SALTERNUM
SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ARCHEOLOGICA
A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO
REG. TRIB. DI SALERNO
N. 998 DEL 31/10/1997
ANNO XIII - NUMERO 22-23
GENNAIO/DICEMBRE 2009
GABRIELLA
d’HENRY
E D I TO R I A L E
C
soprattutto a Creta (si ricordano in proposito gli
scavi di Festòs e di Aghia Triada). Ma uno dei
grandi meriti di Doro Levi fu quello di estendere gli interessi degli studiosi italiani verso la
Turchia, la Siria, l’Albania, l’Egitto e Cipro, oltre
alla Libia che era già stata interessata da missioni di scavo italiane.
Dopo la lunga esperienza di Levi, che si
interruppe nel 1975, furono direttori della
Scuola d’Atene Antonino Di Vita ed il nostro
quasi-concittadino Emanuele Greco, che ha dato
un nuovo impulso a scavi e ricerche in terra
greca, coinvolgendo nella sua organizzazione
diverse università italiane.
Qualche anno fa la Scuola corse il pericolo di
chiusura, essendo entrata, erroneamente ed
incredibilmente, nell’elenco dei cosiddetti “Enti
inutili”: per fortuna si accorsero in tempo dell’errore e la cosa non ebbe seguito; ora combatte,
come tutte le istituzioni culturali, con il problema dei fondi, ed ha dovuto, a malincuore, ridurre il suo personale.
Nell’occasione del Centenario la Scuola ha
pubblicato un simpatico ‘amarcord’, nel quale
alcuni ex allievi della Scuola, ora docenti universitari o funzionari del Ministero per i Beni
Culturali, parlano della loro prima esperienza in
Grecia, con nostalgia e tenerezza; e tutti, senza
eccezione, legano la loro formazione culturale
all’esperienza ateniese.
Ritengo che sia necessario riflettere su tutto
questo, e non scordarsi mai che l’Italia è fatta
anche di queste eccellenze.
Gabriella d’Henry
ento anni fa, il 9 maggio 1909, con
Regio Decreto n. 373 venne fondata la
Scuola Archeologica Italiana di Atene
(ora chiamata, secondo la discutibile moda delle
sigle, SAIA); il decreto venne pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 30 giugno dello stesso
anno. E la Scuola venne inaugurata l’anno
seguente, il 7 aprile 1910. Si era a qualche
decennio dall’Unità d’Italia e dalla nascita dello
Stato italiano; fino a quel momento, nonostante
l’attiva presenza di alcuni archeologi di valore,
la cultura antichistica italiana era dominata dagli
studiosi tedeschi, di stampo prevalentemente
positivista.
Per la prima volta un’Istituzione culturale italiana si affiancava a storiche Istituzioni dei maggiori Paesi, europei e non, che avevano nella
Grecia classica il loro punto di riferimento ed il
loro centro di ricerca.
Già precedentemente un grande archeologo
italiano, il trentino Halbherr, aveva lavorato
nelle isole greche. Ma il primo direttore della
Scuola fu Luigi Pernier, che rimase ad Atene
diversi decenni: i suoi interessi di studioso si
concentrarono a Creta e Lemno; oltre a Rodi,
che in quegli anni era soggetta all’occupazione
italiana. Per un breve tempo fu poi direttore lo
storico dell’arte antica Alessandro Della Seta.
Nel marzo 1948, dopo le vicissitudini del
conflitto mondiale, la Scuola venne ufficialmente riaperta, sotto la direzione del triestino Doro
Levi, che, prima delle leggi razziali di cui fu vittima, aveva già lavorato a lungo in Grecia,
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GIANCARLO BAILO MODESTI
Le popolazioni indigene dell’entroterra
Bisaccia, 12.03.1997
N
ell’incontro di oggi scenderemo di
molto nel tempo rispetto alle cose di
cui abbiamo discusso insieme l’ultima
volta, in cui - se vi ricordate - eravamo rimasti,
a seconda delle cronologie, tra i 3000 e i 2000
a.C., dunque in un tempo molto remoto. Adesso
saltiamo tutto un lungo periodo, che è quello
dell’età del Bronzo, e ci spostiamo invece alle
soglie dell’epoca storica, in quella che gli
archeologi chiamano tradizionalmente prima Età
del Ferro: siamo quindi, in termini di cronologia
assoluta - per le cose più antiche che vedremo già nel corso del IX secolo a.C.
Faremo poi una veloce carrellata di quattrocinque secoli per cercare di vedere lo sviluppo di
questa cultura indigena detta di ‘Oliveto-Cairano’
nelle tappe più significative dei suoi mutamenti e
per capire appunto come si evolve questa cultura
indigena di fronte alle sollecitazioni della storia e
ai suoi stessi sviluppi.
La prima Età del Ferro è un momento essenziale per l’assetto più generale della penisola italiana.
Sono trascorsi gli anni cruciali intorno al 1000 a.C.,
che sono quelli durante i quali si verificano tutta
una serie di fenomeni di cui non parlerò in questa sede, e che soprattutto si concludono con il
formarsi di vere e proprie unità nazionali, quelle
che, praticamente, ci hanno accompagnato fino
quasi ai nostri giorni. Sto parlando delle unità
nazionali in senso regionalistico, per cui già negli
assetti delle popolazioni protostoriche che vivevano in quel periodo si vedeva una partizione
dell’Italia che corrisponde grosso modo a quella
che sarà poi delle regiones augustee - naturalmente con qualche piccola variante - e, tutto sommato, anche alla nostra divisione regionale odierna.
Fa eccezione proprio la Campania, i cui confini
odierni, come sapete, sono poco più che
un’espressione geografica, mentre al suo interno
essa è un crogiolo di culture campane e di altre
culture - come quelle di cui parleremo - che guardano a volte più verso il versante pugliese o verso
il versante lucano.
La Campania nell’Età del Ferro è percorsa
essenzialmente da due grandi filoni culturali:
quello degli incineratori villanoviani, che sono in
pratica i Protoetruschi, e poi gli indigeni cosiddetti della ‘Cultura delle tombe a fossa’. E’ una distinzione che, soprattutto nella definizione, rivela già
un’opposizione del rituale funerario tra popolazioni che incineravano, e cioè bruciavano i propri
morti e li deponevano in un’urna costituita generalmente da un vaso o da una forma fittile di
capannna, e popolazioni che invece, come facciamo noi, inumavano in semplici fosse terragne i
resti dei propri antenati. I centri più importanti del
gruppo villanoviano sono, a Nord, Capua e, nelle
nostre zone, Pontecaganano; vi sono poi delle
piccole appendici a Capodifiume, già in territorio
pestano, e l’ultimo avamposto di Sala Consilina,
nel Vallo di Diano, che probabilmente nell’Età del
Ferro è una sorta di enclave degli Etruschi di
Pontecagnano.
Sala Consilina poi, per la sua stessa vocazione
a metà tra Campania, Lucania e area enotria, deciderà molto presto, già nelle fasi finali dell’Età del
Ferro, per la vocazione enotria e se ne andrà nel
corso del suo sviluppo in tutt’altra direzione
rispetto a Pontecagnano e a Capua.
La ‘Cultura delle tombe a fossa’ si divide a sua
volta in due sotto-filoni, uno costiero, detto di
Cuma-Torre Galli perché raggiunge anche le
coste calabresi, che ha i suoi centri nelle zone
vicine a noi, come ad esempio S.Valentino Torio,
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SALTERNUM
l’epoca più antica, che è la prima Età del Ferro. Le
tombe sono - come dicevamo - tombe a fossa terragna che quasi sempre hanno una copertura in
pietre e ciottoli di fiume. Tolta la copertura, nelle
tombe appaiono i morti, con lo scheletro deposto
supino nella fossa e, accanto a questo, degli
oggetti che lo accompagnavano come corredo
personale.
Proprio dall’esame di ciò che compare in queste tombe cercheremo ora di ricavare dei dati per
quello che riguarda l’assetto di queste comunità.
Nella prima Età del Ferro i corredi sono generalmente abbastanza poveri e non particolarmente esuberanti; rarissimi sono gli oggetti di ornamento: si trovano infatti solo ornamenti funzionali, come la spilla che serviva a chiudere il vestito
sul petto. Le donne, oltre alla spilla, raramente
hanno qualche anellino o qualche bottoncino di
bronzo, ma si tratta nel complesso di corredi
molto sobrî. C’è poi il corredo ceramico, che
generalmente è costituito dalla grande brocca
biconica, all’interno della quale spesso c’è un piccolo attingitoio - una tazza o un’anforetta -, mentre, nei corredi più esuberanti, a questi due vasi si
aggiunge una tazza più grande che noi chiamiamo ciotola-attingitoio, perché rappresenta una via
intermedia tra una forma aperta e una forma chiusa. Il servizio ceramico era costantemente deposto
ai piedi del defunto sia nelle tombe maschili sia
nelle tombe femminili e il dato interessante, che a
volte non si ritrova in altre popolazioni indigene
contemporanee, è che si tratta sempre dello stesso servizio sia per l’uomo che per la donna.
L’elemento che cambia, però, e che distingue i
due sessi già a livello dell’esame degli oggetti nel
momento della deposizione finale, è invece rappresentato dagli oggetti di ornamento, perché gli
uomini hanno sempre spille del tipo ad arco serpeggiante, mentre le donne hanno la caratteristica
fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale), che è uno
degli elementi di tradizione adriatica che rimanda
all’area illirica e che non compare a Pontecagnano
o nella Valle del Sarno.
Se il servizio ceramico ai piedi del defunto è lo
stesso per uomini e per donne, l’uomo però è a
volte connotato con oggetti tipicamente maschili
come le armi - la punta di lancia ad esempio - o
con strumenti a lui funzionali, come il rasoio. La
S. Marzano e numerosi altri centri. Vi è poi, derivata probabilmente da questa dopo l’impatto con
i Greci, una cultura dell’interno che se na va però
verso Caudium-Montesarchio passando per
Avella, e che corrisponde a una sorta di ristrutturazione del mondo campano in un momento successivo alla destrutturazione avvenuta per
l’incontro con i Greci che, almeno per alcuni indigeni e in particolare per quelli di Cuma, dovette
essere particolarmente violento.
Ma il secondo sotto-filone, quello che a noi
interessa, è invece rappresentato dal gruppo detto
di Oliveto-Cairano, che ha i suoi centri principali
nell’alta valle del Sele a Oliveto Citra, probabilmente a Montecorvino Rovella e a S. Maria a Vico
- dove sono attualmente in corso alcuni scavi -, e
lungo il versante ofantino, appena superato il
varco appenninico e la Sella di Conza, a Cairano,
Calitri, Bisaccia, Conza della Campania e in tutta
un’altra serie di centri, tra i quali i più esplorati
sono quelli alto-irpini di Cairano e di Bisaccia.
Si tratta probabilmente, da quelli che sono i
dati archeologici, di una popolazione venuta un
giorno dall’altra parte del mare, dall’altra sponda
della costa adriatica e cioè dall’area cosiddetta illirica. I confronti più stretti si hanno ad esempio
con materiali dalla Macedonia. Probabilmente
attraversarono il mare, risalirono il corso
dell’Ofanto, arrivarono nei dintorni del varco
appenninico e si collocarono un po’ su tutte le
alture strategicamente importanti a dominare il
corso dell’Ofanto e del Sele. La via di comunicazione naturale Ofanto-Sele, attraverso la Sella di
Conza e il varco appenninico, è nell’antichità una
delle vie più importanti proprio per creare un passaggio, senza andare per mare, tra la costa tirrenica e quella adriatica ed è quindi una via di fondamentale importanza strategica, il cui controllo come vedremo - era ricco di conseguenze.
Le popolazioni di Oliveto-Cairano non raggiungono mai un livello urbano, vivono sempre
sparse in villaggi - ma in villaggi uniti da un rapporto di solidarietà -, creando un sistema che permetteva di controllare tutto il territorio circostante.
Come si presenta questa cultura al momento
della sua comparsa nelle nostre zone? L’evidenza
che abbiamo è ancora una volta soprattutto funeraria: non abbiamo gli abitati nemmeno per
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GIANCARLO BAILO MODESTI
donna invece, quando vuole connotare il proprio
sesso, presenta la fusaiola, che è un oggetto connesso con l’arte del filare e, quindi, con attività
tipicamente femminili.
Questo quadro già ci offre dati interessanti,
perché bisogna pensare che una tomba a fossa,
anche una tomba semplice come queste, deve
essere interpretata quasi alla stregua di una
fonte scritta o di un messaggio, ossia come un
insieme di segni che gli antichi hanno lasciato
non casualmente, ma volutamente, e che noi ora
dobbiamo cercare di interpretare. Non è casuale, ad esempio, la forma stessa di una tomba, o
se in una tomba è presente un oggetto piuttosto
che un altro, o, ancora, se un particolare oggetto si trova in un punto preciso della tomba piuttosto che in un altro. Tutto questo insieme di
segni costituisce un sistema dietro il quale c’è
un’elaborazione e una volontà cosciente ed è
proprio questa che noi dobbiamo cercare di leggere e interpretare, senza lavorare troppo con la
fantasia.
Che immagine ci restituisce, dunque, una
necropoli fatta di tombe di questo tipo? Ci restituisce l’immagine di una comunità non particolarmente ricca, che non aveva quindi un grande
surplus del quale poteva privarsi per donarlo, ad
esempio, come corredo funebre ai morti, e una
società tutto sommato abbastanza egualitaria. In
realtà, come l’antropologia moderna ci insegna,
una società veramente egualitaria probabilmente non è esistita mai; diciamo però che era egualitaria dal punto di vista delle nostre categorie
moderne, le categorie economiche attraverso cui
noi oggi misuriamo uguaglianze e disuguaglianze. Probabilmente, poi, va considerato che ci
sono segni che non sono rimasti all’archeologo
- si ricordi che spesso non si trovano neanche
tutti gli oggetti della cultura materiale che eventualmente erano stati deposti in una tomba -,
oppure segni, non della cultura materiale, che
nella tomba a livello funerario non venivano
indicati e che segnalavano però, all’interno di
quella comunità, una differenza tra individui (si
pensi ad esempio all’ipotesi che i cadaveri avessero tatuaggi, che noi non abbiamo più ma che
magari rappresentavano un elemento di prestigio all’interno della comunità).
Fig. 1 - Bisaccia (AV). Fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale).
Possiamo comunque dire che ricaviamo
l’immagine di una comunità che, almeno dal
punto di vista economico, non aveva al suo interno grandi differenze e in cui probabilmente esistevano ancora forme di gestione comune delle
risorse, che dovevano essere quelle agricole con
integrazioni di allevamento e di attività pastorali.
Soprattutto, il dato che colpisce e che risulta
insolito rispetto alle altre popolazioni contemporanee, è questa equivalenza sociale dell’uomo e
della donna: l’uomo e la donna si connotano, sì,
per la loro differenza sessuale, ma il servizio che
rappresenta l’individuo adulto ai piedi del morto
è assolutamente identico e vi è dunque una
sostanziale equivalenza dell’uomo e della donna
all’interno del gruppo; vi è, cioè, una divisione di
ruoli, ma un’uguale dignità e un uguale peso
all’interno della comunità.
La differenza passa invece, come spesso accade per queste popolazioni primitive, per le classi
d’età. Se andiamo ad analizzare le tombe degli
individui non ancora adulti, quindi non ancora
iniziati alla comunità, vediamo che anche quando
hanno un corredo particolarmente esuberante di
ceramica, hanno, sì, la tazza e lo scodellone, ma
non hanno mai il servizio tipico che comprende
la grande brocca e l’attingitoio. Hanno poi
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SALTERNUM
anch’essi le spille, che connotano, quando sono
bambini avanti nell’età, il sesso maschile e femminile. Ma a loro è negato il servizio che identifica
l’individuo adulto. Talvolta addirittura sono privi
del corredo ceramico e hanno solo ornamenti.
Dopo questo secondo livello di classi d’età, a
un livello ancora più basso si collocano i neonati
o i bambini nella prima infanzia, che di solito
sono deposti in piccole fosse sul terreno nelle
quali lo scheletro spesso non è rimasto se non
sotto forma di piccoli frustuli di ossa.
Le tombe di neonato si mostrano particolarmente interessanti perché al loro interno hanno
sempre e soltanto la grande spilla maschile dei
vari tipi ad arco serpeggiante, presente con
esemplari di dimensioni normali - quindi non
miniaturizzate per un bambino - se non, a volte,
addirittura di dimensioni considerevoli. Vi è poi
un esempio di tomba di infante in cui il neonato non era deposto nella fossa, ma vi era un
buco nel terreno con un grande vaso che conteneva all’interno le spoglie del bimbo. Insieme
alle spoglie del bambino si rinvennero un coltello di ferro, assolutamente improbabile come
oggetto d’ornamento personale del neonato,
un’enorme spilla ad arco serpeggiante e una
punta di lancia di bronzo, identica a quella degli
adulti maschi.
In un’altra tomba di infante, invece, non c’era
alcun oggetto di corredo, ma soltanto una punta
di lancia in bronzo, deposta a metà della piccola
fossa.
L’immagine che suggerisce questo modo di
deporre il neonato risulta abbastanza anomala: il
neonato, in pratica, non ha un corredo personale
e anche la spilla che chiude il vestito sul petto non
appartiene al corredo dell’infante, anche perché in
qualche caso, come in quello dell’enchytrismos (la
sepoltura entro vasi), la spilla serviva piuttosto per
chiudere il panno in cui i resti del neonato erano
inseriti. L’infante non ha dunque diritto al servizio
ceramico e neanche agli oggetti personali; quando poi si rinvengono elementi di tipo personale
come la spilla, si tratta sempre della spilla maschile di grandi dimensioni. A volte, addirittura, a ribadire questa connotazione maschile di individuo
adulto, sono presenti la punta di lancia e il coltello di ferro. Il neonato, dunque, in qualche modo
non esiste di per sé e non ha ancora una sua individualità, ma esiste in quanto collegato con la
figura paterna, perché è il padre che è garante del
neonato e nelle tombe di neonato dà la sua
impronta.
Anche questo è un dato che non trova confronto nelle culture indigene contemporanee, in
cui fin dalla primissima età i maschietti e le femminucce vengono connotati in maniera autonoma, anche se mai con tutte le prerogative proprie
del maschio o della donna adulti.
Questo è il quadro che dagli inizi della cultura, quindi dal pieno IX secolo a.C., prosegue fino
circa a tutta la metà l’VIII secolo a.C. Poi improvvisamente, in modo anche abbastanza repentino e
senza passaggi intermedi, le tombe più recenti,
che vanno dalla seconda metà dell’VIII agli inizi
del VII secolo a.C., si mostrano completamente
diverse. Sono tombe generalmente molto più ricche di materiali e soprattutto si osserva che si è
spezzata quella antica equivalenza tra il servizio
dell’uomo e il servizio della donna ai piedi del
morto. L’uomo, infatti, ha costantemente ai piedi
una grande olla che non è più l’olla biconica del
passato ma è la grande olla da derrate, quella che
costituisce il simbolo della ricchezza agricola e il
bene sostanziale del gruppo; al suo interno si
trova ancora spesso l’attingitoio, costituito da
un’anforetta o da una tazza. Per l’uomo, poi, si
può individuare tra il resto della suppellettile un
secondo servizio ceramico, che è deposto generalmente sulle gambe, sotto il bacino, e comprende un grande scodellone con, al suo interno, un
ulteriore vaso. Il corredo maschile presenta la
punta di lancia ormai realizzata in ferro e non più
in bronzo ed è anch’esso caratterizzato da specifici oggetti di ornamento: continua infatti anche
nelle spille la distinzione tra maschio e femmina,
con la spilla ad arco serpeggiante per gli uomini
e la spilla ‘ad occhiali’ per le donne, anche se vi
sono alcuni tipi di fibule -come quelle a navicella
o a sanguisuga - che condividono sia gli uomini
che le donne.
Come avevamo già visto comparire nelle
sepolture femminili dell’età precedente, nelle
tombe delle donne c’è adesso costantemente
quello che è il fossile-guida della cultura, ossia il
bracciale ad arco inflesso, che diventa in questo
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GIANCARLO BAILO MODESTI
momento molto più diffuso e canonico. Il bracciale ad arco inflesso, infatti, è presente in tutte le
tombe femminili e quando si trova in una sepoltura, anche al di fuori dai centri della cultura di
Oliveto-Cairano, si può essere certi di essere in
presenza di una donna di Oliveto-Cairano, perché
evidentemente questi bracciali erano qualcosa
che, nell’immaginario di quelle genti, ribadiva
l’identità culturale e l’appartenenza delle donne a
quel gruppo ben definito.
Le tombe femminili, a differenza di quelle
maschili, non hanno la grande olla da derrata ai
piedi, ma ai piedi hanno soltanto lo scodellone, a
volte accompagnato da un altro vaso: in sostanza,
le donne hanno ai piedi quello che nell’uomo
costituisce il servizio secondario e complementare, che è posto sulle gambe o vicino al bacino. E
questa è una differenza fondamentale rispetto alla
fase precedente.
Che immagine ci restituiscono già questi pochi
dati? Per quanto riguarda la società in generale,
che senza dubbio ha fatto un salto di crescita, i
corredi sono tutti sensibilmente più ricchi e, nonostante questo, cominciano ad avvertirsi al loro
interno le prime differenze di ricchezza.
All’interno dei corredi funebri si comincia a rinvenire anche suppellettile ceramica che non è prodotta in loco ma che è prodotta dalle culture indigene vicine, in particolare della Daunia. E questo
ci dice che si tratta ormai di una comunità che
produce anche più di quanto le basti per la sua
stessa sussistenza e che ha qualche cosa che può
scambiare. Mentre l’immagine della comunità
precedente era quella di una comunità tesa alla
sopravvivenza e chiusa al suo interno, questa è
l’immagine di una comunità invece in fase di sviluppo, che si apre all’esterno e che è in un
momento di profonda crescita.
Quello che cambia è, come si diceva,
l’equivalenza tra uomo e donna: improvvisamente l’uomo rivendica nella tomba i simboli propri e
sostanziali che ricordano la ricchezza del gruppo
e che vengono rappresentati dall’olla da derrate.
Ma non è soltanto questo. Tranne qualche rarissima eccezione, gli oggetti di ferro, che costituisce
il metallo di valore sostanziale e di valore tecnologico all’interno del gruppo, sono prerogativa
dell’elemento maschile.
Fig. 2 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Askos dauno dalla T.
110 - Prima metà VII sec. a.C.
Fig. 3 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Goliera di bronzo
dalla T. 110 - Prima metà del VII sec. a.C.
Fig. 4 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Anforetta
d’impasto decorata a lamelle metalliche dalla T. 11 - VII sec. a.C.
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Fig. 5 - Bisaccia (AV). La tomba della ‘Principessa’ in corso di scavo (foto G. Bailo).
Si delinea dunque un quadro in cui ci sono
corredi di donne che non possono definirsi povere, ma i simboli più importanti del potere reale
all’interno del gruppo sono appannaggio dell’elemento maschile.
Rimane da chiedersi che cosa ha fatto fare questo salto di qualità alla cultura. Fondamentale a
questo proposito è il rinvenimento di una tomba
che fu messa in un luce un giorno imprecisato
della fine degli anni ’70 sulla collina di Bisaccia.
Sulla collina si rinvenne una sepoltura che
immediatamente si differenziava dalle altre.
Innanzi tutto si trattava di una tomba a fossa,
di grandi dimensioni, che aveva la normale copertura in pietre e ciottoli; da questo punto di vista,
dunque, l’immagine era identica a quella delle
altre tombe della collina, si differenziava però
già dal grande lastrone di pietra bianca che si
rinvenne reclinato e piegato tra le pietre della
copertura, ma che in origine, probabilmente,
doveva essere innalzato a formare una sorta di
sema, ossia di segnacolo della tomba e che già
si poneva come elemento di distinzione rispetto
alle altre tombe. Ma, soprattutto, il dato più
curioso era rappresentato dal fatto che questa
tomba era circondata, almeno per tutta la sua
metà inferiore, da un recinto di pietre che le
altre tombe non avevano. Vi era un primo recinto, quello probabilmente originale e più ampio,
che venne poi ribadito da un ulteriore recinto,
aggiunto forse quando il primo si era in parte
interrato o era stato risistemato. Prima ancora di
sapere che cosa ci fosse dentro la tomba, dunque, si osservava che questa sepoltura voleva
presentarsi già dall’immagine esterna come
diversa dalle altre tombe della collina.
L’aspetto più importante di questa diversità
è senz’altro rappresentata dal recinto, perché il
recinto presso tutte le popolazioni antiche, e
soprattutto quelle vicine a noi, ha uno spiccato valore di limite ed è capace di creare un
limite, oltre il quale non si può andare, tra lo
spazio interno e lo spazio esterno al recinto
stesso. Il recinto, quindi, isola un elemento di
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GIANCARLO BAILO MODESTI
una certa importanza e rappresenta un limite
che distingue ciò che è all’interno del limite
stesso - che è sacro e di notevole importanza da ciò che è all’esterno (si pensi ad esempio al
solco che Romolo traccia quando deve disegnare il perimetro di Roma e si pensi al fatto
che quando Remo, suo fratello, supera il solco,
Romolo non esita ad ucciderlo, proprio perché
era stato in qualche modo commesso un sacrilegio che soltanto la morte e il sacrificio potevano intervenire a sanare). Questi limiti dunque, anche se non fisicamente invalicabili,
sono simbolici, e in quanto tali invalicabili
sostanzialmente.
Il messaggio che se ne può ricavare è dunque
che all’interno di questo limite era posto qualcosa
di importante e che il recinto costituiva un limite
oltre il quale non si doveva andare.
Sotto le pietre uscì il corredo particolarmente
ricco dell’individuo che vi era deposto, che era
sicuramente una donna per la presenza dei
numerosi bracciali ad arco inflesso. Colpiva
l’esuberanza del corredo non solo per la quantità dei vasi, ma anche per la qualità di alcuni di
essi: vi erano infatti dei vasi di bronzo e i vasi di
bronzo nell’antichità, in questo orizzonte cronologico, hanno anche un valore economicamente
molto più rilevante rispetto ai vasi di ceramica.
Soprattutto, questi oggetti erano degli status
symbol, degli oggetti di prestigio. Molti di essi,
come la phiale baccellata, sono quelli che si
ritrovano costantemente in tutte le tombe dell’élite di Età orientalizzante, per esempio,
dell’Etruria, nelle grandi tombe come la
‘Bernardini’, la ‘Barberini’ o la ‘Regolini Galassi’.
Ma al di là della preziosità di alcuni oggetti che
uniformano il corredo di questa donna, che era
databile agli inizi del VII secolo a.C., a quello dei
principi di Età orientalizzante di Pontecagnano per il confronto di due bacini di bronzo con prese
lunate, che si trovano soltanto nelle tombe principesche di Pontecagnano -, al di là di ciò, questa
tomba femminile conteneva degli elementi anomali, rispetto all’assetto della comunità, anche
all’interno della fossa. Aveva ai piedi, ad esempio,
la grande olla da derrate. Il suo corredo ceramico
comprendeva vasi d’argilla e, oltre alla phiale baccellata e ai due bacini bronzei di cui abbiamo
Fig. 6 - Bisaccia (AV). La ‘Principessa’ sulle colline.
Fig. 7 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Phiale baccellata di
bronzo dalla T. 66 - VII sec. a.C.
appena parlato, un grande calderone anch’esso di
bronzo.
Tolto il corredo che più o meno rivestiva la
defunta, uscì il vestito di quella che a questo
punto possiamo chiamare ‘principessa’. La donna
era interamente rivestita di bronzo. Tutte le donne
sepolte sulla collina hanno in quest’epoca un corredo particolarmente abbondante nei bronzi – è
tipico appunto delle comunità che hanno un riferimento con la sponda illirica dell’Adriatico - e
tutte hanno oggetti di bronzo distribuiti dalla testa
ai piedi; anche quando ve ne sono solo due o tre,
infatti, si cerca di fare in modo che l’intero corpo
sia toccato dal bronzo.
La nostra principessa aveva migliaia di piccoli
bottoncini di bronzo disseminati fino al bacino,
che andavano disegnando una sorta di scialle;
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bottoni più grandi erano
verosimilmente applicati
sulla gonna, che era poi
ulteriormente appesantita
da grandi dischi di bronzo, in qualche caso decorati. Aveva 51 bracciali ad
arco inflesso, 25 al polso
sinistro e 26 al polso
destro: in questo caso il
numero era singolare,
poiché ci sono donne con
più bracciali, ma questo
numero è rimasto finora
senza confronti. Va osservato, a questo punto, che
le donne di OlivetoCairano avevano costantemente un bracciale in
più al braccio destro e
che i bracciali non sono
mai in numero pari, sia
quando sono in numero
minore, sia fino al numeFig. 8 - Bisaccia (AV), La
ro maggiore, che è
Principessa.
appunto 51. Ad oggi non
è possibile spiegare il
significato di questo dato. Negli unici casi in cui i
bracciali sono pari - perché, come sempre ci sono
delle eccezioni -, si tratta o di bambini, oppure,
come nella T. 4 di Cairano, della sepoltura di una
donna che aveva un solo bracciale al polso sinistro e uno al polso destro, che per il resto era
priva di corredo e che era una donna zoppa, con
un difetto di articolazione agli arti inferiori. Una
delle ipotesi che si potrebbero suggerire potrebbe
essere che le donne che presentano un numero
dispari di bracciali sono le donne adulte, maritate,
quindi le donne che a pieno titolo hanno avuto il
ruolo di elemento femminile della comunità.
La nostra principessa aveva un numero notevole di spille di bronzo, tra cui alcune enormi,
ricoperte di ambra e di avorio. Aveva poi anche le
fusaiole, ma mentre le altre donne della cultura
avevano spesso esemplari in impasto deposti ai
piedi della fossa, la principessa le aveva in ambra
e addirittura in metallo, quindi abbastanza improbabili come oggetti d’uso allusivi al duro lavoro
quotidiano, ma da interpretare piuttosto come
oggetti d’ornamento, appartenenti forse ad una
lunga e complessa serie di elementi ornamentali
che probabilmente adornavano i capelli o una
treccia che correva lungo le spalle.
Si trattava, dunque, di una donna che risultava trasgressiva rispetto all’elemento maschile
della comunità e che rivendicava atteggiamenti
impensabili per le altre donne; una donna che
rivendicava in qualche modo anche la propria
femminilità perché aveva poi tutti gli elementi
che connotano le figure femminili, come la fibula ‘ad occhiali’, la fusaiola e tutta una serie di
elementi che caratterizzano anche le altre donne
del gruppo.
La principessa non era però l’unica ad avere
una tomba dotata di recinto: di fianco a lei, infatti, c’era una tomba maschile che aveva anch’essa
un accenno di recinto e che era dotata di un corredo particolarmente ricco, anche se poi non
aveva al suo interno tutti quei simboli così significanti che aveva la principessa, ma questo perché
si trattava di un uomo e l’uomo non doveva esibire nulla.
Ai piedi di queste due tombe maggiori
c’erano, disposte perpendicolarmente e quindi
con un orientamento diverso da tutte le tombe
del resto della collina, due tombe di giovani
guerrieri, una ai piedi della principessa, una ai
piedi dell’uomo che le era a fianco. Non avevano un corredo particolarmente esuberante: uno
solo aveva un piccolo accenno di recinto, quindi uno di quegli elementi forti che avevano le
tombe maggiori, ma che chiaramente gli derivava di riflesso dall’essere legato in qualche modo
da un rapporto – non sappiamo quale, ma possiamo presumere un rapporto quasi di sudditanza o di complementarità e difesa - agli individui
della parte superiore della collina.
C’erano infine due tombe di bambino, con
corredi dai bronzi molto belli, che, anche se non
di particolare ricchezza, risultavano comunque
sicuramente più ricche delle altre tombe di bambino coeve.
Tutto questo insieme di sepolture, in una collina in cui le tombe sono disposte abbastanza
fittamente una vicino all’altra, era distribuito
invece su uno spazio che lasciava molta libertà.
- 12 -
GIANCARLO BAILO MODESTI
Oltre tutto, ai piedi della principessa c’erano i
resti di un vaso rituale che non si ritrova nei corredi funerari e che probabilmente è testimonianza, insieme alla reduplicazione del recinto, che
la persona che vi era stata deposta, non solo era
stata molto importante in vita, ma probabilmente aveva lasciato una memoria che era stata coltivata e in qualche modo anche acuita nel corso
del tempo.
E’ probabile, quindi, per arrivare alle conclusioni di questi segni, che siamo in presenza del
gruppo di vertice della comunità che ha ormai
abbandonato la prima Età del Ferro ed è entrata nell’Età orientalizzante e che rappresenta pertanto la comunità di seconda Età del Ferro di
Oliveto-Cairano. Un gruppo di vertice sensibilmente staccato dal resto della comunità, dotato
sicuramente di un potere incredibilmente forte
rispetto ai propri simili e quindi, si può dire, di
un potere di tipo più o meno assoluto.
Riguardo alla ‘Principessa’ vi è, però, un’altra
sorpresa. Al momento dello scavo, sotto il vestito si trovarono pochissime ossa e in un primo
momento si pensò che il motivo andasse cercato nel bronzo stesso, che aveva corroso le ossa,
o nell’acidità del terreno. In realtà, le analisi
degli antropologi hanno dimostrato che si trattava dei resti di una bambina di pochi anni di età,
sepolta con il vestito di una adulta.
A questo punto, viene giustamente da chiedersi se non vacilli l’intero discorso. In realtà io
penso che il discorso si rafforzi: proprio perché
c’era un gruppo familiare dotato di un potere
così forte, questa bimba è stata probabilmente
deposta in questo modo in quanto predestinata:
è stata cioè deposta secondo l’immagine che
avrebbe assunto se avesse continuato a vivere
all’interno del gruppo di vertice. E questo è
ancora più significativo del nucleo sociale a cui
la ‘principessina’ apparteneva.
Adesso bisogna cercare di capire che cosa ha
creato questa accelerazione improvvisa all’interno
della comunità, questa ricchezza maggiore e questa frammentazione, disarticolazione e ricomposizione ad altri equilibri della compagine sociale.
Sicuramente motivi interni, ma anche un elemento esterno che inevitabilmente deve avere
accelerato il processo.
A questo punto, se si va alla ricerca di spie
che possano offrire una chiave di lettura, per me
si tratta dei vasi dauni, i bei vasi di ceramica
geometrica dipinta che cominciano a comparire
improvvisamente a Bisaccia, e non negli altri
centri della cultura di Oliveto-Cairano, nella
seconda metà dell’VIII secolo a.C. e che compaiono, non in tutti i corredi, ma con una certa
frequenza, soprattutto nei corredi femminili fino
alla prima metà del VII secolo a.C.
Che cosa sta succedendo in questo volgere di
tempo? Poco prima della metà dell’VIII secolo a.C.
è stato fondato nell’isola di Ischia l’emporio greco
di Pithekoussai. Non è probabilmente la prima
colonia greca d’Occidente - infatti gli antichi stessi a partire da Strabone parlano di Cuma come
prima colonia greca d’Occidente -, ma è l’ultimo
esito del processo precoloniale e delle frequentazioni delle coste campane da parte dei Greci risalenti ancora all’epoca micenea, quando i navigatori greci facevano rotta verso il litorale tirrenico
per approvvigionarsi dei metalli e in particolare
dei metalli dell’isola d’Elba.
Pithekoussai è un momento di strutturazione
forte di questo processo: si crea fisicamente e per
la prima volta un avamposto stabile e residente a
fare da testa di ponte proprio verso le coste tirreniche. Sappiamo, poi, che Pithekoussai era il polo
occidentale di un sistema che il mondo euboico
completava con l’emporio orientale di Al-Mina,
alle foci dell’Oronte, e attraverso questi due poli si
giocava la loro leadership sul Mediterraneo e
quindi, più in generale, la leadership del commercio nel mondo allora conosciuto.
Subito dopo, dopo la metà dell’VIII secolo
a.C., viene fondata Cuma che è invece la prima
vera e propria colonia greca d’Occidente, nel
senso che è un insediamento nato per essere
stabile, per sfruttare anche il territorio agricolo e
non solo per istanze commerciali o di alto artigianato. Cuma nasce in base a un progetto politico di conquista per sempre, un progetto politico di ampio respiro.
Noi sappiamo che questo porta al contatto con
alcune delle popolazioni indigene: con alcuni, gli
abitanti di Cuma per esempio, tale contatto fu
sicuramente violento e gli indigeni scomparvero o
furono massacrati, anche se le fonti lo adombrano
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SALTERNUM
soltanto; le popolazioni dell’Etruria con cui i Greci
entrarono in contatto fecero invece un notevole
salto di qualità, anche perché erano depositarie
dei metalli che i Greci andavano a cercare. Ma
essendo i Greci finalmente qui e dovendo fare i
conti per sempre con il retroterra indigeno, anche
le nostre popolazioni indigene, quali più e quali
meno, vennero in rapporto con i nuovi venuti. E
reagiscono diversamente: quelli più saldamente
strutturati, come i Protoetruschi di Pontecagnano,
parlano con i Greci in condizioni quasi di pari
dignità, mentre le popolazioni della ‘Cultura delle
tombe a fossa’ in un modo un po’ più subalterno.
Quello che prima del ritrovamento della tomba
della ‘Principessa’ pensavamo è che questi fenomeni non avessero lasciato traccia sulle popolazioni indigene dell’interno, come quelle di
Bisaccia, poiché nell’alta Irpinia non appariva
materiale d’importazione greca.
Invece, proprio la presenza di questi vasi dauni
ha messo in sospetto. La Daunia nell’antichità, da
Aristotele in poi fino alla tarda antichità, era famosa - soprattutto il centro di Canosa - per la qualità
della sua lana. I centri greci, nel momento del loro
primo insediamento, avevano da costruire tutto il
loro assetto e approvvigionarsi di tutte le materie
prime. E’ il momento in cui, in attesa di strutturarsi, i Greci hanno bisogno dagli indigeni di materie prime di qualunque tipo. Ed è probabile che la
lana dauna in questa direzione giochi un ruolo
fondamentale: è solo in questo momento infatti
che noi troviamo i vasi dauni qui a Bisaccia, ma
anche a Pithekoussai nell’isola di Ischia e poi in
altri centri campani del retroterra più vicino, e vasi
dauni giungono anche a Pontecagnano.
Successivamente, invece, dopo il periodo collegato a questi avvenimenti, la presenza di tali oggetti scomparirà.
A Pithekoussai i grandi archeologi Buchner e
Ridgway scavarono negli anni Ottanta la tomba di
una donna con un’associazione insolita di oggetti: si trattava dell’orecchino tipico di OlivetoCairano, della spilla di Oliveto-Cairano e di un
tutulus, un copricapo come quello che aveva
anche la principessa di Bisaccia. Questa era sicuramente la tomba di una donna della cultura di
Oliveto-Cairano, probabilmente originaria di
Bisaccia stessa, deposta a Pithekoussai.
E anche a Pontecagnano c’è, ad esempio, il
corredo di una donna che, sia dalla suppellettile
ceramica sia dalla presenza dei bracciali ad arco
inflesso e da altri elementi, rivela di essere una
donna di Oliveto-Cairano, contraddistinta peraltro
da un notevole status sociale.
Tra gli oggetti di corredo che aveva questa
donna ci sono due strani uncini che si sono trovati anche in altre tombe di donne indigene e che
generalmente venivano interpretati come strumenti per cardare la lana anche se, per la verità,
gli oggetti funzionali alla cardatura della lana non
sono così, ma presentano più punte. Io ho cercato altri confronti, pensando sempre che fossero
collegati all’attività della lana, e per ora ho trovato solo un confronto in un orizzonte lontano, con
uno strumento del Kashmere che viene utilizzato
vicino ad un telaio dove si fabbricano i famosi
tappeti di quelle zone.
Per farla breve, io credo che a un dato punto
si avvertano queste esigenze di materie prime da
parte del mondo greco, che non le richiedeva soltanto per sé, ma anche in vista di una redistribuzione sul mercato, visto anche il complesso sistema di commerci a cui abbiamo accennato poco fa.
A quel punto, vengono coinvolte le popolazioni dei dintorni: uno degli elementi forti che interessano ai Greci per qualche motivo è la lana
della Daunia. La Daunia e i centri dauni sono a
breve distanza da Bisaccia e Bisaccia si trova sugli
antichi tratturi di tradizione pastorale che già
dall’Età preistorica funzionavano proprio in riferimento al fenomeno della transumanza.
Le popolazioni di Oliveto-Cairano sono collocate, come abbiamo detto all’inizio, in punti strategici, controllano tutti i nodi viari fondamentali,
non solo il sistema Ofanto-Sele, ma - Bisaccia in
particolare - anche i corsi fluviali del Calaggio, del
Carapelle e le varie direttrici che portano poi
verso la costa campana e verso la Daunia.
Penso che i Dauni fossero i produttori della
lana e che, poiché erano legati anche per la
comune origine illirica da una sorta di somiglianza culturale con le genti di Oliveto-Cairano, venga
loro spontanea la collaborazione con queste
popolazioni. Le genti di Oliveto-Cairano approfittano della loro collocazione strategica per fare poi
da mediatori nei riguardi della costa, probabil-
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GIANCARLO BAILO MODESTI
mente non direttamente con i Greci, ma con i centri indigeni forti, come Pontecagnano. Ma non è
solo il commercio della lana che mettono in
campo le genti di Oliveto-Cairano, bensì anche
l’alta capacità tecnologica e artigianale delle proprie donne, di cui è un esempio la defunta che
abbiamo vista sepolta a Pontecagnano con gli
strumenti del mestiere. Addirittura, in un determinato momento, queste donne creano, come succede a Pontecagnano, dei veri e propri ateliers,
delle piccole comunità di immigrati nei centri più
vicini ai luoghi di mercato, dando così vita ad un
sistema complesso.
Questo, oltre probabilmente ad altri fatti, fa
fare un salto di qualità enorme alla cultura di
Oliveto-Cairano e alla sua gente. La figura femminile è quella che di fatto contribuisce, nella misura che abbiamo detto, a questi fenomeni; succede
tuttavia, per apparente paradosso, che nel
momento in cui la donna diventa ancora più
importante per lo sviluppo del gruppo, improvvisamente è poi l’elemento maschile che detiene il
controllo dei mezzi di produzione. Soltanto in una
fase viene recuperata la grande dignità della
donna, almeno nel livello del gruppo di vertice: si
tratta della ‘principessa’, che in qualche modo
raduna in sé, con i suoi elementi trasgressivi e
tutto quanto abbiamo detto, l’immagine nuova e
forte della donna all’interno della comunità.
C’è poi un’altra tappa - ed è l’ultima - nella storia di Oliveto-Cairano.
Dopo questo momento, databile entro la metà
del VII secolo a.C., la vita di Oliveto-Cairano dura
abbastanza simile per alcuni decenni. Dobbiamo
arrivare al VI secolo a.C. per vedere un altro
momento di rottura, questa volta non più a
Bisaccia ma a Cairano.
A Cairano era stata trovata in anni precedenti una necropoli simile a quella di Bisaccia e
della stessa epoca; poi, improvvisamente, sulla
collina del Calvario che dominava strategicamente tutta la zona, è uscito un nucleo abitato e
una necropoli limitata, circondata da un ampio
fossato. L’abitato si presenta come una sorta di
grande palazzotto, non certo il villaggio di
capanne della gente normale di quell’epoca. Le
tombe della necropoli a volte hanno dimensioni
notevoli - anche se ve ne sono alcune di dimen-
sioni e di corredo normali -, sono incavate nel
banco di roccia e hanno un aspetto quasi architettonico, assomigliando sempre più alle tombe
a camera.
Nelle tombe ricche, in questo orizzonte cronologico, finalmente compare anche il materiale
importato dall’area etrusca e dall’area greca,
come le coppe ioniche, il bucchero etrusco, i
vasi di bronzo, le oinochoai di tipo rodio, e un
elmo corinzio.
L’abitato ha un grande magazzino con decine
di olle da derrate, che si configura come un vero
e proprio palazzotto dei signori locali dell’età
arcaica e tardo-arcaica. I corredi delle sepolture
sono poi particolarmente ricchi. Che cosa è successo? Siamo in un momento particolare: nel
corso del VI secolo a.C. avviene lungo la costa
quello scambio di leadership sulle rotte marittime
tra Etruschi e Greci che segna gli eventi storici di
quegli anni. Alla fine prevalgono i Greci, e gli
Etruschi, che erano gli antichi re del mare, vengono definitivamente sconfitti. É il momento in
cui nasce il centro di Fratte, perché proprio mentre Pontecagnano ha una vocazione costiera che
segue il destino degli Etruschi, Fratte è rivolta
verso la valle dell’Irno e verso l’interno, ed è il
momento in cui i riferimenti per l’interno non
sono più centri come Pontecagnano, ma altri
come Capua. É il momento in cui rispetto all’elemento etrusco marittimo prevale l’elemento etrusco costiero, che però, ricacciato dalle coste,
tende a spostare la sua produzione verso
l’interno: non potendo infatti più farlo liberamente sul mare, se non a pena di gravi rischi, gli
Etruschi cercano le vie dell’interno per portare
gli oggetti con cui fare mercato dalla costa tirrenica a quella ionica e a quella adriatica.
In questo frangente una via come quella
dell’Ofanto-Sele - questa volta percorsa al contrario, non nel senso della lana che scendeva dalle
colline, ma nel senso della merce che dai centri
etruschi della costa andava verso l’interno - diventa fondamentale. Il controllo di quelle vie fa fare
alla gente - forse in particolare più alla gente di
Cairano e di Calitri, che si trovano più vicini
all’Ofanto - un salto di qualità ulteriore. Il modello è probabilmente quello del prelievo in presenza di un passaggio obbligato, ma anche quello del
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SALTERNUM
dono e di rapporti di reciprocità che si creano tra
lo straniero che deve passare per quelle zone e gli
indigeni. E’ probabile che all’interno delle comunità di Oliveto-Cairano i gruppi già emergenti
traggano da questo movimento un elemento per
fare un ulteriore salto di qualità. E a questo punto
non solo distinguono la loro tomba all’interno
delle altre, ma, come ad esempio a Cairano, addirittura spostano il loro abitato, non il villaggio di
capanne dove stanno gli altri, sulla collina del
Calvario. Anche la loro necropoli risulta separata
da quella degli altri: è la necropoli ai piedi del
palazzotto, circondata da un ampio fossato, in cui
si trovano tombe ricche e meno ricche, il che fa
pensare alla presenza, all’interno di un clan gentilizio, di signori e di loro clientes, secondo il
modello che avremo poi in età romana.
Concettualmente, anche se non si può pensare a una filiazione diretta di uno dall’altro, il fossato che circonda le tombe della collina del
Calvario è l’estensione del recinto della
‘Principessa’. Il fatto appunto che il recinto, nel
caso della principessa e dell’uomo sepolto di fianco a lei, isolasse una sola tomba per volta ha un
significato; il fatto che un intero nucleo sociale sia
circondato da un fossato significa che gli equilibri
sono mutati e che anche l’aspetto culturale cerca
di ricalcare nell’immaginario funerario questa realtà diversa. È un po’ tutto il gruppo di vertice che
si è ormai distaccato anche fisicamente dal resto
della comunità e si colloca sulla collina.
Questo quadro dura per tutta la seconda metà
del VI secolo a.C. e per buona parte del V secolo
a.C. Improvvisamente poi arriviamo alla fine della
storia: proprio nel suo momento di massimo sviluppo la cultura di Oliveto-Cairano finisce e scompare in tutti i centri. Le necropoli non hanno
seguito e non ci sono centri abitati contemporanei
che si sviluppano.
Cosa è successo? Dalla metà del V secolo a.C.
in poi sono anni cruciali per le nostre zone e per
la Campania in generale, perché comincia quel
fenomeno che è stato chiamato di sannitizzazione,
che riconduce tutta la regione a un forte grado di
omogeneità politica, culturale e militare. Le nostre
genti peraltro sono quelle sospette nelle fonti antiche per aver sostenuto l’elemento sannitico dell’interno: sappiamo infatti che la sannitizzazione è
anche una presa del potere delle città greche da
parte dell’elemento sannitico, ma è probabile come ci testimoniano le fonti - che per fare questo abbiano chiamato a raccolta anche le tribù dell’interno con cui avevano rapporti di solidarietà.
Due sono quindi le eventualità. Visto che
sono mutati gli equilibri sulla costa e che tutto
quel sistema di commerci di cui abbiamo parlato entra in crisi e cambia radicalmente, come
l’antropologia moderna ci dimostra, è probabile
che una cultura che ha fatto dei passi in avanti
rispetto al proprio trend normale, se vengono
improvvisamente a cadere i motivi che le hanno
fatto fare questo salto di qualità, non solo torni
ai livelli precedenti, ma addirittura, a volte, si
estingua. Oppure, come io credo più probabile,
finisce la cultura di Oliveto-Cairano, ma l’éthnos
di Oliveto-Cairano si scioglie in questo momento più vasto di sannitizzazione della Campania.
Noi non lo riconosciamo più perché è chiaro
che esso assume, anche nella vita materiale, dei
modelli e degli atteggiamenti consoni alla nuova
realtà e alle nuove esigenze. Alla fine non sappiamo che fine hanno fatto le genti di OlivetoCairano, ma sappiamo che si è aperto un capitolo completamente diverso un po’ in tutta la
Campania e molte pagine all’interno di esso
vanno verso un nuovo destino.
