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CULTURE
Annali del Dipartimento di Lingue
e Culture Contemporanee
della Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Milano
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CULTURE Annali del Dipartimento di Lingue e Culture Contemporanee della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano
Direttore: Itala Vivan
Comitato scientifico: Miriam Bait, María Cristina Bordonaba, Alberto Bramati, Marina Brambilla, Clara Bulfoni, Maria Vittoria Calvi, Paola Catenaccio,
Virginia Cisotti, Paola Cotta Ramusino, Simone Dalla Chiesa, Chiara Degano,
Lidia De Michelis, Donatella Dolcini, Giuliana Garzone, Marina Ghedini,
Liana Goletiani, Danielle Goti, Claudia Gualtieri, Marie-Christine Jullion,
Alessandra Lavagnino, Antonella Leoncini Bartoli, Giovanna Mapelli, Corrado Molteni, Letizia Osti, Maria Cristina Paganoni, Luis Santos López, Virginia
Sica, Pier Giulio Taino, Itala Vivan
Comitato di redazione: Marina Balatti, Maria Vittoria Calvi, Virginia Cisotti,
Marie-Christine Jullion, Lidia De Michelis, Alessandra Lavagnino, Itala Vivan
Segretaria di redazione: Lidia De Michelis
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La decisione di riproporre in forma di contributo in volume con ISBN
i saggi apparsi originariamente nei fascicoli 17-20 di Culture. Annali
del Dipartimento di Lingue e Culture Contemporanee della Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, pubblicati tra il
2003 e il 2008, nasce dall’esigenza di rendere disponibili in una veste
tipografica normalizzata articoli di notevole valore e interesse scientifico, che altrimenti, a causa dell’assenza di ISSN della rivista, non sarebbero ammissibili alle procedure concorsuali e di abilitazione.
Nel riproporre in forma invariata gli studi pubblicati in questo volume, il Comitato Scientifico e il Comitato di Redazione dichiarano che
i diversi contributi sono stati originariamente sottoposti a un attento
processo di vaglio e revisione editoriale.
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N.B.: Tutti i contributi raccolti in questo volume sono apparsi originariamente nel fascicolo 20 (2007) di Culture, stampato nel dicembre
2008, e sono qui riproposti senza variazioni.
Editore: Montedit
Prima edizione ottobre 2012
Copyright © 2012 by Università degli Studi di Milano
È vietata la riproduzione, anche parziale, ad uso interno e didattico,
con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.
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INDICE
Dossier – Traduzione
JOLANDA GUARDI – Tradurre dall’arabo: una riflessione
JIN
ZHIGANG
11
– KE and NENG: Analysis in Chinese double (tr)
–able
25
ALBERTO BRAMATI – La traduction en italien du groupe prépositionnel «de N» à valeur de cause. Quelques réflexions
39
ANTONELLA LEONCINI BARTOLI – L’usage du procédé de la répétition lexicale dans un corpus de documents de droit
communautaire sur la société de l’information: option de
transparence ou élément d’opacité dans la réception du
message?
75
LIANA GOLETIANI – Participi e gerundi nell’insegnamento della traduzione giuridica dall’italiano al russo
101
GIOVANNI GAROFALO – L’insulto nel dibattito parlamentare
spagnolo e italiano: riflessioni per la traduzione di un
discorso di Mariano Rajoy
115
HELENA LOZANO MIRALLES – Cuando el traductor empieza a inventar: creación léxica en la versión española de Baudolino de Umberto Eco
145
MASSIMO CIARAVOLO – La comprensione interscandinava nella
didattica
161
TOMAS SOMMADOSSI – Quel che resta della DDR. La trasposizione del lessico culturalmente specifico nel doppiato
italiano del film Good Bye Lenin!
175
Studi Culturali
ELISA CAZZOLA – La porta del paradiso, musealizzata e corretta: l’Ellis Island Immigration Museum
205
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LIDIA DE MICHELIS – Divided Kingdom di Rupert Thomson e
la ‘geografia degli umori’
229
MAURIZIO DISOTEO – Cannibali e vahiné: come siamo cambiati credendo di cambiare gli altri. Uno sguardo musicologico per una storia interculturale
251
CLAUDIA GUALTIERI – Riflettendo sull’Africa, sulle Afriche, da
una prospettiva di studi culturali
263
ITALA VIVAN – La guerra civile e i ragazzi soldato nello sguardo di due giovani romanzieri nigeriani: Chimamanda
Ngozi Adichie e Uzodinma Iweala
279
ITALA VIVAN – Storie da Zanzibar. Diserzioni e abbandoni in
un romanzo post-imperiale
293
GIORGIA SANTANGELO – La machine de Marly: rêves et cauchemars
301
Letteratura
DONATELLA DOLCINI – Dall’immaginario collettivo indiano all’immaginario collettivo italiano. Coincidenza, affinità,
incompatibilità, arbitrio
325
MARIA GRAZIA SCELFO – Tesis: i mondi possibili di Alejandro
Amenábar
335
Linguistica
MILIN BONOMI – Minori ispanofoni e iniziative di intervento
per il mantenimento linguistico
351
MARIA VITTORIA CALVI – El italiano de los hispanohablantes
en Italia: ¿hacia un nuevo cocoliche?
369
MARIA CRISTINA PAGANONI – Polite Subversion in E-Democracy
381
Recensioni
MARIALUISA BIGNAMI – Franco Marucci, Storia della letteratu-
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7
ra inglese, Firenze, Le Lettere, vol. 3 (in due tomi), 2003,
e vol. 4, 2006.
399
MARÍA CRISTINA BORDONABA ZABALZA – Otello Lottini, Unamuno linguista (e altri saggi), Roma, Bulzoni editore, 2004
405
MARTA CARBALLÉS MÉNDEZ – Antonella D’Angelis, La derivazione nominale e aggettivale in italiano e in spagnolo.
La suffissazione, Roma, Aracne Editrice, 2006
409
DONATELLA DOLCINI – Domenica Denti, Mauro Ferrari, Fabio
Perocco (a cura di), I Sikh. Storia e immigrazione, Milano, Franco Angeli, 2005
411
JOLANDA GUARDI – Daniela Bredi, Storia della cultura indomusulmana, Roma, Carocci, 2006
417
JOLANDA GUARDI – Il corso di Lingua Araba al Salone Internazionale del Libro di Algeri
419
GIOVANNA MAPELLI – Barbero, J. C., San Vicente, F., Actual.
Gramática para comunicar en español, Bologna,
CLUEB, 2006
421
FRANCESCA ROMANA PACI – Anna Casella Paltrinieri, Mercati
del Mozambico. Persone, beni e cultura dei mercati rurali di Sofala e Capo Delgado, Milano, Vita e Pensiero,
2005
425
FRANCESCA ROMANA PACI – Il tempo è un camaleonte sempre
in viaggio. Pap Khouma, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005
431
ANGELA TIZIANA TARANTINI – Lisa Fugard, Skinner’s Drift, Viking, 2005; Penguin 2006
445
SARA VILLA – Edward Mendelson, The Things That Matter.
What Seven Classic Novels Have to Say About Literature,
New York, Pantheon Books, 2006
453
Conferenze e Convegni (a cura di LIDIA DE MICHELIS)
459
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DOSSIER - TRADUZIONE
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Jolanda Guardi
TRADURRE DALL’ARABO: UNA RIFLESSIONE
Wenn in der Übersetzung die Verwandtschaft der Sprachen sich bekundet, so geschieht es anders als durch
die vage Ähnlichkeit von Nachbildung
und Original.
W. Benjamin
Una prima constatazione che si impone a chi voglia affrontare le
tematiche legate alla traduzione dalla lingua araba è l’assenza pressoché assoluta di riflessioni teoriche sul problema in lingua italiana.
Esistono sì, alcuni articoli sparsi e una raccolta1, ma essi si occupano,
nella stragrande maggioranza, di questioni più legate alla praxis che
alla teoria della traduzione, come, a esempio, la traduzione di neologismi in lingua araba legati ad ambiti tematici di recente emergenza,
o di temi a carattere storico2. C’è da dire che questa “mancanza” non
tocca solo la lingua araba; gli studiosi di traduzione, infatti, lamentano come, in genere, la traduttologia si riveli, alla fine, non essere altro che una “storia della traduzione” (Hellal: 1986).
Per occuparsi di questioni teoriche legate alla traduzione dall’ara-
1
Facciamo riferimento al numero speciale de Il Traduttore nuovo, rivista dell’AITI,
Associazione Italiana Traduttori Interpreti, dedicato alla traduzione dall’arabo. Il Traduttore nuovo, Anno LI, 2001/1, Volume LVI.
2
Si vedano, ad esempio, gli articoli pubblicati in ivi: F. Corrao, “Tradurre poesia”, P.
Giorgio, “Narrativa araba contemporanea: alcune problematiche di traduzione”, M.
Ruocco, “La traduzione della terminologia teatrale in lingua araba”, L. Biondi, “La canzone degli errori di Walîd Ikhlâsî”, A. Nicosia, “Traduzione del cinema arabo”, M. Avino,
“La traduzione letteraria dall’italiano all’arabo fino alla vigilia della seconda guerra mondiale”, F. Addabbo, “Rifâ‘ah Râfi‘ al-Tahtâwî (1801-1873), traduttore e primo mediatore
culturale tra Egitto e Occidente”, A. Salem, “Teoria e pratica della traduzione in arabo
nella letteratura per l’infanzia, P. Zanelli, “Globalizzazione e problematiche della traduzione di neologismi”, A. De Caro, “La terminologia della bioetica islamica: calchi, neologismi e nuove accezioni”, E. Anaya, “Per un progetto di traduzione”.
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bo, dunque, è necessario rivolgersi a opere in lingua straniera (Redouane: 1985; Niranjana: 1992; Phillipson: 1992; de Beaugrande-Shunnaq-Heliel: 1994; Hatim: 1997; Thomas: 1998; Faiq: 2004 e 2005), o ad
opere che trattano della traduzione da altre lingue (Hasan: 1966; Etkin:
1967; Guillemin-Fleisher: 1981; Buyyūd.: 2003). La scuola inglese e, soprattutto, per quel che riguarda l’arabo, quella francese, tuttavia, hanno da sempre applicato il concetto di “traduzione scorrevole”, una traduzione, cioè, che fissa la propria attenzione sulla lingua d’arrivo e il
testo finale, abbandonando non appena possibile il testo di partenza.
Norman Shapiro così esprime questa linea di pensiero:
Vedo la traduzione come il tentativo di produrre un testo così trasparente da
non sembrare tradotto. Una buona traduzione è come una lastra di vetro. si
nota che c’è solamente quando ci sono delle imperfezioni: graffi, bolle. L’ideale è che non ve ne siano affatto. Non dovrebbe mai richiamare l’attenzione su di sé (Shapiro, in Venuti: 1999, 21).
Prima conseguenza di questa teoria della scorrevolezza è l’invisibilità del traduttore (Venuti: 1992) il cui scopo in quest’ottica sarà
quello di eliminare qualunque elemento che possa attirare l’attenzione sulla lingua o il testo di partenza, “movimento storico verso l’uniformità della sillabazione e della grammatica mediante un’ideologia
che ha prediletto i passaggi agevoli e privi di idiosincrasie, l’eliminazione delle asperità ecc.: vale a dire qualsiasi cosa potesse concentrare l’attenzione sul linguaggio in sé” (Bernstein, in Faiq: 2004, 45).
Tradurre, così, risulta chiaramene marcato ideologicamente e si
rende dunque necessario valorizzare la lingua dell’altro (Halliday:
1994; de Beaugrande: 2005, 5-18) concentrandosi su quella che de
Beaugrande chiama translatability, definita come “the dialectical interaction between what should be required of translators and what actually gets achieved” (de Beaugrande: 2005, 11). In tale rapporto dialettico si instaura una relazione fra lingua dominante e lingua periferica che vede le lingue dominanti all’apice di una scala gerarchica e
introduce il concetto di non traducibilità di alcune lingue, forme
espressive (come la poesia) ed espressioni delle lingue periferiche,
gustificando in tal modo la presenza di programmi inadeguati, traduzioni mal fatte e non riconoscimento del lavoro del traduttore, che si
manifesta in una bassa retribuzione e in un’ancor più basso riconoscimento del suo lavoro. A un livello più moderato questa stessa ideologia promuove la traduzione da lingue periferiche posto che vengano
modificate per adeguarsi al linguaggio dominante per assomigliarvi e
questa in particolare ci sembra essere la metodologia adottata nel nostro paese per la traduzione dall’arabo3. A discapito della diffusa idea
di “multiculturalismo”, inoltre, il mondo arabo è ancora rappresenta-
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to in modo univoco:
One of the ironies about multiculturalism is how parochial it is. Despite
ever-increasing globalism, multiculturalism remains largely monolingual
and limited to American culture: consider the absence of interest in Arabic
literature and culture in Western Europe and in the United States, despite
the enormous and persistent attention paid to the Arab world and to Islam
(Dallal: 1998, 8).
Osservazione, quest’ultima, che può essere estesa anche alla situazione nel nostro paese.
Il concetto di traduzione “scorrevole” adottato anche e soprattuto
per le lingue da cui si traduce in minor misura come l’arabo, naturalmente, è il prodotto di un’ideologia che si è sviluppata nel corso del
tempo e che aveva come scopo l’addomesticamento del testo letterario4. Esso ha diverse conseguenze, tra cui la scelta dei testi da tradurre da parte degli editori (Guardi: 2005), come ben esemplifica questo
esempio riferito al mercato inglese, ma che ogni buon traduttore dall’arabo potrà condividere:
I wanted... to translate a volume of contemporary Syrian literature. I...
thought the work of ‘Abd al-Salam al-‘Ujaili was very good and well worth
putting into English. ‘Ujaili is a doctor in his seventies who has written
poetry, criticism, novels and short stories. In particular his short stories are
outstanding. Many are located in the Euphrates valley and depict the tensions of individuals coping with politicisation and the omnipotent state... I
proposed to my British publisher a volume of ‘Ujaili short stories. The editor said, ‘There are three things wrong with the idea. He’s male. He’s old
and he writes short stories. Can you find a young female novelist?’ well, I
looked into women’s literature and did translate a novel by a woman writer
even though she was and is in her eighties5.
3
Il problema relativo alla traduzione dall’arabo si scontra, inoltre, in Italia, con l’assoluto disinteresse per questo tema da parte dell’accademia che considera traduzione solo quella eseguita con un’attenzione filologica al testo e che per ciò stesso esula dalla nostra trattazione. Il traduttore filologico viene causticamente definito da Faiq (2004: 6)
“translator-cum-orientalist expert”, definizione che condividiamo.
4
Pur se facciamo riferimento principalmente alla prosa, sarebbe da indagare quanto nella poesia araba l’adozione del verso libero sia un tentativo di assimilazione alla cultura dominante, sia da parte dei traduttori, sia da parte degli autori stessi, che riuscirebbero così ad avere un pubblico più vasto.
5
P. Clark, “Contemporary Arabic literature in English. Why is so little translated? Do
Arabs prefer it this way?” in The Linguist, 36 (4), pp. 108-110, p. 109. A prescindere dal
singolo autore citato, le osservazioni sul racconto e sul sesso dell’autore in genere sono
altrettanto valide in Italia - giustificate dal fatto che altrimenti il libro “non vende” - dove
per poter essere tradotto, un testo in lingua araba deve uniformarsi alla rappresentazione
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La poca attenzione per la traduzione dall’arabo all’italiano ha il
suo contraltare in quella dall’italiano all’arabo, dove la situazione è
del tutto simile se non peggiore. Un certo disinteresse per questo tipo di traduzione non disgiunto, a nostro avviso, dalla non volontà di
accettare il confronto con traduttori madrelingua competenti, fa sì
che esistano in circolazione nel mondo arabo pubblicazioni la cui validità dal punto di vista lingustico è tutta da discutere6.
Negli ultimi due decenni diversi studiosi hanno sottolineato come
la traduzione implichi manipolazione e sovvertimento delle tradizioni linguistiche e culturali, in particolare per quanto riguarda opere
provenienti dal cosidetto terzo mondo. E tuttavia, se la percezione di
questa manipolazione è del tutto attuale, essa procede da un passato
che nel corso degli anni ha perpetuato un’immagine dell’altro estremamente negativa, anche se spesso in modo non evidente.
Già Franz Fanon ne I dannati della terra affermava:
Nel suo monologo narcisista, la borghesia colonialista, per il tramite dei
suoi insegnanti, aveva profondamente stampato, in effetti, nella mente del
colonizzato, che le essenze restano eterne malgrado tutti gli errori imputabili agli uomini. Le essenze occidentali, si capisce. Il colonizzato accettava
la fondatezza di tali idee e si poteva scoprire, in una idea del suo cervello,
una vigile sentinella incaricata di difendere il basamento greco-latino. Ora
avviene che, durante la lotta di liberazione, al momento in cui il colonizzato riprende contatto con il suo popolo, tale sentinella artificiale è polverizzata. Tutti i valori mediterranei, trionfo della persona umana, della chiarezza e del Bello, diventano soprammobili senza vita e senza colore. Tutti questi discorsi appaiono come accozzamenti di parole morte. Quei valori che
sembravano nobilitar l’animo si rivelano inservibili perché non concernono
la lotta concreta nella quale il popolo si è impegnato (Fanon: 1972, 13).
Pur se il progetto non si è ralizzato pienamente come esposto da
della società e della cultura araba e ai valori estetici e morali occidentali; in caso contrario
i suoi romanzi possono essere oggetto di recensioni del tipo: “È un peccato che Munı̄f
sembri insufficientemente occidentalizzato per produrre una narrazione che sia il più simile a ciò che chiamiamo romanzo” (citato in Dallal: 1998). ‘Abd ar-Rah.mān Munı̄f viene considerato dagli studiosi arabi il più grande scrittore contemporaneo di tutto il mondo arabo. Ciò porta alla pubblicazione di autori mediocri ma che fanno più cassetta e lascia nell’ombra opere in lingua araba di elevato livello letterario.
6
E che, spesso finanziati dagli Istituti Italiani di Cultura, dovrebbero servire per diffondere la cultura italiana nel mondo arabo. Il problema delle basse competenze dei traduttori in arabo è stato analizzato da Salah Saleh in “Culture and the Problematics of Arabic Translation” in Intercultural Communication Studies, XIV, 4, 2005, pp. 19-32. Uno
studio interessante è, a questo proposito, quello proposto da Stringhetti, 2006.
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Fanon è evidente che la traduzione post-coloniale ha necessità di
un’idea che proceda dall’interno, che utilizzi un proprio linguaggio e
che quindi praticamente sviluppi un’industria editoriale sua propria
ivi compreso un utilizzo critico del linguaggio e, soprattutto, che formi un pubblico di lettori adeguato (Hafez: 1993).
La riflessione di Fanon, storicamente determinata, apre la via a
considerazioni di altro genere che investono aspetti diversi della traduzione a dimostrazione che essa è una problematica linguistica sì
ma che attualmente la dimensione non lingusitica della traduzione è
il centro stesso su cui aprire un dibattito.
La questione del ruolo della personalità stessa del traduttore nella traduzione. Questo ruolo è certo e capitale: il traduttore, sempre e dovunque, è innanzitutto un professionista o un attore della traduzione che si pone a un
certo livello di competenza; in seguito entrano in gioco le sue inclinazioni
personali in materia estetica, etica, politica, religiosa, ecc., il suo atteggiamento riguardo al o agli eventuali committenti della traduzione e riguardo
ai suoi futuri lettori, e infine le scelte e gli arbìtri più intimi e personali che
può effettuare lungo tutto il suo lavoro, per non parlare delle pulsioni, le
fobie ecc., incoscienti che presiedono ad alcuni dei suoi orientamenti e che
rilevano dalla psicanalisi. Questi fattori, a nostro parere, sono presenti in
tutti i traduttori del mondo indistintamente (Elfoul: 2006, 141-142).
L’affermazione di Elfoul ci sembra particolarmente interessante,
perché proviene da uno studioso arabofono che sottolinea, pur se
procedendo da premesse differenti, quanto sostenuto in parte da Venuti, nel momento stesso in cui considera fattori intervenienti tutta
una serie di variabili legate al traduttore stesso, il quale naturalmente
è inserito in un contesto.
Fatta questa premessa teorica e tralasciando gli aspetti strettamente linguistici dei quali cercano di occuparsi diversi testi (Dickins-Hervey-Higgins: 2002; Baker: 1992), ci proponiamo di verificare attraverso un esempio – precisando che non è nostro interesse valutare la
“correttezza” o meno della traduzione – se da due traduzioni diverse
dello stesso testo emerge in qualche modo la strategia traduttiva
adottata in relazione, in particolare, agli aspetti discussi sin qui e di
far emergere quali siano i problemi culturali della traduzione dall’arabo all’italiano che sono in varia misura correlati al come viene inteso
l’insegnamento della traduzione dall’arabo oggi nel nostro paese.
Non possiamo non considerare, infatti, che in contesto post coloniale, la traduzione assume un significato aggiunto particolare: scelta dei
testi da tradurre, uso di particolari strategie del discorso, circolazione
delle traduzioni, e così via (Faiq: 2004, 3; Guardi: 2005). La traduzione, dunque, contribuisce, si fa “strumento” (Venuti: 1994, 201-202)
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nel definire l’atteggiamento della cultura locale nei confronti di quella straniera; la traduzione di narrativa, inoltre, è sicuramente quella
più disponibile al pubblico generico e dunque quella attraverso cui
passa l’immagine dell’altro. Di tali fattori sarà necessario tenere conto
nel momento in cui si voglia tradurre un testo dalla lingua araba, sia
esso letterario o semplice articolo di giornale, per operare una scelta,
perché, ormai sarà chiaro, tradurre – soprattutto da lingue minoritarie
– implica necessariamente una scelta7, che, come sosteniamo da tempo, ha delle conseguenze sul trattamento della lingua di arrivo e non
può essere considerata un semplice esercizio linguistico avulso da
qualsiasi contesto.
L’aspetto culturale diventa allora fondamentale nella traduzione; è il traduttore il primo lettore appartenente alla cultura ricevente ed è quindi colui
che deve per primo riconoscere i riferimenti della cultura emittente (Stringhetti: 2006, 45).
Non si tratta allora di far sì che la lingua dell’altro si adatti alla nostra, ma al contrario, si tratterà di esplorare le nuove possibilità che
l’incontro con una lingua così diversa come quella araba offre alla lingua italiana, abituando anche chi ci legge in traduzione a nuove forme di stile. Come affermava già Walter Benjamin:
Le nostre verisoni, anche le migliori, partono da un falso principio, in quanto si propongono di germanizzare l’indiano, il greco, l’inglese, invece di indianizzare, grecizzare, inglesizzare il tedesco (Benjamin: 1976, 48).
Oggetto dell’analisi è il racconto “Ġurfa lis-sayydāt” della scrittrice
egiziana Hanā’ ‘At.iyya (2005). Le traduzioni italiane ben si prestano a
un confronto non solo perché sono state eseguite entrambe da traduttrici8, ma anche perché sono uscite a pochissimi mesi di distanza
7
“La traduzione costringe a scegliere, a dichiarare con piena onestà intellettuale
l’immagine che ci si è fatti del testo”, in G. Paduano, “Tradurre” in M. Lavagetto, a cura
di, Il testo letterario, Laterza, Bari 2001, pp. 131-150, p. 147. Siamo confortate nelle nostre
affermazioni dagli studi in questo senso compiuti in ambito anglofono in particolare, che
da tempo si interroga su queste tematiche, ed espressi a esempio nel volume a cura di
Said Faiq, 2004.
8
Hanā’ ‘At. iyya, “Spogliatoio femminile”, traduzione dall’arabo di S. Angarano, in
Cielo lontano, cit., e Hana Atiyya, “Una stanza per le signore”, traduzione dall’arabo di V.
Colombo, in Parola di donna, corpo di donna. Antologia di scrittrici arabe contemporanee, Mondadori, Milano 2005, pp. 193-195. Altro oggetto interessante di ricerca sarebbe
stabilire quanto la traduzione sia legata al sesso del traduttore/traduttrice. Esiste una terza traduzione del testo: “La stanza delle donne”, traduzione dall’arabo di E. Suppo, in Y.
Tawfia (a cura di), Lo specchio degli occhi, Ananke, Torino 1998, pp. 94-95.
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una dall’altra. In tal modo la comparazione risulta legittimata, poiché
non è possibile invocare la distanza temporale per eventuali cambiamenti nell’accezione dei termini italiani. Infatti:
Mettere a confronto le varie traduzioni di un determinato testo solleva sempre uno o più problemi di ordine metodologico. Se il termine di paragone è
esclusivamente il testo originale, il rapportare ad esso via via le singole traduzioni effetuate in un arco di tempo più o meno ampio risentirebbe ovviamente della lettura critica attuale, e cioè delle aspettative che nel momento
del confronto si hanno circa i principi di accettabilità e adeguatezza della
traduzione rispetto al suo punto di partenza (Schiavi: 1997, 44).
Una prima considerazione verte sulla presentazione del testo oggetto della nostra analisi: la traduzione di Angarano (d’ora in po SA)
è inserita all’interno di un volume che raccoglie racconti di esclusiva
produzione della scrittrice egiziana e viene presentata in edizione bilingue arabo/italiano; quella di Colombo (d’ora in poi VC), all’interno
di una raccolta di racconti vari che porta il sottotitolo “Antologia di
scrittrici arabe contemporanee”. L’editore, nel caso di SA, è una piccola casa editrice specializzata in traduzioni da lingue “orientali”, nel
caso di VC un grosso editore, Mondadori9. Di conseguenza, la diffusione dei due volumi è sicuramente differente, a svantaggio dell’edizione bilingue.
Una considerazione preliminare riveste anche la traduzione del titolo, “Spogliatoio femminile” in SA e “Una stanza per le signore” in
VC. VC sceglie una traduzione letterare per l’espressione “Ġurfa lissayydāt” che, essendo troppo generica in italiano poiché non indica
di quale spazio si stia parlando, la costringe a operare fin dall’inizio
una overtranslation per collocare nello spazio il racconto, cosa che
SA evita scegliendo una traduzione non letterale10. Abbiamo, infatti,
nel primo paragrafo i seguenti esiti:?11
9
Per conoscenza personale sappiamo, inoltre, che Mondadori non ha informato la
scrittrice di aver pubblicato un suo racconto in traduzione – fatto salvo il fatto che nel colophon il volume riporta: “L’editrice ha ricercato con ogni mezzo i titolari die diritti. È ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorre”, mentre A Oriente!
possiede un regolare contratto firmato dall’autrice. Anche questo aspetto rientra in un atteggiamento frequente da parte degli editori e dei traduttori nei confronti degli scrittori
arabi. Si veda a tal proposito, Guardi (2005). Un’ulteriore differenza, inoltre, riguarda il
trattamento dei nomi propri e dei termini stranieri, italianizzati in VC e trascritti secondo
le regole della traslitterazione scientifica in SA.
10
È da notare che comunque in lingua araba l’espressione indica genericamente uno
spazo riservato alle donne e che entrambe le traduttrici abbiano sentito l’esigenza di specificare in qualche modo di quale locale si tratti.
11
Trattandosi di un testo letterario siamo giustificate a condurre la nostra analisi per
periodi e non per singoli vocaboli.
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Si tolsero le lunghe tuniche, appiccicate ai corpi, dietro tende lacerate che
occultavano solo i loro seni. La lunga stanza era impregnata dell’odore del
sale e del puzzo dello iodio. Di fretta e facendo confusione iniziarono a
scambiarsi i trucchi, gli asciugamani e a passarsi l’unico specchio che si trovava nello spogliatoio (VC)12.
Nello stanzone impregnato dell’odore stantio di sale e di iodio si toglievano
le lunghe ǧallabiyya, incollate ai corpi, dietro tende lacere che arrivavano a
malapena a coprire il petto, e nella confusione si scambiavano rapide i trucchi, gli asciugamani e l’unico specchio (SA)13.
Nel periodo riportato possiamo notare come VC scelga di spezzare la frase araba in tre segmenti delimitati dal punto fermo, mentre
SA rimanga molto più aderente al TP, mantenendo quasi inalterato il
ritmo della frase araba anche per la scelta di tradurre con l’imperfetto il tempo verbale, scelta anch’essa più aderente alla versione originale. VC, al contrario, utilizza il passato remoto, tempo pochissimo
utilizzato in arabo, opera una overtranslation inserendo l’espressione
“che si trovava nello spogliatoio” e definisce l’odore (rā’ih.a) “puzzo”.
D’altra parte VC mantiene la costruzione araba inziando con “si tolsero le tuniche”, mentre SA antepone la seconda parte della frase.
In generale, VC interpreta molto il TP per adattarlo al gusto del
lettore italiano inserendo anche elementi non presenti nel TP:
Nell’attesa che terminasse, fissavo lo sguardo talvolta al mio corpo, avvolto
nell’asciugamano, e talvolta al pavimento (Colombo: 2005, 193).
Avvolta nel mio asciugamano, con lo sguardo rivolto a terra, aspettai che fi-
12
Cit. p. 193. Il corsivo è nostro.
Cit., p. 16. Il corsivo è nel testo originale. La traduttrice inserisce nel testo italiano
una nota per spiegare il vocabolo lasciato in tralitterazione.
13
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nisse (Angarano, 2005: 16).
Un ultimo esempio legato alla percezione da parte del traduttore
del mondo arabo riguarda il seguente passaggio, nel quale VC non
coglie il senso del giuramento e traduce letteralmente, modificando
completamente il senso della frase ascrivendo al Profeta un’affermazione del marito della protagonista:
Per il Profeta non c’è alcuna differenza. Una o due non importa, quel che
c’è soddisfa! (Colombo: 2006, 194).
Mio marito mi ripete: Ti giuro che non mi accorgo della differenza, uno o
due fa lo stesso, mi basta quello che c’è (Angarano. 2005, 20).
Un altro nodo da sciogliere nel racconto è costituito dall’uso dell’arabo dialettale nella variante egiziana che l’autrice fa nei dialoghi,
ma che né SA né VC sembrano aver considerato, avendo entrambe le
traduttrici scelto di mantenere i dialoghi in lingua italiana standard;
ciò, tuttavia, porta a una caduta del ritmo del racconto, e a una poca
attenzione a quello che potremmo chiamare il “sentimento” del testo,
quel significato che, come afferma ancora Benjamin, fa sì che una
traduzione non sia una trasmissione imprecisa di un contenuto secondario (Benjamin: 1976). Purtuttavia SA sceglie di tradurre i dialoghi in un registro linguistico più colloquiale, come si evince dai seguenti esempi:
“Il mare può tutto. Questo mare cura tutto. La malattia non mi tornerà mai
più” (Colombo: 2005, 194).
“Vedi il mare cos’ha fatto! Ecco il mare guarisce tutto, e ’sta malattia non mi
tornerà mai più” (Angarano: 2005, 20).
“Commentò: “Il tramonto è vicino”. “Sì, affrettati a sistemarli!” (Colombo:
2005, 195).
“È quasi il tramonto” disse. “Sì... sbrigati a sistemarli” (Angarano: 2005, 22).
Interessante anche la scelta traduttiva in relazione alla decorazione dell’abito di una delle protagoniste, letteralmente “a rose rosse e
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verdi”. VC sceglie di lasciare il vocabolo “rose” ma elimina il colore
verde, poco consono, a suo parere, a una rosa, mentre SA mantiene
il colore ma traduce con un generico “fiori”:
Si rimise la tunica nera con le rose rosse (Colombo: 2005, 195).
Si infilò il suo vestito nero a fiori rossi e verdi (Angarano: 2005, 24).
Un’ultima osservazione è relativa al numero di vocaboli utilizzati
per la traduzione e alla punteggiatura; se, per quanto riguarda il numero di vocaboli le traduttrici si sono comportate quasi ugualmente
(VC 607 vocaboli, SA 612 contro i 439 del testo in lingua originale,
nella media della resa di un testo arabo, normalmente circa una volta e mezzo in italiano), per quanto riguarda la punteggiatura VC inserisce molti punti fermi e punti esclamativi non presenti nel testo originale, abolendo anche in tre passi i punti di sospensione. Tale scelta, volta evidentemente a una maggiore scorrevolezza del testo in italiano, contrasta tuttavia con le scelte della prosa araba in generale
che utilizza al contrario una sovrabbondanza di punti di sospensione,
che “suggeriscono l’infinità del pensiero e dell’associazione” (Adorno, 1974:109) e risulta essere un tentativo di riduzione all’esattezza e
alla precisione più conforme alla cultura occidentale.
In conclusione possiamo evidenziare come VC, nel tradurre, abbia avuto più presente la LA introducendo una punteggiatura più vicina a quella della lingua italiana e in più casi operando una overtranslation all’interno del testo, ma anche eliminando alcuni elementi, per spiegare alcuni passaggi evidentemente ritenuti poco chiari
per il lettore italiano, o traducento alcuni vocaboli con una sfumatura peggiorativa non presente nel testo originale. SA, d’altra parte, si è
attenuta più aderente alla LP realizzando, a nostro avviso, una traduzione che alla lettura si presenta più “ruvida” ma che rende meglio
l’atmosfera del racconto originale. Ciononostante
Usener, Cassirer, Sapir, e più tardi B. L. Whorf hanno sottolineato che le
profonde differenze di lingua comportano differenze ultime nel modo in
cui si pensa o si concepisce il mondo. Io preferirei non esprimermi in questo modo e suggerire che certe proposizioni filosofiche sono affermate in
una cultura e rifiutate in un’altra. Ciò che in realtà questa situazione sottende è la difficoltà o l’indeterminatezza della correlazione. Il fatto è che,
quanto più ci allontaniamo dagli enunciati che presentano un condizionamento manifestamente diretto riguardo a stimoli non-verbali, e quanto più
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ci allontaniamo dal terreno che ci è familiare, la base di confronto diminuisce, e ha quindi meno senso dire quale traduzione è buona e quale è cattiva (Quine: 1978, 63)14.
Se a un primo stadio di apprendimento di una lingua il confronto
con un’altra lingua e quindi con un’altra cultura può provocare delle
“interferenze”, a un livello superiore il traduttore non dovrebbe più
evitare la “contaminazione”, ma affrontare questo problema consapevolmente, considerandolo un fattore di arricchimento nella traduzione. L’importanza della dimensione culturale di ogni lingua e il ruolo
dei fattori culturali nella traduzione va ormai riconosciuto anche per
la lingua araba. Una riflessione in questo senso ci sembra ormai inevitabile.
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Jin Zhigang
KE AND NENG
ANALYSIS IN CHINESE DOUBLE (TR) – ABLE
This is a brief sketch on word formation with Chinese functional
morphemes kě 1 and néng. What we will try to prove here is why
both of them (ke and neng), in the formation of adjectives (and deadjectival nouns), can correspond to the English adjectival suffixes able/ible.
Historical background – a short history of the ‘conflict’
Kè 2, néng, kě, kān, dé and zú are six auxiliary verbs which (apart
from their other meanings) in classical Chinese denote the possibility
of an action. All of them can be translated into modern Chinese as
kěyı̌, néng, kěnéng, nénggòu (that is can/may or can/be able to/be
capable of). Only two of them, ke and neng, have survived the test of
time and are now auxiliary/modal verbs in modern Chinese.
Before going more deeply into the problem, let us remember two
important facts about classical Chinese:
1) frequent polysemy of words and morphemes consequently
leads to a situation where a single word/morpheme can be converted
from one part of speech to another3.
1
The tone marks are those of the four tones of Mandarin Chinese and are indicated only in cases of possible ambiguity due to toneless pinyin transcription.
2
Auxiliary verb kè is the first one recorded in ancient scripts (Yang and He: 1992)
and also the first one to be used by the Qin dynasty (3 c. BC). In modern Chinese kè
(with unchanged meaning can) can only be found in the written language and in rare
expressions like kè qin kè jian ‘have capacity for industry and thrift’, ‘be industrious and
frugal’, or buk è ‘be unable to?, ‘cannot’. Hereafter kè will always be written with its
tone mark, while kè in the context (to avoid misunderstanding) will be written as ke,
without its tone mark. Kān, like kè, only forms idiomatic expressions such as kan dang
zhong ren ‘be capable of shouldering important tasks?, ‘can take a position of great responsibility’. Dé and zú (following the example of kè and Kān) have also lost their auxiliary function.
3
As we will see further on, keneng can be an auxiliary verb (can/be able to), an adjective (possible) or an adverb (possibly/maybe).
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2) classical Chinese is not a monosyllabic language; complex lexemes formed out of both content and functional morphemes are not
isolated cases.
A separate analysis of ke and neng with respect to these two facts,
along with the elimination of all irrelevant data, gives us the following results. Ke, regarded only as an auxiliary verb, has several meanings: keyi (can/may), neng/nenggou (can/be able to/be capable of)
and zhide (to be worth)4. As such, ke soon enters into word formation, resulting in functional pairs/auxiliaries like keyi 5 (can/may) and
keneng (can/may), which still function as auxiliaries in modern Chinese, and also form adjectives such as ke’ai (lovable/worthy of being
loved), kelian (pitiable, pitiful) etc. Neng as auxiliary verb has almost
the same meanings as ke, that is: neng/nenggou (can/be able to/be
capable of), keyi (can/may) and hui (be able to/be skillful in) but, unlike ke, with its auxiliary meaning it doesn’t form any words.
Briefly, in preparation for a giant leap into the future, we could
sum up the data and see that the situation in classical Chinese seems
pretty clear: semantically ke:neng are very close but as for word formation ke is in the lead.
Disentangling the Chinese knot
We will start by making a few notes on the features of our rivals.
Both are Aux verbs6 often listed in the same class. Syntactically, neng
has to take VP as its complement, while keyi 7 does not8; neng can be
4
Chinese lexicographers, though very diligent in collecting words, still have notably serious problems concerning classifying them into categories. Above-mentioned
zhide (to be worth) in some dictionaries is classified as an Aux, in others as a common
verb. Neng and ke very often share the same destiny.
5
Ke with the same yi, but with its prepositional meaning: to use (!) also forms an
homophonous expression of two words ke yi (can be used as, e.g. ‘Fa bu ren,bu ke yi fa’
‘[If] the government is not human/benevolent, [then it] cannot be (used as) government’
(Chinese philosopher Mozi, Fayi 4c. BC). Even more interesting is the complex function
word, auxiliary keyi, which according to Gudai hanyu xuci cidian (1999) is actually the
product of merging Aux ke with conjunction yi.
6
A very interesting classification of modal/aux verbs in modern Chinese is presented in Liu, Fan and Gu (2001: 170-171).
7
Ke from ancient Chinese is in most cases keyi in modern Chinese. In the written
language morpheme yi is very frequently omitted, thus restoring keyi to its initial classical form. Contrarily, in spoken Chinese ke is always keyi, and the only exceptions are
idiomatic expressions.
8
Keyi can be predicate of the sentence as, for instance: Ta lai keyi [[IP ta lai] [Aux keyi]] he come can/may ‘[that] he comes is possible/allowable’ [literal translation]. (cf. Ta keyi lai [[DP ta] [CP keyi lai]]he can/may come).
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negated by bu (not/no) and can form positive-negative questions9,
while keyi is negated by the negative form of neng (i.e. bu neng) and
cannot form positive-negative questions10. Semantically, they are still
very close and the slight difference between them is fairly convincingly stated by Lǔ (1994): “Neng lays more emphasis on capability,
while keyi lays more on possibility”. But on the battlefield of word
formation, the situation is rather more complicated.
The hypothesis that ke and neng both correspond to English adjectival suffix -able is based on their semantic closeness (i.e. meaning
with which they form adjectives) and the same linear and structural
position in the words they form (as will be shown later, reliable = kekao [A[Aux ke] [V]], capable = nenggan [A[Aux neng] [V]]). In seeking
proof for our hypothesis we will step by step analyze all the aspects
of the problem.
Great semantic similarity - the source of the ‘trouble’
Now, resorting to fact number 1 about classical Chinese (which is
also applicable to modern Chinese) we can free our investigation
from needless polysemy and thus disregard all other (for us) peripheral meanings. We will focus on ke/neng only as auxiliaries which
we presume correspond to the English suffix -able. The information
gathered from many dictionaries and informants provides us with the
following feedback:
KE - the problematic polysemy
Ke1
ke2
9
= keyi = can/may
neng (gou)11 can, be able to, be capable of
keneng = can/be able to, be possible, possibly/maybe
keneng apparently functions as auxiliary verb, adjective or adverb, hence in cases such as ‘ta keneng lai’ ambiguity is inevitable12.
= zhide = to be worth
E.g. Ta neng bu neng lai? ‘He can not can come?’
This is the rule found in (very prescriptively oriented) Chinese grammars, but in
colloquial speech and many dialects of Chinese keyi bu keyi is not such a rare animal.
11
The difference between neng and nenggou is that neng is more frequent than
nenggou and can form positive-negative questions, while the other one cannot.
12
It is either [[DP ta] [CP keneng lai]] he can/may come or [[DP ta] [IP[Adv keneng] [VP
lai]], he (will) possibly/maybe come.
10
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According to grammars13 zhide itself is an auxiliary verb. The mere meaning of the word/morpheme could cast doubts on its potential
to be a candidate for the -able counterpart. To overcome such an obstacle we here present two pieces of evidence. On one side there is
notable inconsistency in dictionary explanations14; on the other, in
many cases of words presented none of our informants could say
precisely whether the ke in question (e.g. kekao, ke’ai or kebei) is ke1
or ke2 and couldn’t draw a line between the two of them. (Nevertheless, in some other cases informants were pretty sure that ke is actually ke1 but not ke2). If we now extend our focus to their semantic
scope, we will see that the meaning of ke1 is more basic (and wider)
than ke2. In other words the ‘worthiness’ of ke2 presupposes the ‘possibility’of ke1 (that is, if somebody/something is worth relying on,
this presupposes that he/it can be relied on), or the other way round
‘possibility’ that ke1 precedes the ‘worthiness’of ke2 (if somebody/something can be trusted, then he/it can also be worthy of trust15). The
reasoning presented above allows us to unify these two ke1/2 into a
single ke which is the first ‘-able’ in modern Chinese. This assumption was fortunately confirmed by informants.
(ke3 = shihe = be appropriate/suitable for, be fit to).
Why are we dealing with this one, when it isn’t an Aux at all? The
answer lies in the fact that it also forms adjectives with the same linear order as (unified) ke and neng. Even more important is the fact
that this ke, unlike ‘our’ ke/neng, in word formation process selects a
noun (not a verb) and that it is repeatedly and misleadingly ‘packed’
together with two other ke as one single prefix16, which contradicts
our initial premise and future observations, but is still worth noticing.
Neng - the non-problematic polysemy
Neng1 = can, be able to, be capable of
13
In Liu, Fan and Gu (2001) zhide is classified as a modal verb which expresses
judgment, while ke, keyi and neng are grouped in another class of auxiliaries denoting
‘judgment based on subjective or objective conditions’!
14
For example, it could be found that the adjective ‘pitiable = kebei’ means [something that by its characteristics] can make one sad or (just) [something that by its characteristics] can make one sad or even something that is worth pity.
15
We admit, however, that ‘possibility’can precede everything.
16
Words formed this way are kekou [A[AUX ke] [N mouth]] ‘tasty’, keyi [A[AUX ke] [N
wish/thought]] ‘that is as one wishes/satisfactory’, kexin [A[AUX ke] [N heart]] ‘that is as
heart [wishes]’.
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Neng2 = hui = be skillful/proficient in, be able to17
Neng3 = yinggai = should, ought to, must/have to
Knowing that:
Neng3 does not form any words,
Neng2 forms only a few rare expressions and
Neng1, unlike neng1/2, takes a verb and forms an adjective, we
can with no doubt pronounce neng1 to be the second ‘-able’ of modern Chinese.
Inferring from the above arguments, we can state that both (unified) ke and neng by virtue of their meaning18 could both be ‘Chinese –able’. But, apart from their (not always so perceivable) semantic
similarity, there is still no firm evidence to support this hypothesis .
So far (not) so good.
Word formation - the crux of the matter
This is the key which gives us answers to:
why ke/neng can be considered as Chinese -able (s) and
why we say that they only correspond to English adjectival suffix
-able.
Ke vs. neng shows ke = neng
Observing the following examples of adjectives and (de-adjectival) nouns we can clearly see that word structures formed by ke and
neng are the same.
17
For some syntactic and semantic features of neng and hui see Watanabe (1999), in
Modern Chinese Grammar Studies Meeting the Challenge of the New Century (pp. 476486).
18
More precisely, by the overlapping of their semantic scopes: (unified) ke = ke1 +
ke2 covers the range of can/may, be capable of, be possible (keneng), be worth, while
neng = can, be able, be capable of.
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Adjectives: kekao reliable
[A[Aux ke] [V kao]]
Can
rely
(1)
kekao
A0
Aux
Ke
Can/may
V
kao
bian
Lian
Xing
nenggan
able, capable
[A[Aux neng] [V gan]]
can
do (things)
nenggan
A0
Aux
reliable
neng
variable
can/may
pitiable/pitiful
feasible/practicable
Nouns:
(2)
kejiexing solvability/solubility
N0
nengkongxing controllability
N0
A
A
Aux
V
Ke
jie
Can/may sole
(3)
Aux
neng
can/may
suffixN
xìng
nom. suffix
V
kong
control
kehuanlü commutativity law
N0
A
V
huan
exchange
suffixN
xìng
nom. suffix
nengjiandu visibility
N0
Aux
Ke
Can
V
gan able, capable
dong active, dynamic
A
N0
lü
law
Aux
neng
can
V
jian
see
N0
du
limit, extent, degree
Or in other words the inner structure of adjectives composed by
ke/neng is
A0
Aux
V
And it is very similar to auxiliary CP structure where Aux takes an IP
as its complement (cf.(4)and (5)).
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(4)
Ren ke (yi)19 kao ta.
NP/DP
CP
Aux
DP
IP
Io
Adv
AP
A
VP
V
Ren
One/people
(5) Ta (hen)20 kekao
ke (yi)
can/may
DP
kao
ta
rely (on) him
ta (hen)
he (very)
kekao
reliable
Nouns composed with ke/neng adjectives again as in (2),(3),(6) show
inner syntactic structure of an NP.
X0
Spec
(6)
N0
x’
Spec
N’
kebianxingdu21 deformability
N0
A
Aux
Ke
Can/may
N0
VP
V
bian
change
N
xing
form
du
degree
From the examples presented above we can conclude that ke and
neng can both be regarded as Chinese counterparts of the English
adjectival suffix -able. The necessary conditions are satisfied:
19
Yi is very often omitted in written language and various expressions (proverbs
and the like). See footnote 7.
20
Adverb hen = ‘very’ in sentences like the ones above has no usual adverbial meaning and if not present in a sentence, the same would be misunderstood as some kind
of incomplete sentential comparison cf. ta kekao, Zhang bu kekao ‘he is reliable, but
Zhang isn’t and ta hen kekao ‘he is reliable’.
21
The structure of (6) could be most conveniently compared with N-final relative
clauses e.g. hui kai che de guniang ‘can/know drive car [de] girl’ [literal translation]
where the particle de, traditionally called nominal ‘modifying de’, is in recent works (He,
1999; Simpson, 2000) analyzed as clitic-like zero determiner.
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1. their semantic scope in this particular case of adjective formation are the same; both in this particular case mean can/may.
2. the inner structure of the adjectives they compose (and accordingly of the de-adjectival nouns derived from them) are practically the same; both select verbs to form adjectives which in
turn take a suffix or noun to form more complex lexemes.
In addition to this, the existence of synonyms formed both by ke and
neng provides valuable evidence in support of our hypothesis:
kejiandu
>visibility
nengjiandu
keyuxing
>fertility
nengyuxing
fertilizability,
kekongxing
>controllability
nengkongxing
These cases where ke/neng are exchangeable without any impact
on the meaning of composed words are the best demonstration that
both (semantic and structural) conditions are satisfied and that ke
and neng both correspond to English -able. Nevertheless, such cases
raise another question: is this ke/neng adjectival formation actually a
kind of allomorphy? The answers are yes and no. No, simply because to have any kind of allomorphy there have to be different contexts
of occurrence of one allomorph or the other. This is not the case here,
since ke/neng both select a verb to form an adjective (i.e. select the
same category, [A[Aux ke/neng] [V X]]). Yes, and yes only in this
particular case of formation, because – due to semantic reasons –
both ke and neng have the same meaning, but a different morphophonological form (which is reason enough to reconsider the possible presence of allomorphy). This question, however, still remains
unanswered.
The reason why we insisted on the detail that ke/neng in Chinese
can only correspond to -able/ible in French/English22 resides in the
fact that they are equal in semantic scope but different in its realization (formalization), that is -able/ible is a suffix hosted by a verb,
while ke/neng (though linearly placed as such) are not prefixes and
they select a verb to form an adjective.
22
-Abile/ibile in Italian/Spanish, -iv/ljiv in Serbo-Croat etc.
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Some problems related to ke:neng
Ke:neng productivity
Apart from their sameness (in meaning and formation patterns
considered), on the ground of productivity ke and neng differ considerably. Ke is very productive (while neng forms only a modicum of
adjectives and not many more lexemes structurally equal to those of
ke-de-adjectival nouns. In other words there is nengshixing (identifiability) but not nengshi identifiable); there is nengchengxíngxìng
(figurability) but not nengchengxing (figurable) etc. At a glance,
there seems to be no apparent reason for such a situation, but it
would again be too simple to claim that this kind of phenomenon is
just a result of idiosyncrasy or historical reasons23. A possible source
of explanations could be concealed in the problems listed:
a) scope of meaning of auxiliary ke which is far wider than that
of neng;
b) Ke syntactically forms some kinds of constructions that neng
doesn’t, e.g.:
Fei X bu ke = must/have to: Ta fei canjia zhe ge yanhui bu ke.
He not participate this (classifier) party no can
[literal translation]
he must come to this party (there is) no possibility that
he doesn’t come…
Ke X (er) bu ke Y = can X (but) not Y:ke wang er bu ke ji
Can see but not can reach
(one) can see but not reach/unreachable
Ke X ke Y = can X [and/or] can Y: Zhe ge qingkuang ke bei ke
xiao.
This (classifier) situation can sad can laugh
[literal translation]
This situation is (both) sad and ridiculous
It seems that within ke X ke Y constructions ke leaves open slots
(X and Y) to be filled with verbs or adjectives (ke V/A ke V/A24)
23
The presence of new words (as for instance: nengguancexing ‘observability’,
nengdaji ‘reachable sets’) eliminates the possibility that ke during historical development
replaced neng and thus became more productive than neng.
24
In the example above ‘the slots’ are actually filled with A and V respectively: adjective bei ‘sad’ and verb xiao ‘laugh’. Even decomposed complex verbs can be inserted
e.g. ke qing ke he ‘could be congratulated/be worthy of congratulations’, the verb qinghe
means ‘to congratulate’. However, in this case we might argue about whether: 1) morphemes X and Y were inserted in ‘the slots’ before they merged into a single XY verb =
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which can be antonyms or similar in meaning. In this way ke, though
less selective than ‘adjectival ke’ (where only V can be inserted)
forms constructions of an adjectival nature which are, as a matter of
fact, A , composed out of two (coordinated) APs [A’[AP ke X] [AP ke
Y]]. If antonyms are coordinated, the conjunction would be “or” and
in the case of non-antonyms “and” would stand instead. But whatever the meaning of the inserted V/A might be, it seems that there is a
consensus among the informants that for them this kind of construction is very similar to chengyu (typical) Chinese four syllable proverb
and that they perceive it as a kind of idiomatic expression not as constructions like fei X bu ke (where X can be A/V/VP/IP)25.
It has to be pointed out that neng composes superficially the
same type of A’ constructions neng X neng Y. Again the difference
between these two lies in the meaning of ke/neng. Neng in this kind
of expression has the auxiliary meaning of our neng 2 (i.e. another
Aux hui = be skillful in, be proficient and does not denote the possibility of an action)26.
Kè, already mentioned Aux of classical Chinese, also forms the
same type of constructions kè
X kè Y. But being only a rudiment of the past, today it is unproductive and is rarely used (see footnote 2).
c) The information that ke, neng and kè all form this type of superficially similar ‘A’ construction brings us one more dimension of the problem. Practically all three, “still living” ancient
Aux, which once denoted possibility now form ‘A’ constructions. Nevertheless, bearing in mind all the previously mentioned details we see that:
1) only ke, with the same semantic content of ‘possibility’,
forms both ke-adjectives and the ‘A’ constructions;
qinghe; 2) complex verb XY was decomposed to morphemes X and Y which were afterwards inserted in slots opened by both ke. This is, as a matter of fact, a question of establishing the exact historical moment when this particular construction emerged, in other
words, the question of which one (the verb or the construction) preceded the other.
Without a sufficient amount of historical and lexicographical data, we cannot determine
which of these two assumptions is correct and, relying on the present state of affairs (i.e.
data provided by modern Chinese), all we can say is that here/now we have decomposed complex verbs.
25
An intriguing fact about these ke X ke Y constructions is that as A they can also
compose de-adjectival nouns such as the very interesting case: ke ca ke bian cheng xu
zhi du cun chu qi ‘erasable (and) programmable read only memory’.
26
E.g. neng wen neng wu ‘be skillful in using both pen and rifle, efficient both in
brainy and brawny activities’.
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2) Neng is not so semantically consistent and varies according
to the context of occurrence. Within the adjectives it is
‘our’ neng1 (parallel to -able) and in the ‘A’ constructions it
is neng2 (hui = be skillful in);
3) Kè is formation-inactive.
This semantic consistency in ke-word/construction formation
(along with the issues presented above) might be one of the reasons
why ke is much more productive than neng. The problem of ke:neng
productivity is thus clearly a set of interrelated problems which put
into historical context make a possible/plausible explanation even
more complicated.
Ke - prefix or (still) not
In our little investigation Aux ke is treated not like a prefix, but as
an auxiliary verb which with another (selected) verb composes complex (lexical head). This kind of analysis is the opposite of interpretations found in many dictionaries. The grounds for such an anti-prefix approach are twofold. First, grammars of contemporary Chinese
(if they treat this problem at all) present the fact that ke cannot be
considered as a true affix like lao or jia 27. According to Fang (1993:
54): “In modern Chinese, strictly speaking, there are only a few true
prefixes, …, but within compound words some very productive first
morphemes like ‘ke, fan, fei etc. show a tendency to become prefixes”.
Note that ke is (still) not a prefix! Second, and evenmore significant
for us, informants were quite clear about the meaning of ke/neng
(within words such as kexiao, or nenggan) and equally uncertain
about the meaning of true pre/suffixes presented to them (long hesitation pauses, big differences in answers etc.). These two facts (along
with neng being a non-prefix itself) were valid enough reasons for us
to disregard the ke-prefix interpretation and analyze it in the way we
did. Just a short note on this tendency. With all due respect to Chinese grammarians but also taking into account the fact that some keformed adjectives can be traced back to the Han dynasty (3c.BC3c.AD!)28, we might ask one question: isn’t a period of more than
27
Both lao and jia are words of modern Chinese. Adjective lao ‘old’ and noun jia
‘family, home, household’. As for word formation, lao- is a prefix denoting respect (laoshi ‘teacher’, laohu ‘tiger’ etc), -jia is a suffix denoting a specialist or professional in certain trades (zuojia) ‘writer’, huajia ‘painter’, zhuanjia ‘specialist’), zi is one of the most
productive nominal suffixes (kuaizi) ‘Chinese sticks’, benzi ‘notebook’ etc).
28
E.g. ke’ai = lovable (Han dynasty and after), kegui = precious, valuable (period of
Three Kingdoms, kingdom Wei 3c. AD) etc.
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2000 years of language development a bit too long for a morpheme
to develop just a ‘tendency to become a prefix’. Some other affixes
‘needed’ considerably less time to become what they are today).
Selection – possible problems
Whatever approach we prefer (ke being prefix or not), a few following puzzling examples show that ke selects a verb to form not
only an adjective but also a verb or even a conjunction.
Kewei [V[Aux ke] [V wei]] can/could be said
Ke here selects V to form V. Kedao, keshuo 29 also follow
this example.
Kejian [Conj/V [Aux ke] [V jian]] (it) is (thus) clear/obvious
Ke here selects V to form V or Conj. Whether it is a verb
or a conjunction is still the question (or maybe only one more problem of Chinese grammarians’ classification).
Keneng [A/Adv/Aux[Aux ke] [Aux neng]] possible, possibly,
can/may/be able/capable
Keneng seems to be a special case in many aspects.
Ke selects neng, i.e. selects Aux not V (as in other ke-adjectives).
This is the only case where an Aux not V (as in other ke-adjectives).
This is the only case where an Aux selects another Aux and forms
A/Adv/Aux. Considering that this is the combination of our two Chinese -able(s)’ and that they both in this particular case of formation
denote possibility, we may ask why they can’t be placed in reversed
linear order like nengke 30. Though neng (by its occurrence in ancient
scripts) historically precedes ke (Yang & He 1992), it is the one to be
selected, not vice versa.
The last example shows that ke (contrary to its semantic aspect) is
not always consistent in selection and can vary. Even more interesting are the cases where a verb is selected (kewei and kejian) but
the result of formation is not necessarily an adjective. This situation,
of course, prevents us from formulating a possible general rule of
[A[Aux ke][V]] composition of Chinese ‘-able-type’ adjectives. But the
prevailing majority of ke-adjectives still give us the right to claim that
such a rule, though not general in scope, does in fact exist.
29
Kewei/kedao are stylistically marked verbs of the same to them neutral keshuo. All
three have the same meaning can/could be said.
30
Earlier there was, however, conjunction nengke. The trouble is that the neng in
question wasn’t the Aux neng, but practically the allomorph of conjunction ning ‘would
rather/better’ and ke also isn’t Aux.
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Concluding remarks
In this article we presented and proved the hypotheses that ke
and neng, two auxiliaries of modern Chinese, both correspond to the
English adjectival suffix-able. Taking into account the historical background of ke/neng word formation and via explaining their semantic
similarity we eliminated all peripheral issues. By focusing on the adjective formation patterns we showed that ke in this particular case of
adjectival formation is equal to neng and that both of them can be
declared as ‘Chinese -able(s)’. The presence of many related problems, of which we only mentioned a few – ke/neng (questionable)
allomorphy, big difference in productivity and ke-selection –, necessarily calls for further analysis of the subject presented here.
REFERENCES
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Grammar). Beijing, Beijing yuyan xueyuan chubanshe.
Gudai hanyu xuci cidian (Dictionary of Classical Chinese Functional Words). 1999. Beijing, Shangwu yishuguan.
HE, YUANJIAN, 1999, Hanyuzhong de lingxian dingyu (Zero Determiner in Chinese) in Mianlin xin shi tiaozhan de xiandai hanyu yufa
yanjiu (Modern Chinese Grammar Studies Meeting Challenge of the New
Century). 1999, Ed. by Lu jianming. Jinan, Shandong chubanshe,
pp.143-164.
LIU, YUEHUA, FAN WENYU and GU WEI, 2001, Shiyong xiandai
hanyu yufa (Practical Grammar of Modern Chinese) Beijing, Shangwu
yinshuguan.
LÜ, SHUXIANG, 1994, Xiandai hanyu babai ci (Eight Hundred
Words of Modern Chinese). Beijing, Shangwu yinshuguan.
SIMPSON, ANDREW, 2000, On the status of ‘modifying de’ and the
Structure of Chinese DP. SOAS/Universitet Frankfurt am Main.
WATANABE, RIRIN, 1999, Syntactic-Semantic Analysis of Auxiliary
Verbs Neng and Hui, in Mianlin xin shi tiaozhan de xiandai hanyu yufa yanjiu (Modern Chinese Grammar Studies Meeting the Challenge of
the New Century). 1999, Ed. by Lujianming. Jinan, Shangdong chubanshe, pp.476-486.
YANG, BOJUN and HE YUSHI, 1992, Gudai hanyu yufa jiqi fazhan
(Classical Chinese Grammar and its Development). Beijing, Yuwen chubanshe.
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Alberto Bramati
LA TRADUCTION EN ITALIEN DU GROUPE PRÉPOSITIONNEL
«DE N» À VALEUR DE CAUSE. QUELQUES RÉFLEXIONS
«Le bon traducteur doit chercher tous les mots,
et d’abord ceux qu’il connaît le mieux».
1
Valery Larbaud
1. Les verbes français qui acceptent le groupe «de N» à valeur de cause
Dans son article «Hurler de rage, rayonner de bonheur: remarques
sur une construction en de» (1991), Danielle Leeman présente une
analyse détaillée des verbes français désignant une réaction physique
qui acceptent le groupe prépositionnel «de N» à valeur de cause: d’une manière générale, ces verbes «désignent le témoignage involontaire (leur sujet peut souvent être le nom de parties du corps) d’un sentiment ou d’une sensation soit par un état (resplendir de bonheur),
soit par un changement d’état (rougir de colère), soit par une action
(hurler de terreur) dont le sujet est le patient plutôt que l’agent effectif» (Leeman: 1991, 81). L’étude des propriétés syntaxiques du groupe
«de N» montre que les verbes français susceptibles d’être associés à ce
complément relèvent en fait de trois classes2.
La première classe comprend les verbes qui «forment avec de N
une entité sémantique telle que de N ne peut être supprimé sans que
cela change complètement l’interprétation du verbe» (Leeman: 1991,
82). Il s’agit là de constructions telles que Paul brûle d’amour ou Luc
1
Larbaud: 1997, 83. Je tiens à remercier Marie-Christine Jullion qui m’a proposé d’écrire cet article et André Valli qui en a lu une première version et qui m’a donné de précieux conseils. Un remerciement tout particulier je le dois ensuite à mes amis et à mes
collègues qui ont accepté de se soumettre au test sur la grammaticalité des constructions
italiennes ainsi qu’aux étudiants de mes cours à l’Università degli Studi di Trento et à l’Università degli Studi di Milano.
2
Mieux vaudrait sans doute parler de sous-classes ou de groupes de verbes mais,
comme dans ce paragraphe nous résumons les résultats de l’étude de Leeman, nous
avons préféré garder la terminologie adoptée dans son article (1991).
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grille d’impatience, où la présence du groupe «de N» entraîne le changement du sens du verbe. Pour cette classe, Leeman se demande si le
groupe prépositionnel a réellement une valeur de cause: en effet,
«différents indices permettent de penser que dans des énoncés tels
que Luc tombe de fatigue, ce n’est pas de fatigue, le complément, qui
modifie le verbe mais au contraire le verbe qui marque l’intensité du
nom» (Leeman: 1991, 85)3. Le groupe «V de» serait alors une sorte de
quantificateur du nom de sensation ou de sentiment, ou plus exactement «une variante, incluant un sens de quantité, du verbe support
approprié au nom: mourir de faim, c’est avoir très faim; bouillir de
colère, c’est être très en colère; griller d’impatience, c’est ressentir
une vive impatience» (Leeman: 1991, 85).
Alors que pour les verbes de la première classe, le groupe «de N»
est obligatoire pour sélectionner le sens figuré du verbe, pour les
verbes de la deuxième classe ce même groupe prépositionnel peut
être supprimé sans que le sens du verbe change: les verbes appartenant à cette deuxième classe gardent en effet leur sens propre avec
ou sans complément en de (blêmir de peur c’est blêmir; gémir de
douleur c’est gémir)4. Mais quoique les groupes «de N» qui suivent les
verbes de la deuxième classe ne soient pas obligatoires tels que les
groupes «de N» relevant de la première classe, tous ces compléments
gardent quand même quelques propriétés communes: d’abord, bien
qu’à des degrés différents, ils acceptent tous difficilement d’être déplacés (*De colère, Luc bout; *D’impatience, Luc grille; ?De peur, Max
blêmit; ?De douleur, Max gémit); secondement, si les paraphrases
avec un verbe factitif ou avec une préposition ou une conjonction de
cause sont impossibles avec les emplois de la première classe (*L’impatience fait griller Luc; *Luc grille à cause de l’impatience qu’il
éprouve; *Luc grille parce qu’il est impatient), ces mêmes paraphrases, tout en étant meilleures avec les emplois de la deuxième classe,
«ne sont pas pour autant parfaites» (Leeman: 1991, 87).
3
Pour étayer son hypothèse, Leeman propose six tests qui montrent l’affinité entre
ce type d’expressions verbales et les syntagmes nominaux introduits par des quantificateurs tels que un tas de, une foule de: affaiblissement du sens du verbe et du nom quantitatif; impossibilité d’associer un modificateur d’intensité aux éléments de l’expression
verbale (verbe et nom du complément) ainsi qu’au nom quantitatif; difficulté voire impossibilité de poser une question concernant les expressions quantitatives, d’appliquer la
restriction ou l’exclamation (Leeman: 1991, 83-85).
4
Plus rarement, les verbes de la deuxième classe ont un sens figuré (son visage s’éclaire de joie): dans ces cas-là, c’est le N0 qui sélectionne le sens du verbe (son visage
s’éclaire). C’est pourquoi la suppression du groupe prépositionnel ne change pas son
sens.
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? La peur fait blêmir Luc
? Luc blêmit à cause de la peur qu’il a
? Luc blêmit parce qu’il a peur
La difficulté de déplacer et de paraphraser les groupes «de N» qui
accompagnent les verbes des deux premières classes montre donc la
forte solidarité qui existe entre le groupe prépositionnel et le verbe.
En fait, du point de vue proprement syntaxique, il nous semble qu’il
s’agit de deux structures tout à fait différentes: les expressions du type brûler d’amour sont des locutions verbales figées qui n’admettent
aucune modification – absence de tout paradigme (*brûler de rage;
*brûler par amour) et exclusion de la pronominalisation (*il en brûle) – et dont le sens est opaque, alors que les constructions telles que
blêmir de peur relèvent de la syntaxe libre, i. e. non seulement elles
impliquent l’existence de paradigmes (blêmir de rage / épouvante…;
blêmir à cause de la peur) et la possibilité de pronominalisation (il en
blêmit), mais leur sens est compositionnel. Par conséquent, si pour
les groupes «de N» associés aux verbes de la première classe la question de leur fonction syntaxique ne se pose pas, le statut de ces mêmes groupes accompagnant les verbes de la deuxième classe paraît
plus problématique. En effet, d’un côté avec ces verbes le groupe
prépositionnel «de N» n’est pas obligatoire: il s’agirait donc d’un simple ajout à valeur de cause; de l’autre côté, non seulement le groupe
«de N» est difficilement déplaçable, mais les verbes de la deuxième
classe imposent une restriction aussi bien sur la sous-classe des noms
qui réalisent ce complément5 que sur la préposition de qui l’introduit6: il s’agirait alors, si l’on suit la définition d’objet proposée par
5
Plus précisément, les verbes de la première et de la deuxième classe imposent
trois types de restrictions à leurs compléments nominaux: «n’importe quel sujet N0 ne
s’associe pas à n’importe quel verbe»; «n’importe quel verbe ne s’associe pas à n’importe
quel N1»; «n’importe quel sujet ne s’associe pas à n’importe quel verbe selon le N1» (Leeman: 1991, 91-92). C’est justement à partir de ces trois restrictions que Leeman présente,
dans son article, une ébauche de classement sémantique et syntaxique de ces verbes
(1991, 91-98).
6
La restriction imposée par le verbe sur la préposition est confirmée par une autre
propriété du complément: «de N n’est pas une réponse appropriée à la question pourquoi: *Pourquoi Luc rougit-il? De honte» (Leeman: 1991, 80). Le lien étroit entre le verbe
et le complément est également attesté par les propriétés que les groupes «de N» de la
deuxième classe partagent avec les groupes «de N» de la première classe, comme si même les verbes de la deuxième classe pouvaient être interprétés comme des quantificateurs du nom (Leeman: 1991, 86-87). D’ailleurs, la frontière qui sépare ces deux classes
n’est pas étanche, plusieurs verbes admettant aussi bien une interprétation au sens propre qu’une interprétation au figuré: dans trépigner d’impatience, par exemple, la manifestation du sentiment «peut rester purement métaphorique (on peut dire de quelqu’un
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Morris Salkoff, d’un objet du verbe7. Le caractère problématique de
ce type de compléments est reconnu, entre autres, par Morris Salkoff,
qui dans sa grammaire contrastive français-anglais affirme à propos
des groupes prépositionnels «de N» en position de «right adjunct of
the verb»: «each such sequence appears with only a few verbs, sometimes with just one verb, so that it is almost as specific as one of the
arguments of the verb» (Salkoff: 1999, 220)8.
La troisième classe de verbes qui acceptent le groupe «de N» montre en revanche des propriétés très différentes: premièrement, il s’agit
de verbes d’action à sujet agentif (Max a cassé la bouteille de colère);
deuxièmement, le complément non seulement est supprimable comme pour les verbes de la deuxième classe, mais il semble beaucoup
plus naturel en tête de phrase (De colère, Max a cassé la bouteille);
troisièmement, il n’y a pas de fortes restrictions entre les noms et les
verbes: «de colère, on peut abandonner un match, abaisser une manette, abattre un mur ou sa concierge» (Leeman: 1991, 90); quatrièmement, certaines paraphrases exclues ou peu acceptables pour les
verbes des deux premières classes paraissent appropriées pour les
verbes de la troisième classe:
Max a cassé la bouteille parce qu’il était en colère
Max a cassé la bouteille sous l’effet de la colère (Leeman: 1991, 90).
Du point de vue syntaxique, même si le groupe «de N» accepte la
qu’il trépigne d’impatience sans que nécessairement il passe son temps à effectivement
piétiner le sol)» (Leeman: 1991, 80). Dans ce cas, la réaction physique s’annule au profit
de l’expression du haut degré: «être très impatient». Du point de vue syntaxique, cela signifie qu’il y a un glissement de la syntaxe libre vers la locution figée. On relève le même phénomène en italien, avec des expressions telles que morire di tristezza ou rabbrividire di paura.
7
Pour Salkoff, un complément prépositionnel fait partie de la valence d’un verbe, i.
e. est un objet de ce verbe, s’il satisfait à l’un de deux critères suivants: 1) il est obligatoire; 2) sa présence entraîne des restrictions soit sur le sujet, soit sur la préposition elle-même, soit sur le nom régi par la préposition (1973: 43-44).
8
Un autre critère que certains linguistes prennent en compte pour évaluer le statut
syntaxique d’un complément est sa fréquence. Marie-José Béguelin cite à ce propos Claire Blanche-Benveniste: «Blanche-Benveniste a, par exemple, observé que certains locuteurs construisent de manière prédominante le verbe travailler avec un complément locatif. Dans une des acceptions de ce verbe, le complément locatif semble donc évoluer
vers le statut de complément sélectionné: travailler à la poste, là, où, à cet entroit…». Et
Béguelin de conclure: «il existe une zone floue entre régimes valenciels et régimes non
valenciels, du fait que les seconds, s’ils deviennent très réguliers, finissent par s’incorporer à la valence verbale» (Béguelin: 2000, 153). Le dictionnaire PONS représente une application systématique de ce principe (Blumenthal, Rovere: 1998, XV).
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pronominalisaton (De colère, Max en a cassé la bouteille)9, son statut
valenciel nous semble plus proche de celui d’un ajout que de celui
d’un objet: en effet, ce complément n’est pas obligatoire, n’occupe
pas forcément la position à droite du verbe et surtout n’est pas soumis à des restrictions imposées par la nature du verbe.
En conclusion, les verbes français susceptibles d’être associés au
groupe prépositionnel «de N» à valeur de cause relèvent de trois classes: une première classe où «de N» forme une locution figée avec le
verbe; une deuxième classe où «de N» représente un quasi-objet du
verbe et une troisième classe où «de N» représente un ajout du verbe.
C’est donc à partir de la deuxième classe, regroupant les verbes de
réaction physique au sens propre qui acceptent un groupe «de N» à
valeur de cause, que nous allons aborder le problème de la traduction en italien de cette construction particulière.
2. La traduction en italien du groupe «de N» régi par des verbes de réaction physique
Dans sa grammaire contrastive A French-English Grammar
(1999), Morris Salkoff affirme à propos des études comparatives existantes:
In all of these classical comparative studies, the discussion turns frequently
around the question of how to ‘translate the preposition’. Putting the matter
in this way very often has no sense, for it is not the preposition than can be
translated, but only an entire expression containing the preposition, e.g., a
prepositional phrase (Salkoff: 1999, 10).
Selon Salkoff, on ne traduit jamais une préposition isolée; ce
qu’on traduit est toujours une expression contenant une préposition,
c’est-à-dire un groupe prépositionnel. Plus loin dans son étude, Salkoff spécifie les trois variables qui déterminent, à son avis, la traduction d’un groupe prépositionnel:
the translation of a prepositional phrase varies respect to three variables (at
least):
(i) the syntactic function of the prepositional phrase (…);
(ii) the sub-class of the noun of the prepositional phrase;
9
C’est l’avis d’André Valli (DELIC-Université de Provence) alors que pour Danielle
Leeman, les verbes de la troisième classe «excluent la pronominalisation en en» (Leeman:
1991, 88).
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(iii) and the sub-class of the noun or verb which the phrase modifies (Salkoff: 1999, 172).
Salkoff affirme donc que la traduction d’un groupe prépositionnel
dépend d’au moins trois variables: 1) sa fonction syntaxique (objet
d’un élément prédicatif ou ajout); 2) la sous-classe du nom régi par la
préposition; 3) la sous-classe de l’élément prédicatif (le plus souvent
un verbe ou un nom) qui régit le groupe prépositionnel.
Aussi le problème classique de comment on traduit en italien la
préposition française de doit-il être reformulé en fonction des trois
paramètres indiqués par Salkoff. Dans notre cas, il s’agira donc de
déterminer la ou les prépositions italiennes qui traduisent la préposition française de quand elle apparaît à l’intérieur d’une précise structure syntaxique:
N(hum+pc) V(réaction physique) de N (sensation+sentiment)
où le groupe «de N» a une fonction syntaxique incertaine (quasi-objet
du verbe), le nom régi par la préposition de appartient à la sous-classe des noms de sensation ou de sentiment10 et le verbe régissant le
groupe prépositionnel appartient à la sous-classe des verbes qui expriment une réaction physique – on pourrait ajouter que le sujet de
ce type de constructions verbales est un nom appartenant soit à la
sous-classe des noms humains soit à celle des noms de partie du
corps.
Pour réaliser notre étude comparative, nous avons exploité le même corpus qu’a élaboré Danielle Leeman pour sa recherche sur les
verbes français11: d’abord, nous avons séparé les verbes appartenant
10
Les noms de sensation ou de sentiment sont ceux qui peuvent apparaître respectivement après les structures «avoir une sensation de» ou «avoir un sentiment de», ou bien
avoir la fonction d’objet direct après les verbes éprouver ou ressentir (Leeman: 1991, 85,
note 4). À côté de ces deux sous-classes de noms qui désignent des états passagers, certains verbes admettent aussi la sous-classe des noms désignant des propriétés permanentes (rougir de timidité) (Leeman: 1991, 97). Un problème particulier est posé par le substantif rire, qui n’indique ni une sensation ni un sentiment (voir Leeman: 1991, 85, note
4): nous avons tout de même gardé les constructions telles que Luc se tord de rire, dont
les verbes peuvent aussi exprimer une réaction physique à une sensation ou à un sentiment (se tordre de douleur).
11
Le corpus constitué par Leeman est publié en annexe à son article (1991, 99101): il s’agit de 241 verbes appartenant aux première et deuxième classes analysées cidessus. En réalité, Leeman affirme avoir étudié un corpus de plus de 300 verbes (1991,
96): comme certains des verbes présentés dans son article n’apparaissent pas dans le
corpus en annexe (nous en avons compté 7), il est probable que quelques verbes ont été
oubliés, ce qui ne diminue pas l’importance de cette liste pour notre étude.
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à la première classe, qui forment avec le groupe «de N» des locutions
figées, des verbes appartenant à la deuxième classe, qui prennent le
groupe «de N» comme un quasi-objet à valeur de cause12; ensuite, à
l’intérieur des verbes de la deuxième classe, nous avons séparé les
deux structures syntaxiques répertoriées: d’un côté, les verbes intransitifs réalisant la structure «N0 V de N1» (Luc blêmit de peur), de
l’autre, les verbes transitifs réalisant la structure «N0 V N1 de N2» (Luc
hausse les épaules de dédain). On a ainsi obtenu deux ensembles numériquement très différents: alors que les verbes transitifs classés ne
sont que 10, les verbes intransitifs sont exactement 203. C’est donc à
partir de ce gros ensemble de verbes intransitifs français exprimant
une réaction physique que nous avons abordé le problème de la traduction en italien du groupe prépositionnel «de N» à valeur de cause.
Tout traducteur professionnel sait bien que, pour plusieurs de ces
verbes français, il est possible de traduire le groupe prépositionnel
«de N» par trois groupes prépositionnels italiens, introduits respectivement par les prépositions di, da ou per; mais ce qu’aucun traducteur ne sait, c’est premièrement, si ces trois prépositions italiennes
peuvent être associées à tous les verbes italiens qui traduisent les
verbes français appartenant à notre corpus, et secondement, si ces
trois prépositions sont valables pour tous les noms de sensation et de
sentiment qui peuvent être associés à chacun de ces verbes italiens.
Pour essayer de donner une réponse à ces deux questions, nous
avons d’abord examiné les traductions que proposent pour les 203
verbes intransitifs français faisant partle de notre corpus trois dictionnaires bilingues français-italien.
2.1. L’analyse des dictionnaires bilingues
Même si tous les dictionnaires bilingues ne proposent souvent,
pour traduire une certaine construction verbale française, que l’infinitif du verbe italien correspondant, ce qui montre bien qu’ils s’adressent à des locuteurs italiens qu’ils supposent pourvus d’une compétence linguistique suffisante pour identifier la construction correspondante du verbe italien indiqué, tous les dictionnaires bilingues n’offrent ni la même quantité, ni le même type d’informations sur les structures syntaxiques des verbes italiens proposés comme équivalents des
12
Les verbes admettant une interprétation du groupe «de N» aussi bien comme un
quasi-objet à valeur de cause que comme un élément d’une locution verbale (ex. trépigner d’impatience: voir note 6 ci-dessus) ont été classés dans cette deuxième classe.
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verbes français: c’est ce qu’on peut aisément vérifier en analysant les
données relatives à notre corpus tirées de trois dictionnaires bilingues
français-italien: le DIF (2000), le Boch (2000) et le Garzanti (2003).
Le tableau 113 dresse en effet la liste des verbes italiens dont ces
trois dictionnaires bilingues décrivent au moins un emploi prépositionnel: le dictionnaire le plus riche du point de vue syntaxique est le
DIF qui présente une ou plusieurs constructions prépositionnelles de
44 verbes italiens, alors que le Boch s’arrête à 31 verbes et le Garzanti à 22 verbes. Mais pour 25 de ces 44 verbes (56,8%), le DIF n’indique qu’une seule construction possible, introduite soit par di, soit
par da, soit par per; pour 17 verbes (38,6%), il ne signale que deux
constructions possibles et seulement pour 2 verbes (4,5%), il montre
les trois possibilités, i. e. il donne une information syntaxique complète. En revanche, le Boch fournit une seule construction pour la
quasi totalité des verbes (26 sur 31, soit 83,9%), deux constructions
pour 4 verbes (12,9%) et trois constructions, i. e. une information
syntaxique complète, pour un seul verbe (3,2%). De même le Garzanti fournit une seule construction pour 15 verbes sur 22 (68,2%),
deux constructions pour 6 verbes (27,3%) et trois constructions pour
un seul verbe (4,5%).
Mais les limites de la description des verbes italiens proposée par
ces trois dictionnaires bilingues ne relèvent pas seulement de la pauvreté quantitative des informations mais aussi de leur incohérence,
ce qu’on peut aisément vérifier en étudiant deux des quatre verbes
dont ces dictionnaires présentent une information syntaxique complète. Par exemple, le dictionnaire DIF présente le verbe gridare
comme équivalent de deux verbes français, crier et hurler: pour traduire crier de joie, le DIF propose gridare di gioia alors que pour traduire crier de douleur, peur, plaisir, il propose gridare dal dolore,
dalla paura, dal piacere; en revanche, dans l’article consacré au verbe hurler, le DIF propose de traduire hurler de douleur par gridare
di dolore, mais hurler de frayeur par gridare di, per lo spavento, la
paura. Il est donc évident que dans ces deux articles non seulement
l’information du DIF est incomplète, le dictionnaire ne signalant
chaque fois que deux constructions sur les trois possibles, mais encore que son information est incohérente pour plusieurs raisons: premièrement, en lisant l’article consacré à crier, l’utilisateur du DIF peut
croire qu’à la différence de dolore, paura et piacere, le nom gioia
doit être obligatoirement régi par la préposition di; deuxièmement,
en lisant l’article consacré à hurler, l’utilisateur du dictionnaire peut
13
Voir Annexe 1.
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croire qu’à la différence de dolore, les deux noms spavento et paura
peuvent être régis aussi bien par la préposition di que par la préposition per; troisièmement, en comparant les deux articles, l’utilisateur
du DIF peut penser que gridare (di+dal) dolore ou gridare (di+dalla+per la) paura ne sont pas des expressions synonymes, les unes
traduisant le verbe crier, les autres le verbe hurler.
On retrouve les mêmes problèmes dans le dictionnaire Garzanti
qui présente le verbe tremare comme équivalent de deux verbes
français, trembler et grelotter: pour traduire trembler de froid, de
peur, le Garzanti propose tremare di freddo, di paura, alors que
pour traduire trembler de fièvre il propose tremare dalla febbre; en
revanche, pour traduire les mêmes compléments associés au verbe
grelotter, ce dictionnaire propose tremare per la febbre, il freddo.
En conclusion, l’analyse des descriptions que trois dictionnaires
bilingues offrent des verbes italiens correspondant aux verbes intransitifs français qui acceptent le groupe «de N» à valeur de cause,
permet de relever au moins quatre problèmes: 1) dans la plupart des
cas, les dictionnaires bilingues n’indiquent que l’infinitif des verbes
italiens, sans doute faute d’espace; 2) quand ces dictionnaires donnent quelques indications sur les emplois des verbes italiens, ils se limitent le plus souvent à une seule construction prépositionnelle,
comme si ces verbes n’admettaient pas d’autres constructions synonymes (dans ce cas, l’information offerte est simplement insuffisante); 3) plus rarement, ces dictionnaires indiquent deux ou trois constructions du même verbe italien, chacune suivie d’un nom différent,
comme si ce nom ne pouvait pas être régi par une autre préposition
(dans ce cas, le dictionnaire pousse à supposer qu’il existe une relation stricte entre le nom et la préposition); 4) quand ces dictionnaires
proposent le même verbe italien comme équivalent de deux ou plusieurs verbes français quasi-synonymes, il arrive que les constructions prépositionnelles de ce verbe diffèrent selon le verbe français à
traduire, comme s’il ne s’agissait pas de constructions synonymes
mais plutôt de constructions ayant des significations différentes – ce
qui paraît tout à fait incompréhensible quand le groupe prépositionnel «de N» qui accompagne les verbes français contient le même nom
de sensation ou de sentiment (dans ce cas, la description du verbe
italien proposée par le dictionnaire est tout simplement incohérente).
Mais les dictionnaires bilingues ne représentent que la première
ressource dans le travail du traducteur : même si leur présentation
des verbes italiens était plus complète et plus cohérente, un traducteur sérieux ne pourrait pas se dispenser de contrôler toutes les constructions douteuses dans des sources lexicographiques plus fiables, à
savoir dans des dictionnaires de la langue italienne.
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2.2. L’analyse des dictionnaires unilingues
Pour essayer de répondre à nos deux questions – 1) tous les verbes italiens de réaction physique acceptent-ils les trois constructions
prépositionnelles en di, da et per ?; 2) tous les noms de sensation ou
de sentiment qui peuvent apparaître avec l’un de ces verbes peuvent-ils être régis indifféremment par ces trois prépositions? –, nous
sommes parti des données collectées dans trois dictionnaires bilingues. Nous avons ainsi formé un petit corpus de 20 verbes italiens 4
dont les trois dictionnaires bilingues sélectionnés présentent, d’une
manière incomplète ou peu cohérente, au moins deux ou trois emplois prépositionnels, ce qui permet de supposer qu’il s’agit de constructions assez fréquentes. Pour ces 20 verbes, nous avons ensuite
comparé systématiquement les descriptions offertes dans cinq dictionnaires de la langue italienne15 de façon à vérifier si, au moins
dans ces sources lexicographiques plus spéficiques, un traducteur
peut trouver des informations complètes et cohérentes.
Les colonnes de six à dix du tableau 216 répertorient tous les
noms de sensation et de sentiment qui apparaissent dans les exemples contenus dans les articles consacrés à ces 20 verbes des cinq
dictionnaires unilingues sélectionnés : chaque nom est placé sur la
ligne qui correspond à la préposition qui le régit dans l’exemple
considéré. À partir de l’analyse des données collectées dans ce ta-
14
Les 20 verbes italiens que nous avons étudiés sont les suivants: addormentarsi,
afflosciarsi, arrossire, brillare, fremere, gridare, impallidire, irrigidirsi, palpitare, piangere, rabbrividire, saltare, sbadigliare, scalpitare, scintillare, sobbalzare, sussultare, svenire, tremare, urlare. Nous avons exclu de notre corpus trois verbes italiens qui, suivis
d’un groupe prépositionnel tel que «(di+dal+per il) N(sensazione+sentimento)», prennent un sens métaphorique: bruciare, gelarsi, struggersi. Nous avons au contraire gardé
brillare et scintillare parce qu’on peut considérer qu’avec le sujet occhi (gli occhi brillano / scintillano), ces deux verbes conservent leur sens propre.
15
Nous avons choisi cinq dictionnaires parmi les plus représentatifs de la lexicographie italienne actuelle: le Vocabolario della lingua italiana Treccani (1997), en cinq volumes, ouvrage dérivé du Lessico Universale Italiano (LUI); le GRAnde Dizionario ITaliano dell’uso (GRADIT) (2000), en six volumes, élaboré sous la direction de Tullio De
Mauro; le DISC (20053), élaboré sous la direction de Francesco Sabatini et Vittorio Coletti, le premier dictionnaire italien à appliquer systématiquement la théorie de la valence à
la description des verbes; le Devoto-Oli (2006), dont la nouvelle édition élaborée sous la
direction de Luca Serianni et Maurizio Trifone se propose d’offrir une «sistematica indicazione delle reggenze sintattiche» (p. IV); le PONS, dictionnaire des verbes italien-allemand élaboré sous la direction de Peter Blumenthal et Giovanni Rovere, qui répertorie
les constructions des 1729 verbes italiens les plus fréquents à partir de 14 dictionnaires
de la langue italienne et d’un corpus de 50 millions de mots.
16
Voir Annexe 2.
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bleau 2, il est possible de présenter quelques considérations.
Pour 4 verbes (addormentarsi, afflosciarsi, gridare, scalpitare),
soit 20% de notre corpus, aucun dictionnaire n’indique la possibilité
de ce type particulier de complément de cause. L’absence de ces
constructions dans les dictionnaires utilisés peut dépendre de plusieurs facteurs: 1) un problème de fréquence (avec des verbes qui se
construisent moins fréquemment avec un complément de cause introduit par les prépositions di, da ou per, les dictionnaires italiens
pourraient négliger la description de ces emplois, même si ces groupes prépositionnels ont la même valeur syntaxique et sémantique
qu’avec d’autres verbes de la même classe (saltare ou urlare); 2) une
conception lexicographique qui privilégie la sémantique au détriment de la syntaxe17; 3) une conception de la valence qui analyse ces
compléments comme des ajouts que le dictionnaire n’est pas tenu de
répertorier18; 4) le rôle d’attraction que joue la langue étrangère dans
l’élaboration des dictionnaires bilingues, qui ont tendance à proposer
une traduction des structures syntaxiques répertoriées dans les dictionnaires français même si ces structures sont rares ou inexistantes
en italien (ce serait le cas du verbe gridare).
Sauf le Devoto-Oli (15 verbes, soit 75% de notre corpus), plus rarement le PONS (6 verbes, soit 30% de notre corpus)19 et dans un
seul cas le Vocabolario Treccani (pour le verbe piangere), les dictionnaires n’indiquent pas de façon explicite la possibilité pour ces
verbes d’accepter un complément de cause introduit par l’une des
trois prépositions synonymes di, da ou per.
Sur les 15 verbes pour lesquels le Devoto-Oli donne des indications explicites, 10 verbes admettent les trois prépositions (50% du
corpus), 4 verbes n’admettent que deux prépositions (impallidire
da+per; rabbrividire di+per; sbadigliare di+per; svenire da+per) et un
seul verbe n’admettrait qu’une seule préposition (palpitare di). Toutes ces indications semblent confirmées par les exemples contenus
17
Sur le retard de la lexicographie italienne dans la description de la syntaxe verbale, on peut voir les essais de Patrizia Cordin et Maria Giuseppa Lo Duca publiés dans le
volume Classi di verbi, valenze e dizionari. Esplorazioni e proposte (Unipress, Padova
2003).
18
C’est le cas du DISC qui considère tous ces verbes comme monovalents [sogg-v],
en précisant toutefois qu’ils sont souvent utilisés «con specificazione della causa».
19
Mais il ne faut pas oublier qu’à cause des critères particuliers qui sont à la base de
sa rédaction (étudier la valence des 1729 verbes italiens les plus fréquents), le PONS répertorie seulement 8 des 20 verbes faisant partie de notre corpus: les indications explicites sur les constructions prépositionnelles de 6 verbes représentent donc un pourcentage très élevé (75%).
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dans les autres dictionnaires. En revanche, pour trois verbes (scintillare di; saltare da+per20; urlare di+per), le PONS exclut des prépositions que les autres dictionnaires répertorient: ces indications sont
donc fautives. En conclusion, tous les verbes de notre corpus ne
semblent pas admettre les trois constructions prépositionnelles: sans
considérer les 4 verbes pour lesquels les dictionnaires n’offrent aucune indication, il y aurait donc six verbes21, soit 30% de notre corpus,
qui n’admettent qu’une seule préposition (palpitare di) ou bien deux
des trois prépositions (impallidire da+per, irrigidirsi da+per, rabbrividire di+per, sbadigliare di+per, svenire da+per).
D’un autre point de vue, si l’on analyse les exemples des cinq
dictionnaires, on remarque facilement que les mêmes noms de sensation ou de sentiment peuvent être régis, selon la source, par des
prépositions différentes, mais aucun dictionnaire ne dit de manière
explicite si le même nom peut être régi indifféremment par les trois
prépositions ou seulement par une ou par deux d’entre elles. D’où la
nécessité de faire des recherches supplémentaires pour vérifier tout
d’abord si les restrictions imposées par les six verbes indiqués ci-dessus sur l’emploi des prépositions sont bien réelles, et ensuite si les
noms de sensation et de sentiment qui dans les exemples des cinq
dictionnaires sont régis seulement par une ou deux de ces prépositions, peuvent aussi l’être par d’autres prépositions. Pour essayer de
répondre à ces deux questions, il nous faudra alors non seulement
interroger un corpus réel mais aussi faire appel à la compétence linguistique d’un groupe de locuteurs natifs.
3. L’analyse d’autres sources de la langue italienne
3.1 L’analyse du corpus italien dans le web
En l’absence d’un corpus conçu exprès pour cette recherche lin20
Le PONS considère les expressions saltare dalla gioia et saltare per la gioia comme des locutions, ce qui nous paraît très douteux: non seulement c’est le seul parmi les
dictionnaires consultés qui donne cette définition de saltare dalla gioia, mais les propriétés linguistiques de ces deux expressions sont les mêmes qu’on retrouve dans les autres
constructions du même type: saltare dalla gioia n’est pas plus figé que piangere dalla felicità (il existe dans les deux cas un petit paradigme de noms qui peuvent réaliser ce
complément) de même que saltare per la gioia accepte l’insertion d’un modificateur du
nom (saltare per la gran gioia) tout comme les autres compléments introduits par per.
21
Aux 5 verbes qui n’admettraient pas une ou deux prépositions selon le Devoto-Oli,
il faut ajouter le verbe irrigidirsi, pour lequel aucun dictionnaire n’offre d’exemples avec
la préposition di – voir tableau 2.
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guistique, une solution facile à adopter pour obtenir des réponses
certes approximatives, mais déjà révélatrices de l’état des questions
qui nous intéressent, est représenté par l’ensemble des textes en italien disponibles dans le web22. Par le truchement de Google, nous
avons donc interrogé ce corpus virtuel de la langue italienne pour relever systématiquement le nombre d’occurrences non seulement de
toutes les constructions répertoriées dans les cinq dictionnaires (palpitare d’amore) mais aussi de toutes les combinaisons entre les mêmes noms et les mêmes verbes que les dictionnaires ne signalent
pas, bien qu’elles soient théoriquement possibles (palpitare dall’amore; palpitare per l’amore). Ainsi pourrons-nous vérifier, premièrement si les six verbes indiqués ci-dessus excluent réellement l’emploi
de quelques prépositions, secondement si les noms de sensation ou
de sentiment que les dictionnaires proposent dans leurs exemples
(noms pour lesquels il n’existe donc aucune incompatibilité sémantique avec le verbe) peuvent être introduits indifféremment par di,
da ou per.
Pour obtenir des réponses suffisamment fiables, nous avons interrogé ce corpus virtuel de quatre manières différentes pour chaque
emploi à contrôler: 1) infinitif suivi du complément (palpitare d’amore); 2) présent de l’indicatif (3e pers. du singulier) suivi du complément (palpita d’amore); 3) imparfait (3e pers. du singulier) suivi du
complément (palpitava d’amore); 4) passé simple (3e pers. du singulier) suivi du complément (palpitò d’amore)23. De cette façon, on a
pu indiquer pour chaque construction prépositionnelle la somme des
occurrences relevées dans le corpus pour ces quatre formes de la
conjugaison verbale24.
22
Nous reprenons à notre compte la méthode de recherche mise au point par Morris Salkoff et André Valli (DELIC-Université de Provence) pour l’élaboration de leur Dictionnaire de la complémentation verbale en français (en voie de constitution).
23
La décision d’interroger le corpus non seulement pour le verbe au passé simple
mais aussi pour le verbe à l’imparfait tient à la nécessité de limiter au maximum les différences de fréquence relevant de la nature aspectuelle du verbe: en effet, avec un verbe imperfectif tel que tremare, l’imparfait est beaucoup plus fréquent que le passé simple; au contraire, avec un verbe perfectif tel qu’impallidire, c’est le passé simple qui est
plus fréquent que l’imparfait.
24
Nous n’avons pas contrôlé la fiabilité linguistique des sites où apparaissent les emplois relevés; en revanche, compte tenu que Google ne distingue pas les mots accentués
(palpitò d’amore équivaut à palpito d’amore), nous avons soigneusement distingué les
homographes – la seule exception étant le verbe urlare dont les expressions ambiguës
urla di dolore (14.800), urlò di dolore (17.800), urla di rabbia (1270) et urlò di rabbia
(467) ne permettent pas un contrôle manuel (mais le nombre exact d’occurrences de ces
emplois répertoriés dans plusieurs dictionnaires et très fréquents dans la langue courante n’a pas grande importance pour notre étude).
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Commençons par contrôler les emplois des six verbes qui semblent n’admettre qu’une seule préposition (palpitare di) ou bien
deux des trois prépositions (impallidire da+per, irrigidirsi da+per,
rabbrividire di+per, sbadigliare di+per, svenire da+per). Les réponses
ne sont pas univoques25: alors que pour trois verbes, le corpus du
web semble confirmer les indications des dictionnaires (on n’a que
trois occurrences pour palpitare dal desiderio, deux occurrences
pour svenire di fame et zéro occurrences pour irrigidirsi di N), le
nombre d’occurrences relevé dans le corpus du web pour les emplois a priori inadmissibles des trois autres verbes semble contredire
les indications des dictionnaires: impallidire di paura (27 exemples)
est bien plus fréquent qu’impallidire per la paura (2 exemples) répertorié dans le Treccani et dans le GRADIT; bien que deux des emplois répertoriés dans le Devoto-Oli, rabbrividire per il freddo (33) et
rabbrividire di paura (26), soient plus fréquents que les emplois de
ce verbe théoriquement exclus, le nombre d’occurrences relevé dans
le corpus pour rabbrividire dal freddo (23) et rabbrividire dalla paura (16) ne permet pas d’exclure d’une manière absolue cette construction; de même pour sbadigliare dalla noia (8) et sbadigliare dal
sonno (6) qui s’opposent respectivement à sbadigliare di noia (14),
répertorié dans le Treccani, dans le DISC et dans le Devoto-Oli, et à
sbadigliare di sonno (Ø), répertorié dans le Treccani et dans le Devoto-Oli, ou à sbadigliare per il sonno (5), répertorié dans le GRADIT
et dans le DISC.
Si nous considérons globalement les données relevées dans le
corpus du web, nous constatons que pour 25 emplois sur les 70 étudiés (35,7%), les prépositions absentes dans les dictionnaires sont
plus fréquentes que les prépositions répertoriées dans les dictionnaires26. Quelques cas parmi les plus intéressants: pour saltare di gioia,
on a relevé 477 occurrences contre les 145 occurrences de saltare
dalla gioia répertorié dans tous les dictionnaires; piangere dalla
disperazione est présent 104 fois contre les 46 occurrences de piangere di disperazione répertorié dans le Treccani; tremare dall’emozione a été relevé 80 fois contre les 60 occurrences de tremare per
l’emozione répertorié dans le GRADIT et dans le DISC; enfin, pour
25
Voir Annexe 3.
Pour 8 emplois sur les 70 étudiés (11,4%), le nombre d’occurrences dans le corpus est le même qu’on a relevé pour les emplois répertoriés dans les dictionnaires mais,
sauf sobbalzare di paura (Treccani et Devoto-Oli) et sobbalzare dalla paura dont on a
relevé 13 occurrences, dans les autres cas il s’agit toujours d’un ou de deux exemples,
ce qui empêche de déduire quoi que ce soit.
26
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impallidire di paura, emplois plus douteux, on a relevé 27 occurrences contre les 5 occurrences de impallidire dalla paura, emploi lui
aussi absent des dictionnaires, et les 2 occurrences de impallidire per
la paura répertorié, lui, dans le Treccani et dans le GRADIT. Il paraît
donc évident que pour plus d’un tiers des emplois étudiés, l’usage
courant ne semble pas respecter les indications des dictionnaires ou,
inversement, que les indications des dictionnaires, outre que lacunaires, semblent en retard sur l’évolution de la langue.
Dans d’autres cas, même si les emplois attestés dans les dictionnaires sont plus fréquents que les emplois qui n’y paraissent pas, ces
derniers atteignent tout de même dans le corpus un nombre d’occurrences très élevé, ce qui permet de déduire leur fréquence dans la
langue réelle. C’est le cas de piangere dalla gioia, dont on a relevé
349 occurrences contre les 1147 occurrences de piangere di gioia, répertorié dans le Treccani, dans le GRADIT et dans le Devoto-Oli; c’est
le cas aussi de piangere dalla commozione (125 exemples) et de
piangere per la commozione (89), même si l’emploi répertorié dans
le Treccani, piangere di commozione, reste le plus fréquent (179). Il
en est de même pour urlare dal dolore (359) et pour urlare per il dolore (191), même si l’emploi répertorié dans le GRADIT, dans le DISC
et dans le Devoto-Oli, urlare di dolore, est sans aucun doute le plus
fréquent27.
Mais si l’interrogation du corpus de la langue italienne dans le
web permet de vérifier que dans plusieurs cas les constructions qui
ne sont pas répertoriées dans les dictionnaires sont non seulement
possibiles mais aussi plus fréquentes que les constructions autorisées, cela ne signifie pas pour autant que tous les noms de sensation
ou de sentiment peuvent être régis indifféremment par les trois prépositions di, da et per: en effet, sur les 210 constructions prépositionnelles étudiées, 42 constructions, soit 20%, n’apparaissent pas dans le
corpus du web, ce qui n’implique pas qu’elles soient en principe
interdites28, mais certainement elles ne sont pas très utilisées dans la
langue réelle. Et comme «tout corpus ne représente que lui-même»29,
il a paru nécessaire de compléter les données collectées dans le web
27
Nous ne sommes pas en mesure de fournir le nombre exact des occurrences de
cet emploi dans le corpus web à cause de l’homographie qui affecte urla (nom et verbe)
et urlo (nom et verbe) – voir la note 24 ci-dessus.
28
Même 11 constructions répertoriées dans les dictionnaires n’apparaissent pas dans
le corpus du web, ce qui montre l’inopportunité de déduire de ces données des règles
trop rigides.
29
Cette phrase a été attribué à Maurice Gross par Cédrick Fairon lors de son intervention aux «Journées d’Hommage à Maurice Gross» organisées à Paris les 3 et 4 juin 2002.
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par un jugement de grammaticalité formulé par un groupe de locuteurs natifs.
3.2 Les réponses des locuteurs natifs au test de grammaticalité
Nous avons soumis à un groupe de 25 locuteurs natifs30 les 123
constructions prépositionnelles qui présentent les mêmes noms de
sensation ou de sentiment indiqués dans les dictionnaires (noms
pour lesquels il n’existe donc aucune incompatibilité sémantique
avec les verbes), mais qui ne sont pas attestées dans les sources lexicographiques. Il s’agissait donc, pour nos informateurs, de porter un
jugement de grammaticalité exclusivement sur l’emploi d’une certaine préposition en présence d’un certain verbe et d’un certain nom de
sensation ou de sentiment31.
Les résultats montrent la difficulté de porter un jugement sûr sur
ce type de constructions. Aucun exemple n’a fait l’unanimité des jugements. Les exemples pour lesquels les résultats positifs ou négatifs
dépassent 80% (ce qu’on peut considérer comme un jugement uniforme) ne sont que 24 sur 123, soit 19,5% – et de ces 24 exemples, 21
ont suscité un jugement positif et seulement 3 un jugement négatif 32.
Parmi les 21 exemples acceptés par un jugement positif uniforme, 17
constructions contiennent la préposition per, i. e. la préposition qui
forme sans aucun doute la structure la plus libre33, 3 constructions
30
Le groupe des 25 locuteurs a été constitué par 13 amis ou collègues (tous titulaires au moins d’un diplôme universitaire) et par 12 étudiants de l’université (tous titulaires au moins d’un diplôme de baccalauréat). Le petit nombre de nos informateurs n’a
pas permis d’interpréter les résultats du test en fonction de certaines données personnelles qui nous paraissent fort pertinentes, notamment l’âge, le parcours scolaire et la région de provenence de chaque locuteur interrogé.
31
Pour chaque exemple, nos informateurs avaient à leur disposition trois jugements
possibles: exemple agrammatical (*), exemple douteux (?) et exemple correct (!). Pour
rendre plus acceptables ces constructions, nous avons proposé des phrases simples avec
le verbe conjugué (Ida impallidì di paura; I suoi occhi scintillarono per la rabbia): on
sait en effet qu’un contexte approprié aide le locuteur dans ce type de jugement. On
peut toutefois faire remarquer que dans plusieurs dictionnaires les structures «V
(di+da+per) N» sont répertoriées avec le verbe à l’infinitif sans sujet (saltare dalla gioia),
ce qui n’empêche pas de reconnaître la construction comme tout à fait acceptable.
32
Ce qui est confirmé par les résultats globaux du test: sur les 3075 réponses que les
25 locuteurs ont données, les jugements positifs ont été 1581 (51,4%), les jugements douteux 658 (21,4%) et le jugement négatifs 836 (27,2%), ce qui montre une générale acceptabilité de ce type de structures syntaxiques.
33
Il s’agit des emplois suivants: fremere per la rabbia; impallidire per lo spavento;
palpitare per la passione; piangere per la commozione, per la contentezza, per il dispetto,
per lo sconforto; scintillare per la contentezza, per la rabbia, per la soddisfazione; sob-
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contiennent la préposition da (il s’agit dans les trois cas du verbe
piangere 34, ce qui semble indiquer l’importance de la fréquence dans
ce type de jugements) et seulement une construction contient la préposition di 35. En revanche, les trois exemples refusés par un jugement négatif uniforme contiennent tous la préposition di, sans aucun
doute la préposition la plus figée36.
Pour toutes les autres constructions (99 exemples, soit 80,5%), les
opinions des locuteurs ont été donc moins partagées, ce qui montre
une certaine difficulté à porter un jugement de grammaticalité sur
des structures syntaxiques qui sont dans la plupart des cas théoriquement possibles mais qu’on n’utilise pas fréquemment37. Il peut être
alors intéressant de vérifier l’opinion des locuteurs sur les six verbes
qui, selon les dictionnaires, n’admettraient qu’une seule préposition
(palpitare di) ou bien deux des trois prépositions (impallidire
da+per, irrigidirsi da+per, rabbrividire di+per, sbadigliare di+per,
svenire da+per). Là aussi, les réponses ne sont pas univoques: pour
deux verbes, irrigidirsi et svenire, une large majorité des locuteurs
(72%-96%) ont jugé agrammaticaux tous les emplois avec la préposition di, ce qui confirme les indications des dictionnaires et les données relevées dans le corpus du web; au contraire, pour palpitare
qui, selon les dictionnaires, ne devrait accepter que la préposition di,
la plupart des locuteurs (64%-80%) ont jugé correctes toutes les constructions avec la préposition per, alors que les constructions contenant la préposition da ont donné lieu à des résultats très différenciés
selon le nom qui réalise le complément: on va de palpitare dall’amore (8%) à palpitare dal desiderio (72%). Pour les trois autres verbes,
enfin, dont les emplois a priori inadmissibles avaient déjà été relevés
dans le corpus du web, les locuteurs ont porté des jugements très variés selon le nom qui réalise le complément: la structure impallidire
di est considérée comme correcte par seulement 12% des locuteurs si
le nom qui suit est spavento (impallidire di spavento) mais ce pourbalzare per la meraviglia, per la paura; sussultare per lo spavento; svenire per la fame;
tremare per il freddo, per la paura; urlare per il dolore.
34
Il s’agit des emplois suivants: piangere dalla contentezza, dalla disperazione, dalla gioia.
35
Il s’agit de brillare di contentezza.
36
Il s’agit des emplois suivants: irrigidirsi di freddo, svenire di fame, svenire di mancanza d’aria.
37
Il est intéressant de constater qu’au moment de rendre le test, la plupart de nos informateurs, qui n’étaient pas au courant de notre recherche, ont exprimé des impressions tout à fait semblables: 1) difficulté globale de porter des jugements; 2) sentiment
d’avoir improvisé leurs réponses sur la base du seul instinct; 3) sentiment que, s’ils
avaient à refaire le même test, ils donneraient souvent des réponses différentes.
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centage atteint 40% si le nom qui suit est paura (impallidire di paura); de même, on ne trouve que 16% des locuteurs favorables à rabbrividire di febbre mais ce pourcentage monte à 48% pour rabbrividire di freddo et arrive jusqu’à 52% pour rabbrividire di paura; enfin,
la construction sbadigliare da, jugée inadmissible par les dictionnaires, est en revanche considérée comme correcte par 48% des locuteurs si le nom qui suit est fame, par 60% si le nom qui suit est sonno, par 68% si le nom qui suit est noia. Excepté les deux emplois irrigidirsi di et svenire di, sur lesquels les trois différentes sources
consultées (dictionnaires, web et locuteurs) paraissent unanimes,
dans les autres cas il est donc difficile d’affirmer d’une manière absolue que les emplois jugés inadmissibles par les dictionnaires sont toujours agrammaticaux, leur acceptabilité dépendant beaucoup du nom
qui réalise le complément.
Une dernière considération est possible si l’on compare les résultats du test avec le nombre d’occurrences qu’on a repéré pour
chaque construction dans le corpus virtuel de la langue italienne: ces
deux données ne se correspondent pas toujours. Il arrive, par exemple, que 9 des 21 constructions acceptées par un jugement positif
uniforme soient ou bien absentes dans le corpus du web (4 cas)38, ou
bien présentes mais avec un nombre d’occurrences inférieur à celui
d’autres constructions prépositionnelles avec le même verbe et le même nom que les locuteurs ont considérées comme moins acceptables
(5 cas)39. Même si le web offre au chercheur un corpus immense, il
est impossible d’annuler la différence entre le niveau de la langue
(les potentialités du code linguistique évaluées par les locuteurs natifs) et le niveau de la parole (l’emploi réel d’une certaine structure
syntaxique).
4. Quelques propriétés des groupes prépositionnels italiens
Jusqu’à présent, on a considéré les trois groupes prépositionnels
italiens, «di N», «da N» et «per N», qui traduisent le groupe français «de
N» à valeur de cause, comme trois structures synonymes, dont on a
38
Il s’agit des emplois suivants: palpitare per la passione; scintillare per la contentezza, per la rabbia, per la soddisfazione.
39
Il s’agit des emplois suivants: fremere per la rabbia (84%-2 ex) / dalla rabbia
(68%-7 ex); piangere per la commozione (92%-89 ex) / dalla commozione (68%-125 ex);
piangere per il dispetto (84%-1 ex) / dal dispetto (32%-5 ex); sobbalzare per la paura
(96%-7 ex) / dalla paura (48%-13 ex); urlare per il dolore (88%-191 ex)/ dal dolore (76%359 ex).
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essayé de vérifier l’existence pour un petit corpus de verbes. Il faudrait maintenant se demander si ces trois groupes possèdent les mêmes propriétés: faute d’une étude spécifique sur ce type de complément italien, nous nous limiterons à quelques observations préliminaires40.
Commençons par les informations contenues dans les dictionnaires: parmi les six verbes qui n’accepteraient pas les trois prépositions,
sauf palpitare qui n’admettrait que di, les cinq autres verbes excluent
soit la préposition di (impallidire, irrigidirsi, svenire), soit la préposition da (rabbrividire, sbadigliare), la préposition per étant acceptée
par tous ces verbes problématiques. L’emploi plus libre de cette préposition paraît confirmé par les réponses des locuteurs à notre test:
parmi les 21 emplois acceptés par un jugement positif uniforme, 17
constructions contiennent précisément la préposition per, 3 constructions contiennent la préposition da et seulement une construction
contient la préposition di. Plus généralement, 19 informateurs sur 25
(soit presque 76%) ont considéré comme tout à fait correctes les 34
constructions avec la préposition per soumises à leur jugement, alors
que cette moyenne baisse à 12 informateurs (48%) pour les construc-
40
Luca Serianni précise dans sa grammaire que le complément de cause en italien «è
introdotto dalle preposizioni per, di, da, con» (1997: 509), la préposition da étant employée «in particolare per affezioni fisiche e sensazioni» (1997: 240). Dans son article sur da
(1976), Mario Wandruszka insiste sur le «parallélysme fonctionnel» (1976: 910) entre cette
préposition et d’autres prépositions italiennes: en ce qui concerne en particulier «da indiquant l’origine, la cause», Wandruszka confirme que «dans cette fonction il y a concurrence synonymique entre da, di et per» (1976: 914), sans pour autant donner des informations plus précises sur les propriétés des différentes structures. Dans leur article sur di
(1974), Parisi et Castelfranchi opposent la phrase Franco è morto di paura, dont la structure sémantique implique un prédicat (CAUSA) qui n’apparaît pas à la surface (la paura
est la cause de l’événement «Franco è morto»), à la phrase synonyme Franco è morto
da/per la paura où «il predicato CAUSA (…) viene normalmente lessicalizzato con
da/per» (1974: 246): pour Parisi et Castelfranchi, la préposition di serait en effet une préposition «vide» du point de vue sémantique et «costituirebbe una regola di proiezione puramente sintattica» (1974: 252-53). L’idée que la préposition italienne di serait caractérisée
par «il suo “poco significato”» (1972: 59) avait déjà été avancée par Lorenzo Renzi qui
avait précisé qu’«un caso o una preposizione si selezionano automaticamente solo se non
c’è verbo (…) Per la sete può diventare dalla sete e di sete solo se venga a dipendere da
certi verbi come gridare, morire, ecc.: per la sete // cercava un bar aperto dopo mezzanotte, ma gridava di (dalla, per la) sete. L’idea tradizionale di “complemento” (comportante la selezione automatica di caso e di preposizione o dei due) sussiste solo fuori dall’uso avverbiale; altrimenti sono i verbi che reggono» (1972: 62). Ce qui permet au moins
deux remarques: 1) quand di et da introduisent un complément de cause, ces deux prépositions seraient sélectionnées par le verbe, i.e. elles seraient des objets d’une sous-classe particulière de verbes; 2) seule la préposition per pourrait introduire un complément
de cause qui joue le rôle d’ajout à la phrase – ce qui n’est pas tout à fait exact.
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tions avec da et n’atteint pas 8 informateurs (31%) pour les constructions avec di. Toutes ces données semblent montrer que les compléments introduits par per sont jugés acceptables beaucoup plus facilement que les compléments introduits par les deux autres prépositions.
Or, la forme la plus commune que prennent les trois compléments qui peuvent traduire le groupe prépositionnel français «de N» à
valeur de cause est la suivante:
- di + Ø + N
- da + art det + N
- per + art (det+indet) + N
i suoi occhi scintillavano di gioia
i suoi occhi scintillavano dalla gioia
i suoi occhi scintillavano per la gioia
Le complément introduit par la préposition di paraît figé: en effet,
le plus souvent le nom de sensation ou de sentiment ne prend pas de
déterminant. Mais comme le montre bien un exemple attesté dans le
dictionnaire Treccani, «sussultò d’improvviso spavento», il ne s’agit pas
d’une règle grammaticale mais seulement d’un usage généralisé, le
nom régi par la préposition di pouvant en réalité accepter des modificateurs:
I suoi occhi brillarono di una gioia sinistra
E noi a saltare di una gioia beffarda e un po’ ridicola
Comincio a tremare di un freddo innaturale 41
Il n’en reste pas moins que le complément de cause introduit par
la préposition di doit nécessairement être sélectionné par un verbe,
comme l’avait déjà remarqué Lorenzo Renzi (1972: 62), ce qui implique sa position obligatoire à droite du verbe.
Le complément introduit par la préposition da paraît également figé: à la différence du complément introduit par di, la forme la plus
commune de ce complément prévoit la présence de l’article défini
devant le nom. Dans ce cas, les dictionnaires n’attestent pas la présence d’autres modificateurs. En revanche, ce complément de cause
n’est pas nécessairement sélectionné par un verbe, comme le supposait Renzi (1972: 62), mais il peut aussi jouer le rôle d’un ajout à la
phrase: en effet, «dalla rabbia» on peut accomplir n’importe quelle
action42:
41
Ces phrases sont tirées du corpus de la langue italienne disponible dans le web.
On retrouve là les verbes appartenant à la troisième classe envisagée par Leeman
(voir par. 1 ci-dessus).
42
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Dalla rabbia, ho spento il pc / ho deciso di andarmene / ho buttato via tutto…
Quand ce complément joue le rôle d’un ajout à la phrase, il peut
accepter des modificateurs:
Dalla gran rabbia / dalla gran gioia / dal gran freddo, ho spento il pc…
Ce qui ne permet pas d’affirmer d’une manière absolue que ce
complément n’accepte jamais de modificateurs quand il joue le rôle
de quasi-objet d’un verbe exprimant une réaction physique43.
Le complément introduit par la préposition per est sans aucun
doute le complément le plus libre: non seulement il accepte facilement des modificateurs, mais il peut aussi exprimer une cause qui ne
relève pas du domaine des sensations ou des sentiments. C’est pourquoi le dictionnaire Treccani présente, pour la construction piangere
per, cinq exemples sans solution de continuité: «piangere per il dolore,
per la rabbia, per la gioia; piangere per un torto subito; piangere per la
morte di una persona». Dans les deux derniers exemples, qui ne relèvent pas du domaine des sensations ou des sentiments, la préposition
per ne pourrait pas être remplacée par di ou par da. En outre, ce complément de cause peut facilement être déplacé dans la phrase pour
jouer le rôle d’un ajout indépendant du verbe44.
Ces quelques remarques montrent suffisamment que les propriétés qui opposent ces trois compléments prépositionnels à valeur de
cause sont beaucoup plus complexes qu’on ne pourrait le croire à
partir des seuls exemples proposés dans les dictionnaires.
5. Conclusion
Cette étude montre que la difficulté rencontrée par les traducteurs
italiens lorsqu’ils doivent traduire le groupe français «de N» à valeur
43
C’est ce que pourrait montrer une recherche spécifique sur ce type de complément de cause: non seulement la possibilité pour le groupe prépositionnel d’accepter un
modificateur quand il se trouve à droite du verbe mais aussi une liste détaillée des modificateurs possibles.
44
La différence d’autonomie qu’on perçoit entre les groupes «di N» et «per N» à valeur
de cause peut sans doute être comparée à la différence décrite par Giacomo Devoto entre les groupes «di N» et «con N» à valeur de manière: «il gruppo ‘inzaccherare-di-fango’
riesce a fondersi in una unità. La sostituzione ‘col fango’ avrebbe per risultato di scindere l’attenzione suddividendola fra un inzaccherare generico e un procedimento specifico
col fango» (Devoto: 1940, 106).
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de cause régi par un verbe qui exprime une réaction physique, est
bien justifiée. Les dictionnaires de la langue italienne paraissent en
effet non seulement lacunaires sur les relations qui existent entre le
verbe, les prépositions et les noms, mais aussi douteux quand ils prétendent donner des indications explicites sur ces relations. On a vu
que pour les six verbes de notre corpus pour lesquels le dictionnaire
Devoto-Oli affirme l’impossibilité de régir une ou deux prépositions,
les recherches effectuées dans le web ainsi que les jugements des locuteurs natifs semblent étendre, même si à des degrés différents, les
possibilités syntaxiques. Les données collectées dans le web montrent d’ailleurs que dans plusieurs cas les emplois qui ne sont pas attestés dans les dictionnaires sont plus fréquents que les emplois attestés, de même que les réponses des locuteurs natifs prouvent l’importance du nom qui réalise le complément pour juger de la grammaticalité de la construction.
Si nous voulions essayer de donner une réponse aux deux questions que nous avons posées au début de cette étude, nous pourrions donc affirmer que 1) tous les verbes italiens qui expriment une
réaction physique n’acceptent pas les trois prépositions di, da et per
(*svenire di, *irrigidirsi di), même si les possibilités syntaxiques de
ces verbes sont plus étendues qu’on ne le croirait à partir des renseignements des dictionnaires; 2) tous les noms de sensation ou de sentiment n’acceptent pas les trois prépositions, même si certains groupes prépositionnels absents dans les dictionnaires sont très fréquents
dans la langue réelle.
