprendendo il paragone, se la finestra fosse libera, gli oggetti
collocati al di là apparirebbero nella loro realtà. Ma la finestra
non è libera, né potrebbe esserlo. Le immagini devono trovare
un mezzo, e questo mezzo deve per forza modificarle, per
quanto puro e trasparente possa essere”.
Zola, Lo schermo realista
Zola, Lettera ad Antony Valabrègue del 18 agosto 1864:
“Per quanto ne dica, [lo schermo realista] esiste, e per questo
non può vantarsi di restituirci la creazione nella splendida
bellezza della verità. Per quanto possa essere chiaro, sottile,
per quanto sia solo una lastra di vetro, ha comunque un suo
colore, uno spessore qualunque; tinge gli oggetti […] una fine
polvere grigia offusca la sua limpidezza”.
“Tutte le mie simpatie, se occorre dirlo, sono per lo Schermo
realista; appaga la mia ragione, e sento in lui immense bellezze
di solidità e di verità. […] preferisco lo Schermo che,
stringendo più da vicino la realtà, si accontenta di mentire
giusto un po’ per farmi sentire un uomo in un’immagine della
creazione”.
Zola, Naturalismo e senso del reale
Zola, Il naturalismo nel teatro (1881):
“Il naturalismo è il ritorno alla natura, è l’operazione che gli
scienziati hanno compiuto il giorno in cui hanno pensato di
partire dallo studio dei corpi e dei fenomeni, di fondarsi
sull’esperimento, di procedere con l’analisi. Anche in
letteratura il naturalismo è il ritorno alla natura e all’uomo,
l’osservazione diretta, l’esatta anatomia, l’accettare e il
raffigurare ciò che è. Il lavoro è stato il medesimo per lo
scrittore e per lo scienziato: entrambi hanno dovuto sostituire
le astrazioni con la realtà, le formule empiriche con le analisi
rigorose. […] Si trattava di ricominciare da capo, di conoscere
l’uomo alle sorgenti stesse del suo essere […]; gli scrittori non
dovevano ormai che riprendere l’edificio alla base,
producendo il maggior numero possibile di documenti umani
Zola, Naturalismo e senso del reale
Zola, Il naturalismo nel teatro (1881): “Il romanzo naturalista
è semplicemente una ricerca sulla natura, gli uomini e le cose.
Esso non ha più alcun interesse per l’ingegnosità di un
racconto bene inventato e svolto secondo certe regole.
L’immaginazione non ha più spazio, l’intreccio importa poco
al romanziere, il quale non si preoccupa né dell’esposizione,
né della trama, né della conclusione; egli cioè non interviene
per togliere o aggiungere nulla alla realtà, non costruisce di
sana pianta una impalcatura secondo le esigenze di un’idea
concepita prima. […] Invece di immaginare un’avventura, di
complicarla, distribuendo colpi di scena che la conducano via
via ad una conclusione finale, si prende semplicemente nella
vita la storia di un uomo o di un gruppo di uomini, di cui si
registrano fedelmente le azioni. L’opera diventa un processo
Zola, Naturalismo e senso del reale
Zola, Il senso del reale (1878):
“Far muovere personaggi reali in un ambiente reale, offrire
al lettore un brandello di vita umana: il romanzo naturalista è
tutto qui. / Poiché l’immaginazione non è più la qualità
principale del romanziere, che cosa dunque l’ha sostituita?
Occorre sempre una qualità dominante. Oggi la qualità
principale del romanziere è il senso del reale. […] Il senso del
reale consiste nella capacità di vedere la natura e di
rappresentarla così come è”.
Zola, Il romanzo sperimentale
Grande influsso di Hippolyte Taine, e in generale di una
cultura materalista e razionalista che concepisce l’uomo “come
fatto di natura, sottoposto alle leggi chimico-fisiche e
determinato dalle influenze dell’ambiente”
Zola, Il romanzo sperimentale
Zola, Il romanzo sperimentale (1881):
“Si confronti per un momento l’attività dei romanzieri idealisti
con la nostra; qui la parola idealisti indica gli scrittori che si
allontanano dall’osservazione e dall’esperimento per fondare
le proprie opere sul soprannaturale e l’irrazionale, e che, in
una parola, ammettono forze misteriose, al di fuori del
determinismo dei fenomeni. […] i romanzieri idealisti si
attengono per partito preso all’ignoto, per i più diversi generi
di pregiudizi religiosi e filosofici, con il curioso pretesto che
l’ignoto è più elevato e più bello del noto”.