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GIANCARLO BAILO MODESTI
CURRICULUM DELL’ATTIVITÀ SCIENTIFICA E DIDATTICA
di GIANCARLO BAILO MODESTI
- Il 21 giugno 1972 consegue, presso l’Università degli Studi di Milano, la laurea in Lettere e Filosofia con
tesi in Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana (110 e lode).
- Nell’anno accademico 1972/73 è ammesso alla Scuola Nazionale di Archeologia di Roma e frequenta il
primo anno, superando le prove d’esame previste (Preistoria del Vicino e Medio Oriente, 30 e lode;
Protostoria Europea, 30 e lode; Topografia di Roma e dell’Italia antica, 30 e lode; Paletnologia, 30 e lode).
- Risulta vincitore di un assegno biennale di formazione scientifica e didattica presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, a decorrere dall’1/11/1974 e rinnovato per i bienni successivi.
- È immesso in ruolo come Ricercatore universitario confermato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, con decorrenza giuridica dall’1/8/1980.
- a partire dall’a.a. 1997/98 gli viene affidato l’insegnamento di Preistoria e Protostoria presso l’Università
degli di Studi di Napoli – L’Orientale.
ATTIVITA’ SCIENTIFICA
A) Ricerca sul terreno
Ha condotto numerose campagne di esplorazione archeologica su incarico della Soprintendenza
Archeologica di Salerno, Avellino, Benevento e della Soprintendenza Archeologica della Basilicata.
Nel 1970, 1971 e 1976 ha la direzione scientifica degli scavi nelle necropoli e nell’abitato di Cairano (AV).
Sempre nell’alta valle dell’Ofanto dirige l’esplorazione dell’insediamento preistorico, della necropoli protostorica e dell’abitato d’età sannitica di Bisaccia (AV), (1975, 1976, 1989, 1990, 1991) e quello dell’insediamento arcaico di Calitri (AV), (1976).
Nel corso degli anni ’70 effettua anche interventi di scavo e recupero nei centri della valle del Sarno
(S. Marzano; S. Valentino Torio) e della piana del Sele (Eboli; Serra d’Arce; Oliveto Citra).
Dal 1974 al 1979 dirige gli scavi effettuati nelle necropoli e nell’abitato del centro etrusco-campano di
Pontecagnano (SA). Nello stesso sito, dal 1981 al 1987, ha la direzione scientifica delle annuali campagne di scavo condotte nell’area della città antica dalla cattedra di Etruscologia ed Antichità Italiche
dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, su apposita concessione del Ministero per i Beni Culturali
ed Ambientali.
Nel 1989 conduce l’indagine archeologica nella necropoli d’età orientalizzante e nell’abitato di IV-III sec.
a.C. di Noepoli (PZ).
Dal 1992 al 1996 conduce numerose campagne di scavo nelle necropoli di Pontecagnano, riportando tra
l’altro alla luce la necropoli d’età eneolitica riferibile alla facies del Gaudo.
Nel 2001, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Salerno e la Soprintendenza Speciale
al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, conduce una campagna di scavo a
Paestum, all’interno del programma di ricerca sulle testimonianze pre-greche del territorio pestano, di cui
è coordinatore.
Nel 2002 ha la direzione scientifica dell’esplorazione archeologica preventiva del tratto di Pontecagnano
in occasione dei lavori per l’ampliamento dell’Autostrada SA-RC, in base all’apposita convenzione stipulata tra la Soprintendenza Archeologica di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli –
L’Orientale.
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SALTERNUM
B) Convegni, Mostre, Musei
Collabora alla promozione e organizzazione delle seguenti iniziative:
- Seconda Mostra della Preistoria e Protostoria nel Salernitano, curata dalla Soprintendenza alle Antichità
di Salerno e dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Salerno-Pontecagnano, 1974).
- Convegno Temi e problemi dell’istruzione storico-artistica preuniversitaria, promosso dalla Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1976).
- Primo Convegno Internazionale sull’Ideologia Funeraria nel Mondo Antico a cura dell’Istituto
Universitario Orientale di Napoli, del Centre des Recherches Comparées sur les Societés Anciennes e della
Maison des Sciences de l’Homme di Parigi (Napoli-Ischia, 1977).
- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica dipinta della Daunia, a cura del Seminario
di Studi del Mondo Classico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1978).
- Riordino dei depositi, allestimento ed apertura al pubblico del Museo Nazionale dell’Agro Picentino
(Pontecagnano 1978).
- Convegno Internazionale Metodi e Tecniche dell’Archeologia, promosso dall’Istituto Universitario
Orientale di Napoli (Napoli, 1979).
- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica nell’abitato di Pontecagnano, a cura del Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo
Antico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Pontecagnano, 1984).
- Progetto per la fruizione del patrimonio archeologico di Pontecagnano (AA.VV., Parco archeologico di
Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano, Ercolano 1993).
- Mostra L’Ultima Pietra, il Primo Metallo - sentieri della Preistoria, a cura della Soprintendenza
Archeologica di Salerno, dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e del Comune di Pontecagnano,
Pontecagnano (SA), 1993).
- Congresso L’Antica età del Bronzo, Viareggio 1995.
- Mostra e Convegno La Pietà degli Dei - santuari e culto a Pontecagnano (Pontecagnano, 19 dicembre
1996).
- Convegno Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del
Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro, Lido di Camaiore 1998.
- Mostra e Convegno Prima di Pithecusa – i più antichi materiali greci del golfo di Salerno, Pontecagnano
(SA), 1999.
- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale della Valle del Sele
di Eboli in occasione della sua apertura al pubblico.
- Partecipazione al coordinamento scientifico dei lavori per l’allestimento del nuovo Museo Archeologico
Nazionale di Pontecagnano (SA), in base all’apposita convenzione stipulata tra la Soprintendenza Archeologica di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli – L’Orientale.
- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale di Paestum in vista
del riallestimento dell’esposizione.
É intervenuto con propri contributi a:
- XV, XVI e XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1975, 1976, 1978).
- XX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata (Melfi 1976).
- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica della Daunia (Napoli 1978).
- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica nell’abitato di Pontecagnano (Pontecagnano 1984).
- IV Convegno di Acquasparta, L’emergenza del politico tra le popolazioni osco-lucane (Acquasparta 1986).
- Congresso Internazionale L’età del Rame in Europa (Viareggio 1987).
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GIANCARLO BAILO MODESTI
- Congresso L’antica età del bronzo in Italia (Viareggio 1995).
- Congresso Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del
Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro (Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998).
- Convegno di Studi in onore di L. Bernabò Brea, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Lipari 2000.
- Convegno Depositi votivi e culti dell’Italia Antica – dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Perugia
2000.
- Convegno Lo spazio del rito. Santuari e culti in Italia meridionale tra Indigeni e Greci, Matera 2002.
- Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria Miti simboli decorazioni, Pitigliano (GR) Valentano (VT), 2002.
È stato responsabile scientifico di due programmi di ricerca CNR sui seguenti temi:
- Sistemazione dei beni culturali ed ambientali: l’evidenza archeologica dei Campi Flegrei nella prospettiva d’uno sviluppo alternativo.
- Culture indigene dell’Italia meridionale tra VIII e IV sec. a.C.
C) Pubblicazioni
Ha prodotto una monografia sulle popolazioni indigene della Campania interna in età arcaica, una
sull’Età del Rame in Campania; contributi vari e schede negli Atti di diversi Convegni scientifici e contributi su Riviste specialistiche.
Ha collaborato anche alla realizzazione di opere di divulgazione scientifica ed ha partecipato alla stesura di progetti finalizzati alla valorizzazione dei Beni Culturali e del territorio.
ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI
Contributi scientifici:
1- G. BAILO MODESTI, Eboli, necropoli eneolitica, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria
nel Salernitano, Salerno 1974, pp. 25-42.
2- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano,
Salerno 1974, pp. 113-121.
3- G. BAILO MODESTI, Bisaccia: campagna di scavo 1975, in Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna
Grecia, Taranto 1975, Napoli 1976, pp. 511-514.
4- G. BAILO MODESTI, L’alta valle dell’Ofanto, in Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia,
Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 805-811.
5- G. BAILO MODESTI, Aspetti della cultura di Oliveto-Cairano, in Atti della XX Riunione Scientifica
dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata, 16-20 ottobre 1976, Firenze 1978, pp. 321325.
6- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano, in Atti del XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia,
Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 298-301.
7- G. BAILO MODESTI, Cairano nell’Età arcaica - l’abitato e la necropoli, in “AION ArchStAnt”,
Quaderno 1, Napoli 1980.
8- G. BAILO MODESTI, Il Periodo arcaico, in Storia del Vallo di Diano, I, Salerno 1981, pp. 85-122.
9- G. BAILO MODESTI, Oliveto-Cairano: l’emergere di un potere politico, in G. GNOLI, J. P. VERNANT
(edd.): La Mort, les Morts dans les sociétes anciennes, Cambridge 1982, pp. 241-256.
10- G. BAILO MODESTI, Lo scavo nell’abitato antico di Pontecagnano e la coppa con l’iscrizione
AMINA(...), in “AION ArchStAnt.”, VI, 1984, pp. 215-245.
11- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e nelle
isole tirreniche, IV, 1985, pp. 244-246.
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SALTERNUM
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Bronzo/Ferro, Atti del Congresso - Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998, Firenze 1999, pp. 441- 467.
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24- G. BAILO MODESTI, Rituali funerari eneolitici nell’Italia peninsulare: l’Italia meridionale in Atti del
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26- G. BAILO MODESTI et Alii, I santuari di Pontecagnano: paesaggio, azioni rituali e offerte in Atti del
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27- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, L’enigma della semplicità: schemi decorativi nella ceramica della
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30- G. BAILO MODESTI, Preistoria e Protostoria nel territorio di Paestum, 2008, in cds.
- 20 -
GIANCARLO BAILO MODESTI
31- G. BAILO MODESTI, A. GOBBI, Le genti delle dune e del mare, le tribù delle colline: egemonia dei
centri etruschi e ristrutturazione del mondo indigeno in Campania nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.,
Atti del Nono Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR) 12 settembre 2008,
Valentano (VT) 13-14 settembre 2008, in cds.
32- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, Pontecagnano (SA) - between the city and the sanctuary: the excavations along the motorway’s SA/RC extension, in “Newsletter Archeologia (CISA)”, 2009, pp. 6-21.
Schede
33- Schede nn. 5.9; 5.10; 5.11, in M. CRISTOFANI (a cura di), Civiltà degli Etruschi, Milano 1985, p. 131.
34- Schede PC 23; PC 24-25, in G. COLONNA, L’Etruscità della Campania meridionale alla luce delle
iscrizioni in AA.VV., La presenza etrusca nella Campania meridionale, Firenze 1994, pp. 376-377.
35- Scheda n. 34, in M. CIPRIANI, F. LONGO (a cura di), I Greci in Occidente - Poseidonia e i Lucani,
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Attività di divulgazione scientifica
36- G. BAILO MODESTI et Alii, La Preistoria, in Storia, Arte e Cultura della Campania, Milano 1976, pp.
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37- G. BAILO MODESTI et Alii, L’area tra il Sarno e il Sele, in Storia, Arte e Cultura della Campania,
Milano 1976, pp. 18-22.
38- G. BAILO MODESTI et Alii, Preistoria e Protostoria, in Storia della Campania, I, 1978, pp. 27-46.
39- G. BAILO MODESTI et Alii, Museo Nazionale dell’Agro Picentino, Salerno 1978.
40 - G. BAILO MODESTI, Le genti delle alte valli del Sele e dell’Ofanto, in Cultura materiale, Arti e
Territorio in Campania, Salerno 1978, pp. 35-38.
41- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano: un centro etrusco-italico - storia ed immagini, Salerno
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42- G. BAILO MODESTI, L’età del Ferro, in Storia Illustrata di Avellino e dell’Irpinia, I, Salerno 1996, pp.
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Saggi ed altri contributi
43- G. BAILO MODESTI, B. d’AGOSTINO, Archeologia e Arte Classica nei manuali di Storia dell’Arte, in
C. DE SETA (a cura di), Quale Storia dell’Arte, Napoli 1977, pp. 35-45.
44- G. BAILO MODESTI et Alii, Parco archeologico di Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano,
Ercolano 1993.
- 21 -
LUIGI PICCARDI
Geomitologia ed origini geologiche del culto
dell’Arcangelo Michele
Relazione tenuta dall’Autore a Paestum - Venerdì 14 Novembre 2008
nell’ambito del Convegno Geologia…Mito,
organizzato dai Gruppi Archeologici d’Italia e dall’Associazione Italiana di Geologia e Turismo,
tenutosi durante l’XI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.
N
ell’ambito della XI Borsa Mediterranea
del Turismo Archeologico (Paestum,
Novembre 2008), si è tenuto per il
secondo anno un Convegno in collaborazione
fra l’Associazione Italiana di Geologia e Turismo
ed i Gruppi Archeologici d’Italia, per promuovere l’interazione fra geologia e archeologia. Tale
interazione fornisce un valore aggiunto sia per
un sito archeologico, dove spesso gli aspetti geologici sono poco rappresentati, che per un sito di
interesse geologico, dove le implicazioni storiche
consentono di ampliarne l’interesse ad un più
vasto pubblico.
Nel Convegno è stato affrontato in particolare
lo studio delle relazioni fra geologia e mito, un
campo estremamente interdisciplinare noto
come ‘geomitologia’1 che può costituire un ulteriore contributo innovativo e rilevante, non solo
per la possibilità di valorizzazione turistica e culturale del territorio, ma anche per le implicazioni ai fini della prevenzione dei rischi naturali2.
Nello studio delle fonti storiche si arriva inevitabilmente a chiedersi dove sia il limite fra storia e leggenda. Per questo leggende e miti vengono setacciati alla ricerca di informazioni anche
dai geologi, soprattutto per aree o per periodi
con scarsità di notizie storiche in senso stretto.
D’altro canto vi è anche un costante interesse
per la comprensione del significato e delle origini dei miti, radici della nostra cultura. Finora lo
studio della mitologia è rimasto appannaggio
esclusivo di discipline umanistiche, quali storia,
antropologia o psicologia, senz’altro le più atte
a studiare il fenomeno nel suo complesso. Le
fondamenta naturalistiche di gran parte della
mitologia, fatto ben noto, sono state però considerate principalmente solo in termini generali,
senza tener conto del singolo caso specifico.
Alle discipline umanistiche è finora mancato
infatti un elemento fondamentale per poter
interpretare il contenuto di quei particolari miti
nei quali la base naturalistica ha un ruolo determinante, cioè la conoscenza scientifica del fenomeno naturale implicato.
Quello che possiamo defïnire come lo studio
geologico della mitologia è un campo emergente, di carattere fortemente interdisciplinare. E’
infatti necessario avere una conoscenza sufficiente del quadro storico e culturale dell’epoca,
del contesto religioso e della complessità del
mito, dell’archeologia locale, del fenomeno
naturale in questione e della geologia dei luoghi
di ambientazione. In questi studi non si può disporre di tecniche standard che possano essere
applicate indiscriminatamente. Ogni caso va
valutato a sé, e in genere si ottengono risultati
utili solo per alcuni casi specifici, dove le relazioni con la geologia sono chiaramente espresse e vi siano chiari ancoraggi con il territorio e
con l’archeologia locale riscontrabili ancora
oggi. E’ necessario risalire quanto più possibile
alle fonti originarie, valutandole criticamente, ed
integrando le informazioni contenute nelle
diverse versioni del mito con i vari dati geologici. Infine, essendo impossibile la verifica sperimentale della fondatezza delle deduzioni fatte,
si deve ricorrere ad evidenze di analisi comparativa.
Mentre l’interpretazione di alcuni miti rimane
ancora nel campo speculativo, in mancanza di
una evidenza conclusiva, come nel caso di
Atlantide o del Diluvio Universale, l’origine geologica di altri miti famosi è palese. Il titano
Tifone, schiacciato da Zeus al di sotto del vulca-
- 23 -
SALTERNUM
no Etna, continua a scuotersi e a vomitare fiamme. La lingua di fuoco della indistruttibile
Chimera, unico resto del famoso drago a tre
teste, dardeggia ancora oggi sulle coste della
Turchia, dove delle emissioni gassose naturali
bruciano ininterrottamente da millenni. La natura eziologica di miti come questi è evidente, ma
questi racconti contengono al loro interno anche
memorie della evoluzione della religione locale:
dall’essere orientata verso le potenze ctonie
della Terra all’essere rivolta alle potenze celesti
dell’Olimpo.
La religione pre-olimpica era infatti dominata
dalla figura della Dea Madre, la multiforme dea
dai molti nomi la cui rappresentazione più sentita era quella di Gea, la Madre Terra. I culti allora non erano diretti verso l’alto, agli dei del
cielo, ma verso il basso, verso la Terra, verso
quegli inferi fecondi dai quali sgorgava incessantemente la vita e ai quali l’uomo ritornava
dopo la morte. Non sorprende quindi che tanta
attenzione sia stata data dalla mitologia primitiva proprio ai fenomeni geologici, e fra questi in
particolare a quelli più impressionanti e più
direttamente in relazione col sottosuolo, come
vulcani e terremoti. Tali fenomeni, che incutevano terrore e meraviglia al tempo stesso (ingredienti base della sacralità), interessavano proprio l’elemento che rappresentava il nucleo stesso di tutta l’esistenza umana: il grembo di Madre
Terra, alfa e omega di ogni creatura.
Alcuni miti che mantengono ancora oggi un
forte aggancio con il territorio, essendo riferiti a
determinati luoghi sacri ed a particolari eventi
geologici, come ad esempio i terremoti, risultano più facilmente interpretabili nelle loro specifiche origini geologiche. Anche le relazioni più
propriamente storiche sui terremoti non sono
mai del tutto libere da un certo senso soprannaturale dell’evento. L’attribuzione di fenomeni
naturali a cause soprannaturali a volte risulta
essere stata operata anche coscientemente ed in
maniera deliberata. Ad esempio, nella relazione
sugli effetti del terremoto del 1456 l’Abate del
Monastero di Santo Spirito, ubicato presso la
faglia attiva di Sulmona, ammette esplicitamente
la volontaria codificazione in termini religiosi di
fenomeni da lui ritenuti naturali3. Descrivendo
alcuni suoni insoliti uditi da due monaci «Di
sera, circa la prima ora della notte di quel sabato che precedette il terremoto, mentre ogni cosa
era immersa nel più profondo silenzio», l’Abate
racconta infatti come «La mattina, avendo essi
raccontato il miracolo pieni di stupore, non
demmo importanza alla cosa. Ma dopo il terremoto, sebbene non ignorassi che spesso un
vento sotterraneo, passando attraverso le fenditure della terra come attraverso una canna emette voci inarticolate ma melodiose, tuttavia non
esitai a riferire pubblicamente che questo prodigio era stato compiuto dai santi angeli».
E’ proprio dallo studio dei terremoti, in particolare dalla ricerca di testimonianze di passati
eventi di fagliazione superficiale, che sono
emersi risultati particolarmente interessanti per
l’interpretazione geologica di alcuni miti famosi.
E’ la convergenza di due principali concause
che fa sì che solo oggi si possa giungere ad
interpretazioni attendibili. In primo luogo il fatto
che la nozione stessa di faglia sismica e di fagliazione superficiale sono concetti solo recentemente acquisiti dalla geologia. In secondo
luogo, solo nell’ultimo secolo sono stati condotti diffusamente accurati scavi archeologici che
hanno riportato alla luce i luoghi dell’ambientazione mitologica.
In questo testo, l’esame di una serie di casi
esemplari che nel loro insieme presentano una
notevole coerenza4, mostra come le influenze
geomitologiche non siano limitate a singole
curiosità naturali locali, ma abbiano anche
segnato profondamente la nostra cultura. Lo studio di questi casi ci permette di vedere come
esista da sempre una sostanziale coincidenza fra
alcuni luoghi sacri e geomiti. I principali santuari esaminati infatti spiccavano in primo luogo
proprio per la singolarità dei fenomeni geologici che ospitavano, la cui interpretazione soprannaturale faceva sì che questi luoghi venissero
protetti, preservati e visitati dai pellegrini, non
molto diversamente dai nostri geositi o musei
geologici moderni.
Il caso più eclatante di questo tipo, dove è
più direttamente espressa e comprensibile la
relazione fra mito, geologia e archeologia, è
quello del millenario Oracolo di Apollo a Delfi,
- 24 -
LUIGI PICCARDI
il più famoso santuario dell’antichità5. Delfi,
ombelico del mondo, doveva la sua fama alla
radicata convinzione dei contemporanei che il
luogo ospitasse una voragine nella terra dalla
quale esalavano vapori che invasavano la profetessa con lo spirito della divinità: della Terra
all’inizio e di Apollo in seguito. Questa voragine
era messa in stretta relazione con i terremoti. Era
infatti assieme a Poseidone - lo scuotiterra - che
Gea regnava sulla sua voragine oracolare. Ed è
in seguito al terremoto scatenato dai sussulti
agonizzanti del drago guardiano della voragine
ed ucciso da Apollo, e dalle esalazioni provenienti dal cadavere dell’immane serpente, che si
estendeva per miglia ai piedi del Monte Parnaso,
lasciato ad imputridire nella voragine, che Delfi
acquista il suo nome originario: Pito (pytho =
putrefatto, in greco). Alcuni dicevano che il
drago vivesse nella voragine stessa, altri che vi
fosse lasciato da Apollo ad imputridire.
Questo caso illustra anche gli effetti della
scissione fra discipline umanistiche e scientifiche. L’esistenza di tale voragine è stata da sempre oggetto di dibattito fra filosofi, religiosi e
storici, e la sua ricerca è stata uno degli obiettivi primari degli scavi archeologici iniziati nel
1891. Poichè niente di simile fu allora riscontrato, la famosa voragine oracolare fu bollata
come invenzione mitologica6. Dal punto di
vista geologico lo stesso mito assume invece
tutta un’altra prospettiva. Delfi si trova infatti
sulla traccia della faglia attiva che borda le pendici del Monte Parnaso (2457 m) e la cui scarpata di faglia conserva chiare tracce di passati
eventi di fagliazione superficiale. Leggende
locali, tramandateci da Pausania (II sec. d.C.),
descrivevano voragini che si sarebbero aperte
nella terra e che avrebbero inghiottito il tempio
dell’Oracolo poco avanti il VII secolo a.C., e
rotture sismiche del terreno lungo la faglia di
Delfi si sono verificate anche nei terremoti del
373 a.C., del 551 d.C. e del 1891. La possibilità
che qui un terremoto crei una voragine nella
terra esalante gas solforosi (H2S, l’odore della
putrefazione) e anidride carbonica (CO2 ,
l’ebbrezza della profetessa) appare quindi del
tutto verosimile in questo scenario sismo-tettonico. La descrizione in questo luogo di una tale
Fig. 1 - Solofra (AV). Statua dell’Arcangelo Michele.
spaccatura sismica esalante gas potrebbe quindi risultare addirittura scontata e irrilevante, se
non fosse che proprio su questo si è basato
uno dei più importanti miti del passato, un santuario che ha direttamente influenzato la storia
del Mediterraneo per almeno due millenni.
Anche in Italia esiste un caso importante di
una simile associazione fra un famoso luogo
sacro, paragonabile a Delfi per importanza storica, e la locale faglia attiva: quello dell’apparizione dell’Arcangelo Michele sul Gargano, tradizionalmente datata alla fine del V sec.7. Il santuario di Monte Sant’Angelo, costruito sul luogo
dell’apparizione, ha successivamente svolto un
ruolo cruciale come propulsore della conversione dell’Europa pagana, divenendo anche la
principale meta di pellegrinaggio nell’Alto
Medioevo8. La figura altamente sincretica
dell’Arcangelo guerriero, vincitore del dragone,
ha infatti facilitato la conversione sia dei miti
greco-romani che di quelli nordici longobardi.
Le origini geologiche del santuario sono dichiarate nella leggenda, che descrive un forte terremoto associato all’apparizione, ed il successivo
rinvenimento di particolari tracce nella roccia
nella zona epicentrale. La descrizione degli
effetti del terremoto trova chiari riscontri geologici nelle evidenze di eventi di fagliazione
superficiale in prossimità del santuario lungo la
traccia della faglia di Monte Sant’Angelo che fa
parte del sistema di faglie attive di Mattinata. In
- 25 -
SALTERNUM
Fig. 2 - Polistena. Chiesa Matrice di Santa Marina Vergine, statua
dell'Arcangelo.
Fig. 3 - Roma,
Chiesa dei
Cappuccini.
San Michele
Arcangelo
(Guido Reni,
1635).
base alle evidenze geologiche, si può stimare
una magnitudo massima possibile di circa 6.7,
superiore cioè alla 5.4 stimata per il terremoto di
Mattinata del 1893, ritenuto la massima intensità
macrosismica risentita in quell’area. Il terremoto
riportato nella leggenda sembra quindi essere
l’unica descrizione di un evento ben documentato dalle evidenze geologiche. Il catalogo sismico è d’altronde notoriamente incompleto per il
periodo antecedente all’anno Mille. Il riconoscimento o meno del terremoto riportato nella leggenda come evento storico, benché con tutti i
limiti connessi ad una informazione estratta
dalla tradizione orale, viene quindi ad avere un
peso decisivo per l’adeguata stima della pericolosità sismica dell’area, anche in considerazione
del lungo periodo di quiescenza della faglia (>
1000 anni) rispetto a simili forti terremoti.
E’ da notare che fu proprio la presenza tangibile delle tracce fisiche di quell’evento soprannaturale, cioè le ‘orme dell’Arcangelo’, ossia le
spaccature nella roccia conseguenti al sisma, ad
avvalorare la credibilità di questa leggenda, rendendo questo uno dei luoghi cardine della fede
in epoca medievale. Pur decaduto come importanza, il santuario esiste da oltre 1500 anni e
continua ad attrarre oltre un milione di visitatori all’anno.
I due casi citati sopra risultano fortemente
interconnessi, con un legame molto più diretto
della semplice similarità iconografica fra le figure di Apollo e l’Arcangelo Michele. Entrambi i
culti provengono infatti da una stessa area geografica in Asia Minore, la Frigia, ed in particolare dal bacino di Denizli. Qui, a pochi chilometri
di distanza l’uno dall’altro, si trovano due siti
archeologici e geomitologici di grande importanza9. Uno è l’antica Hierapolis di Frigia, la città
sacra ad Apollo, costruita sul plateau delle
cascate bianche di travertino di Pamukkale, uno
dei geositi più famosi del mondo. Poco a Sud di
questo vi sono i resti della città di Colossae, dove
sarebbe originato il culto di Michele, a seguito
della sua prima e più famosa apparizione in era
moderna.
Hierapolis presenta la stessa associazione di
elementi geologici e mitologici di Delfi, cioè la
sovrapposizione di luoghi di culto della Dea
madre e di Apollo in corrispondenza di una
voragine nella terra esalante gas tossici, che corrisponde ad una faglia sismica. A Colossae invece il culto di Michele si sarebbe originato a
seguito dei vistosi fenomeni geologici verificati-
- 26 -
LUIGI PICCARDI
si col terremoto che distrusse la città nel 60 d.C.
Questi due siti di rilievo sono uniti fra loro dalla
figura del testimone oculare dell’apparizione
dell’Arcangelo Michele a Colossae: Archippo.
Questi risulta essere stato un religioso proveniente da Hierapolis, apparentemente iniziato
alla religione presso il tempio di Apollo, e poi
successivamente formatosi a Colossae nella cultura altamente sincretica del locale culto degli
angeli noto come ‘eresia Colossese’. San Paolo
scrisse la sua lettera ai Colossesi proprio per
combattere questa forma di adorazione degli
angeli. Anche in questo caso, come per Monte
Sant’Angelo, la leggenda dell’apparizione risulta
fondata su precisi fenomeni geologici conseguenti al terremoto. Al tempo della proclamata
apparizione la fede cristiana era arrivata a
Colossae da meno di cinque anni. La leggenda
mostra infatti più le caratteristiche del culto degli
angeli tipico della ‘eresia Colossese’ che non
della fede cristiana professata da San Paolo. Lo
studio geo-mitologico consente quindi di approfondire l’esegesi dei testi sacri, non solo della
leggenda paleocristiana, le cui fondamenta naturalistiche sono state poi riconosciute anche dalla
Chiesa ufficiale10, ma anche della lettera di San
Paolo ai Colossesi. La chiusura di questa lettera
(Col. 4.17) contiene infatti il passaggio ritenuto
il più oscuro ed enigmatico dei testi di San
Paolo11 e si riferisce proprio all’esortazione ad
Archippo: «Dite ad Archippo: Considera il ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene».
A Colossae, come a Delfi e Monte Sant’Angelo,
è dunque possibile riconoscere ancora oggi gli
elementi costitutivi della leggenda sia dal punto
di vista archeologico che geologico. Lo studio dei
casi qui esposti riguardanti Apollo e Michele ci
mostra come alcuni dei più importanti culti del
passato, che hanno influenzato la società per
interi millenni, abbiano avuto le loro fondamenta
proprio in eventi geologici, e proprio da questi
traessero la convalidazione di base. La conoscenza di queste fondamenta geologiche rappresenta
quindi un elemento di cruciale importanza non
solo per la corretta comprensione dell’archeologia e della storia locale, ma anche dell’evoluzione culturale e religiosa della nostra società.
A Delfi e a Monte Sant’Angelo erano infatti
conservate le evidenze di fagliazione superficiale cosismica, non diversamente da quanto realizzato in tempi diversi in vari musei espressamente creati per preservare proprio parte della rottura sismica sulla faglia sismica (ad es. il Nojima
Fault Museum in Giappone, a seguito del terremoto di Kobe del 1995). Hierapolis, col suo
famoso Plutonium dove gli animali venivano
sacrificati per soffocamento da CO2 introducendoli nella camera sotterranea dove invece i
sacerdoti rimanevano illesi, non era diverso da
quello che veniva mostrato nella famosa Grotta
del Cane dei Campi Flegrei, una delle tappe
obbligate del Grand Tour in Europa fra 1600 e
1800. A Colossae, famosa già prima dell’apparizione per il lungo corso sotterraneo del fiume
Lycus, era possibile osservare la voragine dovuta al crollo cosismico della volta del fiume sotterraneo per circa un chilometro, e in concomitanza del quale era stato osservato il manifestarsi di una enorme fiamma scaturita in corrispondenza della voragine «tamquam columna ignea
pertingens a coelum in terra».
Analoga situazione geo-mitologica si riscontra per un altro famoso mito, quello del mostro
di Loch Ness. Quello che rende unico questo
mito è da un lato il fatto che possiamo vivere
l’esperienza diretta dell’ultimo dragone mitologico esistente (gli altri sono stati tutti ‘fatti fuori’ da
schiere di eroi, santi o dei), dall’altro il fatto che
si tratta di un mito paleocristiano che è stato
riesumato solo di recente, negli anni Trenta. Il
Loch Ness, luogo di indiscussa suggestione,
sembrerebbe infatti dovere la sua fama al verificarsi di particolari fenomeni naturali legati alla
presenza e all’attività della faglia della Great
Glen sulla quale il lago è impostato12. Tali fenomeni, inusuali per gli osservatori comuni, ma del
tutto comprensibili per un geologo, avrebbero
generato e alimentato la credenza criptozoologica. Risalendo alla fonte originale della leggenda
(Vita di S. Colomba, scritta da Adomnan, VII sec.
d.C.), nella versione in latino troviamo che un
forte tremore (ingenti fremitu) fu associato alla
prima apparizione del mostro (VI sec. d.C.).
Curiosamente anche qui, come a Monte
Sant’Angelo, nessuna delle molte versioni
- 27 -
SALTERNUM
moderne del testo traduce correttamente il termine, riportandolo invece come ‘boato’ o ‘ruggito’. Inutile dire che l’interpretazione geologica non è stata molto apprezzata dai vari fans di
Nessie.
I santuari qui discussi sono collegati da uno
stesso motivo di fondo, cioè il fatto che questi
miti sono originati su punti particolari relazionati a faglie sismiche. Il posizionamento di luoghi
sacri al di sopra delle tracce di faglie attive non
sembra d’altronde essere un fenomeno isolato,
limitato a pochi casi fortuiti. Esistono numerosi
casi analoghi, e sembra quindi che questa sia
stata in realtà una modalità di elezione dei luoghi sacri abbastanza diffusa nell’antichità13.
Come abbiamo visto, il loro studio può fornire
contributi utili sia per la conoscenza storica e
culturale dei luoghi, in modo da permettere
anche una loro miglior valorizzazione turistica,
che per un’adeguata stima della pericolosità
sismica locale.
NOTE
1
Sensu, VITALIANO 1973; PICCARDI 2007.a
2
PICCARDI - MASSE 2007.
3
DELL’AQUILA 1456.
4
Per una cui trattazione estesa si rimanda a precedenti
lavori: PICCARDI 1998; 2000a; 2005: 2007b; PICCARDI et Alii
2008.
5
PICCARDI 2000a; DE BOER et Alii 2001; ETIOPE et Alii 2006;
PICCARDI et Alii 2008.
6
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- 28 -
NICOLA FIERRO
Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia (AV)
L
’epigrafe, depositata nel Museo
Diocesano di S. Gerardo Maiella a
Lacedonia (AV), era stata reimpiegata in
epoca moderna come stipite di una finestra.
Si tratta dell’iscrizione funeraria di un veterano che aveva militato nella terza coorte pretoria,
databile alla fine del II o inizi del III sec. d. C.
Il blocco di calcare, spezzato al centro in
senso orizzontale, misura cm 47 x 47,5 x 14.
L’altezza delle lettere è di cm 5. Il centro dello
specchio epigrafico presenta un foro rettangolare, scalpellato in profondità, di cm 9 x 6, entro
cui forse era inserito un angolo di una grossa
cancellata. Questo foro, praticato nell’epigrafe,
nel secondo rigo, ha tagliato a metà, in senso
orizzontale, le ultime due lettere di VETERA[ni]
e, nel terzo rigo, ha obliterato le ultime due lettere di MILITAV[it].
Dopo un’accurata pulizia, negli ultimi tre
righi dell’epigrafe sono apparse sigle di difficile
lettura e interpretazione.
Ecco l’iscrizione integrale:
L(uci) DOMITI FORTV[nati]
VETERA(ni) AVGG(ustorum) N[n(ostorum), qui]
MILITAV[it] COH(orte) III [praetoria —- ]
M(unicipium) AQVILONI(ae) E(x) A(uctoritate)
PU(blica)
DOMITI S(enatus) C(onsulto) AE(re) P(ublico)
M(onumentum) D(edicavit))
C(larissimo) V(iro)
«Di Lucio Domizio Fortunato, veterano, il quale
militò nella terza Coorte Pretoria dei nostri Augusti.
Il Municipio di Aquilonia per il prestigio pubblico di
Domizio, in seguito alla decisione del Senato, con
denaro pubblico dedicò il monumento all’uomo
illustrissimo».
Fig. 1 - Epigrafe di Lacedonia.
L’epigrafe (fig. 1) inedita, ci presenta il veterano Lucio Domizio Fortunato come militante
nella terza Coorte Pretoria dei due Augusti: era,
in altri termini, guardia del corpo imperiale di
due principi. Vediamo chi sono gli Augusti citati nell’epigrafe. Il veterano Lucio Domizio
Fortunato, vissuto nell’età dei Severi (193-235
d.C.), militò nella Terza Coorte Pretoria al servizio di Geta e Caracalla (211-217). Erano questi i due Augusti citati nell’epigrafe di
Lacedonia. La data della morte di Lucio
Domizio Fortunato, perciò, va collocata nel
biennio 211-212, quando il potere era gestito
ancora dai due Augusti, figli dell’imperatore
Settimio Severo.
Nella storia militare di Roma ciò che costituì
un cambiamento radicale fu lo stanziamento
permanente nella stessa città delle coorti pretorie, comandate da un prefetto agli ordini diretti dell’imperatore. Le coorti inizialmente erano
nove, alle quali bisognava aggiungere altri seimila uomini, che avevano funzioni di polizia e
altre sette coorti di mille uomini ciascuna, i
vigiles.
- 29 -
SALTERNUM
Lo scopo palese degli imperatori romani era
appunto questo: garantire la propria sicurezza
personale e l’esercizio incontrastato del loro
potere sovrano. La vita militare era di per sé un
grave sacrificio. Per chi si voleva arruolare, l’età
base era di venti anni. I pretoriani godevano di
un trattamento economico privilegiato, che era
quasi il doppio di quello dei legionari. Però
l’impegno militare di servizio per i pretoriani era
di sedici anni. La statura minima richiesta era di
m 1,72. A questo bisognava aggiungere il divieto di matrimonio fino al congedo. La ferrea disciplina militare fu uno dei pilastri su cui si costruì
e si conservò il più grande impero della storia.
Nell’ambito di questa disciplina militare si svolse
la carriera di Lucio Domizio Fortunato.
Come è noto, Caracalla non volle dividere il
potere con suo fratello: dopo averlo fatto assassinare, per calmare l’indignazione dei pretoriani
aumentò la loro paga a 750 denari argentei.
Lo storico Elio Spaziano ci informa che
Settimio Severo (193-211), dopo aver lasciato la
prima moglie, venuto a sapere che in Siria vi era
una donna il cui oroscopo prediceva che sarebbe andata sposa ad un re, la fece cercare per
averla in moglie. Infatti l’ottenne attraverso la
mediazione di amici. Questa donna colta, Giulia
Domna, intelligente e di tempra volitiva e ambiziosa, non cessò mai di consigliare e spronare il
marito in tutte le sue imprese. Settimio Severo,
da parte sua, non mancò mai di manifestarle una
riconoscente venerazione. L’imperatore ebbe da
lei due figli: Caracalla e Geta.
Un’iscrizione ateniese attesta anche l’esistenza
di un culto ufficiale dedicato a Giulia Domna.
Sotto la sua intelligente guida, la corte imperiale
di Roma pullulava di dotti giureconsulti, poeti ed
eruditi. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare
che la corte del rude Severo sarebbe divenuta un
centro di vita mondana e di attività intellettuale1.
Grazie all’Imperatrice, la corte fu un centro di
sincretismo culturale e religioso tra Occidente e
Oriente. Infatti ella indusse il marito ad incrementare i culti orientali a Roma.
In molte iscrizioni e monete è salutata con i
titoli significativi di Augusta, Pia, Felix, mater
patriae. Ufficialmente era denominata mater
Augustorum, madre degli Augusti.
Settimio Severo, finché fu in vita, condivise il
potere con i suoi due figli. Il primogenito, Marco
Aurelio Antonino Bassiano, introdusse in Roma
la tunica gallica (caracalla), munita di cappuccio e maniche, che scendeva come una sottana
fino alle caviglie. Da quest’indumento sarebbe
poi derivato il suo soprannome: Caracalla.
Settimio Severo nell’anno 198 d.C. indicò ufficialmente al Senato la successione dei due figli
Caracalla e Geta. L’autoritario imperatore, secondo Erodiano, però era succube del suo prefetto
Plauziano, che esercitava su di lui un’inspiegabile
supremazia psicologica. La sfrontatezza e
l’arroganza di Plauziano giungevano fino al
punto di insultare e maltrattare Giulia Domna. Si
attribuisce a lui anche l’uccisione di Emilio
Saturnino, suo collega nella carica di prefetto, per
assicurarsi l’incontrastato dominio nell’incarico.
Avido, ambizioso, brutale, durante il periodo trascorso in Oriente al seguito dell’Imperatore egli
avrebbe predato province e città. Rientrato in
patria, assicura Dione Cassio, avrebbe fatto
castrare ben cento cittadini romani di nobile
nascita per poter assicurare la verginità della
figlia Fulvia Plautilla andata in sposa a Caracalla.
Questi, insofferente dell’autoritaria ingerenza del
suocero negli affari del suo governo e della sua
condotta privata, disgustato anche dal comportamento spudorato della moglie, dopo aver
accusato il suocero Plauziano di un complotto ai
danni di Settimio Severo, dette ordine a uno
schiavo di ucciderlo. Era il 22 gennaio del 204
d.C.. Plautilla, dopo la morte del padre, fu esiliata insieme al fratello nell’isola di Lipari, dove
morì più tardi per ordine di Caracalla.
Al posto di Plauziano fu nominato il giurista
Papiniano, a cui furono attribuite vaste competenze giudiziarie. In questo periodo a Roma
c’erano nove coorti pretorie: il veterano Lucio
Domizio Fortunato militava nella terza Coorte,
come attesta l’epigrafe.
È certo, dicono gli storici contemporanei, che
Caracalla attendeva con impazienza la morte del
padre. Il destino non tardò ad assecondare la
sua ambizione. Il vecchio e indomito Settimio
Severo, mentre si accingeva in Bretagna ad
intraprendere una nuova campagna contro i
ribelli Calcedoni, morì improvvisamente il 4 feb-
- 30 -
NICOLA FIERRO
braio del 211 d.C. Toccò al figlio Caracalla concludere le condizioni di pace e ricondurre
l’esercito in Italia.
La morte di Settimio Severo alimentò le ostilità, il crescente antagonismo e il sospetto tra i
suoi due eredi. Il progetto di dividere l’Impero
poteva forse rappresentare un tentativo di risolvere una situazione di crescente antagonismo, di
continui litigi e intrighi. Davanti al Senato e alla
madre Giulia Domna, Caracalla e Geta espongono i termini della ripartizione dell’impero: al
primo sarebbero andate l’Europa e l’Africa, al
secondo le province dell’Asia e dell’Egitto. Il
Senato, sia pure a malincuore, diede il suo
assenso, ma Giulia Domna contrastò con veemenza il piano divisorio.
Il prestigio dell’imperatrice s’impose e la
riunione si concluse con un nulla di fatto. Così
si aggravò l’inconciliabilità dei due eredi di
Settimio Severo. Intanto, scontri violenti accadevano continuamente fra i due fratelli: Caracalla
era sempre più geloso del fratello Geta perchè
questi godeva notevole stima e crescente popolarità sia nell’esercito sia nel mondo culturale del
tempo.
Dione Cassio attesta che Caracalla avrebbe
voluto assassinare il fratello il giorno dei
Saturnalia2, ma non era in grado di realizzare il
suo piano: troppo manifesto era il suo malvagio
proposito. Diversi soldati ed atleti sorvegliavano
Geta giorno e notte. Caracalla allora indusse la
madre ad invitarli da soli nel suo appartamento
allo scopo di conciliarli. Appena Geta fu entrato, alcuni centurioni, già istruiti da Caracalla,
irruppero nella stanza e l’uccisero. Eliminato il
fratello, si affrettò a conquistarsi il favore dei soldati facendo spargere la voce di essere stato lui
la vittima designata del complotto. Il tentativo di
rivolta dei pretoriani e dei soldati della legione
di Albano fu sedato con promesse di forti donativi. L’Historia Augusta narra i fatti che seguirono l’assassinio di Geta: notevole era
l’indignazione e il malcontento dei soldati che
avevano promesso fedeltà ai due principi.
Anche Lucio Domizio Fortunato, in qualità di
pretoriano, aveva promesso fedeltà agli imperatori. Egli forse fu spettatore diretto di questa
vicenda.
Fig. 2 - Busto di Geta.
Caracalla per calmare l’ira dei soldati mise in
atto promesse di elargizione e una dura repressione dei sostenitori del fratello ucciso. Il giorno
dopo il Senato non potè fare altro che prendere
atto della morte di Geta e accettare la versione
dei fatti fornita da Caracalla.
Intanto, alleati e sostenitori veri e presunti di
Geta vennero mandati a morte. La memoria di
Geta venne cancellata e il nome fatto sparire da
tutti monumenti, da luoghi pubblici e religiosi.
Era la damnatio memoriae. Durante quella lotta
fratricida era stato assassinato anche Papiniano,
emerito giurista del tempo, amico di Geta. Un
sicario, inviato da Caracalla, uccise il giurista con
un colpo di scure, ma fu aspramente rimproverato dallo stesso perchè non aveva usato la
spada.
Ad Orvieto di recente è stato scoperto il
fanum Voltumnae, il santuario federale degli
Etruschi. In quest’area sacra sotto la rupe di
Orvieto,
durante
gli
scavi
condotti
dall’Università della stessa città, in località
Campo della Fiera, è stato rinvenuto un busto di
Geta (fig. 2). La ricostruzione storica di questo
rinvenimento è stata fatta dall’archeologo
Filippo Coarelli. Caracalla, com’è noto, aveva
impartito l’ordine di distruggere tutte le immagini del fratello assassinato. Agli ordini arrivati da
Roma non era consentito opporsi: il busto, ivi
esistente, doveva essere distrutto.
Ma nel fanum Voltumnae, qualcuno, fedele a
Geta, forse un soldato o un sacerdote, seppellì il
busto con molto rispetto senza danneggiarlo:
collocò sotto la nuca una pietra a guisa di cuscino. Il busto di Geta, salvato da un suo oscuro
partigiano, non fu spezzato o frantumato. Così è
- 31 -
SALTERNUM
stato trovato integro. Di questo importante rinvenimento ha dato notizia Giuseppe M. Della
Fina, in un articolo, L’Imperatore cancellato,
pubblicato su La Repubblica, sabato 30 agosto
2008, p. 52 e nel n. 10 di Archeo, ottobre 2008,
p. 12, Il fratello “scomodo” di Caracalla.
L’importanza di questa inedita epigrafe, dedicata al militare Lucio Domizio Fortunato, sta nel
fatto che per la prima volta nella storia si ha la
testimonianza precisa che l’attuale Lacedonia in
antico si chiamava Aquilonia, un centro sannitico; non è però confermato che si trattasse
1
BESNIER M. 1901, L’Île tiberine dans l’antiquité, in “Rivista
italiana di numismatica e scienze affini”, Paris, p. 193.
dell’Aquilonia menzionata da Tito Livio (X, 38 e
ss.), nota per la battaglia tra Sanniti e Romani
del 293 a.C.
Ad oggi autorevoli storici e studiosi dibattono
sull’esistenza di due o più Aquilonia (G. Grasso)
senza aver trovato la soluzione più convincente.
Infatti vengono ubicate sul monte Vairano
(Gianfranco De Benedittis) o sul monte S. Paolo
nel comune di Colli al Volturno (Stefania
Capini). Quello che risulta è che l’epigrafe inedita scoperta a Lacedonia menziona esplicitamente Aquilonia, sede di municipium in età
romana.
Festività romana in onore del dio Saturno che si svolgeva
nel mese di dicembre.
2
- 32 -
PIETRO CRIVELLI
La schiavitù a Roma
L
’asservimento d’uomini da parte d’altri
uomini ha rappresentato per secoli e
secoli, fin dagli albori dell’umanità, uno
dei pilastri, forse il più importante, su cui si è
fondata l’economia di tutte le società umane.
Diciamo anche che, a mano a mano che le
condizioni di vita progredivano, aumentando le
esigenze della società e di conseguenza il
fabbisogno di forza lavoro, il ricorso agli schiavi
diveniva sempre più pressante. Osservando le
comunità umane del passato non ne troviamo
nessuna, almeno fra quelle di cui abbiamo una
qualche conoscenza, in cui non ci fosse il lavoro
degli schiavi ad assicurare condizioni di vita più
agiata ai loro padroni.
Sembra che una delle prime distinzioni fra gli
uomini, se non proprio la prima, sia stata quella tra gli uomini liberi e i non liberi asserviti ai
primi.
Non sappiamo quando e come abbia avuto
origine questa condizione umana. Certamente
l’aggressività, caratteristica della nostra specie,
unitamente allo spirito di affermazione e di
sopraffazione, ha avuto una parte preponderante nello sviluppo e nel radicamento di questa realtà sociale, ma si può anche supporre
che si sia affermata in modo quasi spontaneo,
nel senso che, in seguito a scontri fra gruppi di
uomini primitivi, coloro che erano stati fatti prigionieri si siano sottomessi di buon grado ai
vincitori al fine di evitare più gravi conseguenze. Possiamo anche pensare che gli individui
divenuti dominanti nel gruppo abbiano preteso
sempre di più da quelli gerarchicamente inferiori fino a privarli della libertà. Sono tutte queste delle ipotesi che qui interessano relativamente.
Dalle prime notizie di cui disponiamo in
forma scritta l’istituto della condizione servile di
non liberi appare già da molto tempo bene
affermato e consolidato: ne parlano i testi ittiti,
egizi, sumerici, le tavolette fittili rinvenute a Pilo
e a Cnosso, l’esame delle quali ci mostra con
evidenza che la produzione dei beni era affidata ad una manodopera servile; è ripetutamente
citato nel codice di Hammurabi, nel quale si
determinava il risarcimento dei danni personali
calcolato in modo differente secondo che il danneggiato fosse uno schiavo o un uomo libero.
Accettato comunemente, né nella Bibbia né nei
Vangeli troviamo il minimo accenno di riprovazione per ciò che allora sembrava essere nella
società una condizione assolutamente normale,
ma si avverte al più solo una compassionevole
considerazione. Nella Bibbia sono contenute
alcune norme relative al differente trattamento
degli schiavi di stirpe israelita e di quelli appartenenti ad altri popoli: «Quando alcuno dei tuoi
fratelli, Ebreo o Ebrea, si sarà venduto a te, sèrvati sei anni, e al settimo anno mandalo in libertà d’appresso a te (Dt. 15,12)». Appare evidente
che l’unica limitazione imposta dalla legge
ebraica è quella temporale: dopo sei anni di
sfruttamento lo schiavo deve essere affrancato.