C’est précisément à la notion de fréquence que nous voudrions
consacrer notre dernière réflexion: les données collectées ainsi que
les commentaires de nos informateurs nous poussent à croire que la
fréquence d’emploi joue un rôle primordial dans le jugement de
grammaticalité d’une construction. Quand la construction est assez
fréquente pour être considérée comme «normale», il suffit de l’infinitif suivi du complément (saltare dalla gioia) pour percevoir sa grammaticalité; au contraire, quand la construction est assez rare pour empêcher une reconnaissance automatique au locuteur, même si le nom
qui réalise le complément est accepté dans une autre construction du
même verbe, on doute facilement de sa grammaticalité. Cette hésitation apparaît de façon très claire en présence d’un paradigme de
noms quasi-synonymes: comment expliquer, par exemple, les différences au niveau des occurrences dans le web ainsi qu’au niveau des
jugements des locuteurs pour les trois constructions quasi-synonymes saltare di allegria, di contentezza, di gioia, si ce n’est que par
leur fréquence d’emploi? Comme saltare di gioia est très fréquent, les
occurrences dans le corpus sont nombreuses et les jugements des lo-
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cuteurs positifs; viceversa, comme saltare di allegria et saltare di
contentezza sont plutôt rares, les occurrences sont peu nombreuses
et les jugements douteux. Ce qui rend impossible pour les dictionnaires – il faut l’admettre – de rendre compte de manière exhaustive de
ce type de constructions: si l’on ne peut pas établir des sous-classes
de noms au comportement prévisible, la seule solution serait de
dresser des listes de noms, chacun accompagné de l’indication des
prépositions acceptées ou réfusées, ce qui dépasse largement les
possibilités d’un dictionnaire courant.
Le désarroi du traducteur face aux résultats aléatoires de ses recherches montre encore une fois qu’«il est bien hasardeux de prêter
une rationalité et une finalité aux langues»: dans le domaine des
groupes prépositionnels à valeur de cause, «comme ailleurs, se manifeste l’arbitraire du langage: on peut toujours rationaliser les phénomènes a posteriori, mais aucune solution n’était prévisible» (Gardes
Tamine: 2004, 196). C’est que le principe qui nous guide dans notre
emploi de la langue ainsi que plus en général dans notre vie n’est
pas la raison mais l’habitude:
«It is not, therefore, reason which is the guide of life, but custom»45.
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DIF. Dizionario Francese Italiano - Italiano Francese (2000), version
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électronique sur cd-rom, Paravia Bruno Mondadori, Milano.
Dizionario Interattivo Garzanti francese-italiano italiano-francese
(2003), version électronique sur cd-rom, Garzanti, Milano.
DICTIONNAIRES UNILINGUES ITALIENS
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der Italienischen Verben. Konstruktionen, Bedeutungen, Übersetzungen,
Ernst Klett Verlag, Stuttgart, Düsseldorf, Leipzig.
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sous la dir. de Francesco Sabatini et Vittorio Coletti, Rizzoli Larousse,
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GRADIT. GRAnde Dizionario ITaliano dell’uso (2000), version électronique sur cd-rom, sous la dir. de Tullio De Mauro avec la coll. de G.
C. Lepschy et de E. Sanguineti, Utet, Torino.
Il Vocabolario Treccani (1997), version électronique sur cd-rom, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma.
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Antonella Leoncini Bartoli
L’USAGE DU PROCÉDÉ DE LA RÉPÉTITION LEXICALE DANS UN
CORPUS DE DOCUMENTS DE DROIT COMMUNAUTAIRE SUR LA
SOCIÉTÉ DE L’INFORMATION: OPTION DE TRANSPARENCE OU
ÉLÉMENT D’OPACITÉ DANS LA RÉCEPTION DU MESSAGE?
“Le parole non hanno infatti significati assoluti e
permanenti, ogni parlante, ogni volta che usa
un’espressione le assegna un significato specifico
irripetibile”
SACCO, R. (1989: 31)
Prémisses
1. Pourquoi la répétition? Tout d’abord à cause de l’évidence et de
l’omniprésence de ce phénomène dans les différents actes, activités, objets et supports de la vie quotidienne, phénomène qui s’est
amplifié ces dernières années par l’évolution de plus en plus rapide des nouvelles technologies et du numérique. La langue et le
droit étant deux systèmes fortement structurés et en permanente
évolution tous deux témoignent de ces innovations et recourent à
la répétition sous diverses formes. Cette constatation nous a induite à analyser la répétition lexicale dans un corpus centré sur
trois Directives de l’Union européenne (UE) – les Directives
2000/31/CE, 2001/29/CE et 2004/48/CE – dans leurs versions en
français, en italien et en anglais1. La langue et le droit sont ici liés
1
Directive 2000/31/CE du Parlement européen et du Conseil du 8 juin 2000 relative à certains aspects juridiques des services de la société de l’information, et notamment
du commerce électronique dans le marché intérieur (“directive sur le commerce électronique”); Directive 2001/29/CE du Parlement européen et du Conseil du 22 mai 2001 sur
l’harmonisation de certains aspects du droit d’auteur et des droits voisins dans la société de l’information; Directive 2004/48/CE du Parlement européen et du Conseil du 29
avril 2004 relative au respect des droits de propriété intellectuelle. La Directive est l’un
des instruments juridiques communautaires. C’est un acte à caractère contraignant qui
“lie l’Etat membre quant aux résultats à atteindre. La directive nécessite une transposition dans le cadre juridique national et laisse une marge de manoeuvre quant à la forme
et aux moyens de la mise en œuvre” (Europa Glossaire). Dans l’optique d’une simplification de la typologie des actes communautaires les directives correspondent à des
“lois-cadres” (Europa Glossaire). Elle a également la caractéristique d’être un instrument
souple qui s’accorde aux sujets traités dans ce corpus.
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afin d’appréhender, en les nommant et en les normant, les plus
récentes réalités technologiques et numériques au sein de la société de l’information. Ils instaurent un ordre juridique commun
visant à “harmoniser”2 les législations nationales de façon à les
rendre compatibles avec le fonctionnement d’un marché unique à
l’intérieur de l’UE et à prévoir et à limiter les risques et les atteintes possibles.
2. Pourquoi la répétition dans un corpus de directives de l’UE? Parce que le choix d’analyser, dans une optique de traduction, différentes versions linguistiques d’un même document: trois directives qui émanent d’une organisation supranationale multiculturelle et multilingue (comptant 23 langues officielles au 1er janvier
2007) au sein de laquelle chaque version linguistique a le même
statut juridique et une valeur d’authenticité égale, représente un
cas de répétition d’un même message normatif sous des formes
linguistiques différentes: ‘‘un même droit peut s’exprimer en plusieurs langues’’ (Cornu: 2005, 5). Répétition et traduction apparaissent donc comme étroitement liées. De surcroît, dans le cas de
l’UE tout spécialement, les outils d’aide à la traduction TWB
(Translator’s Workbench) et Euramis (European Advanced Multilingual Information System) se basent sur la constitution d’une
“mémoire de traductions” exploitant le phénomène de la répétitivité.3
2
Le terme ‘harmonisation’, d’emploi fréquent dans notre corpus, est défini dans
l’Eurojargon ou terminologie officieuse couramment utilisée par le personnel des institutions de l’UE et par les médias comme: “le fait de rapprocher les différentes législations nationales les unes avec les autres, très souvent dans le but de supprimer les barrières nationales qui entravent la libre circulation des travailleurs, des biens, des services
et des capitaux (…) Le terme ‘harmonisation’ peut également faire référence à la coordination des normes techniques nationales afin que les échanges de marchandises et de
services puissent s’effectuer librement dans l’ensemble de l’Union européenne (…)”.
3
Sur le site Europa dans la brochure “Multilinguisme et traduction” on peut lire: “la
cohérence de la terminologie est garantie par l’utilisation de mémoires de traduction et
de bases de données de la terminologie essentielle liée aux activités communautaires”
comme le TWB qui permet d’exploiter la répétitivité en recherchant dans des textes antérieurs “des segments identiques ou similaires” au texte à traduire pour permettre “des
gains de temps” et afin de “renforcer la cohérence terminologique, ce qui est essentiel
pour les textes législatifs”. D’autre part les termes “traduction” et “répétition” sont tous
deux polysémiques car ils désignent à la fois l’opération – action de traduire ou de répéter – et le produit résultant de cette action ou processus. Dans le contexte dont il est
question ici on assiste à la fois à la répétition d’un même message en différentes langues, à la répétition de l’acte traduisant et à la répétition du contenu normatif lors de la
transposition, là où elle s’avère nécessaire, de l’acte dans la législation nationale d’un
Etat membre de l’UE.
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3. En troisième lieu notre choix de réfléchir sur la figure de la répétition lexicale est dicté par le fait qu’elle constitue un des traits caractérisant la tradition orale et écrite de la langue juridique4. Figure qui, dans une optique de prise en compte des destinataires5,
est perçue comme apte à garantir clarté (non-ambiguïté) et précision souvent technique au message normatif comme en témoignent les campagnes de simplification de la langue juridique et
de la langue de l’administration conduites dans le cadre de l’UE
ainsi que dans différents Etats membres de la Communauté6. De
4
Depuis les termes et ‘formules’ ritualisées – aujourd’hui ressenties comme archaïsantes – qui instituaient une nation, jusqu'aux formules stéréotypées de la langue de l’administration et aux ‘formules solennelles’ parfois présentes dans le Préambule d’un acte
communautaire (Guide pratique commun du Parlement européen, du Conseil et de la
Commission, 7.2). Il est important, à ce propos, de relever ‘l’abus’ en langue juridique de
procédés linguistiques apparentés à la répétition, les “figures de répétition” de la rhétorique classique de type macrostructural comme la paraphrase et la redondance analysées
par Gotti (1991: 39-42) et Cornu (2005: 328), la tautologie, ou de type microstructural
comme l’anadiplose, l’épanadiplose, l’épanaphore, l’anaphore, l’épiphore, entre autres,
citées par Mortara-Garavelli (1979: 62) qui ne seront pas prises en considération ici.
5
Bien que les destinataires explicitement nommés d’une directive soient les Etats
membres il existe certains cas d’applicabilité directe analysés par Costanzo, Mezzetti,
Ruggeri (2006: 255). Par ailleurs, l’UE conduit une politique d’information et de ‘rapprochement communicatif’ à l’intention des citoyens et on remarque une prise en compte
explicite des destinataires dans divers documents et tout particulièrement dans le Guide
pratique commun: “Afin que la législation communautaire soit mieux comprise et correctement mise en œuvre, il est essentiel de veiller à sa qualité rédactionnelle. En effet, pour
que les citoyens et les opérateurs économiques puissent connaître leurs droits et obligations et les juridictions, les faire respecter, et pour que, là où elle s’impose, une transposition correcte et dans les délais soit effectuée par les Etats membres, les actes adoptés
par les institutions communautaires doivent être formulés de manière intelligible et cohérente, et suivant des principes uniformes de présentation et de légistique.” (2000: Préface). De même que dans le Guide pratique commun il est fait référence par exemple à
“tout producteur de pommes” (ligne directrice 8.2) ou encore au “constructeur ou propriétaire d’un véhicule” (ligne directrice 13.3). Il est donc important de souligner la politique de l’UE conduite dans le sens d’une plus large accessibilité de la législation communautaire à l’intention d’un destinataire pluriel, différencié, et non-spécialiste.
6
Pour ce qui concerne les trois langues qui nous intéressent ici - français - italien anglais, nous nous limiterons à citer les principaux ‘mouvements’. Pour le domaine anglophone, la Plain English Campaign (1983) et la Réforme du langage du droit en Angleterre (Gotti: 1991, 28-31). Pour le domaine français et francophone, consulter “Accessibilité et simplification du langage du droit” dans l’introduction à l’ouvrage fondamental de
Cornu (2005: 8-10) dans lequel figurent des références à des articles et à des essais français et francophones ainsi que les textes rédigés par l’Association du Barreau Canadien
(1990), “Mort au charabia”, Rapport du comité mixte sur la lisibilité juridique, Ottawa
ainsi que les articles suivants: Ivainer, T. (1983) “Qu’est-ce qu’un texte clair?”, Le droit en
procès, Paris, PUF, Leys, M. (2000) “Ecrire pour être lu: comment rédiger des textes administratifs faciles à comprendre”, Bruxelles, Ministère de la Communauté française de Belgique, Service d’information, ou encore pour la Suisse le Guide de législation, guide pour
l’élaboration de la législation fédérale (2002). Pour ce qui concerne l’Italie consulter Fio-
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plus, la répétition, facteur essentiel de cohésion textuelle et de
cohérence interne et externe, revêt un aspect pragmatique et une
valeur performative aptes à garantir l’efficacité du contenu normatif véhiculé, finalité principale de tout acte à caractère contraignant.
Introduction
La répétition lexicale constitue une option apparemment simple
mais en réalité extrêmement variée et complexe en traduction spécialisée. En effet, elle implique la prise en compte de phénomènes
qui lui sont corrélés, aux contours difficiles à systématiser, comme
celui de la synonymie avec lequel elle alterne – voire même se trouve en opposition d’emploi – ou celui de la polysémie qui caractérise
tout particulièrement la langue et la pensée juridiques (Cornu: 2005,
88-116). Phénomènes qui affectent inévitablement la réception du
message7. C’est pourquoi dans une optique de traduction qui tienne
compte du destinataire du message normatif nous allons dans un
premier temps tenter de définir le procédé de répétition lexicale d’après quelques unes des principales approches linguistiques et disci-
ritto, A. (1997) Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche; Franceschini, F. e Gigli, S. (a cura di) (2003) Manuale di scrittura
amministrativa, Roma, Agenzia delle Entrate. Dipartimento della Funzione Pubblica, Bologna, Il Mulino; la Direttiva sulla semplificazione del linguaggio delle Pubbliche amministrazioni (2005) publiée par la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, Roma, de même que les travaux de la REI (Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale). Pour ce qui est de la politique de simplification en contexte UE
consulter l'excellent ouvrage de Cosmai (2003: 60-61).
7
A’ titre d’exemple voir le cas du terme polysémique anglais “lines” s’opposant aux
termes correspondants dans les autres versions linguistiques de la Directive 85/337/CE
du 27 juin 1985 dans une reconstruction littérale présentée par un Etat membre pour sa
défense et analysé dans la revue Diritto comunitario e degli scambi internazionali (2006:
457-466). L’auteur du commentaire à la sentence rendue précise dans la note 9, p.460:
“La debolezza di tale ricostruzione letterale della previsione risulta tanto maggiore ove si
consideri che la stessa versione spagnola del punto 7 dell’allegato I della direttiva fa riferimento a ‘vìas’ come pure la versione italiana parla di ‘vie’, la versione portoghese di
‘vias’ e la versione francese di ‘voies’, e come soltanto la versione inglese, proprio quella citata dal Regno di Spagna, possa generare confusioni. Al riguardo la Commissione
aveva contrapposto in un’udienza una definizione dell’Oxford Dictionary della parola ‘line’ quale via, binario e non tratta ferroviaria di collegamento tra due località”. L’auteur
conclut: “(…) la Corte conferma che una versione linguistica di un determinato concetto
deve essere interpretata e applicata non isolatamente bensì alla luce delle versioni vigenti nelle altre lingue, conformemente alla previsione dell’art. 314 del Trattato secondo cui
tutte le versioni fanno fede”.
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plinaires qui en ont traité – de la rhétorique classique, à la grammaire et à la linguistique textuelle ainsi qu' à quelques travaux consacrés
aux langues de spécialité –, afin de construire un tableau synthétique
des avantages et des inconvénients de son usage. Dans un second
temps, nous allons passer à l’exemplification de ce procédé par l’observation et l’analyse de son utilité dans le corpus sélectionné puis à
sa mise en question pour aboutir à la constatation que la répétition
peut parfois être perçue comme un obstacle à la réception «simple,
claire et précise» requise, ainsi qu’en témoignent les lignes directrices
arrêtées par le Parlément européen, le Conseil et la Commission et
publiées sous le titre: Guide pratique commun (2000: 1.1)8.
I. Principales définitions et typologies de la répétition: avantages et inconvénients de son usage
La rhétorique classique avait déjà énuméré les différentes typologies et modalités de fonctionnement de la répétition comme en témoigne – entre autres – Pierre Fontanier dans son livre sur les Figures autres que les tropes (1827) faisant suite à son célèbre Manuel
classique pour l’étude des Tropes de 1821: “la répétition consiste à
employer plusieurs fois les mêmes termes ou le même tour, soit pour
le simple ornement du discours soit pour une expression plus forte
et plus énergique de la passion” et il ajoute: “comme elle peut avoir
lieu de plusieurs manières, et se présenter sous plusieurs aspects différents, on a cru devoir la subdiviser en autant d’espèces désignées
par autant de noms” (1977: 329). Ce qui d’emblée frappe le lecteur
dans l’article que Fontanier consacre à la répétition c’est la variété
des “manières”, “aspects différents” et “espèces” qui la caractérisent
8
La présente étude s’insère dans une recherche plus ample portant sur la traduction
des langues de spécialité. Notre réflexion vise à mettre en évidence la nécessité pour
toute traduction dans ce contexte multilingue et multijuridique d’un projet de traduction
global et systématisé. Après une réflexion sur les points de rencontre et d’intersection
entre les concepts de synonymie et de traduction (“Synonymie et traduction” in Adamo,
M.G. e Radici Colace, P. (a cura di) (2006) Synonymie et “differentiae”: théories et méthodologies de l’époque classique à l’époque moderne. Atti del convegno Internazionale, Roma-Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 359-367); nous avons traité, dans une optique d’application sur un corpus spécialisé, de l’importance de la cohésion et de la cohérence telles qu’elles figurent dans les différentes versions d’un même texte à valeur
normative (“Transparence linguistique/transparence juridique: le cas de deux Directives
de l’Union Européenne sur la propriété intellectuelle” in Jullion, M.-C. e Manderieux, L.
(a cura di) (2008) Mediare e rimediare: la contraffazione nella prospettiva franco-italiana ed internazionale, Roma, Aracné pp. 194-216).
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et par conséquent, des dénominations existantes. L’auteur relève,
dans l’occurrence de ce procédé dans la littérature classique et noble,
l’importance du positionnement des répétitions dans le discours ainsi que les motifs de leur emploi (énergie, dignité, passion, force,
idée). Nous retenons, aux fins de cette étude, les caractères d’‘accentuation’: “intérêt plus marqué”, “ajouter et faire ressortir quelque
idée”9, et de ‘mise en relief’ c’est-à-dire la volonté de conférer un caractère ‘saillant’ à un mot ou à un groupe de mots10. Vinay et D’Arbelnet dans leur célèbre Stylistique comparée du français et de l’anglais précisent ultérieurement, par contraste plutôt que par comparaison, l’usage de la répétition dans ces deux langues: à l’aspect successif et descriptif de l’anglais ils opposent l’abstraction et la vision plus
synthétique et compréhensive du français11. Toujours dans le domaine des études de stylistique et de rhétorique, Perelman et OlbrechtsTyteca dans leur Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique
de 1958, décrivent la répétition comme une figure de la présence,
importante en argumentation (1989: 184-185) et recupèrent les caractères d’accentuation/valorisation et d’intensité croissante de la répétition (1989: 152, 527) hérités de la rhétorique classique.
Cette intention de valorisation ainsi que le rôle joué dans l’argumentation répondent à une stratégie d’élocution, propriété que Georges Molinié relève, bien plus récemment, dans son Dictionnaire de
rhétorique (1992: 291-292), définissant la répétition comme une “figure de type microstructural, particulièrement à l’oeuvre dans les figures d’élocution et même dans celles de construction”. Il la définit
“la plus puissante de toutes les figures: en réalité, dès que l’on passe
à la question des contenus textuels, on déborde la limite microstructurale propre à la nature de la figure, qui peut dès lors servir de base
formelle éventuelle à des figures macrostructurales. Pratiquement, la
9
Souligné par nos soins. Les bribes de citations figurant ici sont tirées de Fontanier
(1977: 330-331). Cette étude n’a aucune prétention d'exhaustivité c’est pourquoi les auteurs cités sont uniquement ceux que nous avons jugés utiles à la construction de notre
tableau évaluant les avantages et les inconvenients de l’emploi de la répétition dans le
contexte dont il est question ici.
10
La dialectique entre synonymie et répétition se situe justement entre une identité
ou plus souvent similarité du signifié mais non du signifiant pour la synonymie et une
identité de signifié, de signifiant et de référent pour la répétition. Il n’est pas étonnant
que Fontanier classe la répétition tout comme la synonymie dans les “figures d’élocution
par déduction” autres que les tropes puisque les deux sont aptes à ‘construire’ logiquement le texte et à être reconnues comme telles par le lecteur.
11
“(…) tendance de l’anglais à se calquer sur le réel. C’est en effet épouser le réel
que de marquer les étapes d’un procès en les énumérant au lieu de les embrasser d’un
seul mot comme le fait le français” (1971: 150).
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reprise qui définit la répétition peut toucher le son (lettre, syllabe), le
mot, le groupe de mots, la phrase, le paragraphe, le texte entier ou
encore l’idée” et il lui accorde une importance fondamentale en
concluant: “La répétition est donc la figure qui conditionne tout discours”. Nous retenons ici les divers niveaux de fonctionnement possible de la répétition ainsi que sa participation à la construction du
texte. En effet, par delà les études de rhétorique – ayant pour objet
principal d’analyse le domaine littéraire –, la grammaire de texte fonde ce dernier sur les deux règles de cohérence qui sont: la règle de
répétition assurant la continuité thématique et la règle de progression
introduisant des éléments d’information nouveaux.12
Les critères fondamentaux de cohésion et de cohérence, dont la
répétition est un des facteurs essentiels, sont approfondis et illustrés
– entre autres – par les études de linguistique textuelle de De Beaugrande et Dressler (1994: 64, 70-101). La répétition est l’une des “realizzazioni alternative della ricorrenza” (Mortara Garavelli: 1979, 65) à
l’instar de l’emploi d’hyperonymes et d’hyponymes, de synonymes,
de pronoms anaphoriques13 ou de termes généraux. Elle se caractérise par une identité formelle, sémantique et de référent qui lui est
propre et la distingue des autres types de récurrence. Mortara Garavelli (1993: 387) distingue la répétition en tant que manifestation du
parallélisme d’éléments étudiée par la rhétorique. Cornu (2005: 325326) relève qu’elle caractérise le style législatif en tant qu' élément de
cohésion intéressant la linguistique textuelle et la pragmatique. Dans
ce sens, la répétition figure également citée dans Les termes clés de
l’analyse du discours (Maingueneau: 1996, 17) et fait ainsi le lien entre grammaire, linguistique textuelle et analyse du discours “discipline qui, (…) vise à articuler son énonciation sur un certain lieu social.
Elle a ainsi affaire aux genres de discours à l’œuvre dans les secteurs
de l’espace social (…) ou dans les champs discursifs (politique,
scientifique…)” (1996: 11). Le domaine d’enquête n’est plus uniquement le texte littéraire mais rejoint l’espace social et les discours spécialisés. Par l’analyse de la cohésion qui considère le texte comme un
enchaînement, une texture, – concept hérité de Halliday et Hasan
(1976: 2) qu’il cite –, Maingueneau définit le concept de cohérence
comme “devant être rapporté à une intention globale, à une visée
12
Nous nous référons, entre autres, à Riegel Pellat Rioul (1994: 603-604) qui ajoutent
une troisième règle de cohérence, celle de non-contradiction entre les éléments du texte.
13
Le terme ‘anaphore’ qui désigne un phénomène complexe a des acceptions différentes en rhétorique et en grammaire et linguistique textuelles de même que suivant les
auteurs qui emploient cette notion (Riegel Pellat Rioul: 1994, 610-616).
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illocutoire attachée à son genre de discours. (…) La cohérence passe
aussi par l’identification du thème du texte, de quoi il traite, à l’intérieur d’un certain univers (fictif, historique, théorique,…)” (1996: 1617). Visée illocutoire importante en langue du droit qui convoque
une des notions-clé de la pragmatique linguistique, celle d’acte de
langage14, acte d’énonciation performative exemplifié dans ce
contexte par les incipit du préambule et du dispositif de la directive
2004/48/CE: “Le Parlement Européen et le Conseil de l’Union européenne (…) ont arrêté la présente Directive: (…)” visant à produire
des effets et, en premier lieu, sa transposition dans la législation de
chaque Etat membre quant aux résultats à atteindre dans le domaine
déterminé par la directive en question.
L’intérêt pour la répétition manifesté dans les travaux consacrés
aux langues spécialisées fait relever à Scarpa (2001: 33) que ce procédé est un trait caractérisant leur structuration textuelle et rhétorique et qu’il constitue un lien de cohésion au niveau sémantique
tout en étant un principe d’économie: “La ripetizione ricorre con
maggiore frequenza nei testi specialistici rispetto alla lingua comune
perché agevola la concettualizzazione del messaggio e quindi, in una
prospettiva costi/benefici, è un meccanismo testuale economico in
termini di costi per i destinatari”. Pour ce qui est des études portant
sur la langue juridique et de l’administration en particulier, Sabatini
(1990: 689-690, 698) classe la répétition de mots-clés comme un type
de lien sémantique constituant le réseau de cohésion du texte et
dans sa Tabella per l’analisi dei testi elle figure comme un trait caractérisant les textes à valeur contraignante (textes scientifiques, juridiques et techniques). De même Gotti (1991: 106-107) affirme que
“/nei testi di tipo legale/ si preferisce ricorrere comunemente alla ripetizione lessicale” pour des raisons de “esigenza di massima chiarezza” et de “forte volontà di eliminare qualsiasi fonte di ambiguità”.
Dans le contexte de l’Union européenne on peut lire dans le Formulaire des Actes établis dans le cadre de l’Union européenne (2005:
98): “Les termes juridiques recouvrent des notions précises. C’est
pourquoi il importe d’employer le même terme pour la même notion
ou le même objet et, d’autre part, de ne pas donner à un concept,
dans l’une ou l’autre langue, une interprétation extensive ou restrictive”. Ce même texte ajoute plus loin: “Les articles et les paragraphes
14
Consulter les entrées “acte de langage” et “pragmatique” (Maingueneau : 1996, 1011, 65-66). Pour ce qui est des langues spécialisées Lerat affirme: “La notion de langue
spécialisée est plus pragmatique: c’est une langue naturelle considérée en tant que vecteur de connaissances spécialisées” (1995: 20).
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étant des unités autonomes en soi, les répétitions de termes d’article à
article ou de paragraphe à paragraphe, de même que des références
complètes, sont utiles et souvent même indispensables pour la clarté
du texte”15.
Notre intention est celle d’analyser uniquement la répétition totale – réplique ou “effet copie” selon Simone (1990: 72) auteur cité par
Mortara Garavelli (1993: 387-388) –, reprise identique d’un terme,
d’un syntagme, d’une phrase à l’intérieur d’un considérant ou encore
d’un point d’un article du dispositif de la directive. C’est à cette fin
que le tableau récapitulatif des avantages et des inconvénients du recours à la répétition16, présenté ici, a été construit en tant qu’ instrument auxiliaire à la réflexion et à la pratique pour la rédaction et la
traduction de textes juridiques et administratifs en particulier dans le
contexte de l’UE. Les propriétés énumérées dans chaque colonne
sont liées et interdépendantes et peuvent donc être simultanément
présentes et à l’origine de la motivation de répéter comme nous le
verrons dans la deuxième partie de l’article.
15
De même, on peut lire dans le Guide pratique commun: “(…) le même terme est
donc à utiliser de manière uniforme si on veut dire la même chose, et un autre terme
doit être choisi pour exprimer une notion différente” (2000: 6.2).
16
Pour l’élaboration de ce tableau nous nous sommes servie des remarques de Sabatini (1990), Gotti (1991), Mortara Garavelli (1993), Lerat (1995), Scarpa (2001), Cornu
(2005) aussi bien que de nos propres observations dérivant de l’expérience didactique
de traduction de corpus spécialisés en contexte multilingue et multijuridique. Ce tableau
tient compte de la réception du message à la fois par des spécialistes et par des non-initiés.
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AVANTAGES DE LA REPETITION
INCONVENIENTS DE LA REPETITION
1. Clarté, non-ambiguïté sémantique,
identité/intégrité de signifiant et signifié.
Figure microstructurale d’élocution (rhétorique).
1. Risque d’opacité ou de fourvoiement
du sens (ambiguïté de repérage du référent ou présomption de volonté d’atteindre un but différent) en particulier dans
les cas suivants:
1.a. irréductibilité du terme de spécialité
porteur de notion(s) juridique(s), par
conséquent non compréhension du terme lors de sa 1ère occurrence alors
qu’un autre type de récurrence: un synonyme ou une périphrase en reformulant
le concept pourraient le clarifier (nécessité d’une maîtrise des notions juridiques
et de leur formulation aussi bien que de
la connaissance de la littérature juridique
(intertextualité);
1.b. redéfinition du/des terme(s), dans le
même texte due à la polysémie, à l’abstraction (sens propre/sens figuré) de la
notion ou faisant référence à une réalité
changeante ou complexe (l’utilisation
d’un même terme pourrait constituer une
sous-traduction donc manquer de précision);
1.c. reprise de termes, passages ou articles d’autres textes juridiques de base de
l’UE, car ces répétitions insérées dans un
autre co(n)texte pourraient en remettre
en question le résultat ou créer une présomption en ce sens (Guide pratique
commun, ligne directrice 12).
2. Précision, surtout en cas de terme 2. Rigidité qui s’ajoute à la rigidité de
l’emploi technique. Fixité signifiant/sitechnique.
gnifié dans le cas de notions juridiques
devant s’appliquer à des situations et à
des contextes différents ou complexes et
qui nécessitent de champs sémantiques
ouverts. Difficulté à couvrir/contempler/prévoir une aire sémantique aux
contours flous ou abstraits, à établir des
relations entre objets et faits différents.
3. Cohésion textuelle qui assure une 3. Pesanteur stylistique (dérivant égalecontinuité thématique (figure micro- ment de la complexité de la matière juristructurale de construction et d’élocu- dique elle-même).
tion en rhétorique avec toutes ses variétés: anaphore, épanaphore, épiphore).
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4. Cohérence logique interne et externe
17
(intertextualité caractérisant le(s) texte(s) législatif(s), prise en compte de la
globalité du/des système(s) juridiques
ainsi que de leurs interrelations). Rigueur du raisonnement.
4. Importance de sa pertinence par rapport au contexte linguistique et culturel
(connotation(s) dans le cas de mots
polysémiques).
5. Accentuation, valorisation, mise en
évidence de concepts-clé et par conséquent de l’intention de l’émetteur. Aide à
la mémorisation de ces mêmes
concepts-clé ou à la familiarisation avec
de nouveaux concepts.
5. Uniformisation stylistique sur un modèle dominant souvent le texte-base ou
la langue de travail.
6. Immédiateté dans la reconnaissance
du référent et dans sa conceptualisation
(sauf pour les cas d’opacité: 1a; 1b des
inconvénients).
6. Intertextualité17 qui renvoie l’explicitation du référent à d’autres textes, supposés connus.
7. Concision et solution d’économie si
en concurrence avec une périphrase ou
une définition/explicitation.
7. Redondance (conséquence du point
3) qui risque de voiler le référent.
8. Valeur symbolique de fondation et de
conservation, de tradition (formules juridiques,
cérémonielles),
de
pérennité/continuité dans l’histoire, caractère
conventionnel,
solidité,
fiabilité/sécurisation. Critère de prévisibilité pour le destinataire.
Marque d’oralité. Dans les interactions
verbales peut révéler une disponibilité à
la négociation ou à l’accord avec l’interlocuteur (alors que la paraphrase mar18
querait le contraire) .
17
Le concept d’intertextualité figure dans les deux colonnes à la fois. En effet, si un
mot, un syntagme, un considérant ou un article se trouve être répété tel qu’ il figure dans
un autre texte législatif il assure une cohérence à l’ensemble de la législation (avantage);
si toutefois il est répété sans être explicité car supposé connu, tout citoyen non spécialiste ne peut, pour sa compréhension, que recourir à la consultation d’un texte précédent et/ou complémentaire (inconvénient). Dans ce sens le Guide pratique commun
(2000: 16.5) conseille la modération dans l’emploi des Références internes et externes
afin qu’un texte normatif “puisse être lu et compris sans consulter d’autres actes”.
18
Voir Mortara-Garavelli (1979: 68-69). Cette remarque bien que très intéressante ne
relève pas de notre propos ici.
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II. Observation du procédé de répétition lexicale dans le corpus sélectionné: motivations et pertinence d’emploi
Les exemples retenus sont, autant que possible, rapprochés dans
le texte permettant ainsi de mieux percevoir la nécessité ou, au
contraire, l’incongruité des options de traduction. Il faut tout d’abord
relever, pour ce qui concerne les textes juridiques, l’importance de la
qualité de leur rédaction première car dans un tel contexte la traduction est étroitement liée à la rédaction comme le rappelle la ligne directrice 5.2. du Guide pratique commun: “(…) le texte d’origine doit
être particulièrement simple, clair et direct, toute complexité excessive ou toute ambiguïté même légère pouvant entraîner, dans une ou
plusieurs des autres langues communautaires, des imprécisions, des
approximations ou de véritables erreurs de traduction”. Il est ensuite
nécessaire de rappeler que la version en anglais, principalement le
texte-base en cette matière19, privilégie la répétition lexicale suivant
une modalité qui lui est propre en langue de spécialité20 alors que les
deux autres versions objet de notre analyse sont plus réticentes envers l’utilisation de ce procédé21. Nous avons réparti les exemples relevés suivant leur degré de nécessité sémantique en tant que composants de cohésion textuelle pour aboutir à des cas de répétition dres19
Sur le ‘concept’ de texte-base ou de texte original à partir duquel les autres versions linguistiques sont produites consulter: Gallas, T. (1999): “Coredazione e traduzione giuridica nella legislazione multilingue in particolare quella comunitaria”, Gallo, G.
(1999), “Il traduttore e le versioni ufficiali di riferimento. Aspetti e problemi” ainsi que
Cosmai (2003: 11-13). Dans le contexte de l’UE une préférence en matière de traduction
dans toutes les langues est accordée aux documents officiels, aux textes de loi, aux informations générales et au courrier des citoyens; pour les autres textes tels, entre autres,
les synthèses d’information, les informations spécialisées ou les documents préparatoires, les langues de travail sont au nombre de trois : l’anglais, le français et l’allemand.
20
Voir Scarpa (2001: 123) qui remarque “(…) una preferenza dell’inglese nei
confronti della reiterazione dello stesso termine o della stessa espressione – anche a breve distanza in un testo”. Il faut également tenir compte des contraintes multiples et variées auxquelles se heurte la traduction dans le contexte de l'UE: complexité du système
législatif, ressources humaines en traduction/ révision, rapport coûts/efficacité, travail
dans l’urgence ou en temps limité, gestion d’un site en 23 langues…
21
Ceci dérivant sans doute de la tradition rhétorique et stylistique du beau style privilégiant la variation à la répétition. Delisle et alii (2003 : 124-125) en témoignent dans la
remarque corollaire à leur définition de la répétition touchant il est vrai le domaine littéraire mais révélatrice de la position de la traduction à l’égard de la répétition: “la répétition peut avoir une valeur rhétorique ou être injustifiée. Dans ce dernier cas elle constitue une erreur linguistique et révèle un vocabulaire pauvre et un style incertain. Cette
remarque n’a pas la même valeur dans toutes les langues et pour toutes les typologies
textuelles”. De même parmi les universals of translation ou universal features of translation rappelés par Garzone (2005: 35) – qui cite Baker (1996) et Laviosa-Braithwaite
(1998) –, figure la tendance à éviter les répétitions dans le texte traduit.
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sant un écran linguistique entre texte de loi et lecteur non-initié.
II.1. La répétition comme procédé de clarté et de précision du message
La répétition lexicale étant un des traits qui caractérisent la langue
juridique recommandé pour ses qualités de clarté et de précision
principalement, nous commencerons par considérer quelques exemples de cette nécessité de répétition.
L’une des Directives du corpus analysé souligne en effet la nécessité d’établir un “cadre général clair pour couvrir certains aspects juridiques du commerce électronique dans le marché intérieur” car
“(…) Le développement de la société de l’information doit assurer,
en tout état de cause, l’accès des citoyens de la Communauté au patrimoine culturel européen fourni dans un environnement numérique” (Directive 2000/31: considérants 7 et 63).
Les exemples présentés ci-dessous reprennent et illustrent les
avantages et les inconvénients énumérés dans notre tableau22.
Il est tout d’abord nécessaire de relever les répétitions propres à la
structure type de tout acte communautaire de portée générale (Guide
pratique commun: 2000, 7) comme en témoignent les trois directives
de ce corpus qui débutent par la même formule centrée sur l’anaphore du participe passé “vu” / visto/ have regarding to’’, figurant au début du préambule et dénommée ‘visa’, destinée à indiquer la base juridique de l’acte. Formulation à valeur illocutoire qui comme le précise Lerat “dans les textes à effet juridique n’est pas narrative: c’est celle d’une décision” (1999: 80). Ces répétitions illustrent bien le caractère originairement et foncièrement intertextuel de tout texte juridique
(point 4) ainsi que son insertion dans une tradition (point 8).
a) Directive 2001/29 (31)
Il convient de maintenir un Deve essere garantito un gius- A fair balance of rights and
juste équilibre en matière de to equilibrio tra i diritti e gli interests between the different
droits et d’intérêts entre les interessi delle varie categorie categories of rightholders, as
différentes catégories de titu- di titolari nonché tra quelli dei well as between the different
laires de droits ainsi qu’entre vari titolari e quelli degli uten- categories of rightholders and
celles-ci et les utilisateurs ti dei materiali protetti. Le ec- users of protected subjectd’objets protégés. Les excep- cezioni e limitazioni alla pro- matter must be safeguarded.
22
Les mots ou les syntagmes qui figurent soulignés dans les exemples mettent en
évidence la répétition intralinguistique ainsi que la correspondance des termes ou des
structures dans les trois versions, ceux qui figurent en italique les variations spécifiques
à une ou à plusieurs versions. Entre parenthèses dans notre texte figurent les renvois aux
différents points du tableau.
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tions et limitations aux droits, tezione esistenti nelle legisla- The existing exceptions and litelles que prévues par les zioni degli Stati membri devo- mitations to the rights as set
Etats membres, doivent être no essere riesaminate alla luce out by the Member States haréexaminées à la lumière du del nuovo ambiente elettroni- ve to be reassessed in the light
nouvel
environnement co. (…) Onde garantire il cor- of the new electronic environélectronique. (…) Pour assu- retto funzionamento del mer- ment. (…) In order to ensure
rer le bon fonctionnement du cato interno, tali eccezioni e the proper functioning of the
marché intérieur, ces excep- limitazioni dovrebbero essere internal market, such exceptions et limitations doivent definite in modo più unifor- tions and limitations should
être définies de façon plus me. Il grado di armonizzazio- be defined more harmoniousharmonieuse. Le degré d’har- ne di dette eccezioni dovreb- ly. The degree of their harmomonisation de ces exceptions be dipendere dal loro impatto nisation should be based on
doit être fonction de leur inci- sul corretto funzionamento their impact on the smooth
dence sur le bon fonctionne- del mercato interno.
functioning of the internal
ment du marché intérieur.
market.
C’est l’harmonisation des législations nationales qui va conduire à
leur relative uniformité. La variation dont témoigne ici la version italienne avec l’adjectif “uniforme” pourrait introduire la nuance que
ces ‘exceptions et limitations’ devraient être les mêmes dans toutes
les législations nationales des Etats membres, or, bien que souhaitable, il serait suffisant que ces ‘exceptions et limitations’ soient semblables dans les différents systèmes afin de résulter harmonisés. La
version italienne pourrait alors se justifier en supposant qu’elle vise à
suggérer au législateur italien de chercher à définir des ‘exceptions et
limitations’ les plus identiques possible à celles adoptées ou en cours
d’adoption dans les autres systèmes nationaux. Remarquons également que l’adjectif du français courant ‘harmonieuse’ a ici été préféré (délibérément ou non?) au participe passé substantivé ‘harmonisée’ souvent utilisé dans ce contexte. Il nous semble que dans ce cas,
la répétition partielle du terme par l’adjectif ‘armonizzata’, comme
dans les autres versions, aurait été préférable.
b) Directive 2004/48 (1,2)
(1) La réalisation du marché (1) La realizzazione del merca- (1) The achievement of the
intérieur implique l’élimina- to interno comporta l’abolizio- Internal Market entails elimition des restrictions à la libre ne delle restrizioni alla libera nating restrictions on freedom
circulation et des distorsions circolazione e delle distorsioni of movement and distortions
de concurrence, tout en créant della concorrenza creando un of competitions, while creaun environnement favorable à contesto favorevole all’innova- ting an environment conducil’innovation et à l’investisse- zione ed agli investimenti. In ve to innovation and investment. Dans ce contexte, la tale quadro, la tutela della ment. In this context, the proprotection de la propriété in- proprietà intellettuale è un tection of intellectual property
tellectuelle est un élément es- elemento essenziale per il suc- is an essential element for the
sentiel pour le succès du mar- cesso del mercato interno. Es- success of the Internal Market.
ché intérieur. La protection de sa è importante non solo per The protection of the intellecla propriété intellectuelle est la promozione dell’innovazio- tual property is important not
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importante non seulement ne e dell’attività di creazione only for promoting innovation
pour la promotion de l’inno- ma anche per lo sviluppo del- and creativity, but also for devation et de la création mais l’occupazione e per la crescita veloping employment and imégalement pour le développe- della concorrenzialità.
proving competitiveness.
ment de l’emploi et l’amélioration de la compétitivité.
2) La protection de la proprié- (2) La tutela della proprietà in- (2) The protection of intellecté intellectuelle devrait per- tellettuale dovrebbe consenti- tual property should allow the
mettre à l’inventeur ou au re all’inventore o al creatore di inventor or creator to derive a
créateur de retirer un profit lé- trarre legittimo profitto dalla legitimate profit from his ingitime de son invention ou de sua invenzione o dalla sua vention or creation. It should
sa création. Elle devrait égale- creazione. Dovrebbe inoltre also allow the widest possible
ment permettre la diffusion la consentire la massima diffu- dissemination of works, ideas
plus large possible des œuv- sione delle opere, delle idee e and new know-how. At the
res, des idées et des savoir-fai- delle nuove conoscenze. Nel- same time, it should not hamre nouveaux. Dans le même lo stesso tempo, essa non do- per freedom of expression,
temps la protection de la pro- vrebbe essere di ostacolo alla the free movement of inforpriété intellectuelle ne devrait libertà d’espressione, alla libe- mation, or the protection of
pas faire obstacle à la liberté ra circolazione delle informa- personal data, including on
d’expression ni à la libre cir- zioni, alla tutela dei dati per- the Internet.
culation de l’information et à sonali, anche su Internet.
la protection des données personnelles, y compris sur l’Internet.
Dans ces deux considérants la répétition d’un des syntagmes clés
de cette directive, souligné dans les trois versions, ne présente aucune
ambiguïté sémantique, la version en français apparaît comme la plus
conservatrice et la moins disposée à varier. Ces répétitions ou leur ‘réalisations alternatives’ – reprise par un pronom en français, en italien
et en anglais (elle, essa, it), ellipse du sujet en italien et compensation
par la flexion verbale (dovrebbe) – créent un réseau sémantique qui
assure la cohésion du texte dans ses parties et dans son ensemble.
Sont ici illustrés les points 3 et 4 ainsi que 5 et 6 des avantages énumérés dans le tableau.
c) Directive 2000/31, chapitre II section 4 art. 13 et 14
13.2. Le présent article n’affecte pas la possibilité, pour une
juridiction ou une autorité administrative, conformément
aux systèmes juridiques des
Etats membres, d’exiger du
prestataire qu’il mette fin à
une violation ou qu’il prévienne une violation.
Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli
Stati membri, che un organo
giurisdizionale o un’autorità
amministrativa, esiga che il
prestatore impedisca o ponga
fine ad una violazione.
This Article shall not affect the
possibility for a court or administrative authority, in accordance with Member States’ legal systems, of requiring the
service provider to terminate
or prevent an infringement.
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14.3. Le présent article n’affec- Il presente articolo lascia im- This Article shall not affect the
te pas la possibilité, pour une pregiudicata la possibilità, per possibility for a court or admijuridiction ou une autorité ad- un organo giurisdizionale o nistrative authority, in accorministrative, conformément un’autorità amministrativa, in dance with Member States’ leaux systèmes juridiques des conformità agli ordinamenti gal systems, of requiring the
Etats membres, d’exiger du giuridici degli stati membri, di service provider to terminate
prestataire qu’il mette un ter- esigere che il prestatore pon- or prevent an infringement
me à une violation ou qu’il ga fine ad una violazione o la (…)
prévienne une violation (…) impedisca (…)
Nous pouvons remarquer que dans ces deux articles qui se suivent bien que des segments entiers de texte soient répétés à brève
distance il ne semble pas y avoir un souci de systématisation et d’uniformisation si ce n’est dans la version en anglais. En effet suivant
des choix qui ne nous paraissent pas motivés par quelque ambiguïté
de sens, les versions française et italienne varient; variation d’autant
plus notable dans un cotexte qui répète en bloc.
d) Directive 2000/31 (6)
Il convient, au regard des ob- È opportuno, tenendo conto In the light of the Community
jectifs communautaires, des degli obiettivi comunitari, de- objectives, of Articles 43 and
articles 43 et 49 du traité et du gli articoli 43 e 49 del trattato 49 of the Treaty and of secondroit communautaire dérivé, e del diritto comunitario deri- dary Community law, these
de supprimer ces obstacles vato, sopprimere tali ostacoli obstacles should be eliminapar une coordination de cer- coordinando determinati dirit- ted by coordinating certain
taines législations nationales ti nazionali e chiarendo a li- national laws and by clarifying
et par une clarification au ni- vello comunitario una serie di certain legal concepts at Comveau communautaire de cer- concetti giuridici, nella misura munity level to the extent netains concepts juridiques dans necessaria al buon funziona- cessary for the proper functiola mesure nécessaire au bon mento del mercato interno. La ning of the internal market; by
fonctionnement du marché in- presente direttiva, riguardante dealing only with certain spetérieur. La présente directive, solo alcune questioni specifi- cific matters which give rise to
en ne traitant que certaines che che creano problemi per problems for the internal marquestions spécifiques qui sou- il mercato interno, è del tutto ket, this directive is fully
lèvent des problèmes pour le coerente con il rispetto del consistent with the need to
marché intérieur, est pleine- principio di sussidiarietà di cui respect the principle of subsiment cohérente avec la néces- all’articolo 5 del trattato.
diarity as set out in Article 5 of
sité de respecter le principe
the Treaty.
de subsidiarité tel qu’énoncé à
l’article 5 du traité.
Nous pouvons remarquer ici que l’italien varie puisant dans la richesse de son lexique. Mais la question qui se pose ici est celle de l’uniformisation dans la formulation des différentes versions à un niveau
de langue standard, susceptible de caractériser l’eurolecte; l’italien apparaît ici plus formel car plus recherché dans sa formulation et plus
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désireux de varier, suivant, peut-être, le style juridique national, variation qui ne se justifie pas par la préservation du sens. L’adjectif ‘alcuni’ (ou ‘taluni’ son équivalent spécialisé) qui figure une seule fois
sous la forme “alcune questioni” aurait, en effet, très bien pu être répété.
e) Directive 2001/29 (35)
(…) Lors de la détermination (…) Nel determinare la forma, (…) When determining the
de la forme, des modalités et le modalità e l’eventuale enti- form, detailed arrangements
du niveau éventuel d’une telle tà di detto equo compenso si and possible level of such fair
compensation équitable, il dovrebbe tener conto della compensation,
account
convient de tenir compte des peculiarità di ciascun caso. should be taken of the particirconstances
propres
à (….) Il livello dell’equo com- cular circumstances of each
chaque cas. (…) Le niveau de penso deve tener conto (…) case. (…) The level of fair
la compensation équitable
compensation should take full
account of (…)
doit prendre en compte (…)
Dans ce considérant la version italienne opte pour une variation
synonymique “entità/livello” qui rompt avec la cohésion textuelle assurée par la répétition dans les deux autres versions et introduit une
ambiguïté sur le référent qui est pourtant le même ‘compensation
équitable/equo compenso/fair compensation’ et se trouve faire partie
d’un syntagme répété dans sa totalité. La répétition aurait été souhaitable ici car les deux termes choisis en italien ne sont pas tout à fait
synonymes et introduisent de ce fait une ambiguïté que la répétition
n’aurait pas posée: au delà de l’idée commune de valeur, ‘livello’ suggère celle d’une gradation (comportant éventuellement des limites
définies). Exemple qui illustre le point 3 des avantages de notre tableau mais qui s’oppose, dans sa version italienne, à l’immédiateté
dans la reconnaissance du référent (point 6) et à sa prévisibilité
(point 8) réalisant ainsi une interprétation extensive de cette version
par rapport aux autres qui aurait pu être évitée par la simple répétition du même terme.
L’exemple que nous présentons ici de suite met déjà en question,
à la lumière d'éventuelles motivations d'ordre politique, la nécessité
de répétition constituant ainsi une transition avec notre partie II.2.
f) Directive 2004/48 (31)
Etant donné que, pour les rai- Poiché per i motivi già men- Since, for the reasons already
sons mentionnées, l’objectif zionati, gli scopi della presente described, the objective of
de la présente directive peut direttiva non possono essere this Directive can best be
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être mieux réalisé au niveau
communautaire, la Communauté peut prendre des mesures, conformément au principe de subsidiarité consacré à
l’article 5 du traité.
realizzati in misura sufficiente
dagli Stati membri e possono
dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la
Comunità può intervenire, in
base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del
trattato.
achieved at Community level,
the Community may adopt
measures, in accordance with
the principle of subsidiarity as
set out in Article 5 of the Treaty.
Dans cet exemple, le parallélisme de structure, comportant une
répétition de termes, présent uniquement dans la version en italien
de la directive est apparemment injustifié dans la confrontation avec
les deux autres versions linguistiques. Il illustre cependant les points
1. et 2. des avantages. Sa formulation en italien est conforme à celle
de la version italienne de l’article 5 du Traité de Rome, un des actes
fondateurs de l’UE et reprend fidèlement l’institution d’un principe
fondamental et spécifique de la législation communautaire le ‘principe de subsidiarité’ qui “vise à assurer une prise de décision aussi proche que possible du citoyen en vérifiant que l’action à entreprendre
au niveau communautaire est justifiée par rapport aux possibilités
qu’offre l’échelon national, régional ou local. Concrètement, l’Union
n’agit – sauf pour les domaines de sa compétence exclusive – que
lorsque son action est plus efficace qu’une action entreprise au niveau national, régional ou local” (Europa Glossaire). Par l’importance du référent et du document cité on peut comprendre qu’il soit nécessaire de conserver la répétition dans sa formulation originaire
illustrant ainsi, par le renvoi implicite à un autre document de la législation communautaire, le caractère intertextuel de tout texte juridique (point 4). La formulation en double volet semble s’imposer ici
d’après le Guide pratique commun, (2000: 10.15.4) à la fois en tant
que rappel de la motivation de la subsidiarité et de la proportionnalité de l’acte “lorsque la compétence communautaire n’est pas de nature exclusive, le considérant inclut à la fois la motivation” subsidiarité “proprement dite ainsi que celle de la proportionnalité (…)” et
par la confrontation avec deux autres versions de ce même considérant, en allemand et en espagnol:
(…) nicht ausreichend erreicht werden kann (…) no pueden ser alcanzados de manera
und daher besser auf Gemeinshaftsebene zu sufficiente (…) pueden lograrse mejor a nivel
erreichen ist (…)
comunitario (…)
On peut supposer que les versions simplifiées des deux langues
plus utilisées dans le contexte de l’UE résultent d’une omission non
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intentionnelle ou d’une option d’économie dans la traduction d’un
considérant ne faisant pas partie du dispositif normatif de la directive. Peut-on également supposer que ces versions simplifiées, si intentionnelles, seraient motivées par une accentuation portée sur le
deuxième volet du principe, selon une lecture plus ‘politique’ qui
privilégierait les pouvoirs de l’Union sur ceux des Etats membres ou,
pour ce qui est des autres versions, serait l’indice d’une volonté d’interpréter le principe au sens strict?
II. 2. La répétition en question
Nous pouvons cependant remarquer que l’option de répétition ne
semble pas toujours dépendre de contraintes sémantiques (maintenir
et mémoriser le référent) ou de cohésion et de cohérence textuelles
(parallélisme entre structures syntaxiques ou caractère nécessairement intertextuel des documents juridiques), mais dans ce contexte
multilingue pèsent également, comme dans toute œuvre de traduction, les choix personnels du traducteur dépendant de son savoir encyclopédique et spécialisé (langues, domaines de connaissance), de
son degré de perméabilité à la langue du texte de base qui se lit toujours en filigrane (Goffin: 1994, 641) (discourse transfer cité par Garzone: 2005,35), aux contraintes matérielles d’une situation donnée…
La répétition est mise en question ici à cause de sa pesanteur stylistique due parfois à la tendance uniformisatrice des versions entre elles qui l’éloigne du style juridique national et à la perception d’un
«écran linguistique» augmentant «le sentiment d’étrangeté»23 qu’éprouve tout profane à l’égard du langage du droit.
a) Directive 2000/31 (11)
(…) la directive 90/314/CEE
du Conseil du 13 juin 1990
concernant les voyages, vacances et circuits à forfait
(…)
(…) la direttiva 90/314/CEE
del Consiglio del 13 giugno
1990 contenente i viaggi, le
vacanze ed i circuiti tutto
compreso (…)
(…)
Council
Directive
90/314/EEC of 13 June 1990
on package travel package
holidays and package tours
(…)
Ici la version en anglais préfère la répétition suivant une modali-
23
Ces deux expressions sont tirées de Cornu (2005:12); la deuxième est une citation
que le juriste emprunte à Sourioux, J.-L. et Lerat, P. (1975), Le langage du droit, Paris,
PUF.
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té qui lui est propre relevée par Scarpa (2001: 123). Le principe d’économie qui caractérise les autres versions qui empruntent leurs expressions à la langue du tourisme, aurait peut-être pu remplacer les
répétitions de la version en anglais par l’expression plus courante all
inclusive. Comment en effet aurait été formulée la version en anglais
si elle avait résulté d’une traduction à partir de la version française ou
italienne? L’usage d’expressions courantes et relevant de la terminologie du tourisme comme “circuits à forfait” et “circuiti tutto compreso” constitue une option de traduction qui tient compte du destinataire du message en facilitant sa compréhension immédiate sans recourir à la métaphore – plus proche de l’anglais – du ‘package/pacchetto’ qui en italien aurait pu marquer l'oralité dans un syntagme
comme ‘pacchetto-vacanze’ – expression résultant par extension de
sens du domaine politique et syndical et couramment employée en
contexte touristique.
L’exemple suivant illustre l’alternance d’emploi entre deux mots
polysémiques car existant tous deux avec un sens en langue commune et un sens en langue juridique: c’est le cas de ‘provvedimenti’ en
concurrence avec ‘misure’ dans la version en italien.
b) Directive 2001/29 (51)
La protection juridique des La protezione giuridica delle The legal protection of techmesures techniques s’applique misure tecnologiche si applica nological measures applies
sans préjudice des disposi- senza pregiudicare l’ordine without prejudice to public
tions relatives à l’ordre public pubblico (…). Gli Stati mem- policy, (…). Member States
(…). Les Etats membres doi- bri dovrebbero promuovere should promote voluntary
vent encourager les mesures l’adozione di misure volonta- measures, taken by rightholvolontaires prises par les titu- rie da parte dei titolari, (…). ders (…). In the absence of
laires des droits (…).En l’ab- Se, trascorso un congruo lasso such voluntary measures or
sence de mesures volontaires di tempo, tali misure o accordi agreements within a reasonaou d’accords de ce type dans volontari ancora mancassero, ble period of time, Member
un délai raisonnable, les Etats gli Stati membri dovrebbero State should take appropriate
membres doivent prendre des prendere provvedimenti ade- measures to ensure that righmesures appropriées pour as- guati affinché i titolari fornis- tholders provide beneficiaries
surer que les titulaires des cano ai beneficiari di tali ecce- of such exceptions or limitadroits fournissent aux bénéfi- zioni o limitazioni i mezzi ne- tions with appropriate means
ciaires desdites exceptions ou cessari per fruirne, modifican- of benefiting from them, by
limitations les moyens appro- do una misura tecnologica già modifying an implemented
priés pour en bénéficier, par in atto o in altro modo. Tutta- technological measure or by
la modification d’une mesure via per scongiurare abusi rela- other means. However, in ortechnique mise en œuvre ou tivamente alle misure prese der to prevent abuse of such
autrement. Toutefois, afin dal titolare, (…), tutte le misu- measures taken by righthold’empêcher l’abus de telles re tecnologiche attuate in ap- ders, including within the framesures prises par les titulai- plicazione delle suddette mi- mework of agreements, or tares de droits, (…), toutes les sure dovrebbero godere di tu- ken by a Member State, any
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mesures techniques mises en tela giuridica.
œuvre en application de ces
mesures doivent être protégées juridiquement.
technological measures applied in implementation of
such measures should enjoy
legal protection.
Les 8 répétitions rapprochées (versions en français et en anglais)
du terme ‘mesures / measures’ unies à d’autres répétitions non soulignées ici (‘titulaires des droits’, ‘appropriées’) et à d’autres types de
récurrences (‘telles / ces’, ‘tali / suddette’) affectent négativement le
style (point 3 des désavantages) et sont d’obstacle à une lisibilité immédiate car elles font glisser le texte vers une opacité du message
surtout pour un non-initié24. Il est vrai que la formulation reflète la
complexité des contenus devant tenir compte des alternatives possibles (fréquence des ‘ou’) et de la variété des cas possibles (‘en l’absence de’, ‘Toutefois afin d’empêcher’…). Il nous semble cependant
que la lecture de la version italienne qui varie au mois une fois
(‘prendere provvedimenti’) suivant l’usage en langue juridique nationale soit facilitée par cette non répétition et préférable lorsque le
sens du terme demeure non-ambigu et pertinent dans le contexte où
il se trouve employé. Ceci tenant compte du fait que le considérant
qui suit (52) reproduit le même problème: 6 répétitions du terme
‘mesures/measures’ qui figure en alternance, là aussi, avec le terme
‘provvedimenti’ dans la version italienne.
Nous aborderons maintenant quelques cas où, à notre sens, la répétition masque l’immédiate réception du message et requiert du
destinataire la relecture du considérant en question ou bien la
consultation d’instruments de référence pour l’éclairer:
c) Directive 2001/29 (35)
(…) Le niveau de la compen- (…) Il livello dell’equo com- (…) The level of fair compensation équitable doit prendre penso deve tener pienamente sation should take full acen compte le degré d’utilisa- conto della misura in cui ci si count of the degree of use of
tion des mesures techniques avvale delle misure tecnologi- technological protection meache di protezione contempla- sures (…)
de protection (…)
te nella presente direttiva. (…)
24
“Una frequenza notevole di ricorrenze va a scapito dell’informatività” (De Beaugrande, Dressler: 1984, 71).
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d) Directive 2004/48 (18)
Il convient que les personnes Il diritto di chiedere l’applica- The persons entitled to reayant qualité pour demander zione di tali misure, procedure quest application of those
l’application de ces mesures, e mezzi di ricorso dovrebbe measures, procedures and reprocédures et réparations essere riconosciuto non sol- medies should be not only the
soient non seulement les titu- tanto ai titolari dei diritti, ma rightholders but also persons
laires des droits, mais aussi les anche alle persone diretta- who have a direct interest and
personnes ayant un intérêt di- mente interessate e legittimate legal standing in so far as perrect et le droit d’ester en justi- ad agire nella misura in cui ciò mitted by and in accordance
ce dans la mesure où la légis- è consentito dalla legge appli- with the applicable law, (…)
lation applicable le permet et cabile e conformemente ad
conformément à celle-ci (…) essa, (…)
Dans ces deux cas la répétition très rapprochée du terme polysémique ‘misura/e’ dans l’exemple c) et de ‘misure’ et ‘mesure(s)’ dans
l’exemple d) employés avec un sens différent, alourdit voire entrave
la lisibilité de ces considérants. Dans la version italienne de l’exemple c) l’idée ‘d’utilisation/use’ résulte absente (points 3 et 6 des inconvénients).
De même dans le cas suivant, la répétition d’un terme polysémique utilisé suivant deux acceptions différentes dans l’une des versions uniformise un message qui devrait être au contraire différencié:
e) Directive 2004/ 48 (20)
Les procédures devraient Le procedure dovrebbero ave- The procedures should have
respecter les droits de la dé- re riguardo ai diritti della dife- regard to the rights of the defense et être assorties des ga- sa e fornire le garanzie neces- fence and provide the necesranties nécessaires y compris sarie, anche riguardo alla tu- sary guarantees, including the
la protection des renseigne- tela delle informazioni riserva- protection of confidential inte.
formation.
ments confidentiels.
Comme dans l’exemple précédent, la répétition de la version italienne crée un “fait d’équivoque” (Molinié: 1992, 73) ‘avere riguardo’/‘riguardo’ tout en faisant obstacle à la compréhension immédiate
du message (point 3 des désavantages); le lecteur est appelé à relire
l’énoncé car la répétition fait écran à la lecture et à la compréhension
immédiate du considérant.
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f) Directive 2001/29 (31)
(…) Ces disparités pourraient (…) Tali differenze potrebbe- (…) Such differences could
s’accentuer avec le dévelop- ro facilmente accentuarsi con well become more pronounpement de l’exploitation des l’ulteriore sviluppo dell’utiliz- ced in view of the further deœuvres par-delà les frontières zazione economica transfron- velopment of transborder exet des activités transfrontaliè- taliera di opere e delle attività ploitation of works and crosstransfrontaliere (…)
res. (…)
border activities. (…)
Dans ce cas même la version en anglais, qui recourt à un phénomène courant dans la création de néologismes, celui de la préfixation, nous semble plus cryptique par rapport à la version en français,
peut-être parce que la répétition partielle de la base ‘–border’ fait
obstacle à une perception immédiate du type d’activité. Quelles sont
les deux idées différentes véhiculées par les deux adjectifs identiques
de la version italienne? Elles ne sont pas immédiatement perceptibles; le seul indice est constitué par la construction syntaxique qui
dans le cas d’une identité de sens aurait antéposé l’adjectif ‘transfrontaliera’ aux deux compléments. Grâce à son savoir encyclopédique
(connaissance du système syntaxique de l’italien) le destinataire perçoit que la répétition se réfère à deux propriétés différentes (mais
lesquelles?). Or la répétition partielle (version en anglais) ou totale
(version en italien) semble faire écran au sens plus que l’éclaircir
(point 1.a des inconvénients) alors qu’un synonyme ou une périphrase auraient peut-être été plus explicites. La version en français,
qui explicite le plus, apparaît comme la moins cryptique différenciant
l’extension de l’exploitation des activités d’échange au delà des frontières ou des deux côtés des frontières, selon la définition de l’adjectif “transfrontalier” (formé en 1977 par analogie sur d’autres adjectifs
comme “transalpin” par exemple): «qui concerne les deux côtés d’une frontière»; – trans: à travers, marquant le passage ou le changement a aussi le sens de “de part en part” (Grand Robert de la langue
française: 2001, 1407).
g) Directive 2001/29 (60)
La protection prévue par la La protezione prevista dalla The protection provided unprésente directive n’affecte presente direttiva non dovreb- der this Directive should be
pas les dispositions légales be ostare all’applicazione del- without prejudice to national
nationales ou communautai- le disposizioni di diritto nazio- or Community legal provires dans d’autres domaines, nale o comunitario in altri set- sions in other areas, such as
tels que la propriété indus- tori, come la proprietà indus- industrial property, data protrielle, la protection des don- triale, la protezione dei dati, tection, conditional access
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nées, les services d’accès l’accesso condizionato (…)
conditionnel et à accès conditionnel (…)
(…)
Dans cet exemple tout lecteur s'interroge sur le sens de la répétition et de la distinction établie uniquement dans la version en français par les prépositions ‘à/de’; distinction qui reste opaque pour tout
non initié dans le domaine des nouvelles technologies.
Conclusion
On peut lire dans le Guide pratique commun la considération suivante: “le rédacteur doit savoir que les remarques des traducteurs et,
plus généralement, de tous les services qui procèdent à un examen
linguistique de son texte peuvent lui être très utiles. En effet, l’examen du texte sous cet angle est l’occasion de découvrir des erreurs et
des ambiguïtés qui peuvent être inhérentes au texte d’origine, même
lorsque celui-ci a été longuement mûri et même – et peut-être surtout- lorsque la rédaction a fait l’objet de longues discussions entre
plusieurs personnes” (2000, 5.5.2.). C’est dans cette optique que nous
nous sommes située dans ces réflexions portant sur les choix de traduction de la répétition dans un contexte aussi complexe que celui
de l’UE. L’emploi de ce procédé, comme nous avons pu l’observer
dans les quelques exemples présentés, est très fréquent dans ce
contexte mais requiert d’être manié avec prudence. Si, d’une part, la
répétition lexicale comporte – en traduction comme en rédaction des
textes – une économie de temps et de moyens et assure dans la plupart des cas le maintien du référent dans son intégralité en guidant,
même le lecteur non-initié, suivant un parcours logique (cohésion,
cohérence) et déductif (figure de construction par déduction), de
l’autre, elle demande une plus grande attention portée à la relecture
ou à la révision du texte traduit afin d’éviter de dresser un écran entre texte et destinataires d’autant plus difficile à percevoir car la répétition se présente sous une identité linguistique formelle, transparente seulement en apparence.
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Liana Goletiani
PARTICIPI E GERUNDI NELL’INSEGNAMENTO DELLA TRADUZIONE
GIURIDICA DALL’ITALIANO AL RUSSO
1. Oggetto, corpus e scopi dell’indagine.
La domanda da cui prende le mosse questo contributo potrebbe
essere formulata così: è possibile insegnare la traduzione degli atti
processuali agli studenti che frequentano il corso di traduzione giuridica? In altre parole: uno studente universitario che abbia iniziato da
zero lo studio del russo, dopo circa sei semestri d’insegnamento di
lingua russa e, nel migliore dei casi, con elementi di discipline di diritto, ma sicuramente non esperto di procedure e codici giuridici, è in
grado di affrontare la traduzione di un testo altamente specializzato e
pieno di strutture non solo stilisticamente marcate ma per definizione
convenzionali? Ammettendo una risposta positiva: quali strumenti
possiamo fornire agli studenti perché superino le difficoltà traduttive
in questo ambito specialistico?
La richiesta di traduzioni di questo genere, che si fa sempre più
pressante da parte dei tribunali, unita all’assoluta mancanza di materiale di consultazione, impongono un approfondimento della ricerca
linguistica e traduttologica in questo campo.
Presenterò qui alcune riflessioni che sono frutto dell’esperienza
didattica maturata durante i corsi di traduzione specialistica da me tenuti alla SSLMiT di Forlì (a.a. 2004-2005 e 2005-2006) e alla Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università di Milano (a.a. 2005-2006 e 20062007)1.
Il corpus dell’analisi è costituito dai compiti di traduzione degli
studenti, a cui erano stati proposti dei documenti processuali russi e
italiani.
Resa dello stile, equivalenza terminologica e resa dei mezzi che garantiscono coesione testuale e coerenza strutturale del genere di te-
1
Agli studenti che hanno partecipato ai miei corsi, fornendomi in questo modo il
prezioso materiale da analizzare, esprimo qui la mia più profonda gratitudine.
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sto sopraindicato erano gli obiettivi traduttologici principali posti agli
studenti. Tra gli errori più ricorrenti (come tali ho considerato quelli
che interessano almeno il 50% del corpus) ho scelto quelli effettivamente appartenenti all’ambito della traduzione specialistica. Questi
sono stati raggruppati poi secondo le seguenti tipologie:
- traduzione di termini appartenenti al linguaggio giuridico processuale e divergenti nelle procedure giuridiche dei due paesi;
- traduzione di costrutti convenzionali contenenti participi e gerundi;
- resa del tempo e dell’aspetto verbale, in particolare nella parte della descrizione del reato dove vengono elencati gli atti criminosi;
- nominalizzazioni e catene nominali;
- riconoscimento e resa delle divergenze tra linguaggio comune e linguaggio specialistico.
Mi soffermerò qui su un solo tipo di errore: i costrutti participiali
e gerundivi che rappresentano una delle strutture caratteristiche dello stile ufficiale, cui appartiene la comunicazione giuridica processuale. Vorrei mettere preliminarmente in evidenza il fatto che per la
preparazione di uno studente alla traduzione giuridica sono strumenti indispensabili l’analisi contrastiva e la linguistica dei testi specialistici.
Prima di affrontare il problema in questione vorrei accennare allo
stato della ricerca nell’ambito della traduzione giuridica e, in generale, della linguistica forense russa nel cui seno va collocato l’argomento qui proposto.
2. Linguistica e traduttologia forense nell’ambito della russistica.
La linguistica forense nell’ambito della russistica ha fatto nell’ultimo quindicennio un notevole passo avanti. Stimolata, da una parte,
dagli studi in Occidente, dove la disciplina ha accumulato una ricca
tradizione, e dai cambiamenti nel sistema politico-legale dello Stato
dall’altra, la ricerca condotta dagli studiosi nei centri russi si estende
a molteplici e complessi aspetti dell’uso della lingua nella comunicazione giuridica, da quelli tradizionalmente linguistici a quelli interdisciplinari2.
La relazione tra lingua e diritto in russistica è stata finora studiata
prevalentemente in ambito retorico-stilistico (Golev 1999, Golev
2000, Baranov/Aleksandrov/Golev 2002), in ambito lessicografico ed
2
Una lista delle pubblicazioni in questa area interdisciplinare è disponibile alla pagina web: http://lingvo.asu.ru/golev/articles/v67.html (aprile 2007).
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in quello riguardante gli aspetti linguistici della tecnica giuridica e le
strategie discorsive in fase di legiferazione ed applicazione della legge (Aleksandrov 2000). Considerevoli progressi di carattere linguistico-applicativo sono stati fatti riguardo alla perizia linguistica come ad
es. nel caso delle procedure grafologiche e testologiche o degli atti
linguistici invettivi per stabilire se è stato offeso l’onore della persona
fisica o giuridica, un tipo di perizia linguistica sempre più richiesto a
causa delle situazioni in cui vengono a trovarsi i moderni mass media russi (Galjašina 2003, Golev 2002 a, Golev 2002 b). Non è stata
prestata, tuttavia, abbastanza attenzione alla ricerca dei generi testuali dei documenti giuridici processuali:
Наименее изученным в плане внутристилевой дифференциации
является
юрисдикционный,
следственно-судебный
подстиль
официально-делового стиля. Это закономерно, так как номенклатура
документов здесь обширна, а особенности их оформления в ряде
случаев строго регламентируются положениями соответствующих
статей Законов, должностными инструкциями и зависят от этапов
процессуальных действий.
(Kyrkunova: 2004, 147)
Mancano ancora studi adeguati al fine di creare una precisa tipologia dei documenti processuali che consideri fattori distintivi come
la distribuzione delle funzioni pragmalinguistiche, le realizzazioni
strutturali o di genere, l’uso degli atti linguistici3.
La ricerca traduttologica nel campo del linguaggio specialistico
giuridico russo fa solo ora i suoi primi passi (cfr. Gamzatov 2004, Alimov 2006) ed è caratterizzata da una particolare attenzione per la natura interdisciplinare dell’oggetto di studio (soprattutto per la cultura
giuridica delle lingue di traduzione) e dall’approccio differenziato a
seconda dello scopo e dell’oggetto di studio (atti processuali, atti legislativi ecc.). Si può definire così la competenza del traduttore giuridico:
Владение техникой юридического перевода можно определить как
способность к осуществлению успешной и результативной
межкультурной коммуникации в области юриспруденции на основе
знания юридической терминологии и стилистики юридических
текстов различных разновидностей в исходном языке и в языке
перевода при непременном владении понятиями права и свободной
ориентации в концепутальных юридических картинах мира обоих
3
Un buon esempio di indagine in italianistica, auspicabile anche in russistica, è Ondelli 2007 a e Ondelli 2007 b.
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коммуникантов.
(Gamzatov: 2004, 23)
Il quadro attuale della traduzione forense da e verso la lingua russa si differenzia a seconda delle coppie di lingue. È ben impostata sia
la manualistica che la ricerca traduttologica per quanto riguarda la lingua inglese, più modesta, ma comunque presente, quella per le lingue tedesca, spagnola e francese. Lo stato della ricerca e del supporto didattico per l’insegnamento della traduzione specialistica giuridica
italiano-russo è praticamente nullo (non mi e stato finora possibile reperire alcuna pubblicazione). Anche quelle pochissime pubblicazioni
esistenti nella letteratura russistica italiana sulla traduzione non colmano questa lacuna pur contenendo talune osservazioni utilizzabili a fini didattici (mi riferisco in primo luogo a Dobrovolskaja 1997, Straniero Sergio 1997, Petrova 2000 a, Petrova 2000 b). Infine, a fini traduttologici, sarebbero utili degli studi contrastivi, così come se ne trovano per altre coppie di lingue (ad es. Pusch 1980 e Peotta 1998).
3. Participi e gerundi: un problema della traduzione giuridica?
3.1. Participi e gerundi come mezzi di creazione terminologica nei
codici russi.
Il processo di differenziazione dei concetti legali determina necessariamente la creazione e l’uso di termini complessi, ovvero composti da più elementi lessicali, atti a rendere il significato più preciso
e univoco, assicurando in questo modo due tratti semantico-lessicali,
precisione e univocità, fondamentali nello stile e nel linguaggio ufficiale. È proprio allo scopo di precisare una nozione giuridica espressa da sostantivi che vengono impiegati participi e costrutti participiali. Di conseguenza i modelli participio + sostantivo e sostantivo + costrutto participiale sono i modelli più diffusi tra i termini composti
del moderno russo giuridico. Li troviamo soprattutto nel testo del Codice Penale: проникающее ранение; позорящие сведения;
действия, грубо нарушающие общественный порядок;
обстоятельства, смягчающие ответственность.
Ai fini della traduzione passiva va prestata particolare attenzione
alle peculiarità della formazione di tale tipologia di termini che non
corrispondono del tutto alla norma codificata e che per tale motivo
possono comportare difficoltà di comprensione per il traduttore. Come tali vanno considerate in primo luogo:
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1) l’uso del participio presente con significato di participio passato: лицо, ранее судимое (invece di лицо, ранее осужденное)
con il significato di: persona con precedenti penali;
Лицо, судимое за неквалифицированную кражу, совершает заранее не
обещанный сбыт имущества, добытого преступным путем, в
незначительном размере.
(Lapunin: 2004, 337)
Поэтому лицо, ранее судимое за различные преступления, на этапе
постпреступного поведения может задуматься о своей дальнейшей
судьбе и прекратить совершать преступления, за которые возможно
освобождение от уголовной ответственности. Многие из этих видов
преступлений относятся к категориям тяжких и особо тяжких.
(Ja‰in: 2004, 106)
2) la polisemia del verbo судиться nel quale la particella -ся, che
può sia aggiungere la componente semantica di “reciprocità”
(intentare causa a qualcuno) sia rendere il significato passivo
(essere sotto processo o essere condannato). Così al posto del
participio passivo осужденный viene usato il participio passato
del verbo passivo судиться: лицо, ранее cудившееся (al posto
di лицо, ранее осужденное), sempre nel significato di persona
con precedenti penali. Questo uso è dunque non solo tollerato
ma ampiamente diffuso nel gergo giuridico. Si confronti l’esempio A, che illustra l’uso del verbo nel significato intentare causa a qualcuno (segnalata anche dalla preposizione c), con l’esempio B, che illustra la peculiarità dell’uso sopraindicata dei
participi nei testi giuridici, e con l’esempio C, tratto dal romanzo di Lev Tolstoj, che indica che tale fenomeno non è una peculiarità del russo di oggi ma risale ad almeno un secolo fa.
A.
Действия, предусмотренные частями первой и второй настоящей
статьи,
совершенные
должностным
лицом,
занимающим
ответственное положение, либо ранее судившимся за взяточничество,
либо получившим взятку в особо крупном размере, наказываются
лишением свободы на срок от восьми до пятнадцати
(Vittenberg : 1962, 88)
B.
Дача взятки неоднократно или лицом, ранее судившимся за
взяточничество, - наказывается лишением свободы на срок от семи до
пятнадцати лет с конфискацией имущества или без таковой.
(art. 174 del Codice Penale della RSFSR del 1962)
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C.
Говоря о предстоящем наказании иностранцу, судившемуся в России, и
о том, как было бы неправильно наказать его высылкой за границу,
Левин повторил то, что он слышал вчера в разговоре от одного
знакомого.
(Tolstoj: 1982, 275)
È evidente che al traduttore non può essere posto l’obiettivo di
rendere tali peculiarità stilistiche. Nel tradurre egli dovrà risalire alla
norma, sacrificando così l’uso, anche se convenzionale per questo
stile, e neutralizzando in questo modo le sfumature di natura stilistica. In questo caso la trasformazione dell’unità traduttiva del testo nella lingua di partenza accade prima che inizi la traduzione stessa, ovvero, usando i termini di Jacobson (1987: 429), prima della traduzione interlinguistica ha luogo la traduzione intralinguistica, che potremmo definire in questo caso “interstilistica” all’interno della stessa
lingua.
3.2. Participi e gerundi come locuzioni convenzionali nella struttura
dei documenti processuali.
Il largo impiego di costrutti participiali e gerundivi nei diversi generi testuali dei documenti processuali viene spesso definito come
convenzionale (cfr. Engberg: 1997, 14). Gli studiosi che si occupano
della traduzione giuridica, indipendentemente dalla lingua, mettono
in rilievo
“строго регламентированное употребление глагольных
форм и оборотов речи специальной терминологии
в определенных юридических документах” (Aлимов: 2006, 30).
Questa nota peculiarità del cosiddetto legalise che consiste nel
ruolo costituente di queste forme verbali nel macroatto del documento, viene determinata dal fatto che il testo del documento processuale “должен строго соответствовать требованиям
уголовно-процессуального и уголовного законов, отражать цели
и задачи по выполнению намечаемых процессуальных
действий” (Басков: 1996, 7).
Esiste quindi una forte componente di natura pragmatico-funzionale nel significato delle unità testuali contenenti i costrutti in esame.
Ancora una volta si afferma che “nel campo della traduzione giuridica non ha senso distinguere in modo assoluto tra traduzione semantica e traduzione comunicativa, oppure tra equivalenza formale ed
equivalenza dinamica” (Arntz: 1995, 148).
Ma un semplice riferimento alla distinzione tra significato seman-
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tico e significato pragmatico o comunicativo non risolve il problema
glottodidattico a cui ci troviamo di fronte. È proprio questa componente che, se non individuata nella sua funzione stilistico-testuale,
rappresenta per gli studenti del corso una delle maggiori difficoltà
traduttive.
Faccio un esempio particolarmente indicativo. Ho proposto agli
studenti di tradurre in lingua russa due costrutti participiali simmetrici contenenti lo stesso participio e differenti solo nel complemento
oggetto: visti gli atti e visti gli articoli. Inoltre, tenendo conto del fatto che si tratta di formule di apertura del documento, ho detto loro
che il soggetto logico del macroatto comunicativo è il pubblico ministero.
Per evitare o, perlomeno, diminuire gli errori dovuti alle lacune
morfologico-grammaticali in fase pretraduzione, secondo il livello
della competenza linguistica, sarebbe ogni volta opportuno ripassare
la formazione e l’uso dei participi e dei gerundi russi, che costituiscono, rispetto all’italiano, un sistema più complesso, sia dal punto di vista morfologico che per la quantità di forme irregolari. Altrettanto opportuno sarebbe esercitare la traduzione non specialistica dei costrutti participiali e gerundivi assoluti, poiché nella lingua russa non esistono costrutti formalmente equivalenti a quelli italiani e per la resa
di questi ultimi si deve ricorrere, in russo, alla trasformazione. Questa
trasformazione consiste, nella maggior parte dei casi, nell’impiego di
proposizioni subordinate di vari tipi4. Inoltre, va ricordato che, nel
caso di costrutti participiali nei quali “l’azione espressa dal participio
si riferisce al soggetto della proposizione principale, il participio passivo italiano si traduce con il gerundio” (Petrova: 2000 a, 108), resa di
gran lunga preferibile nel linguaggio giuridico.
Le varianti di traduzione accettabili dal punto di vista grammaticale e semantico (genere, numero, coniugazione, tempo, modo e
aspetto) tra quelle proposte dagli studenti sono: посмотревший (riferimento al pubblico ministero) акты; посмотрев акты e corrispondentemente посмотрев статьи; рассмотрев статьи. La
“brutta sorpresa” è che nessuna di queste varianti è accettabile dal
punto di vista delle norme di stesura dei corrispondenti documenti in
lingua russa, poiché non rispettano uno dei criteri che l’attuale stato
della scienza traduttologica pone alla traduzione, ovvero il “riconoscimento e [la] riproduzione di parole o espressioni fondamentali per
lo stile di un tipo di testo” (Osimo 2004).
4
Un aiuto didattico adatto in questo senso lo troviamo in Petrova 2000 a: 63-68 e
Petrova 2000 b: 107-112.
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4. Analisi degli errori.
Riporto qui le costruzioni in esame e i tipici errori della loro resa
in russo, indicando all’inizio la mia scelta traduttiva.
- visti gli atti, equivalente funzionale: рассмотрев материалы
дела.
Varianti di traduzione presenti nel corpus:
a. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico e quello stilistico-funzionale:
- nessuna
b. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico:
- посмотревший (riferimento al pubblico ministero) акты e
посмотрев акты
c. che non corrispondono alle regole grammaticali e/o non rendono correttamente il significato semantico:
- смотревшие акты
- рассмотренные акты
- посмотренные акты
- visti gli articoli, equivalente funzionale: руководствуясь
статьями/ccылаясь на статьи.
Varianti di traduzione presenti nel corpus:
a. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico e quello stilistico-funzionale:
- nessuna
b. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico:
- посмотрев статьи
- рассмотрев статьи
c. che non corrispondono alle regole grammaticali e/o non rendono correttamente il significato semantico:
- смотревшие статьи
- *смотренные статьи
- evidenziata l’acquisizione delle seguenti fonti di prova, equivalente funzionale: ссылаясь на следующие источники полученных
доказательств.
Varianti di traduzione presenti nel corpus:
a. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico e quello stilistico-funzionale:
- nessuna
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b. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico:
- подчеркнув приобретение (получение) следующих
источников доказательства
c. che non corrispondono alle regole grammaticali e/o non rendono correttamente il significato semantico:
- подчеркнуто приобретение следующих источников
доказательств
- показать достижение следующих источников опыта
- подчеркнутое приобретение источников
- la
persona
offesa,
equivalente
funzionale:
потерпевший/потерпевшая.
Varianti di traduzione presenti nel corpus:
a. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico e quello stilistico-funzionale:
- nessuna
b. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico:
- обиженное лицо
- пострадавшее лицо
c. che non corrispondono alle regole grammaticali e/o non rendono correttamente il significato semantico:
- поврежденное лицо
- страдавшее лицо
Tuttavia l’impiego di questo termine giuridico in un costrutto participiale assoluto ha fatto notevolmente aumentare il numero degli
errori (cfr. es. precedente con quello che segue).
- identificate le persone offese, equivalente funzionale: в качестве
потерпевших установлены лица.
Varianti di traduzione presenti nel corpus:
a. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico e quello stilistico-funzionale:
- nessuna
b. che corrispondono alle regole grammaticali, rendono correttamente il significato semantico: - nessuna
c. che non corrispondono alle regole grammaticali e/o non rendono correttamente il significato semantico:
- установленная личность страдавших лиц
- поврежденные лица опознаны
- опознанные обиженные лица
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- опознавшие пострадавших лиц
5. Analisi contrastiva dei testi specialistici come strumento didattico
per la traduzione dei testi specialistici.
Gli studiosi che si sono occupati dei problemi della traduzione
giuridica, in particolare di quella dei documenti processuali, si dichiarano a favore dell’approccio comparativo (cfr. Arntz 1995, Engberg 1997). L’analisi comparativa dei generi testuali giuridici, insieme
con la linguistica contrastiva in genere, sembra essere l’unico mezzo
che possa aiutare gli studenti nell’affrontare la faticosa ricerca degli
equivalenti stilistico-funzionali nella traduzione dei testi specialistici
in condizioni di pressoché totale mancanza di dizionari adeguati.
La risposta alla domanda posta all’inizio di questo contributo può
essere a mio avviso formulata in forma di algoritmo in cinque fasi,
qui brevemente descritte, a cui attenersi nell’affrontare una sfida traduttiva.
Passo 1
Avendo davanti a sé un documento processuale, stabilire a quale
Codice del paese della lingua di partenza appartiene l’atto giuridico
processuale in esame. Trovare, nella legislazione del paese della lingua di arrivo, il Codice corrispondente e, confrontando la nomenclatura dei documenti, definire qual’è la tipologia testuale più vicina.
Passo 2
Dato che si tratta di una tipologia di testi specialistici predefiniti è
necessario potenziare le capacità di riconoscere le corrispondenti
unità lessicali convenzionali. A questo scopo è importante leggere
più documenti dello stesso genere ed estrarne la struttura degli atti
linguistici che servirà da tertium comparationis, all’interno della quale si collocano le unità terminologiche convenzionali.
Passo 3
Confrontare i significati e l’uso delle unità individuate in entrambe le lingue, valutandone il grado di equivalenza.
Passo 4
Nel caso in cui nella struttura del documento della lingua di arrivo esistesse un equivalente terminologico funzionale, utilizzarlo, ai
fini di una migliore resa stilistica, anche qualora fosse divergente dal
punto di vista dell’equivalenza formale.
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Passo 5
Qualora questo equivalente terminologico funzionale mancasse,
ricorrere alla traduzione semantica.
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Giovanni Garofalo
L’INSULTO NEL DIBATTITO PARLAMENTARE SPAGNOLO
E ITALIANO: RIFLESSIONI PER LA TRADUZIONE
DI UN DISCORSO DI MARIANO RAJOY
1. Introduzione
La traduzione dell’insulto pronunciato in un’aula parlamentare
pone il traduttore-interprete di fronte a un’insidia deontologica. Da
un lato, la cornice istituzionale in cui si svolge l’interazione verbale
può indurlo a optare per espressioni più ‘concilianti’ e politicamente
corrette nella lingua di arrivo, dall’altro, la riformulazione deve riprodurre la reale forza illocutiva del messaggio originale e le dinamiche
di potere insite nel colloquio. È dunque indispensabile che il traduttore del discorso politico sia in grado di prevedere l’impatto di un determinato enunciato oltraggioso all’interno del contesto di riferimento. In particolar modo nel dibattito parlamentare, in cui lo scambio di
apprezzamenti insolenti è talmente comune da diventare una coppia
adiacente (Ilie 2004: 52), i valori pragmatici dell’offesa non sono legati tanto alle particolari forme linguistiche impiegate, quanto agli
obiettivi del discorso. La comprensione del motteggio o dell’insinuazione più caustica, in questo caso, non dipendono dalla semplice decodificazione degli elementi linguistici, bensì dall’interpretazione delle reali intenzioni comunicative dell’oratore e dai corretti processi inferenziali, basati sulle conoscenze enciclopediche del destinatario.
Compito del traduttore, come lettore del discorso, è costruire un modello delle intenzioni comunicative del testo di partenza e ponderarne il possibile effetto perlocutivo sugli utenti finali (Hatim, Mason
1990: 92). Obiettivo di questo lavoro è analizzare l’insulto parlamentare spagnolo e italiano all’interno di un chiaro quadro teorico di riferimento e proporre una riflessione preliminare sul testo, utile al
raggiungimento dell’efficacia pragmatica in traduzione. Sulla scorta
dei modelli della politeness di Brown e Levinson (1987) e KerbratOrecchioni (1992) e dell’approccio retorico-cognitivo indicato da Ilie
(2004: 45-85), vengono descritte le strategie d’offesa impiegate da
Mariano Rajoy, presidente del Pardido Popular (P.P.), attualmente
principale partito d’opposizione in Spagna, nel suo intervento al dibattito sul progetto di riforma dello Statuto Catalano, svoltosi al Con-
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greso di Madrid il 2 novembre 2005. Come vedremo, la vis polemica
di Rajoy risulta diametralmente opposta al buen talante linguistico
esibito nella stessa circostanza dal Primo Ministro José Luis Rodríguez
Zapatero (cfr. Garofalo, 2008), il quale appare impegnato nella ricerca del più ampio consenso possibile, in un agone politico infiammato dal dibattito territoriale. Infine, vengono evidenziate le differenze
tra le strategie dell’offesa nei Parlamenti di Madrid e di Roma (§ 5),
operazione che smentisce l’ipotesi secondo cui, in sincronia, sarebbe
stato possibile osservare comportamenti verbali equivalenti in due
Paesi di cultura mediterranea, con lingue affini e dotati di una classe
politica ugualmente litigiosa. Lo studio dell’insulto parlamentare in
spagnolo e in italiano è stato realizzato sul citato discorso dell’On.
Rajoy (6272 parole) e su un corpus di nove interventi di argomento
analogo e cronologicamente vicini (14.185 parole), pronunciati da
Sentori dell’Ulivo (Onn. Angius, Bordon, Bassanini, Fassone, Mancino, Manzella, Scalfaro, Tessitore, Zavoli) durante la 14° legislatura,
nel corso delle sedute del Senato n. 897 e 900 del 15 e 16 novembre
2005, in occasione della discussione del ddl costituzionale n. 2544-D
sulla riforma del Titolo V della Costituzione italiana (la cosiddetta devolution).
2. L’insulto parlamentare in una prospettiva retorico-cognitiva
A detta di Ilie (2004: 50-53), dal punto di vista retorico l’insulto
parlamentare va considerato una strategia volta ad attirare l’attenzione dell’Assemblea e a suscitare nell’avversario una reazione emotiva,
capace di mettere in luce gli aspetti meno qualificanti della sua personalità o le contraddizioni dei suoi argomenti. Secondo la teoria aristotelica, l’insulto può assumere come obiettivo il logos dell’avversario (il suo ragionamento), il suo ethos (le qualità morali) o può fare
appello al pathos, ossia far leva sulle passioni degli astanti. Come
comportamento volto a provocare, l’insulto assolve di solito a due
funzioni retoriche principali: il movere, consistente nel catturare l’animo dell’Assemblea per poterla influenzare, e il delectare, volto a divertire i presenti e ad accattivarsene la benevolenza. In talune circostanze, tuttavia, l’insulto assolve a una terza funzione, il docere, coincidente con l’istruire o il redarguire l’interlocutore o l’Assemblea. In
Parlamenti diversi il comportamento verbale offensivo può svolgere
funzioni retoriche divergenti, a seconda delle coordinate culturali del
Paese e dello ‘stile istituzionale’ ritenuto adeguato. Come vedremo, il
discorso di Rajoy è costellato da frequenti attacchi all’ethos di Zapatero e, di conseguenza, le funzioni dominanti sono quelle del movere
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e del delectare, mentre lo spoglio del corpus italiano rivela una maggiore incidenza di atti di biasimo diretti al logos dell’avversario, con
l’obiettivo preminente del docere da parte dei parlamentari dell’Ulivo. In entrambi i Paesi, comunque, l’insulto parlamentare costituisce
un atto offensivo deliberato, che il più delle volte non lascia dubbi
sulla sua interpretazione da parte del destinatario, ma che può anche
far leva su contenuti impliciti, presupposti o sottintesi (Kerbrat-Orecchioni 1986), specie quando l’oratore è mosso da un’intenzione ironica o sarcastica. La formulazione e l’indice di frequenza degli insulti svelano al lettore accorto gli schemi cognitivi di ciascun gruppo
politico, i suoi valori morali e, in generale, il suo modo di rappresentare la realtà. Essendo basata su criteri assiologici ideologicamente e
culturalmente predefiniti, l’offesa faziosa tende a raffigurare il destinatario come incarnazione degli attributi più nefandi. A tal proposito,
nella sua analisi cognitiva dell’insulto parlamentare, Ilie (2001: 260)
sostiene che esistono almeno tre buone ragioni per le quali l’insulto
è percepito come atto dotato di una vis comunicativa superiore a
quella del rimprovero, dell’accusa argomentata o della critica. In effetti, l’insulto:
a) fa sì che la carica emotiva del messaggio superi la forza della ragione, il che influenza non solo il destinatario dell’attacco, ma
anche gli altri partecipanti che assistono allo scambio comunicativo;
b) consolida il pregiudizio ideologico e gli schemi stereotipati di
ragionamento, contribuendo a innestarli nelle strutture di concettualizzazione accessibili al pubblico;
c) mina l’immagine, la posizione sociale e l’autorità del destinatario, privandolo del diritto di giustificarsi o di riabilitarsi, contrariamente a quanto avviene con l’accusa o la critica che ammettono una replica. Di conseguenza, l’insulto non consente la prosecuzione del dialogo.
In definitiva, il ricorso al linguaggio ingiurioso mira ad insidiare le
categorie concettuali della parte avversaria e, al contempo, a rafforzare le categorie del proprio gruppo: il più delle volte, infatti, l’insulto funge da marca di identità e viene impiegato per minimizzare le
differenze cognitive all’interno della propria compagine politica,
massimizzando tali differenze rispetto all’antagonista1. Va rilevato, in1
Si pensi agli epiteti ingiuriosi di Zapatético, sosoman o bambi, frequenti nel linguaggio della destra spagnola per definire il premier (cfr. Garofalo, 2008) o agli appellativi “comunisti” o “coglioni” che impreziosiscono il discorso berlusconiano. Tali epiteti
quintessenziano le qualità negative indesiderabili e coalizzano un gruppo nella lotta contro l’avversario.
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fine, che gran parte degli insulti, più di qualsiasi altra attività dialettica, si basano su paralogismi che la logica formale definisce fallacie:
argomenti che, pur essendo psicologicamente persuasivi, si rivelano
scorretti ad un attento esame (Copi 1961: 67). Di seguito, verranno
evidenziate le principali strategie pragmatiche attivate per colpire
l’immagine dell’avversario e le fallacie più evidenti su cui poggiano
gli enunciati presi in esame.
3. Insulto parlamentare e ‘politeness’: una prospettiva pragmatica
Alla base di un’analisi pragmatica dell’insulto vi è il concetto di lavoro di immagine (facework), termine coniato da Goffman (1988: 15)
e ripreso da Brown e Levinson (1987), i quali forniscono un’accurata
disamina delle strategie volte a tutelare l’immagine negativa del parlante e dell’interlocutore – il territorio fisico, spaziale o temporale dell’io – per disattivare potenziali minacce nel corso dell’interazione verbale o smussarne le asperità. Il modello della politeness di Brown e
Levinson si basa essenzialmente su strategie astenensioniste, volte a
non realizzare il FTA, o compensatrici, intese a mitigare la violenza di
un FTA mediante meccanismi riparatori (Kerbrat-Orecchioni 1992:
177). Questi autori, tuttavia, dicono ben poco sulle strategie discorsive volte ad aggravare il danno all’immagine dell’interlocutore: benché la scortesia sia altrettanto universale, la loro teoria non contempla
un’analoga sistematizzazione dei FTA realizzati on record, ossia deliberatamente concepiti come offensivi con l’intento di ferire il destinatario. Un maggiore sostegno alla definizione di un modello teorico si
trova nelle massime di Leech (1983), alla luce delle quali l’insulto viola l’arci-principio di cortesia (“siate cortesi”). Tale assioma non si innesta sulla nozione di facework ma sul rapporto costo / guadagno
che guida la condotta verbale dei parlanti: quando la distanza tra le
rispettive posizioni è incolmabile e la tensione comunicativa è alle
stelle, per il parlante può essere più economico insultare l’interlocutore che cercare di convincerlo, un’operazione che comporterebbe un
inutile spreco di energie. In tal caso, chi svillaneggia l’avversario considera più conveniente violare le massime di approvazione2 (massi-
2
Si veda Leech (1983: 132): “III) APPROBATION MAXIM (in expressives and assertives): a) Minimize dispraise of other; b) Maximise praise of other” […] VI. SYMPATHY
MAXIM (in assertives): a) Minimize antipathy between self and other; b) Maximize
sympathy between self and other”. Il concetto di insulto come deviazione dalle norme
che regolano la comunicazione cortese e cooperativa si trova anche in Kienpointner
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mizzando il disprezzo dell’altro) e di simpatia (massimizzando l’avversione tra parlante e destinatario) descritte da Leech (1983: 132).
Dopo aver delineato il quadro teorico in cui si colloca il presente studio, non rimane che definire il concetto di insulto, nelle sue modalità di realizzazione osservabili nel discorso di Rajoy e negli interventi
dei senatori italiani.
Ai fini del presente lavoro, considereremo insulto qualsiasi comportamento verbale lesivo dell’immagine dell’avversario, volto a ferirlo personalmente o a evidenziare l’insostenibilità delle sue affermazioni. Nel porre in essere tale comportamento, l’oratore di solito non
lascia adito a incertezze circa la sua intenzione di compiere una minaccia (in tal senso, l’insulto è un bald on record FTA nella terminologia di Brown e Levinson 1987: 60), che può realizzarsi in modo diretto, senza alcun meccanismo riparatore, o mediante strategie d’attenuazione, nel rispetto dalle norme di cortesia istituzionale. La scelta
tra formulazioni apertamente offensive ed espressioni di biasimo indirette sembra dettata dalla relazione costo-guadagno precedentemente
descritta, dal pathos dell’oratore e, ovviamente, dall’urbanità nell’interazione parlamentare che scoraggia il ricorso alla violenza verbale.
4. Motivazione dei FTA compiuti da Mariano Rajoy
Il lungo intervento dell’On. Rajoy è finalizzato a smascherare un
“sillogismo capzioso”, che lega il concetto di nazione a quello, non
direttamente connesso, di sovranità. Si tratta di un tipico caso di
paralogismo che, in logica formale (Copi 1961: 73), si definisce ignoratio elenchi (o conclusione irrilevante), una fallacia che si ha quando si cerca di presentare per buono un argomento in cui le premesse (il fatto che la Catalogna sia una nazione) non hanno necessariamente a che vedere con la conclusione (il fatto che sia una nazione
sovrana):
(1) Calificar este documento como reforma del Estatuto de Autonomía no
pasa de ser un eufemismo capcioso […]. Todo el Estatuto está construido
sobre un supuesto falso que dice así: Cataluña es una nación, luego es soberana, luego sus poderes emanan de su soberanía, luego tiene derecho a
decidir en solitario sus relaciones con el Estado español.
(1997), secondo il quale la dicotomia tra cortesia e scortesia andrebbe sostituita da un
continuum, con una gamma di comportamenti verbali intermedi tra i due estremi della
scala.
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Tutte le strategie discorsive di Mariano Rajoy mirano, quindi, a dimostrare l’incostituzionalità dell’impianto della proposta e a smascherare il presunto tentativo dell’esecutivo di avallare un progetto di riforma costituzionale sotto mentite spoglie, pur di continuare a governare con l’appoggio delle frange estremiste del nazionalismo catalano.
Siamo di fronte a un discorso di parte che fa appello al pathos (§ 2),
concepito secondo una lucida strategia d’offesa verso il Primo Ministro e di strenua difesa dei valori di costituzionalità, di cui il P.P. intende farsi paladino. Il dato che si impone immediatamente all’attenzione è l’elevatissima frequenza con cui ricorre il nome dell’avversario
(el señor Rodríguez Zapatero): in questo caso, la ricorrenza totale (De
Beaugrande e Dressler 1994: 70-71) non funziona tanto da meccanismo di coesione testuale, quanto da strategia pragmatica aggressiva
volta ad incalzare l’avversario e ad inchiodarlo alle sue responsabilità
politiche (si veda es. 4 di seguito). Il più delle volte, il Presidente del
Governo viene menzionato per realizzare FTA diretti, pesanti attacchi
ad hominem che irridono la sua leadership, la sua onestà intellettuale
e ne pongono in dubbio la correttezza morale. Altre volte, Zapatero e
il suo Governo vengono evocati in enunciati dal tono sprezzante, attraverso elementi anaforici (los proponentes, el PSOE y sus socios) e titoli di cortesia istituzionale (el Presidente del Gobierno, nuestro Gobierno), o appaiono come destinatari evidenti di enunciati indiretti ed
allusivi. Nei paragrafi seguenti prenderemo in esame gli insulti che
Rajoy dirige direttamente a Zapatero (bald on record FTA), senza nessun meccanismo di compensazione o con una lieve strategia compensatrice, e quelli realizzati in modo indiretto, senza chiamare in causa il
premier e il suo Governo, ma dotati di forza illocutoria chiaramente
identificabile come apprezzamento ironico o sarcastico.
4.1 Gli insulti diretti (bald on record FTA)
La formulazione indiretta è la via principale per disinnescare la
tensione che una critica personale rivolta all’interlocutore può generare: si tratta di un meccanismo sostitutivo, coincidente con la 7ª strategia on record di cortesia negativa indicata da Brown e Levinson
(1987: 190-206, “Impersonalize S and H. avoid the pronouns ‘I’ and
‘you’”). Come regola generale, il parlante che non desidera apparire
minaccioso o perentorio non chiama in causa direttamente la controparte e preferisce evitare i pronomi di prima e seconda persona, che
implicano la polarizzazione dello scontro. Nel suo intervento, Rajoy
disattende deliberatamente questa norma di cortesia e cita ben trentatré volte il nome dell’avversario, associato invariabilmente ad ele-
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menti assiologici negativi; gli attacchi verbali sferzati intendono colpire l’ethos di Zapatero, presentato come personaggio privo di scrupoli, incoerente e pronto a fare a pezzi la Costituzione per interessi
di bottega, pur di continuare a governare3:
(2) Señorías, no me sorprende descubrir una vez más que el señor Rodríguez Zapatero hace trampas. Lo lamento, pero no me sorprende.
(3) Es curioso cómo resulta que lo menos que le importa al señor Rodríguez
Zapatero es Cataluña. Está pensando en España, para nuestro mal. […] Cataluña no es más que una coartada para que el señor Rodríguez Zapatero
lleve adelante sus fantasías federalistas […].
(4) Señorías: si no se admitió el estatuto del señor Ibarretxe, ¿por qué se debe admitir el del señor Maragall? ¿Cuál es la diferencia? ¿Por qué los argumentos del señor Rodríguez Zapatero valían en febrero y ya no valen en noviembre? ¿Por qué? Por una razón: porque si el señor Rodríguez Zapatero no
asegura el trámite del Estatuto, el señor Rodríguez Zapatero no puede gobernar. Así de sencillo. El debate de hoy con su previsible resultado es parte del precio que el Presidente del Gobierno debe pagar para que le aprueben los Presupuestos y le permitan seguir gobernando. A esto se reduce todo, señorías.
(5) El señor Rodríguez Zapatero apadrina el desvarío y, para no quedarse
atrás, compite con los fundamentalistas más fervorosos. ¡Muy sorprendente!
Tutti questi enunciati, che non sono che un ridottissimo campionario degli insulti rivolti al Primo Ministro, per quanto possano apparire arguti o faceti, celano anch’essi alcuni vizi di ragionamento dal
punto di vista logico. In particolare, ricorrendo all’oltraggio diretto,
Mariano Rajoy utilizza un argomento ad hominem circostanziale (Copi 1961: 70), che consiste nel tentativo di demolire la posizione dell’avversario mostrando che la tesi che questi sostiene (la necessità di
decentralizzare sempre più il potere in Spagna) è funzionale alle circostanze in cui si trova (è al potere, lo fa per governare). Dal punto
di vista logico-formale, il fatto che Zapatero si trovi a mediare tra le
diverse componenti della sua maggioranza e che debba fare concessioni ai nazionalisti catalani, per assicurare la tenuta del suo Governo, non implica necessariamente che egli intenda ingannare gli Spagnoli, che non si preoccupi della Catalogna e che cospiri contro l’interesse generale per puro tornaconto. Sul piano della perlocutività
3
Negli esempi che seguono il corsivo è mio e serve ad evidenziare i fenomeni linguistici oggetto d’analisi.
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dell’insulto, gli attacchi ad hominem contro il Presidente del Governo funzionano come meccanismo di assertività: quando Rajoy si
spinge ad umiliare pubblicamente Zapatero, accusandolo di ordire
un inganno costituzionale alle spalle degli Spagnoli, non fa altro che
radicalizzare il confronto ed imporre il suo carisma di leader, magnificando il proprio ego e raccogliendo intorno a sé i parlamentari del
P.P. Non a caso, a livello testuale, il pronome di prima persona yo,
marcatore per antonomasia di egocentrismo, ricorre ben 14 volte (a
fronte delle 9 occorrenze del pronome nosotros e delle 6 di Ustedes)
e, in più punti dell’intervento, diventa il centro deittico del discorso,
contribuendo a rendere ibrido il registro, con molteplici contaminazioni colloquiali, peraltro assenti nel discorso di Zapatero (cfr. Garofalo, 2008):
(6) No me digan nada, señorías. Tiempo han tenido de hacer las correcciones y no han querido hacerlas. Yo no lo he escrito. Lo han escrito ustedes.
(7) Lo que me deja estupefacto es esta súbita conversión, este abrazo suyo
con los valores del nacionalismo […]. Digo yo que se habrá convertido, el
señor Zapatero, puesto que apadrina el desvarío y […] compite con los fundamentalistas más fervorosos.
Gli esempi (6) e (7) illustrano il valore pragmatico del pronome
yo nella strategia discorsiva di Rajoy, il quale sostiene con enfasi la
propria argomentazione, polarizza lo scontro con l’esecutivo (Yo /
ustedes) e si pone come testa d’ariete dell’opposizione, raccogliendo
l’unanime sostegno del suo gruppo. Questa strategia, mediante la
quale l’ego dell’oratore appare spesso tematizzato, conferisce talvolta una coloritura colloquiale agli enunciati (7), dato che, a detta di
Briz (2001: 84)
la aparición constante del pronombre de primera persona no es sino una
manifestación de la construcción de la autoimagen o de la protección de la
misma en la conversación coloquial. «Yo soy yo y mis circunstancias» y tú
has de conocerlas y tenerlas presentes antes y durante nuestra interacción.
L’uso polemico dei deittici personali prevede, altresì, l’impiego
del pronome di prima persona plurale nosotros, che è dotato di una
valenza ‘partigiana4’ e ‘alza una barriera’ contro il Governo:
4
L’intenzionalità sottesa all’uso di nosotros, nel discorso di Rajoy, è diametralmente
opposta rispetto a quella attribuibile allo stesso pronome nel discorso di Zapatero, il
quale, nella ricerca di un terreno di intesa con l’avversario, non impiega nosotros in mo-
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(8) O nos ponemos de acuerdo para cambiar la Constitución o la dejamos
como está. Y si la dejamos como está, hay que respetarla y, desde luego,
quien no la respete topará con nosotros.
Se poi confrontiamo negli interventi di Zapatero e di Rajoy la frequenza del futuro, elemento verbale che introduce tensione modale
nel discorso5, riscontriamo che, nella stessa circostanza, il Presidente
del Governo vi ricorre solo 15 volte, con l’intenzione di smorzare i
toni del dibattito (Garofalo, 2008), mentre Rajoy lo utilizza 47 volte,
nella forma semplice o perifrastica, specie nella chiusa del suo intervento. Il dato non sembra trascurabile, poiché il futuro, da un punto
di vista pragmatico, introduce un elemento di tensione tra il presente
in cui l’oratore realizza il FTA ed il momento in cui conta di concretizzare il suo obiettivo. Questa strategia è attivata di solito nelle fasi
culminanti del discorso, come nel macroatto commissivo (9) – dove
l’accumulazione martellante di futuri enfatizza la minaccia a Zapatero
implicita nelle promesse di Rajoy – e nell’enunciato finale (10), in cui
la determinazione dell’oratore ad opporsi al progetto è rafforzata dalla componente dinamica del verbo ir, nella perifrasi ir + a + infinitivo:
(9) No vamos a secundar la aventura del señor Rodríguez Zapatero, pero
tampoco nos vamos a desentender. Reclamaremos el respeto a la Constitución. No prestaremos nuestro acuerdo a ningún remiendo.
(10) Puedo asegurar que el principal deseo de los millones de españoles
que votan al Partido Popular —y el de algunos que no lo votan— es que
nos opongamos a esta torpeza. Eso es lo que vamos a hacer con todas nuestras fuerzas.
4.2 Gli insulti indiretti
Si tratta di FTA realizzati mediante formulazioni generali, in cui
l’oratore dice meno di quello che lascia intendere o qualcosa di diverso rispetto a ciò che comunica. In entrambi i casi, l’offesa è com-
do fazioso, ma quasi sempre con valore inclusivo, come sinonimo di todos los españoles
(cfr. Garofalo, 2008).
5
È l’interessante tesi sostenuta da Adam (1984: 190, trad. mia), secondo il quale
enunciare al futuro “non significa semplicemente situare un elemento nell’avvenire, significa desiderare, ordinare, temere, ecc. Solo una visione riduttrice del linguaggio che
ne fa un semplice veicolo di informazioni può far ritenere marginale ciò che è in realtà
la stessa essenza del futuro: la tensione modale”.
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piuta in modo allusivo (off record, nella definizione di Brown e Levinson 1987: 211) e l’Assemblea è chiamata a compiere un’inferenza
per recuperare il senso del messaggio. L’elemento testuale che fa
scattare l’implicatura nel destinatario è di solito la violazione di una
delle massime conversazionali di Grice (1993). Brown e Levinson
(1987: 214) propongono un compendio delle strategie indirette, riportato di seguito, secondo cui alla violazione di ciascuna massima
risultano associate particolari formulazioni indirette dei FTA:
Massima violata
Strategie attivate per realizzare il FTA
Relazione
1. Fare allusioni
2. Fornire indizi
3. Usare presupposizioni
Quantità
4. Minimizzare l’espressione (litote)
5. Esagerare l’espressione (iperbole)
6. Ricorrere a tautologie
Qualità
7.
8.
9.
10.
Ricorrere alla contraddizione
Usare l’ironia
Usare metafore
Usare domande retoriche
Maniera
11. Essere ambigui
12. Essere vaghi
13. Generalizzare
14. Sostituire il destinatario
15. Ricorrere all’ellissi
Ad eccezione della seconda e della quarta (probabilmente troppo
sottili e sfumate per il sarcasmo e l’ironia tagliente di Rajoy), tutte le
strategie citate sono state rinvenute nel discorso in esame; per rendere un’idea dell’indice di frequenza delle formulazioni indirette più ricorrenti, si è scelto di riportare in corsivo quelle preferite dall’oratore. Con buona approssimazione, l’incidenza della violazione di ciascuna massima nel discorso può essere riassunta con le seguenti percentuali: 40% qualità, 30% maniera, 20% quantità, 10% relazione. Tali valori consentono di delineare alcune regolarità dello stile di Rajoy
(ad esempio, una spiccata tendenza all’ironia e al sarcasmo, legata alla violazione delle massime di qualità e quantità): si tratta di scelte intenzionali dell’oratore, sulle quali il traduttore è chiamato a riflettere
nella ricerca dell’equivalenza comunicativa e pragmatica. Va segnala-
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to che, nella trattazione di Brown e Levinson (1987: 211-213), un FTA
è realizzato off record quando al medesimo non è possibile ascrivere
un’intenzione univoca: in tal modo, il parlante lascia l’interpretazione
del proprio enunciato all’interlocutore e può sempre disconoscere
l’inferenza più malevola, sostenendo di esser stato frainteso. Gli stessi autori ammettono, tuttavia, che la maggior parte delle classiche
strategie off record (ironia, metafora, domande retoriche, litote, iperbole, ecc.) possono di fatto figurare in enunciati che ammettono
un’unica interpretazione all’interno di un contesto determinato. Accennando a questi particolari usi delle strategie in esame, Brown and
Levinson (1987: 212) parlano di on-record off-recordness (strategie indirette impiegate con un’intenzionalità riconoscibile), un concetto non
sufficientemente sviluppato dai due autori ma assolutamente centrale
nel discorso in esame e, più in generale, nel linguaggio politico. Ora,
l’intervento di Mariano Rajoy riflette le strategie off record descritte, ma
l’obiettivo pragmatico dell’oratore (condannare il progetto catalano e
fustigare Zapatero) non potrebbe di certo esser raggiunto se l’intenzionalità di fondo non risultasse lampante a tutta l’Assemblea. Per tale ragione, il forte biasimo espresso dall’oratore è immediatamente percepibile nella quasi totalità dei suoi enunciati. Solo in pochi punti dell’intervento la critica si fa velata e Rajoy allude a contenuti impliciti che,
per essere decifrati, richiedono la conoscenza del contesto extra-verbale e l’attivazione delle competenze enciclopediche da parte del destinatario (Kerbrat-Orecchioni 1986: 8-9). In effetti, sono proprio i significati sottintesi a porre i maggiori problemi per la decodificazione e
la riformulazione del messaggio in un’altra lingua. Di seguito vengono
riportati e brevemente commentati alcuni esempi delle strategie off record osservabili nell’intervento del Presidente del P.P. Non sono state
rilevate occorrenze della seconda e della quarta strategia, poco significative ai fini degli obiettivi retorici di Rajoy.
4.2.1 Strategia 1: fare insinuazioni
I contenuti impliciti (presupposti o sottintesi) hanno in comune la
proprietà di non costituire il vero oggetto del messaggio. I sottintesi
comprendono tutte le informazioni suscettibili di essere veicolate da
un enunciato, ma la cui attualizzazione rimane legata a una conferma
di tipo contestuale o cotestuale: senza una conferma di questo genere, i sottintesi esistono solo allo stato di virtualità latenti (KerbratOrecchioni 1986: 41). Per tale ragione, per interpretare un significato
sottinteso, l’ascoltatore deve ricorrere alle proprie conoscenze enciclopediche. L’insinuazione costituisce un caso particolare di sottinte-
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so malevolo: affinché si possa parlare di insinuazione, bisogna ammettere che un certo contenuto si trova: a) enunciato; b) al modo implicito; c) con l’intento di screditare il destinatario dello stesso (Kerbrat-Orecchioni 1986: 43). Nell’esempio seguente, l’affermazione ‘cada uno sabe cuál es su responsabilidad ante los ciudadanos. Yo conozco la mía’ può essere letta come invettiva contro Zapatero (Yo sé
qué responsabilidades tengo, a diferencia de Ud., que es un irresponsable), data la palese avversione di Rajoy alla linea del PSOE:
(11) Señorías, cada uno sabe cuál es su responsabilidad ante los ciudadanos. Yo conozco la mía y puedo asegurar que el principal deseo de los millones de españoles que votan al Partido Popular —y el de algunos que no
lo votan— es que nos opongamos a esta torpeza.
Per le stesse ragioni, nell’esempio (12) sono percepibili una serie
di offese implicite (no defendéis a España, no tenéis memoria, no deseáis una España unida, no amáis a España), fondate sull’insinuazione a diferencia de vosotros, nonché sull’identificazione partigiana
di nosotros con los españoles:
(12) Esta es la España que vamos a defender, y la defendemos:
• porque los españoles tenemos memoria. No hemos olvidado la trágica historia de los últimos doscientos años y las energías que hemos consumido
en querellas estériles y excluyentes. […]
• la defendemos, porque hoy necesitamos una España unida, cohesionada,
capaz de participar activa y eficazmente en la Unión Europea y afrontar con
éxito los retos de la globalización.
• La defendemos, en fin, porque amamos a España y nos importa lo que
afecte a los españoles, a sus derechos, a su futuro, a su libertad.
4.2.2 Strategia 3: usare presupposizioni
I FTA presupposti non hanno lo stesso statuto linguistico di quelli esplicitamente ‘posti’: più sotterranei e meno percettibili, sono apparentemente meno ‘importanti’ e più discreti. Ma è proprio questa
loro ‘discrezione’ che ne costituisce la forza comunicativa e li dota di
un notevole potere manipolatorio. Sulla scorta della definizione fornita da Kerbrat-Orecchioni (1986: 25 trad. mia), consideriamo ‘presupposizioni’ gli assunti di fondo di un enunciato, ovvero “informazioni che senza essere esplicitamente poste (pur non costituendo l’obiettivo del messaggio comunicato) sono tuttavia automaticamente
implicite nella formulazione dell’enunciato nel quale si trovano intrinsecamente iscritte”. Si ritiene che i contenuti presupposti debbano
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corrispondere a realtà conosciute ed accettate dal destinatario, contenuti dati per scontati, sui quali non è ammissibile discutere (Huntley
1976: 71): ciò che si presuppone appartiene quindi all’enciclopedia
comune dei parlanti. All’interno del discorso politico, comunque, le
informazioni date per scontate non risultano sempre immediatamente accessibi a un lettore non informato (specie se non spagnolo) e
possono porre molteplici problemi traduttivi per la difficoltà d’identificazione del significato implicito:
(13) Ese poder, que todos ustedes representan, lo ejerce exclusivamente el
pueblo español constituido en nación. En eso consiste la soberanía nacional. Ante él nadie habla de igual a igual. Ante él no se blindan ni ríos ni
competencias.
(14) Y digo, también, que todo iría mucho mejor si algunos en Cataluña no
facilitaran estas reacciones mezclando, o permitiendo que se mezclen, asociaciones y clubes deportivos con los intereses políticos del Tripartito.
L’enunciato (13) presuppone la conoscenza dello spinoso problema delle competenze esclusive che le singole Comunità Autonome
reclamano, nei loro Statuti, sui bacini imbriferi siti nel loro territorio.
Una delle rivendicazioni avanzate dai politici catalani consiste proprio nel blindaggio del bacino dell’Ebro, a vantaggio dell’economia
Catalana, proposta che ha suscitato accese proteste da parte delle
Comunità confinanti. L’uso metaforico del verbo blindar poggia su
questo presupposto e sulla conoscenza delle competencias excluyentes che la Catalogna richiedeva in diverse materie nella prima stesura
dello Statut. Ovviamente, Rajoy fa leva su questi significati impliciti
per tacciare i nazionalisti catalani di scarso senso di solidarietà. L’esempio (14), invece, è un FTA indiretto, rivolto a Josep-Lluís CarodRovira, leader di Esquerra Republicana, favorevole alla fuoriuscita dei
giocatori catalani dalle squadre spagnole e alla fondazione di una società calcistica nazionale catalana. In questo caso, il FTA viene attenuato mediante il contemporaneo ricorso alla spersonalizzazione
(strategia n. 14) e all’attivazione di presupposizioni. Talvolta i contenuti impliciti si prestano a vere e proprie manipolazioni discorsive,
che danno per scontato ciò che in effetti non lo è, ovvero le cosiddette figure della mala fede discorsiva (Kerbrat-Orecchioni 1984:
213). Si tratta di false presupposizioni introdotte tra le pieghe degli
enunciati come verità incontestabili ma che, in effetti, costituiscono
opinioni quanto meno dubbie. L’astuzia consiste nel far passare l’informazione discutibile per una presupposizione discorsiva, presentandola come verità incontestabile, “come endoxa, opinione comune
e diffusa presso i più, difficile da smantellare” (Eco 1973: 94). In tal
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modo, l’oratore non (pro)pone la sua opinione di parte ma la impone all’interlocutore come un dato di fatto6:
(15) Todos sabemos qué significa el término nación en la Constitución y no
necesitamos que nadie revuelva su significado con sutilezas que admitan
cualquier sentido o ninguno, según convenga al talante. El concepto constitucional de nación está indisolublemente unido a la soberanía.
