Forme Statoeeforme forme governo Forme di di Stato di di governo Le forme di Stato Forma di Stato: con questa espressione si intende indicare i complessivi rapporti che vengono ad intercorrere, in un dato ordinamento, tra chi governa (cd. Stato-apparato) e chi è governato, inteso quest’ultimo sia come individuo sia in riferimento alle articolazioni sociali che nel loro insieme concorrono a formare la società civile (si pensi alle associazioni). Così intendendo tale nozione, ne consegue che le varie forme di Stato affermatesi nel corso dei secoli hanno diversamente definito e concretizzato questi rapporti in base al riconoscimento o meno dei diritti e delle libertà per gli individui e per gli enti intermedi (tra di essi e soprattutto nei confronti dei pubblici poteri), alla affermazione o meno del principio di uguaglianza e alla sua effettiva realizzazione, alla disciplina dello status di cittadino e alle conseguenze che ne sono state fatte derivare, nonché alla stessa concezione dell’interesse pubblico e di chi sia chiamato a realizzarlo. Il definitiva quindi la forma di Stato indica le finalità che lo Stato persegue e i valori a cui si ispira. Tralasciando le esperienze proprie degli ordinamenti più antichi, storicamente si sono avute le seguenti forme Stato: L’ordinamento patrimoniale L’ordinamento patrimoniale L’ordinamento a carattere patrimoniale si afferma nel periodo successivo alla caduta dell’impero romano. È in questo momento storico che la disgregazione dei precedenti assetti istituzionali e produttivi comporta il passaggio ad una situazione di forte instabilità politica e ad una economia prevalentemente, se non esclusivamente, chiusa. In assenza di una autorità in grado di monopolizzare la forza e di imporsi su tutti i consociati, il potere si articola secondo un modello fortemente destrutturato e basato su rapporti di tipo privatistico. Il Sovrano, che legittima la sua autorità sulla forza, è in realtà semplicemente il feudatario maggiore. Questi stabilisce con i grandi feudatari rapporti personali di fedeltà basati sulla logica dello scambio, per cui in cambio di determinate prestazioni (soprattutto messa a disposizione di truppe) lo stesso Re assume obblighi verso di essi e questi, a loro volta, stabiliscono rapporti simili con i feudatari minori. In un tale contesto i vari titolari dei feudi hanno il diritto e, quel che più conta, la forza di ribellarsi nel caso gli obblighi reali non siano rispettati, potendo mantenere in tempo di pace eserciti privati. Esistono inoltre numerose franchigie particolari per città e borghi, le quali sono di fatto svincolate dal potere sovrano. Perfino l’amministrazione della giustizia risulta frammentata nelle giurisdizioni proprie dei vari ordini corporativi. Se la situazione appena descritta testimonia un assetto del potere fortemente destrutturato, va poi considerato il modo di rapportarsi tra chi detiene questo potere e i sudditi. Sovrano e feudatari dispongono dei rispettivi territori a titolo di proprietà privata, considerando gli individui che vi risiedono come semplici “cose”, alla completa mercé del proprietario terriero. In particolare il Monarca non si cura degli interessi generali delle collettività su cui esercita, direttamente o indirettamente, l’autorità. Egli persegue la semplice finalità della sicurezza del territorio verso l’esterno o al suo interno, nonché quella di una sua estensione attraverso una politica di potenza. La mancanza di fini generali e l’esistenza di una organizzazione del potere fortemente decentrata ed essenzialmente basata su rapporti di natura privatistica inducono a 1 parlare di “ordinamento” e non di “Stato” patrimoniale. Perché si possa correttamente parlare di Stato occorre, difatti, che vi sia un ente più complesso, monopolizzatore della forza e avente, anche e soprattutto, natura politica. Tale natura appartiene agli enti che perseguono fini generali e quindi il bene comune della collettività. Lo Stato Lo Stato assoluto assoluto Il passaggio a tale forma di Stato si sviluppa in Europa tra il ‘400 e il ‘500 e può dirsi concluso nei principali paesi del Continente (Spagna, Inghilterra e Francia) nel ‘600. Caratteristica essenziale dello Stato assoluto è l’accentramento del potere nella figura del Sovrano, che finisce per esercitare direttamente o indirettamente, materialmente o formalmente, tutte le funzioni dello Stato, vale a dire la produzione di norme, l’esecuzione di esse e il dare giustizia (da cui si svilupperà la tradizionale distinzione tra la funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale). Le cause di tale processo di accentramento sono molteplici ed in generale riconducibili a fattori politici, culturali, sociali ed economici. Tra questi una particolare importanza assumono la rinascita dei commerci e le nuove caratteristiche che assume la guerra. Il commercio per svilupparsi richiede difatti il mantenimento dell’ordine all’interno del regno e l’eliminazione dei vari dazi e ostacoli che i diversi feudatari impongono al passaggio dei beni e delle persone. La nascente borghesia commerciale cerca e trova nella monarchia lo strumento per limitare il potere di una nobiltà, che rappresenta un ostacolo alla propria egemonia. Se il nuovo vigore degli scambi spinge verso un monopolio della forza nelle mani del Monarca, allo stesso risultato induce la nuova intensità e la lunga durata delle guerre. Il tradizionale sistema di reclutamento di truppe, fornite di volta in volta dai vari feudatari, diventa obsoleto e si rende necessario un esercito stabile alle dirette dipendenze del Sovrano (a cui giura fedeltà). Quest’ultimo inoltre non si preoccupa esclusivamente di difendere i propri confini, ma persegue il bene comune della collettività o, per meglio dire, persegue finalità di carattere generale. Diventa quindi possibile parlare propriamente di “Stato”, come ente politico monopolizzatore della forza e con finalità di carattere generale. La volontà di perseguire tali finalità spinge lo Stato ad assumere sempre nuovi compiti e ad intervenire con sempre maggiore intensità, tanto che il Monarca è indotto ad avvalersi di un complesso di funzionari reali alle sue dipendenze. Presto il Re non è più in grado di intervenire direttamente su tutte le questioni per le quali si richiede una pronuncia del potere regio e il nascente apparato