Ma la norma non sembra estendersi agli schiavi
non ebrei. E’ anche possibile che sia limitata a
coloro che si sono venduti spontaneamente e
non agli schiavi acquisiti in altro modo.
Essere ridotti in schiavitù è un accidente
come un altro che può capitare a chiunque. Così
come nascere schiavo è un evento sul quale
l’uomo non ha alcun potere allo stesso modo
d’essere biondo o bruno o nascere in una famiglia ricca o povera.
- 33 -
SALTERNUM
La parola ‘schiavo’ evoca in noi, uomini del
XXI secolo, un senso di ripugnanza,
d’oppressione e di sofferenza non facile a
descriversi. In quel concetto si avverte la compressione della personalità umana al punto da
essere esposti a qualsiasi arbitrio senza alcuna
possibilità di difesa, di essere collocati in una
condizione animalesca pur conservando, e questo è l’aspetto più tragico, emozioni, sentimenti
e intelletto propri dell’uomo, perché essi prescindono dall’essere schiavi o padroni.
Per quanto riguarda la posizione degli schiavi a Roma sono diffuse molte convinzioni inesatte nelle quali è opportuno tentare di mettere ordine. Osserviamo per prima cosa che
l’unico paragone che sembra possibile è quello
con la condizione degli schiavi in Grecia per
una certa somiglianza culturale fra le due società in esame. Possiamo dire subito che le condizioni in Grecia dei doùloi (schiavi, in contrapposizione ai liberi eleùteroi) erano in media
meno dure di quelle esistenti a Roma, anche
perché erano diverse le due economie.
L’agricoltura era fatta in appezzamenti di
dimensioni piccole o medie, coltivate prevalentemente dagli stessi proprietari, magari con
l’aiuto di qualche servo. Lì non esistevano
grandi estensioni di terreni agricoli tali da
richiedere torme di personale per coltivarle.
Anche per questo motivo il numero degli schiavi di sesso maschile era in Grecia di gran lunga
inferiore a quello delle schiave e ciò inoltre
perché, soprattutto nel periodo miceneo e poi
in quello arcaico, quando una città era conquistata, gli uomini sopravvissuti al combattimento erano uccisi, mentre le donne ed i bambini
erano ridotti in schiavitù. Dall’esame delle tavolette fittili rinvenute a Pilo risulta un totale di
popolazione servile di circa settecentocinquanta donne oltre ad un numero equivalente di
bambini di entrambi i sessi, ma non vi appare
nessun uomo adulto. Una situazione particolare era quella degli Iloti a Sparta, schiavi non
tanto di singoli padroni quanto di una classe
cittadina superiore, quella degli Spartiati, che li
aveva confinati in una condizione d’inferiorità
sociale mantenendoli in uno stato continuo di
terrore.
Nell’età classica anche in Grecia il fabbisogno
di schiavi aumenta notevolmente ma non raggiunge, né mai raggiungerà, neanche lontanamente, quello che si riscontrerà a Roma. E il
numero ridotto è in qualche modo una garanzia
di migliore trattamento. Sia in Grecia sia a Roma
le condizioni peggiori per uno schiavo erano,
come vedremo, quelle di coloro che erano
impiegati nelle miniere.
Un aspetto degno di riflessione è quello che
riguarda gli schiavi statali (demòsioi) che in
Grecia assolvevano compiti di un certo rilievo,
erano utilizzati come uscieri ma anche come
funzionari della pólis di grado non molto elevato, e talvolta potevano essere addirittura armati
per svolgere compiti di polizia. Qualche cosa di
simile accadeva anche a Roma e nelle altre città
dell’Italia e dell’Impero, ove esisteva una categoria di servi publici populi Romani che erano adibiti a varie funzioni, da quelle più modeste
d’inservienti addetti alle terme o alla manutenzione delle latrine pubbliche a quelle più dignitose d’assistenza ai magistrati; in questo caso si
trattava ovviamente di persone di cultura piuttosto elevata o con adeguate cognizioni tecniche
che spesso ricevevano una retribuzione più che
apprezzabile.
Diversa era anche la legislazione fondamentale dello Stato che a Roma conferiva al pater
familias dei poteri particolarmente estesi: egli
aveva la potestà di vita e di morte sui suoi familiares, di vendere i figli o di adottare uno schiavo, il quale diventava per conseguenza un uomo
libero a tutti gli effetti. Questo era sancito dalle
leggi note come delle ‘XII Tavole’, risalenti alla
metà del V sec. a.C.
Nel corso degli anni la posizione dello schiavo a Roma era divenuta molto più varia ed articolata di quanto non lo fosse altrove; inoltre qui
egli poteva nutrire la speranza di ottenere la
libertà con maggiore facilità di quanto non la
potesse ragionevolmente nutrire quello greco.
La condizione di ‘liberto’ era molto frequente e
chi la raggiungeva si veniva a trovare in uno
stato non molto dissimile da quello degli altri
uomini liberi, conservando semplicemente alcuni doveri d’ossequio e l’obbligo di alcune prestazioni (operae) da fornire all’ex padrone - le
- 34 -
PIETRO CRIVELLI
caratteristiche e l’entità delle operae erano stabilite di volta in volta nell’atto d’affrancazione -;
non solo, ma i figli dei liberti divenivano cittadini romani senza alcuna limitazione, quasi che il
periodo di vita servile e poi quello nella condizione di liberto del genitore siano stati una specie di apprendistato familiare alla cittadinanza
romana; perciò anche il figlio dell’ex schiavo
trace o siriaco o altro ancora poteva affermare
con orgoglio: «civis romanus sum». Ne abbiamo
conferma a Pompei ove un’iscrizione (titulus)
sull’architrave all’ingresso del tempio di Iside ci
informa che «N. Popidius N. f. Celsinus Aedem
Isidis terrae motu conlapsam a fundamento
p(ecunia) s(ua) restituit. Hunc decuriones ob
liberalitatem, cum esset annorum sexs, ordini
suo gratis adlegerunt» («Numerio Popidio
Celsino, figlio di Numerio, ricostruì interamente,
a sue spese, il tempio di Iside abbattuto dal terremoto. Per questa sua munificenza i decurioni,
benché avesse solo sei anni, lo accolsero gratis
nel loro ordine»). Il padre di questo piccolo
benefattore si chiamava Numerio Popidio
Ampliato, era un liberto, già schiavo della gens
Popidia, eminente famiglia pompeiana, che,
come tale, non poteva aspirare a cariche pubbliche, ma che per quelle preparava la strada al
figlio. Quest’iscrizione si riferisce ad un tempo
successivo al terremoto che devastò la città nell’anno 63 d.C.: non sappiamo di quanto successivo, se di mesi o di anni, né se il piccolo
Popidio Celsino abbia fatto in tempo ad occupare effettivamente la sua carica di decurione
prima dell’eruzione del 79 che distrusse definitivamente Pompei.
Un certo legame tra l’ex schiavo ed il padrone permaneva nel fatto che colui che era affrancato da un cittadino romano accedeva automaticamente alla cittadinanza, mentre quello che
fosse stato affrancato da un peregrinus, cioè da
un suddito libero, che però non godeva della
cittadinanza, si veniva a trovare nella stessa
posizione dell’ex padrone e diveniva peregrinus
anche lui. Forse anche in questa norma
s’intravede quell’idea di ‘apprendistato’ ipotizzata in precedenza.
Viceversa, la condizione dello schiavo
liberato in Grecia era più articolata e soprattutto
più dura: basta rileggere le Leggi di Platone, ove
si prospetta l’idea che si possano rimettere le
catene al liberto che sia venuto meno a
qualcuno dei suoi doveri nei confronti dell’ex
padrone, ma anche che per contrarre
matrimonio dovrà fare quanto quello stabilirà
per lui e perfino che non gli sarà lecito
arricchirsi più di chi l’ha liberato; in tal caso la
differenza sarebbe andata a vantaggio di colui
che era stato, ed in parte continuava ad essere, il
suo padrone. Per di più il liberto non potrà
rimanere nella pólis per più di venti anni. La
conclusione di quelle norme è che se qualcuno
fosse risultato colpevole della violazione di una
di esse doveva essere condannato a morte ed i
suoi beni confiscati a vantaggio dell’erario.
Normalmente il liberto greco aveva ben poche
possibilità di ottenere la cittadinanza, alcune
eccezioni come quelle dei banchieri Formione e
Pasione debbono considerarsi come assolute
rarità. Sembra che, a differenza di quanto
accadeva a Roma, la preoccupazione di evitare
ogni commistione della cittadinanza con
elementi estranei ad essa sia stata prevalente su
ogni altra considerazione. Una legge della
seconda metà del V secolo a.C., forse voluta da
Pericle, stabiliva che potevano essere cittadini
d’Atene solo coloro che fossero stati figli di
genitori entrambi ateniesi. Per questo motivo gli
schiavi, normalmente non ateniesi, non
avrebbero mai potuto aspirare alla cittadinanza.
A Roma la cerimonia di affrancamento (manumissio) di uno schiavo avveniva sostanzialmente
in due modi: la manumissio vindicta (lett. con la
verga) era la forma solenne: nel corso del rito il
padrone o altra persona da lui designata toccava
con una verga l’uomo da affrancare, proclamandolo libero; la manumissio per testamentum o per
litteram avveniva allorché la liberazione dello
schiavo faceva parte delle disposizioni testamentarie lasciate dal padrone o in conseguenza di una
lettera con cui questi manifestava chiaramente la
volontà di affrancare il servo. A partire dal III sec.
d.C. (ma forse già da prima), si trova attestata una
terza pratica, la manumissio per mensam, consistente nell’invito che il padrone rivolgeva allo
schiavo a prendere posto alla sua mensa rendendolo perciò suo pari1.
- 35 -
SALTERNUM
Fig. 1 - Osca (Spagna). Iscrizione col decreto di Emilio Paolo a favore
degli schiavi della città.
Quale fosse l’atteggiamento mentale dei
Romani nei confronti dello schiavo affrancato lo
si può arguire da un papiro della collezione di
Ossirinco (Poxy IV, 706) risalente al 115 d.C. Vi
si parla di un contenzioso fra un certo
Heracleides ed un suo ex schiavo Damarion.
Dai nomi si arguisce che doveva trattarsi di elementi entrambi di origine greca. Il primo accusava il secondo di avergli negato alcune prestazioni. Il convenuto non negava il fatto, ma asseriva che non era tenuto a quanto gli era richiesto in virtù del documento scritto di affrancazione, che esibiva al prefetto dell’Egitto M. Rutilius
Lupus incaricato di giudicare il caso. Questi non
tenne conto alcuno della prova, pure così evidente, apparendogli forse assurdo che un liberto non avesse più alcun dovere nei confronti
dell’ex padrone, espresse quindi un giudizio di
condanna2.
Va anche osservato che molto difficilmente
tanto in Grecia, quanto a Roma gli schiavi erano
della stessa nazionalità dei padroni. Ad Atene
vigeva un’antica legge - risalente a Solone,
arconte in un anno compreso fra il 594 ed il 591
secondo le notizie forniteci da Diogene Laerzio
e da Aristotele – in forza della quale era vietato
ridurre qualcuno in schiavitù per debiti3. A
Roma, con la sola eccezione dei condannati per
alcuni reati e dei debitori insolventi, la maggior
parte della popolazione servile proveniva da territori considerati barbari o comunque non romani. Tuttavia anche qui con la lex Poetelia Papiria
del 326 a.C. fu di fatto abolita la possibilità di
ridurre in schiavitù il debitore insolvente. Fu una
conquista civile di notevole importanza.
Noteremo anche che Platone (La Repubblica)
ed Aristotele (La Politica) erano giunti a teorizzare che alcune popolazioni erano naturalmente destinate alla schiavitù. Per Aristotele era tra
l’altro la robustezza fisica dello schiavo a destinarlo ‘geneticamente’ al lavoro servile.
La quasi totalità della forza lavoro a Roma era
costituita da manodopera servile. Questo almeno a partire dalla fine del III sec. a.C. quando
l’espansione politica della città, prima nella
penisola e poi nel bacino del Mediterraneo,
aveva modificato profondamente l’assetto economico dell’agricoltura. I piccoli e medi proprietari furono sottratti al lavoro dei campi e costretti in armi per periodi sempre più lunghi. La conseguenza fu il passaggio di mano delle terre
agricole dai coltivatori diretti, che avevano
dovuto abbandonare i poderi, al grande latifondo dei patrizi, accresciuto spesso anche dall’occupazione di ager publicus (oggi diremmo di
terreni demaniali) tenuto a coltura o a pascolo
con l’impiego sempre più esteso di schiavi che
affluivano sui mercati in quantità crescenti e
conseguentemente a prezzi più accessibili, come
diretto ‘prodotto’ delle guerre.
A Roma, ma ancora di più in Grecia, era diffusa l’attività di alcuni imprenditori che possedevano un certo numero di schiavi da dare in affitto a chi ne avesse bisogno per periodi di tempo
limitati o per lavori occasionali o stagionali e
trarne quindi un reddito. Sappiamo da
Senofonte (Sulle entrate 4,14) che Nicia, il generale e politico ateniese morto nel 413 a.C. a
Siracusa durante la disastrosa spedizione avvenuta nel corso della guerra detta ‘del
Peloponneso’, aveva dato in affitto mille schiavi,
al prezzo di un obolo giornaliero ciascuno, ad
un proprietario di miniere d’argento, con
l’impegno da parte dell’affittuario di rimpiazzare
a sue spese quelli che fossero venuti a mancare.
Una clausola che è di per sé rivelatrice delle
condizioni lavorative cui erano sottoposti quegli
infelici.
Queste considerazioni ci portano ad un primo
interrogativo: come si diventava schiavi. I prigionieri di guerra rappresentavano certamente un
numero molto rilevante del totale, ma c’erano
anche altri modi. Già nei poemi omerici si parla
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PIETRO CRIVELLI
di servi come Euriclea, la nutrice di Odysseo, o
Eumeo, il porcaro, entrambi di origine ragguardevole, rapiti dai pirati quando erano bambini e
venduti come schiavi. Le scorrerie piratesche
erano dunque, per importanza, il secondo canale
di approvvigionamento. A queste due fonti si
debbono aggiungere, in quantità non sappiamo
quanto minore, coloro che erano ridotti in schiavitù per altre cause, come i debitori insolventi, i
figli venduti, abbandonati o non riconosciuti dai
padri, i condannati a pene che comportavano la
perdita della libertà personale; in qualche caso
accadeva che degli agricoltori che, per debiti,
avevano perduto il podere, di propria iniziativa
vendessero se stessi come schiavi, magari per coltivare lo stesso terreno che era prima di loro proprietà. Perdevano la libertà ma si assicuravano la
sopravvivenza. Ma c’erano anche coloro che
nascevano schiavi perché figli di genitori schiavi
essi stessi, non importava se entrambi o solo uno.
A mano a mano che si avanzava nel tempo,
si affinavano i gusti e quelli che una volta erano
considerati dei lussi divenivano esigenze di normale amministrazione e di conseguenza cresceva la richiesta di personale servile specializzato:
se prima bastava disporre di braccia da far lavorare, ora la domanda diventava più differenziata
e i prezzi di mercato aumentavano soprattutto
quando si trattava di elementi con doti particolari, destinati a servire da coppieri, cuochi,
camerieri, portatori di lettighe (lecticarii), ma
anche come medici, architetti o grammatici.
Questi ultimi erano prevalentemente di origine
o cultura greca. Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VII,
128) ci riferisce che un grammatico fu pagato
ben 700 mila sesterzi, una somma sbalorditiva se
si pensa che normalmente a quei tempi il prezzo di uno schiavo che non avesse doti particolari si aggirava sui 2500.
Il commercio degli schiavi era sorvegliato
dagli aediles, i magistrati che avevano l’incarico
di prendersi cura dei templi innanzi tutto, ma
anche delle vie cittadine, dell’ordine pubblico,
degli spettacoli, della polizia urbana e della vigilanza sui mercati. I mercanti, non diversamente
da quelli che trattavano il bestiame, erano abili
a nascondere i difetti della loro merce ed a farla
apparire migliore di quanto fosse realmente.
Il mercato si teneva in genere nel Foro, ove i
venditori esibivano la mercanzia umana su un
palco in modo che tutti potessero vederla e ne
decantavano i pregi. Ma nella città esistevano
pure altri posti in cui si svolgeva il commercio
degli articoli di lusso e qui si potevano acquistare servi di maggior pregio dei due sessi, da
destinare a funzioni di rappresentanza o ad
appagare i piaceri dei padroni.
Ma il gran commercio degli schiavi avveniva
in particolare proprio in Grecia, a Delo e, in
misura leggermente minore, ad Atene ove,
Fig. 2 - Aphrodisias (Turchia). Statuetta in marmo nero di giovane
schiavo.
- 37 -
SALTERNUM
secondo quanto ci riferisce il geografo e storico
Strabone, ai suoi tempi, cioè in età augustea,
giornalmente si acquistavano e si vendevano
migliaia di uomini.
La tecnologia moderna ci fornisce i mezzi per
rendere la vita più facile e soprattutto meno faticosa, ma duemila anni prima del nostro tempo
la situazione era completamente differente e
coloro che volevano e potevano avere
un’esistenza agiata sottraendosi alle esigenze
quotidiane dei lavori di casa, di quelli agricoli e
di tutte le altre necessità erano costretti a ricorrere all’opera dei servi. In questo contesto sociale quanti ne possedevano solo uno o due erano
classificati tra i poveri, mentre il poter ostentare
una numerosa servitù costituiva una rappresentazione sociale di sé a quella proporzionata. Il
poeta Orazio (Sat. I.6, v. 78) ricordando la cura
che il padre, liberto, aveva messo nella sua educazione, afferma che se qualcuno avesse posto
attenzione al numero dei servi che lo seguivano
quando andava a scuola lo avrebbe creduto
appartenente ad un ceto sociale notevolmente
superiore a quello di cui faceva parte. La sua
condizione di figlio di un liberto, evidentemente benestante, non gli aveva impedito di prestare il servizio militare con il grado di Tribunus
militum nell’esercito di Marco Bruto a Filippi, di
godere dell’amicizia di Mecenate e d’Augusto e
di potersi permettere di opporre un rifiuto a
quest’ultimo quando gli chiese di fargli da segretario particolare, senza che la cosa gli creasse
alcun problema.
Alcune fonti storiche (quali Ateneo II-III sec.
d.C., l’autore de I Dipnosofisti ovvero I Sofisti a
banchetto, VI, 272) ci riferiscono che molti
Romani possedevano da 10 mila a 20 mila schiavi. Naturalmente solo in minima parte erano
impiegati nel servizio domestico del padrone e
dei familiari; si trattava di grandi proprietari terrieri che destinavano quella moltitudine alla coltivazione delle loro terre in Italia ed in Sicilia ed
a tutte quelle attività accessorie che rendevano le
grandi villae rusticae autosufficienti per quanto
riguardava l’approvvigionamento di attrezzi da
lavoro, di carri, di contenitori fittili e d’altro tipo
o di mattoni; perciò in quelle trovavano impiego,
oltre alla massa dei lavoratori agricoli veri e pro-
pri, anche fabbri, falegnami, muratori, calderari,
ceramisti, calzolai, tessitori ed ancora il personale amministrativo, i sovrintendenti, i sorveglianti,
i guardiani perché la condizione servile non
escludeva una gerarchia. Era anzi proprio questa
gerarchia a creare per coloro che erano ai livelli
inferiori le condizioni di vita più dure, perché i
preposti, per ben figurare di fronte ai padroni,
imponevano ai dipendenti ritmi e carichi di lavoro sempre più gravosi anche ricorrendo a mezzi
coercitivi particolarmente violenti. Negli ergastula annessi alle villae rusticae gli schiavi erano
tenuti rinchiusi per evitare possibili fughe, talvolta incatenati quando vi era ragione di temere che
ciò potesse accadere. Plinio il Vecchio definisce
questa categoria ‘uomini senza speranza’. In
compenso spesso erano ben nutriti, sia perché
fossero nelle condizioni fisiche più idonee per
lavorare proficuamente, sia perché il nutrimento
era a portata di mano. Frequentemente in queste
fattorie esisteva anche una specie d’infermeria
(valetudinarium), ove erano curati gli schiavi
ammalati. Talvolta era presente anche un medico, spesso schiavo anche lui. Si dava così anche
il giusto peso alla salute e all’igiene personale
dei servi, in qualche caso mettendo a loro disposizione dei bagni (balnea), ove potessero lavarsi
e anche ritemprarsi dalle fatiche. Il tutto in una
visione dell’ottenimento della massima produttività.
Una situazione molto peggiore era quella
degli schiavi utilizzati nelle miniere: al trattamento disumano si aggiungeva l’ambiente di
lavoro duro già di per sé. Se solo pensiamo che
allora l’unica fonte di illuminazione artificiale
era fornita da torce e lucerne è facile immaginare quale aria dovevano respirare coloro che
lavoravano in miniera. Non per nulla era un
lavoro al quale erano destinati, oltre gli schiavi,
i condannati per delitti molto gravi. La damnatio ad metalla era una pena inferiore, forse, solo
a quella di morte, la damnatio capitis. Diodoro
Siculo (Bibliotheca historica V, 36-8) narra che
in Spagna, nel corso dell’ultimo periodo repubblicano, gli schiavi lavoravano nelle miniere in
condizioni tremende, fino a morire.
Chiaramente le condizioni degli appartenenti
alla familia urbana erano molto migliori:
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PIETRO CRIVELLI
l’aspetto dello schiavo contribuiva a dare prestigio al padrone, pertanto, soprattutto a partire
dalla tarda età repubblicana, erano vestiti non di
vecchi stracci, come suggeriva una volta Catone
al figlio, ma con abiti più dignitosi, talvolta sfarzosi ed erano nutriti in modo adeguato.
Naturalmente esistevano condizioni molto differenti in ragione delle possibilità economiche dei
padroni e della loro maggiore o minore generosità o avarizia.
Nell’insieme quelli che vivevano nella stessa
casa del padrone erano dei privilegiati che potevano anche sperare in un futuro meno brutto di
quello che avevano avanti a sé gli appartenenti
alle familiae rusticae. Se questi nella migliore
delle ipotesi avevano la speranza di salire solo
qualche gradino nella scala gerarchica servile,
gli altri potevano augurarsi anche la libertà, la
manumissio. Anche per questo il trasferimento
dalla casa cittadina alla campagna era da considerare un provvedimento fortemente punitivo.
E’ quanto minaccia Orazio ad un suo servo
eccessivamente chiacchierone: «...se non sparisci
subito andrai come nono lavoratore agricolo in
Sabina», («…ocyus hinc te ni rapis, accedes opera
agro nona Sabino», Sat. II, 7, vv. 117-118).
Le commedie di Plauto ci presentano tipi di
servi furbacchioni, imbroglioni, pronti a tutto a
danno del padrone, soprattutto se è un avaro,
spesso in accordo con il figlio di questo.
Facendo salve le esigenze della comicità teatrale, si deve però pensare che dei comportamenti
piuttosto ‘liberi’ di alcuni elementi della servitù
non dovessero essere del tutto insoliti.
Sono prevalentemente i servi della familia
urbana quelli che vanno ad ingrossare le fila dei
liberti, mentre al contrario le grandi rivolte di
schiavi traggono origine da coloro che erano
impiegati in agricoltura od in altre attività gravose. Nel 136 a.C., in Sicilia, uno schiavo d’origine
siriaca, Euno, capeggiò una rivolta che in poco
tempo divenne una vera e propria guerra. In
breve gli insorti raggiunsero il numero complessivo di 200 mila, anche se non tutti combattenti,
e divennero padroni di tutta la Sicilia, massacrarono le popolazioni di alcune città, sconfissero
un esercito romano e la lotta si protrasse per
circa quattro anni. Alla fine, la ribellione fu sof-
focata nel sangue, anche se, stranamente, i
Romani non infierirono eccessivamente, limitandosi per lo più a restituire gli schiavi catturati ai
proprietari, che altrimenti avrebbero subito un
ulteriore danno patrimoniale; anzi Euno morì in
cattività, ma di morte naturale. Ma la rabbia
rimase e un’altra sommossa, anche se di minore
portata, avvenne nuovamente dal 104 al 101 a.C.
Più pericolosa delle precedenti fu la ribellione guidata da Spartaco, che si spinse a minacciare la stessa Roma. Iniziò verso la metà del 73
a.C. per opera di uno schiavo originario della
Tracia, un valido guerriero, che aveva militato
nelle legioni ausiliarie romane e che forse in
precedenza era già stato un comandante di truppe nel suo paese d’origine; passato a servire
nelle truppe ausiliarie romane, era poi finito,
chissà come e perché, in schiavitù. Spartaco,
proprio per la sua abilità nell’uso delle armi, era
stato destinato a fare il gladiatore e condotto
nella scuola di Capua; ribellatosi, fu a capo di
una sollevazione che si estese a buona parte
dell’Italia meridionale. I rivoltosi formarono un
esercito ben armato a spese dei Romani stessi,
che, ripetutamente colti di sorpresa, erano stati
battuti dal Trace, il quale aveva mostrato capacità tattiche non comuni. I consoli eletti per l’anno
72 a.C. si dimostrarono inferiori alle attese e
assolutamente incapaci di opporsi adeguatamente ai rivoltosi che ormai avevano raggiunto
il numero di 40 mila combattenti, più o meno
l’equivalente di sette legioni romane, e sicuramente, a differenza dei rivoltosi di sessanta anni
prima, annoveravano fra di loro un numero considerevole di soldati che erano stati fatti prigionieri nel corso delle recenti campagne di Mario,
Silla e Pompeo e perciò addestrati all’uso delle
armi.
Spartaco marciò verso il nord Italia nell’intento di raggiungere le Alpi e di lì dare la possibilità ai ribelli di raggiungere i loro paesi d’origine.
Giunse fino a Modena, ma l’odio che i suoi
uomini nutrivano contro Roma era così forte e
ben radicato che pretesero di essere condotti ad
espugnarla. Nella circostanza egli dimostrò le
doti di un vero capo, intuì subito che in quel
modo non si sarebbe ottenuto nulla di buono,
ma, non potendo opporsi del tutto alla volontà
- 39 -
SALTERNUM
dei suoi, li guidò in Lucania seguendo la costa
adriatica. Il Senato finalmente comprese che il
male era tale da richiedere una cura energica ed
affidò la direzione della guerra, ricordata come
bellum servile, ad un veterano dell’esercito di
Silla: M. Licinio Crasso, il futuro triumviro, che si
era già distinto nella guerra civile. Questi, con
pugno di ferro, ripristinò la disciplina nelle
legioni e quindi avanzò verso il nemico, che
frattanto si era ritirato nel Bruzio (attuale
Calabria) con l’intento di passare in Sicilia e da
lì in Africa, e tentò di bloccarlo costruendo una
fortificazione che dal mar Tirreno raggiungeva
lo Ionio. Ancora una volta il suo avversario
riuscì a sgattaiolare fuori dalla trappola per raggiungere nuovamente la Lucania e l’Apulia. Ma
ora Crasso gli era addosso ed in due battaglie
consecutive distrusse l’esercito dei ribelli (71
a.C.). Spartaco cadde combattendo, gli schiavi
sopravvissuti furono crocifissi lungo la via Appia
fino alle porte di Roma, come monito per coloro che fossero stati tentati di ripetere le stesse
gesta.
E’ importante osservare che nella circostanza
la sollevazione prese corpo tra i gladiatori e gli
schiavi delle campagne, mentre fu del tutto insignificante il numero degli insorti e dei fuggitivi
fra gli schiavi di città: ciò dimostra ancora una
volta quanto fossero differenti le condizioni di
vita tra le due categorie servili.
Dobbiamo considerare indicativo il fatto che
in Grecia non si siano riscontrate rivolte come
quelle citate, che hanno creato non poche
preoccupazioni a Roma; probabilmente ciò
potrebbe confermare quanto già detto: che gli
schiavi di sesso maschile non erano molto
numerosi e che nel complesso le condizioni di
vita a cui erano assoggettati non dovevano essere particolarmente dure.
Abbiamo fin qui esaminato gli aspetti più
brutti dell’esistenza degli schiavi, ma c’erano
anche aspetti meno negativi, riconducibili ad un
insieme di fattori. Innanzi tutto non bisogna trascurare il fatto che gli schiavi avevano un costo
che, come abbiamo visto, poteva essere anche
molto elevato e ciò spingeva di per sé i proprietari ad avere cura di un bene di valore.
Certamente il gramaticus che era costato una
cifra rilevante era trattato con ogni cura e sicuramente aveva a sua volta altri servi a disposizione per le necessità quotidiane (questi servi
dei servi erano chiamati vicarii): il prezzo pagato era la migliore assicurazione e senza dubbio
un suo semplice malanno normalmente trascurabile provocava al padrone una sensazione
dolorosa, se non all’animo certamente alla tasca.
Il valore intrinseco del servo, per funzioni o per
bellezza non importa, costituiva la misura delle
sue migliori o peggiori condizioni di vita. In
fondo un cavallo da corsa, soprattutto se è un
campione, gode di un trattamento ben diverso
da quello che è destinato a tirare il carretto del
fruttivendolo. E la posizione giuridica del servo
è analoga a quella degli animali. Nella legislazione di molte città greche una stessa legge prende
in considerazione tanto gli animali domestici
quanto gli schiavi. Catone il Censore (234-148
a.C.) nel suo trattato De Agricultura (56-59)
parla delle razioni alimentari destinate ai servi
quasi contestualmente all’alimentazione dei
buoi. L’accostamento non è casuale perché
effettivamente servi e buoi erano considerati
sullo
stesso piano: semplice forza lavoro.
Domizio Ulpiano - illustre giurista romano, prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo e
morto assassinato nel 228 d.C. - autore di molte
opere di dottrina giuridica, considera la fuga
degli schiavi equivalente alla perdita di bestiame. Prima di lui Gaio, altro giurista romano del
II sec. d.C. autore di un’opera giunta a noi molto
lacunosa con il titolo di Institutiones, divide tutti
gli uomini in due categorie fondamentali: liberi
e schiavi ed i primi in ingenui e liberti, a seconda che fossero nati liberi o fossero stati liberati
dalla schiavitù (1; 9-11).
Anche coloro che erano stati destinati a combattere come gladiatori potevano sperare di salvare la pelle, magari con qualche cicatrice.
Sembra che di solito quando un gladiatore avesse conseguito almeno dieci vittorie in combattimenti nell’arena venisse liberato, intascando
anche un discreto gruzzolo. D’altra parte non
dovevano passarsela proprio male se anche
molti uomini liberi si arruolavano spontaneamente per combattere nei giochi del circo, i circenses.
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PIETRO CRIVELLI
I proprietari delle colonie di gladiatori investivano cifre molto alte per addestrare e mantenere convenientemente i loro combattenti ed
erano restii a perderli con facilità; per questo
motivo, con molta frequenza, intercorrevano
degli accordi con gli organizzatori dei giochi
perché le perdite umane fossero ridotte al minimo. Sappiamo che nell’anno 59 d.C., nel corso
di uno spettacolo gladiatorio offerto dal senatore Livineio Regolo, scoppiò a Pompei una colossale zuffa tra Nocerini e Pompeiani, a causa
della quale ci furono anche dei morti. Per conseguenza Nerone decise la ‘squalifica’ dell’anfiteatro cittadino per dieci anni. Sembra che i disordini siano stati causati da motivi politici, ignoriamo però se all’origine delle violenze popolari e come causa scatenante delle stesse non ci
sia stato anche qualche accordo del tipo citato
che abbia fatto inferocire gli spettatori e provocato la loro reazione.
Molti gladiatori, come avviene oggi per i calciatori, quando giungevano al termine dell’attività nel circo, diventavano istruttori (lanistae)
delle nuove leve destinate a sostituirli nell’arena.
Questi erano considerati persone che esercitavano un mestiere spregevole, alla stessa stregua
dei lenoni e anche degli attori, ma la riprovazione non si estendeva agli impresari. Tutte queste
attività erano perciò affidate a schiavi od a liberti. Forse la maggioranza di coloro che morivano
nei circhi era, in realtà, rappresentata dai condannati a morte mandati a combattere senza
alcun addestramento preliminare e perciò destinati a soccombere di fronte ad avversari più
agguerriti.
Aumentando il numero degli schiavi cresceva
di conseguenza quello degli affrancati, cioè dei
liberti. Il passaggio dalla categoria servile a quella dei liberti poteva avvenire in vari modi. Per
benevolenza del padrone, è il caso per esempio
di Tirone, segretario di Cicerone, inventore di
un sistema di scrittura abbreviata, una specie di
stenografia, le notae tironianae. Fra i due si era
stabilito un rapporto d’amicizia ed affetto e
Tirone che, pur di salute cagionevole, sopravvisse di molti anni al suo ex padrone, curò anche
la pubblicazione di molte opere ciceroniane, tra
cui l’orazione In Verrem.
Ma lo schiavo aveva anche la possibilità di
raggranellare un po’ di denaro, il cosiddetto
peculium, con cui acquistare la propria libertà.
Naturalmente anche in questo caso occorreva
che vi fosse un atteggiamento non negativo da
parte del padrone, il quale, volendo, avrebbe
potuto semplicemente appropriarsi della
somma, in quanto il servo, soprattutto ai tempi
della Repubblica, non aveva diritti. C’era però
un aspetto particolare che riguardava gli schiavi
che esercitavano un’attività artigianale o professionale: il peculium con la prospettiva della
libertà rappresentava un potente stimolo a lavorare di più e meglio e ciò andava a vantaggio
anche del padrone, che partecipava agli utili del
lavoro del suo servo. Un’altra spinta verso la
concessione della libertà agli schiavi era data dal
fatto che ai patrizi era fatto divieto di svolgere
attività commerciali. La legge romana prevedeva
che a questa categoria superiore di cittadini
fosse consentito solo il reddito derivante dal
possesso della terra. Forse era un modo di vincolare al territorio le persone e renderle perciò
più sollecite verso la patria comune; d’altra parte
non si deve dimenticare che in origine il popolo romano era un popolo di agricoltori che,
anche successivamente e soprattutto nelle classi
più elevate, ha conservato un legame profondo
con il mondo agricolo: nomi come Agricola,
Cornelio, Asinio, Porcio sono una prova di questa connessione. Fatto sta che si trovò il modo
di aggirare la legge affidando la gestione degli
affari commerciali ad uomini liberi, ma che conservavano pur sempre un legame con gli antichi
padroni, e che, a differenza dei servi, erano abilitati ad agire a proprio nome. Molti liberti così
raggiunsero condizioni economiche invidiabili e
il loro stato giuridico li collocò in una posizione
analoga a quella degli altri cittadini già a partire
dal periodo delle guerre sannitiche: infatti nel
306 a.C. la legge voluta da Fabio Rulliano li integrò come cittadini, disponendo la loro iscrizione
nelle quattro tribù urbane. Con il passare del
tempo la loro importanza nella città andò progressivamente accrescendosi, per raggiungere
sotto l’impero un rilievo sempre maggiore.
L’imperatore Claudio fece di alcuni suoi liberti
(ricordiamo Narciso e Pallante) una specie di
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SALTERNUM
ministri imperiali e allo stesso modo si regolarono altri imperatori; vero è che la loro fortuna era
strettamente legata a quella del loro patrono ed
in quei tempi non era facile che gli imperatori
finissero di morte naturale. I due liberti di
Claudio ora citati fecero una brutta fine per
mano di Nerone. Si salvò invece un altro liberto
di Claudio, Elio, che anzi fu nelle grazie di
Nerone al punto che durante il viaggio di questi
in Grecia ebbe l’incarico di reggere l’impero in
sua vece.
Con la seconda guerra punica si assistette ad
un fenomeno che deve far pensare che in fondo
la condizione servile in quel periodo non doveva essere particolarmente dura, perché, lungi
dall’approfittare della circostanza che vedeva
Roma in condizioni di gravi difficoltà, schiavi e
liberti si mantennero fedeli come se fossero tutti
Romani a pieno titolo, meritando di essere premiati con una legge plebiscitaria del 189 a.C.
che stabilì che i figli dei liberti godessero di tutti
i diritti civili al pari degli altri cittadini. Tito Livio
(Hist. XXII 57) riferisce che dopo la sconfitta di
Canne furono riscattati a spese dell’erario ottomila schiavi che si dichiararono disposti ad
arruolarsi nell’esercito. A Roma, così come in
Grecia, i non liberi erano esclusi dalla milizia.
Continuando nell’esame delle condizioni di
vita e giuridiche degli schiavi, è interessante
osservare un caso in cui Cicerone fu avvocato di
un tale Quinto Roscio. Questi era una specie
d’impresario teatrale, forse un liberto, che aveva
curato la preparazione all’attività scenica di uno
schiavo di proprietà di un certo Fannio. Tra
Roscio e Fannio si era creata una società per lo
sfruttamento delle capacità teatrali dell’uomo,
con una ripartizione degli utili. Un brutto giorno
però lo schiavo fu ucciso. Ne seguì un contenzioso, prima con l’uccisore e poi fra i due ex
soci, per la divisione del risarcimento. In tutto il
dibattimento si parla di soldi, di danni subiti dall’uno o dall’altro contendente, ma del povero
schiavo se ne parla come ora si parlerebbe di un
veicolo coinvolto in un sinistro stradale.
Con l’andare dei tempi si venne attenuando il
potere assoluto del pater familias nei confronti
di tutti gli appartenenti alla sua casa, la familia
appunto, che comprendeva anche la servitù. La
politica di Augusto introdusse gradatamente una
maggiore liberalità nei rapporti fra padroni e
schiavi ed un più incisivo intervento dello stato.
In proposito si deve porre attenzione ad un
senatusconsultum del 9 d.C., noto come
Silanianum dal nome del proponente, che prevedeva la condanna a morte dello schiavo che si
fosse astenuto dal soccorrere il padrone qualora
questi fosse stato aggredito. La portata giuridica
del provvedimento era rafforzata dal fatto che il
testamento di un dominus, morto per morte violenta, non doveva essere aperto se prima non
fosse stata conclusa l’inchiesta sul decesso del
testante e non fossero state eseguite le eventuali sentenze di condanna. Questo nel timore che
gli eredi, da un lato potessero essersi accordati
con gli schiavi per accelerare l’iter successorio e
da un altro potessero essere indotti a salvare i
servi, anche se colpevoli, al fine di non depauperare il patrimonio. L’attenzione degli imperatori ebbe anche dei risvolti più umanitari per il
trattamento degli schiavi, come la libertà accordata ope legis a coloro che fossero stati abbandonati dai proprietari perché malati o troppo
vecchi per lavorare: questi rappresentavano per
i loro padroni un peso inutile e l’imperatore
Claudio (41-54 d.C.) dovette addirittura emanare
un provvedimento di proibizione di ucciderli.
Ciò significa che in precedenza era una pratica
non insolita. Circa un secolo dopo fu
l’imperatore Adriano (117-138) a vietare, sempre
ed in ogni caso, l’uccisione degli schiavi. Infine
Costantino (312-337) equiparò l’uccisione di uno
schiavo all’omicidio di un libero.
Contemporaneamente a queste misure umanitarie ne furono adottate anche altre repressive,
per cui se uno schiavo uccideva il suo dominus
dovevano essere messi a morte tutti gli altri servi
della familia presenti nel luogo ove era avvenuto il delitto (Nerone aveva così riesumato e reso
più dura la legge risalente al periodo augusteo):
evidentemente la norma era intesa a proteggere
i padroni, punendo la corresponsabilità o anche
la sola indifferenza. Tuttavia la norma non
dovette essere sufficiente, perché Traiano (98117), che pure era uomo equilibrato, la estese
fino a comprendervi i liberti. Poiché le leggi
nascono, si formano e si sviluppano in relazio-
- 42 -
PIETRO CRIVELLI
ne a quanto accade nella società, si deve pensare che il criterio che ispirò Traiano sia nato dal
fatto che anche dei liberti si fossero macchiati o
resi complici di quel delitto o per sottrarsi ai
residui doveri che avevano nei confronti degli
ex padroni oppure per qualche altro motivo. E’
pur vero che molto spesso i liberti erano crudeli e viziosi tanto più quanto più erano divenuti
ricchi. Ci è giunta memoria di un tale Vedio
Pollione, un liberto, che gettava gli schiavi da
punire nelle vasche ove si allevavano le murene
(Seneca, De Clem. I, 18, 2). Il fatto non doveva
essere nella consuetudine, altrimenti Seneca non
lo avrebbe ricordato, ma sicuramente manifestazioni di crudeltà si dovevano registrare con una
certa frequenza e che spesso gli autori fossero
degli ex schiavi si può spiegare con il desiderio,
certamente riprovevole, ma in fondo miserevolmente umano, di rivalersi, non importa come e
su chi, delle mortificazioni precedentemente
subite. Era tuttavia naturale che tra i liberti fossero abbondantemente presenti anche personaggi poco gradevoli, ricchi sì di denaro, ma
anche di volgarità e di pessimo gusto. Petronio,
il raffinato arbiter elegantiarum, ci ha lasciato il
divertente ritratto di Trimalcione, uno di questi
buzzurri arricchiti, dal comportamento ridicolmente disgustoso.
Fortunatamente non sempre le cose erano
così brutte: Tacito (Hist. I, 3 ed Ann. XV, 57) ci
fornisce notizie ed esempi, come quello famoso
di Epicharis, in cui schiavi e liberti sopportarono le più atroci torture per difendere i padroni
accusati di aver preso parte alla congiura di
Pisone contro Nerone.
Per comprendere meglio la vita degli schiavi
a Roma nel I sec. d.C. è interessante rileggere le
lettere a Lucilio di Seneca, in particolare la 47,
che, mentre consiglia mitezza e tolleranza nei
confronti della servitù, ci illumina anche su un
aspetto particolare del problema, quello dell’inversione dei ruoli; dice il filosofo: «Quanti di
questi schiavi hanno alle loro dipendenze i
padroni di un tempo! Vidi stare in attesa davanti alla porta di Callisto il suo antico padrone e lui
che gli aveva fatto appendere al collo il cartello
di vendita e che l’aveva esposto al pubblico fra
i rifiuti degli schiavi ora veniva lasciato fuori
mentre gli altri entravano». Come era potuto
accadere ciò? Forse il padrone in difficoltà economiche era stato costretto a vendere gli schiavi fino a ridursi in miseria, mentre Callisto otteneva la libertà dal nuovo padrone, che sappiamo essere stato l’imperatore Caligola. Certo è
che Callisto fu un altro liberto che ebbe poi
importanti incarichi sotto Claudio e ciò gli diede
la possibilità di vendicarsi.
Sembra che Seneca, fino a quando rimase
nelle grazie di Nerone, sia stato il capofila di
quanti sostenevano il diritto dei servi ad un trattamento umano, in contrasto con un atteggiamento di chiusura del senato. Non sappiamo poi
come il filosofo si comportasse nel privato:
come si sa, era un personaggio piuttosto contraddittorio.
Un altro aspetto della condizione servile era
quello che consentiva allo schiavo di scegliersi
una compagna tra le schiave di casa, una conserva e di vivere con lei come se fossero sposati. Questa convivenza, che si chiamava contubernium, non era riconosciuta giuridicamente
ma, in fondo, era quasi sempre ben vista dai
proprietari, che con la nascita di figli vedevano
accresciuto il loro patrimonio. Era certamente
questa una grande consolazione per chi fosse
costretto a vivere nella condizione servile.
Una piccola stele funeraria di marmo di età
augustea recita: «NEBULLUS MARTHAE CONSERVAE – Fleui, Martha, tuos extremo tempore casus
ossaque composui. Pignus amoris habes».
«NEBULLO A MARTA, COMPAGNA NELLA
SCHIAVITÙ. Piansi o Marta, i dolorosi eventi dei
tuoi ultimi momenti e composi le tue ossa.
Ricevi questo pegno d’amore», poche commoventi parole che valgono più di un poema.
Nell’età imperiale si ebbe un’ulteriore protezione per i conviventi, con il divieto di venderli
separatamente.
Uno dei problemi che si poneva a tutti, liberi, liberti o servi che fossero, era quello di avere
alla morte un funerale decente. A parte i ricchi,
per i quali la questione non esisteva, chi non
poteva assicurarsi esequie dignitose quando era
in vita era destinato a finire gettato in una fossa
comune. Per evitare questa squallida conclusione della propria esistenza si formarono dei col-
- 43 -
SALTERNUM
passo per raggiungere la
libertà. Non erano perciò
solo i liberti che raggiungevano posizioni economiche invidiabili: molti
schiavi utilizzavano il loro
peculium investendolo in
attività che potevano
accrescerlo, anche acquistando in proprio altri
schiavi. Abbiamo accennato ai vicarii: il rapporto
giuridico intercorrente fra
questi e lo schiavo-padrone era identico a quello
esistente fra quello ed il
dominus. Sesto Pomponio,
Fig. 3 - Hadrumentum (Tunisia). Particolare di un mosaico con la messa in scena di una commedia, forse di giurista del II secolo, autoPlauto, con uno schiavo incatenato.
re di un compendio di storia del diritto romano, cita
legia funeraticia, cioè delle confraternite che
il caso di uno schiavo che praticava il lenocinio
avevano lo scopo di assicurare delle onoranze
facendo prostituire delle schiave acquistate col
funebri quanto meno passabili ai propri soci, i
suo peculio. Il diritto consolidato dell’epoca prequali pagavano al sodalizio una certa somma
vedeva che i vicarii fossero proprietà dello
mensile o annuale a questo fine. A tali associaschiavo e non del loro padrone.
zioni di tenuiores, vale a dire di persone piuttoUn vecchio studio, basato sull’esame di molte
sto povere, molto spesso partecipavano anche
epigrafi funerarie4 arrivò a stabilire che gli artidegli schiavi, naturalmente con il consenso dei
giani a Roma erano così suddivisi: 27% liberi,
loro padroni. Anche in questo caso si deve regi66,75% liberti e 6,25% schiavi. Nel resto
strare una diversità tra coloro che vivevano in
dell’Italia le percentuali diventavano rispettivacittà e quelli delle villae rusticae i quali, oltre ad
mente 46,25% – 52% – 1,75%. Come si può
avere incontri sporadici con i padroni, difficilvedere, la presenza dei liberti era preponderanmente potevano venire a contatto con quelle
te, ma è lecito pensare che questi svolgessero la
associazioni che erano prevalentemente cittadistessa attività anche quando non erano liberi.
ne. In ogni modo ci sono pervenute molte epiD’altra parte la statistica prende in esame comgrafi funerarie di schiavi - come quella di cui
plessivamente le epigrafi che ci sono pervenute
sopra - e naturalmente ancora più di liberti.
e non quelle – sarebbe stato pressoché impossiTra gli schiavi esisteva una minoranza, esigua
bile – relative ad un determinato momento stoma non trascurabile, che poteva dirsi benestanrico, per cui l’attendibilità e l’utilità del calcolo
te. Erano coloro che per conto dei padroni svoldivengono praticamente irrilevanti, anche pergevano lavori artigianali o comunque professioché non è possibile sapere quanti non abbiano
nali; lo schiavo architetto, o medico o fabbro
avuto una sepoltura corredata da una lapide e
che fosse, metteva certamente la sua professioquante epigrafi siano andate perdute.
nalità a disposizione del padrone, ma anche di
La condizione servile non escludeva del
altri, dividendo con quello i guadagni, in una
tutto dalla vita pubblica; nelle città romane il
sorta di società in accomandita ed il peculium
quartiere aveva una sua rilevanza politica e
così formato poteva accrescersi fino a raggiunreligiosa: quella politica si esplicava nel sostegere una cifra di un certo rilievo. Era il primo
gno anche robusto che gli abitanti accordavano
- 44 -
PIETRO CRIVELLI
ai candidati alle cariche pubbliche, quella religiosa nel culto dei Lares compitales, le divinità
che proteggevano il quartiere ed i suoi abitanti. Entrambe queste funzioni si esercitavano
attraverso i Collegia compitalicia (il compitum
era il quadrivio) che erano guidati dai magistri
vici et compiti, detti anche vicomagistri, e questa funzione era affidata a personaggi che potevano essere di condizione libertina o anche
servile. Non solo, altri sacerdozi minori erano
aperti agli schiavi: alcune iscrizioni rinvenute a
Pompei (Corpus Inscriptionum Latinarum, X,
888 - 890) testimoniano, ad esempio, l’esistenza
anche in quella città del collegio sacerdotale
detto degli Augustales, che curava il culto del
genius dell’imperatore Augusto, fra i componenti del quale erano compresi degli schiavi
alla pari degli altri sacerdoti.
E’ chiaro che il commercio d’uomini poteva
produrre un profitto notevole; meno noto, ma
importante, è che da alcune di queste transazioni commerciali, sia pure fittizie, si potevano trarre vantaggi d’altro genere. Come ormai tutti
sanno, il capo di un casato, di una familia, era
il paterfamilias, l’autorità del quale non era mai
in discussione: si poteva perdere solo per morte
o per la privazione dei diritti civili. Pure, in certe
circostanze era importante che un figlio potesse
acquisire una piena libertà: in tal caso l’unico
mezzo legale disponibile era l’emancipatio; tuttavia quest’istituto appare solo in un secondo
tempo, come derivazione laboriosa di una
norma contenuta nella legge delle XII Tavole: «si
pater filium ter venum duit, filius a patre libero
esto». In pratica, se il padre vendeva per tre volte
il figlio, questo otteneva la piena libertà.