Zola, Il romanzo sperimentale
Il modello è Claude Bernard, Introduzione allo studio della
medicina sperimentale, da cui cita brani come il seguente: “Si
dà il nome di osservatore a colui che applica metodi di ricerca
semplici o complessi allo studio dei fenomeni senza alterarli,
prendendoli così come avvengono in natura. Si dà il nome di
sperimentatore, invece, a colui che adopera metodi di ricerca
semplici o complessi per alterare o modificare, secondo uno
scopo qualsiasi, i fenomeni naturali o per produrli in
condizioni in cui normalmente non avvengono in natura”.
Zola, Il romanzo sperimentale
“Ritornando al romanzo, vediamo ugualmente che il
romanziere è insieme un osservatore e uno sperimentatore.
L’osservatore per parte sua pone i fatti quali li ha osservati,
individua il punto di partenza, sceglie il terreno concreto sul
quale si muoveranno i personaggi e si produrranno i fenomeni.
Poi entra in scena lo sperimentatore che impianta
l’esperimento, cioè fa muovere i personaggi in una storia
particolare, per mettere in evidenza che i fatti si succederanno
secondo una concatenazione imposta dal determinismo dei
fenomeni studiati. […] È innegabile che il romanzo
naturalista, quale ora lo intendiamo, è un vero e proprio
esperimento che il romanziere compie sull’uomo, con 1’aiuto
dell’osservazione”
Zola, Il romanzo sperimentale
“Citerò ancora questa immagine di Claude Bernard che mi ha
molto colpito: ‘Lo sperimentatore è il giudice istruttore della
natura’. Noi romanzieri siamo i giudici istruttori degli uomini
e delle loro passioni”.
Zola, Il romanzo sperimentale
“Sono dunque giunto a definire questi punti: il romanzo
sperimentale è conseguenza dell’evoluzione scientifica del
secolo; esso continua e completa la fisiologia che a sua volta si
basa sulla chimica e sulla fisica; sostituisce allo studio
dell’uomo astratto, dell’uomo metafisico, lo studio dell’uomo
come fatto di natura, sottoposto alle leggi chimico-fisiche e
determinato dalle influenze dell’ambiente; è, in una parola, la
letteratura dell’età scientifica, come la letteratura classica e
romantica corrispondeva all’età della scolastica e della
teologia”.
Zola, Il romanzo sperimentale
“Un rimprovero stupido che viene mosso a noi scrittori
naturalisti è di voler essere solamente dei fotografi. Abbiamo
un bel dichiarare che diamo valore al temperamento,
all’espressione personale, non di meno si continua a
risponderci con argomenti cretini sull’impossibilità di attenersi
rigorosamente al vero, sul bisogno di ordinare i fatti per fare
qualsiasi opera d’arte. […] L’idea di esperimento porta con sé
l’idea di un intervento modificatore. In effetti noi partiamo da
fatti veri, che sono la base indistruttibile del nostro lavoro; ma,
per metterne in evidenza la concatenazione causale, bisogna
preparare e orientare i fenomeni; questa è la nostra parte di
invenzione e di genialità nell’opera. Così, […] quando nei
nostri romanzi usiamo il metodo sperimentale, noi dobbiamo
modificare la natura senza uscire dalla natura”.
Germinal, Storia del testo
1. Inizio del 1884: Zola decide di scrivere “qualcosa che si
riferisca a uno sciopero in un paese di minatori”
2. Accumula una enorme documentazione tecnica e scientifica
sullo sfruttamento delle miniere, sugli scioperi e sulla
questione operaia (legge testi scientifici sulle miniere,
resoconti di processi del 1869-70 in seguito a sommosse nelle
miniere)
3. Febbraio 1884: si reca ad Anzin, dove è appena iniziato uno
sciopero: Scende nella miniera, parla con i minatori, visita i
villaggi e le osterie. E ricava 100 pagine di documentazione
dettagliata, I miei appunti su Anzin
4. Apr.1884-gen.1885: Stesura del testo, pubblicato a puntate
sul quotidiano “Gil Blas” (26 nov. 1884-25 feb. 1885) e poi in
volume (Charpentier, 21 marzo 1885)
Philippe Hamon: Un discorso condizionato (1973)
“Sia, ad esempio, una descrizione di locomotiva da inserire
in un dato punto del racconto. […] Posto che l’autore non deve
né apparire né trasparire nel suo enunciato, perché facendolo
darebbe l’impressione di monopolizzarlo a suo esclusivo
vantaggio (postulato dell’”obiettività”, dell’”impersonalità”),
saranno i personaggi ad essere delegati alla visione e ad
assumerla su di sé. / A tal fine essi dovranno […] guardare la
locomotiva […] perché la descrizione deve essere sentita dal
lettore come tributaria dell’occhio del personaggio che
l’assume (quindi di un poter vedere) e non del sapere del
romanziere (una “scheda”)”.