burocratico, chiamato a esprimersi in modo discrezionale (prendendo cioè esso stesso una decisione), tende a strutturarsi secondo un criterio gerarchico e a dar vita ad una prassi amministrativa. Esercito permanente e apparato burocratico professionale richiedono inoltre un flusso di entrate costante e sempre più consistente. Tale necessità non può essere garantita dai tributi occasionali tipici del sistema feudale, ma richiede l’istituzione di un sistema in grado di reperire costantemente e stabilmente risorse per le casse statali: il fisco. Infine il carattere privatistico nei rapporti tra governanti e governati perde la sua centralità (senza scomparire) e si affermano, anche se non sempre in modo pienamente realizzato, elementi pubblicistici. Innanzi tutto il potere cessa, almeno tendenzialmente, di appartenere al Re come persona fisica, ma appartiene alla corona, cui si accede in via ereditaria (non sempre nel periodo feudale ciò accadeva, poiché, al contrario, i sovrani erano spesso elettivi e il momento della scelta era occasione di guerre tra i contendenti; la successione ereditaria, essendo disciplinata da regole precise, garantisce ora la continuità del potere e limita il pericolo di crisi alla morte del Re). Si distingue inoltre il patrimonio della corona da quello personale del Re e, soprattutto, si afferma (anche se in modo incompleto) la subordinazione di quest’ultimo all’ordinamento dello Stato, rispetto al quale in precedenza il Monarca si poneva al di sopra . Viene in questo modo gettato il seme di quello che sarà il principio cardine dello Stato di diritto: la subordinazione del potere di governo al diritto. Tale principio tende ad affermarsi anche 2 sotto altro aspetto nel cd. “Stato di polizia” (dal termine greco “polis”, città). Quest’ultimo rappresenta uno sviluppo dello Stato assoluto, che si afferma alla fine del ‘700 in particolare in Austria e Prussia. In tale fase si riconosce ai singoli l’esistenza e la tutela giurisdizionale di alcuni diritti. Pur essendo questi ultimi inerenti esclusivamente al campo fiscale (cd. “atti di gestione”), non vi è dubbio che il riconoscimento nei confronti dello Stato di posizioni giuridiche direttamente tutelabili da parte dei singoli innanzi ad un giudice rappresenta una importante anticipazione della futura tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo. Lo Stato liberale Lo Stato liberale nasce in Inghilterra alla fine del XVII secolo (con la glorious revolution del 1689) e si afferma definitivamente con le rivoluzioni americana e francese al punto da divenire la forma di Stato prevalente per buona parte dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. La borghesia, forte del potere economico acquisito grazie alla rivoluzione industriale e guidata dalle dottrine razionaliste di matrice illuminista, diventa la classe dominante e dà vita ad un modello statuale in grado di garantire e proteggere i suoi interessi. La dottrina economica propria di questa classe sociale, il liberismo (teorizzato soprattutto da Adam Smith esso ha come nucleo fondamentale l’idea che il mercato, se lasciato funzionare liberamente e quindi senza intromissione da parte dei pubblici poteri, tende a operare a livelli ottimali e a produrre massimo benessere per tutti), si traduce nella dottrina politica del liberalismo. Quest’ultima pone al centro l’individuo, al quale viene riconosciuta una sfera di autonomia e di libertà (soprattutto economica) che lo Stato non può invadere, ma che deve essere garantita attraverso, soprattutto, il mantenimento dell’ordine sociale e della sicurezza interna ed esterna. I pubblici poteri devono quindi astenersi dall’intervenire direttamente nella sfera di libertà riconosciuta ai singoli e devono limitarsi a garantire la libera iniziativa economica e le condizioni perché essa possa affermarsi; una particolare tutela viene quindi riconosciuta alla proprietà privata (concezione garantista e astensionista). Questa viene considerata base della convivenza sociale e perno di ogni reale libertà. Se libera iniziativa economica e proprietà privata diventano il fondamento del nuovo modello di convivenza sociale, la classe borghese afferma alcuni principi che ne possano realmente assicurare l’affermazione e difesa da parte dello Stato. In primo luogo viene ripensata la legittimazione del potere, che cessa di essere divina (principio teocratico) e viene riconosciuta come proveniente dai consociati (principio rappresentativo), o meglio da quella parte dei consociati (la stessa borghesia) che rappresenta – o ritiene di rappresentare – l’intera collettività. Il Re, che nel sistema precedente era tale per grazia di Dio e manifestazione della Sua volontà in Terra, è ora titolare del potere regio per grazia di Dio e volontà della Nazione. Accanto al Monarca nascono o acquisiscono forza e prestigio i Parlamenti nazionali, che sono, almeno in parte, elettivi. La legittimazione dal basso del potere rappresenta la migliore garanzia che l’azione dello Stato rispetti la sfera di libertà dell’individuo, che con il voto indirizza esso stesso l’agire dei pubblici poteri. Finalità garantista hanno anche il principio della divisione dei poteri tra gli organi dello Stato e il principio di legalità. La teoria della separazione dei poteri viene elaborata nel XVII secolo dal Locke, il quale distingue tra potere legislativo, esecutivo e federativo (quest’ultimo relativo alla politica estera), attribuendo il primo al Parlamento e i poteri esecutivo e federativo al Monarca (che tuttavia partecipa anche al legislativo attraverso la sanzione regia). Tale impostazione è stata successivamente ripresa e parzialmente modificata dal Montesquie e dal Rousseau. Questi, seppur con differenze non secondarie nelle rispettive concezioni, hanno sostituito il potere federativo con quello giurisdizionale, al cui esercizio è preposta la magistratura. Per quanto attiene al principio di legalità, esso si presenta come precetto cardine del cd. Stato di diritto: gli atti della pubblica amministrazione devono essere conformi alla legge, la quale, oltre che a garantire le libertà dei singoli, è chiamata a disciplinare funzionamento e organizzazione dello 3 Stato. Nel pensiero liberale l’organizzazione statale avrebbe dovuto funzionare impersonalmente e meccanicamente secondo l’astratta volontà di una legge generale e uguale per