Accadeva perciò che chi intendesse emancipare
un figlio lo vendeva in modo simulato ad un
amico accondiscendente, il quale subito dopo lo
liberava, facendolo tornare così nuovamente
sotto l’autorità paterna; la vendita era poi ripetuta per altre due volte, in modo che il figlio
potesse acquistare la piena libertà e divenire
così il paterfamilias di un nuovo casato che
poteva allearsi a quello originario nella vita pubblica o in eventuali speculazioni d’altro genere.
Lo studio del fenomeno servile a Roma ci fornisce dunque molte notizie interessanti sulla vita
Fig. 4 - Schiavi al lavoro in una cava di marmo. Rilievo scultoreo.
Fig. 5 - Uno schiavo porta un piatto con del cibo. Frammento di rilievo da
un monumento funerario.
- 45 -
SALTERNUM
Fig. 7 - Collare in bronzo per schiavi.
Fig. 6 - Statuetta in bronzo di giovane schiavo di colore, copia romana di
un originale di età ellenistica.
dell’epoca, un periodo di oltre mille anni nel
corso del quale, tra progressi e ripensamenti, il
problema posto dalla schiavitù, perché di un
problema si tratta, ha tentato di trovare una
soluzione che tuttavia era impossibile trovare in
nessun altro modo che non fosse la sua semplice e completa abolizione. Ma l’economia di quei
tempi era quasi del tutto fondata sul lavoro servile: ne conseguiva che la sua soppressione
avrebbe portato inevitabilmente al collasso le
città e gli stati e ciò anche prescindendo dall’egoismo delle classi dominanti. La quasi totalità
degli artigiani dell’epoca era di condizione servile, mentre i liberi delle classi più povere erano
per la maggior parte nullafacenti che campavano a carico dello Stato, mercé la distribuzione
gratuita di vettovaglie (frumentationes). Liberare
gli schiavi e contemporaneamente ricondurre la
massa oziosa dei cittadini ad un’attività produttiva era un’impresa superiore alle forze di qualunque governante, pericolosa per il politico e per
la stessa res publica: per questo motivo le cose
dovevano necessariamente restare com’erano, in
attesa di tempi migliori. Lo stesso Seneca che,
come abbiamo visto, predicava moderazione e
magnanimità nei confronti degli schiavi, non
sarà neppure sfiorato dall’idea che la schiavitù
potesse essere un abominio di per sé.
Il sistema schiavistico nondimeno diverrà col
tempo una delle cause della decadenza economica dell’Impero Romano. Arrestandosi
l’espansione su nuovi territori in seguito alla
progressiva diminuzione delle guerre di conquista e riducendosi l’Impero su posizioni di difesa,
cesserà anche quel flusso di manodopera servile che in precedenza aveva favorito lo sviluppo
dello Stato. Conseguentemente si registrerà una
contrazione della parte attiva della popolazione,
non compensata da un ceto di lavoratori liberi
che era praticamente inesistente; i liberi disdegnavano d’impegnarsi in lavori manuali, tanto
più che la loro impreparazione tecnica li avrebbe costretti facilmente ad operare alle dipendenze di maestri di condizione servile. Con queste
premesse il declino economico era assolutamente inevitabile.
Bisognerà attendere il tardo Medioevo perché si possa affermare che in Europa, ma solo in
Europa, la schiavitù era (quasi) scomparsa.
- 46 -
PIETRO CRIVELLI
Resisterà ancora per effetto delle razzie e degli
atti di pirateria compiuti sia da parte cristiana
sia araba in tutto il bacino del Mediterraneo,
nonché sotto l’aspetto dei servi dominici - persone semilibere che erano nei fatti del tutto
asservite, che operavano nelle corti dei signori,
NOTE
1
Se l’autore del Satyricon è il Petronio arbiter elegantiarum
vissuto al tempo di Nerone (qualcuno ne dubita), si deve
ritenere che già verso la metà del I secolo d.C. la pratica
della manumissio per mensam fosse affermata, dal
momento che si trova descritta nel corso della cena che
Trimalcione offre ai suoi ospiti; ma è anche possibile che
l’Autore abbia voluto solo presentarci un aspetto ridicolo
nel comportamento dell’anfitrione.
2
PIATTELLI D. 1990, Tradizioni giuridiche d’Israele, Torino,
p. 34.
laici o ecclesiastici che fossero - anche nei paesi
di cultura germanica, donde ci viene la parola
‘schiavo’ (‘sclavus’), indicante in origine (X – XI
sec.) i prigionieri di guerra d’etnia slava assoggettati e commercializzati dai vincitori.
In realtà la legge di Solone interveniva più sulle cause che
sugli effetti, nel senso che vietava che si potessero contrarre debiti offrendo come garanzia la propria persona fisica
(epì tois sòmasin). In tal modo l’ipotetico creditore poteva
rivalersi solo sui beni del debitore ed in conseguenza era
costretto ad erogare il prestito unicamente sulla valutazione di quelli. Nello stesso tempo quella legge aboliva o
almeno riduceva una parte dei debiti (chreòn apocopé).
4
BRUNT P. A. 1989, Il lavoro umano, in Il Mondo di Roma
Imperiale, a cura di J. WACHER, vol. III, p. 199.
3
- 47 -
MARCO AMBROGI
L’anfiteatro atinate.
Lineamenti storici, epigrafici e topografici
di un monumento sepolto dell’antica Atina
colta dei dati significativi e caratterizzanti dell’antico monumento, alla luce di un’ipotetica indagine di rilevamento stratigrafico da aerofoto, che
ne accerterebbe la posizione reale.
«Fra gli altri monumenti Atinati sta anche
l’Anfiteatro, ammesso dalla maggior parte degli
Archeologi… E di vero, una grandiosa città
come si era la nostra, guerriera sotto gli antichi
dominatori, non poteva essere privata di quel
pubblico luogo, dove si esercitavano gli spettacoli ed i ludi punici… Noi avremmo desiderato, e ne feci rimostranza al Municipio, che, per
monumento antico del paese, lo si fosse lasciato intatto e tal quale trovavasi scavato, ma, la
necessità della strada, ne lo impedì, e si dovè
colmare, però senza guastarne le mura, che
peraltro non arrivavano al suolo»1.
I
l narratore del passo riportato è Giovan
Battista Curto, storico ed archeologo di
Atena Lucana, che nel 1892 ebbe modo di
osservare direttamente i notevoli resti dell’anfiteatro
romano dell’antica Atina. In un periodo storico in
cui le necessità di pubblico servizio innegabilmente prevalevano sugli interessi culturali, la
riscoperta dell’anfiteatro di Atina non seguì
l’epilogo sperato dallo storico atenese, che però
ebbe a parlarne estesamente nel suo lavoro sulla
propria città natale dall’età classica al periodo
moderno. In virtù di quest’unica testimonianza
archeologica all’interno della storia antica del
Vallo di Diano, la ricerca si presenta attraente ed
interessante, per via delle derivazioni di carattere ricognitivo e di riscoperta di un luogo scomparso ormai da tempo. La ricerca qui presentata2
si articola su tre punti essenziali e significativi,
intercomunicanti e strettamente connessi:
l’analisi delle fonti storiche, la ricostruzione
metrica ed architettonica dei ruderi osservati dal
Curto ed il posizionamento dell’anfiteatro all’interno del tessuto antico ed attuale di Atena
Lucana. Pertanto questo studio riguarda la rac-
Le fonti storiche
L’anfiteatro atinate, oltre a presentarsi come
un’architettura monumentale antica all’interno di
Atena Lucana, nelle memorie storico-archeologiche viene ricordato da vari studiosi, che a più
riprese si occuparono delle vicende in età classica di Atina. La prima analisi di questo scritto,
relativa alle note cronologiche sull’anfiteatro, si
rivolge alle fonti bibliografiche che hanno citato
o descritto il monumento. Spesso la non attenta
lettura analitica e storica dell’edificio da parte di
alcuni eruditi ha fatto sì che l’identificazione dell’anfiteatro non apparisse certa e definita, confondendolo più volte con il teatro romano, che
pure ha lasciato traccia nel tessuto urbano della
cittadina. Tra le prime fonti autorevoli,
Costantino Gatta ci offre una sintesi descrittiva,
di certo attinta da autori precedenti, ma particolarmente valida per l’attendibilità storica dello
studioso:
- 49 -
«Il dilei territorio [Sala Consilina], che per miglia
otto s’estende, da occidente confina con Atena,
di cui come celebre luogo ne fa Plinio onorata
memoria, e ben si può credere essere stati ne’
gli antichi tempi prodi e generosi li dilei popoli, per scernersi ivi, ancora al presente ne’ sobborghi di detta Terra le reliquie di magnifico
anfiteatro d’opera laterizia, come altresì perchè
vi si veggono scolpite in marmi memorie di
famiglie illustri dell’ordine patrizio, e vi
s’osservano innumerabili vestigie di caduta
grandezza»3.
SALTERNUM
Fig. 1 - Atena Lucana, veduta da Oriente; sulla sinistra l’area dell’anfiteatro (Borgo).
quasi tutto l’Ottocento) coincidevano con gli ultimi palazzotti e le abitazioni rurali del Borgo.
Sulla scorta dell’erudito salese, il barone
Giuseppe Antonimi, pur non confermando la
presenza della struttura ludica di età romana,
riporta nel suo scritto l’esistenza dell’iscrizione
che fa riferimento all’anfiteatro4 e di cui meglio si
parla in seguito. Nell’Ottocento la fortuna degli
studi sulle antichità classiche portò numerosi studiosi ed eruditi più o meno noti a soffermarsi,
anche se brevemente, sull’anfiteatro di Atena;
uno di questi fu il Romanelli5, che offrì la seguente versione:
Fig. 2 - Atena Lucana dall’alto (da Google Earth).
Il Gatta, a cui hanno attinto anche altri studiosi successivamente, rimane una fonte certa, perché residente nel paese contiguo di Sala, con
evidente conoscenza diretta della cittadina atenese. L’osservazione delle vestigia, in questo caso,
denota un riferimento alquanto puntuale per la
localizzazione dell’anfiteatro: i sobborghi della
cittadina, che ai tempi dello storico (come per
- 50 -
«Tutto il suo recinto presenta tuttavia gli avanzi delle mura, da cui veniva circondato, e nel
sito del così detto Borgo restano pur oggi gli
avanzi del suo anfiteatro…»6
Ed in seguito riprese il Giustiniani:
«Ella [Atena] fu antica città dei Lucani, e di qualche grandezza, e distinzione, come attestano i
ruderi di molte speciose fabbriche, che vi
MARCO AMBROGI
erano ne’ vecchi tempi, e specialmente quelli,
che credonsi i fondamenti del suo anfiteatro di
figura ovale»7.
Giunone Petilia, come rilevasi dalle lapidi, con
iscrizioni ivi scoperte, ed un teatro od anfiteatro, i cui ruderi veggonsi ancora oggidì vicino
alla Croce al Borgo.”12
L’Albi-Rosa, erudito locale frequentemente
ripreso negli studi riferiti al Vallo di Diano quale
voce attendibile dell’ambito geografico, ampliò
la citazione con i riferimenti epigrafici:
«Tutti i geografi dell’antichità ne han fatto chiara menzione, parlando pure dei suoi Templi,
dell’anfiteatro, delle feste, dei giuochi, e del
conio numismatico… Divenuto Atena Romano
Municipio essendovi una lapide rinvenuta sui
ruderi dell’anfiteatro vicino alla casa De
Marino, che mostra un segno di devozione al
genio del Municipio Atenate…»8.
Ancora sul cadere del secolo13 e prima dei
rilievi del Curto, un altro erudito lucano, Michele
Lacava, si soffermò sulla storia di Atena in antichità:
«Di edifizii pubblici, le iscrizioni non parlano;
ma naturalmente la città, dovè avere teatri ed
anfiteatri, il foro, le terme, e pubblici condotti
di acqua»14.
Il Corcia nel suo studio sul Regno delle Due
Sicilie non mancò di riportare un breve passo
sull’antico monumento:
In realtà il Lacava appare ricognitore
d’antichità più intenzionato a smentire le leggendarie origini dell’antico nome di Atena che a rilevarne attentamente le vestigia; in questo caso
commette l’errore di confondere ancora una
volta la presenza del teatro con l’anfiteatro.
Infatti in un passo del suo scritto riporta:
«…si può supporre nondimeno che fosse allora [Atina] in qualche splendore, perché senza
attribuirle la palestra, non è dubbio ch’ebbe un
anfiteatro, ed è noto non solo da’ ruderi che ne
rimangono con quelli della città nel piano sotto
l’odierna terra di Atena, nel sinistro lato della
Valle di Diano, ma anche da questa mutila epigrafe…»9.
La vicenda della diretta osservazione delle
vestigia dell’anfiteatro non poteva sfuggire allo
storico teggianese Stefano Macchiaroli, pur se
egli nel resoconto su Atena si riferisce espressamente al teatro, e non all’anfiteatro:
Fig. 3 - Atena Lucana con lo sfondo del Vallo di Diano.
«Ove giace attualmente Atena, vi era probabilmente un teatro della prisca Atina, la quale, a
quel che pare, era sita nel piano a piè del
monte, dove la tradizione popolare la vuole, e
dove, i ruderi, e gli oggetti antichi che si sono
scavati e si disseppelliscono tuttora, ne rendono indubitata testimonianza”10.
È probabile che il Macchiaroli abbia attinto
all’Eterni, che pure parlò, anche se in modo confuso, di teatro romano11. Incertezza ripresa da un
dizionario storico di fine Ottocento:
“In quei tempi [Atena] ebbe monete proprie e
contava molti pregiati edifizii, fra i quali primeggiavano un superbo tempio dedicato a
Fig. 4 - Atena Lucana, veduta aerea del Largo Borgo-Braida (da Google
Earth).
- 51 -
SALTERNUM
zione di pubblici spettacoli, che si facevano in
quegli antichi tempi: che ciò sia vero, non solo
si rileva da pochi segni, che pur ora, vi si veggono, ma ancora giova qui riportare una iscrizione trovata in un marmo, che tra gl’altri molti
va disperso ne’ poderi Atenesi»18.
Fig. 5 - La Braida di Atena Lucana, sulla sin. l’area dell’anfiteatro.
Non vi è dubbio che la memoria a noi più
vicina, e probabilmente la più autentica nella
puntuale descrizione, sia quella del Curto. Egli
nella cronaca sulle scoperte di Atena antica
riserva particolare attenzione all’anfiteatro, segno
che la ricognizione diretta delle strutture
superstiti fu accompagnata da un ipotetico rilievo
metrico e descrittivo:
«Vestigia di antichi edifizii – Un edifizio, possibilmente teatro, dovè esistere nell’area che si
distende dall’angolo orientale della casa
Marino, ad andare verso la cappella di S.
Giuseppe Murano.
Con grande probabilità vi fu un anfiteatro, ove
è l’attuale piazza Vittorio Emmanuele, scoverto
con lo scavo delle fondazioni della casa
Caporale, nel 1866»15.
Pur volendo ammettere che le strutture successivamente osservate dal Curto fossero di un
teatro, anziché di un anfiteatro, resterebbe da
esaminare l’ipotesi di un’ulteriore struttura ludica
(in questo caso dell’anfiteatro) in un’area prossima (la piazza Vittorio Emanuele) al Largo BorgoBraida; però nessun altro studioso ne fa menzione. Le ipotesi di un ritrovamento archeologico
nel tracciare le fondazioni della casa Caporale
riportano, secondo il Curto, ad un tempio pagano dedicato a Giove16. Si presenta qui una chiara discordanza tra quanto asserito dai due maggiori studiosi di Atina: mentre il Lacava annota il
rinvenimento dell’anfiteatro a seguito dello scavo
di fondazione della casa Caporale nel 1866, il
Curto invece narra che nello stesso anno il sito
su cui insisteva la croce su colonna (il Largo
Borgo-Braida) posta sui resti dell’anfiteatro, fu
‘appianato’ dal maggiore Pessolani. La nota discordante sui due edifici dell’antica Atina riportata dal Lacava appare ancora più evidente dai
passi stampati nell’ultima parte del suo volume,
che citano le memorie antiche di Atena Lucana,
tra cui l’anfiteatro. Da un antico manoscritto17, di
cui l’autore non fornisce dettagli precisi della collocazione archivistica, si rileva che:
“Oltre a che, ultimamente, nel 1892, dovette il
Municipio attuare la strada Borgo-Braida, e,
nello scavamento uscì per intero a luce
l’Anfiteatro, consistendo in due paralleli semicircolari muraglioni, per otto metri l’uno distante
dall’altro, racchiudenti un’area capiente per
migliaia di persone, e della spessezza ognuno
oltre a due metri; il primo alto circa 40 palmi, ed
intorno tutto finestroni alla metà dell’altura di
esso, da cui, mediante grossi gradoni, si discendeva nell’area; ed il secondo di minore spessezza, era costruito tutto ad archi fino al suolo,
sotto i quali corrispondevano i gradoni, che partivano dai finestroni del primo muro. Insomma
l’anfiteatro occupava l’intera piana largura o
piazzale che ora si trova innanzi al palazzo
Marino e tira fino alla Cappella di S. Giuseppe
ed alle case Mango; e la sua area o suolo era
costruita a selciato di ben connesse e regolate
pietre, da sembrare ordinario mosaico.”19.
Lo studioso atenese porse le sue rimostranze
al Municipio locale per la conservazione del
monumento, ma la sua richiesta non ebbe seguito; il Curto annota successivamente dei preziosi
riferimenti di carattere storico, congruenti con
l’attuale toponomastica:
«Ove oggi dicesi il Borgo, eravi un nobile e
sontuoso anfiteatro, che serviva per la celebra-
- 52 -
«Forse all’epoca in cui, cioè nel medio Evo,
l’Anfiteatro non agiva più, era stato rovistato,
per cui niente più si vedeva conservato, di fossetti, colonnato ed altro.
Proprio dove corrispondeva il centro dell’area,
nei primi secoli del cristianesimo, per
un’antichissima Bolla Pontificia, riportata dalla
MARCO AMBROGI
Storia Ecclesiastica del Corbacher e da noi
riscontrata, l’allora antico Municipio vi eresse
sopra tre circolari e grandi gradoni di pietra,
una colonna a croce di finissimo marmo, bene
architettata e così connessa da sfidare i secoli,
a base della quale grandissima croce, l’effigie
di Atteone con l’iscrizione: Ego sum Acteon
ecc., allora favoloso emblema Municipale.
Imperocchè la Bolla prescriveva che, dovunque fossero stati anfiteatri, si avesse dovuto
impiantare la Croce; ed in Atena, a cominciare
dall’anno 500 circa dell’Era volgare, vi rimase
fino al 1866, quando venne tolta, e fatto appianare quel sito, sotto il Sindacato del Maggiore
Giuseppemaria Pessolani, uno dei mille di
Marsala.
Sicchè, a conchiudere, abbiamo la dimostrazione indubbia, avere avuto anche l’Anfiteatro
l’antica nostra Atina»20.
Un punto fermo sul quale si è generato il
dubbio tra gli scrittori antichi se si fosse trattato
di teatro o anfiteatro, si traspone nella reale presenza degli edifici entrambi collocati all’interno
della forma urbis di Atina in epoca romana. A tal
proposito viene in ausilio all’argomento nuovamente il Curto:
Fig. 6 - Atena Lucana, lo stemma di Atteone con il tronco di colonna
marmorea.
«Evvi chi vi ammettè il solo Anfiteatro, chi l’uno
e l’altro, cioè Teatro e Anfiteatro; e non poteva
mancare in una tanto grandiosa città come
Atina»21.
Circa un decennio dopo la stampa del volume di Giovan Battista Curto, il Giliberti, attento
descrittore delle antichità del Vallo di Diano,
confermò quanto detto dal primo erudito:
«Fra gli altri monumenti Atena ebbe anche
l’anfiteatro, ammesso da quasi tutti gli archeologi ed una iscrizione lapidaria, venuta a luce, ne
fa fede. Ed infatti, una città grandiosa e guerriera non poteva essere priva di un luogo dove si
esercitavano i ludi gladiatorii. Nel 1882 riattando il Municipio la strada Borgo, che conduce
alla Braida, nello scavare uscirono interamente
a luce i ruderi dell’anfiteatro, consistenti in due
muraglioni semicircolari paralleli, racchiudenti
un’area capiente per migliaia di persone»22.
Fig. 7 - Atena Lucana, Largo Garibaldi ove è collocato lo stemma di
Atteone, con tronco di colonna marmorea.
In realtà il Giliberti non fa che ripetere testualmente ed in forma abbreviata quanto asserito dal
Curto, ma pur se di testimonianza secondaria
trattasi, val la pena ricordare che la dovizia di
ricerca del Giliberti porta conferma alle tesi del
Curto, che allo stato attuale risultano le più
accreditate e veritiere. Ciò al fine di dare sostegno all’ipotesi che di anfiteatro si debba parlare
più che di teatro, ciò stante la confusione dell’esistenza nel medesimo punto topografico dell’u-
- 53 -
SALTERNUM
un’analisi approfondita, sono risultate false. Il
Curto nella parte terza del suo studio su Atena
antica24, traduce i versi di una dedica ad un gladiatore:
«CAFFIUS BIS CONF
ENSE POMPONII
HIC STAT
ALBA UXOR T.F.F.
(Caffio due volte trafitto/ Dalla spada di
Pomponio/ Qui riposa/ Sua moglie Alba mise
l’urna).
Fig. 8 - Atena Lucana, Largo Borgo-Braida (disegno dell’Autore). A sin. la
cappella del Purgatorio.
na o dell’altra struttura, entrambe di carattere teatrale. L’eco delle note di Curto, ma certamente
più dello scavo di fine Ottocento effettuato nel
Borgo, contribuì alla diffusione tra gli storici dell’epoca della ripresa d’interesse attenta ed analitica sulle antichità atenesi, dopo alcuni decenni
d’abbandono. Il Racioppi nella sua opera sulla
Lucania antica, a proposito dell’anfiteatro, riporta le seguenti parole:
«Ivi [Atena Lucana] sono ancora le reliquie di
antiche costruzioni, tra cui si riconoscono le
vestigia d’un anfiteatro»23.
A conclusione del breve sunto sulle testimonianze storiche del Sette-Ottocento, possiamo
affermare con certezza che l’anfiteatro ad Atena
ci fosse.
Queste basi di carattere storiografico pongono ancor di più l’attenzione su un importante
monumento e sulla reale consistenza dei suoi
ruderi.
Fonti epigrafiche false
Lo studio di un’antica architettura non può
prescindere dall’analisi delle fonti epigrafiche,
siano esse attendibili o meno. Nel caso delle
iscrizioni atenesi, si assiste ad un ampio e ricco
repertorio (tra l’altro molto variegato ed assortito
sulla tipologia e sul significato delle stesse) di
epigrafi celebrative, funerarie e dedicatorie, tra
cui due si possono riferire all’anfiteatro. Ma, pur
essendo riportate da più eruditi (antichi e moderni) ed epigrafisti, le fonti incise su pietra, ad
- 54 -
Note storiche.
Questa epigrafe può dirsi storica e mortuaria,
perché ricorda un defunto a causa dei giuochi
gladiatori nell’Anfiteatro Atinate.
Caffio e Pomponio erano due servi della patria,
per cui fatti discendere all’arena nell’Anfiteatro,
a spettacolo d’una principale solennità di
quell’Atinate popolo. Quale sia stata questa festa
solenne non risulta; ma era costume degli antichi popoli, in festevoli occasioni, il certame nel
circo, fra gli altri barbari divertimenti.
Pomponio fu il vittorioso, e, in premio, n’ebbe
la manomissione. Caffio fu lo sconfitto, e morto
per doppio ferimento di spada, e la moglie Alba
innalzogli l’epigrafe e la tomba, vicino
all’Anfiteatro.
L’epoca dell’avvenimento risale all’incremento
dei Lucani, e precede i primi due secoli di
Roma.
Quest’epigrafe è riportata da Antonini, Albirosa,
Gatta ed altri, sebbene il Mommsen la reputasse
apocrifa, senz’addurne la ragione.
Stava fabbricata nel muro esterno della Taverna
del Principe in sull’abitato, dove noi, insieme
all’archeologo Pecori di Salerno, la leggemmo,
pria che il tremuoto del 1857 facesse cadere la
Taverna, e ridurre la detta epigrafe in frantumi»25.
Un’altra iscrizione del seguente tenore:
LVCIVS X . L . MILES R
P . HONORIB . GEN
MVN . SVB
AMPHITEA - - - - R.F.P.P
MARCO AMBROGI
anch’essa falsa, secondo gli studi del Bracco26, fu
ascritta al corpus atinate, insieme alla prima, da
altri studiosi dell’antichità, tra i quali l’Antonini
(che osservava a suo tempo entrambe le epigrafi sui muri delle case dei signori Deliunettis, successivamente Cicchetti)27. L’appartenenza alle
dediche celebrative non attendibili28 non inficia il
discorso sulla presenza stessa dell’anfiteatro di
Atena Lucana29, pur se la probabilità (per rimanere in ambito di incertezza rispetto alle recenti
acquisizioni di falsità delle epigrafi) che queste
fossero state architettate ad hoc dal primo studioso che le analizzò, sembra alquanto sostenibile.
In un’epoca in cui il senso di appartenenza alle
proprie radici e il persistente attaccamento al
municipalismo influenzava decisamente gli scritti degli autori locali, rimarcare la storia e
l’esistenza di monumenti di età classica della
propria cittadina serviva quasi ad offrire vigore
all’amor patrio. Di certo non possiamo affermare
con esattezza che le iscrizioni siano del tutto
false (non essendo visibili e non potendo accertare l’assoluta fedeltà di chi le ha studiate).
Deduzioni ed ipotesi ricostruttiva
L’anfiteatro di Atena, come gli altri edifici di
questo genere, era destinato a duelli tra gladiatori e a venationes, cioè alla cattura di animali feroci con relativo combattimento tra uomini e
bestie. I giochi, ad Atina, con molta probabilità
venivano organizzati in occasione di funerali (i
cosiddetti munera) con cerimonie celebrate per
rendere onore alla memoria dei defunti. In seguito divennero lo spettacolo preferito dai Romani
con l’usanza diffusa da parte di cittadini ricchi e
desiderosi di onori di assumersi molte delle
spese occorrenti agli spettacoli altrimenti spettanti alle città; di conseguenza il favore del pubblico fece dei giochi gladiatori uno strumento di
propaganda politico-elettorale per la classe dirigente. In un territorio ove l’occupazione militare
romana non era stata ben vista dagli indigeni (si
pensi alla massiccia utilizzazione della centuriazione per l’intero territorio del Vallo di Diano), il
divertimento ludico del teatro e dell’anfiteatro fu
un pretesto per i cittadini romani trapiantati in
loco per attirarsi la simpatia della gente locale.
Figg. 9 - 10 - 11 - Fasi costruttive di un anfiteatro romano (disegni
dell’Autore).
Un elemento alquanto usuale che caratterizza
i maggiori monumenti antichi di Atina, tra cui
l’anfiteatro, è la presenza della pietra quale materiale da costruzione, in un’area (il Vallo di Diano
e la Lucania) ove i reperti di epoca romana
riconducono il più delle volte all’utilizzo massiccio della stessa, sia per le opere pubbliche che
per le abitazioni rurali e cittadine. Non abbiamo
però riferimenti certi circa le componenti dell’ossatura strutturale del monumento, se fosse costituita da laterizi (dei quali pure parla il Curto a
- 55 -
SALTERNUM
Fig. 12 - L’anfiteatro di Grumentum (disegno dell’Autore).
Fig. 13 - Atena Lucana, la cappella di San Giuseppe al Borgo.
proposito di altri monumenti dell’antica Atina),
oppure da opus caementicium, con il quale si
presenta invece il corpo centrale del Mausoleo di
Caio Utiano Rufo a Polla, unica struttura di età
romana di una certa mole tuttora visibile nell’area valligiana. Per simili tipologie di anfiteatro in
area campano-lucana si assiste ad un proliferare
dell’uso dell’opus reticulatum e dell’opus latericium con cui erano strutturate le ossature portanti dei monumenti pubblici e privati.
L’anfiteatro dell’antica Capua è costituito da
un’arena circondata da tre ordini di fasce di mattoni rivestiti di marmo e travertino, che testimonia il doppio utilizzo di materiali: meno nobili
per le strutture, di elevato pregio (marmorei o di
travertino) invece per i paramenti. Per quanto
riguarda l’anfiteatro di Venosa, sappiamo che fu
costruito (come per la maggior parte di questi
edifici) in zona periferica rispetto all’abitato, per
permettervi un maggior flusso dei materiali edilizi da costruzione e per facilitare l’accesso degli
spettatori provenienti dalle zone rurali. Le strutture primarie dell’edificio sono state realizzate in
opus reticulatum con utilizzo di cubilia dai 6 agli
8 cm, ciò soprattutto nelle sostruzioni del primo
anello; le strutture murarie di un probabile
restauro del monumento sono invece eseguite in
diverse tecniche edilizie, tra cui prevale l’utilizzo
del laterizio e di pietre calcaree irregolari con
faccia più o meno lisciata messa di taglio30.
Analoga situazione si rileva a Grumentum, con
l’utilizzo consistente dell’opus reticulatum.
Quanto all’individuazione topografica dell’anfiteatro nella parte periferica della città, ancora
una volta la somiglianza con Grumentum appare evidente; qui, per la costruzione, venne scelta
l’estremità a Nord-Est dell’impianto urbano, sia
per sfruttare il dislivello esistente tra le terrazze
morfologiche del sito, sia per facilitare l’afflusso
e il deflusso degli spettatori, senza intralciare la
circolazione all’interno della città31. Ad Atena
Lucana invece il sito dell’anfiteatro è posto a
Sud-Est rispetto al nucleo abitato indigeno, nel
vasto pianoro su cui si ampliò la primitiva cittadina in età romana. In quest’area ed in quelle
prossime si addensano infatti sia i ritrovamenti
che le descrizioni storiche sulla presenza di
numerosi edifici pubblici e privati, dalle terme ai
templi e alle dimore aristocratiche.
Se le fonti storiche dei secoli XVIII e XIX
costituiscono una valida base per analizzare la
presenza a vista dell’anfiteatro, dalla sua costruzione ai lavori della metà Ottocento, la descrizione del Curto rimane l’unica ‘voce’ a cui poter
attenersi al fine di ricostruire l’aspetto, la struttura e le dimensioni dell’anfiteatro atinate. I due
paralleli muraglioni semicircolari osservati dall’erudito atenese dovrebbero coincidere con le
strutture portanti dell’anfiteatro stesso e la misura in altezza del primo (il più esterno quasi certamente) pari a circa 40 palmi, ossia intorno ai
dieci metri32, lascia supporre che le sostruzioni
del monumento riconducano ad un’architettura
di età classica ben conservata, pur sepolta per
metà della sua area sotto le attuali abitazioni. Se
così fosse, l’anfiteatro di Atina costituirebbe uno
dei reperti meglio conservati della Lucania antica
e del territorio a Sud di Salerno. Un termine di
paragone, sul quale ‘testare’ le misure dell’anfi-
- 56 -
MARCO AMBROGI
teatro atinate per verificarne l’attendibilità, si
ritrova ancora una volta nel monumento di
Grumentum; è evidente il parallelismo non solo
per la vicinanza delle due città romane, ma
anche per la verosimile medesima importanza
che le stesse ricoprivano all’interno della Lucania
classica. Oserei dire, stessa importanza politicoeconomica, stessa tipologia di edifici, per cui se
il primo assunto (ai quali gli storici hanno già
dato affermativa risposta) fosse vero, ne scaturirebbe la validità del secondo. Un’analisi attenta
dell’anfiteatro di Grumentum secondo i parametri metrici e costruttivi trova corrispondenza nelle
misure rilevate dal Curto; infatti la distanza tra i
due muri ossia quello esterno (largo proprio due
metri circa e provvisto di contrafforti) e l’altro
interno che sorregge il corridoio anulare (di
minore spessore) è di otto metri e gli stessi muraglioni sono strutturati ad arcature, secondo la
tipologia riservata a tali strutture. In effetti i due
muri osservati dal Curto si identificavano con le
sostruzioni della cavea, di cui lo stesso ha potuto vedere i grossi gradoni che scendevano nell’area e i finestroni. Si faccia attenzione però che le
parole dello studioso atenese contengono
comunque delle incertezze descrittive, rilevabili
ad esempio dalla confusione sulla misura del
secondo muro (vicino al corridoio anulare), che
in prima analisi accomuna al primo nella profondità e poi specifica esser di minore spessore.
Incerta appare la definizione dell’area costruita a
selciato, anche se l’ipotesi più probabile è che si
tratti dell’arena, la cui tessitura pavimentale poteva dare l’effetto del mosaico, se vista da lontano
(di contro le gradinate potevano essere in blocchi di pietra o al limite in opus caementicium).
Una simile supposizione trova conferma nell’anfiteatro nocerino, ove uno degli ambulacri presenta il piano di calpestio in opus signinum ossia
in un impasto di cubetti minuscoli di marmo e
pietre con l’utilizzo di pozzolana e sabbia.
Analizzando la struttura dell’anfiteatro di
Grumentum risalta il rispetto dei canoni classici
dell’architettura assegnati a questa tipologia con
i quattro ingressi principali, dei quali due riservati alle autorità e gli altri varcati dalle persone più
ragguardevoli; i restanti accessi (diagonali) erano
utilizzati dalla plebe. In questa disposizione si
rende evidente come gli ingressi, nel processo
cronologico di disfacimento della struttura attraverso i secoli, siano le parti più labili ed esposte
al crollo; tale riferimento potrebbe confermare
l’ipotesi, più avanti esposta, che le differenze di
quota intorno all’ellisse dell’anfiteatro di Atena
corrispondano esattamente a queste parti dell’antica architettura. L’anfiteatro grumentino si è
strutturato in origine in una forma che solo in
apparenza è ellittica: in realtà è la risultante di
una successione di spezzate ad angoli ottusi33. È
da notare infine, che pur presentandosi simile ai
grandi anfiteatri di età imperiale, l’impianto si
compone di un’arena priva di ambienti ipogei,
mentre la stessa è circoscritta da un corridoio
anulare ricoperto da una pseudo-volta a pseudobotte. La sua struttura portante è caratterizzata
inoltre da due sistemi costruttivi diversi, con gradinate che appoggiano direttamente sui vani di
sostruzione34. Dagli ingressi principali accedevano all’arena i gladiatori, ossia dai vani posti sull’asse maggiore oppure dal corridoio anulare
interno; i percorsi per il pubblico erano distinti
in accessi alle gradinate e al podio, a cui si perveniva dalle scalinate a due rampe disposte a
raggiera lungo l’anello ellittico35. La mancanza
delle complesse strutture di sostruzioni, utilizzate come ambienti di servizio o per la custodia
degli animali (tipiche di anfiteatri quali Pozzuoli,
Capua o lo stesso Colosseo), rimanda ad un
periodo anteriore allo sviluppo massiccio di questo tipo di costruzioni (in modo simile all’anfiteatro di Nola). Le evidenti somiglianze tecnicocostruttive tra gli anfiteatri di Grumentum ed
Atina fanno supporre un identico ambito cronologico.
L’erronea confusione con il teatro
Pur se i riferimenti descrittivi ed eruditi riconducono per maggior voce alla presenza di un
anfiteatro e non di un teatro nell’area del Largo
Borgo-Braida, per dovere d’esattezza bisogna
spendere qualche riga sulla confusione generatasi nel tempo tra la presenza dell’uno o dell’altro
monumento36. Una distinzione precisa può essere elaborata alla luce di due fattori di carattere
architettonico e topografico: innanzi tutto la
struttura portante di un teatro differisce, anche se
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SALTERNUM
non vistosamente, da quella di un anfiteatro.
Infatti, in quest’ultimo i setti portanti radiali sono
intervallati da murature ortogonali con un passo
maggiore di quegli otto metri rivelati dal Curto.
L’altro elemento che smentisce l’ipotesi che si
tratti di un teatro viene dalla situazione altimetrica dell’area Borgo-Braida, che si presenta con un
pianoro alla medesima quota, di forma ovoidale.
La presenza di un teatro avrebbe definito un’area
di colmatura a semicerchio, ove l’interruzione
della stessa sarebbe stata ascrivibile alla presenza della scena; tale colmatura a semicerchio in
effetti non è rinvenibile nell’altimetria e nelle
tracce visibili dall’alto del sito di Largo BorgoBraida. Infine, se di teatro si fosse trattato, il
Curto ne avrebbe almeno visto parte della terminazione rettilinea della scena, dato che il suo
testo narra di un monumento emerso durante lo
scavo «per intero a luce». Su questa ultima nota è
evidente la dissonanza dal reale intendimento
dell’erudito atinate; infatti il monumento non
poteva di certo essere visto per intero in un’area
limitata come la piazzetta antistante il palazzo
Marino; in questo caso la descrizione del Curto
allude al visibile accertamento di una struttura di
anfiteatro, con il rinvenimento di differenti parti
delle gradinate in due punti distinti ed opposti
della via, ossia sul sagrato della cappella di San
Giuseppe e davanti alle case dei Mango. In ogni
caso l’incontrovertibile ‘narrazione’ di Giovan
Battista Curto segna un passo notevole nella
riscoperta dell’antico monumento di Atina.
La ‘Croce al Borgo’: un indizio prezioso
Un termine di riferimento da non scartare
nello studio dell’anfiteatro atinate è la presenza
dell’antica croce astile una tempo infissa nel terreno al centro del Largo antistante palazzo
Marino. Del riferimento della croce su colonna
abbiamo due testimonianze particolari: l’una di
carattere toponomastico, riferita alla presenza
della ‘Via Stretta della Croce’, che si diparte in
direzione sud-est dal Largo Borgo e che segna
inequivocabilmente l’antica presenza in loco di
un ‘segnacolo’ religioso; l’altra di carattere monumentale, con l’attuale collocazione in Largo
Garibaldi di uno rilievo rappresentante Atteone,
risalente al XVIII secolo, sormontato da un tron-
co di colonna in marmo di Carrara. Nella descrizione dei lavori operati sotto l’amministrazione
di Giuseppe Maria Pessolani37, e riportata dal
Curto38, si afferma che la croce di «finissimo
marmo» sopra una colonna era posta al centro
dell’arena, bene architettata e connessa da sfidare i secoli. Non sappiamo se il tronco di colonna
in marmo di Carrara (di grana fine e di provenienza da cave di prima scelta) che attualmente
è sostenuto dalla base con stemma settecentesco
di Atteone possa essere una modesta reliquia di
quell’antico ‘segnacolo’ dei primi Cristiani di
Atena, ma la connessione con lo stemma civico
(attuale gonfalone comunale) pur se di fattura
tardo barocca, ne potrebbe convalidare l’ipotesi.
Nulla però sappiamo della «grandissima croce»,
che venne rimossa insieme alla sottostante
colonna con gradoni di pietra, anche se una
ricerca d’archivio approfondita potrebbe rivelarne indizi favorevoli, dato che la rimozione
avvenne nell’anno 1866. Di certo in età medievale l’anfiteatro costituì una vera e propria cava di
pietra, con sistematico saccheggio degli elementi architettonici ed il successivo reimpiego in edifici sacri e civili; tanto più che il posizionamento
della croce sull’arena costituiva quasi una legittimazione per la religiosa popolazione locale alla
spoliazione dell’antico monumento. Sappiamo
dalle note di Luca Mandelli39 che Atena fu distrutta da Alarico, il quale
«atterrò quanto di grandioso vi era nella scorreria che fece da Roma a Reggio… sicchè appena vi si ravvisano i vestigi, di un magnifico teatro, nel quale solevano gli antichi ragunarsi per
celebrarvi gli spettacoli e feste».
Localizzazione topografica
All’esame delle fonti storiche, della tradizione
locale e dell’attenta descrizione di Giovan
Battista Curto, si evidenzia che la localizzazione
topografica dell’anfiteatro sia ben delineata nella
piana antistante il palazzo Marino40, anche se
un’indagine fotometrica dall’alto secondo le
recenti tecnologie per il rilievo di strutture nel
sottosuolo potrebbe definire con certezza la puntuale traccia dell’ellissi del grande monumento.
Nello studio di altri anfiteatri sepolti in Italia e nel
- 58 -
MARCO AMBROGI
resto del mondo romano, si evidenzia una traccia costante a cui potersi affidare, in ambito
urbano, per la determinazione delle strutture dell’architettura ludica: la curvatura o perimetrazione ellissoidale di alcune abitazioni o strutture
edilizie. Senza affrontare argomenti di carattere
più ampio, sulle sovrapposizioni medievali a
monumenti di età classica (quali la piazza di
Lucca sulle rovine dell’anfiteatro o situazioni
simili), dal rilevamento di tracce di ellissoidi sul
terreno da fotografie aeree si può esaminare una
ricca serie di similitudini. È noto il caso di
Ancona ove solamente una piccola parte del
perimetro del monumento viene marcata dalla
presenza di un gruppo di edifici che ne segue
l’andamento in curvatura, mentre altre costruzioni vicine, o si presentano ‘estranee’ alla traccia
del perimetro ellissoidale o ne riportano discosto
il parallelismo. Per rimanere in area campana,
basti confrontare l’addensamento edilizio di
Nocera Inferiore sull’area dell’anfiteatro, del
quale si riconosce l’andamento osservando la
disposizione curvilinea delle case sul lato meridionale, l’andamento curvo della via
Portaromana nel tratto in cui lambisce l’ellissoide
ad Est, e ad Occidente, ove l’andamento ricurvo
del muro del giardino del Convento francescano
di Santa Maria degli Angeli conferma quanto
prima riportato41.
Ad Atena Lucana, osservando in prima analisi il tessuto urbano, emerge con chiarezza che
tutta l’area alle spalle della cappella delle Anime
del Purgatorio (posta nel largo antistante il
palazzo Marino) si presenta in forma frammentaria, con piccole particelle edilizie, che si dispongono a ‘ventaglio’ rispetto al largo stesso;
tale curvatura, che riprende una parte di
un’ipotetica ellisse, si prolunga anche verso
Nord, nell’isola di abitazioni tra le vie BorgoBraida e Roma (per intenderci, le abitazioni sulla
destra delle case Mango). Del gruppo di costruzioni citate solo alcune sono strettamente sulla
linea di perimetro di un’ipotetica ellisse, mentre
quelle contigue ne rimarcano (in modo frammentario e disomogeneo) l’andamento verso
l’esterno. Se a questa condizione ne affianchiamo un’altra di carattere altimetrico, la situazione
diventa più chiara.
Fig. 14 - Atena Lucana, la cappella delle Anime del Purgatorio al Borgo.
Fig. 15 - Atena Lucana, Palazzo Marino al Borgo.
Infatti sulla carta aerofotogrammetrica si può
notare che l’area in questione si presenta in posizione rialzata rispetto a quella circostante.
Prendendo in considerazione una quota media
di 625,00 metri s.l.m. si presenta (sul suolo stradale e di campagna) un’area grosso modo corrispondente ad una macchia di forma circolare,
con sfrangiamento verso Ovest, in direzione del
centro indigeno antico. Tale pianoro secondo la
tradizione locale sorge sull’area dell’anfiteatro e
l’aspetto visivo ne conferma la validità. Anche se
di labile consistenza, un filare di alberi, disposto
sull’ellisse ipotetica sul retro del palazzo Marino
e di alcune abitazioni contigue, potrebbero confermare il segno della curvatura dell’anfiteatro.
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SALTERNUM
Una perfetta localizzazione dell’antico monumento sarebbe impossibile da stabilire in quanto
le tracce sulla cartografia e le descrizioni del
Curto sono contraddittorie.
A conclusione del discorso, l’analisi e lo studio sulla presenza dell’anfiteatro e soprattutto
sulla sua esatta ubicazione trova validità in due
diverse soluzioni, frutto essenzialmente di un
disegno cartografico e delle tracce precedentemente riportate. Su questi riferimenti si innestano in modo inequivocabile le descrizioni del
Curto, che circoscrive i ruderi a lui visibili durante lo scavo della strada Borgo-Braida, tra il palazzo Marino, le case Mango e la cappella di San
Giuseppe. Tenendo fermi questi punti di carattere storico-topografico, l’anfiteatro di Atina
potrebbe avere due soluzioni differenti di orientamento: con l’asse maggiore in direzione nord est, oppure ruotato di 70° circa in senso orario
(si confrontino i due aerofotogrammi con
sovrapposizione dell’ellisse planimetrica del
monumento). Nella prima versione (la più credibile), il centro dell’arena si collocherebbe all’inizio di Via Stretta della Croce, nel punto antistante il palazzo Marino, mentre le tracce dell’ellissoi-
de verrebbero a conformarsi a quelle già descritte precedentemente (abitazioni in curva, filare di
alberi, suolo rialzato) con la conferma della presenza di strutture dell’anfiteatro sull’area di sedime dello scavo di fine Ottocento. Nella seconda
ipotesi, con tracce dell’ellissoide più labili, ci troveremmo con l’arena collocata sul Largo BorgoBraida, con centro esattamente sul sagrato della
Cappella delle Anime del Purgatorio, mentre
l’abbassamento della via in direzione est verrebbe confermato dalla presenza di uno dei due
accessi (sull’ellisse maggiore) all’edificio antico,
quindi maggiormente soggetto a crollo, con relativa diminuzione della quota del piano stradale.
In questo secondo caso la maggior parte delle
strutture si celerebbe sotto l’abitato urbano. In
ognuna delle due ipotesi ci troveremmo di fronte ad un caso eccezionale di ‘archeologia moderna’, la cui unica certezza potrebbe essere offerta,
più che da intenzionali saggi di scavo, da indagini fotografiche aeree secondo le recenti strumentazioni di rilevamento altimetrico, che potrebbero, almeno in parte, rivelare la forma, la geometria e le dimensioni di un antico monumento di
Atina romana.
- 60 -
MARCO AMBROGI
NOTE
1
CURTO 1901, p. 40.
2
Una precedente analisi di studio su Atina e il suo anfiteatro
è ampiamente elaborata da parte dello scrivente nella tesi di
laurea Il Vallo di Diano, morfologia e fasi insediative, discussa presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, a.a.
2001/2002 (Relatore: prof. G. Calza). Parziali approfondimenti sull’argomento sono stati pubblicati in AMBROGI 1994.
3
GATTA 1723, p. 38.
4
ANTONINI 1984 (17841), p. 116.
5
ROMANELLI D., Antica topografia istorica del Regno di Napoli,
Vol. I, p. 425, in LACAVA 1893, pp. 88-89.
6
IDEM, Ibidem, p. 89.
7
GIUSTINIANI 1804.
8
ALBI-ROSA 1840, pp. 56-57.
9
CORCIA (Vol. III, p. 96), in LACAVA 1893, p. 95. Di seguito (con
rimando al Lacava), l’Autore riporta l’iscrizione dichiarata
apocrifa dal Mommsen.
10
MACCHIAROLI 1995 (18681), p. 38.
11
ETERNI 1982, p. 67. Lo studioso sanrufese così riporta: «dove
era ad Atena un nobile, ed antico teatro, del cui pochi vestigi si vedono, nel quale celebravano i Gentili Romani le loro
feste, e giochi». Nella nota di approfondimento al testo, V.
Bracco specifica che si tratta di anfiteatro, dato che lo stesso
Eterni annotava la presenza di feste e giochi, dimostrando
quindi la confusione o l’erronea trascrizione sulla tipologia
del monumento.
12
L’Italia sotto l’aspetto fisico, storico, artistico e statistico, Vol.
I, lettera A, in LACAVA 1893, p. 99.
13
Tra i grandi nomi degli eruditi viaggiatori stranieri, che citarono la presenza dell’anfiteatro di Atena Lucana, figura
Francois Lenormant, che nella sua pubblicazione A travers
l’Apulie et la Lucanie, II, Paris 1883, p. 85, fa un breve cenno
al monumento. Di altre opere antiche (NISSEN, Italische
Landeskunde e Friedlander, Darstellungen aus der
Sittengeschichte Roms) di cui non mi è stato possibile effettuare un’attenta consultazione, si fa riferimento nell’attento
studio curato da Vittorio Bracco, Inscriptiones Italiae,
Volumen III-Regio III, Roma 1974, p. 79. Lascio ad approfondimenti maggiori la consultazione dei pochi riferimenti
(spesso solo citazioni) non inseriti nel presente studio, come
pure la disamina di documenti ottocenteschi di carattere
locale.
14
LACAVA 1893, p. 50. In nota lo studioso riporta, con incontrovertibile prova dei dubbi sulla topografia antica di Atina:
«Nell’attuale paese vicino all’abitazione del signor Marini
sono appariscenti gli avanzi di un anfiteatro» (Ivi, n. 2).
15
IDEM, Ibidem, p. 73.
16
CURTO 1901, p. 41.
17
Isquarcio delle antichità di Atena, tratto da un ragguaglio
Topografico della medesima, composto in grazia di chi ansioso fosse saperne le sue vaghezze, ms. ined. conservato dalla
Società di Storia Patria di Napoli, in LACAVA 1893, p. 84-87.
18
LACAVA 1893, p. 87. L’iscrizione viene riportata nello stesso
saggio di Lacava come apocrifa. L’aver annoverato il testo
dal Lacava tra quello del Troyli e l’altro dell’Antonini, colloca l’epoca del passo inedito probabilmente alla seconda
metà del XVIII secolo.