Il particolare schema argomentativo riportato costituisce una fallacia informale di rilevanza7, in particolare un argumentum ad populum (appello al popolo), ossia il tentativo di fare accettare una tesi
solo perché la maggioranza la considera vera (Benzi 2002). È evidente che il ragionamento di Rajoy contiene un errore di forma dal punto di vista logico: non tutti in Spagna convengono su un significato
univoco del termine nación, se così fosse, la diatriba sulla definizione della Catalogna come nación non sarebbe nemmeno sorta. Ancora una volta, i dati linguistici confermano l’ipotesi di Ilie (2004: 4951), secondo la quale le strategie di insulto dei singoli oratori riflettono le categorie assiologiche dello schieramento di appartenenza ed il
tentativo di imporle all’avversario mediante un’aggressività verbale
più o meno manifesta.
4.2.3 Strategia 5: esagerare l’espressione (iperbole)
Consiste nel dire molto di più del necessario, violando clamorosamente la massima di quantità; l’obiettivo è mettere alla berlina il progetto del Primo Ministro, evidenziando gli aspetti più reazionari dello Statut. Si vedano i seguenti casi di iperbole pura (Lausberg 1969:
122), ottenuta con un’accumulazione di sinonimi amplificanti nel
senso della partigianeria, strategia che oltrepassa i limiti della credibilità, creando un effetto comico. Si noti anche la tendenza a mescola-
6
Questo genere di astuzia ricorda la fallacia che la logica definisce plurium interrogationum (questione complessa), spiegabile mediante l’esempio canonico: “hai smesso di picchiare tua moglie?”. L’interrogativo corrisponde a una questione complessa perché non ammette una semplice risposta del tipo “sì / no”, se uno non ha mai picchiato
la propria moglie. Di fatto, la domanda impone all’interlocutore una falsa presupposizione che implica un’altra domanda (“hai mai picchiato tua moglie?”): dietro una domanda
semplice, si nasconde in realtà un complesso di questioni (cfr. Benzi 2002: 189).
7
Le fallacie informali di rilevanza sono definite da Benzi (2002: 186) come “tipi di
argomenti nei quali vengono utilizzati, a sostegno della conclusione, elementi che non
sono rilevanti per la conclusione stessa e che risultano pertanto inadeguati a stabilirne la
verità”.
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re voci appartenenti a un registro aulico (franquicias, fielatos, almojarifazgos, alcabalas) ad espressioni colloquiali (de sopetón), commistione stilistica che contribuisce a render lepido l’enunciato:
(16) Lo diré con todo respeto, señorías: protege el señor Rodríguez Zapatero un texto tan avanzado que, de aplicarse, nos instalaría de sopetón en el
siglo XVIII, es decir en un clima de privilegios económicos, jurisdicciones
especiales, derechos históricos, franquicias diversas y, sobre todo, absoluta
sumisión individual. Me sorprende que el señor Rodríguez Zapatero, para
completar el cuadro, no haya sugerido que se resuciten los fielatos, los almojarifazgos, las alcabalas... y el sombrero de tres picos.
4.2.4 Strategia 6: usare tautologie
Pronunciando apparenti ovvietà, Rajoy critica la politica di Zapatero, colpevole ai suoi occhi di realizzare eccessive concessioni ai nazionalisti, indebolendo l’identità comune spagnola. Per risultare maggiormente efficaci, la tautologie di seguito riportate si combinano
con altre strategie off record, in particolare con la 3 (usare presupposizioni: como todo el mundo sabe), la 8 (ironia: no lo van a creer), la
12 (essere vaghi: aunque algunos se olvidan, aunque pueda sorprender) che realizzano FTA indiretti rivolti alla maggioranza di Governo:
(17) Porque en España, como todo el mundo sabe, aunque algunos lo olvidan, en España hay españoles. Cuarenta millones de seres humanos que,
aunque pueda sorprender, se muestran obstinadamente dispuestos a seguir
siendo españoles.
(18) España es muy plural, señorías. […] No lo van a creer, pero ya lo era
antes de la llegada gobierno del señor Rodríguez Zapatero. Muy plural, pero no por ser plural deja de ser España.
4.2.5 Strategia 7: ricorrere alla contraddizione
Le contraddizioni – come l’ironia, le metafore o le domande retoriche – comportano una violazione della massima di qualità. Affermando due cose in contrasto tra di loro, Rajoy lascia intendere chiaramente di non credere alla fattibilità del progetto di Zapatero, impegnato nella ricerca di un compromesso con le forze politiche del nazionalismo estremista, che caldeggiano soluzioni indipendentiste:
(19) Lo que no puede ser, señorías, es que este concepto [de nación] se
pacte o se le busquen apaños para, según se dice, integrar el independen-
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tismo en la Constitución. Confieso que me estoy habituando a escuchar toda suerte de excentricidades, pero después de escuchar lo del rey republicano y lo del ejército sin armas, lo único que me faltaba por oír era esto del
independentismo constitucional.
Un caso particolare di contraddizione è la giustapposizione di
concetti opposti, come disprezzo/rispetto che – secondo le osservazioni di Ilie (2004: 56-58) sul dibattito parlamentare inglese e svedese – è un caratteristico meccanismo di attenuazione dell’insulto parlamentare. Attivando questa strategia, l’oratore tenta di attutire le
espressioni ingiuriose rivolte all’avversario, mediante l’uso concomitante di formule rituali di rispetto. Nell’intervento di Rajoy, l’operatore modale con todo respeto ricorre sei volte, sempre associato a un
FTA: funge da “enunciato preparatorio” o “disarmatore” (Schegloff
1980), annunciando l’atto offensivo per smorzarlo.
4.2.6 Strategia 8: usare l’ironia
Affermando l’opposto di quello che effettivamente pensa, Rajoy
trasgredisce la massima di qualità, per denunciare le contraddizioni
insite nel linguaggio di Zapatero, che dà al P.P. l’impressione di prendersi gioco del buon senso degli Spagnoli:
(20) Lo gracioso es que (= Lo que Ud. nos dice no es nada gracioso) mientras
se hacen estas cosas y las que comentaré más adelante, se nos habla de
‘confianza en la solidez de las instituciones democráticas’. ¿Es una broma?
La cosa tiene su sorna (= Esto parece una tomadura de pelo, pero el asunto
es muy serio).
Il significato implicito dell’enunciato ironico coincide con l’esatto
contrario di quanto viene affermato.
4.2.7 Strategia 9: usare metafore
La metafora, come paragone condensato o abbreviato che sostituisce una parola più ‘esatta’ ma meno espressiva (Berruto 1976:
117), implica per sua stessa natura una violazione della massima di
qualità. All’interno di un enunciato offensivo, ha di solito un valore
d’intensificazione e fa appello al pathos dell’Assemblea, il più delle
volte con la finalità del delectare. Nel ricchissimo repertorio di metafore impiegate da Rajoy, dominano quelle attinte dal linguaggio popolare e vivacizzate da brillanti modismos, che avvicinano l’espres-
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sione del leader del P.P. al linguaggio del cittadino comune, facendolo apparire sincero e persuasivo. Come vedremo, questa sapida commistione di tratti colloquiali e letterari – caratteristica di uno stile collettivo ispanico particolarmente evidente nell’eloquio di Rajoy – oppone diverse difficoltà traduttive per l’assenza di un registro altrettanto colorito ed immaginifico nel corpus italiano consultato:
(21) La distancia entre el Estatuto y la Constitución es tan abismal que cualquier acomodo resulta imposible. Por muchos parches que se le pongan,
seguirá siendo inconstitucional. Permítanme una licencia. Esto es como pretender hacerle la permanente a un puercoespín.
(22) Estamos en un viaje hacia lo desconocido que sirve para hermanar al
Presidente del Gobierno con el señor Carod Rovira – o sabe Dios con
quien, señores del PNV, y no me refiero a ustedes – porque, si me permiten la expresión, se juntan el hambre y las ganas de comer.
4.2.8 Strategia 10: usare domande retoriche
Formulare una domanda senza l’intenzione di ottenere una risposta significa infrangere la condizione fondamentale di sincerità, specie se poi il parlante fornisce all’interlocutore l’informazione oggetto
del quesito (Brown e Levinson 1987: 223). Si tratta della strategia off
record in assoluto più utilizzata da Rajoy, con l’obiettivo di porre Zapatero di fronte alle sue responsabilità, ad esempio per fargli ammettere che l’approvazione dello Statuto catalano è il prezzo da pagare
per governare:
(23) ¿Por qué los argumentos del señor Rodríguez Zapatero valían en febrero y ya no valen en noviembre? ¿Por qué? Por una razón, porque si el señor
Rodríguez Zapatero no asegura el trámite del Estatuto, el señor Rodríguez
Zapatero no puede gobernar. Así de sencillo.
All’interno del discorso, l’interrogativo ¿por qué? ricorre ben 17
volte, una frequenza che dà un’idea dei reiterati attacchi verbali rivolti al Premier.
4.2.9 Strategia 11: essere ambigui
L’ambiguità intenzionale che amplifica un FTA presenta alcune affinità con il sottinteso (§ 4.2.1), in quanto fa spesso appello alle competenze enciclopediche e retorico-pragmatiche del destinatario.
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Spesso l’ambiguità è ottenuta attraverso un termine metaforico e l’interpretazione dipende dal valore attribuito ai tratti semantici instabili
della parola o “connotemi8”, come nel caso della metafora las esencias, decifrabile in base al valore connotativo che essa assume nel
contesto (los intereses de la clase política catalana):
(24) Un texto que sanciona la división en castas de la población catalana;
que limita el autogobierno de los ciudadanos de Cataluña para ponerlo en
manos de los políticos catalanes. Es muy coherente, porque si el destino
colectivo tiene derechos, es natural que el ciudadano sacrifique los suyos
para no entorpecer el progreso de las esencias.
4.2.10 Strategia 12: essere vaghi
Consiste nella strategia che Haverkate (1994: 183) definisce manipolazione delle coordinate deittiche della persona, che si realizza
mediante la desfocalización de la identidad del oyente. In spagnolo,
i correlati grammaticali sono di solito la diatesi passiva, mediopasiva
o impersonale, le forme non personali del verbo, i pronomi indefiniti, relativi ecc. La finalità illocutiva di questa strategia dell’anonimato
indicata in letteratura (Brown e Levinson 1987: 226; Fraser 1980: 347;
Haverkate 1994: 183-185; Kerbrat-Orecchioni 1992: 206-209) è attenuare un FTA ogni qual volta il riferimento alla relazione intersoggettiva può avere un effetto brusco o minaccioso sul destinatario. Nel
discorso politico, la spersonalizzazione dell’enunciato corrisponde
spesso a un’accusa indiretta mossa ad un destinatario identificabile
da parte dell’Assemblea (nel caso specifico, Zapatero e i suoi alleati),
ma che l’oratore non menziona per ragioni di opportunità, rendendo
il proprio enunciato volutamente allusivo. Sotto diversi aspetti, la
spersonalizzazione presenta punti in comune con l’insinuazione
(strategia 1) e con la sostituzione del destinatario (strategia 14). Nell’esempio seguente, questa strategia si combina con la figura dell’anafora, che serve all’amplificazione emozionale: la ricorrenza totale
arresta la corrente di informazione e fa risuonare l’accusa nelle orecchie dell’Assemblea, con un evidente appello al pathos:
8
Il contenuto di un lessema è dato dall’unione di 1) tratti costanti o semi, il cui insieme costituisce il semema, all’interno del quale i semi si trovano almeno in parte gerarchizzati; 2) tratti instabili o connotemi (definiti anche “tratti di connotazione”). Ai fini
dell’inferenza del significato implicito, i tratti di connotazione sono assimilabili ai sottintesi, mentre i semi corrispondono a significati posti o presupposti (cfr. Kerbrat-Orecchioni 1986: 45).
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(25) Soy consciente de que estamos ante un debate muy delicado, con muchas sensibilidades a flor de piel. Esto no es casual: alguien se ha esforzado para agitar los ánimos; alguien se comprometió a que este Estatuto sería admitido tal y como viniera […].
4.2.11 Strategia 13: generalizzare
Si realizza formulando l’offesa sotto forma di una regola generale,
di un adagio o di un proverbio che, nella circostanza specifica, genera un’implicatura che minaccia l’immagine del destinatario o ne scredita la linea politica:
(26) Señorías, cuando una casa se construye de espaldas a las normas urbanísticas, los ayuntamientos, como es lógico, no exigen reformas sino derribos. Aquí, por lo visto, no tiene sitio esta lógica de cajón.
Con l’enunciato (26), attraverso una similitudine contenente una
“regola di condotta”, Rajoy sostiene indirettamente che lo Statuto è
del tutto incostituzionale e che andrebbe riscritto di sana pianta (si
veda anche l’esempio 21). La similitudine, tra l’altro, è solo “psicologicamente plausibile” e coincide con un argumentum ad verecundiam (Copi 1961: 73). Si è in presenza di un tale argomento quando
si cita come prova la condotta di qualcun altro (los Ayuntamientos)
che non può essere legittimamente considerato un esperto in quel
campo (i comuni non sono competenti in materia legislativa e costituzionale).
4.2.12 Strategia 14: sostituire il destinatario
Equivale al “tropo comunicazionale” descritto da Kerbrat-Orecchioni, ossia alla strategia di “parlare a suocera perché nuora intenda”: fingendo di indirizzare il FTA ad un altro destinatario (un referente generico), si tutela l’immagine del vero interlocutore. Nel discorso di Rajoy, questa strategia ha un valore pragmatico affine a
quello dell’ironia (§ 4.2.6) e dell’insinuazione (§ 4.2.1):
(27) Hay personas que se confiesan enamoradísimas de la democracia pero
se olvidan de ella en cuanto estorba sus conveniencias.
Una particolare realizzazione di questo tropo corrisponde al trasferimento di attribuzione (attribution transfer strategy) individuato
da Ilie (2004: 59-61): per evitare di ferire direttamente l’immagine
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dell’interlocutore e di assumersi in prima persona la responsabilità di
un insulto, l’oratore non attacca direttamente l’avversario, ma un’azione, un’affermazione o un testo presentato o sostenuto da quest’ultimo (§ 5 b):
(28) Tenemos un texto construido sobre una base ajena a la Constitución
–que, insisto, el señor Rodríguez Zapatero, insisto, ni rechaza ni denuncia
ni corrige.
4.2.13 Strategia 15: ricorrere all’ellissi
Costituisce una violazione contemporanea delle massime di
quantità e di maniera; lasciando l’enunciato sospeso, Rajoy sollecita
l’Assemblea a compiere un’inferenza, coincidente con il biasimo del
Governo, come nel caso delle domande retoriche. Nell’esempio (29)
l’implicito comunicato mediante l’enunciato sospeso ha un valore enfatico evidente:
(29) Cataluña no es más que una coartada para que el señor Rodríguez Zapatero lleve adelante sus fantasías federalistas y comience a caminar hacia
la España Plurinacional, el Estado Federal Asimétrico o la Confederación
Ibérica de Naciones... que no sé yo con precisión qué es lo que busca.
5. Categorie d’insulto nel corpus italiano e problemi di equivalenza
stilistico-pragmatica
Il confronto dell’intervento di Mariano Rajoy con nove discorsi
parlamentari italiani mira ad evidenziare il grado di corrispondenza
tra le strategie di offesa descritte nei precedenti paragrafi e i FTA realizzati dai Senatori dell’opposizione in Italia, nella stessa circostanza
comunicativa. Le riflessioni proposte di seguito costituiscono un necessario preambolo all’attività traduttiva: è essenziale che il traduttore sia consapevole dei meccanismi pragmatici che presiedono all’organizzazione del discorso politico nelle due lingue e che acquisisca
una padronanza delle regolarità dei fenomeni discorsivi e retorici che
determinano lo stile collettivo dei parlanti (Scavée e Intravaia 1979).
Nel raffrontare il testo spagnolo e i discorsi italiani, si cercherà di evidenziare, innanzi tutto, le caratteristiche dello stile parlamentare italiano per quanto riguarda le ‘convenzioni di realizzazione dell’insulto’. Al di là delle ovvie differenze tra le formule allocutive in uso nei
due Parlamenti (Señor Presidente, Señorías, Señoras y Señores = Signor Presidente, onorevoli colleghi…), le caratteristiche del genere
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devono assistere il traduttore a negoziare le scelte traduttive e le opportune isotopie a livello comunicativo e pragmatico, in vista dell’inevitabile compromesso tra le specificità stilistiche e idiolettali di Rajoy e le convenzioni del dibattito parlamentare italiano. Prima di distinguere le strategie d’insulto ‘culturalmente sensibili’ nei due Parlamenti, va evidenziata la casuale contemporaneità degli interventi:
quello di Rajoy è del 2 novembre 2005, il corpus italiano si riferisce
alle sedute del Senato del 15 e 16 novembre dello stesso anno. Entrambi i dibattiti si svolgono, inoltre, in un quadro politico-istituzionale sostanzialmente analogo, che vede una forza minoritaria di Governo (i nazionalisti catalani in Spagna, la Lega in Italia) imporre un
progetto di riforma in senso marcatamente autonomista, su materie
di rilevanza costituzionale. Nei due Parlamenti, tuttavia, le parti si invertono: ad avviare l’iter parlamentare dello Satut è il governo socialista di José Luís Rodríguez Zapatero; in Italia la devolution viene approvata dal governo di centro-destra di Berlusconi. Questa differenza
del quadro politico di riferimento consente di ipotizzare che i correlati linguistici dei FTA riflettano atteggiamenti ideologici diversi nei
due Paesi. La frequenza nel corpus italiano delle strategie descritte in
§§ 4.1 e 4.2 costituisce la prima tappa volta a collocare le unità linguistiche in categorie di contenuto (Cella Ristaino e Di Termini 1998:
211), rivelatrici di atteggiamenti ideologici. Ad una prima osservazione macroscopica del corpus italiano, il dato che sorprende è l’assenza pressoché totale di FTA diretti, all’indirizzo dell’on. Berlusconi. Se
Rajoy chiama personalmente in causa Zapatero, lo incalza e lo deride (§ 4.1), i senatori dell’Ulivo non nominano mai il Premier 9 che
non è oggetto di alcuna invettiva ad hominem. I dati del corpus,
dunque, non forniscono al traduttore un modello reale di riferimento
nella ricerca dell’equivalenza dell’insulto diretto, dato che i senatori
italiani, nei rari casi in cui criticano Berlusconi, attivano una sostituzione del referente e ricorrono all’antonomasia (‘il Premier’, ‘il Presidente del Consiglio’), strategia che rende il FTA meno perentorio e –
rispetto agli enunciati (2), (3), (4), (5) – conserva il tenore istituzionale del colloquio:
(30) Noi siamo qui, a votare una legge decisiva per la tenuta della coalizione di centro-destra, tanto che il Premier stesso, avvezzo ai numeri […] ha
9
All’interno del corpus, l’unico enunciato contenente il cognome dell’allora Primo
Ministro è pronunciato da Scalfaro, ma non costituisce un insulto: “Personalmente sono
sempre stato contrario al ribaltone. Del resto nel lontano 1994 […] mi opposi alla sollecitazione del segretario politico dell’epoca, onorevole Buttiglione, e non presentai al Senato […], la mozione di sfiducia nei confronti del Governo Berlusconi.”
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rinviato un viaggio in Israele per essere a Roma, dove è in corso una partita di quelle in cui, lo dico con il rispetto dovuto al gioco democratico, è bene stare vicino ai numeri e, per così dire, alle maglie dei giocatori (Zavoli).
(31) Mi domando con quale animo un uomo come il Presidente del Consiglio, uso a primeggiare, abbia potuto spingere la sua duttilità – al punto di
castigare il suo orgoglio – fino ad accettare che tempi e precedenze fossero
stabilite dal leader leghista (Zavoli).
Dal momento che “le assenze di classi di parole e di forme, quando sono sistematiche, sono qualificanti al pari delle presenze, dal
punto di vista tipologico” (Mortara Garavelli 2001: 118), è lecito interrogarsi sulle ragioni della divergenza di queste strategie che, ovviamente, generano effetti perlocutori diversi in ordine alla gravità dell’offesa. È probabile che la strategia astensionista prevalga nel linguaggio della sinistra italiana per il radicato timore di demonizzare
Berlusconi e di accrescerne indirettamente la popolarità. Questo atteggiamento potrebbe essere il portato della riflessione innescata dalle sconfitte elettorali del 1994 e del 2001, che condusse gli esponenti
della sinistra a rinnovare il loro codice comunicativo e ad attestarsi su
posizioni più moderate10. Inoltre, la presenza nel corpus italiano di
cinque FTA indirizzati a Umberto Bossi avvalora l’ipotesi che le strategia di sostituzione del destinatario sia un trattamento prevalentemente riservato dai senatori dell’Ulivo al leader della Casa delle Libertà:
(32) Perché la Lega tace sul centralismo del Governo di cui fa parte? Tace
perché, alla battaglia aperta che un tempo conduceva, preferisce, onorevole Bossi, le poltrone sicure del potere di Roma. Questo è davvero inaccettabile (Angius).
(33) Ed è significativo che oggi, nella tribuna presidenziale sieda proprio
Umberto Bossi, che oggi può guardare con soddisfazione quanti passi in
avanti abbia fatto la sua idea della secessione. È il suo trionfo! (Bordon).
È altrettanto significativo che, nell’intervento di Rajoy, i veri promotori della riforma passino in secondo piano: vengono semplicemente evocati in modo impersonale (los proponentes; los socios del
10
Alcuni intellettuali tra cui Nanni Moretti, percepiscono questo cambiamento del
linguaggio come intima debolezza della sinistra italiana, colpevole di aver coniato tre slogan autolesionisti: «Non bisogna demonizzare Berlusconi, non bisogna spaventare i moderati, non bisogna commentare le sentenze», cfr.
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/05_Maggio/23/manin.shtml (30.03.07).
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Tripartito, los políticos catalanes), mentre Josep Lluís Carod Rovira
viene citato solo una volta, all’interno di un paragone ingiurioso (22).
Si ricava dunque l’impressione che Rajoy, contrariamente ai senatori
italiani, cerchi lo scontro diretto, da pari a pari, con il Primo Ministro,
in quella che sembra essere una dimostrazione di assertività. Lo spoglio del corpus italiano evidenzia, oltre a una spiccata tendenza ad
evitare l’insulto ad hominem, un ricorso più accentuato che in spagnolo alla cortesia negativa (Kerbrat-Orecchioni 1992: 195-227), in
particolare alla spersonalizzazione:
(34) Si divide l’Italia in ciò che la dovrebbe unire: la sua Carta costituzionale […] Chi vince le elezioni ha diritto a governare, ma non può fare tutto. Ci
sono limiti invalicabili sanciti dalla Costituzione repubblicana e posti alla
stessa sovranità popolare.
L’altissima incidenza degli enunciati indiretti determina la prevalenza in italiano delle strategie off record già descritte; riportare
esempi di ciascuna di esse richiederebbe uno spazio non disponibile, per cui si accennerà solo alle principali categorie d’insulto osservate, distinte secondo il destinatario del FTA. In particolare, gli insulti parlamentari italiani sono classificabili come a) attacchi alla maggioranza e al suo operato; b) attacchi al testo della proposta di legge;
c) insulti derivanti dalla polarizzazione noi / voi. Esemplificheremo
brevemente queste tre categorie:
a) attacchi alla maggioranza in cui domina la nominalizzazione
(Brown e Levinson 1987: 207). A causa della generalità del referente, tendono a ‘scivolare addosso’ al destinatario:
(35) Una decisione della maggioranza, avallata dalla Presidenza di questa
Assemblea, che ferisce – direi – il comune senso del pudore dei rapporti politici e istituzionali (Manzella).
(36) Le forze politiche di questa maggioranza tracotante saranno severamente giudicate per questo loro gravissimo errore, un vero misfatto (Tessitore).
b) attacchi al testo della proposta di legge, realizzati mediante la
strategia 14 (§ 4.2.12), la maggior parte dei quali si limita a criticare questioni di merito (appello al logos), in uno stile declamatorio e accademico, che evita i tratti colloquiali osservati all’esempio (21) e indulge volentieri al latinismo (37), assente nel
dibattito spagnolo esaminato. Alcune argomentazioni (37) sembrano ricorrere a tipiche “formule comprensibili e attraenti, ma
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vaghe, usate per evitare di pronunciarsi su un punto sostanziale” (Eco 1973: 98):
(37) Nessun passo è stato fatto in questa direzione dal testo al nostro esame. Esso, anzi, da una parte indebolisce in diversi punti il sistema delle garanzie; dall’altra, determina un vulnus al principio della condivisione, delle
larghe intese, della necessaria convergenza nell’approvazione delle modifiche costituzionali (Bassanini).
(38) Questa cosiddetta riforma è del tutto inemendabile. Il «no», quindi, è
dovere civile e patriottico. Con il «no», l’appello ai cittadini, perché dipende
da ciascuno di noi che la Costituzione, costata tanto sacrificio e tanto sangue, non sia travolta nei suoi princìpi e nei suoi valori, ancora oggi così vivi e così attuali. (Scalfaro).
Anche nel corpus italiano, comunque, ricorrono giudizi di censura destinati a muovere le passioni dell’Assemblea; in tali contesti, il
registro può acquisire una maggiore informalità, ma senza mai scadere nel popolare:
(39) Giratela come volete, ma questo non è mai accaduto in nessuna democrazia moderna (Angius).
(40) Non giriamoci attorno. Il Sistema sanitario nazionale è gestito dalle Regioni in ogni sua forma e si spezzerà in venti sistemi regionali sanitari. (Angius).
L’effetto di comicità è di gran lunga meno frequente che in spagnolo ed è ottenuto mediante la creatività lessicale (ad es., il falso anglicismo dissolution), il paragone irriverente o l’ironia:
(41) O si cambia la Costituzione come vogliamo noi – ha detto la Lega Nord
– o non stiamo né nel Governo, né nella maggioranza. Tutto nasce da qui:
o la dissolution o niente (Angius).
(42) Quello che sta avvenendo oggi segnerà per molto tempo la storia parlamentare italiana, con uno sfregio che somiglia a quello che nei Paesi fondamentalisti viene fatto per deturpare e punire le donne che non si coprono
il volto con il burqa: si colpisce l’identità e la qualità della nostra Costituzione (Bordon).
(43) Altro che testamento dei 100.000 morti: questo è il regolamento del vostro condominio 11! (Fassone)
11
Allusione alla celebre metafora di Pietro Calamandrei (1889-1956) “la Costituzione
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c) attacchi fondati sulla polarizzazione dei deittici personali (noi /
voi), che radicalizza lo scontro spersonalizzandolo: il “voi” si carica di contenuti assiologici negativi, il “noi” tende a coincidere
con la difesa dei valori costituzionali. Nonostante il tentativo
dell’opposizione di autolegittimarsi come bastione del costituzionalismo ed erede della Resistenza, gli insulti metaforici (non
basterà tutta l’acqua del Po per assolvervi) rivolti a un anonimo
‘voi’ non sortiscono lo stesso effetto perlocutorio dei feroci attacchi personali sferzati da Rajoy a Zapatero (§ 4.1). Per dar forza all’invettiva, si ricorre talvolta alla citazione delle parole di un
testimonial (44, 46), una classica fallacia ad verecundiam (§
4.2.11):
(44) Onorevoli colleghi della maggioranza, non basterà tutta l’acqua del Po
per assolvervi dal tentativo di disfare l’Italia e per questo fino all’ultimo voglio sperare che non prevarranno coloro che, come li definì il presidente Fisichella, «sono solo vogliosi di vendicarsi di una storia unitaria, decisamente più grande e più nobile dei profili intellettuali e civili di una classe politica di uomini nuovi inopinatamente comparsi dal nulla» (Bordon).
(45) saremo noi, assieme ai cittadini italiani, a reimpugnare il tricolore del
nostro Paese nel segno dell’unità nazionale! (Bordon)
Tentando un bilancio, il confronto dei discorsi pronunciati nei
due Parlamenti evidenzia una minore efficacia pragmatica del comportamento verbale dei senatori dell’Ulivo, non solo per il predominio delle strategie astensioniste, ma soprattutto per l’accentuata incidenza delle strutture retoriche del docere e l’eccessiva pedanteria accademica del linguaggio impiegato, che fa assumere spesso agli
enunciati un tono didattico-moraleggiante. Il sanguigno intervento di
Rajoy, invece, è più improntato allo scopo del movere e del delectare: minaccia l’immagine di Zapatero con una dinamica alternanza di
strategie atte a dimostrare il suo carisma di leader e a coalizzare intorno a sé i membri del suo gruppo. In nessun momento Rajoy indulge al preziosismo, al latinismo, alla citazione dotta o all’astrazione
concettuale, tendenza generale dello “stile collettivo” italiano nei registri elevati, che Scavée e Intravaia (1979) definiscono “complesso di
Pietro Bembo”:
(46) Come ha ricordato in uno scatto di ribellione intellettuale Claudio Magris, il Paese natale vissuto e amato liberamente non è un’endogamia asfitè il cimitero di 100.000 morti”, che collega la Legge fondamentale dello Stato italiano ai
valori della Resistenza.
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tica né una sfilata folcloristica […] Già ieri sono riecheggiate in quest’Aula
le parole di Piero Calamandrei: «quel patrimonio storico che attingeva nel
sangue della storia resistenziale e dalle pagine del nostro glorioso Risorgimento» (Bordon).
(47) Le primarie di massa del 16 ottobre hanno dimostrato quanto profondo e maturo sia ormai questo bisogno di partecipazione. Su questa, noi
dobbiamo ora sagomare il nostro sviluppo costituzionale, uscendo dal gioco
di specchi dell’arida meccanica istituzionale che è tanta parte di questo
progetto, così lontano dall’animo e dalle domande popolari. (Manzella)
La perlocutività degli atti minacciosi dei senatori dell’Ulivo viene
poi smorzata dall’amara rassegnazione ad accettare la sconfitta parlamentare; una tale ammissione di debolezza non traspare mai dalle
parole di Rajoy (50), che fa dell’esito prevedibile del dibattito un motivo in più per mettere alle corde Zapatero e attaccare il suo ethos:
(48) Abbiamo affrontato in questi mesi con spirito aperto il confronto parlamentare. Siamo una minoranza, dunque destinata ad essere sconfitta
con il voto (Angius).
(49) […] C’è il deserto in Aula. Perché questo accade? Credo di poter dare
questa spiegazione […]: noi, senatori dell’opposizione, siamo rassegnati al
risultato, ammaestrati da cinque anni di inutili argomenti; voi, senatori
della maggioranza, siete sicuri del risultato (Fassone).
(50) El debate de hoy con su previsible resultado es parte del precio que el
Presidente del Gobierno debe pagar para que le aprueben los Presupuestos
y le permitan seguir gobernando. A esto se reduce todo, Señorías.
A differenza di Rajoy, che con il suo comportamento verbale rivendica continuamente il proprio ruolo di leader monolitico dell’opposizione (§ 4.1), gli esponenti dell’Ulivo, pressati dalle osservazioni
degli avversari, si trovano talvolta costretti a compiere atti linguistici
lesivi della loro stessa immagine come l’autocritica, che equivale a
una parziale ammissione di colpa e coincide con l’accettazione della
massima di modestia di Leech (1983, “minimize praise of self, maximise dispraise of self”). Nel seguente enunciato del Sen. Angius, si
noti come il riconoscimento obtorto collo degli errori passati (forte atto di autosvalutazione12 di fronte all’avversario) porti l’oratore a im-
12
Kerbrat-Orecchioni (1992: 233) ritiene che il parlante sia più incline a fare autocritica quando sa che l’interlocutore “rettificherà il tiro” e disinnescherà l’atto auto-minaccioso con un apprezzamento positivo; se tuttavia la critica viene dall’interlocutore, essa è
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piegare strategie di cortesia negativa come l’enunciato impersonale o
la nominalizzazione quando si riferisce agli errori commessi della
propria parte (penso che si sia sbagliato, è stato comunque un errore)
e a optare per una forma personale del verbo con un voi specificato
quando accusa l’avversario (piccola cosa confronto alla questione
che voi modificate):
(51) Conosco le vostre obiezioni, le ho ascoltate. La vostra obiezione fondamentale è una: voi avete fatto lo stesso nella precedente legislatura. Vi ho
già risposto nella dichiarazione di voto da me svolta quando abbiamo esaminato nuovamente questa riforma. Penso che si sia sbagliato. Vi rispondo
schiettamente, quindi. Credo tuttavia che quella modifica del Titolo V della
Costituzione, all’epoca approvata da noi a maggioranza, fosse piccola cosa
confronto alla questione che voi modificate. […] È stato comunque un errore. Ma se è stato un errore il vostro è un errore ancora più grande.
6. Conclusioni
Le diverse gradazioni dell’aggressività verbale, dall’attacco frontale all’insinuazione malevola, costituiscono un comportamento convenzionale e tollerato in contesti istituzionali in cui i parlanti comunicano le proprie divergenze d’opinione e difendono il proprio interesse di parte. In particolare, la pratica dell’insulto in ambito parlamentare costituisce un fertile terreno per lo studio delle dinamiche interpersonali, degli equilibri di potere e delle fallacie logiche alla base
del dibattito politico. Sotto il profilo reorico-cognitivo, l’insulto si
configura infatti come stimolo verbale inteso a sollecitare la risposta
dell’avversario e a svelarne le debolezze. Così facendo, l’oratore fa
prevalere la carica emotiva del suo discorso sulla solidità delle sue
argomentazioni, rafforza il pregiudizio ideologico e gli schemi stereotipati di ragionamento della sua parte politica e, soprattutto, manifesta il proprio desiderio di visibilità e di leadership. L’osservazione
delle strategie d’offesa attivate dal Presidente del P.P. Mariano Rajoy
mette a nudo l’organizzazione del suo testo come piano d’attacco
contro il Primo Ministro José Luís Rodríguez Zapatero: riflettere sulla
pianificazione dell’intervento, a livello pragmatico e retorico, è essenziale per il raggiungimento dell’equivalenza funzionale in traduzione,
nei tre livelli analitici di lingua, registro e genere che, insieme, contri-
di solito mal tollerata. Nel caso dell’affermazione in esame, il sen. Angius avrà ritenuto
che, in quel contesto, il guadagno ottenuto mediante l’atto di autosvalutazione fosse superiore al costo di realizzarlo.
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buiscono ad attivare il frame e il discorso dell’originale (House 1998:
65). Il confronto dell’interverto di Rajoy e dei discorsi parlamentari
dell’Ulivo rivela che gli attacchi verbali del politico spagnolo sono
improntati alle funzioni retoriche del movere e del delectare: Rajoy
non esita a incalzare l’avversario con insulti direttissimi e invettive
sarcastiche che ledono l’immagine e l’ethos di Zapatero e mettono in
luce, per contrasto, le doti oratorie e politiche del Presidente del P.P.
Gli interventi dei senatori dell’Ulivo, invece, manifestano l’obiettivo
preponderante del docere e fanno appello al logos, con un tono didattico-moraleggiante che vagheggia lo spirito costituente del ’48 e
ammonisce l’avversario in un linguaggio molto più aulico, ma privo
dello smalto del leader del P.P. Infine, gli atti espressivi-verdittivi dei
parlamentari italiani, che rifuggono dall’attacco diretto al leader della
Casa delle Libertà, sortiscono in genere un effetto perlocutivo meno
efficace rispetto alle strategie attivate da Rajoy e, sul piano linguistico, sembrano confermare un problema di comunicazione e di leadership in seno all’Ulivo, denunciato dagli stessi intellettuali della sinistra italiana.
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Helena Lozano Miralles
CUANDO EL TRADUCTOR EMPIEZA A INVENTAR:
CREACIÓN LÉXICA EN LA VERSIÓN ESPAÑOLA
DE BAUDOLINO DE UMBERTO ECO*
Los traductores trabajan constantemente en los límites de la lengua, intentando adaptarla (o romperla) para conseguir reflejar la especificidad del texto que vierten. Así como, a veces, los escritores inventan un lenguaje nuevo, también los traductores necesitan hacerlo,
y para ello tienen que crear neologismos con finalidades puramente
expresivas. Es lo que me ha sucedido con la traducción de Baudolino de Umberto Eco (2001).
Toda traducción parte de una poética implícita o explícita dictada
por el texto que se traduce. Y esa poética, a su vez, se “traduce” en
estrategias lingüísticas, textuales y discursivas. Al ser la poética de la
traducción una “práctica teórica”, como la define Henri Meschonnic,
“no puede ser, por la teoría de los textos que implica, una lingüística
aplicada”, sino más bien una “poética experimental” (1973: 327). Así
pues, la introducción de neologismos está estrechamente vinculada a
la lógica de una poética traductora, en cuya base podemos hallar tanto la invención de un lenguaje como la presencia de numerosos elementos diatópicos en clave humorístico-paródica.
La lectura de Baudolino remite inmediatamente, para un semiólogo, al paso del Tratado de semiótica general donde se dice que la
función de la semiótica es explicar la mentira. Junto al juego sobre la
mentira y sus límites coexisten elementos procedentes no sólo de
obras teóricas como Arte y belleza en la estética medieval, o Las poéticas de Joyce, sino también de la colección por excelencia de divertissements: el Diario mínimo, sobre todo el Segundo. En cambio,
aparte de la Edad Media, con El Nombre de la rosa no se ven muchas
afinidades, empezando por el estilo, que en Baudolino es popular,
como declara su autor:
* Ponencia presentada en el Congreso Internacional La Neologia (Università di Bologna – Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, Forlì, 4-5 de mayo de 2001). La presente ponencia aparecerá en las actas de este congreso, actualmente
en preparación a cargo de P. Capanaga e I. Fernández García.
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El nombre de la rosa está escrito en estilo elevado, éste en estilo popular. El
lenguaje es el de los campesinos de la época o el de los estudiantes parisienses que hablan como los ladrones. Nada de latín, salvo alguna palabra.
Es el típico juego de alguna cita posterior escondida, pero con la idea de
que sean frases inventadas precisamente por Baudolino, y que otros después podrían haber copiado.
Aun así, el primer capítulo contiene un lenguaje inventado:
Con la lengua he tenido algunas dificultades, porque el primer capítulo lo
escribe directamente Baudolino, a los 14 años, sobre un pergamino. Estaba
empezando a aprender latín y escribe en un vulgar de su zona, sobre el
que obviamente no tenemos ningún documento. Me he divertido mucho.
[…] No he pretendido hacer filología. Me he inventado un italiano imaginario. No son páginas eruditas, son páginas cómicas1.
De ahí se derivan las dos almas de la novela, por una parte, el
diálogo elevado, directamente con Nicetas Coniates, e indirectamente con las crónicas de Villehardouin, con las disputas medievales,
con Rabelais, con el Pseudo Dionisio Areopagita, con Rudel. Por la
otra, el diálogo “llano” con el lector, donde incluso la cita culta es invención de Baudolino, campesino y pícaro que habla con su buen
piamontés alejandrino, rodeado de mercaderes genoveses.
1. De la parodia a la epifanía
Para que un texto resulte humorístico y paródico es preciso que
se asiente sobre un patrimonio de tipo lingüístico-literario, común a
autor y a lector así como sobre mecanismos que faciliten una activación instantánea de la memoria. Efectivamente, un texto paródico no
podría funcionar sin la compresencia de correspondencias precisas,
de orden lingüístico y conceptual, entre el objeto de la parodia y el
texto que lo parodia.
A veces, la parodia pasa por inventar un lenguaje. Es lo que lleva
a cabo Dino Buzzati para remedar el lenguaje característico de los
catálogos de arte (y de la crítica en general) en el cuento “Il critico
d’arte”, crónica de su quehacer de periodista en la Bienal de Venecia
de 1956. El concepto, relativamente trivial, de trompe l’oeil, es decir,
de “ilusión óptica” o de “pintura que mediante artificios de perspec-
1
Declaraciones de U. Eco a Laura Lilli, en el diario La Repubblica (11.9.2000).
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tiva produce la ilusión de objetos en relieve”2 se transforma en lo siguiente:
Ma qui appunto si precisa come la meccanica mondrianiana a lui si presti
solo nel limite di un termine di trapasso da nozione a coscienza della realtà, dove questa sarà sì rappresentata nella sua prontezza fenomenica più
esigente, ma grazie a un puntuale astrarsi, si amplierà in una surrogazione
operazionale di più vasta e impervia portata… (Buzzati 1958: 514).
Lenguaje que va descomponiéndose poco a poco hasta llegar a
desintegrarse para adaptarse cabalmente a la intuición pictórica que
se quiere describir:
“Il pittrore” scrisse, padroneggiato da un incalzante raptus “di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simileguarsi. Recusia estemesica! Altrinon
si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e
stampo egualiterebbero nello Squittinna il trilismo scernosti d’ancomacona
percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi
truffo fulcrosi, quantano, sul gicla d’nogiche i metazioni, gosibarre, che piò
levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi…” (1958: 515-516).
Operación que se parece mucho a lo que se le pide al lector de
la denominada “poesía metasemántica” de Fosco Maraini: el lector
debe participar directamente en la producción del significado, es
más, está obligado a zambullirse en el escalofrío literario: “Proponi
dei suoni e attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro dei significati, valori emotivi, profondità
e bellezze” (Maraini 1994: 16).
Al contrario de lo que ocurre con la neología denotativa, en el
lenguaje metasemántico “il lettore non diviene solo azionista del poetificio, ma entra subito a far parte del consiglio di gestione e deve
lui, anche, provvedere alla produzione del brivido lirico. L’autore più
che scrivere, propone” (1994: 16).
Es una suerte de lenguaje epifánico, pues, “una subitánea manifestación espiritual, en un discurso o en un gesto, o en un vuelo de
pensamientos dignos de recordarse” si le hacemos caso a Joyce.
Exactamente lo que se le pide al lector en esta poesía de Fosco
Maraini:
2
Véase Seco et. al., Diccionario del español actual.
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Cancella il mondo, o sdrènfano! Ti dico
Cancella quest’ingubbio ammorboluto;
È inutile timpare a cinciafico
Gli sbrègi d’un blafònfero fognuto.
Che fanno i morzacacchi, i gloriconi?
Strabosciano in moffucci, in godicaglie.
Che fanno i migarelli? A strabuconi
Gratterchiano le zocchie e le morcaglie.
Ahí Sdrènfano vantardo e carpiniero
Strabasta con gli sbrilli e con le ciance.
È tempo, metatempo, stratempiero:
Cancella il mondo, Sdrènfano, stracance! (1994: 71).
Poesía que se titula “Che fanno?”. A lo cual le responde Julio Cortázar en Rayuela (cap. 68):
Apenas a él le amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían
en hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperantes. Cada vez
que él procuraba relamar las incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso y tenía que envulsionarse de cara al nóvalo, sintiendo cómo poco a poco las arnmillas se espejunaban, se iban apeltronando, reduplimiendo, hasta quedar tendido como el trimalciato de ergomanina al que se han
dejado caer unas fílulas de cariaconcia. (…) Volposados en la cresta del
murelio, se sentían balparamar, perlinos y márulos. Temblaba el troc, se
vencían las marioplumas, y todo se resolviraba en un profundo pínice, en
niolamas de argutendidas gasas, en carinias casi crueles que los ordopenaban hasta el límite de las gunfias (Cortázar, 1963: 378).
La invención del lenguaje, además de ser un recurso narrativo, es
un juego literario a quién reconoce qué, de tipo intertextual, que requiere un esfuerzo del lector, una colaboración atenta.
En efecto, para entender correctamente Baudolino, creo que hay
que dar un paso atrás, volver a un texto del Segundo diario mínimo,
al “Milagro de San Baudolino” concretamente, donde se nos dice que
para contar la alejandrinidad hay que seguir caminos humildes, el
punto de vista monumental está equivocado, es preciso “contar epifanías”.
Así va tomando cuerpo la poética de esta traducción donde, más
que intentar trasponer funcionalmente un sentido, hay que conseguir
proponérselo al lector. El objetivo es conseguir crear epifanías humildes mediante un lenguaje llano, modesto, bárbaro y veraz. El piamontés en Baudolino tiene la misma función que el lenguaje de Pozzo de San Patrizio en la Isla del día de antes, es el lenguaje imprescindible del Padre: “En mi tierra no se miente”. En el relato de un
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mentiroso, las epifanías no mienten (o por lo menos, no deberían).
Dante en el De vulgari eloquentia (I, XV, 7) se refería así al lenguaje de Alejandría del Piamonte:
Le città di Trento e Torino, nonché di Alessandria, sono situate talmente vicino ai confini d’Italia che non possono avere parlate pure; tanto che, se
anche possedessero un bellissimo volgare – e invece l’hanno bruttissimo –,
per come è mescolato coi volgari di altri popoli dovremmo negare che si
tratti di una lingua veramente italiana.
A lo cual le responde Eco, en “El milagro de San Baudolino”
(1992: 311):
“Está bien, somos bárbaros. Pero también ésta es una vocación”
El uso del piamontés no implica reivindicaciones ideológicas o
culturales. Su valor lingüístico es afectivo.
2. La traducción empieza a tomar forma
Se me ocurre que la traducción medieval debía de funcionar mediante epifanías. Aunque no sea verdad lo que dice Renan sobre la
Edad Media en 1882:
La palabra latina cubre en ellas la palabra árabe, así como las piezas del tablero de damas se aplican sobre las casillas. […] La mayoría de los términos
técnicos y de los vocablos que el traductor no comprendía, se transcriben
de la manera más grosera. […] Domina el sistema de las versiones literales.
El Oriente y la Edad Media apenas si han concebido la traducción como
otra cosa que un mecanismo superficial en que el traductor, abrigándose,
por decirlo así, tras de la obscuridad del texto, descargaba en el lector el
cuidado de encontrar allí un sentido (Renan 1992: 147).
Lo que sí es cierto es que, como nos ha descrito magistralmente
Gianfranco Folena, ante la imposibilidad de introducir una masa
enorme de neologismos (que implicaban también un volumen inmenso de conceptos), los traductores medievales recurrían a la transliteración del árabe, a la simple transposición, aunque no sólo:
Nel Medioevo si deve distinguere un tradurre “verticale”, dove la lingua di
partenza, di massima il latino, ha un prestigio e un valore trascendente rispetto a quella d’arrivo (si tratti di scriptura sacra o di auctores), è un modello ideale o addirittura uno stampo nel quale si versa per ricevere forma il
materiale di fusione, e un tradurre “orizzontale” o infralinguistico, che fra
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lingue di struttura simile e di forte affinità culturale come le romanze assume spesso il carattere, più che di traduzione, di trasposizione verbale con
altissima percentuale di significanti, lessemi e morfemi, comuni, e identità
nelle strutture sintattiche, di trasmissione e metamorfosi continua, con interferenza massima e contrasti minimi (Folena 1991: 12-13).
Tomo una serie de decisiones; la primera es “combinar” estas dos
modalidades de traducción.
El primer capítulo se escribirá en un español inventado que recuerde al Cantar de mio Cid y a la Fazienda de Ultramar (entre poesía y prosa), debe ser un modelo reconocible. Si la elección del Cantar de mio Cid es obvia, puede resultar oscura la de la Fazienda. Me
interesaba porque se trata de un texto que se remonta, según Rafael
Lapesa, a un original perdido anterior a 1152 (latín, lemosín o gascón), escrito por Almerich, arcediano de Antioquía, que se relaciona
con una de las primeras escuelas de traductores presente en la península ibérica, la del arzobispo don Raimundo. Y aunque la versión
castellana en la que me he inspirado parece ser de 1220, “de todos
modos es muy arcaica […] y con forasterismos atribuibles a una traducción chapucera de un original gascón, o a intervención de un traductor gascón o catalán” (Lapesa 1980: 234). Puestos a jugar, por qué
no jugar aquí también.
Descarto totalmente la idea de traducir variedades diatópicas con
variedades regionales (gallego, catalán), o variedades diastráticas.
Decido mantenerme en el ámbito del castellano castizo y arcaico, como ya había hecho en la Isla con el lenguaje de Pozzo di San Patrizio, padre del protagonista de la Isla, y heredero de la sabiduría de
otro padre de otro protagonista, Gagliaudo. Pozzo habla un lenguaje
que oscila entre la sabiduría campesina, los piamontesismos y registros altos; es un lenguaje que no está marcado temporalmente (como, en cambio, lo está el lenguaje de la Isla), es la voz originaria, la
voz del padre. Que posee esa ironía tan peculiar que caracteriza al
piamontés. No podía no recurrir a Quevedo, combinado con buenas
dosis de sabiduría procedente del refranero (Lozano 1995 y 2000).
La caracterización dialectal quedaba completada mediante la asimilación fonética de algunos términos del dialecto piamontés, allá
donde el contexto permitía la comprensión sin necesidad de explicación alguna:
“Gente state a sentire. […] perché siete dei tarlocchi ignoranti che di queste cose non capite un accidente […] Se c’è qualche fagnano pelandrone
che non è dell’idea lo dica subito e l’impicco a quella quercia.”
(Eco, 1994: 28).
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- Gentes, aguzad el oído. […] porque sois unos tarlocos que veis el cielo
por un embudo […]. Si hay algún haragán trashoguero que quiere salirse
por peteneras, que lo diga enseguida y lo cuelgo de aquella encina (Eco, 1995: 29).
3. Hacia la apropiación del texto
Decido que es hora de que el lector se enfrente a un proceso de
apropiación de un lenguaje y de un texto, en un doble movimiento
de distanciamiento/acercamiento, al igual que en las traducciones
del siglo XII en nombre del principio de la literalidad se preservaba
“la materialidad y, por lo tanto, la alteridad del texto” original, como
afirma Clara Foz (2000: 140). La literalidad como “coartada”, pues,
que autoriza todas las manipulaciones y todos los aderezos posibles.
La traducción se presenta como una mezcla de sustitución y creación o recreación. Una suerte de reconquista cultural de la multiculturalidad inherente a toda traducción, que sirve, y es idea de Benjamin “para poner de relieve la íntima relación que guardan los idiomas entre sí; […] la traducción puede representarla realizándola en
una forma embrionaria e intensiva” (1923: 79).
La apropiación tiene que hincar sus raíces, de todas maneras, en
un patrimonio reconocible. Resulta fundamental el primer capítulo,
puesto que dará las pistas para configurar el lector ideal de la novela, capaz de saborear la parodia.
Un primer problema está constituido por la normalización ortográfica: por lo general, las ediciones destinadas a los no especialistas
de literatura medieval usan o bien una modernización total de la ortografía, o bien una versión intermedia, con la introducción de acentos y una normalización parcial. Por ejemplo, se suele arreglar la
confusión entre l y ll; n, nn y ñ; c y ch; s y ss; se suele cambiar la th
con t; r, R y rr siguen la ortografía corriente; se suprime la h pleonástica y se inserta antes de ue; se cambia la g palatal ante a, o, u por j
(juego y no guego); la y se conserva para la consonante pero se pone i cuando su sonido es de vocal; la u y la v se normalizan en la u
para vocal, v para consonante. Y además se introduce puntuación
con normas modernas.
Yo hago exactamente lo contrario: me imagino lo que podía pasarle por la cabeza a un aldeano que a sus catorce años se ve arrojado al centro del mundo, que aprende a escribir en Alemania, pero intenta escribir en la lengua que sabe. Y aparece también la k, que es
típica de las glosas silenses, pero también puede ser un rasgo de la
cultura alemana.
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Para inventarme la lengua, consulto el Manual de gramática histórica del español y los Orígenes del español de Ramón Menéndez Pidal, la Historia de la lengua española de Rafael Lapesa; pero no
construyo un texto filólogico: tampoco Eco se inspira en los Sermones Subalpinos 3, que son el primer documento del piamontés (de los
siglos XII-XIII), sino más bien en la Sentencia Capuana, primer documento del italiano que se remonta a 960: “sao ko kelle terre, per
kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i Benedicti”; y no menosprecia la cita culta, como la Adivinanza de Verona (“calamus ke alba pratalia…”).
El dialecto alejandrino tiene una extensión geográfica limitada, es
uno de los cuatro dialectos que forman parte del galo-itálico (con la
lengua de los Estados de la Casa de Saboya, la lengua del Monferrato y la del área de Saluzzo). El galo-itálico se caracteriza por la escasez de consonantes dobles, por la abundancia de palabras agudas y
acabadas por consonante, así como por la presencia característica de
vocales como /ö/ y /ü/ (véase Marazzini 1992).
El juego está entonces en recrear la sonoridad del original; no
consiste en escribir en un español medieval, sino en una lengua vehicular que podía escribir alguien como Baudolino, nacido en la niebla de la llanura padana.
(1a) ma forse non li importa a nessuno in chancelleria skrivono tutto anca
quando non serve et ki li trova [questi folii] si li infila nel büs del kü non se
ne fa negott (Eco 2000: 5).
Como vemos en este primer ejemplo tenemos una compresencia
de dialectos: piamontés “büs del kü” (literalmente, ano) y el milanés
“negott” (nada). Se ha realizado una traducción semántica para el
piamontés, arcaizando el término vulgar “ojete” y reforzándolo con
el truncamiento de “kulo”, donde se deja la libertad al lector de decidir si se produce a causa de una doble censura (la que lleva a borrar
la oración) o si se trata de una apócope fónica, tan habitual en el lenguaje coloquial (tipo “pisci, profe”)4:
(1b) Pero quiçab non le importa a nadie en chancellería eschrivont tot incluso quando non sirve et kien los encuentra [isti folii] se los mete en el
ollete del ku non se faz negotium (Eco 2001: 7).
3
Véase una exhaustiva descripción de los mismos en Stella (1994: 76 y ss.).
Para la productividad de los fenómenos de acortamiento o abreviación, veáse Capanaga (1999: 145 y ss).
4
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Para el milanés, en cambio, se ha decidido mantener la forma fónica mediante un desplazamiento del sentido de “nada” a la locución
“hacer negocio”, es decir, “obtener provecho de lo que se hace” mediante un latinizante “negotium”, cuya forma fónica se parece mucho
al término milanés de partida. Una operación parecida se puede observar en este segundo ejemplo:
(2a) fistiorbo ke fatica skrivere mi fa gia male tuti i diti (Eco 2000: 6).
(2b) fistiorbus ke cansedad eskrevir; me facen ya tant mal todos los dedos
(Eco 2001: 8).
Donde “fistiorbo” es interjección alejandrina que significa “que te
puedas quedar ciego”. El significado de la expresión adoptada “fistiorbus” resulta completamente opaca para un lector de habla hispana, pero también es verdad que es opaca para cualquier lector italiano que no conozca el dialecto alejandrino. La latinización, si acaso,
arcaizando lo arcaico, permitirá que el lector culto se remonte al latín “orbus” (“privado”, de donde en español, “orbedad”, privación y
orfandad) o que se pasee inferencialmente por su diccionario relacionándolo con “órbita”, y por metonimia con “ojo”. El paseo puede
trasformarse también en un paseo intertextual, recordando La Isla
del día de antes:
(2c) – Fisti orb d’an fisti secc – murmuró entre dientes el Pozzo, que en
la lengua de sus tierras sigue siendo hoy en día una expresión optativa con
la cual se hacen votos, más o menos, de que el interlocutor sea primeramente privado de la vista y que inmediatamente después sea aquejado por
una perlesía (Eco 1995: 33).
Para completar brevemente la descripción de procedimientos léxicos del primer capítulo, veamos el siguiente ejemplo, donde el término “kypione” procede del dialecto turinés, y el lector italiano atento lo interpreta gracias a los “sodomiten” (con forma germanizada,
pues) que aparece poco antes:
(3a) quel siniore a deto ke lui era un gran comes palatinus et ke tra gli alamanni non cerano Sodomiten ke cosa sono quelle sodomite lì a deto mio
padre et o spiegato ke sono i kypioni figuriamoci a detto lui i kypioni ci
sono dapertutto (Eco 2000: 14).
La traducción recurre al pleonasmo para reforzar la significación
completamente opaca de “kypione”, si bien construida textualmente
como implicatura mediante el juego “sodomiten/sodomite” (cuyo
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efecto cómico se pierde en español) empleando el término medieval
“bujarrón”5:
(3b) aqueste sennor a dicto ke elle era un gran comos palatinus et ke entre
los alamanos non auíen sodomiten
ke son aquestas sodomitas a dicho el myo padre et ele esplicado ke son los
kypiones o meyor los buxarrones
figuremonos a dicho Galiaudo los kypiones estan por do quiera (Eco 2001:
15).
4. El lenguaje toma forma
Así pues, para todo lo que concierne a los dialectos me decido
por la asonancia, la transliteración, la creación de híbridos (adaptando la grafía al español), el calco de formas nuevas (Alvar Ezquerra
1993). Creo neologismos y dejo la responsabilidad de su interpretación al lector. Aconseja María Moliner a los “inventores de palabras”
que “se aseguren de que les aporta más claridad, precisión, elegancia
o naturalidad que cualquier palabra ya consagrada” (1977: XXVII).
Yo pretendo todo lo contrario, busco precisamente la connotación
que aporta la palabra extraña que, al igual que sucede con las voces
de argot, produzca un incremento de significación que muestre “la
participación del sujeto que impregna su lenguaje” (Sanmartín Sáez
1999: XI).
Lo interesante de la operación de traducción es que en el texto
italiano se produce un préstamo de tipo dialectal (según la clasificación de los préstamos de Weinreich 1974), mientras que en la traducción el préstamo es cultural. En italiano estamos ante un préstamo íntimo, es decir, que deriva de la coexistencia de dos lenguas en un
mismo territorio, y como bien se puede observar en el caso del lenguaje de Gagliaudo, impregna todos los niveles del análisis lingüístico. En español se transforma en operación culta, literaria, pero recibe una particular intensificación semántica gracias al uso muy a menudo irónico de este tipo de préstamos (suele tratarse de tecnicismos) en el lenguaje coloquial. Y ello yendo en contra de una tendencia natural del castellano que suele preferir, por una especie de pu-
5
El término aparece incluido en el Vocabulario medieval castellano de Cejador y
Frauca: “S. BADAJ., 2, p. 249: Vellacazo, bujarrón” aunque Corominas, Diccionario etimológico castellano e hispánico, documenta la primera aparición en 1526. Sanmartín
Sáez (1999) documenta la presencia usual de “bujarrón” en el lenguaje de germanías del
siglo XVI.
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rismo espontáneo, sustituir los préstamos por equivalentes castellanos, más transparentes y comprensibles pero estilísticamente menos
marcados (Gómez Capuz 2000: 153).
Para todo lo demás la creación neológica de esta traducción se
comporta como la “interferencia”, con préstamos de rasgos lingüísticos tanto de tipo léxico como de tipo fraseológico.
A veces la introducción de una unidad fraseológica resulta sencilla, pues ya se encarga el texto italiano de explicar su sentido, como
en el caso de la colocación verbal dialectal “Squatagné cme un babi”:
(4a) Sì, ma poi arriva il Barbarossa e vi squatagna come un babio, ovverosia vi spiaccica come un rospo (Eco 2000:167).
(4b) Sí, pero luego llega el Barbarroja y os escuataña como a un babio, o
hablando propiamente, os revienta como a un sapo (Eco. 2001: 161).
Donde sencillamente se ha adaptado la locución extranjera a las
características fonéticas del castellano. Algunas de estas locuciones
dialectales no necesitan ni siquiera adaptación fonética, como “goga
e migoga” (“divertirse, armar jarana, irse de juerga”), pero es necesario emplear un mecanismo de compensación, guiar la posible inferencia:
(5a) in questi casi si spilla dalla botte di quello buono e, come dicevano i
nostri vecchi, alè, goga e migoga (Eco 2000: 162)
(5b) en estos casos le hacemos los honores a un tonel del bueno y, como
decían nuestros viejos, sus y a ello, goga y migoga (Eco 2001: 156).
Con la introducción de “sus y a ello”, se refuerza la coloquialidad,
con una expresión de ánimo poco usual. Por otra parte, el lector italiano será propenso a asociar ese enunciado con “gogamagoga”, expresión que, según el Grande dizionario della lingua italiana de
Battaglia, remite a un país fabuloso, a una tierra lejanísima, la tierra
de Gog y Magog, que en este capítulo nada tiene que ver.
A veces, aun teniendo la posibilidad, se evita la creación de híbridos, como se puede apreciar en el siguiente ejemplo:
(6a) Ma che bel ciciolino che sei, perché non vieni a passare il Natale con
me che t’insegno a fare la bestia a otto zampe? (Eco 2000: 168).
Donde “ciciolino” (sic) significa “niño bonito”, y quizás los conocedores de la historia reciente italiana recuerden a “Cicciolina”, pornodiva elegida en el Parlamento italiano en los años ochenta. Por su
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forma, esta palabra contiene un sufijo “-ino” muy productivo en italiano, con valor de diminutivo cariñoso (“amorino”, “poverino”, “gattino”) o irónico (“pensierino”, “malatino”).
La intención claramente irónica de la oración quedaba algo desdibujada con el empleo de la forma híbrida “chichito”6, es decir, aplicando el diminutivo más usado en castellano, y lo mismo sucedía
con otros diminutivos como “chichillo” o “chichete”. Descartado también “chichín” por su connotación geográfica demasiado evidente,
parecía interesante dejar la forma italiana reforzándola con la traducción de “bel” con “mozo”, pasando pues de un registro si se quiere
infantil a uno más adolescente y más provocador.
(6b) Pero qué chichino más mozo que eres, ¿por qué no te vienes a pasar la Nochebuena conmigo que te enseño a hacer el bicho de ocho patas?
(Eco 2001: 162).
En cambio, con las blasfemias se ha seguido el procedimiento
contrario: se ha adoptado el calco semántico: “diupatàn”, literalmente “Dios desnudo”, (Eco 2000: 7) se trasforma en “deoenporretas”
(Eco 2001: 8) donde la primera parte de la palabra se traduce al latín
(recordemos que estamos en el primer capítulo, y ahí el latín tiene el
efecto extranjerizante que tiene el dialecto en italiano) mientras que
para la segunda parte de la palabra se adopta la forma “en porretas”.
Esta locución significa “desnudo” y según Sanmartín Sáez (2000: 696)
deriva de porreta “el conjunto de hojas verdes del puerro y, por extensión, de otros vegetales; tal vez por ello la expresión en porreta
remita a las figuras de los personajes bíblicos Adán y Eva, tapados
únicamente con unas hojas de parra, imagen que posteriormente se
aplicará a cualquier persona que va sin ropa”. Si pensamos, además,
que el calco fónico habría producido “patán” (ignorante, zafio, grosero), nos damos cuenta de la ventaja inmensa de la forma adoptada y
de la “remotivación” que adquiere.
Las razones del calco semántico, con todo, eran también culturales. En los insultos, en las relexificaciones metafóricas que constituyen su caldo de cultivo, cada lengua recorta el continuum del contenido a su manera, expresando así su genio de la lengua. De este modo, la blasfemia por excelencia del español “cago en…” si se traduce
al italiano, produce una expresión con una carga herética impresionante. En cambio, en italiano, la blasfemia es de “baja intensidad”,
6
Presente en el Diccionario de Uso del Español, de María Moliner, con el significado “niño pequeño”.
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muy difundida y muy usada (aun con distribución regional evidente).
Me interesaba, por lo tanto, reproducir la enorme variedad de blasfemias que hay en italiano, y poner en evidencia la creatividad que tiene la lengua coloquial italiana al respecto. El medio era el calco semántico para conseguir que la blasfemia coexistiera “con la pura
mención de las esencias” por decirlo con Cortázar, y entonces “diufaus” (Eco 2000: 12) se convierte en “válameundeofalsso” (Eco 2001:
14); “ventrediddio, madonnalupa, mortediddio” (Eco 2000: 23), llegan al castellano como “Vientredediós, virgenloba, muertedediós”
(Eco 2001: 23).
Un caso que me suscitó muchas dudas fue el de “Ciula”. Según el
Dizionario etimologico dei dialetti italiani (Cortellazzo / Marcato
1992) “Ciùla (o ciòla)” significa
scroto, membro virile e figuratamente stupido […] ciolin, ciola (pene); ciolé
(copulare), dal lat. colea, testicoli (o da kion. –onos, gr.: colonnetta, birillo).
El término está recogido en el diccionario Parole Nuove/Nuevas
palabras (Calvi / Monti 1991) con el significado de “tonto, gilipollas,
capullo”, así como su derivado “ciulare” que equivale a “follar, joder”
o en su segunda acepción a “robar, mangar, joder”. En el lenguaje
coloquial italiano septentrional está bastante difundido y equivale a
“pirla” (según Parole Nuove: o “pene”, o “imbécil, gilipollas”). Este
término que ya en la Isla se había presentado, lo había traducido en
ese texto con el quevediano “badulaque” (30), o con un calco formal
como “estamos chulados”, donde el contexto explicitaba claramente
el sentido de “estamos jodidos”.
La primera tentación fue traducir “ciula” con “badula”, pero me
pareció que la huella de Quevedo habría introducido en el texto una
serie de connotaciones completamente ajenas. Al final me decidí por
el calco formal, y así “Aleramo Scaccabarozzi detto il Ciula” se trasforma en “Aleramo Scaccabarozzi alias el Chula”. Mi perplejidad residía en la cercanía de “chula” con “chulo” o “chuleta”. Aprovechando
la aparición de este término en otros contextos, he intentado crear la
implicatura adecuada, mediante una sustitución funcional en la locución “tonto del bote”
(8a) Y el enemigo es chula del bote y sigue saliendo sin darse cuenta de
que los de delante van cayendo como higos (Eco 2001: 160).
El camino también ha pasado por la introducción del derivado de
“ciula”, “ciulandario” (cast. “chulandario”), manteniendo inalterado el
sufijo “-ario” no para crear el nombre de una profesión (como “anti-
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cuario, funcionario, bibliotecario”) sino para jugar con su matiz culto
de “nombre de la persona a cuyo favor se realiza una acción” como
“arrendatario, destinatario, cesionario, feudatario, beneficiario”. Y entonces tenemos a un
(8c) Chulandario del bote (Eco 2001: 166).
Cuando se llega, por fin, a la frase clave para Aleramo Scaccabarozzi alias el Chula, el término ha recibido ya una lexicalización correcta:
(8a) Aleramo Scaccabarozzi, que le llamaban, sí, Chula, pero era hombre
robusto y de confianza, y de pocas preguntas (Eco 2001: 318).
Lo mismo sucede con “gnecco”: “tonto, duro de mollera”, introducido en la sinapsia “tonto del haba”:
(9a) Vedi che sei gnecco? Nostro Signore era il figlio di un falegname e stava con dei morti di fame peggio di lui (Eco 2000: 280).
(9b) ¿lo ves que eres ñeco del haba? Nuestro Señor era el hijo de un carpintero y estaba con unos muertos de hambre peor que él (Eco 2001: 275).
O, para concluir, con “balosso”: “bribón, pícaro” que entra en disyunción con “golfo”:
(10a) Fossero passati anche trent’anni, quello sguardo da balosso non l’hai
proprio perduto … (Eco 2000: 160).
(10b) Así que hubieren pasado treinta años esa mirada de golfo baloso
desde luego no la has perdido … (Eco 2001: 155).
En fin, ya lo decía Cervantes “traducir de lenguas fáciles ni arguye ingenio, ni elocución, como no le arguye el que traslada, ni el que
copia un papel de otro papel”. Ahora bien, la estrategia de la epifanía, que podría parecer una estrategia de traducción “palabra por palabra”, la única capaz de garantizar la tan deseada fidelidad, en lugar
de asegurarla, abre el texto a la libre imaginación del lector.
Pero aun así, la traducción debe conseguir que no se escape
completamente, imponerle límites, vínculos contextuales, criterios interpretativos, si es verdad que en el relato de un mentiroso las epifanías no mienten. Y aún menos la traducción. Así pues, si el lector
descubre extrañezas, que no se inquiete, que disfrute de ellas porque
el único que miente en la novela es Baudolino.
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Massimo Ciaravolo
LA COMPRENSIONE INTERSCANDINAVA NELLA DIDATTICA
Premessa
Questo articolo ripropone l’intervento Om interskandinavisk
språkförståelse i undervisningen, tenuto in svedese alla conferenza
Norden i det nya Europa (Il Nord nella nuova Europa). La conferenza, che si è svolta dall’11 al 13 maggio 2006 presso la Fondazione Carige di Genova, è stata organizzata da Samarbetsnämnden för Nordenundervisning i utlandet (Comitato di coordinamento per la didattica
sul Nord all’estero) in collaborazione con la cattedra di Lingue e Letterature Nordiche dell’Università degli Studi di Genova. Samarbetsnämnden (si veda Samarbetsnämnden: 2007, anche in inglese) opera
all’interno di Nordiska rådet (Consiglio Nordico; si veda Norden:
2007, anche in inglese), riunendo esperti di Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia per sostenere l’insegnamento delle lingue,
letterature e culture nordiche all’estero. Desidero così ringraziare i
membri del Comitato Henrik Galberg Jacobsen (Danimarca), Maisa
Martin (Finlandia), Úlfar Bragason (Islanda), Kjellaug Myhre (Norvegia) e Monika Wirkkala (Svezia), assieme alla prof.ssa Gianna Chiesa
Isnardi di Lingue e Letterature Nordiche dell’Università di Genova,
per avermi concesso di rielaborare e pubblicare l’intervento.
Il desiderio di rivolgermi anche a un destinatario italiano e non
«scandinavista» nasce dall’esigenza di spiegare meglio ai colleghi la
natura e la particolarità della materia che insegno, con la speranza di
riuscire a chiarire in che modo e attraverso quali strategie si possano
rapportare tra loro l’uno e il molteplice – ovvero coordinare una sola
disciplina composta da più lingue e aree culturali strettamente imparentate.
* * *
Linguisti quali Einar Haugen (1972: 215-236) e Lars Vikør (2001:
114-139) hanno analizzato il fenomeno che in inglese definiscono semi-communication e che riguarda gli atteggiamenti linguistici di danesi, norvegesi e svedesi quando essi comunicano tra loro usando le
rispettive lingue. La semi-comunicazione risulta dunque da una rela-
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zione di vicinanza, vantaggiosa per la comprensione reciproca, ma il
termine indica altresì una comunicazione imperfetta, che richiede
apertura e buona volontà per superare alcuni ostacoli. Intendo qui
descrivere un momento dalla mia didattica incentrato sulla comprensione linguistica interscandinava, volto al raggiungimento di un
obiettivo minimo. Ho cercato cioè di insegnare ai miei studenti di danese, norvegese1 e svedese a sviluppare un atteggiamento positivo
verso la comprensione scritta delle due lingue scandinave non scelte
quale oggetto di studio attivo. La domanda che ho dovuto pormi a tal
fine può essere riassunta così: questo esercizio crea solo una babilonica confusione oppure ha senso aiutare studenti italiani che stanno
imparando una lingua scandinava a procurarsi un certo accesso alle
altre due, dal momento che danese, norvegese e svedese possono,
da un punto di vista storico-linguistico, essere definiti dialetti di una
medesima lingua?2 Ho creduto nella seconda possibilità, cercando di
non dimenticare i rischi della prima.
Nel descrivere questa situazione didattica mi baso sull’attività
svolta dal 1996 a oggi, per i corsi di laurea in Lingue e letterature
straniere e Mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano,
e di Lingue e letterature straniere e Studi interculturali all’Università
di Firenze. Le cattedre di scandinavistica di Milano, Firenze e Roma
hanno funzionato in modo simile nel corso degli anni, nel senso che
la disciplina, il cui nome ufficiale è Lingue e Letterature Nordiche, ha
potuto disporre di una didattica separata per ognuna delle tre lingue,
con il rispettivo lettore madrelingua e le rispettive classi di studenti
scandite per annualità; al contrario i corsi di letteratura e cultura hanno sempre formato classi scandinave comuni, al di là del confine linguistico tra danese, norvegese e svedese. Ricorre semmai una (seppur minima) suddivisione dei corsi per annualità; tipicamente si tro-
1
Quando parlo di norvegese qui, mi riferisco sempre alla varietà più diffusa bokmål, che è quella effettivamente insegnata ai discenti stranieri, e non al nynorsk. La fondamentale questione del bilinguismo norvegese è esclusa dalla trattazione in questo articolo.
2
Si veda Lindgren [et al.] (1994: s.p.): ”När allt kommer omkring är våra språk så lika att de mycket väl kunde kallas dialekter av ett och samma språk, vilket de historiskt
sett också är. Den språkgemenskap vi har i Skandinavien är om inte unik, så i alla fall
ganska ovanlig.” (Dopotutto le nostre lingue sono talmente simili da poterle benissimo
chiamare dialetti di una medesima lingua, cosa che da un punto di vista storico effettivamente sono. La comunione linguistica che abbiamo in Scandinavia è, se non unica, comunque piuttosto speciale). Cfr. Haugen (1972: 215): “There are related languages (...)
whose speakers can communicate by using their own language, given only a little good
will. From the historical linguist’s point of view, these may be dialects, but in their present-day function they are languages, standardized for use by a particular nation.”
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vano corsi per studenti del primo anno da una parte e, dall’altra, corsi per studenti di secondo, terzo e quarto anno (dopo la riforma e
l’introduzione del “3+2”, anche quinto). La discriminante è, qui, la
competenza linguistica: o si lavora con i principianti assoluti, usando
testi tradotti in italiano e inglese, o con studenti in grado di affrontare sempre meglio testi in lingua originale – la propria lingua scandinava studiata e poi, appunto, le altre due3.
Descriverò due momenti, illustrando prima come una lezione di
letterature o culture nordiche, e di conseguenza un intero corso, possa essere costruito e funzionare quando si lavora con testi nelle tre
lingue per una classe composta da studenti di danese, norvegese e
svedese4. Poi riferirò di un’esperienza più recente, dettata proprio
dalla riforma universitaria che ha separato l’insegnamento di lingua
da quello di letteratura e cultura: un mini-corso di lingue scandinave
che, similmente, raduna nella stessa classe studenti di danese, norvegese e svedese della stessa annualità, e che ha luogo parallelamente
ai corsi annuali delle tre lingue tenuti dai rispettivi lettori. Parlerò in
particolare del corso per gli studenti di primo anno, dove mi sono
trovato di fronte a un compito stimolante: sostenere gli studenti nell’apprendimento basilare della lingua scandinava da loro scelta, rendendoli nel contempo sensibili verso l’esistenza di quella struttura
più vasta che possiamo chiamare il sistema linguistico scandinavo.
Parlo di mini-corso perché si è trattato di un’ora di lezione alla settimana a semestre, accanto alle quattro ore settimanali a semestre tenute dai lettori di danese, norvegese e svedese per ogni annualità.
Questo esercizio linguistico interscandinavo ha dunque occupato un
quinto dell’apprendimento linguistico complessivo.
3
Va detto che anche presso le cattedre italiane di Lingue e Letterature Nordiche dove è disponibile l’insegnamento di una sola delle lingue – danese a Pisa, svedese a Genova, norvegese a Bologna e svedese a Napoli – i corsi di letteratura e cultura mantengono spesso un «taglio» interscandinavo e nordico.
4
Alcune precisazioni terminologiche sono necessarie, visto che i termini scandinavo
e nordico sono in parte intercambiabili, ma nordico ha in realtà implicazioni più vaste. La
disciplina Lingue e Letterature Nordiche include le lingue scandinave germanico-settentrionali, danese, islandese, norvegese e svedese. Di fatto nessun insegnamento di islandese moderno (dunque lettorato) è attivo nelle università italiane. Rispetto alla Scandinavia
propriamente detta (Norvegia e Svezia come entità geografica, più la Danimarca come entità storico-culturale), il Nord include Islanda, Finlandia, Fær Øer e Groenlandia, ossia le
aree storicamente coinvolte dall’espansione e dominazione delle popolazioni scandinave.
La Finlandia ha forti legami con il Nord ma una lingua non scandinava; solo la letteratura
della minoranza svedese di Finlandia rientra quindi in Lingue e Letterature Nordiche,
mentre la lingua e la letteratura finlandese, o finnica, rientrano a pieno titolo in un altro
ambito disciplinare, Lingue e Letterature Ugro-finniche, assieme a ungherese ed estone.
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Il fatto che i corsi di letteratura o cultura siano in comune e scandinavi per studenti di tre diverse lingue può essere visto come un limite di risorse e dunque pedagogico. Siamo considerati, in Italia e altrove, una lingua (sic) piccola; ma nonostante i limiti è opportuno
considerare le potenzialità che questa situazione pure crea, ad esempio lo spazio comune scandinavo all’interno della materia. Da un lato si tratta di fare di necessità virtù, dall’altro la prospettiva interscandinava, e perfino internordica, è didatticamente sostenibile ed è applicata anche in quei sistemi universitari europei che funzionano meglio e hanno più risorse del nostro. Del resto uno dei padri della
comparatistica europea, il critico danese Georg Brandes (1842-1927),
era solito considerare il Nord un’unica nazione culturale, pur con le
sue varianti.
Come scegliere i contenuti di un corso di letterature e culture
scandinave per studenti con competenze discrete o almeno sufficienti nella rispettiva lingua scandinava, che studiano da uno, due,
tre o quattro anni? Una soluzione ricorrente e pratica è scegliere un
argomento trasversale, che imponga una sorta di giustizia distributiva e un equilibrio tra testi danesi, norvegesi e svedesi (anche svedesi di Finlandia). Un corso sulla rappresentazione della vita contadina
a cavallo tra Ottocento e Novecento, in relazione ai rivolgimenti dell’industrializzazione e della modernità, ha ad esempio incluso i romanzi Muld (Terra, 1891), dalla trilogia Det forjættede Land (La terra
promessa, 1891-95) del danese Henrik Pontoppidan; Jerusalem
(1901-02; 1909) della svedese Selma Lagerlöf; e Markens grøde (Germogli della terra, 1917) del norvegese Knut Hamsun. Come archetipo romantico si è considerato il poema epico sul contadino Pavo del
finlandese di lingua svedese Johan Ludvig Runeberg (1830). Un altro
corso ha trattato della letteratura nordica per bambini e ragazzi, presentando opere della danese Karin Michaëlis, della svedese Astrid
Lindgren, della svedese di Finlandia Tove Jansson e del norvegese
Lars Saabye Christensen. Un corso per Mediazione linguistica e culturale ha trattato della costruzione del welfare state scandinavo nel
ventesimo secolo, includendo ancora testi nelle tre lingue, letterari e
non solo.
Ogni scelta di questo genere risulta difficile. È ad esempio difficile lasciare fuori le rappresentazioni di vita contadina di August
Strindberg, per non parlare di quello che si è costretti a escludere
parlando della ricca letteratura nordica per l’infanzia e i ragazzi. Mi
rendo anche conto che una simile prospettiva comparativa in ambito scandinavo va a discapito dell’approfondimento analitico testuale
della singola opera, in considerazione del numero limitato di ore.
Del resto l’equilibrio ideale tra le letterature nazionali indicate non si
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presenta sempre e per ogni argomento. E anche il lavoro approfondito su un’unica opera letteraria è possibile e funziona. Tuttavia mi
è capitato una sola volta di tenere un intero corso su un’opera (Forførerens Dagbog, Il diario del seduttore, di Søren Kierkegaard), altrimenti l’argomento trasversale scandinavo ha costituito la regola. È
stata una questione di priorità, una scelta che ha presentato vantaggi
e svantaggi. Il vantaggio del taglio interscandinavo è, per me, un’importante presa di coscienza comparativa e di interazione tra l’uno e il
molteplice, secondo le proposte di Claudio Guillén (2001); ovvero, in
questo caso, della forte parentela tra danese, norvegese e svedese
(ed eventualmente svedese di Finlandia) che tuttavia non vuol dire
identità. Tale parentela abbinata alla differenza vale tanto per i codici letterari quanto per quelli culturali e per quelli strettamente linguistici. E il circolo comunicante di letteratura, cultura e lingua costituisce a sua volta un presupposto della nostra pratica didattica.
La premessa dell’analisi testuale e del discorso è che si possano
leggere e comprendere alcuni testi in danese, norvegese e svedese.
Se si lavora con testi lunghi come i romanzi, si lavorerà in classe con
dei brani scelti, mentre la lettura integrale sarà parte del programma
d’esame. Del brano si svolge prima una traduzione orale e comune,
magari con un paio di studenti che hanno avuto il compito di preparare a casa la traduzione e che la conducono. Si può altrimenti decidere di includere tra i materiali gli stessi brani delle opere pubblicate in italiano; questo aiuta certamente gli studenti di secondo anno e
può fornire un ulteriore terreno di lavoro linguistico, quello della riflessione sulla traduzione. Dopo la traduzione si passa a un’analisi
linguistica più ravvicinata del testo originale. E in questa fase si può
cominciare a giocare con la comprensione interscandinava.
Si chiede agli studenti di sottolineare alcune parole del brano tradotto, che saranno oggetto di attenzione particolare, o perché causano problemi di comprensione da una lingua scandinava all’altra
oppure perché presentano aspetti che è interessante confrontare.
Tutte le parole scelte devono rientrare nel lessico fondamentale.
Una tale sottolineatura di parole particolari indica già implicitamente che dovrebbe essere possibile comprendere il resto del testo in
modo pressoché automatico da una lingua scandinava all’altra, se si
impara a riconoscere le minori e, per così dire, regolari differenze
ortografiche e morfologiche che distinguono danese, norvegese e
svedese. Svolgendo questo esercizio con regolarità, alternando testi
danesi, norvegesi e svedesi come base di partenza, si può trasmettere la percezione di alcuni ricorrenti modelli, di un sistema linguistico scandinavo, come si è detto. Si può così utilmente rafforzare la
consapevolezza che la comprensione scritta delle due lingue scandi-
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nave vicine è possibile, e che in certa misura avviene automaticamente5.
Anche senza lavorare in modo sistematico sulla fonologia, basta
pronunciare le parole per osservare che la parentela fonetica è più
forte tra norvegese e svedese6, mentre la parentela morfologica è più
marcata tra norvegese e danese. Davanti a vocali palatali, alle occlusive danesi corrispondono fricative o semivocali in norvegese e svedese, un fenomeno che il norvegese segnala anche graficamente con
l’inserimento di <j> fra consonante e vocale. Inoltre, nel secondo
esempio, si vede la corrispondenza, in corpo di parola, fra occlusiva
sorda norvegese e svedese /p/ e sonora danese /b/:
italiano
danese
norvegese
svedese
succedere
ske /sge:’/
skje /}e:/
ske /}e:/
comprare
købe /’kø:b./
kjøpe /’çø:p./
köpa /’çø:pa/
fare
gøre/’gø:R./
gjøre /’jø:r./
göra /’jø:ra/
Nella morfologia e nel lessico si nota più spesso una linea di demarcazione tra svedese da un lato e danese e norvegese dall’altro.
Aspetti morfologici dello svedese – come la vocale finale -a rispetto alla -e danese e norvegese nella flessione di verbi, aggettivi e sostantivi,
oppure le forme del plurale dei sostantivi svedesi in -or, -ar ed -er rispetto alle forme in -er di danese e norvegese – servono anche a illustrare lo sviluppo storico-linguistico, in cui lo svedese ha mantenuto
forme più arcaiche, che più raramente compaiono in danese e norvegese7:
5
Håkan Ringbom (1989) riflette utilmente sull’interferenza positiva data dalla lingua
madre nell’apprendimento rapido di una lingua straniera strettamente imparentata; egli si
riferisce in primo luogo a danese, norvegese e svedese. La nostra situazione è ovviamente più complessa, essendo l’italiano il punto di partenza del discente, ma diverse osservazioni di Ringbom si applicano anche al caso qui descritto.
6
Le particolarità fonetiche del danese – la /R/ uvulare, il colpo di glottide (stød),
l’indebolimento delle vocali atone e delle consonanti post-vocaliche – rendono questa
lingua la meno comprensibile nella semi-comunicazione orale tra scandinavi; cfr. Haugen (1972: 229-230). Nel nostro caso, come si è detto, il lavoro verte soprattutto sulla
comprensione scritta. Con tutta la gradualità necessaria, è tuttavia opportuno sensibilizzare dal principio i discenti verso la marcata alterità del danese orale.
7
La -a(-) nella flessione quale elemento morfologico arcaico è presente nell’islandese e nel norvegese, soprattutto nynorsk (neonorvegese); anche il bokmål, la varietà
più legata al danese e più diffusa, contempla la forma in -a dell’articolo determinativo
enclitico dei sostantivi femminili: solen o sola (il sole); klokken o klokka (la campana /
l’orologio). Cfr. Vikør (2001: 207-208).
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italiano
danese
norvegese
svedese
stare seduti
sidde
sitte
sitta
pensieri profondi
dybe tanker
dype tanker
djupa tankar
stella
stjerne
stjerne
stjärna
la stella
stjernen
stjernen
stjärnan
stelle
stjerner
stjerner
stjärnor
le stelle
stjernerne
stjernene
stjärnorna
Ma è osservando da vicino le parole che causano problemi di
comprensione da una lingua scandinava all’altra che si intende meglio quella parentela abbinata alla differenza cui si faceva cenno. Si
vede così come la comprensione linguistica interscandinava possa
anche risultare tutt’altro che automatica. Il lessico offre molte occasioni comparative; una situazione comune è l’esistenza nelle tre lingue dello stesso etimo (fatte salve le ricorrenti mutazioni ortografiche
e morfologiche) con un significato spesso solo leggermente diverso
da una lingua scandinava all’altra, o a volte completamente diverso;
si tratta dei cosiddetti falsi amici:
italiano
danese
norvegese
svedese
ridere
le
le
skratta
sorridere
smile
smile
le
tranquillo
rolig
rolig
lugn
divertente
morsom
morsom
rolig
Partendo dai falsi amici si può spesso seguire una reazione a catena di slittamenti semantici; è una ricerca divertente, ma che può generare confusione nei discenti, specialmente se principianti. Questo
esercizio, svolto con gradualità, introduce però utilmente i più comuni e noti falsi amici circolanti tra le lingue scandinave. Più avanti nello studio si capirà meglio che numerosi lessemi coprono un campo
semantico non del tutto coincidente nelle tre lingue. Un caso interessante riguarda la memoria e il ricordo:
italiano
danese
norvegese
svedese
ricordare
huske
huske
minnas, komma ihåg
ricordo
minde
minne
minne
memoria
hukommelse
hukommelse
minne
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La differenza tra il verbo danese e norvegese huske e gli equivalenti svedesi minnas e komma ihåg è piuttosto ricorrente e semplice.
La cosa diventa un poco più complicata con il sostantivo minde
/minne, poiché lo svedese minne ha un campo semantico maggiore
dei corrispettivi danese e norvegese, significando sia la capacità psichica di serbare e rievocare rappresentazioni, ‘memoria’, sia la specifica rappresentazione rievocata, ‘ricordo’. La parola danese e norvegese minde/minne indica soltanto la rappresentazione singola, mentre la facoltà psichica è hukommelse. La parola hågkomst (stesso etimo di hukommelse) esiste in svedese, ma significa ricordo, la rappresentazione singola. Si può dunque dire che hukommelse e hågkomst
sono tra loro falsi amici.
Ci sono molti esempi di questo tipo di relazione, utile da apprendere anche dal punto di vista metodologico, perché permette agli
studenti di capire concretamente i concetti di campo e spettro semantico di una parola, incoraggiandoli a usare con assiduità e attenzione il dizionario monolingue, esaustivo sullo spettro semantico,
evitando la spesso fuorviante traduzione automatica indotta dal più
schematico elenco di traducenti nel dizionario bilingue8. Attraverso
un utilizzo combinato di dizionario bilingue e monolingue lo studente può affinare la conoscenza del campo e dello spettro semantico di
una parola. Prima di tutto questo deve avvenire per la lingua scandinava studiata attivamente, ma l’attitudine che si sviluppa dovrebbe
aiutare anche nella comprensione delle due lingue scandinave vicine. Per i più comuni falsi amici esiste inoltre un agile dizionario scandinavo, Skandinavisk ordbok, pubblicato da diverse casi editrici del
Nord, ulteriore ausilio che gli studenti possono sfruttare (qui Lindgren: 1994).
Un caso di frequente cambiamento da una lingua scandinava all’altra, riguardante sia la morfologia sia il lessico, si verifica con quei
suffissi di sostantivo intercambiabili, come –else e –(n)ing, frequenti
nelle tre lingue e usati con variazioni che non seguono una logica:
italiano
danese
norvegese
svedese
significato
betydning
betydning
betydelse
concezione, idea opfattelse
8
oppfatning, oppfattelse uppfattning
I dizionari dalle lingue scandinave all’italiano e viceversa sono di media grandezza e qualità, e tutti realizzati da case editrici scandinave. Nessuna casa editrice italiana ha
finora prodotto dizionari bilingui di qualità.
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Lo stesso vale per il genere mutante (genere comune in –en o
neutro in –et) dello stesso sostantivo, con ancora una volta lo svedese che più spesso si distingue da danese e norvegese:
italiano
danese
una guerra, la guerra en krig, krigen
un punto, il punto
norvegese
svedese
en krig, krigen
ett krig, kriget
et punkt, punktet et punkt, punktet en punkt, punkten
Il rischio, qui, non è che i discenti non capiscano le parole nelle
due lingue scandinave vicine, ma piuttosto che si generi un’interferenza negativa, che rende più incerto l’apprendimento attivo della lingua scandinava prescelta9. Un’opzione, consigliabile specialmente nel
lavoro con i principianti, è quella di far sì notare questo minimo scarto, ma senza insistere, puntando al primo obiettivo della comprensione passiva.
Attraverso questo tipo di esercizi non si intende trasmettere nozioni, quanto piuttosto formare una consapevolezza e un’attitudine.
Non si chiede che gli studenti imparino a memoria le serie di parole
o le forme non coincidenti nelle tre lingue. Tuttavia, imbattendosi di
volta in volta nelle parole e forme devianti rispetto alla lingua scandinava attivamente studiata, e imparando ad addentrarsi nel lessico
con l’aiuto dei dizionari, gli studenti possono arrivare sia a una buona comprensione del sistema linguistico scandinavo sia, col tempo, a
una vera e propria competenza passiva nelle due lingue vicine, che
in futuro potranno utilizzare, ad esempio se si indirizzano verso lavori di traduzione. È una esperienza gratificante riuscire ad avere accesso a tre lingue e a quattro aree culturali10, avendo in realtà studiato
una sola lingua scandinava11.
9
Il norvegese si distingue ulteriormente dalle altre due lingue attraverso il genere
del sostantivo: invece di una bipartizione tra genere «comune» (maschile più femminile)
e genere neutro, come accade in svedese e danese, una tripartizione tra genere maschile, femminile e neutro. Es. en måne, månen (una luna, la luna) – ei sol, sola (un sole, il
sole) – et hus, huset (una casa, la casa).
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Attraverso lo svedese ci si procura un buon accesso anche alla cultura della Finlandia, poiché lo svedese, minoritario, è una delle due lingue ufficiali del paese.
11
Un ulteriore rafforzamento di questa competenza scandinava si ha se lo studente, come è possibile che faccia nel suo piano di studi, sceglie come terza lingua (normalmente 6 o 12 CFU) una seconda lingua scandinava. Per i motivi esposti nell’articolo
si consiglia allo studente di affrontare questo studio attivo al terzo anno di corso, quando cioè la base di competenze nella sua prima lingua scandinava è abbastanza solida
ed è minore il rischio di interferenze negative.
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In questo senso il testo letterario può essere utilizzato come serbatoio di lingua per escursioni e confronti linguistici. L’analisi del discorso, che di nuovo dà coerenza e unità al testo scelto, arriva subito
dopo. L’esercizio linguistico proposto non deve del resto durare molto; può concentrarsi di volta in volta su poche parole e forme, durare un quarto d’ora e costituire così una pausa e un cambio d’attività
durante una doppia ora densa di seri discorsi sulla letteratura e cultura. In alternativa, il lavoro linguistico sui testi del corso di letteratura
e cultura può essere trasferito alle ore del mini-corso di Lingue Nordiche, se il docente è lo stesso.
La seconda situazione didattica, il mini-corso di lingue scandinave per il primo anno, ha nel complesso gli stessi scopi e si svolge in
parte allo stesso modo della prima situazione descritta, soprattutto
per quanto riguarda l’osservazione della fonologia, dell’ortografia,
della morfologia e del lessico. La differenza è che la materia linguistica è tratta dai libri di corso di lingua danese, norvegese e svedese per
principianti che gli studenti usano nei rispettivi lettorati. Di fronte a
dei principianti la preoccupazione di non creare confusione è stata
ancora maggiore. Si è preferito procedere con cautela, proponendo
sporadiche escursioni lessicali da una lingua all’altra. Si è invece insistito sulla necessità di rafforzare la propria lingua studiata, la quale
tuttavia funziona all’interno di un sistema scandinavo che conviene
cominciare a osservare.
I testi utilizzati nei lettorati di Firenze nell’anno accademico 200506 sono stati Aktivt dansk (Bostrup: 2001), Norsk på en-to-tre (Ellingsen & Mac Donald: 2003) e På svenska! (Göransson & Parada: 1997).
Sono libri rappresentativi dell’odierna didattica delle lingue straniere.
Ogni capitolo corrisponde a ciò che in inglese chiamiamo unit. In
una unità la lingua è presentata in contesti comunicativi, per i quali si
deve imparare a compiere alcune azioni: salutare i conoscenti, parlare di sé, trovare la strada, fare la spesa, parlare con il cameriere al ristorante e così via. Le essenziali spiegazioni grammaticali sono eventualmente una conseguenza, costituendo le strutture da sapere utilizzare nelle situazioni comunicative proposte. Questa impostazione riflette quanto dice The Common European Framework (2007) sulla
necessaria interazione di competenze linguistiche, sociolinguistiche e
pragmatiche nell’apprendimento linguistico. Non basta conoscere
grammatica, ortografia, fonetica, morfosintassi e lessico; si tratta anche di entrare presto in contatto con i codici sociali e culturali di un
paese e di un popolo, ovvero con codici in parte extralinguistici che
tuttavia si esprimono nella lingua. Il codice puramente linguistico, la
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grammatica, esiste solo in contesti comunicativi reali.
Una competenza sociolinguistica è ad esempio sapere distinguere
i registri: salutarsi in birreria o con l’anziana nonna, con gli amici o
con il capo è sempre salutarsi, ma si possono utilizzare parole e accenti diversi. Notiamo a tale proposito che i nostri libri non adottano
strategie identiche. Norsk på en-to-tre rinuncia nel complesso a proporre registri sociolinguistici ai principianti. L’idea che sta dietro è
probabilmente che i principianti abbiano per lo più bisogno di un registro informale tra pari per potere cominciare veramente a comunicare. På svenska! vuole invece abituare da subito gli studenti ai diversi modi di produrre un messaggio con una simile funzione a seconda
del contesto sociale in cui si trovano; il gergo giovanile è incluso. Aktivt dansk mostra una strategia mediana; viene presentato un dialogo
informale di base, ma le “strutture” che lo accompagnano introducono una gradazione, per quanto elementare, del registro.
Anche le competenze pragmatiche hanno a che fare con la conoscenza dei codici culturali. Esiste evidentemente una grammatica di
comportamenti al di là della lingua, tale per cui un discente straniero
può produrre un enunciato grammaticalmente corretto, ma che semplicemente non funziona in un dato contesto. Si tratta dunque di una
competenza culturale e retorica e di conoscenza delle forme idiomatiche.
Con gli studenti ho fatto un esempio semplice: come diciamo
«buon appetito!» nelle lingue scandinave, quando ci sediamo a tavola
e cominciamo a mangiare? Certo, in svedese si può augurare smaklig
måltid! (lett. “gustoso pasto!”), una frase che però non si sente spesso e suona piuttosto formale (la usa abitualmente il cameriere al ristorante). Se proprio devono dire qualcosa quando iniziano a mangiare, i padroni di casa scandinavi pronunciano una frase neutra del
tipo “prego, prendi pure, serviti”, con varianti nazionali. Ma ciò che
meglio traduce il nostro “buon appetito!”, come costume e comportamento sociale sebbene non come enunciato linguistico, consta di due
mosse, inusuali per noi italiani: 1) durante il pasto chi è invitato loda
– obbligatoriamente se non vuole risultare scortese – la pietanza e
dunque il padrone di casa; 2) (ancora più importante) chi è invitato
“ringrazia del cibo” a fine pasto, al che l’ospite ringrazia a sua volta.
Una traduzione culturale e non letterale da italiano a scandinavo risulta quindi essere, a parti invertite tra padrone di casa e invitato:
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italiano
danese
norvegese
svedese
Buon appetito!
Tak for mad!
Takk for maten!
Tack för maten!
Vel bekomme!
Tack ska du ha!
Grazie, altrettanto! Velbekomme!
Come si vede, in danese e norvegese esiste la particolare espressione Velbekomme!/Vel bekomme!, da usare quasi esclusivamente
per rispondere al finale “grazie del cibo”. La situazione illustra dunque anche un’importante questione traduttologica, che si potrebbe
definire “traduzione linguistica contro traduzione culturale”. L’iniziale
presa di coscienza del problema può condurre a una successiva riflessione in un corso sulla traduzione.
Più in generale il codice dei ringraziamenti è molto articolato tra
gli scandinavi, i quali ringraziano continuamente e di tante cose.
Quando ci si rivede dopo essere stati insieme qualche tempo prima
(una settimana o due prima per gli svedesi, ma anche anni prima per
i norvegesi) si dice “grazie dell’ultima”. Ogni traduttore italiano che si
è imbattuto nel danese tak for sidst, nel norvegese takk for sist e nello svedese tack för senast ha avuto i suoi grattacapi.
In questa seconda situazione didattica gli studenti hanno di nuovo potuto comparare le lingue scandinave, ma hanno potuto soprattutto affinare la consapevolezza del proprio apprendimento della lingua straniera, ragionando sulla differenza tra competenze linguistiche, sociolinguistiche e pragmatiche. Hanno sviluppato una certa intercultural awareness, che The Common European Framework
(2007: 43, 51, 103-104, 160) considera un fattore dell’apprendimento
linguistico. Tale apprendimento si rivela dunque essere tutt’altro che
meccanico, ma un lavoro interculturale che apre mondi e getta ponti. Se l’abitudine a tradurre troppo da e verso la lingua madre a volte
è un ostacolo durante il primo apprendimento della lingua straniera
– perché così non si entra mai nel mondo altrui e nella sua logica
particolare – la traduzione è pure un modo istintivo di portare a sé e
acquisire, di comprendere il mondo, il proprio e quello altrui, attraverso la lingua. Gli esempi sui ringraziamenti mostrano una chiara
parentela interscandinava. Da un punto di vista italiano la difficoltà
sta nel comprendere ed eventualmente tradurre adeguatamente tack
för senast! Fatto questo, è facile gettare un piccolo ponte a takk for
sist! e tak for sidst!
Haugen (1972) mette giustamente l’accento sulla motivazione
quale condizione indispensabile per la comunicazione linguistica interscandinava. Attraverso questi semplici esercizi ho inteso più stimo-
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lare la curiosità e l’attitudine aperta negli studenti italiani di lingue
scandinave che non impartire nozioni. Anche così, voglio sperare,
giovani appassionati costruttori di ponti linguistici possono formarsi
per diventare filologi, traduttori e mediatori culturali.
BIBLIOGRAFIA
BOSTRUP, L. (2001), Aktivt dansk: en begynderbog i dansk for udenlandske studerende, København, Akademisk Forlag.
ELLINGSEN, E. & MAC DONALD, K. (2003), Norsk på en-to-tre, Oslo, Cappelen.
GÖRANSSON, U. & PARADA, M. (1997), På svenska! Svenska som
främmande språk: lärobok, Lund, Folkuniversitetets förlag.
GUILLÉN, C. (2001), L’uno e il molteplice: introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino (ed. orig. 1985).
HAUGEN, E. (1972), The Ecology of Language, Stanford, Cal., Stanford University Press.
LINDGREN, B. [et al.] (1994), Norstedts skandinaviska ordbok, Stockholm, Norstedt.
RINGBOM, H. (1989), ”Inlärning av nära besläktade språk”, in G. Kasper & J. Wagner (red.), Grundbog i fremmedsprogspædagogik, København, Gyldendal, pp. 79-87.
VIKØR, L. (2001), The Nordic Languages. Their Status and Interrelations, Oslo, Novus Press.
FONTI ELETTRONICHE
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http://www.coe.int/t/dg4/linguistic/CADRE_EN.asp
NORDEN. DE NORDISKA LÄNDERNAS OFFICIELLA SAMARBETE
(25.01.2007) http://www.norden.org/start/start.asp
SAMARBETSNÄMNDEN FÖR NORDENUNDERVISNING I UTLANDET (25.01.2007) http://www.norden.org/kultur/bidrag/sk/norden-undervisning.asp?lang
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QUEL CHE RESTA DELLA DDR.
LA TRASPOSIZIONE DEL LESSICO CULTURALMENTE SPECIFICO
NEL DOPPIATO ITALIANO DEL FILM GOOD BYE LENIN!
1 Premessa
Il processo di ricezione di un testo eteroculturale è conforme alle
priorità che la società cui la traduzione è destinata riconosce alla contingenza contestuale in cui lo stesso testo ha avuto origine. Anche la
trasposizione di opere filmiche, così come in generale la traduzione
di ogni testo, pone in primo piano la nozione di scambio culturale
che caratterizza il processo traduttivo inteso come momento di confronto tra sistemi socioculturali difformi. Dato che la traduzione si
qualifica come intervento su un campo d’azione che trascende la
struttura testuale per aprirsi alla sovrastruttura culturale, il compito
del traduttore coincide con un lavoro di decodifica e ricodifica linguistico-culturale atto a smussare l’estraneità del testo di partenza plasmando quest’ultimo in forme affini alla situazione dei destinatari.
Venuti descrive il maggiore o minore grado della “violence at
work in any translating” (Venuti: 1995, 19) operando una distinzione
tra approccio addomesticante (domestication) e approccio estraniante (foreignisation). Il primo caso si dà in quei contesti dove nel processo traduttivo viene riconosciuta assoluta priorità al testo tradotto,
privilegiando le aspettative dell’insieme dei destinatari a spese dell’integrità del significato del testo/contesto di partenza. All’estremo opposto la tendenza allo straniamento mira a tutelare il potenziale comunicativo dell’ipotesto salvaguardandone l’alterità contestuale, dal
momento che il traduttore “seeks to restrain the ethnocentric violence of translation” (Venuti: 1995, 20).
Nello specifico della traduzione per il cinema va considerato che,
causa la natura stessa del testo filmico in cui il subtesto verbale è
complementare al subtesto visuale, non è possibile raggiungere un
effetto di addomesticamento totale, in quanto il film doppiato non
può mascherare del tutto l’eterogeneità della parola rispetto all’immagine. L’opera filmica cioè fatica maggiormente a mimetizzarsi in un
contesto culturale improprio in quanto essa, fondandosi sull’interazione di molteplici sistemi di segni, taluni dei quali non modificabili,
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può dissimulare solo parzialmente la sua peculiarità situazionale.
Nelle pagine a seguire intendo mostrare e commentare come il
bilancio generale dell’incontro/scontro tra sistemi culturali in campo
cinematografico confermi che “the general dubbing policy is one of
local standardisation, explicitation and naturalisation” (Ulrych: 2000,
132). I fenomeni di addomesticamento del testo saranno oggetto specifico della trattazione. Sulla base del confronto del testo originale in
tedesco con il doppiato italiano del film Good Bye Lenin! (Wolfgang
Becker, Germania 2003) si procederà a isolare e commentare le strategie traduttive applicate al lessico culturalmente specifico della
DDR. Lo scopo dell’analisi è di mettere in luce quali siano i problemi
che i traduttori/dialoghisti si trovano a fronteggiare quando dietro le
parole si celano sostrati ideologici, strutture economiche, matrici politiche e dinamiche sociali che rinviano all’incomparabile eccezionalità di un sistema culturale.
2 La traduzione dei riferimenti culturali nel film Good Bye Lenin!
2.1 Obiettivi dell’analisi, sinossi e descrizione del materiale
Premessa in termini generali la suddivisione tra elementi che nella traduzione tendono a produrre un effetto straniante ed elementi la
cui applicazione genera un testo dalle sembianze domestiche, ovvero adattato al sistema culturale dei destinatari, verificheremo ora nello specifico dell’analisi del doppiato italiano di Good Bye Lenin! come la trasposizione dei molti elementi culturali del film si concretizzi
in diverse forme di addomesticamento. La presente ricerca è volta innanzitutto a porre in evidenza trasformazioni significative che diano
atto di quanto e di cosa sia effettivamente rimasto della DDR nel
doppiato italiano. Si vedrà come la specificità culturale del lessico
che ricorre nel parlato del film e che sottolinea a più riprese la caratterizzazione socio-politica, dai tratti fortemente contraddittori, della/e
Germania/e a cavallo della riunificazione trovi in italiano una corrispondenza spesso insufficientemente indicativa e talvolta persino deviante rispetto all’ampia gamma di associazioni che i significanti dell’originale sollecitano.
Ai fini della descrizione degli aspetti traduttivi legati alla ricodifica
di termini culturali specifici mi avvarrò della teoria degli universali
della traduzione – in particolare verranno qui discusse la naturalizzazione, la standardizzazione e l’esplicitazione sulla scorta del saggio di
Goris (1993). Viene da sé che i riscontri dati dall’analisi andranno a
chiarire se e in quali punti del testo (ri)prodotto in sede di doppiaggio si sia giunti a un risultato addomesticante o estraniante, vale a di-
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re fino a che punto il significato proprio del testo originale sia arrivato fino allo spettatore italiano senza che l’intermediazione del traduttore ne compromettesse la valenza.
Il film preso in esame, Good Bye Lenin!, racconta la vicenda paradossale di Alexander Kerner, un ventenne berlinese la cui madre,
Christiane, socialista convinta, in seguito a un infarto cade in coma
pochi giorni prima della caduta del Muro. La donna trascorre otto
mesi in un letto d’ospedale ignara che al di fuori – è l’autunno del
1989 – si stanno consumando eventi epocali: il tracollo del regime
comunista nella Germania Orientale e l’imminente riunificazione.
Dopo il risveglio i medici avvertono che per la donna ogni ulteriore
turbamento potrebbe essere letale. Così, per non farle scoprire cosa
sia realmente successo, Alexander, con l’aiuto dell’amico Denis e della poco convinta sorella Ariane, simula per alcuni mesi, fino al giorno della morte della madre sopraggiunta per un’improvvisa ricaduta,
il perdurare della DDR. Invece di dare notizia della riunificazione
delle Germanie, il socialismo “irreale” di Alexander culmina nel finale in un fasullo trionfo, storico e morale, della Germania orientale,
nel momento in cui viene resa nota la supposta decisione da parte
degli organi di potere di aprire al mondo le frontiere della patria socialista.
I dialoghisti si sono dovuti confrontare con una copiosa varietà di
termini e locuzioni culturalmente specifici che spaziano in uno spettro lessicale molto ampio e che vanno dalle massime cariche istituzionali fino agli spiccioli dettagli della vita quotidiana. Il lessico culturale distribuito nel parlato originale del film rientra in classi semantiche molto diverse. Si tratta, tra l’altro, di nomi di stati (BRD, DDR,
Sowjetunion), nomi di città e circoscrizioni cittadine (Berlin, Zwickau, Leipzig, Wuppertal, Mitte, Friedrichshain), partiti politici (SED),
istituzioni (Staatsrat, Bundeskanzleramt), gruppi dirigenti e cariche
istituzionali (Parteileitung, Kollektiv, Gruppenratsvorsitzender,
Abschnittsbevollmächtigte, Generalsekretär des ZK der SED, Vorsitzender des Staatsrates), edifici pubblici (Palast der Republik, Rathaus
Schöneberg), organizzazioni di massa per l’infanzia (die Pionieren),
espressioni geopolitiche (West, Ost, West-Berlin, kapitalistisches Ausland), fenomeni storico-politici (Wende), marche, prodotti, ditte e
aziende (Tempo-Bohnen, Mokka Fix Gold, Spreewald-Gurken, Trabant, Lada-Taxi, Coca-Cola-Konzern, VEB Getränkekombinat Leipzig,
PGH Fernsehreparatur Adolf Henecke), nomi propri e comuni di negozi e attività commerciali (Kaufhalle, Exquisit, Mitropa, Café Moskau), istituti di istruzione (EOS Yuri Gagarin, Polytechnische Oberschule (POS) Werner Seelenbinder), modelli di edilizia abitativa
(Plattenbauwohnung), programmi televisivi (Aktuelle Kamera,
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Schwarzer Kanal, Ein Kessel Buntes, Alltag im West), locuzioni spregiative (Ossis, Klassenfeind/in).
Il parlato di Good Bye Lenin! si sviluppa su tre diversi vettori, corrispondenti a tre differenti modi della comunicazione, che presentano tra loro caratteristiche piuttosto eterogenee. Il film infatti alterna al
dialogo svariati interventi a commento in prima persona, più o meno
ampi, affidati alla voce del protagonista, nonché numerosi spezzoni
di programmi televisivi d’informazione.
Per quanto riguarda le note del narratore è importante sottolineare che esse vengono tutte pronunciate fuori campo e ciò concede ai
traduttori una certa libertà interpretativa tanto che, in vari casi, il testo tradotto viene modificato e arricchito in modo da sortire talvolta
soluzioni infedeli ma brillanti che compensano almeno parzialmente
l’appiattimento di altre componenti. Queste porzioni di testo, avendo
un valore esplicativo e intervenendo a integrazione degli scambi dialogici, deviano dalla simulazione del parlato spontaneo e si caratterizzano pertanto per un’elocuzione più formale rispetto alle sezioni
di dialogo, pur manifestando dal punto di vista grammaticale una sintassi poco complessa, con un livello di subordinazione che solo in
rarissimi casi supera il primo grado. La traduzione di tali brani, pur
mantenendo simile il grado di complessità sintattica, mostra in vari
punti un evidente innalzamento del livello stilistico, laddove a frasi
idiomatiche o a espressioni diafasicamente non marcate vengono fatte corrispondere formulazioni italiane tipiche di un registro linguistico più ricercato ed elegante (per esempio: ‘den Bach runtergehen’
diventa ‘sprofondare nel baratro’; ‘nicht mehr sprechen’ viene reso
con ‘cadere in un completo mutismo’; l’espressione ‘Geburtstagsgäste
einladen’ si trasforma in un raffinato ‘diramare inviti’). Ad accentuare
l’impennata stilistica concorre anche l’uso massiccio del passato remoto.
Oltre a espletare una funzione strettamente narrativa i commenti
fuori campo servono ad agganciare la finzione filmica al contesto storico in cui la vicenda si inserisce. Sul commento infatti scorrono a più
riprese immagini tratte da filmati di repertorio che mostrano i primi
passi della/e Germania/e sulla via della riunificazione: la demolizione del muro, i festeggiamenti di piazza, le corse dei portavalori carichi di marchi occidentali verso le ex-regioni rosse, la sottoscrizione
di nuovi accordi internazionali al Cremlino alla presenza di Gorbaciov. Il narratore fa riferimento diretto, spesso ironizzando, alle varie
fasi del cambiamento e contribuisce in questo modo alla rappresentazione di uno scenario storico-culturale diviso tra le rovine polverose di un recente passato e l’inizio di una nuova era. Supportato dai
documenti filmati, il gergo della DDR, il quale si qualifica come una
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“Art Grauzone aus Wörtern, die sich nur für den Kommunikationsteilnehmer mit DDR-Kompetenz als DDR-geprägt zu erkennen geben” (Schröder: 1997, 165), viene in questo modo a marcare ulteriormente la raffigurazione del contrasto.
Come già detto per i commenti narrativi anche i brani giornalistici inseriti nel film rientrano nella categoria dei testi del parlato formale (prevalentemente redatti per iscritto, per essere poi letti). Tali testi,
sia per quanto pertiene i brani tratti da trasmissioni reali sia per quelli fittizi, prodotti ad uso esclusivo di Christiane dal protagonista e dall’amico Denis, sono vincolati al rispetto della dialettica ufficiale politicamente e ideologicamente corretta, caratteristica dei programmi
della televisione di stato controllata dal regime. Si giustifica in questo
senso, come vedremo in seguito, la traboccante presenza di termini
del burocratese della DDR, ove si susseguono voci che indicano i più
svariati organi collegiali di amministrazione e di controllo, dagli organismi centrali dello stato, ai consigli di gestione scolastica, ai comitati di quartiere e di condominio. Le pompose denominazioni ufficiali
degli incarichi politici ricoperti dai dirigenti del partito – da Honecker
in particolare – e i frequenti riferimenti a tutti gli occhiuti organismi
finalizzati all’inquadramento delle masse popolari contribuiscono a
far emergere nel film l’immagine di una macchina politica invadente
che si insinua in tutti gli ambiti e i contesti sociali, pubblici e privati.
Anche per queste porzioni di parlato, al doppiaggio giova il fatto che
la quasi totalità dei commenti giornalistici avviene in off, dal momento che spesso nei servizi filmati il giornalista non compare in video,
bensì parla fuori campo, e talvolta il film preferisce mostrare i Kerner
nel ruolo di telespettatori, intenti a seguire i fatti di politica e cronaca
che passano in TV.
2.2 La neutralizzazione dei tratti dialettali
Di particolare rilievo per la rappresentazione del mondo tedescosocialista ritratto nel film è l’uso di caratteri dialettali, da cui a livello
lessicale dipende anche la sporadica comparsa di regionalismi in sostituzione dei corrispondenti termini del tedesco standard (per esempio ‘schmulen’ per sbirciare, ‘Grilletten’ per hamburger). Il dialetto
prevalente nel film è naturalmente il berlinese, dato che è la capitale
a fare da sfondo alla vicenda. I tratti della pronuncia prussiana si fanno sentire in particolare presso il protagonista Alexander e la sorella
Ariane. Anche di altri personaggi è la parlata a palesarne la provenienza: Sigmund Jähn per esempio parla sassone, così come il militare che rischia di investire la signora Kerner pochi istanti prima del-
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l’arresto cardiaco. È importante osservare come nell’economia del
film la presenza massiccia di pronunce dialettali tedesco-orientali vada a sottolineare l’omogeneità “etnica” del microcosmo socialista della Repubblica Democratica.
In sostanza il doppiaggio non può che constatare la difficoltà ovvero l’impossibilità di rendere la differenziazione diatopica di qualsivoglia film. Il problema ha origine nel momento in cui “mit der Verwendung von Dialekten in verschiedenen Sprachgemeinschaften
zum Teil völlig unterschiedliche Bewertungen einhergehen” (Reinart:
2004, 99). Fawcett schematizza molto chiaramente la questione argomentando che “any attempt to represent the dialectal or sociolectal
variety of the original will almost inevitably result in offence to some
cultural group whose dialect is being used to indicate inferiority or
criminality, or in the accusation of naturalisation” (Fawcett: 1996, 81).
In breve, la questione si pone come un aut aut: o il dialetto viene
mantenuto mediante sostituzione con un dialetto nazionale, oppure
deve essere eliminato. La prima strategia, che consiste nel far corrispondere dialetto a dialetto1 – per quanto riguarda l’Italia, i doppiatori si avvalevano in tempi passati principalmente di parlate regionali
centro-meridionali (Pernigoni: 2005, 158) –, è stata via via accantonata innanzitutto per la discutibile arbitrarietà dell’abbinamento, ma anche perché nella cinematografia si sono andate consolidando nel corso del tempo liaison (stereo)tipiche tra determinati dialetti e l’estrazione socioculturale dei personaggi che con essi si esprimono (si
pensi per antonomasia al siciliano dei mafiosi italoamericani). Inoltre, per ipotesi, l’impiego di un qualche dialetto italiano in un film
come Good Bye Lenin! avrebbe rischiato di sfociare in un effetto comico del tutto controproducente, in direzione cioè di un accrescimento dello straniamento dovuto all’incongruenza ingiustificata tra il
dialetto posticcio e la situazione filmica. Vale infatti che “i dialetti, legati a un sistema di valori geograficamente specifico, hanno una connotazione socioculturale troppo marcata e sono perciò inadatti a essere trasferiti a contesti linguistici non paragonabili” (Pernigoni: 2005,
158).
Facendo di necessità virtù, l’altra chance a disposizione del doppiaggio corrisponde alla standardizzazione, cioè al “livellamento delle inflessioni esterne alla lingua standard” (Pernigoni: 2005, 157). Anche la versione italiana del film qui discusso neutralizza tutti i tratti
1
Goris (1993, 175) racconta di una vecchia abitudine del doppiaggio in francese
per cui “Southern Italian dialects were systematically dubbed by using the dialect of Marseille”.
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dialettali del testo tedesco optando, per tutti i personaggi, per una dizione diatopicamente neutra. Accanto alla standardizzazione della
pronuncia il doppiaggio non tiene conto nemmeno dei termini attinti dal regioletto, portando l’intero parlato filmico verso una medietà
linguistica non marcata. Questo a conferma di quanto osserva Goris
e cioè che “the discourse of the dubbed versions does not present a
single linguistic element that is geographically localizable” (Goris:
1993, 175).
Relativamente alla standardizzazione della dizione e alla conseguente perdita dei tratti regionali distintivi, merita un’osservazione a
parte il caso di Lara, un’allieva infermiera giunta a Berlino dall’Unione Sovietica grazie a un programma di scambio. Nella versione originale la ragazza si esprime con un leggero accento slavo a cui si accompagnano alcune imprecisioni grammaticali consistenti principalmente nell’omissione di pronomi flessi (‘Ich habe [mir] Sorgen um
dich gemacht’) o articoli (‘Dann kann ich ja aufhören mit [dem] Lernen’). Nel doppiaggio il testo affidato a questo personaggio non solo
viene inglobato nella pronuncia italiana standard (nonostante la possibilità, a mio avviso non particolarmente impegnativa, di ricreare anche in italiano un testo parzialmente sgrammaticato da recitare con
una lieve inflessione riconducibile all’est europeo, cosa che avrebbe
ravvivato il testo con un colorito sovietizzante) ma subisce anche un
significativo e stridente raffinamento stilistico. Così accade, per esempio, che la ragazza straniera passi con disinvoltura da espressioni poco colloquiali come ‘grottesca messa in scena’ (in corrispondenza
della frase tedesca ‘Es ist mir zu gruselig, was du da machst’), all’uso
della parola ‘medicheria’ (per il tedesco ‘Schwesterzimmer’), termine,
oltre che denotativamente non equivalente, certamente estraneo a
larga parte del pubblico italiano e che De Mauro registra come voce
di “basso uso”2.