tutti, espressione di una volontà generale maturata all’interno degli organi rappresentativi mediante una libera discussione. In realtà la legge finiva per essere espressione degli esclusivi interessi della borghesia. Garanzia di un nucleo di libertà inviolabile, atteggiamento astensionista, principio rappresentativo, divisione dei poteri, principio di legalità e uguaglianza caratterizzano questa nuova forma di Stato, che si afferma in tempi e con intensità diversa nelle varie esperienze costituzionali. Prima in ordine di tempo e con intensità maggiore in Inghilterra, successivamente negli Stati Uniti e in Francia, con minore intensità e maggiore ritardo in Germania e Italia. Crisi dello Stato liberale Gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento sono caratterizzati da una profonda crisi dello Stato liberale. Essa trova le sue radici essenzialmente nella circostanza che durante l’esperienza liberale due principi cardine di tale forma di Stato, il principio rappresentativo e quello di uguaglianza, hanno trovato solo una parziale realizzazione. Nonostante, difatti, l’uguaglianza tra i cittadini e la legittimazione popolare del potere siano solennemente proclamati nelle varie carte costituzionali, essi rimangono in gran parte pure affermazioni astratte. In riferimento al principio rappresentativo, esemplare è il caso dell’Italia: la legge elettorale, approvata nello stesso anno dello Statuto albertino (1848), circoscrive inizialmente l’esercizio del diritto di voto ad una percentuale della popolazione che si aggira intorno al 2%, con una limitatissima affermazione del principio rappresentativo. Tale percentuale salirà molto lentamente negli anni successivi attraverso l’attenuazione dei rigidi criteri basati sul censo o sul livello di istruzione contemplati nella legge del 1848. Nel 1877 sarà portata al 7% attraverso l’estensione del voto ai cittadini maggiorenni di sesso maschile che abbiano adempiuto agli obblighi scolastici. Con le due successive riforme elettorali del 1912 e del 1919 viene introdotto il suffragio universale maschile, che estende l’elettorato attivo al 23% della popolazione. Infine solo nel 1945, quando lo Stato liberale è da tempo tramontato in Italia, si arriva alla piena realizzazione del principio rappresentativo con il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Negli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, inoltre, permangono e si accentuano rispetto al passato le forti sperequazioni economiche tra una esigua classe borghese e una massa indigente. Ne consegue una forte pressione dei ceti meno abbienti per ottenere migliori condizioni di vita. Oltre a ciò si afferma sempre più la necessità di un intervento diretto dello Stato in economia (intervento che in realtà avviene anche durante il periodo liberale attraverso dazi e aiuti alla nascente industria) con abbandono dell’atteggiamento astensionista in materia da parte dei poteri pubblici. Gli sbocchi di tale crisi sono diversi tra i vari Stati. In quelli in cui la classe borghese è meno forte e le istituzioni liberali più fragili vi è il passaggio allo Stato totalitario/autoritario o a quello socialista. Negli Stati di più salde tradizioni liberali si afferma lo Stato democratico-sociale. Lo Stato totalitario Lo Stato totalitario/autoritario Nei paesi che hanno una struttura economica più debole e una più carente tradizione democratica la crisi dello Stato liberale, accentuata e accelerata dal primo conflitto mondiale, sfocia nello Stato totalitario. Quest’ultimo si è concretizzato soprattutto nella Germania del Terzo Reich (1934-1945) e, seppur in misura minore, in Italia durante il periodo fascista (1922-1943). Nel caso italiano, tuttavia, è opportuno parlare non tanto di Stato totalitario, quanto di Stato autoritario. Se difatti sia il 4 nazionalsocialismo che il fascismo rappresentano una esaltazione del concetto stesso di Stato, il quale tende a controllare e indirizzare ogni aspetto della vita sociale ed economica (tempo libero, sport, cultura, informazione ecc..) e al cui interno ogni articolazione della società (famiglia, partito, sindacato) viene ricondotta, in Italia tale controllo totalitario non è risultato mai pienamente realizzato. Chiesa cattolica e Monarchia hanno rappresentato i due principali limiti alla piena realizzazione dello Stato fascista (si ricordi che è stata proprio la Monarchia a porre formalmente fine al fascismo e si pensi alla libertà di insegnamento garantita dai Patti Lateranensi alle scuole cattoliche). Il fine dello Stato totalitario/autoritario non è più il benessere del singolo, ma l’interesse della Nazione, che rappresenta un valore supremo: i singoli diventano semplici strumenti per la realizzazione del fine statale. Il principio della rappresentanza politica viene negato in radice e sostituito con quello del partito unico, a cui si affianca un sindacato unico. Le masse vengono istruite attraverso una capillare propaganda e il potere si accentra nella figura di capo carismatico, vero e unico interprete della volontà nazionale. La negazione di ogni reale forma di pluralismo sociale e istituzionale comporta anche la negazione di ogni diritto di libertà, in particolare dei diritti politici. Lo Stato Statobolscevico bolscevico Tale forma di Stato nasce in Russia a seguito della rivoluzione bolscevica del 1917 e si ispira alla dottrina marxista-leninista. Secondo quest’ultima nei paesi borghesi i principi di uguaglianza e libertà sono solo formalmente affermati o, comunque, ad esclusivo appannaggio della classe detentrice dei mezzi di produzione. In particolare il principio di uguaglianza è contraddetto dalla profonda disuguaglianza che negli ordinamenti liberali caratterizza la distribuzione della ricchezza. Tale disuguaglianza ha come causa fondamentale la proprietà privata. Necessaria conseguenza di quest’ultima è difatti la sperequazione tra il borghese detentore dei mezzi di produzione e il proletario, il quale, a causa dell’eccesso di offerta di lavoro, vende la propria manodopera ad un prezzo (che sarebbe il salario) inferiore rispetto al suo valore, consentendo l’arricchimento della classe borghese (teoria del plus-valore). La borghesia, inoltre, forte del suo predominio economico, tende a tradurre tale supremazia sul piano politico. Lo Stato non è altro che la sovrastruttura politica