19
CURTO 1901, p. 40.
20
IDEM, Ibidem, pp. 40, 41.
21
IDEM, Ibidem, p. 38; lo studioso riporta anche la descrizione del materiale rinvenuto, tra cui un’eloquente iscrizione
(poi ricondotta alla presenza del foro), nella parte alta dell’abitato antico (sopra la Piazza) che riconduce, secondo la
fonte, ad una struttura architettonica teatrale. Sul teatro, probabilmente costruito ‘alla greca’ sull’acropoli cittadina, lo
stesso Curto discorre a p. 38, con il ritrovamento di frammenti di laterizio formanti delle colonnette.
22
GILIBERTI 1913, pp. 27-28.
23
RACIOPPI 1970, p. 499.
24
L’epigrafe viene riportata anche dal BRACCO 1974, pp. 166167, insieme all’altra del seguente tenore: LVCIUS X . L .
MILES R/ P . HONORIB . GEN/ MVN . SVB/ AMPHITEA - -/ R . F . P . P; le due iscrizioni vengono ritenute false, perché non corrispondono le citazioni di importanti eruditi antichi, quali il Mommsen, il Corcia e l’Antonini e quelli locali
(Lacava, Albirosa, Macchiaroli e Curto). La tradizione storica
locale (Curto), collocava un’iscrizione sul muro esterno della
Taverna del Principe nell’abitato e l’altra nell’agro ove anticamente si trovava una villa di un militare romano.
25
CURTO 1901, pp. 85-86.
26
BRACCO 1974, pp. 166-167. Il Lacava la riporta come apocrifa (LACAVA 1893, p. 48).
27
ANTONINI 1984 (17971), p. 116.
28
BRACCO 1974, pp. 166-167.
29
Come rimarca lo stesso BRACCO 1974, p. 167 ed anticipa
nella presentazione delle iscrizioni di Atena Lucana (IDEM,
Ibidem, p. 79).
30
DISCEPOLO 2007, p. 117 ss.
31
BOTTINI 1997, p. 217.
32
Il riferimento per la conversione delle misure è stato attinto da DI DONATO 1997, p. 18 (cap. sulle antiche misure in uso
nel Vallo di Diano). Il palmo in area valligiana corrispondeva a cm 26, 4550.
33
BOTTINI 1997, p. 217.
34
BALLETTI et Alii, 2002. Cfr. inoltre Gli anfiteatri in Basilicata
2002.
35
II, Ibidem.
36
Incertezza che ha coinvolto anche la studiosa atenese
D’ALTO 1985, pp. 90 e 90 bis. Al volume della D’Alto si
rimanda per una comprensione globale della storia antica di
Atena Lucana e dei suoi ritrovamenti, giusta l’affidabilità analitica e descrittiva della studiosa, che per anni ha ricoperto il
ruolo di Ispettrice Onoraria dei Monumenti atenesi, soprintendendo agli scavi degli anni ’60 e successivi effettuati nel
paese.
37
Figlio di Saverio Arcangelo e di De Stefano Serafina,
nacque ad Atena Lucana il 27 febbraio del 1807 ed ivi
passò a miglior vita il 23 novembre 1876. Fu tra i rivoltosi del 1848 nel Vallo di Diano, marciando alla testa di
duemila volontari contro l’esercito borbonico; processato
e condannato a morte, gli venne commutata la pena in
18 anni di carcere e nel 1852 venne liberato, trovando
rifugio in Inghilterra. Ritornato in Italia, nel 1860 si arruolò al seguito di Garibaldi e nella battaglia di Milazzo fu
promosso capitano. Ferito nella marcia dei ‘Mille’ in
Sicilia venne ricoverato in diversi ospedali, dai quali uscì
inabile, con l’assegnazione di una pensione. Tornò nella
natia Atena Lucana e ne fu nominato sindaco, amministrando il Comune con saggezza ed operosità. Nel paese
si trova tutt’ora una targa a lui dedicata, (dal sito:
www.pisacane.org/documenti/1860/Pessolani...) Del
Pessolani parla anche il LACAVA 1893, p. 74.
38
CURTO 1901, p. 41.
- 61 -
SALTERNUM
MANDELLI L., La Lucania sconosciuta, ms. della Biblioteca
Nazionale di Napoli, tratto da LACAVA 1893, p. 57.
40
Durante uno scavo in loco di circa quindici anni fa per i
lavori ad una conduttura idrica, nella parte di strada prospiciente il palazzo delle Suore (accanto a quello Marino), il Sig.
Michele Ciro Langone, ebbe modo di osservare un grosso
39
lastrone ricurvo, probabilmente testimonianza dell’antico
monumento ivi sepolto. Alla cortesia del sig. Langone devo
la consultazione del prezioso testo di Michele Lacava.
41
Le note sull’anfiteatro di Nuceria sono osservazioni personali tratte dalla cartografia cittadina.
BIBLIOGRAFIA
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Diano, ossia descrizione istorico-topografica della medesima,
Napoli.
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Napoli.
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Regione Notizie”, Periodico del Consiglio Regionale di
Basilicata, n. 117, Potenza.
- 62 -
FRANCESCO MONTONE
Orazio e la Campania
O
razio, nel corso della sua produzione poetica, fa numerosi riferimenti
alle città della costa e dell’entroterra
campano. Il poeta venosino aveva conoscenza
diretta di molte località, soprattutto di quelle
situate nell’area flegrea; le puntuali allusioni del
poeta, perciò, rivelano aspetti molto interessanti
per la ricostruzione della storia dei centri campani.
Nella divisione che Augusto fece dell’Italia, la
Campania formò la Regio I insieme con il
Latium vetus ed il Latium adiectum; in seguito
comprese anche il territorio degli Irpini e parte
del Sannio. Nel nuovo ordinamento dell’impero
alla fine del sec. III d.C., con gli stessi confini
della regione di Augusto, formò una delle province in cui fu allora divisa l’Italia. In base alla
descrizione di Strabone (V, 4, 3), al tempo di
Orazio la Campania comprendeva la regione
costiera pianeggiante che si estendeva tra
Sinuessa e la penisola sorrentina con le isole di
Pitecussa, Procida, Capri, l’entroterra fino alla
linea delle città dislocate lungo la via Appia e il
tratto della via Latina che da Venafrum, attraverso Teanum Sidicinum e Cales, giungeva a
Capua insieme ai centri dell’estremo limite
orientale della pianura campana (Suessula, Nola,
Acerrae, Abella) a ridosso dei territori sannitici
sud-occidentali1.
Gli Epodi, o Iambi, come li chiama Orazio,
costituiscono l’esordio poetico del Venosino e
furono composti tra il 42 ed il 31 a.C., cioè tra la
battaglia di Filippi e quella di Azio, e pubblicati
intorno al 30 a.C. Il poeta voleva rinnovare quel
genere lirico che aveva dato tanta fortuna ad
Archiloco e ad Ipponatte, molto adatto all’invettiva e alla satira, ma che consentiva anche qual-
Fig. 1 - La regio I dell'Italia augustea.
Fig. 2 - Cartina
dei Campi Flegrei.
che abbandono lirico. Nell’epodo II l’usuraio
Alfio sogna una vita diversa dalla sua, nella
quiete e nei piaceri della vita campestre, ma di
fatto non riesce a cambiare le sue abitudini e
continua a svolgere la sua ripugnante attività. Al
v. 49 compare un riferimento alle ‘ostriche del
Lucrino’. Il Lucrino è un bacino lacustre dei
- 63 -
SALTERNUM
Fig. 3 - Il Lago Lucrino.
Campi Flegrei, separato dal mare da un argine,
in parte naturale in parte artificiale, che congiungeva Baia a Pozzuoli; Agrippa fece costruire una
strada su di esso e tentò di mettere in comunicazione il lago Lucrino con il vicino lago
d’Averno, trasformato da lui in porto (Portus
Iulius). La coltivazione delle ostriche del Lucrino
è ricordata da Orazio anche nella IV satira del II
libro, al v. 32.
Nel IV epodo il poeta attacca con sarcasmo
un ex-schiavo divenuto un ricco e arrogante
cavaliere, ricordandogli le sue origini. Ai vv. 134 il Venosino ricorda l’ager Falernus, famosissimo per la produzione vinicola, situato nella
parte settentrionale della Campania, nella zona
di Sessa Aurunca e di Massico, a Nord del
Volturno.
Nell’epodo V, Orazio descrive il turpe sortilegio della maga Canidia ai danni di un giovinetto caduto nelle sue grinfie; al v. 26 il Venosino
fa riferimento alle Avernales aquae con cui
Sagana, un’amica di Canidia, asperge la casa.
L’Averno è il lago craterico situato nei Campi
Flegrei, dove, secondo i Greci, si situava
l’ingresso dell’Ade. Al v. 43, inoltre, è citata
l’otiosa Neapolis, città fondata nella prima metà
del V a.C., come ampliamento di un centro più
antico, che Cuma, la più potente delle colonie
greche del golfo, avrebbe insediato sul luogo di
un precedente stanziamento rodio, al quale risalirebbe il nome Parthenope (una delle Sirene)2.
Napoli si accordò con i Romani quando i
Sanniti l’assediarono tra il 328 ed il 326 a.C. e fu
fedelissima all’Urbs, seguendo le sue sorti, prima
come città federata, poi come municipio.
Offuscata da Pozzuoli come porto e come centro commerciale dopo l’82 a.C., la città conservò
un certo rilievo in qualche ramo manifatturiero
(unguenti e profumi), ma fu soprattutto centro
dalle tenaci tradizioni elleniche nella lingua,
nella cultura, nel costume: città di piaceri, di
famosi spettacoli teatrali e sportivi e di studi.
L’otiosa Neapolis di Orazio fu anche la dolce e
colta città dall’incomparabile scenario paesistico
di Virgilio e di Stazio, la città prescelta da
Nerone per le sue esibizioni sceniche, la città
apprezzata da Marco Aurelio per i suoi filosofi.
Come osserva il Della Corte3, tuttavia, Napoli era
per Orazio città dell’otium ma non già nell’accezione virgiliana (Georg. IV, 563-4: «illo Vergilium
me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis
florentem ignobilis oti»: «in quel tempo me,
Virgilio, nutriva la dolce Partenope, tra felici
opere di un ozio senza gloria»), cioè città adatta
agli studi, bensì in quella ovidiana (Met. XV,
711-2: «in otia natam / Parthenopen»:
«Partenope, città nata per la vita tranquilla»), dal
momento che Napoli (in particolare il suo golfo)
era luogo di vacanze per i Romani.
Nell’epodo XVI, nell’ambito di una dolorosa
rievocazione delle guerre civili, in un elenco di
nemici di Roma, in cui si ricordano i pericoli
rappresentati da Annibale, Porsenna, Spartaco, i
Germani, compare un riferimento a Capua, che
era arrivata a minacciare l’Urbe (v. 5); di fondazione etrusca, essa era il centro più importante
dell’entroterra campano ed è definita ‘rivale’ di
Roma. Orazio, sottolinea il Mandruzzato4, «sembra esprimere un giudizio interessante: se Roma
fosse stata eliminata nel suo momento cruciale è
pensabile che proprio Capua sarebbe diventata
il centro del mondo greco-italico». La città è
ricordata, inoltre, tra le tappe dell’iter
Brundisinum (Sat. I, 5, 47) ed è citata anche
nelle Epistole (I, 11, 11-12), nell’ambito di un
riferimento topografico alla via Appia.
Orazio pubblicò due libri di Satire, il I verso
il 35 a.C. e il II verso il 30, rifacendosi a Lucilio,
capostipite del genere; in queste composizioni,
che il poeta definiva Sermones, conversazioni
alla buona, compaiono considerazioni filosofico-morali, questioni di critica letteraria, scene di
- 64 -
FRANCESCO MONTONE
vita quotidiana, considerazioni autobiografiche,
favole mitologiche. La satira V del I libro, il
famoso iter Brundisinum5, ricorda il viaggio
compiuto da Orazio, Mecenate, Virgilio e altri da
Roma a Brindisi nel 37 a.C., secondo il modello
luciliano del viaggio in Sicilia. È, quindi, una
satira odeporica. All’origine del viaggio vi erano
gravi motivi politici, dal momento che
Ottaviano, in difficoltà a causa della guerra per
mare con Sesto Pompeo, era stato costretto a
chiedere aiuto ad Antonio, che giunse a Brindisi
con 300 navi, richiedendo, in cambio, legionari
per combattere contro i Parti. Orazio, tuttavia, fa
un solo cenno ai motivi politici alla base del
viaggio, ai vv. 28-29, quando ricorda che erano
presenti alla spedizione Mecenate e Cocceio
(«missi magnis de rebus uterque /legati...»6: «l’uno
e l’altro mandati come ambasciatori per trattare
di cose grosse»). Il viaggio, come spiega il
Fedeli7, è soprattutto conoscenza di luoghi e di
persone, considerati con l’occhio del viandante
frettoloso, cui non interessa tanto osservare i
dati etnografici e antropologici, ma piuttosto
presentare rapidi bozzetti e squarci di vita locale. La Campania è attraversata nella VI e nella
VII giornata. I viaggiatori percorrono le 38
miglia che separano il ponte Campano da
Caudium, fermandosi a Capua per una sosta.
Mecenate si diletta giocando a palla, mentre
Virgilio e Orazio, che soffrono l’uno di stomaco,
l’altro a causa degli occhi infiammati, vanno a
dormire. I viandanti cenano nella ricca villa di
Cocceio, dove assistono alla divertente tenzone8
tra il buffone Sarmento e Messio Cicirro. Il
primo ironizza sui difetti fisici dell’avversario,
mentre Messio mette alla berlina lo stato sociale
del rivale che, muovendo da origini servili, è
diventato scriba. Il giorno dopo i viaggiatori da
Caudium si rimettono in viaggio alla volta di
Benevento. Lì un oste troppo premuroso per
poco non brucia anche se stesso mentre arrostisce i suoi tordi. Il fuoco si sparge e le fiamme
arrivano a lambire il soffitto. Orazio fa una
descrizione squisita dell’allarmismo che coglie i
clienti affamati e i servi spaventati, che portano
fuori la cena e si impegnano, tutti insieme, a
spegnere l’incendio. Il giorno dopo i viaggiatori
lasciano a Benevento la via Appia, non più
Fig. 4 - Bonea (BN)
- Villa di Cocceio
(fine II - I sec. a.C.)
opus signinum.
Fig. 5 - Egnazia (BR) - La via Minucia ricalcata dalla via Traiana.
lastricata fino a Brindisi, e prendono la via
Minucia, che collegava, appunto, Benevento a
Brindisi.
Nella già menzionata IV satira del II libro
Orazio ferma un tale Cazio, che si affretta a tornare a casa per scrivere dei nuovi precetti: non
si tratta di precetti filosofici, ma di ricette e consigli culinari. Ai vv. 30-34 il poeta ricorda, oltre
al murex di Baia e alla peloris di Lucrino, anche
i molluschi di Miseno, l’estrema punta occidentale del golfo di Pozzuoli. Al v. 51 della stessa
satira Orazio fa riferimento al vino prodotto
nella zona del Mons Massicus, che segna il confine tra la Campania e la parte del Lazio a Sud
del fiume Liri. Ai vv. 68-69 Orazio fa riferimento
alla bontà dell’olio di Venafro, consigliato da
Cazio per condire una salsa molto elaborata
(«insuper addes / pressa Venafranae quod baca
- 65 -
SALTERNUM
Fig. 6 - La Campania costiera.
remisit olivae»: «aggiungi sopra ciò che emette la
bacca spremuta degli olivi di Venafro»). Venafro è
una città di origine sannitica nel territorio occidentale dei Pentri, attribuita alla Regio I dall’ordinamento augusteo. La bontà dell’olio di Venafro
è menzionata anche in Carm. II, 6, 15-16.
Al v. 55 della stessa satira è menzionata
Sorrento, località situata su un altro terrazzo tufaceo che domina a picco sul mare, ben conosciuta da Orazio, che ne esalta la salubrità del clima
e la bontà del vino, consigliato per le sue proprietà anche dai medici. Sorrento è definito centro
amoenum nella XVII epistola del I libro, al v. 52.
Nell’VIII satira del II libro, Orazio dialoga con
Fundanio che gli descrive la cena a casa di
Nasidieno Rufo, cafone arricchito che fa sfoggio
delle sue ricchezze attraverso piatti e vini prelibati. Ai vv. 39-40 Orazio ricorda le tazze potorie di
Alife, molto capienti, nelle quali due personaggi
partecipanti alla cena, Vibidio e Balatrone, rovesciano intere anfore. Alife è una città di origine
sannitica situata sul versante campano del
Matese, nella valle del Volturno, posta sulla diramazione dalla via Latina che congiungeva
Venafrum a Beneventum. Ai vv. 45-46 è nuovamente menzionato l’olio di Venafro, utilizzato per
condire il sugo di una salsa di gamberi che
accompagna una murena, offerta durante la cena,
per desiderio di ostentazione, dal parvenu.
È ai quattro libri delle Odi, i primi tre composti tra il 30 ed il 23 a.C. ed il quarto pubblicato
nel 13 a.C., tuttavia, che Orazio si affida per
ottenere fama imperitura di poeta, aspirando ad
eguagliare Alceo e Pindaro. In Carm. I, 31, 9 e
IV, 12, 14 Orazio menziona Cales, città aurunca
della Campania (oggi Calvi Vecchia, frazione di
Calvi Risorta). Il Venosino ne ricorda la pregiata
qualità del vino.
In Carm. II, 18, 17-22 Orazio descrive il fervore dei lavori edilizi a Baia, città dei Campi
Flegrei, sulla sponda occidentale del golfo di
Pozzuoli, famosa per le acque termali, che
divenne una stazione balneare di moda: «tu
secanda marmora / locas sub ipsum funus et
sepulcri / inmemor struis domos marisque Bais
obstrepentis urges / submovere litora, / parum
locuples continente ripa»: «tu commissioni tagli
ampi di marmi nell’imminenza della sepoltura e
levi casa e scordi la tua tomba, sconvolgi coste,
argini il mare che percuote Baia: per confine
una spiaggia, è poco signorile». Orazio attesta la
prima fase dell’espansione edilizia di Baia9, centro di cui ha conoscenza diretta, come sottolinea
in altri due luoghi (Carm. III, 4, 24 e Epist. I, 15,
19). Nella I epistola del I libro Orazio irride chi
è smanioso di far costruire la propria villa a
Baia, al punto da considerare quel sito superiore a tutti gli altri (v. 83). La città divenne simbolo di lusso e corruzione mondana: Properzio, ad
esempio, si scaglia contro Baia, luogo di corruzione per le fanciulle caste, ed esorta l’amata
Cinzia ad allontanarsi da quei vergognosi lidi
(Prop. I, 11, 27-30: «Tu modo quam primum corruptas desere Baias: / multis ista dabunt litora
discidium, / litora quae fuerant castis inimica
puellis: / a pereant Baiae, crimen Amoris,
aquae!»: «Ma tu abbandona prima possibile la
corrotta Baia: codesti lidi produrranno la separazione di molti lidi da sempre ostili alle caste fanciulle. In malora le acque di Baia, vergogna di
Amore!»). Seneca, a sua volta, nell’epistola LI, 13, afferma di aver lasciato Baia dopo un giorno,
dal momento che è divenuta un luogo che induce al vizio: «nos... contenti sumus Bais; qua
postero die quam attigeram reliqui, locum ob
hoc devitandum, cum habeat quasdam naturales dotes, quia illum sibi celebrandum luxuria
desumpsit»: «mi sono dovuto accontentare di
Baia, ma l’ho lasciata il giorno dopo che vi ero
arrivato. Pur avendo l’attrattiva delle sue bellezze naturali, è una città da evitarsi, poiché è
ormai un noto centro di corruzione».
- 66 -
FRANCESCO MONTONE
I due libri di Epistole furono pubblicati nel 20
a.C. e nel 13 a.C. Il primo comprende 20 epistole, il secondo ne raccoglie tre, tra cui la famosissima Ars Poetica. A differenza delle Satire, le
Epistole non hanno toni aggressivi: permangono
i temi della ricerca della saggezza e della morale (autárkeia e metriótes)10.
Nella I epistola del I libro, ai vv. 85-87, è
menzionata Teano, città fondata dalla tribù sannitica dei Sidicini e centro principale di questa
popolazione; era situata alla congiunzione tra la
via Latina e un’importante variante della via
Appia e dotata di un ampio anfiteatro («cui si
vitiosa libido /fecerit auspicium: cras ferramenta
Teanum / tolletis, fabri»: «poi gli viene un capriccio amoroso, come un’ispirazione divina: domani gli operai portino le attrezzature a Teano»).
Teano era una delle città più importanti della
Campania e Orazio irride il ricco volubile che,
mentre sta per farsi edificare una villa a Baia,
ordina ai suoi operai di portare le attrezzature a
Teano.
Arriviamo, finalmente, alla già menzionata
epistola XV del I libro, in cui Orazio cita
Salerno. Orazio si rivolge a Numonio Vala per
chiedere notizie sulle condizioni climatiche e
sulla vivibilità di Salerno e di Velia, dal momento che il famoso medico di Augusto, Antonio
Musa, gli ha prescritto cure di acqua fredda per
i disturbi di cui soffriva agli occhi.
Salerno11 è situata sulla costa settentrionale
dell’antico sinus Paestanum, a destra del fiume
Irno, nell’agro Picentino. Essa nacque come
colonia marittima di diritto romano nel 194 a.C.
(Liv. XXXII, 29, 3; XXXIV, 45, 1-5; Vell. I, 15, 13), insieme ad altre quattro colonie costiere
(Volturnum, Liternum, Puteoli e Buxentum), in
base alla Lex Atinia de coloniis deducendis del
197 a.C. Come ricorda Strabone (V, 4, 13),
Salerno aveva una funzione essenzialmente militare, dal momento che è troppo esiguo il numero dei primi coloni perché si possa parlare di
una colonia di popolamento. Era un centro fortificato per controllare gli inquieti Picentini, colpevoli di essersi schierati con Annibale dopo la
battaglia di Canne. Attraversata dalla via RegioCapuam che la collegava con l’interno della
Lucania, da un lato, con Napoli e Pompei dall’al-
tro, Salerno divenne un centro molto importante. Fu saccheggiata nell’89 a.C. dall’esercito degli
alleati italici guidato da Papius Mutilus, che in
tale occasione arruolò nelle proprie schiere prigionieri e schiavi salernitani.
Orazio domanda, inoltre, quale dei due siti
abbia le messi migliori, quale sia più provvisto
di lepri e cinghiali, quali acque siano più dotate
di pesci e frutti di mare. Egli dà per scontato che
la selvaggina pregiata non mancherà dalla sua
tavola. Per quanto riguarda il vino, egli non fa
proprio conto dei poco raffinati vini locali e
cerca un vino nobile, d’alta classe, che non
dovrà essere né pesante né di alta gradazione,
ma tale da rendere vivace e piacevole chi lo
beve, senza ubriacarlo. Orazio affida al vino il
compito di lenire i suoi affanni, di fargli venire
la parlantina (secondo il tòpos del vino che scioglie la lingua) e di renderlo gradito ad
un’amante lucana: il Fedeli12 ritiene che un tale
accenno alla regione d’appartenenza della
donna consenta di cogliere una leggera preferenza del Venosino per Velia. Al v. 24 il poeta,
lasciati da parte i problemi di salute, chiarisce
che lo scopo del suo viaggio a Velia o a Salerno
è quello di tornarsene a casa ben pasciuto come
un Feace («pinguis ut inde domum possim
Phaeaxque reverti»: «perchè possa tornare a casa
grasso, novello Feace»); ai Feaci il poeta aveva
già accennato in Epist. I, 2, 28-29 e anche in quel
caso con un ironico riferimento alla loro propensione per i piaceri della tavola. Il melancholicus13 Orazio cerca un luogo dove svernare e
deve rinunciare, per rispettare i precetti di Musa,
ai graditi soggiorni a Baia, che altrove il poeta
arriva a personalizzare.
Il medico di Augusto era un convinto sostenitore dei benefici terapeutici offerti dai bagni di
acqua fredda. Orazio ricorreva, per seguire le
osservanze del medico, al frigidarium della sua
casa, mentre altri si recavano a Chiusi o a Gabii.
Come osserva giustamente il Bracco14, Salerno e
Velia non sono menzionate perché offrissero
bagni freddi (non è nota nelle due città la presenza di sorgenti di acqua con proprietà terapeutiche): se il Venosino deve scegliere tra
Salerno e Velia per curare la gotta e i disturbi
agli occhi è perché quelle località offrivano un
- 67 -
SALTERNUM
sodalizio di medici esperti. Sono attestati nomi
di medici a Velia e a Salerno è ricordato, dalle
testimonianze epigrafiche, il nome di un medico
di età giulio-claudia, Tiberio Claudio, che ha
cognome greco come il padre: Diogene. La frequenza delle relazioni con l’Oriente dovette
favorire il trasferimento nei due centri campani
di individui esperti nell’arte medica. Il Bracco15
afferma che è attestata fin dall’età di Cesare
quella tradizione medica che raggiungerà fama
pienissima nel Medio Evo.
Nella parte conclusiva dell’epistola Orazio
ricorda un personaggio già citato in Sat. I, 3, 21,
un certo Mevio, noto per essere un ingordo e un
inguaribile spendaccione, e rimprovera se stesso, in grado di condurre, nel suo campicello,
una vita frugale, ma incapace di resistere ai piaceri di una vita comoda quando gli si presenta
l’occasione. Compare anche qui quella continua
opposizione tra valori e modelli etici e scelta
individuale, che ha indotto il La Penna ad affermare che Orazio opera una relativizzazione
della morale16. Il poeta stesso, come sottolinea
acutamente Italo Lana17, in Epist. I, 8 confessa di
essere afflitto da un funestus veternus, uno stato
di torpore e di inquietudine che genera in lui
l’incapacità di agire coerentemente con le sue
convinzioni morali. Egli non vive nec recte nec
suaviter (v. 4) ed è assalito da un continuo stato
di irrequietezza, che lo spinge a desiderare
Roma quando è a Tivoli e Tivoli quando è a
Roma (Epist. I, 8, 9-12: «...irascar amicis / cur me
funesto properent arcere veterno; / quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam, /
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam»:
«con gli amici mi inquieto, perché s’affannano
per salvarmi da un torpore che mi porta alla
tomba, e faccio quello che mi ha fatto male e
scappo da quello che mi farebbe - e lo so - assai
bene. A Roma mi piace Tivoli; a Tivoli mi piace
Roma. Sono come il vento»).
Oltre all’amata Baia, Orazio deve rinunciare
ad andare a Cuma (vv. 11-12: «...quo tendis? Non
mihi Cumas / est iter aut Baias»: «Dove vai? La
meta non è più Cuma o Baia»). Cuma, città situata sul litorale campano, sulla costa flegrea, fu la
più antica colonia greca in Italia. La via
Domiziana entrava in città da Nord, tagliando il
monte Grillo e superando un profondo avvallamento con un ardito cavalcavia, un’opera
cementizia rivestita di laterizio e tufelli, detto
‘Arco Felice’.
In conclusione, la lunga frequentazione da
parte dell’inquieto poeta venosino delle località
campane e le allusioni ad esse nelle sue opere
ci offrono la possibilità di un viaggio affascinante all’interno di tradizioni locali, prodotti tipici,
tendenze culturali della nostra regione, un percorso che ci conduce alla riscoperta, mai priva
di emozione e di meraviglia, delle nostre radici.
- 68 -
FRANCESCO MONTONE
NOTE
1
Si veda il fondamentale contributo FERONE C. 1996, pp.
424-432.
2
Nell’Alessandra, il poeta ellenistico Licofrone fa predire a
Cassandra la triplice direzione che avrebbero preso le tre
Sirene, Parthenope, Leucosia e Ligeia, dopo il salto in mare
e descrive i tre luoghi di approdo, sulle coste campane,
dove si diffonde il loro culto: Napoli, Punta Licosa e
Sant’Eufemia. L’insediamento collettivo si sarebbe situato,
per gli antichi, nelle isolette sorrentine dette Sirenusse
(oggi ‘Li Galli’). Sulle varie versioni del mito delle Sirene
cfr. BETTINI - SPINA 2007.
3
DELLA CORTE 1996, p. 517.
4
Orazio, Odi ed Epodi, p. 535.
5
FEDELI 1996, pp. 248-253. Si rimanda anche a FEDELI RONCONI 1991.
6
Il testo di Orazio è citato secondo le edizioni critiche allestite da P. VENINI (Odi ed Epodi) e da P. FEDELI (Satire ed
Epistole) per il Bimillenario oraziano (Istituto Poligrafico
dello Stato, Roma 1991, 1994, 1997).
7
Orazio. Tutte le poesie, p. 828.
8
A proposito della tenzone scrive il LA PENNA: «La tenzone
comica sembra di una comicità gratuita e festosa; ma non
è escluso che Orazio questa volta provi gusto a farci vedere un troppo furbo parassita di città messo alle strette da
un campano spiritoso. Non parlo di morale a tesi: è una
morale meno cosciente che in altre satire, ma non assente:
anzi è la morale che si confonde col gusto della vita e circola nel racconto con naturalezza, senza che la si possa
isolare e definire» (LA PENNA 1968, p. 39).
9
FERONE 1996, p. 426.
10
LA PENNA 1968, pp. 40-44.
11
PANEBIANCO 1991; BRACCO 1981, p. XVIII; FERONE 1996, pp.
429-430; AVALLONE 2008, pp. 61-73. Si vedano anche i fondamentali contributi di LEONE – VITOLO 1982; ROMITO 1996.
12
Orazio. Tutte le poesie, p. 928.
13
Sull’irrequietezza di Orazio, che trapela sotto la marmorea superficie dei suoi versi, sulla tensione che vive il
Venosino tra quello che sentiva di essere e quello che
avrebbe voluto essere, insiste, in un bel volume, A. Traina
(TRAINA 1993).
14
BRACCO 1979, pp. 47-51.
15
IDEM, Ibidem, p. XVIII.
16
LA PENNA 1993, pp. 241-274.
17
LANA 1993, pp. 73-91.
- 69 -
SALTERNUM
FONTI E BIBLIOGRAFIA
FONTI
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IDEM 1979, Salerno romana, Salerno.
DELLA CORTE F. 1996, Napoli, in Enc. Oraz., Roma-Firenze,
p. 517.
- 70 -
MARIA AMORUSO
Lo stato di conservazione degli affreschi
di San Pietro a Corte in Salerno
I
l
complesso monumentale di San
Pietro a Corte si colloca nel centro storico della città di Salerno. La sua storia,
molto articolata dal punto di vista architettonico, ha inizio nel I-II sec. d.C. con la costruzione di un complesso termale. Il frigidarium
di queste terme costituisce la parte più antica e
di conseguenza pone un termine certo per
l’identificazione del primo periodo di frequentazione della struttura.
Nel V sec. d.C., in seguito ad un precedente
abbandono delle terme, il frigidarium continuò
ad essere frequentato, non più come ambiente
termale, ma con funzioni totalmente differenti.
Infatti esso diventò un luogo di culto che con
opportune modifiche fu utilizzato come chiesa
paleocristiana e coemeterium. La chiesa e il
cimitero, destinato ad ospitare le tombe delle
personalità e delle famiglie più importanti di
Salerno, vennero frequentati e utilizzati fino alla
prima metà del VII sec. d.C.
Nella seconda metà dell’VIII sec. d.C., Arechi
II, duca di Benevento, scelse la città di Salerno
per la costruzione di un secondo palazzo, che
includeva al suo interno una cappella privata.
Come luogo di costruzione per la sua cappella palatina, Arechi II individuò la chiesa e il
cimitero paleocristiano e dopo aver apportato
alcune modifiche architettoniche (abbattimento
delle volte romane e costruzione di pilastri e
murature di sostegno) innalzò su di essi la cappella, dedicandola ai santi Pietro e Paolo.
Le fondamenta del palatium, costituite dalle
strutture del frigidarium, dalla chiesa e dal
cimitero, diventarono un ambiente ipogeo frequentato non solo dalla famiglia principesca ma
forse anche dai comuni cittadini.
Con la fine del dominio longobardo e con il
conseguente avvento dei Normanni a Salerno, la
struttura ipogea fu trasformata in oratorio. In
quel periodo storico (XII-XIII sec. d.C.) vennero
realizzate una serie di pitture murali con la tecnica dell’affresco, con soggetti religiosi di stile
bizantineggiante.
Successivamente, la struttura fu anche utilizzata come sala pubblica in cui venivano conferite le lauree della Scuola Medica Salernitana,
finché, alla fine del 1500 si verificò l’abbandono
dell’intero complesso.
In seguito agli scavi archeologici effettuati
negli anni ’80 del secolo XX, gli affreschi furono sottoposti ad una serie di restauri finalizzati
a preservare la loro integrità strutturale e decorativa. Attualmente il loro stato di conservazione
suscita non poche preoccupazioni, poiché sono
ben evidenti svariate forme di degrado che nel
corso degli anni hanno agito sugli affreschi,
creando danni consistenti allo strato pittorico e
all’intonaco sottostante.
I materiali che costituiscono l’affresco, ma
anche tutti quelli che costituiscono ogni altro
bene culturale, sono soggetti a questi fenomeni
di alterazione e degrado per l’ interazione che si
verifica tra essi e l’ambiente in cui sono situati.
L’alterazione è un fenomeno che modifica il
materiale senza provocare un peggioramento
delle sue proprietà. Essa influisce non sulla consistenza dell’opera ma sul suo aspetto, alterandone il colore o comunque la superficie esterna.
Il degrado invece modifica le proprietà del
materiale, provocando quindi una perdita di
parte dell’opera. Esso agisce sul bene con fenomeni di consumo e distruzione, attraverso trasformazioni di natura chimica, fisica e biologica.
- 71 -
SALTERNUM
Fig. 1 - San Pietro a Corte (SA). Madonna regina in trono con Bambino e Santa Caterina d’ Alessandria.
Sul pilastro arechiano situato nella zona della
chiesa (ambiente D), c’è l’affresco della
Madonna regina in trono con Bambino e Santa
Caterina d’ Alessandria (fig. 1), realizzato nel XII
sec. d.C.
L’intera immagine è circondata da una cornice rossa che risulta mancante in molti punti.
Inoltre si può notare una notevole lacuna nella
zona destra, che occulta una parte del corpo del
Bambino.
Lo stato di conservazione dell’affresco è
mediocre. Le forme di degrado che hanno agito
e continuano ad agire su di esso sono in gran
parte leggibili sullo strato pittorico, ma si esten-
dono anche all’intonaco sottostante. Infatti si sta
verificando una graduale disgregazione della
muratura che in alcune zone ha provocato la
perdita dei colori originali e l’esposizione in
primo piano dello strato di intonaco sottostante.
La disgregazione è la separazione spontanea
di grani di materiale senza che si eserciti alcuna
azione meccanica su di essi. La sua manifestazione può verificarsi in seguito al passaggio dell’acqua, che può circolare in una parete attraverso vari fenomeni come la capillarità o
l’infiltrazione. Il suo passaggio può provocare
lo scioglimento dei sali che incontra lungo il
- 72 -
MARIA AMORUSO
suo cammino depositandoli altrove; i danni
dovuti alla presenza di sali si verificano in
seguito all’evaporazione dell’acqua, quando
essi cristallizzano e quindi aumentano di volume. Si verifica a questo punto una prova di
forza tra i cristalli in espansione e le pareti dei
pori del materiale in questione; infatti uno dei
due dovrà cedere a seconda della sua resistenza. Se l’intonaco è più resistente, il cristallo
verrà espulso sotto forma di efflorescenza, se
invece è più forte il sale, le pareti dei pori si
romperanno, causando la disgregazione dell’intonaco.
Nella fig. 2 è possibile osservare la disgregazione della superficie pittorica, che ha provocato l’esposizione dello strato di intonaco sottostante.
Nella fig. 3 si può osservare, nel particolare
dell’ampollina, ciò che resta del colore originale e il risultato cromatico verificatosi in seguito
all’azione della forma di degrado.
Nell’affresco inoltre è possibile osservare la
formazione in alcuni punti di una leggera patina biancastra o patina carbonatica. Negli intonaci a base di calcio, l’azione combinata dell’acqua e dell’anidride carbonica sul calcio può
provocare alterazioni chimiche. Quando
l’intonaco di un affresco inizia a far presa,
l’acqua evapora progressivamente, trasformando la malta in un composto sempre più compatto. Contemporaneamente, in superficie inizia a
formarsi una crosta di carbonato di calcio che
può rallentare la penetrazione dell’anidride carbonica nella profondità dell’intonaco. Di conseguenza, in superficie risulterà uno strato molto
duro perché completamente carbonatato, mentre sotto lo strato sarà più debole, perchè
l’acqua è evaporata prima che tutto l’idrato di
calcio sia entrato in contatto con l’anidride carbonica e quindi in profondità resterà uno strato
di idrato di calcio. A questo punto, se l’intonaco
viene bagnato dalla pioggia o se si trova in
ambienti altamente umidi, l’idrato di calcio può
reagire di nuovo con l’anidride carbonica dell’aria e quando l’acqua evapora, può venire in
superficie, dove carbonatandosi, continua ad
indurire l’intonaco. Quando tutto l’idrato di calcio avrà reagito, l’umidità, non potendo più rea-
Fig. 2 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’affresco con evidente
disgregazione dello strato pittorico.
Fig. 3 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’ampollina dell’affresco di
S. Caterina d’Alessandria.
Fig. 4 - San Pietro a Corte (SA). ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’.
- 73 -
SALTERNUM
Fig. 5 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con sollevamento e caduta
dello strato pittorico.
Fig. 6 - San Pietro a Corte (SA).Teoria di Santi.
gire con esso, provocherà un processo di disgregazione, poiché l’anidride carbonica inizierà ad
esercitare la sua azione acida sul carbonato di
calcio, trasformandolo in bicarbonato solubile
che, quando l’acqua sarà evaporata, si ridepositerà altrove, sotto forma di un velo bianco di
carbonato di calcio.
Alla destra dell’affresco sopra citato c’è una
parete anch’essa di costruzione arechiana sulla
quale sono stati realizzati tra la fine del XII sec.
e l’inizio del XIII sec. d.C. una serie di affreschi
ovvero, una ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’ (fig. 4) e una Teoria di Santi in piedi.
Partendo dall’analisi dello stato di conservazione della Madonna Eleusa, la situazione risulta molto grave: è visibile una netta differenza tra
la parte alta dell’affresco, che risulta leggibile e
in uno stato di conservazione migliore, e la
parte inferiore, notevolmente rovinata. In questa
zona manca almeno il 40% della superficie pittorica.
Anche su questo affresco la forma di degrado più evidente consiste nella disgregazione,
che in questo caso, oltre allo strato pittorico, ha
interessato anche lo strato di intonaco immediatamente al di sotto. È probabile che su di esso
abbia agito una percentuale di umidità notevolmente maggiore che sull’affresco precedente.
La realizzazione dell’affresco in una struttura
ipogea, il cui piano di calpestio si trova attualmente a circa 5 m dall’attuale piano stradale, ha
reso possibile la risalita dell’umidità dal sottosuolo. Questo fenomeno spiega perché la maggioranza delle forme di degrado si sia sviluppata nella parte inferiore dell’affresco, che si trova
molto più vicina al piano di calpestio.
Nella zona sinistra dell’affresco, ancora una
volta nella parte inferiore, è possibile osservare in
uno stesso punto le varie fasi di avanzamento di
altre forme di degrado, quali rigonfiamento, distacco e caduta dello strato pittorico. (fig. 5).
Anche in questo caso la principale causa dello
sviluppo di queste forme di degrado è l’umidità
e ancora una volta la parte di affresco interessata è lo strato pittorico.
La superficie esterna di un affresco, quella
che riceve lo strato pittorico, si trova sempre in
condizione di instabilità maggiore rispetto alla
superficie sottostante. Ciò si verifica perché essa
costituisce il piano di separazione tra la struttura murale sottostante e l’ambiente, e quindi la
manifestazione su di essa di fenomeni come
l’evaporazione, la condensazione e il semplice
passaggio dell’acqua possono creare forme di
degrado che generano la disgregazione della
materia.
Alla destra della Madonna si possono osservare due Santi (fig. 6). Il primo risulta essere S.
Giacomo, il secondo invece non offre le caratteristiche necessarie per una chiara identificazione.
- 74 -
MARIA AMORUSO
Nel verificare il loro stato di conservazione si
possono riscontrare le medesime forme di degrado che hanno interessato l’affresco precedente,
soltanto con qualche minima differenza. La parte
inferiore dell’affresco continua ad essere quella
maggiormente colpita dal degrado, ma anche la
parte superiore risulta danneggiata.
Per S.
Giacomo la situazione è migliore e il suo volto
risulta perfettamente leggibile, ma procedendo
verso il basso si può osservare che le mani sono
interessate da rigonfiamento, distacco e da una
minima caduta della pellicola pittorica (fig. 7).
Ancora più in basso aumentano le aree interessate dal degrado. L’umidità che risale dal sottosuolo ha generato la comparsa di patine carbonatiche (fig. 8), ancora una volta cadute dello
strato pittorico (fig. 9), efflorescenze (fig.10) e
concrezioni, dovute al deposito di sali da parte
di acque circolanti sul materiale.
La situazione dell’altro Santo è ancora più
grave: oltre alla presenza di lacune, il suo volto
risulta sbiadito a causa di patine e concrezioni.
La stessa situazione conservativa si può osservare sul resto del corpo, oltre ad una serie di lacune nella parte superiore dell’affresco.
Alla destra dei due Santi si possono osservare gli ultimi due personaggi affrescati. Si tratta di
due Santi Vescovi (fig. 11); anche per questi
l’umidità proveniente dal sottosuolo e quella
presente nell’ambiente sono le cause principali
della manifestazione delle forme di degrado.
Sull’intera superficie dell’affresco insiste una
patina biancastra (fig. 12) di diverso spessore, la
cui intensità è maggiore nel vescovo di sinistra.
Per la caduta dello strato pittorico, l’esatta lettura dei volti risulta compromessa. Nella parte
inferiore dell’affresco si ripresenta la situazione
riscontrata nei casi precedenti. La zona è maggiormente degradata per la risalita dell’ umidità
che ancora una volta ha generato patine, concrezioni e cadute dello strato pittorico (fig. 13).
Frontalmente al pilastro arechiano si innalza
un setto murario, anch’esso di fattura arechiana,
che divide la sala termale in due parti. La parete, un tempo interamente decorata con affreschi,
conserva oggi soltanto un soggetto iconografico
nell’area sinistra e alcuni frammenti in alto a
destra.
Fig. 7 - San Pietro a Corte (SA). Particolare della mano di S. Giacomo,
con evidente distacco e caduta dello strato pittorico.
Fig. 8 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine di tipo
carbonatico.
Fig. 9 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con distacchi e cadute della
pellicola pittorica.
La situazione conservativa di questo affresco
che ritrae ‘San Nicola e il cavallo’ è particolarmente grave (fig. 14). Diverse tipologie di forme
di degrado si alternano e/o si sovrappongono
sull’intera superficie pittorica, estendendosi allo
strato di intonaco sottostante. Ancora una volta
è l’umidità, presente in alte percentuali nella
struttura, che regola l’azione e lo sviluppo di
- 75 -
SALTERNUM
Fig. 10 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con efflorescenze.
Fig. 11 - San Pietro a Corte (SA). Santi Vescovi.
Fig. 12 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine dello strato
pittorico.
tutti i processi di degrado che mettono a rischio
la conservazione di questo dipinto murale. La
grande azione devastatrice dell’acqua si può
osservare gradualmente in questo affresco se si
analizzano diverse aree dello stesso in cui le
forme di degrado sono avanzate con tempi differenti. La risalita dei sali in superficie si colloca
tra le prime manifestazioni evidenti del passaggio dell’acqua all’interno della struttura muraria
(fig. 15).
La fase successiva comporta il rigonfiamento
della pellicola pittorica, il suo distacco e infine
la caduta. Contemporaneamente si possono
osservare sulla superficie altre efflorescenze saline, che continuano la loro azione disgregativa
anche all’interno dell’intonaco (fig. 16).
Le ultime fasi di questa tipologia di degrado
mostrano la disgregazione dello strato pittorico e
dell’intonaco immediatamente al di sotto. In questo affresco inoltre si può osservare una particolare forma di degrado che ha provocato la formazione di piccoli buchi che si estendono dallo strato pittorico a quello di intonaco (fig. 17).
Procedendo con un’ulteriore analisi della
superficie, si possono notare altre manifestazioni di degrado, tra cui una frattura verticale nella
zona in basso a destra e anche in altre zone in
cui manca lo strato pittorico (fig. 18).
Attualmente in questa area non è presente nessuna forma di umidità, ma la disgregazione che
si sta verificando è probabilmente il risultato del
passaggio dell’acqua in tempi passati.
Dallo studio effettuato su tutte le pitture, in
considerazione dell’ambiente in cui esse sono
situate e in base alle forme di degrado riscontrate, risulta evidente che la causa principale dell’alterazione e del degrado è l’acqua. Sia che
essa abbia agito in forma liquida o di vapore, la
sua azione è stata costantemente attiva nel corso
degli anni, così da lasciare danni ingenti su
buona parte delle pitture.
Nella struttura di San Pietro a Corte l’umidità
si è diffusa in vari modi.
L’umidità di condensazione, che evaporando
tende a saturare l’aria nell’ambiente e quindi a
provocare condensazioni sulle altre pareti, giustifica la formazione dei veli bianchi di carbonato di calcio e delle efflorescenze sugli affreschi.
- 76 -
MARIA AMORUSO
L’umidità di capillarità, che circola nei pori
dei materiali che compongono le murature, giustifica la formazione di efflorescenze e causa
l’erosione e la distruzione delle malte e degli
intonaci per solubilizzazione e ricristallizzazione
dei sali nelle zone di evaporazione.
Infine l’umidità proveniente dal sottosuolo,
dovuta alla struttura ipogea, spiega il motivo
della maggiore diffusione delle forme di degrado nelle zone inferiori degli affreschi.
A queste forme di degrado sviluppatesi per
cause fisiche bisogna aggiungere alcune forme
di degrado generate da cause biologiche. La
probabile presenza di funghi o batteri ha generato la nascita di chiazze nere sulla superficie
muraria dell’abside della chiesa paleocristiana.
Complessivamente la condizione conservativa dell’apparato decorativo di San Pietro a Corte
richiede un immediato intervento di restauro.
Le principali fasi del lavoro di conservazione
e restauro dovrebbero basarsi sul consolidamento delle parti di strato pittorico che risultano in
fase di distacco e sull’eliminazione delle efflorescenze e delle patine carbonatiche. Queste operazioni hanno il compito di bloccare almeno
temporaneamente il lento ma costante processo
di distruzione che sta agendo sugli affreschi. Per
rendere duraturo tale intervento bisognerebbe
creare le condizioni idonee per ristabilire
l’equilibrio tra le opere, la struttura e l’ambiente
in cui esso di trova. Ciò potrebbe essere concretizzato con la creazione di un microclima che
mantenga costantemente la temperatura ideale
per la migliore conservazione degli affreschi. In
questo modo potrebbe essere eliminata
l’umidità di condensazione. Molto difficile, se
non impossibile invece è riuscire ad eliminare
l’umidità proveniente dal sottosuolo. Nonostante
questo impedimento, l’attuazione degli interventi precedentemente descritti garantirebbe
comunque una vita più lunga agli affreschi e
all’intera struttura e con l’attuazione di un intervento di restauro pittorico si potrebbe ammirare
nuovamente lo splendore originario delle pitture.
Fig. 13 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con caduta dello strato
pittorico.
Fig. 14 - San Pietro a Corte (SA). San Nicola e il cavallo.
Fig. 15 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con risalita dei sali in
superficie.
- 77 -
SALTERNUM
BIBLIOGRAFIA
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AMORUSO M. 2007, Le pitture parietali di Pompei: analisi
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Piccioli).
Fig. 16 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con rigonfiamento, distacco
e caduta della pellicola pittorica ed efflorescenze saline.
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Fig. 18 - San Pietro a Corte (SA). Frattura dell’affresco sulla superficie
muraria che interessa anche l’affresco.
- 78 -
GIANMATTEO FUNICELLI
Picturae in ecclesiae S. Marie de Casalucio
Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale
Premessa
a prima idea che si ha nel varcare
l’uscio della Cappella Palatina di Santa
Barbara in Castel Nuovo presso Napoli
è quella di trovarsi in un conciliante spazio
mistico profuso di luce e di un’amena essenza
cultuale. Ma se si acutizza l’osservazione e ci si
accosta con lo sguardo alle pareti dello spazio
chiesastico, si ha l’impressione lucidissima di
essere a contatto con un contesto medievale di
grande portata. La struttura trecentesca lascia
trasparire finissime monofore ed elementi in
muratura frutto delle architetture catalane di
primo Trecento: gli unici elementi fortunatamente sopravvissuti al recupero della chiesa Palatina
e che nel loro insieme costituiscono l’apparato
più antico del complesso castellare napoletano.