Lo spazio del romanzo: Casa Maheu
E’ composta da
 Una stanza a pianterreno, un “locale alquanto vasto” arredato
con una stufa di ghisa, una dispensa, un tavolo con sedie
 Un’unica stanza quadrata al primo piano, a cui si accede da
una scala di legno scricchiolante, in cui si trovano un armadio,
una tavola, due sedie e tre letti, in cui dormono i figli (due per
ogni letto): Zacharie e Jeanlin, Lénore e Henri, Cathérine e
Alzire
 Padre e madre dormono nel corridoio del pianerottolo, e a
ridosso del loro letto si trova la culla dell’ultima figlia, Estelle
Lo spazio del romanzo: I luoghi di svago
 A l’Avantage, osteria gestita da Rasseneur (cfr. Parte II, cap.
6)
 Le Bon Joyeux, osteria e locale da ballo gestito dalla vedova
Désir (cfr. parte III, cap. 2)
Lo spazio del romanzo: Gli spazi dei borghesi
 La Piolaine, residenza dei Grégoire (cfr. Parte II, cap. 1),
marito e moglie con un’unica figlia, Cécile
 Palazzina della direzione, in cui abita il direttore della
miniera, Hennebeau (cfr. soprattutto Parte IV, capp. 1 e 2):
pranzo con i Grégoire e Paul Négrel, ingegnere, nipote del
direttore
György Lukács, Per il centenario di Zola (1940):
“Zola ha potuto essere un grande scrittore soltanto perché
non sempre è riuscito a eseguire con piena e logica coerenza il
suo programma di scrittore”.
Henri Mitterand, Le discours du roman:
“Germinal è attraversato da una frattura: il sapere metodico
[cioè quel sistema di informazioni sul mondo che il romanzo
veicola, e sulle quali si regge: tecniche, sociali, politiche,
ideologiche] è incrinato dall’immaginario mitico. Da qui
deriva la sua ricchezza letteraria. Paradossalmente, è da questa
discordia interna che l’opera trae i suoi effetti migliori”.
Henri Mitterand, Le discours du roman:
[Sottolinea che, nella rappresentazione della miniera,]
“La realtà concreta e l’analisi razionale vengono
progressivamente svuotate per lasciar posto al fantastico e al
favoloso. [...]
– La miniera, come spazio sotterraneo, rimanda al concetto
di sepoltura (i minatori sono degli insetti, ma sono anche dei
morti viventi, progionieri della tomba), al concetto di
soffocamento (il crollo delle gallerie, l’emanazione di gas
nocivi), al concetto di divoramento (il Voreux divora, inghiotte
ogni giorno la sua razione di uomini, è un ventre insaziabile;
– L’organizzazione di questo spazio sotterraneo evoca le
città sepolte: il suo labirinto rimanda al concetto di
smarrimento, di disorientamento, di abolizione di tutte le vie
d’uscita.
Henri Mitterand, Le discours du roman:
– La miniera, come spazio delle tenebre, è il luogo in cui si
scaricano liberamente e violentemente tutte le pulsioni
istintive che la luce del giorno riesce a censurare o a
incanalare: la fame, il sesso, l’omicidio. È il luogo in cui
l’uomo ridiventa una bestia
Gli elementi costitutivi di questo spazio perdono dunque la
loro inerzia e diventano elementi mitici, poiché questo gioco
di corrispondenze è il risultato del sistema di correlazioni
stabilito tra questi elementi e l’uomo, tra l’inerte e l’animato”.
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