attraverso la quale la classe borghese afferma e difende il suo primato economico. La finalità dello Stato bolscevico è allora la realizzazione del bene dei singoli (così come lo Stato liberale) ma lo strumento attraverso cui passa tale finalità è la sostituzione della proprietà privata con la proprietà di Stato (proprietà socialista) che determinerà l’eliminazione della distinzione in classi (cioè della disuguaglianza) e l’estinzione dello Stato. Quest’ultimo non sarà più necessario perché non ci sarà un predominio economico-politico da difendere, ma una società di eguali. Da un punto di vista organizzativo il principio base cui si ispira il nuovo modello statale è quello della “unità del potere”. Le funzioni, che nell’assetto liberale erano state separate al fine di limitare e rendere più imparziale l’esercizio del potere, vengono, almeno teoricamente, concentrate nelle assemblee elettive dei lavoratori (soviet). Lo Stato interviene massicciamente non solo nel settore economico, che controlla completamente, ma anche nella cultura e nella religione in vista della formazione di una comune coscienza socialista. Nello stesso modo e allo stesso scopo sono affermate le libertà dei singoli. Queste sono riconosciute e tutelate solo se ed in quanto funzionali all’edificazione del socialismo. 5 Lo Stato sociale Nei paesi dove più radicate sono le istituzioni dello Stato liberale (in primis l’Inghilterra) la crisi di quest’ultimo, determinata soprattutto dall’estensione del suffragio e dalla consequenziale piena affermazione del principio rappresentativo, trova il proprio punto d’approdo nello Stato sociale. L’accesso al voto delle classi meno abbienti determina il definitivo abbandono dell’atteggiamento tipico dello Stato liberale: l’astensionismo nel campo economico. La tutela del diritto di proprietà e della libera iniziativa privata erano state le esigenze della classe borghese, che, accentrando il potere economico, vi aveva visto le migliori garanzie della propria ricchezza. L’inserimento dei ceti subalterni nel meccanismo della rappresentanza spinge lo Stato ad ampliare interventi e spese diretti a soddisfare le domande sociali (istruzione, sanità, previdenza) di chi non possiede ricchezza e a ridistribuire secondo criteri di equità quest’ultima. Gli apparati pubblici crescono enormemente e l’intervento statale assume un autentico ruolo di governo dell’economia finalizzato, come accennato, non solo a garantire una maggiore ricchezza della collettività, ma anche a ridistribuire questa ricchezza in modo equo e non secondo le pure logiche del mercato. Lo Stato non si limita più a garantire una semplice uguaglianza formale, ma anche e soprattutto una uguaglianza sostanziale. Di conseguenza le libertà riconosciute e tutelate aumentano in quantità e cambiano in qualità. Si affermano le cd. Libertà positive (ad es. istruzione) che richiedono per la loro realizzazione un intervento dei pubblici poteri e non un atteggiamento meramente garantista (cd. Libertà negative, tipiche dello Stato liberale). Ad esse inoltre si aggiungono le libertà collettive (soprattutto riunione e associazione) a testimonianza di un assetto statuale che si apre agli enti intermedi (tra l’individuo e lo Stato), dando vita ad un sistema pluralista, in cui non è più identificabile un solo centro di potere, lo Stato, ma una serie di poteri in concorrenza tra loro o che collaborano in funzione del bene comune. Lo Stato quindi perde il ruolo di garante esterno di una concorrenza tra individui e acquista il nuovo ruolo di mediatore tra i diversi gruppi sociali (famiglia, scuola, associazioni ecc..) ed istituzionali (Regioni, Province, Comuni ecc..). deve essere infine sottolineato come le novità appena richiamate trovano oggi una espressa formulazione nei testi costituzionali di molti Stati, grazie ad un processo di progressiva costituzionalizzazione dei principi dello Stato sociale (si pensi, limitandosi solo al caso italiano, all’art. 2, Cost, in tema di pluralismo, all’art. 3, comma 2, Cost, in tema di uguaglianza sostanziale o anche alla disciplina dei cd. diritti sociali) Sottoclassificazioni delle forma di Stato Sotto altro punto di vista le forme di Stato possono essere distinte in unitarie – decentrate e repubblicane – monarchiche. In realtà sembra trattarsi una sottoclassificazione, in quanto tali modi di essere dello Stato possono accompagnarsi, e storicamente si sono accompagnate, ai tipi di Stato che in precedenza sono stati sinteticamente illustrati nella loro evoluzione storica. 6 Forma unitaria–-composta: decentrata Forma di di Stato unitaria Appartengono alla prima categoria gli Stati in cui i processi decisionali politico-amministrativi avvengono esclusivamente a livello centrale. Nella seconda categoria si distinguono gli Stati regionali e quelli propriamente federali. In entrambi i casi la caratteristica fondamentale è il riconoscimento del principio dell’autonomia, in particolare politica (cioè possibilità per l’ente autonomo di perseguire un indirizzo politico parzialmente diverso dall’ente Stato). La distinzione tra Stato federale e Stato regionale sembra invece di natura puramente quantitativa, avendo normalmente gli enti federati poteri maggiori e una posizione nell’ordinamento complessivamente più garantita nei confronti dell’autorità federale rispetto ai poteri degli enti regionali e alla loro rapporti con l’autorità centrale. Difatti, ai primi viene di solito riconosciuta competenza generale, proprie milizie, propria amministrazione della giustizia, diretta rappresentanza negli organi federali e posizione paritaria nel procedimento di revisione costituzionale. In riferimento agli Stati federali è inoltre possibile introdurre una distinzione in relazione al processo di formazione degli stessi. Si distinguono difatti Stati che sono divenuti federali a seguito di un processo di aggregazione di preesistenti entità Statali o coloniali (si pensi agli Stati Uniti nati nel 1787dall’unione delle tredici ex colonie inglesi in territorio americano) e Stati che sono divenuti federali a seguito della disgregazione di un precedente assetto unitario (si pensi al Belgio, che, dopo aver ereditato il tradizionale accentramento amministrativo tipico dell’esperienza napoleonica, si è progressivamente decentrato fino a raggiungere nel 1993 un assetto propriamente federale). Tuttavia