Il particolare che più di tutti coglie il visitatore è
la sistematica esposizione di pareti affrescate,
disposte l’una accanto all’altra su entrambi i
muri intonacati e sullo spazio di fondo. Sono
spezzoni di pittura italiana, smembrati dalle
accurate ‘stagioni degli stacchi’ promosse negli
anni ’701 e desiderosi di emergere dai lacunosi
‘rimpiazzi’ in cemento per rivendicarsi il pregio
interpretativo di un tempo ormai remoto. Il ciclo
affrescato racchiude di primo acchito, tra forme
e stile, ‘frammenti’ di pittura tardogotica di notevole valenza artistica, se si evidenzia che il
magister degli elaborati è un giottesco fiorentino
catapultato in una stagione artistica napoletana
del tutto propizia per la corrente artistica di metà
del Trecento2. La committenza in questione ci
rimanda nella Terra di Lavoro angioina, in particolare a Casaluce. È nel casertano difatti che
sopravvive tutt’oggi il grande castello nobiliare,
trasformato poi in monastero celestino con
L
annessa chiesa che diventerà il fulcro della
vicenda artistica qui esposta. Essa rimane tutt’oggi viva testimonianza delle molteplici esperienze pittoriche medievali in Italia meridionale.
Del grande complesso castellare, di origine non
precedente al periodo normanno3, oggi rimane
una minima configurazione esterna di tufo che
in ogni modo perpetua il suo antico valore di
grande costruzione fortilizia seppure resa indefinita da una forte obliterazione, ma non è questa
occasione per trarne spunti critico-descrittivi.
Quello che spetta in questo scritto è delineare il
frutto di un ‘miracoloso’ intervento di recupero,
promosso dalla Soprintendenza del Polo
Museale Napoletano, e con la cooperazione
direttiva del Museo San Martino di Napoli, i
quali hanno contribuito a preservare, rivalorizzare e musealizzare un pezzo di arte italiana che
nel tempo è rimasto eclissato nello sfascio e il
dimenticatoio comune. L’altro fondamentale
scopo è presentare uno degli elementi clou della
pittura tardo-medievale campana estratta dal
contesto di Casaluce, ossia il ciclo delle Storie di
San Guglielmo di Gellone e alcuni passi dalla
Vita di Cristo dalle due cappelle laterali della
Chiesa di Santa Maria ad Nives, sacrario facente
parte del castello sunnominato. L’altro intervento sarà dedicato alla bottega del capomastro fiorentino in questione, composta da due affrescanti di notevoli abilità esecutive, che percorrono a Casaluce il loro specialistico apprendistato.
Risultano scarse le ricerche sul recupero delle
pitture al riguardo, e tali sono anche i dibattiti
storico – critici esposti tra le recenti monografie,
ma nella complessiva rivalorizzazione del cantiere pittorico si è ricorso anche a contributi
scientifici e pubblicazioni di notevole apporto
- 79 -
SALTERNUM
Fig. 1 - Niccolò di Tommaso, San Pietro Celestino (papa Celestino V) in trono accompagnato dai monaci celestini (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel
Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
alla memoria artistica del luogo in esame. Questo
scritto si propone anch’esso tale scopo. Ovvero
vuole essere di ulteriore contribuzione alle scarse ma nel contempo esaustive ricerche che studiosi e ricercatori espongono tra le pagine di svariate pubblicazioni atte alla memoria del complessivo patrimonio storico-artistico campano.
La committenza. Un valore ‘devozionale’
La pittura pertinente agli affreschi casalucensi ci porta alla consapevolezza di un vasto progetto esecutivo realizzato da ben tre figure
distinte, un capomastro e due discepoli anonimi.
Le indagini iconografiche eseguite da
Ferdinando Bologna designano sulle esecuzioni
un maturo contesto angioino, dove operò senza
dubbio la mano di Niccolò di Tommaso, pittore
fiorentino, che riservò particolari setti murari a
due altre personalità di bottega, allievi di cui
però non conosciamo l’identità e ci limitiamo a
proporli come Secondo e Terzo Maestro di
Casaluce. Sulle figure dei committenti e patrocinatori del ciclo, si apre un vasto capitolo di discussione, tale da percepire appieno il valore che
assumono i nobili nei moventi di siffatte esecuzioni. La richiesta di un’opera da parte di figure
di alto potere è determinata da interessanti punti
di vista in cui il richiedente si presenta come il
‘vero ideatore’ dell’opera desiderata. Questo sta
a giustificare nel commissionario uno specifico
bisogno di ‘richiesta’ verso la figura a cui viene
destinato l’ex voto. Per il ciclo di Casaluce i nobili concessori Raimondo Del Balzo, conte di
Soleto, e sua moglie Isabella D’Apia si presentano nell’argomento in esame come i diretti committenti, tanto da rientrare anch’essi nelle scene
figurate. Per inquadrare i due personaggi nel
contesto politico della fine XIV secolo, basterà
- 80 -
GIANMATTEO FUNICELLI
notare che la famiglia De Baux, volgarizzata in
‘del Balzo’, risulta di antiche origini provenzali,
come i reali d’Angiò i quali rientrano anch’essi
nel discorso artistico per essere stati gli iniziatori del successo della coppia. I d’Angiò stringeranno con la coppia un forte legame politico.
Dopo essere stato insignito da Giovanna I del
titolo di Gran Camerlengo, e facendosi così strada politica nel grande esercito reale angioino,
Raimondo convola a nozze dapprima con
Caterina de Lagonesse, per poi scegliere come
seconda compagna Isabella D’Eppes (D’Apia)4.
La famiglia di Raimondo risulta essere, dalle
attestazioni artistiche campane, una delle tante
in cui le committenze ricorrono come elemento
peculiare nel riconoscimento pubblico, quasi
come un dato distintivo. Non a caso l’enfasi del
ruolo di promotori di cui si vestono i nobili
coniugi si manifesta in continuo crescere tra i
dati artistici del Castello5, mentre ricorrono spesso committenze anche nelle singole direttive
artistiche di Isabella D’Apia6. Un documento dell’abate celestino Donato Siderno7, redatto quando l’archivio del castello era ancora del tutto agibile (1622), fa luce sull’acquisizione del maniero
da parte del nobile francese, il quale lo ottenne
annesso al casale di Casaluce nel giorno 8 febbraio del 1359 da Roberto D’Ariano, identificato
come «cavaliero napolitano». Lo scopo dell’acquisto non fu solo quello di affermarsi politicamente, ma di fondarvi all’interno un micro-complesso monastico in cui venerare la sua importante collezione sacra: l’icona bizantina della
c.d. Vergine di Casaluce e due idrie di sua proprietà e da egli stesso ritenuti i recipienti che il
Cristo utilizzò per tramutare l’acqua in vino
durante le Nozze di Cana. L’idea di istituire e
annettere al castello di Casaluce un insediamento monastico celestino, intorno al 1365, è collegato ad un suo precedente intervento di edificazione monastica presso la Diocesi di Aversa.
Non è certamente un caso che il Balzo abbia
apportato alla circoscrizione diocesana di Aversa
e al suo castello delle strutture conventuali (di
cui una a carattere privato). I del Balzo con queste operazioni progettuali puntarono ad un fondamentale disegno di propaganda sacra per
garantirsi una solida salvezza ‘per la vita eterna’,
ovvero assicurarsi una protezione di carattere
spirituale.
Gli affreschi
Meritevoli di una prima discussione sono le
Storie di San Guglielmo di Gellone, in cui prevale l’unica ed inconfondibile mano lesta e sintetica di Niccolò di Tommaso. Queste, concentrate
sul secondo ambiente congiunto alla navata di
destra della chiesa di Santa Maria ad Nives, presentavano le vicende avventurose di Guglielmo
d’Orange, il valoroso soldato che prestò servizio
in Aquitania contro i Saraceni al servizio di Carlo
Magno. Egli fondò a Gellone, a conclusione
della sua carriera militare, l’abbazia in cui si rifugiò seguendo un’intensa vita monastica. Una
prima dipintura del Maestro, però, verrà dapprima applicata per la raffigurazione dei committenti sullo spazio esterno del luogo sacro, e precisamente sull’intradosso della nicchia sinistra
del portale di accesso alla chiesa. La scena
descrive la coppia di nobili inginocchiati al
cospetto di San Pietro Celestino (fig. 1), dove
Isabella risulta accompagnata da Ludovico da
Tolosa (fig. 2), questi in veste monacale. Nello
spazio centrale vi è San Pietro Celestino assiso
su di un monumentale trono8 in atto di benedire e con lo sguardo fisso verso l’osservatore,
mentre il fitto gruppo dei Celestini in atteggiamento di preghiera assiste ai suoi piedi.
Ferdinando Bologna individua lampanti affinità
stilistiche nei tratti somatici del San Pietro casalucense e nel Sant’Antonio abate datato al 1371,
facente parte del Trittico di Forìa, che tutt’oggi
si conserva presso il Museo Nazionale di
Capodimonte9. Si notano, oltre a ciò, anche delle
contrapposizioni esecutive nel dipinto sacro.
Differenze di resa che riguardano ad esempio il
preciso vigore nel realizzare il Pietro Celestino
in opposizione al sintetico ed inespressivo volto
di Isabella che la studiosa Francesca Larcinese,
in un suo intervento sul Pittore10, afferma essere
stato realizzato da uno dei due collaboratori, in
quanto i particolari anatomici ed il panneggio
della figura femminile risultano essere approssimativi e di sommaria definizione. Lo si deduce
dalla «diversità del medium pittorico», giustificato (probabilmente) dal fatto che il personaggio
- 81 -
SALTERNUM
Fig. 2 - Niccolò di Tommaso, Isabella d’Eppe prega dinanzi a San Pietro
Celestino accompagnata da San Ludovico di Tolosa (particolare), XIV sec.
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
Fig. 3 - Niccolò di Tommaso, L’incontro tra Guglielmo di Gellone e Carlo
Magno (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa
Barbara).
risultava scarsamente visibile nella composizione. Così Niccolò decise di mettere alla prova
uno dei due collaboratori. San Ludovico da
Tolosa viene, al contrario, egregiamente raffigurato. Nell’affresco verrà commemorato per aver
donato a Raimondo gli oggetti sacri da venerare
nel santuario. L’attività artistica di Niccolò di
Tommaso presso Casaluce, iscritta in un arco
temporale che va dal 1365 al 1371, proviene da
una più ampia e ‘fortunata’ committenza reale
per mano di Giovanna I d’Angiò intrapresa dapprima nella Chiesa di Sant’Antonio abate a Forìa,
dove eseguì il Trittico sunnominato. Alle mura
gotiche del santuario casertano, invece, il maestro giottesco dedica dei passi tratti dalle Storie
di San Guglielmo I di Tolosa, che gli storici
ricordano più spesso come Guglielmo
d’Aquitania. Il valoroso paladino franco, che
visse tra il 755 e l’812 d.C., era figlio di un merovingio e nipote di Carlo Martello, per cui cugino
di Carlo Magno; a lui vennero riconosciuti i titoli di conte di Tolosa, duca di Narbona e Gotia.
Dopo varie vicissitudini legate alla vita militare,
il guerriero abdicò presso Gellona, dove fondò
un monastero (806). Le sue vicissitudini vengono tramandate dai passi poetici della ‘Chanson
de geste’, dove l’animoso soldato è il protagonista di una guerra contro i Saraceni del Sud francese. È da questa leggendaria vicenda letteraria
che si possono trarre particolari accadimenti che
trovano eco nelle raffigurazioni degli affreschi in
esame. In tal modo si potrà ricreare, nel parziale itinerario affrescato, un percorso narrativo
sequenziale tale da costituire una rara trascrizione pittorica della saga. Il racconto si apre sulla
prima storia del capitolo, ossia quella riguardante l’episodio di Guglielmo inginocchiato dinanzi a Carlo Magno (fig. 3) che presenta non
poche zone lacunose: al centro della scena campeggia il giovane cavaliere prostrato dinanzi ad
una figura assisa su di un trono (Carlo Magno)
in presenza di un gruppo di monaci acefali, in
quanto dallo stacco del complesso ci perviene
solo la parte inferiore dei dipinti. Così come si
presentano trinciati nella zona superiore la raffigurazione dei cavalli sull’esterno della scena a
sinistra, i quali alludono alla lunga galoppata
che precedentemente Guglielmo intraprese per
raggiungere l’imperatore ad Arles. Il Santo è raffigurato intento a descrivere a Carlo il sogno nel
quale la Vergine gli avrebbe dettato una missione: «conservare la corona del figlio Luigi nei
sette anni che separano il delfino dall’età matura, essendo prossima la morte dell’Imperatore».
Dopo questa vicenda, la pittura percorre uno
scenario di combattimenti sostenuti dal guerrie-
- 82 -
GIANMATTEO FUNICELLI
ro contro i Saraceni, sviluppato
dapprima nel frammento raffigurante l’imperatore sul suo fedele
destriero bianco – purtroppo tanto
lacunoso da cancellarne l’intera
area superiore – al di sotto del
quale compare un soldato sopraffatto. Nella scena raffigurante il combattimento tra Guglielmo e il gigante, viene presentato un personaggio
ciclopico, dalla corazza rossa e la
possente clava, identificabile in
Renoardo, Re dei Saraceni (fig. 4).
L’affascinante duello, in cui il fulcro
della scena è la lancia di Guglielmo
saldamente tesa verso il gigante,
viene assistito da tre donne che si
Fig. 4 - Niccolò di Tommaso, Duello tra Guglielmo di Gellone e il gigante Rinoardo (particolare),
stagliano sullo sfondo cupo del XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
bosco. Solo una delle gentildonne
dalle mani legate volge lo sguardo
alla scena, Guiborc, moglie di
Guglielmo. La forte ed affannosa
espressività dei volti delle donne
rimanda alla Deposizione di Niccolò
nella Pinacoteca di Parma, dove i
volti delle donne attorno al Cristo
riprendono lo stesso schema del
sopracciglio congiunto alla canna
del naso, nonché lo stesso lieve
vigore emotivo delle ‘pie donne’. La
conclusione del ciclo rimanda alla
scelta del Santo verso la vita monastica. Una delle testimonianze è
descritta su di un pannello conservato presso il Museo di San Martino,
in cui campeggia una figura di spal- Fig. 5 - Niccolò di Tommaso, Scena non identificata tratta dalla vita di Guglielmo di Gellone
le intenta a trasportare del materia- (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
le da costruzione in un contesto
vago e montuoso. Si tratta delle montagne di
completa identificazione, risulta operazione
Gellona, l’attuale Saint-Guilhelm-du Desert e le
ardua quella di riconoscerne sia le giuste temapietre trasportate dall’uomo indicano la prima
tiche che gli elementi intrinsechi: si tratta di un
fase della Fondazione del monastero di Gellone
brano in cui si leggono due figure, un uomo ed
sui monti rocciosi, dove una visione divina gli
una donna con un’espressione affranta e recancomunica verbalmente: «In questo deserto
ti un bambino in fasce. I due si allontanano
costruirai la tua casa, servirai il Signore giorno e
mentre alle loro spalle una figura, che esce da
notte».
una porta sulla destra e armata con un bastone,
Per i rimanenti affreschi, data la loro notevoallontana altre persone piangenti (fig. 5). Un
le frammentarietà, tale da non permetterne la
altro lacerto non individuabile è la struttura di
- 83 -
SALTERNUM
Fig. 6 - Niccolò di Tommaso, Angelo entro cornice cosmatesca, XIV sec.
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
un edificio con arcate a tutto sesto e riccamente
rivestito da modanature policrome e particolari
quali bifore goticheggianti e colonnine tortili.
Privati della lettura della parte inferiore, si scorge
a malapena sul lato sinistro una figura femminile
panneggiata di bianco e rosa e recante un oggetto, probabilmente un cesto con del pane, teso
verso un uomo genuflesso che in cambio offre
alla figura femminile un libro. Infine si evidenzia
un terzo elemento pittorico identificato come un
angelo iscritto in una cornice costituita da finte
tarsie marmoree e dove lo spazio presenta elementi decorati in stile cosmatesco (fig. 6).
Nell’intelaiatura geometrica compare un
angelo riccamente vestito e dalle ali bianche. La
grazia e l’armonia celeste è trasposta da Niccolò
sul volto dell’angelo con abile e consapevole
ingegno, tale da sottolinearne un raffinato valore emotivo.
La continuità della Bottega. Il Secondo e il Terzo
Maestro di Casaluce.
In linea di continuità, agli affreschi del sacrario parteciparono attivamente altri allievi che la
storiografia ha variamente interpretati11. Le ultime attribuzioni li riferiscono all’opera di due
artisti non del tutto riconoscibili, il Secondo ed
il Terzo Maestro di Casaluce, ai quali Niccolò
riservò gli spazi della prima cappella dell’ingresso alla chiesa. Le tematiche affrontate dagli
apprendisti hanno i seguenti contenuti: sugli
interi spazi della cappella vennero raffigurate
Scene della vita di Cristo e le Storie di
Sant’Antonio abate. Nello spazio murario dell’altare vi erano inoltre due Santi in trono incorniciati e sormontati da una lunetta in cui si presenta una figura femminile entro un clipeo. Nella
zona superiore dell’arco d’accesso alla cappella
vi era raffigurato Il Sogno di Giacobbe, mentre
nel registro inferiore erano affrescate delle singole figure di Santi, ovvero Antonio abate, un
Santo certosino non del tutto identificato, e una
Maria Maddalena (fig. 7). Gli ultimi due personaggi sacri rimangono i più enigmatici ed in
attesa di un’appropriata identificazione agiografica. Difatti resta puramente indicativa l’ipotesi
che la figura monacale maschile, recante un
vaso nella mano destra, sia un personalità eminente nella cerchia ecclesiastica del contesto,
così come la figura recante il ramoscello di fiori
è stata maldestramente individuata come Santa
Maria Maddalena, in cui tutti riconosciamo una
simbologia lontana dall’ideale di purezza.
Per quel che concerne le scene della Vita di
Sant’Antonio, assegnate al Secondo Maestro, la
Larcinese interpreta l’artista come un possibile
fiorentino in quanto risultano lampanti alcuni
ravvicinamenti alla pittura giottesca di Maso di
Banco. Se si osservano i particolari paesaggistici
della suggestiva scena di Sant’Antonio nel deserto (fig. 8), si notano forti richiami ai paesaggi
murari che eseguì Giotto nella più fortunata stagione assisiate. Un paesaggio dalla vegetazione
netta, e di notevole spazialità, di larga campitura
e profondità prospettica: l’ideale ambientazione
per inquadrare il Santo anacoreta che, attorniato
dai demoni, si presenta verso il Cristo, mentre la
folla incuriosita osserva la scena. Risulta fondamentale notare i particolari della resa chiaroscurale nei tratti somatici, che variano dalle linee
mimiche dei volti attoniti alle mani dolcemente
segnate dai tocchi chiaroscurali, sino ai leggeri
panneggi, sia dei personaggi centrali della scena,
che nel Cristo benedicente. Questi i segni peculiari di una minuziosità effettiva che ricorre
anche nelle opere di Niccolò di Tommaso.
- 84 -
GIANMATTEO FUNICELLI
Passando all’esecuzione delle
Esequie di Sant’Antonio abate
(fig. 9), per la cui paternità artistica si continuano ad accettare
entrambi i pittori anonimi, ci soffermiamo su di una scena abilmente iscritta in una sontuosa
parentesi architettonica, a prospettiva centrale e di grande resa
spaziale, tale da contenere il
corpo spento del Santo nello spazio del centro e il corteo di
monaci affollati sullo spazio di
destra. Il punto culminante della
scena dovrebbe focalizzarsi sul
corpo del Santo in primo piano,
ma l’attenzione del critico stavolta si riversa sui particolari della Fig. 7 - Secondo Maestro di Casaluce, Santo benedettino e Santa vergine, XIV sec. (Napoli, Castel
Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
costruzione architettonica riccamente espressa nei valori goticheggianti. Il considerevole alzato presenta un vano centrale
aggettante sovrastato da un soffitto intelaiato sotto cui si iscrivono
i pennacchi dell’arco di sostegno
a decorazione cosmatesca, attraverso il quale si presenta sullo
sfondo un altro vano in cui è
inclusa una bifora con estremità
trilobate e con oculo. Gli spazi
attigui a quello centrale si allineano al vano di fondo e presentano
le stesse decorazioni intarsiate.
Sullo spazio frontale di questi si
aprono due archetti a sesto acuto
schiacciato. La teoria secondo la
quale l’opera potrebbe essere il Fig. 8 - Secondo Maestro di Casaluce, Sant’Antonio nel deserto (particolare), XIV sec. (Napoli,
risultato di una collaborazione a Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
quattro mani tra il Secondo ed il
nella Rinuncia e donazione dei beni di
Terzo Maestro risulta da un attenta analisi che
Sant’Antonio ai poveri. Potrei avanzare, a mio
compie P. Leone De Castris nel rapportare attiavviso, che le architetture del registro sinistro
nenze di gusto compositivo tra le architetture
della lunetta (quella meno lacunosa) presentano
delle Esequie del Secondo Maestro, e lo spazio
una particolare soluzione di inquadramento proarchitettonico nella Distribuzione dei beni ai
spettico più contenuta, ma nel contempo del
poveri attribuita invece al Terzo Maestro (fig.
tutto spaziata invece negli interni, a differenza
10). La raffigurazione seguente, erroneamente
dell’affannoso edificio sacro delle Esequie di
identificata come Storia della vita di San
Sant’Antonio del Secondo Maestro (si noti come
Lorenzo, trova una più valida interpretazione
- 85 -
SALTERNUM
Fig. 9 - Secondo Maestro di Casaluce, Esequie di Sant’Antonio abate, XIV
sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
Fig. 10 - Terzo Maestro di Casaluce, Distribuzione dei beni ai poveri (Storie
di San Lorenzo ?) (particolare della lunetta sinistra lacunosa), XIV sec.
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).
il Santo si lascia alle spalle una porta socchiusa,
tale da localizzare la scena probabilmente in
un’anticamera o nello spazio di un porticato).
Basti notare la leggerezza dei due archi a tutto
sesto in cui si inserisce la scena.
Dell’altro registro, quasi del tutto obliterato, ci
rimane una figura di spalle in abito sacerdotale
che varca una più complessa architettura
d’interno.
Dell’abilità del Terzo Maestro, infine, mi limito ad annoverare la parete destra di un’ulteriore
lunetta, ossia quella in cui è decritta, tra le parziali scene della cristologia casalucense, La chiamata di Giacomo e Giovanni intenti a pescare
col padre Zebedeo (fig. 11). L’affresco, identificato anche come Chiamata di Pietro e Andrea12,
raffigura il Cristo che giunge verso la barca dei
pescatori Giacomo e Giovanni per indurli a
seguire la predicazione cristiana. La scena,
modulata in un’ambientazione fluviale, presenta
i due fratelli che lasciano il padre Zebedeo - raffigurato in barca sull’estrema destra mentre
ricompone la rete, ignaro dell’accaduto - per
ascoltare le parole del Cristo. A questo elaborato pittorico si dovrà giustamente riconoscere
una sommarietà nelle esecuzioni dei volti, in cui
emergono di buona qualità solo i tratti gentili
del Cristo, personaggio chiave, in relazione a
quelli attoniti dei fratelli pescatori, di resa più
grossolana. Altrettanto indicativi sono i particolari anatomici delle mani e dei piedi di tutti i
personaggi. Per i panneggi si ricorre a sommarie
campiture cromatiche (povere quantitativamente
e limitate al giallo-ocra, rosso, blu e verde) su
cui vengono registrati sintetici tratti chiaroscurali, resi essenzialmente tramite solide e scure
pennellate verticali, alternate a lievi biancheggiature. Elementi di pregio nell’esecuzione dell’elaborato sono da riconoscere soprattutto nella
rappresentazione spaziale che, seppur impostata nel condizionato e disarticolato spazio della
semilunetta di destra, si presenta del tutto esaustiva; presenze urbanistiche sullo sfondo, il
fiume reso in prospettiva sull’area centrale, e la
piccola ambientazione, fortemente marcata da
ritmi chiaroscurali, sullo spazio di destra in cui
viene centrata la scena rappresentata.
In conclusione, nello stesso Terzo Maestro è
da evidenziare una resa minore del naturalismo
presente invece nelle dipinture del Secondo
Maestro. Il Terzo Maestro agisce su composizioni dai forti verticalismi ed allungamenti anatomici enfatizzanti: elementi riscontrabili palesemen-
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GIANMATTEO FUNICELLI
Fig. 11 - Terzo Maestro di Casaluce, La chiamata d Giacomo e Giovanni, intenti a pescare col padre Zebedeo, XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella
di Santa Barbara).
te nei volti e nei corpi allungati dell’Apparizione
di Cristo alla Vergine, facente ugualmente parte
del ciclo.
Conclusioni
A termine di questo breve excursus pittorico,
sarebbe opportuno soffermarsi su altri elementi
che in questo esame non sono stati menzionati.
Trattasi di ulteriori pareti affrescate che denunciano
una notevole alterazione e necessitano di un
urgente restauro per ritornare a descrivere una
parentesi dell’arte italiana del XIV secolo, che
tutt’oggi vive in condizioni fatiscenti tra gli
stucchi e le intonacature barocche della Chiesa
di Santa Maria ad Nives di Casaluce, uno scrigno
di storia dell’arte medievale.
- 87 -
SALTERNUM
NOTE
Trattasi della ‘Stagione degli stacchi degli affreschi’, attività di
recupero promossa dalla ‘Scuola di restauro’ fiorentina a partire dal 1971.
2
Per comprendere validi punti sulla promozione dell’artista
nel tardo Medioevo alla corte dei grandi Imperatori si rimanda a WARNKE 1995, p. 216.
3
Per la storia del maniero casalucense si veda DI NARDO 1969,
pp. 20-25.
4
Risultano scarse le informazioni su Isabella d’Apia: probabilmente figlia del Cavaliere Giovanni d’Eppes, siniscalco del
Regno di Sicilia. Nata nel 1305 e morta tra il 4 e il 14 luglio a
Napoli del 1375. Alle nozze col del Balzo risultava già vedova di due matrimoni precedenti. Le sue origini possono essere chiaramente attestabili in Francia, come si evince dall’epigrafe iscritta sulla sua tomba che recita: «ISABELLA CELEBRI
SIC NOMINE DICTA / DEQUE APIA CLARUM TRAXIT COGNOMEN AVORUM / FRANCIA QUOS GENUIT […]».
5
Al ruolo di committenza che ebbero i del Balzo fa riferimento una lunga iscrizione in caratteri gotici posta nel portico del
sacrario, precisamente sul lato destro del portale. L’epigrafe,
in cui i consorti vengono esaltati in maniera egualitaria, elogia la fondazione della chiesa dedicata alla Vergine come frutto della stretta volontà di entrambi i personaggi.
6
Esiste nel Castello una commissione unicamente diretta da
Isabella. Essa si trova in una lunetta cuspidata nel portale
d’ingresso alla chiesa. Nell’interno vi è un gruppo marmoreo
raffigurante una ‘Madonna con Bambino’ mentre ai lati vi
sono due figure di Santi. Nella figura maschile canuta
1
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l’iconografia riconosce S. Giacomo Maggiore, mentre l’altro
personaggio intagliato, dai tratti incisivamente femminei, si
presenta come Giovanni, fratello di Giacomo. Sul gruppo statuario spicca lo stemma nobiliare dei d’Apia, ma questa volta
non integrato a quello dei del Balzo.
7
Donato Pullieni de’ Lupari da Siderno, monaco celestino
dalle alte cariche ufficiali, nacque a Siderno probabilmente
tra il 1570 e il 1575. Dopo aver compiuto i primi studi teologici ed essere entrato nell’ordine dei Celestini di Bologna,
giunse a Napoli nel 1609, dove si trasferì dapprima nel monastero di San Pietro a Majella per poi stabilirsi definitivamente
nel Monastero di Casaluce. Qui guidò la sua comunità come
Abate (1609).
8
Nel soggiorno artistico napoletano, Niccolò di Tommaso si
concesse una breve villeggiatura a Capri, dove sulla lunetta
d’ingresso alla Certosa realizzò una Vergine assisa tra due
committenti. Il trono caprese è identico a quello di Celestino
V dell’affresco casalucense.
9
Lo stesso Bologna afferma che Niccolò lasciò rapidamente
Firenze per raggiungere Napoli e realizzare il progetto della
regina angioina Giovanna I, ovvero il Trittico per la Chiesa di
S. Antonio abate a Forìa. Per questo punto si veda BOLOGNA
1969, p. 326.
10
STRINATI 2007, pp. 49-52.
11
Ottavio Morisani attribuì la paternità dell’intero ciclo ad
Andrea Vanni, autore di un vasto polittico di cui una sezione
è conservata presso il Museo di Capodimonte (MORISANI 1947,
pp. 91-92).
12
LEONE DE CASTRIS 1990, p. 80.
GREGORI, Torino, pp. 180-202.
IDEM 1995b, A margine de “I pittori alla corte angioina”: Maso
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moderno, Roma.
- 88 -
MARIA GIOVANNA VESPASIANO
La Natività della tradizione apocrifa
nella cripta della cattedrale di Nusco (AV)
Fig. 1 - Gruppo statuario in stucco con la Vergine distesa dopo il parto e S. Giuseppe. Nusco, Cripta della Cattedrale.
U
na rappresentazione presepiale decisamente inusuale connota una piccola cappella laterale nella cripta della
chiesa vescovile di Nusco, in provincia di
Avellino. A marcare l’originalità della Natività é
la composizione della scena: in parte affidata a
due singolari statue (fig. 1), entrambe in pesante stucco cementizio, che mostrano un San
Giuseppe sonnolente e la Vergine distesa dopo
gli sforzi del parto, in parte raffigurata mediante
pitture murali databili alla prima metà del XV
secolo, un parato a fresco che occupa la quasi
totalità delle pareti della piccola cella e che successivi lavori di sistemazione della soprastante
area presbiteriale hanno in parte compromesso.
Mentre la scoperta e la lettura del ciclo pittorico e della statua del vecchio dormiente è questione recente (gennaio 1999), la figura femminile adagiata su di un catafalco è stata oggetto
nel tempo di diverse interpretazioni. Per secoli è
stata ritenuta come la Vergine del Soccorso, cui
affidare la supplice preghiera delle partorienti;
aspirazione taumaturgica comune per tutto il
Medioevo, quando il parto costituiva un grave
- 89 -
SALTERNUM
Fig. 2 - Vergine puerpera, statua lignea donata dalla regina di Napoli
Sancia di Maiorca alle Clarisse del Convento di Santa Chiara. Napoli,
Museo di S. Martino (secolo XIV).
pericolo, tale da suggerire alle donne gravide di
rivolgersi in primo luogo alla Madre di Dio per
chiedere a lei, in quanto Madre, aiuto e protezione. Il successivo ritrovamento, nel 1959, di
un’epigrafe tombale lasciò intendere poi che
quell’ambiente ipogeo potesse essere la cella
sepolcrale dei Gianvilla (Janville) e la scultura la
maschera sepolcrale di Ilaria, la nobile feudataria di Nusco morta nell’aprile del 1522, visibile
solamente attraverso una sorta di fenestella confessionis che si apriva nel sacello ipogeico.
Bisognerà attendere l’esecuzione dei lavori successivi al terremoto del 19801 per arrivare all’esplorazione del piccolo ridotto e conseguentemente al ritrovamento del ciclo pittorico; cosa
che ha reso certamente più attendibile l’ipotesi
che in quell’ambiente fosse stata ricreata
un’ambientazione presepiale, una ricostruzione
fortemente scenografica, letta alla luce dei
Vangeli apocrifi e realizzata secondo i canoni
iconografici ancora consentiti nei primi secoli
del secondo Millennio.
Nusco, sulla dorsale della linea spartiacque
appenninica, a cavallo dell’alta Valle dell’Ofanto
e del tratto superiore della Valle del Calore, è
città di antica cristianità, sul cui seggio episcopale, nel 1048, salì per primo S. Amato, grazie alla
nomina ottenuta dall’Arcivescovo di Salerno
Alfano I e con il consenso di Roberto il
Guiscardo. E proprio al Santo Vescovo di Nusco
si deve la costruzione, nel 1093, e la dedicazione della maggior chiesa al protomartire S. Stefano.
Una dedicazione solo formale, però, poiché da
subito la chiesa fu per tutti quella di Sant’Amato,
come si evince anche da un’ordinatoria di re
Roberto d’Angiò del 1311, nella quale la chiesa
vescovile di Nusco veniva denominata col titolo
di Ecclesia Sancti Amati.
La cattedrale si trova al centro della struttura
urbanistica medievale, individuata nella città
murata con il castello. In diretta relazione con la
chiesa maggiore è la piazza, a cui si giunge
attraverso la strada principale che dalla porta
urbis conduce alla cattedrale, il cui impianto fa
riferimento ad una tipica configurazione di stampo romanico della quale non sono sopravanzati
particolari elementi, tranne poche tracce nella
cripta sottostante il transetto e riferibili alla chiesa preesistente, forse la primitiva struttura del
complesso di Santo Stefano.
E in questa cripta, dove tra l’altro è conservata la preziosa urna con le ossa di Sant’Amato, si
apre la cella con la singolare rappresentazione
presepiale di cui ci stiamo occupando.
Nella raffigurazione pittorica della Natività
arcaica, mutila purtroppo in molte parti, anche
se perfettamente leggibile, si riconoscono tutti
gli elementi compositivi che si ritroveranno poi
nella tradizione presepiale occidentale: c’è la
grotta, che poi diverrà una capanna; l’asino e il
bue; gli angeli che danno l’annuncio ai pastori;
i Magi e le levatrici, che in seguito dovranno
scomparire.
A tenere la scena, però, sono le due figure
statuarie: la Madonna, distesa su un prezioso
drappo rosso, come nelle più classiche delle raffigurazioni bizantine, e S. Giuseppe, raffigurato
nell’atteggiamento meditabondo di chi va interrogandosi sulla reale paternità di quel bambino.
Praticamente la stessa ambientazione che
M. Piacenza, già presidente della Pontificia
Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e
della Pontificia Commissione di Archeologia
Sacra, descrive in un suo contributo, La rappresentazione della Natività nell’arte, raccolto in
una nota dell’Agenzia Fides del 23 dicembre
2005: «A partire dal IV secolo la Natività divenne
uno dei temi più frequentemente rappresentati
nell’arte religiosa, come dimostrano il prezioso
dittico in avorio e pietre preziose del V secolo
conservato nel Duomo di Milano, i mosaici della
Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di
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MARIA GIOVANNA VESPASIANO
Venezia e delle Basiliche di Santa Maria
Maggiore e di Santa Maria in Trastevere a Roma.
In queste opere la scena si svolge in una grotta,
utilizzata per il ricovero degli animali, con Maria
distesa come una puerpera, Giuseppe assorto in
un angolo e gli Angeli che portano l’annuncio ai
pastori, mentre a volte in lontananza si intravedono i Magi. Il centro della composizione è
costituito dal Bambino Gesù, avvolto in fasce,
talmente strette da parere quelle di un morto, e
deposto in una culla, che a volte sembra un sarcofago, a preannunciare simbolicamente la sua
morte e la risurrezione. La rappresentazione è
inoltre arricchita da particolari tratti dai Vangeli
apocrifi, come il bagno del Bambino, a sottolineare la realtà dell’incarnazione del Verbo, vero
Dio e vero uomo».
A incoraggiare la tesi che quella della cripta
di Nusco sia una Natività, anche se manipolata
nel tempo, c’è la fattura dei due altorilievi, formati da parti originali e da altre ricomposte
secoli dopo da mani più inesperte, in una diversa postura e con materiale differente. Della
Vergine, ad esempio, solo la parte superiore, il
busto e il capo sono primigeni, mentre il resto è
lavoro di restauro, confermato dalla circostanza
che tra il materiale di risulta nella cripta sono
stati poi rinvenuti un piede femminile e una
mano su uno sfondo rosso, facilmente riconoscibili come il piede e la mano originali.
Un coerente raffronto iconografico rimanda
la lettura della figura della Madonna della cripta
nuscana a quella della Vergine puerpera donata
dalla regina di Napoli Sancia di Maiorca alle
Clarisse del Convento di Santa Chiara e conservata nel Museo di S. Martino a Napoli (fig. 2).
Questa Madonna, si legge sul pannello didascalico del sito museale, «é raffigurata distesa,
secondo un’iconografia di provenienza siriaca,
diffusa fin dal VI secolo. Ancora pensosa per il
solitario travaglio ed assorta nell’arcano mistero,
la Vergine aveva, presumibilmente, come in altre
iconografie coeve, il Bambino alle sue spalle
riscaldato dal bue e dall’asino. In questa fase di
svolgimento del tema iconografico la figura di
Giuseppe appare estranea alla scena sacra, mentre compaiono le nutrici, Zelomi e Salomé citate
nei Vangeli apocrifi».
Fig. 3 - Scena presepiale, il
primo bagno di Gesù
Bambino. Nusco, Cripta
della Cattedrale.
Una descrizione di come si presentasse quella che a Nusco, ab antiquis temporibus, era ritenuta la Vergine delle partorienti l’ha lasciata un
avveduto storico locale, G. Passaro, che ebbe
modo di vedere la statua prima che la successiva opera restauratrice recuperasse le originali
fattezze e la primitiva postura per consegnarcela come la si vede oggi: «Nell’ipogeo della cattedrale di Nusco è un simulacro in gesso, venerato sotto il titolo di Madonna del Soccorso. Con
le mani giunte, senza Bambino, è vestita di tunica e di pallio, che, dalla testa, ricadendo sugli
omeri e sulle braccia, finisce quasi nel mezzo
della figura. Porta sul capo una corona, a punte,
di legno dorato; i piedi poggiano su di una mensola di tiglio; giace distesa sopra un piano leggermente inclinato».
Della statua di Giuseppe, invece, sono originali solo la testa e le piante dei piedi, pure queste ritrovate tra il materiale di riempimento della
cella. I reperti rinvenuti sono in pietra e calce
impastata e rivestita di stucco, lo stesso materiale con cui è fatta la statua della Madonna.
La riproduzione di tutti gli altri personaggi
del Presepe, invece, è affidata alle pitture murali e al pennello di un anonimo frescante che
operò sulle pareti della cripta-grotta dell’antica
cattedrale di Nusco.
L’esegesi teologico-iconografica di questa
Natività rende evidente l’umanità di Maria, collocata al centro della ricostruzione scenografica;
una condizione che fa da contraltare alla divinità del Bambino. Tale centralità trova la sua
ragion d’essere nei canoni del Concilio di Efeso
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SALTERNUM
Fig. 4 - Scena presepiale, Gesù Bambino nella culla tra il bue e l’asino.
Nusco, Cripta della Cattedrale.
Fig. 5 - Scena presepiale, l’annuncio ai pastori. Nusco, Cripta della
Cattedrale.
Fig. 6 - Scena presepiale,
i Magi in cammino.
Nusco, Cripta della
Cattedrale.
del 431, che indicò la Vergine come il più perfetto esempio di umanità, proclamandola con il
titolo di Theotókos, Madre di Dio; in questo
richiamando con maggiore pregnanza quanto
già i Vangeli avevano fatto comprendere, là
dove si legge di Maria che ha concepito e generato un figlio, il quale è il Figlio dell’Altissimo,
Santo e Figlio di Dio (Lc 1,31-32.35); Maria inoltre è chiamata ‘Madre di Gesù’ (Gv 2,1.3; At
1,14), ‘Madre del Signore’ (Lc 1,43) o semplicemente ‘madre’, ‘sua madre’ come più volte nel
capitolo 2 di Matteo.
Con l’intento di sottolineare l’assoluta naturalità della nascita del Bambino, la Vergine della
cripta nuscana rimanda, per la sua posizione
sdraiata, all’immagine di una puerpera che si è
appena sgravata. Il suo volto, però, è sereno e
per niente provato dalle fatiche del parto, così
come vuole la concezione teologica di alcuni
Padri della Chiesa, tra i quali S. Girolamo, che
ritengono che il parto di Maria sia avvenuto
senza degradazione e senza dolore.
Nella scena presepiale di Nusco è del tutto
evidente che la Madonna ha occhi solo per il
Bambino, immerso già grandicello in una conca
che ricorda il fonte battesimale, mentre due
donne si occupano di lavarlo (fig. 3). La più
anziana di queste, vestita con abiti più sontuosi,
è certamente Salomè, l’ostetrica che, secondo i
Vangeli apocrifi, ha dubitato della verginità di
Maria. L’altra, invece, vestita più poveramente, è
Zelomi.
E occorre rifarsi ancora ai testi apocrifi
(Protovangelo di Giacomo 18-19; Vangelo dello
Pseudo-Matteo; Vangelo dell’infanzia arabosiriaco; Vangelo dell’infanzia armeno) per leggere l’altra scena della Natività, visibile alle
spalle della Madonna, quella dove campeggia il
Bambino con le fattezze di un neonato che sta
ad indicare che tutto è presente, che il moto
della natura è sospeso.
Assecondando la teologia per immagini
della tradizione bizantina, l’Infante è raffigurato tra il bue e l’asino (fig. 4), avvolto in fasce
che ricordano le bende della sepoltura e in una
vasca in pietra che ha le fattezze di una cassa
sepolcrale, aperta per anticipare quello che
sarà il destino umano del Salvatore dell’umani-
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MARIA GIOVANNA VESPASIANO
tà. In entrambe le scene la divinità del
Bambino viene espressamente fatta risaltare dai
nimbi dorati che cerchiano il capo delle due
figure infantili.
Un angelo, intanto, non molto lontano,
annuncia solennemente ai pastori la nascita del
Messia (fig. 5), mentre i Magi già sono in cammino, a piedi o su cavalcature le cui briglie sono
rette da un paggio (fig. 6).
Il paesaggio che fa da sfondo alla Natività è
segnato da una rada vegetazione che si alterna
a rocce taglienti e a spigoli vivi, quasi a volere
significare che il Salvatore è nato in un mondo
arido e freddo e quindi ostile.
Dall’alto, infine, scendono tre raggi della stella di Giacobbe, evocata dall’oracolo messianico
del mago Balaam, la cui storia si legge nel libro
biblico dei Numeri (24, 17).
Insieme a tutto questo, al disotto della scena
pittorica e giusto ai piedi della Madonna, c’è la
statua di S. Giuseppe, mostrato come un uomo
anziano; peculiarità che viene ancora una volta
ripresa dai Vangeli apocrifi. Il vegliardo, infatti,
è rappresentato distante, in atteggiamento pensieroso, rinchiuso di fronte al mistero nel mantello dei propri pensieri e nel suo umanissimo
dubbio. Lui sa di non essere il padre del neonato, per cui pare quasi che non voglia lasciarsi
coinvolgere dalla scena e nella scena che si svolge attorno a lui.
Questa tipologia di raffigurazione si ritrova
assai di frequente in affreschi quattrocenteschi
del Cilento, come la Natività nella cripta di
Santa Maria dei Longobardi a Novi Velia (fig.
7), pure questa chiaramente ispirata dai Vangeli
apocrifi. Testi la cui influenza sarà riconosciuta
acriticamente, almeno fino ai veti imposti dal
Concilio di Trento, come un valido strumento
didattico e didascalico. L’arte e la letteratura,
infatti, hanno guardato attentamente per tutto il
Medioevo e il Rinascimento all’intensa carica di
umanità e al fin troppo esplicito realismo che
contraddistinguono, ad esempio, i Vangeli dell’infanzia, che a differenza dei testi canonici
raccontano con maggiore senso narrativo la
nascita miracolosa di Gesù fino a coinvolgere
personaggi nuovi. Cosicché, anche nella cripta
della Cattedrale di Nusco, immaginata come la
Fig. 7 - Natività.
Novi Velia, Cripta
di S. Maria dei
Longobardi.
Fig. 8 - Natività. Laurito, Chiesa di S. Filippo d’Agira.
grotta sotterranea «in cui non c’era mai stata
luce, ma sempre tenebre», secondo il Vangelo
dello Pseudo-Matteo XI, si vedono le levatrici
impegnate a fare il bagno a Gesù.
La presenza delle donne colloca gli affreschi
di Nusco tra gli epigoni delle rappresentazioni
presepiali che hanno attinto alla tradizione
apocrifa, e per questo assumono un valore e
un significato decisamente più interessante.
Riprendendo il discorso sulle prescrizioni
imposte dal Concilio tridentino, è utile ricordare la Natività della Chiesa di S. Filippo d’Agira
a Laurito (fig. 8), cittadina prossima a Novi
Velia, dove, mentre continuano ad esserci tutte
le figure e gli elementi arcaici, la Vergine è ora
in piedi, in posizione adorante. Altra evoluzione iconografica è quella che si ritrova nel battistero paleocristiano di S. Maria Maggiore a
Nocera Superiore, dove la ‘grotta’ della natività
è diventata la ‘capanna’ immaginata da San
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SALTERNUM
Francesco.
Già prima che la Chiesa vietasse con il
Concilio di Trento la riproduzione nelle raffigurazioni iconografiche di soggetti dottrinalmente
non corretti, quale era la scena del bagno e il
parto della Vergine simile a quello di una comune donna, le elaborazioni dogmatiche di San
Tommaso e le Meditazioni sulla vita di Cristo
dello Pseudo-Bonaventura (il francescano
Giovanni De Caulibus di San Gimignano)
influenzarono l’operato degli artisti. Santa
Brigida di Svezia, destinataria di suggestive
Revelationes su alcuni episodi della storia sacra,
tra i quali la nascita del Cristo, contribuì con
maggiore determinazione a suggerire nuove
figurazioni iconografiche, affermando che sul
corpo di Gesù non c’era ombra di lordura.
La descrizione della Natività fatta dalla Santa
svedese, così dettagliata e ricca di particolari,
ebbe maggiore impatto sugli artisti rispetto alle
Meditationes vitae Christi, cosicché l’impianto
rappresentativo del Natale conobbe, allora, una
considerevole innovazione nei contenuti e nel
linguaggio figurativo.
In particolare, la formulazione di questa
nuova rappresentazione andò presumibilmente
sviluppandosi a Napoli ad opera del fiorentino
Niccolò di Tommaso, pittore di corte della regina Giovanna negli anni Settanta del XIV secolo.
L’artista toscano, che con molta probabilità
aveva incontrato Brigida proprio alla corte
angioina2, dove la visionaria svedese, di ritorno
dal viaggio in Terra Santa, era giunta alla fine del
1372 per restare ospite per qualche tempo nel
palazzo di Aversa, ripropose in tre piccoli pannelli la visione della Natività secondo i canoni
dettati da Brigida, che venne raffigurata mentre
riceve le rivelazioni a Betlemme.
In questi dipinti, oggi conservati in diversi
musei3, la nobildonna svedese, priva di aureola perché non ancora santa, viene rappresentata genuflessa intanto che assiste adorante alla
visione di Maria inginocchiata di fronte al Figlio
che giace sul pavimento della grotta.
Per tornare alla lettura critica della Natività
della chiesa vescovile di Nusco, occorre dire che
la ricostruzione riempie tutta la volta della grotta, mentre la Vergine puerpera, pur nella sua
centralità scenografica, guarda il divino
Bambino in piedi in una conca tondeggiante che
ricorda il fonte battesimale. Gesù, identificato da
un’aureola crucesignata, dorata ed evidenziata
da perline bianche, è già grandicello.
Nell’affresco Salomé é raffigurata vestita di
verde, con uno scialle che le fascia la testa fin
sotto il mento; nella mano sinistra regge una
brocca monoansata, mentre con la destra sembra saggiare la temperatura dell’acqua nella
vasca. L’altra donna, Zelomi (negli apocrifi viene
identificata anche come Eva), con una tunica
rossa e pure lei con il capo coperto da una sorta
di cuffia, è intenta a lavare il divino giovinetto.
La scena si consuma sulla soglia di quella
che l’anonimo frescante nuscano ha immaginato, con una suggestiva costruzione scenografica, come una grotta segnata da massi sporgenti e irregolari che ne delimitano l’ingresso.
L’affresco si rivela ancora arcaico nella
costruzione dello spazio, nella mancanza di
prospettiva e di profondità e nella piattezza di
talune figure. Ciò nonostante si possono cogliere in alcune parti di esso i caratteri dell’innovativa pittura che già andava caratterizzandosi in
contesti geografici e culturali più vicini alla
modernità, con un contrasto stilistico che
denuncia come evidente la presenza, sulla
parete frontale, di un secondo frescante nell’angelo che annuncia a due pastori la nascita
del Salvatore: probabile segno che nella cripta
era stato avviato un cantiere.
Vicino al Cristo bambino, nel lacerto di affresco, sono evidenti poche tracce pittoriche relative
alla presenza del bue e dell’asino; purtroppo assai
danneggiate dai lavori che interessarono la cripta.
Del ruminante, alla destra del neonato e di color
marrone, sono visibili solo una piccola parte delle
zampe anteriori mentre è molto chiaro il ciuffo di
fieno che viene fuori dalla bocca; dell’asino, invece, di colore grigio, si possono vedere gli zoccoli
e parte della testa con un occhio.
Purtroppo i lavori che tra il 1740 e il 1780,
per iniziativa dei vescovi del tempo, servirono
per consolidare la soprastante area del coro
comportarono l’abbassamento della volta della
cella e la conseguente distruzione della parte
superiore dell’affresco.
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MARIA GIOVANNA VESPASIANO
Con queste opere strutturali sono state troncate di netto anche la testa e parte delle ali di un
angelo annunciante, la cui figura si staglia dalla
sommità di una colonna spezzata, della quale
sono fin troppo delineate le scanalature verticali con gli spigoli smussati. La creatura celestiale,
che indossa una preziosa veste damascata, una
dalmatica nei colori rosso-oro, regge con la
mano sinistra un lungo rotolo che gli arriva fino
ai piedi e dal quale ha appena proclamato
l’annuncio ai pastori.