Questo fatto sembra comunque essere in generale in linea con lo
standard del doppiaggio di questo film che tende a trasporre il registro colloquiale del testo originale in un italiano più fiorito e più ricercato. Talvolta da tale prassi traduttiva risulta, come nel caso appena descritto dell’infermiera ma anche in diversi punti dei turni di dialogo della signora Kerner, una sfasatura a livello pragmatico in quanto i modi dell’eloquio appaiono inadatti rispetto alla situazione comunicativa rappresentata. In particolare si registra un ricorso piutto-
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Con “basso uso” vengono “marcati vocaboli rari, tuttavia circolanti ancora con
qualche frequenza in testi e discorsi del Novecento” (De Mauro: 2000, xvii).
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sto frequente al passato remoto anche all’interno di conversazioni tra
madre e figli, in virtù della cui natura estremamente informale e confidenziale sarebbe stato invece più convincente limitare l’espressione
dell’aspetto perfettivo al solo passato prossimo.
2.3 Adattamento alla cultura ricevente: il testo naturalizzato
Tra gli effetti di addomesticamento trova sede il fenomeno della
naturalizzazione. Si parla di forma naturalizzata del testo laddove la
traduzione sottenda il proposito di fare sì che il testo tradotto venga
percepito come un prodotto autoctono, generato in seno alla cultura
del destinatario stesso. Si tratta cioè di un processo traduttivo atto a
neutralizzare gli elementi che possono palesare l’estraneità culturale
del testo originario; in tal modo si intende far apparire quest’ultimo
non come oggetto importato bensì come artefatto locale. La naturalizzazione è quindi un processo di epurazione: ad avere la peggio è
tutto quanto possa compromettere la fruizione del film da parte del
pubblico della lingua d’arrivo. Toury formula in termini generali una
legge della traduzione per cui la trasposizione di testi tende alla sostituzione di testemi (textemes) con repertoremi (repertoremes), ovvero all’utilizzo di formule attinte da un catalogo linguistico uniformato,
condiviso trasversalmente dal pubblico ricevente e percepito globalmente come abituale. “In translation, textual relations obtaining in
the original are often modified, sometimes to the point of being totally ignored, in favour of (more) habitual options offered by a target
repertoire” (Toury: 1995, 268).
Adattare un testo filmico ai canoni, al gusto, alle tradizioni del
pubblico ricevente implica un più ampio discorso in cui, trascendendo la mera trasposizione linguistica, le logiche del mercato cinematografico diventano determinanti: la scelta tra domestication e foreignisation non sarà quindi delegata in toto al traduttore ma dettata in parte a priori dall’alto al fine di “alter other “foreign” elements and culturally unfamiliar items to make them more palatable or attractive
(that is, marketable) to the target language audience” (Whitman-Linsen: 1992, 125).
Di contro serve però puntualizzare che l’intervento addomesticante non è unicamente ascrivibile né, su scala individuale, a un abuso perpetrato arbitrariamente o all’ostentazione di un vezzo creativo,
né, su scala sociale, all’ingerenza di strutture di mercato o politicocensorie. Occorre piuttosto considerare una terza variabile data propriamente dalla ragione che giustifica la traduzione, ovvero il venire
meno della condivisione del medesimo orizzonte linguistico-culturale
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tra autore/regista e pubblico. Nel gap interlinguistico viene infatti a
decadere “quello che possiamo chiamare lo sfondo etnico della lingua: (…) tutto quello che per il pubblico rappresenta cognizione comune, e tutto quello che sa senza sapere di saperlo. Se si aggiunge
che il non detto, alludendo a un retroterra che è comprensibile solo
entro certi confini territoriali, ha nel cinema un’importanza fondamentale, si potrà ben capire la difficoltà di passare da una lingua a un’altra” (Licari: 1994, 22). Questo per concludere che, in modo da colmare al meglio possibili carenze di senso, nel doppiaggio si pone in definitiva la necessità di “dire di più” o, al limite, “dire qualcos’altro”.
L’opera di naturalizzazione implica interventi su vari livelli del testo filmico, ovvero nella fattispecie “adattamento di riferimenti socioculturali, traduzione di segni grafici, pronuncia di nomi stranieri secondo le regole della lingua d’arrivo e sincronizzazione visiva” (Degano: 2005, 183). In merito a quest’ultimo punto accenno qui brevemente il fatto che la realizzazione della versione tradotta e il relativo
coordinamento tra l’articolazione labiale del film originale e il testo
recitato dai doppiatori rappresenta un’indubbia priorità, in quanto da
tale aspetto dipende in buona parte l’illusione di realtà cui il doppiaggio non può venire meno: “It is visual synchronization which is
supposed to create the impression that the actors on the screen are
actually pronouncing the translated words. This illusion is essential
in order to present the film as a “French” [si legga “Italian”, nel nostro
caso] one” (Goris: 1993, 180). L’effetto di naturalezza della sincronia
labiale va ricercato sia in senso quantitativo che qualitativo3, cioè sia
nel rispetto della durata temporale dei turni, sia nella rispondenza tra
il movimento articolatorio delle labbra e i suoni prodotti (in particolare in presenza di fonemi come le occlusive bilabiali, le fricative labiodentali, le vocali arrotondate, pronunciati in inquadrature ove le
labbra dei parlanti siano chiaramente visibili).
L’approccio naturalizzante verso i termini culturalmente specifici
contenuti nello script del film originale è spesso riconducibile al fatto che il gradimento del film da parte dello spettatore può essere
compromesso qualora nel testo dei dialoghi si avvicendino molti elementi estranei. Naturalizzare significa quindi bonificare il testo agendo, a discrezione del traduttore-dialoghista, su tutti gli ambiti in cui la
competenza culturale del pubblico ricevente potrebbe essere insufficiente ai fini dell’intelligibilità del discorso. Essendo nella natura stessa del mezzo cinematografico il fatto che il film deve rispondere alla
3
Per gli aspetti fonetici del doppiaggio rimando a Herbst (1994) e Pisek (1994).
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logica del “tutto-e-subito”, ovvero permettere la comprensione immediata della totalità del senso del contenuto, il doppiaggio non si
può permettere vuoti di rappresentazione. Per questo motivo e per la
parziale difficoltà di inserire nella traduzione unità disambiguanti –
specialmente nelle porzioni di testo caratterizzate da battute brevi
con un ritmo dei turni serrato – le possibilità di intervento si riducono sostanzialmente a due: l’espunzione del riferimento (neutralizzazione) o la sua “sostituzione con equivalenti socioculturali” (Pavesi:
2005, 55) (naturalizzazione), modificando il testo quindi a livello
paradigmatico. In questo senso il destino dei termini culturali si consuma nel loro venire “spesso neutralizzati al fine di conservare l’immediatezza della versione originale, dato il fluire incessante delle
scene, che non permette elaborate spiegazioni o rimandi, né sopporta, almeno per i film del grande circuito, un’alta densità di forestierismi culturali” (Pavesi: 2005, 24-25).
L’analisi della trasposizione dei riferimenti culturali mette a nudo
la difficoltà insita nel processo di adattamento di testi che rispecchiano culture anche vicine, nel tempo e nello spazio, al destinatario del
doppiaggio, la cui conoscenza oltre confine però spesso si concretizza più in una presa d’atto dell’esistenza che non in contenuti specifici. Richiamando il commento di Salmon Kovarski circa la percezione
occidentale della cultura russa, pare possibile ipotizzare che anche
molti luoghi del mondo tedesco rappresentino “qualcosa di apparentemente prossimo, se non di addirittura affine, sebbene “noto” per
vie troppo traverse e lacunose” (Salmon Kovarski: 1995, 254).
Un film come Good Bye Lenin! mette in luce come “sich in den
vierzig Jahren der deutschen Zweistaatlichkeit allmählich zwei Kommunikationskulturen herausgebildet haben” (Costa: 2005, 668). Il
thesaurus culturale specifico non registra semplicemente variazioni
diatopiche rispetto allo Hochdeutsch, bensì forma l’enciclopedia particolare in cui rientrano nomi propri di personaggi celebri, istituzioni,
prodotti commerciali, slogan e termini di uso comune di una nazione
indipendente e autosufficiente, che esprime la propria diversità rispetto al suo alter ego capitalista anche attraverso una differenziazione intralinguistica4. Si tratta di un repertorio verbale andatosi negli
anni a istituzionalizzare finendo così per penetrare nell’uso linguistico comune. Oltre alla formazione di parole ex novo (DDR-spezifi-
4
Gli effetti sono talvolta esilaranti: per esempio nella Germania Orientale, per motivi legati alla laicità dello stato, gli angeli natalizi erano stati ribattezzati ‘Jahresendzeitfiguren’. Nel film viene tematizzata, per voce del protagonista, la differenza tra il termine
‘Kosmonaut’, usato nella DDR, contro ‘Astronaut’, in uso nella BRD.
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scher Wortschatz), il sistema di comunicazione della DDR si contraddistingue per l’arricchimento connotativo (DDR-geprägter Wortschatz) di termini altrimenti percepiti, all’esterno dei confini dello
stato, come non marcati. La contrapposizione delle lingue tedesche
dell’est e dell’ovest dimostra come “sociolinguistic divisions in a population also lead to conventional uses of language to mark ingroups and out-groups. Language can therefore have implications for
one group that it would not have for outsiders” (Séguinot: 1985, 297).
Questo a ragione del fatto che l’uso dei termini connotati come
“+DDR” espleta sostanzialmente una funzione di indicatore diatopico, ma, rispetto a un regioletto, non lascia trasparire soltanto una localizzazione geografica, bensì dà voce anche all’identità culturale del
parlante formatasi attraverso una sorta di saturazione ideologica.
La fenomenologia delle rese traduttive nel film Good Bye Lenin! è
estremamente variegata. Relativamente agli interventi di naturalizzazione e di neutralizzazione un primo caso interessante è rappresentato dalla presenza massiccia di termini che designano istituzioni della
Ex-Germania Orientale. Si considerino in particolare i riferimenti al
ruolo di Erich Honecker, nome di spicco della vita politica della DDR,
molto ricorrente nelle cronache, sempre abbinato alla nota appositiva
che ne descrive l’ufficio politico, ovvero, oltre a un traducibilissimo
‘segretario generale del partito’, anche un più problematico ‘Vorsitzender des Staatsrates’. Il film opta con coerenza per la traduzione ‘presidente del consiglio (dei ministri)’, come riportato in tabella.
1.A
Telegiornale: Arbeiter und Ange- Telegiornale: Operai e impiegati (…) si
stellte (…) sind heute nach Berlin sono radunati oggi a Berlino nella sede
gekommen, um hier im Staatsrat del consiglio dei ministri per ricevere
die größten Auszeichnungen unse- dal governo la più alta delle onorificenze, la medaglia al merito patriottico.
res Landes entgegenzunehmen.
1.B
Telegiornale: Berlin. Auf einer hi- Telegiornale: Berlino. Questa mattina
storischen Sondersitzung des Zen- durante una riunione straordinaria del
tralkomitees der sozialistischen Ein- partito socialista unitario il segretario
heitspartei Deutschlands hat der generale nonché presidente del consiGeneralsekretär des ZK der SED glio del ministri della Repubblica Deund Vorsitzender des Staatsrats der mocratica, compagno Erich Honecker…
DDR, Genosse Erich Honecker…
Commento: Ihr Schlaf verdunkelte Commento: Il grande sonno si frappose
den Abgang des werten Genossen tra lei e le dimissioni del compagno
Erich Honecker, Generalsekretärs Erich Honecker, segretario generale del
des ZK der SED und Vorsitzenden comitato centrale del partito socialista e
des Staatsrates der Deutschen De- presidente del consiglio della Repubblimokratischen Republik.
ca Democratica Tedesca.
1.C
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1.D
Telegiornale: Erich Honecker gratu- Telegiornale: L’ex-segretario si è congralierte dem neuen Generalsekretär tulato col suo successore alla presidenza
des ZK der SED und Vorsitzenden del consiglio dei ministri, che da oggi
des Staatsrats der DDR, Sigmund assume ufficialmente anche la carica di
segretario, Sigmund Jähn.
Jähn.
(…)
(…)
Telegiornale: Das neue Staatsober- Telegiornale: Il nuovo capo dello stato
haupt wandte sich noch am Abend questa sera si è rivolto ai concittadini
an die Bevölkerung der Deutschen della Repubblica Democratica Tedesca.
Demokratischen Republik.
Che si tratti di un caso evidente di naturalizzazione lo si intuisce
dall’inserimento, mediante la locuzione ‘presidente del consiglio (dei
ministri)’, di un significante familiare al pubblico italiano, associato a
un’istituzione quotidianamente presente nella cronaca politica di interesse nazionale. È però il film stesso a mostrare le “gambe corte” di
questa scelta che, se da un lato rende assolutamente trasparente la
traduzione, dall’altro compromette manifestamente l’equivalenza della denotazione. Si osservi infatti che in 1.D viene chiamato ‘Staatsoberhaupt’ ovvero, correttamente, ‘capo dello stato’, quello che precedentemente, nella stessa cronaca del fasullo passaggio di consegne
tra Honecker e Jähn, è ancora chiamato ‘successore alla presidenza
del consiglio dei ministri’. La formulazione italiana, nel rincorrere
l’effetto di naturalità a discapito del valore referenziale del termine
tedesco, non rende conto del reale ordinamento della Germania
Orientale e palesa così un sostanziale errore a livello semantico. Basti pensare che a Honecker non erano mai spettati i compiti dell’esecutivo (a differenza di quanto lascia intendere la formula ‘presidente
del consiglio’) e che la forma istituzionale della ex-DDR prevedeva
una separazione dei poteri tra consiglio dei ministri con un proprio
presidente (il ‘Vorsitzender des Ministerrates’, carica che Honecker
nella sua lunga carriera politica non ha mai ricoperto) e il qui citato
Staatsrat, organo collegiale supremo il cui presidente svolgeva anche
funzioni di rappresentanza dello stato. Appare quindi chiaro che a
Honecker, piuttosto che presidente del consiglio, sarebbe preferibilmente dovuto spettare il titolo di ‘presidente della repubblica’5, formula che avrebbe trovato un’eco appropriata nella locuzione ‘capo
5
Trovo altrettanto problematica l’ipotesi di una traduzione letterale di ‘Staatsrat’ come ‘consiglio di stato’ – versione per altro suggerita da vari dizionari bilingui, tra cui Sansoni, Pons, Zanichelli – in quanto tale traducente denota a sua volta un organo istituzionale previsto dall’ordinamento dello stato italiano il cui esercizio, notoriamente, non corrisponde a quanto espresso dal termine tedesco.
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dello stato’ di cui all’esempio 1.D e avrebbe recato al testo il beneficio di una soddisfacente approssimazione denotativa, senza che a
farne le spese fosse la naturalezza del risultato.
Un altro ambito linguistico in cui si danno frequenti fenomeni a
metà tra naturalizzazione ed esplicitazione (cfr. anche 2.4) è quello
delle marche e dei nomi di prodotti alimentari, per cui viene spesso
adottata “una strategia mista, lasciando alcuni termini nella lingua
originale e traducendone altri” (Degano: 2005, 183-184). Come fanno
notare Bovinelli e Gallini (1994, 93-94), la traduzione di tali termini
dipende da una valutazione della familiarità che la cultura d’arrivo ha
con i prodotti in questione: mentre da un lato marchi come Coca Cola, Volvo o Burger King, citati nel nostro film, rappresentano lemmi
di una lingua franca condivisa a livello pressoché planetario, ben più
problematico può essere il caso in cui vi siano di mezzo i cetrioli dello Spreewald, i taxi di fabbricazione sovietica o le automobili Trabant
prodotte nelle officine della città di Zwickau. In fase di traduzione
occorre poi considerare, al di là della mera referenzialità dei termini,
quale sia il “valore aggiunto” simbolico a essi connaturato, in quanto
dietro la denominazione del prodotto possono celarsi significati collaterali la cui ragion d’essere affonda le radici entro tradizioni, abitudini, contingenze storiche e usi sociali ove si genera la reale pregnanza culturale del testo. Illustra ad esempio Pavesi che “il vino, per
gli italiani da sempre bevanda tipica della socializzazione maschile
popolare e rude, nel film britannico [si riferisce a The Mother di Robert Michell, Gran Bretagna 2003], a riflesso di un diverso significato
culturale e sociale, diventa simbolo di emancipazione individuale e
di rottura” (Pavesi: 2005, 19). Allo stesso modo secondo Salmon Kovarski6 il caviale, recepito indifferenziatamente dall’ignaro spettatore
occidentale come status symbol del lusso più invidiato, “può essere
contestualizzato anche in altro modo” quando è posto, unica fonte di
sussistenza, sul tavolo di un miserrimo doganiere del Caspio il quale
“sbuffando, prende un cucchiaio e comincia a mangiare la ‘sbobba’,
brontolando perché non può avere neppure un boccone di pane”
(Salmon Kovarski: 1995, 252). Vale in generale cioè che la specificità
socio-geografica del prodotto alimentare o del bene commerciale
contribuisce a far risaltare l’estraneità di uno specifico sistema-paese
rispetto a culture che di quello stesso prodotto o ne intendono l’uso
e il consumo secondo altri canoni oppure, nel caso estremo, ne ignorano del tutto l’esistenza.
6
L’autrice si riferisce al film Beloe solnce pustyni (Vladimir Motyl’, URSS 1969).
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La resa dei riferimenti verbali a prodotti e marchi che traducono
nel linguaggio della quotidianità le dinamiche sociali che fanno da
sfondo alle fasi di sviluppo di una nazione e di una cultura si complica maggiormente quando nel film questi elementi ottengono un’ulteriore semantizzazione al livello delle immagini, come accade a più riprese nel film qui discusso. Lo sfrecciare di camion rossi con impresso a grandi caratteri il logo della celebre bibita analcolica americana
e l’apparizione di giganteschi cartelloni pubblicitari della stessa bevanda o di economici mobili svedesi stridono a confronto di quello
che, allo scoccare dell’ora della riunificazione tedesca, si è trasformato nel ricordo di un paese ideologicamente costretto a privarsi di
quanto proveniva dal degenerato “kapitalistisches Ausland” (così nel
film) e a nutrirsi dei soli prodotti socialisti. La traduzione italiana del
film Good Bye Lenin! deve (o dovrebbe?) trasmettere il concetto che
la divisione della nazione non si esauriva in uno scontro di massimi
sistemi (il federalismo capitalista contro il socialismo reale), bensì
aveva effetti diretti sulla vita privata della popolazione e sulle abitudini, alimentari e non solo.
In realtà per quanto concerne questi punti simbolicamente rilevanti nell’economia della rappresentazione della riunificazione tedesca dietro le quinte della formalità istituzionale, il testo doppiato mostra strategie non sempre uniformi, in parte disomogenee e non efficaci. La tendenza naturalizzante atta a voler mantenere la fluidità del
parlato cinematografico si trova a dover scendere a compromessi su
di un terreno impervio dove facilmente si scivola verso fenomeni di
semplificazione forzata a discapito della complessa caratterizzazione
culturale dell’originale.
Una naturalizzazione confusa, perché incoerente, è quella che
subisce una parte dei riferimenti agli ‘Spreewald-Gurken’, i cetriolini
speziati sottaceto originari appunto della regione dello Spreewald. Il
testo italiano propone le due traduzioni ‘cetrioli dello Spreewald’ e
‘cetrioli Spreewald’7. È il caso di dire che qui è proprio la preposizione a fare la differenza. La presenza intermittente della preposizione
specificativa ha come effetto il far passare alternativamente quella
7
Si noti come, in un caso, un primo piano del protagonista, il quale ripete al vecchio Signor Ganske, pensionato duro d’orecchi, scandendolo a voce alta, il nome del
prodotto ‘Spreewald-Gurken’, costringa il dialoghista a una scelta traduttiva che, causa la
stringente esigenza di sincronia labiale resa necessaria dall’inquadratura, ricalca fedelmente la struttura tedesca in cui la specificazione geografica precede il tipo di prodotto
(Spreewald, i cetrioli). Un tale effetto, decisamente poco idiomatico nell’italiano parlato,
conferma che “the image, i.e. the point of view of the camera, has great influence on film
translation” (Goris: 1993, 182).
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che è una localizzazione geografica come un ipotetico nome commerciale del prodotto. È comunque evidente che, nonostante i due
diversi trattamenti traduttivi riservati a questo elemento, la potenzialità evocativa del riferimento gastronomico-culturale rimane per il
pubblico italiano di certo piuttosto limitata. Si deve in tal senso prendere atto della difficoltà di trasporre in italiano il valore connotativo
legato all’alimento tedesco-democratico “DOC”, il quale emerge qui a
simbolo della sostanziale sintonia tra il prodotto politically correct
dell’agricoltura socialista e l’ideologia dominante, a conferma in primo luogo dell’autosufficienza produttiva del blocco sovietico e secondariamente della chiusura del circuito di produzione e consumo.
Il tutto rientra nella dialettica del contrasto est-ovest, espressa nelle
metafore dell’indigeno rispetto allo straniero, delle conserve alimentari olandesi post-Wende rispetto agli ‘Spreewald-Gurken’, della Volvo guidata dal padre del protagonista rispetto ai veicoli Trabant di
Zwickau, della Coca Cola rispetto all’‘azienda di stato per le bevande’, o, in altri termini, tra la scelta obbligata imposta dal potere e la
varietà dell’offerta (e la libera autodeterminazione) in un’ottica di
mercato. La fiacca espressività della traduzione italiana, legata alla
non conoscenza del prodotto, indebolisce anche quella nota di ironia
derivante dall’inaspettato desiderio della signora Kerner, costretta a
letto dalla malattia, di soddisfare il suo ‘Heißhunger’ – una certa voglia di qualcosa di buono – stappando un vasetto di cetrioli in aceto.
In altri punti la rappresentazione del socialismo reale nella versione italiana di Good Bye Lenin! dimostra come il traduttore si levi talvolta d’impaccio riadattando metafore comuni e stereotipi ad alta disponibilità. È il caso della modificazione del nome dell’istituto scolastico in cui insegnava la signora Kerner prima della malattia (‘polytechnische Oberschule Werner Seelenbinder’) e della ditta di riparazioni in cui era impiegato Alex fino alla caduta del Muro (‘PGH Fernsehreparatur Adolf Henecke’) che si trasformano rispettivamente in
‘politecnico (superiore) Karl Marx’ e ‘cooperativa di riparazioni TV
Stella Rossa’. Entrambe le modifiche apportate dai traduttori, nel tentativo di compensare con qualche tocco di comunismo le sorti di
quella parte del patrimonio specifico persa altrove, puntano su immagini ben note al pubblico italiano – da una parte Marx come padre spirituale del socialismo e dall’altra la stella e il colore rosso come bandiera dei partiti di sinistra – che, forse in maniera un poco stilizzata o schematica, rendono grosso modo giustizia all’intenzione
delle espressioni della versione tedesca. Di certo il mantenimento dei
due nomi propri dell’originale non avrebbe rappresentato in questo
caso una soluzione congeniale. L’efficacia della modifica, per quanto
riguarda l’istituto scolastico, è però parzialmente compromessa dal-
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l’infelice sovrapposizione del commento del protagonista-narratore
in cui viene fatto il nome del filosofo tedesco all’immagine della
scuola, sopra il cui ingresso campeggia il nome dell’effettivo dedicatario.
Quanto mai riduttiva appare invece la neutralizzazione di elementi culturali che nel testo originale hanno un peso fondamentale
ai fini dell’inquadramento socioculturale della vicenda. È naturale
che “le scelte più problematiche per il traduttore/dialoghista non sono quelle relative alla struttura del codice linguistico o quelle dettate
dalle restrizioni tecniche (…). Sono invece le rese di espressioni a
forte valenza culturale o pragmatica che richiedono un particolare
sforzo di traduzione” (Pavesi: 1994, 138-139). Pertanto ogni fenomeno di neutralizzazione di elementi particolarmente significativi nel
contesto filmico evidenzia le occasioni in cui la traduzione abusa del
proprio mandato di mediatore culturale. Si consideri per esempio la
traduzione del seguente scambio di battute tra Alexander e Denis,
che ha luogo al momento di iniziare a riportare in casa i vecchi mobili ammassati in cantina per riallestire in stile DDR la stanza da letto
della signora Kerner.
2.A
Denis: Achter Stock?
Alex: Ja.
Denis: Fahrstuhl?
Alex: Kaputt.
Denis: Scheiße!
Alex: Real existierende.
Denis: Ottavo piano?
Alex: Sì.
Denis: Ascensore?
Alex: Guasto.
Denis: Cazzo!
Alex: Ci farà bene ai muscoli.
La battuta finale del testo tedesco riadatta ironicamente la locuzione ‘real existierend’. Il socialismo della DDR e di tutto il blocco
delle nazioni del patto di Varsavia era definito ‘real existierend’ (cioè
‘reale’) in quanto modello di attuazione concreta di uno stato fondato sui precetti delle teorie marxiste-leniniste. Nel dialogo riportato
Alexander si fa beffe del significato storico-politico della locuzione
per ribadire e confermare le ragioni del disappunto manifestato in
termini piuttosto coloriti dall’amico. La battuta demistifica in un brano di conversazione quotidiana uno dei cardini della convenzionale
dialettica politica del regime e pertanto mette ancora una volta in risalto l’interazione tra la cornice storica reale e la finzione narrativa
del film. Pare superfluo commentare che in questo punto la versione
tradotta lascia alquanto a desiderare, essendo scomparsa ogni traccia
dell’ambizioso gioco di rimandi dell’originale. Una traduzione più attenta avrebbe dovuto cercare di far ruotare l’intero scambio intorno
all’ultima battuta di Alex. A mio avviso sarebbe stata da privilegiare
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una formula conclusiva come “benvenuto nel socialismo reale!”, oppure, traducendo letteralmente l’esclamazione ‘Scheiße’ di Denis con
‘merda’, si sarebbe potuto chiosare, da parte di Alex, con una formulazione enfatica del tipo “merda real-socialista”.
Allo stesso modo anche in altri casi in sede di doppiaggio si sono
dati qua e là diversi colpi di forbice. Dove la madre di Alexander,
dettando alla vicina di casa una ‘Eingabe’ (altro termine con una sostanziale colorazione socio-politica orientale, su cui tornerò in seguito), usa l’espressione ‘Exquisit-schlanke Genossinnen’ per descrivere,
mediante il riferimento alla catena di negozi di abbigliamento di “lusso” della DDR (‘Exquisit’, appunto), una sorta di prototipo della bellezza femminile “socialista”, la traduzione opera un taglio netto e generalizza parlando di una “popolazione femminile [che] ha ben poco
a che fare con l’etereo ed esile corpo delle silfidi”. Simile è il destino
della costruzione a ossimoro ‘Verwestlichung unserer 79-m2-Plattenbauwohnung’: nel doppiato a essere ‘occidentalizzato’ è un italianissimo ‘appartamento’. In alternativa, nella mancanza di una resa equivalente, sarebbe stato possibile usare in questo secondo caso la locuzione ‘condominio popolare socialista’ che quantomeno lascia intravedere l’esistenza all’Est di una peculiare edilizia abitativa, salvando
così il contrasto con i cambiamenti avvenuti in seno al processo di
occidentalizzazione.
Un altro settore lessicale culturalmente rilevante si è andato formando con la caduta del Muro. Con la fine della divisione politica il
già variegato repertorio si è ulteriormente arricchito di termini carichi
di significative connotazioni. In particolare si è cristallizzata una deissi temporale specifica che esprime mediante il pronome ‘früher’ il riferimento allo stato di cose precedente la riunificazione. La traduzione dell’avverbio in ‘prima’ o, come nel film, in ‘una volta’, si rivela
inefficace in quanto l’allusione a un altro tempo storico appare per il
parlante italiano troppo velata. Anche la deissi spaziale nella domanda ‘Sie sind nicht von hier, oder?’ che Christiane Kerner rivolge per
strada a un uomo arrivato a Berlino da Wuppertal, sottintende una
precisa localizzazione topografica dell’appartenenza e della non-appartenenza, della familiarità e della diversità8, che la versione italiana
‘voi non siete di queste parti?’ tende a offuscare. Come spiega Costa,
“die Gegenüberstellung lokaler oder temporaler Indikatoren dient
dazu, den Gegensatz zwischen Ost- und Westzugehörigkeit zu schil8
L’“extraterritorialità” del personaggio alle prese con il trasloco è anche sottolineata dalla presenza su uno scaffale di un’immagine sacra, poco in linea con la politica laicista del regime.
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dern” (Costa: 2005, 675). Il forte legame, espresso implicitamente
dalla deissi, che unisce l’indicatore spazio-temporale al fattore storico-politico è intuitivo per il parlante tedesco, mentre, contrariamente
a quanto succede nel film, “der Rückverweis auf soziale Hintergründe der DDR muss für den italienischen Leser [bzw. Zuschauer] ausdrücklich benannt werden” (Costa: 2005, 675).
È evidente che la traduzione, uniformando il testo alla lingua
standard e neutralizzando – in una resa talvolta elementare, diretta al
mantenimento della sola denotazione nell’ottica della scorrevolezza
del testo – larga parte del patrimonio connotativo distribuito tra le varie unità lessicali di rilevanza culturale, “produces a relative weakening of the oppositions between the (groups of) persons they [the
idiolects] are related to/represent” (Goris: 1993, 175). Questo accade
in particolar modo quando il testo di partenza, come nel caso di
Good Bye Lenin!, gioca sulla rappresentazione di una sorta di bilinguismo sui generis nato e cresciuto come conseguenza degli eventi
storici.
In ultimo, a bilanciare parzialmente le sorti, si danno anche casi
di rese stranianti, ottenute proprio in quei punti in cui la traduzione
traspone letteralmente le parole del testo tedesco. Mi riferisco qui a
elementi che evidenziano ulteriormente la saturazione ideologica
dello stato socialista. La versione italiana mantiene inalterati la formula di congedo per la corrispondenza formale, che voleva che il saluto non fosse ‘freundlich’ ma ‘sozialistisch’ (nella versione italiana: ‘saluti socialisti’), e l’eufemismo altisonante che abbellisce i pensionati
col titolo di ‘Veteranen der Arbeit’, tradotto alla lettera come ‘veterani
del lavoro’. L’effetto è quello di formule a cui nella cultura italiana
non corrisponde un contenuto specifico caratterizzante; sono, se vogliamo, forme culturalmente sconosciute la cui alterità fa apparire allo spettatore la rappresentazione meno scontata, inserendo nel canale della comunicazione tra film tradotto e pubblico un ponte verso la
cultura di partenza che il film sintetizza.
2.4 Casi di esplicitazione: il testo spiegato
Dagli esempi fin qui commentati si può chiaramente indurre che
per varie ragioni (tra cui il ricorso per altro non raro, dovuto a questioni di budget, a traduttori talvolta improvvisati e malpagati) la trasposizione linguistica e culturale di qualsivoglia film è condizionata
dal fatto che “molti messaggi (…) sono predisposti alla non comprensione o, ancor peggio, al malinteso”, di modo che tale “sfasatura
porta ad una divergenza problematica tra l’idea originaria del proget-
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to artistico, da una parte, e i pregiudizi e la ricezione dello spettatore, dall’altra” (Salmon Kovarski: 1995, 254). Se, come abbiamo visto,
da un lato la traduzione naturalizzante/standardizzante manifesta la
tendenza a neutralizzare i contenuti alieni del testo originale o a far
indossare loro, per così dire, abiti più familiari, dall’altro il ricorso all’esplicitazione mira invece a intervenire sul testo per chiarire, ove
possibile, quei malintesi che Salmon Kovarski denuncia9.
In generale l’esplicitazione non è un fenomeno delimitato alla
“disambiguazione di espressioni vaghe o che potrebbero risultare
equivoche” (Degano: 2005, 180), bensì si manifesta anche a livello
macroscopico laddove vi siano “un aumento di legami logici e l’aggiunta di parlato alle immagini” (Degano: 2005, 180). In base allo
schema dei caratteri della traduzione audiovisiva di Delabastita
(1989, 199-201) è possibile ricavare un’interpretazione estensiva del
concetto di esplicitazione. In senso lato la sostituzione degli “acoustic
verbal signs” (Delabastita: 1989, 200) – cioè il doppiaggio – o la presenza di sottotitoli sovrapposti al film originale rappresentano modi
diversi di esplicitare il messaggio dell’intero film.
Ai fini dell’esplicitazione, cioè a integrazione dell’intelligibilità del
significato trasmesso, il traduttore può avvalersi dell’interazione di
tutti i diversi codici semiotici che il film utilizza. Per esempio la chiarificazione di determinati riferimenti opachi, sia visivi che auditivi, sia
verbali che non verbali, può avvenire per aggiunta di testo nuovo al
parlato del film, ma anche, attraverso il canale visivo, mediante l’aggiunta di cartelli (cioè stringhe di testo inserite allo scopo di tradurre
elementi di segnaletica stradale, insegne, targhe di uffici ed enti o
quant’altro presenti nel film). Le possibilità di esplicitazione intersemiotica valgono similmente per il raggiungimento della coerenza del
testo tradotto in presenza di segni non verbali potenzialmente ambigui – “expressed by means of paralanguage, kinesics or cultural
signs” –, per cui in genere “if a non-verbal sign does not exist in the
target culture, explicitness in the verbal subtext is highly recommendable” (Chaume Varela: 1997, 325, corsivo mio). In altri termini l’esplicitazione, intesa nel suo senso più specifico di misura interpretativa, può corrispondere al concetto di parasinonimia, cioè a quei “casi specifici di interpretazione in cui, per chiarire il significato di una
parola o di un enunciato, si fa ricorso a un interpretante espresso in
diversa materia semiotica (o viceversa)” (Eco: 20033, 316). Il rovescio
della medaglia è dato dal fatto che l’esplicitazione verbale, sfociando
9
Klaudy (1998, 83) parla in questo caso di “esplicitazione pragmatica”, differenziandola da altre tecniche esplicative.
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inevitabilmente in un aumento della dimensione della materia testuale nella lingua d’arrivo, rischia di collidere con i limiti e le esigenze
della sincronia labiale imposti dal processo di naturalizzazione (Pavesi: 2005, 55).
I riferimenti culturali sono particolarmente soggetti a subire integrazioni esplicative finalizzate a chiarirne il significato. Infatti “explicitation occurs most frequently in the versions which also present a
high degree of socio-cultural adaptation” (Goris: 1993, 185), in quanto “members of the target language cultural community may not share aspects of what is considered general knowledge within the source language culture and, in such cases, translators often need to include explanations in translations” (Klaudy: 1998, 83).
Ancora nell’ambito dei riferimenti a marche e prodotti commerciali (in questo caso si tratta di autoveicoli) si possono riscontrare
tracce indicative di esplicitazione del testo doppiato. Si considerino
in particolare gli esempi nella seguente tabella.
3.A
3.B
3.C
3.D
Alex: Wir haben eine Benachrichti- Alex: Abbiamo ricevuto una lettera dalla
gung bekommen. Aus Zwickau. Trabant. Ci consegnano l’automobile.
Wir können unseren Trabant abholen.
Ariane: Er hat sich ’nen Trabi ge- Ariane: Si è comprato una Trabant.
kauft.
Alex: Sul serio?
Alex: Echt?
Rainer: Una familiare.
Rainer: Ein Kombi.
Christiane: Der Trabi riecht noch so Christiane: Che buon profumo di macneu. Welche Farbe hat er denn?
china nuova. Posso sapere almeno il colore?
Commento: Er fuhr nur ein kleines, Commento: Guidava un banale taxi di
stinkendes Lada-Taxi.
fabbricazione sovietica che puzzava di
sigarette da due soldi.
Possiamo per prima cosa osservare che per quanto riguarda la
Trabant, l’industria automobilistica di stato della DDR, l’unico riferimento a permettere una trasposizione diretta dal tedesco all’italiano
è quello in 3.B, dove alla marca segue immediatamente, nello stesso
testo originale, un elemento (‘ein Kombi’/‘una familiare’) che chiarisce l’ambito di referenza dell’enunciato. In 3.A i doppiatori hanno ritenuto di dover rinforzare il testo al fine di chiarire al pubblico italiano il legame tra il significante ‘Trabant’ e il significato ‘automobile’,
eliminando innanzitutto l’indicazione geografica della cittadina ove le
officine meccaniche avevano sede – località che verosimilmente risulterebbe sconosciuta alla maggioranza degli spettatori di casa nostra –, anticipando rispetto al tedesco il riferimento al marchio e inte-
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grandolo con un iperonimo sull’uscita della battuta10. Anche in 3.C e
3.D l’esplicitazione si concretizza nell’uso di due ulteriori iperonimi,
per cui ‘der Trabi’ diventa semplicemente ‘macchina’ e il ‘Lada-Taxi’
si trasforma in un ‘taxi di fabbricazione sovietica’11. Nella versione italiana emerge inoltre la neutralizzazione del vezzeggiativo (‘Trabi’ per
Trabant) usato dapprima con tono caustico da Ariane e invece con
accento di simpatia dalla signora Kerner, durante il tragitto in macchina per raggiungere la casa di campagna.
Anche i riferimenti a personalità pubbliche molto note entro i
confini dello stato socialista, ma del tutto anonime per gli spettatori
italiani vengono integrati con l’aggiunta di apposizioni descrittive che
accennano qualche tratto distintivo in ragione del ruolo, della rappresentatività e della popolarità di cui il personaggio gode.
4.A
4.B
Christiane: Du hast von der Schule Christiane: Tu mi raccontavi di Sigmund
erzählt und von Sigmund Jähn.
Jähn, il tuo eroe cosmonauta.
Telegiornale: Erich Honecker gratu- Telegiornale: L’ex-segretario si è congralierte dem neuen Generalsekretär tulato col suo successore alla presidenza
des ZK der SED und Vorsitzenden del consiglio dei ministri, che da oggi
des Staatsrats der DDR, Sigmund assume ufficialmente anche la carica di
Jähn.
segretario, Sigmund Jähn.
Christiane: Was, der Jähn?
Christiane: Il cosmonauta?
Sul modello di Erich Honecker, il cui nome, come d’uso nella
pubblicistica di stato, è sempre rigorosamente accompagnato dall’enumerazione delle cariche politiche ricoperte, a Sigmund Jähn il
doppiaggio attribuisce degli epiteti piuttosto uniformi che ne esplicitano la “professione” – Jähn fu il primo tedesco a volare nello spazio
– anche lì dove il testo originale non dà indicazioni a riguardo.
Un ambito in cui l’esplicitazione si impone quasi obbligatoriamente è rappresentato dagli acronimi che indicano uffici, organi amministrativi, partiti politici, enti. Come sintetizzano Paolinelli e Di
Fortunato, “la caratteristica delle sigle è che chi le dice e chi le ascolta sanno bene che cosa stanno a indicare” (Paolinelli-Di Fortunato:
2005, 68). All’interno di un contesto culturale le sigle, specialmente
quelle di uso comune come i partiti politici, entrano a tutti gli effetti
a far parte del lessico, ma, al di là di organismi internazionalmente
noti oppure di qualche sigla “traducibile” (come USSR/URSS o
10
Si noti inoltre che la scelta della parola ‘macchina’, rispetto ad ‘automobile’, apparirebbe pragmaticamente più appropriata all’informalità della situazione e allo stile del
protagonista ventenne.
11
Lada era l’industria di stato sovietica per la produzione di autoveicoli.
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UNO/ONU), difficilmente nella pratica della traduzione si può far
corrispondere sigla a sigla. Del resto però i gruppi politici, gli enti
amministrativi, gli istituti educativi, così largamente presenti, come
mostra il nostro film, nella dialettica politicizzata della televisione di
regime della Germania Orientale, rappresentano una parte non trascurabile del contenuto con massima caratterizzazione culturale.
La prassi traduttiva tende a sciogliere la sintesi semantica della sigla sviluppando, mediante esplicitazione analitica, almeno una parte
significativa delle componenti dell’acronimo, in modo da rendere
comprensibile l’oggetto denotato (Paolinelli-Di Fortunato: 2005, 6869). Per esempio l’acronimo ‘DDR’ viene alternativamente reso come
‘Repubblica Democratica (Tedesca)’ o ‘Germania Democratica’12, ‘ZK
der SED’ come ‘Comitato centrale (del partito socialista)’ o talvolta
semplicemente come ‘il Partito’, ‘BRD’ sia come ‘Repubblica Federale’, come ‘l’ovest’, o, in un solo caso, per sineddoche con il nome
della città capitale occidentale Bonn, come riportato in tabella.
5.A
Telegiornale: Protest im Bundes- Telegiornale: Inviata una protesta ufficiakanzleramt der BRD.
le al governo di Bonn.
Riassumendo si può notare che i dialoghisti del nostro film optano per un’applicazione parziale dell’esplicitazione, limitandosi a intervenire soltanto sull’opacità denotativa di quei termini del testo originale non noti al pubblico italiano. In conformità a quanto già descritto nel capitolo precedente, le molte unità che per via della complessità della connotazione culturale del lessico della DDR necessiterebbero di una qualche parafrasi esplicativa vengono normalmente
naturalizzate in forme di traduzione che appaiono nella maggior parte dei casi alquanto deboli.
2.5 Traduzione differenziata di elementi omogenei
Mentre l’esplicitazione dei contenuti culturali del testo originale
comporta, assieme alla maggiore chiarezza, una più marcata compattezza del testo, vi sono casi in cui la pratica traduttiva pare muoversi
nella direzione opposta, ossia verso una differenziazione lessicale risultante in formulazioni talvolta poco funzionali. Rientra negli uni-
12
Intuitivamente risulterebbe piuttosto discutibile il ricorso in questo caso alla sigla
RDT registrata dai dizionari italiani.
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versali della traduzione la pratica di “reducing or omitting repetitions
and redundant information” (Laviosa-Braithwaite: 1998, 289). Gli interventi di questa specie sono volti a evitare la ripetizione di un medesimo traducente in corrispondenza di unità lessicali iterate nel testo
originale, operando nel senso di una “Eins-zu-viele-Entsprechung”
(Koller: 19924, 230), per cui per un unico lessema dell’originale vengono impiegati traducenti diversi. Nel doppiato del film di Wolfgang
Becker si possono isolare casi di variazioni effettuate mediante termini che denotativamente sono in linea di massima tra loro equivalenti,
ma risultano almeno in parte connotativamente inadeguati al contesto.
Come già precedentemente illustrato, il gergo della DDR parodiato in Good Bye Lenin! arricchisce di colore ideologico-politico un’ampia gamma di termini. È fuori questione che la frequenza nel testo
originale di un medesimo elemento marcato culturalmente mira a sottolineare il valore dello specifico termine rispetto a ipotetici altri sinonimi. Poco intuitiva appare invece la scelta traduttiva messa in atto
dai dialoghisti di non optare per l’iterazione di un unico traducente,
ma di diversificare la resa italiana per ogni ricorrenza del termine originale. Il risultato è quello di una traduzione, diciamo, altalenante. Un
caso significativo è quello del verbo ‘abhauen’ a cui, su quattro delle
sei occorrenze nel testo (sempre all’interno dei dialoghi e non negli
interventi di commento né nei programmi giornalistici), è associata
l’idea di illegalità, gravida di amare conseguenze, insita nel proposito
di fuggire furtivamente dalla Repubblica Democratica. In definitiva
‘abhauen’ rappresenta la volgarizzazione del termine ‘Republikflucht’
che i due agenti della STASI, facendo ricorso al “geheimdienstliches
Fachwissen” (Costa: 2005, 676), usano nelle battute iniziali del film
mentre interrogano la signora Kerner sulle visite all’estero del marito.
Questo verbo, adottato nel film univocamente per indicare l’abbandono della patria socialista (anche in senso metaforico, dopo la Wende, riferito alla migrazione interna verso l’eldorado occidentale), viene reso nel testo italiano rispettivamente come ‘svignarsela’, ‘fuggire’,
‘andarsene’ ed ‘emigrare’. È facile vedere che solo i primi due traducenti mantengono la connotazione della natura furtiva dell’atto, propria del verbo tedesco nel contesto tedesco-orientale. ‘Andarsene’ ed
‘espatriare’ sono invece traducenti assai elusivi e poco espressivi in
quanto non lasciano intravedere il rinvio al background politico-culturale; inoltre ‘espatriare’ è anche diamesicamente inadeguato rispetto all’informale voce tedesca perché proprio di un registro linguistico
più alto e più tecnico.
Altrettanto incoerente è la diversificazione traduttiva del termine
‘Wende’ che vale per antonomasia come metafora per indicare il tra-
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collo del socialismo reale e il successivo processo di riunificazione
della Germania. Limitatamente al significato storico-politico il lessema ricorre due volte13, come mostra la seguente tabella.
6.A
6.B
Alex: Meine Mutter hat von der Alex: Nostra madre non sa niente della
Wende nichts mitbekommen.
caduta del Muro.
Alex: Das Problem ist, sie hat ja Alex: Il problema è che lei non sa ancovon der Wende nichts mitgekriegt. ra niente della svolta.
Sebbene in entrambi i casi ‘Wende’ assuma il valore di oggetto
lessicale culturalmente specifico, il traduttore applica qui due diverse
strategie. In 6.A si vede come il riferimento viene esplicitato in maniera efficace nella locuzione ‘caduta del Muro’, sfruttando così un’espressione collaudata e condivisa trasversalmente dal pubblico italiano. La strategia di sfoltimento dei sinonimi riguarda il caso 6.B: la resa di ‘Wende’ come ‘svolta’ appare come una scelta traduttiva poco
incisiva, che fa passare pressoché inosservato il riferimento alla realtà del ribaltone storico su cui punta l’intero film. Il mantenimento anche in questo secondo caso della traduzione esplicita ‘caduta del Muro’ avrebbe contribuito a rinsaldare la coerenza testuale, ribadendo a
più riprese la fase di cambiamento sul cui sfondo si sviluppa la finzione cinematografica.
Più convincente è infine la traduzione differenziata del termine
‘Eingabe’, reso come ‘istanza’ o come ‘lettera di lamentela’. Il vocabolo tedesco ideologicamente connotato rientra nel linguaggio burocratico orientale e indica uno di quegli strumenti attraverso cui si realizza l’ideale responsabilizzazione del singolo individuo nel contribuire
al progresso sociale della collettività. Le due diverse rese in italiano
sottolineano il fatto che il termine ricorre in un primo momento nel
discorso di un cittadino socialista convinto quale è la signora Kerner,
mentre nel secondo caso esso viene pronunciato con piglio critico (si
parla infatti di ‘bescheuerte DDR-Eingaben’, cioè ‘lettere di lamentela
del cavolo’) dal fidanzato occidentale di Ariane, Rainer. La divergenza di vedute rispetto al lavorio di Christiane Kerner nel compilare le
‘Eingaben’ viene ribadita di fronte a Rainer da parte dello stesso Alexander, il quale puntualizza il concetto ideologico-filosofico di base
con una formula che suona come una filastrocca recitata a memoria,
per cui quelle ‘istanze’ sono un tentativo “durch konstruktive Kritik
13
Si dà anche una terza occorrenza di ‘Wende’ nel suo significato proprio di ‘svolta’.
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die Verhältnisse in der Gesellschaft schrittweise zu verändern”.
L’‘istanza’ della DDR non è in pratica altro che una lettera di reclamo
debitamente indorata per nascondere la critica insita nella parola ‘lamentela’ dietro la costruttiva immagine del contributo responsabile e
del senso civico. Si ha così la rappresentazione a contrasto delle due
posizioni rispetto alla macchinosa burocrazia della Germania socialista, vista da chi ne fa parte e vi partecipa e da chi invece la percepisce dall’esterno solo di riflesso. La resa italiana, nonostante il termine
‘istanza’ non traduca appieno lo spettro semantico-simbolico di ‘Eingabe’, riesce mediante la diversificazione dei traducenti a ricreare in
maniera convincente le discordanti posizioni delle due scuole di
pensiero.
3 Conclusioni
L’analisi della trasposizione italiana del lessico culturalmente specifico della DDR e della Wende ha dimostrato come il doppiaggio del
film Good Bye Lenin! abbia in buona parte impoverito o comunque
adattato in modo non equivalente il contenuto culturale dell’originale tedesco. Nel film, in conformità alla teoria degli universali della
traduzione, si riscontrano svariati casi di naturalizzazione volti da un
lato alla standardizzazione delle diverse parlate dialettali e dei regionalismi a esse collegati, dall’altro lato all’adattamento, calibrato su un
potenziale spettatore medio, di contenuti estranei alla cultura italiana, come nel caso di nomi di marche e prodotti, di uffici e cariche
istituzionali. Agli estremi della naturalizzazione si collocano da una
parte rese traduttive che neutralizzano i termini con contenuto culturale (i casi, tra l’altro, delle espressioni ‘real existierend’, ‘Exquisitschlank’, ‘Plattenbauwohnung’) e dall’altra traduzioni dirette di concetti che, non venendo esplicitati, perdono la loro pregnanza culturale nel flusso della finzione filmica (per esempio i deittici ‘hier’ e ‘früher’).
Mediante una strategia esplicativa vengono invece spiegati al
pubblico italiano i riferimenti a taluni concetti, personaggi o oggetti
specifici del contesto culturale di partenza (in particolare si sono isolati la trasposizione esplicita di nomi di autoveicoli, le integrazioni
dei riferimenti a personalità pubbliche e lo scioglimento analitico degli acronimi). Si è notato come l’esplicitazione si dedichi alla chiarificazione della sola componente denotativa, lasciando inespresse o velate le associazioni implicite proprie del testo tedesco. In ultimo la
descrizione della traduzione filmica conferma la tendenza universale
dei traduttori a differenziare la traduzione di termini ripetuti nel testo
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originale (si sono discusse le rese di ‘Wende’, ‘abhauen’ e ‘Eingabe’).
Si è preso atto che talvolta però l’adozione di varianti sinonimiche
compromette la trasmissione delle connotazioni distintive della sostanza culturale ribadita nel film mediante le stesse ripetizioni.
La perdita di significato in corso d’opera non è ascrivibile esclusivamente a una traduzione sbagliata (benché comunque si diano anche casi in questo senso14), quanto piuttosto alla “semiotische Inkongruenz zweier Zeichensysteme” (Costa: 2005, 677). I segni il cui significato si origina, si espande, si altera o si trasforma in concomitanza del verificarsi di irripetibili fenomeni storico-politici amplificano a
tal punto il doppio legame tra lingua e cultura da rendere determinati aspetti semantici intraducibili in lingue che rispecchiano culture
maturate su percorsi storici non paragonabili.
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14
Mi spiego solo come un errore grossolano la traduzione del nome della circoscrizione berlinese di ‘Mitte’ come ‘i quartieri del centro’, laddove parlare di ‘centro’ in riferimento alla Berlino divisa dà adito a qualche legittimo dubbio.
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STUDI CULTURALI
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Elisa Cazzola
LA PORTA DEL PARADISO, MUSEALIZZATA E CORRETTA:
L’ELLIS ISLAND IMMIGRATION MUSEUM
Scampati alla miseria europea, alla disperazione di un viaggio interminabile e animati da sogni e speranze, il 17 aprile del 1907 arrivarono a Ellis Island, sulla costa orientale degli Stati Uniti, 11.747 immigrati: un numero rimasto ineguagliato e una data, di cui quest’anno si festeggia il centenario, che è ormai entrata nella storia. Alloggiato nell’ex centro di accoglienza, l’Ellis Island Immigration Museum
evoca oggi tutti i suoi antichi ‘abitanti’ e racconta l’epopea di uomini
e donne coraggiosi che dall’Europa attraversarono l’Atlantico, attratti
da un miraggio di libertà, abbondanza e opportunità che l’America
rappresentava: a loro è dedicato il monumento nazionale.
Al fine di illustrare le origini della nazione americana, il museo
espone reperti, fotografie storiche e dispositivi tridimensionali, ma le
decisioni riguardo alle mostre tematiche o ai percorsi offerti non sono palesati all’utenza. I meccanismi nascosti che determinano l’aspetto di Ellis Island vanno analizzati e rivelati, e questo è lo scopo che si
propone la mia ricerca1.
Le strategie curatoriali a Ellis Island
Nella scelta degli oggetti da esporre in un museo e nella definizione dei criteri in base a cui si sviluppano percorsi tematici, si riflettono “le circostanze storiche, gli orientamenti culturali e di gusto, e
talvolta i pregiudizi o le utopie, di un certo contesto socio-culturale”
(Marini Clarelli: 2005, 78), oltre alle posizioni personali e alle capacità di chi li ha realizzati.
A Ellis Island la fase progettuale2 ha modellato il museo affinché
1
Il presente saggio muove dalla mia tesi di laurea intitolata La Porta del Paradiso,
rivisitata: l’Ellis Island Immigration Museum, discussa all’Università degli Studi di Milano
il 18 aprile 2007, relatrice la prof. Itala Vivan, correlatore il prof. Mario Maffi.
2
Nel 1965 il presidente Lyndon Johnson accorpò Ellis Island allo Statue of Liberty
National Monument e nel 1976 riaprì al pubblico gli edifici che avevano ormai perso la
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affrontasse la questione dell’immigrazione da un punto di vista locale, nazionale e globale, avvalendosi dell’esposizione di oggetti, pannelli esplicativi e dispositivi tecnologici allo scopo di coinvolgere il visitatore, invitato a prendere posto per prima cosa in uno dei tre teatri
che proiettano a intervalli regolari un documentario di trenta minuti
dal titolo Island of Hope, Island of Tears, frutto del lavoro di storici e
fotografi; la voce di Gene Hackman commenta le fotografie in bianco
e nero che si susseguono sullo schermo, alle quali di tanto in tanto si
frappone un breve filmato d’epoca. Le informazioni circa la vita degli
immigrati nelle loro patrie, il loro viaggio verso l’America, lo sbarco a
Ellis Island e le ispezioni medico-legali a cui erano qui sottoposti, costituiscono una buona introduzione alle mostre permanenti.
Queste ultime affrontano da prospettive diverse il tema delle ‘origini’ degli Stati Uniti in quanto ‘nazione di immigrati’, quindi si confrontano con la disciplina storica, ma l’esposizione dei fatti, seppur
curata nei dettagli e proposta come percorso didattico, assomiglia più
che a una ricostruzione storica a una vera e propria narrazione. Anzi,
si ricorre palesemente alla tecnica affabulatoria nella mostra permanente Through America’s Gate: in ogni stanza, accanto ai pannelli
esplicativi, ci sono delle console a cui sono appesi dei telefoni che
permettono al visitatore di ascoltare le storie degli immigrati. In realtà si tratta di frammenti estratti dalle interviste rilasciate da coloro che
passarono per Ellis Island nei primi anni del Novecento. Una volta
rintracciate, queste persone hanno acconsentito a rivivere la loro
esperienza e a raccontarla3. La decisione dei dirigenti del museo
has been to confine interviews to first-hand accounts from immigrants, rather than their descendants born since their arrival in America. Although
many immigrants were young children when they arrived, their memories
tend to be more reliable than those passed on to, and related by, their descendants (Martin: 2001, 29).
loro bellezza, ma non il loro fascino. Gli americani reagirono positivamente alla possibilità di visitare il vecchio centro d’accoglienza che ormai, dopo anni di abbandono, versava in pessime condizioni. Nel 1984 le autorità decisero di investire dei fondi in un progetto di restauro che prometteva un ritorno economico cospicuo, e sull’isola fu aperto un
enorme cantiere. Il presidente Ronald Reagan si rivolse a Lee Iacocca, allora direttore
della Chrysler Corporation, per organizzare la raccolta di fondi, curata dalla neo-nata
Fondazione Statue of Liberty-Ellis Island. Il 10 settembre 1990 fu inaugurato il museo dell’immigrazione.
3
Grazie all’Ellis Island Oral History Project, avviato nel 1973 ad opera dei dipendenti e dei volontari del National Park Service, oggi esiste un database che contiene circa 4.600 interviste. Cfr. il sito www.ellisisland.org, nella sezione “Visiting Ellis Island”,
consultato il 24 gennaio 2007.
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Questa selezione dichiarata si accompagna a una seconda cernita
‘sottintesa’ che ha individuato gli estratti più significativi.
Nell’intenzione dei curatori si legge la volontà di dar voce (letteralmente) ai protagonisti delle vicende, di offrire delle testimonianze
‘originali’ riguardo al passato, anche se in questo modo si corre il rischio che il visitatore estenda la vicenda particolare di un singolo a
tutti gli immigrati passati per Ellis Island, senza più discriminare la
varietà di situazioni che sicuramente li caratterizzava. Inoltre, i criteri
che hanno guidato la seconda selezione delle interviste hanno fatto
sì che nel museo manchino del tutto le storie di chi veniva respinto;
di chi aveva subìto proposte indecenti in cambio del permesso di
sbarcare; di chi era stato derubato dei suoi soldi; di chi, passati i controlli, si era separato per sempre da un figlio o un genitore respinto
alla frontiera. Tutte queste storie, che sono raccontate nel libro di David Brownstone, nel testo di Leslie Allen o di James Bell e Richard
Abrams (per citarne solo alcuni), non compaiono nel museo. Ne soffre dunque l’obiettività della mostra, che ‘dimentica’ gli aspetti dolorosi e addirittura tragici del fenomeno migratorio4.
D’altro canto le esposizioni dei musei sono necessariamente selettive, poiché è nella loro natura condensare una grande quantità di
informazioni entro uno spazio limitato. Inoltre il ricorso alla fiction è
comprensibile (seppur non giustificabile in un museo) per evocare
gli avvenimenti che una comunità considera come decisivi perché
“ricavano il loro significato specifico dal loro potere di fondare o rafforzare la coscienza di identità della comunità presa in considerazione” (Montani: 2004, 205). È naturale, insomma, che nelle costruzioni
storiografiche di questo tipo si recuperino degli ‘episodi’ da adattare
alle proprie esigenze narrative, identitarie, ecc., sebbene questo significhi ridurre la portata di certi avvenimenti o snaturarne l’essenza.
La modalità di esposizione narrativa, in generale, può avvalersi
della possibilità di rievocare il contesto originario dei reperti in vetrina servendosi di attori assunti per recitare il ruolo di chi usava quegli
4
A questo proposito è interessante la ricostruzione della prospettiva costruttivista
da parte di Jörn Rüsen riguardo alla storia. Essa è ‘prodotta’ dalle persone nel presente
attraverso il loro modo di vedere il passato, in base ai documenti e alle tracce di ieri che
giungono intatti a chi vive l’oggi. Ovviamente si tratta di frammenti, di ricordi sfuocati,
che permettono una ricostruzione della storia ‘difettosa’ – costituendosi solo di un numero limitato di eventi che non sono stati dimenticati. Gli altri fatti, caduti nell’oblio, potrebbero anche non essere avvenuti. Dimenticare è un’attività cerebrale naturale, un
meccanismo ‘passivo’ della mente umana che agisce automaticamente per tutelare la
propria integrità. Tuttavia esiste anche una dimenticanza attiva: “[t]he selective forgetting
that belongs to the work of recollecting, and also to the work of history, (…) becomes
subject to criticism when it is practiced by official history” (Rüsen: 2005, 37).
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oggetti o viveva all’epoca in cui quegli oggetti erano utilizzati5. Sebbene tanti siano i musei che hanno adottato questo espediente, le critiche da più parti sono state numerose: l’autorevolezza dell’istituzione culturale si perde quando questa diventa un parco a tema in cui
l’illusione del viaggio nel tempo risulta alquanto ingenua (Marini Clarelli: 2005, 82).
A Ellis Island si è optato per recuperare l’indagine del passato da
parte del visitatore non già attraverso l’impiego di attori, bensì tramite la tecnologia, che presenta tre sostanziali vantaggi: adatta la comunicazione alle esigenze individuali, graduando i livelli di approfondimento; fornisce le informazioni in modo più compatto, così da non
interferire con l’allestimento; e soprattutto stimola il coinvolgimento
del visitatore, incuriosito da touch-screens e pulsanti luminosi (Tomea Gavazzoli: 2003, 94).
Sull’isola la tecnologia è lo strumento principale attraverso cui si
esprime l’edutainment 6 e le mostre interattive di Ellis Island che ne
usufruiscono sono ad esempio Peopling of America e Peak Immigration Years. Nel primo caso il visitatore può interagire con una mappa
degli Stati Uniti che illuminandosi identifica la zona selezionata dall’utente e fornisce le relative informazioni circa il numero di immigrati in quella regione e la loro provenienza. Nel secondo caso, dopo
aver illustrato le difficoltà affrontate dagli immigrati per diventare cittadini americani, la mostra si conclude con un test per il visitatore
che voglia sottoporvisi: su alcuni touch-screens compare via via una
serie di domande sulla storia e la geografia americana, ecc.; se si risponde correttamente, si viene festeggiati con piccoli fuochi d’artificio virtuali e un breve messaggio di congratulazioni: la richiesta di
cittadinanza americana è stata accettata!
Questi, che sono solo due esempi relativi al museo preso in esame, rivelano quale sia l’età del monumento agli immigrati: nato negli
anni Ottanta, l’Ellis Island Immigration Museum si conforma alle tendenze del momento e installa con sobrietà le prime mostre interatti5
È stata questa la scelta degli ideatori di Plimoth Plantation, dove il turista incontra
attori in costume che recitano il ruolo dei coloni inglesi o dei nativi wampanoag che abitavano il villaggio nel 1627. Cfr. il sito www.plimoth.org, consultato il 7 febbraio 2007.
6
Il termine edutainment è un neologismo coniato da Bob Heyman mentre produceva documentari per la National Geographic. L’espressione è nata dalla fusione delle
parole educational (educativo) ed entertainment (divertimento) e si potrebbe tradurre
‘educare giocando’. Il termine è stato utilizzato inizialmente per indicare le forme di comunicazione giocosa finalizzate alla didattica. Col tempo il concetto si è esteso a tutto
quanto può essere comunicato, grazie al gioco, in modo simpatico e produttivo. Si veda
www.iprase.tn.it, sito ufficiale dell’Istituto provinciale per la ricerca, l’aggiornamento e la
sperimentazione educativi, che ha sede a Trento, consultato il 10 febbraio 2007.
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ve, che avrebbero conosciuto di lì a poco un vero successo. Diana
Pardue, direttrice del Museum Service Division per Liberty ed Ellis Island, nell’intervista rilasciata a David Martin (2001, 31) ammette che i
motivi per cui non si cadde nella tentazione di adottare maggiori ‘effetti speciali’ furono soprattutto di natura pratica:
particularly the potential disruption to flow of visitors through the galleries,
and the difficulties of designing interactive exhibits robust enough to withstand constant usage in a museum with over two million visitors and maintaining them in working order.
La preferenza è stata accordata a diagrammi bi- e tridimensionali
che risultano efficaci e di facile lettura anche per i bambini o per gli
adulti poco istruiti o pigri, che non hanno voglia di leggere i pannelli di commento. L’uso e la presentazione dei pannelli sono uguali in
tutto il museo. In accordo con le linee-guida del National Park Service di cui Ellis Island fa parte, i testi sono disposti su supporti bianchi,
rossi o blu; consistono tipicamente di una breve spiegazione – non
molto approfondita – che commenta i reperti o la funzione originaria
della stanza; oppure riportano per iscritto un estratto di un’intervista
scelta dal database dell’Ellis Island Oral History Project.
Mettere a disposizione dei visitatori dei testi esplicativi significa
tenere conto che essi devono adattarsi alla diversità del pubblico che
si differenzia per padronanza della lingua, grado di alfabetizzazione,
età e categoria socio-culturale. Molti curatori hanno individuato una
soluzione nelle audioguide, che sono risultate essere un ottimo investimento. Anche a Ellis Island il turista può richiedere delle cuffie e
un mangianastri per un costo supplementare rispetto al biglietto d’ingresso. In questo modo è il visitatore stesso che seleziona il commento che desidera ascoltare, digitando sulla tastiera dell’apparecchio il numero che figura sul cartellino esposto nella sala in cui si trova.
Un elemento frequente in tutti gli ambienti di Ellis Island è la fotografia storica, che pur non avvalendosi di un codice verbale, risulta comunque eloquente e talvolta figura da sola a commento di un
certo spazio7.
7
È il caso della sala in cui si riuniva il Board of Special Inquiry. Dietro un elegante
bancone in legno lucido, il visitatore può immaginare gli ispettori federali consultarsi, seduti sulle sedie comode, mentre l’immigrato – in piedi di fronte a loro – tenta disperatamente di convincere le autorità a dargli una chance nella terra della democrazia. A suggerire il timore reverenziale che gli ispettori incutevano agli immigrati c’è il divieto per i
turisti di oltrepassare la soglia dell’ufficio. Inoltre, accanto ai volti che numerosi si affacciano sulla stanza, ve ne sono altri – quelli degli immigrati, immortalati all’inizio del se-
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Stampe e riproduzioni ingrandite si trovano all’ingresso, nelle mostre Through America’s Gate e Peak Immigration Year; alcune sono
appese anche all’interno del ristorante e ritraggono gli immigrati
mentre sono seduti a mangiare un piatto di minestra e del pane bianco. La funzione delle fotografie è dunque duplice: o indicano l’uso
originario dei vari spazi in cui sono presenti, oppure creano una dimensione temporale parallela che permette un incontro effimero tra
i visitatori di Ellis Island di oggi e di ieri8.
La maggior parte delle fotografie esposte al museo sono state
scattate da Lewis Wickes Hine (1874-1940) e Augustus Sherman
(1865-1925). Il primo è ricordato come un grande fotografo sociale
che documentò con reportage memorabili la condizione dei lavoratori nei primi del Novecento sino a tutti gli anni Trenta, con particolare attenzione alla condizione degli immigranti e al lavoro minorile.
La sua fotografia è un caso tipico di lavoro sociologico condotto con
l’ausilio delle immagini, che poi col tempo diventa patrimonio e documentazione storica. Nella sua opera traspare l’intento di mostrare
le aspettative che il Nuovo Mondo aveva fatto intravedere a milioni
di esseri umani, e l’infrangersi del sogno di molti. Perfettamente conscio del valore soggettivo delle proprie fotografie, Hine riteneva che
esse portassero in sé una carica dirompente, capace di suscitare sdegno e desiderio di cambiamento in una società basata quasi esclusivamente sullo sfruttamento dei più umili e dei più diseredati.
Augustus Sherman, invece, fu assunto in qualità di registry clerk
nel 1892 a Ellis Island, dove lavorò come segretario personale del
commissario d’immigrazione Frederick A.Wallis dal 1921 fino alla
morte. Scattava fotografie durante il tempo libero e i soggetti preferiti erano gli immigrati nei loro costumi tradizionali, di cui prediligeva
di solito il primo piano, o le famiglie, ritratte in gruppo, schierate in
ordine di altezza crescente. Per Sherman si trattava di un hobby, sebbene spesso la critica abbia definito le intenzioni del fotografo in ter-
colo. I primi piani in bianco e nero sono estremamente espressivi: ogni muscolo è teso,
gli occhi sono pieni di speranze e di paure. Sotto ogni volto è stato scritto soltanto ‘Donna slava’, ‘Immigrato russo’ e così via, a testimoniare quanto poco il Board considerasse
gli immigrati: non individui con nome e cognome, ma semplicemente unità di manodopera, appartenenti a un determinato gruppo etnico o nazionale.
8
Altro compito spetta alle fotografie della sezione Silent Voices. Alle pareti, delle
stampe in formato 50x70 propongono al visitatore degli scorci dell’isola in cui non compaiono persone, bensì oggetti ed edifici: cose inanimate in stato d’abbandono. Si tratta
dei lavori di alcuni fotografi contemporanei che hanno immortalato gli edifici di Ellis Island prima del restauro, fermando per sempre l’atmosfera spettrale che avvolgeva l’isola
abbandonata.
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mini di orgoglio etnico e diversità, quasi che la sua fotografia avesse
come fine ultimo quello di ricordare il motto statunitense “e pluribus
unum”. Erica Rand (2005: 93-96) non condivide questa visione:
[t]he array of photographs marked with handwritten notations like ‘Holland’
or ‘Serbian Gipsies’ suggest an interest in classifying and categorizing that
(…) cannot be fully separated from the scientific racism in criminological
schemes to identify racial types with propensities to crime and disease –
especially considering the role of stereotypes in informing, to various degrees, the work of Ellis Island inspectors.
Questioni di autenticità
Quando si sceglie un oggetto perché entri a far parte di una collezione, si tratti di una scultura o di una macchina a vapore, esso immediatamente acquisisce, per il fatto stesso di essere stato scelto, alcuni attributi dei quali non è normalmente investito: l’atto di scegliere conferisce una dimensione di peculiarità, d’interesse o di valore,
che si ritiene non interessi più solo un individuo, ma coinvolga un
messaggio rivolto a tutti – diventando un’icona (Brawne: 1983, 1819).
La rimozione di un oggetto dal proprio contesto originario e la
sua collocazione in un ambiente museale implica questo profondo
cambiamento delle sue funzioni anche quando i musei espongono
oggetti in situ, come nel caso di Ellis Island9. Qui i reperti entrati a far
parte della collezione, nati come modesti oggetti d’uso comune, si
sono trasformati in testimonianza. L’appartenenza al museo di tali oggetti li segnala come degni di essere conservati e li investe di un forte potere evocativo e affettivo: le valigie e i fagotti disposti nella Baggage Room deliziano i visitatori in quanto simili a quelli stipati nelle
loro soffitte.
Non è necessario, quindi, che gli oggetti di un museo siano unici
o siano stimati per ingenti somme di denaro: devono semplicemente
avere ‘valore’. Mónica Risnicoff de Gorgas (2004, 360) puntualizza
che
9
Sono pochi i casi in cui le opere che si trovano nel museo siano state effettivamente prodotte per il museo. Ellis Island, invece, rappresenta il luogo adatto dove esporre dei vecchi bagagli impolverati perché in quell’edificio le stesse valigie erano depositate mentre gli immigrati procedevano alle ispezioni medico-legali.
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the object per se has no intrinsic value. The object is defined instead by its
relationiships with humankind which attributes different values to it. Moreover, the values change with time. When the objects are displayed in the
context of the exhibitions, they are transformed and attributed to new categories. In term of the meaning of the objects as symbol, they oscillate between two worlds, namely the world from which they come, and the world
created by the display.
Le collezioni esposte a Ellis Island comprendono oggetti che riflettono la storia del luogo in cui sono collocati, riportando in vita il
centro d’accoglienza che ora non esiste più. Non sono allora l’unicità, né l’estetica delle valigie e dei mandolini esposti a giustificare la
loro collocazione in vetrina, bensì i diversi significati non immediatamente percepibili dalla loro mera fisicità. In quanto oggetti prodotti
in un certo luogo e in un certo tempo, sono ‘cose’ con peculiari caratteristiche materiali che acquisiscono un plusvalore di singolarità
nel momento collezionistico, che ha loro conferito uno specifico senso storico e culturale: l’azione della musealizzazione inizia il processo in cui l’oggetto, sottratto alla distruzione, alla dispersione e al mercato, viene usato collettivamente per scopi culturali (Tomea Gavazzoli: 2003, 27).
All’apertura, nel 1990, l’Ellis Island Immigration Museum era dotato di circa 2.000 oggetti. Oggi, dopo diverse donazioni e acquisizioni, ne conta venticinque volte tanto.
Nella mostra Treasures from Home il visitatore può trovare la collezione di oggetti più ricca dell’intero museo, costituita da lenzuola,
stoviglie, bibbie, giocattoli, e così via. È evidente il valore affettivo
dei reperti: in vetrina ci sono i tesori che gli immigranti hanno scelto
di portarsi dal Vecchio Mondo, cimeli preziosi per il valore aggiunto,
non certo per l’equivalente in denaro10. “[Nevertheless] Treasures
from Home takes its own liberties with what counts as a treasure
from home” (Kirshenblatt-Gimblett: 1998, 187). Verosimilmente ogni
ricordo dell’Europa è stato donato al museo dall’immigrato a cui apparteneva o dai suoi discendenti; in realtà, moltissimi ‘tesori ebraici’
10
All’ingresso della mostra, infatti, si legge: “The generosity of America’s immigrants
and their children created this exhibit, a collection of artefacts donated to the National
Park Service by families who came to the United States during the peak immigration
years of the late 19th and early 20th centuries. The items displayed here are indeed treasures from home, cherished belongings that immigrants carried with them from the old
country to the new. (…) The carefully chosen items lend insight into how immigrants
prepared for life in an unknown land, what they expected to find here, and what hopes
they had for the future”.
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facevano parte della Benjamin and Rose Mintz Collection e furono
donati dal Jewish Museum di New York. I coniugi Mintz volevano
fuggire dalla Polonia alla fine degli anni Trenta; vedendosi negare il
visto per l’America, spedirono la loro collezione privata negli Stati
Uniti nella speranza che venisse esposta in occasione della New York
World’s Fair e che le autorità concedessero loro un visto temporaneo
per accompagnare la collezione. Come commenta Barbara Kirshenblatt-Gimblett (1998, 187), “[i]n this case, the objects saved their owners, not the other way round”.
Ciò pone un problema che i musei occidentali hanno sempre evidenziato: l’autenticità delle raccolte11. La tendenza è quella di esporre un oggetto originale, la cui ‘purezza’ deve essere garantita soprattutto quando questo è unico, come nei casi delle opere d’arte o degli
oggetti sacri. Il criterio di ‘unicità’ assume un’importanza secondaria
quando gli oggetti esposti appartengono alla vita quotidiana: utensili, macchinari, giocattoli, maschere vengono tutti prodotti in abbondanza, un unico esemplare è sufficiente a rappresentare i suoi simili,
purché non si falsifichino le notizie riguardanti l’oggetto stesso (Lugli: 1996, 78).
La scoperta riguardo alla collezione della mostra Treasures from
Home, di conseguenza, erode la credibilità dell’istituzione, sebbene
non indebolisca l’alone di ‘magia’ degli oggetti – ossia quella percezione suggestiva e soggettiva di un’opera da parte del visitatore, che
“ne trae un’emozione cognitiva che lo mette in contatto più diretto,
immediato e non razionale, con il senso più profondo di un oggetto”
(Tomea Gavazzoli: 2003, 48)12.
Coloro che non percepiscono il significato del reperto esposto, o
non sono in grado di sviluppare un’interpretazione personale, sono
aiutati dalle didascalie che chiariscono cosa il visitatore vede o cosa
dovrebbe vedere. Senza dubbio, quando si ha a che fare con oggetti
che non appartengono alla cultura del visitatore o risalgono a un
passato lontano, sono necessarie informazioni approfondite a scopo
educativo. Queste informazioni sono il frutto del lavoro di ricercatori
11
Il problema dell’autenticità interessa diverse discipline, dalla storia dell’arte all’antropologia, e si lega al tema del moderno, che porta con sé i concetti di relativismo e nichilismo grazie ai quali si intraprendono discorsi che mettono in dubbio la natura delle
cose e la loro autenticità, appunto, erodendo anche il senso identitario. Il dibattito sull’autenticità va quindi a interessare non solo gli studiosi dell’arte, ma anche i teorici dei
Cultural Studies e i critici musicali. Per un approfondimento, si veda Bendix (1997), Orvell (1989), Taylor (1991).
12
L’autrice parla letteralmente di ‘aura’.
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e studiosi che lavorano nel/col museo per conservare la memoria del
passato che la mente umana – di natura fallace – non è in grado di
trattenere a lungo e completamente.
I musei, insomma, sono i depositari della Verità. O, meglio, dovrebbero esserlo.
La simbologia dell’Ellis Island Immigration Museum
“The major economic outlay that goes into the [management of a
museum] justifies the question: why should a society underwrite this
expenditure and what should it expect in return?” (Doumas: 1998, 6).
La risposta a questa domanda di solito si colloca sul fronte filosofico,
rivelando un gusto nostalgico: “[because] man’s interest in his remote past is lost in the depths of history and is echoed in the creation of
myths that exist in all cultures” (ibidem), oppure recupera le motivazioni di carattere più pragmatico, come ad esempio la funzione di ricerca scientifica svolta all’interno delle istituzioni culturali. Sebbene
queste risposte non siano infondate, è innegabile che i finanziamenti a favore dei musei vengano stanziati più facilmente quando la classe politica intravede la possibilità di un guadagno economico o di un
riscontro positivo in termini di consenso pubblico.
Anche nel caso dell’Ellis Island Immigration Museum è nascosto
un discorso ideologico a scopi politici? Vi sono interessi economici in
un progetto apparentemente volto a soddisfare questioni identitarie?
Ebbene, l’istituzione – che si pone l’obiettivo di contribuire alla
disciplina storica – non può avere la pretesa di essere assolutamente
oggettiva poiché le fonti e le informazioni riguardo al passato vengono sottoposte a processi di generalizzazione, astrazione e semplificazione. Inoltre, i limiti della rappresentazione storica derivano anche
dal semplice fatto che l’attività dello studioso avviene in un hic et
nunc preciso, condizionato da dinamiche socio-culturali in atto nel
presente. A questi vincoli intrinseci nella disciplina si somma un altro
ostacolo all’oggettività, ovvero l’uso ideologico che se ne fa: la storia
che prende forma in un’istituzione museale può diventare uno “strumento politico importante, un attrezzo per forgiare coesione sociale
e identità nazionale” (Schubert: 2000, 107).
Proprio questo avviene a Ellis Island: si tenta di creare un senso
di nostalgia per un passato ‘mitico’ al quale far risalire le radici di un
popolo eterogeneo come quello americano, e di offrirgli motivi forti
per l’orgoglio patriottico.
Non è un caso, allora, che già a partire dalla fase di ristrutturazione edile si siano verificati i primi compromessi per realizzare il pro-
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getto. Quando si decise di restaurare l’edificio principale del centro
di accoglienza nel porto di New York, si optò perché i lavori si ispirassero al periodo 1918-1924. Ovviamente alcune modifiche erano
necessarie per accogliere il pubblico (come ad esempio l’installazione di nuove rampe di scale e ascensori, la creazione di spazi adibiti
a sale conferenze, e così via). Le finiture furono copiate dall’originale e i particolari furono curati per integrare questi nuovi elementi nella struttura esistente, in linea con l’idea che il restauro dovesse essere “l’action entreprise pour rendre un objet détérioré ou endommagé
compréhensible en sacrifiant au minimum son intégrité esthétique et
historique” (Périer-D’Ieteren: 1995, 2). In realtà, la scelta operata dai
progettisti è criticabile. Barbara Kirshenblatt-Gimblett (1998, 179) afferma:
Designed by the architects Boring & Tilton in Beaux-Arts style, this building
was refurbished after World War I and has been restored to the period
when, in 1918, the intimidating Registry Room acquired its vaulted ceiling
of Guastavino tile. The restoration of the building was thus determined by
the dictates of architectural, not immigrant, history. Most immigrants who
passed through Ellis Island had done so by 1918 and never saw the building in this state.
Inoltre, la decisione di lasciare la Registry Room praticamente
vuota, da un lato permette sì al visitatore di ‘riempirla’ con le proprie
emozioni, immaginando qualche antenato arrivare esausto dopo l’attraversamento dell’Atlantico e, nonostante la stanchezza, sottoporsi
all’ispezione medica e legale; d’altro canto, però, questo significa lasciare molta libertà al turista, che potrebbe non essersi preparato diligentemente sulla storia del centro d’accoglienza. Ironicamente Barbara Kirshenblatt-Gimblett (1998, 179) continua la sua critica al restauro riportando un discorso di Lee Iacocca, fondatore e presidente
della Statue of Liberty-Ellis Island Foundation:
‘[I] experienced ghosts of the immigrants who once huddled under the arching dome of the Great Hall, clutching their few worldly possessions’. He
continued, ‘I could almost sense the steamships, the crowds, the mixture of
hope and fear on their faces. My own mother and father, I thought, must
have stood right where I was standing’ – a Hollywood film epic in the making.
Insomma, il restauro (ri-)crea l’evento e rende tutto più affascinante poiché restituisce all’opera, all’edificio, all’oggetto “sa fraîcheur
primitive” (Philippot: 1995, 17) e la falsa autenticità che ne deriva nutre l’illusione di un viaggio verso un passato cristallizzato trasforman-
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do il museo in un ‘mezzo’ che può veicolare messaggi dall’impatto
forte13.
Il messaggio di Ellis Island ha a che fare con il patrimonio culturale, con l’identità dei cittadini americani e con il loro orgoglio patriottico e si colloca nella loro ‘tradizione’ tipicamente nazionalistica e
trionfalistica. Sia i curatori sia i visitatori dei musei sono coscienti del
fatto che il nazionalismo culturale in una forma o nell’altra è probabilmente inevitabile nella maggior parte dei musei, ma non bisogna
sottovalutare quanto in questo caso il passato venga di fatto utilizzato per rinforzare la ‘religione civile americana’14, basata su miti e icone le cui radici affondano “in a nostalgic wish for a previous golden
age that in reality never existed” (Schelereth: 2004, 337). Inoltre, rispondendo a esigenze identitarie, il museo non può che rappresentare “the immigrants who came through Ellis Island as decision-makers and actors rather than passive victims buffeted by alien forces”
(Pardue: 2004, 27). Data la sensibilità pubblica rispetto alla rappresentazione di tali temi identitari, infatti, e l’inevitabile implicazione
dell’orgoglio nazionale, il museo ha uno straordinario carico di responsabilità e per questo si promuove maggiormente “a universal
willingness to commemorate suffering experienced rather than suffering caused” (Crane: 2004, 329)15. Fosse altrimenti, una visita a Ellis
Island potrebbe provocare sensi di colpa e vergogna negli americani
di più antica discendenza europea – e non è davvero questo l’obiettivo dell’istituzione.
Sempre a tale riguardo, i commenti alle varie stanze dei musei so-
13
Mónica Risnicoff de Gorgas (2004) si è occupata delle case-museo, cioè di quelle
istituzioni culturali che si collocano nelle abitazioni di famosi personaggi storici (quali ad
esempio, Mozart o Manzoni). Le caratteristiche di questa forma-museo possono valere
anche per l’Ellis Island Immigration Museum. Infatti, i musei collocati in edifici storici
hanno un potere altamente evocativo, perché ‘possiedono’ un’atmosfera speciale per cui
i visitatori sono ‘trasportati’ in una dimensione parallela e lasciano libera la fantasia. In
realtà, nonostante questo potere immaginifico sia piuttosto manifesto, il visitatore percepisce il luogo come ‘vera verità’, libero da ogni forma di manipolazione. Questa impressione si avvale dell’aspetto del museo stesso, che appare quasi inviolato – il che non è
mai completamente vero, perché, come nel caso di Ellis Island, i proprietari, i restauri e
gli usi del luogo sono stati numerosi.
14
‘American civil religion’ è un’espressione coniata nel 1967 dal sociologo Robert
Bellah per descrivere una religione civile universale e trascendente tipica del mondo statunitense. Secondo lui, molti americani condividono dei valori che vengono espressi attraverso simboli e rituali comuni che danno una dimensione religiosa all’intera loro vita
(Bellah: 1967, 1-21).
15
Lynn Johnson (1984, 165), infatti, parla di “noble suffering mythology” costruita
dal museo “about the individual struggling against the odds”.
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no attentamente costruiti “to recount immigration primarily as a history of noble individuals from quaint traditions who triumph
through personal endeavour to achieve the American dream” (Johnson: 1984, 165). Un esempio valga per tutti: dall’autobiografia di Fiorello LaGuardia, interprete del centro d’accoglienza che diventerà poi
sindaco di New York City dal 1933 al 1945, viene estratto un ricordo
che compare citato nel museo, nella stanza dedicata alle ispezioni
mediche di accertamento. Fiorello LaGuardia (1961, 166) scrive:
One case haunted me for years. A young girl in her teens from the mountains of northern Italy turned up on Ellis Island. No one understood her
particular dialect very well, and because of her hesitancy in replying to
questions she did not understand, she was sent to the hospital for observation. I could imagine the effect on this girl, who had always been carefully
sheltered and had never been permitted in the company of a man alone,
when a doctor suddenly rapped on her knees, looked into her eyes, turned
her on her back and tickled her spine to ascertain her reflexes. The child
rebelled – and how!
L’ultima frase (corredata di punteggiatura esclamativa) sembra
stranamente interrompere il ritratto di una fanciulla innocente, che si
ribella e respinge i minacciosi ‘assalti’ dell’ispettore, suscitando un
sorriso nel visitatore. Ebbene, il motivo è l’omissione delle frasi che
seguono, ovvero: “It was the cruellest case I ever witnessed on the
Island. In two weeks time that child was a raving maniac, although
she had been sound and normal when she arrived at Ellis Island” (LaGuardia: 1961, 166).
Troncare una narrazione proprio nel punto in cui emergono i dettagli più infamanti fa di Ellis Island una testimonianza di storia artefatta. Tuttavia, la necessità di servirsi di costruzioni culturali per scopi politici non è nuova. Da sempre, “history is needed and is employed selectively by different units of society” (Kavanagh: 2004, 348).
Le autorità richiedono un passato positivo, che sia in grado di suscitare l’orgoglio dei suoi eredi e di consolidarne l’identità; l’individuo
richiede un senso di appartenenza che giustifichi il suo ‘rimanere’.
Per servire questi e molti altri bisogni, la storia a Ellis Island viene
prodotta: si suggerisce non solo la maestosità e la grandezza degli
Stati Uniti, ma anche la loro generosità nell’accogliere gli ultimi della
società europea, e la loro capacità di trasformare dei derelitti in uomini nuovi, in individui vincenti e fieri.
La narrazione all’interno del museo è infatti interamente permeata dal mito del melting pot: gli immigrati che varcano la frontiera ed
entrano a far parte della società statunitense vengono ‘fusi’, e attraverso questa ‘fusione’ i nuovi venuti conquistano l’americanità, un’i-
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dentità completamente nuova16.
Tutte le generazioni sono sottoposte a questo processo: per coloro che nascono in America da genitori immigrati l’americanizzazione
consiste “nell’acquisire familiarità con le migliori tradizioni americane
e gli standard correnti, e nel provare fattivamente a migliorarne la
qualità” (Sollors: 1990, 122), mentre per gli stranieri essa “significa rinuncia al proprio sistema di valori ben noti e cari, e accoglimento di
un altro sistema di valori, più o meno nuovi e conosciuti” (ibidem) e
comporta quindi un profondo e delicato riadattamento degli atteggiamenti mentali e sociali.
La versione della teoria che è passata alle masse e che tutti conoscono è leggermente diversa. Non si tratta più di una ‘rigenerazione
universale’, bensì di una opportunità di integrazione entro un sistema
in cui non proprio tutti sono coinvolti. Il melting pot infatti è un crogiolo in cui entra(va)no italiani, ebrei, polacchi e via dicendo, ma
non gli anglosassoni bianchi. “Tutti dovevano rifondersi e trasformarsi, ma loro no, loro erano già un prodotto finito” (Sollors: 1990, xiv).
Anche un altro gruppo non vi rientrava: i neri. Per loro il fondersi
con l’America era una strada preclusa a priori17.
Il melting pot, dunque, non esiste e non è mai esistito nella realtà: è una mera finzione ideologica. Lo sostennero dapprima Nathan
Glazer e Daniel Patrick Moynihan, affermando che la “nazionalità
americana è ancora in via di formazione: i suoi processi sono misteriosi e la forma finale, se mai ce ne sarà una, non si conosce ancora”
(Sollors: 1990, 83); oggi la teoria del melting pot è stata superata nella sociologia da un nuovo modello, quello del multiculturalismo: non
più amalgama omogeneo, bensì ‘insalatona mista e colorata’, i cui ingredienti diversi convivono nello stesso recipiente, mantenendo cia-
16
A questo proposito risulta curiosa l’opinione di Stuart Hall, il quale sviluppa una
teoria in netto contrasto con quella del melting pot americano, quasi a significare che
americani si può diventare, mentre inglesi si deve nascere. Nel testo New Ethnicities, infatti, Stuart Hall sostiene che le ondate migratorie hanno dato origine a nuovi tipi di etnicità, basate su una identità multipla, e rivendica appunto un ampliamento di significato
per il termine ‘ethnicity’, che di norma indica una costruzione identitaria basata sui luoghi, la storia, il linguaggio e la cultura di un gruppo sociale. Un nuovo concetto dev’essere implicato con questo termine, quello di ‘diversità’, che separi e distingua un gruppo
da un altro in modo netto. Un’etnicità di questo tipo è destinata a sopravvivere non prevaricando le altre, ma inserendosi in un discorso pluralista che preveda uno ‘spazio’ per
tutti. Ecco che allora, accanto agli inglesi ‘bianchi’, possono esserci anche gli afrocaraibici o gli angloafricani (Hall: 1992, 163-172).
17
Negli anni Sessanta l’impossibilità di fondersi della comunità nera nella società
americana, da constatazione passiva, diventerà un rifiuto esplicito dell’integrazione, sostenuto dalla scoperta del nazionalismo culturale e delle origine africane.
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scuno il proprio gusto18.
Perché, dunque, a Ellis Island si è scelto di rappresentare anacronisticamente un mito ormai superato, ignorando approcci più realistici e scelte più coraggiose? Ebbene, l’isola nella baia di New York, a
pochi chilometri dal sogno ‘America’, è l’archetipo dello stampo in
cui popoli diversi per cultura, lingua, religione, venivano ‘mescolati e
fusi’ in un amalgama e forgiati in forma nuova, da cui veniva tratto
‘oro’, secondo un processo alchemico per cui mescolando materiali
grezzi e non nobili si otteneva il metallo perfetto e incorruttibile. Non
solo: Ellis Island è l’emblema perfetto che presenta l’America come
Terra Promessa, che accoglie e dona generosamente se stessa a dei
figli adottivi laceri e malandati. L’immagine dà lustro alla maestosità
statunitense e si impone quasi in termini trionfalistici, poiché l’idea
che se ne trae è quella di un Paese in cui le strade lastricate d’oro
erano percorse da masse “bramose d’aria pura”19, dalle quali via via
sarebbe emerso ogni individuo meritevole di successo. A incarnare
questo altro mito americano (il self-made man) è la figura a capo della Statue of Liberty-Ellis Island Foundation: Lee Iacocca fu scelto dal
presidente Ronald Reagan per guidare la campagna di raccolta fondi
a favore del restauro di Ellis Island, in quanto non solo aveva raggiunto con successo i vertici della scala sociale diventando un importante imprenditore che aveva salvato nei primi anni Ottanta una
Chrysler Corporation in agonia, ma era anche figlio di immigrati (italiani) che erano passati per l’isola.
Riproporre il mito del melting pot all’interno di un ambito istituzionale come il museo dell’immigrazione di Ellis Island, quindi, sorprende. Sorprende ancor di più se si considera il clima teso in cui vivono oggi gli statunitensi: l’ottimismo di una teoria democratica come quella del melting pot appare in contraddizione con l’istinto al sospetto per lo straniero ‘altro’ inculcato negli americani dopo l’11 settembre, all’ombra della minaccia del terrorismo islamico.
Tuttavia, la comunità eterogenea della federazione nordamerica18
L’espressione con cui i sociologi si riferiscono alla nuova teoria è proprio salad
bowl. Il multiculturalismo è una strategia politica di gestione delle relazioni interetniche
che punta alla valorizzazione e al rispetto di tutte le differenze di costume, cultura, religione o etnia. Nato nella metà degli anni Ottanta, il multiculturalismo si è così progressivamente affermato dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, ma le sue radici risalgono
ad almeno venti anni prima, quando ha cominciato a farsi strada nelle società occidentali la questione della ‘differenza’ con le rivendicazioni etniche e nazionalistiche della Decolonizzazione. L’intensificazione dei fenomeni migratori e della globalizzazione ha poi
sancito il passaggio definitivo da una cultura dell’unicità a un vero e proprio culto della
differenza.
19
Lazarus Emma (1883), The New Colossus, traduzione di chi scrive.
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na viene naturalizzata proprio attraverso l’adesione alla ‘storia’ riproposta dal museo di Ellis Island, che contribuisce al simbolismo culturale già arricchito da letteratura e arti visive. La formazione degli Stati-nazione, in generale, è basata sull’idea che l’umanità è naturalmente divisa in comunità nazionali, ognuna delle quali ha la sua specifica identità. La caratterizzazione delle nazioni come ‘comunità immaginate’ è stata invocata per descrivere il fenomeno per cui i membri
di una nazione, anche se mai si incontreranno tutti, sono consapevoli dell’esistenza gli uni degli altri e sentono di appartenere a un’unica
entità comunitaria. La naturalizzazione di queste comunità immaginate è costruita tramite simboli e rituali (Crooke: 2006, 174).
Ecco come l’Ellis Island Immigration Museum diventa “a symbol
of a nation of individuals with diverse ethnic and cultural identities
and a nation based on common principles, the most cherished of
which is liberty” (Pardue: 2004, 25): costruisce e rivitalizza continuamente il mito fondante della società statunitense, attraverso una narrazione i cui personaggi diventano eroi.
Il mito del crogiolo delle razze, dunque, era ed è irrinunciabile.
Inoltre si accorda(va) all’immagine del passaggio attraverso la Porta
d’Oro inteso come battesimo. Non a caso gli immigrati compivano il
loro pellegrinaggio attraversando l’oceano, un’immensa distesa d’acqua, elemento considerato da sempre divino. Sia nell’Antico sia nel
Nuovo Testamento, l’acqua è all’origine di tutte le cose, e il Diluvio
Universale mandato da Dio purifica il mondo; il popolo ebraico guadagna la libertà passando attraverso il Mar Rosso. In tante altre culture l’acqua è simbolo di fertilità, in quanto indispensabile al sostentamento umano.
L’acqua dell’Atlantico, dunque, purifica gli immigrati diretti in
America e scioglie le loro caratteristiche quasi fossero agenti contaminanti, preparandoli alla fusione che li trasformerà in individui con
una nuova identità e una nuova cultura, le cui tradizioni e abitudini
sopravvivranno in minima parte solo per sentimentale attaccamento
alla cultura d’origine.
A money-making machine
Cinquanta anni fa nessun museo sarebbe mai stato considerato
un business in senso commerciale, e l’idea che i direttori e i curatori
dovessero possedere abilità di management sarebbe stata ritenuta insensata: la sollecitazione a produrre risultati, sia nella forma di un
flusso crescente di visitatori sia nell’uso più efficiente dei fondi, e la
pratica moderna di cercare sponsor commerciali per nuovi progetti
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erano quasi sconosciute. Oggi, nell’era del marketing, i musei sono
stati costretti, volenti o nolenti, a piegarsi alle sue regole. Questa tendenza, in realtà, non ha causato grande turbamento negli Stati Uniti
“where the tradition of public provision is not so deeply rooted,
where people have expected to pay for a large part of their social
amenities (…)” (Hudson: 2004, 88-89).
È logica conseguenza che i musei abbiano quindi dovuto occuparsi delle strategie per attirare un pubblico sempre più consistente.
Alcune indagini di mercato commissionate a questo scopo hanno
mostrato che
il pubblico non valuta positivamente la visita al museo soltanto in base alla
qualità dell’allestimento o al pregio di particolari mostre, poiché sono parimenti importanti, per rendere la visita piacevole, fattori quali le proposte
del ristorante, la pulizia dei servizi igienici, la gamma dei prodotti in vendita al negozio (Kotler, Kotler: 1999, 59).
A tale scoperta è seguita la creazione o il miglioramento di spazi
dedicati a quelle attività all’interno dei musei. Nel caso di Ellis Island,
si è ristrutturato l’ex centro di accoglienza ricavando aree ricreative
circoscritte, ma ben funzionanti: il ristorante e il Gift Shop.
Per quanto riguarda l’area-ristoro, l’arredo è sobrio e alle pareti
sono state posizionate riproduzioni di grandi dimensioni delle foto in
bianco e nero di Lewis Wickes Hine e Augustus Sherman. Gli immigrati di cento anni fa, seduti intorno a lunghi tavoli di legno, consumano il loro primo pasto in territorio americano: stufato, pane bianco e pudding. Oppure no? Le persone ritratte nelle foto non sono immigrati qualsiasi, bensì i detenuti sull’isola. Le procedure del centro
d’accoglienza non prevedevano l’offerta di pasti alle persone soggette all’ispezione medico-legale di routine: gli immigrati potevano comprare del cibo all’emporio presente sull’isola, dopo aver ricevuto il
permesso di soggiorno. Tuttavia, non avendo commento né didascalia, le foto nel ristorante traggono in inganno e il turista è portato a
credere che agli immigrati appena giunti fosse distribuito un pasto
caldo, rafforzando l’impressione della grande generosità americana.
In ogni caso, sotto gli sguardi incuriositi degli immigrati rivolti
verso la macchina fotografica, si snodano le file di turisti che ordinano i menù agli addetti del ristorante – pizza, hot dog, patatine fritte,
e così via. Le proposte non sono assolutamente in linea con quanto
viene documentato dalle foto: vengono serviti nachos anziché bollito, e bibite frizzanti e colorate anziché latte. In effetti, non c’è ragione che lo Snack Shop offra cibo ‘storicamente corretto’, ma risulta
perlomeno insolito vedere attribuire ai menù (tipici di qualsiasi fast-
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food americano) un significato che in altri ‘ristoranti’ gli stessi cibi
non hanno: pizza, hamburger e patatine qui diventano “ethnic foods”
(Kirshenblatt-Gimblett: 1998, 187). La riscoperta delle origini nazionali di ogni piatto ha però risultati piuttosto mediocri: la colazione alla francese è costituita da uova, prosciutto, formaggio e croissant,
‘mentre’ nella colazione all’inglese sono compresi uova, prosciutto,
formaggio e muffin. Inoltre il menù specifica “Italian meatball submarine”, “corned beef on Jewish rye” e “Parisienne tuna salad”, associando a volte una nazionalità a piatti che non la rappresentano.
Il criterio dell’etnicità/nazionalità sembra permeare anche il negozio di souvenir, collocato accanto al ristorante. Il Gift Shop offre
“products that reflect the heritage of the people from all over the
world who passed through Ellis Island, the Gateway to America”20. I
visitatori sono incoraggiati “to enjoy them with pride and remember
those who came this way”21.
In cosa consiste esattamente questo patrimonio cultural-etnico
che solo l’esclusiva Ellis Island Gift Collection riflette? Usando una
modalità di esposizione a mo’ di ‘galleria delle nazioni’, il negozio è
addobbato con bandiere e gagliardetti coi colori nazionali di Italia,
Germania, Irlanda, Grecia, Francia, e così via; dei costumi nazionali
sono indossati da minuscole bamboline, e sul bancone ci sono magliette e cappellini. Nel negozio ci sono anche dei libri a tema sull’immigrazione e non mancano ovviamente tazze, piatti e posate con
una stampa decorativa raffigurante il centro d’accoglienza; per i bambini è disponibile un’ampia scelta di fischietti e astucci, tutti rigorosamente esposti con il marchio ‘Ellis Island Immigration Museum’ ben
in vista.
Il merchandising, vario e accattivante, comprende oggetti che
sembrano scelti per rappresentare l’artigianato tradizionale delle varie zone del mondo, quasi a creare l’illusione per chi compra di portarsi a casa un ‘treasure from home’. In realtà i prodotti sono quasi
tutti ‘made in China’ o ‘made in Taiwan’, il che comporta una fabbricazione di massa e delle rifiniture decisamente non artigianali.
L’unicità dei souvenir enfaticamente proclamata dalla ditta appaltatrice del negozio è motivata da strategie pubblicitarie. Di fatto, molti ninnoli (ad esempio le matrioske russe) vengono venduti anche in
altri contesti, mentre tantissimi altri souvenir sono tipici dei luoghi turistici, come le magliette e i portachiavi, che diventano ‘esclusivi’ so-
20
Tratto dal sito www.ellisisland.com, nella sezione “Gift Shop”, consultato il 18 ottobre 2006.
21
Ibidem.
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lo per il marchio ‘Ellis Island’ stampigliato sopra.
Il tema e la decorazione più ricorrente rimane comunque la bandiera nazionale, il che crea problemi non immediatamente risolvibili.
Innanzitutto i tricolori francese, italiano e tedesco sono affiancati alla
bandiera del Giappone e di Israele. All’apparenza non vi è nulla di
strano, ma in realtà, per coerenza col criterio di offerta degli altri souvenir, nel negozio non dovrebbero trovarsi oggetti relativi agli emigrati da Paesi asiatici, che con tutta probabilità entravano negli Stati
Uniti dalla costa occidentale; e mette in difficoltà la Stella di David
azzurra su sfondo bianco, in quanto Israele non ha contribuito al
flusso migratorio dei primi anni del Novecento per il semplice fatto
che la nascita di tale Stato risale al 1948. Lo stesso vale per tutti gli altri Paesi che non esistevano a cavallo del secolo, quando erano parte dell’impero austriaco, ottomano o russo, ma che a Ellis Island trovano spazio accanto alle nazioni europee effettivamente coinvolte
nei movimenti migratori.
Il disguido si è creato da subito, quando gli addetti al merchandising hanno creato dei gadget in base alla cartografia odierna. Il leitmotiv di bandiere grandi e piccole è quindi dovuto a questioni economiche (vendere di più), camuffato dietro lo spirito ‘politicamente
corretto’ del motto “e pluribus unum”, a segnalare tutte le etnicità
che ‘fanno’ l’America. Come giustamente afferma Erica Rand (2005,
8-9), questi souvenir ben simboleggiano i problemi legati al multiculturalismo che gli Stati Uniti affrontano ancora oggi.
[P]romoting diversity is so often a shallow and sentimental substitute for
analyzing and fighting injustices based partly on those celebrated differences. It’s easier, and more common, to buy a snow globe honouring immigrants of the past than to think or act critically about immigration. (…) I
could offer the items as emblems of lazy multiculturalism.
Un’ulteriore trovata per fare di Ellis Island una ‘miniera d’oro’ è
l’Immigrant Wall of Honor, che si trova nel giardino del museo. Si
tratta di una serie di pannelli in acciaio inossidabile che si sviluppa in
senso circolare.
Su questo muro l’American Express invita i clienti a onorare un
antenato iscrivendo il nome della persona. A tutt’oggi risultano incisi
più di 600.000 nomi. Il criterio di inclusione nella lista è sostanzialmente il pagamento di una somma attraverso la carta di credito American Express. Nel momento in cui si versa la somma richiesta e si
compila un documento in cui si chiede che un certo nome venga inserito nel muro, non viene fatto nessun controllo per verificare che
quel nome compaia veramente nei registri degli ispettori a Ellis Is-
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land. Il disinteresse a creare un Muro dell’Onore che sia anche un
documento storico è chiaro: Soleif, la ditta che offre il servizio, non si
cura di inserire un unico nome se vengono offerte più donazioni relative allo stesso immigrato da onorare, cosicché figurano cinque Meyer Kaufman, tre Julia Walsh Keeney e così via (Rand: 2005, 168).
Inoltre, nella categoria ‘immigrati’ sono stranamente compresi anche quegli individui che arrivarono in America contro la propria volontà, ad esempio gli schiavi dall’Africa, o coloro che negli Stati Uniti già c’erano: gli ‘indiani d’America’. Sulla brochure relativa al Wall of
Honor si legge:
(…) each memory includes the names of very special people, names that
deserve to be kept alive. You are invited to honour these people, whether
they arrived in America on the Mayflower, were part of a forced migration,
entered through Ellis Island, or just came over on a jet plane.
Se è chiaro che il Muro contiene solo i nomi di chi ha pagato per
avere questo onore, per molti visitatori dell’isola non è altrettanto immediato capire che gli stessi nomi verranno visualizzati dai computer
dislocati all’interno del museo. Ciò significa che è negato l’accesso ai
registri in cui compaiono i nomi di coloro che sono effettivamente
passati per Ellis Island tra il 1892 e il 1954 e l’unica possibilità offerta
è quella di consultare il database del Soleif, costruito con criteri discutibili. La delusione dei visitatori più curiosi o in cerca delle proprie radici potrebbe essere cocente, se non esistesse l’American Family Immigration History Center. Nell’ala ovest, all’interno del museo, sono stati alloggiati gli uffici di questo istituto che consulta i documenti archiviati ai tempi in cui il centro d’accoglienza funzionava,
rintracciando così gli antenati immigrati e svelando al richiedente
americano le proprie origini italiane, irlandesi, russe o polacche. Il
tutto, naturalmente, in cambio di un onesto emolumento.
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15, 16 ottobre 2006; il 23, 24, 25 gennaio 2007.
www.ellisisland.org, consultato l’8, 9, 10 gennaio 2006; il 12, 13, 14
ottobre 2006; il 23, 24, 25 gennaio 2007.
www.plimoth.org, sito ufficiale del museo Plimoth Plantation
(Plymouth, Massachusetts), consultato il 7 febbraio 2007.
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Lidia De Michelis
DIVIDED KINGDOM DI RUPERT THOMSON
E LA ‘GEOGRAFIA DEGLI UMORI’
All’inizio di aprile del 2005, nei medesimi giorni in cui la diffusione dei manifesti elettorali proiettava al centro del dibattito mediatico
le contrapposte ‘visioni’ della Gran Bretagna elaborate dai politici in
vista delle elezioni di maggio, un altro immaginario britannico, questo sì alternativo e inquietante, otteneva inconsueta risonanza sulle
pagine letterarie dei principali quotidiani.
Si pensi a una nazione, mai nominata ma chiaramente riconoscibile, divisa in maniera improvvisa e traumatica dall’onnipotente élite
al governo in quattro stati privi di ogni possibilità di scambio e interazione. Il provvedimento, chiamato ‘la Riorganizzazione’, è una risposta alla deriva socio-culturale del paese, divenuto “a troubled
place, obsessed with acquisition and celebrity”, “defined by misery
and greed” (Thomson, 2005: 8). In esso il crimine era così diffuso che
i bambini ne erano altrettanto spesso attori che vittime. I senzatetto
occupavano le innumerevoli aree degradate e dismesse, la cultura
era sempre più intrisa di razzismo, la polizia impotente e la gente
abituata a farsi giustizia da sé. “For decades, if not for centuries,” denuncia l’autore, irridendo agli stereotipi del fair play, della politeness
e della flemma inglesi, “the country had employed a complicated
web of manners and conventions to draw a veil over its true nature,
but now, finally, it had thrown off all pretence to be anything other
than it was – northern, inward-looking, fundamentally barbaric”
(ibid.).
Questo è il punto di partenza per l’immaginario doloroso e potente di Divided Kingdom, settimo romanzo dello scrittore inglese
Rupert Thomson1, pubblicato nel 2005 e proposto in Italia con il me-
1
Nato nel sud dell’Inghilterra nel 1955, laureato in storia medioevale a Cambridge
ed ex copywriter, Rupert Thomson a partire dal 1982 ha vissuto a Roma, Berlino, Amsterdam, Sidney, Tokyo e Zanzibar. Dopo un successivo periodo trascorso in Gran Bretagna,
nel 2004 si è trasferito con la famiglia a Barcellona. Il suo primo romanzo, Dreams of
Leaving, è apparso nel 1987, subito accolto con interesse dalla critica. Ad esso hanno fat-
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desimo titolo dalla ISBN edizioni di Milano (2005). “Nel giorno della
Riorganizzazione”, recita la premessa della traduzione italiana,
“i bambini sono stati strappati alle madri, le famiglie smembrate e la memoria si è perduta. Il nuovo sistema politico si fonda sulla teoria medievale degli umori. Collerici, malinconici, flemmatici e sanguigni sono stati deportati
nei quattro quartieri dai confini invalicabili in cui il Regno è stato diviso. Per
limitare i conflitti, il simile dovrà convivere con il simile. Da adulto uno di
questi bambini perduti ricostruisce l’avventuroso e doloroso percorso che
lo conduce ad accettare il proprio passato negato” (www.isbnedizioni.it).
Il romanzo, raccontato in prima persona dal protagonista ormai
trentatreenne, si apre sul ricordo del suo allontanamento forzoso, all’età di otto anni, dai genitori classificati ‘malinconici’ per essere reinserito come personalità sanguigna, e pertanto fattiva e ottimista, presso una nuova famiglia nel Red Quarter, il settore dei privilegiati. Costretto a spogliarsi del suo vero nome – Matthew Micklewright, dalle
forti connotazioni regionali –, per rinascere ‘depurato’ come Thomas
Parry, il protagonista diviene col tempo un funzionario in carriera del
governo. Della sua vita precedente conserva solo l’immagine traumatica della madre, nel cuore della notte, a piedi nudi, che lo chiama,
“reaching out to me, her fingers clutching at the air” (Thomson, 2005:
3): un’icona che, unitamente alle scene ferroviarie che immediatamente seguono, evoca gli orrori della deportazione e dell’esilio iscritti nella coscienza collettiva dalla letteratura dell’Olocausto e di altre
tragedie del Novecento, e definisce sin dall’inizio il margine oscuro
del racconto di Thomson. In missione ad Aquaville, capitale del flemmatico Blue Quarter, Thomas si reca in un locale notturno dal simbolismo eloquente, il Bathysphere, in cui ritrova brandelli della sua memoria passata. Il congresso si sposta quindi a Congreve, la ‘Las Vegas’
del collerico Yellow Quarter, dove nella confusione seguita a un attentato il protagonista fa perdere le proprie tracce nel tentativo di tornare ad Aquaville, all’inseguimento della propria memoria interrotta.
Da questo punto ha origine l’odissea di Thomas Parry, un percorso che subito si configura come nostós, ritorno alla fonte della propria ‘nostalgia’, piuttosto che itinerario di scoperta ispirato al piacere
to seguito The Five Gates of Hell (1991), Air and Fire (1993), The Insult (1993), Soft!
(1998) e The Book of Revelation (1999), da cui è stato tratto un omonimo film di successo, diretto dalla regista australiana Ana Kokkinos nel 2006. Il suo ottavo romanzo, Death
of A Murderer, incentrato sulla vicenda di Myrah Hindley, è uscito alla fine di marzo del
2007. Per ulteriori informazioni sull’autore e la sua opera, si vedano Hynes (2006) e il sito web di Divided Kingdom (www.dividedkingdom.com).
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del viaggio. Sarà la violenza stessa della cultura dei ‘confini’ a costringere il protagonista a percorrere tra mille peripezie il territorio di tutti e quattro i settori e a confrontarsi non solo con l’ambiente psichico
determinato dai diversi umori, ma anche con l’immaginario nomadico dei White People, il popolo dei reietti, senza diritti e senza parola, che non sono riusciti a trovare una propria casella nel reticolo panoptico della ‘Riorganizzazione’. Solo dopo aver sperimentato l’ingiustizia di partizioni sempre pretestuose e l’influsso inevitabile dei
diversi ambienti socioculturali sulla propria psiche, Thomas potrà riconciliarsi con se stesso e ritornare a casa2. Ciò che ne scaturisce,
nelle parole di Melania Gatto, è il ritratto di una geografia della “Gran
Bretagna completamente umanizzata, dove anche i colori del cielo
e il clima sembrano riflettere, esaltandole, le caratteristiche di ciascun
tipo” (2005: online; corsivo mio).
A prima vista, tutto ciò potrebbe sembrare materia per una narrativa essenzialmente distopica, tesa a cambiare il mondo attraverso
un’immaginazione e una parola in prima istanza politiche, eredi dirette di Brave New World e di 1984 (cui il romanzo palesemente ammicca nelle pagine iniziali e, per brevi sprazzi, lungo l’intero arco del
racconto, soprattutto là dove allude alla presenza ingombrante della
polizia, alla cultura della delazione interna alle famiglie e alla valenza sovversiva dell’attaccamento feticistico agli oggetti sopravvissuti
alla Riorganizzazione). Appare suggestiva, inoltre, quale traccia possibile di un’atmosfera comune, la coincidenza della pubblicazione di
quest’opera con la distopia genetista rappresentata in Never Let Me
Go, l’ultimo romanzo di Katsuo Ishiguro (2005). In realtà, come l’autore stesso ha dichiarato in blog e interviste, “Divided Kingdom isn’t
a futuristic book. I’m not making predictions. I’m simply unveiling
an alternative present” (Thomson: 2006, corsivo mio).
Tra i modelli eclettici cui l’opera si ispira (e tra i quali qualcuno
ha ravvisato anche Erewhon di Samuel Butler [1872], la Gormenghast
Trilogy di Mervyn Peake [1946-1959] e l’immaginario ecologico-postapocalittico di After London di Richard Jefferies [1885])3, Thomson dà
risalto piuttosto a Candide e ai Viaggi di Gulliver (l’eroe swiftiano dà
anche il nome a un suburbio del Red Quarter). Elidendo i rapporti di
elaborazione e discendenza che uniscono i mondi fantastici del No-
2
Come osserva Charles Tilley (1994:15): “Personal and cultural identity is bound up
with place; a topo-analysis is one exploring the creation of self-identity through place.
Geographical experience begins in places, reaches out to others through places, and
creates landscapes or regions for human existence”.
3
Si veda Hynes (2005).
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vecento al capolavoro di Swift, Thomson istituisce un legame diretto
tra la propria opera e i testi fondanti della letteratura distopica moderna. L’influsso di Gulliver è, in realtà, così pervasivo da informare
elementi strutturanti della trama e dell’organizzazione stessa del racconto. Particolarmente suggestivo, ad esempio, è l’episodio della fuga per mare di Thomas dallo Yellow Quarter come clandestino nascosto in un container. Se da un lato vi è un’allusione evidente a tanti drammi dell’immigrazione di oggi, le sensazioni del protagonista
cieco e impotente mentre la sua ‘gabbia’ viene sollevata da un argano
e sistemata a bordo (Thomson, 2005: 198-200) evocano immediatamente il terrore di Gulliver allorché l’aquila, impadronendosi della
gabbietta in cui è custodito, lo porta via in volo da Brobdingnag lasciandolo poi ricadere in mare. Anche l’arrivo a terra nel Blue Quarter, dopo una tempesta e un naufragio in cui palesemente convergono
gli immaginari marittimi di Robinson Crusoe e dei Gulliver’s Travels 4,
contribuisce a richiamare gli incontri con le bizzarre comunità di Laputa e Lagado, adombrate in parte nella rappresentazione degli
adepti della Church of Heaven on Earth. L’influenza di Swift, però, è
soprattutto evidente nel modo in cui il racconto di Thomson, come
confermano questi esempi, segue il modello settecentesco nella scelta di come significare i molti passaggi dal registro realistico a quello
del fantastico. Se, come osserva Bignami (1996: 155) trattando di Gulliver, ogni volta Swift “ci segnala attraverso una frase o un breve periodo il momento in cui stiamo entrando nella dimensione del fantastico”, ciò appare vero anche per Thomson, che sovente anticipa tramite espressioni quali dream, strange, eerie, o impedimenti repentini
e misteriosi della agency, i momenti di border-crossing tra questi due
mondi narrativi, nella cui tensione si riconosce la cifra stilistica della
sua arte.
Il richiamo diretto di Thomson alla tradizione distopica del Settecento suggerisce al tempo stesso un’analogia con le tradizioni della
satira e della narrativa picaresca. Quest’ultima in particolare, assieme
al filone ‘celtico’ di immaginari di viaggio tra cui l’autore colloca Le
navigazioni di San Brandano, testimonia della dimensione centrale
4
Si veda, per esempio, la ricchezza di allusioni ai due classici settecenteschi nella
descrizione dell’onda che sommerge Thomas al momento del naufragio, per restituirlo
poi alla vita attraverso, quasi, una seconda nascita: “Then I was beneath the surface,
with no idea which way I was facing. I couldn’t see or breathe. […] I reached up with
both hands, rugging at the water. I kicked and kicked. My foot struck something that
seemed to give, and one of my shoes detached itself. I imagined it dropping away in the
dark, the laces still tied in a neat bow. […] At last, when I no longer believed it possible,
I burst out into a small round space” (Thomson, 2005: 203).
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che i tropi del viaggio e della quest, della mobilità e dell’immobilizzazione, dell’angoscia e della meraviglia rivestono in Divided Kingdom.
Non a caso Thomson definisce l’opera “a journey of discovery and
transformation”, attraverso il quale la parola narrativa si sposa con
l’immaginario geografico nell’inventare (ovvero scoprire e ricreare al
tempo stesso) nuovi orizzonti di emozione e conoscenza. “These socalled parallel worlds”, dice Thomson, “are all around you if you
look. Or they’re just below the surface, waiting to come into being”
(www.dividedkingdom.com; corsivo mio).
Il respiro breve di un saggio e il taglio geografico che ho scelto di
privilegiare in questo studio non mi consentono di soffermarmi sulle
molte affascinanti letture che si potrebbero dare di quest’opera. Attraverso il simbolismo dei quattro elementi e dei quattro colori, il romanzo infatti non si limita a mettere in scena una straordinaria indagine all’interno della psiche umana, vista in condizioni di cosiddetta
‘normalità’ o tramite la sensibilità alterata di un uomo in fuga. Divided Kingdom esplora anche le diverse età dell’uomo, dando vita, tra
l’altro, a una lucida rappresentazione delle sfide dell’adolescenza e a
una toccante interpretazione della vecchiaia. Identificata con il Green
Quarter, quest’ultima si rivela luogo psichico di una malinconia che
rigenera e sito in cui sorge quel Museum of Tears in cui Thomas troverà le fialette delle lacrime versate per lui dai suoi genitori, superando finalmente la sua angoscia di sopravvissuto grazie alla recuperata
certezza di un amore mai venuto meno5. Il romanzo, ancora, pullula
di spunti onirici, allucinatorii persino, e di episodi che ammiccano alla dimensione del soprannaturale, del fantasy e della spiritualità new
age e celtica6, oltre a prestarsi facilmente a un’interpretazione in chiave di psicoanalisi junghiana7.
Ciò appare soprattutto nella caratterizzazione del personaggio di
5
Anche in questa sezione appare evidente l’ispirazione dell’immaginario museale,
letterario e artistico legato ai drammi dell’Olocausto.
6
L’intera esperienza di Thomas nel flemmatico Blue Quarter si nutre di spiritualità
new age, alla quale soprattutto si ispira il racconto del suo soggiorno presso la comunità
della Church of Heaven on Earth. È interessante, nella sezione iniziale dedicata al congresso di Aquaville, anche l’accenno a un intervento intitolato “Power and Energy. A
study of our borders”, che si interroga sul significato simbolico (ma anche sulle eventuali applicazioni pratiche) delle ley lines, misteriose linee di energia che collegherebbero
antichi luoghi sacri, incorporate dagli ‘architetti’ della Riorganizzazione nella loro riscrittura dei confini “using spiritual power to reinforce political will. Maybe that helped to explain why so many phlegmatics believed that it could be fatal to cross a border, that certain borders could maim or even kill […]” (Thomson, 2005:137).