non può nascondersi come negli ultimi decenni si sia manifestata la tendenza ad un avvicinamento tra le concrete esperienze regionale e quelle federali a seguito di processi politici tesi da una parte a rafforzare la posizione di autonomia degli enti regionali e dall’altra a consolidare ed espandere il potere federale (anche se negli ultimissimi anni si sono registrate tendenze opposte, finalizzate a ripristinare o almeno salvaguardare le competenze degli enti federati). Si pensi al riguardo all’ordinamento italiano, nel quale le recenti modifiche (prima legislative e amministrative, poi costituzionali) si sono tradotte in un ampio trasferimento di competenze dal centro alla periferia. Forma di Stato repubblicana – monarchica: Forma di Stato repubblicana - monarchica La distinzione si basa esclusivamente sull’organo posto a capo del potere esecutivo. Questo può essere incarnato da un Presidente della Repubblica eletto, direttamente o indirettamente, per un determinato periodo di tempo oppure da un Monarca, la cui corona può essere elettiva o ereditaria. La differenziazione appena illustrata perde il suo significato puramente formale e acquista portata sostanziale se si considera che storicamente la forma di Stato repubblicana ha tendenzialmente accompagnato, se non proprio coronato, l’affermazione di sistemi ispirati ai principi liberaldemocratici. Se il Monarca è tale per grazia di Dio (ed eventualmente volontà della Nazione), il Capo di uno Stato repubblicano è necessariamente espressione di una diversa legittimazione del potere, che trova la sua fonte, direttamente o indirettamente, nei consociati. Attualmente, tuttavia, il mantenimento dell’istituto monarchico e la contestuale adozione della forma di governo parlamentare in alcuni Stati (Gran Bretagna, Spagna, Paesi scandinavi) ha prodotto buoni risultati in termini di funzionalità complessiva del sistema e ha mostrato come, almeno a determinate condizioni, il principio monarchico possa rispondere in modo più che soddisfacente alle esigenze di neutrale e garantistica rappresentanza dell’unità nazionale. Al riguardo, pur senza alcuna nostalgia monarchica per il nostro Paese, si deve rilevare come la presenza di un Presidente elettivo possa dar 7 luogo a contrasti tra le varie forza politiche circa la gestione realmente neurale e garantistica della carica da parte di chi vi è preposto (si pensi alle presidenze Cossiga e Scalfaro, che in Italia hanno dato vita a tante polemiche in dottrina e tra le varie forze politiche). 8 LeForme formedidigoverno governo Forma di governo: con questa locuzione si indica il modo con il quale le funzioni fondamentali dello Stato vengono ripartite tra gli organi costituzionali e i rapporti che si instaurano tra tali organi. Tale concetto risulta intimamente collegato a quello di forma di Stato. Se quest’ultimo indica le finalità che l’ordinamento nel suo complesso persegue e i valori cui si ispira, l’espressione forma di governo indica l’assetto organizzativo mediante il quale siffatte finalità vengono perseguite. Storicamente si sono susseguite le seguenti forme di governo: LaLamonarchia assoluta monarchia assoluta Si tratta della forma di governo propria dello Stato assoluto ed è caratterizzata dalla concentrazione di tutte le funzioni nella Corona (che è l’unico organo supremo dello Stato): il Re fa le leggi, il Re governa e la giustizia è amministrata in nome del Re. In realtà l’idea di un Sovrano che assomma in sé tutto il potere senza alcun limite è puramente teorica. I monarchi assoluti dovettero ovunque, e con intensità diversa da paese a paese, cercare alleati e giungere a patti con le varie corporazioni e classi sociali. La costituzionale La monarchia monarchia costituzionale Tale forma di governo caratterizza la prima fase dello Stato liberale e accompagna l’affermazione del principio della separazione dei poteri. Essa realizza un assetto dualistico (cioè fondato su due centri di potere, contrariamente all’assetto monistico in cui vi è un solo centro di potere) nel quale il potere non si concentra più nella sola corona, ma viene da questa condiviso (parzialmente) con un altro organo: il Parlamento. Il Re continua ad essere titolare del potere esecutivo e ad essere formalmente titolare della funzione giurisdizionale, ma deve dividere l’esercizio della funzione legislativa con il Parlamento. Quest’ultimo delibera le leggi che per entrare in vigore necessitano tuttavia della sanzione regia (diversa dall’istituto della promulgazione presidenziale attualmente previsto dalla Costituzione italiana del 1948, perché con essa il Re valuta il merito dell’atto e può rifiutarla se ritiene la legge non rispondente all’indirizzo politico perseguito dalla corona). L’appoggio del Parlamento diventa inoltre necessario per l’istituzione di nuovi tributi in base al principio che non vi può essere tassazione senza che alle decisioni in merito partecipino anche i rappresentanti dei soggetti chiamati a versare le nuove imposte. Nella fase della monarchia costituzionale il Parlamento tende quindi ad agire come limite al potere regio, rispetto al quale finisce per raggiungere una posizione di sostanziale equilibrio. La didi governo parlamentare Laforma forma governo parlamentare La forma di governo parlamentare si afferma a seguito della rottura dell’equilibrio, proprio della monarchia costituzionale, tra Parlamento e Sovrano. La sempre maggiore forza economica della borghesia tende a tradursi sul piano politico in supremazia dell’organo parlamentare, mentre il 9 potere regio (o, con accezione più ampia, del capo dello Stato) tende a trasformarsi in potere neutro, di garanzia. Il Governo cessa di essere politicamente responsabile verso il Sovrano e diventa politicamente responsabile nei confronti del solo Parlamento attraverso l’istituto della fiducia, senza la quale l’Esecutivo non può entrare in carica o deve rassegnare le dimissioni. Di norma, infatti, è necessario che la fiducia venga espressamente attribuita (fiducia esplicita, attraverso la mozione di fiducia) perché il Governo possa iniziare ed esercitare le sue funzioni, anche se in alcune esperienze costituzionali risulta ammessa la cd. fiducia implicita (che si intende attribuita al momento della nomina del Governo finché non espressamente revocata dall’organo rappresentativo). In ogni caso l’Esecutivo è