Questi, che puntano increduli lo sguardo sul
messaggero divino, indossano una veste corta al
ginocchio e la mantellina, calzano stivali morbidi e imbracciano un lungo bastone alla maniera
dei pellegrini in viaggio.
Alle loro spalle, sulla parete sinistra, la stessa
mano ha raffigurato una scena pastorale (fig. 9)
dove si vede un recinto per gli animali con alcune pecore che si rincorrono, mentre altri ovini
bianchi e neri pascolano nei pressi, sorvegliati da
un cane decisamente minaccioso. Tutt’intorno il
paesaggio mostra alberi e arbusti cespugliosi. Nel
trattamento degli animali raffigurati, questa
scena pastorale richiama ancora una volta
l’impianto pittorico che si ritrova nella già citata
Natività quattrocentesca di Novi Velia.
Si diceva di almeno due mani che, probabilmente intorno ai primi decenni del XV secolo,
erano al lavoro nella cripta della Cattedrale di
Nusco. La prima, quella che si impegna nella
descrizione del Bambino, può ben essere quella di un pittore locale, sicuramente colto ma
con scarsa predisposizione alla raffigurazione
dei dettagli anatomici. Basta vedere come
dipinge le braccia e le mani di Gesù, o quelle
delle levatrici: arti tozzi, dove non c’è soluzione di continuità tra braccio e avambraccio, tra
polso e mano. Doveva trattarsi di un pittore
erudito, però, perché mostra di conoscere la
Natività del Maestro della Cappella Barrile a
San Lorenzo in Napoli (fig. 10), al quale si ispira con sorprendente evidenza nel disegno della
cuffia che raccoglie i capelli di Zelomi e nei
colori della veste di Salomè, pressoché identica
nella gradazione di verde scelto per il tessuto
dell’abito.
Fig. 9 - Scena
pastorale.
Nusco, Cripta
della
Cattedrale.
Fig. 10 Natività.
Napoli,
chiesa di
S. Lorenzo,
Cappella
Barrile.
Molto più eloquente è il secondo frescante, al
cui pennello si deve attribuire l’annuncio dell’angelo ai pastori, la scena pastorale con lo stazzo e gli ovini, e ancora le figure dei Magi giunti
seguendo la stella. Qui, con un netto distacco
dei colori, il maestro ha rappresentato la scena
e i personaggi con modi quasi miniaturistici,
capaci di trasferire figure e personaggi dalla ben
nota ritualità del mondo rurale e pastorale ad
un’ambientazione immaginifica che si poggia su
un paesaggio agreste, dove la caratterizzazione
degli animali e della realtà circostante è enfatizzata da un’insolita e marcata sproporzione
rispetto ai pastori, che nulla toglie però ad
un’ammirevole sensibilità naturalistica.
Se non ci fu proprio un vero cantiere, è lecito pensare che nella cripta nuscana abbiano
operato in stretta collaborazione due pittori.
Non è facile dire, considerata l’innegabile
coerenza e la logica organicità, se operanti in
contemporanea ovvero in successione, con il
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SALTERNUM
secondo che riprende l’impostazione già data al
programma dal suo predecessore.
L’impostazione pittorica ricorda iconograficamente anche i cicli di affreschi dell’alto casertano, ed in particolare quello della Chiesa di
Sant’Antonio Abate a Sant’Angelo d’Alife, datato
intorno agli anni Trenta del ‘400 e inizialmente
attribuito a Perrinetto da Benevento; attribuzione che negli ultimi anni pare non trovare più
sufficiente fondamento.
Il nostro frescante sembra aver guardato,
almeno un decennio dopo, ai cantieri dell’area
matesina-alifana, e in particolare agli affreschi
della Chiesa di San Biagio a Piedimonte Matese,
a quelli di Sant’Antonio abate a Pantuliano di
Pastorano e alle citate pitture dell’omonima
chiesa santangiolese, assimilando e cercando di
far propria quella cultura.
Un contesto geografico e culturale, quello
alifano, in qualche modo legato alla storia delle
comunità dell’alta valle del Calore grazie ad una
lunga signoria feudale avuta in comune, che fa
ipotizzare frequenti contatti e scambi di servizi
artistici tra le due realtà territoriali. È provato,
infatti, che le terre irpine e quelle del medio
Volturno (fiume affluente del Calore) fossero,
dal 1194 al 1269, nel possesso feudale dei
Schweisspeunt prima e dei d’Aquino dopo, e
dal 1307 al 1345 dei Gianvilla, casate che contemporaneamente tenevano anche Nusco. E
ancora più stretto fu il rapporto quando
Ceccarella, figlia secondogenita di Amelio
Gianvilla, conte di Sant’Angelo dei Lombardi e
della terra di Nusco, tra la fine del 1300 e i primi
anni del 1400 andò in sposa a Goffredo di
Marzano, conte di Alife.
Che ci fosse un consolidato contatto tra
l’area alifana e l’alta valle del Calore è provato,
inoltre, anche dall’acquisto che gli Origlia,
signori di Alife dal 1407 al 1419, fecero del
feudo irpino di Volturara, ricomprato ancora
una volta alla fine del 1530 dal nuovo feudatario, il Conte Antonio Diaz Garlon.
La scena pastorale degli affreschi alifani, così
come la raffigurazione degli animali e la vegetazione, infatti, impongono inevitabilmente il
confronto con gli analoghi soggetti della cripta
nuscana, che divide con gli affreschi delle cita-
te chiese dell’area matesina anche la rappresentazione morfologica degli elementi lapidei, che
si presentano uniformemente aspri e frastagliati.
Va detto, in ogni caso, che mentre è indubbio che questi motivi erano ricorrenti nelle aree
interne, e per il momento solo con esse, visto il
paragone già proposto con l’affresco di Novi
Velia, il confronto con la pittura napoletana
resta assolutamente impossibile, dal momento
che nella Capitale quasi nulla ci è pervenuto
quanto a cicli tardogotici. Per di più è singolare
la notevole analogia della figura di San
Giuseppe nella scena cilentana con il sonnolente patriarca di quella a S. Angelo d’Alife.
Riprendendo il discorso sulle pitture della
cripta di Nusco, va notato che mentre vicino
alle ali dell’angelo annunciante si intravedono
appena le punte estreme di quella che doveva
essere la stella di Giacobbe, meglio conservata
è invece la scena dei Magi che arrivano al
cospetto del Messia. La regalità dei tre sapienti,
preannunciati dalla stella che due di loro sembrano indicare con l’indice destro puntato verso
l’alto, è contraddistinta dalle corone che portano con sicurezza e che danno ad ognuno un
prestigio che incute deferenza anche da parte
del paggio di colore che li accompagna e che
resta un passo indietro, compreso anche lui
dalla considerazione che sta vivendo un’ora
grande e decisiva. Il rispetto per i Magi, che esibiscono barbe lunghe e ben tenute che ci permettono di attribuire loro un’età giovane, adulta e anziana, è enfatizzato pure dal loro abbigliamento semplice e severo, caratterizzato da
un mantello sopra una lunga tunica da cui fuoriescono gli stivali alti, di morbida pelle, che
tendono ad afflosciarsi con pieghe di originale
sinuosità.
Scrive ancora M. Piacenza: «Dal secolo XIV
anche l’aspetto dei Magi comincia a differenziarsi. Identificati con i tre popoli discendenti
dai figli di Noè, diventano i rappresentanti
rispettivamente delle tre razze umane, dei tre
continenti allora conosciuti e delle tre età dell’uomo…».
I tre saggi, infine, hanno tra le mani una
sorta di pisside lungiforme e sfaccettata, che
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MARIA GIOVANNA VESPASIANO
contribuisce a dare valore ai doni che ognuno
di loro porta a Betlemme.
Del cielo nel ciclo pittorico di Nusco, di colore blu e trapuntato di stelle, è rimasto ben poco
a causa dei citati lavori per l’abbassamento della
volta. Ma l’osservazione attenta delle pitture
mostra con evidenza che l’affresco doveva proseguire anche al di fuori dell’attuale perimetro
della cella, dove un muro di sostegno del vano
ipogeo le ha purtroppo interrotte.
L’importanza delle pitture murali della cattedrale di Nusco non deriva esclusivamente dalla
loro particolare cifra artistica, ma anche e
soprattutto dal fatto di avere la capacità di riassumere, in uno spazio fisico limitatissimo, il
complesso ed articolato universo della Natività
nella cultura religiosa dell’epoca.
Del resto il tema della Natività aveva assunto,
fin dall’antichità, un ruolo primario nell’iconografia dell’arte sacra, essendo, insieme alla
Passione, l’evento centrale della Cristianità.
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Questo studio riprende e sintetizza uno degli argomenti della tesi
di laurea in Storia dell’Arte Medievale ‘Affreschi del XIV e XV secolo nell’Alta Valle del Calore’, Istituto Universitario ‘Suor Orsola
Benincasa’ - Napoli (a.a. 2007-2008, Relatore: prof. P. Leone De
Castris).
NOTE
1
PASSARO 1980, p. 171.
2
La presenza a Napoli della nobile svedese è confermata da
una testimonianza raccolta nelle udienze per la canonizza-
zione della futura santa, avvenuta nel 1391 ad opera di
Papa Bonifacio IX (cfr. SVANBERG 2003, p. 101, n. 60).
3
Dei tre dipinti uno, Santa Brigida di Svezia e la Visione della
Natività, è nella Pinacoteca Vaticana; un secondo, commissionato dalla Regina Giovanna per la chiesa di S. Antonio abate,
è conservato nella Johnson Collection del Philadelphia
Museum of Art; il terzo, infine, è alla Yale University tra le
opere dell’Art Collection.
BIBLIOGRAFIA
SITOGRAFIA
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Mostra, Padula), Napoli.
BERGAMO M. 2003, Da Maria puerpera a Maria adorante Evoluzione della postura della Madre di Dio nelle immagini della Natività, in Engramma, Rivista on-line del Centro
studi ‘Architettura, civiltà, tradizione del classico’
dell’Università IUAV di Venezia, n. 29, dic. 2003.
http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/esperidi/29
/029_nativita_home.html
PIACENZA M. 2005, La rappresentazione della Natività
nell’arte, in Agenzia Fides, 23/12/2005.
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commi
ssions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_20051223_nati
vita-arte_it.html
CARAFA R. 1998, La chiesa di S. Maria dei Lombardi, in “I
beni culturali”, VI, 3/98, pp. 40-42.
CASAZZA C. 1860, Sulla statua della beata Vergine detta del
Soccorso esistente nell’ipogeo della chiesa vescovile di Nusco
in provincia di P. U., Napoli.
PASSARO G. 1980, Cronotassi dei Vescovi della Diocesi di
Nusco, Napoli, vol. IV, parte II, Tavv. 51-100.
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Naples area and Birgitta, in AILI H. - SVANBERG J. 2003,
Imagines Sanctae Birgittae: the earliest illuminated manuscripts and panel paintings related to the revelations of St.
Birgitta of Sweden, The Royal Academy of Letters, History
and Antiquities, Stockholm.
LORELLA MAZZELLA
Origini e sviluppo dell’architettura rurale
nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso
Premessa
a Piana del Sele ha offerto sin dal
Paleolitico felici condizioni di insediamento a piccole comunità che, agevolate dal clima dolce e dal suolo fertile, ne sfruttavano i molteplici fiumi e torrenti.
Tra il 730 e il 580 a.C. Etruschi e Greci si stabilirono rispettivamente alla destra e alla sinistra
del fiume Sele, traendo potere e ricchezza dai
commerci, dallo sfruttamento cerealicolo della
terra e contrastando, in tal modo, l’espandersi
della palude, oltre che favorendo la diffusione di
fattorie e santuari agresti.
A partire dal III secolo a.C., con l’avvio della
politica di espansione da parte di Roma, si consolidò il processo di omologazione culturale,
cominciato con la comparsa nella Piana degli
Oschi, dei Sanniti, dei Lucani. Iniziò, quindi, un
periodo di prosperità con la costruzione di
ponti, strade, ville e con l’impianto di canali, atti
a prosciugare le aree acquitrinose.
Tuttavia, il trasferimento della capitale a
Bisanzio e le invasioni barbariche determinarono anche in queste aree l’estendersi della palude e la conseguente malaria; inoltre, già con
l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. il lapillo si era
depositato nei canali di drenaggio, contribuendo
alla loro definitiva scomparsa. Le popolazioni
della Piana, stremate dalle difficoltà ambientali,
si ritirarono sui monti, in luoghi più salubri e
sicuri.
La ricostruzione demografica delle campagne
iniziò durante il periodo di massimo splendore
della Repubblica di Amalfi e del Principato di
Salerno: parallelamente al sorgere di vari monasteri benedettini, centri di comunità religiose ed
agricole, cominciarono a disseminarsi piccole
L
Fig. 1 - Localizzazione della Masseria Fosso sulla mappa catastale.
Fig. 2 - ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta
863.
abitazioni rurali al fine di ospitare i contadini trasferitisi in zona a seguito della messa a coltura
delle terre appartenenti alla Badia di Cava e alla
Chiesa salernitana.
Origini e sviluppi
Il Medioevo, dunque, diede inizio alla fioritura economica della Piana, poiché i principi longobardi, oltre a fondare vari monasteri, promossero un diffuso tentativo di bonifica e di recupe-
- 99 -
SALTERNUM
Fig. 3 - Masseria Fosso.Veduta esterna.
ro di terreni incolti, provato dall’impianto di
vigneti anche in zone malsane, dalla costruzione di numerosi mulini ad acqua e dall’edificazione di cappelle rurali allo scopo di provvedere alla vita spirituale dei contadini.
Le costruzioni rurali vennero ubicate nei
punti meno pericolosi per le infezioni malariche, con possibilità di irrigazione sfruttando
attraverso sistemi rudimentali le acque di fiumi
e torrenti, e lungo le grandi strade di comunicazione che conducevano al Cilento o alle
Calabrie.
In un primo momento le peculiarità di tali
abitazioni - orientamento, materiali e tecniche
costruttive, distribuzione interna, utilizzo di
scale esterne, porticati, terrazze - furono fortemente condizionate dalle caratteristiche geologiche e climatiche del territorio, connesse
alle limitazioni economiche e alle esigenze
funzionali della società contadina; successivamente, la progressiva estensione del patrimonio terriero ecclesiastico e baronale rese tali
costruzioni espressione tangibile e irriproducibile dei cambiamenti sociali, economici e culturali in atto.
Aggiunte e ampliamenti vennero realizzati a
partire dal nucleo primitivo delle abitazioni,
proporzionali all’estensione della proprietà o
alla potenza della casata, fino alla trasformazione di esse, nel XVII secolo, in importanti aziende condotte da grandi feudatari o affittate o
affidate in dote per matrimoni o monacazioni.
A seconda delle possibilità di irrigazione e
delle comodità che la masseria offriva (attrezzi
per la pigiatura e la fermentazione del mosto,
pozzo di acqua sorgente, stalla, forno, aia), le
proprietà potevano comprendere terreni arbustati, vitati, seminatori e fruttiferi.
Dunque, l’acquisto di una masseria ben
attrezzata richiedeva somme piuttosto consistenti e, conseguentemente, accanto ai grandi Ordini
Religiosi, i grandi feudatari della Piana furono i
Grimaldi, i Filomarino, i Genovese, i Pignatelli
Noja, i Doria d’Angri.
Inoltre, allo sfruttamento agricolo della Piana
promosso dalle masserie si lega la nascita della
città di Battipaglia - il cui spunto venne offerto
dalla volontà di ospitare i terremotati di Melfi
(1857) - ed alla creazione di tabacchifici, conservifici, caseifici.
Dei molteplici organismi di architettura rurale disseminati nel territorio della Piana, si indaga il caso della masseria Fosso che, per vicende
storiche, peculiarità e caratteristiche costruttive,
rappresenta il monumento/documento esplicativo di quanto detto finora.
La Masseria Fosso
Vicende storiche
Fosso è un’importante costruzione rurale ubicata in località Tusciano, posta immediatamente
ad Ovest del fiume omonimo, in un territorio
che ora appartiene al comune di Battipaglia, ma
che fino ad un passato recente apparteneva a
quello di Montecorvino.
Essa, probabilmente, deriva il suo nome dall’utilizzo dei ‘fossi’, canali artigianali realizzati
per irrigare i campi incanalando le acque del
Tusciano; infatti, i canali erano limitati proprio a
solchi scavati nel terreno a seconda delle esigenze e della posizione dei fondi che venivano irrigati.
Non si conosce la data di fondazione della
masseria ma nell’anno 940 Guaimario II arricchì
il patrimonio arcivescovile con la donazione di
alcuni terreni ubicati a poca distanza dal
Tusciano e dal suo affluente, il Cornea1.
Successivamente, nel 977, il principe Gisulfo I
donò all’Arcivescovo tutte le terre di cui non era
ancora proprietaria poste tra il fiume Tusciano e
la riva del mare2; tale lascito fu confermato dai
suoi successori, mentre nel 982 la Mensa
Arcivescovile salernitana ottenne anche il diritto
del «decursus aquarum» sui fiumi Tusciano e
Sele da Ottone II3.
- 100 -
LORELLA MAZZELLA
In epoca normanna anche Roberto il
Guiscardo confermò i possedimenti della
Chiesa4, la quale conduceva i suoi beni con contratti di locazione «ad amphiteosim perpetuam»,
mediante i quali si richiedeva ai locatari il dissodamento delle terre incolte e il miglioramento di
quelle già coltivate; in cambio si concedeva il
godimento del fondo e la facoltà di trasmetterlo
agli eredi.
In un documento del 1321, Bartolomea, badessa del monastero di S. Lorenzo di Amalfi, cedette
in locazione a «(…) Nicolao f. qd Francisci de
Rodoerio da Girono terram seminatoriam sitam in
Tussano ubi a lu Fossu dicitur (…)» 5.
Nel 1331 Petrus de Vallone di Salerno fittò a
Bernardo de Morcono per parte del monastero
di S. Lorenzo di Amalfi una terra situata fuori
Salerno «(…) in loco Tussiani seu Fossi»6.
Il 19 novembre del 1367 la località Fosso è
nuovamente citata in una lite giudiziaria per il
possesso del Priorato di S. Maria de ‘dopmo’ e di
S. Massimo, tra l’Arcivescovo di Salerno
Guglielmo e l’abate di Cava Golferio; ma in questo caso la citazione è marginale, in quanto
serve solo ad indicare che il vastatario di S. Mattia
è ‘prope fossum’ 7.
Il potere arcivescovile sul territorio della
Piana durò fino al 1550 circa: nel 1494 Alfonso
d’Aragona stabilì che Montecorvino entrasse a
far parte del Regio Demanio; la disposizione fu
successivamente confermata da Ferdinando il
Cattolico nel 1509 e, definitivamente, da Carlo V
nel 1536. Successivamente i sovrani spagnoli
posero in vendita alcuni territori del Demanio e
il Feudo di Montecorvino fu venduto nel 1572 a
Nicolò Grimaldi, marchese di Eboli e duca del
Vallo di Diano.
Nel 1590 Montecorvino ottenne la reintegrazione nel Regio Demanio ma ancora posta in
vendita nel 1638 e acquistata dal principe di
Noja, don Giulio Pignatelli «mediante publico
Istrumento rogato al 26 agosto dell’anno sudetto
1638 stipulato per il q: Notar Massimo Passaro di
Napoli, regente di Notaro della Regia Corte»8;
questi, a sua volta, donò lo Stato nel 1644 al
figlio secondogenito Aniello che acquistò, nel
1649, anche i Feudi Rustici di Fosso e Verdesca
e i Suffeudi o Difese di Ortogrande e Tufarella.
Inoltre, egli ottenne dal re Cattolico il privilegio
di essere nominato principe dello Stato di
Montecorvino e di poter trasmettere il titolo ai
suoi eredi.
Defunto Aniello, Stato e Feudi Rustici furono
ereditati dal primogenito Giulio, duca di S. Mauro,
e alla morte di quest’ultimo dal fratello
Giacomo. In occasione di tale passaggio venne
commissionato al Tavolario Antonio Galluccio
l’apprezzo dei due Feudi Rustici9.
Anche i Pignatelli, come tutti i feudatari della
Piana, erano soliti affittare le proprietà terriere e,
attraverso un contratto stipulato nel 1700 dal
notaio Albinente, si conoscono i particolari delle
condizioni di affitto di Fosso: il locatario, Paolo
Salvatore di Olevano, oltre a pagare il canone
nel tempo stabilito, doveva curare la vigna
murata, seminare e provvedere agli animali.
Della casa palaziata egli poteva usufruire solo
delle stanze terranee e della camera nella torre
per riporre le vettovaglie. Le altre camere soprane dovevano restare a disposizione del principe
e del suo amministratore; inoltre, era assolutamente vietato all’affittuario abbattere con scoppiettate i piccioni, che erano del padrone10.
Nel 1719 Giacomo vendette lo Stato di
Montecorvino e i due Feudi Rustici di Fosso e
Verdesca a Nicola Ippolito Revertera, duca della
Salandra; in tale occasione venne eseguito un
nuovo apprezzo dal Tavolario Pietro Vinaccia.
La somma che il duca doveva versare per
l’acquisto doveva essere versata per una parte al
monastero di S. Liguori a Napoli per il vitalizio
di due sorelle del principe, per un’altra parte ai
creditori di Giacomo, mentre il resto della
somma avrebbe dovuto essere pagato dopo
nove anni con un interesse del 3,5%. Tuttavia, il
duca della Salandra non estinse i suoi debiti in
tempi convenienti, sicchè Giacomo vendette il
credito che gli spettava dalla vendita al principe
di Marsico Nuovo, don Giovanni Battista
Pignatelli. Nel 1737 venne ordinato al duca della
Salandra di soddisfare i suoi debiti, ma questi si
rifiutò di pagare l’intero prezzo poiché nel frattempo erano stati resi demaniali i due Feudi
Rustici di Fosso e Verdesca.
Pertanto, dopo una lunga transazione, il duca
vendette a Girolamo Pignatelli, figlio di
- 101 -
SALTERNUM
Giovanni Battista, lo stato di Montecorvino «(…)
colle sue Giurisdizioni, e Corpi annessivi e
cogl’anzidetti due Feudi rustici, per il prezzo di
ducati quarantottomila centocinquanta»11. A sua
volta, nel 1744, il principe vendette lo Stato di
Montecorvino a Matteo Genovese al prezzo di
sessantamila ducati insieme al Feudo del Fosso
«(…) la maggior parte seminatorio di capacità
tomola cento, e dieci in circa, comprendente
una vigna murata (…)»12, e alla Difesa della
Verdesca «(…) di estensione tomola trecento in
circa (…)»13. Così nel catasto conciario del 1753
venne censita la proprietà di Matteo Genovese:
«L’Ill.mo Sig. Barone Genovese possiede nel
luogo detto il Fosso una masseria di fabrica e
terra seminatoria, e d’uso d’uva, e vigna in
ununo di capacità tomoli centottanta, confina
col fiume Toscano e colli beni di Giuseppe
Capograsso. Simile di rendita dedotta la spesa
di coltura della vigna annui ducati trecento
quaranta e resta da appezzarsi la rendita del
casamento della masseria nella discussione»14.
Infine, una relazione fatta eseguire dalla
Mensa Arcivescovile, in occasione di visite pastorali, sostiene che «nella massaria dell’Ill.mo Sig.
Barone dove si dice il Fosso vi è una cappella
sotto il titolo di Santo Mauro»15.
Nel 1795 i Corpi feudali di Fosso e Verdesca
furono venduti a Marcantonio Doria, principe di
Angri16; ma già nel 1641 i Doria avevano acquistato Eboli, Capaccio e quattro Feudi Rustici
(Lagopiccolo, Isca di Comora, Isca di S. Nicola,
Isca S. Felice), di cui Eboli era l’Università con
l’agro più grande della Campania poiché comprendeva oltre ventimila ettari di superficie.
I contratti d’affitto dei Doria andavano da un
minimo di tre anni ad un massimo di dodici; sappiamo che nel 1799 Fosso era affidata alla conduzione di un certo Schiavone17 e che, in tale periodo, i guardiani di Fosso e Verdesca ricevevano i
salari più alti degli altri dipendenti dei Doria
d’Angri18.
Nel 1827 la masseria in questione era affittata
a don Lorenzo Carrara, a cui il terreno serviva
perché confinante con i suoi beni, ma spesso
veniva inondato dalle acque del fiume Tusciano19.
Inoltre, i beni di Marcantonio siti in località
Fosso sono segnalati nel Catasto provvisorio20 di
Montecorvino e descritti in un apprezzo del
184321.
Nei periodi di più intensa attività erano soprattutto i forestieri ad affluire in grandi quantità nelle
varie masserie, ospitati nei piani terreni, nelle stalle, nei fienili; infatti, il Galanti scrive:
«Vengono gli uomini dalla Basilicata, dalle
Calabrie e fino dal lontano Abruzzo a fare i
lavori necessari per una miserabile mercede»22, mentre il Liber defunctorum documenta
che «il giorno 1 gennaio 1805 in località lo
Fosso passava a miglior vita Luigi Palermo di
Moliterno, che fu sotterrato nella Chiesa della
SS. Annnunziata»23.
Dopo la morte di Marcantonio il vasto patrimonio terriero fu sottoposto ad una frammentazione ereditaria lunga e difficile, che si concluse solo nel 1878 e che comportò la vendita
di molti beni all’asta, acquistati dagli antichi
affittuari, soprattutto dai Bellelli, dai Pastore,
dai Conforti.
È molto probabile che proprio in occasione
di tali vendite Fosso sia passato ai baroni
Sorvillo, una ricca famiglia di Vietri sul mare, la
cui ultima discendente vendette la proprietà, nel
1968, agli antichi affittuari, i Rinaldi. Questi ultimi, a loro volta, furono costretti a vendere all’asta la masseria che attualmente è posseduta dai
baroni Sorvillo.
Peculiarità e caratteristiche costruttive
L’analisi relativa alle peculiarità e alla storia
delle trasformazioni di Fosso è stata condotta
integrando tutte le informazioni ottenute su di
essa, sia attraverso le fonti archivistiche e bibliografiche, sia attraverso l’operazione di attento
rilievo del manufatto stesso, operazione fondamentale per la conoscenza e la comprensione di
qualsiasi organismo architettonico.
Essa si presenta come un’imponente costruzione a due livelli, priva di qualsiasi decorazione e racchiusa da massicce mura perimetrali,
con una forte estensione longitudinale e sormontata da torre colombaia.
- 102 -
LORELLA MAZZELLA
Fig. 4 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).
Fig. 5 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).
Fig. 6 - Pianta I livello (rilievo dell’Autore, 2004).
Fig. 7 - Pianta II livello (rilievo dell’Autore, 2004).
La sua nascita può risalire al periodo in cui il
terreno era posseduto dal monastero di S. Lorenzo
di Amalfi, che lo affittava a forestieri affinché
venisse coltivato: sarà stata dunque necessaria la
costruzione di un primitivo rudimentale impianto che ha condizionato e posto le basi per il più
grande e posteriore edificio di abitazione.
Quest’ultimo è probabilmente riconducibile alla
metà del Cinquecento, quando la Mensa
Arcivescovile di Salerno concedeva terreni «ad
perpetuam laborandum» per il fittavolo e i suoi
successori con la clausola che questi si impegnasse ad «edificare due membra di casa»24 per
sé e la famiglia entro sei anni, o ad ampliare
l’abitazione esistente.
Ad ogni modo, in tale periodo l’abitazione
vera e propria non faceva parte dell’attuale masseria, ma era situata a pochi metri da questa, ove
- 103 -
SALTERNUM
Fig. 8 - Masseria Fosso, interno della primitiva abitazione.
Fig. 9 - Masseria Fosso. Resti della primitiva abitazione.
attualmente sorge la casa dei Rinaldi; di essa
sono ancora visibili pochi resti. Indicata già
come fatiscente dal Tavolario Vinaccia nel 1717,
era formata da quattro bassi, coperti con travi in
legno, sui quali vi erano quattro camere da letto
coperte a tetto.
Resti della primitiva abitazione
L’attuale masseria era adibita a funzioni agricole: il primo livello era costituito da cinque
ambienti non comunicanti - destinati a stalla,
deposito per attrezzi e macchine, magazzini per
materiali e forno - coperti con volte a botte o a
specchio e caratterizzati da doppio accesso; il
secondo livello consisteva solo nella torre
colombaia e in una camera adibita a cucina,
posta ad Ovest della torre stessa, collegate da
una grande terrazza. Ad Ovest della cucina vi
era un portico, da cui si accedeva al forno, che
sosteneva una dispensa, coperta a tetto, a servizio della cucina stessa.
Il collegamento tra i due livelli, poi, avveniva
attraverso una scala scoperta, retta da eleganti
rampanti in pietra, situata nell’angolo nord-est
della fabbrica. Conduceva ad un piccolo corridoio, anch’esso scoperto, attraverso cui si accedeva alla menzionata cucina «uno stanzone
grande coverto a tetto a due penne con comodità di focolaro»25. Inoltre, due piccoli vani
seminterrati, coperti da volte a botte a sesto
ribassato, venivano utilizzati come cantine per la
conservazione di quei prodotti che, come il vino
o il latte, avevano bisogno di locali più freschi.
Sempre all’interno del perimetro murario,
ma nell’angolo nord-ovest, era la cappella rurale dedicata a S. Mauro, oggi destinata a deposito attrezzi e perciò alterata da numerose modifiche. L’antica copertura a tetto è stata sostituita, nel XX secolo, da una latero-cementizia;
così come l’arco di ingresso, originariamente a
sesto ribassato, è stato tamponato con una
porta in ferro, mentre l’interno è stato completamente reintonacato. Entrambi gli edifici furono costruiti con muratura del tipo a sacco, con
paramenti in pietra calcarea e, soprattutto, ciottoli di grandi dimensioni coadiuvati dall’impiego di malta; il nucleo era costituito da spezzoni di pietrame e malta.
L’utilizzo di tali materiali è riconducibile alla
natura calcarea del terreno su cui i due edifici
sono stati edificati, associato alla loro grande
economia di impiego, poiché, quasi sempre, il
contadino stesso cavava, lavorava e metteva in
opera la pietra. A loro volta, i ciottoli, facili da
reperire nei greti di fiumi e torrenti, consentivano di ridurre il costo di estrazione, oltre ad eliminare la fatica della lavorazione, poiché venivano messi in opera così come cavati o, al massimo, dopo una semplice spaccatura. Dunque,
la pietra diveniva muro, arco, pilastro, pavimentazione, arco, arcotrave e volta. Le volte si
impiegavano a coprire particolari ambienti quali
stalla, fienile, magazzini, allo scopo di eliminare
i pericoli di incendio, possibili, invece, con solai
in legno e perciò destinati alle zone abitative.
Ulteriore elemento caratterizzato da precisa
funzionalità è la colombaia: essa permetteva di
sorvegliare il lavoro condotto sulla vasta distesa
dei campi e anche l’allevamento dei volatili.
- 104 -
LORELLA MAZZELLA
Presentava una copertura in legno a quattro
falde e un solaio con travi a sezione circolare,
oggi crollati.
Attraverso il contratto stipulato nel 1700 dal
notaio Albinente, in cui sono stabilite le condizioni di Giacomo Pignatelli e l’apprezzo del
Tavolario Vinaccia nel 1717, in occasione della
vendita di Fosso al duca della Salandra, si possono conoscere i ‘miglioramenti’26 apportati dal
Principe alla masseria. Egli fece piantare una
nuova vigna e, siccome la primitiva abitazione
era fatiscente, venne costruito un secondo livello sull’edificio utilizzato a scopo agricolo, con
camere poste in sequenza e dotate di camini.
Queste erano caratterizzate da grandi finestroni
schermati da robuste ante in legno e aperti sia a
Sud-Ovest, per ricevere un soleggiamento ottimale, sia a Nord-Est. Di queste camere, quelle
ad Ovest della torre colombaia avevano funzioni di rappresentanza e presentavano una pavimentazione in cotto e copertura di capriate in
legno di quercia; quelle ad Est della torre erano
destinate a camere da letto e avevano pavimentazione in battuto oltre che copertura con tetto a
due falde. Questa sopraelevazione comportò un
sovraccarico alla muratura del primo livello e,
siccome la muratura in ciottolate ha scarsa
coerenza dovuta alla forma rotondeggiante dei
pezzi - sebbene per colmare eventuali vuoti si
inserivano ricorsi in argilla - il Principe fece erigere degli speroni di sostegno atti a consolidare
la muratura stessa; essi vennero posti in vari
punti del prospetto esterno e negli angoli del
fabbricato. Inoltre, Giacomo fece erigere, nell’angolo sud-ovest del fabbricato, «tre bassi per
comodità di rimesse e coverti a lamia»27 che,
privi di mura perimetrali, erano completamente
aperti verso la vigna, oggi terreno incolto, e
verso il cortile.
Successivamente il Feudo venne acquistato
dai baroni Genovese e anche questi apportarono delle modifiche a seconda delle loro esigenze funzionali. Innanzi tutto venne rinforzato
anche il prospetto nord-est da un ulteriore portico che, attraverso la profondità delle arcate a
guisa di speroni, aveva la funzione di sostenere
il loggiato occupato dal corridoio in modo da
facilitare l’accesso alle varie camere di rappre-
Fig. 10 - Masseria Fosso, resti di una volta della primitiva abitazione.
sentanza, disposte in maniera sequenziale;
venne consolidata la volta della stalla attraverso
un arco che ne seguiva il profilo, giacchè un
muro trasversale del livello superiore era stato
poggiato in falso al suo centro. Venne poi tamponato con muratura a sacco l’ingresso alla stalla stessa, che affacciava sulla vigna. Nello stesso
tempo, la scala esterna venne coperta con una
piccola tettoia in legno e vennero tamponate
anche le rimesse fatte costruire da Giacomo. Ad
esse si poteva accedere, ora, solo dal cortile
interno e non dalla vigna e furono destinate a
nuove funzioni: la prima fu adibita a fienile, la
seconda a stalla e la terza a forno.
Il fienile era coperto con una volta a botte a
sesto ribassato in conci di arenaria e arieggiato
da una feritoia, la stalla era coperta da due volte
a botte in conci di arenaria che si innestavano su
un arco centrale, oggi in parte crollate a causa
del pesante rinfianco in ciottoli.
Il vano adibito a forno era coperto da un
tetto a falda costituito da travi in legno, anch’esso crollato e, di fronte a questo, venne costruito
il pozzo con abbeveratoio.
Tutti e tre gli ambienti presentavano
l’estradosso piano a formare una grande terrazza, a cui si accedeva tramite la costruzione di
una nuova scala esterna che, priva di copertura,
aveva la funzione principale di condurre direttamente alle camere da letto senza dover attraversare le camere di rappresentanza. Nel 1858 le
disposizioni del re riguardo la fondazione di una
Colonia Agricola spinsero i contadini della
Basilicata e del Vallo di Diano a muoversi verso
- 105 -
SALTERNUM
la contrada di Battipaglia, con la speranza di una
casa e di un pezzo di terreno da coltivare. Nel
frattempo essi si accamparono in casoni per
braccianti agricoli e nella masseria Fosso vennero ospitati in piccoli vani-dormitorio di muratura, dotati di camino, che vennero addossati alla
facciata esterna dell’edificio.
In tale periodo, Fosso apparteneva ai Doria
d’Angri. Questi, per non investire capitali, privilegiavano l’allevamento brado e le aree seminative si riducevano a pochi terreni, a differenza
degli affittuari che, come in Fosso, sfruttavano
nel modo migliore la fertilità dei campi.
Inoltre, i grandi feudatari spesso negavano le
riparazioni richieste, ritenendole ingiustificate. Il
più evidente intervento effettuato nell’Ottocento
è infatti l’inserimento nelle murature del secondo livello di catene in ferro disposte longitudinalmente e trasversalmente ad esse, necessarie
per contenere la sconnessione dei giunti dovuti
ad una non buona ammorsatura.
Agli inizi del Novecento i vani costruiti per
ospitare i nuovi braccianti vennero ricostruiti
con muratura in mattoni e copertura laterocementizia, mentre le camere di rappresentanza
vennero suddivise da tramezzi.
Ma di lì a poco, nel periodo cosiddetto
‘moderno’, e soprattutto nel dopoguerra, con
l’introduzione della prefabbricazione e con il
mutare delle tecniche di coltura e di allevamento, si assiste all’abbandono delle masserie. Ciò
accade anche per Fosso, considerata un rudere
privo di importanza, la cui sorte appare tuttavia
‘fortunata’ rispetto alle forti modifiche strutturali
e funzionali subite da altri organismi agricoli,
che hanno totalmente perso la loro identità culturale e architettonica.
NOTE
1
La notizia si legge in una pergamena pubblicata in appendice da SCHIPA 1968, p. 254.
2
CARLONE 2000, p. 6.
3
PAESANO 1846, p. 68.
4
ADS, Arca I, n° 21.
5
MAZZOLENI - OREFICE 1987, pp. 819-822.
6
IIDEM 1987, pp. 954-958.
7
AAC, arca LXXV, n°52.
8
ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, Platea di tutti i
beni della famiglia Genovese formata dall’illustre Marchese
D. Mariano Genovese e terminata nel mese di Xembre dell’anno 1788, busta 54. La Platea, eseguita dopo che la famiglia Genovese acquista Montecorvino e i due Feudi Rustici,
è suddivisa in vari paragrafi in cui vengono descritte notizie sulle condizioni della vendita, sui ‘Pesi’ annessi ai beni,
sulle proprietà che la Mensa ha nello stato di
Montecorvino, ecc. Di grande importanza per la ricostruzione delle vicende storiche della masseria Fosso sono le
notizie preambole a tale ‘Compra’ eseguita da Matteo
Genovese.
9
ASNa, Apprezzi, Antonio Galluccio, Montecorvino Rovella,
1641, scheda 460. «(…) come mi viene commesso
l’apprezzo della Difesa della Verdesca e del Fosso (…) mi
sono conferito nelle pertinenze della terra di Montecorvino
(…) ed avendo camminato circuì circa ho ritrovato che
quella è tutta piana, e buona parte di essa è padulognola
dove che s’ingorga l’acqua, e detto padulognolo è tutto
boscoso con alberi di salocomi, olma ed altre frutte, e
pieno di per azze, sicchè detto territorio conforma oggi si
ritrova non è buono peraltro che per il pascolo di bufale,
ma quando si sterpassero le dette per azze varia buono il
territorio anco per seminarsi (…)»
10
ASS, Protocolli Notarili, Montecorvino 1700, Notaio
Albinente, fascicolo n° 331.
11
ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella
1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32. «(…) ed in primis
il territorio detto il Fosso sito, e posto in detto Stato di
Montecorvino, distante dal detto Casale di Rovella circa
miglia sei camminando verso Ostro, confina il medesimo
con il fiume di Battipaglia, via vicinale che confina con li
Pinti, colli Beni della Reverenda Mensa Arcivescovile di
salerno, colla strabella, che viene dalla via Regia, e va alla
scafa d’Eboli, ed altri confini consiste il medesimo in un territorio, la maggior parte del quale seminatorio di capacità
tomola 110 in circa, e parte in una vigna murata, che si
descriverà, e per ultimo in un comprensorio di casa, quale
consiste, ecc. In primis un portone, avanti del quale vi è aria
da batter le vittovaglie, e dal medesimo si entra nel cortile
murato scoverto, a sinistra del quale vi è una picciola
Cappella coverta a tetto sotto il titolo di S. Mauro, a detta
siegue un vano distretto di mura, quale serve per carcere
degli animali, e quattro bassi coverti a travi, sopra dei quali
vi giacciono quattro camere coverte a tetto antiche, oggi
mezzo dirute, in testa poi del detto cortile per porta s’ave
l’uscita all’enunciata vigna, qual è tutta murata, e di capacità tomola cinque in circa, dove si fa mediocre vino, e detta
è stata piantata a spese dell’odierno principe, e seguitando
in giro il sudetto cortile vi sono tre bassi fatti nuovamente
dal suddetto principe per comodità di rimesse, uno però dè
quali scoverto, e senza astrico; a destra poi girando vi sono
cinque porte, per le quali si entra in magazzeni, e cantina
per riponer vino coverto a lamia, dopo detti siegue porta
della grada, che si descriverà; sta inoltre un supportico
coverto a lamia però antico, in testa del quale per porta
s’entra in un basso coverto a lamia per uso di forno.
- 106 -
LORELLA MAZZELLA
Ritornando alla grada, con l’appianarne tre d’essa si trova
porta, per la quale s’entra in una stanza per uso magazzeno, e con una tesa scoverta di gradi num. 17 si trova un
corridoio, seu picciola loggia scoperta, a destra della quale
per porta s’entra in uno stanzone grande coverto a tetto a
due penne, e tiene due finestre affacciatore a mezzodì, e
comodità di focolaro, detta però è antica; accosto il detto
focolaro vi è porta per la quale s’entra in una piccola stanza coverta a tetto. Segue a destra altra stanza fatta nuovamente dal detto illustre Principe coverta a travi numero 8,
e vi è comodità di focolare e due finestre; a detto focolaro
segue piccola stanza per uso di dispensa anche nuova
coverta a travi, in cantone della detta stanza segue un’altra
camera coverta a travi numero 6, anche nuovamente fatta
da detto Principe con comodità di focolaro, e due finestre,
e sopra dette camere vi è il tetto; a sinistra poi del detto
stanzone sieguono della stanze una dopo l’altra, delle quali
una è antica, e l’altre quattro nuovamente fatte, secondo fu
deposto sopra la faccia del luogo, tutte però dette stanze si
ritrovano coverte, a travi con tetto sopra, con comodità di
focolaro, e finestre, con torretta, seu palombara sopra una
d’esse, e nell’ultima di dette si trovano due porte, per una
delle quali si entra in un piccolo camerino per dispensa, e
per l’altra s’esce sopra una loggia giacente sopra le dette
rimesse, ed in questo consiste il suddetto comprensorio, e
feudo detto il Fosso, su del quale volendosi da me assignare il giusto prezzo per intiero, tanto al territorio, quanto
casa, e vigna, siccome al presente sta senza niuna servitù,
e che tutto il frutto annuale vada a beneficio del padrone;
che perciò riflettendo alla capacità del Territorio, sito ove
risiede, qualità del medesimo, rendita ottenuta, e che se ne
può ottenere, riflettendo ancora alla descrizione, ed
apprezzo fatto dal Tavolario Gio. Battista de Marino nell’anno 1640, che si legge nel secondo volume fol. 611, ove
similmente vi enuncia esser parte feudale, e parte burgensatico, che perciò fatte tutte le dovute diligenze sopra tale
affare, considerando la diversità dei tempi dà allora ai presenti, valuto il suddetti Feudo del Fosso con casa, e vigna,
come descritto di sopra, franco da ogni peso per ducati seimila…6000. Le migliorazioni fatte dall’odierno principe sì
in materia di fabbrica, vigna e altro secondo la comune
deposizione de testimonj esserne quelle state fatte da lui,
ed a minuto a me dimostrate dagl’Esperti assegnatimi, iportano ducati millecento…1100. È ben vero però Riverito
Signore, che da quel tanto appare nell’unisona deposizione di tutti i testimonj sopra l’articolato feudo del Fosso
asserentino, che l’Università vi abbia sopra del medesimo
l’azione, e servitù del pascolo, come sono tutti gli altri
rimanenti territorij dè particolari e che intanto tutto il frutto del detto territorio và in beneficio del suddetto Principe,
non per altro, se non per mera cortesia, e grato affetto di
detta Università verso il Principe; del che riverito Signore
non v’ha dubio, che se la detta Università avesse tale auto-
rità, e jus, volesse di quello avvalersene, minorerebbe tal
distinzione, stimandosi dal V. S. necessaria, lo potrà con
suo decreto ordinare, cha da me ne formerà relazione a
parte (…)».
12
ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.
13
ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.
14
ASNa, Catasto Conciario, 1753, b.3802, p.287.
15
ADS, Visite Pastorali, Cappellanie Rurali che stanno nel
ristretto della Carta di Montecorvino situata nella Piana, R.
78, 1730-1769.
16
I corpi Feudali di fosso e Verdesca furono venduti a
Marcantonio Doria «con Istrumento di 27 Aprile 1795 per
Notar Lucantonio Ferraro di Napoli dai Demanisti D.
Pompeo Maiorino, Don Sabbato Pizzuto, tanto nei propri
nomi, quanto come Cessionarii di D. Giuseppe M. Sparano,
D. Luca Cavaliere, D. Diego Carrara, D. Francesco di
Simone, D. Scipione della Corte, D. Lorenzo Denza nomine proprio, D. Ambrogio Meo nomine proprio, D. Pietro
Corrado nomine proprio e D. Tommaso Corrado tanto
nomine proprio, quanto come Cessionario di D. Ludovico
Sparano». I Demanisti cedettero i loro feudi in quanto
Marcantonio Doria aveva prestato loro una somma di danaro affinché si liberassero dal dominio dei Genovese.
17
MOSCATI 1964.
18
ASNa, Relevi Feudali, Eboli e Montecorvino, voll. 269-272
e 1799.
19
ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta
863.
20
ASS, Catasto Provvisorio, Montecorvino Rovella, 1827,
Stato di Sezioni, vol. 18, pp. 103-104
21
ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, Apprezzo
dei beni di Marcantonio Doria, 1843, n° 967 A/3. Fondi siti
nel tenimento del comune di Montecorvino Rovella.
«1° Vastissima tenuta denominata Picciola (…).
2° Feudo denominato Fosso, di natura scampia seminatorio ed arbosto, confinante con i beni di Domenico
Granozio, dei Signori Bellelli e dei Signori Mauro di
Salerno».
3° Altra vasta tenuta appellata Verdesca (…).
Questi detti stabili sono riportati nel catasto provvisorio del
comune di Montecorvino Rovella sotto l’articolo 1799 in
testa di Doria Francesco fu Marcantonio Principe di Angri
(…) con la rendita complessiva di ducati 9861,11». In questi stabili vanno compresi i vari casamenti colonici, fattorie
dei rispettivi Feudi.
22
GALANTI 1790, p. 187.
23
Archivio della Parrocchia dello Spirito Santo di S. Martino,
Liber defunctorum, 1794-1845, f. 25.
24
ADS, Mensa Arcivescovile, Reg. II, pp. 308-364.
25
ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella
1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32.
26
Ibidem.
27
Ibidem.
- 107 -
SALTERNUM
ABBREVIAZIONI
“BSSPC”: “Bollettino Storico di Salerno e Principato Citra”.
ASNa: Archivio di Stato di Napoli.
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Amalfitano, sec. X-XV, Napoli.
ASS: Archivio di Stato di Salerno.
ADS: Archivio Diocesano di Salerno.
AAC: Archivio Abbazia di Cava de’ Tirreni.
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rovella (1806-1827), in “BSSPC”, a. IV.
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Principato Citra fra Seicento e Ottocento, Salerno.
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dinamiche insediative tra il Tusciano e il Sele dagli Etruschi
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Principato di Salerno, a cura di N. ACOCELLA, Roma.
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Marcantonio Doria in Eboli nel primo quarantennio del
XIX secolo, in Studi sulla Società meridionale, Napoli.
GALANTI G. M. 1790, Della descrittione geografica e politica
delle due Sicilie, Napoli.
- 108 -
ELISA BASILE
Il restauro della scultura lapidea di S. Pietro Martire
nella chiesa di S. Domenico a Matera
L
’opera è ubicata nella chiesa San
Domenico a Matera in una nicchia sul
IV altare della navata sinistra.
La scultura, raffigura San Pietro martire, il
frate domenicano Pietro Rosini, nato a Verona
nel 1206, inquisitore, ucciso in un agguato in
Brianza da alcuni eretici lombardi.
La scultura, di notevoli dimensioni (h 1,75 x
0,74 x 0,35 m), è in pietra calcarea policroma,
scolpita a tutto tondo, e non è dipinta sul retro.
San Pietro Martire è rappresentato in abito
domenicano; ha il capo lievemente inclinato
verso il basso è coperto da una calotta di capelli lisci, il volto segnato da rughe è incorniciato
dalla corta barba. Il Santo, in piedi, avvolto nel
mantello, regge con la mano sinistra un lembo
del manto e il Vangelo. Uno stiletto è conficcato
nel petto e un rozzo coltello gli trapassa il capo.
La scultura è attribuita a Stefano da Putignano,
attivo negli anni 1470-1540. Protagonista della
scultura pugliese del Rinascimento, autore di un
numero considerevole di sculture in pietra locale vivacemente dipinte.
Il confronto stilistico con la scultura raffigurante la Madonna della salute, nella stessa chiesa, è evidente soprattutto nell’accentuazione
grafica del panneggio reso con cordonature
parallele, confermata dall’autografia dell’autore,
Stefano da Putignano, e la data di esecuzione
dell’opera: «1518» sulla base (figg. 3-5; 19-21).
Stato di conservazione
La visione complessiva sullo stato di conservazione della scultura e l’attenta osservazione
ravvicinata hanno evidenziato, prima del restauro, alcuni segni di alterazione presenti sulla
superficie lapidea e pittorica: - depositi incoe-
Fig. 1 - La statua prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la
superficie scultorea.
Fig. 2 - Prima del Restauro, dettaglio del volto. Evidenti ridipinture su
tutta la superficie scultorea.