7
Per una lettura in chiave junghiana dell’opera si veda anche Taylor (2005), che vi
riconosce una vaga corrispondenza d’atmosfera con The Magus di John Fowles.
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Odell, ragazza misteriosa con il dono di rendersi invisibile attraverso
il tempo e lo spazio, che ‘traghetta’ Thomas attraverso l’ultimo confine e ne facilità il percorso di riconciliazione con se stesso. “A sort of
Virgil and Beatrice rolled into one”, come scrive James Hynes (2005,
online), Odell è definita nel testo anche “shape-shifter”, “seer” e
“psychopomp” (Thomson, 2005: 334), e la sua immagine inevitabilmente rimanda al concetto junghiano di anima 8, la traccia dell’esperienza ancestrale dell’elemento femminile nella psiche maschile che,
simile alle ombre, sovente assume la funzione di mediatore e guida
nei confronti dell’universo interiore e delle profondità nascoste della
psiche umana. Come junghiano, ancora, può apparire il ricorso alla
quadripartizione geografica in base alla teoria degli umori, che in
qualche modo riecheggia il modello di ‘individuazione’ della personalità in base agli elementi alchemici sviluppato dallo psicanalista negli ultimi anni della sua vita (Jung: 1989; 1992; 1997).
Un’altra interpretazione, infine, legata a una prospettiva di contemporaneità, è quella suggerita da Andrew O’Hehir (2006, online),
che nella sua recensione su Salon afferma:
One way of understanding Divided Kingdom is to suggest that all four of its
zones represent contemporary Britain as seen through a different satirical
scrim: the Yellow Quarter is violent, vulgar Americ-lite, while the Blue
Quarter is a brooding, mystical nation of witches and pagans, and the Red
Quarter belongs to sensible, upper-middle Labour Party voters. (And the
Green Quarter is very clearly the bleak and shabby Britain of the post-war
years)9.
Se pure meno articolata e intrigante, questa dimensione più immediatamente referenziale nei confronti della Gran Bretagna d’oggi è
8
Il concetto stesso di anima in Jung è in realtà proteiforme e controverso, come ha
dimostrato Hillman (1985), confrontando centinaia di occorrenze in cui lo psicanalista
elabora il proprio pensiero al riguardo. Si veda anche von Raffay (2000: 545): “the anima
is Eros, she is the anima mundi, she represents the inferior function, she is a fascinosum, darkness, a life-giving daemon, a witch, an intermediary affording access to the unconscious – while at the same time herself constituting the collective unconscious. She is
equally a mysterious lover, a great female magician, the mystical flower of the soul, and
a deceiver who entangles people in chaos and must be obeyed. […]. If a man wished to
escape the dominion of the anima, he must integrate her”.
9
Si veda il commento di Thomson (www.dividedkingdom.co.uk) circa il rapporto
del suo romanzo con la contemporaneità: “What I seem to have done is transpose on to
the UK an experience that many countries in the world have already been through: ethnic cleansing, partition, apartheid – call it what you will. I don’t believe fiction should
have a message – that’s not its job – but one could see Divided Kingdom as a celebration of variety, a plea for tolerance”.
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senza dubbio riconoscibile e giocosamente vitale nel romanzo. Ciò
appare soprattutto nelle brevi, gustose allusioni alla vecchia regina –
classificata come flemmatica –, ancora detentrice del potere simbolico
“having outlasted her choleric husband and her melancholic eldest
son” (Thomson, 2005: 104) ventisette anni dopo la ‘Riorganizzazione’,
e nel ritratto di Michael Song, il leader carismatico, più volte rieletto,
del ‘nuovo’ assetto ideologico su cui si regge il Regno Disunito. Il suo
modo di atteggiarsi (“polished […], almost literally polished, and how
convivial too” [ibid.: 37; corsivo originale]) e il dirigismo populista del
suo governo sembrano ricalcare infatti certe rappresentazioni di Tony
Blair e del New Labour divenute stereotipiche nel giornalismo e nella satira politica britannici.
Tuttavia, proprio l’immaginario spaziale e geografico – inscritto
dall’autore nel ‘mito di origine’ di quest’opera, composta all’interno di
una roulotte nel giardino dei suoceri presso Chester, ricordando gli
anni (1982-84) trascorsi nella Berlino del muro10 – costituisce la struttura metaforica e diegetica portante del romanzo. Ciò avviene a livello di trama, attraverso la descrizione incisiva e potente – a volte anche iperrealistica, altre surreale, sovente cinematica – di paesaggi rurali e urbani che vibrano delle emozioni del protagonista (delle sue
relazioni umane ‘spazializzate’), e si avvalgono di una parola insieme
dura e poetica, sempre in bilico tra simbolismo e gesto taumaturgico,
capace di risanare e rigenerare un universo tradito. Avviene, ancora,
grazie alla tematizzazione dell’elemento cartografico nella vicenda e il
ricorso a un apparato iconico di mappe immaginarie, inserite sia nel
testo, sia in un sito web dedicato (www.dividedkingdom.com). Avviene, soprattutto, attraverso la creazione di una straordinaria eterotopia fantastica – un mondo alternativo, parallelo, appunto, non un
mondo contro –, in cui Thomson esplora e mette in scena uno dei
paesaggi mentali, sociali, etnografici e, naturalmente, politici più dibattuti dalle correnti cosiddette ‘critiche’ della geografia culturale: vale a dire lo spazio della liminalità e l’universo dei confini.
Anche per quanto riguarda il potere dell’immaginazione e della parola di inventare nuovi immaginari geografici, la cui ‘realtà’ non è me-
10
Sebbene Thomson non vi faccia cenno, si è tentatati di vedere nella partizione
rappresentata nel romanzo e nel ricorrere del tema del “muro” anche un’allusione alla
quadripartizione del territorio di Gerusalemme, città in cui vivissimo è il simbolismo religioso, identitario e politico del “muro” (sono grata a Claudia Gualtieri per avermi suggerito questa linea di riflessione). Inoltre il titolo stesso del romanzo, Divided Kingdom,
coincide con la denominazione biblica di una delle fasi storiche del popolo ebraico. Si
noti come anche il precedente romanzo di Thomson, The Book of Revelation, abbia un titolo che si ispira al linguaggio biblico.
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no vera per il fatto di non essere ‘autentica’, l’atteggiamento di Thomson appare convergere – con gli opportuni distinguo – con posizioni
acquisite della geografia culturale. L’affermazione di Allen, Massey e
Cochrane (1997: 2) che “places are not ‘out there’ waiting to be discovered; they are our (and others’) constructions”, sembra trovare riscontro nella seguente risposta di Thomson alla domanda di un blogger :
I wrote all kinds of scenes in all kinds of imaginary British landscapes, but
then, because I wanted the novel to feel real – in a geographical sense, at
least – I had to go out and find those landscapes. Between 2001 and 2003 I
did an awful lot of driving. I found places I never knew existed. I found the
places I’d described, even though I hadn’t known they were there (2006;
corsivo mio).
Ed è ribadita, ancora, in un’intervista rilasciata a Andrew Lawless
nel giugno 2005 (online):
It was also fascinating to work out which part of the country suited which
humour. Given their spiritual bias, it was clear to me that the phlegmatics
should have the south-west of England, for instance – Glanstonbury, Tintagel etc. – and that their portion of London would have to include the Serpentine and Little Venice, since their principal defining principle was water.
Sometimes I would set a scene in a certain landscape without being sure
whether it actually existed, and I would have to get into my car and go and
look for it. I found the Wanings at the north-east of Carlisle. I found the
Church of Heaven on Earth in the Isle of Purbeck. In short, there isn’t a location in Divided Kingdom that doesn’t correspond to a real place in the
United Kingdom.
La straordinaria capacità di Thomson di trasformare l’immaginario
spaziale in verità poetica tramite uno sguardo che coniuga il surreale
e la rappresentazione puntuale dell’ordinario attraverso la mediazione della memoria e la modulazione dell’uncanny (Tonkin: 2005) è
felicemente espressa, ad esempio, nella seguente descrizione delle
passeggiate del protagonista nel settore dei malinconici, il Green
Quarter:
I would often make my way out to a piece of flat land that lay at the edge
of a housing estate. It was the strangest place. There were roads and pavements, there were street lights too, but there were no buildings. The roads
turned corners, linking up with one another, forming orderly rectangles
and squares, and yet the area of scrub grass in between, where the houses
should have been, were strewn with rubbish – umbrellas, condoms, microwaves. Crows sat on top of every street lamp like memorials to some dark
event. I suppose the council had simply run out of money, but it always
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looked to me as though something sinister or supernatural had occurred
(Thomson, 2005: 268; corsivo mio).
Mentre la maggior parte delle forme verbali, al simple past, e l’accumulo di oggetti, infrastrutture, strade tendono a sottolineare la verità fattuale dello spazio descritto, una serie di allusioni minacciose
(strangest, dark, crows, sinister, supernatural) concorre a traghettare
il lettore nella dimensione del perturbante. Il forte desiderio di connettività (che è garanzia di funzionalità e di strutturazione sociale)
espresso dalla tensione delle strade e delle piazze verso una geometria urbana armonica e coesa si perde senza possibilità di riscatto (come avviene secondo Freud nella condizione di malinconia) davanti
all’interruzione perentoria dello should have been. Come in certe inquietanti scenografie di Lars Von Trier (Dogville, per esempio), si ha
l’impressione di guardare al medesimo tempo una rappresentazione
planimetrica e il plastico di un futuro già passato senza essere mai
stato presente: la sua verità consiste appunto nella liminalità del fantastico, significata da at the edge, in between e soprattutto rubbish, i
rifiuti di un’esistenza che non trova spazio in alcun luogo11.
Il discorso del margine consente di accostarsi senza soluzione di
continuità al secondo nucleo tematico della presente analisi, cioè all’immaginario del confine che informa Divided Kingdom nella sua
struttura più profonda. Nel romanzo il liminale si articola tramite innumerevoli figurazioni, che spaziano dagli elementi costruiti dall’uomo (quali porte, finestre, tunnel, ponti, crocevia, navi, treni, aerei,
stazioni, autostrade)12, a quelli esistenti in natura (fiumi, rive, coste,
guadi), sino a comprendere stadi psichici (sogno, allucinazione, telepatia, telecinesi) e la messa in scena della soggettività nomadica. L’esplicitazione più frequente di tale condizione si ha tuttavia tramite i
numerosi borders e boundaries che, non diversamente dai territori
contesi e dalle terre di nessuno, il protagonista di Thomson è continuamente costretto ad affrontare.
Il concetto foucauldiano (1977), esemplificato attraverso la discussione del lazzaretto e del Panopticon, di uno spazio pubblico che
consente un’ottimizzazione dell’esercizio del potere proprio in quan-
11
Julia Kristeva in The Powers of Horror (1982: 69) descrive così la liminalità dei rifiuti corporei, facendo pensare all’episodio in cui Thomas, travestito da White People, riesce a passare indenne un confine ricoprendosi il volto di escrementi: “Why does corporeal waste, menstrual blood and excrement, or everything that is assimilated to them,
from nail-pairings to decay, represent – like a metaphor that would have become incarnate – the objective frailty of symbolic order?”.
12
Si veda, al riguardo, Van Houtum and Strüver (2002).
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to spazio “that partitions, fixes and remains immutable” (Dikeç, 2005:
172), già da lungo tempo ha superato l’ambito della sociologia per
colonizzare altri discorsi. Negli ultimi quindici anni, in particolare,
come affermano Van Houtum e Van Naerssen (2002: 125) in “Bordering, Ordering and Othering”, “the symbolisation and (discursive) institutionalisation of differences in space have gained central attention
in present so-called critical geography debates”.
Il loro saggio si rivela particolarmente utile per accostarsi all’immaginario di Thomson. L’affermazione degli autori che “the territorial
demarcation of differences that borders provide assures a geographical ordering of presumably governable spatial units” (ibid.: 128) non
solo esplicita il punto di vista dei governanti del Divided Kingdom,
ma contiene in germe il medesimo dubbio circa un possibile fallimento del sistema implicito anche nelle procedure di partizione del
Regno.
Everyone in the country had been secretly examined, assessed and classified, all in strict accordance with the humours. As categories, they were only
approximate at the best, and there had been injustices, of course there had,
but that could not be helped […] Once the population had been split into
four groups, the land was divided to accommodate them. What had been
until then a united kingdom was broken down into four separate and autonomous republics. New borders were created. New infrastructures too.
New loyalties (Thomson, 2005: 11).
Sviluppando la definizione di “strategia spaziale” di Michel de
Certeau (1980),13 Van Houtum e Van Naerssen sottolineano inoltre
come la ‘costruzione’ di un ‘luogo’ si possa intendere come “an act of
purification, as it is arbitrarily searching for a justifiable, bounded
cohesion of people and their activities in space” (2002: 126, corsivo
mio). In linea con la teoria di Hobsbawm circa la “invention of tradition” (Hobsbawm and Ranger 1983), tutto ciò trova riscontro nelle
strategie di costruzione, simbolizzazione14 e flagging (per usare un’e-
13
“According to de Certeau”, continuano Van Houtum and Van Naerssen (2002:
126), “a strategy presupposes a place that can be circumscribed as one’s own (un propre), and that can serve as the base from which to direct relations with an exteriority
consisting of targets or threats such as clients, competitors, enemies and strangers”.
14
“People’s lives, both public and private, had been disrupted. They had to be given
something fresh, something clear and powerful, with which they could identify. It had
been decided the countries would be colour-coded. […] To strengthen the identity of the
four new countries, each had been provided with its own flag” (Thomson, 2005: 12). Appare degno di nota che il concetto di colour-coding si apparenti sia alla struttura logica
fondante del razzismo che a una simbolizzazione diffusa nella prassi cartografica.
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spressione di Michael Billig in Banal Nationalism [1995]) delle nuove
identità nazionali pretestuose e sintetiche dei diversi Quarters, nel
monitoraggio continuo della popolazione, e nelle pratiche di deportazione che ne conseguono al fine di evitare la tanto temuta “psychological contamination” (Thomson, 2005: 28). Questa infatti, riaffermando i valori di ‘porosità’ e ‘flusso’ caratteristici della tarda modernità ed esplicitamente obliterati nell’incubo post-politico di Divided
Kingdom, basterebbe da sola a far implodere quella ‘cultura dei confini’ che, da iniziale strumento teso a consolidare e perpetuare l’ordine tramite prassi culturali di inclusione ed esclusione, va assumendo
man mano, attraverso il processo di self-perpetuation 15, la centralità
di fine.
Il punto di vista di Van Houtum e Van Naerssen (2002: 126) risulta particolarmente suggestivo, ancora, là dove, ricorrendo al costrutto grafico di (b)ordering, esso propone di considerare il confine, che
è manifestazione simbolica di una “social practice of spatial differentiation”, non come una situazione ma come un processo, “an ongoing
strategic effort to […] continuously fixate and regulate mobility of
flows and thereby construct or reproduce places in space”. Anche il
modo essenzialmente coerente ma sempre diverso con cui Thomas
Parry nel romanzo guarda, vede, esperisce i molti (almeno dodici)
confini che descrive concorre, infatti, a definire un’interpretazione
della spazialità del border come processo di trasformazione e come
performance. Ciò non si manifesta soltanto nell’esplicitazione del timore atavico per lo spaesamento implicito nel border-crossing – la
paura di essere “tempted in some way – or altered”16, o la “old superstition about the border-crossing itself, that one might be mysteriously depleted by the experience, that one might lose a part of one-
15
Questa, infatti, è la tesi che Thomas avrebbe dovuto presentare al convegno di
Aquaville, “namely that the divided kingdom was self-perpetuating, and that the need for
transfer and relocation would eventually die away.[…] Place someone in an environment
for long enough and he starts to take on the attributes of that place” (Thomson,
2005:114). Deriva inquietante di questo processo di ‘naturalizzazione’ è il subentrare
pressoché automatico di un nuovo tipo di razzismo. Come afferma il personaggio di Fernandez (ibid.: 195-196)): “I’m not interested in the colour of someone’s skin. It’s their
thoughts that bother me. The new racism is psychological. […] If we don’t have someone
to despise, we feel uncomfortable, we feel we haven’t properly defined ourselves. Hate
gives us hard edges”.
16
Si veda anche il passo in cui Marie racconta della propria esperienza di attraversamento assieme al padre: “I remember standing on the other side. It looked the same, of
course – but it felt different. Completely different. Like the moon, or something” (ibid.:
90).
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self - that one might suffer injury or harm” (Thomson, 2005: 85)17. La
sua realizzazione più compiuta si ha invece nel modo in cui il protagonista ogni volta re-inventa discorsivamente la propria esperienza
di questi potenziali ‘non-luoghi’ (Augé: 1995) e li sostanzia di una
memoria che si fa essa stessa strategia di resistenza al servizio di una
geografia più umana.
Il primo confine che il protagonista vede dal treno mentre viene
relocated nel paese degli eletti, si configura all’inizio come un perfetto
‘non-luogo’: rappresentazione astratta che sembra destare nel bambino mera curiosità cognitiva, il border corre contestualmente al tracciato di una ferrovia “in the middle of nowhere” e ha le connotazioni
provvisorie di una partizione appena istituita. Ma, avvicinatosi al finestrino, Thomas è costretto a confrontarsi con la realtà archetipica del
‘Muro’, ciò che Doreen Massey (2004: 6) chiama “that particular imaginative geography: the Walled City (and who shall come in), the question of engagement in proximity, the question of hospitality”. Al bambino che sa di andare incontro all’incognita di una nuova vita in una
famiglia estranea non resta altra autodifesa che l’annullamento ‘magico’18 del tempo-spazio del presente in una conflagrazione fantastica:
Towards lunchtime, in the middle of nowhere, the train slowed down and
stopped. I could see no sign of a station, only an embankment bristling
with spear-shaped purple flowers.
“The border”, my companion murmured. I opened the window and looked
out. A poorly made wall of concrete blocks had been erected at right angles
to the track. Starting on level ground, it sloped up the embankment and
then vanished from sight. Two parallel lengths of barbed wire straggled
along the top, making the wall higher, and more difficult to scale. Soldiers
with guns stood in the Spring sunlight. Their shadows pooled around their
feet, blackening the stones. I pretended that everyone was melting (Thomson, 2005: 18; corsivo mio).
In seguito il border è inscritto nel territorio come luogo di perico17
Gardner (1995, riportato in Van Houtum e Van Naerssen [2002: 132]) commenta al
riguardo: “those who step across cultural and geographical boundaries are, in varying
degrees, likely to find themselves transformed. As we physically move, so do our personal and social boundaries shift; in this sense, migration involves a constant process of reinvention and self re-definition”.
18
Il ricorrere del motivo del binario o della piattaforma ferroviaria (per non parlare
poi del viaggio in treno) come momento d’inizio di un processo di border-crossing esperienziale ha un ruolo significativo nella rappresentazione contemporanea del liminale,
del magico e del fantasy. Nonostante la netta differenza di tono e di contesto, viene naturale pensare al binario 9 3/4 da cui parte il treno per Hogwarts nella fortunata serie di
Harry Potter.
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lo (“I saw the danger first, and shouted out. […] No more than fifty
yards ahead of us, the road broke off in mid-air” [ibid., 35]), in cui l’istituzionalizzazione dell’order of the police (Rancière: 2001) contribuisce a naturalizzare il rischio, rendendolo, anzi, formativo ed eccitante. Proiezione del trauma introiettato dalle giovani vittime del Rearrangement, il confine si configura così come spazio di elaborazione
del lutto in cui divenire adulti funzionali al sistema attraverso la performance taumaturgica di giochi di ruolo, definiti “border games” dal
Thomas adolescente:
We must have absorbed something of the atmosphere of the times, I suppose, since we invented a whole series of what we referred to privately as
‘border games’. […] We spent whole days out at the motorway, fortifying
our headquarters against intruders or thinking up variations on the border
game or just lying on our stomachs observing the guards (ibid.: 40).
In maniera analoga, l’angoscia che accompagna il passaggio di
Thomas dall’antico ruolo di vittima a quello nuovo di coadiutore del
sistema conferisce una sfumatura del tutto particolare, agghiacciante
e comica allo stesso tempo, alla descrizione del “Border Experience”
(il villaggio turistico con alberghi tematici, negozi di souvenir e fastfood sorto a ridosso del confine), che il protagonista incontra alla sua
prima esperienza come relocation officer: “Sanguine people came
from far and wide to climb the viewing platforms, each hoping for a
brief taste of life on the other side” (ibid.: 69). Le vetrine dei negozi
ostentano “ashtrays in the shape of watch-towers, and tiny, realistic
attack dogs made of china”, nonché T-shirt con davanti la scritta “I
came I saw I lost my temper. On the back, simply, Welcome to the Yellow Quarter” (ibid.).
Giustapposta alla mercificazione banalizzante della replica è la
realtà disumana della terra di nessuno che separa Red e Yellow
Quarter. Popolata di “life-size versions” dei souvenir descritti in precedenza, proprio in ragione di questo annullamento parodico di ogni
dimensione relazionale la no man’s land si fa corsia preferenziale
d’accesso all’atmosfera perturbante di cui Divided Kingdom si sostanzia: “It was in these eerie halfway places that one was able to appreciate the full power and extent of the Rearrangement, and it inspired
an inevitable reverence, a kind of aw” (ibid.: 70).
Così, invece, appare al ritorno la raffigurazione del confine ‘liquido’19 che attraversa Pneuma, il settore di Londra divenuto capitale del
19
Per la rilevanza del concetto di ‘liquidità’ nella costruzione dell’identità postmoderna, si veda Bauman (2000).
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Red Quarter20, che il protagonista guarda dalla sua posizione non ancora scossa di cittadino privilegiato, ma non per ciò privo di traumi:
I leaned over the stone parapet and looked out over the water. Had I been
able to swim across, I would have found myself in the Blue Quarter. There
had been a bridge here once, but it had been dismantled during the Rearrangement. Only bridges that complemented the partitioning of the city had
survived. […] in stretches where the river itself had become the border all
the bridges had been destroyed. The roads that had once led to them stopped at the water’s edge, and stopped abruptly. They seemed to stare into
space, no longer knowing what they were doing there or why they had
come. During my early twenties I was gripped by the sense of history that
emanated from such places; they were like abandoned gateways, entrances
to forgotten worlds. […] There were bridges down inside me too. There was
the same sense of brutal interruption (ibid.: 82; corsivo mio)21.
Un senso del margine solo in apparenza meno costrittivo di nuovo si scontra con la sintassi dell’impossibilità e con la nostalgia per
una Storia divenuta, con accenti orwelliani, inaccessibile. Ogni flusso, il nuotare come l’attraversare i ponti, è intercettato e impedito. I
ponti stessi e le strade, icone potenti della conducibilità e della comunicazione, vengono svuotati della loro missione semantica e, personalizzati, stanno a significare il senso di una geografia umana obliterata, violentata, letteralmente e metaforicamente interrotta 22.
La ‘brutalità’ di questa interruzione, il potenziale distruttivo della
manipolazione in termini spazio-temporali dell’identità collettiva di
un popolo si misura soprattutto attraverso il computo delle vittime, la
circoscrizione degli esclusi. In Divided Kingdom questi sono rappresentati dai White People, acromatici alla deriva in un universo colour-coded:
20
Riprendendo la metafora storica di Londra come grande ‘cuore’ della Gran Bretagna, ogni Quarter, infatti, ha come sede amministrativa una zona della ex metropoli,
quadripartita anch’essa.
21
Si veda quanto afferma Hayden Lorimer (2005: 89), riguardo alla capacità dei “ruined industrial sites” di superare “a visual aesthetic to suggest an invisible record of copresences, uncanny encounters and forgotten regimes of work”.
22
Si veda come la violenza dell’interruzione è rappresentata nella descrizione dell’ultimo confine attraversato nel romanzo: “Trains would once have passed this way, linking the northern suburbs of the old metropolis, but a section of the structure had been
knocked down to accommodate the border, and the railway line now came to an abrupt
halt in mid-air. Its one remaining arch, though monumental, served no purpose other
than to frame a view of the deserted road that ran adjacent to the wall. I had forgotten
how the city borders looked. They had an operating theatre’s ruthlessness. They were
bright, lonely places. Last places” (Thomson, 2005: 367; corsivo mio).
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They were society’s untouchable. […] The past had been taken from them,
as it had been taken from anyone alive at the time of the Rearrangement,
but these were people who had been either unwilling or unable to find a
place in the future. They didn’t fit into any quarter, […] or any humour.
They had ended up marooned between the old kingdom and the new one.
Lost in a pocket of history. […] Since they were perceived as having no character, they were deemed incapable of causing psychological damage, and
as a result they were allowed to cross borders at will, to wander freely from
one country to another (ibid.: 125; corsivo mio).
Inversione potente della secolare egemonia del ‘bianco’ sui ‘colori’ convenzionalmente attribuiti alle etnie ‘altre’, la rappresentazione
dei White People è una metafora evidente dello spaesamento e dell’esilio, della discriminazione, dello svantaggio e delle pratiche pervasive e violente di soppressione culturale che accompagnano da
sempre l’esperienza del nomadismo e dell’immigrazione. Ciò che
conferisce particolare profondità e suggestione all’immaginario di
Thomson è, piuttosto, la scelta di collegare il discorso politicamente
situato dell’emarginazione su base etnica ed economica a quello futuristico della globalizzazione: un discorso che è anch’esso ovviamente politico, ma più difficile da riconoscere in quanto tale – e pertanto da circoscrivere e contrastare – in ragione della sua consonanza con una svalutazione del passato e celebrazione acritica della modernità e del futuro che la mediatizzazione della sfera pubblica ha
trasformato in valori omologati. L’incapacità “to find a place in the
future” viene ridefinita, così, come colpa, e chi si è perduto nelle pieghe della Storia è condannato a restare escluso per sempre dalla
nuova geografia sociale23 della time-space compression (Harvey,
1989: 240).
Come afferma John Hoppe (1999, in Van Houtum e Van Naerssen
[2002: 133]), queste “displaced persons” (gli immigrati illegali, i sanspapiers, i senza tetto, gli zingari, i senza risorse) esistono solo come
‘fantasmi’, “unthinkable and diaphanous entities taking advantage of
the liminal, unauthorized and interstitial spaces […] – the remainders,
the excesses” di un mondo che, nel configurare e rappresentare nuove “imagined communities” (Anderson, 1991: 6), ha drammaticamente eliso la loro varietà di ‘differenza’, condannandoli a rimanere per
23
Si veda la seguente considerazione circa il percorso urbano seguito da un White
People (Thomson, 2005: 281): “He seemed to know the town in such detail - its recesses,
its hiding places. I realised that if I’d seen so little of the White People recently it was because they had mapped out an alternative geography”.
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sempre marginalizzati o semi-aliens (Van Houtum e Van Naerssen,
2002: 126).
La descrizione dei White People evoca inoltre ciò che Van Houtum e Van Naerssen chiamano “social production of spaces of difference and indifference. That what is beyond the self-defined differentiating border of comfort (difference) is socially made legitimate
to be neglected (indifference)” (ibid.: 129)24.
Thomson non esita a mostrare il lato oscuro di questa indifferenza. Lo fa attraverso l’immaginario atroce di un linciaggio (Thomson,
2005: 315-323), ma soprattutto iscrivendo il suo popolo di reietti nella geografia profonda del ‘Regno Disunito’ tramite l’inclusione di
centinaia di quei poveri corpi, ammassati in una fossa comune (ibid.:
312), entro la mappa alternativa – e potenzialmente sovversiva – della memoria.
Anche la risposta dei White People alle pratiche di soppressione
culturale che li hanno condotti a perdere la capacità di comunicare
verbalmente si manifesta come dedizione estrema ai valori dell’identità e del ricordo. Elevandosi a icona di ogni comunicazione clandestina, la sostituzione del linguaggio da parte dei White People con
una strana forma di comunicazione telepatica (“They were sending
pictures to each other in their heads. They were showing them to
each other as you might show photographs” [Thomson, 2005: 307]) si
rivela, infatti, invincibile strategia di resistenza di una cultura calpestata e minacciata di estinzione. Allo stesso tempo, evocando una
volta di più la concezione junghiana della psiche come “series of
images in the truest sense, not an accidental juxtaposition or sequence, but a structure that is throughout full of meaning and purpose”
(Jung, 1954 [1938]: § 187; in Kotsch, 2000: 230), il ricorso alla telepatia rappresenta l’atto di fede dell’autore nei poteri dell’immaginazione, nucleo centrale, irrinunciabile, della sua concezione dell’arte e
della sua definizione di ‘umano’.
A fronte dell’acromatismo dei ‘Bianchi’, la rappresentazione dell’immaginario cartografico, che costituisce il terzo asse portante del
romanzo, riporta a convenzioni che sono spesso colour-coded. In A
History of Spaces, John Pickles sostiene che “maps precede the territories they represent” (2004: 5) e “make palpable something without
24
“It is only when the socially ‘dirtified’ people, the ‘Heimatlosen’, […], knock at the
doors of our societies”, continuano Van Houtum e Van Naerssen (2002: 129), “that the
manifestation of the often covert and taken-for-granted principles of bordering is directly
asked for”.
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existence” (ibid.: 93). E aggiunge: “cartographers produce the real”
(ibid.: 95). Questo giudizio fa tornare alla mente le affermazioni nella già citata intervista a Lawless (2005: online) in cui Thomson riconosce la straordinaria qualità poietica della propria scrittura; ma esso
sembra applicarsi anche alla maniera in cui tale potenza creativa si
intreccia, per usare un’espressione di Joe Painter (2006: 346), con la
“cartophilia” dello scrittore. Nella medesima intervista (Lawless: 2005;
online), Thomson descrive i dubbi che hanno preceduto la scelta di
‘fissare” la topografia fantastica del “Divided Kingdom” tramite l’inclusione di mappe:
On the one hand, I thought the book could stand on its own without them,
and that to include them might suggest some kind of weakness in the vision. On the other hand, I know readers love maps. […] I would have felt
as though I was cheating the reader if I hadn’t fully imagined the new geographical reality. Not that I drew up every single border – but in London it
was important to have a fairly precise idea of where they were25.
Qui lo scrittore sottolinea la qualità ludica, essenzialmente decorativa e ridondante della sua finzione cartografica, ammiccando quasi a certe posizioni della teoria non-rappresentazionale (Thrift: 1996;
2004), con la sua enfasi sull’esistenza di un “affective realm of ‘wild
new imaginaries’, emerging from repertoires of sensation and emotion” (Thrift: 2004; in Lorimer, 2005: 90), e l’attenzione per i modi in
cui la vita sociale si esprime e si struttura tramite “shared experiences, everyday routines, fleeting encounters, embodied movements,
precognitive triggers, practical skills, affective intensities, enduring
urges, unexceptional interactions and sensuous dispositions” (Lorimer, 2005: 84). Non stupisce, allora, di ritrovare nel saggio di Lorimer
espressioni quali “the casting of emotion in cultural geography”
(ibid.) e, persino, “geography of the humours” (ibid.: 91), che parrebbero estrapolate da Divided Kingdom.
Ma se la cartina del Regno Unito posta in calce al libro e sul sito
web dedicato sembra confermare con la sua quadricromia prepotente una geografia da divertissement, puzzle e ‘monopoli’, altre mappe
sembrano rafforzare invece, entro il livello testuale del romanzo, il
25
Thomson procede così a definire la topografia della sua Londra: “I know that the
border between the Red Quarter and the Blue Quarter runs down Park Lane, for instance and that the Dorchester Hotel, if it was still standing, would be facing the wall. I know
that the border between the Red Quarter and the Yellow Quarter runs through Trafalgar
Square (there is a reference to Nelson peering out, one-eyed, over a tangle of barbed wire) and on over Hungerford Bridge” (Lawless: 2005; online).
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discorso della violenza identitaria che le carte geografiche possono
contribuire a istituzionalizzare e perpetuare. Il tragico gioco messo in
atto dai teorici della ‘Riorganizzazione’ rivela una sinistra consonanza
con le parole di John Morgan (2003: 445):
The state reinforces the ‘obviousness’ of the national territory through the
creation of the palimpsest of the national map, which is ‘logoized’ into an immediately recognizable symbol. Citizens are ‘corralled’ into certain identities
through the creation of discursive power effect around the lines of the map.
L’analisi delle mappe consente, inoltre, di vedere come in Thomson il discorso dei confini s’intersechi a livello implicito con l’immaginario geografico della islandness, mito identitario fondante della
cultura britannica che qui, però, è negato attraverso la soppressione,
proprio, della ‘porosità’ specifica del margine marino, non border,
ma boundary che circoscrive e mette in comunicazione al tempo
stesso. Non un solo accenno, nell’intero romanzo, autorizza a pensare che il ‘Regno Disunito’ sia un’isola, e questo perché l’istituzione
dei Quartieri, in cui è difficile non ravvisare allusioni al progetto politico della devolution, ha soppresso quella particolare forma di rappresentazione solidale del sé di cui la concettualizzazione delle società isolane si sostanzia. Mentre la hybridity feconda della islandness è obliterata dalle pratiche di uno stato poliziesco, la partizione
ridefinisce ogni settore come spazio di insularity, dalle connotazioni
negative di isolamento e di boundedness (Baldacchino: 2004).
Ciò appare evidente se si considerano le mappe dei singoli Quarters, presenti solo nelle edizioni a stampa del romanzo. Oltre a dialogare parodicamente con le cartine incluse nei Viaggi di Gulliver
[1726]26, queste immagini richiamano inequivocabilmente la rappre-
26
Riguardo alla storia degli inserti cartografici nei Gulliver’s Travels – rielaborazioni
fantastiche dell’Atlas Geographus di Hermann Moll (1708-1717), aggiunte alla prima edizione anonima del libro ad insaputa dell’autore (Bracher: 1944-45) –, si veda Bignami
(1996: 156), che sottolinea l’ambivalenza implicita nella rappresentazione cartografica, la
cui funzione è sì di rivelare, ma, talora, anche di nascondere: “in sostanza un anonimo
cartografo apportò alle carte di Moll quelle modifiche che si rendevano necessarie per
dare attuazione visiva alle descrizioni, intenzionalmente improbabili, date da Swift. Questi poi, nell’edizione del 1735 a cui fu apposto il suo nome, lasciò le fantasiose mappe di
viaggio, segnalando con ciò, si può supporre, il suo gradimento per quella che era, appunto, una corretta trascrizione grafica del desiderio, espresso a parole nel testo, di confondere il lettore”. Si veda, riguardo alla possibile ambiguità delle mappe, anche Doel
(2006: 345): “the power and resistance of maps resides in their capacity to seduce rather
than to produce; to lead astray rather than render visible; to disappear rather than to
make appear”.
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sentazione convenzionale della cartografia delle isole27, avvalorando
quasi l’assunto di Philip E. Steinberg (2005: 255) che “the modern, or
Westphalian, ideal of the state as territorially bounded, unambiguously governed by a sole authority and culturally homogeneous is a
profoundly insular vision” (corsivo mio)28.
Al contrario, la mappa con cui il lettore è invitato a ‘giocare’ sul
sito web – perfettamente sovrapponibile alla main island del Regno
Unito, e perciò restituita alla dimensione insulare – lo rimette in comunicazione con l’immaginario geografico di una realtà fondata, com’è normale che sia, sulla tensione tra memoria collettiva e configurazione del presente. Proprio come Odell (“the psychopomp”) aiuta
Thomas a riconciliarsi con la propria storia attraverso tre brevi racconti che servono a risanarne la psiche tramite un corto circuito spazio-temporale dello spaesamento simbolico, così il lettore è invitato a
esplorare nello spazio liminale del web nuove geografie del possibile.
Cliccando sul territorio virtuale del ‘Divided Kingdom’ senza link
evidenti a far da guida, il visitatore avrà compiuto alla fine un vero e
proprio ‘viaggio’, trasformando la contemplazione passiva della mappa, come propone la critical cartography, in esperienza, prassi e performance (Del Casino and Hanna: 2006, online)29.
Solo allora forse, affidandosi a quel potere dell’immaginazione
27
Un’ulteriore riprova del fatto che i singoli quartieri nel romanzo sono concettualizzati a tratti come isole si può avere dall’episodio in cui Victor e Marie, i nuovi parenti di
Thomas, decidono di compiere a piedi, seguendo il confine, l’intero periplo del Red
Quarter (“He was curious about the dimension of the ‘cage’. […] They had walked nearly
seven hundred miles. It had taken them most of the summer” [Thomson, 2005: 90]). Il
racconto, nonostante l’ovvia inversione di prospettiva, induce a riflettere circa le seguenti osservazioni di Peron (2004: 331): “A small island asks to be inventoried, and the first
thing new inhabitants do – like Robinson Crusoe or Tom Hanks in the film Castaway
(2001) – is to undergo a symbolic rite of ownership, measuring every contour, pacing out
the distances, discovering the length of the coastline for themselves and getting to know
it physically in all its twists and turns”.
28
Steinberg (2005: 260) cita come riprova della difficoltà incontrata dai cartografi rinascimentali a rappresentare la Gran Bretagna come isola costituita dai due diversi regni
d’Inghilterra e Scozia il fatto che “many portolan chart-makers ‘solved’ this dilemma of
one island being split between two sovereigns by simply dividing Great Britain into two
islands”.
29
“The appropriation of Thrift’s (1996) non-representational theory by cultural geographers”, scrivono Del Casino e Hanna (2006: 43), “tends to presuppose an ontology of
real emotions, experiences, and senses that somehow make representations less real. As
Nash (2000: 655) argues, non-representational theory moves away from a concern with
representation and especially text, since, Thrift argues, text only inadequately commemorates ordinary lives since it values what is written or spoken over multisensual practices and experiences”.
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che sa farsi parola e segno, si potranno inventare “new maps for new
worlds” (Pickles, 2004: 183), riuscendo a produrre, come auspica Nigel Thrift, “new sequences of strange and charmed”, “new maps of
together” (Thrift: 2004; in Lorimer, 2005: 90). Questo punto di vista
costituisce anche una preziosa chiave d’accesso all’universo poetico
di Thomson, il cui asse ruota intorno all’idea di narrativa come risk
taking ed esplorazione vertiginosa della spazialità del margine, di
quel “brink of believability” (Lawless: 2005; online) al di là del quale
giacciono “the mystery and beauty of being alive”: una verità che
spesso trascende “our conscious experience”, ma che l’arte riesce talvolta a illuminare tramite coraggiose azioni di trespassing.
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Maurizio Disoteo
CANNIBALI E VAHINÉ: COME SIAMO CAMBIATI CREDENDO
DI CAMBIARE GLI ALTRI. UNO SGUARDO MUSICOLOGICO
PER UNA STORIA INTERCULTURALE1
1. La costruzione dell’immaginario coloniale
Il titolo di questo saggio è preso a prestito da un libro di Roger
Boulay uscito in Francia nel 2000, a cui ha fatto seguito una mostra,
tenutasi a Parigi tra il 2001 e il 2002.
Il cannibale e la vahiné costituiscono i due opposti dell’immaginario coloniale che, nei decenni tra otto e novecento, dominò la scena europea.
All’immagine del selvaggio violento e non solo ritualmente cannibale, si contrapponeva quella della vahiné, donna dolce e seducente,
di costumi sessuali liberi, rappresentata spesso con la carnagione
non troppo scura e con uno strumento musicale tra le mani (in genere l’ukulele).
In parte, questo immaginario dualistico, confuso e mistificatorio,
era un riadattamento di alcuni miti storici della società occidentale e
delle loro opposizioni, proiettate sull’“altro”: il piacere e la maledizione, la bella e la bestia, l’inferno e il paradiso, sino a risalire ad Adamo ed Eva.
L’immaginario coloniale, costruito attraverso le testimonianze e i
diari di viaggio di esploratori, amministratori e missionari aveva
dell’“Oriente” e dei suoi costumi un’idea decontestualizzata e non
reale. In questo “Oriente” che andava dal mondo arabo sino ai mari
del sud passando per l’India, per il Giappone e le Filippine, c’era di
tutto, si mescolavano culture e tradizioni diverse, in una fiera multicolore di rara fantasia.
Tale immaginario affiancava alla repulsione e alla paura suscitata
1
Il presente saggio, con pochissimi cambiamenti, è tratto dal testo: S. Rabuiti, C.
Santini, L. Santopaolo (a cura di): Intrecci di storie. Patrimonio, storia, musica. Atti del
Seminario di formazione nell’ambito della XII Scuola Estiva di Arcevia, 25-30 agosto
2006, pag. 211- 223. Si ringrazia l’Associazione Clio 92, organizzatrice della scuola estiva,
per averne autorizzato la pubblicazione in questa sede.
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dal “cannibale”, l’attrazione per la realtà esotica “luxe, calme et volupté” sognata da Baudelaire e prima ancora da Hugo nelle Orientales, ma anche rappresentata nei quadri di Delacroix o Gauguin (e anche Matisse, nel 1904, metterà su tela “luxe, calme et volupté”). Questa attrazione era, in modo piuttosto ingenuo ma efficace, rappresentata dalla vahiné. Se si sfoglia la stampa, compresa quella destinata ai
ragazzi, si scopre che l’ìmmaginario del cannibale e della vahiné è
stato proposto a lungo, in alcuni casi sino agli anni cinquanta. Ancora oggi, le confezioni di bagno doccia che abbiamo nelle nostre case
si chiamano “Tahiti douche” e al supermercato comperiamo frutta
secca marca “Vahiné”, mentre la grande confusione dell’epoca coloniale continua quando si vede che un’importante marca di cosmetici
produce un bagno schiuma “ai frutti dei mari dell’Oceania” che porta
il nome di una città dell’Argentina.
Non a caso, Billy Wilder, nel 1959, completa la prorompente sensualità di Marylin Monroe-Zucchero di A qualcuno piace caldo proprio mettendole tra le mani un ukulele.
In ogni caso, è evidente che, nei decenni tra otto e novecento,
mentre la propaganda coloniale mascherava la bassezza e la brutalità
delle imprese d’oltre mare con un presunto “ruolo civilizzatore”, si
sviluppavano in Occidente anche l’interesse e l’attrazione per le terre
esotiche e lontane che via via si scoprivano.
Tetimonianza di questo interesse e anche occasione di ravvivarlo,
furono le diverse esposizioni internazionali e coloniali che si svolsero
proprio nel crinale tra i due secoli nelle principali città europee, ma
anche negli Stati Uniti, come nel caso dell’esposizione del 1906 a St.
Louis, dove furono messi in mostra anche “selvaggi” in carne ed ossa.
Tali esposizioni, associate alla vasta pubblicistica editoriale, contribuirono non solo a incuriosire il pubblico occidentale sugli usi e i
costumi dei popoli colonizzati ma, almeno in alcuni casi, furono l’occasione per artisti e musicisti di avvicinarsi alla musica e alle danze
dei popoli colonizzati.
Come ha osservato tra l’altro Susanna Pasticci (2005) il fatto che il
“primitivo” fosse decontestualizzato e privo di connotazione antropologica, ne accrebbe la funzione propulsiva perché in tal modo egli
era in grado di emanare una suggestione espressiva fortissima proprio a causa dell’indeterminatezza della sua reale identità.
2. Musica europea, musiche non europee: annessioni e influenze
Passiamo quindi a esaminare le articolazioni musicali dei processi
che ho sinteticamente descritto, portando in particolare l’attenzione
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sulle influenze e sulle modificazioni che la musica dei paesi non europei ha esercitato sulla musica europea, con attenzione prevalente
alla tradizione cosiddetta “colta”. Questo perché in tale ambito le influenze, contaminazione e scambi sono stati meno esplorati che negli altri repertori.
In realtà, sappiamo che già dall’alto medioevo si praticavano in
Europa dei generi musicali e coreutici che richiamavano le pratiche
di paesi lontani, come per esempio la moresca; verso il diciassettesimo secolo invece nelle suite entrarono, in forma stilizzata e rielaborata, danze di lontana ispirazione come la ciaccona o la sarabanda. In
seguito, l’espansione politico-militare dell’impero ottomano portò
con sé il periodo delle turcherie, intese sia come stile musicale che
come uso di determinati timbri e strumenti, che coinvolse autori importanti come Lully, Mozart o Rossini. Non è un caso che a Vienna
alcuni pianoforti fossero dotati di una curiosa “musica turca”, costituita da un marchingegno di tamburo e cembali.
Tuttavia intendo, come ho accennato, concentrare l’attenzione su
un periodo successivo, che può meglio tratteggiare i diversi atteggiamenti dei compositori rispetto alle musiche non europee e darci anche qualche possibile insegnamento sulla situazione attuale del rapporto tra le culture.
In realtà, se guardiamo ai compositori tra otto e novecento, non è
difficile cogliere due tendenze distinte: una in cui il riferimento all’Oriente si limita a citazioni letterarie nei titoli e a situazioni effettistiche, senza che il linguaggio musicale si modifichi sostanzialmente e
altre in cui invece lo sguardo sulle altre culture comporta una modificazione della scrittura.
Diversi compositori, già dai primi anni dell’ottocento, propongono testi ispirati all’Oriente: Il Califfo di Bagdad di Boieldieu è del
1800 (ed esiste anche Il barbiere di Bagdad di Peter Cornelius), L’Italiana in Algeri di Rossini è del 1813, ma questi riferimenti non intaccano il linguaggio musicale che resta pienamente occidentale. Egualmente si può dire per composizioni come le Images d’Orient di Schumann, scritte ricordando un viaggio in Russia, ma nelle quali non si
percepisce alcun elemento strutturale che possa far pensare a culture
asiatiche.
Esiste poi il celebre caso dell’Aida, opera linguisticamente occidentale, la cui prima mondiale si tenne al Cairo nel 1871 per celebrare l’apertura del canale di Suez. Questa opera si colloca nel solco già
tracciato da lavori precedenti, in cui l’Oriente è rappresentato attraverso messe in scene grandiose e musiche magniloquenti, ma senza
che vi sia alcun reale coinvolgimento della sintassi musicale o delle
strutture tonali. Edward Said ha dedicato pagine molto interessanti ad
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Aida, mettendone in luce l’atteggiamento culturalmente annessionistico, che non è sul dominio imperiale ma che è parte di tale dominio. A fianco di una messa in scena grandiosa, l’Oriente è rappresentato secondo i canoni più banali dell’immaginario europeo, con un
bestiario bizzarro, sacerdotesse ambigue e un finale crudele e terrificante; la fastosità dell’opera, secondo Said, vuole, alla fine, celebare
la grandezza delle imprese coloniali.
Colpisce che l’anno della prima dell’Aida coincida con la pubblicazione del testo fondatore dell’antropologia evoluzionista: Primitive
Culture di Tylor.
In effetti l’antropologia evoluzionista, postulando che le diverse
culture sono in realtà momenti diversi dell’evoluzione di un medesimo percorso (dove la più evoluta è naturalmente quella europea) dava a tutti i popoli dignità culturale, ma per converso offriva un’implicità sponda ai sostenitori del ruolo “civilizzatore” del colonialismo,
che avrebbe aiutato i popoli arretrati a uscire dalla loro condizione.
Non credo che Verdi abbia mai letto i testi di Tylor, ma certo la sua
opera appare vicina a quel contesto culturale.
La seconda tendenza musicale a cui ho accennato è invece quella rappresentata da compositori in cui l’interesse per l’Oriente comporta anche un cambiamento del linguaggio musicale.
Tutte le storie della musica citano l’importanza che ebbe per
Claude Debussy la visita all’esposizione internazionale di Parigi del
1889, durante la quale conobbe le musiche balinesi e vietnamite, da
cui restò affascinato. In Debussy l’interesse per le musiche orientali si
manifesta tangibilimente nella scrittura, in particolare attraverso l’uso
di scale tratte o ispirate a tali culture. Ne sono esempi evidenti il brano iniziale dei Nocturnes per orchestra (Nuages), il tema principale
di Pagodes, dalle Estampes, o ancora Brouillards, che impiegano una
scala “cinese”. Più in generale, molte altre opere di Debussy offrono
all’ascoltatore aperture sull’Oriente; a questo proposito basti pensare
come si può inutilmente cercare in Debussy segno delle risoluzioni e
delle chiusure cadenzali a cui era abituato l’orecchio classico-romantico.
Purtroppo, il riferimento all’Oriente nella scrittura debussiana è
stato visto sovente in modo riduttivo, come esito di un fortunato episodio biografico, e non ricollegato adeguatamente a un contesto più
generale in cui erano mature le condizioni di un cambio di paradigma nel mondo della composizione europea.
La storia della musica viene ancora troppo spesso rappresentata
come una sequenza lineare di avvenimenti e di trasformazioni graduali, quasi tutte autocentrate ed eurocentrate; l’abbandono del sistema tonale e la ricerca di nuove modalità espressive viene persistente-
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mente descritto come un processo di “progressivo allargamento” della tonalità, fino a che questa si lacera e si dissolve. In sostanza, si individuano delle indiscutibili cause endogene e interne al sistema musicale europeo, ma si ignorano i momenti di frattura improvvisa, dovuti a eventi europei, ma anche alla conoscenza di altre culture.
Mi chiedo se l’abbandono della tonalità da parte dei compositori
europei non sia da vedere come un cambio di paradigma nel senso
kunhiano, frutto del crollo delle credenze sulla musica condivise sino
alla fine dell’ottocento.
Il fatto stesso che Debussy visiti un’esposizione internazionale va
inscritto nel contesto culturale dell’epoca e non può essere considerato un caso. Un contesto in cui, per esempio, nel 1885, uscì il testo
On the musical scales of Various Nations di Alexander Jhon Ellis che
proponeva uno studio comparativo delle scale musicali dei differenti
popoli. Questo studio, che può apparire oggi scontato nella sua affermazione della varietà delle scale usate nel mondo, aveva all’epoca
un significato di relativizzazione del sistema tonale temperato europeo. Tale studio, peraltro, coincide con la diffusione del fonografo
come strumento di ricerca che, seppure allora ancora in modo assai
approssimativo, permetteva finalmente la registrazione sul campo.
Il caso di Debussy, quindi va collocato all’interno di un momento
generale di messa in discussione della tonalità e delle sue regole come paradigma compositivo, in cui, credo, non si possa non riconoscere il ruolo giocato dalla conoscenza delle culture non europee.
Per altro, in contrasto ad altri autori già citati, per i quali il riferimento all’Oriente era rimasto legato ad aspetti superficiali, prima di
Debussy alcuni compositori, anche se meno noti, si erano riferiti ad
altre culture assumendone alcune caratteristiche come elementi strutturali del proprio lavoro. Un compositore interessante, a questo proposito, é Félicien David che, dopo un soggiorno in Egitto, dove fu
missionario, presentò già nel 1844 la sua cantata Le Désert, in cui
sfruttò la conoscenza diretta della musica egiziana per inserire alcune
parti basate su maqam arabi. Anche Camille Saint-Saëns utilizzò diverse idee tratte dalla musica dei paesi arabi, che aveva frequentato,
tanto da essere soprannominato “l’Egyptien”: Si vedano a questo proposito il Quinto concerto per pianoforte e orchestra op. 103 o la Suite Algerienne.
3. Una nuova concezione della musica
Un altro effetto della conoscenza delle musiche non europee fu
l’allargamento del concetto di musica, assai diverso nelle varie cultu-
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re, ma anche, nel tempo, all’interno di una stessa cultura. La conoscenza non solo delle scale, ma degli stili vocali, delle sonorità, degli
strumenti extraeuropei provocò una diversa concezione, in Europa,
di cosa potesse essere incluso nel concetto di musica.
Questo fatto si rispeccchia con grande evidenza nella musica dei
primi anni del novecento, caratterizzati da una grande difformità di
stili, metodi di composizione, orientamenti di ricerca.
Le ricerche americane di Ives e gli esperimenti rumoristici di Russolo sono contemporanei alle ultime sinfonie di Mahler, cosi come
l’Erwartung di Schoenberg e il Terzo concerto per pianoforte di Rachmaninov.
Andando più avanti, negli anni venti, la Turandot è eseguita un
anno dopo Integrales di Varèse (Vineis, 2006). Una grande diversità
che, tuttavia, testimonia la residualità del sistema tonale rispetto a
nuove esperienze e nuove concezioni musicali.
In tempi più recenti, si è dato grande risalto all’importanza dell’incontro con le filosofie orientali per il lavoro di Cage, e alle attenzioni
di Stockhausen per tale universo culturale.
Questo non deve farci dimenticare che il percorso tra Debussy e
tali autori è costellato di lavori in cui i compositori europei trovano
fonte di ispirazione e di rinnovamento del linguaggio in culture non
europee. Milhaud, Messiaen, Jolivet e molti altri autori utilizzano
idee, modi, ritmi che provengono dal Sud America, dall’India e dall’Africa.
Tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere le profonde differenze di
contesto, relative al rapporto tra i popoli, in cui operavano gli autori
della seconda metà dell’ottocento e dei primi anni del novecento rispetto a quelli dei decenni successivi, sino a risalire a oggi.
L’Oriente, confuso e decontestualizzato, a cui guardavano i compositori tra otto e novecento aveva le caratteristiche di un mondo in
gran parte coloniale, non privo di una certa forza d’attrazione e di
suggestione immaginaria, ma alla fine abitato da popoli che venivano
considerati come “arretrati”. Questo spiega perché potevano, per
esempio, nascere operazioni come Aida, a cui ho già fatto riferimento. L’accogliere in maniera profonda messaggi musicali che venivano
dall’Oriente era lasciato alla sensibilità personale del compositore illuminato, come nel caso di Debussy.
Nei decenni seguenti si verificano due grandi cambiamenti; uno
musicologico e uno politico, quest’ultimo probabilmente ancor più
importante per i suoi esiti.
Il primo fatto è lo sviluppo degli studi musicologici e la nascita
dell’etnomusicologia, (questo termine tuttavia sarà coniato solo agli
inizi degli anni cinquanta, dato che prima si parlava di musicologia
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comparata) che prevede lo studio delle differenti musiche nel loro
contesto e a partire dai loro principi linguistici specifici.
Il secondo, di carattere politico, è costituito dalle lotte di liberazione dei popoli colonizzati che percorrono gli anni cinquanta e sessanta. Le lotte di liberazione di quegli anni cambiano completamente
il rapporto politico e culturale tra l’Europa e i paesi (ex)colonizzati: i
popoli che vi abitano e le loro culture diventano protagoniste della
storia. L’Algeria non è più quella visitata da Saint Saëns né il Vietnam
è più solo quello delle musiche esotiche amate da Debussy: é il Vietnam di Dien Bien Phu che si opporrà in seguito agli Stati Uniti. Le
lotte anticoloniali portano alla ribalta una generazione di nuovi intellettuali dei paesi arabi, africani e asiatici che rivendicano e sottolineano la loro diversità rispetto all’Europa; anche la musicologia deve
guardare con occhi diversi a tali paesi e culture.
Questi fatti porteranno, nel 1968, l’antropologo Vittorio Lanternari a parlare di “Occidente acculturato dal terzo mondo”, in cui si diffonde la consapevolezza che l’Occidente non può più essere considerato come unico centro di cultura ed “elargitore di valori” (Lanternari, 1973).
Possiamo quindi trarre vari insegnamenti dalle diverse situazioni
tratteggiate: la prima è che comunque, anche nel momento in cui
l’Europa pensava di “cambiare gli altri” con il colonialismo, in realtà
esisteva anche una retroazione delle culture dei paesi colonizzati che
modificava e influenzava l’evoluzione della musica occidentale. Dopo il periodo dei grandi movimenti di liberazione con i quali tali popoli riprendono in mano la loro storia, i termini del rapporto cambiano. L’attenzione di Cage o di Stockhausen verso le filosofie o le culture orientali non è di soggettiva e individuale valorizzazione di tali
culture, perché esse ormai sono su un piano valorialmente paritario
rispetto a quella occidentale. Quando Berio si accosta a diversi stili e
metodi di canto dei diversi popoli e compone Coro, lo fa in una concezione paritaria della storia delle diverse culture, fondando il suo lavoro, tra l’altro, su informazioni precise sulle culture musciali “altre”
che gli giungono dall’etnomusicologia. Le altre culture non hanno
più, forse, il fascino esotico del “primitivo” generico e decontestualizzato di cui parlavo in precedenza, ma sono collocate in un luogo e in
momento determinato e il confronto con esse si pone su un piano di
eguale dignità culturale.
Probabilmente, per usare una metafora proposta in un recente libro di Marco Aime, il compositore è più Gulliver e meno Robinson
Crusoe (Aime: 2006).
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4. Esotismi nel mondo pop
Mi sono riferito sinora, in modo praticamente esclusivo, al percorso della musica “colta” europea, ignorando volutamente quanto accaduto nel mondo di quella che oggi viene definita musica popular.
Le influenze dell’ìmmaginario coloniale, ma anche della vera musica dei paesi coloniali sulla musica pop europea é comunque molto
evidente. Probabilmente, tanto evidente da essere quasi inestricabile
dalla storia del pop nel suo insieme. Nel caso del pop, tuttavia, a
fianco dell’uso di testi confusi nella descrizione di ambienti caratterizzati da palmizi, spiagge incontaminate, donne voluttuose e cibi
esotici, il punto di riferimento, dal punto di vista musicale, appare essere più che altro il repertorio musicale sud americano e caraibico.
Le orchestre che si ispiravano, con riferimenti musicali più o meno
legittimi, a Cuba e al Sud America sono state ben presenti in un arco
di qualche decennio nel panorama musicale europeo e italiano. Punto di riferimento, anche se non unico. di questo vasto movimento
musicale fu il compositore cubano Ernesto Lecuona, che compì anche numerose tournées in Europa con il suo gruppo dei “Lecuona
Cuban Boys”, in cui tentò anche di farsi assumere, sembra fingendosi sudamericano, Alberto Rabagliati. Quest’ultimo, peraltro, fu interprete di numerose canzoni di successo scritte utilizzando melodie di
Lecuona, in cui alla musica venivano abbinati testi che proponevano
riferimenti a un immaginario esotico di collocazione piuttosto dubbia, suddiviso tra Caraibi e Africa, e orchestrazioni altrettanto bizzare
e ingenue (per esempio Maria La O e Tabù). Questa invasività straniera fu molto mal vista dal regime fascista, che praticamente tagliò
dalle programmazioni radiofoniche questo genere di canzoni ritenute troppo esotiche.
Nonostante questi divieti, tuttavia, l’influenza delle musiche non
europee sul repertorio pop è stata comunque rilevante, probabilmente ancora più che sulla musical colta. Intere melodie e canzoni
sono state prese di peso e riproposte, magari con un testo cambiato2.
2
Escludo volutamemte da questo intervento i riferimenti alle influenze e suggestioni provenienti dal jazz, che per il loro rilievo dovrebbero costituire oggetto di un contributo specifico.
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5. Le relazioni interculturali tra egemonia, riappropriazioni, trasformazioni
Dunque, la storia delle modificazioni della scrittura musicale europea nel contatto interculturale è lunga e feconda. Abbiamo visto
come già nel periodo coloniale, in cui l’Europa non si limitava a esercitare un’egemonia culturale, ma era anche presente in quanto dominatrice diretta, dal punto di vista politico e militare, il flusso culturale
non fu affatto a senso unico, dall’Europa verso le colonie, ma ebbe
anche dei percorsi inversi. L’azione delle culture non europee divenne poi ancora più massiccia nei decenni successivi e nel periodo della decolonizzazione. L’esistenza di flussi inversi a quello, tradizionale, tra culture egemoni e culture subalterne deve far riflettere, oggi,
sulle teorie che sostengono che la globalizzazione comporti l’omologazione delle culture locali a una cultura musicale “globale”. A parte
la difficoltà di definire quali siano realmente le caratteristiche di tale
cultura “globale” in un panorama musicale dove le barriere tra i generi e gli stili sono sempre più in discussione, mi sembra quantomeno discutibile pensare che il flusso culturale sia improvvisamente diventato univoco. Probabilmente i sostenitori di tali teorie non si avvedono del fatto che gli elementi musicali di quella che può essere
considerata oggi la cultura egemone, nel momento in cui entrano in
quelle locali, sono spesso riadattati e rimodellati. Se certamente esiste
un fenomeno di egemonia culturale della musica pop angloamericana, è però anche vero che esistono anche dei flussi contrari e che
spesso le culture locali si pongono verso la cultura egemone in termini di riappropriazione utilizzando elementi di tale cultura per trasformarsi e vivificarsi, con un atteggiamento ben diverso dalla passività. Non vedere questi fenomeni di vitalità delle culture locali può
sconfinare nell’apologia dell’imperialismo culturale che tutto domina
e tutto inghiotte. Se questo è evidente nel mondo pop, per esempio
nelle forme di riappropriazione del rap da parte dei giovani africani,
lo è anche nella musica “colta” dove pratiche e metodi di scrittura
provenienti dall’Europa sono reinterpretati e rivivificati dai compositori locali.
È necessario ora passare a chiedersi cosa significhi la coscienza
della ricchezza di queste relazioni interculturali rispetto ai percorsi di
insegnamento della storia.
Un primo dato, direi palese, è che la conoscenza di tali scambi ha
un significato interculturale. È importante conoscere gli arricchimenti che sono venuti alla nostra cultura dalle altre e valorizzare le conessioni e gli incroci che la storia ci ha proposto. Ho voluto scegliere un tema che mi sembra importante e centrato soprattutto su alcu-
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ni momenti significativi perché credo che la storia della musica (e
probabilmente la storia nel suo complesso) non debba essere concepita come una sequenza di eventi lineari, tutti uguali e della stessa
importanza, ma che esistano dei momenti di svolta che ne cambiano
la direzione Non sono un esperto di insegnamento della storia, tuttavia credo di poter sostenere che è necessario soprattutto dare agli
studenti delle conoscenze significative che permettano loro di orientarsi all’interno della storia e di capire quali siano le ragioni per cui il
mondo è mutato e quali siano i momenti che sono stati più “forti” di
altri.
In questo quadro, è bene puntare i riflettori su quei momenti che
hanno avuto maggiore rilevanza per la nascita di cambiamenti importanti, sui momenti di frattura, oppure su problematiche che hanno
una rilevanza particolare. Ecco il perché dell’argomento che ho scelto per questo intervento.
Esistono anche altre ragioni per cui credo che gli insegnanti di
storia possano guardare con interesse all’uso della musica come fonte documentaria e come possibile complice del loro lavoro.
La musica, come tutte le arti, è parte fondamentale della formazione della personalità e dell’identità; essa si basa sul pensiero estetico,
che ricompone in sé emozione e razionalità, corpo e mente, che troppo spesso sono scissi nella nostra società. Inoltre la musica ha il potere di portare nella scuola l’emozione artistica ed estetica, che crea motivazione e apprendimento. Mi riferisco in particolare, a questo proposito, allo sviluppo di quelle forme di pensiero che Bruner include
nel pensiero narrativo, sede delle emozioni e delle narrazioni.
Sheperd ci insegna che “la musica è nella storia come la storia è
nella musica”; questo è vero, ma vorrei proporre una riflessione ulteriore su come la musica si rapporta alla storia e ai suoi eventi.
Comporre musica è un atto creativo, che si fonda, come ho detto
sul pensiero estetico, che trasforma l’emozione in un messaggio razionale, comprensibile e fruibile. All’interno di questo processo, il
compositore esprime un proprio punto di vista sulla realtà o su un
fatto. La musica diventa così fonte storica nell’offrirci il punto di vista
dell’artista sul mondo e sui suoi eventi, una visione soggettiva, diversa evidentemente da quella dei normali metodi di ricerca storica, ma
originale e arricchente. Questa possibilità, tra l’altro, è particolarmente significativa per il novecento, dato che i compositori hanno partecipato profondamente a tutti gli eventi del secolo, prendendo in particolare posizione sul tema della guerra e della pace. È falso quanto
si legge in alcuni testi secondo i quali i compositori, nel novecento,
si sarebbero estraniati dalla realtà e rinchiusi in un linguaggio autore-
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ferenziale; al contrario è stato il secolo di maggiore attenzione dei
musicisti alla realtà storica e sociale.
6. Questioni di metodo
Resta, infine, il problema del metodo con cui proporre la musica
nelle sue complicità con l’insegnamento della storia.
Personalmente sono particolarmente contento che degli insegnanti di storia s’interroghino sull’importanza che la musica può avere nell’ambito del loro insegnamento, tuttavia comprendo l’imbarazzo che li colglie di fronte alle necessità di usare un linguaggio in cui
non sempre si sentono adeguatamente competenti. Questo è un problema che si trascina negli ordinamenti della scuola italiana, dove, a
parte eccezioni, solo nel segmento della secondaria inferiore sono
presenti insegnanti che hanno avuto una formazione musicale. Il
problema, evidentemente, non è quello di individuare singoli brani e
momenti nella storia della musica che possono essere utili, bensì
quello, una volta fatta tale scelta, di presentare la musica a partire dai
suoi principi linguistici specifici.
In particolare, si avverte la necessità di oltrepassare l’analisi dei
testi verbali di canzoni e prodotti musicali e di lavorare sugli elementi strutturali propri del linguaggio musicale. Questa esigenza mi sembra particolarmente importante quando si vuole affrontare la musica
cosiddetta “colta”, ma riguarda comunque tutti i repertori, in quanto
anche nella canzone d’autore o nel mondo pop la parola intrattiene
rapporti con la musica non certo secondari rispetto al significato finale del prodottto musicale, che si cotruisce proprio in tale interazione.
Anche nei casi in cui un prodotto musicale ha un riferimento
esplicito a un fatto storico (come per esempio nei casi de Il canto sospeso di Nono o Un sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg), si pone come un prodotto dotato di una sua autonomia artistica e che ha
una dinamica interna che deriva dai principi del linguaggio musicale.
La musica guarda al mondo con sguardo estetico; è nella storia ma la
legge con il proprio punto di vista.
Si tratta evidentemente di un problema di non facile risoluzione,
ma che si deve in ogni caso affrontare se si vuole dispiegare veramente tutta la potenzialità che può venire dal contatto tra storia e
musica. In questo senso, oltre alle soluzioni istituzionali più “alte”,
pesno che possa essere interessante anche sfruttare gli spazi programmatici che sono consentiti dalll’autonomia scolastica ai singoli
istituti.
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Claudia Gualtieri
RIFLETTENDO SULL’AFRICA, SULLE AFRICHE,
DA UNA PROSPETTIVA DI STUDI CULTURALI1
Nella geografia e nella storia dell’impero britannico l’Africa è un
continente sconosciuto da scoprire e conquistare. Ma altre geografie
e storie raccontano, per esempio, dell’Africa della diaspora nera, sottostimata dalla storiografia ufficiale, che riemerge negli scritti degli
ex-schiavi e nelle analisi dei teorici culturalisti. Ci sono le Afriche delle cerimonie tradizionali, tante quante sono le culture africane: per
esempio, il Mbari presso gli ibo della Nigeria, di cui racconta Chinua
Achebe in Hopes and Impediments e i racconti orali, le poesie e i canti di Gcina Mhlophe e Werewere Liking, voci che vengono dal Sudafrica e dalla Costa D’Avorio. C’è anche l’Africa delle nuove diaspore e
delle migrazioni in massa, che porta alla ribalta della scena internazionale nuove forme di schiavitù degli africani da parte degli africani
stessi, nelle pratiche contemporanee delle “boat people”. È un’accusa
agli africani lanciata da Sembène Ousmane in un’intervista con Itala
Vivan. Il celebre regista senegalese imputa inoltre ai paesi tecnologicamente avanzati il persistente sfruttamento dell’Africa trattata come
“il tubo digerente del mondo” (Vivan: 2005, 19). Tanti sono gli sguardi, i punti di vista sull’Africa, che non compongono un’immagine uniforme ed esaustiva se non nella forma cristallizzata dello stereotipo
coloniale. E tante sono le identità contaminate che dalla “blackness”
si sono formate e che ora, come sostiene Stuart Hall, sono “centred”
(Hall: 1996, 114), posizionate nel cuore dell’ex-impero (la Gran Bretagna contemporanea) e al centro del dibattito contemporaneo sull’identità, del quale sono attrici primarie.
Sembra utile raccogliere diverse suggestioni culturali che provengono dall’Africa oggi. Tra queste suggestioni, alle tante Afriche e alle
loro culture e letterature si rivolge lo sguardo attento degli intellettuali nelle accademie, come è dimostrato, in Italia, dal proliferare di cor1
Questo saggio prende spunto da un intervento presentato alla “Giornata di studi
sulle letterature africane di lingua inglese”, organizzata il 13 ottobre 2006 dal Centro interdipartimentale di teoria e storia comparata della letteratura dell’Università di Bologna
e dall’Associazione culturale italo britannica di Bologna.
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si di studi culturali, che propongono nuovi modi per leggere l’Africa,
le Afriche, l’Africa dentro l’Europa e la black Britain. In questo contesto, si propone qui una riflessione sulle Afriche secondo una prospettiva culturalista con uno sguardo particolarmente attento alla situazione della didattica nell’università italiana. Infatti, se non si afferma nulla di nuovo parlando di “Africa” al plurale, certamente si sostiene una posizione condivisibile riguardo alla varietà e alla complessità dei modi in cui si può insegnare l’Africa nell’università. Di
questi due aspetti collegati, una riflessione culturale e un progetto didattico, mi occuperò in questo saggio, trattando appunto delle Afriche.
Inserirsi nel dibattito culturale presentato, con l’intento di proporre pratiche didattiche, vuol dire anche interrogarsi sulla posizione da
cui l’osservatore/interprete decodifica le pratiche e i discorsi culturali, sulle sue strategie di lettura e sull’utilizzo dei testi letterari al fine di
perseguire gli scopi educativi programmati. Si può partire da un saggio di Michele Cometa contenuto in Culture Planetarie?, che esamina forme di scrittura negli studi culturali e in cui l’autore ricorda come in Metahistory Hayden White abbia insegnato a individuare “proprio nella ‘forma letteraria’ la sostanza più profonda del discorso storico”. Dunque, lo studio approfondito delle “forme di scrittura” (che
è esemplificato attraverso l’analisi di scritti selezionati di Antonio
Gramsci e Walter Benjamin) è determinante “per costruire il ‘luogo
specifico’ degli studi culturali” (Cometa: 2007, 175). L’attenzione all’aspetto apparentemente formale diventa, nell’argomentazione ispirata
a Gramsci, l’indagine acuta delle strategie retoriche usate nei discorsi
al fine di un’analisi critica che interroghi, in prima istanza, la posizione contestuale e ideologica di chi studia, ma anche che tragga sostegno dall’esame della situazione politica ed esistenziale del s/oggetto
studiato. Si tratta di tappe indispensabili nel processo di comunicazione, socializzazione e traduzione pratica della cultura. Per fare questo, Cometa accoglie da Michel De Certeau il suggerimento di una
metodologia che sia piuttosto una “tattica”, un’attenzione per il dettaglio, per le concatenazioni e i rapporti discorsivi, che non abbia come scopo la costruzione di un quadro d’insieme esaustivo, ma la
produzione di una cultura pratica e attiva, che coinvolga soprattutto
gli interpreti.
Accogliendo queste premesse teoriche e metodologiche, si leggeranno allora i testi letterari come discorsi ideologicamente orientati,
ammettendo, come sostiene Raul Mordenti in un saggio sulla funzione della critica letteraria, “che ‘il letterario’ altro non è se non ciò che
un determinato assetto socio-culturale (o piuttosto: il suo discorso) riconosce, ma in realtà definisce e costituisce, come letterario” (Mor-
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denti: 2007, 228). Si interrogheranno dunque quelle posizioni ideologiche che attribuiscono all’opera d’arte un carattere a-politico, che
nel canone letterario nazionale inseriscono solamente i discorsi costitutivi e celebrativi dell’identità della nazione, e che si ispirano a un
preciso canone estetico per attribuire all’opera d’arte qualità uniche e
universali che valicano i confini del tempo. Questi canoni determinano il valore artistico dell’oggetto d’arte – del discorso letterario, nel
caso qui presentato – escludendo ciò che non rientra nella norma,
per trasgressione o per differenza. Le “altre” culture, voci, regole, occuperebbero, quindi, posizioni marginali, intese come letteratura
bassa, di massa, di consumo, giovanile, o sarebbero addirittura rifiutate come prodotti “non culturali”, provenienti, per esempio, da società considerate primitive, illetterate, la cui tradizione orale non si è
evoluta in una produzione scritta, selezionata e articolata in un canone.
Argomentando contro queste posizioni ideologiche di esclusione,
si tenterà quindi, nella lettura dei discorsi letterari, una pratica archeologica, come suggerisce Benjamin, attraverso il recupero delle
voci zittite o emarginate, ma anche tramite l’attenzione ai dettagli, ai
reperti, agli spazi vuoti, al non detto che si nasconde nella retorica
del potere e che ne informa la visione egemonica. Ferma restando,
tuttavia, la convinzione di come il discorso letterario rimanga un ambito fecondo e imprescindibile per la comprensione delle storie e
delle produzioni culturali nei contesti specifici locali. Per citare proprio dal canone, cogliendo esempi da contesti temporali, spaziali e
culturali diversissimi, si pensi a come le opere Gustave Flaubert, Fëdor Dostoevskij o Charles Dickens abbiano offerto impareggiabili
rappresentazioni delle società in cui sono state ambientate. È la lettura critica, l’impegno ermeneutico del lettore che dovrà tradurre e attualizzare il messaggio. Recuperando dunque nozioni care a Gayatri
Spivak, si presterà attenzione alla “agency” e alla “location”, si analizzerà non solo chi parla, quando e dove, con tutte le influenze della
situazione storica di produzione, ma si metterà in discussione anche
la propria lettura utilizzando un atteggiamento che Raja Rao ha definito (in un’intervista non pubblicata con l’autrice di questo saggio)
“inquiring mind”. Auspicabilmente, lettori attenti e attivi non solo apprezzeranno la bellezza artistica del testo letterario e la sua capacità
di rappresentare storie collettive ed esperienze individuali in modi
esemplari e mimetici, ma anche useranno il testo per comprendere e
agire nel loro presente.
Da questa prospettiva è possibile articolare progetti didattici mirati, utili e formativi, nell’ambito degli studi culturali e linguistici applicati a diversi contesti specialistici. In questa sede, a titolo esemplifica-
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tivo, si presenteranno alcuni aspetti di due testi, sottolineando la loro
rilevanza per gli studi culturali sulle aree anglofone e, in particolare,
sulla Gran Bretagna2. I testi sono “The Narrative of Jacobus Coetzee”
contenuto in Dusklands di J. M. Coetzee e Windrush. The Irresistible
Rise of Multi-Racial Britain di Mike e Trevor Phillips. Il primo è un
testo di fiction che si propone come un documento storico, l’altro è
testo di storia che si offre come un racconto fittizio. Sono due narrazioni posizionate da una parte all’altra dell’Atlantico: la prima in Africa del Sud, la seconda nel momento dell’arrivo dai Caraibi alla Gran
Bretagna. Queste tappe - Africa, Caraibi, Europa - marcano un percorso che è stato anche quello del commercio triangolare degli schiavi e pongono le nozioni di spaesamento e dislocazione al centro dell’indagine culturale sull’identità britannica contemporanea.
Il fatto che “The Narrative of Jacobus Coetzee” sia costruito come
un diario di viaggio lo rende particolarmente attraente, poiché attraverso il genere letterario del resoconto di viaggio si articola invece
un discorso culturale fortemente critico di tutti gli imperialismi e delle loro strategie di affermazione del potere e di guerra. L’identità del
protagonista è costruita come metafora dell’impero, ma la veridicità
storica e l’autorevolezza del suo racconto sono decostruite, sia dalla
pluralità di prospettive attraverso le quali la documentazione storica
è introdotta, sia dal carattere violento e insieme grottesco della narrazione, che esplicitamente proiettano il racconto nel presente. Si propone dunque una rilettura della contemporaneità attraverso la lente
del discorso coloniale. Lo spazio fittizio in cui Jacobus si muove è
l’Africa australe nella geografia dell’impero. In questa geografia, l’Africa è rappresentata come un continente vasto nel cui centro vivono
animali selvaggi: “hic sunt leones”. Attraverso le esplorazioni che dal
1492 hanno portato gli imperi europei alla conquista di ampi spazi
del globo, la cartografia europea occidentale ha ri-mappato il territorio africano, tracciandone i confini sulla carta, ri-nominando i luoghi
e trovando così un posto per la terra d’Africa nella geografia dell’impero. Gli esploratori viaggiavano, nominavano e scrivevano. Su que-
2
I suggerimenti didattici che si proporranno sono stati inseriti in un progetto creato
appositamente per lo studio delle “Culture dei paesi di lingua inglese” per gli studenti del
corso di laurea triennale in Mediazione Linguistica e Culturale in ambito economico, giuridico e sociale, un corso interfacoltà di Scienze Politiche e Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Il titolo del programma del corso è “The abrogation of the imperial canon in postcolonial cultures: dissemination, dislocation, and contamination in
many stories. Africa and European exploration: The black Atlantic, black Britain, and the
culture of immigration.”
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sta tradizione del viaggiare si fonda quella che Paul Carter definisce,
a proposito dell’Australia in The Road to Botany Bay, la “spatial history” (Carter: 1987, 33), la storia dello spazio esplorato, ricostruito e
rappresentato nel discorso dell’impero secondo una strategia di conoscenza che si impone su uno spazio già vissuto e lo trasforma.
La geografia dell’Africa a nord del Sahara era conosciuta agli europei fin dai tempi antichi. Erano conosciuti anche vari punti delle
coste africane dove portoghesi e olandesi avevano costruito delle basi di attracco. C’era una geografia locale con cui esploratori e avventurieri dovevano fare i conti. Mungo Park, che condusse due spedizioni tra il 1795 e il 1805 alla ricerca del corso del Niger, sapeva bene che il fiume era chiamato Kworra, Quarra o Joliba dalle popolazioni che abitavano lungo i tratti del fiume e dai mercanti arabi. Ma
solo la mappa dell’impero aveva il potere unificante della ricomposizione dei vari tronconi in un unico fiume poi chiamato Niger. Un’area, questa dell’Africa occidentale e del corso del Niger, su cui si è
sbizzarrita tanta scrittura d’avventura dell’impero. Edgar Wallace, per
citare, ambienta qui la saga dell’esploratore e avventuriero Sanders,
Sanders of the River: The Amazing Adventures of Commissioner Sanders in the Wilds of Africa, e nel territorio degli Ashanti G. A. Henty
colloca miniature dell’avventura imperiale attraverso i suoi bambini
protagonisti che, assieme a scienziati ed esploratori, partecipano al
gioco della guerra e della conquista in numerose narrazioni, tra cui,
The March to Coomassie, By Sheer Pluck. A Tale of the Ashanti War e
Through Three Campaigns: A Story of Chitral, Tirah, and Ashantee.
Nell’Africa osservata, percorsa e costruita dal colonizzatore c’erano poi dei “blank spaces”, come dice Marlow nel famoso romanzo
conradiano, degli spazi vuoti in quello che era costruito come Heart
of Darkness. Una volta scoperto, il cuore dell’Africa era assorbito nel
sistema di rappresentazione del “monarch-of-all-I-survey”, come
Mary Louise Pratt definisce il colonizzatore e la sua strategia di appropriazione attraverso il “colonial gaze” in Imperial Eyes. È lo sguardo coloniale, che opera come un grande occhio, lo “spherical reflecting eye moving through the wilderness and ingesting it” di Jacobus
Coetzee (Coetzee: 1976, 79). Il suo occhio è l’occhio di dio e dell’impero: “I am all that I see”, dice, “What is there that is not me?” (Coetzee: 1976, 79).
Gli spazi osservati, posseduti e rappresentati, sono spazi vissuti
percepiti come vuoti, conosciuti con presenze non riconosciute, rinominati e ri-costruiti, attraversati e conquistati. Ma, come sostiene
ancora Paul Carter in “On and Off the Ground”, “history space is
prior to place” (Carter: 1992, 1), non esiste alcuno spazio che non sia
un luogo animato, vissuto, pieno: uno spazio culturale. In una geo-
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grafia culturale, le Afriche non sono solo quelle dei punti cardinali o
dei viaggi d’esplorazione e d’avventura, ma sono anche quelle delle
diverse storie, culture e performances, dei movimenti e delle diaspore.
Nel resoconto di un viaggio di esplorazione sullo Zambesi intitolato Tropical Africa, del 1888, scritto da Henry Drummond, professore e scienziato inglese, e utilizzato da Charles Robinson in Hausaland or Fifteen Hundred Miles Through the Central Soudan del 1896
per descrivere i sentieri dell’Africa in generale, si riporta una descrizione della “beaten track” africana. Pur essendo definibile come un
testo dell’impero, fa riferimento a una geografia e una storia diverse
da quelle coloniali ufficiali:
It may be a surprise to the unenlightened to learn that probably no explorer in forcing his passage through Africa has ever for more than a few days
at a time, been off the beaten track. Probably no country in the world, civilised or uncivilised, is better supplied with paths than this unmapped continent. Every village is connected with some other village, every tribe with
the next tribe, every state with its neighbour, and therefore with all the rest.
The explorer’s business is simply to select from this network of tracks, keep
a general direction, and hold on his way. Let him begin at Zanzibar, plant
his foot on a native footpath and set his face towards Tanganyika; in eight
months he will be there; he has simply to persevere. From village to village
he will be handed on, zigzagging it may be sometimes to avoid the impassable barriers of nature or the rarer perils of hostile tribes, but never taking
to the woods, never guided solely by the stars, never in fact leaving a beaten track, till hundreds and hundreds of miles are between him and the sea,
and his interminable footpath ends with a canoe on the shores of Tanganyika. … The native tracks I have just described are the same in character all
over Africa. They are veritable footpaths, never over a foot in breadth, beaten as hard as adamant, and rutted beneath the level of the forest bed by
centuries of native traffic. … Although the African footpath is on the whole
a bee-line, no fifty yards of it are ever straight. And the reason is not far to
seek. If a stone is encountered no native will ever think of removing it.
Why should he? It is easier to walk round it; the next man who comes that
way will do the same. He knows that a hundred men are following him, he
looks at the stone a moment, and it might be unearthed and tossed aside,
but no; he also holds his way. It is not that he resents the trouble, it is that
the idea is wanting. … But it would be a very stony country indeed, and
Africa is far from stony, that would wholly account for the aggravating obliqueness and indecision of the African footpath. Probably each four miles
on an average path is spun out by an infinite series of minor sinuosities to
five or six. Now these deflections are not meaningless. Each has some history, a history dating back perhaps a thousand years, but to which all clue
has centuries ago been lost. The leading cause probably is a fallen tree;
when a tree falls across a path no man ever removes it. As in the case of the
stone, the native goes around it. (Robinson: 1896, 52-4).
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La “beaten track” africana è leggibile come percorso culturale e
tracciato storico, ma sono riferiti anche degli stereotipi coloniali, come la pigrizia degli africani e il loro disinteresse a intervenire sulla
natura per migliorarla e renderla più funzionale. Accade in numerosi
resoconti di viaggio di leggere apprezzamenti positivi per le culture
locali, ma l’egemonia esercitata dal discorso ufficiale e l’articolazione
mirata del progetto dell’impero in ultima analisi convergono nel rappresentare l’Altro – spazio, individuo, cultura, – nella condizione dell’impossibile mimesi con il colonizzatore. Attuando quella che Homi
Bhabha teorizza come una strategia di appropriazione e rifiuto, l’identità dell’Altro è fissata nello sforzo mai soddisfatto di assomigliare
al bianco, nell’ambigua tensione che produce un’alterità “as a subject
of a difference that is almost the same, but not quite” (Bhabha: 1987,
318). Come riscontro, si possono ancora citare da “The Narrative” le
convinzioni di Jacobus riguardo agli individui che egli considera allo
stato di natura: “A Hottentot gains much by contact with civilization
but one cannot deny that he also loses something […]. Put him in
Christian clothes and he begins to cringe […]. No longer you can get
a truthful answer […]. He becomes a false creature […]. They have no
integrity, they are actors” (Coetzee: 1976, 65). L’ibridazione con lo stile di vita coloniale trasforma l’ottentotto in una copia imperfetta e lo
condanna anche alla perenne condizione a-storica, fuori dal progetto
storico e divino, mortale come un animale e solo funzionale alla storia dell’impero per la celebrazione della sua potenza. Dice ancora Jacobus: “The one gulf that divides us from the Hottentots is our Christianity. We are Christians, a folk with a destiny. […] The Hottentot is
locked into the present” (Coetzee: 1976, 57).
Nella storiografia degli archivi dell’impero, infatti, l’Africa a cui
portare il modello bianco attraverso la “missione civilizzatrice” è
un’Africa genericamente senza storia. La nazione Ashanti in Africa
occidentale o l’impero Zulu nell’Africa del sud, per citare, pur avendo un prestigio agli occhi del colonizzatore, non eguagliano il livello
di organizzazione istituzionale, sofisticazione amministrativa, sviluppo economico e potere politico degli stati-nazione europei. La ripartizione dell’Africa a tavolino nella Conferenza di Berlino del 1884-85
con “the scramble for Africa” segna l’apogeo della conquista europea. Anche la storia dell’Africa diventa così ufficialmente parte della
storia dell’impero, della “History” con H maiuscola.
Come la mappa coloniale ha ridisegnato la storia spaziale delle
Afriche, così la storia dell’impero ha occultato le storie orali delle tante Afriche, fissando l’inizio della storia dell’Africa nel momento dell’incontro coloniale. Contro questa scrittura fatta di menzogne si ribella il poeta sudafricano Sipho Sepamla nella poesia History Books,
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Amen! Qui proposta nella traduzione di Itala Vivan, riportata in Il
Nuovo Sudafrica (Vivan: 1996, 39-40).
Libri di storia, addio!
Accidenti se conosco la mia storia
tanto per cominciare, non parte dal 1652
e non capisco come la cupidigia di alcuni
e lo spirito d’avventura di altri
coronati da stupide cerimonie d’alzabandiera
possano costituire la misura del mio essere.
Accidenti se conosco la mia storia
me l’hanno raccontata uomini incanutiti,
non accanto a bracieri e stufe cittadine
ma nel fumo e nel vento di fuochi alimentati di sterco,
con voce roca non usa ai microfoni
filata lungo la brezza serale che cullava il sole al tramonto.
Accidenti se conosco la mia storia
non ho mai rivendicato un pezzo di terra
ma ho parlato di animali che vagavano selvaggi
sollevando nugoli di polvere per miglia e miglia
mentre i muggiti debordavano all’orlo dell’orizzonte,
a misurare l’estensione della nostra terra.
Accidenti se conosco bene la mia storia
di uomini che vissero per narrare storie di gioia e dolore
nelle reti di manipolatori moderni
che indossavano abiti grigi per uccidere e andare a nozze
e poi presiedevano colazioni d’affari
serviti da demoni del potere dagli occhi rapaci.
Accidenti se conosco la mia storia
fatti da parte e lasciamela raccontare
Cristo, mi sei stato addosso troppo a lungo
la tua lunga ombra sinistra ha alterato la luce dei fatti
di un’unica storia di guerre cruente e lacrime amare
la cui pena lacera il corpo della nostra nazione.
La presa di parola del poeta, che come Calibano impugna la lingua
del colonizzatore per maledirlo, parla di altre storie narrate, che rivelano un legame con la terra strappata dai colonizzatori ai suoi abitanti e raccontano della lunga agonia prodotta nel corpo del Sudafrica
dal dominio coloniale.
La storia dell’impero è l’oggetto privilegiato della riscrittura post-
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coloniale. Si ri-scrivono storie dai margini, la conosciutissima “pickles’ version of history” (Rushdie: 1980, 460) in Midnight’s Children
di Salman Rushdie, censurate nella storia ufficiale, che frammentano
l’autorità della versione coloniale e ne minano la veridicità, proponendo diversi punti di vista: “Na Beatrice you de ask? Na me de tell
de tori, no be you?” (Achebe: 1987, 63), “E lo vieni a chiedere a me?
Chi la racconta la storia – tu o io?” (Achebe: 1991, 84) chiede Beatrice a Chris in Anthills of the Savannah di Chinua Achebe.
Nel discorso di Jacobus Coetzee, che articola l’ideologia di tutti gli
imperi della storia, egli è l’io e il dio, il padre e il padrone che governa il mondo. Egli è l’io — l’“I” — l’unico padre possibile: “It was I
who planned each day’s march […]. It was I who conserved the
strength of the oxen […]. It was I who saw that every man had food
[…]. It was I who […] restored order with a firm hand. They saw me
as a father” (Coetzee: 1976, 64). Egli è anche il dio — l’“eye”— che
decide sulla vita e sulla morte dei suoi sudditi: “I command his life”
(Coetzee: 1976, 81), “over them I pronounced sentence of death”
(Coetzee: 1976, 101). Il fucile è l’arma, il braccio, di cui Jacobus ha
un bisogno metafisico (Coetzee: 1976, 80), perché infliggendo e contando le morti egli garantisce la continuazione della storia dell’impero: “Every wild creature I kill crosses the boundary between wilderness and number. I have presided over the becoming number of ten
thousand creatures […]. I am a hunter, a domesticator of the wilderness, a hero of enumeration. He who does not understand number,
does not understand death” (Coetzee: 1976, 80). Strumento nelle mani della storia degli imperi, non per condivisione, ma, al contrario,
per affermazione di un solo sé, Jacobus trova l’unico posto possibile
per i conquistati nell’unica storia che li accoglie e raffigura: “they
died the day I cast them out of my head” (Coetzee: 1976, 106). Solo
una morte, un numero, può strappare i conquistati alla schiavitù del
presente, consentendo loro l’unico futuro storico e l’unica immortalità possibile.
L’analisi suggerita per “The Narrative” consente una lettura culturalista di un momento dell’esplorazione e della colonizzazione europea dell’Africa. Utilizzando la definizione di Raymond Williams in
Culture and Society di “cultura” come un prodotto che deriva dall’esperienza e considerando come espressione culturale qualsiasi produzione di un gruppo di persone, la contemporaneità e le produzioni culturali del presente costituiscono l’oggetto privilegiato d’indagine. Il testo di J. M. Coetzee, infatti, non solo aiuta a mettere a fuoco
le dinamiche in cui si è articolato il discorso dell’impero del contesto
storico proposto nella finzione, ovvero il 1760, (e proiettato fino all’inizio del Ventesimo secolo), ma anche e soprattutto a svelare come
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queste dinamiche possano operare, pur in forme e con strategie diverse, nei nuovi imperialismi.
A completamento, e sempre da una prospettiva focalizzata su
“here and now”, si può leggere Windrush cercando di individuare
come la storia del black Atlantic abbia influito sulla cultura britannica
contemporanea, dedicando particolare attenzione al fenomeno dell’immigrazione e alla conseguente ibridazione culturale. L’identità
black British del presente può solo essere compresa attraverso una
sguardo critico sulla diaspora nera: la tratta degli schiavi che dall’Africa ha attraversato l’oceano Atlantico fino ai Caraibi. Come sostiene
Kader Asmal, intellettuale e politico sudafricano di grande rilievo, in
“Globalization, Human Rights, and the African Diaspora”, “[d]iaspora,
meaning ‘dispersion’, is a crucial feature of both our shared past and
our globalising present” (Asmal: 2004, 5). L’esperienza vissuta della
diaspora ha prodotto quello che W.E.B. Du Bois ha definito “double
consciusness”, la coscienza dello spaesamento. Recuperando questa
nozione in The Black Atlantic, Paul Gilroy illustra come la diaspora
nera abbia messo in luce la categoria del “changing same”, l’identità
in movimento, che si trasforma attraverso processi di ibridazione e si
manifesta con una pluralità di espressioni e di auto-definizioni specifiche dei contesti storici, culturali e nazionali. Ciascuna identità
“black” ha le sue “roots” — le sue radici —, sostiene Gilroy, nella
specificità delle sue “routes” — dei suoi percorsi —, anche se l’esperienza del razzismo e dello sfruttamento è comune a tutti i neri della
diaspora dell’Atlantico. La costante produzione e riproduzione del sé
attraverso l’esperienza della diaspora, parafrasando Stuart Hall e citando ancora Asmal, è anche un’espressione di creatività culturale,
che fornisce una coerenza immaginaria alle molteplici identità e collocazioni spaziali in cui le persone agiscono nel mondo globale
(Asmal: 2004, 8). Il commercio triangolare degli schiavi ha portato
una parte dell’Africa nei Caraibi, dislocando persone, tradizioni e culture oltre l’Atlantico. Dai Caraibi, il viaggio di ritorno si è concluso in
Gran Bretagna. Inevitabilmente, la costruzione della black Britain
contemporanea assorbe dal black Atlantic le nozioni di dispersione e
spaesamento, “dissemination” e “dislocation”, che cambiano i significati di “casa” e di “confine”. Le identità della diaspora si formano in
un incrociarsi di percorsi transnazionali e producono, nelle parole di
Benedict Anderson, “comunità immaginate”, articolate sulle dinamiche del ricordo e della commemorazione, ma anche realizzano nuove creolizzazioni e contaminazioni.
Un ambito di indagine primario per i Cultural Studies è appunto
quello dei processi di costruzione delle identità in combinazione con
le strategie e i contesti di fabbricazione. L’identità è intesa come un
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percorso, mai come un prodotto definitivo. Accanto alla costruzione
dell’identità bianca nei discorsi dell’impero, di cui “The Narrative of
Jacobus Coetzee” ha costituito un esempio, la costruzione dell’identità della black Britain è letta in Windrush, che ri-scrive un preciso momento storico e le sue conseguenze. È il 1948 quando la nave Empire Windrush approda a Tilbury con un carico di alcune centinaia di
immigrati, in gran parte uomini ex-combattenti nella Royal Air Force
(RAF). La ricostruzione dell’evento fu inizialmente commissionata
dalla BBC a Mike e Trevor Phillips. Basata su interviste e racconti di
coloro che vi avevano preso parte, la serie televisiva produsse un notevole coinvolgimento di pubblico e contribuì ad arricchire la riflessione sull’identità nazionale britannica contaminata dagli apporti delle migrazioni dall’ex-impero.
Si deve dire che dal 1976 fino al 2007 è stata attiva in Gran Bretagna la Commission for Racial Equality, di cui Trevor Phillips era presidente, e che il dibattito sul multiculturalismo (e sul suo necessario
superamento), da lui avviato con articoli provocatori su The Guardian il 16 febbraio 2004, è ancora in corso e complica la discussione
sulla Britishness su cui Gordon Brown è più volte intervenuto ufficialmente e a cui la Fabian Society ha dedicato il convegno del 14 gennaio 2006. In questo contesto, è vero, come scrive Stuart Hall (direttore del Centre for Contemporary Cultural Studies a Birmingham dal
1968 al 1979), che la “blackness” è ora posizionata al centro ed è centrale al dibattito sull’identità tanto da richiedere l’elaborazione di
“new ethnicities”, ovvero nuove forme di articolazione dell’identità
black, British e black British.
Windrush aiuta a indagare gli effetti che la diaspora nera e la più
recente diaspora caraibica in Gran Bretagna hanno sulla costruzione
dell’identità nazionale britannica. È un libro di storia, di storie, di memorie e d’identità d’Afriche che hanno attraversato il black Atlantic, si
sono ri-inventate nei Caraibi, poi ri-collocate in Gran Bretagna. L’incipit è quello del racconto orale e, attraverso una serie di interviste, subito si articola il discorso dell’identità in movimento e del dolore che
il ricordo porta con sé: “Listen, children. If you want to know how it
felt to be where we were in that time, think about suitcases. […] Moving, always moving. […] Sometimes I’m watching the news or one of
these programmes about refugees and I have to switch off and let the
feelings rest for a while, because that is the pain and the memory”
(Phillips: 1998, 1). L’esperienza personale e privata, a cui le interviste
danno voce, compone la storia dalla migrazione della Windrush fino
agli anni Ottanta, insieme ad altri documenti storici ufficiali (articoli di
giornali, discorsi istituzionali, fotografie) e a “letters from the past”
che ripropongono i pensieri individuali sul filo della memoria e del
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sentimento. La ricchezza dei punti di vista si coglie anche nella stesura del testo che utilizza diversi caratteri e strategie grafiche per identificare le tipologie dei discorsi. Questa pluralità di scritture e possibilità di letture della storia aggiungono una prospettiva sul “locale”,
mettendo anche a fuoco i problemi di “classe” nella società britannica del secondo dopoguerra – per esempio riguardo ai “riots” di Notting Hill a Londra e di St. Anne a Nottingham –, spesso taciuti o volutamente sottovalutati nella storiografia ufficiale.
La narrazione storica si conclude con la celebrazione della “blackness”, un’identità indossata orgogliosamente, come anche sostengono Houston Baker Jr., Manthia Diawara e Ruth Lindeborg nell’Introduzione a Black British Cultural Studies, ma senza facili eccessi, poiché “black” è stato anche una moda, un bene di consumo, “a marker
of post-Caribbean identity”, per esempio negli anni Settanta e Ottanta (Phillips: 1998, 393). All’inizio degli anni Novanta la “irresistible rise of multi-racial Britain” si dice poggi ancora su un paradosso: ovvero la conservazione di una “defensive culture”, della specificità della
generazione della Windrush, e il pericolo che essa possa diventare
una trappola per i discendenti di quella generazione, poiché il futuro
e il futuro dei figli è una preoccupazione centrale nella costruzione
identitaria della black Britain. (Phillips: 1998, 394). Ma il ritorno del
migrante è impossibile, perché comunque implica un aggiustamento,
una ri-invenzione. Le interviste conclusive ancora esplorano le difficoltà inevitabili nel relazionarsi a luoghi culturali diversi e la necessità di trovare nuovi progetti istituzionali e nuove forme di convivenza
nei contesti del presente:
Not that I feel British, I am British, I come home. […] Many of us come here with an ‘indefinite reason’, to return some day. There’s no place like home. But for the work that I have done here, consistently, for forty-four
years, or even that, is not the same country that I left. And I wouldn’t be
able to fit in, because nothing stands still. I mean, ask me, going back home, is where I come from, it’s not the same, It’s a different place. And the
only place I know is Britain, Shepherd’s Bush. Sorry to say that. But I love
here for forty consistent years. […] Everywhere, nothing goes backward,
everything goes forward. […] So when they’ve gone back home, the children can remain here, confident that they are black British and British subjects.
Intervista a Rudy Braithwaite. (Phillips: 1998, 398).
Britain is where I live. Is Britain my home? I don’t know, not until the British tell me that they accept me as being part of their country. I cannot just
be part of the country when they want me to be and when they don’t wish
me to be. […] I am not sure that this country really wants me, but it’s got
me and it’s got to do what it can with me, ‘cos I ain’t going nowhere. And
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that’s where I am.”
Intervista a Ben Bousquet. (Phillips: 1998, 398-9).
The thing is I thought, that having paid my taxes since the age of fifteen, I’ve paid into the system. There is no way I’m going to walk away from my
due. Plus my family here, my wife, my children and grandchildren. […] I’m
entitled to the benefits that I’ve paid into, and I’m here to stay.
Intervista a Vince Reid. (Phillips: 1998, 400).
Queste interviste, e le altre in Windrush, mirano alla considerazione di problematiche più ampie di cui non si tratterà qui, ma che
animano il dibattito contemporaneo in Gran Bretagna e altrove: i diritti umani, i diritti civili, la sovranità dello stato-nazione.
Una riflessione culturalista, che sia traducibile didatticamente e
che sia necessariamente ispirata alla decostruzione dei canoni egemonici e al superamento delle barriere disciplinari, non può che concludersi con delle aperture verso altri progetti praticabili. Il punto di
partenza è comunque costituito da tre nozioni fondamentali per i
Cultural Studies: l’ampliato concetto di cultura, l’interesse per il colonialismo come memoria storica di come hanno operato gli imperialismi del passato, ma anche come consapevolezza dei rischi dei neoimperialismi, e la centralità dell’analisi della contemporaneità. Quest’ultimo aspetto rende l’ipotesi didattica qui presentata aperta a interessanti sviluppi, che recuperano la riflessione sul passato mirando a
una rilettura critica e consapevole della storiografia dell’impero. In
questa rilettura, le esperienze, le culture e le storie delle Afriche hanno ancora molto da raccontare per il presente (Oboe: 2005 e Vivan:
2003). Infine, si sono menzionati il dibattito sul multiculturalismo e
sulla Britishness in Gran Bretagna, ma si vuole anche proporre il romanzo del 2004 di Andrea Levy, Small Island, tradotto in italiano col
titolo Un’isola di stranieri nel 2005. Su Windrush e Small Island si
possono elaborare analisi comparate rilevanti per la comprensione
dell’identità black British contemporanea. La scrittrice è lei stessa una
discendente della generazione della Windrush e il romanzo è una rilettura appunto del momento dell’arrivo della nave in Gran Bretagna.
La riflessione privata si intreccia a quella sulla storia della nazione dal
punto di vista di quattro personaggi, due coppie, una inglese e una
giamaicana. Tutti piccole isole, i personaggi, così come, metaforicamente, lo sono i Caraibi. E un’isola di stranieri è la Gran Bretagna sul
cui territorio deve ri-articolarsi un nuovo dialogo culturale e umano,
che anche dalla riflessione sulle Afriche ha preso l’avvio.
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Itala Vivan
LA GUERRA CIVILE E I RAGAZZI SOLDATO
NELLO SGUARDO DI DUE GIOVANI ROMANZIERI NIGERIANI:
CHIMAMANDA NGOZI ADICHIE E UZODINMA IWEALA
Nel 2006 è comparso Half of a Yellow Sun, secondo romanzo della giovane nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie la cui prima opera,
Purple Hibiscus, del 2003, è stata tradotta in Italia da Fusi Orari con il
titolo L’ibisco viola nello stesso 2006.
La Adichie ha oggi trent’anni e fa parte della nuova generazione
di narratori africani che frequentano il mondo universitario e letterario euroamericano e però intendono gettare o meglio mantenere radici narrative nella propria tradizione originaria, come fa anche il
venticinquenne Uzodinma Iweala, autore di un primo clamoroso romanzo, Beasts of No Nation, del 2005, tradotto in Italia da Einaudi nel
2006 con il titolo Bestie senza una patria. Iweala addirittura vive negli Stati Uniti, dove è cresciuto e ha studiato, conseguendo una laurea di primo livello (B.A.) ad Harvard.
Entrambi questi scrittori sono nigeriani ibo, e cioè provengono
dalle regioni orientali del paese dove si concentrano gli importanti
giacimenti petroliferi che da molti anni sono al centro di una tormentata vicenda sociale e politica, oltre che economica, e che sono stati
alla base della terribile guerra civile – nota come guerra del Biafra –
che ha straziato la Nigeria dal 1967 al 1970, causando molte centinaia
di migliaia di morti e aprendo una ferita gravissima nel tessuto della
recente unità postcoloniale della Nigeria. Entrambi provengono da
famiglie assai agiate quando non addirittura molto importanti ed hanno perciò potuto godere di una educazione internazionale di élite;
entrambi, infine, sono nati nel dopoguerra biafrano, in un contesto
ormai lontano dai sanguinosi anni Sessanta.
Alle molteplici circostanze esterne che li accomunano va aggiunto anche il fatto di provenire da un’area culturale – quella di lingua
ibo – fortemente alfabetizzata e cristianizzata, ricca di una tradizione
orale e scritta di forte spessore, e che ha alle spalle una produzione
narrativa di stampo popolare di eccezionale originalità e rilievo, nata
intorno alla città-mercato di Onitsha e diffusa capillarmente attraverso una editoria speciale, anch’essa popolare e locale, e una distribuzione nata dai grandi mercati nigeriani. La letteratura del mercato di
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Onitsha è scritta in lingua inglese, un inglese standard anche se semplificato nel lessico e nella morfologia, e riprende gli stilemi del parlato quotidiano pur senza ricorrere necessariamente al pidgin English. I chapbooks di Onitsha, sorta di fotoromanzi senza immagini,
svolgono vicende drammatiche e contrastate di amore e conflitto sociale riprendendo tematiche vive nella società postcoloniale nigeriana e mirano a ricondurle sempre entro binari etici condivisi dalla comunità. Il genere raggiunse l’apice proprio negli anni Sessanta, sino
alla guerra civile, cioè quando le grandi città mercato erano al culmine della fortuna, prima che i lunghi anni di massacri e guerra senza
quartiere ne intaccassero profondamente il tessuto. Va però detto che
anche la letteratura di alto livello che proviene dall’area ibo conserva
comunque un’impronta popolare nei temi, nel linguaggio e nella rappresentazione della società: autori come Chinua Achebe, Cyprian Ekwensi, Elechi Amadi, Flora Nwapa sono ben radicati nell’immaginario popolare e nel contesto sociale e culturale del popolo ibo, che ha
una lunga tradizione democratica che neppure il colonialismo britannico, con la sua indirect rule, è riuscito a intaccare e tanto meno a
spegnere.
Ebbene, entrambi questi due giovani scrittori emergenti hanno
scelto di scrivere romanzi che riprendono la realtà storico culturale
della guerra civile combattuta dalla generazione precedente alla loro
mettendo in scena personaggi fortemente caratterizzati anche come
provenienza sociale che però si inseriscono in entrambi i casi in un
romanzo di azione strutturato su un ricco intreccio e linguisticamente interessante. Vien fatto di chiedersi quali siano le ragioni del riaffiorare, a tanti anni di distanza, delle atroci memorie della guerra del
Biafra; quale sia l’ impostazione e quindi il senso che ciascuno di loro ha impresso alla propria opera; e, infine, come si collochino tali
romanzi nel quadro del panorama letterario nigeriano.
Un ulteriore motivo di interesse per il critico italiano nasce dalla
rapidità con cui gli editori italiani, solitamente restii o almeno lenti a
considerare le novità che vengono dall’Africa, in questi due casi si
sono precipitati ad acquistare i giovani testi, il primo dei quali deve
ancora venire tradotto. Gli editori interessati al caso sono assai diversi: uno – Einaudi – è di prima grandezza, fornito di una distribuzione capillare e di una potente macchina pubblicitaria, mentre l’altro –
Fusi Orari – è un minuscolo editore che pubblica alcune opere di
narrativa e saggistica a latere della rivista Internazionale e non sembra avere una distribuzione efficiente né una forza pubblicitaria adeguata a sostenere autori emergenti.
Sarà quindi opportuno soffermarsi su un esame alquanto analitico
dei due libri, che al primo sguardo potrebbero apparire assai diversi,
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per identificare quale sia il fenomeno che li rende attraenti.
Half of a Yellow Sun trae il titolo dal simbolo al centro della bandiera del Biafra: appunto un sol levante, a significare un nuovo inizio
per quello che avrebbe voluto essere un nuovo paese indipendente
dalla federazione nigeriana. Il tema si svolge tutto intorno a questo filo della speranza che sorge e per cui si combatte, e che però alla fine annega nella sconfitta. Le vicende si giocano a partire dai primi
anni Sessanta e sino alla fine del decennio, con puntuale esattezza
storiografica, attraverso una serie di personaggi portanti. I protagonisti sono le due sorelle gemelle Olanna e Kainene, figlie di un ricco
imprenditore ibo, e i loro partner, l’ibo Odenigbo, un intellettuale
dalle idee ‘rivoluzionarie’ che insegna matematica all’università di
Nsukka, e l’inglese Richard, arrivato in Nigeria perché innamorato
dell’arte ibo e poi identificatosi con la causa del Biafra. Il romanzo si
svolge interamente in area biafrana e l’epicentro è Nsukka ove la casa di Odenigbo e poi anche di Olanna diventa punto di ritrovo di un
gruppo di amici e luogo di acceso dibattito culturale e politico. Accanto a questi personaggi principali ci sono da un lato le loro famiglie, con il portato tradizionale (Odenigbo) o modernizzatore (Olanna e Kainene), e dall’altro i loro servitori, Harrison per Kainene-Richard e Ugwo per Odenigbo-Olanna.
L’intreccio combina abilmente le vicende personali dei personaggi – amori, tradimenti, rancori e rappacificazioni – con gli avvenimenti drammatici che hanno segnato la storia del Biafra e della Nigeria in quegli anni. Sullo sfondo, con rilievo maggiore o minore, a seconda dei casi, si muovono un gran numero di figure che, sebbene
meno importanti, sono tratteggiate con vivezza e incisività, caratterizzando la cultura del luogo e dell’epoca e la sua risposta alla tragica
emergenza bellica. Fra le figure di secondo piano emerge Ugwo, fedelissimo adoratore di Odenigbo e Olanna, che finisce catturato nella coscrizione obbligatoria dell’ultimo periodo della guerra e assaggia
l’allucinante condizione di quell’esercito, ormai dominato da mercenari deliranti e ragazzini drogati.
La storia della guerra si apre con una serie di massacri di cittadini
di etnia ibo perpetrati dovunque nel paese, e si conclude con la terribile distruzione della regione del Biafra e la resa per fame della popolazione ibo, con l’esercito federale che avanza (nel romanzo i nigeriani vengono chiamati ‘vandali’), i soccorsi umanitari che mano a
mano scompaiono e i loro capi che fuggono, mentre si intensificano
pesanti bombardamenti sui civili con aerei forniti dal Regno Unito e
dall’Unione Sovietica. Risulta evidente, alla fine, che la soggezione
imposta agli ibo è una manovra organizzata sin dall’inizio, con le
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stragi di civili inermi prima e, poi, lo strangolamento finale della strenua resistenza militare e civile del Biafra. In questo contesto, i personaggi – che sono una vera folla — si collocano su versanti diversi e
incarnano una miriade di diversi atteggiamenti culturali e politici: tutti, comunque, rimangono sconfitti dal crollo di un sogno comune e
dalla rivelazione di essere vittime impotenti di un gioco più grande di
loro in cui la Nigeria è una pedina nelle mani di burattinai internazionali. Ciò non toglie, comunque, che si addossi a varie figure ibo, yoruba, hausa, ecc, una responsabilità o corresponsabilità gravissima in
quello che avviene: da un lato c’è chi bada soltanto a fare affari e accumulare ricchezze per sé, mentre dall’altro c’è chi si lascia travolgere da una visione di potenza che vuole a tutti i costi realizzare a scapito della salvezza di un intero popolo. La secessione del Biafra dalla federazione, insomma, è stata decisa e condotta con leggerezza e
senza appoggi esterni: neanche i paesi africani hanno riconosciuto il
Biafra, ad eccezione della Tanzania di Nyerere, e il burbanzoso e improvvido generale ibo Ojuko (‘Sua Eccellenza’, come viene sempre
indicato nel romanzo) non ha saputo tessere una rete di sicurezza
per quanti si erano affidati a lui e al suo regime. Risaltano, nella colorata e viva caratterizzazione dei personaggi, le differenze di atteggiamento e cultura, ma anche i diversi interessi economici e politici
che emersero fra gli hausa e gli ibo, mentre gli yoruba rimasero più
in margine al conflitto (salvo militare nell’esercito federale che uccideva e distruggeva il Biafra) e altri gruppi etnici non sempre si schierarono con gli ibo (‘sabotatori’, vengono spesso chiamati nel romanzo). Alla fine, quando tacciono i frastuoni della guerra, varie voci dichiarano di esser state all’oscuro di quanto accadeva sino a che la
stampa internazionale aveva denunciato gli orrori perpetrati in Biafra, le orde di rifugiati in fuga, i bambini morenti di fame e malattie.
Una guerra civile è una tragedia collettiva di gravi proporzioni
non solo per le perdite, i danni e gli odi che provoca, ma anche per
le atroci ambiguità e connivenze che implica e rivela. Le indagini sulle cause e le modalità di una simile realtà passata sono difficili, e
spesso continuano a lungo, magari dopo (o forse in attesa?) che determinati protagonisti siano scomparsi dalla scena, o che le condizioni della politica internazionale consentano di parlare chiaro. Ma proprio questo viluppo di tragedia e complice oscurità, questi interrogativi ancora aperti, sollecitano il narratore e gli suggeriscono di raccontare atraverso delle storie individuali, rappresentando e mettendo
in scena, come fa Adichie in questo romanzo. Inoltre, il caso della
guerra civile del Biafra non è l’unico a ritornare sul palcoscenico della narrativa a tanti anni distanza; in Europa, la guerra civile spagnola
e i conflitti esplosi in Italia dall’8 settembre 1943 alla fine della secon-
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da guerra mondiale, insieme alla Resistenza antifascista, sono oggi
più che mai alla ribalta non solo del dibattito politico e storiografico,
ma anche della interpretazione e rappresentazione narrativa.
La storia del Biafra è già stata più volte esplorata da romanzieri
nigeriani, fra i quali vanno ricordati Chinua Achebe, Buchi Emecheta,
Chukwuemeka Ike, Flora Nwapa e Cyprian Ekwensi, ma anche Wole
Soyinka, che in Stagione di anomia ma anche ne L’uomo è morto ha
offerto una visione allucinata e disperante di quell’universo in guerra: e però in tutti questi casi si trattava di individui che avevano direttamente vissuto quel periodo. Chimamanda Ngozi Adichie appartiene invece a una generazione successiva alla guerra, essendo nata nel
1977, e ciò le consente di ritornare sul tema con maggiore libertà immaginativa, cioè di creare più liberamente dei personaggi che incarnino quella vicenda e i suoi vari aspetti politici ed esistenziali per riportarli sul palcoscenico dell’attenzione contemporanea. Infatti la
questione che fu alla base della guerra civile di allora – gli interessi
derivati dai ricchi giacimenti petroliferi della regione – appare tuttora
irrisolta, anzi, incancrenita, e sta provocando quel che già si configura come una guerriglia nell’area del Delta del fiume Niger. Le storie
dolorose di Olanna e Odenigbo, Kainene e Richard mirano, oltre che
a commuovere per la loro umanità, anche a mettere in guardia da un
lato contro l’insolenza dei prepotenti, dall’altra riguardo ogni leggerezza che spezzi la forza di un popolo e impedisca di lottare per giuste cause comuni.
Visto nella grande corrente del romanzo nigeriano, Half a Yellow
Sun si colloca nel mainstream della tradizione di Achebe ma anche
di Ekwensi, e rende onore alla statura del grande poeta ibo Christopher Okigbo, morto combattendo nell’esercito biafrano, e trasformato, nel romanzo, nel personaggio del poeta-soldato Okeoma. È costruito secondo lo schema di narrativa popolare e politica ormai consolidata in Nigeria, uno schema che talvolta sembra ripreso in modo
pedissequo, con citazioni continue interne ai fatti e ai personaggi, e
che la stessa autrice ammette nella sua bibliografia finale. La notevole scioltezza di imaginazione ed espressione che aveva caratterizzato
Purple Hibiscus si ritrova in parte anche qui, insieme a una certa lentezza nel risolvere i nodi narrativi (che talora si prolungano al di là di
quanto sarebbe auspicabile) e a una persistente goffaggine nei dialoghi. In questo ultimo caso, va detto che Adichie imposta spesso le
battute dei personaggi secondo uno schema parlato africano che è
molto cerimonioso, e certamente ha rituali fissi; ma non tutto ciò che
è consuetudinario nell’ orale riesce poi efficace nella scrittura di un
romanzo lungo e articolato come questo. L’oralità dovrebbe rivivere
più nei ritmi che nelle formule: dovrebbe essere, cioè, più musicale
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che formulaica, per riuscire accettabile in un romanzo-fiume quale è
Half of a Yellow Sun.
Sebbene accostabile ad Adichie per i motivi che si sono già detti,
il giovane Uzodinma Iweala, con il suo Bestie senza patria, richiede
un discorso a parte.
Ci troviamo di fronte all’opera prima di un autore giovane di origine nigeriana ibo, cresciuto però negli Stati Uniti. L’ho incontrato al
convegno “Il deserto e dopo. La letteratura africana dall’oralità alla
parola scritta, organizzato a Torino dal Premio Grinzane Cavour, e l’ho intervistato il 18 gennaio 2007, soprattutto per discutere il linguaggio da lui usato nel romanzo e la resa del medesimo nella traduzione
italiana di Alessandra Montrucchio.
Itala Vivan: Ho letto il suo romanzo, e vorrei chiederle se lei ha
avuto modo di vedere la traduzione italiana, che mi sembra tutt’altro
che affine all’originale.
Uzodinma Iweala: Sì, ho visto la traduzione, che l’editore mi ha
mandato, anche se naturalmente non la capisco perché non so l’italiano. L’originale non è propriamente in pidgin, bensì in una lingua
inventata, non standard, anche se con riferimenti precisi alla lingua
parlata, a un’oralità integrale che muove dal parlato nigeriano.
IV: Allora i suoi riferimenti sono al parlato nigeriano, vero? Lei vive in Nigeria, attualmente?
UI: Io ora sto a New York, a lavoro alla Columbia University in un
progetto di aiuti internazionali, ma ritorno spesso in Nigeria – meglio, ci vado continuamente. In febbraio, comunque, starò lì per scrivere il mio nuovo romanzo.
IV: Bestie senza una patria ha come protagonista un ragazzo soldato che finisce per essere coinvolto in una guerra che non comprende e di cui non conosce le ragioni. Che base ha usato per costruire questa storia – memorie altrui, racconti, resoconti storici – dato che lei è troppo giovane per aver avuto esperienze personali simili a quelle del protagonista Agu?
UI: Mi sono fatto raccontare i ricordi dei miei parenti e amici,
gente che ha vissuto durante la guerra civile nigeriana; ed ho letto libri di storia, biografie, romanzi, per creare l’ambientazione del mio
stesso romanzo.
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IV: Da che zona della Nigeria proviene la sua famiglia?
UI: La mia è una famiglia ibo che viene dal sud-est del paese.
IV: Che progetti ha per il futuro? Che cosa scriverà ora?
UI:. Beh, sono aperto a tutto; vedremo. Quanto ai libri, ho in cantiere un paio di progetti e non so bene come si svilupperanno. Per
me la cosa importante è scrivere, perché mi piace molto scrivere, di
qualsiasi cosa. Parecchi miei racconti sono ambientati negli Stati Uniti, dove sono cresciuto e ho studiato. In effetti sto lavorando a una
raccolta di questi racconti, tutti ambientati in America. Non è ancora
finita, ma ci sto lavorando.
IV: Che cosa pensa della mentalità dei giovani americani, di quello che pensano a proposito delle politiche del loro paese, della guerra in Iraq?
UI: È una domanda difficile. Posso parlare soltanto delle persone
che conosco. Negli Stati Uniti l’opinione dei giovani, di quelli che
dissentono dalla politica nazionale – gente come me, ed altri – non è
presa in conderazione da chi è al potere: Ci son strati della popolazione che sono favorevoli alla guerra, ma se i giovani come me – e
siamo noi che dobbiamo poi combatterla, questa guerra – sono contrari alla guerra, la loro voce non viene ascoltata, non conta niente.