tenuto a rassegnare le dimissioni nel caso in cui il Parlamento decida di revocare la fiducia mediante una mozione di sfiducia. Affinché tale rapporto fiduciario nasca e si mantenga è quindi necessario che tra Parlamento (o meglio tra la maggioranza parlamentare) e il Governo vi sia accordo su un programma politico, che entrambi saranno chiamati ad attuare, con leggi il primo e con regolamenti e provvedimenti concreti il secondo. Il Governo, pur essendo legato ad un rapporto di fiducia con il Parlamento, non ne risulta propriamente subordinato, perché esso mantiene una propria discrezionalità e tra i due organi si instaura una relazione dialettica. Quanto appena detto è vero soprattutto in conseguenza dell’inserimento di alcuni correttivi nello schema base del governo parlamentare. Teorizzati nei primi anni del Novecento, i correttivi in esame sono stati introdotti nel continente europeo (dove la forma di governo parlamentare è maggiormente diffusa) soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale e hanno dato vita alle cd. forme di governo parlamentare razionalizzate. Di fronte alle precedenti esperienze del parlamentarismo caratterizzate da uno strapotere dell’organo rappresentativo e ad esecutivi deboli e fortemente instabili, i nuovi costituenti hanno perseguito l’obiettivo di rafforzare il Governo rendendolo allo stesso tempo più efficiente e più stabile (si pensi alla sfiducia costruttiva tedesca – per cui il Cancelliere può essere sfiduciato solo se il Parlamento ne indica a maggioranza assoluta il successore – o alla espressa disciplina della mozione di sfiducia in Italia). Il vantaggio di tale sistema è allora la tendenziale garanzia che organo rappresentativo e organo esecutivo collaborino per un unico programma, senza boicottaggi e paralisi. Lo svantaggio è invece rappresentato dalla incerta durata del Governo, che può in ogni momento essere costretto alle dimissione per revoca della fiducia. La preminenza dell’aspetto positivo o di quello negativo in un dato sistema dipende da una serie di fattori ed in particolare da: a) sistema partitico e sistema elettorale: maggiore è il numero dei partiti, maggiori sono le difficoltà per dar vita ad un Governo stabile e in grado di perseguire un indirizzo politico unitario. L’Esecutivo, difatti, dipenderà da maggioranze parlamentari formate da più formazioni partitiche, con ideologie e programmi diversi e a volte difficilmente conciliabili. Si deve considerare inoltre che il numero dei partiti è influenzato dal sistema elettorale. Un sistema maggioritario favorisce l’esistenza la presenza di due, massimo tre partiti (o coalizioni di partiti), mentre un sistema proporzionale tende a favorire il multipartitismo. b) presenza o meno di una effettiva alternanza: in sistemi dove esiste una reale possibilità di alternanza al governo tra due o più partiti, questi tendono ad assumere un atteggiamento responsabile ed efficiente, nonché a rafforzare le istituzioni democratiche. Laddove invece l’alternanza al potere è per vari motivi esclusa (come era ad es. in Italia per il PCI prima del 1989) le forze al governo, non temendo una sconfitta elettorale, tendono a deresponsabilizzarsi e quindi ad essere meno efficienti. Di contro, i partiti esclusi dal potere possono assumere atteggiamenti antisistema, negando o inficiando i principi stessi del parlamentarismo. c) ruolo e poteri del capo dello Stato: generalmente tale organo viene configurato nelle forme di governo parlamentare come potere neutro, posto super partes rispetto alle forze politiche e agli organi che determinano l’indirizzo politico (Governo e Parlamento), con conseguente esclusione dell’elezione diretta (non così però in Austria, dove la forma di governo parlamentare convive con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica federale). 10 All’interno di questa impostazione generale, tuttavia, il capo dello Stato può avere un ruolo puramente simbolico, con conseguenti prerogative meramente onorifiche (come, ad es., nella Costituzione francese del 1946) o può essere dotato di poteri più incisivi. In particolare la possibilità di sciogliere il Parlamento può rappresentare un serio argine ad eventuali degenerazioni del sistema ad eccessivo favore dell’organo rappresentativo (cd. sistema “assembleare”, nel quale il Governo è il semplice esecutore della volontà parlamentare). d) l’esistenza o meno di una controllo di costituzionalità: tale organo rappresenta una garanzia a tutela dei limiti posti nei confronti dei vari organi costituzionali dall’ordinamento. In particolare tali organi sono consapevoli che loro atti o comportamenti esorbitanti dalle competenze costituzionalmente stabilite per essi, se posti in essere, potranno essere censurati dalla Corte. È bene precisare, tuttavia, come la reale garanzia che l’organo in questione è in grado di offrire dipende da una serie di fattori quali: la composizione della Corte; la definizione degli atti sindacabili; la natura del sindacato e gli effetti di quest’ultimo; il maggiore o minore estensione dei soggetti legittimati ad adire la Corte stessa ecc. In relazione alle forme di esercizio di tale sindacato e con particolare riferimento alle modalità di instaurazione e alla sua definizione da parte degli organi ad esso preposti, si suole distinguere tra giudizio diffuso e giudizio accentrato di conformità delle leggi (e degli altri atti dei pubblici poteri previsti dall’ordinamento) alla Costituzione. Il giudizio diffuso è tipico del sistema statunitense e comporta che ogni giudice è posto nella condizione di sindacare la conformità a Costituzione dell’atto sul quale la questione è stata sollevata (o rilevata d’ufficio dal giudice stesso). Il giudizio accentrato è stato inaugurato dalla Costituzione austriaca del 1920 e prevede l’affidamento in via esclusiva di tale giudizio ad un apposito Corte costituzionale. Tuttavia, se modello diffuso e modello accentrato risultano nella teoria antitetici, nella pratica vi sono elementi che tendono ad avvicinarli. Così nel sistema americano la possibilità di ricorrere alla Corte Suprema come organo di appello o superappello consente, di fatto, di accentrare il sindacato di costituzionalità in tale organo. Di contro, esistono sistemi ispirati al modello accentrato nei quali sono stati introdotti elementi di diffusione. Si pensi, ad es., al caso