- 109 -
SALTERNUM
Sull’incarnato del volto sono particolarmente
evidenti microfratture, sollevamenti e cadute della
pellicola pittorica. Metà palmo e le dita della
mano destra del Santo sono in legno, testimonianza di un rifacimento del secolo scorso. La base,
blocco unico con la scultura, è chiaramente
posticcia, non in linea stilisticamente con la scultura, è ridipinta e ricoperta da un corposo strato
di gesso (figg. 1-2; 10; 15-16).
Figg. 3 - 4 - Statua della Madonna della Salute, prima del restauro.
Fig. 5 - Statua della Madonna della Salute, dopo il restauro. Particolare
della base con la firma autografa dell’autore e la data di esecuzione
dell’opera: «Stephanus Apulie Poteniani me celavit 1518».
renti; - vistose ridipinture; - alcuni parziali rifacimenti scultorei; - strati pittorici sollevati dal supporto e a tratti delle cadute di colore.
La scultura, rimaneggiata più volte, presenta
vari strati di colore e due strati di gesso di notevole consistenza, evidente soprattutto sulla veste
del Santo.
Il mantello è ricoperto da una evidente ridipintura di colore nero con vernice lucida alterata e non uniforme, mentre uno strato di gesso e
una ridipintura più corposa di colore grigio chiaro opaco ricopre il cappuccio.
Fig. 6 - Prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la superficie
scultorea.
Fasi di Restauro
I tre strati di ridipinture che ricoprivano gli
incarnati e la veste del Santo e i cinque strati
sulle mani sono stati rimossi a secco, con
mezzo meccanico (bisturi), uno dopo l’altro,
recuperando la policromia originale sottile,
delicata, opaca, fredda nei toni, ma a contrasto
con i toni caldi dei particolari; sul mantello del
Santo, l’unica ridipintura applicata direttamente sul colore originale è stata asportata con una
miscela di solventi adeguati. Con la rimozione
degli strati sono stati recuperati il realismo dell’intaglio soprattutto sul volto, la data di esecuzione dell’opera - «1517» - sul bordo inferiore
della veste e l’oro zecchino quasi integro sul
Vangelo del Santo. La base posticcia è stata
demolita con molta cautela, a secco; è stato
asportato il gesso superficiale, e successivamente, sono stati rimossi i pezzi di gesso più
compatto che inglobavano la base originale
leggera e arrotondata, liberandola totalmente.
Con il recupero della base originale è stata
riportata alla luce la firma autografa dell’autore scolpita sul bordo: «STEPHANUS APULIAE
POTENIANI ME CELAVIT».
Fig. 7 - Durante il restauro. Pulitura e rimozione degli strati con il bisturi.
- 110 -
ELISA BASILE
La ripresentazione estetica è stata eseguita
con pigmenti puri; le mancanze di colore si
sono accordate ai toni della policromia originale con piccoli ritocchi e leggere velature.
Documentazione Fotografica:
Beatrice Carriero
Soprintendenza per i Beni Artistici Storici ed
Etnoantropologici della Basilicata - Matera
Fig. 8 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il
bisturi.
Fig. 9 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il
bisturi.
Fig. 10 - Statua di San Pietro martire, in corso di restauro.
Fig. 11 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto. Pulitura
parziale.
- 111 -
SALTERNUM
Fig. 13 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare del
volto
Fig. 12 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro.
Fig. 14 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare della
mano sinistra.
Fig. 15 - Statua di San Pietro martire, rifacimento parziale (in legno) della
mano destra.
Fig. 16 - Statua di San Pietro martire, particolare della mano destra dopo
il restauro.
- 112 -
ELISA BASILE
Fig. 18 - Statua di San Pietro martire, particolare degli occhi dopo il
restauro.
Fig. 17 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto dopo il
restauro.
Fig. 19 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa
dell’autore (fase di rimozione dello strato di gesso posticcio).
Fig. 20 - Statua di San Pietro martire, la data di esecuzione dopo il
restauro.
Fig. 21 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa
dell’autore.
- 113 -
FRANCESCA ANGELLOTTI
Libri e Recensioni
La Redazione, salutando l’uscita del
nuovo romanzo della prof.ssa D. Memoli
Apicella, accoglie le considerazioni suscitate dalla sua lettura in una giovane
Socia.
I
l libro di Dorotea
Memoli Apicella dal
titolo
Sighelgaita tra
Longobardi
e
Normanni
(Laveglia&Carlone, Salerno 2009,
204 pp.) oltre alle tante novità
storiche riportate, sicuramente
apprezzate dai suoi lettori,
potrebbe suscitare anche forti
emozioni, non solo perchè rende
partecipi delle vicende del
tempo in cui la vicenda si colloca, ma soprattutto perché l’Autrice considera
protagonista del suo libro una figura femminile dotata di grande personalità, la principessa
Sichelgaita, vissuta in una Salerno medievale
che aveva segnato il passaggio dalla stirpe longobarda a quella normanna.
Ed è proprio in questo periodo storico-politico che la Memoli ambienta il suo racconto
storico, facendo brillare la principessa di luce
propria rispetto al marito, il normanno Roberto
il Guiscardo, che ella, pur riconoscendogli il
ruolo di dominatore incontrastato del
Mezzogiorno d’Italia, riteneva debole e vulnerabile, circondato com’era da tanti nemici. Alla
luce di queste considerazioni, emerge il carattere forte della principessa, la quale maturò la
ferma volontà di seguirlo nelle campagne militari. La storica bizantina Anna Comneno,
descrivendone la personalità nei momenti
della sua esaltazione guerriera, la descrive
come una donna forte che combatte valorosamente in sella al
suo cavallo, fianco a fianco al
marito, gettandosi nella battaglia
con grande coraggio. Voleva
proteggere non solo il suo
sposo, ma soprattutto, prevalendo in lei il sentimento di madre,
difenderlo da forze ostili e preparare senza traumi il terreno
alla successione del figlio primogenito Ruggero Borsa, frutto
della loro unione.
Gli avvenimenti di quel
tempo, attraverso una serie di circostanze favorevoli avevano portato i Normanni a impadronirsi
dell’Italia meridionale nel volgere
di pochi anni. Essi avevano conquistato la Sicilia
nel gennaio del 1061 occupando Messina, su
sollecitazione dell’Emiro Ibn-Thimna. In quella
occasione Roberto affidò il comando delle operazioni al fratello Ruggero, poiché da circa tre
anni la sua vita privata era intervenuta incisivamente su quella pubblica.
Aveva conosciuto Sichelgaita di Salerno e le
sue notevoli virtù dovettero colpirlo in maniera
così forte tanto che dalle sue parole traspare
subito l’intenzione di sposarla:
«... è giunto a me ed alla mia gente la
fama di donna avvenente, saggia, pudica e religiosa: sarà grande onore e gioia
per il Popolo normanno vederla sposa e
signora del suo duce...»
Ella aveva ventidue anni ed era nel pieno
della sua avvenente bellezza e della sua forza
fisica di donna valorosa. Sposando il più temuto e rispettato condottiero dell’epoca, avrebbe
- 115 -
SALTERNUM
mantenuto non solo lo status di principessa
longobarda, ma avrebbe anche acquisito il titolo di duchessa normanna.
Amato di Montecassino, autore di una
Historia Normannorum, la definisce nobile,
bella e saggia, e il primate Romualdo di Salerno,
onesta, pudica, virile nell’animo e provvida di
saggi consigli.
Sichelgaita versò in quella unione ogni possibile contributo culturale e politico utile al successo del coniuge, con il quale ebbe rapporti
sostanzialmente conflittuali: la sua raffinatezza
intellettuale ed il suo acuto talento diplomatico
si scontravano con la rozzezza pragmatica di lui,
spietato ed ambizioso.
Era nata nel 1036, terzogenita di Gemma di
Teano e del Principe Guaimaro IV della dinastia
longobarda di Spoleto; era sorella di Gisulfo II e
di Gaitelgrima, a sua volta coniugata col
Principe Giordano I di Capua e poi con il Conte
Alfredo di Sarno.
Sichelgaita aveva vissuto l’infanzia e
l’adolescenza nel monastero salernitano di San
Giorgio, vicino al Palatium, coltivando, parallelamente agli studi dei Classici latini e greci ed
all’analisi delle Sacre Scritture, anche la passione
per la medicina e l’erboristeria, come discepola
di Trotula de Ruggero, esponente di spicco della
Scuola Medica Salernitana.
Gli anni dorati della formazione erano stati
però sconvolti dalla morte del padre, il Principe
più influente dell’Italia meridionale, Grimoaldo
IV. La descrizione del suo assassinio fatta dalla
Memoli raggiunge momenti di grande commozione: poco prima dell’evento, l’incontro del
principe con la moglie, «in quell’addio supremo,
fatto di struggente rimpianto di ciò che avevano
insieme vissuto…», poi l’arrivo sulla spiaggia di
santa Teresa, raggiunta passando da una postierla del palatium, dove si svolge l’ultimo atto della
sua vita. Sono le prime luci dell’alba del 3 giugno 1052 e i tiepidi raggi del sole illuminano la
triste scena della fine del Principe. Assistiamo
così, da spettatori, a quell’episodio sanguinoso,
perpetrato da parte di un gruppo di ribelli amalfitani e bizantini e dai quattro nipoti, figli del
cognato Pandolfo V di Capua. Nell’occasione il
giovane Gisulfo II, già associato al trono nel
1042, era stato catturato e poi liberato dall’abilità dello zio Guido di Sorrento, che aveva assediato la città e preso in ostaggio le famiglie dei
congiurati, per barattarle per il rilascio del nipote. Gisulfo II, riconosciuto legittimo erede, fu
influenzato nelle sue scelte politiche dal temperamento della sorella: infatti, Sichelgaita era coltissima ed esercitò grande ascendente a corte,
distinguendosi per le attività sociali.
Pochi anni dopo l’assassinio del padre, a cui
probabilmente non erano estranei gli stessi
Normanni, nel 1058 Sichelgaita sposa il
Guiscardo - il quale, per sospetta consanguineità, aveva divorziato dalla prima moglie, la normanna Alberada di Buonalbergo -; da questa
unione nacquero ben otto figli: Mafalda,
Ruggero Borsa, Guido d’Amalfi, Roberto Scalio,
Sibilla, Mabilia, Emma, Olimpia.
Si deve all’abilità politica di Sichelgaita la
riconciliazione della Chiesa con i Normanni e la
portata di quell’evento sarebbe stata esaltata,
alla fine di quell’anno, dalla nascita di Ruggero
Borsa, a conferma della sua capacità di armonizzare il ruolo diplomatico e politico con quello di
sposa e di madre.
Ella visse in un periodo di eccezionale rilevanza storica, che vide il processo di rinnovamento della Chiesa di Roma nel segno della
riforma gregoriana, la lotta delle investiture,
l’espansione dei nuovi ‘barbari’ nella
Langobardia meridionale, il declino dell’antico
Principato di Salerno, il trionfo dei Normanni. I
protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV,
Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno,
Roberto il Guiscardo e, tra questi, la principessa
Sichelgaita.
Purtroppo un pesante pensiero la tormentava
da sempre: era interiormente angosciata per la
sorte della figlia Olimpia, che era stata inviata
alla corte di Costantinopoli quale promessa
sposa. L’evolversi degli eventi, nel 1078, comportò, però, la deposizione dell’imperatore
Michele Dukas, per cui Olimpia fu relegata in un
convento, dove prese il nome di Elena.
Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare il progetto di Roberto di ribellarsi a
Bisanzio: fu una spedizione che assunse il carattere di una ‘precrociata’. Venne allestita una flot-
- 116 -
FRANCESCA ANGELLOTTI
ta imponente sulla quale ella stessa si imbarcò.
Dopo Corfù, l’esercito normanno volse alla conquista di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza, un’ala delle colonne normanne, guidata
da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle
truppe greche e veneziane alleate, mentre
un’altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita si
sentì investita dalla responsabilità del momento:
saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si
lanciò impavida nella mischia. Una freccia la
colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta
prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò a tal
punto l’ardire dei Normanni che li portò alla vittoria. Era il 18 ottobre 1081, Durazzo era conquistata. Roberto corse incontro a Sichelgaita e
l’abbracciò tra le acclamazioni dei soldati. L’atto
di coraggio fu così commentato da Guglielmo
Appulo:
«Dio la salvò perché non volle che fosse
oggetto di scherno una signora sì nobile e venerabile».
Dopo meno di due mesi, nel 1085 Roberto
moriva nei pressi di Cefalonia, in circostanze
misteriose, forse colpito da una malattia epidemica. Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi nel più straziante dolore, sciolsero le vele
verso la Puglia con le sue spoglie mortali, che
furono sepolte nella chiesa della SS. Trinità di
Venosa. L’autorevole cronista Guglielmo Appulo
descrive con vivo realismo la commozione di
Sichelgaita:
«Oh dolore! che sarò io sventurata? dove
potrò andarmene infelice? Quando
apprenderanno la notizia della tua
morte i Greci non assaliranno forse me,
tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo
eri la gloria, la speranza e la forza?».
In quell’anno la morte colpì, oltre il
Guiscardo, altri due personaggi-chiave della storia di quell’epoca: papa Gregorio VII e
l’arcivescovo di Salerno, Alfano I. Fu un ulteriore dolore per la principessa.
Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò a prodigarsi in favore del figlio Ruggero, a
mediare con Boemondo, al quale furono assegnate le sue conquiste in Grecia e varie città
pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto.
Anche questa volta ne uscì vincitrice. La scelta del ‘bicefalismo ducale’, come fu definito
dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare le lotte intestine ed assicurare il rilancio
di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur
senza Roberto, riuscì, in forza delle sue doti di
carattere, a portare Salerno al culmine della sua
potenza.
Negli ultimi anni si dedicò ad una vita di preghiera. Fu un’assidua frequentatrice della Badia
di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai
tempi del Guiscardo, molti conventi. Allo stesso
modo fu benefattrice di Montecassino, cui la
legava il vincolo di parentela con l’abate
Desiderio, il futuro Papa Vittore III. Fu questo
un periodo finalmente tranquillo, di pieno ardore religioso, in cui ella poté sostenere l’opera di
moralizzazione della Chiesa. In un momento di
sconforto spirituale, rivelò alla sorella
Gaitelgrima la sua ultima volontà: chiedeva
d’essere sepolta a Montecassino. I Longobardi si
sentirono privati di una madre, i Normanni
ebbero chiara coscienza che si dileguava l’ultima
testimonianza del loro potere, gli umili la piansero affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era
fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel
sacrario dei duchi normanni, dove più tardi
Boemondo fece tumulare anche sua madre
Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima
dimora, Montecassino. Fu l’ultimo grande gesto
di una figura maestosa nella storia: volle farsi in
disparte dando un forte segno d’umiltà, di quell’umiltà che connota i forti e che la pose nella
leggenda.
- 117 -
SALTERNUM
Adriano Caffaro - Giuseppe
Falanga, Isidoro di Siviglia.
Arte e tecnica nelle etimologie,
Edizioni Arci Postiglione,
Salerno 2009, 207 pp.
I
l nuovo libro di Adriano
Caffaro e di Giuseppe
Falanga, dedicato al grande erudito del VII secolo, presenta aspetti che meritano di
essere considerati alla luce dei
recenti indirizzi che hanno
orientato lo studio storico
delle tecniche artistiche, indirizzi che mirano per lo più ad
offrire una visione comparatistica delle fonti letterarie,
allo scopo di tratteggiare la
linea evolutiva di quel processo complesso,
quanto affascinante, che è la codificazione scritta delle pratiche artistiche. Il merito da riconoscere all’opera dei due studiosi è, innanzitutto, l’aver calato una fonte poliedrica di portata
eccezionale, come le Etymologiae di Isidoro di
Siviglia, nell’ambito settoriale della storia tecnico-artistica, affinché se ne potessero ricostruire
le corrispondenze ragionevoli tra le notizie
d’arte in essa raccolte e le informazioni contenute in altri testi-chiave della trattatistica occidentale. In quest’ottica, l’opera di Isidoro si è illuminata di una luce nuova, perché è stata rapportata - con le dovute misure critiche e filologiche ai testi canonici della letteratura artistica, come il
noto De diversis artibus del monaco Teofilo o le
Compositiones ad tingenda Musiva, contenute
nel Codice 490 di Lucca. Ne è emersa una lettura trasversale di un’opera che ha fatto parlare di
sé per secoli.
Al pari delle note grammaticali e retoriche,
metriche e bibliche, le notizie tecniche ed artistiche tramandate da Isidoro nelle Etymologiae
sono, infatti, sviluppate con significativa ricchezza di dettagli e con varietà di indicazioni supplementari, anche se in molti brani è proprio la
ridondanza informativa a togliere alla trattazione
isidoriana i caratteri di organicità e di ordine,
che saranno tipici della trattatistica moderna.
L’opera è tra le più rinomate
dell’Alto Medioevo ed appartiene al genere enciclopedico
mediolatino, cui non si può di
certo chiedere la completezza
sistematica perseguita dai trattatisti, che, dopo di Isidoro,
faranno tesoro della sua
immensa erudizione e potranno da quella attingere argomenti a sostegno delle proprie tesi.
Il nuovo libro di Caffaro e
Falanga si compone di quattro capitoli, preceduti da una
nota introduttiva, che illustra
il progetto culturale sotteso
alla
collana
editoriale
«L’officina dell’arte», ideata
proprio da A. Caffaro e promossa dall’Arci
Postiglione per offrire al vasto pubblico una
trama di testimonianze letterarie utili alla ricostruzione unitaria della tradizione tecnico-artistica.
Ad inaugurare la collana nel 2004 era stato un
altro fortunato saggio dei due studiosi, dedicato
al Papiro X di Leida, ritenuto il testo capofila
della storia trattatistica della tecnica artistica in
Occidente.
Guardiamo, ora, il nuovo volume. Il primo
capitolo presenta le Etymologiae in relazione
all’enciclopedismo medievale e ne svela la chiave ‘etimologica’, quella scelta dal vescovo ispanico per la compilazione dei dati. Il secondo
capitolo tratteggia il profilo religioso e culturale
di Isidoro, per far sì che il suo pensiero e la sua
azione campeggino nel più ampio affresco storico. Il terzo capitolo propone una ricca antologia
di brani isidoriani, utili alla lettura intertestuale latina ed italiana - delle notizie di rilievo artistico. L’ultimo capitolo raccoglie le analisi e le
considerazioni sviluppate intorno ai temi dell’arte e della tecnica, che nel testo isidoriano
appaiono codificati, attraverso l’esercizio etimologico, in una dimensione teologica ed estetica
non immune dalle citazioni di altre fonti enciclopediche, per lo più antiche. Corredano il volume una copiosa bibliografia, strumento utile per
la consultazione della storiografia tecnico-artisti-
- 118 -
GENEROSO CONFORTI
ca, ed un accurato ‘Indice degli argomenti’, che,
invero, non sono pochi, spazianti dalla metallurgia all’oreficeria, dall’edilizia militare e civile
all’arte plastica, vetraria e alla tintura dei tessuti.
Il nuovo libro di Caffaro e Falanga illustra, in
sintesi, la tesi secondo cui il progresso tecnicoartistico passa anche per le copiose pagine delle
Etymologiae, le quali non possono essere assimilate in toto ai ricettari artistici che trovarono
fortuna nelle botteghe artigiane di tutti i secoli,
ma possono essere annoverate tra le fonti ‘trasmissive’ di un sapere tecnico antico, che sarebbe altrimenti andato perduto, ossia tra le fonti
letterarie che, pur non capaci di apporti speculativi originali, hanno trovato dignità e funzione
nel ‘convertire’ la sapienza antica nella moderna. Nell’inserire l’opera isidoriana nel lungo filone della tradizione artistica e letteraria occidentale, i due storici dell’arte hanno verificato
l’ipotesi dell’inclusione sommativa dei saperi,
perché anche il vescovo sivigliano ha posto al
centro dei propri interessi il complesso patrimonio di conoscenze pratiche accumulato nei secoli dagli artisti e dagli artigiani, dagli alchimisti e
dai tintori, dai monaci e dai bibliofili.
Vissuto a cavallo del VI-VII secolo, Isidoro ha
animato la complessa stagione delle invasioni
visigotiche fino a divenirne ‘anima’ culturale,
padre di una civiltà ispanica e già europea. Basti
pensare al grande contributo dato per
l’unificazione linguistica occidentale, nella ricerca quasi spasmodica di conservare le radici vive
di una lingua, quella latina dei dotti, che sopravvisse anche grazie all’impresa isidoriana, seppure in un sostrato romanzo, che sarà destinato a
contaminarsi. E, come per i dati linguistici, così
è per i contenuti desunti dai grandi repertori
delle arti dell’Antichità. Isidoro è stato un grande raccoglitore di excerpta estratti dalla tradizione ed ha tentato di organizzare il sapere in una
cornice argomentativa unitaria. I 20 libri che
compongono l’opera originale sono ‘farciti’ di
citazioni tratte dai testi di Omero, Plauto,
Terenzio, Varrone, Cicerone, Palladio, Virgilio,
Orazio, Lucrezio, Ovidio fino a Plinio il Vecchio
e a Vitruvio, i cui trattati di portata enciclopedica basterebbero da soli a dire la grandezza degli
antichi. Considerati i tempi in cui il Sivigliano è
vissuto, può oggi dirsi che Isidoro sia riuscito
nella folle impresa. Si tenga conto, tra l’altro,
della lunga gestazione dell’opera, che impegnò
Isidoro per circa ventuno anni, tra il 615 ed il
636. Ne sarebbe seguita un’eccezionale vicenda
editoriale, costellata dalle edizioni cinquecentesche di De Grial e Arevalo, dalle ottocentesche
del Migne e del Lindemann e, al di sopra delle
altre, quella curata nel 1911 dal Lindsay, edizione critica che riunisce l’intera opera in due volumi e mette fine alla ‘diaspora’ dei manoscritti isidoriani.
Lo studio di Caffaro e Falanga mostra quanto
Isidoro sia stato capace di interpretare e di sintetizzare la vivente e indefinita tradizione precettistica, ossia di trasmetterla ai posteri e di farne
il pretesto per educare alle arti e alla religione,
per avvicinare il popolo, attraverso l’etimo, al
mistero della bellezza e a Dio.
Le conclusioni giungono naturali: l’enciclopedia
isidoriana è degna di essere valutata corne
l’esito significativo di un percorso evolutivo che
risale all’antichità egizia e greco-romana, attraversa il medioevo e giunge nell’età moderna. Il
testo enciclopedico, seppure connotato da stile
compilativo, rivela insieme alla profonda erudizione dell’autore anche la sua sensibilità estetica, intrisa, come è ovvio, di toni moralistici ed
afflato spirituale. Isidoro non si limita a raccogliere le informazioni tramandate dagli Auctores
pagani e tardoantichi, ma le investe di spirito
nuovo e dà loro una rinnovata forma e funzione culturale. La grande cultura permette ad
Isidoro di selezionare brani d’interesse della
sapienza tecnica antica, pur senza che sia sviluppato un notevole livello critico; egli ribadisce i
contenuti tecnici salienti, tratti dai testi delle
scienze naturali o delle arti meccaniche, per
dilatare gli orizzonti conoscitivi e applicativi a
ciò che, in precedenza, era indirizzato soltanto a
scopi pratici ed operativi.
- 119 -
SALTERNUM
Storia di una collaborazione
L
a mia collaborazione con l’Associazione
ARCI POSTIGLIONE ebbe inizio nel 1994.
Ricordo quando fui contattato dal
Presidente, il dott. Generoso Conforti, instancabile coordinatore di tutte le attività culturali che
si svolgono nei Paesi degli Alburni. La telefonata mi fece molto piacere, perché mi venne chiesto di scrivere un articolo per la Rivista “Il
Postiglione”1. La conoscenza con il dott. Conforti
risaliva ad alcuni anni prima, quando mi divertivo a fare l’allenatore della squadra di calcio del
mio Paese, Sicignano degli Alburni. In quel
tempo mi trovavo spesso di fronte, da avversario, un eccellente giocatore, difficile da affrontare perché era tatticamente disciplinato e non
dava punti di riferimento nella marcatura. Ho
voluto citare questo spaccato calcistico per evidenziare come la sua applicazione nel fare le
cose sia rimasta immutata e si sia riversata anche
in quella sua attività culturale di cui oggi si celebra il ventennale2.
Agli inizi degli anni ’90 ero tornato da una
lunga permanenza lavorativa a Milano, dove
avevo avuto l’opportunità di fare un’esperienza
giornalistica: il dott. Enrico Moneta Caglio,
uomo dalle grandi virtù morali, Direttore della
Rivista “Agrisport e Agriturismo”, mi aveva invogliato a scrivere un articolo per il giornale e, una
volta iniziata la collaborazione, mi aveva affidato l’incarico di curare la pagina culturale di quel
mensile. Quando, alcuni anni dopo, ho accettato l’invito dell’ARCI POSTIGLIONE ero abituato a
dare ai miei articoli un taglio rigoroso, ma divulgativo e privo di apparato critico. Allorché consegnai alla Redazione de “Il Postiglione” il mio
testo, il Direttore mi fece notare che mancavano
le note bibliografiche! Ne nacque un diverso
modo di impostare gli scritti, improntato alle esigenze della ricerca scientifica, che sempre espli-
cita e documenta le proprie fonti. Un criterio al
quale mi sono ispirato anche quando, nel 1997,
eletto Direttore del GRUPPO ARCHEOLOGICO
SALERNITANO, ho dato vita a “Salternum”, Rivista
semestrale di informazione storica, culturale e
archeologica.
Ho tuttavia continuato a collaborare con
l’Associazione per diversi anni, durante i quali
ho scritto articoli che hanno trattato spaccati di
vita e personaggi storici del mio Paese e ho partecipato a diversi incontri letterari dell’estate
postiglionese3.
Esperienze entrambe dalle quali ho sempre
tratto l’emozione che si prova quando si espongono i risultati di ricerche svolte negli archivi
storici e nelle biblioteche non meno che sulle
evidenze storico-artistiche ed archeologiche. È
successo anche per la chiesa di Santa Maria del
Serrone extra moenia castrum Siciniani4.
Durante il restauro, sulla sua parete sud è stata
rinvenuta una finestra romanica dalla quale si
può spaziare su gran parte del territorio di pertinenza del Priorato, così come descritto nel
documento n. 247 dell’Arca XII della Biblioteca
dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni,
ritrovato grazie all’attenzione di alcuni studiosi5:
si tratta di un caso esemplare del binomio ‘documento – monumento’, sul quale ogni ricercatore
si augura di poter lavorare.
I nostri Paesi degli Alburni hanno quella sete
di conoscenza che permette di ricostruire una
storia ancora in gran parte da scoprire. A noi
spetta il compito più importante: fare ricerca sul
territorio per riportare alla luce il patrimonio culturale che ci appartiene e per riappropriarci
delle nostre origini.
In questa ottica è di fondamentale importanza che la collaborazione oggi ventennale tra le
due Associazioni, l’ARCI POSTIGLIONE e il GRUPPO
- 120 -
FELICE PASTORE
ARCHEOLOGICO SALERNITANO, venga mantenuta in
vita e costantemente alimentata da una ‘linfa’
capace di generare nuove idee e suscitare interessi e collaborazioni soprattutto da parte dei
giovani.
Abbiamo il dovere morale di trasmettere alle
future generazioni l’esempio di come un Bene
Culturale possa essere tutelato e valorizzato
attraverso la conservazione della sua memoria
storica.
Al termine di una conferenza che ho tenuto
a Postiglione nell’agosto del 2005, ho proiettato
un’immagine di un tramonto sull’isola di Capri,
ripreso in una limpida giornata da un terrazzo
naturale di quel lontano paese alburnino. Le
parole conclusive, nelle quali continuiamo a
riconoscerci, erano:
«la memoria storica di un territorio è arte,
è fuoco, è luce. Facciamo di tutto per
non farla tramontare come l’ultimo sole
che ogni giorno tramonta nell’azzurro mar
Tirreno».
1
PASTORE F. 1994, A Sicignano degli Alburni in un luogo di
pace: il convento dei Frati Cappuccini, in “Il Postiglione”,
VI, n. 7, pp. 213-216.
2
CAFFARO A. - CONFORTI G. - MELE R. 2009, In viaggio da vent’anni. Arci Postiglione 1989 - 2009, Ed. Arci Postiglione,
Penta (SA).
3
PASTORE F. 1996, Girolamo Brittonio: la famiglia, la vita, le
opere, in “Il Postiglione”, VIII, n. 9, pp. 289-296.
4
IDEM 1997, Il Priorato di Santa Maria del Serrone a
Sicignano degli Alburni, in “Il Postiglione”, IX, n.10, pp.
271-284.
5
FORES D. P. 1988, L’inventario dei beni di S. Benedetto di
Salerno a Sicignano, in Appunti e documenti per la storia
del territorio di Sicignano degli Alburni, a cura di C.
CARLONE - F. MOTTOLA, Ed. Studi Storici Meridionali, Nocera
Inf. (SA), pp. 361-381.
- 121 -
FELICE PASTORE
Notizie dagli scavi
MONDRAGONE (CE).
Dallo scavo preistorico un paleosuolo di 50.000
anni fa.
Dallo scorso mese di settembre 2009 è in
corso la nona campagna di scavo nella grotta di
Roccia San Sebastiano in loc. Incaldana, condotta, con il contributo finanziario del Comune di
Mondragone, dall’Università di Roma ‘Sapienza’,
in regime di concessione da parte della
Soprintendenza Archeologica delle Province di
Salerno, Avellino, Benevento e Caserta. Lo scavo
di quest’ anno, che terminerà verso la metà di
Ottobre, ha permesso di ampliare l’esplorazione
dei livelli più antichi del Paleolitico superiore, al
di sotto del livello Gravettiano datato a circa
20.000 anni fa. La sequenza messa in luce finora dimostra, in modo evidente la continuità e
l’intensità della frequentazione preistorica dell’area del Comune di Mondragone e delle pendici
del Monte Massico. Al di sotto dei livelli già noti
fino al 2008, è stato possibile accertare la presenza di un importante livello con resti di fauna
e manufatti litici attribuibili alla cosiddetta
Cultura Aurignaziana, che si colloca in Europa
agli inizi del Paleolitico superiore, con datazioni, in altri giacimenti italiani, intorno a 30.000
anni fa circa. «Si tratta di un risultato sorprendente - commenta entusiasta l’Assessore alla Cultura
Antonio Taglialatela - che premia la volontà di
incrementare le risorse per gli scavi a partire dall’anno 2008». La scoperta certamente più significativa di questa campagna di ricerche è stata tuttavia quella relativa all’esistenza di un livello
ancora più antico, databile tra 45.000 e 50.000
anni fa, caratterizzato da un notevole ricchezza
di manufatti riferibili al Musteriano, la Cultura
che precede l’arrivo in Europa dell’Uomo
moderno. La scoperta e lo scavo in corso di questo livello documentano la presenza di gruppi
umani Neanderthaliani, la specie che popolò
l’Europa e parte dell’Asia, tra 200.000 e poco
meno di 30.000 anni fa circa. «Con questa scoperta - commenta il Sindaco Achille Cennami cambia la storia di Mondragone e la Preistoria
dell’Alta Campania: Mondragone diventa terra di
uomini Neanderthaliani e i prossimi anni potranno essere ricchi di ulteriori importanti scoperte.
Ci troviamo di fronte a reperti che non hanno
valore commerciale, ma un grandissimo valore
scientifico, trattandosi di reperti in pietra e in
selce. Il Museo Civico Archeologico ‘Biagio
Greco’ si conferma una punta di eccellenza nel
campo dei Beni Archeologici, grazie anche
all’intensa collaborazione della Soprintendenza
Archeologica e la direzione del dottor Luigi
Crimaco».
MONDRAGONE (CE).
Dal Monte Massico riemerge un vigneto dell’antico Falerno.
All’interno di un vigneto fossile individuato
lungo uno dei fianchi del Monte Massico
(Caserta), sono state rinvenute tracce di polline
di una vigna di età romana, analizzate presso
un laboratorio dell’Università degli Studi di
Padova. Ad annunciare i risultati è stato
l’archeologo Luigi Crimaco, durante il Seminario
‘Dal Falernum al Falerno’, svoltosi al Museo
Civico ‘Biagio Greco’ di Mondragone.
«Da uno dei terrazzamenti antichi, ubicato
alle pendici del Massico, proviene una delle più
interessanti scoperte archeologiche - spiega
Crimaco - che ha restituito le tracce fossili di un
- 123 -
SALTERNUM
vigneto risalente all’età imperiale romana. La
scoperta, fatta negli ultimi anni del secolo scorso dopo i lavori di sbancamento per la costruzione della strada Panoramica del piccolo borgo
di Falciano del Massico, ha permesso di individuare una serie di sulci (filari), in cui dovevano
essere sistemate le viti per la produzione del
vino. All’interno dei solchi, al momento della
scoperta, furono rinvenuti esclusivamente frammenti di ceramica fine di produzione africana,
tipica del mondo imperiale romano. Si tratta di
15 solchi paralleli, disposti a una distanza di
circa 2,70 metri l’uno dall’altro e ricavati nel
paleosuolo composto di ignimbrite campana. Le
recenti analisi polliniche hanno fornito risposte
adeguate e possiamo affermare che il fossile rinvenuto nell’area del Massico apparteneva ad un
vigneto di Falerno».
All’incontro - che ha avuto la finalità di fare il
punto sugli studi su una delle aree più importanti nella diffusione della vite nel Mediterraneo,
l’Ager Falernus - sono intervenuti l’Assessore
regionale all’Agricoltura Gianfranco Nappi, il
sub-Commissario della Provincia di Caserta
Michele Petruzzelli, il deputato Mario Landolfi, il
Presidente di AGRISVILUPPO Giuseppe Falco, il
Sindaco di Mondragone Achille Cennami, ed i
professori Luigi Moio, ordinario di enologia
all’Università degli Studi di Napoli Federico II, e
Nicola Trabucco, agronomo. Ha moderato il
dibattito il giornalista Luciano Pignataro.
Il Seminario è stato organizzato nell’ambito
del Programma Speciale di Marketing
Territoriale ‘Costiera dei Fiori’, ideato e promosso dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione
Campania e realizzato da una partenariato locale costituito dalla Camera di Commercio di
Caserta, Stapa Cepica ed Amministrazione
Provinciale, di cui AGRISVILUPPO è soggetto attuatore.
In quell’occasione l’agronomo Trabucco ha
trattato della composizione del suolo della ricca
terra del Falerno, analizzando le singole aree di
produzione; a tracciare un percorso dell’origine
del Falerno, a spiegare i metodi di vinificazione
nell’epoca romana e le caratteristiche sensoriali
del vino come riportato dagli autori classici, è
stato il professor Moio.
Per valorizzare questa risorsa antica che può
rinnovarsi al presente, il Presidente di
AGRISVILUPPO ha illustrato tre importanti progetti:
«L’idea è quella di realizzare una Fondazione per
la promozione del vino Falerno, che associ
Camera di Commercio, Comuni interessati e
produttori di vino. Poi avvieremo la pratica
necessaria per chiedere all’Unesco la tutela del
vinum falernum e abbiamo l’intenzione di ricostruire tre vigneti sul modello di quelli degli antichi Romani, in tre diverse zone quali il Teatro
Romano di Sessa Aurunca, la Villa di San Limato
a Cellole e gli Scavi del Castello di Mondragone».
Il Sindaco di Mondragone e l’Assessore regionale all’Agricoltura hanno annunciato la realizzazione di un’enoteca dedicata all’importante
vitigno, per la quale è già stato fatto un cospicuo stanziamento.
MONDRAGONE (CE).
Rinvenimento di un fonte battesimale medievale.
Dopo il rinvenimento di una staffa di cavallo,
un’ulteriore sorprendente scoperta ha premiato
la IX campagna di scavo in corso sulla Rocca
Montis Dragonis, diretta da Luigi Crimaco,
Direttore del Museo Civico Archeologico ‘Biagio
Greco’. Si tratta di un fonte battesimale medievale, del peso stimato in 350 kg.
«Si tratta di una bellissima scoperta archeologica - commenta L. Crimaco - sulla quale ci riserviamo, dopo i necessari studi, di pronunciarci in
modo completo. Ad una prima analisi possiamo
affermare che forse si tratta di un fonte battesimale medievale, ma è opportuna la cautela.
Quello che mi preme è formulare un vivo ringraziamento al parroco di S. Angelo, Don
Roberto Gutturiello, presente durante le operazioni di recupero del reperto archeologico.
Senza l’aiuto dei componenti del Comitato Festa
di S. Angelo non sarebbe stato possibile portare
immediatamente al Museo questa importante
testimonianza del passato». Le operazioni di trasporto, eseguite nella giornata di giovedì 24 settembre, sono state infatti possibili grazie alla fattiva collaborazione del Comitato della Festa
Patronale di S.Michele, presenti sul luogo in
quanto impegnati a montare l’illuminazione del
- 124 -
FELICE PASTORE
Castello. Il fonte battesimale è stato trasporto
lentamente dalla sommità del Castello fin dalle
prime ore della mattinata ed è giunto in località
Cantarella verso le ore 15.00, quando è stato
preso in custodia dagli operai del Comune
Giuseppe Rao e Vincenzo Crimaldi. Sotto la
supervisione della restauratrice del Museo, la
dott.ssa Marianna Musella, il reperto è stato poi
collocato nella sala medievale, posta al secondo
piano, che ospita anche lo stemma dei Duca
Grillo. «Ritengo che con la scoperta di questo
importate reperto archeologico di epoca medievale - commenta il Sindaco Achille Cennami confermiamo una vocazione di eccellenza del
nostro Museo Civico e della sua Direzione
Scientifica. Ringrazio anche io la comunità di
Sant’Angelo, nella persona del parroco don
Roberto Gutturiello, per il prezioso aiuto dato
alla nostra équipe scientifica dai componenti il
Comitato Festa nell’operazione di salvataggio e
mi piace sottolineare come il fonte battesimale
possa essere già visto nelle sale del nostro
Museo. La continua collaborazione con la
Soprintendenza Archeologica, attraverso la persona della dott.ssa Ruggi d’Aragona, ci permette
di mettere in risalto e di offrire all’attenzione di
tutti quanto di bello e prezioso la nostra storia ci
ha lasciato».
MARIGLIANO (NA).
Riportato alla luce un tratto della via Popilia.
Il 2 febbraio 2009 è stato individuato un tratto dell’antica via Popilia. Superate iniziali difficoltà legate principalmente alla mancanza di
fondi, si sono avviati gli scavi in via Sentino per
riportare alla luce completamente l’antica strada
romana, costruita nel 132 a.C. per collegare
Capua con Reggio Calabria; l’importante arteria
passava per Acerra, Marigliano, Nola, Nocera e
il territorio salernitano fino ad arrivare a Reggio.
A dirigere i lavori è la Soprintendenza
Archeologica di Napoli e Pompei diretta dal funzionario di zona, Giuseppe Vecchio, con
l’archeologo Nicola Castaldo. «Mi sono subito
reso conto dell’importanza della scoperta – spiega Castaldo - che apre nuovi e inaspettati orizzonti sulle potenzialità archeologiche di
Marigliano». L’individuazione della via romana si
aggiunge ad altri rinvenimenti di particolare rilevanza, avvenuti nel 2007 e nel 2008, tra cui una
necropoli romana stratificata, una villa in via
Sentino, un’altra di Età imperiale in via Ponte
delle Tavole, ai confini con San Vitaliano, ed
una capanna dell’Età del Bronzo risalente a 1700
anni a.C. In mancanza di finanziamenti per la
prosecuzione degli scavi, tali emergenze erano
state temporaneamente reinterrate, per evitare
atti di vandalismo e furti. Uno spiraglio si è aperto con l’ingresso di Marigliano nel piano strategico di valorizzazione di Beni Culturali dell’area
nolana, finanziato dall’Unione Europea con 21
milioni di euro; al Comune sono stati assegnati
circa 2 milioni di euro per la realizzazione del
Parco Archeologico e di un centro per lo studio
e la catalogazione delle tradizioni locali. Con la
ripresa degli scavi della via Popilia si riaccendono i riflettori sull’area archeologica di
Marilianum e a sostenere la causa del Parco
Archeologico si è aggiunto anche uno splendido
vaso in sigillata italica del I secolo d.C., rinvenuto nella villa sannitica. Il vaso, dopo il restauro,
verrà esposto in una sala del nuovo Museo
Archeologico di Nola.
NOLA (NA).
Reperto di età augustea ‘esposto’ in un giardino
privato.
Conservava una reperto archeologico in
marmo di età augustea nel giardino di una villa,
usandolo come elemento ornamentale; il proprietario è stato denunciato in stato di libertà. A
effettuare la scoperta i Carabinieri del Nucleo
Tutela Patrimonio Culturale di Napoli, i quali
hanno eseguito un sopralluogo all’interno di
una lussuosa residenza utilizzata per ricevimenti. Il reperto è una metopa finemente decorata
con bassorilievi, che doveva far parte di un
mausoleo o di un edificio pubblico di età augustea, probabilmente situato nel territorio nolano,
in un sito archeologico che con ogni probabilità negli anni passati è stato visitato da un gruppo di tombaroli. Dopo un rapido accertamento,
il titolare della villa è risultato sprovvisto di autorizzazioni che giustificassero il possesso dell’og-
- 125 -
SALTERNUM
getto sequestrato ed è stato denunciato per il
reato di ‘impossessamento illecito di Beni
Culturali appartenenti allo Stato’. La metopa è
stata sottoposta a perizia tecnica da parte di un
funzionario archeologo della Soprintendenza di
Napoli e Pompei il quale, oltre ad attestarne
l’autenticità e la datazione, ha anche evidenzia-
to che si tratta di un opera di grande pregio artistico e scientifico. Il reperto è stato trasportato al
Museo Archeologico di Nola.
(Notizie tratte da: Archemail. L'archeologia in Campania
"Notiziario on-line del Gruppo Archeologico Napoletano",
mesi sett. - ott. 2009).
- 126 -
ROSALBA TRUONO
Appunti di Viaggio
Scoprendo il Perù...
S
coprire il Perù e lasciarsi sorprendere
dai suoi mille volti è un’esperienza gratificante.
Le diversità geografiche, climatiche ed etniche
che coesistono in questa magica terra, gli usi e
i costumi dei suoi abitanti, anche da lontano, non
finiscono di emozionarti.
I mille aspetti di questa realtà ti incuriosiscono
e ti rincorrono, coinvolgendoti.
Sono i lunghi deserti, i maestosi e innevati vulcani andini a lasciarsi ammirare; sono le greggi di
alpaca o di vigogne che ti corrono davanti agli
occhi e i versi dei leoni marini o dei volatili, stanziati nelle isole Ballestas, in mezzo all’oceano, a
richiamarti.
E poi i volti dei bambini bruciati dal sole e dal
vento di altitudini impossibili da abitare e i loro
piedi scalzi nei recinti insieme coi lama, o le
madri pazienti che trasportano i loro piccoli in
spalla nei panni multicolori, a parlarti di una realtà diversa e difficile.
Il Perù è anche la grande lezione di vita trasmessa dalla mitezza e dall’essenzialità in cui vivono popolazioni umili, come gli Uros delle isole galleggianti del lago più alto del mondo: il Titicaca.
Esse sono riccamente paghe di vivere in armonia
con una natura non sempre confortevole.
Coinvolgente è anche il mistero dei giganteschi segni, prodotti chissà da quali civiltà, ora nel
deserto, come quelli di Nasca, ora su dune sabbiose, come quelle di Paracas.
E intanto ti interroghi sulla grandezza di megalitiche costruzioni, testimoni di antiche civiltà millenarie che ti affascinano insieme a riti, danze e
musiche, che come l’Inti Raymi, ancora oggi le
rappresentano.
Fig. 1 - Isole galleggianti. Donne di etnia Uros.
Fig. 2 - Festa dell’Inti Raymi.
Fig. 3 - Festa dell’Inti Raymi.
- 127 -
SALTERNUM
Fig. 4 - Pisac. I ‘terrazzamenti incaici’.
Fig. 5 - Vigogne e misti - Il vulcano simbolo di Arequipa.
Fig. 6 - Isole Ballestas - Parco Naturale.
...come un incantesimo
La veduta di Machu Picchu è un’emozione
mozzafiato; all’alba poi, avvolta dalla nebbia che
si dirada, man mano che il sole del solstizio
d’inverno incede, ti ripaga degli ostacoli e dei disagi di un viaggio faticoso.
Un traguardo irrinunciabile per gli amici naturalisti e per gli appassionati di archeologia, che in
quest’atmosfera da favola possono ben capire ciò
che dovette provare Hiram Bingham quando, nel
1911, vide questo luogo incantato per la prima
volta.
E’ qui che ti sorprende la bellezza di una
Natura prepotente e la sapienza di mani esperte
ed antiche.
Tutto è uno spettacolo nello spettacolo: i picchi verdi delle montagne che appaiono e scompaiono tra la nebbia, i terrazzamenti maestosi che
degradano verso il fondo valle, l’acqua trasparente del fiume Urubamba che scorre laggiù nelle
gole profonde, i lama pazienti che brucano l’erba,
le mille orchidee che fanno capolino tra il verde
rigoglioso della vicina foresta e infine le antiche
costruzioni incaiche, che ordinatamente si adagiano in ogni dove, come perle incastonate nella
loro più naturale cornice.
Sono queste pietre, magistralmente incastrate
in un luogo quasi inaccessibile, sono i lunghi sentieri incaici, sofisticati canali che un tempo consentivano l’irrigazione costante delle colture, le
numerose scalinate di pietra, incassate nei muri i
cui blocchi intagliati e levigati sono giustapposti
senza margine di errore, sono le enigmatiche
forme scultoree cerimoniali, i templi, le terrazze
affacciate su vertiginosi precipizi a porci misteriose domande sulla grandezza e sulla organizzazione delle civiltà andine.
Nascosto nella nebbia dell’umido bosco e
nella sua rigogliosa vegetazione, il complesso di
Machu Picchu è ben a ragione considerato una
delle meraviglie del mondo. Probabilmente fu
una città sacra, abitata da persone scelte, forse
appartenenti alla nobiltà incaica e alle alte gerarchie religiose, una città che tuttavia gli Spagnoli
durante la conquista non attaccarono mai e che
forse fu abbandonata dai suoi abitanti, che scapparono verso la selva per sfuggire all’esercito
nemico.
La complessa struttura urbanistica di Machu
Picchu e la sua possente architettura rendono
alquanto difficile i tentativi di identificarne la funzione e l’origine. Qui, più che altrove, gli elementi tipici dei centri cerimoniali e dei luoghi di culto
sono commisti a quelli propri delle fortezze
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ROSALBA TRUONO
difensive e degli insediamenti agricoli. Perciò
ancora oggi questo complesso non cessa di stupirci ed essere fonte di dibattiti tra gli archeologi,
che, forse in un prossimo futuro, ne sveleranno
nuovi, affascinanti aspetti.
E intanto, mentre nella nostra mente si affollano come flasches le immagini di un paesaggio
incantato, i cui luoghi riecheggiano della poesia
di nomi quecheea - Machu Picchu (cima vecchia), Huayna Picchu (cima giovane), Intiwatane
(luogo che cattura il sole) e così via -, noi non
possiamo che essere d’accordo con le parole di
Hiram Bingham: «…la visione mi catturava lo
sguardo come un incantesimo!».
Fig. 7 - Machu Picchu.
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SALTERNUM
Indice
Editoriale......................................................................................................................................pag. 3
di Gabriella D’Henry
Le popolazioni indigene dell'entroterra ........................................................................................pag. 5
di Gianni Bailo Modesti
Geomitologia ed origini geologiche del culto dell’Arcangelo Michele ........................................pag. 23
di Luigi Piccardi
Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia ......................................................................................pag. 29
di Nicola Fierro
La schiavitù a Roma....................................................................................................................pag. 33
di Pietro Crivelli
L’anfiteatro atinate.
Lineamenti storici, epigrafici e topografici
di un monumento sepolto dell’antica Atina ..............................................................................pag. 49
di Marco Ambrogi
Orazio e la Campania..................................................................................................................pag. 63
di Francesco Montone
Lo stato di conservazione degli affreschi di San Pietro a Corte in Salerno ....................................pag. 71
di Maria Amoruso
“Picturae in ecclesiae S. Marie de Casalucio”
Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale ........................................................................pag. 79
di Gianmatteo Funicelli
La Natività della tradizione apocrifa nella cripta della cattedrale di Nusco ................................pag. 89
di Maria Giovanna Vespasiano
Origini e sviluppo dell’architettura rurale
nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso ....................................................................pag. 99
di Lorella Mazzella
Il restauro della scultura lapidea di San Pietro Martire nella chiesa di S. Domenico a Matera ......pag. 109
di Elisa Basile
RECENSIONI
Dorotea Memoli Apicella, Sichelgaita tra Longobardi e Normanni,............................................pag. 115
di Francesca Angellotti
Adriano Caffaro - Giuseppe Falanga, Isidoro di Siviglia. Arte e tecnica nelle etimologie ........pag. 118
di Generoso Conforti
Storia di una collaborazione ....................................................................................................pag. 120
di Felice Pastore
Notizie dagli scavi ....................................................................................................................pag. 123
di Felice Pastore
Appunti di viaggio ..................................................................................................................pag. 127
di Rosalba Truono
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2009
da Arti Grafiche Sud
Salerno
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del file - Gruppo Archeologico Salernitano