D’altro canto va detto che oggigiorno negli Stati Uniti i giovani – i ragazzi della mia età – sono totalmente immersi in se stessi e nella ricerca di raggiungere il proprio piacere in un contesto assolutamente
materialistico – comprare, ottenere, avere, godere, consumare – e nel
frattempo il loro paese è teso verso una politica imperialista e aggressiva: ma gli Stati Uniti sono così, in quest’epoca, e questo funziona
per tutti, giovani e vecchi, in generale. È un paese fatto così, un paese che si crede di essere il paradiso, un eden materialistico. E mentre
ogni cittadino americano si concentra sul proprio sé, su una mini
realtà individuale, intorno succedono delle cose che loro non vedono, e mica neanche tanto lontano da loro – anche appena un poco
più in là.
Così almeno vedo le cose io, per quanto riguarda la cultura americana.
IV: E come mai Bestie senza una patria, suo primo romanzo, è
ambientato in Nigeria?
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UI: Io sono nato in Nigeria, dove sta tutta la mia famiglia, ma sono andato a studiare negli Stati Uniti, e così sono andato sempre
avanti e indietro dalla Nigeria, e sono rimasto in contatto con il mio
paese, che costituisce una grandissima parte di me stesso e delle mie
esperienze. Allo stesso tempo, però, anche Washington D.C. – dove
sono cresciuto – costituisce una parte importante di me stesso; sì, io
credo che nessuno è fatto d’un blocco monolitico, anzi, ognuno ha
tante sfaccettature che consentono di avvicinare la realtà secondo
prospettive diverse. E questo è particolarmente vero per uno scrittore, che non guarda mai alle cose da un solo angolo.
IV: Che cosa pensa della situazione politica attuale in Nigeria, dove si avvicina il periodo delle elezioni, mentre cresce la tensione nella regione del Delta, e i movimenti di contestazione contro il governo federale si fanno sentire sempre più violentemente?
UI: La democrazia non è facile, specialmente per i paesi più giovani. E tutti i paesi attraversano delle fasi – questo avviene anche all’Italia e alla Gran Bretagna, ad esempio, e non soltanto alla Nigeria.
E non è facile governare un enorme paese di oltre 140 milioni di abitanti e più di 350 lingue qual è la Nigeria, non è facile.. ma anche
questa è una fase che passerà, e si riuscirà a far sì che la voce di ciascuno venga ascoltata – almeno io spero che così avvenga, sebbene
non sia in grado di fare alcuna previsione. Eppure, vede, io vengo da
una famiglia impegnata in politica, e mia madre è stata ministro delle finanze per tre anni nel governo federale.
Nel Delta si avverte una terribile frustrazione perché la voce della
gente non trova ascolto, i loro problemi non vengono affrontati, e
questo provoca grande tensione. Ma non credo che ciò autorizzi a far
uso di metodi violenti – io, per lo meno, non approvo per principio
che si ricorra alla violenza, in nessun caso.
IV: La tradizione letteraria della Nigeria moderna, soprattutto nel
filone narrativo – Achebe, Ekwensi, Soyinka, Saro-Wiwa – ha avuto
influenza sulla sua formazione letteraria, sulla sua personalità di scrittore?
UI: Certo, io sono il frutto di tradizioni antichissime, di tutte le
storie orali che la gente ha raccontato per millenni, dei temi che si
sono ripetuti in tutte le culture del mondo. Per scendere a tempi vicini a noi, scrittori come Achebe e Saro-Wiwa sono stati importantissimi per me perché mi hanno mostrato come si possa scrivere. Ma le
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influenze sono parte del processo di scrittura, dell’apprendimento
che si fa leggendo gli altri e guardando come essi risolvano temi e
problemi. Ma uno che si mette a scrivere dice, “well that is really cool,
but now, where do I go from here?” – sì, insomma, non bisogna lasciarsi intimidire da quello che hanno fatto gli altri, anche se sono stati molto grandi, molto bravi. Ad esempio, la prima cosa che ho letto
di Nadine Gordimer è stata una raccolta di racconti, e i suoi racconti
sono davvero fantastici – sì, eccezionali – ma non sono certo quello
che io voglio scrivere. La generazione giovane deve conoscere e
amare la tradizione, ma non averne paura, anzi: deve prendere quello che gli serve da chi è venuto prima, e andare avanti per la propria
strada, scrivere altre cose.
IV: E fra gli autori americani, quali sono i più importanti per lei?
UI: Sono interessato agli scrittori che giocano con il linguaggio, in
generale; inoltre sono ovviamente attento al filone della scrittura
afroamericana, poiché dopotutto sono un nero cresciuto negli Stati
Uniti. Ma l’intera tradizione americana mi interessa, perché mi insegna che cosa si può fare, si è potuto fare, in determinate epoche e
con determinati temi – quanto a chi mi piaccia più o meno, è difficile dirlo: leggo Hawthorne e Baldwin, Fenimore Cooper e Thomas
Pynchon, perché lavorano bene con la scrittura. Ma uno che mi piace davvero leggere e rileggere è Faulkner, soprattutto per l’uso che fa
della lingua, un uso incredible and amazing. È difficile entrare nei
suoi libri – prenda per esempio The Sound and the Fury, dove si va
avanti per venti pagine e anche più senza capire che cosa stia succedendo, ma a un certo punto si entra, e allora è fantastico. E anche
Faulkner è tutto costruito sull’oralità, sebbene nel suo caso si tratti di
una oralità diversa da quella, poniamo, di Achebe. Per me è stato importante anche leggere Toni Morrison, e poi Jamaica Kincaid. Uno
non deve costruire la propria scrittura soltanto sulla base della tradizione da cui proviene, perché dovrebbe? Io leggo qualsiasi libro mi
capiti sotto gli occhi, anche se è un brutto libro, anche porcheria –
ma tutto mi serve: la mia scrittura, poi, è un’altra cosa.
IV: È interessato a sperimentare con una lingua non standard anche nella sua narrativa di ambiente americano, nei suoi racconti, insomma? E in che modo, con quali soluzioni?
UI: Certo che lo sono. Ho appena finito di scrivere un racconto il
cui protagonista è un soldato nero americano appena rientrato dall’Iraq: e anche qui ho fatto ricorso a un inglese non standard. Altre
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volte, mi sento di cercar di scrivere nella lingua che potrebbe usare
un adolescente, perché la sua lingua, così come il suo modo di pensare, è ben diverso dalla lingua che userebbe un uomo, o una donna, di quarant’anni. E una donna parla, o costruisce le proprie storie,
in modo ben diverso da come parla e racconta un uomo. Non c’è un
modo di parlare che sia standard in senso generale, che cioè costituisca una forma onnicomprensiva. Quando scrivo cerco di tralasciare
le strutture portanti, le forme che racchiudono quello che ciascuno
vuole dire, e poi guardo cosa esce dal mio scrivere. Quando uso il
linguaggio speciale di un ragazzo di diciassette anni come fosse un
codice, mi servo di uno strumento descrittivo, rappresentativo, così
come farei se dicessi che il tal ragazzo ha i capelli castani gli occhi
verdi ed è alto un metro e ottanta. Il modo in cui lui parla è altrettanto connotativo del personaggio di quanto lo è ciò che lui dice effettivamente rispetto a se stesso. Questo è quello che faccio, e credo che
ciò mi provenga dall’aver letto degli autori così diversi come possono essere Faulkner e Achebe. Achebe, ad esempio – prendiamo
Things Fall Apart: non si propone tanto di rappresentare questo o
quel personaggio, quanto di rappresentare una certa precisa cultura.
Io miro sempre a rappresentare un determinato individuo, il quale,
naturalmente, in quanto particolarmente rappresentativo di un certo
gruppo fa sì che io rappresenti anche quel gruppo. Ho sempre usato
la prima persona, perché si presta al mio scopo, e le poche volte che
mi son trovato a scrivere in terza persona, accidenti, mi sono detto,
guarda un po’ cosa mi succede.
* * *
Il romanzo di Uzodinma Iweala è sorprendentemente simile al
celebre Sozaboy di Ken Saro-Wiwa, originariamente pubblicato in Nigeria nel 1985 e tradotto in italiano da Roberto Piangatelli nel 2005
per Baldini Castoldi Dalai editore. Come è noto, Saro-Wiwa è l’inventore del personaggio del ragazzo soldato africano travolto da una
crudele guerra civile in cui milita senza capirne i motivi né le modalità, fino a rifiutarla per la sua follia, corruzione e insensatezza. Il personaggio del ragazzo soldato è diventato poi eroe di uno splendido
romanzo di Ahmadou Kourouma, Allah non è mica obbligato, e/o
editore, 2002, e ora ricompare appunto – non più da protagonista,
ma come personaggio di rilievo – in Half of a Yellow Sun di Adichie.
Come accade in Sozaboy, anche il romanzo di Iweala ha per protagonista un giovane ragazzo soldato, Agu, che viene arruolato a forza durante una guerra civile e soffre ma a sua volta fa soffrire, uccidendo e violentando e saccheggiando, sino a che la morsa del con-
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flitto, improvvisamente come si era stretta, si allenta e lo abbandona
come un relitto in un asilo affidato a dei religiosi.
Agu è un personaggio onnicomprensivo, nel senso che tutto ciò
che accade sembra accadere dentro di lui e all’interno del suo sguardo, come se all’infuori di lui non vi fosse nient’altro. Tale punto di
vista conferisce al racconto una valenza allucinata e ossessiva.
Analogamente a quanto accade con Ken Saro-Wiwa, anche per il
giovane Iweala l’aspetto maggiormente degno di attenzione è il linguaggio, affidato all’io narrante di Agu ed espressione della sua personalità. Ma a questo punto nascono i problemi, perché fra il testo
originale e la traduzione italiana si spalanca una discordanza preoccupante.
Per poter procedere a una analisi generale, si propone una analisi comparativa di brani in originale e in traduzione.
(1/A), da Beasts, p. 1
It is starting like this. I am feeling itch like insect is crawling on my skin,
and then my head is just starting to tingle right between my eye, and then I
am wanting to sneeze because my nose is itching, and then air is just blowing into my ear and I am hearing so many thing: the clicking of insect, the
sound of truck grumbling like one kind of animal, and then the sound of
somebody shouting TAKE YOUR POSITION RIGHT NOW! QUICK! QUICK
QUICK! MOVE WITH SPEED! MOVE FAST OH! in voice that is just touching
my body like knife.
(1/B), da Bestie, p.7
Comincia così. Io sente prudere come se insetto mi striscia su pelle, poi testa comincia di prudere proprio in mezzo di occhi, poi io vuole di starnutire perché mio naso prude, poi aria soffia in mie orecchie e io sente tante
tante cose: tic tic di insetti, rumore di camion che brontola come animali,
poi persona che urla PRENDE POSIZIONE SUBITO! SVELTI! SVELTI SVELTI! VOI MUOVE SVELTI OH! con voce che tocca mio corpo come coltello.
(2/A), da Beasts, pp.145-6
It is night. It is day. Its is dark. It is too hot. It is too cold. It is raining. It is too
much sunshine. It is too dry. It is too wet. But all the time we are fighting. No
matter what, we are always fighting. All the time bullet is just eating everything, leaf, tree, ground, person – eating them – just making person to bleed
everywhere and there is so much blood flooding all over the bush. The
blooding is making people to be screaming and shouting all the time, shouting to father and to mother, shouting to God or to Devil, shouting one lan-
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guage that one is not really knowing at all. [...] All the time, we are sick and
going to toilet, shitting water. We are hungry too and living off anything we
can find. Lizard, we are eating them. Insect, we are eating them or even better, if we are finding them, we are eating rat or every other kind of bush animal. Sometimes we are eating this leaf or that leaf, but leaf is what is always
making my belly to turn so I am not eating it too much. [...] I am so hungry
I can be eating wood if it is making me too hungry less, but it is only hurting
my belly and making me to vomit and shit. I am so hungry I can even be
eating my skin small by small if it is not making me to bleed to death. I am
so hungry that I am wanting to die, but if I am dying then I will be dead.
(2/B), da Bestie, pp. 107-8
È notte. È giorno. C’è luce. C’è buio. Fa troppo caldo. Fa troppo freddo.
Piove. C’è troppo sole. È troppo secco. È troppo umido. Ma noi combatte
sempre. Noi combatte sempre e comunque. Sempre proiettili mangia tutto,
foglie, alberi, terra, uomini, li mangia e fa sanguinare persone da per tutto
e c’è così tanto sangue che inonda tutta boscaglia. Sanguinare fa sempre
gridare e urlare persone, loro chiama padre e madre, chiama Dio o Diavolo, chiama e grida con lingua che nessuno sa. [...] Noi è sempre malati e fa
i bisogni, caga acqua. Noi ha anche fame e mangia tutto quello che trova.
Lucertole, noi le mangia. Insetti, noi li mangia o, se noi ha fortuna che li
trova, noi mangia topi e tutte razze di animali selvatici. A volte noi mangia
questa o quella foglia, ma foglie mi mette sempre pancia sottosopra perciò
io non mangia tante. [...] Io ha così fame che potrebbe mangiare legno se
mi fa passare fame, ma mi fa venire solo male di pancia e vomitare e cagare. Io ha così fame che piano piano potrebbe mangiare anche mia pelle, ma
questo mi farebbe sanguinare e morire. Io ha così fame che vorrebbe di
morire, ma se muore dopo io sarà morto.
Se si confrontano le due versioni del testo si nota subito che,
mentre l’originale ricorre a un inglese non standard che deriva le sue
strutture dal parlato nigeriano e riecheggia le cadenze dell’oralità anche nigeriana, sino a usare tipiche ripetizioni ed eclamazioni d’uso
corrente, l’italiano è articolato in segmenti sgrammaticati che non riflettono alcuna consuetudine sociolinguistica. L’effetto che deriva
dalle due serie di testi è quindi profondamente diverso. L’originale
proietta il lettore in un contesto reale, entro una personalità situata
entro una certa cultura che suggerisce determinate modalità espressive, mentre la versione italiana sballotta il lettore in frasi ove le concordanze non sono rispettate, gli articoli eliminati o cambiati a casaccio, i verbi confusi nei tempi e nelle persone. L’effetto che si ha leggendo l’italiano è quello di trovarsi dinanzi a qualcuno che sta imparando la nostra lingua senza conoscerne per così dire la grammatica:
un effetto straniante, dato il contesto del romanzo, che dovrebbe in-
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vece tuffarci nella notte della guerra nigeriana.
A conferma di ciò, una Nota del traduttore avverte, in apertura di
Bestie senza una patria, che “Per restituire al lettore un linguaggio
che che ‘suonasse come’ quello originale, ho quindi pensato di ispirarmi all’italiano parlato dai nigeriani (connazionali dell’autore) residenti nel nostro Paese e alle difficoltà che incontrano nell’esprimersi
in una lingua tanto diversa dalla loro.” In questa operazione, la traduttrice Alessandra Montrucchio è stata aiutata, oltre che da Jennifer,
Michael, Olushola e Mathias, anche da padre Adolfo, padre Erastos,
padre Manolo, suor Maresa, Anna Casella, sempre stando alla Nota
del traduttore già citata. Ottimi consulenti, a giudicare dai risultati!.
Non si è tenuto conto, qui, del fatto che il protagonista Agu non
è uno che incontri difficoltà ad esprimersi in una lingua che non è la
sua, bensì un giovane che parla la propria lingua, anche se distorta,
ma sempre tale da alludere a una lingua realmente esistente, un inglese nigeriano reale, con le inflessioni, i tic, le elisioni e le peculiarità che caratterizzano il linguaggio orale giovanile. Il risultato è sconcertante, e il povero Agu viene trasformato in un apprendista di lingua italiana che incorre in ogni sorta di svarioni e così suona non come l’originale, ma semplicemente come uno che appunto non conosca l’italiano. Questa è l’impressione che ne ricava il lettore, che resta
attonito dinanzi a un’operazione tanto bizzarra quanto perniciosa.
Il romanzo, letto nell’originale – come consiglio si faccia, per poterlo godere serenamente – colpisce per la sua decisa intenzione a
proiettarsi entro la pelle di una storia lontana, che risale ai lontani anni Sessanta, ma evidentemente ancora bruciante nella memoria del
popolo ibo che visse quella tragedia.
Iweala ha voluto riproporre il ricordo dell’incubo della guerra civile, in un momento in cui la Nigeria sembra essere sull’orlo di un
nuovo disastro, ed è comunque afflitta da una guerriglia interna, anche per risvegliare la percezione di che cosa sia o possa davvero essere un conflitto civile. Ma lo fa non solo riportando in scena l’indimenticabile Mene, protagonista di Saro-Wiwa, ma infilandosi lui stesso dentro la pelle di un ragazzo e facendo sì che anche noi lettori veniamo trascinati dentro il sangue e il dolore dell’esperienza, calati
nella realtà perennemente notturna di un cataclisma inarrestabile, incalzati dal ritmo e dalle allitterazioni ribadite di una storia che sussulta e balza e fugge, senza respiro.
Peccato che la versione pubblicata da Einaudi stravolga i notevoli pregi del romanzo, che, sebbene un po’ manierato e derivativo nell’impianto strutturale, ha una sua vivacità stilistica che riflette una
precisa ricerca personale. Non è un caso che Iweala abbia lavorato
sotto la direzione di Jamaica Kincaid e ami un autore arduo e splen-
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dido quale è Faulkner, anche se la sua scrittura non è quella di un ragazzo prodigio. Si vedrà quali esiti futuri offrirà ai lettori, ma soprattutto si spera che non venga mai più tradotto in modo così discutibile e strampalato.
La traduzione di Iweala, che in italiano ha perduto le sue importanti coordinate culturali di base ma anche il senso della sua autentica ricerca stilistica, lascia assai perplessi, soprattutto perché è stata
pubblicata da un grande editore come Einaudi, con una lunga pratica di traduzioni di testi e fornito di un parco di traduttori di tutto rispetto. Forse, chissà, Einaudi Stile Libero ha creduto di poter offrire
ai lettori un esemplare di Africa esotica? Del resto, anche l’inclusione
nella stessa collana einaudiana del romanzo di Aminata Fofana La luna che mi seguiva aveva fatto nascere degli interrogativi: un libro che
si offre come contenitore delle “fiabesche avventure” di “una bambina, un nonno sciamano, un villaggio africano fuori dal tempo” rende
subito l’idea di una fabbricazione che poggi su stereotipi da vecchio
esotismo di maniera. E il romanzo adempie esattamente queste promesse, offrendo un prodotto mediocre, banale, inzeppato di luoghi
comuni e prevedibili facilonerie.
Le letterature del continente africano sono una cosa seria, non
meno di quelle di altri continenti, e dovrebbero venire avvicinate con
l’attenzione e la cura che vengono normalmente dedicate alle letterature europee e a tutte le altre, senza buttarle sul mercato giusto perché profumano di Africa e di diversità o, peggio ancora, di una male
intesa magia.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ADICHIE, C.N. (2003), Purple Hibiscus, Chapel Hill, Algonquin
Books.
ADICHIE, C.N. (2005), L’ibisco viola, Roma, Fusi Orari, trad. di Giuseppina Cavallo.
ADICHIE, C.N. (2006), Half of a Yellow Sun, London, Fourth Estate.
FOFANA, A. (2006), La luna che mi seguiva, Torino, Einaudi.
IWEALA, U. (2005), Beasts of No Nation, New York, HarperCollins.
IWEALA, U. (2006), Bestie senza una patria, Torino, Einaudi, trad. di
Alessandra Montrucchio.
KOUROUMA, A. (2003), Allah non è mica obbligato, Roma, e/o editore, trad. di gruppo coordinata e riveduta da E.Volterrani.
SARO-WIWA, K. (2005), Sozaboy, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, trad. it. di Roberto Piangatelli, cura e Nota critica di Itala Vivan.
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Itala Vivan
STORIE DA ZANZIBAR. DISERZIONI E ABBANDONI
IN UN ROMANZO POST-IMPERIALE
Quanti luoghi comuni su Zanzibar, isola delle spezie e dei profumi, cuore di un antico flusso di popolazioni africane, arabe, asiatiche,
persiane ed europee. Un’isola che oggi fa parte della Tanzania, ma si
considera una realtà a sé stante, affacciata nell’Oceano Indiano dirimpetto a Bagamoyo, l’antico porto dove gli schiavi lasciavano il cuore,
come indica il nome: schiavi che erano destinati, passando per la
Zanzibar araba, a entrare nel commercio triangolare che li avrebbe
portati chissà dove.
Una Zanzibar con mille tracce diverse, rovine antiche di costruzioni persiane, forti arabi, palazzi superbi eretti durante l’ultimo periodo
del Sultanato degli Omanidi; una Zanzibar che è culla della lingua
swahili parlata in tutta l’Africa Orientale, ibrido ricchissimo e idioma
di tanta letteratura orale e scritta. Migrazioni, scambi commerciali, occupazioni coloniali e razzie di ogni genere hanno lasciato dei segni a
Zanzibar e nella sua antica Stone Town colma di ombre e di silenzi,
quasi ancora memore di massacri antichi e recenti, di vite nascoste ed
esistenze trascorse in silenzio.
L’isola oggi è mèta di importanti flussi turistici, ma la sua storia vera continua celata da mura bianche ed entro cortili frangiati di alte
palme, fra aspri conflitti che solo di tanto in tanto esplodono pubblicamente, un tempo con terribili massacri, oggi con periodici disordini e scontri.
Lo scrittore più noto di Zanzibar è Abdulrazak Gurnah, un arabo
sottile ed elegante nato nell’isola nel 1948 ma che dal 1968 vive in Inghilterra, dove dapprima andò per studiare e dove ora è professore di
letteratura inglese all’università del Kent. L’ho incontrato a Torino in
occasione del convegno degli scrittori africani organizzato dal Premio
Grinzane Cavour, e mi sono soffermata a discutere con lui soprattutto del suo ultimo libro, Desertion, tradotto in Italia da Garzanti con il
titolo Il disertore: un romanzo intrigante per lo spunto narrativo che
lo determina, ma pure per la collocazione storica e, infine, per l’ammaliante ritmo incantatorio del racconto. Vi si narrano più storie, in
un viluppo di vicende che vanno dall’incontro di Martin e Rehana, un
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viaggiatore inglese e di una ragazza indiana meticcia – che si innamorano e vanno a vivere insieme, sinché lui non abbandona lei per
ritornare in patria – all’appassionata storia d’amore fra il giovane indiano Amin e la affascinante Jamila, anche questa finita la diserzione
di Amin che cede alle pressioni familiari e abbandona la sua innamorata. La prima storia inzia nel 1899 sulla costa vicino a Mombasa, in
pieno periodo coloniale, e nel suo svolgersi rispecchia la mentalità
vittoriana e le costrizioni sociali dettate dal razzismo britannico; la seconda si svolge in epoca quasi contemporanea fra l’indipendenza e il
presente di Zanzibar e rivela il ripetersi di un dilemma di impossibilità che scava abissi di dolore e perdita nell’animo umano.
L’ambientazione è straordinariamente importante in questo romanzo che rappresenta mondi e mentalità di cui la storia ufficiale
non parla, ma che hanno determinato destini individuali sopprimendo e punendo passioni e legami fortissimi.
Itala Vivan: Lei usa spesso sfondi storici nella sua narrativa, e qui
spiega in apertura di romanzo perché ciò le appare necessario. Qual’è dunque la funzione della storia per lei, non solo nel suo mondo
culturale, ma nella costruzione della sua scrittura?
Abdulrazak Gurnah: Io non sono interessato alla storia semplicemente in quanto fonte di materiale per la scrittura: la storia mi interessa perché è incompleta. Penso che la storia mascheri l’apparato
della propria struttura, poiché si annuncia come un qualchecosa di
fattuale, un archivio di memoria, ma in effetti cela il punto di vista
che la costruisce e la rende intrisecamente incompleta. Si ritiene,
d’altro canto, che la scrittura riposi su un punto di vista, in un certo
senso per definizione, e sia perciò frutto di immaginazione organizzata. Succede invece che la storia non sia interamente fattuale, così
come la scrittura non nasce tutta dall’immaginazione: insomma, entrambe sono sia fattuali che immaginate.
IV: Allora, si può dire, con Hayden White, che anche la storia è
narrazione?
AG: Sì, ma non interamente. A me, come scrittore, piace potermi
muovere tra storia e narrazione, e organizzare un racconto che, in
quanto scritto, può essere più denso e pieno, più completo: così posso intervenire a un livello di realtà fattuale senza per questo pormi
dal punto di vista autorevole che invece assume la storia, per definizione. Laa presentazione che offre la storia è definitiva, dice “questo
è quanto è veramente accaduto”, mentre scrivendo si racconta qualcosa che sarebbe potuto accadere, pur sapendo che sarebbe anche
potuto accadere altrimenti. Questa posizione dello scrittore apre il
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passo ad altre storie che la Storia sopprime e mette a tacere.
IV: Ne Il disertore, infatti, lei in certi momenti arresta il racconto,
quasi fermando la macchina da presa su un fotogramma superstite —
e dice, “A questo punto, non abbiamo notizie precise, e non sappiamo come siano andate le cose – conosciamo soltanto l’esito finale
della vicenda. Perciò immaginiamo che cosa possa essere accaduto,
tenendo conto che sarebbe anche potuto andare diversamente”. A
questo proposito, mi chiedo di dove lei abbia cominciato a costruire
la tela complessiva: dal contemporaneo (o quasi) Amin e dalla sua
innamorata Jamila, oppure da Martin e Rehana, lontani nel tempo?
AG: Credo che l’avvio sia stato molteplice. Un romanzo si costruisce secondo un processo immaginativo ancor prima che si cominci a
scrivere, naturalmente; e gli impulsi sono vari e diversi. Si raccolgono le suggestioni, spigolando qua e là, e poi si attende che maturino
dentro di noi e si fondano insieme. Tuttavia negli ultimi tre libri sono
sempre stato attratto dall’idea di due diversi luoghi su cui intessere la
matassa del racconto: e non è un caso che questo capiti proprio a
me, che ho due collocazioni, quella da cui vengo e quella in cui vivo, cioè la mia natia Zanzibar e la città di Canterbury in Inghilterra
dove abito e lavoro. In questo caso di fatto si sta in due luoghi, poiché si vive anche, con l’immaginazione, nel luogo d’un tempo, e talvolta capita di pensare “cosa sarebbe successo se non fossi mai partito – che farei ora?” e si immagina una tela che vada a collocarsi in
quel vuoto, in quel non essere mai accaduto, in quella potenzialità
sospesa. Credo che molti di coloro che si trovano nella mia situazione si lascino andare a simili riflessioni, ponendosi degli interrogativi,
figurandosi quali sarebbero stati gli sviluppi di scelte diverse.
Nel romanzo ci sono due fratelli, Amin e Rashid, uno che rimane
e l’altro che se ne va, e ciò consente una drammatizzazione degli
eventi, sdoppiando in due destini diversi un unico filo di esistenza.
Forse è proprio di qui che può essere iniziato il romanzo. Ma pensando al fratello che è rimasto a Zanzibar, Amin, mi sono chiesto perché sia rimasto, e la risposta è stata che era innamorato. Sì, era innamorato della sua isola, innamorato della famiglia – ma soprattutto era
innamorato di una donna: e mi sono domandato perché sia nato un
dilemma, perché lui non sia potuto essere felice, rimanendo dove era
nato. Allora ho cominciato a pensare anche all’altra storia, quella di
Rehana e Martin, una vicenda d’amore interrazziale su cui mancano
notizie. È tipico che non si sappia niente di queste storie, soprattutto
relativamente all’ultima fase della storia imperiale, il secondo Ottocento. Nel periodo vittoriano non si scriveva su queste vicende, anche se esse c’erano, erano accadute, accadevano. Ma non se ne par-
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lava, le si circondava di silenzio. Così, riflettendo su uno e sull’altro
versante, la mia immaginazione ha fuso le due storie, il passato lontano e il quasi presente. Le due coppie intrise di silenzio mi hanno
chiesto di essere narrate.
IV: Nel romanzo ognuno diserta qualcun altro o qualcosa altro,
così che alla fine il tema dell’abbandono si fa pervasivo e lambisce
tutti i personaggi, i luoghi, gli ambienti, generando un’atmosfera di
particolare fluidità.
Lei ha inserito una sorta di cammeo, una scena classica, fra due
personaggi che si trovano a discutere animatamente, bevendo
whisky in una lunga serata estiva in riva all’Oceano Indiano. Una tipica scena coloniale. I due sono i classici personaggi dal mondo imperiale britannico, l’uno, Frederick Turner, un civil servant (funzionario coloniale), l’altro, il rubizzo Burton, un proprietario terriero appassionato di cavalli. Sono delle figure interessanti per il discorso politico che conducono, ma mi paiono presentati con ironia e anche
con iplicita ambiguità, come se lei li avesse tirati giù da uno scaffale,
diciamo, dove stanno riposti anche i libri di Conrad, insieme a quelli
di Achebe: insomma, sono degli stereotipi rivisitati.
AG: Non sono io a far di loro degli stereotipi: lo sono da sé, ecco,
sono degli stereotipi naturali. Ho riflettuto su che cosa potesse significare essere inglese in quel tipo di contesto storico e sociale, a quell’epoca. Frederick a tratti si sente a disagio nella sua situazione, deve
sopprimere certi lati della propria sensibilità in nome del ruolo che
ricopre: Frederick mette in scena il proprio personaggio, perché si
comporta come lui pensa si debba comportare un inglese in quelle
circostanze.
IV: L’intero romanzo è ambientato in Africa Orientale, sulla costa
fra Mombasa e Bagamoyo, e poi nell’isola di Zanzibar dalla quale lei,
Gurnah, proviene. Un’isola la cui cultura si nutre di mille succhi diversi, di lingue varie, anche se poi Zanzibar ha creato lo swahili, lingua franca di tutta l’Africa Orientale. Lei è originario di Zanzibar :
quali sono i suoi rapporti con l’isola, con il suo mondo ibrido e multiculturale?
AG: Io vado spesso a Zanzibar, privatamente, a vedere i miei parenti, e altrettanto privatamente me ne torno via. L’estate scorsa invece ci sono andato in veste ufficiale, invitato al Zanzibar Film Festival
dove già da due anni si tiene anche un convegno letterario, al quale
appunto io ho partecipato, e dove mi hanno presentato come uno
che fosse assente dall’isola da quarant’anni – il che naturalmente
non era vero. Ma io vado e torno silenziosamente, soltanto per vede-
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re gli amici e i famigliari.
IV: Che cosa dice dei conflitti che ancora dividono gli abitanti di
Zanzibar? Quale è la sua percezione della situazione?
AG: Secondo me le differenze e i conflitti vivono e prosperano a
livello polemico, quasi retorico. Nelle dichiarazioni ufficiali del governo e degli uomini delle istituzioni, ritornano degli accenti che si
possono ben definire, eufemisticamente, di odio razziale. Eppure il
Presidente Amani è figlio del vecchio presidente Karume e di un’indiana, e davvero non dovrebbe parlare di razza in toni così polarised,
ma non c’è niente da fare, a un certo livello il discorso razziale riemerge costantemente, soprattutto in tempo di elezioni – ma non solo durante le campagne elettorali: in realtà, ogni volta che essi lo ritengano necessario. È un elemento profondamente inserito nella cultura di Zanzibar, e viene usato cinicamente, in modo spregiudicato.
Eppure funziona, nel senso che a livelli profondi il focolaio del conflitto storico è ancora così acceso che basta un accenno perché l’incendio divampi. Tutto questo accade, come dicevo, sul piano del
rapporto di retorica del potere. Ma nel mondo reale, dove abita la
gente, pur senza essere del tutto assente, non è così dannoso, non
lede i rapporti.
IV: So che lei appartiene a una famiglia araba, ma mi chiedo se
abbia esperienze di ibridismo nella sua stessa famiglia.
AG: Oh sì, naturalmente, e ne sono molto orgoglioso. Noi a Zanzibar siamo tutti molto mescolati. Quando eravamo giovani non rispondevamo a questo tipo di domande – di che razza sei, di quale
religione — e anche oggi, se mi si domanda ‘cosa’ io sia, rispondo
che sono uno zanzibarino. Anche in questi discorsi, come nel caso
del discorso storico, la narrazione non può essere monolitica e imporsi come unica: noi siamo figli di molteplicità, le nostre sono molte storie insieme, noi siamo le nostre stesse mille origini.
IV: Lei vive ormai da molti anni in Gran Bretagna, dove si è affermata l’idea dell’esistenza di una cultura black British, cui si affianca un black British writing. Ebbene, lei si considera parte di questa
koiné, detta black Britain? Se sì, in che modo, e da che punto di vista?
AG: Non ho obiezioni contro questi termini, benché talora l’uso
che ne viene fatto tenda ad escludere più che a includere. Però non
li considero definitivi, anzi, non mi pare che neppure oggi essi definiscano la situazione. Mi sembrano utili a delimitare degli argomenti
di discussione, a indicare delle aree – oppure li vedo funzionali all’u-
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so che ne fanno gli editori per rilanciare dei prodotti nel mercato.
Non obietto, ripeto, a condizione che non servano ad escludere nessuno e siano adoperati in uno spirito di tolleranza. Quanto a me, non
mi importa gran che di essere definito uno scrittore africano, inglese,
internazionale, oppure black British. In campo accademico, come è
ovvio, il ricorrere a questa terminologia – black Britain, postcolonialismo, e simili – serve a chiarificare e descrivere l’oggetto di studio.
IV: E lei accetta l’implicazione politica del termine black Britain
che proviene da Stuart Hall?
AG: Francamente, no: anzi, penso che neppure lo stesso Stuart
Hall riferirebbe il termine a se stesso; penso che lo userebbe piuttosto per la generazione più giovane degli emigrati caraibici. Ma voglio
dire, qui, che io penso sempre a Zanzibar. Ci penso almeno una volta al giorno, e anche di più di una volta.. Per esempio, oggi ho pensato spesso a Zanzibar, dove la mia famiglia è riunita per il matrimonio di mia nipote, e dove avrei voluto essere anche io. Domani ritornerò in Inghilterra, e mi parrà di ritornare a casa: non c’è conflitto fra
questi diversi sentimenti e appartenenze, perché ognuno di noi ha
molte case, molte patrie. L’Inghilterra è il mio paese, ma lo è anche
Zanzibar, dove la mia immaginazione vola sovente, dove si sofferma
a rivedere passato e presente. Ritengo che la definizione di black
British non si adatti a uno come me, profondamente radicato sia in
Inghilterra sia a Zanzibar, ma neppure a Stuart Hall, che in Giamaica
ha profonde radici e vive consuetudini familiari. Non mi vedo come
un black British, ma semplicemente come uno che viene da Zanzibar
ma che appartiene anche all’Inghilterra.
IV: Passando ad altro argomento, vorrei chiederle cosa pensa dell’editoria africana così povera, incapace addirittura di pubblicare i
propri grandi scrittori, in un continente dove i libri sono troppo costosi per la gente comune e dove gli stessi scrittori si rivolgono altrove, all’America o all’Europa, per arrivare alla ribalta del successo.
AG: È certamente un problema: molti sono gli scrittori africani
che, una volta scoperti dall’editoria internazionale e raggiunta la notorietà, si trasferiscono a Londra, Parigi o New York, e così impoveriscono ulteriormente il continente. Ma non conosco nessuna soluzione al problema, dato che in Africa non c’è una vera cultura della lettura. Non è una questione di prezzi dei libri, perché se così fosse, basterebbe abbassarli, i prezzi, e la gente comprerebbe i libri: ma non
è così. In Africa, neanche chi ha molti soldi pensa a comperare libri.
Credo che si tratti di una questione che andrebbe affrontata dai
governi, con una politica di lungo respiro, e a livello internazionale,
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in tutti i paesi del continente. Bisognerebbe dotare le scuole di biblioteche e attrezzarle con metodi moderni affinché sappiano creare
dei lettori; d’altro canto si dovrebbero creare delle fondazioni che sostenessero gli scrittori in modo che non se ne andassero più via dai
loro paesi. Insomma, non è soltanto una faccenda di denaro, poiché
oggi anche la gente che il denaro ce l’ha, non compra libri. Ma io temo che i nostri governi africani non siano in grado di capire l’importanza di tutto ciò, e non destinerebbero mai dei fondi a una programmazione di questo genere. I nostri politici, se sono ricchi, spendono
il denaro per costruirsi case in Svizzera o negli Stati Uniti; se non sono abbastanza ricchi, e per esempio vengono da Zanzibar, si faranno
delle case più grandi a Zanzibar. Allo stato attuale delle cose, in Africa non c’è molta speranza per il futuro degli scrittori, della cultura
del libro.
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LA MACHINE DE MARLY: REVES ET CAUCHEMARS
1. Le château de Marly et sa machine
En 1678, Louis XIV est au faîte de sa gloire, et vient de remporter
les victoires décisives contre ses ennemis. Il décide de se faire construire une résidence privée où séjourner et se détendre; l’emplacement choisi est Marly. De cet endroit humide, vallonné et marécageux, le premier architecte du roi, J. Hardouin-Mansart, fera un domaine de rêve, à l’architecture éclatée et complètement nouvelle en
France, inspirée de l’architecture italienne et, en particulier, de la
Villa Rotonda de Palladio.
Le domaine, disparu au début du XIXe siècle, se composait d’un
pavillon central, le château royal proprement dit, et de douze autres
pavillons, destinés aux invités choisis.
Marly est, dès le début, un “château d’illusion”, avec une architecture d’apparence: sur sa façade point de pierre mais de la peinture en
trompe-l’œil!
L’apogée du domaine royal, continuellement façonné par le roi et
son architecte, correspond à la fin du règne du Louis XIV.
Marly étonne les contemporains du monarque et marque leurs
esprits et leur mémoire grâce à l’abondance de l’eau qui orne les jardins, dévalant les cascades, s’offrant au ciel tel un miroir, s’écoulant
en nappes, ou jaillissant gaiement. Cette abondance hors du commun est rendue possible grâce à la machine imaginée, vers 1680, par
Rennequin Sualem (1645-1708) et Arnold de Ville (1653-1722), deux
Liégeois, pour élever l’eau de la Seine, coulant à 1600 m du château,
jusqu’aux réservoirs situés en bordure du parc. La première machine,
hydraulique, très célèbre, sera remplacée dans le premier quart du
XIXe siècle par une autre mue par la vapeur et ensuite, quelques années plus tard, par une nouvelle machine hydraulique. Après maintes
vicissitudes, cette dernière, petite fille de la machine du Grand Louis,
a été détruite en 1969.
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2. Soif de gloire
La machine de Marly est un objet quasi onirique, mythique, tout
en étant réel. Son histoire est sûrement une histoire de techniques,
mais c’est d’abord, et surtout, une affaire politique et une aventure
humaine au jour le jour, jours et nuits, dimanches et festes, sur une
période longue. Si, au début, c’est un homme, le maître de l’eau, qui
a préparé le terrain pour sa réalisation, ce sont ensuite des hommes,
les maîtres des eaux, qui ont contribué à faire en sorte que cet exploit
demeure. Leurs sentiments, leurs perceptions, leurs jugements et critiques vis-à-vis de cette pompe extraordinaire et curieuse ont créé sa
légende. De même que leur travail, acharné et dévoué, a perpétué
son fonctionnement et par là, sa gloire.
3. Du jaillissement de la puissance: raison et déraison
La machine de Marly hante les esprits, même si elle n’existe plus
que dans les documents d’archives, la mémoire, et les mémoires. Très
populaire dès ses débuts, elle est un attribut de la puissance royale,
elle participe à son rayonnement; son apogée est celui du roi, celui
du royaume.
Si au XVIIe siècle l’eau est une denrée relativement rare, comme le
souligne J.-M. Apostolidès, “il existe à la cour un surplus d’eau dilapidé en spectacle, qui contraste avec le manque enregistré dans les
villes du royaume”. Et c’est justement “de l’opposition entre rareté
dans le royaume et surabondance à la cour” que “naît le mythe de la
surpuissance du roi: seul le prince peut se permettre de telles dépenses de prestige1”.
Contraste puissant aussi entre la bestialité de l’engin et l’esthétique et l’harmonie de son résultat: grâce à cette pompe, le précieux
liquide pouvait, à profusion et à souhait, rien que pour le divertissement, ruisseler, bouillonner, scintiller dans les nappes ou dans les
cascades, rejaillir en jets puissants ou en larges gerbes, véritables
Avertissement: les textes anciens imprimés ou manuscrits ont été transcrits dans leurs
graphies anciennes. Les acronymes ADY et CHAN signifient respectivement Archives
départementales des Yvelines (Saint-Quentin en Yvelines) et Centre Historique des
Archives nationales (Paris).
1
J.-M. Apostolidès, Le Roi-Machine, spectacle et politique au temps de Louis XIV,
Paris, Les Éditions de Minuit, 1981, p. 102.
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sculptures d’eau.
Cette déraison fut aussi décriée, à l’instar de Mirabeau: “Quelle
différence cependant de l’honneur qu’eût fait au prince et à la nation
la prodigieuse dépense faite à la machine de Marly, si les eaux, qu’élève cette machine, au-lieu d’aller se perdre dans les vastes déserts
de Versailles, étoient destinées à descendre en fleuve dans les rues
de Paris, et y former des fontaines telles que celle de la place Navonne! Si Louis XIV fût né dans une nation moins gothique que ne l’est
encore la nôtre sur tout ce qui est amour du public et intérêt bien entendu, certainement ce prince à qui tout ce qui avoit l’air grand saisissoit l’imagination, auroit au moins autant goûté ce faste public
dont il nous a même laissé plusieurs monumens, tels que ses arsenaux, les invalides, les portes de Paris, que cette magnificence privée
à laquelle il a sacrifié tant de trésors, et qu’on lui reproche à bien des
égards dès aujourd’hui2.”
4. Renommée de Louis XIV
“Nombre de sçavans ont traitér de cette machine, elle a fixée
Longtemps Lattention des connoisseurs, Lanoble simplicitée qui regne dans sa construction fait une partie de son mérite, Laquantitée de
mouvemens repetér, et Lassemblage prodigieux des divers materiaux
qui La composent, causent cet Etonnement qui fait Ladmiration du
plus grand nombre3.”
Dès le début, et pour toute sa durée, on retrouve très souvent le
renvoi à la gloire et à la renommée de Louis XIV, “génie aussy vaste
dans ses projets4”: le “(…) but principal de cette méchanique estait
bien de fournir une quantité d’eau qu’elle ne fournit pas (…) ; le but
accessoire etoit d’étaler dans cette partie la magnificence d’Un prince
si grand dans toutes les autres, et il faut que tout le monde avoue
que si le Ier et le principal objet n’est pas rempli, le 2nd l’est de manière qui etonne et qui frappe les connaisseurs mêmes”5.
Les propositions de simplifications et améliorations de la machine
au XVIIIe siècle visent non seulement à “prévenir la ruine totale de ce
monument de la grandeur du Monarque6” mais à la rendre plus spec2
Mirabeau, Victor Riqueti, marquis de, L’Ami des hommes ou Traité de la population, t. I, Avignon, [s. n.], 1756, p. 104-105.
3
CHAN O/1/1498-324, 16 juillet 1789, signé “Brouard Inspecteur”.
4
CHAN O/1/1495-298.
5
CHAN O/1/1495-298.
6
CHAN O/1/1495-383.
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taculaire 7 encore et éviter ainsi qu’elle paraisse pauvre “aux yeux du
vulgaire qu’elle étourdit par son fracas, par sa complication et par sa
masse imposante”. Sa réputation serait alors perdue8. Le mythe va
plus loin encore: même L.-A. Barbet rapporte une légende populaire
qui aurait fait passer à la postérité R. Sualem, non seulement comme
l’unique inventeur de la machine, mais aussi comme la victime de
“mille tracasseries” et d’un cruel Louis XIV qui “lui fit crever les yeux
de peur qu’il n’allât enrichir d’un semblable monument un pays
étranger9”.
5. Monstre anthropomorphe
Ce monument, pourvu de quatorze roues de douze mètres de
diamètre, de plus de 250 pompes aspirantes et foulantes, de kilomètres de tringles et tuyaux, de petits et grands chevalets, de chaînes,
manivelles, varlets… impressionne, étonne, émerveille, effare.
“Merveille10” ou “Léviathan11”, double visage de la technique, qui
persiste encore… Sa structure épurée permet de voir “dans les airs la
Seine suspenduë: prompte à suivre par tout la voix de son Heros, elle franchit les Monts, et jusques dans la nuë Semble porter ses
flots12”. Elle se dessine en creux, en filigrane dans le ciel et sur le
paysage.
Carcasse aérienne, transparente, enchaînements et enchevêtrement de matériaux (fonte, fer, bois, cuivre, plomb…) qui se complè-
7
CHAN O/2/297, IV-F.
CHAN O/2/297, IV-F..
9
L.-A. Barbet, Les Grandes Eaux de Versailles: installations mécaniques et étangs
artificiels, description des fontaines et de leurs origines, Paris, H. Dunot et E. Pinat Éditeurs, 1907, p. 139.
10
“Pendant plus d’un siècle, [la machine de Marly] fut regardée comme une des merveilles du monde. Tout étranger venant alors à Paris aurait sacrifié ses intérêts plutôt que
d’en manquer la visite. Cet immense appareil, qui couvrait de ses mouvements bruyants
toute la montagne de Bougival, remplissait d’autant plus d’étonnement que peu de personnes en comprenait le mécanisme. On rapporte que le baron de Ville disait n’avoir
trouvé que le maréchal de Vauban qui en comprit tous les détails”, L.-A. Barbet, op. cit.,
p. 138.
11
Un “chroniqueur exaspéré” aurait appelé la machine “Léviathan de Rivière”, dans
J. et M. Laÿ, La Machine de Marly, Imprimerie de l’Indre, 1998, [p. 16].
12
Fr. Boutard et Ch. Perrault, Ode latine sur Marly traduite en français. Au Roy, A
Paris, Chez Th. Muguet, [1697], p. 11.
8
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tent dans le dispositif en s’entrechoquant13.
Imaginons ces roues emportées par l’énergie cinétique de la Seine, qui entraînent dans le mouvement les pompes et le système de
tringlerie. C’est une machine qui s’anime, qui prend corps. Un corps
qui inspire (l’eau) et un corps qui expire (l’eau), 160 mètres plus
haut, avec bruits et fracas. Un corps qui engloutit, digère et recrache,
un corps dont les membres interagissent avec des craquements dus
aux frottements des matériaux et des mécanismes. Un corps cyclothymique, malade de climatopathologie, météosensible14.
Un corps à la matérialité fragile, qui se casse15…
Un corps symbole du corps du Roi, au soin duquel on se mobilise… aux petits soins de la machine, aux petits soins du roi.
Un corps qu’il faut veiller16 pour qu’il puisse fonctionner et qui a
13
“1 700 000 livres de cuivre mis en œuvre, autant de plomb, 20 fois autant de fer,
100 fois autant de bois”, de la Jonchère, Nouvelle Méthode de fortifier les plus grandes
villes (…) suivie de dissertations sur la Machine de Marly (…), Paris, Chez Florentin
Delaulne Imprimeur, 1718, p. 165.
14
Les archives nous fournissent de nombreux documents sur le côté météosensible
de la machine: les gelées, les dégelées, les basses eaux, les eaux “grosses”, les bourrasques et ouragans, tout peut être source de dérangement. Ici, c’est une gelée qui arrête la machine (CHAN O/1/1495-630); là, c’est à cause du débordement de la rivière que
la Machine ne monte plus l’eau (CHAN O/1/1493-107, 10 décembre 1740). Ailleurs on
signale que “la rivière se soutient toujours si haute quelle empesche les roües de tourner” (CHAN O/1/1494-87). Le desgèle aussi occasionne des dégâts: dans ce cas, la “chutte en démolition d’une partie du mur dedans du réservoir du grand puisard” sur 6 toises de long (CHAN O/1/1495-172). Et les réparations ne peuvent souvent s’effectuer qu’à
la belle saison. “Malgré l’attention que j’apporte pour œconomiser sur la dépense de la
Machine, la nécessité de grosses réparations et leurs multiplicités, m’obligent de vous
demander 2 compagnons charpentiers d’augmentation pour pouvoir profiter de la belle
saison pour leur rétablissement qu’il serait impossible d’entreprendre pendant l’hiver et
les grosses eaux” (CHAN O/1/1495-227, 1er juillet 1763). Sans compter que les 14 roues
changent de nombre d’aubes selon la saison et la hauteur des eaux: elles portent chacune 24 aubes de hêtre en temps normal et 36 lors des basses eaux, en été. Voir L.-A.
Barbet, op. cit., p. 109.
15
“Tuyaux [de fer] qui se cassent journellement sur nos conduittes” (CHAN
O/1/1494-3); toutes les parties sont susceptibles de se casser, mais les manivelles sont
particulièrement fragiles : dans CHAN O/1/1495-209, il s’agit d’une manivelle cassée, la
deuxième depuis moins de 3 semaines. En O/1/1498-255, daté août 1787, est mentionnée la réparation de toute la partie est car elle “menaçait de ruine depuis des années”.
16
Par exemple Jacques Langlois, charpentier, est Employé ala visite de tous les mouvemens delad. Machine (ADY A SUP 107). Encore en 1748 nous trouvons, à propos de
la permission que Monseigneur l’Archevêque de Paris vient de renouveler pour la chapelle de la machine, qu’il n’a pas voulu “accorder que l’on y dise la messe les festes
annuelles, ce qui Sera un grand inconvenient, la machine est Situe a l’Extremité de deux
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la priorité sur tout: pour leurs bateaux de sel naviguant vers Carrière
sous Saint-Denis, les mariniers demandent d’arrêter la machine. La
réponse est négative: l’on serait alors obligé de faire cette grâce à
tous les bateaux, ce qui empêcherait de monter l’eau à Marly l’été,
“dans les tems de la grande consommation”. Et tout arrêt “(…) occasionne toujours beaucoup de cassures soit dans les mouvemens soit
aux conduittes par les vents qui y sont renfermés lorsquon le fait remarcher. Enfin l’on a jamais arresté la Machine pour la navigation,
que dans des cas où il y avoit reellement du peril (…)17”.
Un corps pour lequel on aménage un lit, celui de la Seine, dont
les rives ont été soigneusement maçonnées, pour qu’il soit solidement ancré et protégé des dangers18 d’éventuels débris.
Un corps mortifère, mangeur d’hommes, qui engloutit: accidents
causés par la déviation artificielle, naufrages19, accidents liés au travail des hommes20…
Un corps qui s’agite et remue: des odeurs des glaises21, d’eau
paroisse, lon ne peut abandonner cet ouvrages ou la moindre cassure negligé causeroit
un domage conciderable et l’afluence de curieux qui y viennent pouroit meme faire tort
Si ceux qui Sont de garde etoient obligé de faire une demy lieu pour aller entendre la
messe qu’ils Seroient Souvent en danger de manquer par les accidents qui les retarderoient ala machine” (ADY, A SUP 100), signé Delespine, ala machine ce premier decembre 1748. Par un Mémoire d’observation concernant la Machine de Marly nous apprenons que “un fontenier à Marly et un homme de la Machine se trouveront tous les jours
à une heure fixe aux réservoirs pour vérifier l’état de la superficie” (CHAN O/1/149398).
17
CHAN O/1/1494-117.
18
Pour la protection de la machine, voir l’Ordonnance du Roi du 9 juin 1685, signée
“Louis” et “Colbert”, “portant défenses à tous Pescheurs & autres de mettre des nasses,
ficher des piquets ou planter des oziers, saules & autres bois, dans le bras de la Riviere
de Seine, qui coule à la Machine construite sur ledit bras d’eau, sous les peines y contenües” (CHAN O/1/1494-82). Un document des archives du Musée-Promenade, daté 10
décembre 1773 (série JJA, 1), relate que la demande de permission du S.r Roselet de
construire un moulin en amont de la machine est déboutée: “le plus Sûr est qu’il n’y ait
rien au dessus dont il puisse resulter pour elle le moindre danger.”
19
Le document CHAN O/1/1493-95 mentionne des “batteaux péris en la rivière de
la morue” ou encore en O/1/1498-343 il y a une référence à un naufrage du 26 mai 1790.
20
É. Soullard écrit, d’une manière très appropriée, à propos des accidents et morts
causés par la construction et l’entretien de la machine, de “légende noire de la machine avide d’or et de sang”, dans É. Soullard, “Les Eaux de Versailles”, mémoire de maîtrise d’histoire, D. Roche (dir.), Paris-I Panthéon-Sorbonne, 1985, p. 85.
21
Le “retablissement des glaises du reservoir du grand puisard” dérange la Comtesse
de Toulouse par l’“odeur des vases du fond” (CHAN O/1/1493-120); Madame la
Comtesse fait partie des voisins célèbres qui eurent à souffrir des nuisances et dérangements de la machine, telles les 10 toises superficielles de mur tombées au réservoir du
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brassée en profondeur.
Un corps qui grince, fait du bruit, dérange. Madame du Barry, depuis le Pavillon des Eaux d’Arnold de Ville, ou Madame d’Houdetot,
depuis son jardin de Fourqueux, s’en plaignent… Léviathan de Rivière, huitième merveille du monde?
Le monstre, aérien et terrestre à la fois tout en étant aquatique,
pourvu de dents (engrenages), d’un “tube digestif”, d’un cœur qui
pompe: la transmission de l’eau comme une circulation du sang.
Machine diabolique, elle sera élevée au rang de Dieu dans un
pamphlet presque blasphématoire, intitulé La Passion d’une très
respectable dame âgée de cent vingt-trois ans, filleule d’un très magnifique prince et fille d’un homme de génie, arrivée en l’an du Monde 5804. L’adjudication de la machine, fille de Swal [Swalem], dont le
destin est d’être livrée pour être démantibulée22, est comparée à la
crucifixion du Christ.
La technique comme religion… la religion de la technique.
6. Objet de rêve, objet de curiosité et de convoitises
La machine est un objet de rêve, parce qu’elle repousse les limites
de l’impossible et crée le rêve. Elle permet les fabuleux jets d’eau des
bassins de Marly, décor liquide et éphémère d’un “palais de fées”
(Saint-Simon) emmenant l’invité choisi dans un monde idyllique. Lister considère Marly comme “l’un des lieux les plus agréables [qu’il
ait] vus ou [qu’il croit] qu’il y ait en Europe23”.
Née d’une convoitise royale pour les eaux de Vaux-le-Vicomte,
grand puisard dans son jardin (CHAN O/1/1495-27, 16 mars 1761). Les mauvaises odeurs
et les dépôts de vase sont une constante dans la machine, même au XXe siècle: les archives municipales de Louveciennes conservent quelques documents, datés 1913, signalant
ces inconvénients persistants et récurrents, tous les étés, (3N14). À cela s’ajoutent les
documents concernant la présence dans l’eau, à deux reprises, dans un temps encore
plus proche de nous (1954 et 1966), de vers de 1 cm de longueur environ et de vermisseaux rouges! (3N17).
22
(…) Par un des Apôtres de la vérité, à Paris, an 1806 de l’ère vulgaire. Cette polémique littéraire et métaphorique contre l’adjudication relaye la polémique réelle, technique et politique, dont attestent à plusieurs reprises les Annales de l’architecture et des
arts, du deuxième trimestre de l’an XIII [1805] (nos 11, 12 et 22) et du quatrième trimestre de 1808.
23
M. Lister, Voyage de Lister à Paris en 1698, Paris, Librairie Auguste Aubry, 1873, p.
185.
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symbole du pouvoir24 par le pouvoir qu’elle donne, elle est aussi objet de jalousies. Ainsi, en 1684, elle est déjà connue et digne de l’intérêt des cours étrangères: elle est objet d’une sorte d’”espionnage
technologique25” effectué par Pietro Guerrini pour le compte du
grand-duc Côme III afin de rapporter à la cour de Toscane les plus
innovantes découvertes européennes en matière d’hydraulique. Dans
une lettre du secrétaire grand-ducal Apollonio Bassetti adressée à
Guerrini le 3 octobre 1684, nous découvrons que Bassetti ne peut
“déjà dire avoir vu encore les dessins, parce que Son Altesse notre
seigneur, dans les mains duquel premièrement [la lettre] est arrivée,
m’a envoyé la lettre sans les feuilles [annexes], qui toutefois restent
auprès d’Elle et je sais que hier soir il les fit voir à toute l’anticamera 26, en ne discutant pas peu sur les mêmes (…)27”.
Parmi les visiteurs illustres notons les ambassadeurs du Siam, le
tzar Pierre Ier, Monsieur le duc de York et Monseigneur le Prince de
Turenne28 ou encore le roi Christian VII de Danemark ainsi que Jefferson, président des États-Unis. Remarquons que François Giraudet,
ancien charpentier, était “obligé à chaque instant et même festes et
Dimanches, de devenir nécessaire aux Etrangers de distinction, pour
leur expliquer les divers effets des pompes” et qu’alors “rien ne seroit
plus analogue à son état que d’être distingué par un uniforme”29.
7. Rêve et rêveurs; scientifiques et charlatans
La machine déchaîne de vraies passions, son perfectionnement
24
Pouvoir aussi de vaincre, même les lois de la nature. Le jeton en bronze frappé
en 1684, figurant d’un côté le buste de Louis XIV, LVDOVICVS. MAGNVS. REX. et, de
l’autre, la machine qui élève l’eau de la rivière sur la tour provisoire en bois, porte la
légende très parlante: VICTIS HOSTIBVS VICIT NATVRAM [Après sa victoire sur les ennemis, Il a vaincu la nature]. Voir A. Kohler, “Variétés sur une défunte : la Machine de
Marly”, Le Vieux Marly, Bulletin de la Société archéologique historique et artistique de
Marly-le-Roi, t. III, n° 3, 1968-1969, p. 36-38.
25
Telle est aussi l’appellation choisie par F. Martelli, auteur de Il viaggio in Europa
di Pietro Guerrini (1682-1686), edizione della corrispondenza e dei disegni di un inviato di Cosimo III dei Medici, Ed. Olschi, Florence, 2005, p. XII.
26
Anticamera désigne, ici, une partie de la cour.
27
[Apollonio Bassetti] a Pietro Guerrini, Firenze, 3 ottobre 1684, fo 511 ro vo,
Mediceo del Principato 6380, dans F. Martelli, op. cit., vol. I, LXXIX, p. 262.
28
CHAN O/1/1493-114, daté du 1er décembre 1745 et signé “Delepine”.
29
CHAN O/1/1498-247, 11 décembre 1787.
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devient une véritable mission sacrée: les archives répercutent ce retentissement médiatique. Depuis sa construction, elle contribue à la
gloire du roi et à celle du royaume et son amélioration est une affaire d’état. Le problème, au-delà de la technique, est éminemment politique: la puissance et le pouvoir de représentation de Louis XIV
sont en jeu.
Pendant plusieurs décennies, de nombreuses personnes, de tous
lieux30, de différents horizons et de plus ou moins bonne foi, se pressent pour soigner l’état de la machine, la simplifier et la rectifier,
n’hésitant pas à s’endetter pour envoyer des mémoires appuyés de
modèles et de plans. Tous s’impatientent de voir réalisé “cet evenement si souvent proposé et toujours inutilement et sans succès
(…)31”.
Cette pléthore de documents révèle l’attachement à la machine
ainsi que le foisonnement des raisonnements autour de sa technique,
où il y a encore place pour le rêve et les rêveurs.
Parmi les nombreux projets, l’un d’eux mérite d’être mentionné
pour son extravagance:
“cette Machine de Marly de Planazu est peu de chose, comme je m’en doutais, c’est la machine du S. Vera [?] un peu amplifiée par l’addition d’éponges, et c’est une chose inapplicable à la Machine de Marly. Ce seroit vrayment une curiosité plus grande que la machine actuelle que de voir 4 à 5
mille éponges se promenant de la rivière jusqu’au réservoir de la Machine
pour y porter l’eau et en descendant pour en aller chercher d’autre (…)32.”
L’amélioration de la machine étant affaire d’état, elle est au centre d’une querelle, une histoire de concurrence entre la France et
l’Angleterre. En effet, la première machine était déjà l’œuvre d’étrangers et pour la remplacer la direction des Bâtiments n’avait pas hésité à faire appel en 1756 à la technique de Van Bockstaël, machiniste
du roi de Pologne, en lui permettant même de faire des essais finalement peu concluants. En revanche, quand il s’agit de la possibilité de
faire intervenir des Anglais, la teneur des lettres change vite: si “(…)
au Premier abord on ne peut disconvenir que Sa Soumission33 ne Soit
Specieuse et meme Sans risque puis quil ne demande nulle avance,
30
De Saint-Étienne en Forez, de Nancy, de Namur, de Liège, de Lille, de Beauvais,
de Vienne en Dauphiné, de Nismes, de Strasbourg… (CHAN série O/1/1498).
31
CHAN O/1/1494-24, lettre du 7 avril 1756 de Marigny.
32
CHAN O/1/1498-126.
33
Il s’agit là du projet de Playfair, charpentier de Londres, pour remplacer la machine actuelle par “une autre moins coûteuse et de plus d’effet”.
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que Son remboursement et Sa recompense consistent dans l’abandon
des materiaux de l’ancienne machine, et dans l’entretien de la Sienne
pendant quinze années alamoitié de ce coute l’ancienne, que cela ne
lui Sera accordé qu’apres verification de l’execution de Sa promesse”
et que tout cela “est infinimt séduisant et j’avoue ne le point croire
impossible”, la fin est très claire: “d’un autre coté ne serait il pas honteux pour la nation francoise d’avoir donné les prix à diverses pieces
Sur la machine de Marly, et d’appeler un étranger pour la rétablir
sans faire usage daucune de ces pieces34”.
8. Les hommes de la machine
“(…) Dans l’administration de l’entretien de la Machine, la plus exacte police y est d’une nécessité indispensable; d’une subordination bien soutenüe
depend l’activité, le bon usage du temps d’un chacun en raison de ses talents, et le bon employ des divers matériaux qui entrent dans cet entretien.
On observera que le district de la Machine qui diffère totalement des autres
departements des batiments du Roy demande tout autre talent que ceux de
l’architecture civile dont il est peu susceptible, c’est (…) une connoissance
exacte de touttes les parties qui concourent à faire mouvoir cette machine
pour estre a porteé de decider d’un coup d’œil de la qualité, et necessité de
la reconstruction des accidents qui arrivent journellement, et des diverses
supercheries que les ouvriers peuvent se faire entre eux par jalousie de métier, dans les différents postes qui leur sont confiés ce qui n’arrive que trop
souvent, et toujours au desavantage du bien du service. On connoistra par
le détail les fonctions d’un chacun; que celle du directeur, de l’inspecteur, et
du gacheur ou premier charpentier sont fort interessantes, c’est de leurs
part une sujettion et une residence continuelle, ou la meilleure theorie n’est
que le mobile d’une pratique presque toujours nouvelle, et applicable aux
inconvenients qui arrivent journellement35.”
9. Construire et entretenir
Après la construction du mastodonte36, pour laquelle 1 800 hom-
34
CHAN O/1/1498-295, du 22 novembre 1788; ou voir aussi f° 331.
CHAN O/1/1498-324, 16 juillet 1789, signé “Brouard Inspecteur”. Pour un organigramme de la machine sous l’Ancien Régime, voir W. Eon, “Les Services des eaux de
Versailles”, mémoire de DEA, C. Grell (dir.), université Versailles/Saint-Quentin-enYvelines, octobre 2001.
36
64 mètres de longueur sur 67 mètres de largeur! Dans F. Tiberghien, Versailles, le
chantier de Louis XIV, 1662-1715, Paris, Perrin, 2002, p. 233.
35
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mes furent nécessaires37 et qui “impliqua une véritable ville-champignon, avec tous les corps de métiers dont les forges, mais aussi des
ateliers de réparation, un service médical, des prêtres (les Récollets
de Saint-Germain) et une chapelle38”, le travail des hommes, une
soixantaine, consista à l’entretenir, ce qui signifiait, souvent, le réparer.
L’Etat de la dépense à faire dans le Dép. de la Machine de la Rivière de Seyne, pendant les trois derniers mois de l’année 1715 fournit
un inventaire des types de travaux à effectuer et des matériaux: “Entretien des ouvrages deforge des mouvemens delaMachine, des fers
des fonds des Courciéres dela grande Digue, et des Isles depuis lad.
Machine, jusqu’àBezons, (…) Celuy des ouvrages de cuivre pour les
pistons, Celuy des conduites deTuyaux defer, (…), Celuy des couvertures des Maisons dependant dela Machine, (…), L’Entretien des bois
de charp:rie dela Machine, Celuy des boulles, des pistons, et tampons
delad. machine (…). Les fournitures àfaire en clous, chandelles, pots
abruler, huiles, vieux-oing39; bray40, vieux cordages, Equipages pour
les puisards, perches, mannes, et panniers pour les pompes et charbon (…)41.” Ailleurs sont mentionnées les “reparations des digues, et
rempiettement des Isles”, la nécessité de “draguer et nettoyer les herbes qui Empechent les Eaux de couler et qui peuvent causer des atterrissements dans l’ancien bras dela rivière (…), les reparations des
conrois des reservoirs dependants dela machine”, le nettoyage et la
réparation des “acqueducs pierrés et rigolles qui amenent l’eau ala
machine”, les “reparations des couvertures cassées par les mouvements des chaisnes”42.
La machine fut sûrement un objet de cauchemar; son côté noir
était étroitement lié aux conditions de travail, à la difficulté des tâches, aux accidents récurrents et graves.
Le travail est effectué de jour, de nuit, sans interruption, sept jours
37
De la Jonchère rapporte que 1 800 hommes furent employés pendant 7 ans pour
faire la machine, op. cit., p. 165.
38
P. Nickler, “La Préhistoire de la machine de Marly”, Artisanat, industrialisation,
désindustrialisation en Île-de-France, colloque de Meaux, 4-5 décembre 1999, Fédération
des sociétés historiques et archéologiques de Paris et de l’Île-de-France, Paris, 2000, p.
138.
39
Oing : graisse de porc fondue servant à graisser les essieux.
40
Brai : résidu solide de la distillation de goudrons, de pétroles et d’autres matières
organiques, utilisé notamment dans la fabrication d’enduits d’étanchéité.
41
ADY A SUP 107.
42
ADY A SUP 107.
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sur sept sans exception, quelle que soit la météorologie: “sur les
Vannes et aux Puisard pendant lemois dejanvier (…) Garde de nuit
aLa petite Tour43”. Outre la pénibilité du travail, les paiements ne
sont pas toujours réglés en temps et heures dus; ils peuvent même
avoir un ou deux mois de retard44. Dans une lettre de fin mai 1757
Deshahiny “supplie très humblement Monsieur le Directeur Général
de vouloir bien ordonner le paiemens des deux mois d’avril et de
mai qui sont dus à ses ouvriers; l’adoption du Rolle mensuel permettra que les pauvres gens puissent être payés par mois de leur travail
netant pas en état d’attendre un plus long delay45”. En avril 1789, les
“Ouvriers Journaliers viennent (…) mettre sous vos yeux M. le Comte [d’Angiviller] leur présent Besoin et la misère extreme où il se
trouvent de la plus part Chargé de Nombreuse famille ne pouvant
subvenir à leurs subsistance (…)46”. Le mois d’août suivant, faute de
pouvoir payer, les ouvriers sont même poursuivis “par les boulangers et autres fournisseurs47”.
10. Corps meurtris
Nombreuses sont les maladies et accidents qui affectent les ouvriers: coups de sang48, paralysies, pertes de la vue49, luxations50,
43
ADY A SUP 105.
En 1789 le retard ira jusqu’à 4 mois. Le 8 juin 1790, Gondouin des Luais demande
de “faire toucher les roles arriérés de 4 derniers mois de l’année 1789 (…)”
(CHAN O/1/1498-344).
45
CHAN O/1/1494-164.
46
CHAN O/1/1498-312 du 6 avril 1789.
47
CHAN O/1/1498-353.
48
CHAN O/1/1495-484, O/1/1493-71.
49
CHAN O/1/1493-71 et 115.
50
“Merlin souffletier pour les travaux du Roy demerant S. Germain en Laye et
depuis 18ans Employé ala Machinedemarly chargé de 4 enfants prend larespectueuse
liberté deVous Exposer que le 5decembre dernier a10heures dumatin il eut le malheur
d’être Estropié en presence de Mr Lucas Directeur de la Machine de Marly, parcequ’ayant au besoin d’un Billot pour travailler il futenchercher un audessous de la grande forgedans le sentier et comme le chemin étant fort Glissant il eut le malheur de se
briser la cheville du pied au point d’être depuis le temps hors detat de se servir de son
pied et en danger dene jamais recouvrer l’usage et la liberté dans tel état (…)”. Cet accident a des suites désagréables et sept mois après, il ne peut pas encore travailler et il a
la charge d’un “gros loyer et de six personnes a faire vivre [il] a beaucoup perdu et
depensé” (ADY A SUP 100, du 5 août 1782).
44
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playes et fractures51, sections des tendons d’Achille… Ces atteintes à
la santé de gravité différente sont soignées parfois par des medecines
composeés ou par des “onguent, baume balzamique consolidant, huile d’ipericum52”, s’apparentant presque à des remèdes d’apprenti-sorcier. Les conditions initiales peuvent dégénérer; le médecin doit alors
intervenir plus lourdement. Laillet est soigné d’abord avec une médecine, puis avec “un autre medecine” mais “une gangresne Seche aupied dudit Laillet” oblige le chirurgien à lui “couper les doigts Lun
apres Lautre et ensuitte coupé lepied ce qui aduré toute Lannée a
pencé”. Le médecin lui a “fourny pendant le courant deladitte année
trente cinq pintes dEaudevie Camfrées des digestif animée de Longuent destirax des Essences detherebentines et autres; plusieurs livres de quinquina apresté en opiate enti Scorbutique et beaucoup
dautres onguents dedifferente Fassons (…)53”.
De nombreux accidents entraînent la mort: Baptiste Rourfeau [?]
charpentier de visite a été tué dans les mouvements sur la rivière
après trente-six ans de service54.
À la machine, on œuvre durement55 et longtemps56: on retrouve
la veuve d’un ouvrier ayant travaillé quarante-neuf ans57 ou Prouvay,
chef des charpentiers, qui, dans sa soixante-quatorzième année, perd
51
Antoine Mogin, par exemple, a été “blessé a La machine” et a été pansé d’une
“grande playe al ateste avec fractures, Et ce pendant huit semaines, et Jusques a par faite
guerison”; il s’agit de la Quittance du sier dallemagne m.r chirurgien ast germain faisant
partie du Memoire des quittances payées par Le sier guincher, des deniers provenant des
amandes portées par Lasentence Rendue a Laprevosté delhostel en datte du 24e novembre 1682 (ADY A SUP 100).
52
Memoire de medicamens fait et fourny par moy Godefroy M.tre chirurgien alouvetienne Sous les ordres de Monsieur Le marquis de Marigny Directeur ordonnateur general des Batimens de Sa Majesté Sous le controlle de monsieur Tarlé au departement de La
machine pendant l’année 1765 (ADY A SUP 100). La teneur de l’État présentant l’évaluation des médicaments que j’ai fournis pour la Machine de Marly du 1er janvier au 1er
février 1829. Déclarations mensuelles, est beaucoup plus aseptisée (CHAN O/3/1195
exercice 1829).
53
ADY A SUP 100.
54
CHAN O/1/1498-316 lettre du 6 juin 1789.
55
CHAN O/1/1495-585 Tarlé demande sa mutation à Monceau ou à Saint-Germain
ou à Chambord pour “fatigue de la tache”.
56
Sur les 15 charpentiers présents en octobre 1759, au début de l’année suivante il
y en a six agés de 67 jusqu’à 74 années; 2 sont morts et seulement l’un d’eux a été remplacé par oeconomie. Réponse au sujet du le placet de françois Rabaille, a La Machine,
le 22 janvier 1760, signé “Tarlé” (CHAN O/1/1494-408 et 409).
57
CHAN O/1/1493-117.
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sa santé58, ou encore les Tepon, vieillards infirmes, vivant dans d’”affreuses misères et sans ressources”59.
11. Adoucissements à la médiocrité du sort 60
Destins tragiques, mais peut-être atténués par une sorte d’aide
étatique, accordée au cas par cas, en cas de maladie, de mort et veuvage61…
Jean-Baptiste Daniel, âgé de soixante-dix ans, travaille depuis
quarante ans en tant que fondeur. Tombé à plusieurs reprises en paralysie et devenu très infirme, chargé d’enfants “hors d’état de gagner
leur vie”, à cause du “Deffaut de payement de Ses appointements”, il
a dû abandonner son établissement parisien et se retirer à la machine. Il demande alors que sa place soit accordée à son fils ainsi qu’une “pension qui le mette enetat definir Ses jours paisiblement avec la
famillequinecessera ainsy quelui de prier pour la Sancte et prosperite de Monseigneur62”. Si Monsieur de Marigny, qui avait déjà accordé
la survivance de la place au fils de J.-B. Daniel63, accepte que Daniel
fils lui succède, il est, en revanche, beaucoup plus prudent quant à la
demande de pension du père64.
58
Prouvay demande son remplacement ainsi qu’une pension pour sa femme
(CHAN O/1/1495-52 et 57). Dans une lettre du 13 mai 1756 Tarlé demande de “gratifier
M. Prouvay, cheville ouvrière de la Machine, qui en a toute la peine et le détail le plus
pénible et le plus risquable. Son appointement montait autrefois à dixhuit cent livres et
depuis de reduction de tous les employés a la Machine, lors de la Mort de Louis quatorze, il est reduit à onze cent cinquante livres y compris une gratification de 150 livres
(…)”. Malheureusement les temps sont à l’austérité : la lettre est annotée “il devroit scavoir que les tems sont mauvais pour proposer augm.ons de [gages ?] d’ailleurs il doit
deffendre les interets du roy” (CHAN O/1/1494-36).
59
CHAN O/1/1498-349 et O/1/1498-344, du 8 juin 1790. Ils sont à l’infirmerie de
Saint-Germain. Sur cette dernière, voir F. Tiberghien, op. cit., p. 164.
60
CHAN O/1/1498-289, 27 août 1788.
61
Au sujet des accidents et indemnisations, voir J. Guiffrey, Comptes des Bâtiments
du roi sous le règne de Louis XIV (1664-1715), Paris, Imprimerie nationale, coll.
“Documents inédits sur l’histoire de France”, 1881-1901, 5 vol.; et F. Tiberghien, op. cit.,
p. 159 s.
62
Copie du placet de J.B Daniel, Monseigneur Le Marquis de Marigny Commandeur
des Ordres du Roy Directeur et Ordonnateur General des Batiments de Samajesté, A
Versailles le 8 mars 1772.
63
ADY A SUP 100, 9 mai 1771.
64
“A Versailles Le 29 mars 1772, (…) Al’egard delapension demandée par
DanielPere, ilmeparoitbien dansle casd’une semblable grace, maisfaisant attention que-
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Les traitements peuvent aussi être différents: Laillet, “garde des
bonnes eaux au regard du jonleur”, demande une gratification parce
que, malade pendant huit mois, il ne peut pas faire face à ses affaires
et “donner du pain à ses enfants”. Même s’il signale que plusieurs
employés l’ont obtenue65, la réponse sera cette fois négative66.
En cas de malheur, les ouvriers et leurs familles demandent secours et font appel à la bonté des “Directeurs et ordonnateurs généraux des Bâtiments du Roy” pour obtenir “une pension suivant l’usage en pareil cas”67, par exemple, en cas de mort d’un proche. Les situations sont analysées et l’administration cherche une solution adaptée68: suite à la “fâcheuse position de la veuve Richard chargée de 7
enfants dont le mari a bien servi pendant 25 ans (…) [je] m’engage à
lui continuer ce secours69”. Les pensions semblent être endossables:
à la mort de la veuve Renouvin, sa pension de 150 livres sur le trésor
royal “est reversée sur la teste de la veuve Daniel, qui n’a pas pu
l’obtenir lors du décès de son mari, ancien fondeur du département
(…)70”.
Comme dans le cas cité par É. Soullard71 au moulin de la grande
tour de Satory, les veuves de la machine reçoivent souvent une sorte
d’indemnisation, et reprennent, si le travail le permet, le poste du
mari72.
L’administration s’inquiète aussi de la capacité d’effectuer ou non
un certain travail: “(…) La femme de Laillet, monsieur, vient d’informer M. lecomte d’angiviller de la perte prochaine qu’elle va faire de
Son mari, en lui demandant de nouveau la place pour Son fils. mais
il n’y a pas moyen d’accorder une pareille place à un enfant de quinze ans; encore S’il avoit vingt un ou 22 ans”; la direction propose
son grand age etses infirmités neluilaisseroient probablem.t pasletemsd’en jouir, je préferedelui accorder une gratification de 250t quejelui ordonnerai incessamment pourl’aider. Sil’année prochaine il estencore vivant. jelui réitererai unpareil Secours” (ADY A SUP
100).
65
CHAN O/1/1498-225 et 221.
66
CHAN O/1/1498-222 et 223.
67
CHAN O/1/1498-123.
68
Malgré la defaveur du tems, “Je ne peux monsieur (…) me refuser à la concession
de la subsistance de 12lt par mois que vous avez sollicitez pour la veuve du nommé asselin”, ayant travaillé 44 ans à la machine (ADY A SUP 100, 5 mars 1791).
69
CHAN O/1/1498-117 du 10 février 1786.
70
CHAN O/1/1498-133 et 134 du 18 avril 1786.
71
É. Soullard, op. cit., p. 56-57.
72
En CHAN O/1/1498-117 (10 février 1786) est annoncée la mort de la veuve Roder
“[…] employée sur le rôler de votre département”.
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alors de “mettre là quel qu’homme de la machine agé et ala mort duquel on pourroit donner la place a L’aillet, fils ainé, S’il Se conduit
bien. (…) S’il S’agissoit d’un poste Seulement, on pourroit en charger
la mere jusqu’a ceque lefils fut en etat de faire leService. mais une
place de garde ne peut etre remplie ni par une femme ni par un enfant (…).73”
L’administration se soucie même des abus possibles à l’intérieur
des familles: Jacques Joseph Laillet, adressant une lettre à Madame La
Reine, “al’honneur de (…) representer très respectueusement que
depuis plus de deux cents ans 74 la place de Garde des Eaux de Sa
Majesté auregard jongleur près Marly, estdans Sa famille” et “ose
prendre latrès respectueuse liberté de vous Supplier, Madame, devouloirbien lui faire accorder la Survivance de cette Place afin d’écarter parlà dansle cas dedecès deSon frere, toute espece de demandeurs”. En affirmant que sa demande ne serait dictée que par le souci d’aider sa belle-sœur et ses six enfants, il assure vouloir abandonner la place au moment où “l’ainé des Garçons Seroit en état dela gérer”75. L’administration mène une enquête. Lucas précise d’abord que
le grand-père du Laillet qui est chargé à ce moment de la Garde du
jongleur n’a obtenu ce poste qu’en 1717; ensuite, renseignement pris
auprès de Me Gourdonneot Notaire et Commissaire depolice a Marly,
il rapporte “les meilleurs temoignages” sur l’exposant. En revanche,
Jacques Joseph Laillet ne semble pas avoir prévenu de sa démarche
ni sa belle-sœur ni ses neveux, ce qui fait “Soupçonner Sa sincerité”.
Lucas écrit donc que “Monsieur Le Comte ne peut pas prendre asses
de precautions pour que LaVeuve et les Mineurs ne Soient pas trop
acharge aladministration, si l’aillet Vient a décéder (…)76”. Secours de
raison et pas complètement désintéressé…
Les documents feraient apparaître que certains ouvriers jouissaient de l’“exemption de la taille de tout temps demeurant dans l’enclos de la Machine77”.
À une demande de permission de vendre, sous l’une des arcades
de l’aqueduc, du vin pendant les séjours de la cour à Marly, l’administration répond que cette autorisation ferait tort aux “gens de la
Machine78”; par contre, trois ouvriers seront imposés de taille parce
73
74
75
76
77
78
ADY A SUP 100, A vers.es, le 14 juillet 1783, signé “Montucla”.
Souligné dans le texte.
CHAN O/1/1498-156.
Ibid.
Voir CHAN O/1/1495-614 et 435.
CHAN O/1/1495-50 et 51.
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qu’ils en vendaient en détail dans leurs demeures79.
Par ailleurs, quelques avantages en nature semblent se révéler:
un droit de “pesche”80, “une des graces accordées par le feu Roy” ou
“don du Roy qui (…) procure l’honneur de l’avantage de présenter
quelques saumons à la Majesté, à vous Monsieur, à Mme la comtesse
de Toulouse et autres grands de la cour81”.
Il peut arriver aussi que les restes des fabrications soient donnés
aux entrepreneur: “Je consens, Monsieur, quevous Fassiez delivrer au
S. Danielfondeur devotreDepartement les crasses et cendrées provenantdesfontes qu’il alaissé amasserdepuis 10 ans puisque Suivant lesinformations quevous avez faites etl’avisde M. Tarlé il est d’usage de
les accorder aces Entrepreneurs82.”
Un litige de mai 1792, fait apparaître que les habitants de Louveciennes, pour “subvenir à leurs besoins plus pressants que jamais”,
se sont emparés d’un terrain, comprenant une portion pour légumes
et herbages, dont la jouissance a été accordée comme gratification à
“2 ou 3 ouvriers anciens de la Machine”83.
Il existe aussi des situations tout à fait particulières, telle celle de
Lambot, qui est “le petit-fils de celuy qui la formé” [la machine], et
cela apparemment “méritte des égards: 2 400 livres d’honoraires,
1 800 d’apointement, 300 pour son logement, 300 de récompense
pour l’indemniser du chauffage et de l’éloignement d’une demi-lieue
de la Machine”84! L’administration sait aussi être souple: à Jean Vervin85, Garde magazin du Departement, qui a perdu sa mère, est accordé un congé d’un mois ou six semaines pour “arranger ses affaires de famille”; son frère peut le “Supléer pendant cetemps et M.r
Brouard et moy [Lucas] Nous ferons undevoir de pourvoir en tout Ce79
Voir CHAN O/1/1495-435 et 614.
CHAN O/1/1495-20 et 21.
81
CHAN O/1/1495-29.
82
ADY A SUP 100, signé “Le Ms de Marigny”. Il en est de même pour “Merlin,
Souffletier depuis nombre d’années quil travaille alentretien des Soufflets des forges de
la Machine de Marly” (ADY A SUP 100).
83
CHAN O/1/1498-355. Ailleurs, Laillet demande la jouissance d’un terrain inculte
attenant son poste pendant 3 ans et la réponse est positive (CHAN O/1/1498, 98-99-100).
Une lettre de d’Angiviller du 27 novembre 1782, écrite après la mort de Renouvin, plombier de la machine, signale que le décès “fait vaquer la jouissance du terrain concédé à
ce dernier, sous condition qu’il seroit Successivement appliqué àrecompenser un des
ouvriers les plus anciens et lesplus méritans delaMachine” (ADY A SUP 100).
84
CHAN O/1/1494-310.
85
Sur la famille Vervin, voir E. Guilpain, “La Machine de Marly à travers l’histoire
familiale des Vervin, 1761-1794”, dans Le Vieux Marly, nouvelle série, t. I, février 2004,
p. 21-30.
80
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qui dependra de nous pourle bien du service (…)”. Pour d’Angiviller
l’important est que “Son Service n’en Souffre point86”.
Les bontés ont quand même des limites: des absences répétées et
injustifiées amènent à un renvoi: Remy Mottain fut renvoyé le 23 juin
1780, après 25 ans de service, jugé être “mauvais sujet ivrogne faisant
des absences de 8-15 jours sans permission”, toujours pardonnées,
après une dernière absence pour des affaires pressantes qui se révèle être faite par débauche 87.
12. Intrigues et délits autour de la machine
Le département de la Machine, l’un des quatorze départements
présents au sein des Bâtiments du roi, est bel et bien le lieu d’intrigues et affaires, externes mais aussi internes. Vols sur les fournitures,
actes de vandalisme perpétrés au détriment des structures, mais aussi abus de pouvoir, malversations, absentéismes et mauvais comportements ne sont pas rares.
Les appropriations de matériaux commencent très tôt: déjà en décembre 1682, certains sont condamnés “pour avoir esté trouvé chez
luy trois morceaux de bois (…), plusieurs planches de bois de bateau, une cheville (…), et sept cordes de differentes Longueurs”; ou
“pour avoir esté trouvé chez elle une besche deliège (…)”. Tout est
susceptible d’être subtilisé, masses, pinces, chevrons, marteaux,
ébauchoirs, grandes pinces… les coupables sont tenus de rendre le
tout et de payer une amende de six livres qui sera utilisée pour soigner les ouvriers malades. En outre, il leur est bien indiqué “deffences (…) de recidiver sous plus grandes peines”88.
Dans les alentours, des délits sont commis, entre autres, sur “une
barraque construite sous une des arches du pont de chatou”: ici aussi il y a eu un “vol de fers, bois, chevilles de fer et autres ustensilles:
peut-être des pescheurs des environs89”.
En janvier 176690 sont signalés des actes de vandalisme; des malfaiteurs enlèvent du fer aux digues91 ou dégradent les arbres et des
paysans abîment les rigolles 92.
86
ADY A SUP 100.
ADY A SUP 100.
88
ADY A SUP 100.
89
CHAN O/1/1494, 83-84-85.
90
Dégradations dans les contreallées de l’avenue de Versailles à Marly par deux
habitants de Roquencourt (CHAN O/1/1495, 632 à 635).
91
CHAN O/1/1495-744.
87
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Au niveau de la direction, les choses ne se passent pas mieux: les
litiges, les affaires d’abus, de détournement de matériaux à usage
personnel, pour des commodités particulières, se répètent.
En 1758, Marigny écrit à Tarlé: “on vient de m’informer, Monsieur,
que le sieur Monnot, inspecteur et garde de magasin de la machine a
fait faire de son chef deux fontaines dans chacun de ses jardins93”.
Marigny, claire et laconique ajoute, en s’adressant à Tarlé: “Vous estes aussi réprehensible que luy de ne m’avoir pour informé de tous
ces faits et de luy avoir laissé faire tous ces ouvrages sans m’en avoir
averti je viens d’apprendre encore en dernier lieu qu’il s’était [fait] faire un chemin pour pouvoir sortir et faire sortir de chez lui tout ce
qu’il jugerait à propos, sans pouvoir être vu de quiconque ce soit
(…)94.” Monnot en arrive à “loger à son insu [Marigny] et peut-être au
vôtre [Tarlé], à la Machine, un serrurier nommé Gilles Pressu pour la
qualification de forgeron et qu’il l’employe sur le rolle (…)95”.
Par ailleurs, absentéismes et inactions sont à signaler et les rappels à l’ordre ne manquent pas. Brouard mérite un avertissement96 et,
le 23 août 1758, Marigny écrit à Lambot, pourtant un de ses protégés97: “J’apprends, monsieur, avec beaucoup d’étonnement par une
lettre de monsieur Tarlé qu’il vous voit très rarement à la machine
(…) j’ai compté autant sur votre assiduité que sur votre capacité
lorsque je vous ai donné cette place. Soyez donc agréable de répondre à mon attente en remplissant votre devoir.”
13. Bons et loyaux services
Une lettre du comte d’Angiviller brosse le portrait du bon employé “(…) Et sur les bons temoignages qui nous Ont ete rendus des
Bonnes vie et mœurs delaCapacitéetintelligence duNe françois thomas Moutier Laisné (…)98” cet ouvrier devra continuer de travailler
92
CHAN O/1/1493-122, daté 1748, lettre Delepine.
CHAN O/1/1494-298 du 26 août 1758.
94
CHAN O/1/1494-303 du 11 septembre 1758.
95
Lettre de Marigny à Tarlé, CHAN O/1/1494-249, mai 1758.
96
CHAN O/1/1495-241.
97
Voir W. Eon “Principales tentatives de simplification et de perfectionnement de la
Machine de Marly entre 1745 et 1773”, dans G. Santangelo (dir.), Les maîtres de l’eau,
d’Archimède à La machine de Marly, cat. exp., Versailles, Ed. Artlys, 2006.
98
Copie de la Commission de Compagnon fontainier ala Mach e deMarly en faveur
e
de M françois thomas Moutier, 29 novembre 1782, signée “Dangiviller et Montucla”
(ADY A SUP 100).
93
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“avec Vigilance et assiduité et Conformement aux Ordres99”. Des documents des Archives départementales des Yvelines, datant essentiellement de la fin du XVIIIe siècle, renseignent sur les ouvriers et sur
leurs notes. Parmi les manœuvres, certains sont perçus “sages dans
les mœurs et dans le service”, exactes à leur travail et de “mœurs modestes”; nous en trouvons un “aimans passablement le vin qu’il a un
peu fou dailleurs fort laborieux ne refusant rien et infatigable” ou encore un autre “enclin au vin et al’ivresse mechante et insolente; Paresseux et Bavard”. Des 13 forgerons présents en juillet 1789, la plupart sont bons travailleurs et rangés ou de mœurs douce et paisible.
À la même date, il y avait 17 charpentiers; parmi eux, Germain Le
Febvre, “fils d’un ancien charpentier ne fait parler de lui ni en bien ni
en mal est très rangé et fait tranquillement son métier”, ou François
Liuzeron, lui aussi fils d’anciens ouvriers, qui est passable charpentier
mais arrogant, alors que Pierre Daniel, “né ala machine de Joachim
Daniel (…) est encore a former recu en consideration des services de
son perre”.
En somme, pour être bon ouvrier il faut être “homme de capacité, habile, sage, de bonne conduite”100, et ceci ne change pas: peu de
différences sont à noter entre le règlement de l’atelier 101, probablement du XVIIIe siècle, et celui signé Dufrayer, du 1er janvier 1847102.
Les préoccupations sont essentiellement les mêmes et recoupent
des problèmes récurrents: l’exactitude au travail, le travail aux jours
et heures habituels, “la plus entière Soumission et respect” envers
son supérieur direct, la lutte contre toute absence injustifiée ou sans
permission103.
99
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CHAN O/1/1495-53.
101
ADY A SUP 100.
102
Reglement de l’atelier. Fait à la Machine de Marly, le 1 er janvier 1847. L’Inspecteur
de la Machine de Marly, Dufrayer (ADY 2Q 433).
103
Le supérieur hiérarchique doit juger de la validité de la demande de permission, et
vérifier si l’affaire est indispensable ou si elle ne peut se “remettre à une fête ou un dimanche”. Si l’ouvrier persiste dans sa demande, la permission, écrite sur un papier avec le nom
de l’ouvrier, lui sera accordée mais sa journée lui sera supprimée. Les règles du XVIII e siècle prévoient que s’il s’absente sans congé, il devra payer une amende dont le montant
sera égal à deux journées de son travail et, en cas de récidive, il en devra six. La troisième fois, le directeur se prononce sur la punition. Tout retard de 15 minutes après le son
de la cloche, est puni d’une amende égale à une demie journée de son travail. Le règlement de 1847 proclame que “la cloche annonce l’entrée et la sortie de l’atelier et que tout
ouvrier arrivant quinze minutes après la cloche perdra une heure”: les choses se sont améliorées depuis l’Ancien Régime! Quant aux permissions, l’ouvrier, une fois entré, ne doit
sortir que sur “l’ordre du chef de l’atelier” et ne doit jamais s’absenter “sans permission”.
100
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L’ivrognerie, et les troubles qui peuvent en découler, est l’un des
soucis prioritaires: “detous les deffauts celui qui dégradant plus
l’homme et l’abrutissant davantage tous les ouvriers raisonnables applaudiront aux punitions infligées a ceux qui les encouroient, en
conséquence tout ouvrier qui se présentera Sur l’atellier pris de vin,
sera renvoyé et rendra sa journée ala 2de fois il payera une amende
équivalente a 3 journées la 3e fois a six et la quatrième fois renvoyé
sans miséricorde. Tout ouvrier encoura les mêmes peines S’il Sepresente pris de vin sur la machine ou au Corps de Garde Les fetes et dimanches et quil y Cause du trouble.104”
Ces précisions, outre l’article 4 de 1847 qui réitère la défense d’apporter du vin dans l’atelier et interdit “d’aller au cabaret pendant l’heure de travail”; acte “passible d’une amende pécuniaire proportionnée à son infraction”, renseignent sur le goût plus ou moins prononcé pour les boissons alcoolisées105 et sur les habitudes assez surprenantes de certains pendant les heures de travail!
En revanche, les ouvriers doivent en “cas d’un accident, incendie,
naufrage &tc. (…) à quelque heure que ce soit, arriver à l’ordre au
son de la cloche”: au-delà des événements, le service à la Machine
prime toujours sur tout, comme au temps du Roi-Soleil.
Marly fut sous Louis XIV le palais des eaux106 et rien ne pouvait rivaliser avec cette eau à profusion, “trépidante et chatoyante, enveloppée dans sa poussière irisée de gouttelettes [qui] semblait se répandre de là, comme d’une source, à travers les jardins et s’y épanouir en
mille fleurs liquides et splendides, -en tiges lancéolées, en aigrettes,
en bouquets, en champignons, en ruches, en gerbes arborescentes,
en longs corridors humides qui formaient, au-dessus du promeneur,
une voûte de fraîcheur et comme une couronne de clarté…”107.
La machine de Marly était le dispositif qui avait permis à Louis XIV
d’exercer dans son domaine le “ministère de la beauté”108.
Cette énorme pompe commença à se dérégler assez vite, ne répondant plus aux attentes de son maître d’œuvre. Les savants et les
techniciens s’acharneront alors à la “soigner” pendant de nombreuses
104
ADY A SUP 100.
Voir CHAN O/1/1495-711 et 714 sur les sommes dues par les ouvriers à JeanBaptiste Richard, charpentier à la machine et marchand de vin aubergiste.
106
L. Bertrand, Les Journées du Grand Roi, Paris, éd. Flammarion, 1935, p. 30.
107
Ibid., p. 30 et 31.
108
Ibid., p. 14.
109
Vallot, Daquin et Fagon, Journal de santé de Louis XIV, établi et précédé de La
Lancette et le Sceptre par S. Perez, Grenoble, éd. Jérôme Millon, 2004.
105
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décennies, avant de se rendre à l’évidence de son impossible perfection. Ils essayeront de faire renaître, à plusieurs reprises, cet objet
phare du règne du Grand Louis, objet réel en même temps que chimérique.
Sa lente agonie augure presque la fin de règne. Ses “inconstances,
ses changements de pouls”, ses cassures, la “faiblesse des parties et
l’altération des humeurs”, ses capacités et incapacités ne sont pas
sans nous rappeler d’autres “peines et fatigues”, d’autres accablements et incommodités 109, d’autres défaillances, d’autres corps vivants et souffrants, plus humains mais pas moins royaux…
BIBLIOGRAPHIE SOMMAIRE SUR LE CHÂTEAU
ET SUR LA MACHINE DE MARLY:
COLLECTIF, Châteaux de Faïence, XIVe – XVIIIe siècles, Marly-le-Roi,
éd. Musée-Promenade de Marly-le-Roi/Louveciennes, 1993, 120 p., cat.
exp. Musée-Promenade, 9 oct. – 10 déc. 1993.
COLLECTIF, Les Divertissements à Marly au temps de Louis XIV.
1686-1715, Marly-le-Roi, éd. Musée-Promenade de Marly-le-Roi/Louveciennes, 1990, 71 p., cat. exp. Musée-Promenade 29 sept. – 9 déc. 1990.
CASTELLUCCIO S., Le château de Marly sous le règne de Louis XVI.
Etude du décor et de l’ameublement des appartements du Pavillon royal
sous le règne de Louis XVI, Paris, R.M.N., 1996, 272 p.
MABILLE G., BENECH L., CASTELLUCCIO S., Vues des jardins de
Marly. Le Roi jardinier, Paris, Éd. Alain de Gourcuff, 1998, 240 p.
MAROTEAUX V., Marly, l’autre Palais du Soleil, Genève, Éd. Vogele,
2002, 256 p.
COLLECTIF, Les Maîtres de l’eau, d’Archimède à la machine de
Marly, Versailles, Éd. Artlys, 2006, 177 p., cat. exp., Musée-Promenade
de Marly-le-Roi/Louveciennes, 4 mars – 31 juillet 2006.
BARBET L.-A., Les Grandes Eaux de Versailles: installations mécaniques et étangs artificiels, description des fontaines et de leurs origines,
Paris, H. Dunot et E. Pinat Éditeurs, 1907, 358 p.
FRÉLAUT C., La Machine de Marly, Marly-le-Roi, éd. Musée-Promenade de Marly-le-Roi/Louveciennes, 1982, 44 p.
TIBERGHIEN F., Versailles, le chantier de Louis XIV, 1662-1715, Paris,
Éd. Perrin, 2002, 384 p.
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Donatella Dolcini
DALL’IMMAGINARIO COLLETTIVO INDIANO ALL’IMMAGINARIO
COLLETTIVO ITALIANO. COINCIDENZA, AFFINITÀ,
INCOMPATIBILITÀ, ARBITRIO
Il linguaggio figurato
Il linguaggio umano risulta per la maggior parte articolato in figure, per lo più similitudini e metafore. Come tutti i tropi, anche questi
hanno valore solo ove chi li impiega ne conosca a fondo la pregnanza, così che essi sono inscindibili dall’humus culturale da cui han
preso vita e vigore. Nel campo della traduttologia si pone allora come strumento fondamentale per il migliore dei risultati l’effettiva padronanza almeno di quei settori delle due culture coinvolte nell’operazione, che più informano l’immaginario collettivo preso a riferimento dell’espressione da trasportare da una lingua all’altra.
Il compito che il traduttore è chiamato ad assolvere sotto questo
aspetto si presenta quasi sempre irto di difficoltà, in crescita esponenziale rispetto all’aumento della distanza geografica tra i due mondi culturali. Infatti, a formare l’immaginario collettivo di un popolo è
in prima istanza l’ambiente naturale con le sue caratteristiche di territorio, clima, e perciò flora e fauna; elementi tutti che concorrono poi
a forgiare e plasmare la presenza dell’uomo in quello stesso ambiente, a seconda di come egli, era dopo era, si rapporti alle singole manifestazioni della specifica natura del luogo. Per esemplificare: in India l’andatura ondeggiante e cadenzata dell’elefantessa viene presa a
modello dell’incedere ancheggiante, che è una degli stereotipi estetici della donna di fascino1; il banian con le sue radici aeree diventa
simbolo del perpetuarsi del ciclo delle rinascite.
In India. Da noi, invece, nessun membro del genere femminile
vorrebbe essere mai paragonato fisicamente all’elefantessa, da qualunque angolazione l’animale possa essere considerato; un albero co1
Così il pappagallo, tradizionale messaggero d’amore e si potrebbe quasi dire sensale di matrimonio, presenta uno dei pregi fisici più rilevanti della famosa eroina letteraria, la principessa Padmāvātı̄: “Infine descriverò (…) il suo passo d’elefante, la cui vista
seduce ogni uomo: le due cosce hanno una bellezza suprema, come se fossero fusti di
banano capovolti… (Jāyası̄: 1995, 124).
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me il banian non corrisponde a nulla, anzi il più delle volte risulta
del tutto sconosciuto. È peraltro innegabile che con una breve riflessione, eventualmente incoraggiata da un’altrettanto breve nota esplicativa2, il traduttore possa riuscire a trasferire abbastanza agevolmente l’immagine indiana nella mente e nella fantasia del fruitore italiano, conferendo oltretutto al testo un che di intrigante esotismo: l’elefantessa in fondo un animale simpatico lo è, si lasci anche a lei la
chance di sfoggiare per una volta un tocco di leggiadria; l’albero strano è pur sempre un albero non impossibile da raffigurarsi e poi da riconoscere come simbolo. Non si può affermare che esista coincidenza, ma affinità o almeno accettabilità sì.
Più arduo diventa il passaggio da una lingua all’altra quando l’immagine presente in una coincida sì con l’immagine presente nell’altra, ma con valenza stridente o opposta. Tra i diversi esempi che si
potrebbero portare, sempre riguardo a India e Italia, i più rilevanti ci
paiono quello di ham
. sa e quello di Vis.n.u nella sua forma avatarica di
Krs.n. a gopāla.
˚
Ham.sa
“Hamsa” è termine di grande ricorrenza nella cultura indiana in
ambito religioso, mitologico, letterario, artistico. In prima istanza indica l’oca selvatica (Anser anser), grosso uccello acquatico a piumaggio
grigio, becco dall’arancione al rosa, zampe pure rosa, gregario e migrante in tipiche formazioni a V, con emissione di un richiamo sonoro.
Queste ultime tre caratteristiche ne hanno segnato l’assunzione a
simbolo di valori metafisici, già in antico divenuti fondamentali nella
cultura religiosa brahmanica per poi discendere in quelle da essa derivate: buddhista, jaina, hindu, sikh. La migrazione di questo uccello
da nord a sud e viceversa a seconda della stagione risveglia, infatti,
nella visione samsarica del mondo, da una parte la continua ricerca
dell’anima individuale (ātman) a lasciare il corpo per librarsi o nel
vuoto supremo o nell’incontro-riassorbimento con l’anima universale
(brahman), dall’altra il suo pure continuo ricadere all’interno di
2
Si veda, per esempio, il glossario di Upanis.ad Vediche (Della Casa: 1988, 383), che
permette di avere la descrizione dell’animale di nome “ham
. sa”, complessivamente nei
termini presentati nel testo. Nella traduzione invece (pp. 344, 357, 368) si legge semplicemente: “In questa grande ruota dell’universo (…) vola un ham
. sa.” “Egli, che è l’unico
ham
. sa nel centro di questo mondo, è pure il fuoco penetrato nell’oceano.” “Esso è il signore dell’anima, (…) il creatore del tutto, (…) la verità, il prān. a, il ham
. sa, (…),
Vis.n.u…”
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quella sua prigione di carne, rinascita dopo rinascita (Ham
. sa-upanis.ad). Più comunemente, però, ham
. sa finisce per apparire l’anima
che, così come le oche raggiungono e si ristorano nel sacro lago himalayano di Manasarovar, riesce finalmente ad affrancarsi dal
3
sam
. sāra, godendo della serenità e della pace dello spazio libero .
Su un piano fisico, invece, questo regolare andirivieni richiama il
ritmo del respiro, il cui suono è proprio quello che si manifesta anche
nella pronuncia delle due sillabe costituenti il termine: HAM
. (espirazione), SA (inspirazione). Ham
sa,
a
questo
punto,
non
rimane
più so.
lo un simbolo o un’operazione fisiologica, ma diviene una preghiera:
incessante, inconscia, ma potente legame dell’essere umano con il respiro universale che è la pura armonia del cosmo. L’uomo che, a differenza della massa, possieda la consapevolezza di una tale coincidenza – di solito grazie alla pratica dello yoga (yogin) – vive questo
suo atto fisiologico come un’invocazione giaculatoria, in cui la continua ripetizione delle due sillabe finisce per dare luogo ad una loro
4
pronuncia invertita: non più ham
. -so, ma so-ham
. . E, poiché la nuova
frase risulta significare “Io sono Quello”, dichiara addirittura il ricongiungimento dell’ātman con il brahman
..
Di nuovo rapportandoci alle sillabe, ecco che, come l’antitesi precedente si fonde nell’unicità del soffio vitale, la divinizzazione delle
stesse due sillabe – la prima nel purus. a o in Ś iva, la seconda in
prakrti o in Śakti – rappresenta l’unione della coppia creatrice, in cui
˚
si dissolvono
tutte le individualità.
Non stupisce allora che, al termine di questo processo, variegato
sì, ma inscindibilmente sempre connesso alla spiritualità, “ham
. sa” – o
addirittura “paramaham
sa”
(“ham
sa
supremo”)
–
divenga
anche
la
.
.
denominazione di una particolare comunità di asceti hindu, che vedono se stessi rispondenti alle particolarità simboliche dei sacri uccelli.
5
La ricchezza semantica di “ham
. sa” , tuttavia, in Occidente si frantuma irrimediabilmente contro ciò che la nostra tradizione vede nel-
3
Non a caso buona parte dei pensatori buddhisti (Nagarjuna in primis) vedono nel
vuoto (śunyatā) l’unica reale dimensione esistente.
4
La vocale “ǎ” può subire un cambiamento di pronuncia che la avvicina alla “o”
(così come alla “ı̌” in altri casi, per esempio in “brij”, forma anglicizzata di “braj”, denominazione della hindi della zona di Matura o Vrindavan, di larga diffusione locale e, soprattutto, di altissima reputazione letteraria, essendo quella adottata per celebrare le gesta di Kr s.n. a).
5
˚
Oltre
ai significati indicati nel testo, i vocabolari ne riportano numerosi altri, tutti,
quale più quale meno, riconducibili ai precedenti: Brahmā, Śiva, Vis.n. u, Sūrya, Kāmadeva, persona senza avidità, cavallo, montagna, argento, invidia, odio, persona priva di
odio e di invidia, un genere di metro sillabico, un tempo musicale, un tipo di danza…
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l’oca, fatta eccezione per l’episodio del salvataggio di Roma ad opera
appunto delle oche del Campidoglio (parenti molto più strette dell’oca selvatica che non di quella da cortile). Non è difficile immaginare
la costernazione dei primi traduttori europei alle prese con il termine
in questione e l’escamotage cui hanno immediatamente fatto ricorso
sin dall’inizio degli studi indologici in Europa (seconda metà del
XVIII secolo): all’imbarazzante ham
. sa hanno sostituito il cigno.
Indubbiamente cugino dell’oca selvatica, questo uccello così noto
e così saldamente inserito nella galleria di figure e simboli del nostro
immaginario collettivo da non richiedere certo una presentazione nel
presente lavoro, è parso un degno sostituto dell’altro volatile per evitare di svilire letteratura e arte indiana6, ove la prima venisse trasposta e la seconda illustrata al pubblico occidentale.
L’operazione è sembrata indolore, anzi estremamente positiva per
ricreare una visione estetica di innegabile fascino: i versi ci sono apparsi più leggiadri, le immagini più gentili7, le atmosfere più romantiche e nobili… ma quanto è venuto a costare questo rimpiazzo in termini di effettiva conoscenza, di consapevole apprezzamento, di rispettosa considerazione della cultura dell’altro! Basti pensare che nel subcontinente indiano i cigni esistono praticamente solo in quanto importati negli ultimi centocinquanta anni per abbellire parchi e giardini, alla moda europea8. Che cosa possono dunque rappresentare nella plu-
6
Di particolare interesse sono a questo proposito i fregi dei basamenti dei templi
Hoys. ala (Karnataka), costituiti da bande continue rappresentanti file di animali di particolare significato in ambito religioso: cavalli, tartarughe ecc. e ham
. sa, immancabilmente.
7
Tra “le più belle fanciulle” al seguito, di nuovo, della principessa Padmāvatı̄, ce
n’è una la cui leggiadria viene sottolineata in primo luogo dall’incedere poggiando “i piedi con le movenze del cigno” (p. 161). Se il traduttore avesse lasciato “oca” come nella
lingua di stesura (hindi āvadhı̄ ) certo avrebbe proiettato un’immagine assolutamente ridicola davanti a un lettore occidentale non preparato al cambio di cultura. Così, invece,
a vantaggio di quello stesso lettore si è salvato il senso del bello feminino, ma si è totalmente falsata l’atmosfera del mondo originario dell’opera (nella fattispecie addirittura l’isola di Sri Lanka – nel testo denominata “Sim
. hal” – troppo vicina all’equatore per fornire
un ambiente favorevole all’insediamento spontaneo del cigno).
8
A dimostrazione dell’assenza del cigno in natura e perciò nell’immaginario collettivo del Paese, sta per esempio il fatto che neppure il suo collo, così familiare all’occhio
occidentale come attributo fisico di grande fascino in una donna davvero bella ed elegante, viene mai preso a modello di riferimento per illustrare l’avvenenza muliebre. Sintomatico, peraltro, che al suo posto compaia addirittura una schiera di altri volatili: “Ora
descriverò il suo collo, pari a quello del chiurlo, simile a uno stelo infilato in un’ampolla: un collo che sembra lavorato col tornio, tanto che anche il pavone, vedendosi vinto,
ne rimane sbalordito, come se avesse subito un imbroglio. Somiglia a quello di un piccione che gonfi il petto, ma la sua bellezza è ancora più grande: è come se ne avessero
fatto il modello sulla ruota di un vasaio, come il collo di un cavallo che si tenda sotto le
redini. Anche il gallo e il pavone ne sono sconfitti…” (Jāyası̄: 1995, 121).
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rimillenaria cultura del Paese? Quali richiami profondi possono esercitare sull’animo dell’intellettuale indiano così come del contadino o
del guidatore di riksciò? Come può la loro denominazione echeggiare il respiro dell’universo e prospettare la salvifica riunione
dell’ātman con il brahman. ? E in che misura la loro raffigurazione
grafica può convenire al complesso sistema di rappresentazione del
creatore Brahmā e della sua sposa Sarasvatı̄ , dea della scienza e del9
l’arte, che appunto di un ham
. sa si servono come veicolo ? Veicolo
scelto non certo a caso: gli stormi di questi volatili hanno percorso
nel cielo le stesse rotte seguite via terra dalle tribù migranti, così che
il loro volo, la loro forma, il loro canto hanno sempre risvegliato nei
clan in cammino per l’Asia verso lidi più favorevoli, visioni avulse
dalla sofferta materialità dell’incarnazione mondana, librate virtualmente in quella sfera eterea dove lo spirito può finalmente volteggiare libero e godere della propria pienezza10.
Il peggio, tuttavia, doveva ancora avvenire. Dopo il radicarsi dell’educazione anglicizzata (metà del XIX secolo), in quello sfaccettato processo di apertura verso la cultura occidentale (britannica) fatto di curiosità intellettuale e interesse pratico, di complesso di inferiorità e senso di superiorità, di servilismo utilitaristico e rivalsa sciovinista, che ha portato in poche decadi alla nascita del nazionalismo
(1885) ed alla lunga e sofferta lotta per l’indipendenza, la classe colta indiana, unica vera depositaria della cultura e sua modellatrice in
tempi di rinnovamento, in molti casi cede al modello straniero, senza dubbio spinta dai sentimenti indicati sopra, ma anche – forse –
dalla irrefrenabile propensione a trovare ovunque un punto di incontro che permetta a mondi diversi da quello locale di inserirsi e
integrarsi in quest’ultimo. Il cigno comincia così a soppiantare il cu11
gino ham
. sa nella letteratura e nella rappresentazione grafica , a tal
punto che perfino in un tempio del nazionalismo, inteso in primo
luogo come recupero della tradizione più genuina del Paese, quale
nacque il Kāśı̄ Hindū Viśvavidyālaya12, Sarasvatı̄ – ovviamente nume tutelare dell’istituzione – viene effigiata in compagnia di un ci-
9
Come noto, ogni divinità del pantheon hindu possiede un proprio veicolo, rappresentato da un animale in qualche modo particolarmente significativo rispetto alle attribuzioni assegnate a quella medesima divinità: il toro per Śiva, l’uomo-avvoltoio per
Vis.n.u, la tigre per Durgā, il topo per Ganeśa, il bufalo per Yama…
10
Poiché nella concezione circolare dello svolgersi della vita dell’universo, tipica
della Weltanschauung indiana, gli estremi si incontrano sempre, è chiaro che non esiste
antitesi tra vuoto e pienezza quando si parli di realizzazione spirituale.
11
Si veda più avanti nel testo il riferimento alla pittura keralese.
12
Noto anche con la sigla “B. H. U.”, o “Banaras Hindu University” (1915).
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gno13! Ed uno dei fogli letterari della prima metà del ’900 di fondamentale importanza per la trasmissione del messaggio indipendentistico di marcato indirizzo gandhiano, Ham.sa, fiore all’occhiello della
produzione giornalistico-saggistica di Prem Cand (1880-1936), viene
indicato nelle storie della letteratura hindi redatte in inglese con il nome di “Swan”.
A metà delle due tendenze si colloca il pittore più apprezzato nel
periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, il keralese Raja Ravi Varma (1848-1906), che, molto influenzato dalla coeva pittura occidentale, in alcuni suoi famosi dipinti dedicati alla storia mahabharatiana di
Nala e Damayantı̄ inserisce spesso una figura di ham
. sa-cigno, messaggero d’amore tra i due protagonisti: ham
. sa per le dimensioni ridotte, cigno per le membra ed il colore del piumaggio.
Involontaria proposta di una sintesi di stampo prettamente indiano? Impossibile comunque da adottare in letteratura e contro la verosimiglianza naturale. Ma si sa che in India tutto è possibile, compresi,
ed in larga misura, i frutti di concepimenti fuori dell’ordinario: l’unicorno, l’uomo-avvoltoio, l’uomo-leone… Probabilmente nella schiera
rientra anche questo ham
. sa, figlio di due tradizioni molto diverse e
‘mostro’ inaccettabile in ambedue.
Kr s.n.a “gopāla”
˚
La stessa forzatura di traduzione si riscontra riguardo alla figura
mitica di Krs.n. a, ottavo avatāra del dio Vis.n.u, la cui vicenda terrena si
˚
divide in due
parti ben distinte: l’infanzia e la prima giovinezza trascorse nell’ambiente rurale del Vrindavan, regione storica dell’India
settentrionale ad ovest di Delhi; la maturità nella città di Dvaraka, di
cui egli eredita il trono e da cui raggiunge i cugini impegnati nella
grande guerra di Bharata (Mahābhārata). Affidato alle cure di genitori putativi per sfuggire alle mire omicide dello zio, il piccolo Krs.n. a vi˚
ve in una comunità dedita all’allevamento delle vacche. “Gopāl”,
l’epiteto che lo caratterizza e che da sempre è rimasto tra i nomi propri
più amati dai seguaci dell’induismo vaisnava, significa infatti “colui
che alleva (pāla) la vacca (go)”. E se a lui tocca portare al pascolo
13
Lo stesso avviene nella copertina di Ham
. sa (v. più avanti nel testo) e in quella della più prestigiosa ed influente rivista letteraria hindi degli anni ’10-’20 del XX secolo, Sarasvatı̄, che pure, in quella crescente atmosfera di nazionalismo, propugna un progresso
della lingua hindi khar.ı̄ bolı̄ atto a renderla sempre più degna di diventare la lingua ufficiale della futura India indipendente.
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una mandria ed averne cura, alle sue amiche e colleghe di giochi e di
lavoro tocca pure un compito simile, così che il nome che meglio le
definisce è “gopı̄”, ossia il corrispondente femminile di “gopāla”.
Ora, che cosa c’è di più indiano della vacca? Tra le caratteristiche
salienti della cultura locale il bovino, ed in particolare appunto la vacca, è forse la più nota universalmente, insieme all’asceta, alla vedova
bruciata con il cadavere del marito, alla tigre, all’elefante, agli splendori delle regge principesche, alle bidonville delle megalopoli, ai
bambini sfruttati, agli dèi dalle molte braccia, all’incantatore del cobra, al massaggio ayurvedico, ai film di Bollywood…
Di fronte a tutta questa popolarità di figure e situazioni che nell’immaginario collettivo mondiale parlano subito di India (e spesso,
ahimè, a sproposito), e che, anche ove siano ormai obsolete se non
addirittura riconosciute per false, non si riescono a cancellare dal bagaglio ‘culturale’ di bassa lega di tanto pubblico ‘occidentale’, perché
l’immagine di un dio mandriano che si diletta in giochi fanciulleschi e
poi sessuali con le sue amichette mandriane 14 appare così disdicevole al traduttore, da spingerlo irresistibilmente verso la conversione
della prosaica vacca nella poetica pecorella? I panorami indiani non
sono quelli di Arcadia (ammesso che da qualche parte questi ultimi
esistano o siano esistiti davvero), né gli ovini sono così diffusi, se si
eccettuano le capre, quelle sì onnipresenti quasi come le mucche, ma
di nessun fascino né in India né sotto le nostre latitudini.
Senza fascino, è vero, sono anche quasi tutti i nostri termini che si
riferiscono ai lavoratori del mondo rurale impegnati nell’allevamento
dei bovini; anzi le denominazioni in uso ci evocano generalmente
persone rozze, incolte, volgari nei modi: il buttero, il bovaro (boaro),
per non parlare del cow boy del Far West americano. Figure assai lontane da quella di un bellissimo dio che nei verdi boschetti indiani
suona il flauto e si adorna delle penne del pavone, flessuoso nelle
sue movenze divine, ammaliatore con il suo canto e lo splendore delle gemme che tralucono tra i suoi neri ricci inanellati, instancabile
tombeur de femmes perfino di sangue reale15. Esistono, però, anche
vocaboli più ‘neutri’, per esempio il già citato “mandriano”, il cui suono, per giunta, risulta piacevole all’orecchio, grazie al gruppo ‘-dria-’
14
Le traduzioni in inglese ricorrono spesso al termine “milkmaiden”.
Come noto, la principessa rajput Mira Bai (1516-1543), una delle più importanti
voci della poesia hindi (braj) medievale, in tutti i suoi versi proclamò appassionatamente il suo amore per Kr s.n. a gopāla, finendo per accendere l’ira del suo regale consorte
(che arrivò ad attentare˚ alla sua vita) e per preferire agli agi della corte una vita errabonda insieme ad una comunità di asceti vaisnava. La leggenda vuole che morisse ai piedi di
una statua del suo dio.
15
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che rimanda a termini generalmente positivi e gradevoli acusticamente: “driade”, “adriatico”, “leggiadria” ecc.
Non è poi da dimenticare che anche nella nostra cultura il bovino
ha un posto di un certo rilievo nella letteratura e nella pittura, ambiti
in cui la sua presenza apporta una nota di calda partecipazione dell’uomo alla vita animale, mettendolo in maggiore consonanza con la
natura. Si pensi ai quadri di Segantini, al “pio bove” carducciano, o
alla “vaccherella” manzoniana, che ben reggono il confronto, quanto
a positività dell’immagine specialmente sul fronte della tenerezza,
con l’agnellino vittima del lupo o con le scene pastorali di tanta letteratura sin dai tempi più antichi.
E a proposito della dignità e dell’animale e della sua sfera vitale,
compresi i lavoratori del settore, a far parte della composizione letteraria, forse è bene ricordare che il temine “bucolico”, divenuto specifico per la poesia pastorale, in realtà etimologicamente rimandi proprio al corrispondente greco del nostro ‘prosaico’ e disdegnato “boaro”!
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI*
*Per ragioni di spazio segnaliamo qui solo alcuni dei testi indiani in
traduzione italiana che abbiamo preso in considerazione per questo lavoro. Vogliamo anche precisare che non è assolutamente nostra intenzione mettere sotto accusa i valenti studiosi che con tanto impegno, fatica, dottrina hanno in tempi diversi egregiamente tradotto in italiano un
numero considerevolissimo di opere in lingue indiane, o comunque
hanno scritto volumi e saggi di cui ham.sa e Krs.n.a gopāla costituiscono
almeno una parte del tema trattato. La nostra è˚ piuttosto in primo luogo
un’accorata constatazione di quanto abbia influito la mentalità colonialista (la missione di diffusione della civiltà affidata all’uomo bianco!) anche sulla classe colta di un paese, l’Italia, che colonizzatore non era più
da almeno un millennio e anzi aveva vissuto sulla propria pelle il dominio straniero; in secondo luogo una proposta, oggi che certe barriere
culturali stanno cadendo una dopo l’altra, a sforzarci di adeguare noi
stessi (ovviamente nel possibile, ossia senza perdere la nostra identità)
alla sfera altrui, anziché pretendere il contrario.