italiano, nel quale il procedimento in via incidentale, e quindi l’intervento del giudice a quo, rappresenta un filtro per accedere alla Corte: il giudice deve infatti valutare non solo la rilevanza della norma di dubbia costituzionalità ai fini della definizione del processo, ma anche la non manifesta infondatezza della questione, aprendo la via e partecipando in tal modo al giudizio di costituzionalità. LaLa forma di governo presidenziale forma di governo presidenziale La forma di governo presidenziale si afferma per la prima volta negli Stati Uniti d’America con la costituzione del 1787 (primo esempio anche di Stato federale), per poi diffondersi negli altri continenti, in America Latina e Africa in particolare. Storicamente tale sistema non rappresenta altro che la traduzione nel contesto americano della monarchia costituzionale inglese del secolo XVII. Quest’ultima era caratterizzata da un sistema dualistico in cui si contrapponevano e bilanciavano il Re da una parte e il Parlamento dall’altra. Tali organi erano titolari di poteri diversi, sulla base di una diversa legittimazione. Nell’esperienza costituzionale statunitense il dualismo è incentrato nella contrapposizione tra Capo dello Stato (repubblicano) e Congresso. Entrambi vengono eletti dal corpo elettorale (anche se il Presidente formalmente viene eletto con procedimento di secondo grado), traendo quindi legittimazione dalla stessa fonte, per svolgere funzioni diverse: al Presidente spettano il potere esecutivo e la politica estera, al Congresso il potere legislativo. La durata del mandato di ciascuno di tali 11 organi è fissa e non può essere in alcun caso fatta cessare prima della scadenza costituzionalmente stabilita. Questo significa che il Presidente non può sciogliere il Congresso, mentre quest’ultimo non può revocare il Presidente (l’empeachment, che può portare alla revoca del Presidente, ha difatti natura giuridica e non politica). A garanzia della continuità nell’esercizio della carica presidenziale in caso di morte, dimissioni volontarie, impedimento permanente ecc.. è difatti prevista la carica del Vice-Presidente, che subentra al Presidente nell’esercizio delle funzioni. Nella forma di governo presidenziale non è inoltre contemplato tra Governo e Parlamento l’istituto della fiducia, che nel sistema parlamentare induce tali organi a cooperare per la definizione e l’attuazione del programma di governo. Il sistema si ispira quindi ad una logica di separazione rigida dei poteri. Ciò significa che gli organi posti al vertice del potere legislativo e di quello esecutivo tendenzialmente non possono influenzarsi a vicenda nell’esercizio delle proprie funzioni e che manca un istituto in grado di realizzare un “coordinamento” dei poteri stessi al fine di indurli alla collaborazione. In realtà il coordinamento nell’esercizio delle varie funzioni statali è esigenza di ogni Stato e nell’esperienza americana tale risultato viene raggiunto attraverso la previsione di un sistema di pesi e contrappesi (cd. sistema di checks and balances; in particolare il Presidente ha potere di veto sui progetti di legge congressuali, mentre il Congresso controlla le risorse finanziarie) e attraverso le commissioni permanenti del Congresso (standing committees). All’interno di queste ultime è prevista la possibilità (e a volte l’obbligo) di partecipazione ai lavori dei membri dell’esecutivo, di modo che risulta realizzata una importante forma di collaborazione tra organo rappresentativo e organo esecutivo. Il vantaggio della forma di governo presidenziale è quindi rappresentato dalla stabilità che essa assicura all’esecutivo, ma presenta lo svantaggio di possibili disfunzioni o paralisi nel caso in cui organo presidenziale e organo parlamentare siano espressione di tendenze politiche diverse se non opposte. In una tale situazione (cd. divided government) può difatti verificarsi che il Presidente si rifiuti di promulgare i progetti di legge approvati dal Congresso (bills), apponendo il veto su di essi e rendendo estremamente difficoltoso per l’organo parlamentare il perseguimento del proprio indirizzo politico (tale veto per essere superato richiede una nuova deliberazione con una maggioranza, quella dei 2/3, che difficilmente può essere detenuta dal partito contrario al Presidente). Di contro il Congresso può impedire l’attuazione della politica presidenziale non votando i fondi ad essa necessari. Forma di governo semi-presidenziale Tale forma di governo trova oggi applicazione soprattutto nella Costituzione francese del 1958 (ma è presente anche in altri ordinamenti, come quello polacco che richiama ampiamente l’impostazione della V Repubblica francese), che è stata voluta dal generale De Gaulle per limitare lo strapotere del Parlamento rispetto all’Esecutivo e permettere così alla Francia di uscire dalla profonda crisi interna in cui la rivolta algerina l’aveva gettata. Caratteristica peculiare dell’assetto definito dal costituente francese è la commistione di elementi tipici della forma di governo parlamentare e di quella presidenziale. Nel semi-presidenzialismo, difatti, l’obbligo che impone al Governo di godere della fiducia del Parlamento (tipico della forma parlamentare) convive con un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal corpo elettorale (tipico della forma presidenziale). Il Governo è in sostanza legato ad un doppio rapporto fiduciario, con il Parlamento, che può obbligarlo alle dimissioni attraverso la revoca della fiducia, e con il Presidente, che lo nomina e può, di fatto, revocarlo in qualsiasi momento. Il Capo dello Stato è dotato di poteri particolarmente incisivi, soprattutto per quanto attiene alla politica estera, il campo militare e in caso di emergenza interna. Tali poteri rendono l’organo in questione il principale artefice dell’indirizzo politico e gli consentono di essere 12 arbitro dell’azione del Governo, sulla cui attività è strettamente informato, anche grazie alla presidenza del Consiglio dei Ministri, che è prerogativa tradizionale del Capo dello Stato nell’ordinamento francese). Il Parlamento viene inoltre ridimensionato nei suoi poteri attraverso la previsione di un controllo sull’esercizio della funzione legislativa da parte dell’Esecutivo (che sostanzialmente monopolizza l’iniziativa legislativa) e la definizione di un potere normativo del Governo