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Maria Grazia Scelfo
TESIS: I MONDI POSSIBILI DI ALEJANDRO AMENÁBAR
Un hombre se ha tirado a la vía y lo hemos atropellado (…) Presten atención. Cuando lleguen al andén salgan lo antes posible… y les aconsejo que no miren a
la vía. El hombre está partido por la mitad
(AMENÁBAR: 1997, 18).
Il buio della prima sequenza, che man mano lascia intravedere il
marciapiede della metropolitana, e le parole del controllore, conseguenti al suicidio di un povero sciagurato, fanno emergere fin dall’inizio, la struttura drammatica della pellicola e i temi fondamentali
che la accompagneranno durante tutta la proiezione: la paura, la violenza, la morte, l’orrore. Infatti, tra i mondi possibili che ci propone il
cinema di Amenábar – il mondo dell’alienazione, della violenza, dei
giovani – quello degli snuff-movie, un genere in cui le persone vengono torturate, uccise e riprese dal vero è oggetto dello psicothriller
Tesis (1996), il cui protagonista è un serial killer.
Nello stesso film una studentessa, Yolanda, spiega ad Ángela, la
protagonista, cosa siano gli snuff-movie: “Eligen a una persona cualquiera, la raptan, la torturan, la matan, y lo graban con una cámara
de vídeo. No hay efectos de montaje ni de maquillaje, se hace todo
en un plano secuencia, sin trampa ni cartón… Esas películas pueden
llegar a valer millones”. (Amenábar: 1997, 130).
Non è inutile ricordare che Amenábar è nato in Cile nel 1972 e ha
studiato presso la Facultad de Ciencias de la Información dell’Università Complutense di Madrid. Molto presto ha cominciato a girare
cortometraggi; lui stesso scriveva le proprie opere, ne componeva la
musica, si incaricava della fotografia, della regia, del sonoro, ecc. Come è noto, ha girato il suo primo film, appunto Tesis, a soli 22 anni
ottenendo il premio Goya nel 1996 per il miglior film.
È vero, d’altra parte, che Amenábar sembra avere una predilezione per questo genere in cui alcuni personaggi sono degli psicopatici,
genere, tra l’altro, molto di moda. Basti pensare al suo secondo lavoro, Abre los ojos (1997), il cui successo internazionale è stato tale per
cui l’attore Tom Cruise ne ha fatto un remake dal titolo Vanilla sky.
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Altro film di successo, sempre su questa linea, è stato Los Otros
(2001), noto in Italia con il titolo The Others. Infine, anche se di genere diverso, non va dimenticato il suo ultimo film, Mar adentro
(2004), sul tema dell’eutanasìa, tema di cui Amenábar ha saputo cogliere gli aspetti più profondi e struggenti.
Provare a leggere il film con intento critico e riflettere su elementi tecnici, estetici e traumatici espressi nella pellicola, se si desidera
apprezzarne i valori e non essere manipolati dalle immagini, è un
primo, imprescindibile, spunto di riflessione
A questo proposito, considerando il fatto che il cinema è un linguaggio interdisciplinare, che il linguaggio cinematografico “es el arte de la imagen dinámica, obtenida técnicamente y proyectada con
un ritmo espacial y temporal” (González: 2002, 16), che il cinema è
anche arte narrativa, ho individuato almeno tre livelli di lettura sui
quali riflettere e che vale la pena di descrivere: il livello della narrazione, quello della lingua e quello dell’ideologia, che consentono di
capire le forme peculiari in cui vengono utilizzate le risorse cinematografiche, tenendo conto, ovviamente, del tipo di storia e del genere. Per esempio, va da sé che in un thriller le riprese privilegeranno
il gioco di luci e ombre per creare suspense, così come la può creare un’andatura lenta e cadenzata o la corsa di chi fugge; anche le inquadrature, in primo piano o di spalle, hanno la loro importanza sia
per l’effetto paura o tensione che possono provocare sullo spettatore, sia in relazione alle scelte linguistiche per il doppiaggio.
La narrazione
Come si può intuire dal titolo, il film è ambientato nel mondo universitario, nella stessa facoltà dove ha studiato Amenábar, ed è incentrato sulla tesi di dottorato della protagonista, Ángela. La nostra studentessa, infatti, sta preparando una tesis sulla violenza negli audiovisivi e cerca materiale sull’argomento. Chiede aiuto al suo relatore
(Figueroa), che ha accesso senza restrizioni alla videoteca della facoltà, e a un compagno di studi (Chema), appassionato di cinema porno e violento. La giovane, dopo aver trovato morto il professor Figueroa nella sala di proiezione della facoltà dove stava visionando
un film preso nella videoteca, si appropria della cassetta. Con l’aiuto
di Chema, non solo scopre, all’interno dell’università, un mondo a lei
sconosciuto e terribile che gira intorno agli snuff-movie, ma intuisce
anche che potrebbe essere lei la prossima vittima.
La tensione, anche per le scene girate in penombra o completamente al buio, aleggia in tutto il film, che alterna momenti sanguino-
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si e violenti di grande impatto emotivo, a momenti ironici.
Se da questi pochi elementi enunciati nella fabula non emerge
appieno l’atmosfera di suspense che trasmette la pellicola, per approfondire, viene utile estrapolare e analizzare tre macrosegmenti saldamente intrecciati e collegati tra loro.
I concetti chiave del primo si identificano con la vita familiare e
studentesca di Ángela. Da un lato sono protagonisti il mondo universitario, gli studenti e i professori presentati nello svolgersi della vita
accademica quotidiana e nelle loro interrelazioni. Man mano che si
va avanti con la proiezione, si comincia a intuire chi, nell’Università,
è coinvolto in questo squallido commercio degli snuff-movie. Intuizione che diventa certezza nello svelamento finale. Dall’altro lato, anche se in misura minore, la famiglia fa da sfondo alla vita di Ángela.
Si tratta di una famiglia tipo, standard, se così si può dire, composta
dai genitori e da una sorella, troppo curiosa, con la quale non manca qualche screzio per motivi di gelosia. La tranquilla routine viene
sconvolta dall’entrata in scena di Bosco, lo studente psicopatico, considerato sotto un duplice aspetto: se da una parte terrorizza Ángela,
dall’altra viene ben visto dalla famiglia che guarda all’apparenza, al
suo aspetto di bravo e bel ragazzo. Sono, infatti, significative le parole della madre quando la chiama per avvisarla della visita di Bosco:
“Hola, cielo. Ha venido un amigo tuyo… Es muy guapo”. In altre parole, il regista sottopone allo spettatore due mondi: uno interno, tranquillo, protettivo, il nucleo familiare dove, però, si insinuano la paura e la violenza a livello immaginario; l’altro, esterno, rappresentato
dall’Università, che si tinge di sangue, di morte, di paura, di violenza
reali e concrete. Questi due mondi nell’immaginario collettivo raffigurano metaforicamente il bene e il male.
La violenza estrema e sconvolgente praticata da alcuni protagonisti che, come accennato, girano scene di torture e di omicidi reali, è
parte integrante del secondo macrosegmento, centrato, appunto, sugli snuff-movie, ma è parte integrante anche del primo al quale si riallaccia. In altre parole, “idea forza”1 della pellicola di Amenábar, a
mio avviso, è la sua struttura metafilmica, attraverso la quale riesce a
fondere tematiche, narrazione, immagini e ritmo spazio-temporale.
Infatti, lo spettatore vede le immagini relative alle torture attraverso
l’occhio della cinepresa, attraverso di essa sente le urla delle vittime;
il passato diventa presente e coinvolge emotivamente lo spettatore.
Un’ultima osservazione sugli accorgimenti tecnici a cui ricorre il regista nei momenti di suspense. I contesti emozionali di paura o terrore
1
Faccio mie le parole di Segre (1974: 65).
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fanno capo a quegli stratagemmi comunemente usati in questo genere di film, quali il buio assoluto, la penombra, il temporale, le porte
che sbattono, le luci che si spengono.
Il mondo misterioso e occulto dei sogni e della percezione della
realtà, che dà origine al terzo segmento dove tutto si confonde, conferisce al film un alto grado di suspense. Basti pensare agli incubi di
Ángela, terrorizzata da Bosco a un punto tale per cui entrano in gioco la sfera psicologica, l’inconscio più profondo. Lo percepisce, infatti, come reale nella sua stanza, di notte, mentre le punta un coltello
alla gola, la bacia violentemente e poi glielo affonda nello stomaco.
Inutile dire che si tratta di un sogno e che la mattina seguente Ángela si sveglia senza alcun graffio.
La lingua e il doppiaggio
Gli spunti di riflessione offerti dal film, se da un lato richiamano
l’attenzione sui numerosi problemi relativi alla traduzione di un “parlato recitato” rappresentativo di un linguaggio di moda diffuso ampiamente tra i giovani, disseminato di termini di registro colloquiale,
di espressioni tipiche del linguaggio giovanile e di parole sconce,
dall’altro, vogliono segnalare problemi più complessi dovuti alle peculiari caratteristiche che fanno capo alla presenza dei diversi codici
che fanno parte del sistema semiotico del film: codice visivo, codice
sonoro e codice verbale dei quali si deve tener conto in sede di traduzione e adattamento.
Non sfugge, anche a una visione superficiale del film, che le caratteristiche più evidenti di questo linguaggio sono le varietà funzionali e contestuali della lingua, le oscenità e il registro informale-colloquiale usati dai giovani, in contrapposizione alla lingua colta e al
registro formale, usati dai professori.
In fase di traduzione per il doppiaggio, all’insistente presenza di
espressioni “oscene”, riscontrate soprattutto nella parlata dei giovani
spagnoli, non corrisponde la stessa occorrenza nella versione italiana.
In ogni caso, resta chiaro che tra il testo di un messaggio e la sua
traduzione c’è sempre entropia di significato e, pertanto, occorre fare attenzione affinché gli “elementi del senso” conservino nella lingua di arrivo gli stessi valori che hanno in quella di partenza2.
2
“Le traducteur, cela va sans dire, ne doit rien retrancher ou ajouter, mais il doit
aussi veiller à ce que les eléments de sens gardent dans la langue d’arrivée les rapports
de subordination qui les régissent dans la langue de départ” (Darbelnet: 1977, 7).
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Per avere un’idea della misura del problema, affronterò l’analisi
sotto un duplice aspetto: la traduzione delle parole sconce e quella dei
connettivi, sulla base di alcuni esempi significativi. Parto dalle “oscenità”, soprattutto per il distacco tra l’uso che se ne fa nel film originale e
quello, per contrasto, ricco di eufemismi, della pellicola doppiata.
Propongo a titolo esemplificativo, alcune traduzioni “difformi”
delle oscenità3.
1) Chema: ¡Y una mierda! ¿Qué coño 1) Che cazzo c’è in quella cassetta?
hay en esa cinta?
[rabbia] OFF (profilo)\
2) Chema: ¡Hostias!
[stupore, meraviglia] ON
3) Chema: Joder, eso es muy fuerte
[disgusto, orrore] ON
4) Chema: ¿Qué coño le va a hacer en
la…? ¡Puag! Será mejor que no veas esto.
[stupore] ON (primo piano)
2) Accidenti!
3) Cazzo, è proprio dura questa.
4) Che cosa le vuole fare adesso? E meglio che questo non lo guardi.
5) Ángela: ¡Y qué importa que sea un ga- 5) Ma che importa se quello è un garage!
raje! Ese hijo de puta la ha torturado y È stata torturata e poi ammazzata!
la ha matado!
[preoccupazione] ON (si allontana)
6) Ángela: ¿Cómo puedes seguir viendo 6) Perché continuare a guardare queesta mierda? ON
sto… vomito?
[contrarietà, disappunto]
7) Chema: Eh, eh, un momento. ¿Qué 7) Eh, eh, un momento. Che cazzo succoño es eso? [indignazione] ON (testa cede?
piegata in avanti)
8) Chema: Me refiero a la textura, ¡joder!
[meraviglia] ON
9) Chema: Yo estoy seguro de que había
una… ¿La XT 500? ¡Sí, joder! Busca el
folleto de la XT 500.
[soddisfazione] ON (testa piegata in
avanti)
8) Parlo della qualità della immagine.
10) Chema: Estás cagada.
[derisione] ON
10) Te la fai sotto.
9) Me ne viene in mente un’altra. XT
500. Sì, cazzo! Penso sia proprio quella,
la XT 500.
11) Ángela: ¡Pues claro que estoy caga- 11) Mi pare normale! Perché questo
da! Porque esto no es un juego, ¡joder! non è un gioco. C’è qualcuno che amEsa gente mata de verdad.
mazza veramente.
[paura] ON
3
Indico tra [ ] i contesti psicologici della situazione cui appartengono gli enunciati,
in modo da renderne esplicito il senso; con l’indicazione ON (in primo piano) e OFF (di
profilo, di spalle o non visibile) le inquadrature.
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Una prima riflessione, anche se relativa ai pochi turni conversazionali riportati, ma che è sufficientemente rappresentativa di tutto il
film, è che se le espressioni volgari sono in numero rilevante in spagnolo, ciò è dovuto e giustificato dal fatto che sono pressoché desemantizzate. Infatti “la mayoría de esas obscenidades están semánticamente tan gastadas por el uso, que el hablante apenas tiene conciencia de su contenido indecente” (Beinhauer: 1968, 87). È poi interessante notare e riflettere sul fatto che la traduzione del turpiloquio viene effettuata in italiano solo in presenza di determinati contesti psicologici quali quelli che indicano rabbia, disgusto, indignazione, soddisfazione, come del resto avviene, in genere, nella modalità d’uso
conversazionale. Nei casi in cui, invece, tali contesti indicano stupore, meraviglia, sorpresa, incoraggiamento, paura, preoccupazione, fastidio, le “oscenità” vengono tradotte con degli eufemismi o eliminate.
Ma, poiché nella traduzione per il doppiaggio, come accennato,
non sono secondari gli aspetti relativi alla sincronia fonetica o labiale – indicata anche come sinc – e alla isocronia, le omissioni e l’uso
di eufemismi non dipendono solo dai contesti psicologici. Come è
noto, le principali difficoltà da superare, in relazione al sinc, sono le
bilabiali e le vocali più aperte e più chiuse, specialmente quando le
scene sono in ON, ossia in primo piano. Tali problemi non sussistono, ovviamente, con le scene in OFF. In entrambi i casi, però, resta la
necessità di contenere gli enunciati nel lasso di tempo in cui l’attore
li pronuncia nella lingua originale. E non è semplice. Il problema
dell’isocronia varia, infatti, secondo le lingue coinvolte e comporta la
necessità di ridurre le frasi, ma anche di omettere parole o espressioni. Il che può alterare il senso della traduzione. In altre parole, nel
nostro caso, non sempre l’eliminazione della parolaccia dipende da
questioni stilistiche, morali o di presunta ricezione negativa da parte
del pubblico italiano.
Nell’esempio n.4), il lessema coño, definito dal diccionario de expresiones malsonantes del español (Martín: 1979) “coño (vulg.). 1.
Org. gen. de la mujer […] 2. Us. como interjección de ira, enfado, fastidio, sorpresa, admiración o alegría […]”, viene tradotto con un eufemismo, e cioè con il termine cosa. In italiano, negli stessi contesti
situazionali in cui lo spagnolo usa coño, è normale l’uso del sostantivo maschile cazzo: “In molte locuzioni assai triviali è usato come
esclamazione di stupore, di spregio, di dispetto, o come rafforzativo
di quanto si afferma” (Battaglia: 1962). Ora, da un punto di vista del
senso, in generale la traduzione è appropriata, perché rispecchia la
domanda che si farebbe qualsiasi spettatore, però si perde la connotazione oscena propria dell’originale. D’altra parte, la traduzione del-
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la corrispondente parolaccia italiana cazzo, avrebbe comportato problemi di sincronia fonetica dato che la scena è in primo piano e la
vocale chiusa, o, sarebbe stata sostituita dalla vocale aperta a.
Negli esempi n.5) e n.8), girati nella modalità in ON, le oscenità
sono state omesse non solo perché i contesti emozionali indicano
preoccupazione, paura, meraviglia, ma anche perché, a mio avviso,
se fossero state lasciate, nella versione doppiata gli enunciati sarebbero risultati troppo lunghi e non sarebbe stato possibile rispettare
l’isocronia.
Lingua scritta e lingua parlata hanno norme di realizzazione diverse come, per esempio: “Un secondo gruppo di caratteri differenziali nasce dalla dipendenza della situazione, che è massima nel parlato, minima nello scritto […] Dalla dipendenza della situazione discendono […] la cosiddetta «fungibilità», vale a dire il fatto che nel
parlato il messaggio linguistico è più importante per quello che dice
(indipendentemente, entro certi limiti, dalla maniera in cui viene detto), mentre nello scritto la ‘forma’ diventa pressoché tanto importante (o di più, in certi casi) quanto il ‘contenuto’” (Berruto: 1980, 161).
In altre parole, a fare la differenza è la spontaneità del parlato che
si ottiene attraverso strategie di produzione e ricezione – alle quali si
ricorre per rendere naturale il discorso – che vanno dalla veemenza
all’enfasi, dall’intonazione, ai gesti (Briz Gómez: 2001, 113-114). E
poiché la conversazione colloquiale è particolarmente affettiva ed
enfatica, si fa ricorso anche ai connettivi, che fanno parte del contesto d’uso del registro colloquiale per richiamare l’attenzione dell’interlocutore.
Nel film Tesis, le espressioni colloquiali della conversazione sono
regolate, per la maggior parte, da connettivi del tipo estructuradores
de la información, tra i quali troviamo pues, bien; marcadores del
control del contacto come mira, oye; operadores discursivos come
bueno (Portolés: 2001, 146).
Ecco alcuni esempi:
a)
Bueno, ¿Qué es lo qué quieres ver? OFF
Ci siamo, che vuoi vedere?
b) Bueno, Esto se ha acabado.
OFF
E con questo, fine dello spettacolo.
c)
Bueno, pues lárgate. Ya me las arreglaré. ON
Be’, mollami e vattene.
L’interiezione bueno, in generale, presenta la parte del discorso a
cui si riferisce in modo tale per cui l’intenzione comunicativa del par-
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lante viene trasmessa in modo soddisfacente. La traduzione in italiano, pur conservando la stessa intenzione comunicativa, cambia a seconda del senso dell’enunciato.
Nell’esempio a), la scena si svolge a casa di Chema. L’uso del
connettivo bueno, che ha la funzione di indicare una risposta indiretta, il cui senso è quello di soddisfare la richiesta di Ángela, fa inferire che il nostro studente ha deciso di far vedere ad Ángela qualcuno
dei suoi numerosi film sulla violenza. La traduzione ci siamo è appropriata dal punto di vista del senso. Infatti, tale locuzione si usa
“per indicare che è arrivato un momento lungamente atteso e temuto” (De Mauro: 2000). Non lo è da quello del sincrono, visto che non
c’è alcuna corrispondenza fonetica; ma poiché la scena è in OFF, lo
scarto tra vocali e consonanti è ininfluente.
Nell’esempio b), bueno sta a indicare la conclusione di una azione. Nel caso specifico Chema spegne il televisore con il telecomando. La traduzione con la locuzione E con questo, usata comunemente “come formula conclusiva di un discorso” (De Mauro: 2000) è appropriata dal punto di vista del senso; non lo è, come nel caso precedente, da quello del sincrono per la mancanza dell’occlusiva bilabiale sonora b. Compensano, però, le due vocali e, la nasale n e l’ultima parte della locuzione, questo, che dal punto di vista del sincrono è identica al pronome esto. D’altra parte, essendo la scena in OFF,
il problema non sussiste. Dal punto di vista dell’isocronia, l’enunciato italiano è di due sillabe più lungo, ma non crea problemi.
In c), il connettivo indica la conclusione della conversazione. Infatti, anche qui la scena si svolge a casa di Chema, dove i due ragazzi hanno appena visto lo snuff-movie. Ángela conferma che ha paura e che non ne vuole sapere più nulla. L’italiano be’, di uso familiare, ha valore conclusivo (De Mauro: 2000), perfettamente in linea
con il senso dell’enunciato originale. Nell’adattamento in italiano ritroviamo, da un lato, l’occlusiva bilabiale sonora b e la vocale e, dall’altro, la consonante nasale sonora m e le liquide ll, utilizzate in
mollami, che sono in sintonia con l’occlusiva bilabiale sorda p di
pues e la liquida l di lárgate sia a livello di percezione del movimento delle labbra da parte dello spettatore, sia con la scena in ON.
Interessante è anche l’uso del connettivo pues che rappresenta un
caso particolare. Portolés prende in considerazione tre usi diversi di
questo elemento conversazionale: “En el primero […] se trata del
pues denominado causal […] En otras ocasiones, es adverbio marcador discursivo con significado consecutivo […] Por último, el más
completo desde el punto de vista categorial es el pues comentador”
(2001, 55).
Gli esempi che seguono sono rappresentativi di alcuni usi men-
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zionati:
d) Pues, yo no he sido. ON
Ma non sono stata io.
e)
Pues… Vanessa llevaba varios días sin ir a clase. ON
Bene, be’… Vanessa non veniva da parecchi giorni.
f)
Pues… como a casi todo el mundo, no me gusta la violencia.
Perché non mi piace la violenza.
ON
Nell’esempio d) il valore del pues comentador può voler indicare
la conclusione o l’interruzione di un discorso. Nel contesto, si tratta
della risposta di Sena alla sorella Ángela che l’accusa di aver frugato
nella sua stanza. La traduzione è adeguata sia a livello di senso, perché la congiunzione avversativa ma, all’inizio del periodo, indica
conclusione o interruzione di un discorso, sia a livello di sincronia labiale. Infatti, essendo la scena in ON, l’occlusiva bilabiale sorda p,
ben si sposa con la nasale sonora m, e lo spettatore non rileva la differenza.
Il pues dell’esempio e), anch’esso del tipo comentador, ha valore
conclusivo, come si intuisce dal contesto. Ángela sta intervistando
Bosco che le parla della scomparsa di Vanessa. La traduzione è pertinente non solo dal punto di vista del senso in quanto tanto l’avverbio
bene, quanto il suo troncamento be’, si configurano con valori conclusivi, ma anche da quello del sinc per l’uso delle occlusive bilabiali p in spagnolo e b in italiano in quanto i movimenti labiali sono
corrispondenti.
Nell’esempio f), come si evince dal contesto, pues ha valore causale. Ángela sta infatti rispondendo alla domanda del professor Castro che le aveva chiesto la ragione del suo interessamento per questo tema e il motivo della sua preoccupazione. La domanda finale di
Castro, prima della risposta di Ángela, è ¿Por qué?. Ora, tradurre pues
con valore causale con la congiunzione perché è adeguato perché risolve sia il problema della sincronia labiale sia quello del senso. Non
convince, invece, l’eliminazione di parte dell’enunciato, anche se
nella versione doppiata non si percepiscono incoerenze.
Come accennato, nel film non mancano spunti umoristici che servono a attenuare la drammaticità dell’argomento. Basti come esempio, la simulazione dell’intervista che Ángela deve fare a Bosco, sostituito da Chema che, sdraiato sul letto, risponde ad alcune domande
con un tocco di umorismo caustico:
Ángela: ¿Era Vanesa una chica normal? OFF
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Chema: Me alegro de que me hagas esa pregunta, porque me gustaría
aclarar que Vanesa era una chica maravillosa, llena de vida… hasta que yo se la quité, claro… OFF
Mi fa piacere questa domanda, perché Vanessa era una ragazza
meravigliosa, piena di vita… finché non l’ho uccisa, ovviamente…
In relazione alla traduzione di questo breve dialogo, dal momento che le scene sono in OFF non vi sono problemi di sincronia fonetica, problemi che si sarebbero presentati specialmente nella traduzione dell’enunciato finale hasta que yo se la quité, visto che nella
versione italiana non c’è nessuna corrispondenza a livello fonetico.
In relazione, invece, alla sincronia di contenuto che, se non conservata, lascerebbe alquanto perplesso lo spettatore, la traduzione del
dialogo in italiano è adeguata anche dal punto di vista del mantenimento del macabro umorismo di Chema che, con in mano una finta
pistola, presenta con distacco critico l’aspetto insolito e assurdo della
situazione simulando uno sparo, sia con un movimento sonoro delle
labbra sia con la gestualità.
A far percepire come assurdo e contraddittorio il contesto psicologico è anche l’uso degli avverbi claro e ovviamente, che presentano come un fatto naturale, scontato, banale, un delitto che dovrebbe
invece essere condannato e semmai avere carattere di eccezionalità.
Tutta la contraddittorietà della situazione appare più evidente se vista
in termini di opposizione vita vs morte, espressa secondo l’equazione:
llena de vida
piena di vita
vs
vs
hasta que yo se la quité, claro.
finché non l’ho uccisa, ovviamente.
L’ideologia
Nel film emerge la contrapposizione manichea tra bene e male.
Basti pensare ai comportamenti dei personaggi maschili e femminili
per rendersene conto. Infatti, se volessi presentarli pensando alla più
banale delle categorie, buoni vs cattivi, avrei:
Chema
vs Bosco
Ángela
vs Yolanda
Figueroa vs Castro
Per rendere esplicito quanto detto, prenderò in considerazione le
strutture attanziali (Greimas: 1976) del film.
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Una prima riflessione porta alla luce una struttura articolata secondo il desiderio, che identifica Ángela e Bosco come i due attanti
che costituiscono sia la categoria destinatore vs destinatario, sia quella oggetto vs soggetto, secondo l’equazione:
Ángela
____________
destinatore + oggetto
__________________
∼_
Bosco + Castro
destinatario + soggetto
dove Ángela è l’oggetto del desiderio perseguito da Bosco per girare
gli snuff-movie. Ma è anche oggetto del desiderio del professor Castro, che la persegue con gli stessi obbiettivi di Bosco: torturarla, ucciderla riprendendo la scena e guadagnarci vendendo il film. La funzione di aiutante, anch’essa orientata nel senso del desiderio, può essere attribuita sia a Chema, che la vuole salvare, sia a Figueroa che si
attiva per procurarle un video con immagini violente. Yolanda, invece, ha la funzione di aiutante di Bosco, suo oggetto del desiderio.
Tenta, infatti, di convincere Ángela che l’assassino è Chema. Chema,
a sua volta, si trova sincretizzato nella categoria attanziale di aiutante
di Ángela e opponente di Bosco secondo l’quazione:
Chema + Figueroa
________________
Ángela
vs
Yolanda
___________________
Bosco + Castro
riconducibile all’opposizione vita vs morte. In altre parole, se da un
lato, i semi /amore/ e /speranza/, attribuibili a vita, sembrano rivelare una ideologia positiva di negazione del male, rappresentata tecnicamente dalla luce, dall’altro lato, i semi /disprezzo/ e /disperazione/, attribuibili a morte, rivelano un’ideologia negativa di godimento
del male, rappresentata dal buio.
Nella misura in cui l’analisi effettuata, anche se non esaustiva,
porta a delle conclusioni, è certo che con la morte finale di Castro e
Bosco e la salvezza di Ángela e Chema, nonché della divulgazione
dei fatti da parte dei media, Amenábar traccia una línea ideologica e
morale secondo la quale il male, equamente rappresentato dalla fascia dei giovani studenti e da quella dei ben più maturi professori,
soccombe, e il bene, anch’esso rappresentato da professori e studenti, trionfa. Inoltre, non di poco conto è la divulgazione di notizie e
fatti prima occulti e a circolazione limitata.
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Conclusioni
Ben lungi dall’esaurire tutte le possibilità, la scelta degli esempi
relativi alla traduzione difforme delle oscenità, a quella dei connettivi e alla resa dell’umorismo caustico di Chema, non vuole essere che
una breve indicazione di alcuni problemi specifici legati alla traduzione per il doppiaggio.
Le discrepanze riscontrabili nell’adattamento, spesso, sono dovute alla necessità di rispettare la sincronia fonetica, quella dei contenuti e l’isocronia. Tuttavia, non sempre è stata rispettata l’obbedienza al
sincronismo. Nella traduzione dei tacos, alcune scelte non sono giustificabili. Infatti, la loro presenza nella lingua parlata dai giovani
sembra voler sottolineare una critica ai condizionamenti ideologici,
tra i quali si inseriscono quelli linguistici, di cui sono vittima le giovani generazioni che usano frequentemente sottocodici particolari, ricchi di parole gergali, nell’illusione di differenziarsi dagli adulti. Come
accennato, appare evidente che la traduzione dei tacos a volte coincide soltanto sul piano del senso, ma senza che sia rispettata la connotazione oscena dell’originale.
Al di là delle considerazioni linguistiche, esiste anche un problema che riguarda il senso del testo filmico. Emerge, quindi, l’importanza che assumono le parolacce utilizzate dall’autore della sceneggiatura. Ora, nel film doppiato, i termini usati (accidenti, cosa, vomito) o omessi, laddove il contesto psicologico indica stupore, meraviglia, sorpresa, paura, preoccupazione, spesso sostituiscono eufemisticamente cazzo e non corrispondono alle oscenità spagnole. L’equivalenza si trova, invece, a livello di senso. Ma c’è da osservare che
se nella traduzione si perde il connotato osceno si perde anche il
senso.
A parziale giustificazione del dialoghista è opportuno rilevare
che, in alcuni casi, tali sostituzioni appaiono giustificate dal fatto che
in italiano l’uso delle espressioni volgari è meno frequente che in
spagnolo. È però doveroso notare che nel passare dall’osceno alla
lingua corrente, appare evidente un trasferimento di funzione semantica che provoca nello spettatore italiano una percezione inadeguata
dell’originale.
Per concludere, in relazione all’ideologia lo spettatore recepisce il
film sotto un duplice aspetto: da un lato emerge l’intento moralizzatore nei confronti dell’ambiente medio alto dell’Università, in cui sono accomunati, in una sorta di opposizione tra bene e male, studenti e professori; dall’altro lato, il fatto che coloro che incarnano il male, Castro e Bosco, muoiano entrambi per mano di coloro che rap-
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presentano il bene, Chema e Ángela, fa pensare che Amenábar preso dalla sindrome del giustiziere, voglia trasmettere la speranza e far
capire che il bene, alla fine, trionfa sempre e che il male soccombe.
Speranza, d’altra parte, intuibile anche attraverso l’iconografia. Basti
pensare all’oscurità delle scene iniziali e alla luminosità di quelle
conclusive, per immaginare che, nell’universo mitico, all’opposizione
morte vs vita, riconducibile a notte vs giorno, a sua volta riconducibile a inferno vs paradiso corrisponde l’opposizione che esprime tutto il senso del film: disperazione vs speranza, speranza di un mondo
migliore auspicata da Amenábar.
Infine, in relazione al doppiaggio, vorrei concludere citando Galassi che spezza una lancia a favore dei dialoghisti-adattatori e traduttori: “Dialoghisti e traduttori avvertono la mancanza di un riferimento a una norma linguistica ben definita, proprio perché da una parte,
come dicevamo poco fa, sono nella costante necessità di violare questa norma, di traviarla, ma d’altro canto sono spesso tenuti a rispettarla” (Galassi: 1994, 69).
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LINGUISTICA
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Milin Bonomi
MINORI ISPANOFONI E INIZIATIVE DI INTERVENTO
PER IL MANTENIMENTO LINGUISTICO
Il numero di immigrati ispanoamericani nel territorio italiano si
aggira intorno alle 180.0001 unità, e i dati del Miur indicano che altrettanto alta è la cifra di minori di origine ispanica nelle scuole italiane: gli istituti lombardi ne vedono sui propri banchi circa 15.0002. Milano costituisce all’interno di tale panorama migratorio il centro nevralgico della presenza della popolazione di origine sudamericana:
sono infatti il 28,36% degli stranieri residenti in Italia gli ispanofoni
che hanno scelto di stabilirsi in Lombardia, e molti dei loro figli sono
arrivati successivamente grazie al ricongiungimento famigliare.
Il tema del ricongiungimento famigliare, in particolare, è un elemento che caratterizza in larga misura l’ondata ispanoamericana: frequente è il caso di una tipologia migrante ben definita, che si identifica nella donna, generalmente coniugata e con figli, che rappresenta una sorta di apripista dell’esperienza migratoria (Vietti 2005: 43), e
che, una volta stabilizzatasi professionalmente ed economicamente,
è in grado di ricomporre il nucleo famigliare nel nuovo contesto.
Per questo motivo una grande porzione della popolazione ispanoamericana minorile è rappresentata da ragazzi primo-migranti, e
cioè nati nel proprio paese d’origine, alfabetizzati dunque in spagnolo, e giunti in Italia in seguito a ricongiungimenti famigliari. Si tratta,
più che di immigrati di seconda generazione nati e inseriti nella società d’arrivo, di ragazzi cresciuti in altri paesi lontano dai genitori, e
trapiantati in un secondo momento in una realtà completamente
nuova a cavallo tra due mondi, tra due culture e due lingue, il che li
porta a riconoscersi, più di qualsiasi altra categoria, in un’identità linguistica e culturale multipla.
Se, da un lato, il ruolo della scuola e delle istituzioni riveste il
compito di farsi carico dell’inserimento del neo-arrivato nella nuova
società e di alfabetizzarlo in italiano L2, è altresì vero che il gruppo
1
2
I dati sono stati desunti da CARITAS-MIGRANTES, Dossier Statistico 2006.
Dati ISMU relativi all’anno scolastico 2005-2006.
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sociale di appartenenza, cioè la famiglia e, ove possibile, la comunità etnica, in molti casi si assume l’impegno di garantire il mantenimento linguistico e la continuità culturale con il proprio paese d’origine.
Le comunità ispanofone in generale, e più in particolare quella
peruviana, che con un alto numero di presenze sul territorio milanese risulta il gruppo più rappresentativo, si caratterizzano per una forte coesione ingroup, determinata da molteplici fattori: in primo luogo, la creazione di una catena migratoria che porta alla concentrazione degli immigrati in alcune zone piuttosto che in altre o allo svolgimento di mansioni etnicamente caratterizzanti (si pensi al caso delle
badanti), in secondo luogo la struttura stessa della grande città, che
permette e agevola il contatto in grandi spazi pubblici, nei parchi,
negli istituti religiosi, in interi quartieri dove è possibile ricreare il
proprio mondo attraverso il cibo, la musica, o le conversazioni nella
propria lingua (Vietti 2005: 70); bisogna infine tenere in considerazione l’importanza che rivestono le istituzioni o le associazioni che si
preoccupano di veicolare le informazioni all’interno della comunità
attraverso giornali e riviste cartacei o on-line, il più delle volte in lingua originale (America Hoy, Integrando, El Giornalito, Las Américas), o i nascenti programmi radiofonici e televisivi destinati a un’utenza ‘latina’ (TG Latino).
Grazie a questi strumenti, per alcuni immigrati è possibile muoversi all’interno della nuova società e della propria rete sociale senza
dover rinunciare alla propria identità etnolinguistica. Da un punto di
vista più propriamente linguistico, inoltre, il gruppo ispanofono risulta essere, secondo le ricerche di Chini (2004) nel territorio pavese e
torinese, più conservativo rispetto agli altri gruppi linguistici immigrati, con un uso dello spagnolo in famiglia pari al 91% dei casi intervistati; dalle stesse indagini, risulta inoltre un ampio uso misto di spagnolo e italiano (55,4% dei casi), dovuto evidentemente alla vicinanza tipologica dei due sistemi linguistici.
Queste premesse ci permettono di inquadrare la situazione linguistica del gruppo ispanofono all’interno di un comportamento di
mediazione, orientato sia verso un’elevata adozione di italiano L2, favorita dalla parentela tipologica con lo spagnolo, sia verso un forte
mantenimento della propria lingua madre nel contesto famigliare e
ricreativo.
In tale panorama si inserisce un’iniziativa organizzata dal Consolato Generale del Perù a Milano e dalla rivista mensile in lingua spagnola Integrando nella primavera-estate del 2004, volta a rivalorizzare il paese d’origine fra i giovani immigrati attraverso un concorso
letterario dal titolo Mi Perú. Il concorso, rivolto a minori peruviani o
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italo-peruviani dai 9 ai 18 anni, consisteva nella redazione di una
composizione incentrata sulla propria esperienza migratoria in una
lingua a scelta tra spagnolo e italiano.
L’iniziativa, oltre a rilevare l’attenzione posta dal Consolato Peruviano rispetto al problema mantenimento di L1 in ambito migratorio3,
ha prodotto documenti che a nostro avviso risultano molto interessanti per le narrazioni e le auto-rappresentazioni che forniscono e
per il modo in cui emerge il problema dell’identità culturale e linguistica di questi giovani.
Il presente contributo intende analizzare i testi prodotti dai partecipanti al concorso Mi Perú, cercando di inquadrare, attraverso gli usi
linguistici e narrativi adottati in questi ultimi, il percorso di appropriazione da parte dei partecipanti di un’identità che potremmo definire
‘ibrida’. Cercheremo di esaminare in che modo la lingua, in una delicata fase di passaggio quale è quella da un mondo a un altro in un’età che segna il riconoscimento della propria identità, svolga un ruolo
fondamentale in tutti gli ambiti di identificazione della personalità: a
livello etnico-nazionale, a livello culturale, a livello affettivo, a livello
scolastico e famigliare.
Prima di addentrarci nell’analisi dei testi, desideriamo inoltre ringraziare il Consolato Peruviano di Milano, e in particolar modo il vice-console León, per l’interessamento al nostro lavoro e per la disponibilità a lasciarci liberamente consultare il materiale in questione.
Il corpus preso in esame è formato da 17 testi di diversa lunghezza e molto eterogenei in quanto a livello di produzione linguistica.
Ciò è dovuto a molteplici fattori: in primis alla differenza di età dei
narratori, tutti in una fascia scolare compresa tra le elementari e le
superiori, che determina l’articolazione di scritti più semplici nel caso
dei più piccoli, e più elaborati nel caso dei più grandi; in secondo
luogo, al tipo di codice prescelto: si rileva infatti che la maggior parte dei testi è stata redatta in italiano (14 su 17), mentre sono in spagnolo solo tre, di cui uno si contraddistingue per evidenti fenomeni
di code-mixing tra le due lingue. Il genere prescelto da quasi tutti è
la prosa (14 su 17), mentre tre ragazzi hanno optato per la poesia; di
queste tre composizioni, una è interamente in spagnolo.
Come si può notare da questi dati riguardo alle scelte di codice
effettuate, predomina in quasi tutti la preferenza per l’italiano, nonostante la maggior parte di essi abbia frequentato i primi anni di
3
chua.
In tale prospettiva nel 2005 sono stati organizzati dal Consolato dei corsi di que-
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scuola in Perù e siano dunque stati alfabetizzati in spagnolo.
Possiamo ritenere che tale scelta sia da imputare ai diversi usi che
vengono fatti delle due lingue in questione: lo spagnolo, infatti, rappresenta la lingua adottata in ambito famigliare, da ricondurre dunque a pratiche più prettamente orali; l’italiano, invece, è la lingua legata all’ambito scolastico, quindi adoperata ampiamente in modalità
scritta, come avremo modo di vedere attraverso i testi in questione.
Nonostante l’ampio utilizzo misto di spagnolo e italiano sopra citati,
il panorama linguistico a cui assistiamo non implica una competenza
equivalente di L1 e L2.
Gli studi approfonditi di Schmid (1994) e Vietti (2005) hanno evidenziato in che modo i fattori sociali siano determinanti per l’acquisizione di L2 e nella creazione di un’interlingua nel caso di adulti
ispanofoni: allo stesso modo, ritroviamo anche nei più giovani la medesima variabile, a cui ne va aggiunta un’altra altrettanto importante,
ovvero l’età. È un fatto oramai riconosciuto che proprio l’età svolga
un ruolo fondamentale nell’acquisizione di una seconda lingua:
Schmid (1994: 61-63) lo annovera, infatti, fra i quattro fattori principali4 che incidono sull’apprendimento per motivi di ordine psico-linguistico, che si rifanno alla teoria del cosiddetto ‘periodo critico’, secondo cui le aree del cervello responsabili delle abilità linguistiche
sarebbero meno plasmabili dopo la pubertà.
Se i più piccoli possono ritenersi fortunati perché le capacità di
apprendimento di una nuova lingua sono più sviluppate, e per questo motivo si ritrovano in una situazione di parità con i compagni italiani, è vero anche che questi giovanissimi immigrati saranno più
soggetti dei loro connazionali più grandi a perdere l’uso dello spagnolo, se non sono stati alfabetizzati in tale lingua, e se non vi sia
l’impegno costante dei genitori nel perseguire un’educazione bilingue. Nel caso dei più grandi, invece, è possibile assistere a un altro
tipo di problema, più vicino alle dinamiche di acquisizione degli
adulti: il rischio cioè di un apprendimento limitato o imperfetto di L2,
dovuto alla similarità fra le due lingue e a una scarsa conoscenza pregressa di L1.
Come evidenziato dagli studi di Schmid (1994: 94-98) sull’apprendimento di italiano da parte di ispanofoni, la vicinanza tipologica fra
4
Schmid (1994: 61-63) raggruppa i fattori che incidono sull’apprendimento di L2 in
4 categorie: fattori biologici (sesso, età), fattori individuali (personalità, stile cognitivo),
fattori affettivi (atteggiamenti, motivazione) e fattori sociali (grado di istruzione, quantità
e qualità dei contatti con i parlanti di L2). I primi e gli ultimi sono le variabili più utili ai
fini delle ricerche sociolinguistiche.
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le due lingue in questione produce un duplice effetto: se la somiglianza facilita la comprensione e la produzione di L2 ad un livello
iniziale, in un secondo momento la stretta parentela fra le due lingue
può costituire un ostacolo e addirittura provocare casi di fossilizzazione, per cui il processo di apprendimento si può arrestare in un determinato punto del continuum dell’interlingua. La lingua di partenza svolge infatti un ruolo decisivo nella fase di acquisizione e rappresenta la base da dove partire per elaborare ipotesi su L2.
Alcune ricerche all’interno della scuola italiana (cfr. Favaro 2002)
hanno evidenziato aspetti interessanti in tal senso: così come l’inserimento scolastico risulta ‘apparentemente’ più favorevole per i ragazzi ispanoamericani rispetto ai loro compagni stranieri per la vicinanza fra le due lingue in questione, è anche possibile che si verifichino
in un secondo momento risultati scolastici più deludenti, dovuti alla
perdita d’interesse e di motivazione rispetto alla nuova lingua.
Il fattore sociale risulta decisivo a tal riguardo: è più probabile
che i giovani appartenenti a famiglie economicamente più svantaggiate non godano della stessa attenzione alla loro formazione linguistica di cui si avvalgono i ragazzi bilingui appartenenti a gruppi sociali medio-alti.
Siguan (2001: 88-89) rileva come il livello socioculturale alto sia
più favorevole alla formazione di autentici bilingui; quando invece
vengono a mancare le condizioni sociali adeguate, il bilinguismo famigliare non è sufficiente a garantire una competenza adeguata nei
due codici: lo stesso autore attribuisce a questo fenomeno il termine
di ‘semilinguismo’5.
In alcuni casi, la L1 può rappresentare, per i genitori, una lingua
socialmente meno prestigiosa rispetto al codice in uso nella società
di arrivo, e questo può determinare una maggiore propensione verso
l’italiano come strategia per una migliore integrazione, a discapito
della preservazione delle proprie radici culturali. A questo proposito
è interessante notare come, nonostante la scelta libera riguardo alla
lingua, le conclusioni delineate negli Atti del concorso mostrino una
certa preoccupazione da parte dei membri del Consolato, tanto da
raccomandare una più attenta ‘lealtà linguistica’6 nei confronti dello
5
Il primo a coniare il termine ‘semilinguismo’ era stato Hansegard (1975) per designare i deficit lessicali e morfosintattici che presenta il parlante bilingue e l’incapacità di
mantenere separati i due sistemi linguistici e di passare facilmente da uno all’altro.
6
Definiamo con Weinrich (1953: 209-210) la lealtà linguistica quello stato mentale per cui una determinata lingua occupa un’alta posizione nella scala dei valori, e va
per questo difesa.
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spagnolo: “El jurado destaca la iniciativa y organización del concurso
como acertadas. […] Sin embargo, deja constancia de que todos los
trabajos presentados en la categoría composición han sido escritos
en italiano, aún cuando se trata de niños peruanos. El Jurado recomienda la importancia de reforzar el uso e identificación de los niños
y jóvenes peruanos con el idioma castellano”.
Le conclusioni rivelano lo stretto legame che intercorre tra lingua
e identificazione con un determinato gruppo etnico, giá ampiamente
sostenuta da buona parte della sociolinguistica da Giles7 in poi: “La
lengua desempeña un papel importante –a menudo el más importante– en la configuración de los sentimientos de pertenencia a un grupo etnico o nacional” (Blas Arroyo 2005: 373), o ancora:
Language is not only an instrument for the communication of messages.
This becomes especially clear in multilingual communities where various
groups have their own language. With its language a group distinguishes itself. The cultural norms and values of a group are transmitted by its language. (Appel and Muysken 1987: 11)
La lingua, intesa come codice, riveste un ruolo fondamentale nel
processo di formazione della propria identità all’interno della società
circostante, ma è interessante notare anche in che modo gli usi linguistici veri e propri, dall’aspetto fonologico a quello più propriamente lessicale, dagli elementi morfo-sintattici a quelli pragmatici,
siano determinanti nella creazione dell’identità sociale:
For discourse analysts and sociolinguists the challenge has been to show
not only the centrality of the role of language in the construction and transmission of identities, but also the concrete forms in which and through
which language practices index such identities. (De Fina 2006: 351)
L’identità non è infatti qualcosa di innato nei parlanti, quanto
piuttosto una consapevolezza di sé e della propria relazione con il
mondo circostante che emerge da continue pratiche d’interazione, tra
cui il linguaggio. Nel caso specifico dei migranti, inoltre, il cambiamento e lo spostamento li portano a un ulteriore processo di re-invenzione della propria identità, di continua comparazione con il proprio passato e con i propri luoghi. Vedremo in che modo i testi in
questione oscillino tra due poli contestuali (il Perù e l’Italia), tra due
7
Cfr. Giles et al., Language, ethnicity, and intergroup relations (1977) e Giles and
Saint-Jacques, Language and ethnic relations (1979).
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spazi e due tempi differenti, tra il qui e il là, tra il prima e l’adesso, e
quale importante funzione rivesta in essi l’aspetto deittico.
È in questo territorio di passaggio che i ragazzi raccontano di sé e
la narrazione della propria storia permette loro di sviluppare delle
auto-rappresentazioni in cui essi stessi valutano la propria capacità di
tenere assieme modelli culturali e linguistici diversi, di descrivere il
proprio percorso di costruzione di un’identità multipla e di auto-analizzare le proprie condizioni di vita.
Concordiamo a questo proposito con De Fina (2006) nel considerare l’auto-rappresentazione uno strumento di primaria importanza
per comprendere il funzionamento di determinati gruppi sociali, oltre che un rilevante oggetto d’indagine da portare all’attenzione degli
studiosi e di chiunque sia vicino al mondo dell’immigrazione per poter analizzare le pratiche di vita quotidiana dei giovani migranti presenti nel territorio italiano.
Abbiamo avuto modo di anticipare come nelle auto-rappresentazioni il problema dell’identità multipla rivesta un ruolo di primo piano, e in che modo la lingua svolga la funzione di trait d’union in tutti gli ambiti di identificazione dell’io, sia per quel che riguarda il contatto fra le due lingue di riferimento, sia per quel che concerne l’aspetto più propriamente pragmatico o comunicativo. Vedremo in che
modo in quasi tutti gli ambiti d’interazione di questi ragazzi, sia a livello propriamente linguistico che etnico-nazionale, famigliare, scolastico e relazionale, il ruolo dei due codici e l’uso che essi ne fanno,
mostrino le tracce della loro identità ibrida.
Spagnolo e italiano a contatto
Ritroviamo nella maggior parte degli scritti un senso di sdoppiamento di fronte alla lingua: la maggioranza dei ragazzi dichiara di
aver avuto difficoltà al momento dell’arrivo in Italia per la mancata
conoscenza dell’italiano; nonostante ciò, quest’ultimo è oramai il loro codice d’interazione sia a livello scritto, sia nelle pratiche d’interazione extra-famigliare:
a) Ho visto una folla multicolore che parlava un idioma sconosciuto sebbene
affine al mio. […] Vorrei fare l’università, cercando, possibilmente, di mantenere il mio spagnolo che, purtroppo, si va facendo sempre più zoppicante
giacchè, oramai, non lo pratico quasi più. C’è una cosa strana che mi succede: non sogno più in castigliano bensì in italiano. Così, a volte, mi domando come mi troverei, in un futuro, nel mio paese. E mi ritrovo come sospeso tra due mondi e due identità. (Kevin)
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b) Dopo una settimana sono andato a scuola per la prima volta ho cominciato a imparare l’italiano. Mi è risultato un po’ difficile però dopo l’ho imparato. (Gustavo)
c) Così quando sono venuta qui, praticamente, avevo cominciato una vita da
capo perché non conoscevo nessuno, era una città che non conoscevo e in
più non sapevo parlare la lingua. Così avendo i miei sono andata avanti,
ho imparato la lingua e, come vedete, so anche scrivere. (Kiara)
La traccia di tale senso di sdoppiamento ci è data anche da veri e
propri elementi d’interferenza linguistica, che manifestano la sovrapposizione fra le due lingue attraverso casi di code-mixing a livello fonologico e ortografico (inmensa, escurzione), a livello morfologico
(del aula, del uniforme), e a livello sintattico:
d) Come dovevo partire per l’Italia, gli ho detto di no per questo motivo.
e) Vengo dal Perù, un paese molto bello da visitare a chi gli piace la natura.
Il primo esempio ricalca la costruzione spagnola causale “como +
indicativo”, che ha il suo corrispettivo nella forma italiana “siccome +
indicativo”. Anche il secondo esempio è un caso d’interferenza del
doppio pronome tipica dello spagnolo “a quien le guste”.
Questi due casi rappresentano esempi di un’interlingua contenente elementi sintattici della L1 (il connettore causale spagnolo, o il
doppio pronome) che, o non esistono o sono scorretti nella L2, e che
il parlante tende a trasferire da una lingua all’altra secondo il modello della corrispondenza, che Schmid (1994: 103-119) inserisce fra le
strategie di acquisizione di una lingua strutturalmente e geneticamente affine alla L1.
Si noti il caso inverso, estratto da una narrazione in spagnolo che
presenta casi d’interferenza dell’italiano:
f)
Yo en Perú vivevo vicino alla spiagia, andavo todos los días. Ho 12 primos.
(Ayrton)
Dagli esempi risulta evidente in che modo questi ragazzi abbiano
le competenze necessarie per gestire due codici differenziati e in che
modo, dopo uno scoglio iniziale di difficoltà comunicative, la maggior parte abbia raggiunto delle buone competenze in L2, nonostante alcuni fenomeni d’interferenza, che costituiscono delle strategie di
apprendimento imprescindibili in una fase di shift da L1 a L2.
Nonostante ciò, non è possibile parlare con certezza di bilinguismo ma, al contrario, proprio l’avvenuta padronanza totale di L2 può
essere tale da sovrastare le competenze in L1, e questo è un caso fre-
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quente, determinato da due variabili a cui accennavamo prima: l’età
d’inserimento nella scuola e l’attenzione dedicata dai genitori a coltivare la lingua d’origine. Come sostiene giustamente Leonini (2005):
“Chi inizia la carriera scolastica in Italia, si trova, ovviamente, in condizioni molto diverse e migliori di chi, invece, è arrivato nel nostro
paese verso i 12/13 anni o più tardi. In quest’ultimo caso, i giovani
vivono una fase di adattamento scolastico e d’inserimento sociale più
difficile, sommando i problemi adolescenziali con quelli dell’inserimento in un nuovo contesto sociale, linguistico, culturale e con la ricostruzione di legami familiari” (2005: 6-7).
Morales (1998 apud Lanieri 2003: 156) ha evidenziato, inoltre, come nei ragazzi la cui lingua madre non sia quella usata a scuola, si
verifichino problemi con la nuova lingua, nel caso in cui non abbiano sviluppato competenze e abilità tali da poterle trasferire poi a L2.
Gli esempi sopra riportati possono fornirci una spia di quanto sin
qui affermato; in tutti, infatti, ritroviamo fenomeni d’interferenza: i
primi due, (d) e (e), rappresentano dei casi d’interlingua creatasi nello shift da L1 a L2, e destinati probabilmente a scomparire con il progredire dell’apprendimento dell’italiano. Purtroppo non sappiamo
nulla del livello di spagnolo dei due narratori, e non possiamo dunque fare previsioni riguardo alla possibilità di mantenimento di L1.
Il secondo caso (f), invece, nonostante la decisione di redigere
l’elaborato in spagnolo, manifesta una certa difficoltà a livello ortografico, e più in generale nella produzione scritta. Non sappiamo
nulla della competenza di italiano del parlante in questione, ma possiamo supporre che senza un intervento di rafforzamento delle abilità in L1, si prospetti il caso di un bilinguismo in perdita, e cioè a discapito dello spagnolo, quello che Siguan (2001: 30) definisce come
bilingüismo substractivo.
Anche per quel che riguarda l’identificazione linguistica e il contatto fra spagnolo e italiano in ambito famigliare, ritroviamo un senso
di sdoppiamento determinato dalla necessità di sviluppare le competenze linguistiche nell’una o nell’altra lingua, a seconda di chi sia l’interlocutore. La maggioranza dei ragazzi in questione, infatti, ha vissuto la prima infanzia nel proprio paese d’origine, lontano dai genitori.
Per molti di loro i rapporti più significativi sono stati con i nonni o
con i parenti rimasti in patria, con cui sono cresciuti e con cui mantengono contatti sporadici:
g)
Io in Perù ho vissuto con i miei nonni e mi mancano tanto perché io li consideravo come i miei secondi genitori. (Kiara)
h)
Le cose con il tempo non eran come me le aspettavo, mia madre non mi po-
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teva capire, la lunga distanza l’aveva estraniata da me. […] Probabilmente
la nonna mi aveva troppo viziata. (Evelyn)
i)
Pero a las personas que más amaba
Son mis abuelos que aunque me castigaban
Yo les apreciaba (Carlos)
j)
Il lavoro che assorbe totalmente i miei, le ore lunghissime passate da solo
pensando ai miei fratellini rimasti a Lima con la mia cara nonna Chela.
Paradossalmente, proprio ora, privato del calore familiare che mi era abituale nel mio Perù. (Kevin)
I genitori paiono distanti nello spazio, ma anche nelle relazioni
affettive perché impegnati a garantire migliori condizioni di vita: ciò
genera, il più delle volte, un senso di abbandono e l’immancabile
confronto con il mondo d’origine, con un’infanzia spensierata nonostante le difficili condizioni economiche, ma garantita dalla presenza di figure salde e protettive. Tra queste, emerge in particolare quella della nonna materna, che riveste un ruolo fondamentale in questi
scritti, in quanto depositaria del contesto etnico-linguistico.
Lo sdoppiamento linguistico, anche in questo senso, appare chiarificante: lo spagnolo rimane il codice comunicativo per l’interazione
orale in ambito famigliare con i parenti rimasti in patria, mentre frequente è il caso di un uso misto di italiano e spagnolo con i genitori
in Italia, o addirittura di un uso esclusivo dell’italiano, soprattutto nel
caso delle madri più attente ad agevolare il processo d’integrazione
del figlio nella nuova società8, arrivando a volte addirittura a considerare l’uso di L1 socialmente meno prestigioso di L2.
Emerge dalla maggior parte degli scritti un’immagine della madre
che ricalca il modello che abbiamo delineato all’inizio di ‘pioniera’,
di apripista del percorso migratorio, mentre i figli sono giunti in un
secondo momento da soli, o accompagnati dal padre: il ricongiungimento con genitori poco conosciuti e poco frequentati risulta in molti casi difficile.
I genitori rappresentano comunque un sostegno fondamentale
nel momento della transizione. Da una fase di emarginazione, dovuta alla scarsa conoscenza della L2, si passa a una graduale integrazione in virtù dell’apprendimento di L2, e nella maggioranza dei casi a
un dichiarato ambientamento nel contesto scolastico e affettivo. La
lingua rimane inevitabilmente lo scoglio principale e il primo vero
motivo che li porta a sentire la propria diversità:
8
A questo proposito cfr. Chini (2004)
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k) Ho avuto la fortuna di essere aiutato ad abituarmi in questo posto grazie a
una maestra delle elementari che sapeva lo spagnolo […], però ci sono stati
anche dei momenti brutti causati dal fatto che fossi diverso dagli altri. (Luciano)
La scuola rappresenta dunque un laboratorio fecondo per conoscere se stessi e gli altri, è nella scuola che questi ragazzi iniziano a
confrontarsi con la società d’arrivo, e per tale motivo un buon inserimento è da ritenersi fondamentale.
Grazie alle recenti prospettive pluraliste e multiculturali che pongono l’attenzione più sul mantenimento dell’appartenenza etnica che
all’assimilazione al nuovo contesto, la differenza culturale e linguistica
non è più vista come un ostacolo o un vincolo da superare, ma come
un elemento costitutivo essenziale, perché i protagonisti di questi
scritti, così come i ragazzi che oggi giorno frequentano le scuole italiane, vivono costantemente pratiche di multiculturalità grazie alla recente immigrazione proveniente da qualsiasi parte del pianeta.
Il ruolo della deissi in Mi Perú
In quasi tutte le narrazioni si assiste a descrizioni idilliache del
paesaggio peruviano, in contrapposizione ai foschi paesaggi urbani
dell’Italia. Il paese d’origine incarna per tutti un luogo adatto a trascorrere un’infanzia spensierata, mentre il momento della partenza
rappresenta una presa di consapevolezza indotta dagli adulti sull’incertezza delle condizioni di vita.
Il Perù descritto a posteriori rimane dunque il rifugio dell’infanzia
e degli affetti, e spesso è tratteggiato oniricamente, in contrapposizione alle descrizioni realistiche dell’Italia, delle difficoltà legate alla
scuola e al lavoro dei genitori. Parallelamente, le due lingue di riferimento rivestono la stessa funzione: lo spagnolo rappresenta la lingua
dell’infanzia, mentre lo scontro con la nuova società, l’arrivo in Italia
e la difficoltà causata dal nuovo codice segnano il passaggio a una
seconda fase caratterizzata dall’abbandono della spensieratezza. È
possibile vedere come, soprattutto in ambito scolastico e affettivo,
l’esclusione dalla comunicazione in italiano non possa che generare
uno stato di abbandono iniziale, che la maggior parte dei ragazzi non
manca di descrivere:
l)
Quella montagna dove correvamo veloce e salivamo per vedere il mare da
la su in cima […] ho paura di dimenticare quella bambina di sei anni
che correva nel cortile.
Ricorderò sempre la mia patria, il mio Perù che mi ha visto nascere, la ter-
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ra in cui feci i primi passi, non dimenticherò le gioie che il mio paese mi
diede in tenera età, rimarrà come nelle favole sarà il mio bosco incantato, così come io lo ricordo. Guarderò il Perù così, nonostante sia
cresciuta. Lo guarderò sempre tra i suoi splendidi paesaggi con gli occhi
ciechi di un bambino, non vedrò la miseria e la povertà che affliggono la
mia gente ma lo vedrò magico così: un paese dove i bambini crescono liberi di correre sulle montagne di sabbia, di correre scalzi negli orti, il mio Perù sarà come il tuo bambina Martha. (Evelyn)
m) All’inizio abituarmi in Italia è stata dura. In Perù c’erano tutti i miei più
bei ricordi della mia infanzia: le uscite, l’escurzioni, le feste ecc. (Luciano)
L’aspetto deittico costituisce in generale una componente fondamentale ai fini della formulazione di un atto comunicativo, dal momento che inquadra il discorso all’interno di un determinato contesto, attraverso elementi che hanno una funzione referenziale (cfr. Bustos Tovar 2000); in questo caso specifico, inoltre, si tratta di ragazzi
la cui principale esperienza di vita si basa su processi di decontestualizzazione, o meglio ancora, di un continuo movimento da un contesto ad un altro. Questa posizione di passaggio dal là al qui, dal prima ad adesso, li pone in una situazione di perenne confronto con
due spazi e due tempi diversi, evidente in una tipologia narrativa
quale è quella dell’auto-rappresentazione in cui il soggetto si riconosce in determinate categorie, ivi incluse quelle spazio-temporali.
Nella maggior parte degli scritti analizzati, abbiamo riscontrato in
che modo la deissi spaziale, che si concretizza con un abbondante
uso di avverbi di luogo (qui/qua, lì/là), di verbi di movimento (andare/venire), di possessivi, si manifesti attraverso la relazione, il più
delle volte in modalità avversativa, dei due spazi di appartenenza, il
Perù e l’Italia, sempre in virtù di quella separazione cui accennavamo
prima:
n) Non avevo bisogno di rubare i pomodori dall’orto perché qui non c’erano
orti, non c’era la polvere che saliva ad ogni macchina che passava, qui la
terra era dura e se cadevo mi facevo molto male, e non c’eran le candele
che ci illuminavano la notte ma vere luci, stelle attaccate ad un palo, così te
le avrei iniziate a descrivere allora. E chissà se tu avevi mai visto dei palazzi così grandi, oh Martha eran così alti che quando te li descrissi ti evidenziai la mia gioia dicendoti che da lassù forse si poteva parlare con gli angeli. (Evelyn)
o) Non ho tanti ricordi del mio paese d’origine, però ricordo che la gente dove
vivevo mi voleva bene e mi conoscevano tutti. Venendo qua non è stato come in Perù, non conoscevo nessuno, apparte la mia famiglia e mi sentivo
spaesato perché magari volevo uscire ma non sapevo dove andare. (Luciano)
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p) Ho visto classi di ragazzi, vestiti nelle maniere più disparate, tenere un
comportamento impensabile nel “mio” mondo. (Kevin)
L’importanza della specificazione spaziale può essere dedotta dal
fatto che i narratori sperimentano continuamente un processo di spostamento fisico e mentale da un contesto a un altro, determinato dalla loro condizione di giovani migranti: la narrazione, attraverso la
presenza di ricorrenti elementi di localizzazione spaziale, ne è un
chiaro riflesso.
Analizzando nello specifico come si manifesta la deissi spaziale
all’interno dei testi, il primo dato interessante è fornito dall’ampio
uso dell’aggettivazione possessiva in prima persona dello spazio di
riferimento, che coincide con il paese d’origine; si vedano gli esempi: il mio Perù, del mio paese, nel “mio” mondo. L’aggettivo possessivo usato in questo modo rappresenta una strategia comunicativa che
il parlante adopera per segnalare oltre che la localizzazione dell’enunciato, quella che Vigara Tauste (1992: 360-361) definisce come
“relación posesiva o de pertenencia con el objeto señalado”. Il mittente, infatti, sembra non condividere lo stesso campo d’azione del
destinatario; al contrario, pare voler segnare una separazione spaziale tra il proprio mondo di appartenenza, con cui si identifica tramite
una relazione possessiva che si concretizza a livello linguistico con
l’aggettivo mio, e lo spazio che condivide con l’interlocutore, che si
esplicita attraverso un generico qui. In un solo caso, invece, troviamo
l’uso del possessivo nostro e del pronome personale nosotros:
q) Ora vedo la possibilità di creare nuova ricchezza, economica e culturale, e,
chissà, in futuro di riportarne un poco a casa per risollevare il nostro amato Perù. (Kevin)
r)
Nosotros los jovenes somos el futuro del pais. (Ayrton)
In questi esempi il contesto situazionale viene sentito come condiviso con l’interlocutore, il parlante si sente parte di una determinata
pluralità che include il mittente e che si riconosce in una specifica comunità etnica o in una determinato gruppo generazionale. In questo
caso è possibile ricondurre la funzione pragmatica dell’elemento deittico nostro non solo a riferimenti spazio-temporali, ma anche sociali.
In realtà, è possibile vedere come la relazione di appartenenza a
un determinato luogo si manifesti anche attraverso il ricorrente uso
del binomio deittico nel mio mondo…qui. Tale opposizione binaria
segna lo spartiacque tra i due spazi di riferimento del parlante che la
situazione di transito, che caratterizza la categoria migrante, impone.
La maggioranza dei ragazzi, ad esempio, non può evitare modelli
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comparatistici tra i due sistemi scolastici sperimentati: in alcuni casi il
modello peruviano appare sempre più convincente e utile. La difficoltà chiaramente viene attribuita anche a problemi di tipo linguistico, nonché al diverso approccio culturale:
s) Qua la scuola è molto difficile perché gli studi sono più di cultura, cioè storia…invece in Perù non ti fanno studiare queste cose inutili, ma ti fanno
studiare cose utili. (Shirley)
t)
Quando ero in Perù ero abbastanza brava a scuola. Qui la scuola è un
po’ più difficile perché qui si fa tanta storia […] penso che sia meglio studiare il futuro anziché il passato, poi un’altra cosa che non mi piace della
scuola è il fatto che mi fanno studiare la storia di altri paesi e non del
mio! (Melanie)
Si noti come in questi casi la deissi spaziale e temporale in modalità avversativa sia imprescindibile per marcare la differenza fra i due
sistemi: qua la scuola è più difficile… invece in Perù, quando ero in
Perù… qui la scuola è un pò più difficile.
Lo stesso accade con la deissi temporale, la cui funzione è quella
di delimitare i riferimenti temporali presenti nell’enunciato dal punto
di vista del soggetto:
u) Ed è proprio la distrazione che mi spinge a scriverti, un abisso tra l’oggi e
ieri. (Martha)
v) Finalmente potevo raggiungere i miei genitori. […] Da quel giorno ho visto
tante cose, più di quante pensassi. (Kevin)
Concordiamo con Vigara Tauste (1992: 357) quando afferma che:
“Aunque metodológicamente se suelen separar la deixis personal, la
local y la temporal, son inseparables en la realidad del discurso y, de
hecho, los sistemas espacial y temporal intercambian sus unidades
con frecuencia”.
Questa posizione è evidente nei nostri testi attraverso l’utilizzo
dei tempi verbali. La dicotomia tra due spazi e due tempi diversi a
cui accennavamo sopra, si manifesta attraverso l’uso, sempre in modalità avversativa, tra il presente e l’imperfetto. Mentre l’uso del presente serve a contestualizzare il discorso rispetto al qui e adesso, l’imperfetto serve a delimitare il discorso rispetto a un là e prima. Anche
in questo caso è frequente l’utilizzo dei due verbi in modalità dicotomica, come strategia comunicativa per segnare la separazione di luogo e tempo rispetto al momento del transito. Questo è particolarmente evidente nel momento in cui i narratori trattano il tema della scuo-
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la (si prenda come esempio t).
È molto frequente, inoltre, il caso di spostare l’asse temporale all’inizio della propria esperienza migratoria come incipit di molte narrazioni. Talvolta, addirittura, si fa partire la propria esistenza, il riconoscimento di sé, dall’arrivo in Italia:
w) All’inizio mi sentivo qualcosa di piccolo a cui nessuno dava retta. […] Ma
poi tutto cambiò, non mi sentivo più quella piccola cosa perché mi volevano
bene. (Henry)
x) La mia storia inizia quando avevo otto anni. (Lizeth)
In questi due esempi appare chiaro in che modo il momento della transizione da un mondo a un altro, da uno spazio all’altro, rappresenta la separazione di due spazi e due tempi, coordinate pragmatiche che il parlante dà per scontato che l’interlocutore condivida:
nel primo esempio (w), all’inizio corrisponde ovviamente al momento dell’arrivo in Italia, mentre nel secondo (x), la mia storia inizia, l’autore si riferisce evidentemente alla nuova vita in Italia.
Conclusioni
Con quanto esposto finora, abbiamo cercato di inquadrare il panorama sociolinguistico di un gruppo di minori appartenenti alla comunità ispanofona, evidenziando in che modo lo stretto legame che
unisce lingua e identità sia un fattore di rilevante importanza all’interno dei gruppi bilingui: se da un lato la comunità etnica si riconosce
in una determinata lingua, dall’altro la lingua stessa è il riflesso e lo
strumento di trasmissione di valori, abitudini e tradizioni attraverso i
quali si esprime la comunità.
Siamo passati ad analizzare un corpus testuale di auto-rappresentazione di alcuni ragazzi peruviani e italo-peruviani dal quale emerge
il ritratto che gli stessi fanno di sé, e dal quale è stato possibile rilevare in che modo la lingua rappresenta un elemento di riconoscimento importante in una categoria abituata a muoversi in due contesti differenziati, quello italiano e quello relativo al proprio paese d’origine, e per questo motivo possono o devono essere in grado di saper gestire una doppia competenza linguistica. Emerge dai loro scritti la preferenza per l’italiano come veicolo di comunicazione scritta e
come nuovo codice d’interazione con gli amici, mentre lo spagnolo
rimane la lingua degli affetti, usata per lo più in modalità orale, e non
sempre conservata. Al contrario, si evidenzia una certa preoccupa-
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zione riguardo alla possibilità di perdere le competenze in L1, a mano a mano che progredisce lo shift verso L2.
Emerge in particolare la tendenza a una ristrutturazione del proprio repertorio linguistico, che in molti casi coincide con un bilinguismo in perdita a discapito della propria lingua madre, da ricondurre
principalmente a due fattori: l’età e le condizioni sociali.
I testi hanno evidenziato in che modo l’identità multipla dei narratori si manifesti sia attraverso casi d’interferenza tra L1 e L2 nella fase di apprendimento di L2, sia attraverso il giudizio che loro stessi
emettono della propria condizione di sdoppiamento di fronte alla lingua e ai diversi ambiti d’interazione, a livello etnico-nazionale, a livello famigliare, e a livello relazionale, attraverso l’uso di elementi
deittici, che marcano la separazione dei due diversi contesti di riferimento.
La lingua rimane in tutti questi ambiti il segno principale d’identificazione con il proprio paese, la propria cultura e la propria storia,
di pari passo con una buona integrazione nella nuova società.
L’iniziativa organizzata dal Consolato Peruviano, nonostante abbia rappresentato un’esperienza marginale, ha tuttavia dimostrato
l’interesse di una parte della comunità ispanofona a perseguire una
politica linguistica di salvaguardia delle proprie radici, e soprattutto
di preservazione di un patrimonio linguistico e culturale a rischio,
come spesso accade in contesto migratorio dalla seconda generazione in poi. Il fatto stesso che il concorso sia stato indetto dall’interno
della comunità etnica, è senz’altro un elemento che rafforza la rappresentatività del corpus.
Allo stesso modo l’intervento della scuola e della famiglia è di vitale importanza per la valorizzazione del potenziale bilinguismo dei
giovani migranti, della vantaggiosa possibilità di poter gestire alternativamente due codici, il che non implica alcun stato di incertezza comunicativa: è possibile, con la collaborazione delle due parti, garantire una buona acquisizione di L1, tanto quanto un buon mantenimento di L29.
9
A tal proposito riteniamo utile ed interessante citare in questo ambito due progetti volti al mantenimento linguistico dei giovani ispanofoni presenti sul territorio italiano.
Il primo, ‘Laboratorio Migrazioni’, è stato realizzato grazie al Protocollo d’Intesa tra l’Università degli Studi di Genova e il Comune di Genova-Direzione Regionale per l’Istruzione della Liguria – rivolto a ragazzi stranieri, con l’obiettivo di diffondere la cultura del bilinguismo, di avvicinare la scuola e le famiglie straniere, e di garantire in questo modo
un buon inserimento delle seconde generazioni per prevenire situazioni di emarginazione. Il progetto consisteva nella lettura e rappresentazione da parte degli studenti dell’università di Genova, coordinati dalla Prof.ssa Carpani, di due racconti in lingua dello
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spagnolo per i primi e in italiano per gli altri. Riportiamo le conclusioni di Lanieri (2003)
sull’esperienza di questo laboratorio e rimandiamo alla consultazione dell’articolo per
maggiori approfondimenti. “Dicho evento, de alguna manera, los indujo a reajustar su visión interior del entorno, así como la imagen que tenían de sí mismos, llevándolos a reposicionarse de otra manera y a adoptar también ante los demás una postura diferente,
que antes tendía a desentenderse de su propio idioma – o, aún peor, a reprimirlo, en
muchos casos –, a considerarlo como una traba, como la marca de su evidencia”.
Il secondo progetto, ‘Tutilimundi’, è invece realizzato dall’Instituto Cervantes de Milán,
ed è stato creato per offrire a bambini tra i 4 e i 7 anni, di origine ispanica e residenti a
Milano, la possibilità di entrare in contatto con la lingua e la cultura dei genitori attraverso attività ludiche in spagnolo.
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Maria Vittoria Calvi
EL ITALIANO DE LOS HISPANOHABLANTES EN ITALIA:
¿HACIA UN NUEVO COCOLICHE?1
El término cocoliche, que deriva del nombre de un personaje cómico del teatro, define la lengua mixta hablada por los inmigrados
italianos en la zona del Río de la Plata entre la segunda mitad del siglo XIX y la primera mitad del XX. Se trata de una lengua de contacto, caracterizada por una marcada inestabilidad y variabilidad, en la
que los fenómenos de contaminación, favorecidos por las semejanzas entre los dos códigos, se producen en todos los niveles lingüísticos (Meo Zilio 1989), hasta llegar a la pérdida de conciencia de la L1.
Esta situación se explica teniendo en cuenta también la compleja
identidad lingüística de las comunidades italianas emigradas, cuya
lengua de origen era, las más de las veces, un dialecto, y que desarrollaron un “italiano de emergencia” como medio de comunicación.
Hacia finales del siglo XX, se asiste al movimiento opuesto, es decir, sucesivas oleadas migratorias desde diferentes países hispanoamericanos hacia Europa, que han determinado, en el caso de Italia,
una nueva situación de contacto entre las dos lenguas. El propósito
de mi intervención es analizar, a partir de los primeros datos recogidos, algunos aspectos del italiano hablado por los inmigrados de habla española; asimismo, cabe preguntarse si existen las condiciones
para que la lengua de transición ceda el paso a un auténtico plurilingüismo y a la integración multicultural.
El análisis de las lenguas inmigradas se puede realizar desde diferentes perspectivas, utilizando conceptos y metodologías tanto de
ámbito lingüístico como socio-antropológico (Chini 2004: 19-40):
• Desde el punto de vista lingüístico, los fenómenos migratorios
pueden dar lugar a la formación de lenguas mixtas o variedades
de contacto, caracterizadas por préstamos e interferencias (Siguan
1 Il presente contributo è stato presentato al Convegno Convergenze e creatività:
alla scoperta dello spagnolo del terzo millennio, Genova, 20-21 aprile 2005, di cui sono
in preparazione gli Atti, a cura di P. Capanaga e A. L. de Hériz.
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2001) en distintos niveles. El cocoliche, naturalmente, pertenece a
esta categoría; y ya se ha destacado, en el ámbito de la reciente
inmigración hispanoamericana, la formación de un italiano peruano (Vietti 2002 y 2005). Por supuesto, la proximidad interlingüística, máxima en el caso de español e italiano, favorece la hibridación; estas variedades de contacto, merece la pena recordar,
no son lenguas simplificadas, a diferencia de los pidgins o los
criollos, que suelen desarrollarse en casos de mayor distancia entre diferentes sistemas lingüísticos.
• En el ámbito de la psicolingüística, se hace hincapié en los procesos de adquisición individual y en las distintas etapas de bilingüismo. Sobresale, en este ámbito, el concepto de interlengua,
que define el sistema no nativo transitorio, dotado de sus propias
reglas, que el aprendiz va construyendo en el intento de acercarse a la nueva lengua; se trata de sistemas en evolución que, sin
embargo, pueden quedar fosilizados sin alcanzar nunca el dominio de la L2. En su conocido estudio sobre el italiano hablado por
inmigrados españoles en la Suiza alemana, Schmid (1994) describe, en el marco de la teoría de la interlengua, las principales estrategias de adquisición en el caso de lenguas emparentadas
(congruencia, correspondencia, diferencia). Otro problema relacionado con el aprendizaje individual es el del mantenimiento de
la L1: el paso del monolingüismo en L1 al bilingüismo L1/L2 puede determinar la pérdida de habilidades lingüísticas en la L1 (attrition → pérdida de lengua o language loss), hasta alcanzar el
monolingüismo en L2, característico de la segunda generación.
• Por lo que se refiere al enfoque sociolingüístico, se destacan aspectos tales como el repertorio lingüístico del migrante, es decir,
el peso de otras lenguas habladas además de la L1, y su comportamiento lingüístico en las distintas situaciones comunicativas y
en las relaciones con las personas que componen su red social
(social network) (“conjunto de individuos [nodos] y las relaciones
que estos tienen [enlaces]”). Se pueden crear infinitas combinaciones diglósicas, entendiendo por diglosia, en sentido amplio,
una situación en la que dos lenguas o variedades muestran una
diferenciación funcional (uso de la L1 en modalidad exclusiva o
mixta con la L2 en la relación con padres, hermanos, amigos connacionales, amigos no connacionales, trabajo, etc.). A nivel macrosociolingüístico, también son pertinentes las cuestiones de
planificación lingüística en los países interesados por los fenómenos migratorios: derechos de las minorías lingüísticas, educación
bilingüe, etc.
• Por último, cabe estudiar el peso de los elementos extralingüísti-
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cos que atañen a la condición de migrante o inmigrado2 (enfoque
socioetnoantropológico). Por ejemplo, por lo que se refiere a los
distintos modos de vida, los sociólogos identifican las siguientes
posibilidades:
1 marginalización, cuando el inmigrado vive completamente
aislado, sin contactos con el mundo externo, tal como ocurre
con los parientes ancianos. En estos casos, el conocimiento de
la L2 es nulo;
2 segregación, cuando el inmigrado vive encerrado en el grupo
constituido por sus coterráneos sin tener apenas relaciones
con el mundo circundante, una situación que favorece el mantenimiento de la L1; también se habla de encapsulamiento,
cuando la vida social del migrante se limita a un solo ámbito,
como en el caso de las cuidadoras de ancianos;
3 asimilación, cuando el inmigrado opta decididamente por la
lengua y cultura de llegada, limitando los contactos con los
compatriotas;
4 integración, cuando el inmigrado mantiene los contactos con
la cultura de origen y participa, al mismo tiempo, en la vida de
la sociedad de llegada.
Asimismo, se han clasificado los distintos proyectos migratorios
de acuerdo con su dimensión libre o forzada, innovadora o conservadora, individual o de grupo. Sin lugar a dudas, el mantenimiento
de la L1 es difícil en el caso de inmigraciones individuales con intención innovadora, mientras que resulta más fácil en los desplazamientos colectivos, que pueden dar lugar a la creación de colonias en las
que la lengua inmigrada es dominante.
Es cierto que los recientes fenómenos migratorios ocurridos en el
panorama europeo, en su conjunto, han dado lugar a la formación
de nuevas minorías lingüísticas diferentes de las tradicionales, que, al
estar menos arraigadas, tardan en ver reconocidos sus derechos. En
Italia, por ejemplo, la protección de las minorías se basa en el principio de la territorialidad, que excluye las minorías difusas. Sin embargo, a nivel europeo, se han avanzado propuestas para la inclusión de
las lenguas inmigradas en el ámbito de las minorías, con los consiguientes derechos al uso de su lengua en público, alfabetización en
la L1, protección del patrimonio cultural, etc. Un reconocimiento
2 La palabra inmigrado se aplica a una situación de mayor estabilidad, mientras que
migrante define también las situaciones transitorias.
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que, por supuesto, no se podría extender a todos los colectivos presentes sino a los más numerosos, que compartan un proyecto migratorio de larga duración y manifiesten la voluntad de mantener la lengua y la cultura de origen.
Aspectos lingüísticos y sociolingüísticos del cocoliche. El véneto de
Chipilo
Los rasgos lingüísticos del cocoliche han sido descritos pormenorizadamente por Meo Zilio en una serie de ensayos recogidos en Estudios hispanoamericanos (1989). En uno de ellos, el autor ofrece
una muestra de una conversación, grabada por él mismo en 1986,
con un protoinmigrado italiano que, tras llegar a la Argentina en 1927
a la edad de 23 años, no regresó nunca más a Italia. En una primera
entrevista, se le pidió que hablara en italiano; unos días después, en
otro encuentro, se le invitó a hablar en español, con el pretexto de
averiguar su conocimiento de la nueva lengua después de sesenta
años de estancia en el país. La lengua utilizada ha sido, en ambos casos, un cocoliche avanzado en el que se mezclaban el dialecto originario de Apulia, el italiano y el español; las diferencias entre los dos
materiales grabados son mínimas: los porcentajes de los distintos
componentes léxicos son casi iguales en ambos textos, en los que el
elemento español supera el 50%, el italiano se sitúa entre el 25 y el
30% y los cruces ocupan del 15 al 20%, con oscilaciones mínimas.
Cuando el sujeto quiere hablar italiano, el porcentaje de elementos
de esta lengua es sólo ligeramente superior: en otras palabras, su interlengua ha evolucionado hasta un español italianizante; la pérdida
de la L1 (salvo elementos esporádicos, como algunas canciones en
su dialecto de origen que el sujeto recordaba) no supone el dominio
de la L2.
En tiempos recientes, y en una óptica sociolingüística (Vedovelli
2002), el cocoliche ha sido valorado positivamente como innovación
lingüística puesta en marcha por las comunidades italianas emigradas, que se vieron en la necesidad de manejar distintas lenguas en
contacto. Su repertorio lingüístico de partida, en efecto, estaba constituido por el dialecto de origen y un italiano muchas veces rudimentario; la necesidad de comunicar con hablantes de otras procedencias
geográficas los empujó hacia el desarrollo de la lengua común y la
unificación de los repertorios dialectales. En conjunto, estas comunidades intentaron construir una identidad compleja, caracterizada, por
un lado, por el mantenimiento de la lengua originaria, a la que nunca renunciaron del todo, y, por el otro, por la innovación lingüística;
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la formación de productos de hibridación tales como el cocoliche demuestra, sin embargo, que este impulso innovador ha dado resultados inciertos e inestables. En efecto, el modelo de la integración
(melting pot), que valora el rápido y eficaz proceso de aculturación
de los inmigrados y su movilidad social, no corresponde del todo a
la realidad de la inmigración italiana en Argentina; la existencia de
hostilidad y conflictos se explica mejor a través del modelo del pluralismo cultural, que se asienta en la conservación de las identidades
étnicas y la resistencia a incorporarse plenamente en la sociedad de
acogida (Di Tullio 2003: 84-85). En ambas comunidades, las representaciones del Otro resultaban, a menudo, desfiguradas y excesivas:
“El inmigrante pretende mimetizarse, en un medio que siente hostil,
a través del disfraz de criollo y la imitación de su lenguaje, ridículamente exagerados; y el criollo, a su vez, se burla de la lengua híbrida imitándola en el lunfardo” (2003: 85-86).
En resumidas cuentas, la proximidad entre las dos lenguas favoreció la contaminación en todos los niveles, incluso el morfológico,
que suele mostrar mayor resistencia al contacto; pero los factores extralingüísticos también tuvieron un peso decisivo en la configuración
y evolución del fenómeno. La trascendencia de estos factores se manifiesta de igual modo en otros casos de inmigración italiana en territorio hispanohablante: por ejemplo, la conservación de la L1 en la
comunidad venetófona de Chipilo, en el estado mexicano de Puebla,
se debió a ciertas peculiaridades del proyecto migratorio llevado a
cabo por estos italianos. Se trató, en efecto, de una emigración de
grupo, puesto que se produjeron sólo dos oleadas migratorias a finales del siglo XIX, caracterizadas por la homogeneidad de la procedencia geográfica (Segusino, en la provincia de Belluno) y del repertorio lingüístico de partida, y por la conciencia de la propia superioridad cultural, con respecto al grupo local, en el ámbito de la organización agroindustrial. Si a esto se añade la situación de aislamiento,
debida a la escasez de medios de comunicación, se completa el cuadro de las condiciones favorables al mantenimiento de la L1, el dialecto véneto, no sólo a nivel familiar sino también en la comunicación de grupo (excluyendo, como es lógico, los contextos institucionales y la comunicación con los nativos); una L1 que, por supuesto,
presenta fenómenos de contaminación debidos al contacto con el español, pero dista mucho de la mezcla que caracteriza el cocoliche
(Meo Zilio 1989: 284-324).
Asimismo, cabe destacar cómo la L1 ha persistido a través de generaciones sucesivas; sólo en los últimos tiempos, se observa en los
jóvenes un mayor impulso hacia la integración. En el caso de Argentina, en cambio, la segunda generación optó más decididamente por
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el español, mientras que el cocoliche quedó cristalizado en el habla
de los ancianos.
El italiano de los inmigrados hispanoamericanos
Como se ha visto, el cocoliche y el véneto de Chipilo ofrecen dos
paradigmas claramente diferenciados de contacto entre italiano y español en Hispanoamérica. Dejando aparte el caso de Chipilo y de
otras islas lingüı́sticas parecidas3, que han sido el resultado de unas
condiciones migratorias muy peculiares, cabe preguntarse si en la
Italia de hoy existen condiciones análogas a las que dieron lugar a la
formación del cocoliche y, en último análisis, cuál va a ser el resultado final del contacto: desaparición de la L1, variedad de contacto, bilingüismo. Dada la extrema fluidez del panorama migratorio actual y
la ausencia de análisis de conjunto sobre la presencia de los hispanohablantes en Italia, no me propongo llevar a cabo una confrontación
sistemática, sino simplemente esbozar, de acuerdo con los datos hoy
disponibles, algunos de los rasgos principales de esta nueva situación de contacto entre español e italiano:
• El porcentaje de inmigrados hispanohablantes en Italia no ha alcanzado, ni de lejos, las cotas de la presencia italiana en Argentina: basta recordar que, en 1887, los italianos representaban el
32% de la población de Buenos Aires. Italia, en el contexto europeo, es uno de los países con más escasa presencia de inmigrados: alrededor del 2,5 % en total, incluyendo todas las procedencias geográficas, con una mayor concentración en las regiones
del noroeste (Piamonte, Lombardía, Liguria). De los cerca de 2
millones y medio de extranjeros residentes en Italia, la mayoría
procede de la Europa del este; siguen los africanos (marroquíes
en primer lugar), los asiáticos y los americanos, 9,7% del total en
2002, según los datos proporcionados por la Cáritas (Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2007).
• Sin embargo, el grupo hispanohablante se ha convertido en una
de las principales minorías lingüísticas en el territorio italiano. En
una ciudad como Milán, el español (con casi 30.000 presencias,
incluyendo a los españoles) se ha convertido en la segunda len-
3 En Argentina encontramos, entre otros, el ejemplo del grupo friulano de Colonia
Caroya.
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gua; asimismo, en esta ciudad, al grupo hispanohablante corresponde el porcentaje más elevado de presencias en la escuela (el
25 % del total de alumnos no italianos, según datos de la Regione
Lombardia).
• Una de las principales diferencias con respecto a los inmigrados
italianos en Argentina está representada por el repertorio lingüístico inicial: aunque diferentes por nacionalidad (el colectivo más
representado es el de los peruanos; siguen ecuatorianos, dominicanos, bolivianos, colombianos, argentinos, etc.), los hispanoamericanos presentan en su mayoría el español L1 en modalidad
exclusiva; aunque cabe destacar, por supuesto, la amplia gama de
variedades nacionales. En una investigación realizada en Pavia y
Turín en los años 2001-2002 (Chini 2004), se registraron sólo pocos casos de repertorios plurilingües, en particular de bilingüismo
español-quechua en algunos peruanos, además de otros casos
aislados, entre ellos uno de cocoliche y unos pocos de aymará,
nahuatl, maya, etc. El repertorio de los italianos en Argentina, como se ha dicho, estaba caracterizado por una gran fragmentación
dialectal, aunque la convivencia llevó a la anulación de los rasgos
más peculiares de las habla regionales.
Por lo que se refiere a los problemas relacionados con el aprendizaje del italiano, el mantenimiento del español y el uso diferencial
de las dos lenguas, todavía no tenemos un cuadro completo de la situación que, por otra parte, está en continua transformación. Voy a
exponer brevemente los resultados de algunas de las investigaciones
realizadas hasta la fecha.
En un estudio de corte sociolingüístico basado en el concepto sociológico de red social, Vietti (2002 y 2005) analiza los comportamientos lingüísticos de las inmigradas peruanas en Turín. Uno de los
efectos más interesantes del contacto entre el español peruano y el
italiano es, según observa este autor, el desarrollo de una variedad
de contacto caracterizada por la mezcla de los dos sistemas lingüísticos, en todos los niveles. Se generan formas híbridas, préstamos (palabras funcionales y pronombres como en, por, de, yo, me, te, se, el,
como, para, etc.), cambios morfológicos y creación de nuevos paradigmas verbales (“emo fato”, “amo arivado”).
La difusión de esta variedad de italiano peruano está favorecida
por la semejanza tipológica entre las dos lenguas, pero también por
las condiciones de vida de este colectivo, formado en su gran mayoría por mujeres empleadas en el cuidado de ancianos y otras actividades en el hogar. Se crea, por lo tanto, una situación de segregación
o encapsulamiento, con una buena integración laboral, apoyada por
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las redes sociales (lazos de parentesco y amistad, a los que cabe añadir la acción de la iglesia católica), pero escasos contactos con la comunidad de acogida. La mayoría de sus relaciones sociales se desarrolla dentro de la red de connacionales y los pocos contactos con
italianos están limitados al lugar de trabajo, que suele ser un único
ámbito familiar. La formación de la variedad mixta de italiano y su
persistencia en el tiempo se relacionan con la tendencia a mantener
la identidad étnica originaria: por un lado, se configura esta variedad
de contacto con una función puramente instrumental, es decir, la de
permitir la comunicación interétnica; por el otro, se mantiene el español en modalidad exclusiva como código identitario de grupo. En
resumidas cuentas, las situaciones de aislamiento o encapsulamiento
producen un aprendizaje imperfecto de la L2, con persistentes interferencias de la L1, mientras que la pertenencia a una red social de tipo integrado, es decir, abierta hacia ámbitos diferenciados, promueve un comportamiento lingüístico más cercano al italiano estándar,
como se observa en la segunda oleada migratoria o en la segunda
generación de inmigrados (Vietti 2005).
En las ya citadas investigaciones de Turín y Pavia (Chini 2004), se
analizan los comportamientos lingüísticos de inmigrados con diferente procedencia geográfica: es de gran interés, para nuestro objetivo,
la comparación entre los hispanohablantes y los otros grupos lingüísticos. El estudio, de tipo cuantitativo pero realizado también con métodos cualitativos y con la técnica del cuestionario, se dividió en dos
fases: en la primera, se tomaron en consideración los usos lingüísticos de un grupo de jóvenes en edad escolar; en la segunda, los sujetos examinados fueron adultos. En conjunto, se observa un comportamiento muy conservador entre los inmigrados de L1 árabe (seguidos por los asiáticos en general), con escaso uso del italiano; en el
extremo opuesto, un empleo muy reducido de la L1 en el grupo de
la Europa oriental (albaneses en particular, pero también rumanos).
El grupo hispanohablante de procedencia americana se caracteriza
por un comportamiento de mediación, es decir, mantenimiento de la
L1 y apertura hacia el italiano, con predominio de la modalidad mixta.
Por lo que se refiere a los adultos, sobresale la tendencia hacia la
conservación de la L1 (91% de los sujetos entrevistados), pero, en la
mayoría de los casos, en combinación con una variedad de contacto
del italiano. En cuanto a los menores, se confirma el mantenimiento
de la L1 en el ambiente familiar, aunque rara vez en modalidad exclusiva. Sin lugar a dudas, la semejanza interlingüística favorece el
contacto; pero se evidencia, asimismo, el deseo de promover una
mejor integración laboral de los hijos mediante el uso, en algunos ca-
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sos exclusivo, de la nueva lengua. Esta tendencia, muy fuerte sobre
todo en las mujeres latinoamericanas, se relaciona con su papel de
abrepista; la escasa preocupación por el mantenimiento de la competencia de los hijos en la L1 se explica por el propósito innovador
de su proyecto migratorio. Por supuesto, las grandes ciudades ofrecen mayores posibilidades para la práctica de la L1, incluso con amigos no connacionales; en este sentido, se han notado ciertas diferencias entre la situación de Turín y la de Pavia.
Los datos, todavía parciales, recogidos en diferentes contextos escolares (Carpani 2001 y 2003), están en sintonía con los resultados de
estas investigaciones. Los hispanohablantes, en comparación con
otros grupos de inmigrados, muestran una mayor facilidad de aprendizaje, sobre todo en las fases iniciales, pero con cierta tendencia hacia la hibridación y persistencia de interferencias; al mismo tiempo,
se produce una rápida evolución hacia niveles más altos de interlengua: en otras palabras, la instrucción formal recibida en la escuela y
el contacto con los italianos favorecen el desarrollo de una buena
competencia en la L2, y permiten evitar los fenómenos de fosilización que caracterizan el habla de los mayores.
Las mismas consideraciones se desprenden de una serie de entrevistas a inmigrados, tanto menores como adultos, realizadas por algunos estudiantes del corso di laurea en Mediación lingüística y cultural de la Universidad de Milán, en el marco de una investigación
todavía en curso. El principal problema que se plantea es el mantenimiento de la L1. Todos los menores entrevistados comparten el deseo de aprender un buen italiano para entenderse mejor con los coetáneos o realizar sus proyectos futuros (estudio, trabajo, etc.), pero
la actitud hacia la L1 es contradictoria: en algunos casos, prevalece el
deseo de integración y el interés por la L1 es escaso; en otros, se manifiesta una mayor propensión a la fidelidad lingüística, con vistas a
un posible retorno al país de origen al final de los estudios, e incluso se lamenta la dificultad por encontrar materiales en español (tebeos, libros, etc.).
Perspectivas futuras
Para concluir, intentaré responder a la pregunta inicial, es decir, si
nos encontramos frente al nacimiento de un nuevo cocoliche.
Hasta cierto punto, la respuesta es afirmativa: de la misma manera que ocurrió con los italianos en América Latina, entre los hispanohablantes residentes en Italia se observa una marcada tendencia hacia la formación de variedades de contacto – que, de acuerdo con
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Vietti (2005: 88), interpretamos como “continuum de interlenguas de
italiano” –, debida a evidentes razones de semejanza interlingüística.
Pero los diferentes contornos sociológicos y sociolingüísticos del encuentro no hacen prever resultados análogos en cuanto a la persistencia del fenómeno y al comportamiento de la segunda generación.
Las variables que entran en juego son muchas, y su análisis excede los propósitos del presente trabajo. Me limito a proponer una de
ellas, es decir, la actitud de la comunidad de acogida, sobre todo por
lo que se refiere a la presencia de alumnos hispanohablantes en las
escuelas italianas, ya considerable pero destinada a aumentar en los
próximos años gracias a las cada vez más frecuentes reagrupaciones
familiares. En nuestra sociedad, se ha manifestado una creciente sensibilidad por modelos de integración diferentes tanto de la asimilación dentro de la lengua/cultura mayoritaria (el melting pot) como
del desarrollo de un multiculturalismo paralelo de comunidades que
no comunican entre ellas. Se aconseja, por lo tanto, promover una
integración de tipo dialógico que no suponga la pérdida de la lengua/cultura de origen; en el caso concreto de los inmigrados de L1
española, creo que todos los hispanistas deberíamos compartir el interés por el mantenimiento de esta riqueza cultural y lingüística, contribuyendo, en primer lugar, al estudio de la situación actual y estimulando todas las iniciativas que permitan el desarrollo de un plurilingüismo responsable, en el que la competencia en la L2 no se
acompañe a la pérdida, no por involuntaria menos dolorosa, de la
L1.
BIBLIOGRAFÍA
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L’italiano come L2”, en Cultura latinoamericana, 3, pp. 1-15.
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nuovi materiali (notarelle da un’esperienza)”, en Cultura latinoamericana, 5, pp. 23-35.
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Maria Cristina Paganoni
POLITE SUBVERSION IN E-DEMOCRACY
1. Study design
“The issue is no longer whether politics is online, but in what
forms and with what consequences?” (Chadwick: 2006, 1). It is a fact
that – at least, and not only, in the Western world – political communication is leaving the sites to which it had been traditionally assigned
to go online. Among the technological, historical and socio-cultural
reasons at the roots of this global phenomenon is the fact that the
communicative potential of the Internet has been boosted by the extraordinary degree of interactivity allowed by its latest interface,
called Web 2.0; that the 2003 Iraq war, which was also waged on the
Internet, has deeply changed the world’s media scenario; and that the
greater turnout in the U.S. 2004 presidential election was related to
the impact of online political communication on voters (Chadwick:
2006). On the one hand, it has become common practice for politicians to exploit online communication as a key strategy in their permanent campaigning, especially in the face of voters’ alleged disaffection with mainstream politics1. On the other hand, advocacy
groups and grassroots movements are increasingly resorting to the
Net to obtain visibility and gather consensus, embodying new forms
of political activism.
It is this broader background that this study ideally encompasses,
while focusing on the formation of the practices of e-democracy as
they are emblematised by an innovative British experiment that goes
under the name of mySociety, a project that “builds websites which
give people simple, tangible benefits in the civic and community as-
1
The N° 10 Downing Street website, Labour’s now dismissed Big Conversation
website and its new Let’s Talk project as well as Webcameron, David Cameron’s personal blog – just to provide a few notable examples – all stand out as varyingly successful
attempts at identifying new communication strategies with citizens at large through the
Internet.
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pects of their lives” (http://www.mysociety.org). The founder is thirty-year-old Tom Steinberg, an Oxford University graduate in Politics,
Philosophy and Economics, who previously worked at the Conservative think tank Institute of Economic Affairs for two years.
MySociety is a platform of different civic-engagement websites –
TheyWorkForYou, with the loosely affiliated Public Whip, Write
ToThem, NotApathetic, which boycotted voting in the 2005 general
election and is now closed to new submissions, PledgeBank, Hear
FromYourMP, FixMyStreet, and the recent Downing Street petition
service – whose common aim is to “disintermediate” politics by turning direct e-democracy from a “cyberpunk fantasy” (Guardian Unlimited, Jan. 24, 2007) into reality. In different ways these websites
claim to be non-partisan and to keep an eye on politicians, by allowing users to retrace the names of their elected representatives, check
their activities and contact them through the net. On the one hand,
in its attempt to envisage and shape a model citizen encouraged to
be actively engaged in participatory forms of politics, mySociety is a
full-fledged experiment in e-democracy. On the other hand, it is
quite apparent that these websites intend to act as a sort of surveillance activity on local and national British politicians in a way that is
being made possible by the tools of new technologies. It is from this
interpretative hypothesis – that these websites represent an innovative experiment in policing politicians within the expectations of edemocracy – that the following study moves.
E-democracy enacts new modalities of political communication
whose effectiveness is still to be gauged, but whose undeniable appeal is, at the same time, a phenomenon worth inspecting. Would it
be possible, then, to identify a number of linguistic features that are
transversal to the language of these websites and pin them down as
instances of the still experimental communicative register of edemocracy? In what ways are the rules of e-democracy spelt out in
the discursive interaction enacted by these websites? In other words,
by what kind of discourse strategies is e-democracy shaped, as an
ideology and social practice? Since the efficacy of the Internet in
boosting two-way political communication is still a highly debated issue which needs to be backed by theories on political participation
(Polat: 2005, 454), the answers provided in this paper are still exploratory. However, they may contribute to outlining the profile of
the participatory citizen, a central project in e-democracy.
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2. Methodology
From a theoretical viewpoint, this study is inspired by Foucault’s
theorisation of the notion of surveillance (1975), based on his reading of Bentham’s Panopticon (1791). Foucault recasts Bentham’s ideal prison – a watchtower surrounded with blocks whose indoor cells
can be constantly inspected from above through the windows opening onto a central yard – as the icon of the constant state of invigilation and scrutiny to which the self is subjected by institutional power
in modern states. The novelty of mySociety, however, is that it challenges this model, since the mission of the project is to establish a
different power relationship in which citizens become the standing
jury, so that the controlling gaze is now seen to proceed from the
many to the few, i.e. from citizens to politicians. What this bottom-up
form of control should achieve is, at least ideally, a greater degree of
democracy by establishing dialogue with elected representatives as a
current and legitimate political practice. Quite interestingly, the webbased RSS aggregator that stores all the mentions received by the
mySociety websites on the net is called “mySocietyPanopticon”.
This study is therefore indebted to the methodological framework
of Critical Discourse Analysis (Wodak: 1989; Fairclough – Wodak:
1997; Fairclough: 2003), as CDA is a critical perspective that brings to
the forefront the ways in which discourse constructs, and is constructed by, social practices enmeshed in historically contingent
power relationships. Since the dialogic dimension is central to the
mySociety project, text analysis has especially investigated the linguistic forms through which the interpersonal function of discourse,
playing a pivotal role between the involved interlocutors, is
achieved.
It is the main argument of this study that these civic websites enact a form of control over politicians, but that they intend to do so
without engaging in open confrontation. This is why politeness theory (Brown-Levinson: 1978/1987; Harris: 2001, 2003; Watts: 2003) has
proved to be a useful analytical tool able to shed light on the actual
strategies and goals of polite discourse. Of particular interest is the
application of politeness theory to the domain of institutional discourse in power-laden contexts (Harris: 2001): some insights can be
adjusted to the mySociety experiment if we interpret the project as an
attempt at institutionalising citizens’ advocacy. Though the entire
platform has been object of analysis, special emphasis has been
placed on three of the abovementioned websites – TheyWorkForYou,
WriteToThem, HearFromYourMP – for which confrontational discourse in a context traditionally marked by power distance is more
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evidently a constitutive feature.
The analysis has also embraced the multimodal dimension of
websites, as semiotically syncretic texts in which meaning arises from
the interaction of verbal and non-verbal codes (Lemke: 1999, Kress –
van Leeuwen: 2001; Cosenza: 2004). Finally, contributions on political communication through the new media (Wright: 2002; Polat:
2005; Kahn – Kellner: 2005; Coleman: 2005, 2006; Lusoli et al.: 2006)
have helped to frame the issues concerning the contested terrain of
Internet politics, in which “novel forms of information and social interaction, reconstructed models of citizenship and new forms of political activism” (Kahn – Kellner: 2005, 77) are taking shape.
3. The websites
3.1. Visual features
The mySociety websites share a number of common textual, intertextual and paratextual features that characterise their visual/verbal organisation.
First, the name of all websites is placed in the top-left corner of
the corresponding homepage, according to a conventional left-right
orientational paradigm (Engebretsen: 2006), typical of linear texts,
which positions known elements on the left and has them followed
by new ones. The website masthead, on the left, is therefore a given
element that works as a departing point for the exploration of the
page.
All websites, moreover, contain the mySociety logo and/or are
redirected to its homepage by means of a hyperlink. This constant
hypertextual reference would seem to imply that the mySociety project is central to the encyclopaedia, or set of knowledge areas, in
which these websites are embedded (Cosenza: 2004, 133).
The mySociety logo is characterised by the combination of two
shades of green, a colour with clear implications of political “ecology”.
Quite interestingly, the shape of the letter “o”, designed with a
line of small dots in a contrasting shade of green, is fragmented and
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open. The central symmetry of the circular letter (remindful of the circular and claustrophobic architecture of the Panopticon) is disrupted
in favour of a visual organistion that would seem to imply multiplicity and freedom.
We can also see that all websites resort to a sober colour palette2
and are not branded in easily recognisable party colours, such as red
(Labour), blue (Conservatives), or yellow (LibDems). Such neutrality
in employing the colour scheme as a semiotic resource (Kress – van
Leeuwen: 2002) would seem consonant with the intended suppression of political animosity on the part of the project.
The main text (the homepage of TheyWorkForYou is here reproduced as an example) is usually placed in the central column against
a lightly coloured background; the layout is very simple and userfriendly, providing clear verbal and visual clues.
By digitising their postcode, for example, users are directed to the
name of the MP for their constituency. Besides, the possibilities of
multimodality are kept to a minimum: there are very few pictures
(with the exception of PledgeBank), video or audio files on the websites. No animation is present, nor explicit or latent forms of advertis-
2
Touches of red, shades of pink, pale green and dark green for TheyWorkForYou,
beige and brown for WriteToThem, turquoise and pale blue for NotApathetic, light purple for PledgeBank, pale blue for HearFromYourMP, grey and pale blue for E-Petitions,
light brown for FixMyStreet.
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ing, a common way to generate revenues that mySociety can ignore,
being a charity-supported project3.
The verbal/visual organisation of the websites is therefore not intimidating, pedagogically constructing potential users as endowed
with the indispensable notions of computer literacy, but able to interact. Though the Internet is somehow stripped of its most alluring features, users’ interactivity is firmly placed at the centre of the mySociety project, thus putting technology at the service of the citizens and
emphasising the core potential of the Web for coupling “local discourse events to social systems in which their consequences can be
greatly magnified” (Lemke: 1999, 23).
3.2. Verbal features
As has been seen, the kind of political communication enacted on
the mySociety websites is shaped by the aim to bridge the power differential existing between citizens and their institutional representatives so as to invent more participatory forms of debate. If civic participation is to be fostered, appropriate means have to be identified
and applied, among which correct linguistic behaviour is uppermost.
Plain language is preferred to potentially obscure or misleading
political jargon:
Britishness – what’s that then?
Posted by Linda Riordan, MP for Halifax
I think the notion of ‘Britishness’ is something of a red herring – the recent
call for a “National British Day” is pointless window dressing, but if it stirs
a debate then that’s good and fine.
For me Britishiness can be summed up by us all living and working alongside each other in mutual respect, understanding and tolerance – and dare
I say affection! (HearFromYourMP)
Honorifics are kept to a minimum and even MPs may be referred to
by their first name:
Nadine Shows Her Support For British Tourism
Posted by Nadine Dorries, MP for Mid Bedfordshire (HearFromYourMP)
Topics are introduced following a bottom-up procedure rather
3
The name of the charity is UK Citizen
(http://www.ukcod.org.uk/UK_Citizens_On line_Democracy).
Online
Democracy
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than a top-down, expert-led approach, as the first move in the exchange is initiated by single citizens or a small number among them,
and not by large pressure groups, on issues of their choice. Quite exemplary in this regard is PledgeBank, whose motto could legitimately sound “small is good”:
PledgeBank is free and easy to use. Once you’ve thought of something
you’d like to do, just create a pledge which says “I’ll do this, but only if 5
other people will do the same”.
Top tips for successful pledges
Keep your ambitions modest – why ask for 50 people to do something
when 5 would be enough? Every extra person makes your pledge harder to
meet. Only 7% of pledges asking for more than 100 people succeed.
I, Hannah L, will sign the avaaz.org petition calling for real peace talks in
the Middle East and tell two friends about it but only if 15 other people will
do the same. Target met, pledge closed (PledgeBank).
This fragmentation of civic and political issues is a clear manifestation of what has been defined the “narrowcasting potential of the
Internet” (Polat: 2005, 440). “Narrowcasting”, as opposed to “broadcasting”, describes the circulation of messages addressed to a restricted audience. The practice has been boosted by the use of the Internet which has multiplied atomised online communities. It has been
claimed that narrowcasting may carry with it the risk of overpromoting minority groups and disintegrating inclusive mobilisation and
shared political agendas, but this is nevertheless the stance encouraged by the mySociety project.
As for the involved interlocutors and the kind of interpersonal relationship that is being created between them, the most noticeable
feature is that the exchange is informed by a triangular model of
communication, as can be elicited by the use of indexicals. This triangular model involves citizens, who are referred to as “you”, their
political representatives (“they”) and the mySociety team (“we”).
For your use and enjoyment we’ve added Hansard for the House of Lords
(their debates, written questions and ministerial statements, just like the
Commons), and a page on each of the members of the House of Lords
(TheyWorkForYou).
Spamming lots of representatives with near-identical messages is definitely
bad behaviour in our book. […] We will let all the people who sent identikit messages know that their messages have been blocked, and we will tell
them that it is because you broke our terms and conditions (WriteToThem).
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If you enter your details, we’ll add you to a queue of other people in your
constituency. […] To leave your thoughts, you just enter your text and hit
enter. There’s no tiresome login – you can just start talking about what
they’ve said (HearFromYourMP).
The mySociety team cast themselves as mediators, whose role is
to minimise power distance. The interpersonal function of discourse
is emphasised over the ideational one, while the digital flow of messages imitates the colloquial register and the turns of an informal
conversation in which honest answers strive to eliminate information
gaps that may hinder democratic participation.
mySociety.org – What’s it all about then, eh? (mySociety)
What will you do with the personal information used by this site?
This is our privacy policy (sorry it is so long, but it is quite precise) (WriteToThem).
“So, the voting is over. The politicians vanish to Westminster, and everything carries on as before, right?”
Wrong. Between elections the Internet is really starting to challenge politics
as usual. As part of this change, we’d like to put you in touch with your MP
(HearFromYourMP).
On the other hand, this mediating role is counterbalanced by a
gatekeeping function, clearly stated in the house rules published on
the websites:
Read this before writing your message
• Please be polite, concise and to the point.
• By abusing your MP you devalue the service for all users.
• Use your own words. MPs will ignore copied and pasted ‘identikit’ messages.
• It’s a waste of time writing to MPs other than your own. If this isn’t your
MP, your message will be ignored.
• Read this to learn when a MP can help you – and when they can’t.
• Find out more about Dawn Primarolo (new window) on TheyWork
ForYou.com (WriteToThem).
Do you remove silly or illegal content?
We reserve the right to remove any problems or updates which we consider to be inappropriate (FixMyStreet).
House rules defend the norms presiding over interpersonal communication in order to deflate potentially conflictive and problematic
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aspects: “contributions should be constructive and polite” (They
WorkForYou). At the same time, they do not intend to exaggerate the
policing role of the mySociety team, as this would probably unsettle
the deliberate downplaying of power asymmetry. Nevertheless, electronic ethos is not only recommended but also enforced, which
means, among other things, that spamming and flaming – the use of
invective and verbal aggressiveness – are regarded as unacceptable
bad behaviour. An appropriate linguistic register is presented as a requirement which is even prior to the actual mastery of political issues. Consequently, that politeness strategies should play a very significant role in this kind of exchange comes as no surprise: polite
language aims at reducing face-threatening acts to a minimum in the
interest of participants, a strategy which is particularly valuable in a
context in which the direct, though genuine, requests that characterise the mySociety conversational floor may sound intimidating.
Though the theatrical world of politics is often characterised by
“politically” impolite behaviour and language (Harris: 2001), symbolic interaction on the mySociety websites relies, instead, on the presupposition that politeness is not only desirable, but also achievable
behaviour that can promote more democratic discursive practices.
If you enter your details, we’ll add you to a queue of other people in your
constituency. When enough have signed up, your MP will get sent an
email. It’ll say “25 of your constituents would like to hear what you’re up
to. Hit reply to let them know”. If they don’t reply, nothing will happen, until your MP gets a further email which says there are now 50, then 75, 100,
150 – until it is nonsensical not to reply and start talking (HearFrom
YourMP).
It has been observed that
linguistic structures do not in themselves denote politeness, but rather that
they lend themselves to individual interpretation as “polite” in instances of
ongoing verbal interaction (Watts: 2003, 168).
In the context of the online conversation taking place on the
mySociety website, we can nevertheless try to identify the most
salient linguistic features (Watts: 2003) that can be pragmatically interpreted as polite, as they tend to avoid negative face and enhance
positive face. We often find:
• the politeness marker “please”
Please be nice to each other. Please respect MPs and Peers.
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Please be patient.
Please bear with us if we’re slow to get back to you (House Rules, They
WorkForYou)
• hedges, understaters, downtoners
For all its faults and foibles, our democracy is a profound gift from previous
generations (TheyWorkForYou).
Perhaps the main aim of this site is to let you respond to politicians and
journalists.
As far as we know, nobody at mySociety is actually against voting (NotApathetic).
There is little wrong with Parliament that a healthy mixture of transparency
and public engagement won’t fix (TheyWorkForYou).
To leave your thoughts, you just enter your text and hit enter. There’s no
tiresome login – you can just start talking about what they’ve said (Hear
FromYourMP).
• agent avoiders, i.e. linguistic structures whereby the agent is
suppressed, impersonalised or generalised to delete explicit
criticism, any hints of it, or reduce the impact of enforced advice:
Councils across the UK do an excellent job of fixing local problems when
they’re reported by citizens (mySociety).
Yet most people don’t know the name of their MP (TheyWorkForYou).
As an elected representative, it’s important that those constituents who
want to follow your actions and efforts on their behalf are able to. It’s also
useful for you to be able to receive direct feedback from them (Hear
FromYourMP).
• intensifiers
TheyWorkForYou was set up almost entirely by a dozen or so volunteers
who thought it should be really easy for people to keep tabs on their elected
MPs, and their unelected Peers, and comment on what goes on in Parliament (TheyWorkForYou).
• humour, since joking is shown to possess a redressive function
(Harris: 2003, 40)
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Please don’t link to websites you wouldn’t want your granny to visit.
After that, we reserve the right to get medieval (TheyWorkForYou).
What do you think of this website, the one that helps you write to your
elected representatives.
Did it work?
Do you like it?
How can we improve the service?
Do the colours clash?
How many fibres are intertwined in a Shredded Wheat biscuit? (Write
ToThem)
In a communicative context characterised by constant interactivity as well as power asymmetry in which potential face-threatening
acts are performed, politeness strategies can be seen to operate as
mitigating or redressive utterances that do not damage communicative effectiveness, but rather enhance it. They serve, then, both instrumental and interpersonal goals (Harris: 2003, 27) and allow the
flow of exchange to continue.
4. Conversationalisation of political discourse
It has been suggested that “a major change in discursive practices
affecting many public institutions in contemporary society is the
‘conversationalisation’ of public discourse” (Fairclough – Wodak:
1997, 265), which implies that the register and discursive practices of
everyday life are brought into public forums. As a linguistic strategy,
conversationalisation has doubtless been enhanced by the Internet
revolution and the extraordinary degree of interactivity that the Web
2.0 with its emergent genres has been able to offer.
The Internet remains, nevertheless, a fast-changing and contradictory medium whose undeniable transformative potential does not automatically advance democracy. Among the risks of political communication, especially since it is increasingly mediated by the Internet,
there is that of being trivialised into an insignificant form of “‘soft activism’ that provides an illusion of political action through typing on a
computer” (Kahn – Kellner: 2005, 93) and is often limited to an “al-
4
For example, this is the criticism raised at New Labour’s Big Conversation website, launched in 2001 and now dismissed: “The Big Conversation, of course, was sparked
up a couple of years before that, billed as ‘one of the boldest, most innovative democra-
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ready politically active and privileged” minority (Lusoli et al.: 2006, 24).
In spite of the ambivalence of the phenomenon, which may lend
itself to further manipulative efforts or to irrelevant chitchat, thus deflating the disruptive power of raising controversial issues4, conversationalisation as a trend in influencing audiences may also help to
build more democratic discourse relations whenever it manages to
carry out the renegotiation of existing power roles. The ways in
which it works on the mySociety websites, also in the light of the
growing success of the initiative, ratified as it is by ordinary common
citizens, would seem to favour a positive interpretation of this form
of interactive written discourse and to shed an optimistic light on the
proactive abilities of language to advance alternative social representations. The analysis of the websites reveals, in fact, that the focus of
the mySociety efforts seems to lie not in the manipulation of public
opinion, but rather in the construction of the responsible citizen,
though “there is still a missing link between e-democratic activity in
civil society and policy making that takes place in formal institutional spheres” (Chadwick: 2006, 113).
5. Conclusions
The mySociety websites are civic, non-party-political sites that encourage democratic participation from all citizens and exercise a
form of polite surveillance on politicians. They also promote practical responsible action at community level. Though voicing a form of
confrontational discourse which does not eschew very serious issues
(such as boycotting a general election), these websites do not deliberately resort to vitriolic forms of political satire, as is the norm on
other political blogs in the U.K., such as Guido Fawkes, Recess Monkey, or FibDems, but strive to respect polite forms of linguistic behaviour in a strategic way, that is, facilitating the ongoing flow of exchange on a number of meaningful topics concerning civic and political life.
The fact that this participatory perspective, initiated by small
groups of citizens without direct electoral advantages or explicit vest-
tic exercises in British political history’. This proved to be just the sort of underselling to
which the PM is so bashfully given. For the duration of its life, the Big Conversation
website carried not a single comment from a single voter on either Iraq, terrorism or Mr
Blair’s relationship with President Bush” (Guardian Unlimited, 18 November 2006).
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ed interests, has been seriously espoused and maintained over the
years is the real novelty of the mySociety experiment. According to
political analysts, it is exactly in this area that the major failure of institutional websites lies, in their continual reluctance to abandon a
patronising, hierarchical attitude in spite of their declared “egalitarian
aims” (Scott: 2002, 140) and, therefore, in their intrinsic support of
ratified forms of power.
In this regard, the mySociety platform stands out as a remarkable
experiment in e-democracy, pedagogically combining a focussed use
of technology with a balanced communicative style that does not
abandon a critical gaze on political life and thus challenges existing
relations of power. Citizens, after all, manage to make themselves
heard by politicians, without having to overcome too many gatekeeping filters. This stance is strategically facilitated not by aggressive behaviour but by politeness, whose linguistic restraint turns into
an effective means of speaking out. In spite of its apparent moderation, this is arguably the kind of website discourse whose politics
could affect political behaviour in the long run and, auspiciously,
with lasting results.
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mySociety.org websites
mySociety.org, http://www.mysociety.org
mySociety Panopticon, http://panopticon.mysociety.org
TheyWorkForYou, http://www.theyworkforyou.com (launched June
6th, 2004)
WriteToThem, http://www.writetothem.com (launched February 14th,
2005)
NotApathetic.com, http://www.notapathetic.com (launched April 7th,
2005)
PledgeBank.com, http://www.pledgebank (launched June 13th, 2005)
HearFromYourMP, http://hearfromyourmp.com (launched November
21st, 2005)
E-Petitions, http://petitions.pm.gov.uk (launched November 14th, 2006)
FixMyStreet, http://www.fixmystreet.com, previously Neighbourhood
Fix-It (launched March 7th, 2007)
UKCOD, http://www.ukcod.org.uk/UK_Citizens_Online_Democracy
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Downing Street Says, http://www.downingstreetsays.org
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Guido Fawkes, http://www.order-order.com
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10 Downing Street, http://www.pm.gov.uk
The Public Whip, http://www.publicwhip.org.uk
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Marialuisa Bignami
FRANCO MARUCCI, STORIA DELLA LETTERATURA INGLESE
FIRENZE, LE LETTERE, VOL. 3 (IN DUE TOMI) 2003, E VOL. 4,
2006, PP. 949+1017 E 1225.