autonomo e particolarmente ampio. Il sistema così delineato ha infine mostrato una buona flessibilità, avendo funzionato non solo nel caso in cui Parlamento e Presidente sono stati espressione delle stesse forze politiche, ma anche di maggioranze politiche diverse (si tratta della cd. “coabitazione”, inaugurata nel 1986 dall’elezione a Presidente della Repubblica del socialista F. Mitterand, che ha dovuto coabitare con un Parlamento a maggioranza di centrodestra). È da notare tuttavia come in quest’ultimo caso le istituzioni francese abbiano tendenzialmente funzionato secondo gli schemi del sistema parlamentare, sebbene con la presenza di un Capo dello Stato dotato di poteri maggiori rispetto a quanto normalmente avviene in tale forma di governo. Forma Formadidigoverno governodirettoriale direttoriale Si tratta della forma di governo attualmente vigente in Svizzera. In essa il Parlamento in seduta comune (Assemblea federale) elegge il Governo (Consiglio federale), che ha struttura rigidamente collegiale (nel senso che al suo interno nessun membro, neanche il presidente, assume una posizione di reale preminenza) ed esercita anche le funzioni di capo dello Stato collegiale. Come nella forma presidenziale non vi è formale rapporto di fiducia tra esecutivo e legislativo, ma una rigida separazione dei poteri, di modo che il Parlamento non può far decadere il Governo e quest’ultimo non può sciogliere il primo. Inoltre il Governo, pur essendo eletto dall’Assemblea federale, non è semplice espressione della maggioranza parlamentare, in quanto i suoi membri vengono scelti tra tutti i partiti, anche quelli di minoranza. In realtà la forma di governo appena descritta è strettamente legata al contesto sociale e culturale della federazione elvetica e per questo difficilmente esportabile. In tale Stato la mancanza di una unità etnico-linguistica e religiosa ha determinato una organizzazione del potere nella quale le varie comunità fossero al massimo garantite contro eventuali “abusi” della maggioranza. Si spiega così l’esistenza di un Governo, che è allo stesso tempo capo dello Stato, con struttura rigidamente collegiale, l’ampia allocazione di poteri e competenze a favore degli enti federati (cantoni) e il vasto ricorso, a livello cantonale e federale, all’istituto referendario. Forma di governo totalitaria/autoritaria Tale forma di governo (realizzatasi principalmente in Germania e solo parzialmente in Italia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali) è caratterizzata da un accentuato monismo. L’esecutivo o, per meglio dire, il capo del Governo gode di una posizione di netta prevalenza nei confronti dell’organo rappresentativo. Egli è anche capo del partito (unico) e supremo interprete delle esigenze e degli interessi della Nazione. Il Parlamento esercita semplicemente una limitata funzione legislativa e il principio rappresentativo risulta svuotato dalla previsione di semplici elezioni ratifica (il partito unico decide le candidature, che poi vengono ratificate mediante voto) se non proprio riformulato secondo criteri di rappresentanza delle varie categorie economiche e professionali (in Italia nel 1939 venne 13 istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni, composta dai membri dei Consigli nazionali delle corporazioni e quelli del Consiglio nazionale del Partito fascista). La bolscevica Laforma forma di di governo governo socialista La forma di governo in esame ha trovato realizzazione soprattutto in Unione Sovietica. Formalmente essa non presenta distinzioni di rilievo rispetto alla forma parlamentare tipica degli Stati di tradizione liberal-democratica. Vi è difatti un Parlamento elettivo a struttura bicamerale (il Soviet Supremo) e un Governo (Presidium) che deve godere della fiducia delle Camere. Nella sostanza però tale forma di governo risulta profondamente diversa rispetto alle varie formule organizzative del parlamentarismo dell’Europa occidentale. La diversità nasce soprattutto dal ruolo del partito comunista (PCUS) e dai principi cui il sistema sovietico si ispira. Al partito la costituzione riconosce il ruolo di forza dirigente della società. Esso ha una organizzazione particolarmente accentrata e capillare che gli permette di controllare ogni aspetto della vita pubblica e di determinare tanto la formazione del Governo, quanto la definizione degli indirizzi e della politica dei vari organi costituzionali. Per quanto attiene ai principi ispiratori nella organizzazione e gestione del potere, quello elettorale è fortemente ridotto dall’esistenza di un partito unico che riduce il procedimento di voto a semplice ratifica delle scelte operate in sede di partito (gli elettori possono esprimere dissenso al massimo astenendosi dal votare). Alla divisione dei poteri si contrappone l’opposto principio della unità del potere in base al quale la funzione normativa e quella amministrativa si concentrano nell’organo rappresentativo. In caso di contrasto tra atti dei vari organi si applica il principio della dimensione del potere, nel senso che prevale l’atto dell’organo maggiormente rappresentativo (che ha appunto una dimensione del potere superiore). Infine in base al principio del centralismo democratico ogni organo è sottoposto ad una duplice dipendenza verso l’organo gerarchicamente superiore (dipendenza verticale) e verso l’organo che lo ha eletto (dipendenza orizzontale). È evidente che tale principio, insieme a quello della dimensione del potere, garantiscono una rigida applicazione del criterio gerarchico. Da quanto detto risulta l’esasperato monismo tipico della forma di governo sovietica. Vi è tuttavia da aggiungere che solo formalmente il potere si concentra nelle varie assemblee elettive, i Soviet (che hanno una struttura piramidale. Ciò significa che i Soviet eletti dai lavoratori eleggono a loro volta altri Soviet, i quali rappresentano, indirettamente perché eletti con procedimento di secondo grado, una popolazione più ampia. Questi ultimi eleggono ancora altri soviet fino ad arrivare al Soviet Supremo rappresentativo di tutto il popolo dell’Unione Sovietica). Nella realtà il potere durante l’esperienza sovietica (1922-1991) si è concentrato negli organi supremi del partito e negli esecutivi, in particolare nel Presidium del Soviet Supremo (il cui primo presidente era anche segretario generale del partito). 14