Si tratta dei primi due ampi volumi pubblicati di un’opera che ne
prevede cinque: di prossima uscita è il volume 5 (che coprirà il periodo dal 1921 ai giorni nostri), cui terranno dietro i volumi 1 e 2, che
si occuperanno di trattare la materia storico-letteraria dal Cinquecento all’età romantica.
Dei due volumi già pubblicati e di cui qui ci occupiamo, il primo
(il terzo dell’opera) copre gli anni dal 1832 al 1870 ed è a sua volta
diviso in due ampi tomi, articolati per generi e dedicati rispettivamente a “Il saggismo e la poesia” e a “Il romanzo” del periodo aureo
che da Vittoria prende il nome: il volume si configura dunque come
una summa della cultura letteraria vittoriana, di cui l’autore è massimamente esperto. Il secondo volume di cui ci occupiamo in questa
sede (il quarto dell’opera) copre l’arco di tempo tra il 1870 e il 1921.
Prima di passare all’analisi delle parti pubblicate di questa storia letteraria, sarà interessante ricordare che, progettando di intraprendere,
con sforzo singolo, la stesura della vasta opera, Marucci aveva esposto la sua filosofia della storia letteraria nel saggio “Prolegomeni a
una storiografia futura” (Annali di Ca’ Foscari, XXXIX, 2000, 1-2, pp.
223-37): in esso, dopo aver passato in rassegna le storie della letteratura inglese pubblicate in Italia, egli argomenta che simili opere invecchiano piuttosto rapidamente anche a causa di continue ridefinizioni del canone, creando quindi lo spazio per una storia scritta da
uno studioso di cui si auspica “che si sia fatto le ossa come critico testuale e metta a frutto questa sua competenza entro a una visione
globale” (p. 234); quanto ad una cornice metodologica, Marucci sceglie quella di Lotman, ritenuta la più duttile.
Un’ampia Introduzione apre il primo dei due tomi del volume 3:
essa dà conto, innanzitutto, della scansione temporale del volume,
che adotta come terminus a quo il 1832, data del primo Reform Bill,
ritenuto dall’autore per la sua valenza politico-sociale uno spartiacque più significativo del più estrinseco 1837, data dell’ascesa al trono
di Vittoria. Simmetricamente, Marucci ritiene opportuno giustificare il
terminus ad quem adottato del 1870, che non corrisponde tuttavia ad
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alcun evento specifico; piuttosto egli ritiene che “Si affollano … intorno a questa data … segni di una nuova sensibilità letteraria, che è
in una parola quella dell’estetismo” (III, 1, p. 14). In questo senso per
l’autore diventa simbolico di tutto il periodo il romanzo Middlemarch di George Eliot, ambientato attorno al 1832 e scritto nel 18701, di cui Marucci dirà più avanti nell’opera che esso dà: “…una lettura… panottica … macrotestuale nel doppio senso del corpus eliotiano totale … e di quello narrativo e più latamente letterario del quarantennio che con esso si conclude” (III, 2, p. 907).
Oltre alla questione della datazione, l’Introduzione presenta, in
paragrafi separati e perspicuamente titolati, quelli che l’autore individua come i nodi della cultura vittoriana: essi costituiranno la sua
chiave di lettura di autori e testi e si rivelano necessari a guidare il
lettore nella fruizione di un testo ampio e fortemente idiosincratico,
per nulla passivo di fronte alla materia trattata. In particolare, vorremmo segnalare come altamente utili il paragrafo 4, “L’egemonia del
romanzo”, e il 5, “Schizofrenie vittoriane”. Il primo affronta con brio
e con tratto sicuro la navigazione di un universo vasto, composto di
testi numerosi e spesso assai estesi, guidando il lettore ad apprezzarne le peculiarità piuttosto che l’ovvio e il risaputo: l’autore ci ricorda
infatti che durante il secolo XIX furono pubblicati quarantamila romanzi, anche se egli stesso subito avverte che, ai fini dello studio
della letteratura, i nove decimi di essi possono essere dimenticati. Tra
quelli che val la pena ricordare, Marucci ci segnala alcune categorie
proprie in modo particolare della produzione inglese, come il romanzo “clericale” (distinto da quello religioso che sarebbe più propriamente ideologico), interessante perché sfrutta, ai fini della commedia umana, tutto il mondo degli ecclesiastici e delle loro famiglie.
Un’ulteriore osservazione ci ricorda quello che è sempre ben presente all’autore, che cioè si sta qui analizzando una letteratura “straniera” di cui è opportuno segnalare al lettore anche il rapporto con le
letterature del Continente, alle quali la nostra propria appartiene. Si
cerca dunque la risposta alla domanda “come mai il romanzo vittoriano inglese, che surclassa ogni altra fiction europea in termini di
quantità … e che è al centro di una massiccia attenzione da parte
della critica accademica nel mondo di lingua inglese, non goda di pari popolarità europea … Perché Guerra e pace è un classico senza
tempo … perché questa fama universale hanno anche Il rosso e il nero, o i romanzi di Balzac o Madame Bovary, … o … Delitto e castigo
e I fratelli Karamazov? Una notorietà … possiamo riconoscerla soltanto, fra i romanzi inglesi, a Oliver Twist e a David Copperfield, ma
ridotti a classici per l’infanzia, o a Vanity Fair.” (III,1, p. 29). La risposta secondo l’autore è che si tratta spesso di “un romanzo … pesan-
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temente insulare e provinciale” e che “una certa circolazione extranazionale cominciò solo con … due inglesi per metà … Henry James e
Conrad” (ibidem). Marucci introduce anche, in questo paragrafo, la
categoria dei “romanzoni … quei lunghissimi romanzi in tre volumi
che furono la misura standard vittoriana” (III, 1, p. 28), una definizione che egli applicherà in primo luogo a Dickens, ma poi via via a
molti altri autori e testi, sino a Nostromo di Conrad (IV, p. 1099). Il
paragrafo 5, per contro, raggruppa sotto l’intrigante titolo di “Schizofrenie vittoriane” la trattazione dei motivi culturali della poesia, vedendone il rapporto con testi intellettualmente destabilizzanti quali i
Principles of Geology di Charles Lyell e i Vestiges of Creation di Robert Chambers, oltre naturalmente a The Origin of Species di Charles
Darwin e alla produzione di T. H. Huxley L’aporia consiste anche
nel fatto che “Il poeta vittoriano non trovava l’ubi consistam in una
società dedita al materiale, e aspirava semmai all’utopistica ricostituzione di una comunità di saggi” (III, 1, p. 31). Appropriatamente, trattandosi dell’esame del denso linguaggio poetico, si sintetizza infine
questa schizofrenia della poesia vittoriana in tre immagini in essa ricorrenti: la marea (Dover Beach), il velo (Tennyson e FitzGerald), il
prisma (Browning).
Non mancano ai volumi tutte le informazioni necessarie ed opportune in un’opera di consultazione: le bibliografie sono ampie, aggiornate e bene ordinate, per comodità del lettore collocate in nota
all’inizio della trattazione di autori e movimenti letterari; le biografie
degli autori sono perspicue – ragioni per le quali il manuale risulta
utilizzabile anche da lettori digiuni della materia, a beneficio dei quali tutte le citazioni in lingua inglese vengono tradotte in italiano in
nota. Ma ciò che distingue quest’opera da altre storie letterarie è la
scelta, operata da Marucci, di adottare in tutti i volumi preliminarmente un metodo inconsueto, quello cioè di una via analitica e discorsiva alla presentazione delle singole opere; sicché quelli che dovrebbero essere semplici capitoli sui singoli autori, i loro problemi e
le loro opere, si configurano in realtà come vere e proprie monografie, al tempo stesso autosufficienti ed esaustive quanto all’oggetto,
ma non prive di una fitta rete di rimandi e connessioni ad altri autori
e testi, in questo caso ottocenteschi, presenti nella vasta opera: un simile metodo pone il lettore al centro di una raggiera di relazioni
sempre illuminanti e a volte piacevolmente sorprendenti. L’ampiezza
dello spazio riservato ad ogni autore o genere permette a Marucci di
non limitarsi a fornire al lettore giudizi già comunemente accettati
dalla critica – come è proprio delle storie letterarie – ma anche all’occasione di ribaltare quei giudizi, mettendo in campo opere o prospettive altrimenti poco considerate. Nell’impossibilità di riferire su
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ogni dettaglio della vasta opera e per fare un esempio che speriamo
si riveli persuasivo, a fini esemplificativi ci fermeremo in particolare
sul lungo “capitolo” dedicato a George Eliot, per chiarire meglio questo metodo e le vantaggiose conseguenze che se ne ricavano di volta in volta per la conoscenza dell’argomento trattato. Tale capitolo si
dispiega su circa centocinquanta pagine comprese nel volume terzo
(“George Eliot fino al 1870”) e su venti pagine nel volume quarto
(“George Eliot dopo il 1872”, che comprende Daniel Deronda e
Theophrastus Such), dove sono anche spiegate le ragioni culturali
della divisione: “mentre Middlemarch è una retrospettiva del 1832 …
Daniel Deronda si volge al futuro” e una nuovissima forma ne fa “il
romanzo … più sperimentale ed ideologicamente stimolante” della
Eliot (IV, p. 297). Si inizia dunque con una biografia, fattuale e intellettuale, di Mary Ann Evans, quanto mai necessaria per comprendere
la costante presenza nella sua narrativa dei frutti migliori del pensiero europeo, accanto ad un’attenzione ad istanze spirituali e alla vita
rurale inglese. Giusto spazio riceve anche il periodo di lavoro di lei
presso la Westminster Review, quella scuola di scrittura, di riflessione
e di sintesi che permetterà alla saggista di diventare compiutamente
la romanziera George Eliot. Giunto poi alla produzione narrativa,
Marucci opera le sue scelte: dedica un congruo numero di pagine ai
romanzi che ritiene degni di nota (ampio spazio è riservato al romanzo fiorentino Romola), ma non esita a presentare sotto una luce sfavorevole Felix Holt, ritenuto confuso, e per contro dà uno spazio inconsueto ai pezzi brevi. Ricevono quindi molta attenzione le Scenes
of Clerical Life e il racconto Brother Jacob; ma, soprattutto e inaspettatamente, ne riceve il racconto The Lifted Veil, che viene apparentato ai monologhi drammatici di Browning, così collaborando a creare
una originale rete di rimandi, che ricorrono spesso nei due volumi,
tra i due generi comunemente tenuti distinti di prosa e poesia; anche,
si sottolinea del racconto la narrazione in prima persona (l’unico caso nell’opera della Eliot), che ne mette in risalto la dimensione autobiografica, particolarmente significativa se teniamo presente il fatto
che il racconto fu composto contemporaneamente a The Mill on the
Floss. Proponendo un’originale lettura della funzione di tale tecnica
narrativa all’interno del macrotesto eliotiano, Marucci suggerisce che:
“questo racconto toglierebbe il velo e darebbe un nome a quei narratori anonimi … che si possono indovinare nella voce narrante dei
romanzi precedenti” (III, 2 p. 873). Quanto a Daniel Deronda, pur
accettando il fatto che esso risulti gravato e impacciato dalla dimensione ideologica utopica (la progettata costituzione di un “focolare”
ebraico in Palestina) e dalla bipartizione in una trama “inglese” ed
una “ebraica”, Marucci ne mette in risalto la qualità sperimentale che
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anticiperebbe il romanzo-saggio modernista – e lo colloca quindi
fuori della cultura vittoriana stricto sensu, sottolineandone la modernità. Lo spazio dedicato alla Eliot non è un’eccezione nei due volumi, dato che un numero simile di pagine è dedicato anche agli altri
grandi narratori vittoriani: questi ultimi (salvo ovviamente quelli morti prima del 1870), così come molti poeti, sono volentieri divisi tra i
due volumi, creando in tal modo un senso di continuità nella materia
trattata; perciò abbiamo scelto di parlare tutt’assieme dei due volumi.
L’ampiezza e l’andamento disteso delle trattazioni, oltre agli spunti di originalità critica, fanno di quest’opera una lettura affascinante,
piuttosto che uno spiccio manuale per studenti frettolosi, ai quali potrebbe vantaggiosamente essere indicata la lettura di qualche parte
per un approfondimento: insomma si tratta di un’opera a cui tornare ripetutamente, per studiosi o da biblioteca – e qualunque biblioteca che la possedesse ne risulterebbe arricchita. In conclusione, vorremmo dire che era ora che un autore, nell’affrontare una storia letteraria, non si lasciasse spaventare dalla dimensione della lunghezza
e dedicasse ad ogni argomento tutto lo spazio che esso può meritare.
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María Cristina Bordonaba Zabalza
OTELLO LOTTINI, UNAMUNO LINGUISTA (E ALTRI SAGGI),
ROMA, BULZONI EDITORE, 2004
A los veinte años de la publicación del ensayo, Unamuno linguista (“Premio della Cultura” della Presidenza del Consiglio Italiano),
Otello Lottini, catedrático de lengua española de la Facoltà di Lettere
e Filosofia –Università di Roma Tre, nos propone una nueva edición
que añade a la anterior un apéndice compuesto por tres ensayos sobre cuestiones lingüísticas correspondientes al período franquista y a
la transición democrática en su vertiente lingüística, cultural y literaria. La obra consta de 5 capítulos precedidos de una introducción.
En el primer capítulo, se describe una panorámica de los estudios
de lingüística en España que denotan cierto retraso, respecto al desarrollo de la gramática comparada que, a la sazón, se estaba verificando en Europa. A este propósito, resulta muy revelador el caso de
Hervás y Panduro (1735-1809), cuya obra monumental en palabras
de Lottini, si hubiese sido acogida con la atención debida, habría
constituido un sólido punto de partida para los estudios de lingüística comparada; sin embargo, pasó desapercibida. A continuación, se
indican tres campos de estudio que abarcan la primera mitad del s.
XIX: 1) los orígenes de la lengua, 2) el problema gramatical (gramática normativa y gramática filosófica) y c) el problema de la lengua
universal; el segundo se centra en la descripción de la Gramática de
Salvá de 1831, que se funda en la defensa de la lengua hablada por
las personas cultas frente a las normas impuestas por las “autoridades” literarias. A pesar del éxito que obtuvo esta obra, cuyo influjo se
dejó sentir en la gramática de Andrés Bello, el autor observa que en
Bello hay una reflexión teórica y una profundidad de pensamiento
que la hacen superior a la primera. En todo caso, ambas influyeron
en las ediciones posteriores de la Gramática de la Real Academia de
la Lengua.
En el segundo capítulo se abordan las reflexiones lingüísticas de
Unamuno sobre el vascuence, lengua que Unamuno aprendió, así
como otras lenguas europeas. Este dato es muy importante, porque
el conocimiento de las lenguas le permitirá entrar en contacto directo con la cultura lingüística y filosófica de Europa. Después de apor-
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tar varios datos biográficos, Lottini entra de lleno en la obra La cuestión del vascuence (1902) que se centra en dos puntos fundamentales: a) el vascuence como instrumento de comunicación, b) el vascuence como objeto de estudio. Se subraya el punto de vista unamuniano netamente contrario a la revitalización de un idioma que considera próximo a la extinción, ya que los esfuerzos por salvarlo no
están encauzados en una adecuada política lingüística. La metodología propuesta por Unamuno se basa en un trabajo colectivo de investigación sobre las variantes lingüísticas existentes, con la ayuda de
cuestionarios, transcripciones fonéticas uniformes y especificación
de la región o zona en que viene usado un vocablo. A partir de este
estudio, se puede pensar en teorizar sobre la lengua. El capítulo concluye con las observaciones finales de Unamuno quien constata la
agonía del vascuence, pero aconseja a los vascos que “irrumpan” en
el castellano para llevar a cabo la conquista espiritual de España.
El capítulo III contiene observaciones metalingüísticas y autoexplicativas que, según el autor, se revelan muy importantes para comprender el significado del enfoque que Unamuno da a la lingüística.
En primer lugar, se destaca su función de autodidacta lo que explica
su eclecticismo, así como su independencia de juicio y su no ortodoxia de escuela. Asimismo, se observa que la unidad e individualidad
constituyen la base de la concepción orgánica de la lengua. Sucesivamente, se analiza la relación entre lengua y cultura como un binomio
que resulta ser la expresión del pensamiento espontáneo del pueblo.
De sus observaciones sobre el lenguaje subyace el concepto unamuniano de “intrahistoria”, que no es la historia de hechos, sino de sucesos que han sido protagonizados por el pueblo, silenciosamente,
sin aparecer escritos en ningún libro. A todo ello se contrapone el
“casticismo” como expresión de una actitud purista representada por
la Academia de la Lengua. El capítulo IV trata de las variantes regionales del español peninsular y americano, desde una perspectiva
nueva cuyo punto de orientación es Europa. Por primera vez, aparece la noción de sobrecastellano, esto es, un español único que se alza por encima de todas las variaciones existentes, fruto de varias integraciones. Se reafirma la necesidad de llevar a cabo una lucha espiritual con una única misión: la unidad de todos los pueblos hispánicos. El mal uso que de sus metáforas belicistas haría luego el bando
nacional durante la guerra civil, lo hizo reflexionar sobre el alcance
que sus palabras habían tenido.
El capítulo V trata de la filosofía del lenguaje, que se centra en el
paralelismo existente entre la evolución de la lengua de un pueblo y
su pensamiento. En Unamuno la palabra, como fundamento de conocimiento y civilización, tiene su raíz última en la perspectiva reli-
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giosa de la que está imbuida toda su obra. El hombre no es más que
una frase del pensamiento de Dios. El Principio es, pues, el Verbo. Y
el lenguaje es la facultad que Dios ha dado al hombre para que pueda ordenar el mundo en conceptos; la palabra es poder reconstruir
relaciones entre las cosas, creando y recreando la realidad radical del
hombre entre los hombres. El autor subraya que Unamuno ha superado la dicotomía precedente entre lengua escrita y lengua hablada,
porque lo que realmente defiende es un estilo de escritura que lo
aproxima a los místicos: “No hablar como un libro, sino que el libro
hable como Santa Teresa hablaba con su pluma”. Al final, Unamuno
ha llegado a la conclusión de que la letra tiene también una grandeza, por cuanto su permanencia le confiere algo de la eternidad real a
la que él mismo aspiraba.
En conclusión, el volumen reseñado resucita una parte de la obra
unamuniana, considerada durante mucho tiempo marginal respecto
a su producción literaria. El tipo de reflexión unamuniana lleva al
lector a replantearse cuestiones tan actuales como la supervivencia
de las lenguas, la política lingüística, el futuro del español, etc. Por
todo ello, la lectura del texto de Lottini es fundamental para conocer
todas las facetas de la figura de Unamuno y para comprender por
qué hoy en día sigue siendo de actualidad en las aulas universitarias.
Asimismo, los artículos que integran el apéndice revisten un interés
especial porque enriquecen las observaciones lingüísticas unamunianas con una visión de conjunto sobre las relaciones problemáticas
entre lenguas, cultura, sociedad e instituciones durante el franquismo
y la Transición.
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Marta Carballés Méndez
ANTONELLA D’ANGELIS, LA DERIVAZIONE NOMINALE
E AGGETTIVALE IN ITALIANO E IN SPAGNOLO
LA SUFFISSAZIONE, ROMA, ARACNE EDITRICE, 2006
La profesora Antonella d’Angelis propone un volumen estructurado en tres partes bien diferenciadas entre sí, y encabezadas por unos
epígrafes que anticipan el contenido de cada apartado: un estudio
general de la morfología, la sufijación como elemento de derivación
nominal y adjetival, y el apartado de las conclusiones pertinentes.
El interés que suscita el texto resulta evidente, habida cuenta de la
clave contrastiva que rige el desarrollo de la investigación, y sobre este hecho conviene concentrar la atención, visto lo novedoso de la
propuesta. Las teorías relacionadas con la gramática contrastiva, y sobre todo con los aspectos morfológicos que trata la profesora, son sin
duda interesantes y nuevos.
La autora especifica que el volumen tiene como destinatario al
especialista, profesor y discente, interesado en profundizar el argumento, y para ello proporciona un nutrido número de ejemplos que
conforman un completo corpus de trabajo, así como un capítulo dedicado específicamente a los problemas que generan la enseñanza y
aprendizaje de las lenguas.
El análisis contrastivo de dos lenguas produce siempre resultados
interesantes y ricos de conclusiones. En este texto, la profesora d’Angelis realiza un estudio comparativo con una gran cantidad de ejemplos, definiendo conceptos y exponiendo teorías como los criterios
de clasificación de los morfemas (semántico, sintáctico y distributivo),
los tipos de morfema, el concepto de palabra, o la definición de nociones como la morfología y sus unidades (palabra, tema, base, morfema, morfo o alomorfo). Resultan especialmente atractivos también
los cuadros ilustrativos, que reflejan el trabajo de confección de un
nutrido corpus. Los ejemplos, además, se enriquecen con la inserción de otros en lenguas como el ruso, el inglés o el alemán, introducidos para reflejar determinados procesos morfológicos en italiano y
en español.
El estudio de un proceso morfológico como la derivación, en este
caso desde un punto de vista contrastivo, comporta el análisis de una
serie de prefijos, infijos, sufijos y compuestos, que permite a la auto-
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ra ocuparse de la formación de palabras y géneros de los sustantivos
en italiano y español. A este respecto, y ya en la segunda parte del libro, Antonella d’Angelis analiza las tendencias actuales en la formación de palabras en italiano y en español. La autora ha elegido la sufijación como protagonista de su estudio, por ser ésta la marca morfológica presente en la formación de palabras actual. Advierte, además, de la inclusión en el corpus de una serie de elementos en desuso, así como de otros que se utilizan actualmente pero con menor
productividad.
Todos los ejemplos ofrecidos por d’Angelis responden a una clasificación exhaustiva y bien estructurada del conjunto; así, aparece
un registro de los sufijos nominales y adjetivales, que a su vez presentan otras divisiones, y de los fenómenos de alteración. La autora
incluye 24 tablas que muestran los sufijos estudiados con una definición de cada uno en las dos lenguas, así como una serie de ejemplos
con el verbo, el sustantivo o el adjetivo del que proceden. Los resultados numéricos de esta exposición aparecen en el apartado dedicado a las conclusiones.
El libro de la profesora d’Angelis recoge un notable corpus de datos pertinentes, y refleja un buen trabajo de investigación contrastiva.
No obstante la obra adolezca de ciertos descuidos formales debidos
quizá a una corrección demasiado rápida de las pruebas, aspecto éste susceptible de enmienda en sucesivas ediciones, el análisis propuesto y la coherencia de los razonamientos, confieren al conjunto
un valioso interés que permite al lector extraer útiles elementos de
estudio y reflexión.
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Donatella Dolcini
DOMENICA DENTI, MAURO FERRARI, FABIO PEROCCO
(A CURA DI), I SIKH. STORIA E IMMIGRAZIONE,
MILANO, FRANCOANGELI, 2005
Il Sikhismo (da “sikh”= discepolo) o Sikh Panth (= “cammino dei
discepoli”) nasce come uno dei tanti sampradāya (comunità religiose) della Bhakti medievale. In particolare il S. riconosce un unico Ente supremo non caratterizzato (nirgun.a), che è eterno, Creatore,
Causa delle cause, senza inimicizia, senza odio, immanente al creato,
ma nello stesso tempo al di là di esso, così che il mondo appare come un Suo imperscrutabile gioco (māyā), finché non sopravvenga la
vera conoscenza a svelarlo illusorio. Privo di attributi qual è, Dio non
ha nome, perché infiniti sono i nomi con cui lo si può chiamare; ma,
appunto per questo, è il Nome per eccellenza, anzi il “Vero Nome”,
ossia “Colui il cui nome è il Vero Essere”. Proprio attraverso il Nome
l’uomo riesce a percepirlo, come pure attraverso l’Ordine cosmico, e
poi la Parola interiore, il Maestro (guru), la Verità. Questo processo
di avvicinamento a Dio avviene tramite la Grazia, concessa, anche se
in tempi diversi, a tutte le creature, al di là delle differenze di nascita, genere, posizione sociale, così che tutte, dopo un periodo di reincarnazioni, possano tornare alla pura Sorgente da cui sono state generate. Per ottenere questa salvezza è necessaria per l’essere umano
la rinuncia prima di tutto alla propria psiche, che è il ricettacolo di
sentimenti ed emozioni, quindi di un errato senso di sé, a sua volta
causa delle passioni che legano sempre di più il medesimo essere
umano alla sfera del fenomenico, offuscandogli la consapevolezza
della sua genuina natura, che è invece “scintilla della Luce suprema”.
Per non sbagliare nel cammino verso l’affrancamento l’uomo deve
seguire la guida di un maestro, concretizzazione della voce che parla nell’intimo di ogni individuo e che è Dio stesso.
Fin qui il Sikhismo non si discosta gran che dalla più autentica
tradizione hindu, anche se forte appare l’influsso islamico nella ferma credenza nell’unicità di Dio e nel concetto di fratellanza che elimina disparità di caste e generi; la novità sta invece nella convinzione che la salvezza non richieda una vita di ascesi, ma una normale
convivenza sociale. La figura tipica del perfetto fedele sikh è così il
pater familias, che sostenta la sua casa e il prossimo, in spirito di
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amore, fratellanza, servizio. Ricchezze e beni, pertanto, non si pongono ad ostacolo della realizzazione degli ideali spirituali, ove sia
puro il cuore e docile all’insegnamento del guru terreno, profeta del
Guru divino.
Fondatore del Sikhismo è Nanak (1469-1539), un magazziniere di
casta medioalta, che, raggiunto da una sorta di illuminazione, predica la sua fede in tutta l’India, e poi si ritira con famiglia e seguaci nel
natio Panjab. Qui la comunità, guidata dopo di lui da nove Guru successivi, fiorisce in modo inusitato, nonostante alcune gravi persecuzioni da parte del potere islamico di Delhi e alcune divisioni interne.
Situazioni cui pone rimedio il decimo e ultimo Guru, Govind Singh
(1666-1708), con una duplice mossa: da una parte fonda (1699) il
Khalsa, ordine di combattenti pronti a difendere la fede fino alla
morte; dall’altra stabilisce che dopo di lui la suprema autorità risieda
per il lato politico nello stesso Khalsa, per il lato spirituale nel Guru
Granth Sāhab (= “Reverendo Maestro Libro”), raccolta delle composizioni religiose dei dieci Guru e di alcuni sānt precedenti.
I Sikh oggi rimangono tenacemente fedeli ai due principi cardine
degli inizi: il legame mistico tra l’uomo e il suo unico Dio, il pieno
coinvolgimento dello stesso uomo nelle vicende terrene. L’intreccio
di queste due radici ha determinato una profonda, incancellabile impronta nell’identità sikh dalla scelta di morire piuttosto che abiurare
(questa era appunto stata la sorte del V e del IX Guru), alla difesa
della fede con le armi, alla disponibilità ad aiutare il prossimo (e ne
sono simbolo i laṅgar, le cucine comunitarie annesse ai templi, in
cui chiunque può ricevere cibo gratuitamente), al dispiegamento di
un abilissimo talento imprenditoriale specialmente nell’agricoltura,
nel commercio, nel settore dei servizi. Essi divengono insomma una
vera ‘nazione’, cui si accede per nascita o per iniziazione e che addirittura innalza un proprio vessillo (nisan sahab, giallo, sormontato
dalle due spade a doppio taglio del potere spirituale e temporale) su
un proprio grande tempio (Harimandir o “Tempio d’Oro”) in una
propria città santa (Amritsar), che all’occorrenza (per esempio durante la rivolta agli inizi degli anni ’80 del XX secolo per ottenere uno
stato sikh autonomo rispetto al governo di N. Delhi) può avvalersi di
un proprio esercito (Khalsa), connotato da una specifica divisa (particolarmente caratteristico il turbante che nasconde i capelli, intonsi
come la barba).
Il tratto più importante del Sikhismo resta comunque la funzione
centrale rivestita dal Guru Granth Sāhab, costituito da un volume in
copia uguale in tutti i gurdwâra (= “Casa del guru”, ossia il tempio
sikh), scritto in caratteri gurmukhı̄ (da allora – 1604 – caratteristici
della lingua pañjabı̄) e giunto alla redazione definitiva sotto Govind
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Singh. Ogni mattina in ogni tempio sikh del mondo l’Ādi Granth (altro nome del testo sacro che equivale all’italiano “Primo libro”) viene
portato dalla sua custodia notturna nella sala principale, per ricevere
l’omaggio di fedeli e visitatori e per venire letto e commentato pubblicamente (anche via Internet) sia da uomini sia da donne (non esistono sacerdoti).
Definiti dai britannici la “martial race” per eccellenza e perciò arruolati in gran numero nell’esercito della Corona in tutte le guerre
combattute dall’Impero britannico, oggi i Sikh (circa 20 milioni di
persone, pari all’1,9 % della popolazione indiana), ottenuto a prezzo
di immani lotte uno Stato in cui si trovano in maggioranza (Panjab) e
spentisi gli ultimi echi del terribile progrom seguito all’uccisione di
Indira Gandhi (1984) per mano della scorta sikh, vivono un periodo
più tranquillo: in patria lavorano con importante ritorno economico
soprattutto nel settore agricolo, in quello dei trasporti e nel terziario.
Non si è tuttavia arrestato il forte flusso migratorio originato dalla
precedente difficile situazione in India (anche la spartizione del Panjab tra Pakistan e Unione Indiana nel 1947 aveva avuto spaventose ripercussioni sulla popolazione sikh); flusso migratorio che negli ultimi anni si è diretto non solo verso i Paesi anglofoni, ma ora anche
nel resto d’Europa, ivi compresa l’Italia (pianura padana, Lazio, Sicilia), dove sono molto richiesti specialmente come bergamini.
I fondamenti dottrinali e le vicende storiche dei Sikh sono uno
dei punti di forza del testo a cura di Denti, Ferrari, Perocco. Si tratta
di una raccolta di saggi, presentati nel corso di un convegno dal medesimo titolo svoltosi a Padova nel maggio 2004, a cura di studiosi di
varia specializzazione, accomunati dall’interesse per una gruppo indiano di rilevante, in parte anomalo, recentissimo insediamento in
Italia. Di esso viene data descrizione appunto della nascita e dello
sviluppo in India, partendo da un’ottica storica e religioso-sociale
(Parte I: Il sikhismo in India), per passare poi (Parte II: I sikh in Italia
tra lavoro e segregazione) alla disamina dei tratti distintivi della loro
presenza in Italia nelle zone del nord-est (e nel titolo sarebbe stato
bene indicare in qualche modo questa limitazione territoriale): perché e come sono arrivati, come si sono organizzati in una comunità
con caratteristiche proprie e come tale comunità si pone in relazione
con l’ambiente sociale italiano di accoglienza, in che tipo di occupazione finiscono nella maggior parte per restare coinvolti e con quali
ricadute economiche e di integrazione ecc.
Ne risulta un quadro abbastanza ben delineato, che li mostra
gruppo coeso ma non chiuso; molto attivo ma tranquillo; proiettato
verso un continuo miglioramento della propria situazione lavorativa
e sociale ma privo di arroganza. Insomma un perfetto modello di
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“comunità buona”, secondo un’etichetta sociologica urtante, ma molto chiarificatrice.
Ad alcune particolari conseguenze della presenza sikh in Italia è
infine dedicata l’ultima parte del volume, costituita da tre appendici
relative al Sikhismo in rete (Restelli), ai convertiti italiani (Restelli), ai
termini specialistici indiani (glossario di Peca Conti).
Il testo risulta pertanto molto utile a chi giustamente voglia saperne molto di più su insediamenti migratori di rimarchevole portata,
ma su cui corre scarsa informazione. Precedenti a questo lavoro, infatti, in italiano esistevano solo sporadici articoli e saggi in riviste o
volumi collettanei, mentre di vere e proprie trattazioni se ne avevano
tre: Guru Nanak e il Sikhismo, Esperienze, Fossano 1971 e I canti religiosi dei Sikh, Bompiani, Milano, 2001 n. ed., ambedue di Stefano
Piano e I Sikh tra storia e attualità politica, Pagus, Paese, 1990 di
Marco Restelli. Erano state elaborate, peraltro, anche tesi universitarie, tra cui quella inedita di F. Bertolazzi, La comunità sikh nella provincia di Reggio Emilia, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università
degli Studi di Milano, aa. 1997-98, certamente antesignana proprio rispetto all’argomento del testo qui recensito, ma del tutto ignorata dal
testo medesimo, dove anzi si afferma che le prime indagini relative ai
Sikh della provincia di Reggio E. risalgono al 2002 (p.115).
Questa mancanza di acribia nella ricerca del materiale di precedente stesura, per quanto banale esso possa essere, già denuncia
uno dei principali difetti dell’opera: l’incompletezza. È ovvio che lavori di questo genere non possano essere esaustivi, non fosse altro
che per il fatto che richiedono il frequente aggiornamento di dati e
situazioni continuamente in fieri; tuttavia qui, a nostro parere, è proprio il metodo di raccolta e assemblaggio che in alcuni momenti lascia a desiderare. Oltre al fatto di avere trascurato il settore di ricerca
gravitante intorno alle tesi universitarie – che può essere sì di scarso
rilievo tecnico-scientifico, ma che dal punto di vista della ricerca di
dati oggettivi o, come nel caso della sociologia, di esperienze dirette
può invece rappresentare un importante appoggio – si riscontra anche il mancato approfondimento, invece, di altri punti, per esempio
quello della rassegna stampa riguardante i Sikh stanziati in Lombardia (pp.158-161). Rende perplessi, infatti, che non vi compaia menzione né di testate, né di date di pubblicazione puntuali, né di autori, né di titoli degli articoli, ma che ci si limiti a riportare occorrenza
di termini e succo del contenuto. Spesso inoltre – ed è questo l’altro
grosso difetto del lavoro, anch’esso in parte imputabile alla struttura
stessa del testo, in quanto raccolta di lavori di mano diversa – possono risultare fastidiose sia un’inutile ripetitività di alcune sottolineature (equazione “Sikh=comunità buona”, isolamento sociale dei grup-
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pi, cause della scelta dell’attività di bergamino…), sia una palpabile
disomogeneità stilistica: accanto a dissertazioni di registro linguistico
accademico o molto tecnico, quasi astruso, se ne trovano altre un po’
troppo discorsive, in alcuni punti addirittura poco attente all’italiano.
È innegabile, d’altra parte, che lo stesso testo possieda una grande, forse addirittura inestimabile benemerenza: quella di avere aperto una finestra, di aver fatto circolare un po’ d’aria fresca (ci manteniamo nella similitudine) nella stanza in cui per tanto, troppo tempo
da noi è rimasta rinchiusa e asfittica l’informazione riguardante l’India. Un lavoro del genere, infatti, non può non risvegliare anche in
altre aree italiane a rilevante presenza sikh la curiosità e il desiderio
di approfondire la conoscenza di questa comunità, proprio in quanto “buona”; nonché di porne a confronto le caratteristiche zona per
zona, permettendo anche alla gente comune – quella che magari vive fianco a fianco con questi immigrati – di conoscere un’autentica
realtà indiana, al di fuori degli stereotipi dei mass media. Per lo meno è quanto ci auguriamo noi.
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Jolanda Guardi
DANIELA BREDI, STORIA DELLA CULTURA INDO-MUSULMANA,
Roma, Carocci, 2006
“Per il loro numero mai strabocchevole, per la loro razza, non
troppo aliena, i musulmani, penetrando in India, potevano sembrare
uno dei tanti invasori venuti nel corso dei secoli a diluirsi nell’immenso paese. Non fu così. La religione – meglio la civiltà – dei musulmani rappresentò per l’India qualcosa di nuovo e di assolutamente refrattario: [...] L’India è il solo paese asiatico ove l’islam ha goduto, per secoli, una surpemazia politica quasi assoluta, senza venire a
capo della sua conqusita religiosa” (V. Vacca, L’India musulmana,
1942)
Una storia della cultura indo-musulmana non è ancora stata scritta, cioè a dire un percorso che, a partire dalle manifestazioni culturali, renda conto dello sviluppo storico di una parte del subcontinente
indiano troppo spesso lasciata in disparte o percepita come distruttrice di una cultura millenaria già presente sul territorio sul quale, a
partire dall’VIII secolo, iniziò la penetrazione, dapprima pacifica, in
seguito militare. Come giustamente afferma l’autrice “furono i musulmani a definire per primi l’India come una sola civiltà, facendone un
concetto separato e tracciandone le delimitazioni, fu nell’interazione
con l’Islam che gli indiani acquisirono un’idenittà collettiva”.
Non solo: non dobbiamo dimenticare la vastissima produzione
culturale nelle lingue cosiddette “muslmane” del subcontinente: in
arabo, persiano e turco, ma anche in urdu, sindhi, pashto, panjabi e
in parte bengali. Il contributo dei musulmani in ambito culturale letterario in India è molto vasto e la quantità di letteratura composta, ad
esempio, in persiano, è superiore a quella prodotta nell’Iran stesso.
L’islamizzazione dell’India ebbe inizio nel 711, quando Muhammad ibn Qàsim conquistò il Sind fino a Multan e pose le basi per il
dominio musulmano, ma la vera e propria conquista si ebbe con
Mahmùd di Ghazna che, nel 1001, occupò quasi interamente l’attuale territorio del Pakistan. Fin dall’inizio la presenza di sufi costituì
motivo del grande impulso che venne dato alle lingue locali, utilizzate per meglio islamizzare il territorio. L’India fu anche sede di nume-
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rosi scambi fra studiosi: autori indiani erano noti agli arabi e numerosi intellettuali indiani si recarono a Mecca tra il XVI e il XVII secolo.
Sempre per motivi legati al fatto religioso alla fine del XIX secolo il
Sahìh di al-Bukhari era già tradotto in urdu e bengali. Il sostegno e lo
sviluppo delle lingue locali da parte dei musulmani portò a un interesse per la letteratura; da sempre sensibili al fatto poetico i musulmani arabi tradussero poeti del Sind come Abu ‘Atà, la cui poesia
venne considerata degna di essere inclusa nella Hamasa, la celebre
raccolta di Abu Tammàm e la retorica indiana venne discussa nel Kitab al-bayan di al-Gàhiz.
Se sottolineiamo questo interesse per la lingua, è perché esso, a
nostro avviso, va inquadrato nel contesto che la vede come un elemento forte per la definizione dell’identità cultuale e non va sottovalutato se si pensa al contesto moderno-contemporaneo, basti pensare al ruolo della urdu nella formazione del Pakistan o a quello del
bengali nella secessione del Bangladesh. I paradossi della politica legata alla formazione delle singole nazionalità del subcontinente si riflettono nel mondo linguistico.
Una storia della cultura indo-musulmana era dunque necessaria
per mettere a fuoco le interconnessioni fra produzione culturale e
potere, anche se tutto ciò ci viene solo in parte presentato nel testo
di Daniela Bredi che privilegia, nonostante il titolo, l’aspetto storico,
purtuttavia colmando una lacuna, quella dello studio dell’India musulmana che ha visto un felice periodo di pubblicazioni in anni ormai lontani con volumi come quello di Virginia Vacca e che appartengono a un modo di leggere la realtà ormai non più al passo coi
tempi. Quest’ultima osservazione è rilevabile anche dai numerosi riferimenti presenti nelle note al volume, che per la quasi totalità sono
in lingua inglese, così come i testi citati in bibliografia, dove ci fa piacere segnalare la presenza del volume The Venture of Islam di Marshall G.S. Hodgson, un testo purtroppo ancora poco conosciuto in Italia.
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Jolanda Guardi
IL CORSO DI LINGUA ARABA AL SALONE INTERNAZIONALE
DEL LIBRO DI ALGERI
Algeri, 1-10 Novembre 2006
Una delle scelte fatte nell’insegnamento di Lingua e Traduzione
araba sin dal suo inizio è stata quella di far lavorare gli studenti su
“progetti” di diversa ampiezza che, da un lato, li ponessero a confronto con la pratica della lingua in situazioni specifiche e, dall’altro,
potessero anche far acquisir loro competenze aggiuntive al di là dell’apprendimento linguistico puro e semplice. In tale prospettiva, che
interessa principalmente gli studenti del terzo anno e dei corsi di lingua di laurea specialistica, nel corso degli anni sono state relizzate diverse produzioni: un cd rom sulla traduzione intersemiotica – a partire di un racconto di Nagib Mahfùz gli studenti del corso di traduzione specialistica hano realizzato la traduzione scritta, verbale, per immagini, e interlinguistica seguendo anche la realizzazione pratica del
prodotto finale in una sala di registrazione; un video che riprende la
presentazione di uno spettacolo scritto dai docenti a partire da un laboratorio di scrittura degli studenti, spettacolo in lingua araba standard e dialetto marocchino e tunisino che gli studenti coinvolti hanno presentato al Festival del Teatro studentesco di Agadir in Marocco; la traduzione di un volume di poesie del poeta marocchino AbdelIlahi Salhi con il quale gli studenti si sono in seguito incontrati e
che ha partecipato a un incontro con loro svoltosi nella nostra università.
Anche quest’anno, dunque, si è pensato di offrire la possibilità di
presentare una performance in lingua araba in un contesto specifico,
che non fosse il corso estivo di lingua, certo molto utile ma che in
ogni caso ha luogo in un ambiente in qualche modo “protetto”.
L’occasione si è presentata con l’XI Salone Internazionale del Libro di Algeri, dove, nell’ambito degli incontri organizzati al Caffè Letterario, è stato presentato il corso di Lingua Araba di Mediazione Linguistica e dove un gruppo ristretto di studentesse – Paola Avenia,
Anica Biffi, Estella Carpi tutte e tre iscritte al secondo anno della laurea magistrale in Lingue, Culture e Comunicazione Internazionale –
hanno presentato al pubblico del Salone una performance in lingua
araba con reading di poesie di autori algerini e di autori italiani tra-
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dotti in arabo. L’incontro, organizzato dal Salone in collaborazione
con l’Istituto Italiano di Cultura di Algeri, ha visto la partecipazione di
un folto pubblico, piacevolmente sorpreso dal fatto che studentesse
straniere si esprimessero in lingua araba. Al termine dell’incontro,
durante il quale le studentesse hanno risposto a diverse domande, è
stato loro consegnato un diploma in segno di stima e incoraggiamento da parte dell’Ufficio nazionale per la diffusione del Libro e la lotta
contro l’analfabetismo.
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Giovanna Mapelli
J. C. BARBERO, F. SAN VICENTE, ACTUAL. GRAMÁTICA PARA
COMUNICAR EN ESPAÑOL, CLUEB, BOLOGNA, 2006
Gramática para comunicar en español forma parte del proyecto
Actual, dirigido por el profesor Félix San Vicente de la Universidad
de Bologna-Forlì, cuyo objetivo es realizar una serie de estudios en
torno a la lengua española y a su contraste con el italiano. Se trata de
una obra novedosa por la manera de abordar la descripción de la
lengua, ya que no sólo se analiza el sistema lingüístico, sino que,
además, se examina el uso de la lengua y se identifican de modo sistemático las funciones comunicativas, propias de la relación interpersonal en un contexto de uso no especializado, y en particular de la
oralidad. Por este motivo, no es de extrañar que no se siga el orden
tradicional en la exposición de los contenidos o que se incluyan en
apartados diferentes las mismas categorías gramaticales. Otra aportación digna de ser mencionada es la dimensión panhispánica que se
adopta, mediante la adición de notas explicativas para las formas fonéticas, léxicas y morfosintácticas más usuales en Hispanoamérica;
asimismo, cabe resaltar que los autores han recurrido a corpora de
español como el C-ORAL (creado por la Universidad Autónoma de
Madrid) o el CREA (realizado por la Real Academia Española) para
los ejemplos.
La gramática se dirige a estudiantes de Español Lengua Extranjera
(ELE) que tienen que resolver cuestiones y dudas relacionadas con el
nivel B1 – con aproximaciones al nivel B2 – del Marco Común Europeo de Referencia. Si bien no se adopta un planteamiento contrastivo, de las observaciones y de las advertencias que se insertan, se
puede deducir que el público privilegiado es fundamentalmente italófono.
El libro está compuesto por diez capítulos en los que se consigue
conjugar una descripción detallada de las categorías gramaticales con
la dimensión pragmática (cortesía lingüística) y textual (marcadores
del discurso).
Tras el primer capítulo – Sonidos y grafías –, que sigue un planteamiento tradicional en la descripción fonética y fonológica del español, en Formación de palabras (cap. 2), se vislumbra el intento de
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los autores de examinar las tendencias léxicas del español actual: se
repasan los principales procedimientos que se emplean para enriquecer el caudal léxico de una lengua y, en particular, se señalan las
diferencias entre los usos generales y especializados de algunos afijos y su especial productividad en determinados registros. Ocupa un
lugar principal el análisis de los anglicismos por su rentabilidad en el
español actual (en concreto, en el ámbito económico, informático y
deportivo) tanto en su forma pura como adaptada.
Los capítulos tres (Determinantes y pronombres) y cuatro (Sintagma nominal) se estructuran de la misma manera: se centran en
las formas para pasar luego a examinar la dimensión comunicativa;
por ejemplo, se tratan la descripción y la presentación con los sustantivos y los adjetivos; la expresión de reacción ante hechos y noticias con los exclamativos o la expresión de fechas, edad, cantidades,
etc. con los numerales.
Los capítulos cinco y seis están dedicados al Sintagma verbal, cuyo núcleo temático es indudablemente la articulación sintáctica que
permite el verbo. También en estos dos epígrafes se focaliza la atención en la vertiente comunicativa: se aborda la narración y la descripción en los diferentes tiempos a partir de la morfología de las formas
no personales del verbo, del presente de indicativo y de todos los
tiempos del subjuntivo (cap. 5), de los tiempos del pasado, del condicional y futuro (cap. 6). Asimismo, se plantea la oposición entre
subjuntivo e indicativo en las subordinadas y en las oraciones independientes, subrayando las funciones comunicativas que se pueden
realizar: expresión de la opinión, la duda, el deseo, la condición, el
consejo, el mandato, etc. El tema de la oración compuesta se completa en el capítulo siete, Nexos, en el que, tras una revisión de las
funciones de las preposiciones, se indican las conjunciones y las locuciones conjuntivas que introducen las subordinadas finales, causales, consecutivas, concesivas y, por supuesto, los tiempos y modos
verbales que rigen.
Los últimos tres capítulos proporcionan nuevas perspectivas de
estudio de la gramática, ya que incluyen de manera sistemática nociones de lingüística textual y de pragmática para sustentar un análisis que tiene en cuenta tanto el significado léxico como la actitud del
hablante ante lo comunicado, y el proceso de recepción e interpretación de lo codificado por el oyente.
El capítulo ocho, Marcadores del discurso, analiza aquellas unidades que no cumplen su cometido sólo en el marco de la sintaxis oracional, sino también en el discurso, es decir, en el acto concreto de
comunicación. Los autores han elegido sólo aquellos marcadores
que consideran más útiles para la conversación, producción, com-
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prensión y organización de textos sencillos argumentativos y de opinión de acuerdo con el nivel de competencia de los estudiantes a los
que se dirige esta gramática: los estructuradores de la conversación
(8.2.) y los estructuradores del discurso (8.3.).
El capítulo nueve es la aproximación al concepto de Cortesía lingüística y a las principales estrategias que el hablante puede utilizar
en la interacción conversacional. En concreto, se revisan de forma
sistemática algunas convenciones gramaticales con valor atenuador y
se enumeran las principales marcas de cortesía del lenguaje femenino en el que se rastrean más a menudo rasgos suprasegmentales y
preferencias léxicas y discursivas relativas a estas estrategias mitigadoras. Igualmente, se incluyen algunos ejemplos para llevar a cabo
los actos de habla de orden, petición y ruego, así como actos relacionados con la expresión del estado psicológico del hablante o del interlocutor según las normas sociales de comportamiento lingüístico
más adecuadas.
Tras las referencias a las expresiones y a los rasgos de la conversación de los que se ha hablado en todo el libro, el capítulo diez (El
español hablado) hace hincapié en algunas cuestiones de la oralidad,
insertándola en un marco teórico y de usos más preciso. En primer
lugar, se define la conversación y el registro coloquial; en segundo
término, se tratan los rasgos fónicos, léxicos y morfosintácticos que
son constantes en el español hablado.
El libro contempla una serie de apéndices y se completa con Actual. Cuaderno de ejercicios para comunicar en español, en el que el
estudiante puede encontrar, además de las actividades y sus claves,
las explicaciones de las referencias culturales y algunas anotaciones
léxicas.
Desde el punto de vista didáctico, tanto en la Gramática como en
el Cuaderno, sobresale el desvelo de los autores por realizar una
obra manejable. Para facilitar su consulta, son frecuentes las remisiones entre capítulos y se ha añadido un exhaustivo índice temático y
de funciones comunicativas; además, el libro está salpicado de llamadas de atención dirigidas al estudiante extranjero que lo alertan ante
posibles confusiones o errores. Este cometido práctico-comunicativo
resulta patente también de la numeración de los párrafos y de los
ejercicios (dos números se corresponden al nivel A1; tres números a
la transición hacia el nivel A2/B1/B2), y de la decisión tipográfica de
utilizar símbolos.
Para terminar, no cabe duda de que esta gramática es un valioso
instrumento de análisis del español para los estudiantes, profesores e
investigadores interesados en el funcionamiento gramatical y comunicativo de la lengua, ya que consigue conciliar la descripción gra-
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matical con una atenta reflexión acerca de los usos vigentes y de las
variedades diatópicas, diastráticas y diafásicas del español actual.
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Francesca Romana Paci
ANNA CASELLA PALTRINIERI, MERCATI DEL MOZAMBICO.
PERSONE, BENI E CULTURA DEI MERCATI RURALI DI SOFALA
E CAPO DELGADO,
MILANO, VITA E PENSIERO, 2005
Con la parola “mercati” in questo studio si designa in modo polivalente tanto il luogo fisico delle transazioni, quanto le attività commerciali che vi si esplicano, alle quali si aggiungono tutte quelle altre
attività e transazioni che implicano uno scambio di beni e ricchezze anche in casi molto particolari, come il patteggiamento e pagamento
della ‘ricchezza della sposa’, qui chiamata con il nome, non solo mozambicano, di “lobola”. Anche nei paesi più poveri il mercato è il posto più ricco; più ricco di tutto: di prodotti umanità, rapporti, occasioni. Il mercato, quindi, inteso come luogo e come insieme di persone,
è individuato anche come spazio sociale, e, come poi dimostrato da
molti dei casi analizzati, come l’unico spazio sociale normalmente
fruibile, spesso veramente l’unico momento possibile di incontro e
socializzazione.
L’autrice di questa ricerca, docente di antropologia presso l’Università Cattolica di Brescia, è una antropologa addestrata a lavorare
sul campo, che palesemente ama lavorare a contatto diretto con le
persone e le cose che studia. La rappresentazione dello stato di fatto
del Mozambico che ci offre in questo libro è ricca e dettagliata, mentre concede veramente poco a forme di estetizzazione o di emozione
spuria, e ancor meno a generica prettification dell’insieme. Nonostante l’asciuttezza formale, la partecipazione affettiva sottesa è ben
percepibile. Soprattutto le interviste, non poche e bene inserite nel
testo, rivelano un rapporto operante di simpatia intensa (etimologicamente e filosoficamente intesa) con l’essere umano intervistato. Proprio per questo le interviste stesse possiedono una qualità narrativa
notevole e producono in sé un certo grado di caratterizzazione umana degli intervistati, e, per estensione, del paese.
Il lungo sottotitolo è necessario e opportunamente scelto per delimitare l’area di indagine e i suoi confini spaziali, economici e culturali, in particolare in riferimento a una nazione come il Mozambico,
dove i rapporti e gli influssi reciproci tra le vaste zone del paese sono scarsi e spesso difficili. La stessa capitale, Maputo, sorge in una
posizione geograficamente eccentrica, molto più vicina al Sud Africa
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che al resto del Mozambico, tanto che dal punto di vista economico
e culturale non riesce a esercitare che una influenza molto parziale
sull’insieme del paese. Le due province prese in esame, Cabo Delgado e Sofala, sono entrambe affacciate sul mare: la prima, che è situata a Nord-Est, al confine con la Tanzania, non vanta centri urbani importanti, ma è vicina alle città in ascesa di Nampula e Nacala; la seconda, quasi al centro del paese, è la provincia dove sorge la città di
Beira, fino dagli inizi dell’epoca portoghese porto marittimo e poi
nodo ferroviario di importanza storica, politica, culturale e commerciale. Entrambe le regioni, incluse le periferie urbane, sono aree difficili, di grandi povertà e contraddizioni, nelle quali l’economia è prevalentemente una economia di sussistenza, dipendente da attività
agricole di impianto poco più che familiare, intersecata dal commercio di merci esterne a basso e bassissimo costo. Anche i mercati delle periferie urbane condividono, pertanto, come leggiamo in questo
libro, le caratteristiche dei mercati rurali, ovvero sono dotati di infrastrutture quasi nulle, e sopravvivono in equilibrio sempre metastabile, anche a causa di un fragilissimo ecosistema.
Il Mozambico non è più colonia portoghese dal 1975, ma la proclamazione dell’Indipendenza, dopo una lunga e cruenta lotta per la
liberazione, non ha portato vantaggi economici, anzi, molti portoghesi attivi nella produzione di ricchezza e di lavoro se ne sono andati, e con loro anche buona parte del livello tecnologico e gestionale raggiunto. Dopo l’Indipendenza, come è noto, la guerra civile ha
devastato il paese per molti anni, in un crescendo alimentato da interessi esterni molto complessi. Con una semplificazione piuttosto rozza si può dire che per molti anni (già durante la lotta per l’Indipendenza) URSS e paesi scandinavi hanno appoggiato il FRELIMO (Fronte de Libertacão de Moçambique), mentre il Sud Africa e la Rhodesia
dello apartheid, tollerate ambiguamente, se non in questa particolare
circostanza persino appoggiate dagli USA, aiutavano il RENAMO (Resistencia Nacional Moçambicana); ma ovviamente questo non è tutto,
e non c’è niente di semplice. Una lettura interessante per capire di
più è la lettera aperta inviata a Bush nella primavera del 2003 da Mia
Couto, grande scrittore mozambicano bianco, figlio di portoghesi legati al FRELIMO – quei portoghesi che non hanno lasciato il Mozambico quando molti bianchi lo hanno fatto (la lettera è integralmente
reperibile in versione italiana nel numero di aprile 2003 di “Nigrizia”). Altri elementi, soprattutto sulle protezioni garantite al RENAMO, si possono trovare nella History of Mozambique di Malyn Newitt
(1995; Historia do Moçambique, 1997, pp. 486-492). Non è superfluo
ricordare che per più di un decennio il Mozambico è stato additato
come uno dei pericolosi ‘stati canaglia’. Dal 1995 il Mozambico, il cui
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partito di governo è il FRELIMO, pur non avendo mai fatto parte delle colonie inglesi e pur essendo una repubblica, è un membro del
Commonwealth of Nations (grazie anche e soprattutto all’appoggio
del nuovo Governo del Sud Africa).
L’Indipendenza dello Zimbabwe nel 1980 e la nuova realtà del
Sud Africa dopo il 1991 hanno influito anche sul Mozambico. La
guerra civile ha avuto fine nell’ottobre del 1992, in Italia, con i Rome
General Peace Accords, mediati dalla Comunità di Sant’Egidio. Vale la
pena ricordare che le scuole missionarie sono state, anche prima della Indipendenza dal Portogallo, le maggiori tra le poche possibilità
di istruzione. Ora l’istruzione, pubblica e aperta a tutti, è una delle
priorità del governo, ma, per ovvie ragioni generazionali, molti dei
leader mozambicani nostri contemporanei provengono da scuole
missionarie cristiane, soprattutto da quelle cattoliche (Cabo Delgado
e Sofala sono regioni a prevalenza cattolica). In aggiunta alle indicibili atrocità e alle vicende tragicamente quasi fantapolitiche dei rapporti interni e delle relazioni internazionali, il conflitto tra FRELIMO e
RENANO ha portato al paese difficoltà enormi in ogni campo, distruggendo l’economia, impedendo l’istruzione e la formazione professionale, ignorando la sanità, e ovviamente non favorendo l’arte e
la letteratura.
Nel primo capitolo del suo lavoro (Beni e merci, simboli e segni)
Anna Casella Paltrinieri espone chiaramente e brevemente il programma del libro: “I mercati del Mozambico sono luoghi nei quali le
persone vendono e acquistano beni alimentari di prima necessità,
strumenti artigianali da utilizzare nella vita quotidiana, ma anche
merci di vario tipo e provenienza, come teli di plastica, bevande industriali, pile, radio, abiti, biciclette” (p.3). Appare subito chiaro che
la scelta antropologica di Casella Paltrinieri non è quella di una antropologia che fissi il proprio oggetto di studio in una immobilità fuori dal tempo, ma anzi si sforza di comunicare il complesso essere nel
tempo contemporaneo di quello che studia, tanto con le sue permanenze del passato, quanto con il suo evolversi nei rapporti con la
modernità globalizzata. Non è solo un rifiuto dello pseudo-folklore, è
una posizione di testimonianza responsabile del difficile divenire delle aree povere: vicino alle tradizionali piramidi di pomodori, cipolle,
al mais, e alle banane, infatti, si sottolinea la presenza di plastica, pile, radio, stoviglie (di plastica e terraglia), indumenti a basso costo,
gazzose e coca-cola. “Gli oggetti”, ci ricorda Anna Casella Paltrinieri,
“sono anche prodotti culturali…” (p.13). Qualcosa di simile ha affermato dall’altra parte del mondo la regista Katherine Dickmann alla fine degli anni ’90, intervistata dopo avere girato un film (A Good
Baby, dal romanzo omonimo di Leon Rooke) in un’area montana po-
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verissima del North Carolina: l’elettricità non c’era sempre, e dovunque, c’era molta più plastica che legno, pochi oggetti artistici o antichi, molto backyard junk, poco glamour, poche usanze folkloriche,
ma abbondanza di segni culturali della modernità povera. Mantenendo sempre chiaro in mente il grado differente di povertà di aree del
Mozambico e aree, sia pure depresse, degli USA, le due studiose offrono un esempio simile di intelligenza e onestà intellettuale.
Oltre alle merci, nei mercati “trovano spazio attività artigianali,
come quella del falegname [sedili, attrezzi etc.] e del sarto, e servizi
della persona, come quelli offerti dal barbiere o dal ristoratore” (p.3).
Tra questi uno degli aspetti più interessanti, è quello dei “sarti”. Nelle piccole botteghe con un lato aperto sul mercato, i sarti, generalmente uomini, operano con vecchie macchine da cucire Singer e uno
o due lavoranti, spesso per adattare e modificare i vestiti usati, prevalentemente europei (ma ormai non solo), che arrivano in Mozambico
in quantità notevoli attraverso gli enti e le associazioni della carità internazionale. I pacchi arrivano con all’esterno la scritta ‘Calamidades’,
in quanto erano inizialmente spediti come aiuti in caso di calamità;
dalla scritta i vestiti che vi sono contenuti prendono a loro volta il nome di ‘calamidades’. Questi oggetti di vestiario hanno destino e circolazione diversi. In parte sono effettivamente donati a chi ne abbia bisogno, ma in parte sono sottratti alla effettiva solidarietà e immessi
sul mercato e venduti ricavandone profitto (indebito): “dal circuito
della beneficenza a quello della compravendita” (p.3). Sia nel primo
sia nel secondo caso non è infrequente che i destinatari e/o gli acquirenti dei vestiti non solo debbano adattarli, ma vogliano anche ‘africanizzarli’ o comunque modificarli secondo il gusto e la creatività
personale. Il fenomeno della manipolazione delle ‘calamidades’ è
uscito dal Mozambico, affermandosi con punte interessanti di creatività in altri paesi africani, dove arrivano notevoli quantità di doni sotto forma di vestiario, come il Kenia, lo Zambia e la Nigeria, e poi è ritornato in Mozambico. Inizialmente si trattava di un fenomeno che riguardava solo le classi più povere, ora sta acquistando una ambigua
popolarità, enfatizzando l’africanizzazione della ‘calamidade’ come
sfida alla sua provenienza. Se da un lato il fenomeno produce lavoro
e sussistenza per le piccole ‘imprese’ sartoriali come quelle descritte,
e nello stesso tempo ha una sua qualità creativa positiva, dall’altro ha
prodotto anche danni notevoli alle produzioni tessili africane, attraverso traffici illeciti e comunque poco chiari. Anna Casella Paltrinieri,
per ora, non ha particolarmente approfondito questo aspetto, ma vale la pena accennare che ci sono ormai più che evidenti segni di
sfruttamento a scopo di lucro delle ‘calamidades’, incluse ‘calamidades’ false, ovvero importazioni illecite di vestiario a bassissimo costo
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proprio con lo scopo di immetterle nei mercati locali.
Altro aspetto molto interessante, e ampiamente approfondito nel
capitolo Struttura economica e questioni di genere, è quello dei prodotti della attività agricola familiare, prodotti coltivati nella tradizionale machamba, La machamba è il campo coltivato di proprietà della famiglia, completamente affidato al lavoro manuale della donna,
mentre spesso è l’uomo, marito, fratello, zio, o figlio maggiore, che si
occupa della parte finanziaria, assumendo aiuto umano temporaneo
e commercializzando i prodotti: “Le donne hanno la loro machamba.
Ognuna di loro ha la sua machamba… è la donna che domanda al
marito ‘Trova un’altra persona perché così dividiamo il lavoro… il
campo si lavora in due’…” (Intervista, p. 45). Se il lavoro manuale
nella machamba e il lavoro domestico sono di norma femminili, ben
più complicata è la realtà familiare, così come la proprietà, non perpetua, della machamba, il diritto ereditario, le norme d’uso della terra, i tipi di coltivazione permessi. Il quadro è molto complesso, perché è il risultato di intersecazioni di struttura familiare (incluso il “lignaggio”!), di genere, di relazioni giuridiche, di consuetudini, bisogni, consumi, ecosistema, società e politica.
Non è possibile rendere giustizia in breve a un libro ricco e complesso come questo. Gli aspetti dei mercati trattati da Anna Casella
Paltrinieri sono troppi. Le pagine sul “lobola”, la dote che il marito
paga alla famiglia della sposa in quasi tutti i paesi dell’Africa subsahariana e non solo, potrebbero costituire uno studio a sé, e sono testimonianze e racconti interessanti anche per la posizione femminile,
perché se il “lobola” è pagato alla famiglia, la beneficiaria principale
è la sposa, la donna, che in caso di fallimento del matrimonio non
sempre deve restituire la ricchezza acquisita. Ma, leggiamo, c’è comunque un problema di genere, “di rapporto di potere tra i sessi di
relazione tra sistema simbolico e ossatura economica della famiglia,
… il rapporto rimane entro una cornice squilibrata a vantaggio del
maschio” (p.57).
La seconda parte del libro, Persone, beni, cultura, è dedicata a
mercati precisi delle aree studiate, e da un certo punto di vista è la
più gradevole e gratificante per il lettore, ma anche la più difficile da
descrivere brevemente. Ci sono pagine vivacissime di rappresentazione realistica, come quelle dedicate al mercato di Caia sulle rive
dello Zambesi (p.67), e quelle sulla feira di Sena (p.73), antica città
swahili, dove gli artigiani lavorano i loro prodotti direttamente al
mercato (forse unico esempio dove entra qualcosa che assomiglia all’immaginario europeo di un mercato africano!). Altrettanto vivace è
la descrizione dei discorsi del e sul mercato nella parte conclusiva
del libro, dove si trova anche la maggior parte delle interviste.
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Anna Casella Paltrinieri non trascura di mostrare una certa diffidenza per il concetto di etnia, tiene sempre presente l’interrelazione
di potere e comunità, non trascura la fame di tecnologia del Mozambico, la povertà diffusa, il comportamento economico, la sociologia
dei consumi, in un ‘Africa non omogeneizzata, non tradizionale, non
moderna, non post-moderna, ma laboratorio: “La mia idea è che questa Africa ‘altra’ che appare sui mercati si stia costruendo proprio a
partire dalla sintesi fra vecchio e nuovo, fra reciprocità comunitaria e
contrattazione sociale ma, ancora di più, dalle alternative spontanee
e creative che la gente sperimenta nella vita quotidiana.”(p.6).
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Francesca Romana Paci
IL TEMPO È UN CAMALEONTE SEMPRE IN VIAGGIO
PAP KHOUMA, NONNO DIO E GLI SPIRITI DANZANTI,
BALDINI CASTOLDI DALAI, MILANO, 2005.
Quando nel 1990 Garzanti pubblicò Io, venditore di elefanti del
senegalese Pap Khouma quasi nessuno si aspettava che un immigrato africano potesse non solo pensare e scrivere un racconto in italiano, ma soprattutto che potesse dare forma narrativa a una storia individuale di immigrazione, che di fatto era anche un aspetto nuovo e
concreto della realtà italiana. In quegli anni l’arrivo di tanti giovani
uomini da paesi tormentati, per molti italiani paesi quasi ignoti o leggendari, era un fenomeno mal conosciuto e mal percepito, ancora
meno compreso di quanto non sia oggi. Quel piccolo libro, ambientato negli anni ’80, raccontava una realtà anche nostra da un punto di
vista del tutto nuovo e forniva inoltre molte informazioni su quei lontani paesi africani; ma era ancora presto per una percezione allargata
dell’insieme dei problemi in campo. Allora non si parlava di Islam
con l’insistenza e la frequenza con cui se ne parla oggi, non si parlava ancora scientificamente di globalizzazione, e le osservazioni quasi
casuali del narratore, come quelle che si citano qui di seguito, avevano buone probabilità di passare inosservate da parte dei più: “Una
volta nel mio paese erano tutti animisti… Poi dal deserto sono arrivati gli arabi e siamo diventati mussulmani”; o come: “L’Africa è governata male… A lavorare sono in pochi. Tutti dipendono da loro”; o:
“In Africa diciamo: sono gli spiriti… a scuola mi hanno insegnato a
non credere negli spiriti… ma tutti continuano ancora oggi a parlarti
degli spiriti (Khouma e Pivetta: 2006, 22-23). Gli immigrati erano soprattutto uomini, le donne erano pochissime; i volti, diversi dalla tipologia consueta in Italia, si profilavano netti con enfasi involontaria
e senza spiegazioni immediate. Non era facile rendersi conto che
quel libro era la storia di un immigrato in Italia e simultaneamente
era una storia italiana.
La scelta di indicare sulla copertina di Io, venditore di elefanti, subito dopo il nome dell’autore, “A cura di Oreste Pivetta”, si dimostrò
funzionale nello stemperare la sorpresa. Inoltre, data la posizione e il
lavoro di Pivetta come uomo di cultura e giornalista, l’indicazione
equivaleva a una presa di posizione culturale, politica e sociale. L’o-
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pera, dunque, si presenta come una collaborazione: Pap Khouma,
nel suo italiano, racconta a Pivetta, Pivetta ascolta e scrive il racconto in italiano più professionale. Il libro non è l’unico del suo genere.
Dagli inizi degli anni novanta, escono a stampa in Italia un certo numero di produzioni narrative e documentarie dovute a collaborazioni tra immigrati e intellettuali italiani. Se ne ricordano, per necessaria
brevità, solo alcuni, ma sono ormai molti, molti di più: Chiamatemi
Alì di Mohamed Bouchane, con la collaborazione di Carla De Girolamo e Daniele Miccione (1990); La promessa di Hamadi (1991) e La
memoria di A. (1995) del senegalese Saidou Moussa Bà, con la collaborazione di Alessandro Micheletti; Volevo diventare bianca di Nassera Chorha, con la collaborazione di Alessandra Atti di Sarro (1993).
In Io, venditore di elefanti il racconto è condotto in prima persona e si propone, quindi, apertamente come una testimonianza autobiografica, ammesso, e da parte di chi scrive accettato solo in parte,
che l’autobiografia sia un genere possibile. Pivetta presta la propria
competenza linguistica a Khouma, che è il creatore ufficiale del racconto. Può sembrare un rapporto semplice, ma in realtà non lo è, anche se non possono esserci assolutamente obiezioni circa la paternità di Khouma. Su questo argomento ha scritto recentemente Cristina
Lombardi Diop (Lombardi Diop: 2005). Pivetta si trova in una posizione in buona parte non dissimile a quella di un traduttore, ma da
parte sua anche Khouma, quando racconta in italiano la sua storia a
Pivetta, a sua volta traduce. L’argomento è molto vasto e, da quando
l’irlandese Brian Friel ha portato all’attenzione dei cosmopoliti del
mondo il grande e multiforme tema della ‘traduzione’ (con il play
Translations, 1980), è un argomento discusso e dibattuto da molti,
tra i quali Seamus Heaney, Edward Said, Homi Bhabha, Jacques Derrida. Pivetta trasportando (‘tradurre’ vuol dire ‘trasportare’) il racconto dalla narrazione orale alla lingua italiana scritta, accoglie e rispetta
quanto può la voce di Pap Khouma; la voce, nella forma di io narrante, è presente con sua forza e vitalità, parti fondanti del patto implicito tra Khouma, Pivetta, e i lettori. Nella Introduzione alla più recente
edizione di Io, venditore di elefanti, Pivetta ricorda: “Scrissi tenendomi nelle orecchie qualcosa del rock senegalese… il rock dettava un
po’ i tempi alle frasi, come battere i piedi…” (Khouma e Pivetta:
2006, 8). Il ritmo della scrittura conferma l’affermazione, il tono è vivace, veloce, inoltre la scelta di un io narrante contribuisce a un effetto di autenticità molto accattivante, coinvolgente; ma il successo
del libro, che ha avuto numerose ristampe e continua a essere discusso, è dovuto soprattutto all’argomento e alla scelta di porlo in forma narrativa essenziale, non mediata da elaborazioni e commenti.
Passati quindici anni di vita e lavoro in Italia, Pap Khouma ora
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possiede e controlla la lingua italiana tanto bene da poter concepire
e scrivere un romanzo in autonomia. Con Nonno Dio e gli spiriti danzanti Khouma da narratore di una testimonianza è diventato scrittore, come, del resto, è avvenuto, e avviene, per non pochi altri immigrati con storie simili o anche molto diverse alle spalle (sono ormai
qualche decina). Khouma sceglie di scrivere Nonno Dio e gli spiriti
danzanti in terza persona e di inserire ampie parti di dialogo. Conviene anticipare subito che il suo italiano in questo primo romanzo
autonomo è buono, vivido, efficace, sotto controllo. Si deve ricordare a questo proposito che Khouma, come molti immigrati, è stato in
una certa misura avvantaggiato rispetto all’apprendimento di una
nuova lingua, perché quando è arrivato in Italia era già bilingue; nel
suo caso disponeva da sempre del francese, lingua ufficiale del Senegal, e del wolof, altra lingua ufficiale del paese.
Nonno Dio e gli spiriti danzanti è un romanzo molto ricco, qualche volta addirittura straripante, di temi, motivi, dettagli, e insieme
problematiche di ampiezza sconcertante. Anche i personaggi sono
molti, africani e italiani; alcuni sono più caratterizzati, altri meno; alcuni sono funzionali allo sfondo, altri integrati nella histoire; tutti, comunque, possiedono una grande evidenza e vitalità. Per leggere questo libro senza fraintenderlo e senza costringerlo in schemi prefissati,
bisogna per prima cosa rendersi conto che è un’opera mista di rappresentazione realistica e invenzione allegorica, entrambe le componenti a loro volta disseminate di metafore in espansione e di elementi surreali. La struttura del romanzo, l’avvicendarsi di tonalità e di voci, la trattazione degli argomenti socio-culturali e politici, di dati di
realtà e di elementi preternaturali (molto meglio definirli così piuttosto che ‘magici’), e infine lo stesso ritmo narrativo, confermano a
ogni pagina la compresenza di realismo e immaginario allegorico. La
parte realistica e quella allegorica si alternano, qualche volta si mescolano o si sovrappongono, ma si rivelano ogni volta distinguibili e
complementari, l’una appoggio dell’altra, sia in forma di episodi sia
in forma di personaggi e di cose.
La storia narrata non ha un intreccio che si presti al riassunto,
quanto piuttosto un récit di qualità modernista, ma si può, comunque, enunciarla brevemente. Siamo nell’anno 1992, un immigrato del
Sahaél, ora residente a Milano, di professione infermiere, ritorna nel
suo paese di origine, appunto l’immaginario Sahaél, per le vacanze.
Non sa, per poche ore di scarto, che si lascia alle spalle una innamorata italiana quasi massacrata da un balordo. In vacanza in Sahaél deve affrontare aspetti gravi e meno gravi del suo passato personale e
del passato e presente della sua nazione africana. Sospettato del tentato omicidio della giovane donna italiana, dopo un periodo reso più
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lungo del previsto da arresto e detenzione, oltre che da eventi politici sahaéliani, è estradato su richiesta dell’Italia, e rispedito a Milano
per essere processato. La conclusione non conclude, è aperta, il narrato è aperto, il futuro è aperto, nulla è risolto. Tutto ricomincia di
nuovo, e la prospettiva è sempre quella della lotta per quello che vogliono tutti, per vivere, per la verità, forse per la giustizia, e forse per
la felicità. Per chi vive c’è la lotta, deprezzata, sbiadita dalla banalità,
forse vana, ma c’è, e deve essere affrontata.
Il romanzo ha un andamento circolare, nel primo capitolo il protagonista, Øg Dawuda Dem, infermiere in ferie dal lavoro, è su un
volo Milano-Taagh, e nell’ultimo è in trasferimento come detenuto su
un volo Taagh-Milano. Il tema della banalità, una banalità quotidiana
che sembra indifferente sia agli eventi tragici e dolorosi sia alla trivialità e al comico sempre compresenti, richiama irresistibilmente la
quotidiana, burocratica, stupida, “banalità del male”, entrata nel discorso mondiale dopo Hannah Arendt. Khouma non discute, non teorizza, si attiene a una economica e asciutta rappresentazione, che tuttavia lascia surrettiziamente intuire una linea argomentativa sottesa.
La struttura e l’unità del romanzo sono influenzate dalla natura
mista di realismo e allegoria, alla quale si è precedentemente accennato. Il narrato è diviso in venti capitoli, di lunghezza notevolmente
variabile. Il ritmo dell’azione è sempre veloce, la narrazione non ristagna neanche quando i dettagli realistici si accumulano per costruire con forte rilievo luoghi e situazioni.. Nelle parti dove l’invenzione
allegorica prevale, però, il ritmo si fa ancora più veloce, incalzante,
nell’insieme trascinando il lettore in una ciclonica sequenza di eventi e immagini. Annunciata nei primi quindici capitoli, dove è intermittente, l’accelerazione del ritmo diventa particolarmente evidente negli ultimi cinque capitoli, dove la sfera pubblica si impone nel foreground e condiziona quella privata, che da primaria recede a comprimaria.
Il cambiamento negli ultimi capitoli è netto, uno spostamento dell’enfasi e della focalizzazione che non ci si aspetta. Questa brusca accelerazione del ritmo può sconcertare, e di fatto entro una visione
normata della struttura narrativa, può essere percepita sia come nonapprofondimento sia come dis-equilibrio. Osservando più attentamente la composizione delle parti, però, si nota che l’accelerazione,
legata agli elementi allegorici, è varie volte annunciata anche entro
quei capitoli dove prevalgono la rappresentazione realistica e il privato. Si delineano così le prime comparse della tecnica di aggancio,
che per mezzo di anticipazioni e riprese tesse una rete narrativa che
giustifica se stessa. Si potrebbe persino sostenere, mettendo in rapporto allegoria e pensiero di Øg, che l’accelerazione degli ultimi ca-
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pitoli sia una proiezione del pensiero attonito e sconcertato del protagonista che vive gli eventi nel e dal bozzolo di un carcere sahaéliano.
La tecnica dell’aggancio, quasi anaforica, ma ovviamente su un
piano derivato ma diverso dalla anafora canonica, è più evidente nei
collegamenti tra i capitoli, e anche tra le loro ulteriori suddivisioni:
l’argomento trattato, qualunque sia, non finisce con il capitolo, una
piccola parte dell’argomento stesso compare come ripresa, come una
estesa reduplicatio, all’inizio del capitolo seguente. Khouma, proprio
come se lavorasse a una rete, procede allacciandosi ogni volta alla
maglia precedente, raggiungendo un effetto di continuità pur narrando di continui mutamenti. Secondo uno degli usi canonici di anafora
e reduplicatio, così si può costruire anche una linea argomentativa,
quella che qui, come si è già rilevato, scorre evidente sotto la superficie del narrato.
Nonno Dio e gli spiriti danzanti, insomma, è tanto un romanzo
realista quanto un racconto allegorico. I segnali sono chiari e sono
già nelle prime pagine, dove il paese di origine del protagonista è
chiamato Sahaél (che in realtà richiama il nome di una vasta area occidentale africana, il Sahel, che comprende vari stati dall’oceano alla
Nigeria, Senegal incluso), e la sua capitale Taagh. Il Sahaél è una nazione africana fittizia, Taagh è una città africana fittizia. Khouma in
una intervista dice che il Sahaél è in parte rappresentazione del Senegal, in parte del Mali e che è situato nell’Africa occidentale; Taagh,
città sul mare, povera e ricca, antica e moderna, è in buona parte
rappresentazione di Dakar. Se il rapporto storico di Mali e Senegal è
un dato storico significativo (l’Impero del Mali, XIII sec. fino alla decadenza), la non identificazione univoca lascia a Khouma una libertà
molto maggiore, che gli è necessaria in quelle parti del libro, soprattutto l’ultima, dove, come si è detto, la politica entra con prepotenza
fulminea, e dove l’enfasi allegorica si inserisce più fittamente nella
rappresentazione realistica, e anzi la travolge in un precipitare di
eventi.
La narrazione procede in terza persona, in massima parte vista e
vissuta dal punto di vista di Øg; di tanto in tanto, però, interviene
un’altra voce, che non è quella di Khouma autore, ma quella, creata
come intermedia, di un narratore implicito, extradiegetico, non onnisciente, ma bene informato, forse da prima o forse dopo i fatti. La voce conduce il racconto in terza persona, e ha qualcosa che può far
pensare a un griot, ma solo attraverso più di un passaggio; comunque qui ha una natura narrativa che rimane indefinita. In termini di
histoire e récit, la voce extradiegetica è un ordinatore della histoire,
mentre Øg non può sapere altro che quello che cade sotto la sua
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esperienza, o gli è a sua volta narrato. Khouma è coerente e piuttosto abile nel superare i nodi che le sue scelte strutturali gli impongono, per cui gli interventi della voce extradiegetica non suonano sovrapposti o sovrastrutturali, ma integranti. La tecnica non è di uso
molto comune, ma non è nuova, soprattutto nella tradizione teatrale
europea (c’è anche altro, ma porterebbe fuori strada). Molto recentemente è stata usata dallo scrittore e regista irlandese Neil Jordan nel
romanzo Shade (2004), dove chi sa e racconta è un’ombra con una
voce (non un ‘fantasma’ tradizionale). Per inciso, anche in La promessa di Hamadi (1991) di Saidou Moussa Bà la voce che sa è quella di un dipartito, che ormai sa tutto. E anche in L’aventure ambiguë
(1961) di Cheikh Hamidou Kane ci sono voci che sanno. Le voci che
si trovano nelle opere degli autori ai quali si è accennato non son
uguali per funzione e collocazione alla voce nel libro di Khouma, e il
rapporto può non sembrare evidente; anche perché la voce extradiegetica in Nonno Dio e gli spiriti danzanti non è individuata come
quella di un dipartito, ma il rapporto c’è, e porterebbe a una linea di
ricerca comparatistica molto impegnativa. Per gli scrittori africani lo si
trova appunto in numerose culture africane nelle quali i dipartiti non
se ne vanno, rimangono, immanenti alla realtà materiale quotidiana –
troppi gli scrittori e studiosi che se ne sono occupati per citarli, qui
basti ricordare Birago Diop e la sua poesia “Souffles”, Yvonne Vera e
il suo romanzo Nehanda.
Dal punto di vista narrativo, lo scrittore che decida di usare una
‘voce che sa’, che informa il lettore alle spalle, per così dire, dei personaggi principali e in particolare del protagonista, rinuncia alle sorprese, ai colpi di scena, e in buona parte alla suspense. Dato che, come è evidente dalle brevi indicazioni fornite circa l’histoire, Nonno
Dio e gli spiriti danzanti ha anche alcuni aspetti del thriller e del poliziesco, rinunciare all’elemento suspense da parte di Khouma è stato
un rischio notevole, perché così facendo poteva compromettere l’effetto. Invece, il dato di fatto che Øg non sappia quello che i lettori
sanno, genera forte ironia (di fatto ironia tragica) e attesa, oltre che
una sorta di Einfühlung, di allineamento empatico con Øg e la sua
sorte. Anche questo non è un elemento nuovo, anzi, ma è sempre
stupefacente quanto si dimostri efficace se lo scrittore è abile – e basti pensare, negli ultimi anni, ai personaggi di John Banville (per
esempio in The Book of Evidence) e di Joseph O’Connor (per esempio in Star of the Sea). Øg non è sempre senza macchia, ma il lettore
si pone subito dalla sua parte.
Voci sono anche quelle dei frequenti e vivacissimi dialoghi, per i
quali Khouma ha un vero talento e gusto teatrale. Le voci dei dialoghi, inoltre, consentono a Khouma di mettere in campo altri punti di
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vista oltre quello di Øg. E voci sono anche “les mauvaises langues”,
che, come ci dicono studi antropologici sul linguaggio e sui griots,
non sono una invenzione di Khouma, che ne fa uso ampio e divertente, ma sono parte di della cultura wolof (e non solo). Vale la pena
ricordare che “les mauvaises langues” facevano una rapida comparsa
anche in Io, venditore di elefanti. È interessante notare che “les mauvaises langues” non sono solo maldicenza e dicerie, sono molto di
più, e sono coinvolte con il vero, il falso, con il potere, con la tradizione e la modernità. Spesso “les mauvaises langues” sono un ponte
di collegamento tra cultura tradizionale e modernità, per esempio riguardo ai “ladri di anime”, un argomento che per le sue connessioni,
incluso il potere pericoloso del linguaggio, meriterebbe una linea di
studio propria, ben oltre la loro comparsa in questo romanzo.
Parlando di Nonno Dio e gli spiriti danzanti, Khouma ha avuto
occasione di affermare che i protagonisti del romanzo sono due. Se il
principale è evidentemente Øg Dem, il deuteragonista è Birago Sumaré, amico sahaéliano di Øg fino dall’infanzia. Birago Sumaré compare sempre in contiguità romanzesca con il misterioso e sfuggente
César Napoléon, ma mai insieme a lui. Birago Sumaré è uno dei molti sahaéliani che hanno voluto cercare un destino migliore fuori dal
loro paese; nelle sue peregrinazioni africane e europee Birago incontra non poche sventure, e alla fine decide di ritornare in Sahaél. César Napoléon è un immigrato ricco, dall’aspetto europeo, o è un toubab (l’ambiguità è voluta), è vistosamente elegante, gira per Milano e
dintorni in Porche, beve aperitivi in Corso Buenos Aires, appare e
scompare senza spiegazioni. Non ci sono affermazioni esplicite nel
romanzo, ma dopo qualche avventuroso episodio e qualche intervento enigmatico della voce extradiegetica, sarebbe difficile non riunire Birago Sumaré e César Napoléon in una sola persona, sdoppiata, secondo un modello per alcuni aspetti simile a quello di Dr. Jekyll
e Mr. Hyde.
La voce, bene informata e quasi confidenziale, racconta che Birago Sumaré e César Napoléon, in una notte affollata e calda al Cairo,
hanno lottato fieramente, obbedendo a una “sfida irrefrenabile”: “Un
ladro di anime riconosce subito un suo simile. E tra di loro la sfida…
è rubarsi l’anima o trasferire il proprio corpo dentro quello dell’altro… César Napoléon svanì… Birago si ritrovò con l’elegante abito
gessato del toubab… la sua mente aveva già cancellato l’incontro…
Lo scontro era ripreso nella notte.” Nonostante questo episodio sia
posto quasi all’inizio del romanzo, non ci sono dubbi circa il ripetersi ciclico di altre lotte come quella nel futuro e circa l’alternanza della vittoria. La rappresentazione del combattimento notturno è un bellissimo pezzo di scrittura, una variazione su un tema epico, assimila-
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bile alle sequenze cinematografiche di duelli nel cinema contemporaneo fantastico di buona fattura (alcuni americani, giapponesi, e
qualcuno anche dalla nuova Cina) e, non a caso, reminiscente dei
grandi duelli divini della tradizione epica indiana (e non solo). Nel
passo sono da notare soprattutto lessico e ritmo, che determinano
velocità e emozione: “L’anima di César Napoléon aveva recuperato il
proprio corpo e aveva rubato l’anima dell’avversario, che subito dopo era riuscito a trarsi in salvo. César Napoléon, mutatosi in qualcosa di peloso simile a un gorilla, aveva cercato di mozzare il fiato del
nemico con la forza dei suoi arti. Il sahaéliano si era trasformato in
un turbinio, aveva avvolto il corpo del gorilla e penetrato i suoi polmoni. Il toubab lo aveva sloggiato e il turbinio era divenuto un’enorme iena bavosa. E per tutta la notte, nonostante il costante affollamento delle vie della capitale egiziana, né i militari o i poliziotti in
pattuglia, né i tranquilli passanti o i vagabondi avevano visto o sentito un enorme gorilla e una jena bavosa che cercavano di scannarsi.”
(Khouma: 2005, 43-44). Del linguaggio, oltre al lessico, è da notare il
gusto per l’equilibrio e la simmetria delle parti, in particolare nella
frase: “militari” e “poliziotti”, “passanti” e “vagabondi”; l’aggettivazione è altrettanto simmetrica, e ritmata sul ripetersi di due elementi in
coppia; l’uso stesso della ripetizione, inoltre, imprime alla rappresentazione un andamento veloce e ribadisce le immagini. Su un altro
piano si pone il senso di Birago/César. L’immigrato, originariamente
povero e puro, si è corrotto a contatto con l’Europa? La povertà lo ha
spinto a cogliere della cultura occidentale solo il potere del denaro?
Come, perché, dove, con quali incontri e scontri nasce la corruzione?
Non ci sono commenti e interpretazioni in Nonno Dio e gli spiriti
danzanti, c’è, invece, una rappresentazione inquietante.
L’inestricabile dualismo di Birago e César, però, pur complicato
dalla corruzione, non può sfuggire a tentativi di interpretazione. È
metafora della lotta tra il bene e il male? Ma come sono distribuiti tra
bianco e nero? È la lotta di due culture? Come distribuite? È la resistenza dell’uomo africano che non vuole farsi rubare l’anima africana
dal bianco? È la dichiarazione che non esistono razze, ma solo l’uomo, unico, positivo, arbitrario rappresentante di tutta la razza umana?
L’uomo che come uomo ha in se tutte le razze umane? L’uomo che
ha in sé nello stesso momento, tutte le barbarie e tutte le civiltà? È
tutte queste cose insieme? Non si può non pensare ai molti studi antropologici e filosofici sull’argomento, la maggior parte scritti e pubblicati nel cuore del secolo scorso. Oggi tutte le domande si ripropongono con una materialità e una urgenza ancora più forti e ineludibili. Basti un solo segno emblematico: Øg è africano, ma “la sua vita è a Milano” (Khouma: 2005, 205).
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Un aspetto molto importante e caratterizzante di Nonno Dio e gli
spiriti danzanti è la mescolanza di comico e tragico. E ancora una
volta si tratta di qualcosa che molti scrittori hanno adottato, ma se si
prova a tracciare una mappa di chi e come, ci si accorge che non sono poi moltissimi, e che non è facile mantenere la misura. Nel romanzo di Khouma la mescolanza degli elementi comici e tragici è sostenuta con leggerezza, presentata con tocchi molto rapidi, e coinvolge tanto l’Italia quanto il Sahaél. La rappresentazione, inoltre, ha una
sorta di trasparenza eidetica, e mette in moto il pensiero del lettore.
Øg appena sceso all’aeroporto di Taagh si scontra con la banale e
squallida corruzione di piccoli funzionari, un episodio con risvolti
comici, ma che introduce con forza l’elemento tragico della corruzione. La corruzione, ci si rende conto, percorre tutta la scala sociale,
dai piccoli funzionari ai rappresentanti massimi del governo del Sahaél. Più avanti un amico di Øg sosterrà che anche l’università è corrotta, e i professori si fanno pagare per farti passare gli esami. L’anno fittizio del romanzo, si ricorda, è il 1992, e il paese, si ribadisce, è
un paese fittizio. Non è certo solo Khouma a sostenere che la corruzione sia uno dei grandi problemi africani, inoltre in questo romanzo
anche l’Italia e l’Europa non sono risparmiate, dagli accenni ai rifiuti
tossici contrabbandati nei paesi poveri al traffico di armi. La collusione dei corrotti è trans-nazionale e sembra vicinissima, invincibile, ma
non grandiosa, anzi, squallida e persino comica.
Attraverso i pensieri di Øg, mentre cerca di risolvere i suoi problemi aeroportuali e di trasporto a casa, sono poi introdotti con ulteriori toni comici altri temi tragici e gravi, come le continue guerre,
evocate dal fatto che Øg è un disertore di una di esse; come la natura ambigua, talvolta corrotta, e comunque ondivaga della polizia; come i problemi del lavoro e dei trasporti nella lunga sequenza del taxi, entrambi qui già collegati con quello generale della modernità. La
commistione di comico e tragico investe veramente tutto il romanzo,
dagli episodi di vita privata a quelli di vita pubblica di importanza variabile. Spesso si tratta di commedia amara, quando riguarda povertà
e infelicità, qualche volta il comico si carica di affetto, come nel caso
della vicina di casa milanese di Øg, e della squadra di bambini della
sua famiglia allargata in Sahaél, del cibo non abbondante ma condiviso, della micro-comunità che si forma spontaneamente su un “carrapide”, un autobus pubblico. Il comico è sostituito da ironia amara
nei personaggi della madre africana che ha perso il figlio, nell’aggressione all’amica italiana, e in qualche altro caso, come la morte di un
amico immigrato in Italia. L’amica italiana, che è un personaggio
creato con affetto, è anche un personaggio con funzione di cerniera:
lei paga per i pregiudizi e i cliché italiani nei confronti degli immigra-
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ti neri, quando la aggrediscono per vendicarsi di Øg, che hanno preso per uno spacciatore; e ancora lei, con il suo cognome Colombo,
in un momento narrativo che è un vero relief drammatico, diventa
oggetto innocente di un comicissima identificazione rapidamente diffusa in Sahaél: l’italiana massacrata è la ricchissima erede di Cristoforo Colombo. Nel romanzo si incontra qualche interludio di dolcezza
amorosa, ma anche in quei casi Khouma riesce con la sua scrittura a
mantenere vivo un sottofondo di ironia che contiene dolore. Tanto in
Io, venditore di elefanti quanto in Nonno Dio e gli spiriti danzanti c’è
in realtà molto affetto, e soprattutto molto bisogno di affetto, ma è
sempre accompagnato da forme di ironia, come per deprecare tanto
impendenti pericoli, quanto un effetto patetico.
Un momento narrativo pungente, e particolarmente degno di attenzione per l’uso del comico con sottofondo storico amaro, è la storia di Yousouf Christ, come Øg ricorda di averla vissuta da bambino
insieme ai suoi due amici e coetanei Birago e Fidel: “Le tre pesti
piangevano quando vedevano Yousouf sulla croce… Yousouf… implorava in sahaéliano ‘Ho sete’… Nessuno gli dava l’acqua. Neppure
suo papà veniva a dargli da bere. Le tre pesti di notte sognavano
Yousouf trascinato, malmenato, picchiato dai soldati. E il papà di
Yousouf? Sempre assente. Le tre pesti erano arrabbiate con il signor
Christ, il papà di Yousouf Christ, che non interveniva mentre la gente scagliava sassi contro suo figlio…”. Sotto la spontanea interpretazione dei bambini, che è indubbiamente divertente, il racconto si carica di significato allegorico, e il figlio malmenato è una metafora, all’interno della rappresentazione allegorica, di ogni perseguitato,
mentre la conclusione dell’episodio evoca il sostrato africano: “Perché papà Christ non ha fatto niente mentre i papà degli altri uccidevano suo figlio? Non gli ha neanche trovato un potente gri-gri salvavita. Perché non amava più il suo unico figlio?” (Khouma: 2005, 5859).
Il capitolo dedicato ai ricordi d’infanzia di Øg, riguardo alla situazione sociale e alle compresenze religiose del luogo dove viveva, a
un primo livello è un florilegio comico di situazioni, ma sottesa contiene una realtà di situazioni e fatti quasi triviali, che si beffano delle
disquisizioni dotte: per i bambini era importante un luogo dove trovarsi e giocare, non importava se fosse protestante, cattolico o mussulmano. E anche la comunità degli adulti nel complesso riusciva a
barcamenarsi, a destreggiarsi senza troppi danni, mantenendo vive le
tradizioni animiste, o almeno alcune di esse, accanto alle religioni cristiane, all’Islam, e anche accanto a una fede laica, come quella del filo-cubano padre di Fidel. Da un certo punto di vista sembra che nel
quartiere di Øg quando era bambino si fosse quasi realizzata una so-
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cietà pluralistica, con diritti e doveri, tolleranze e limiti. La madre di
Fidel, per esempio, è una vietnamita cattolica. In tutto questo sembra
che un certo grado di ignoranza aiuti, ma a danno della consapevolezza. La non-ignoranza d’altro canto non riesce certo a spiegare tutto.
Quello che palesemente la non-ignoranza non riesce a spiegare
sono gli “spiriti”, che condividono il titolo del romanzo con “Nonno
Dio”. La spiegazione di “Nonno Dio”, è abbastanza intuitiva e condivisa dalle usanze di un passato popolare in parte comune anche all’Europa rurale: Dio è un personaggio importante; nelle comunità i
personaggi più importanti sono gli anziani, per antonomasia i nonni;
non c’è dubbio che Dio sia più anziano di chiunque altro, essendo
sempre esistito; quindi gli si deve per rispetto e cortesia l’appellativo
di ‘Nonno’. Anche nello Zimbabwe, per non fare che un esempio
africano, l’antenata leggendaria che è il principale spirito guardiano
del paese è chiamata ‘Nonna’, ‘Mbuya Nehanda’. C’è qualcosa di intimo e affettuoso in questi appellativi ‘Nonno’ e ‘Nonna’, qualcosa di
quasi perduto in occidente, dove oggi se ci si rivolge agli anziani con
quegli appellativi fuori della famiglia, lo si fa o con tono condiscendente o per dileggio.
Gli ‘spiriti’ in generale, e quelli ‘danzanti’ della cerimonia del n’depp rappresentata nel romanzo in particolare, sono una questione
più complessa. Le cerimonie e i rituali di esorcismo, così come le origini culturali degli ‘spiriti’, e la perduranza delle credenze circa la
presenza quotidiana degli ‘spiriti’ anche in seno alle religioni monoteiste (incluso l’Islam), sono descritte da numerosi studi di antropologia, e persino di storia della medicina e psichiatria. I contorni continuano a essere sfumati. Khouma sceglie di attenersi a una rappresentazione attenta, vivace, inserita nella narrazione, coinvolgente, e, come ci si aspetta, enigmatica. La sacerdotessa che presiede alla cerimonia, la Zia Aby, è un personaggio interessante, non tanto per la
funzione ieratica che assolve nel n’depp, quanto per altri elementi
che le conferiscono altre funzioni. Anche Zia Aby è una cerniera fra
culture. Per esempio per la sua amicizia e collaborazione con uno
psichiatra europeo dopo il n’depp, che suggeriscono rapporti biunivoci di tradizione e nuova scienza; per la sua pacatezza da studiosa:
“I rap [spiriti] e il mondo invisibile fanno parte dei nostri miti. Ogni
popolo ha i propri miti”; e più ancora per la sua risposta ai “vecchi”
della comunità, che rappresentano chiusura e intolleranza, e la rimproverano per i suoi riti “satanici”: “La zia si alza in piedi, apre la porta, indica l’uscita e dice: ‘Andate a risolvere la situazione devastante
in cui versa il Sahaél. Siamo governati da autocrati e da ‘cleptocrati’,
tutti maschi carenti. I giovani, i nostri figli, sono in guerra: Il popolo
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è stanco… e voi siete qui a rompermi le scatole a causa degli spiriti?
Ascoltatemi, io credo in Nonno Dio mentre voi siete dei mistificatori.
Fra pochi giorni il n’depp finirà. Dopo radunerò le donne del Sahaél
e dirò loro che è arrivato il momento di prendere in mano il destino
di questo Paese… “ (Khouma: 2005, pp.136-137).
Aby Mané e i suoi spazi di influenza segnano la zona di passaggio verso la rappresentazione delle speranze e delle insolvenze della
politica vorticosa del Sahaél, incluso il nuovo femminismo. L’oratoria
di Aby Mané è preceduta, non a caso, dalla menzione del settimanale popolare e populista di Taagh, dal nome evocatore di “Langue
Tranchante”. Quello che segue non potrebbe essere una introduzione migliore al vortice politico. La gente del Sahaél, il popolo, è pronto a cambiare opinione a ogni sollecitazione: tutto è colpa del n’depp, basta cerimonie pagane, basta spiriti, non ci si deve credere,
ma poi è colpa degli spiriti se c’è siccità, se ci sono rivolte, se i soldati muoiono, mentre le elezioni sono una farsa e la malaria imperversa. Con il capitolo quindicesimo, come si è già accennato, la politica
del Sahaél comincia la sua parata sincopata, farsesca e tragica.
In tutto questo, i riferimenti diretti al Colonialismo sono rarefatti,
ma non pochi sono i segni indiretti e le allusioni che si collegano ai
rapporti con l’Europa e l’Occidente. Sono di natura diversa e di peso
diverso. Vanno dal nome della sedicente bananiera, che si chiama Le
vent du nord, e che traffica in armi e scorie tossiche, alla plastica abbandonata che inquina le spiagge; dagli infradito di plastica che sostituiscono le calzature locali al frequente ricorrere della parola “massone”; dalle automobili di terza e quarta mano che conservano targhe
europee finchè possono, per un esotismo molto rivelatore, alle presenze del cinema occidentale, fino alla raccomandazione di una suocera sahaélese alla nuora bianca in visita: “Il tuo cognome è importante figliola. E non lo devi mai perdere… Una volta da noi figli portavano il cognome della mamma… Noi donne avevamo un potere di
decisione talmente forte che i nostri uomini non lo avevano mai messo in discussione. Poi è arrivata la Francia… “ (Khouma: 2005, 118119). Si potrebbe elencarne molte altre, ma si toglierebbe al lettore il
piacere di scoprirle da solo.
Un argomento a parte sono i nomi delle vie di Taagh: prima degli
eventi rivoluzionari e pseudorivoluzionari si chiamavano Place de la
Civilisation, Rue Victor Hugo, Avenue Valéry Giscard d’Estaing; dopo
si chiamano Avenue Thomas Sankara (ex presidente del Burkina Faso), Allées Nelson Mandela, Boulevard Malcolm X. Khouma è tutt’altro che ingenuo per quanto riguarda la politica africana. Può stupire
che non parli di Senghor, ma non si deve dimenticare che il paese
africano del romanzo è il Sahaél, non il Senegal; non si menziona
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nessun nome di uomo politico senegalese, neanche Abdou Diouf, o
Abdoulaye Wade. In realtà Senghor entra una volta nel narrato, senza il suo nome, ma attraverso tre versi di una sua poesia d‘amore
(Khouma: 2005, 148).
La cavalcata attraverso le vicende politiche del Sahaél è spietata:
si passa, in una deriva inarrestabile, dai ribelli detti”Libanesi” ai posti
di blocco governativi, dalla piccola corruzione alla disastrosa burocrazia, dal Carcere Militare ai temporanei successi dei ribelli, e poi al
“rimettersi in sesto del governo”. Finalmente sembra si arrivi alle elezioni, sorge anche un partito delle donne: “…noi donne e madri dobbiamo riconquistare in fretta i nostri tradizionali diritti cancellati da
secoli di islamizzazione, cristianizzazione, colonizzazione…” (Khouma: 2005, 195). Sembra che le donne raggiungano il successo elettorale, ma le elezioni sono annullate, i “Grandi Paesi” (scritti con le iniziali maiuscole) del resto del mondo propongono un “governo di
unità nazionale”. E tutto ricomincia come prima, inclusa la lotta epica e fantastica tra Birago Sumaré e César Napoléon; Birago alla fine
diventa il “nuovo padrone” del Sahaél, ma “ad interim”! Khouma non
rinuncia mai alla sua comicità amara e tagliente.
È stato detto che non sembra ben chiaro dove Khouma voglia arrivare con il suo romanzo, ma la implicita richiesta di un punto di arrivo o di una presa di posizione è mal posta, perché il romanzo rappresenta proprio una situazione che non ha un punto di arrivo, che
non può ancora avere un punto di arrivo. È in fieri, oggi, anche il desiderio, anche un o il programma di un punto di arrivo. Anche la teoresi è difficile, perché i parametri non sono affidabili; quello che si
può vivere e rappresentare è il corso e il mutamento delle cose. Ci
vuole un certo coraggio per una scelta come questa, si deve correre
il rischio di incompletezza, persino di fragilità, ma è una scelta non
nuova, peraltro, era stata anche, con le dovute differenze, la scelta di
James Joyce.
Khouma è un narratore competente e coinvolgente. La sua scrittura riesce a costruire e rappresentare un mondo in movimento, vivo
e sensuale, dove gli elementi realistici e quelli preternaturali si amalgamano spontaneamente. Se non ci fosse altro, basterebbe il sogno
che apre il capitolo diciottesimo a testimoniare le doti narrative di
Khouma: “ ’Signor Dem Øg, lei è libero!’ annuncia il direttore del carcere. ‘Ci scusiamo. Signor Dem Øg, lei è innocente. Raccolga le sue
cose e venga con me. Sua madre è venuta a prenderla.… Signor
Dem Øg, lei deve ringraziare i suoi potenti amici… lei ha sofferto
molto qui dentro. È stato più volte colpito dalla malaria. Ma ha dimostrato carattere’… Ora può abbracciare sua madre e correre da suo figlio Mory, per dirgli che suo padre non è un assassino…’” La rappre-
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sentazione è così forte che anche il lettore sente un sollievo quasi fisico, crede che il sogno sia realtà, lo crede come Øg, cosicché altrettanto quasi fisica è la disillusione al dissolversi del sogno: “Apre gli
occhi: non c’è né il direttore del carcere, né sua madre, né la libertà.
È stato soltanto un sogno. Per la prima volta era riuscito ad addormentarsi profondamente…”. Con il risveglio, con il ritorno all’incertezza, tutto continua, tutto ricomincia. Il tempo umano è un camaleonte sempre in viaggio.
BIBLIOGRAFIA
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Angela Tiziana Tarantini
LISA FUGARD, SKINNER’S DRIFT, LONDON, VIKING,
2005; PENGUIN 2006
Lisa Fugard è figlia del più famoso scrittore e drammaturgo sudafricano Athol Fugard e di Sheila Meiring Fugard, anche lei attrice e
autrice di romanzi abbastanza noti come The Castaways e A Revolutionary Woman. Cresciuta in Sudafrica, Lisa Fugard ha frequentato
scuole dove la lingua di insegnamento era l’inglese, ma in casa Fugard la lingua parlata più spesso era l’afrikaans: questo bilinguismo,
del resto diffusissimo nel paese, emerge costantemente dalle pagine
di Skinner’s Drift. Attualmente Lisa Fugard vive in California, collabora con il New York Times come giornalista, e ha pubblicato diversi
racconti su periodici letterari. Skinner’s Drift è il suo primo romanzo,
con il quale ha già ottenuto un successo notevole.
Il romanzo, narrato in terza persona, è in gran parte raccontato
dal punto di vista della protagonista Eva van Rensburg, la cui storia
parallelamente avanza nel presente e si ricostruisce a ritroso. Eva è
una giovane donna emigrata negli Stati Uniti durante il periodo dell’apartheid, suo padre è un afrikaner e sua madre è di origine inglese. Occorre precisare che, nonostante alcune innegabili somiglianze
fra la protagonista del romanzo e l’autrice, Eva non è Lisa, bensì un
personaggio autonomo che Lisa inventa come protagonista e autore
del romanzo. Per mezzo della storia personale di Eva van Rensburg,
Lisa Fugard conduce il lettore attraverso le tappe più recenti della tragica storia della nazione sudafricana. Eva ha trascorso infanzia e giovinezza in Sudafrica, nella fattoria isolata di Skinner’s Drift, il cui nome dà il titolo al romanzo. L’autrice colloca sapientemente la fattoria
al confine con il Botswana, nella valle del fiume Limpopo, un’area
nota per la sua grande bellezza naturale, motivo importante dell’amore di Eva per quella terra. La fattoria di Skinner’s Drift, come nella
tradizione sudafricana del “farm novel”, diviene un microcosmo all’interno del quale emergono le divisioni razziali, i pericoli della vita
di confine, le tensioni del Sudafrica degli anni ’80, e quelle tragedie
nascoste che la Commissione per la Verità e Riconciliazione avrebbe
(forse solo in parte) portato alla luce.
Eva van Rensburg aveva lasciato il Sudafrica un mese dopo il fu-
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nerale della madre, nel 1987, e vi fa ritorno solo nel 1997, dieci anni
dopo, per accudire il padre malato. A poco a poco emerge l’inquietante figura di Martin van Rensburg, padre di Eva, la cui natura e carattere saranno scoperti, e non del tutto, solo alla fine del romanzo.
Eva ha trascorso gli ultimi dieci anni negli Stati Uniti, spesso mentendo sulle sue origini; la situazione politica del suo paese, e il senso
di colpa che questa suscitava nei sudafricani bianchi, l’aveva spesso
indotta, durante gli anni trascorsi a New York, a presentarsi ora come
un’immigrata proveniente dalla Nuova Zelanda, ora come una studentessa inglese. Già dall’incipit del racconto è posto il contrasto tra
il suo legame affettivo con la terra sudafricana e il suo sentimento di
rancore, talvolta quasi di repulsione, nei confronti di quella stessa
terra:
September 1997. Eva pressed her forehead to the window and watched the
ruffle of waves rimming the coastline recede from view as the plane nosed
its way to Johannesburg. The dirt roads were visible, clawed into a land pitted and scarred by draught. She knew the hell of driving them […] Africa
lay stretched beneath her like the ravaged hide of some ancient beast, and
something fierce shuddered inside her; a love that startled her and set off
another round of tears […](p.1).
Molto forte è anche la dicotomia fra il senso di familiarità profonda con la sua terra, così bella e allo stesso tempo così dura e arida, e
un sentimento altrettanto intenso di estraneità, non ostile, piuttosto
anelante, nei confronti della nuova società postapartheid. Al suo arrivo, la protagonista si deve confrontare con un paese multietnico, come in fondo è sempre stato, tuttavia non più stratificato su base razziale, come quello che aveva lasciato dieci anni prima; le divisioni
nette fra le diverse etnie sono, almeno in teoria, scomparse. Nonostante gli anni vissuti a New York, in una società multirazziale come
quella statunitense, che vuole essere pluralistica, le avances dirette di
un sudafricano di colore la turbano in modo contraddittorio: Eva si
trova in un paese profondamente diverso da quello in cui era cresciuta, e si sente, se non inadeguata, certo impreparata. Anche la toponomastica contribuisce al suo senso di smarrimento; alcuni luoghi
hanno cambiato nome, come l’aeroporto Jan Smuts, che è stato ‘rinominato’ Johannesburg Airport. Con grande capacità psicologica, la
narrazione di Lisa Fugard trasmette al lettore l’ansia che accompagna
Eva van Rensburg al suo ingresso nel nuovo Sudafrica:
Gone were the young, nervy-eyed, white soldiers with their machine guns.
Instead the terminal seemed overrun with black taxi drivers asking her if
she needed a ride. No, no thank you, she said, her eyes sweeping across
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their faces. In the past she’d have handled them with a certain confidence,
an ongoing rapid discernment – trust this one, have nothing to do with that
character – her white skin at least giving her the illusion of security. Now,
she felt uncertain of herself (p.5).
Oltre al senso di estraneità della protagonista nei confronti di
questa società, con aspetti per lei tanto nuovi, si inizia a percepire
una ulteriore inquietudine di fondo. Era stato proprio un sentimento
simile, all’inizio del romanzo ancora vago e indefinibile, a portare
Eva van Rensburg ad abbandonare il Sudafrica dieci anni prima.
I dieci anni fra il 1987 e il 1997 sono stati tra i più intensi nella
storia della nazione sudafricana. Attraverso la tecnica con cui Lisa Fugard assembla i ricordi nel narrato, il lettore ripercorre gli eventi storici che hanno trasformato lo stato del Sudafrica da nazione stratificata su base razziale, con il governo del partito nazionalista al potere, a
uno stato democratico che riconosce e garantisce i diritti di tutti i suoi
cittadini, indipendentemente dalla loro etnia, lingua o religione, come si dice nella Costituzione. Con il ritrovamento dei diari della madre Lorraine, un espediente letterario divenuto un classico, anche
troppo usato, ma sempre efficace, Eva è di forza catapultata nel passato, al tempo della propria infanzia a Skinner’s Drift. I diari coprono
il periodo della vita di Lorraine dal 1974, anno in cui il marito aveva
acquistato Skinner’s Drift, al 1984, anno in cui lei era caduta in una
profonda crisi depressiva. Il personaggio di Lorraine van Rensburg
per alcuni aspetti ricorda Mary Turner, la frustrata e insoddisfatta protagonista di The Grass Is Singing di Doris Lessing: come Mary Turner,
moglie di Dirk, il proprietario di una fattoria poco redditizia, così Lorraine, di origini inglesi, non era mai riuscita ad abituarsi allo stile di
vita in una fattoria di boere.
Nel 1984, anno in cui l’insoddisfazione di Lorraine sfocia in una
grave depressione, in Sudafrica viene dichiarato lo stato di emergenza: Lisa Fugard descrive magistralmente, attraverso le pagine dei diari di Lorraine, e le reminiscenze che queste suscitano in Eva, il clima
di insicurezza e di terrore che invadono la società sudafricana ‘bianca’ al tempo della cosiddetta ‘strategia totale’, imposta dal primo ministro P. W. Botha. In quegli anni, il clima di sospetto e di insicurezza avevano raggiunto livelli senza precedenti, e la repressione nei
confronti dei membri e dei simpatizzanti dell’ANC era diventata più
dura che mai. Il 12 dicembre 1984 le pagine del diario di Lorraine così raccontano: “And yesterday I saw the soldiers patrolling the fence.
I know this is supposed to confort me, instead it made me terribly
nervous “(p.102).
Nel romanzo, quindi, la storia della nazione sudafricana è stretta-
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mente connessa alla storia personale dei protagonisti: il 1984 vede la
fattoria di Skinner’s Drift trasformata in campo base per i militari dell’esercito governativo, per i pattugliamenti alla ricerca di combattenti
allora definiti ‘terroristi’, e comunque di membri del movimento dell’ANC, allora fuorilegge. Gli uomini dell’ANC e chi li aiutava varcavano i confini, oltre i quali avevano stanziato basi militari e dove raccoglievano armi e reclutavano militanti per ‘la causa’. Gli eventi storici
a cui Lisa Fugard allude sono molto numerosi e anche con poche righe di informazione aiutano persino il lettore meno competente di
storia del Sudafrica a contestualizzare le vicissitudini dei protagonisti
del romanzo. Si possono così meglio comprendere le tragedie che si
sono consumate nella nazione sudafricana: dal Groot Trek, di cui Eva
ricorda le immagini stampate sui libri di storia, alle prime libere elezioni del 1994, attraverso la rivolta di Soweto del 1976 e la scarcerazione di Nelson Mandela del 1990. Alcuni dei drammatici avvenimenti di cui il paese è stato teatro sono presentati da Lisa Fugard per
mezzo dei suoi personaggi, che diventano rappresentazione simbolica del complesso mosaico della popolazione sudafricana. Il soldato
Neels, un timido ragazzo bianco di Port Elizabeth reclutato nell’esercito governativo per pattugliare la zona di confine, e che verrà trovato impiccato a un albero di Skinner’s Drift, diventa un simbolo delle
vittime ‘bianche’ del sistema sudafricano; l’uomo che la donna di servizio nera dei van Rensburg incontra sul terreno di proprietà dei suoi
‘padroni’ rappresenta tutti quelli che hanno creduto e lottato per il
nuovo Sudafrica, mettendo a repentaglio la loro vita per ‘la causa’;
così come Lorraine van Resburg incarna la docile, fedele e disadattata moglie sudafricana di origine inglese di uomini come il boer Martin van Rensburg. Lorraine, infatti, non si è mai realmente sentita ‘a
casa’ a Skinner’s Drift, e non si è mai adeguata alla società boera, come si evince dai suoi diari: “I would not skulk around, trying to hide
my Englishness, […] If I had the courage I would not go to any more of their [Afrikaners’] meetings. And I would not vote, I would tell
Martin I do not want to support the NP. If I had the courage I would
say, I beg to differ” (p.209).
Martin è sicuramente il personaggio più oscuro e inquietante dell’intero romanzo per molti aspetti della sua personalità, ma anche per
il rapporto disturbato di Eva con il padre. All’inizio della narrazione i
contorni della loro relazione sono sfocati, ma la loro natura è a poco
a poco rivelata, fino a che nelle ultime pagine, con un climax ascendente di notevole intensità, si apprende qualcosa di più: ma le zone
oscure restano. L’inafferrabilità di Martin van Rensburg è in parte data dal fatto che egli è sempre presentato dal punto di vista degli altri
personaggi; all’inizio del romanzo viene descritto, nella sua condizio-
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ne di malato, tramite Johanna, zia di Eva e sorella di Martin, e per
gran parte del romanzo i suoi tratti emergono dai vari ricordi degli altri protagonisti. La tecnica narrativa di Lisa Fugard, sempre grazie all’espediente dei diari di Lorraine, giustappone continuamente i ricordi dei vari personaggi, e i pensieri e i sentimenti della Eva van Rensburg ormai adulta. Il personaggio di Martin è pertanto descritto ora
da Eva, sia bambina, sia adolescente, sia giovane donna, ora da Lorraine (tramite i suoi diari), ora da Ezekiel, il suo fedele servitore di
colore. Qui Lisa Fugard opera una scelta che in un certo senso si potrebbe definire ‘naturalistica’: non delinea il personaggio di Martin
van Rensburg a tutto tondo, come invece fa con gli altri personaggi
del romanzo, bensì lascia che le sue azioni ‘parlino da sé’, e lascia al
lettore il compito di giudicare questo personaggio ambiguo. Il compito è complesso proprio perché Martin è sempre e solo visto da un
punto di vista esterno tramite gli altri. Il rapporto di amore e non
amore, e il sentimento di ostilità e allo stesso tempo di venerazione
che Eva nutre per il padre, e che il lettore chiaramente percepisce, ha
portato in passato Eva a un gesto tanto deplorevole, quanto disperato, nel tentativo di difendere e di capire il padre, e allo stesso tempo
di difendere se stessa. La ragione di quel comportamento si scoprirà
solo alla fine, ed è questa la parte più oscura, quasi da thriller, del romanzo.
Con il suo racconto Lisa Fugard opera un lento processo di decostruzione della figura del padre di Eva che sarà portata quasi a compimento al termine del romanzo. Eva aveva reso complice delle sue
azioni anche Ezekiel, che aveva tentato di rifiutarsi di obbedire ai
suoi ordini, sinché le minacce lo avevano costretto a cedere: “You
go to the police and there will be trouble. Big trouble! […] You think
they will believe you? Especially when I tell them how you went riding when you weren’t supposed to! Don’t you dare say anything.
Don’t you dare!” (p.99). Eva van Rensburg ha sempre avuto un rapporto speciale con Ezekiel, vivendolo sia come surrogato di una figura paterna sia come servo sul quale esercitare autorità insindacabile.
Fin da piccola si rivolgeva a lui per chiedergli piccoli favori in cambio di qualche rand extra. Era solita chiedere a Ezekiel di scavare fosse per seppellire le carcasse degli sciacalli che trovavano nel terreno
della fattoria. Inoltre, quando Eva era adolescente, i due andavano
spesso a cavalcare insieme, contravvenendo alle regole della società
sudafricana di allora. Il servitore era sempre felice di accontentarla,
sia per quel rapporto speciale, sia perché con qualche rand in più
Ezekiel poteva comprare al nipote Mpho qualche fumetto da leggere.
Dopo l’oscuro episodio, a cui spesso si allude fin dall’inizio del romanzo, ma reso esplicito nella sua atrocità solo alla fine, il rapporto
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fra Ezekiel ed Eva non era mai più stato lo stesso. Eva era l’unica
bambina bianca a cui Ezekiel aveva dato un soprannome in lingua
sotho, chiamandola Naledi, che in sotho significa ‘stella’. Ezekiel aveva dato a Eva un soprannome sotho proprio in virtù del legame affettivo che si era instaurato fra loro. Per Ezekiel, dare un soprannome
africano alla bambina di casa van Rensburg era un segno del profondo affetto che li legava come abitanti della fattoria di Skinner’s Drift,
pur separati dalle barriere erette dall’apartheid.
I nomi sono un altro aspetto interessante del romanzo: ogni
membro della servitù di colore ha due nomi, uno africano e l’altro
europeo. Dare altri nomi agli ‘indigeni’ era una pratica invalsa, in
parte ascrivibile alla difficoltà dei bianchi di pronunciare i nomi africani locali, ma in parte una strategia per privare i neri di un aspetto
fondamentale della loro identità. Era una prassi molto comune anche
fuori dal Sudafrica, in tutte le altre colonie inglesi: i ‘padroni’ bianchi
‘ri-nominavano’ i servi di colore. Cambiare il nome di un uomo significa esercitare una violenza, e nello stesso tempo asservirlo. Occorre
notare che per Ezekiel, invece, attribuire a Eva un nomignolo sotho
era stato un segno di affetto, mentre per i van Rensburg non chiamare i membri della servitù di colore con il nome sotho era piuttosto segno di indifferenza, se non di disprezzo. Il nome sotho di Ezekiel è
Lefu, ma il nome Ezekiel gli era stato dato come soprannome dalla
nonna, che in questo modo sperava che i bianchi non gli attribuissero un ulteriore altro nome, considerando ‘Ezekiel’ abbastanza europeo: “Eva was the only white child that Lefu had so honoured with a
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